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IL CAVALLO ROSSO
EDIZIONI ARES
ISBN 978-88-8155-235-1
Edizioni Ares
20131 Milano - Via Straduvari, 7
IL CAVALLO ROSSO
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO
Fine di maggio 1940; avanzando lenti uno a fianco dell’altro Ferrante e suo
figlio Stefano falciavano il prato. Alle loro spalle il cavallino sauro attendeva
attaccato al carro; aveva consumata per intero la bracciata d’erba messagli
davanti da Stefano all’inizio del lavoro: con avidità l’aveva mangiata, sollevan-
do e squassando di continuo la testa per respingere il collare voluminoso che
gli scivolava lungo il collo. Adesso, senza muoversi d’un passo, protendeva la
bocca per carpire le foglie del gelso nella cui ombra era stato lasciato: insieme
con le foglie strappava anche la scorza dei rami più teneri che apparivano -
dove le sue labbra erano giunte - spezzati e bianchi come ossicine.
Di tempo in tempo Ferrante si drizzava sulla schiena e, fatto eseguire al
lungo manico della falce un mezzo giro, ne poggiava il tallone a terra; la lama
veniva così a trovarsi orizzontale davanti al suo petto: era bordata al filo da
una poltiglia verde un po’ schiumosa, l’umore dell’erba. Con la cote, che traeva
da un corno di bue appeso alla cintola, il contadino liberava prima la lama dal-
la poltiglia, quindi si dava ad affilarla, alternando con ritmo il massaggio della
cote sui due lati del filo. Allora per rispetto anche il figlio cessava di falciare, e
girata la propria falce si metteva ad affilarla allo stesso modo.
“È un buon lavoratore” pensò, osservandolo mentre eseguiva questa opera-
zione, Ferrante: “Non stacca se non ne ha motivo, e mai per primo”.
“Oramai resisto più io di lui” pensò invece il figlio Stefano, e avvertì una
sensazione d’orgoglio mescolato a dispiacere. “Soltanto l’anno scorso non era
così” rifletté; sbirciò il padre: robusto, con il collo piantato come un tronco tra
le spalle, e quei baffi color pepe che gli coprivano quasi la bocca, non era certo
uomo da ispirare compatimento. “Però ha quasi cinquant’anni” si disse Stefa-
no. Accortosi che il padre aveva notato il suo sguardo, sempre seguitando a
massaggiare con la cote il filo della falce il ragazzo girò lentamente gli occhi,
fino a fermarli sulla carrareccia che dalla Nomanella, la loro cascina, saliva al
paese, a Nomana.
Ferrante intuì ciò che era passato per la mente del figlio (lo conosceva così
bene): “Bravo ragazzo” pensò, e per rompere il silenzio gli chiese, in dialetto
ovviamente: «Cos’hai? Aspetti forse qualcuno?»
«Sì padre» gli rispose Stefano: «Io non so, ma potrebbe arrivare Ambro-
gio.»
«Ambrogio quale? Il Riva?»
«Sì, lui.»
Ferrante si meravigliò un poco: «Siamo ancora in maggio» disse: «Non è
l’ultimo di maggio oggi?»
«Sì padre.»
«E lui, il tuo compagno, non torna sempre dal collegio a metà giugno?»
«Di solito sì. Anzi per via degli esami quest’anno doveva tornare più tardi, a
fine luglio o in agosto: così almeno m’ha detto a Pasqua. Però ieri Giustina ha
saputo dalle signorine della ditta che ritorna invece oggi pomeriggio.»
«Vedo» fece generico Ferrante.
«Sarà forse per la guerra, per il pericolo di guerra» opinò Stefano.
Ferrante rifletté alquanto in silenzio. «Sapeste, ragazzi, che razza di porche-
ria è la guerra» disse infine, e fece ripetutamente segno di no con la testa, me-
ditabondo. Diversi ricordi stavano affluendo in confuso alla sua mente, tra i
quali uno prevalse: il ricordo d’una sensazione indicibilmente sgradevole da
lui sperimentata più di vent’anni prima alle lugubri parole di un fante suo
compagno di trincea, mentr’erano in attesa d’uscire per uno di quegli orribili
assalti presentati sempre come risolutivi e che poi non risolvevano mai niente.
Adesso egli non ricordava più le parole: ricordava però bene quella sensazione
così straordinariamente sgradevole.
«Poveri ragazzi» concluse, incapace di esprimere appieno il proprio pensie-
ro. «Vi accorgerete che...» e fece ancora segno di no più volte, quindi riprese a
vibrare la falce con forza.
«La guerra ad ogni modo non c’è ancora» osservò Stefano, riprendendo a
sua volta a falciare: «e finché non c’è, uno può sempre sperare.»
Ferrante annuì, ma pensava: “Non c’è, no. Però sono già in guerra gli altri: i
tedeschi, i francesi, e... insomma gli altri. E nelle città, anche a Milano, ci sono
quelle carogne di studenti e il resto della marmaglia che fanno le dimostrazio-
ni per entrarci. Anche allora, nel 15, è cominciata così.”
Non riprese tuttavia il discorso, si sforzò anzi di non pensare più alla guer-
ra, di non impegolarvi oltre i pensieri.
Così, interrompendosi solo di tempo in tempo per affilare le falci, i due pro-
cedettero finché non ebbero rasato per intero il riquadro d’erba che si erano
prefissi.
Giunti al suo termine si voltarono e tornarono insieme al carro, dal cui cas-
setto Ferrante tolse la bottiglia dell’acqua che la moglie vi aveva posto, avvolta
in foglie fresche di fico; senza parlare prima il padre poi il figlio bevvero a
canna, traendo sospiri di soddisfazione. Quindi presero dal carro i rastrelli di
legno, e riunirono l’erba falciata, dal buon odore verde, dapprima in andane,
poi in mucchi, e fu lavoro abbastanza lungo; al termine del quale i due venne-
ro a trovarsi per la seconda volta in fondo al rettangolo rasato. Da qui, a un
cenno del padre, Stefano andò a prendere il cavallo che attendeva adesso con
la testa eretta e le orecchie diritte, e scattò avanti con impegno non appena il
giovane ebbe afferrato il guinzaglio.
Si procedette al carico: il giovane sul carro, a distribuire e ordinare col for-
cone il cumulo crescente dell’erba, e l’anziano sotto, ad aggiungervi sempre
nuove forcate; Ferrante serbava infatti per sé il lavoro più duro. Relativamen-
te in alto com’era Stefano lanciava ogni tanto qualche occhiata alla carrareccia
che portava a Nomana, se mai il suo compagno Ambrogio vi comparisse dav-
vero. Da qui egli avrebbe potuto vederlo percorrere la viuzza fin dall’inizio, là
dove essa si staccava dalla strada maestra all’entrata in paese.
In luogo d’Ambrogio scorse a un tratto piccoli piccoli sulla carrareccia i suoi
due fratelli Pio e Isadora, che tornavano da scuola tenendosi per mano. Di si-
curo Pio aveva infilato gli zoccoli nel cestino di fibra della colazione e cammi-
nava scalzo. “Ce l’ha per vizio” pensò Stefano sorridendo: avrebbe costretto
anche stasera la madre a lavargli i piedi, e il cestino.
Faceva da sfondo ai due bambini la recinzione del giardino di Ambrogio, o
per meglio dire del padre di Ambrogio, l’industriale tessile: uno che, prima di
diventare industriale, era stato operaio. Ne aveva fatta di strada quello! Il
giardino era come ce n’è diversi in Brianza: dal carro Stefano ne poteva vedere
alcuni altri, sia sul medesimo margine di Nomana, sia dalla parte opposta,
cioè verso nord, oltre le officine di Beolco, dove il terreno collinare - che qui
formava un’ampia conca poco profonda - risaliva sullo sfondo delle Prealpi. Si
trattava di giardini di tipo ottocentesco piantati ad alberi sempreverdi, come
tassi, lauri, abeti, agrifogli, magnolie, che crescevano serrati tra loro, in
un’unica macchia color verde cupo a pennellate verticali. I vecchi giardini non
meno delle fabbriche caratterizzavano allora il paesaggio collinoso della
Brianza.
Finalmente l’erba fu tutta sul carro: Stefano vi conficcò con forza il tridente,
e si lasciò scivolare dal colmo su una stanga, facendo sobbalzare alquanto il
cavallo; dalla stanga saltò a terra. Il padre afferrò il corto guinzaglio di canapa
e via: il cavallo trasse a passi volonterosi e concitati il carro fuori dal terreno
cedevole fino alla carrareccia di terra battuta, giusto in tempo perché alla co-
mitiva si aggiungessero Pio e Isadora, i quali subito cominciarono a piatire per
essere issati sul carico. Ferrante fermò allora il cavallo e, senza parlare, fece
con la testa segno a Stefano di accontentarli. Più che sospinti, lanciati sul col-
mo dell’erba, i due bambini vi si sistemarono felici, sedendo uno a fianco
dell’altro con le gambine orizzontali, i cappellucci premuti fin quasi sugli oc-
chi, e i cestini della colazione accanto. Il cavallo riprese a muoversi dentro il
loro chiacchiericcio gioioso e qualche grido d’incitamento da parte di Pio; die-
tro il carro camminava Stefano.
Il quale di lì a pochi minuti si voltò per un’improvvisa scampanellata: a rin-
forzare la carovana stava arrivando in bicicletta Ambrogio. Al pari del suo ex
compagno di scuola Stefano, costui aveva diciannove anni; in quel momento
appariva particolarmente euforico: «Ciao Faccia-di-tutti-i-giorni» gridò a mo’
di saluto all’ex compagno.
«Ciao Brogio.»
Ferrante, continuando a camminare a lato del cavallo senza lasciare il guin-
zaglio, si spostò lateralmente in modo da poter fare al ragazzo un cordiale
cenno di saluto: “Questo” pensava “anche se è studente, non è delle carogne
che chiedono la guerra. Anzi...”
«Buona sera, pa’ Ferando» gli gridò in risposta Ambrogio. Salutò poi anche
i due piccolini: «Ciao Isadora; ehi tu Pio, lazzarone...» e da tale particolare,
dal fatto che s’interessasse a due mocciosi come quelli, Stefano fu costretto,
come già altre volte, a notare ch’egli non si comportava alla maniera dei con-
tadini. E neanche degli operai. Del resto lo sapevano tutti ch’era studente di
liceo.
«Stefano, se Dio vuole con oggi ho finito. Col collegio basta per tutta la vita.
Ti rendi conto?» esclamò Ambrogio mentre, procedendo in bicicletta sulla
striscia mediana di terra battuta della carrareccia seguiva passo passo il carro;
a differenza dei contadini s’esprimeva in italiano.
«Ma... e quegli esami di cui m’avevi parlato?»
«Macché esami!» esclamò Ambrogio, allargando un solo braccio
nell’impossibilità di allargarli entrambi (doveva essergli successo qualcosa di
ben grosso - pensò il suo compagno - se era così espansivo): «Certo che... qua-
si quasi non riesco a crederci nemmeno io! Pensa Stefano: stavamo per co-
minciare l’ultimo ripasso, una cosa bestiale - da esaurimento nervoso, dico sul
serio, non per dire - quando ci arriva la notizia che quest’anno non si fanno gli
esami. Capisci? Scrutini subito, e poi tutti in vacanza entro il trentun maggio.
Eh? Se penso a quei disgraziati che l’anno scorso hanno dovuto sputar sangue
per superare gli esami.»
«Ma voi perché non li fate? Forse per la guerra? Voglio dire, per il pericolo
di guerra?»
«Sì» disse Ambrogio, di colpo meno euforico «almeno credo; non può esse-
re che per questo.»
«Ma cosa succede? Allora stiamo per entrare davvero in guerra?» «Questo
non si può dire» rispose Ambrogio: «Io spero sempre di no.» Assunse un at-
teggiamento riflessivo, che gli era con evidenza più congeniale: «Certo se vie-
ne la guerra» osservò, «la fortuna di oggi finiremo col pagarla cara...» Proce-
dettero per un po’ in silenzio.
«Beh» propose allora Stefano, ripetendo ciò che aveva detto in precedenza
al padre: «per adesso la guerra non c’è. E finché non c’è, uno può sempre spe-
rare.»
«Ecco, è inutile fasciarsi la testa prima d’averla rotta» convenne volontieri
l’altro. «Tanto più che noi due non possiamo farci proprio niente»; spianò di
nuovo la giovane faccia al sorriso.
«Lo sai» disse Stefano «che Igino e gli altri del primo semestre della nostra
classe, cioè Pierello, Giacomo di Contra, ‘Castagna’, insomma tutti quelli del
primo semestre, hanno ricevuto in questi giorni la cartolina, e devono presen-
tarsi al distretto domani?»
«Domani? Sì infatti, in collegio abbiamo saputo di quelle cartoline. Noi stu-
denti invece ci lasciano stare. Parte mezza classe vero?» «Sì. Hanno chiamato
il primo semestre del 21.»
«Igino e Pierello» ripete Ambrogio: «domani...»
Stefano annuì: «Pierello non lavora più in paese: da sei o sette mesi lavora
in ferriera a Sesto, lo sapevi?»
«Sì, me l’ha detto a Pasqua. Senti, sto pensando una cosa: perché al distret-
to non ce li accompagnamo noi in macchina? Vuoi venire anche tu?»
«Domani? No, domani sai che io non posso. È giorno lavorativo.»
CAPITOLO SECONDO
Il carro entrò nell’aia della Nomanella. Ch’era una piccola cascina a due
piani articolata a U, con l’apertura verso mezzogiorno, cioè verso Nomana.
Il suo braccio a tramonto era occupato dalla stalla e dal soprastante fienile,
il corpo di mezzo dall’abitazione del proprietario Ferrante, che aveva dato in
affitto il rimanente braccio a una famiglia operaia. L’aia era delimitata sul da-
vanti da un filare d’alberi fruttiferi: tre vecchi ciliegi dai tronchi smodatamen-
te robusti, e un fico più giovane e più basso, di colore diverso, che guastava
l’armonia dell’insieme. La carrareccia entrava nell’aia passando tra
l’abitazione dell’operaio e quel reprensibile fico.
Al rumore delle ruote si fecero sull’uscio di casa la nonna e la madre di Ste-
fano, entrambe vestite di nero come allora usavano le popolane, col capo co-
perto da un fazzoletto. La madre aveva gli stessi occhi grandi e marroni di Ste-
fano.
I due bambini scivolarono svelti giù dal carro e corsero da lei, che pur rice-
vendoli e carezzandoli scambiò, prima di dedicarsi a loro, qualche frase di sa-
luto con Ambrogio. Si esprimeva in dialetto, l’unica lingua di cui allora il po-
polo si servisse: «Ben tornato fra noi, Ambrogio.»
«Grazie. Ben trovata, mamm Lusìa.»
«Ti ha molto affaticato lo studio?»
La nonna - partecipe, la bocca sdentata semiaperta - si toccò la fronte con
un dito, per ricordare che anche il lavoro della mente affatica.
«No. Anzi stavolta m’è andata fin troppo bene: ci hanno fatto saltare gli
esami, lo sapete?»
«Saltare gli esami?»
«Sì, una fortuna da non credere.» Ambrogio indicò Stefano, a significare:
lui è già al corrente d’ogni cosa; Stefano annuì.
Lucia sorrise con approvazione: «Bene, sono contenta per te.»
La nonna, madre di Ferrante, fattasi avanti prese la destra del giovane nelle
proprie mani, fin troppo evidentemente compiaciuta per la sua visita. Faceva
ogni volta così: non le pareva vero che venisse da loro il figlio dell’industriale
che dava lavoro a tanta gente (si era in Brianza, dove a quel tempo non c’era
nel popolo avversione per gli industriali); la vecchietta strinse più volte la ma-
no d’Ambrogio, petulante per simpatia, lontana dai modi delicati della madre.
Intanto Ferrante, aiutandosi con la voce, stava sospingendo il cavallo
all’indietro in modo da sistemare il carro presso la porta della stalla. Staccò
quindi l’animale che, coi finimenti indosso, andò ad abbeverarsi a una tinozza
contro il muro (ogni tanto sollevava dal pelo dell’acqua il muso gocciolante
per respirare e per guardarsi intorno); una volta abbeverato, l’animale varcò la
porta della stalla e raggiunse sempre da solo la sua posta, separata da quella
delle vacche da un robusto tramezzo di legno. Ferrante e Stefano lo stavano a
osservare compiaciuti, senza muoversi.
«Allora?» disse finalmente il padre.
Era la ‘seretta’, non ancora il tramonto, l’ora della mungitura e dei lavori se-
rali nella stalla.
«Sì» rispose il figlio. E inforcato col tridente un gran carico d’erba nuova
precedette l’uomo all’interno del basso locale.
Ambrogio seguì i due; nella stalla aleggiava un lieve tanfo agreste, da tempi
andati, non sgradevole. Le due vacche dal mantello bruno avevano fatto preci-
pitosamente largo tra loro, e con i colli e le teste allungate indietro tiravano
con forza le catene, protendendosi verso l’erba in arrivo. Stefano passò tra gli
animali e scaricò l’erba nella greppia di ferro davanti a uno dei due, che subito
cominciò a mangiare voracemente, mentre l’altro allungava invano il proprio
muso per raggiungere il cibo. Il giovane tornò subito con un secondo enorme
carico d’erba sul tridente, e lo scaricò davanti all’altra vacca; seguitò poi avanti
e indietro, finché non ebbe interamente colmata la greppia. Passò quindi a
colmare la greppia - di minor capienza e sistemata più in alto - del cavallino
sauro, che Ferrante aveva nel frattempo legato alla mangiatoia e spogliato dei
finimenti, i quali apparivano ora appesi a due bracci di legno sporgenti dal
muro.
Nessuno parlava: si sentivano i tre animali mangiare, il trepestio dei due
contadini nonché, a momenti, gli strattoni e i muggiti dell’unico vitello che,
legato in un angolo, s’era alzato in piedi e chiedeva a sua volta da mangiare.
Aveva le gambe sproporzionatamente lunghe e il pelame più chiaro di quello
delle vacche (“pulito, nuovo di zecca” pensò Ambrogio), portava sul muso un
canestro di vimini che gli impediva d’inghiottire lo strame. Ambrogio sapeva
che, terminata la mungitura, Ferrante avrebbe versato per lui una misura di
latte dentro un secchio, e in assenza del poppatoio gliel’avrebbe fatto suggere
tenendogli un dito in bocca.
Dalla parete di fondo - di un colore indefinibile tant’era sporca -
sant’Antonio abate, in una vecchia oleografia che lo raffigurava seguito da un
suino (‘sant’Antonio del porcello’ lo chiamava la gente) vegliava sulla piccola
stalla.
“Com’è simpatico questo ambiente” pensò Ambrogio, e per un momento fu
tentato di fantasticare: “Ecco la vita che forse mi piacerebbe fare...”. Ma subito
si obiettò: “Il guaio è che questo lavoro non consente di vivere come si deve”.
Entrò nella stalla la nonna con due secchi: uno piccolo e scuro in cui c’era
dell’acqua per lavare la mammella delle vacche, l’altro più grande, lucente di
stagnatura, il secchio del latte. Dietro di lei s’infilò ridendo forte nel locale an-
che il piccolo Pio: correva sui piedi insaponati, certamente era fuggito dalle
mani della mamm Lusìa che lo stava lavando. Infatti ecco la madre: il bambi-
no, dopo alcuni scarti, impossibilitato a fuggire oltre, si lasciò agguantare; la
madre del resto lo prese con dolcezza. Lo rimproverò più con la severità del
viso che con la voce e se lo tolse in braccio, curando di tenere scostati da sé i
due piedini nuovamente insudiciati. Dalla porta la nonna non mancò invece di
sgridare il bambino: «Vergogna, scappare con i piedi insaponati. Bisognerà
lavarti un’altra volta... La tua povera mamma!» e: «Cosa dirà questo signore?»
Pio non si mostrò impressionato dal signore, ch’era abituato a vedere fin
dalla nascita; al punto che passandogli accanto cercò di colpirlo al petto con
un piede sporco: Ambrogio fece appena in tempo a scansarsi. Stavolta la ma-
dre affibbiò al bambino che teneva tra le braccia uno sculaccione, e disse an-
che lei: «Vergogna!» Il bambino le rispose con una risata.
«Questi figli!» sospirò la nonna. E guardando in viso prima Ambrogio poi
Stefano, che andava verso di lei per ritirare i due secchi: «Questi figli!» ripeté
con intenzione.
«C’è qualcosa che non va, nonna?» la assecondò Ambrogio.
«È per via del mio mestiere» disse Stefano, strizzando un occhio al compa-
gno: «lo sai; cerca di non darle corda.»
«Certo che è per il tuo mestiere» fece la nonna: «per il tuo mestiere e per il
tuo bene.»
«Cioè?» continuò ad assecondarla Ambrogio.
«Insiste a voler fare il contadino. Giù alle officine di Beolco adesso cercano
degli apprendisti, ma lui niente, vuol fare il contadino. Non eravamo intesi
così però, gli accordi non erano questi.»
«Lo so» disse Ambrogio. «L’intesa era che avrebbe aiutato in campagna so-
lo fino a quattordici o quindici anni, e poi sarebbe entrato in uno stabilimento.
E invece ormai ne ha diciannove di anni.» «Quasi compiuti» puntualizzò Ste-
fano.
«Il mestiere del meccanico è un mestiere fine» disse la nonna, evitando di
consegnargli i due secchi per trattenerlo un po’: «un mestiere con un avvenire.
Non è vero signor Ambrogio?»
«Sì, certo» rispose Ambrogio, e a questo riguardo era chiaro che non scher-
zava.
«Ecco, hai sentito, Stefano?» esclamò la vecchietta, trionfante perché aveva
afferrata quella convinzione: «Senti che lo dice anche il tuo amico?»
«Che il mestiere del meccanico sia fine lo san tutti» disse Stefano, e ag-
giunse buffamente: «Io non ho mica niente contro i meccanici.» Poi si rifece
serio: «Ma il discorso è un altro, e cioè che io ho la passione per la terra. Lo
sapete nonna. Su, datemi i secchi.»
«Ma è per il tuo bene che io, che noi... e tuo padre per primo ti diciamo...
Quarantatre pertiche di terra, ti sembrano molte?» La nonna, portata a indu-
giare dalla sua stessa età, anziché consegnargli i secchi guardò Ferrante in cui
sapeva di avere un alleato, il quale tuttavia, come sempre succedeva in presen-
za d’estranei, non intervenne.
A un pertugio nel muro presso l’oleografia di sant’Antonio del porcello s’era
intanto affacciato un topolino; Ambrogio ricordò d’averlo già visto in quel
punto durante la sua ultima visita. La bestiola sbirciò all’intorno, poi si ritras-
se, ma non del tutto: l’apice del suo musino rimaneva infatti visibile, quasi
avesse anch’essa deciso di restare a far parte della compagnia. La vecchietta
insisteva: «Stefano, i tempi stanno cambiando; tu lo sai che i giovani di qui,
anche i figli dei contadini, non fanno più il contadino: troppo lavoro e troppo
poco frutto. Soltanto la sera, se mai, una volta tornati dallo stabilimento, aiu-
tano i vecchi a mandare avanti quel po’ di terra. Guarda Giacomo di Contra, e
il Luigino dei Brivio per esempio. Anche tu, se proprio hai la passione della
terra, potresti fare a quel modo.» Si rivolse ad Ambrogio: «Non è vero che po-
trebbe fare a quel modo?» Ambrogio annuì compiacente, sorridendo, mentre
Stefano, per quanto rispettoso, mostrava che il discorso per lui era durato an-
che troppo. Allora la nonna, consegnatigli i due secchi, si voltò, e lamentic-
chiandosi tra sé per tanta testardaggine lasciò la stalla.
Stava per avere inizio la mungitura. Ambrogio, che fino a quel momento era
intenzionato ad assistervi, provò a un tratto il desiderio di tornare a casa.
«Beh, ciao Stefano» disse senza por tempo in mezzo: «ti ho rivisto con piace-
re, ma oggi non mi fermo. Verrò magari domani.» E al padre di lui: «Buona
sera, pa’ Ferando.»
«Come? Vai già via?» Il ragazzo contadino depose i due secchi che teneva in
mano, e fece con la testa un segno a significare: ti accompagno fuori.
All’aperto l’aria era fresca, pura. Da ovest il sole ormai basso illuminava tut-
to l’orizzonte settentrionale materializzato dal grande anfiteatro delle Prealpi.
«Guarda» osservò Ambrogio «che bel colore hanno stasera le montagne. Spe-
cialmente le Grigne e il Resegone.»
«Cosa, le montagne?» Stefano tentennò la testa: ecco un altro discorso da
studente. «Vuoi saperlo? Io nemmeno me n’accorgo che al mondo ci sono le
montagne. Non ci penso mai.»
«Perché le hai sempre davanti agli occhi» disse Ambrogio. «Se fossi invece
costretto a vivere la più parte dell’anno in un collegio di città, con intorno sol-
tanto case, muri e tramvai... Beh, con oggi ad ogni modo ho finito anch’io: col
collegio ho finito per sempre!» A questa constatazione, già fatta ripetute volte
nel corso del pomeriggio, avvertì un nuovo senso di felicità. (Che non degnò
d’attenzione: la felicità gli sembrava ovvia, quasi dovuta. Ignorava che i mo-
menti di felicità, non frequenti neppure negli anni giovanili, li avrebbe in se-
guito sperimentati sempre più di raro nella vita.) Disse all’amico: «Però, che
liberazione!»
Stefano sorrise. «Beh, io torno al lavoro, ciao.»
«Ciao.»
Mentre si dirigeva verso la propria bicicletta appoggiata al muro: «Un mo-
mento» esclamò Ambrogio, «aspetta: Igino e Pierello dicevi prima.»
«Sì, partono domani.»
«Sai a che ora?»
«No. L’ora non gliel’ho chiesta.»
«Senti, stasera io cerco Igino. Prima di mangiare... anzi meglio subito dopo
mangiato. Perché non vieni anche tu?»
«In paese? Stasera?»
«Sì. Subito dopo mangiato. Dai, ci troviamo alle otto e mezza a casa
d’Igino.»
Stefano rifletté alquanto grattandosi la testa (“Guarda, fa come suo padre e
non se ne rende conto” notava Ambrogio): «D’accordo» disse infine.
«Allora ci vediamo.»
«Va bene.»
Ambrogio raggiunse la bicicletta - un leggero veicolo sportivo, color azzurro
-, giovanilmente la sollevò con una sola mano, se la mise davanti voltata nella
direzione giusta, e la inforcò.
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
Dopo la cena Ambrogio uscì di nuovo per recarsi alla casa d’Igino; comin-
ciava ad avvertire una certa stanchezza: la sua giornata, sopratutto dal lato
emotivo, era stata abbastanza intensa.
Igino abitava a meno di cento metri sulla stessa irregolare strada acciottola-
ta, la via Alessandro Manzoni. Davanti alla sua porta c’era già Stefano in atte-
sa. “Guarda” si disse Ambrogio “Faccia-di-tutti-i-giorni è già qui, con tutto il
lavoro che ancora gli rimaneva quando l’ho lasciato: non deve aver impiegato
più di cinque minuti per cenare”. Giunto a pochi passi da lui: «Sei qui da un
pezzo, eh?» esclamò: «Questo succede a chi non ha niente da fare.»
L’altro gli rispose con una smorfia di compatimento, poi lo informò che Igi-
no non era in casa.
«Ah!» fece con disappunto Ambrogio.
«Ho mandato suo fratello a chiamarlo. Noi però, io credo, potremmo an-
darli ad aspettare in piazza.»
«Sì, certo.»
I due s’avviarono senz’altro. «Se ci mettiamo in piazza» precisò Stefano «c’è
il caso d’incontrare anche qualche altro di quelli che partono domani. Tu li
vedi volontieri, no?»
«E come» disse Ambrogio.
Non erano i soli a percorrere la strada che conduceva, con qualche curva,
alla piazza principale, dov’erano la chiesa e il municipio: c’era anzi un movi-
mento abbastanza insolito per quell’ora.
«Come mai tutta ’sta gente in giro?» chiese Ambrogio a Stefano.
«Perché è l’ora di benedizione» gli rispose costui. «Non hai sentito le cam-
pane?»
«Ah già, le campane» disse Ambrogio. «Siamo nel mese di maggio infatti.»
Stefano annuì: «Oggi è l’ultimo del mese.»
Come i due sboccarono nella piazza - ampia, e lungo i due lati di nord e di
ovest aperta a mo’ di belvedere sull’anfiteatro delle montagne - furono im-
provvisamente investiti da un formidabile scampanio. Si arrestarono e alzaro-
no lo sguardo alla sommità del campanile dove, nella cella campanaria, le
campane si dimenavano frenetiche, arrivando quasi a ruotare su sé stesse.
«Il sacrista stasera è in vena» osservò Ambrogio, ad alta voce per farsi sen-
tire.
«Cosa?» gridò di rimando Stefano. Ambrogio alzò le spalle.
«È il terzo segno» disse gridando Stefano.
«Sì, il terzo» convenne Ambrogio.
Il rito sarebbe dunque iniziato tra cinque minuti. C’era tutto il tempo per
raggiungere la chiesa con calma, ciononostante la gente ch’era per le strade e
nella stessa piazza a quell’esplosione di suoni affrettò il passo; le rondini poi
che, come ogni sera, pascolavano nell’aria volando basse basse sopra
l’acciottolato della piazza, ne trassero immediato pretesto per mettersi a sfrec-
ciare e a fare ogni sorta di virtuosismi.
Quasi tutti quelli che passavano - per la maggior parte operai - scambiavano
un saluto, in genere un cenno del capo, coi due giovani.
«Qui ci conosciamo proprio tutti» constatò a un tratto Ambrogio - senza più
bisogno di gridare, perché il frastuono delle campane era improvvisamente
cessato (nell’aria rimaneva solo un sommesso ronzio, come il ringhio in gola ai
cani gagliardi dopo che hanno fatto la loro sfuriata.)
«Sempre le stesse facce, eh?» disse Stefano, tentennando la testa con di-
sapprovazione.
«Beh, però a me...» Ambrogio non concluse la frase: avrebbe voluto dire
che a lui, specie quando - come oggi - tornava dal collegio, queste facce riusci-
vano gradite, care: che se ne accorgeva appunto a ogni ritorno; temette però di
apparire sentimentale.
Si tolse di tasca il pacchetto delle sigarette e ne offrì una al compagno. Sem-
pre altra gente intanto attraversava la piazza. Ecco laggiù in fondo la sagoma
familiare di suor Candida, loro maestra d’asilo ai tempi: un po’ curva, proce-
deva in compagnia d’una giovane conversa; dietro, come i pulcini alla chioc-
cia, veniva una manciata di bambine.
Da quest’altra parte era in arrivo Romualdo, l’ubriaco comunale, secondo
l’aveva una volta con proprietà definito la nonna di Stefano; tale era infatti per
due distinti motivi: perché era il maggior beone del comune, e perché col co-
mune aveva in qualche modo professionalmente a che fare, in quanto custodi-
va quel po’ di posteggio per le biciclette che c’era accanto al municipio. In que-
sto momento Romualdo camminava senza ondeggiamenti - segno che non era
ubriaco, o almeno non molto - e con la faccia compunta - segno che stava at-
traversando una delle sue ricorrenti fasi di pentimento.
Arrivarono frettolose due cugine studentesse, la Tea e la Isa, di poco più
giovani dei due ragazzi: la prima (bruttina e pronta al riso) frequentava le ma-
gistrali; l’altra, la Isa, ragioneria a Monza, ed era una cavallona di pelo casta-
no, molto bella, tuttavia un po’ troppo monumentale per la sua età (destinata
dunque - pensava Ambrogio ogni volta che la vedeva - a sfiorire presto, pove-
retta). Queste aggredirono i due con esclamazioni e frasi di lieta sorpresa,
commiste a notizie sulla chiusura delle loro scuole ch’era stata pure anticipata,
e insieme a rimproveri, perché i due se ne stavano a ‘ciondolare’ in piazza in-
vece d’entrare in chiesa.
I due, in particolare Ambrogio, avrebbero voluto rispondere, ma dovettero
tacere subissati, mentre Stefano scuoteva la testa con disapprovazione. Finché
quelle improvvisamente si staccarono da loro e corsero via, tirandosi l’una
l’altra per mano: «Su, su, se no facciamo tardi anche noi.» «Vieni, andiamo.»
«Che lingua!» commentò allora Ambrogio. Stefano si limitò a disapprovare
un’ultima volta con la testa.
Ecco, in crocchio, tre operai della ditta Riva: Costante, biondo stoppa, cor-
poso, con la faccia rossastra; Tarcisio, alto e diritto, ricciuto, con gli occhi e i
capelli neri (Ambrogio ricordò che nella ‘grande guerra’ questo era stato ardi-
to); e Ignazio, piccolo e un po’ gobbo, col vestito sempre liso e la testa che ten-
tennava come annuendo a ogni passo: tutt’e tre mostrarono di rendersi conto
che Ambrogio era tornato a casa anzitempo, ma non per questo si fermarono;
scambiato con lui un cenno di saluto, proseguirono spediti: andavano in chie-
sa come fossero in ritardo sul lavoro.
Dalla via Manzoni arrivò anche Marietta ‘delle spole’, lei pure operaia del
padre d’Ambrogio: sulla cinquantina, molto piccola, le gambe storte, era
l’operaia più zotica di tutta la fabbrica. Aveva capelli radi e ricciuti, repulsivi, e
una faccia incredibilmente larga e gialla, in cui chissà come erano capitati due
occhi neri d’agnello. La suprema aspirazione di costei era di non farsi notare
dagli altri: Ambrogio lo sapeva e la salutò quindi con un cenno minimo della
testa, senza propriamente guardarla. Sapeva che se le avesse rivolta la parola
quella gli avrebbe risposto in modo strampalato: inintelligibile, o parlando
troppo in fretta, e se lui per caso avesse insistito, si sarebbe spaventata.
A Marietta ‘delle spole’ si accompagnava per mano Giudittina, la sorella
minore d’Ambrogio, cinque anni d’età, occhi azzurri, capelli biondi raccolti in
due codini dietro le orecchie, che salutò il fratello gridandogli giuliva: «Ciao,
ciao, ciao» e passò oltre, sempre per mano a Marietta la quale con borbottii e
sussurri misteriosi la rimproverava per la sua esuberanza; una volta rimasti
indietro i due giovani tuttavia si rifece tranquilla: Marietta con i bambini pic-
coli era a suo agio.
Ecco poi avanzare contegnosa la vecchia signora Eleonora (dove sei, mondo
perduto, dove sei? con le parole non si possono suscitare altro che larve, ahi-
mè!) la signora Eleonora dicevamo, vestita di nero a lustrini alla maniera di
principio secolo, col cappellino sormontato da piume di struzzo e il bastoncino
da passeggio. Quanti anni aveva la vecchia signora rimasta senza più nessuno
al mondo, che usciva di casa soltanto per venire in chiesa? Da quando erano
nati, Ambrogio e Stefano l’avevano sempre vista così, identica a com’era in
questo momento.
Attraversò la piazza anche la signorina Quadri Dodini, insegnante in un
ginnasio di monache a Monza. Di mezza età e zoppa, coi capelli tagliati ‘alla
maschietto’, s’appoggiava lei pure a un bastone, e portava grossi occhiali:
“Questa” pensò Ambrogio “scommetto che è arrivata con l’ultimo treno, e vie-
ne qui dopo avere trangugiato in fretta un po’ di cena”. La raggiunsero a gran
balzi e superarono (impietosi senza volerlo) alcuni ragazzi sui tredici quattor-
dici anni, che s’infilarono in chiesa a precipizio davanti a lei.
«Ci hai fatto caso? Ne abbiamo visti due col bastone.»
«Ehi, non c’è il due senza il tre.»
«Chi sarà il terzo?»
Fu il Galbiati, impiegato della Cassa di Risparmio e mutilato del Piave: sic-
come mancava d'una gamba, camminava lui pure appoggiandosi al bastone.
Un figlio di questo Galbiati, a nome Giordano, laureando in legge, frequentava
in questo momento la scuola allievi ufficiali alpini: se fosse scoppiata la guerra
- pensò Ambrogio - anche il Giordano ci si sarebbe trovato subito dentro fino
al collo.
Passò ancora qualche ritardatario e ultimo Carlaccio. Costui, d'età indefini-
bile, era stato una volta l'uomo più forte del paese: nessun ostacolo gli resiste-
va a quel tempo nel suo lavoro, che era di carradore. Disgraziatamente duran-
te uno scavo aveva voluto cimentarsi con una pietra smisurata che non si la-
sciava ribaltare: «o tu o io» aveva proclamato, abbrancandola nell'ammirazio-
ne dei circostanti: purtroppo aveva ceduto lui, o meglio la sua colonna verte-
brale; da allora andava in giro con l'enorme schiena come rientrata in avanti e
le braccia pendenti all'indietro.
Carlaccio salutò i due col suo sorriso sempre malinconico che significava:
‘Lo vedete anche voi com'è ingiusto con me il destino?’; i due ragazzi gli rispo-
sero con simpatia.
Passato lui la piazza rimase vuota; solo le rondini seguitavano a percorrerla
volando.
CAPITOLO QUINTO
A un tratto da una via che sboccava nella piazza a pochi metri dalla via
Manzoni giunse la voce d'Igino alternata a quella di un altro coscritto, di so-
pranome Castagna. Subito Ambrogio e Stefano mossero loro incontro; eccoli
là Igino e Castagna: venivano avanti parlando forte, come non di rado fanno
gli italiani quando si trovano in pubblico, istintivamente portati a esibirsi, a
dar spettacolo; quella sera ancor più portati, quei due, perché in qualche mo-
do effettivamente protagonisti. Li scortava, precedendoli di qualche passo, il
fratello di Igino, di nove anni, che ogni poco si voltava per sollecitarli nel mo-
do che aveva visto fare alle donne quando andavano a recuperare i mariti al-
ticci all'osteria.
Ancor prima di raggiungerli Ambrogio li salutò festosamente con un: «Senti
che fiera, senti che fiera!» al che castagna si arrestò e rizzata la testa che aveva
grossa, spalancò le braccia e recitò il verso di una canzonetta da coscritti: ‘È il
ventuno che va via’; poi, quasi avesse detto chissà quale spiritosaggine, si mi-
se a ridere incontenibilmente: di professione artigiano, era biondo, roseo e
paffuto. Igino, operaio, aveva invece il viso affilato e i capelli scuri, pettinati
indietro alla istrice; sorrideva in un modo che aveva la particolarità di sembra-
re sempre forzato, anche quando, come in questo momento, non lo era.
«Ciao» disse Ambrogio quando furono a distanza di conversazione, e ten-
dendo loro la mano: «Dov’eravate? Forse all'osteria della Pasqualetta?»
«Infatti» risposero i due.
Il fratello d’Igino spiegò: «Li ho trovati là. Stavano con gli altri coscritti.»
«Con gli altri coscritti?» fece sorpreso Ambrogio «Ma allora...»
«No, mica tutti» disse Igino «Ci siamo trovati là in quattro, anzi cinque, per
caso, non è stata una cosa preparata. Beh, dai, perché non ci venite anche
voi?»
«Io son venuto qui apposta per questo» dichiarò Castagna: «per portare
anche voi due all'osteria, vivi o morti.» E rivolgendosi a Stefano, prima che
quello aprisse bocca: «Tu non dire di no.»
«Certo che dico di no» esclamò Stefano «Io stasera non c’entro: sono del
secondo semestre, lo sapete.» Pensava in realtà che l'indomani si sarebbe do-
vuto alzare presto per il lavoro. Castagna lo sapeva benissimo, tanto che lo
rimbeccò: «Macché semestre, macché semestre, tu domani mattina alle cin-
que (a cinch ur - il dialetto di Nomana è quasi identico al milanese) devi mun-
gere le vacche. Dillo che è per questo.»
«Sì» ammise allora Stefano «è per questo.»
«Brutta bestia!» lo sgridò, alzando di nuovo la voce, Castagna, come l'aves-
se sorpreso in chissà quale mancamento; dopo di che si mise a ridere anche
per quest'altra spiritosaggine.
«Vedo che avete già bevuto» si limitò a constatare Stefano
«Allora?» chiese Igino ad Ambrogio: «tu ci vieni o no dalla Pasqualetta?»
Sebbene attirato (era bello, a quell'età, ritrovarsi insieme, con la speranza e
l'attesa che ciascuno aveva dentro!) Ambrogio non poteva decentemente pian-
tare in asso Stefano dopo averlo fatto venire in paese.
«No» rispose quindi. «Oggi sono già abbastanza stanco e non me la sento di
far tardi. Io volevo soltanto chiederti una cosa: a che ora dovete presentarvi al
distretto domani?»
Invece di rispondere Igino gli chiese: «Ma tu... come mai quest'anno sei
tornato a casa in anticipo?»
Ambrogio glielo spiegò.
«Allora, se è così, la guerra non ce la leva più nessuno» mormorò preoccu-
pato l’altro.
«Figurati» fece Ambrogio. «Beh, non voglio farvi perdere tempo. Soltanto
dimmi...»
«Di tempo ne abbiamo d’avanzo» affermò Igino: «Venite, mettiamoci al-
meno seduti un momento in casa mia.»
Si avviarono passo passo.
CAPITOLO SESTO
Nella casa non c’era nessuno. La madre - in quel paese tutto di paolotti, os-
sia di cattolici praticanti - era, non occorre dirlo, alla funzione in chiesa. «Mio
padre invece è di turno giù a Beolco» spiegò Igino, mentre accendeva la luce.
«Ah, dunque adesso fanno i turni a Beolco?» s’informò Ambrogio.
«Sì, all’officina sì» gli rispose Stefano per Igino.
«Non sarà anche questo per la guerra?» congetturò a un tratto Igino, il qua-
le allo stesso modo del padre lavorava nell’officina.
«Quale guerra?» lo sgridò Castagna: «Se giù all’officina fate ingranaggi e
catene per le biciclette.»
«E le biciclette dei bersaglieri? Dove le metti quelle?» gli obiettò Igino se-
miserio; si volse agli altri due col suo sorriso tirato, e indicò con un cenno del
capo Stefano, il quale alla visita di leva era stato assegnato al corpo dei bersa-
glieri: «I bersaglieri dove li metti? Dai, va, sediamoci un momento» concluse.
Gli altri eseguirono, prendendo posto intorno al tavolo coperto da un tappe-
to di peluche sintetica a colori cangianti rossi e azzurri. Bassa sul tavolo pen-
deva una lampadina dal cappello rotondo di lamiera smaltata, con sopra una
carrucola a boccia che ne regolava l’altezza. Igino andò alla credenza, ne aprì i
battenti a vetri, prese un vassoio di latta gialla, una bottiglia di amaro Braulio
e quattro bicchierini: «Tu va fuori a giocare» disse al fratello novenne, che
seguiva l’operazione con più scoperto interesse degli altri.
Dimentico della giudiziosità dimostrata fino allora, quello cominciò a prote-
stare, per cui Igino - disapprovando con la testa - aggiunse un quinto bicchiere
sul vassoio, e portò tutto al tavolo.
Per non sembrare tirchio riempì i bicchierini fino all’orlo; Ambrogio lo no-
tò, e forse anche gli altri, ma per loro tale procedimento era scontato: se mai
sarebbe stato strano che le cose si svolgessero secondo un rituale diverso. Tut-
to del resto era scontato e ovvio là dentro: i mobili vagamente modernizzanti
ma quasi miseri, le due oleografie alle pareti con la Sacra Famiglia e un cervo
al fonte, la stufa a legna che - in assenza del tradizionale camino - serviva tan-
to per cucinare le vivande quanto per il riscaldamento: si trattava in sostanza
d’una comunissima casa operaia. Forse un po’ meno scontata c’era, sul ripiano
della credenzina, una statuetta liberty di donna discinta e malfatta che reggeva
con le braccia alzate una fruttiera.
Terminato che ebbe di versare l’amaro (al bambino metà dose) Igino levò il
proprio bicchiere: «Cin cin» propose.
«Cin cin» gli fecero eco gli altri.
«Che il pericolo di guerra si allontani» beneaugurò Ambrogio, davvero ori-
ginale. Tuttavia era appunto ciò che gli altri si aspettavano da lui. Sorseggia-
rono pensosi.
«E se invece... Se non si allontana? Se la guerra scoppia davvero?» buttò là
a un tratto Stefano.
«Allora chissà quante ne vedremo; nessuno può sapere come andrà a fini-
re» disse Ambrogio. In quei giorni aveva sentito più d’una volta ricordare che
venticinque anni prima la ‘grande guerra’ era stata dichiarata nella certezza
che si sarebbe conclusa subito, e invece.
Unico ilare era il bambino: «Vi dico la verità: io se la guerra viene, sono
contento» dichiarò; gli brillavano gli occhi.
«Tu va fuori a giocare» gli ripeté Igino.
Quello, strabuzzando un po’ il musetto, finì la sua mezza razione di amaro,
poi sgattaiolò via, perplesso in cuor suo per la pusillanimità dei grandi.
Anche Igino tuttavia non era d’accordo con Ambrogio. «Adesso non è come
l’anno scorso, che non si poteva sapere chi avrebbe vinto» gli fece osservare:
«Adesso i francesi e gli inglesi non fanno che prenderle e scappano dappertut-
to Se entriamo anche noi, la vittoria è sicura.»
«Mm.» Ambrogio fece segno di no con la testa. «In queste cose non si può
mai essere sicuri» concretò meglio la propria convinzione.
«Eh!» lo approvò cordialmente Stefano, ricordando gli ammonimenti pa-
terni.
«No» insisté Igino, e con un’inaspettata punta d’acredine: «L’Inghilterra e
la Francia stavolta qualcosa devono mollare. I nodi, cari miei, sono arrivati al
pettine. Ecco, non possono continuare a tenersi tutto per loro, e privare noi di
un minimo di... di...»
Ambrogio lo guardò sorpreso.
Se n’accorse Castagna che: «Parla o no come Alfeo alle riunioni del premili-
tare?» disse ammiccando, poi si mise a ridere compiaciuto anche per
quest’altra battuta, approvandosi col testone. (Alfeo, sottufficiale in congedo,
era uno dei pochi in paese a credere nel fascismo; per meglio dire ci credeva
con una metà della testa, l’altra metà risentendo dell’opinione dominante a
Nomana, e un po’ dovunque in Brianza, secondo la quale il fascismo era qual-
cosa di semplicemente estraneo: un fenomeno con motivazioni, sviluppi e
sbocchi altrove, fuori di qui.)
Senza far caso a Castagna, Igino seguitava a fissare gli altri due, in partico-
lare Ambrogio, quasi sfidandoli a controbattere.
«Ma Igino... vorresti metterti coi tedeschi?» fece Ambrogio piuttosto fra-
stornato. «Coi nazisti?»
«Questo non m’interessa» disse Igino. «Che m’interessa... beh, ve l’ho già
detto.»
«Ma perché non lo fanno segretario del fascio, questo qui?» continuò nel
suo scherzo Castagna.
«Dì, cos’è che ti attira?» volle sapere Ambrogio. «Dimmi la verità: è lo spiri-
to d’avventura, la voglia di metterti anche tu alla prova? Te lo chiedo perché
anch’io, in certi momenti, questo lo sento.»
Igino lo guardò perplesso. «No. L’avventura? Cosa diavolo vuoi dire?»
«Lo spirito d’avventura, il gusto del rischio insomma.»
«No, Ambrogio, macché. Semplicemente è come dico: che le nazioni ricche
stavolta devono mollare, perché è arrivato il momento.»
«Ma allearci coi nazisti...»
«Con chiunque, anche col diavolo se non c’è altro modo.»
«Questa poi!» esclamò Ambrogio, guardando gli altri due.
«Beh, ascoltate me, è inutile che discutiamo» fece con molto buon senso
Stefano: «Tanto noi non possiamo decidere proprio niente.»
Su questo Igino fu d’accordo. «Un altro po’ d’amaro?» propose.
Castagna tese il bicchiere: «Ho sete» disse.
«Allora ci vuole il vino» osservò l’ospite, alzandosi in piedi.
«No, aspetta» obiettò Ambrogio: «è meglio che voi due torniate dalla Pa-
squaletta, gli altri vi staranno aspettando. Ci siamo visti e salutati, per stasera
basta.»
«Sì, però un bicchiere lo possiamo bere» disse Igino. Andò alla credenzina,
ne tolse una bottiglia di vino già iniziata e quattro bicchieri. Riaccostò col go-
mito il battente della credenzina dietro il cui vetro era fissata una vecchia fo-
tografia: il gruppo scolastico, nientemeno, della loro seconda classe elementa-
re. Mentre tornava al tavolo Igino lo indicò con la testa agli altri: «Se invece di
un semestre chiamavano tutta la classe, oggi potevamo combinare un addio
alle coscritte.»
Gli altri convennero sorridendo; Ambrogio, alzatosi, si accostò alla fotogra-
fia che ricordava bene. Protese la testa a osservarla: «Guardale qui: Paolina
coi riccioli, Olga, la Teresa Conti. E Stellina, guarda... povera Stellina!»
«Quella è rimasta nana» mormorò Igino.
Ambrogio annuì: «Noi allora non ce ne rendevamo conto: ci sembrava sol-
tanto un po’ più piccola delle altre. Nemmeno lei allora capiva.»
«Sì» disse Stefano: «Dopo però non è più cresciuta, è rimasta com’era, o
press’a poco.»
Di fronte a questo fatto anche Castagna tentennò pensoso la grossa testa.
«Si è presa anche lei i pugni che noi maschi durante la ricreazione davamo
alle bambine, vi ricordate? per fargli vedere che eravamo più forti di loro» dis-
se Ambrogio. «Che animali eravamo. Se ci penso.»
«Beh» fece Igino mentre versava dalla bottiglia: «erano sempre pugni di
bambini di otto anni.»
«Ma a loro, alle bambine, facevano male» replicò Ambrogio; «tant’è vero
che ogni tanto qualcuna si metteva a piangere, non ti ricordi?»
«La Iole specialmente, è vero» convenne a questo proposito Igino: «Come
si ribellava quella.»
«Dov’è che non la vedo?» Alla scarsa luce della lampadina Ambrogio la cer-
cò nella fotografia finché la individuò: «Ah, eccola qui.»
Era una bimbetta in grembiulino nero e braccia conserte come le altre, ma
più bionda: l’unica d’un biondo veramente dorato; e aveva lineamenti singo-
larmente vispi, molto intelligenti.
«Che fine ha fatto, poveraccia!» mormorò Stefano.
«È ancora... via?» s’informò Ambrogio.
«Sì, certo» disse Stefano: «chissà se uscirà mai dal manicomio.»
«La stessa fine di sua sorella maggiore» osservò Igino.
Ambrogio tornò al tavolo, Igino gli spinse davanti un bicchiere pieno.
«Anche senza la guerra, quanti guai nella vita» disse Ambrogio prendendo
il bicchiere.
«E a sentire mio padre la guerra è ancora peggio, è senza confronto peggio»
disse Stefano. «Una cosa che uno non se la può nemmeno immaginare. E se lo
dice lui» aggiunse «vuol dire che è così.»
I quattro compagni si guardarono in faccia: in fondo erano acerbi a queste
cose. Di lì a un po’ Igino fece: «Beh, se noi due dobbiamo proprio tornare dal-
la Pasqualetta, sarà bene che ci decidiamo.»
Vuotati rapidamente i bicchieri, s’alzarono in piedi tutt’e quattro e
s’avviarono verso la porta.
«Voi due, se vi va bene, al distretto domani v’accompagno io con la macchi-
na» disse all’ultimo momento Ambrogio. «È appunto di questo che volevo
parlarvi. Siccome c’è posto anche per un altro, si potrebbe magari avvisare
Pierello. Sta giù dalla Pasqualetta?»
«No» rispose Igino.
«Beh, non importa: ad avvisarlo ci penso io» disse Castagna, che al pari di
Pierello abitava nella frazione Lodosa.
«D’accordo. A che ora ci troviamo qui?», chiese Ambrogio.
«Hai proprio deciso d’accompagnarci?» disse Igino mentre apriva la porta.
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
***
Alle cinque la sirena della fabbrica suonò dunque la cessazione del lavoro, e
a molti quel segnale fuori orario sembrò anche nel suono diverso dal solito, in
qualche modo misterioso e foriero di disgrazie.
Gerardo uscì dopo uno o due minuti dall’ufficio insieme coi suoi non molti
impiegati, dai capannoni stavano uscendo i circa trecento operai che - trattan-
dosi di un’industria tessile - erano per la maggior parte donne. Una volta fuori
del cancello s’incamminarono tutti verso la piazza, Gerardo frammisto agli
altri; gli camminava a lato il figlio Ambrogio. Il sentimento più diffuso era,
con evidenza, di preoccupazione.
«Stavolta è davvero la dichiarazione di guerra» diceva qualcuno.
«Siamo riusciti a starne fuori (restà fö di fastidi era l’espressione dialettale)
fino a oggi, ma dagli e dagli adesso ci caschiamo anche noi.»
Non uno sembrava approvare il passo irrevocabile che stava per essere
compiuto; gli uomini di mezza età - di cui un paio mutilati nella guerra prece-
dente - provavano inoltre una sorta di sconcerto all’idea che ci si dovesse met-
tere coi tedeschi. Com’era possibile, dopo che tanti dei nostri erano morti
combattendogli contro? Anche gran parte delle donne aveva avuto in famiglia
dei caduti, il ricordo dei quali era tuttora doloroso. A prendersela col fascismo
- siccome a Nomana in pratica non esisteva, a livello almeno delle cose serie -
non ci pensava nessuno.
Tranne Gerardo: “È una responsabilità pazzesca questa che i fascisti si as-
sumono, di portare l’Italia in guerra contro la volontà di tutti” pensava cam-
minando. “Perché chi non lo sa che come a Nomana anche nel resto d’Italia
nessuno, signore o poveretto, vuole la guerra? La guerra a fianco dei nazisti
poi!” Pensò al ministro degli esteri Ciano, ai suoi sforzi - incondizionatamente
approvati da tutti - per tenere la nazione fuori del conflitto: “Degli stessi fasci-
sti ce n’è che non vogliono la guerra, e ciononostante...” Gli si affacciavano alla
mente, mentre procedeva, gli anni lontani della sua militanza politica nel par-
tito popolare, le sue cocenti delusioni d’allora. “Eccoli i risultati di quelle be-
ghe senza fine, di quelle lotte immonde tra i partiti democratici, che nel 22
hanno condotta la nazione alla paralisi, e a un tale bisogno di ordine, da farla
cadere come una mela marcia nelle mani dei fascisti...” Lui e i militanti perife-
rici non avevano potuto fare proprio nulla contro quelle beghe irresponsabili
dei vertici.
Gli operai procedevano riempiendo la strada: gli uomini nei loro abiti mo-
desti, le donne quasi tutte in grembiule nero, impercettibilmente impolverato
di canapa; quelle persone lui le conosceva si può dire una per una, doti e difet-
ti; conosceva anche molte delle loro preoccupazioni nascoste, perché gliele
venivano a sottoporre esse stesse, a volte per un consiglio, a volte per un aiuto
economico. Quale sarebbe stata domani la loro sorte?
Lui non aveva certo ‘incolonnato’ gli operai come prescriveva la radio (“le
scemenze dei fascisti!”), stava semplicemente con loro, che di questo gli erano
grati: lo capiva dagli sguardi, dagli atteggiamenti. “Perché, grazie a Dio, nean-
che le scemenze degli altri, dei rossi - i quali sono stati in realtà la causa prima
d’ogni disordine, e quindi dell’affermazione del fascismo - nemmeno le sce-
menze rosse fanno presa su questa gente”. Specificò meglio: “Su di noi. Perché
io in cosa sarei diverso da tutti questi?” Non si sentiva certo diverso solo per-
ché adesso era industriale, lui che all’inizio era stato operaio, e poi per un cer-
to tempo impiegato tecnico, e quanto a titolo di studio era rimasto alla quinta
elementare, precisamente come tutti costoro. E in effetti la sua formazione
mentale - al pari di quella di quasi tutti gli altri industriali della zona - si man-
teneva popolare e cristiana, come quella della restante popolazione. (Proprio
questo fatto, che gl’industriali fossero d’estrazione popolare, aveva nei decenni
precedenti consentito alla cultura cristiana del popolo di venire a galla e af-
fermarsi in ogni ambito. Perché fino a quando erano prevalsi anche qui i pro-
prietari terrieri, d’impostazione liberale e massonica come nel resto d’Italia,
gli indirizzi culturali del popolo che risalivano a san Carlo e alla riforma catto-
lica, non avevano potuto esplicarsi che a livello subordinato. Da quando però
l’importanza dei proprietari terrieri era stata surclassata e addirittura cancel-
lata da quella degli industriali d’origine operaia, l’ambiente della Brianza si
era fatto uniformemente ‘bianco’. Di ciò l’autodidatta Gerardo - e non lui solo
- non aveva tuttavia cognizione.)
Al fianco di Gerardo suo figlio Ambrogio rimescolava pensieri affatto diver-
si: pensava a quelli che in questo momento si trovavano sotto le armi, a suo
cugino Manno anzitutto, che per lui era come un fratello, e ai suoi due compa-
gni Pierello e Igino. In che situazione si sarebbero venuti a trovare tra qualche
ora? Li avrebbero scaraventati subito nella fornace che certo si sarebbe forma-
ta al confine francese? A lui pareva infatti scontato che fin da domani, anzi da
stasera stessa, si sarebbe formato al confine con la Francia un tremendo fron-
te di combattimento, analogo a quello che c’era stato con l’Austria nella guerra
precedente.
Mentre il giovane rimescolava tali pensieri gli capitò d’incontrare lo sguar-
do d’un operaio, il meccanico Luca, di due anni più anziano di lui e perciò coe-
taneo di Manno, del quale anzi questo Luca era buon amico fin dal tempo del-
la scuola elementare: Ambrogio fece istintivamente a Luca un cenno di saluto
e di preoccupazione insieme.
Il meccanico, che camminava pochi passi più avanti, si fermò e lo attese: era
un bel ragazzo dalle spalle robuste, con un ciuffo di capelli attraverso la fronte.
«E Manno?» chiese non appena raggiunto: «Cosa diavolo gli succederà ades-
so?»
«Me lo stavo appunto domandando» rispose Ambrogio.
«Ho paura che lui si troverà subito nel bagno.»
«In questo momento è al corso ufficiali: dovrebbe finire in agosto. Vuoi che
lo mandino addirittura al fronte?»
«Mah» disse Luca «queste cose io non le so. Si trova a Pesaro, è vero?»
Ambrogio annuì: «Sì. Ma dì, e i tuoi fratelli?»
Il meccanico allargò preoccupato le braccia: «Anche loro chissà.» «Dove
sono adesso?»
«Tutt’e due sopra Bolzano.»
«Alpini vero?»
Luca fece segno di sì, poi precisò meglio: «Angiolino (’El me Angiulin’) è ar-
tigliere da montagna.»
Gerardo, che aveva seguito in silenzio lo scambio di frasi, fece a Luca un
cenno di simpatia. Sapeva quanto fosse amico di suo nipote Manno, ricordò
anzi di avere molto approvato, a suo tempo, che i suoi figli (dunque anche
Manno) seguitassero a frequentare, una volta divenuti collegiali, i loro ex
compagni di scuola operai. «Questo vi aiuterà a tenere i piedi sulla terra»
usava dire allora.
Alle finestre delle case erano affacciate un po’ di donne e di bambini che
guardavano tutta quella gente passare. Sull’uscio della farmacia c’era il farma-
cista dottor Agazzino, in camice bianco: salutò Gerardo con un cenno della
testa. L’industriale gli rispose cortesemente sollevando la falda del cappello;
ricordò che anche il farmacista - piacentino d’origine - era stato al suo paese
un attivo militante del partito popolare. “Per quello che è valso...” pensò.
Poco mancava alla piazza quando il signor Ermanno Ghezzi, magazziniere,
che camminava sull’altro lato di Gerardo, pensò bene di riferire un episodio di
guerra. «Mio padre nella grande guerra era sergente delle salmerie» cominciò:
«Sapete che uomo era mio padre, non c’era da scherzare con lui. Una volta che
un conducente di muli, per non percorrere un tratto battuto dalla mitraglia...»
si addentrò in una storia intricata. I circostanti - Ambrogio compreso - avreb-
bero preferito non essere disturbati nei loro pensieri, ma finirono col prestar-
gli attenzione.
CAPITOLO UNDICESIMO
Quella sera in casa di Gerardo il rosario quotidiano venne recitato con più
impegno del solito. Le donne - cioè la madre Giulia, e le due figlie maggiori:
Francesca, di diciassette anni e Alma di tredici - erano emozionate, per cui
anche Giudittina, che di anni ne aveva solo cinque, si sforzava di pregare con
devozione, e spalancava a tal fine gli occhietti azzurri per non farseli chiudere
a tradimento dal sonno, come non di raro le succedeva durante quella pre-
ghiera.
«Oggi il rosario lo diciamo per Manno e per la nostra patria» aveva annun-
ciato all’inizio la madre. I giovani maschi non intendevano però lasciarsi sug-
gestionare: «Capito? Dunque per te no» aveva sussurrato, scherzando,
all’orecchio di Ambrogio il fratello che per età lo seguiva, il sedicenne Fortu-
nato. Accettando lo scherzo Ambrogio aveva allargate le braccia: «Vuol dire
che per me pregherete tra qualche giorno, quando sarò anch’io sotto le armi.»
Ad ogni modo, a differenza di Fortunato che a sedici anni già rivelava una
struttura mentale laica e tutta rivolta agli affari, Ambrogio si era poi dedicato
alla preghiera con impegno, come del resto faceva con qualsiasi cosa intra-
prendesse. Al pari degli altri maschi, inclusi il quindicenne Pino e il settenne
Rodolfo, egli aveva risposto al rosario camminando avanti e indietro nella sa-
la, al modo d’ogni sera; le donne invece, che d’abitudine pregavano sedute,
s’erano inginocchiate sulle loro sedie. Già un po’ sfiorita a quarantacinque an-
ni (non s’era mai curata molto del proprio aspetto) la madre poneva nella pre-
ghiera tutta l’intensità e l’ardore di cui era capace. Era profondamente creden-
te e lo spirito le corrispondeva, cosicché - al pari di certe donne del popolo
quando pregava suscitava negli astanti la sensazione che la prima e più vera
realtà per lei non fosse quella terrena e visibile, bensì l’altra, quella trascen-
dente. Francesca e Alma cercavano di seguire il suo esempio: di temperamen-
to sereno la prima, aveva capelli castani avvolti attorno alla testa e, in contra-
sto, occhi azzurri, e il viso leggermente allungato, molto espressivo; la secon-
da, Alma, (di tredici anni come s’è detto) era tutta castana e aveva lineamenti
più regolari, addirittura perfetti, in pari tempo però così insuscettibili
d’espressione, da sembrare una statuina (i fratelli la chiamavano appunto ‘la
statuina’ o, più spesso, ‘il gattino di marmo’).
Le invocazioni uguali del rosario si succedettero: nell’intendimento di Giu-
lia (e per riflesso di tutti gli altri) erano simili ciascuna a un toc, toc, all’uscio
dell’aldilà, secondo quell’invito del vangelo: bussate, non stancatevi di bussa-
re, e vi sarà aperto.
Per parte sua Ambrogio chiese con fede alla madre comune, lasciataci da
Cristo in croce, di aiutare l'Italia “che oggi s’è intruppata in modo così scervel-
lato coi nazisti: tu però non puoi abbandonarlo un popolo come il nostro che,
al di là delle scempiaggini che combina, ha sempre avuto e ha per te un amore
autentico...” La invocò inoltre per la salvezza personale di suo cugino Manno e
dei singoli conoscenti alle armi, citandoli mentalmente uno per uno; infine le
chiese di proteggere tutti quanti i soldati italiani, e qui gli parve di pregare un
po’ anche per sé stesso, che certo entro qualche giorno sarebbe stato soldato.
Come sottofondo alla preghiera comune la pendola, sul mobile più lungo
della sala (un copricalorifero in liste di rame intrecciate) scandiva monotona i
secondi: nella sera tranquilla quello pareva il rumore del tempo che passava.
II
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Un paio di giorni dopo, nel pomeriggio del 14 giugno, Stefano partì. Ambro-
gio non lo accompagnò in macchina al distretto, perché adesso la macchina
veniva impiegata - e con molta parsimonia, essendo la benzina fortemente
razionata - soltanto per le necessità dell’industria. Del resto poiché lui, come
studente, sarebbe a quanto pareva rimasto a casa nonostante la dichiarazione
di guerra, si sarebbe vergognato un po’ ad accompagnare i partenti. Stefano
raggiunse dunque da solo la stazione di Nomana, dove trovò pochi altri co-
scritti in attesa del treno: contro ogni aspettativa infatti la mobilitazione avve-
niva in modo piuttosto diluito, e se c’erano partenze quasi tutti i giorni, non
c’erano però partenze massicce.
Essendo un po’ in anticipo il giovane si dispose ad attendere accanto agli al-
tri sull’unico marciapiede interno, mettendosi a braccia conserte, nella posa
involontariamente importante dell’uomo attivo che si ritrova a un tratto senza
niente da fare. Ai suoi piedi c’era una valigetta di fibra d’inconsueta forma pa-
rallelepipeda, che sua sorella Giustina aveva comperato coi propri risparmi in
paese la sera prima. Con diffidenza contadina Stefano controllava ogni tanto
con la coda dell’occhio che fosse sempre lì: la valigetta conteneva, insieme con
la biancheria di ricambio e i pochi oggetti per la pulizia, un dolce, una torta
‘paesana’ che la madre aveva preparato con le proprie mani. “La mamma!”
pensò il ragazzo scuotendo a un tratto commosso la testa. “Di cosa non si
preoccupano le donne! Ha voluto a ogni costo prepararmi la torta.” Gli tornò
in mente che la torta ‘paesana’ era il dolce preferito dal suo amico Ambrogio,
gliel’aveva sentita lodare più d’una volta: “E ha ragione, è vero, è proprio buo-
na” convenne. “Ambrogio in questi giorni è un po’ mortificato perché noi par-
tiamo e lui invece resta a casa... Non capisce che di ogni fortuna, anche di que-
sta, bisogna essere contenti. Beh, sono contento io per lui”.
Da un’aiuola prossima al marciapiede un cespuglio fiorito di lillà spandeva
intorno il suo buon profumo; in mancanza d’altro Stefano finì con
l’interessarsi all’arbusto e gli si accostò: notò che al suo piede cresceva una
piccola folla di viole del pensiero alte un palmo, dai colori vivaci, sgargianti; si
chinò ad esaminarle con interesse quasi professionale. A tale gesto un coscrit-
to che stava a pochi passi da lui si fece avanti: «Cosa guardi?»
«Questi fiori. Noi a coltivare un po’ di fiori non ci pensiamo mai. E sì che in
fondo non sarebbe gran fatica.»
«Qualche volta le donne di casa ci pensano.»
«Beh, ma poca roba, qualche garofano o geranio, e di solito in vaso, non co-
sì in piena terra.»
L’altro mutò espressione e lo guardò curiosamente: «Ehi, ti senti forse un
signore, siccome adesso non hai niente da fare, che pensi a seminare prose di
fiori?» Si rivolse a un terzo coscritto che attendeva nervoso, ora su un piede
ora sull’altro, guardando di qua e di là: «Dì, Giovannino. A Stefano qui, sic-
come adesso non ha niente da fare, gli pare d’essere un signore, lo sai? Parla
di seminare prose di fiori.» Aggiunse: «Io invece no. Io, toh, se avessi anche
solo pochi metri di terra in più, anche un metro soltanto, ci pianterei cipolle
invece. Guarda un po’. Eh, cosa ne dici?»
Giovannino, garzone di fornaio, col viso pallido che pareva sempre infarina-
to (lavorava di notte, e di giorno quando c’era il sole dormiva) si avvicinò:
«Voi facce di palta di villani pensate solo alla terra» disse. «Siam qui che non
sappiamo come finiremo, se stasera dormiremo al pulito o sulla paglia, e voi
pensate alle prose e alle cipolle.»
Stefano scoppiò a ridere divertito. Giovannino fermò l’attenzione sul suo
bagaglio. «Cos’hai lì, in quella specie di valigia quadrata?» domandò: «Oltre
alle calze sporche voglio dire.»
«C’è una torta ‘paesana’» gli rispose Stefano: «Per me e per gli amici.»
«Ah, ecco un discorso sensato» approvò Giovannino, che tra l’altro, come
fornaio, di torte era intenditore; ma già ricominciava a guardarsi intorno ner-
voso.
Anche Stefano finì col guardarsi intorno: delimitava la stazione, appena al
di là delle due coppie di binari, uno di quegli steccati in calcestruzzo di ele-
menti in serie che allora proteggevano quasi dovunque le linee ferroviarie
all’interno degli abitati. Subito oltre lo steccato c’era un piccolo stabilimento,
una trafileria, due volte fallito come tutti sapevano, e ora in stato di semiab-
bandono, con qualche vetro rotto e l’erba che cresceva nel cortile. Le stesse
erbacce - code di cavallo e simili - crescevano anche tra i binari: e questo fatto,
che il verde non cedesse facilmente, che la vita anche dopo respinta si rifaces-
se avanti per occupare almeno gli spazi non calpestati, incontrava l’inconscia
approvazione del ragazzo contadino. Al di là della trafileria aveva inizio la
grande conca verde che si allargava a perdita d’occhio verso nord: anche verso
casa sua dunque, e verso Beolco, e più oltre verso l’anfiteatro delle montagne.
Le quali a quest’ora - Stefano notò - erano incantevoli a vedersi, col sole che le
illuminava di traverso, e ne faceva risaltare pieghe e rilievi: “Ve’ la bella vista
di cui parlava Ambrogio” si disse.
Un campanello elettrico attaccò a trillare con insistenza, se ne aggiunse un
secondo, il giovane li cercò con gli occhi: stavano appaiati sulla facciata della
stazione, sotto una piccola tettoia di lamiera alla quale le vespe avevano appe-
so il loro nido. Disturbati dal duplice suono gli insetti svolazzavano con ira
attorno ai due campanelli: “A ciascuno i suoi fastidi” pensò il giovane. Un fer-
roviere uscì da una porta e, senza guardarle, manovrò con gesti da automa
certe leve di ferro sporgenti dal marciapiede. “Deve aver chiuso i passaggi a
livello. Ma perché tutt’e due? Son forse due i treni in arrivo?”
CAPITOLO QUINDICESIMO
***
Quattro ore dopo saliva nella stazione di Monza su un più lungo e più mas-
siccio treno, diretto a Milano. Era, nientemeno, ‘capo comitiva’ d’una dozzina
di reclute avviate al Terzo reggimento bersaglieri, cioè a uno dei reggimenti
più prestigiosi dell’esercito. Particolare, quest’ultimo, ch’egli ignorava, e che
del resto in quel momento non l’avrebbe interessato; in quanto lo impegnava
già a sufficienza un’altra cosa: che gli undici ragazzi i cui nomi erano iscritti
sulla ‘bassa di passaggio’ affidatagli al distretto (“perché proprio a me? Cosa
gli è passato per la testa a quel maresciallo?”) arrivassero tutti insieme e in
buon ordine alla caserma dei bersaglieri.
CAPITOLO SEDICESIMO
***
Un mattino che a quel rumore si era accompagnato il canto delle operaie, il
ragazzo aveva alzato il capo dai prospetti paga, distraendosi ad ascoltarlo. Di
solito - come appunto quel mattino - le operaie cantavano canzoni popolari
(specialmente della montagna, ‘Quel mazzolin di fiori’ e simili), ma a volte an-
che canti sacri, in italiano o in latino, sopratutto le litanie del rosario, che sin-
golarmente s’accordavano col loro ritmo al ritmo sempre uguale dei telai.
“Chissà perché non cantano mai le canzonette in voga?” si chiese a un tratto
Ambrogio. “Beh, probabilmente perché gli riescono estranee, non le sentono
loro... Dai, cerchiamo di non distrarci”. S’era rituffato nei suoi prospetti, ma
quando dopo forse mezz’ora il canto era cessato, aveva avuta l’impressione
che gli venisse a mancare qualcosa.
Terminata la compilazione dei fogli paga si era alzato in piedi: «Vado a dare
un’occhiata in fabbrica» aveva comunicato alle due impiegate.
Spinse una porticina interna che, non appena dischiusa, riversò nell’ufficio
un’improvvisa ondata di fragore più forte; subito dopo il suo passaggio la por-
ticina si serrò vivacemente alle sue spalle sospinta da un meccanismo a molle.
Ecco davanti a lui i telai da cui veniva tutto quel rumore: erano sistemati in
righe parallele, e azionati da sovrastanti pulegge, le cui cinghie di trasmissione
in cuoio giravano veloci. Sotto l’occhio attento delle tessitrici le navette anda-
vano e venivano fulminee, al loro movimento s’alternava quello delle casse
mobili che, dopo ogni passaggio della navetta, battevano con maggiore o mi-
nor forza sulla trama una o due volte, a seconda della compattezza da dare al
tessuto.
Ambrogio cominciò il suo giro d’ispezione. In determinati punti lo schiera-
mento dei telai era interrotto da altre macchine: incannatoi, orditoi dagli in-
numerevoli fili orizzontali, binatrici, ritorcitoi, cantre. Ad alimentare tutte
queste macchine provvedevano dei facchini in tuta color cachi, che sospinge-
vano per le corsie carrelli dalle ruote cerchiate di ferro carichi di filato in roc-
che, o avvolto su grossi subbi; quasi tutti quei facchini avevano un’aria con-
centrata, seria. Procedendo lentamente il ragazzo andava con gli occhi dal tes-
suto di un telaio a quello di un altro, si soffermava per qualche istante a osser-
vare una lavorazione più interessante, salutava a momenti, con un cenno del
capo, un operaio o un’operaia ch’erano stati suoi compagni di scuola o che per
altri motivi conosceva bene.
In fondo a una doppia riga di grandi telai lavorava Giustina, la sorella di
Stefano: al pari delle altre tessitrici indossava un grembiule nero e aveva i ca-
pelli raccolti in una reticella. Prima d’arrivare alla sua altezza Ambrogio supe-
rò una sezione di piccole macchine, le spoliere, dove Marietta ‘delle spole’, con
la sua larga faccia gialla sempre un po’ spaventata, insegnava da mattina a se-
ra (pe-ren-ne-men-te, sembrava suggerire il ritmo dei telai) alle ragazzine ap-
pena assunte la prima e più elementare operazione tessile: quella appunto di
confezionare le spole; per non metterla in imbarazzo Ambrogio evitò di guar-
dare dalla sua parte. Appena scortolo infatti Marietta era, al solito, entrata in
agitazione, e senza motivo aveva cominciato a incitare con gesti e sussurri le
sue ragazzine a far meglio, ad assolvere con più precisione le loro piccole in-
combenze.
Giunto all’altezza di Giustina Ambrogio la salutò con un cenno del capo.
Anche nei rari casi in cui gli capitava di fermarsi a osservare il tessuto che in-
sensibilmente scendeva dai suoi due telai, il giovane in fabbrica evitava di ri-
volgerle la parola, dal canto suo Giustina si manteneva altrettanto impersona-
le. Stavolta appariva invece imbarazzata; come mai? Ambrogio ricordò che
anche l’ultima volta ch’era passato di qui - qualche giorno prima - aveva nota-
to nella ragazza un certo imbarazzo: “Ci sarà forse qualche difetto nel tessuto”
s’era detto allora: “tiriamo dunque avanti e non fermiamoci”. Subito dopo
aveva però visto - curvo su un ginocchio e intento a controllare il meccanismo
d’uno dei telai di Giustina - il meccanico Luca, quel coetaneo di suo cugino
Manno col quale aveva raggiunta la piazza il giorno della dichiarazione di
guerra. A Luca aveva fatto un cordiale cenno di saluto; al che l’altro s’era alza-
to in piedi: «Ambrogio, ho idea che per me la vada a pochi» gli aveva comuni-
cato.
«Ma... non hai già due fratelli alle armi?»
«Sì, però...» Luca, col ciuffo castano sulla fronte e il viso serio come sempre,
gli s’era avvicinato per farsi sentire meglio nel fragore: «Però adesso pare che
mia cognata, la moglie di mio fratello maggiore, sia incinta.» Sottolineava le
parole sventolando un cacciavite che teneva nella destra. «Aspettiamo
d’esserne del tutto sicuri e, se è così, io...» aveva fatto un gesto a significare:
dovrò partire. Poi, spiegandosi meglio: «Dovrò andar sotto al posto di mio
fratello.»
«Questo dispiacerà molto a mio padre» aveva osservato Ambrogio «lo sai.»
Luca, dopo aver annuito allargando le braccia nel gesto abituale a Pierello,
era tornato agli ingranaggi del telaio. “Ecco perché Giustina è imbarazzata”
aveva pensato Ambrogio andando oltre: “è per quell’impiccio nel funziona-
mento del telaio.”
Qualche giorno fa sta bene, ma adesso? Come mai anche stavolta la ragazza
appariva imbarazzata? Il giovane non sapeva cosa pensare, quando notò che
per un passaggio minore tra i telai stava arrivando ancora una volta Luca.
“Che sia dunque a causa di Luca? Ma perché tanti problemi?” In quel punto
Giustina - che andava con gli occhi dal principale al meccanico - scoprì che
nell’ordito d’uno dei suoi telai un filo si era spezzato: richiamata di colpo al
lavoro, fermò lo macchina con un movimento così brusco da far cadere una
cassettina di spole male appoggiata; alcune spole rotolarono sul pavimento.
Ambrogio fu in forse se aiutare la ragazza a raccoglierle, ma intuì che Giustina
non avrebbe gradito tale attenzione e andò oltre. Non così Luca, che si precipi-
tò sulle spole: dal gesto, di per sé inconsueto (visto che il materiale caduto non
era pesante), e ancor più dall’espressione del viso di lui, Ambrogio credette di
scoprire che Luca voleva bene a Giustina. “Ah, ecco” si disse: “tutto diventa
chiaro allora. Ma guarda!” E mentre proseguiva nel suo giro: “Chissà come
prenderanno la notizia Stefano e la mamm Lusìa e gli altri della Nomanella?”
Convenne che ne sarebbero stati lieti perché Luca era un ragazzo in gamba,
uno dei più in gamba del paese. Così, se adesso lui non stava prendendo un
granchio, a Nomana ci sarebbe stata presto una novità: Luca avrebbe chiesta
la mano di Giustina. “Bisogna che dica a Francesca di scriverlo a Manno.
Quando potranno sposarsi però?” C’era quel fatto che Luca avrebbe dato il
cambio a suo fratello alle armi: “Anche questa è una cosa da scrivere a Man-
no... Beh, come che sia la guerra non potrà mica durare in eterno.”
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
***
Oltre che nella lettura Ambrogio spendeva i pomeriggi in passeggiate. Ma-
gari in autocarro, visto che l’automobile non la poteva ormai più usare a tale
scopo. Adesso l’autocarro della ditta faceva più spesso di prima trasporti a di-
stanza, specie a Torino, o a Genova, o nei loro dintorni, dove c’erano clienti
nuovi che lavoravano per gli arsenali (anche diversi dei vecchi avevano comin-
ciato a produrre per l’esercito e per la marina). Il giovane, che non dimentica-
va l’origine operaia della propria famiglia, non solo non trovava disdicevole
viaggiare in autocarro, ma avrebbe volentieri dato una mano all’autista nella
guida, se quello l’avesse gradita. Quello però (di nome Celeste e - sull’esempio
di Gerardo - padre di numerosa figliolanza) mentre mostrava di gradire la
compagnia e i discorsi del ragazzo, non voleva saperne di essere aiutato da lui:
«Non sono mica un vecchietto che ha bisogno d’aiuto» diceva.
«Ma così, non capisci? mi fai viaggiare come un turista» gli obiettava Am-
brogio: «né più, né meno.»
«E ti lamenti?» gli rispondeva l’autista. Sorrideva con gli occhi color azzur-
ro cielo, a motivo dei quali i suoi genitori gli avevano appunto dato il nome di
Celeste.
Assai più spesso che in autocarro Ambrogio faceva tuttavia passeggiate in
bicicletta: ai vicini laghetti della Brianza per esempio, o al lago di Como, oppu-
re alla campagna bergamasca, simpaticamente rustica, dove le case contadine,
dai singolari ballatoi di legno, erano diverse che in ogni altro luogo.
In tali minime cose trascorse, giorno dopo giorno, il resto di quel fatale me-
se di giugno, e poi il mese di luglio.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Il successivo mese d’agosto Ambrogio, per esplicito invito di suo padre
(«Deciditi, va a immagazzinare un po’ di sole, che non sai cosa ti riserva il fu-
turo. - Papà, magari una cura intensiva d’Africa mi riserva. - Beh, anche in
Africa si possono prendere i reumatismi») lo trascorse al mare, a Cesenatico.
Durante il viaggio in treno egli aveva avuto il tempo per riflettere sulla
preoccupazione del padre, che questa feria gliel’aveva quasi imposta: “Lui che
ferie non ne prende mai, e addirittura le trova incomprensibili. E lo strano è
che un po’ tutti in ditta finiscono col pensarla come lui...” Col bel risultato che,
su trecento dipendenti, le ferie le facevano quasi solo le impiegate dell’ufficio.
E se a volte qualche impiegato maschio decideva d’utilizzarle, anziché di farse-
le pagare lavorando, aveva l’impressione di compiere un’azione poco virile.
“Questa ad ogni modo è una vera e propria sciocchezza, anzi è una cosa ingiu-
sta” aveva risolto il giovane: “Quando ci sarò anch’io in ditta, su questo punto
le cose dovranno cambiare. Penso che almeno i giovani - Luca per esempio -
mi daranno ragione”. Tuttavia non se ne sentiva proprio sicuro, tanto quel
costume a Nomana era consolidato.
Con l’avvicinarsi della costa il cielo s’era andato facendo gradatamente più
chiaro, più luminoso, come se l’enorme specchio delle acque vi si riflettesse;
anche il paesaggio s’era fatto sensibilmente più chiaro, e questi colori e altri
particolari dell’ambiente, avevano evocato un po’ alla volta nell’animo del gio-
vane sensazioni da lungo tempo dimenticate, per le quali era passato nei lon-
tani anni dell’infanzia in occasione dei primi viaggi al mare. Non era però tipo
da indugiare in simili cose, e aveva quindi lasciato che le sensazioni si disper-
dessero (si sarebbero disperse anche suo malgrado del resto: del passato non
possiamo recuperare che qualche raro scampolo a volte, e quasi solo per il
tempo occorrente a vederlo disfarsi).
Alla stazione di Cesenatico aveva chiamato una carrozzella, vi aveva caricata
la valigia, e s’era fatto accompagnare a una, due, tre pensioni che teneva men-
talmente in nota dall’anno prima, quand’era stato qui nella colonia del suo
collegio. L’ultima delle tre, la pensione Iris, quasi nuova, pulita, circondata da
un giardinetto sabbioso che dava direttamente sulla spiaggia, gli era sembrata
la più adatta: vi aveva senza problemi trovata una camera. Questa facilità di
trovare posto al mare nel mese d’agosto, nonché la presenza di militari in mol-
te delle stazioni attraversate, erano stati gli unici fatti a ricordargli quel giorno
la guerra in corso.
***
Lavatosi e ravviatosi sveltamente, era sceso in sala da pranzo a tempo per la
cena. Veniva dalla sala un discreto cicaleccio che si attutì di colpo e quasi ces-
sò al suo apparire: gli occhi dei pensionanti seduti ai tavoli - una trentina di
persone - si appuntarono su di lui.
«Buona sera a tutti» egli disse con spigliatezza un po’ forzata, e andò a
prender posto a un tavolino libero.
Seduto che fu, il cicaleccio riprese. Adesso era il suo turno di passare in rivi-
sta gli altri; li esaminò con discrezione. “Dopo tutto” pensava con una incon-
scia punta di timidezza “questa compagnia non m’interessa. Ho qui a portata
di mano la colonia del collegio: sono venuto a Cesenatico per questo”.
La compagnia che non lo interessava era costituita in prevalenza da madri
con bambini, da alcuni padri di famiglia, da ragazzi d’età varia, e da tre o quat-
tro ragazze. A queste, com’è naturale, finì col circoscrivere la propria attenzio-
ne, finché ritenne d’averle esaminate abbastanza: “Basta” disse a sé stesso,
“può bastare”. Ma anche dopo tale risoluzione, mentre mangiava la sciapa
zuppa di verdura che gli avevano portato (ecco un’altra cosa che ricordava la
guerra) ogni tanto, suo malgrado, tornava a osservarle. A voler essere precisi
ne osservava ormai una sola, la più carina, che sedeva con la propria famiglia
a un tavolo vicino.
Era di statura media e ben proporzionata, con capelli corti biondo oro, gli
occhi grigi e una singolarità nella bocca: quando rideva i due canini appariva-
no lievemente sporgenti rispetto agli altri denti: ciò conferiva al suo viso un
che di vagamente felino, tutto sommato non spiacevole. “Una tigretta, ecco
cos’è: è una tigretta” sentenziò Ambrogio. “Carina però. Devo riconoscere che
è carina”.
La tigretta si accorse presto che il giovane di tanto in tanto l’osservava, e lo
sbirciava a sua volta, per controllare se continuasse a interessarsi a lei. Cosa
che divertì Ambrogio e nello stesso tempo lo determinò a contenere i propri
sguardi.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
La mattina dopo il giovane uscì dal giardinetto della pensione sulla spiag-
gia; era in tenuta da bagno, impugnava una borsa a sacco col costume di ri-
cambio.
La spiaggia di Cesenatico - molto larga, e in quell’anno non affollata - si
stendeva verso destra a perdita d’occhio: da quella parte oltre un certo limite
non era più utilizzata dai bagnanti, e una magra vegetazione e festoni di rima-
sugli depositati dalle onde la macchiavano qua e là. Verso sinistra, cioè verso il
centro della cittadina, il vecchio porto-canale protendeva i suoi due moli nel
mare: da questa parte gli ombrelloni colorati e le sedie a sdraio erano alquanto
più fitti, e così le cabine di legno, che per qualche tratto formavano addirittura
una fila continua. Non che, con questo, non ci fosse abbondanza di spazio an-
che qui.
Ambrogio notò che seduti sulle sdraio o allungati sulla sabbia accanto agli
ombrelloni più vicini, c’erano già diversi ospiti della pensione, e tra gli altri la
‘tigretta’ che inforcava un paio d’enormi occhiali scuri da sole, e portava in
cima alla testa bionda un cappelluccio a cono. Alcuni alzarono gli occhi verso
di lui: forse avrebbero gradito che prendesse posto accanto a loro. Ma - e an-
che stavolta, adolescente com’era, fu la timidezza a determinarlo - egli risolse
che non sarebbe stato male trascorrere quella prima mattina ai bagni del col-
legio.
Per raggiungere i quali s’incamminò verso destra. Ne conosceva bene
l’ubicazione e del resto li avrebbe trovati in ogni caso, tanto inconfondibile era
la loro atmosfera ecclesiastico-ambrosiana (allegra nel senso un po’ prosaico
in cui i milanesi intendono la letizia cristiana, e sopratutto concreta, e trasu-
dante buon senso.) Li indicava anche una bandieretta blu con lo stemma del
collegio - uno stemma quasi olimpico, costituito da tre anelli intrecciati,
l’antico stemma di san Carlo Borromeo - che sventolava briosa in vetta a un
palo. Giunto all’altezza della quale il ragazzo lasciò la fresca battigia del mare,
su cui era venuto avanti a passi fiduciosi (i passi della giovinezza), e tagliando
obliquamente l’arenile puntò verso gli ombrelloni. Dovette, per giungervi, at-
traversare due contrapposte squadre di ragazzi che giocavano vociando a palla
a volo, con un impegno e un accanimento che fino a ieri erano stati anche
suoi: ne riconobbe parecchi, tutti più giovani di lui, e alcuni di questi lo saluta-
rono, ma serbandosi con evidenza più attenti al gioco che alla sua visita. Sedu-
ti sulle sdraio all’ombra o al sole trovò il vicerettore del liceo e tre o quattro
professori i quali, piacevolmente sorpresi dalla sua comparsa, lo accolsero con
esclamazioni cordiali. Erano in accappatoio o in costume da bagno anziché in
veste talare, ma non per questo perdevano d’autorità. “Dove perdono pauro-
samente, se mai” constatò il giovane “è nell’estetica”. E si ripeté un proponi-
mento già altre volte formulato: “Quanto a te ricordati: fino a trent’anni e non
oltre, non un anno di più, in giro in costume da bagno.” Sedette con loro, par-
tecipò alle loro conversazioni estive, molto diverse da quelle del tempo di
scuola, più distese sopratutto.
Fece in seguito il bagno coi collegiali allorché il bagnino - romagnolo, nero e
riccio di capelli, anche quello sua vecchia conoscenza - segnalò con un fischiet-
to ch’era arrivata l’ora: tutti i ragazzi, abbandonata ogni altra occupazione, si
precipitarono di corsa in mare, levando grida e strida di: «Bagno! Bagno!»
Ambrogio nuotò fino al largo con un gruppetto di compagni più giovani ma
non meno abili di lui nel nuoto, qualcuno anche più bravo, probabile futuro
campione, che batteva il crawl con impegno, fiero di mostrargli la propria abi-
lità. Dopo il bagno fece con gli altri dietro le cabine la fila per la doccia d’acqua
dolce, quindi si allungò come tutti sulla sabbia a farsi asciugare dal sole.
Ma durante tutte queste intraprese: la conversazione, il bagno, la doccia, la
cura del sole, una figurina gli si stagliava di continuo nella mente: la figurina
della tigretta, così come l’aveva vista accanto all’ombrellone, col cappelluccio a
cono sulla testa bionda, e un pagliaccetto a strisce bianche e blu indosso.
Lo risvegliò il vicerettore che, piccolo e nero (a motivo del suo colorito scuro
i liceali lo chiamavano ‘Clero Indigeno’), gli si stava avvicinando ingolfato den-
tro un grande accappatoio bianco: «Riva, Riva, non costringermi anche tu a
fare la chioccia» (come conosceva le inflessioni di quella voce: le aveva udite
per anni!) «sei grandino ormai.» Il vicerettore teneva in mano un barattolo di
crema contro le scottature, che gli porse: «Il criterio, dove ce l’hai il criterio? È
il primo giorno, vuoi farti piagare dal sole?»
Il giovane prese con aria poco convinta il barattolo: «Queste vaseline sono
buone per le donne, i bambini e i vicerettori» disse: «comunque va beh, per
stavolta grazie.»
«Sciagurato» urlò Clero Indigeno: «Lingua velenosa, malfattore.» Era il suo
abituale modo d’esprimersi quand’era ilare; ad Ambrogio e agli altri ragazzi
tale modo riusciva congeniale e non a caso: quel linguaggio il vicerettore - co-
me del resto altri educatori dell’ultima leva - l’aveva mutuato appunto da loro,
dai ragazzi.
Ambrogio si spalmò sommariamente spalle e braccia, indi rese con un:
«Grazie don Vaselina» il barattolo al prete, il quale se ne tornò alla propria
sdraio sciabordando piccolo e nero nel grande accappatoio bianco, con una
sfilza d’interiezioni tipo: «Branco di furfanti, giovani turchi» e altre simili; al
che il ‘Geronte’ (un fulvo-canuto monsignore, professore di greco) strinse con
disapprovazione le labbra. Quanto ad Ambrogio, fattosi un po’ di silenzio, tor-
nò a pensare alla tigretta.
La rivide a mezzogiorno, durante il pranzo, trovandola ancor più gradevole.
Dopo di che, durante la pausa per il sonno pomeridiano, col sole che batte-
va caldo sulle persiane chiuse della stanza, non gli riuscì d’addormentarsi:
quella ragazza non gli voleva uscire di mente. Finì con l’alzarsi in piedi, e pas-
seggiando avanti e indietro per la stanza si costrinse a un gagliardo esame di
coscienza.
Cosa gli stava succedendo? Gli piaceva quella ragazza e va bene. Era forse
una cosa riprovevole? No, non era una cosa riprovevole, era semplicemente
una cosa naturale: la più naturale delle cose. Fin qui d’accordo, andiamo avan-
ti. In che senso avanti? In che direzione? (mentre faceva questi ragionamenti
il giovane non scherzava affatto: all’analisi era determinato a far seguire
l’azione.) “Il fatto è che mi si sta scaldando un po’ troppo il fegato, ecco il pun-
to. L’ho vista ieri sera per la prima volta, ancora non le ho parlato, non so
nemmeno come si chiami, se sia intelligente oppure un’oca, non ho la minima
idea del suo mondo interiore. E oltre tutto devo dire che mi piace sì, ma non al
punto che la sposerei: anche perché non è il mio tipo, non lo è del tutto alme-
no...” ragionamenti mescolati a fantasie: il fatto era che, cresciuto secondo i
criteri della morale di allora separatamente dalle ragazze, dava suo malgrado a
questo incontro con una di loro un’importanza molto grande. Quanto alla pro-
spettiva di un’insulsa avventura è da dire che non rientrava in alcun modo nel-
le sue vedute.
Passeggiò per la stanza una decina di minuti, fino a concludere con natura-
lezza che “il fare anzitutto la conoscenza” di quella ragazza non gli era vietato,
e che quindi “all’occasione” l’avrebbe fatta.
Sceso più tardi sulla spiaggia, e noleggiata una piccola barca a vela, prese il
mare con quella; non la dominava bene però, e siccome s’era prefisso di visita-
re fino in fondo il porto-canale, ne dovette venir fuori con suo scorno a forza
di remi; rientrò nella pensione abbastanza tardi.
CAPITOLO VENTESIMO
Dopo la cena Ambrogio era incerto su che fare. Uscire a passeggio da solo?
O andare ad aggiungersi al branco del collegio? Con il collegio no, per oggi
basta. Passeggiava irresoluto avanti e indietro nell’atrio della pensione quan-
do, seduta in penombra in una rientranza, scorse la tigretta. Era agghindata e
pronta per uscire, con uno scialle di lana bianca indosso a mo’ di stola e la
borsetta sulle ginocchia: evidentemente attendeva che scendesse qualcuno dei
suoi, forse la madre. Accanto a lei c’era una poltrona ‘incredibilmente’ vuota:
il giovane vi si diresse con prontezza. «Buona sera signorina» disse prendendo
posto.
«Buona sera.»
«Studentessa?»
«Sì.»
«Ah, bene. Allora possiamo anche darci del tu perché sono studente
anch’io. Dov’è che studi?»
«A Rho.»
«A Rho? guarda com’è piccolo il mondo.»
«Cos’intendi dire?» la tigretta gli spalancò in faccia i suoi occhi grigi:
ch’erano proprio belli a vedersi così da vicino, sembravano striati d’oro. «Io a
Rho te non t’ho mai visto.»
«A Rho? Per forza non mi hai mai visto: ci sarò stato sì e no un paio di volte
in vita mia. Come potevi vedermi?» Il ragazzo si chiese se fosse il caso di dirle
qualcosa a proposito di quei begli occhi, ma non osò. La tigretta si mise a ride-
re: «E allora perché hai detto che il mondo è piccolo?»
«Perché? Beh, perché tu sei delle mie parti, insomma del milanese. E qui,
dopo tutto, siamo abbastanza lontani da Milano, no?»
«Sì, però molti dei villeggianti sono milanesi.»
«Già.»
La tigretta rise di nuovo; adesso anche lei osservava lui: cercava di capirlo,
così evoluto in apparenza, ed evidentemente solido, e nello stesso tempo così
maldestro.
«Come ti chiami?» le chiese Ambrogio
«Patrizia.»
«Io Ambrogio anzi, scusa, non mi sono ancora presentato.» Si alzò in piedi,
le tese la mano e pronunciò il proprio cognome: «Riva.»
«Malinverni» cinguettò la tigretta, tendendo a sua volta la mano, e rise
un’altra volta. «Caspita, che cerimonia» commentò.
«Un po’«di formalismo quando ci vuole ci vuole» sentenziò il ragazzo. Che
si sentiva ora incantato dall’impressione che gli aveva fatto la mano di Patri-
zia: un’impressione ch’egli sommariamente qualificò “d’ordine estetico”; non
avrebbe mai creduto che una mano - una semplice mano, sia pure con le un-
ghie laccate - potesse riuscire così gradevole. “Accidenti” pensò “che capolavo-
ro le donne!”
«Andiamo avanti nell’esame» proseguì: «Hai detto che sei studentessa: di
che cosa? e di che anno?»
Patrizia però, rizzatasi alquanto, guardava adesso oltre il giovane in dire-
zione delle scale; anche Ambrogio girò la testa: debitamente abbigliata per
uscire, e coi capelli raccolti a pugno sul sommo della testa, la madre di lei sta-
va scendendo le scale. Era una signora tra i quaranta e i cinquanta, assai ben
conservata, e in quel momento si muoveva con strana solennità come se tutti
la stessero guardando, mentre - notò Ambrogio - nessuno dei pochi presenti la
guardava; chissà, forse era lei a guardare mentalmente sé stessa.
«Mamma, son qui» l’avvertì la ragazza, agitando una mano. La madre si fe-
ce di colpo più spontanea, e terminato che ebbe di scendere le scale andò ver-
so i due; Ambrogio si alzò in piedi e si presentò col dovuto formalismo, per
attenerci alla sua espressione di poco prima. La signora gli strinse la mano in
modo materno: «Milanese? Studente eh? Vedo, vedo. Ma che bravo...» adesso
si comportava precisamente come, secondo il giovane, c’era da aspettarsi da
una signora proveniente da Rho.
«Noi, Tricia e io, andiamo alla gelateria: quella che si trova all’angolo della
piazza grande, sa dov’è? Mio marito e le bambine ci aspettano là. Siamo già in
ritardo, viene anche lei?»
«Sì, grazie, con piacere.» E istintivamente, per tenersi aperta un’eventuale
via d’uscita: «Dovevo giusto andare da quella parte.» Mentre camminavano
sul marciapiede di terra battuta, piantato a pini marittimi, tra la gente che via
via raffittiva, ad Ambrogio sarebbe piaciuto conversare con Patrizia, anzi Tri-
cia, come adesso la sentiva chiamare dalla madre. Senonché la signora - che
camminava in mezzo ai due (proprio lui aveva correttamente cambiato posi-
zione per farla stare nel mezzo!) - parlava senza smettere, e così non c’era
niente da fare.
Illuminava le cose l’ultima luce del giorno: si distinguevano ancora, seppure
a fatica, i colori vivaci degli indumenti balneari indosso alla gente, le fogge dei
soprabitini estivi delle donne, i loro lunghi scialli più o meno colorati; degli
uomini risaltavano stranamente le scarpe, a metà bianche e a metà scure, se-
condo la moda del tempo. Presto, pensò Ambrogio, sarebbe sceso del tutto il
buio, ma la gente non avrebbe rinunciato a passeggiare al lume delle stelle, le
quali emettono una luce molto debole però sufficiente (come tanti stavano
scoprendo in quei primi tempi d’oscuramento) per camminare di notte. Forse
sotto le stelle - fantasticò il ragazzo - il caschetto d’oro dei capelli di Tricia
avrebbe brillato quasi come una lampada...
Giunto davanti alla gelateria egli si rese conto, a un tratto, che non gli reg-
geva l’animo di sottostare anche alla cerimonia della presentazione al padre,
‘il dottore’ come lo chiamava la madre, e mettendo avanti un impegno piutto-
sto confuso, prese congedo dalle due donne. «Ci vediamo domani, eh?» gli
disse Tricia, in maniera gentile.
«Sì, domani» le rispose il giovane, «sulla spiaggia.»
CAPITOLO VENTUNESIMO
Quando l’indomani Ambrogio uscì dal giardinetto della pensione sulla
spiaggia, Tricia era già là - in costume rosso stavolta, ma sempre col cappel-
luccio a cono in testa - sdraiata presso il suo ombrellone a prendere il sole. Lo
salutò allegra, agitando una mano. Il giovane lanciò la borsa a sacco col co-
stume di ricambio sotto l’ombrellone, e sedette sulla sabbia accanto a lei.
«Ciao. Vedo che sei piuttosto mattiniera» disse.
«Beh, m’è sempre piaciuto alzarmi presto.»
«Brava figliola» fece Ambrogio imitando la voce del vicerettore Clero Indi-
geno, che tuttavia l’altra, come ovvio, non conosceva: «brava e virtuosa figlio-
la.»
Tricia sorrise: «Penso semplicemente che sia da fessi non godere il sole del
mattino. Non sei d’accordo?»
«Certo. A proposito, mi fai venire in mente che ieri sera non ho finito il mio
interrogatorio. A che punto eravamo rimasti? Ah, stavamo parlando degli stu-
di. Avanti dunque: che studi fai?»
«Per il momento il liceo. Ho finita la seconda.»
«Dove, a Rho?»
«No, a Milano. Al Berchet.»
«Ah, non a Rho per fortuna. Volevo ben dire io.»
«Perché?» chiese lei incerta: «Sei prevenuto nei riguardi di Rho?»
«Certo» rispose lui «e lo domandi? Quale animo bennato non è prevenuto
nei riguardi di Rho?»
Tricia rise. Seguitarono a conversare a quel modo; il ragazzo prendeva ogni
tanto con la destra una manciata di sabbia e la faceva scorrere con lentezza tra
le dita del pugno: “Noi come la rena” pensava, quasi fosse presago delle vicen-
de cui stava per prendere parte; in realtà non lo era, ma la compagnia della
ragazza gli faceva superare la piattezza consueta. La spiaggia intanto andava
un po’ alla volta popolandosi, altri ombrelloni venivano aperti; arrivarono an-
che le due sorelline di Tricia, sui cinque e sei anni che, dopo avere, serie serie,
salutato Ambrogio con una sorta di sgambetto che nelle loro intenzioni costi-
tuiva un inchino, si misero a giocare con impegno: portarono allo scoperto,
scavando con le loro palettine, la sabbia umida, e presero a riempirne certi
stampi di latta vivacemente colorata, sagomati a forma d'animali e di pupazzi.
“Presto” pensava il giovane “arriveranno anche il padre e la madre. Biso-
gnerebbe trovare il modo di sgombrare prima. Cosa potrei proporre? Una gita
in moscone? O con la barchetta a vela?” finché si ricordò del Rubicone.
«Senti Tricia, ho un'idea luminosa.»
«Sì?»
«Sei mai stata al Rubicone?»
«Cosa... Cosa intendi dire?» Era un po’ sorpresa: «Che metafora è
questa?»
«Cosa c'entrano le metafore?» adesso era il giovane a non capire. Poi si rese
conto: «Ah tu credi che io parli in modo figurato, per metafora? No, macché,
niente metafore: ti sto parlando in modo realistico. Diciamo più o meno nello
stile di Giovanni Verga. l'avete già studiato Giovanni Verga? o forse siete un
po’ indietro, al liceo Berchet?»
Tricia scosse la testa divertita. In effetti il parlare con una ragazza rendeva
Ambrogio abbastanza spiritoso.
«Il Rubicone» egli continuò «tanto per cominciare devi sapere che è un
fiume.»
«Grazie, fin lì ci arrivo» disse Tricia, «anche al Berchet fin lì ci arriviamo.»
«Ecco» disse Ambrogio «questo non me l'aspettavo, bravi. Dunque è un
fiume: fin qui ci siamo.» Poi si fermò, guardò diritto Tricia negli occhi: «Ehi,
siamo sicuri che non mi stai prendendo in giro?»
«Perché dovrei prenderti in giro?» si meravigliò lei.
«Non sai che il Rubicone è qui a due passi?» indicò col braccio: «Là in fon-
do, appena a qualche chilometro? O lo sai benissimo?»
«A qualche chilometro? Ah, per forza» ricordò lei «è dalle parti di Rimini
infatti, è vero. È là in fondo, dici?»
Il ragazzo si rassicurò: «Bene, vedo che non sei digiuna del tutto della mate-
ria. Ma per afferrarla meglio un po’ di ripasso non ti farebbe male. Che ne di-
resti di un sopralluogo eh? Ci andiamo?»
«Vuoi fare una passeggiata?»
«Va bene, chiamiamola così, una passeggiata, il fiume non è lontano, in
un'ora circa possiamo arrivarci.»
«E cosa c'è da vedere?»
«Per prima cosa il Rubicone, cioè un corso d'acqua, che per di più si getta in
mare, ti par poco? E uno. Poi ci sono i dadi: e due.» Si ricordò d'uno scherzo
dei tempi di collegio: «I dadi di Cesare, capisci?»
«I dadi di Cesare?»
«Sì, i dadi che ha gettato quando ha detto: ‘alea iacta est’. Si vede che anche
Cesare era un realista, non parlava mai per metafore: per questo ha gettato
realmente i dadi.»
«E sarebbero là adesso, dopo duemila anni?»
«Sì, sono là. Dico sul serio. Grandi, perché Cesare era grande: grande lui,
grandi i suoi dadi.»
«Ma va.»
«Vogliamo scommettere? Senti Tricia: se al Rubicone noi non troviamo i
dadi...»
«Ma dove i dadi, adesso?»
«Lì per terra, vicino al Rubicone, come niente fosse. Dunque se non li tro-
viamo io ti regalo un libro. Se invece li troviamo, se li troviamo...»
«Allora?»
Fermo nei suoi casti principi Ambrogio respinse l'improvvisa tentazione,
che gli era venuta, di dire ‘allora tu mi dai un bacio’: «Allora, in questo caso, ti
pago soltanto un gelato. Dai, andiamo.»
Tricia si risolse: «Ma sì. Un po’ di movimento lo faccio volentieri.» S'alzò in
piedi, spolverò dal costume rosso la sabbia, considerò meglio il costume, ci
ripensò: «Aspettami. In un momento son pronta.»
Andò in cabina e ne tornò di lì a poco con indosso, invece del costume ros-
so, il pagliaccetto a strisce bianche e blu che Ambrogio le aveva visto la matti-
na precedente.
“Com'è incantevole, accidenti” pensò il ragazzo, e senza preoccuparsi d'es-
sere monotono, si ripeté la considerazione già fatta: “che capolavoro, le don-
ne!”
«Beh, andiamo» disse tutto lieto al capolavoro.
«Sì» rispose il capolavoro; e rivolto alle due bambine: «Avvertite la mamma
che sono andata a fare una passeggiata.» Siccome quelle sembravano non pre-
starle attenzione: «Dico a voi due: m'avete sentita?»
La maggiore alzò allora la testa dal gioco: «Ti abbiamo sentita, ti abbiamo
sentita, va bene» rispose; e poi con aria improvvisamente sbarazzina: «Dob-
biamo dire che sei andata a spasso da sola, alla mamma?»
«Che sciocchezza è questa?» esclamò Tricia in tono severo: «Perché dovre-
ste dire bugie?»
«Ah birichina, birichina» insisté, pur facendosi un tantino incerta la picco-
la, e agitò con rimprovero l’indice della mano. Senza alzare la testa la minore
faceva anche lei il viso furbo.
«Ehi, voi due saltamartini» intervenne Ambrogio: «Che discorsi son questi?
Fatemi l’inchino piuttosto, che sto per andar via. Su, forza, scattate.»
Le due bambine si levarono in piedi infastidite, e ripeterono quella sorta di
sgambetto con cui l’avevano salutato arrivando, indi tornarono alle loro for-
melle.
«Allora, che dici? Camminiamo ‘del risonante mar lungo la riva’?» propose
Ambrogio; Tricia annuì, e ancora scuoteva sorridendo la testa per la sicumera
della sorellina.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
CAPITOLO VENTITREESIMO
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
La sera di quello stesso giorno, all’ora di cena, gli telefonò da Nomana suo
cugino Manno: «Son qui, sì sono a casa. Da ieri sera, in licenza d’attesa di
nomina. Gli esami del corso? Beh, sono andati non c’è male. Tuo padre adesso
vuole che io prenda, anzi che accumuli sole, pensa un po’.»
«Ma questa è diventata una vera fissazione del papà» non poté a meno di
osservare Ambrogio.
«Una vera che? Fissazione? Esatto» gli rispose ridendo il cugino. «Beh, ci
sono camere disponibili lì dove sei tu? Sì? Allora prenotane una, che domani
arrivo come una palla di schioppo. Che treno prendo? Dipende, van tutti bene.
Tu che treno hai preso?»
Ambrogio gli riferì. «Me lo sono annotato, andrà bene anche per me» disse
Manno. «E adesso ti passo la mamma» (così Manno chiamava Giulia) «che
vuole salutarti».
***
Il giorno dopo, vigilia di ferragosto, Manno arrivò puntualmente a Cesena-
tico; non indossava la divisa e alla stazione ferroviaria non prese la carrozzel-
la. Dal giardinetto della pensione Iris Ambrogio l0 vide arrivare a piedi, abbi-
gliato da ‘grande estate’, con la valigia issata su una spalla, sudato, a passi
energici.
“Eccolo che già comincia con le sue trovate” pensò in un impulso di simpa-
tia. Con questa trovata dovevano probabilmente avere a che fare i saltuari sar-
casmi di Gerardo sulla facilità a stancarsi dei ‘giovani d’oggi’. Uscì incontro al
cugino, gli tese la destra; Manno, che aveva la propria impegnata per tenere la
valigia in equilibrio sulla spalla, gliela strinse con la sinistra. I due si guarda-
rono in faccia lietamente: più alto d’Ambrogio, snello, azzurro d’occhi e chiaro
di capelli (color biondo tizianesco dicevano le donne di famiglia, spiegando
per soprammercato: «Sua mamma era veneta, di Vicenza»), Manno, studente
d’architettura, non somigliava al cugino neppure quanto al carattere, che ave-
va estroverso.
«E pensare» disse tentennando la testa «che la vita scomoda sarebbe quella
militare, non questa borghese.»
«Vuoi dirmi perché non hai presa una carrozza?» gli chiese Ambrogio.
«Perché davanti alle carrozze c’era ressa.»
«Eh già. Di ferragosto.»
«Avrei dovuto far la fila, aspettare il turno. Figurati, ne ho già fatte poche di
code io, per il rancio e il resto.»
«Poi me lo devi spiegare bene com’è fatta la naia.»
«D’accordo. Sentirai che incanto.»
«Dammi la valigia.»
«Ma no. Perché?»
Ambrogio gliela tolse di spalla; entrarono insieme nel giardinetto della pen-
sione. Ad onta del sudore che lo imperlava, Manno aveva, a prima vista, un
aspetto decisamente più signorile del cugino.
«Quanti giorni pensi di fermarti?» gli chiese Ambrogio.
«Una quindicina, diciamo finché rimani anche tu. Ho un mese esatto di li-
cenza, e vorrei passarne in famiglia la seconda metà, perché non ho la minima
idea di dove poi mi sbatteranno. Oltre tutto ieri don Mario mi ha fatta ’na ca-
pa tanta perché tenga qualcuna delle solite lezioni ai ragazzi dell’oratorio, e
non vorrei deluderlo, il poveromo.»
Ad Ambrogio le due espressioni non lombarde in bocca al cugino fecero una
certa impressione: «Mi stai diventando poliglotta» mormorò.
III
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
A fine agosto i due giovani fecero insieme ritorno a Nomana, dove Ambro-
gio riprese la vita di prima: impiegava la mattina a far pratica in ditta, e il po-
meriggio nella lettura e nelle gite in bicicletta.
Un giorno decise di visitare un compagno di collegio domiciliato in Brianza,
che come lui si sarebbe iscritto all’università cattolica di Milano. Si trattava
d’un tipo interessante, intenzionato fin dalle elementari a fare, nientemeno, lo
scrittore: il Michele Tintori di Nova, figlio unico d’un grande invalido della
guerra precedente.
Mentre di primo pomeriggio pedalava alla volta di Nova, Ambrogio rianda-
va tra sé l’originale personalità del suo compagno. Senza dubbio l’inclinazione
all’arte gli veniva dal padre il quale, sebbene di cultura modestissima (scalpel-
lino di mestiere, doveva sì e no aver frequentata la quinta elementare), aveva a
suo tempo scolpito dei drammatici bassorilievi, ora sparsi in varie chiese della
zona. Anche altri compagni di collegio - Ambrogio ricordava - erano intenzio-
nati a fare lo scrittore oppure il poeta, e in effetti qualche loro poesia (“Ma
perché tutte quante ermetiche? Mah!”) compariva ogni tanto sul bollettino del
collegio. Ambrogio ridacchiò: il disprezzatissimo bollettino del collegio! Solo
obtorto collo, e per assoluta mancanza di meno disdicevole palestra, i futuri
poeti si risolvevano a pubblicarvi le loro opere accanto ai fervorini del rettore
e alle cronache dell’accademia scolastica. “Comunque su nessuno degli altri io
punterei una lira, sul Michele Tintori invece...” Quello era come fatto d’una
pasta speciale. “Vero che anche lui ha pubblicato più d’una poesia sul bolletti-
no, quand’era nelle elementari però, non in ginnasio o in liceo come gli altri.”
Ambrogio ricordava bene questo particolare: il Tintori aveva cominciato a
scrivere poesie in terza o quarta elementare; ovviamente allora gli mancava
ogni nozione di metrica, e non d’autentici versi s’era trattato, ma d’infantili
composizioni rimate, così almeno gli aveva poi detto lo stesso Tintori. Il quale
a un tratto aveva intuito (“A guardar bene sta qui la sua forza: nell’intuizione”)
di non essere sulla strada giusta, e infante com’era aveva risolutamente smes-
so di scrivere le poesie che pure il bollettino (a quell’età non disprezzato) gli
stampava. Ambrogio lo ricordava poi più avanti, quando al principio del gin-
nasio era stato distribuito il testo d’Omero. Fino ad allora probabilmente il
Tintori, al pari degli altri allievi, di Omero aveva ignorata l’esistenza: appena
però s’era trovato tra le mani le sue pagine, n’era stato preso al punto che non
se ne sarebbe mai staccato. Era incredibile quanto lo attirasse quella poesia...
Ambrogio continuava a riandare tali vecchie cose mentre pedalava con energia
in mezzo ai campi di stoppie azzurrati dagli ultimi fiordalisi, tra Seregno e De-
sio. “Quante volte l’ho visto, nelle ore di ‘studio’, liberarsi in fretta dalle altre
materie per prendere in mano il libro d’Omero!” Ragazzino com’era il Tintori
percorreva quel nuovo esaltante dominio addirittura con la gioia dipinta in
faccia e - cosa inedita nel loro ambiente - si seccava quando la campana elet-
trica della ricreazione l’obbligava a staccarsi dal libro. “Poi, a metà ginnasio,
ha cominciato a scrivere romanzi...” Ambrogio sorrise: i ‘romanzi’, come li
chiamavano loro suoi compagni, erano in realtà racconti fantastici, in genere
ambientati nelle epoche oggetto delle lezioni di storia.
Durante tali lezioni, mentre il professore parlava, la fantasia del Michele
Tintori non riusciva a contenersi: ogni episodio o notizia, le figure del testo,
perfino i nomi obsoleti contenuti nelle carte dell’atlantino, costituivano per lui
spunti a vicende immaginarie, a storie che si susseguivano con fervore nella
sua mente. Aveva cominciato a mettere per iscritto quelle fantasticherie,
riempiendo poco alla volta dei quaderni. Il tempo di studio non gli bastava
più, s’era perciò messo a scrivere anche durante le ore di lezione: col risultato
che l’uno o l’altro professore finiva col prenderlo sul fatto, e col sequestrargli il
‘romanzo’. Come il professore Zaròli quella volta: «Perché non segui la lezio-
ne, Tintori? Cosa stai scrivendo? Fa vedere.» Aveva sfogliato il quaderno: «I
fenici? Che c’entrano i fenici? Se adesso stiamo studiando l’età romana? Cosa?
Una nave fenicia nell’atlantico assalita da... da piroghe indigene? Che scem-
piaggine è questa?»
Il Tintori, mortificato ma non molto, aveva cercato di sottrarsi alle spiega-
zioni: «Chiedo scusa. Mi voglia scusare.»
«Ma cos’è che stai scrivendo, si può sapere?»
«Mi sono lasciato prendere la mano da...»
«Da cosa?»
«Non lo so.»
L’intera scolaresca, che fino allora s’era contenuta, era a un tratto esplosa:
«Signor professore, è un romanzo.» «Un romanzo storico.» «Anche il profes-
sore di matematica gliene ha sequestrato uno.» «Questo è il terzo che gli tro-
vano.» «Il primo era una storia di antichi greci che esploravano il Caucaso.»
«Sì, con le armi di bronzo e una colonna di muli, come le upozughìa di Seno-
fonte, e...»
«Dunque ti piacciono i muli, eh?» aveva detto, a buon conto sarcastico, il
professor Zaròli: «Rispondi.»
Il Tintori aveva finito col non sottrarsi più: «Sì, i muli, e le navi, e... tutto
quello che esiste mi piace» aveva risposto, o press’a poco: ciò che Ambrogio
adesso ricordava era che, in quell’occasione, la parola muli, la parola navi, in
bocca al suo compagno avevano assunto una sorta di strano incanto. Dopo
averlo disapprovato con un’occhiata il più possibile severa, il professore aveva
ripresa la lezione. Al romanziere il manoscritto sarebbe stato reso solo alla
fine dell’anno scolastico, allorché venivano restituiti i temperini, i fischietti, le
palline da ping pong, egli altri corpi estranei sequestrati nel corso delle lezio-
ni.
Però! quanti ricordi pareva ad Ambrogio di avere già adesso, a diciannove
anni.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
Ecco le prime avvisaglie del paese di Nova, le sue strade verdi, diritte, di
pianura (Nova è posta all’estremità meridionale della Brianza), ecco il portello
che immetteva nel cortile del suo compagno: davanti all’abitazione
dell’invalido c’era infatti uno spiazzo circondato da un muro, dal quale svetta-
va un ciuffo di bambù, Ambrogio conosceva bene il luogo per esservi venuto in
visita diverse volte; scese di bicicletta, e mentre apriva il portello avvertì un
senso d’aspettativa: avrebbe parlato con persone - padre e figlio - nei cui di-
scorsi altre volte aveva trovato importanti motivi di riflessione, punti fermi
che avevano poi costituito per lui dei riferimenti.
Trovò il piccolo cortile parzialmente inondato d’acqua saponosa: il che lo
indusse a rimontare in sella per attraversarlo senza infangarsi le scarpe.
«Ecco, bravo Riva. È stata la donna a ore a fare il lago» gli spiegò, renden-
dosi conto della manovra, il suo compagno. Che s’era alzato da una poltronci-
na all’ombra dei bambù: «Ha appena buttata via l’acqua del bucato. Cosa vuoi,
è una butta là»; teneva in mano un libro, fece qualche passo verso il visitatore:
«Dai, vieni in salvo qui sulla terra ferma.» E finalmente stringendogli la ma-
no: «Ciao. Bravo che sei venuto a trovarmi.»
«Ciao Tintori. Beh si può sapere cos’è che fai qui, tutto ‘spaparanzato’ nella
pace, mentre - per dirla con Zaròli - Annibale è alle porte?» gli rispose Am-
brogio.
L’altro corrugò la fronte: «Siamo noi alle porte degli altri, temo, siamo noi
gli Annibali» mormorò. Era alquanto più alto d’Ambrogio, nero d’occhi e di
capelli.
«Tuo padre cosa ne dice? Come l’ha presa?» chiese Ambrogio. Il Tintori
tentennò la testa: «Con lui cerca se possibile di non parlare della guerra» lo
avvertì abbassando la voce: «Glien’è occorso di tempo per mettersi calmo.»
Ambrogio strinse, come per siglare un accordo, un polso del compagno:
«Hai fatto bene ad avvertirmi.»
«Beh» disse l’altro: «Vuoi ch’entriamo in casa, o preferisci sedere qui, ‘pa-
tulàe sub tégmine bàmbui?’»
«Bàmbui?»
«È il genitivo di bambù, no?» disse il Tintori.
«Ah, ecco, ‘bàmbui’ allora» rispose Ambrogio. «Mi metto volentieri anch’io
sotto i ‘bàmbui’.» I quali risultavano piuttosto mal tenuti, al pari delle scrosta-
te poltroncine di vimini che stavano nella loro ombra, e del cortiletto, nonché
della stessa casa ch’era una sorta di propaggine di una ex casa gentilizia tra-
sformata in casone popolare. “A parte la povertà, qui si nota la mancanza
d’una donna” pensò, certo non molto originale, Ambrogio. Ricordò che la mo-
glie del grande invalido - una modesta infermiera - era morta nel dare alla lu-
ce il suo compagno Michele. «Ma aspetta, fammi prima sistemare questa.»
Seguito passo passo dal compagno, andò a mettere, come nelle visite prece-
denti, la bicicletta sotto un piccolo portico; in cui erano fissati a un muro me-
diante grosse zanche due bassorilievi di marmo: gli unici - Ambrogio sapeva -
che fossero rimasti allo scalpellino-scultore dal tempo in cui poteva produrre.
Anche stavolta - non fosse che per cortesia - il ragazzo indugiò un poco a os-
servarli: erano zeppi di drammatiche figure in forte rilievo, rappresentavano
uno il duello tra l’arcangelo Michele e Lucifero (il soggetto preferito dal singo-
lare scultore), l’altro la salita di Cristo al Calvario.
«Non mi arrischio a far commenti, però sai che mi piacciono» disse per cor-
tesia al compagno. «Come del resto piacciono a mio cugino Manno, che se
n’intende un po’ più di me. Non per niente è iscritto a architettura.»
Il compagno annuì. «Ricordo bene cos’ha detto Manno quando è venuto
qui. Quella volta, non come oggi, tu ti eri arrischiato a commentare queste
sculture.»
«Non l’avessi mai fatto» scherzò Ambrogio, «dovevo essere ben giovane.»
Il Tintori però non scherzava: «È stato un paio d’anni fa. Tu queste sculture
le avevi definite naïves, ti ricordi?»
«Se lo dici tu.»
«Manno però ti ha corretto: ‘Potresti chiamare naïves le opere dei maestri
comacini?’ ha detto: ‘No. Perché sono sì ingenue eccetera, ma sono anche, og-
gettivamente, tutt’altra cosa da quello che s’intende oggi per naif. Secondo me’
ha detto ‘queste sculture derivano in linea retta dalla stessa matrice culturale
che ha prodotto le opere comacine. Perché sono, come quelle, un prodotto
spontaneo del nostro popolo, del suo mondo interiore, senza influenze o ag-
giunte esterne.’ Questo» concluse il Tintori mentre riattraversavano il cortilet-
to «è stato per me un discorso di quelli che lasciano il segno: ecco perché lo
ricordo quasi parola per parola. Mi ha aperto in un certo senso gli occhi
sull’arte di mio padre.» (Stava per aggiungere: «E anche sulla mia» in quanto
per lui, giusto come per i comacini, era pacifico che l’arte si trasmettesse di
padre in figlio; ma lasciò perdere.)
Sedettero sulle poltroncine accanto al ciuffo dei bambù, al cui piede cresce-
va un branco di mughetti minuti, modesti come l’erba. («Li ha piantati mia
madre» aveva riferito una volta il Tintori: sebbene nessuno le curasse, le pian-
ticelle seguitavano a ricomparire anno dopo anno, tenaci - malgrado la loro
fragilità - come certi ricordi gentili che, anche se li trascuriamo, insistono a
riaffacciarsi nel nostro spirito.)
«Beh, dove si trova adesso tuo cugino?» s’informò il Tintori. «Sempre a Pe-
saro?»
«No, in questi giorni è a Nomana, in licenza d’attesa di nomina a sottote-
nente: deve tornare alle armi il 14 settembre. Sai che sono stato con lui due
settimane al mare, a Cesenatico?»
«È un ragazzo in gamba come pochi. Mi piacerebbe sentirlo in merito alla
naia.»
«Infatti è interessante: dovevi ascoltare a Cesenatico i commenti di Clero
Indigeno. Beh, adesso Manno è a casa: se credi, puoi venire da noi uno di que-
sti pomeriggi, troveresti anche i miei fratelli, che sono appena rientrati dalla
villeggiatura.»
Il Tintori era già stato più d’una volta a Nomana, conosceva più o meno tut-
ti della famiglia.
«Uno di questi pomeriggi? No, adesso sono in fase di pigrizia» rispose.
«Come detto, allora.» I due compagni si sorrisero cordiali. «Dì un po’» fece
Ambrogio: «mi chiedevo una cosa, mentre venivo qui: ne hai più scritti di ro-
manzi?»
«Quali romanzi?»
«Come: ‘quali romanzi?’ Quelli che scrivevi in collegio, non ricordi quello
che t’ha sequestrato il professor Zaròli?»
«Ah, quand’eravamo ancora in ginnasio... Cosa diavolo vai a rispulciare? No
comunque» rispose il Tintori, e citò in dialetto: «‘Zucche e meloni alle loro
stagioni’. È da allora, dal ginnasio, che non ne scrivo più.»
Ambrogio lo guardò interrogativo.
«Vuoi sapere perché?» fece il Tintori: «Dai, come si fa a scrivere, se prima
non si è sperimentata la realtà, la vita? Adesso noi abbiamo diciannove anni, è
troppo presto per scrivere.»
Ecco un’altra delle caratteristiche del Tintori, pensò Ambrogio: il senso dei
limiti dell’età giovanile, un senso appunto comacino, che pochissimi ragazzi in
collegio avevano. Ad onta dei suoi impulsi prepotenti, non aveva mai voluto
precorrere la propria età, piuttosto il contrario, se mai.
CAPITOLO VENTISETTESIMO
Dalla casa uscì su una poltrona a ruote il Tintori padre; spingeva il veicolo
un soldato di sanità che Ambrogio aveva già visto.
Il ragazzo si alzò in piedi in segno di rispetto; l’invalido gli sorrise e lo salutò
con un cenno della mano, quindi si fece accompagnare al ciuffo dei bambù.
Ancora una volta Ambrogio notò come muovesse la testa poco agevolmente: il
suo corpo - un po’ flaccido - dava l’impressione di far perno sul punto in cui la
colonna vertebrale era stata offesa. Il figlio gli chiese con sollecitudine: «Esci a
fare il tuo giro in paese, papà?»
«Sì. Ma prima lasciami salutare il tuo amico.» S’esprimeva in dialetto,
strinse la mano di Ambrogio: «Bravo Riva che è venuto a trovare il Michele, il
mio arcangelo Michele.» Fece una pausa, osservando compiaciuto il visitatore.
«Dell’esito dei suoi studi neanche le chiedo: so che a maggio siete stati tutti
promossi senza esami.» «Sì, però mentre allora questa mi sembrava una gran
fortuna» disse Ambrogio «adesso» e abbassò improvvisamente la voce «da
quando è scoppiata la guerra...» (“Che gaffe, mio Dio” pensò: “ho portato sen-
za perder tempo il discorso proprio là dove non avrei dovuto! ”)
«Beh, rimane sempre una fortuna» disse con naturalezza Michele: «Pensa a
quelli che l’anno scorso han dovuto sgrugnarsi gli esami, e adesso quanto alla
guerra sono nella nostra identica posizione.»
Ambrogio ridacchiò assentendo: «È vero.»
«Per me comunque» continuò Michele «la cosa più importante è un’altra, e
cioè che col nuovo anno io non peserò più su di lui» indicò il padre «con le
spese del collegio. Il nostro collegio costava caro: è uno dei più cari di Milano.
L’università verrà a costare molto ma molto meno.» Annuì ripetutamente.
Il soldato accompagnatore, un buon diavolo con gli occhiali, d’aspetto mite,
che nel frattempo aveva preso posto su una delle poltroncine, fece una mezza
risata, tanto per partecipare.
L’invalido andò con gli occhi, quasi senza muovere la testa, da lui al figlio.
«Costava caro, sì, però era anche uno dei più sicuri.» Si volse ad Ambrogio:
«Non è così?»
«Eh» convenne genericamente il giovane, incerto sul significato che l’altro
dava al termine ‘sicuri’ in dialetto. «Con professori come quelli, che scrivono -
alcuni almeno - manuali che poi vengono adottati anche in altre scuole (Nan-
geroni per esempio: si può dire che mezz’Italia studia la geografia sui suoi te-
sti, e Mazza, e Consonni) beh, con professori simili una scuola deve costar ca-
ra per forza.» L’invalido non disse né sì né no.
«Ma intanto» completò il proprio pensiero Ambrogio «tu e io abbiamo avu-
to un insegnamento che meglio non si poteva.»
Ci fu una pausa; l’invalido seguitava a tacere.
«Non è per questo» spiegò allora il Tintori figlio: «Non so se te n’ho mai
parlato, ma non è per questo che mio padre m’ha fatto studiare per dieci anni
in un collegio che gli assorbiva due terzi del suo assegno mensile. È invece
perché lo giudicava la scuola più sicura sotto l’aspetto morale.»
«Certo» confermò l’invalido, «proprio così.»
«Ehi» disse allora Ambrogio con l’aria di fare una mezza scoperta: «Volete
saperlo? Non ci ho mai pensato, ma anche nella scelta di mio padre dev’essere
entrata una considerazione simile.» Strizzò con aria d’intesa l’occhio al suo
compagno.
L’invalido notò il gesto: «Voi siete giovani» disse condiscendente, «ci scher-
zate sopra perché non vi rendete conto di cosa rappresenti per un padre il ri-
schio di perdere il proprio figlio. E che vada perduto anche per Domine Dio
quel figlio. Con tutte le idee e i pensamenti sbagliati che oggi ci sono in giro.»
«Ma papà, non son mica un bambino» protestò Michele: «avrei saputo
guardarmi, no? difendermi. Lo sai che come forma mentis io sono forse più
paolotto di te.»
«Adesso sì sei ben saldo (franch), perché ti sei formato nel modo giusto»
disse il padre «e di questo io ringrazio sempre Dio. Ma quand’eri un ragazzi-
no?»
«Con tutte quelle ragazzette che ci sono in giro» buttò là il soldato di sanità,
che aveva capito un po’ all’incirca.
«Oh, basta» sbuffò Michele.
Ci fu una pausa. «Siete due bravi ragazzi» disse l’invalido a mo’ di conclu-
sione. E al soldato: «Allora Piero? Lo vogliamo fare il nostro giretto?»
Dopo essersi nuovamente alzato in piedi, e avergli stretta la mano, Ambro-
gio l’osservò allontanarsi attraverso la fanghiglia del piccolo cortile, crocifisso
alla poltrona dalle ruote quasi di bicicletta.
«Tu lo vedi in quello stato da quando sei nato, vero?»
Il Tintori figlio annuì. «Non cambierei il mio con nessun altro padre al
mondo» disse.
«A scuola ci hanno insegnato il perché del dolore, il suo ruolo nell’economia
della salvezza di tutti, eccetera. Ma a trovarcisi dentro non so» fece Ambrogio.
Il Tintori continuò ad annuire: «A trovarcisi dentro si benedicono quelle
spiegazioni» disse. E abbassando un po’ la voce: «Non sono ragioni umane
quelle: a scuola ci hanno semplicemente trasmesso ciò che Cristo ha insegnato
prima di consegnarsi ai carnefici che lo mettessero in croce. Mio padre dà una
mano a Cristo» improvvisamente gli si gonfiarono gli occhi: «continua la pas-
sione di Cristo, ed è cosciente di farlo.»
Dopo pronunciate queste parole si placò, cambiò discorso. I due rimasero a
conversare per un’ora buona seduti all’ombra dei bambù, e già di lì a poco,
mentre formulavano i piani per la loro prossima vita universitaria, avevano
ripreso a scherzare, abbondantemente anche, com’è naturale che facciano due
ragazzi.
CAPITOLO VENTOTTESIMO
Nel corso delle due settimane che trascorse a Nomana prima di tornare alle
armi, Manno dedicò - come aveva promesso a don Mario - alcune serate ai
ragazzi dell’oratorio.
Riprese nel punto in cui le aveva interrotte, certe sue lezioni sull’arte.
«L’arte, se è autentica, indirizza a Dio» (Non si sorprenda il lettore
d’incontrare subito dopo il Michele Tintori, un altro giovane appassionato di
Dio: dopo tutto ci troviamo in Brianza, nella Brianza d’allora.) «Questo prima
di partire io ve l’ho detto un sacco di volte: è la convinzione che sta alla base
dei nostri incontri, lo sapete.»
I ragazzi, seduti davanti a lui sulle sedie impagliate dell’oratorio, lo segui-
vano attenti: sapevano che, a differenza dei suoi cugini Ambrogio e Fortunato,
Manno non intendeva fare l’industriale (del resto non ne aveva il tipo: dell'in-
dustriale brianteo almeno che, come s’è detto, era quasi sempre d’estrazione
popolare: Manno aveva modi diversi, più raffinati e disinvolti); doveva co-
munque avere ragioni ben importanti, pensavano i ragazzi, per rifiutare
quell’opportunità che la vita gli offriva.
«Sentiamo te Carlino» provò a interrogarli il giovane: «Perché io dico e ri-
peto che l’arte indirizza a Dio? Te lo ricordi o non lo ricordi più, e ti pare che
lo dica soltanto perché ci troviamo all’oratorio?»
L’interpellato, levatosi in piedi, si trovò in difficoltà a rispondere: «Perché
nell’arte c’è il particolare, cioè no, l’universale. Eh, non mi ricordo più bene.»
Gli altri ragazzi ridacchiarono, ma in modo contenuto: avevano tutti una
certa difficoltà a ricordare quei concetti astratti sminuzzati per loro con tanta
pazienza da Manno, studente del secondo anno d’architettura.
«L’arte» disse il giovane «è ‘l’universale nel particolare’, è questo che tu vo-
levi dire, che abbiamo detto tante volte.» (Nel ripetere l’antica definizione che
ha orientato gli artisti dei secoli in cui l’Italia è stata veramente grande in arte,
Manno non provava la minima soggezione verso le estetiche nuove, tutte più o
meno in contrasto fra loro, di cui sono oggi pieni i testi e le riviste specializza-
te.) «Ma cosa significa, a metterla in spiccioli, questa frase? Prova a spiegarla
con parole tue.»
«Vuol dire che l’arte è... è una specie di...» si sforzava di ricordare il Carlino
Valli, diciassette anni, apprendista giardiniere.
«Beh, vedo che è necessario fare un ripasso generale. Cercate di stare atten-
ti, perché queste cose potranno servire a tutti: sia a quelli di voi che faranno
l’operaio, per arricchimento della loro mente, sia soprattutto a quelli che inta-
glieranno il legno o batteranno il ferro, o faranno il disegnatore industriale,
che sono lavori ai quali noi briantei siamo molto portati. Tant’è vero che la
nostra scuoletta professionale di Nomana, con tutto ch’è solo serale, arriva
quasi ogni anno a piazzare qualche concorrente nei concorsi provinciali e an-
che nazionali. Come tuo fratello Umberto, eh Giacinto? che tre anni fa è riu-
scito campione nazionale di disegno.»
«Adesso Umberto è soldato a Udine» dichiarò compiaciuto Giacinto.
«Lo so» disse Manno.
«Giacinto, non disturbare» intervenne don Mario: «il fatto che tuo fratello
adesso si trovi a Udine piuttosto che in un altro posto, non c’entra con questo
discorso.» Il giovane prete - capelli a spazzola, faccia da bambino con occhiali
cerchiati di ferro sottile - presenziava sempre insieme coi ragazzi: «Voglio im-
parare anch’io» asseriva.
In sua assenza i ragazzi più piccoli, ai quali non era concesso d’assistere alle
lezioni di Manno, finivano col ritrovarsi incustoditi nel cortile, e qualche volta
ne approfittavano.
Per uscire ad esempio dal portone a tirare sassi contro qualche targa strada-
le, o anche soltanto palo metallico, oppure, se gli capitava a tiro, contro qual-
che povero cane randagio che nella sua ricerca di cibo capitasse vagabondan-
do nei dintorni. Gli italiani — come anche questa guerra stava per dimostrare -
non sono privi d’amore per il prossimo; sono però impietosi con gli animali, e
i nomanesi, i bambini in particolare, non facevano eccezione alla regola.
Una sera alcuni monelli che stavano sul portone dell’oratorio («Tanto oggi
c’è la conferenza per i grandi, e don Mario non se n’accorge se noi ne combi-
niamo qualcuna»), scorsero appunto un cagnetto randagio. «Guarda, ehi,
guarda» esclamò uno di loro: «C’è il cane dell’oste, quello che l’oste non vuole
più.»
«Non lo vuole più, no, perché adesso ha un cane nuovo.»
«Possiamo fargli quello che vogliamo.»
«Ehi tu, Fido» lo chiamò muovendogli incontro uno dei bambini: «Fido,
vieni qui povero Fido» e cavatosi di tasca, ben stretto in pugno, il fazzoletto,
così che la bestiola vedesse solo un po’ di bianco, glielo tendeva come fosse un
pezzo di pane: «Toh, Fido, toh, prendi.»
La bestiola, esaurita da una terribile fame, sfibrata, con una zampetta acer-
bamente offesa tanto che nel camminare non la posava per terra, si era arre-
stata: levò il povero muso cercando d’annusare; si trovava a una dozzina di
metri dai monelli.
«Toh Fido, toh, toh, prendi.»
Il cane mostrava un’evidente paura (aveva paura di tutto ormai), ma anche
quanto la fame lo spingesse verso quella finzione di pane. Era un piccolo ba-
stardo di colore confuso, cui da un giorno all’altro il padrone aveva negato ci-
bo e ricovero, serrandogli sul muso l’uscio di casa: «Va via e non farti più ve-
dere. Via di qui.» Siccome la bestiola per giorni non s’era allontanata dalla
casa, cercando di cogliere ogni occasione per rientrarvi, l’uomo, che non aveva
animo sufficiente a ucciderla, l’aveva duramente picchiata, fino a farla fuggire
urlante. «Ecco» e bestemmiava «adesso l’avrai capita finalmente.» Malgrado
questo il cane non s’era risolto ad allontanarsi davvero. Dove sarebbe potuto
andare? Da innumerevoli generazioni gli animali della sua specie hanno di-
simparato a procurarsi il cibo da sé: per volontà dell’uomo il loro sostenta-
mento lo ricevono dall’uomo stesso, cui danno in cambio compagnia, festosità
e una devozione totale. Uggiolava per la fame specie di notte, la fame lo faceva
addirittura tremare, e una notte che così tremante s’era introdotto strisciando
nel portico dove un tempo era la sua ciotola, il padrone - attirato dai ringhi del
cucciolo nuovo - gli era arrivato sopra furioso e l’aveva colpito con calci e calci,
uno dei quali gli aveva storpiata irrimediabilmente una zampa; da allora il ba-
stardo vagabondava per Nomana e dintorni, leccandosi di continuo la zampa
dolorante, e tenendosi con terrore alla larga dalla casa dell’oste; frugava negli
immondezzai, talvolta qualcuno gli gettava un pezzo di pane, se però l’animale
tentava di stabilirsi in un cortile, ne veniva cacciato: «Ancora qui? No, qui no,
via. Va via brutta bestia.» Si era letteralmente ridotto pelle e ossa; ed era in
tale stato appunto quando i discoli dell’oratorio l’avevano chiamato fingendo
di porgergli del cibo. Con gli occhi imploranti e la coda bassa si era lasciato
avvicinare e infine prendere.
«El gh’è! El gh’è! (C’è! C’è!)» aveva gridato afferrandolo per la collottola
quello ch’era andato verso di lui col fazzoletto chiuso nel pugno:
«L’ho preso, c’è.»
«Attento a non lasciarlo scappare.»
«Attento. Sì, sta bene attento.»
I bambini l’avevano circondato: «Guarda che non ti morda.»
«Cosa vuoi che morda, brutto com’è?»
Erano giubilanti: «E adesso? cosa gli facciamo?»
«Un barattolo. Dai, attacchiamogli un barattolo alla coda.»
«Sì, un barattolo.»
«Sì, sì. Dai.»
Dal dire al fare. Lo spago necessario all’impresa uno l’aveva in tasca e lo tirò
fuori. Il barattolo però bisognava andarlo a cercare, e nessuno dei discoli vole-
va allontanarsi dalla preda. «Guarda come trema.»
«Brutto fifone.»
«Là alla curva ci sono dei barattoli: dai Gino, va tu a prenderne uno.»
Gino non volle andare; finì col trasferirsi tutta la piccola congrega col ca-
gnetto al cui collo era stato girato lo spago a mo’ di guinzaglio. Per terra c’era
effettivamente qualche barattolo rugginoso, ne venne scelto uno e legato alla
coda della bestiola. Che fu poi lasciata andare, spinta via:
«Via di qui. Va via brutta bestia. Scappa.»
«Via! Va via!»
Subito il cane cercò d’allontanarsi e fuggire, al che il barattolo rimbalzò
sull’acciottolato e batté contro le sue gambe posteriori; il povero animale si
voltò per un istante, incerto sulla natura del nuovo tormento: vide i bambini
corrergli addosso gridando, si mise allora a correre a sua volta, mentre il ba-
rattolo rimbalzava e strideva e batteva sempre più spesso anche col bordo ta-
gliente del coperchio contro la zampina offesa, che ora egli era costretto ad
appoggiare a terra. La bestiola cominciò a berciare per il dolore, correva e ber-
ciava, e i bambini dietro che acclamavano: il divertimento non avrebbe potuto
essere più grande.
Lungo la via dell’oratorio veniva in senso inverso Aristide del Ghemio, un
deficiente sui cinquant’anni, di pelle rossastra, col volto e il collo caratteristi-
camente deformati dal suo male, che era molto pronunciato, tanto da consen-
tirgli - specie quand’era eccitato - di parlare solo a scatti.
Oggetto lui pure a volte - se non c’erano adulti presenti - degli scherzi e del-
la baia della ragazzaglia, il deficiente si rese conto che i monelli stavano tor-
mentando il cane, e gli andò istintivamente in soccorso allargando le braccia
per sbarrare loro la strada; in pari tempo emetteva convulse grida di rimpro-
vero. Il cane gli sgusciò accanto: svoltato che fu nella piazza, le sue grida e lo
stridio del barattolo non si udirono più.
I bambini s’erano arrestati: guardarono il deficiente da prima con paura,
poi con crescente disappunto. I più arditi, senza accostarglisi troppo, comin-
ciarono a insultarlo, in breve tutti si misero a dargli la baia.
«Aristide non è capace di acchiappare nessuno» gridò quello che aveva cat-
turato il canino, e raccolto da terra un ciottolo lo palleggiò e glielo tirò contro.
«Fifone chi scappa» gridò un altro.
Poiché c’erano contro un muro dei detriti, tutti ne presero e cominciarono a
scagliarli contro il malcapitato che - colpito a un tratto anche in viso - non
osava più venire avanti. Incapace com’era di pronunciare per intero le parole,
mugulava al suo strano modo e agitava disordinatamente le braccia, mentre i
monelli urlavano anche più di lui: avevano trovato un nuovo divertimento.
Dal portone dell’oratorio uscì di corsa don Mario, seguito da altri: «Cosa fa-
te? Vergogna!» gridò. I monelli dapprima sembravano non voler desistere dal-
la loro impresa, però i ragazzi più grandi usciti con don Mario li afferrarono
prontamente per la collottola, volò qualche scapaccione, qualcuno dei piccoli
cominciò a frignare.
«Cattivi. Vergogna» diceva don Mario: sembrava sul punto di piangere.
«Portateli tutti nella stanza del bigliardino, che poi vengo io.»
Il prete andò verso il deficiente il quale, addossato a un muro, non si calma-
va; tolto di tasca il fazzoletto lo ripulì di alcune macchie causate dai detriti, e si
diede a parlargli con accoramento e pietà. Infine, presolo prima per mano e
poi sotto braccio, lo persuase a lasciarsi accompagnare alla sua casa, ch’era in
fondo alla stessa via.
Seguì una reprimenda ai discoli nel locale del bigliardino (erano tutti più o
meno lagrimosi a causa delle gagliarde tirate d’orecchi che i ragazzi più grandi
avevano inferto loro) e poi una solenne reprimenda a tutti senza eccezione i
ragazzi dell’oratorio. Per quella sera la conferenza - interrotta al suo inizio -
non ebbe luogo: «Andate tutti a casa, e rendetevi conto della gravità di ciò che
è accaduto» disse don Mario: «O ve ne rendete conto, o l’oratorio è inutile, e
anch’io sono inutile.»
Manno credé bene d’accompagnare fino a casa il prete, che non riusciva a
darsi pace. «Hai visto cos’hanno fatto?» ripeteva: «Hai visto che cattiveria?»
«Si calmi don Mario» gli diceva Manno: «si calmi. Erano quelli piccoli, non
hanno ancora avuto il tempo d’essere educati, di essere formati.»
«Sì. Quell’età» disse il prete arrestandosi, e sbarrando in faccia al giovane i
suoi occhi infantili dietro gli occhiali «e anche quella subito precedente, sono
forse le età peggiori. È il tempo in cui scoprono la sessualità e... quanti peccati,
che sporcaccioni, tu sapessi.» «Però dopo, più avanti, lo vede anche lei che si
correggono. Cerchi di non essere troppo pessimista. È un fatto o no che la
maggior parte dei ragazzi di Nomana, per non parlare delle ragazze, arriva
vergine al matrimonio? Le pare una conquista da poco questa? Saprà anche lei
come vanno le cose altrove.»
«Sì, poi si riesce a educarli, abbastanza, quasi tutti. Ma con che fatica.
Quanto pregare davanti al tabernacolo!»
Avevano ripreso a camminare. Il prete si fermò di nuovo: «Perché sarà co-
sì? Perché da piccoli sono tanto difficili?»
«Si vede che i bambini non nascono ‘naturalmente buoni’. Ecco un altro fat-
to che ce lo fa constatare.»
«Quella è un’età» disse il prete «in cui a volte si decide la sorte
d’un’anima.»
Ripresero a camminare; del cagnolino, di cui pure avevano avuto notizia,
non parlarono affatto. (Vogliamo anticipare? Trent’anni più tardi, sotto
l’influenza laico-umanitaria della televisione e delle idee nuove, i ragazzi di
Nomana non sarebbero più stati così: avrebbero tormentato meno gli animali,
e non avrebbero più tormentato pubblicamente i deficienti, che sono due in-
dubbi passi avanti. Però avrebbero cominciato - come non era mai accaduto
nella storia del paese - a odiare determinati gruppi sociali, e inoltre nessuno di
loro, o quasi, sarebbe più arrivato vergine al matrimonio. Tanto l’essere uma-
no è limitato: se acquista da una parte, perde puntualmente da un’altra; in
questo sembra non ci sia scampo. Ci tornano in mente, al limite, le incredibili
cassette per la nidificazione degli stornelli issate, nientemeno, sulle baracche
di Auschwitz, dai carnefici di cuore tenero verso gli uccellini.)
Quando giunsero alla casa di don Mario e il prete fu per aprirne la porta, a
un tratto ricordò: «I parenti di Aristide del Ghemio! Non sono entrato da loro
a spiegare, a scusarmi. Avevo in testa soprattutto i ragazzi e... Bisogna che ci
vada subito. Ciao Manno, ci rivediamo alla tua prossima lezione, martedì.»
Manno gli strinse la mano, poi stette a osservarlo allontanarsi nel primo
buio, frettoloso e ingobbito nella veste talare che faceva sembrare il suo fisico
più fragile.
«Caro don Mario!» mormorò.
CAPITOLO VENTINOVESIMO
CAPITOLO TRENTESIMO
Si trovava in quei giorni in licenza a Nomana, presso sua madre, don Carlo
Gnocchi, cappellano della divisione Tridentina; vestiva la talare e dava una
mano in chiesa. Una mattina i Riva lo videro arrivare in divisa e con la valiget-
ta: «Mi son mosso un po’ prima per passare a salutarvi.»
«Ma, don Carlo... Lei non doveva tornare alle armi la settimana ventura?»
«Sì, infatti. Però m’è arrivato stamattina un telegramma con l’ordine di
rientro immediato.»
Lo fecero accomodare in salotto, Francesca s’affrettò a telefonare in fabbri-
ca perché venissero anche il padre e Ambrogio, che infatti comparvero di lì a
poco.
«Cosa succede, don Carlo?»
«Chi lo sa.» Sorrideva mite; aveva il viso fine e la fronte alta, da intellettua-
le.
«La mandano in Albania?»
«Può darsi, non so. Del resto se ci mandano i miei alpini...»
«Ma lei è contento di andarci?» chiese Alma, la statuina. Sedevano tutti in-
torno a lui. Rodolfo, di sette anni, non riusciva a staccare gli occhi dal cappello
alpino con la penna e i gradi d’oro, posto sul divano accanto al prete.
Rispose don Carlo: «Contento Almina? D’andare in guerra? Però dove sono
i soldati, là dev’essere anche il cappellano. Non ti sembra?»
«In un bel pasticcio ci hanno cacciato quelli in alto» osservò Fortunato.
«Possibile che siano privi di cervello fino a questo punto?»
Don Carlo allargò le mani consacrate, non disse nulla.
«Per cosa pensa l’abbiano fatto? Voglio dire: perché secondo lei hanno at-
taccato la Grecia?» domandò Ambrogio.
In tempo di pace don Carlo scriveva sul quotidiano cattolico, i suoi pareri
erano ricercati; adesso però, chiaramente, egli non aveva voglia di pronun-
ciarsi, non rispose.
«Perché vuoi che l’abbiano fatto?» rispose in sua vece Gerardo, ripetendo
davanti a don Carlo la propria opinione già altre volte espressa: «Mussolini s’è
stancato di fare l’eterno secondo rispetto a Hitler, e ha pensato di sbalordire il
mondo con un’impresa sua. Ecco tutto.»
«E l’ha sbalordito infatti» mormorò don Carlo.
Rodolfo s’era addirittura curvato sul cappello alpino per esaminarlo meglio;
il cappellano glielo mise in testa. Il bambino lanciò un grido d’esultanza e sa-
rebbe corso fuori se la madre non l’avesse afferrato per un braccio.
«È vero che gli alpini sono gli unici che tengono in Albania?» chiese Am-
brogio. «Ne sa qualcosa lei? Ha sentito di quelle due compagnie della divisio-
ne Julia che sono riuscite da sole a tenere il fronte abbandonato da una divi-
sione ordinaria?»
«Qualcosa ho sentito» disse don Carlo. «Ma chissà come sono andate real-
mente le cose. In tempo di guerra di storie se ne diffondono tante.»
«Quella ho l’impressione che non sia una storia.»
«Chissà» fece il cappellano. «È certo comunque che sugli alpini si può con-
tare. Li conosco: sono i meno bellicisti fra tutti i soldati, ma non è gente che
scappa, questo mai.»
Non gradiva ad ogni modo parlare della guerra, era anche in ciò simile ai
suoi alpini. Spostò il discorso sui tempi in cui Gerardo presiedeva l’Azione
Cattolica di Nomana: «Ero bambino allora, ma ricordo diversi episodi»; poi
parlò di Manno, per il quale aveva molta stima: «È un ragazzo che farà un
gran bene. I miei saluti glieli trasmetterete voi.»
Infine si alzò in piedi: «Non posso fermarmi di più» si scusò con Gerardo
«mi spiace davvero d’avere interrotto il suo lavoro a mezza mattina.»
«Cosa dice mai, don Carlo!»
Il cappellano si rivolse da ultimo a Giulia: «Mia madre... spero che lei le
tenga un pochino compagnia.» La guardò negli occhi: fu chiaro che questa era
la cosa cui teneva di più, il principale motivo della sua visita.
«Lei parta tranquillo» disse Giulia «A questo non ci pensi neppure. Sèmm
(siamo) al mund per vütass (aiutarci), no? e del resto sarà per me un piace-
re.»
Don Carlo annuì con gratitudine. «Grazie.»
Dopo di che Francesca si rivolse a Rodolfo: «Su, restituisci a don Carlo il
suo cappello.»
Rodolfo però non ne voleva sapere; don Carlo prese il bambino per mano:
«Accompagnami al cancello, lo terrai fin là.»
Lo accompagnarono tutti al cancello.
Di lì a circa una settimana sua madre ricevette il primo scritto del figlio
dall’Albania.
Dove gli alpini e gli altri rinforzi arrestarono l’avanzata greca. Sopraggiunse
l’inverno, paralizzando ogni movimento tra quelle impervie montagne; ci si
abitua a tutto: gli italiani si abituarono all’idea di un fronte statico con la Gre-
cia; la vita continuò come prima.
CAPITOLO TRENTUNESIMO
***
«Chissà se oggi Apollonio tiene lezione?» diceva a volte il Tintori quando
v’entravano. Un giorno Ambrogio gli fece osservare: «Come ‘chissà’? Te l’ho
già sentito dire altre volte. Eppure si fa in fretta a saperlo: basta dare
un’occhiata là, al quadro delle lezioni.»
«Eh già.»
«Dai, vediamo allora.» Ambrogio se lo tirò dietro fino al quadro. Il profes-
sor Apollonio quel giorno non teneva lezione: «Però ha lezione domani, anzi
due lezioni: una alle dieci e una alle undici, cerca di ricordartelo.»
«Alle dieci e alle undici, eh?» disse sopra pensiero il Tintori. «Ho letto la
settimana scorsa un suo articolo su ‘L’uomo’: non hai idea che intuizioni! For-
se non c’è in Italia un altro critico letterario paragonabile a lui. Peccato scriva
in stile ermetico, questo mi dispiace, peccato.»
«Dunque ricorda: domani alle dieci, oppure alle undici. Potresti magari
prepararti in aula, fa vedere, ecco qui: aula Salvadori, e alle undici aula
sant’Agostino. Vuoi che prendiamo un appunto?»
«Un appunto? Cosa ci vado a fare io a lezione? Sì, beh una volta, giusto una,
ci posso anche andare: tanto per vederlo, siccome non l’ho mai visto.»
«Lo sai che sei un bel tipo? Se ti interessa... Cos’altro vorresti fare, sentia-
mo, se non andare a lezione?»
«Mi piacerebbe parlare con lui liberamente. Dirgli: ‘C’è questo problema, io
vedo queste soluzioni. Lei cosa ne pensa?’ Vorrei farmi insegnare direttamen-
te da lui, mi spiego? Che oltre tutto è anche scrittore, non è soltanto un grande
critico. Sarebbe bello poter fare come facevano nel medio evo, quando le uni-
versità le avevano appena inventate.»
«Il medio evo? Ma sentilo. Oh poveri noi! Per il medio evo però tu hai una
specie di fissazione: anche a Nova, quando son venuto a trovarti, i maestri
comacini e tutta l’altra mercanzia.»
«Sì, certo, come no? Hai qualcosa contro il medio evo tu? Prova a guardarti
intorno.» Michele indicò fuori delle finestre: «Prendi gli edifici di questa uni-
versità: li hanno costruiti più o meno allora. Confrontali col resto, con le co-
struzioni venute su dopo, con quella là moderna per esempio, e dimmi se la
gente sapeva costruire meglio allora o oggi.» Sbuffò: «Non si può nemmeno
fare il confronto.» «Beh, a questo riguardo posso anche essere d’accordo»
convenne Ambrogio, «ma insomma, dal medio evo sono passati un po’ di an-
ni.»
«E con ciò? Però con Apollonio questo discorso non c’entra, dicevo solo per
spiegarmi.»
«Già. Sai una cosa?» fece Ambrogio: «Ho l’impressione che tu, prima di
andare a sentire Apollonio, se mai ci andrai, vuoi fantasticarci sopra alla tua
maniera, un po’ come facevi in ginnasio coi fenici e col resto. Questo è.»
Michele si fermò un istante e lo guardò colpito: «Ehi» disse «potresti anche
avere ragione.»
I corridoi di lettere erano il regno delle donne. In quel momento risultavano
però un regno deserto, in quanto le donne stavano tutte senza eccezione den-
tro le aule al di là delle file di porte chiuse: «A ricevere il verbo con la bocca
aperta, come tante papere» suggerì caritatevolmente il Tintori.
Loro due no; loro due, uomini liberi e spregiudicati, non passavano il tempo
nelle aule: lo passavano a camminare avanti e indietro nei corridoi, ciondo-
lando con le mani in tasca, in attesa che le aule si aprissero.
Si aprirono finalmente quando trillò un campanello: le studentesse comin-
ciarono allora a venir fuori a sciami, frammiste a pochi sparuti studenti. Pre-
sero a fiumeggiare intorno ai due che s’erano immobilizzati nel corridoio a
mo’ di scogli, e mentre fiumeggiavano commentavano le lezioni appena ter-
minate, le discutevano, approvavano, disapprovavano, magari assiepandosi in
tre, quattro, cinque attorno a qualcuno dei maschi sparuti.
«Li vedi quei disgraziati?» li indicò sempre caritatevolmente il Tintori: «Si
sono iscritti a lettere perché sono convinti in cuor loro d’essere dei poeti. Al-
trimenti non l’avrebbero fatto, con la prospettiva di quello stipendio da fame.
Ma quanti di loro sono davvero poeti? Ci pensi che amaro risveglio fra qualche
anno? Che delusione? Poveri fessi» concluse con un fondo di dispiacere since-
ro: «E non si può far niente per aprirgli gli occhi.»
Ambrogio lo sbirciò: il pensiero ch’egli potesse domani trovarsi nella stessa
situazione, non lo sfiorava nemmeno; Ambrogio finì col mettersi a ridere
scuotendo la testa.
Le ragazze portavano tutte senza eccezione il grembiule nero e il collarino
bianco, come prescriveva il regolamento; per la maggior parte erano brutte
ahimè, sciupate dalle molte ore spese sui libri, poche erano le passabili, e solo
qualcuna veramente bella. Queste ultime non sembravano tuttavia dare in
quel momento importanza alla cosa, e chiacchieravano animatamente con le
brutte e con le passabili di semantica, di filologia romanza e - come disse an-
cora nel suo linguaggio caritatevole il Tintori - d’altre analoghe fasullerie. Se
però i due studenti estranei ne seguivano abbastanza a lungo qualcuna con lo
sguardo, questa finiva col voltarsi a mezzo per sbirciarli a sua volta, e la mano
le correva magari a ravviare i capelli, o ad aggiustare il collarino, o la cintura
del grembiule. Cosa che non sfuggiva ai due ragazzi, e li divertiva.
Una tuttavia, che aveva attirato la loro attenzione, non si rassettò affatto; i
due la conoscevano da un certo tempo di vista: era bruna, con la fronte a bau-
letto, di parlata emiliana, portava appuntato sul grembiule nero il distintivo
dell’Azione Cattolica femminile («Quella dev’essere una che ai distintivi ci tie-
ne» aveva osservato qualche giorno avanti Ambrogio.)
Stavolta udirono pronunciare il suo nome da una compagna: «Nilde, ehi
Nilde, aspettami.»
«Che Nilde?» chiese, prontamente rivolgendosi alla suddetta compagna, il
Tintori: «Leonilde? O, Dio non voglia, Brunilde? O che altro?»
La compagna non gli rispose; la Nilde si girò invece a lanciargli un’occhiata
di sufficienza, e anziché rispondergli direttamente: «C’è gente» disse alla
compagna «che non si limita a perdere il proprio tempo: vorrebbe farlo perde-
re anche agli altri.»
«Ehi» disse Ambrogio al Tintori: «Abbastanza efficace direi. A quanto pare
la Nilde è una che la sa lunga.»
«La Nilde è una castigatrice di costumi» riconobbe il Tintori. Il loro tentati-
vo di approccio fu però interrotto su queste poche battute dalla comparsa di
un frate alto e bello, che a differenza degli altri studenti di lettere - tutti, anche
se ispirati, piuttosto schivi -era uscito da un’aula comportandosi in modo che
dava decisamente nell’occhio. Si trascinava dietro un gran codazzo di studen-
tesse che: «Padre Bertrando, padre Bertrando» gli dicevano: «ha scritto qual-
che altra cosa? sì? Ce la vuol leggere? È un’altra poesia patriottica?»
Nel tentativo di superarsi tra loro per arrivare al frate, le studentesse co-
strinsero i due studenti forestieri ad abbandonare la posizione di scogli e a
ritrarsi fin contro il muro.
«Poesia patriottica?» domandò Ambrogio al compagno, dopo che la torma
fu passata: «Cosa intendono dire? Mica quel frate scriverà carmi su Mussolini,
spero.»
«Temo proprio di sì» rispose l’altro, che tuttavia adesso pareva assente col
pensiero: «almeno se si tratta del frate di cui ho sentito parlare. Padre Ber-
trando, sì, dev’essere lui.»
«Ma, un frate... Gli manca per caso una rotella?»
«È semplicemente uno a cui piace esibirsi. Non hai visto?»
Lo si vedeva ancora del resto: mentre procedeva lungo il corridoio il giova-
ne frate vanesio non cessava infatti di gestire, fulminando intorno, di tanto in
tanto, occhiate da profeta.
«Poesie su Mussolini un frate! Lo sai che mi pare impossibile?»
«Eppure.»
«Che razza di bamba» concluse Ambrogio.
Mentre riprendevano a passeggiare il Tintori si levò di tasca una matita e un
foglietto già annotato e scribacchiò qualcosa.
«Cos’hai scritto? Che quella là si chiama Nilde?»
«Mm? Nilde? No, ho scritto un’altra cosa. Dì un po’: ti sei mai chiesto come
si risolverà nell’aldilà il problema delle ragazze brutte, anzi, più in generale, il
problema degli esseri umani brutti?»
«Ma sentilo!»
«Tenuto presente che nell’aldilà noi risorgeremo col nostro stesso corpo,
ecco il punto. Sta attento per favore e aiutami a risolvere. Non sto scherzan-
do.»
Ambrogio tentennò la testa: «Beh, dì.»
«Quel che è certo, è che uno non potrà rimanere brutto, e magari bruttissi-
mo, anche nell’aldilà, intendo uno che si salvi. Perché la bruttezza sarebbe per
lui un motivo di continuo disturbo, di fastidio. Per tutta l’eternità? Ma allora
quella del paradiso non sarebbe più per lui un’eternità beata. Anzi, a guardar
bene, non lo sarebbe più neanche per chi gli sta intorno.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Vediamo: quando diciamo che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di
Dio, per me è scontato che non ci riferiamo solo allo spirito dell’uomo, ma an-
che al suo corpo, per quel tanto almeno che la materia può raffigurare
l’immateriale. Sei d’accordo in questo?»
«Boh.»
Il Tintori andò avanti ugualmente: «Ciascuno di noi rispecchia Dio diciamo
da una diversa angolatura, dalla sua propria angolatura. Appunto per questo
non siamo tutti uguali, sai che noia sarebbe? Anzi precisamente da questo fat-
to, io credo, deriva l’individualità di ciascuno di noi. Voglio dire che uno è tan-
to più sé stesso quanto più pienamente rende - per esprimerci un po’
all’incirca — quella particolare sfaccettatura di Dio che si riflette in lui. Quanto
più va avanti nel renderla, è chiaro? Già. Però m’accorgo che non era questo il
discorso. Se mai in che modo uno che è brutto di qua possa diventare bello di
là, pur rimanendo lo stesso. Ecco, sono uscito di strada.»
«Beh, no» fece Ambrogio, il quale nel frattempo aveva avuta la sua piccola
illuminazione. «Posso dare anch’io il mio umile apporto, o devo stare solo ad
ascoltare il tuo cervellone che ronza?»
«Anzi, dì.»
«Sta attento: ho un cugino che vedo di raro, il quale somiglia in modo-
straordinario a sua madre, anche se a prima vista non si direbbe. Se li guardi
bene però, vedi che hanno gli stessi occhi, la stessa fronte, la bocca uguale,
eccetera. Con tutto ciò mentre lei è brutta da non credere, un vero disastro, lui
invece è un bel ragazzo. S’è verificato un po’ come stavi dicendo tu: lui è riu-
scito a... rendere sé stesso, le sue caratteristiche, è andato avanti nel renderle,
mentre lei no. Insomma quello che intendo è che, pur avendo uguali fattezze,
è possibile essere molto brutti oppure molto belli.»
«Ah, forse ci siamo!» Il Tintori si tolse nuovamente di tasca il pezzo di carta
e la matita: ‘Cugino del Riva’ scrisse. «Potremmo impostarla così» propose
euforico: «Quaggiù il fisico di uno può facilmente essere deformato dalle mi-
serie d’ogni genere che lo intralciano fin dalla nascita, anzi da prima; ma una
volta di là, dove tali miserie non sono presenti, ecco che rifletterà Dio senza
più deformazioni: in pieno lo rifletterà. Voglio dire che, per esempio, una fac-
cia scombinata di qui, nell’aldilà risorgerà secondo il proprio modello, cioè si
combinerà necessariamente nel modo giusto, pur rimanendo la stessa. Sì, for-
se ci siamo.»
«E quelli che sono già bellocci anche di qui, per quelli come la metti? Per
l’Alida Valli ad esempio, oppure che so, per l’Apollo di Leocare? Quelli, il loro
corpo intendo, di passi verso la perfezione non ne dovranno fare poi molti
suppongo, visto che sono già piuttosto avanti.»
«Non molti, non scherzare per favore. L’Alida cerca di vederla come la di-
pingerebbe, che so, il Beato Angelico: potrebbe anche com’è adesso fare da
modello per una Madonna, no? Risorgerà io credo, com’è stata nei giorni della
sua massima bellezza.»
«E la Nilde? Nell’aldilà avrà ancora la fronte così pronunciata?
- O quella le si ridurrà un po’?»
«Perché? Non credo, la fronte a bauletto mi pare vada benissimo: potrebbe
essere una specie d’istantanea di Dio-intelligenza. No, la Nilde non dovrebbe
aver bisogno di cambiare molto: sempre che si meriti il suo posticino in para-
diso naturalmente.»
CAPITOLO TRENTADUESIMO
***
Non poterono ad ogni modo seguire molte altre lezioni. Perché subito dopo
le vacanze di Natale il GUF (cioè l’organizzazione degli universitari fascisti)
chiese per tutti gli studenti della classe 1921 il ‘privilegio’ della chiamata alle
armi in qualità di soldati semplici. Il ‘privilegio’ venne accordato.
PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO
***
Il quale attendeva il figlio seduto al suo posto di lavoro; intanto leggeva con
attenzione un foglio dattiloscritto, altri fogli gli stavano davanti, parte dentro
cestini di fibra, parte accatastati sulla scrivania, mescolati ai fogli c’erano
campioni di tessuti e matassine di filato.
Emergeva dall’insieme un portaritratti in legno di modello antiquato, con
una fotografia della madre dell’industriale seduta tra le due nuore, ossia tra
Giulia e la defunta madre di Manno: alle gonne, inverosimilmente lunghe, del-
le due giovani donne, si tenevano attaccati i primi nipoti, cioè Manno, Ambro-
gio, e Francesca, ancora infanti. Attraverso i muri giungeva incessante il ru-
more dei telai, facendo lievemente vibrare ogni cosa, e in particolare una
stampa del Crocefisso venerato nella chiesa di Nomana, appesa a una parete.
«Papà, son venuto a salutarti.»
Il padre annuì: «Sì» disse.
I due o tre impiegati che erano nel locale, alzatisi, pronunciarono qualche
scherzosa frase di saluto, strinsero la mano del giovane, e uscirono discreti. Il
padre non parlava; a osservarlo bene risultava non meno commosso della ma-
dre poco prima. “È più emotivo di lei del resto” pensò il giovane, e aggiunse,
sempre mentalmente: “Caro papà”.
«Con questo passo tu diventi un uomo» disse finalmente Gerardo. «Adesso
non hai idea di cosa significhi, lo scoprirai un po’ alla volta. La sorte, anche
degli altri, potrà in certi momenti dipendere da te, dal tuo comportamento,
dalle tue decisioni: è una faccenda tutt’altro che allegra, vedrai.» Fece una
pausa, sembrava voler aggiungere chissà quante altre cose; Ambrogio, di fron-
te a lui, sorrideva fiducioso.
«Beh, che Dio t’aiuti» tagliò corto il padre, e tracciò con la mano destra un
segno di croce, a benedirlo.
Dopo di che padre e figlio si strinsero la mano. «Appena mi sarà possibile,
forse domani stesso, vi telefono la mia destinazione» disse il ragazzo.
«D’accordo. Che Dio ti assista» ripeté il padre.
Ambrogio uscì.
Celeste aveva nell’attesa girata la macchina, e scoperchiatone il cofano stava
esaminando il motore. Oltre che conduttore era meccanico degli automezzi
della ditta, e aveva la passione dei motori: appena poteva se li contemplava.
Accanto a lui c’era adesso anche Luca, evidentemente in attesa d’Ambrogio.
Come questi apparve Celeste richiuse con un tonfo il cofano, Luca si fece avan-
ti: «Son qui per dirti anch’io in bocca al lupo.»
«Grazie» gli rispose Ambrogio stringendogli familiarmente un gomito.
«E che sto per seguirti a ruota. Vengo sotto anch’io.»
«Ah.»
Luca annuì. «La carta m’è finalmente arrivata ieri. Devo presentarmi a Me-
rano lunedì. Così mio fratello potrà tornare a casa dalla Grecia.»
«Vai a Merano? Eh già, tu sei alpino. Sei ‘d’in somm’.»
«Sì» annuì Luca sorridendo.
‘D’in somm’ era termine dialettale scherzoso, in uso a Nomana per significa-
re ‘delle sommità’, cioè montanaro. In realtà Luca era nato e abitava a tre soli
chilometri da Nomana; però in provincia di Como, dunque in terra di reclu-
tamento alpino.
«Alpini, gavetta doppia» commentò Celeste.
«E anche fatica doppia» aggiunse Ambrogio.
Luca non disse niente, sorrideva, col suo spericolato ciuffo di capelli sulla
fronte; contraccambiò la stretta di mano d’Ambrogio, poi si tirò indietro di
qualche passo per assistere alla partenza.
La macchina uscì dal cancello e attraversò Nomana verso sud; mentre pas-
sava davanti alla corte di Sansone, fredda e parzialmente fangosa, e senza voli
di rondini, Ambrogio ricordò le parole scambiate con Igino, Pierello e Casta-
gna l’altra volta ch’era andato al distretto.
Passò anche davanti a ‘I dragoni’, la villa gentilizia dal portone sempre
chiuso. Che cuore potesse avere in questo momento la vecchia Eleonora, il cui
figlio nella guerra precedente era partito come lui oggi, per non più tornare, il
giovane non se lo chiese, alla vecchia nemmeno pensò. Stava ascoltando con
interesse Celeste, il quale nel 26 era stato l’autista addetto, nientemeno, al ge-
nerale Badoglio. Un tempo, quando Ambrogio era bambino, Celeste racconta-
va spesso quella sua esperienza, la raccontava anche a chi non voleva ascoltar-
lo; poi poco alla volta non ne aveva più parlato. Adesso il suo racconto, specie
certi particolari, riuscivano ad Ambrogio nuovi, interessanti; a Celeste non
sembrava vero di averlo ascoltatore così attento. Parlarono delle autovetture
in uso a quel tempo allo Stato Maggiore, quindi di Luca, della fortuna di suo
fratello che grazie a lui poteva rimpatriare dalla Grecia, nonché delle dimen-
sioni della gavetta alpina. Così parlando giunsero quasi senza accorgersene al
distretto di Monza.
Ambrogio smontò, prese dalla macchina la sua valigia dalla serratura nuo-
va, salutò Celeste: «Ciao Badoglio», e imboccò con decisione la passerella sul
Lambro.
Alquante ore più tardi ripercorse la passerella in senso inverso, diretto con
una ventina d’altri studenti alla stazione ferroviaria, destinazione Cremona,
arma artiglieria. Dei suoi nuovi compagni il giovane non ne conosceva neppu-
re uno. Durante le ore d’attesa lui e uno studente d’ingegneria dalla faccia fo-
runcolosa avevano però scoperto d’avere una conoscenza in comune: un
commerciante d’imballaggi di Turro, fornitore estemporaneo della ditta Riva,
del quale lo studente d’ingegneria era mezzo parente.
CAPITOLO SECONDO
Era notte alta quando il drappello di studenti sbarcò dal treno nella stazione
di Cremona. Sul piazzale antistante c’erano lunghi cumuli di neve sporca, vi-
trea: mentre con le loro valigette in mano passavano tra cumulo e cumulo,
tutti quei ragazzi - tenuti sommariamente incolonnati da un caporale del di-
stretto - provavano in cuor loro uno straordinario senso di spaesamento, tanto
che come individuarono un bar ancora miracolosamente aperto, proposero al
caporale d’entrare a bere qualcosa («Qualcosa di caldo, eh? Te l’offriamo
noi») per tentar di familiarizzare con lui che in qualche modo rappresentava
la vita militare, per rompere quel disagio. Il caporale - un poveraccio malmes-
so, di parlata difficoltosa - non se lo fece dire due volte: entrò nel bar, e con lui
si pigiarono nel modesto locale gli studenti; alcuni cominciarono a offrigli
punci e bicchierini e pacchetti di sigarette: erano di famiglie agiate, tranne
uno che era ed aveva l’aspetto di povero, e tuttavia non si lasciava vincere da-
gli altri nell’offrire, perché era più spaesato di loro. Finché fu il caporale a dire
nella sua parlata confusa che basta, non dovevano esagerare né sciupare i loro
soldi per lui che il giorno dopo se ne sarebbe tornato a Monza; al che ci fu tra i
presenti chi ridacchiò, gli offerenti tuttavia insistevano, senza darsene per in-
tesi. Finalmente uscirono di nuovo tutti nell’aria fredda.
Al fianco di Ambrogio si teneva - come durante il viaggio in treno - il paren-
te del fabbricante d’imballaggi: quel poco, quel niente di conoscenza in comu-
ne, sembrava loro già un legame. Percorsero in fila disordinata un lungo tratto
della via Campi, la principale di Cremona, deserta e interamente buia, poi al-
cune strade secondarie, acciottolate e se possibile ancora più buie, finché
giunsero davanti a una caserma. Il caporale bussò al portone.
Al di là risuonò uno scalpiccio, si aprì uno spioncino: l’interno risultava fio-
camente illuminato. Una guardia domandò chi fossero, donde venissero, il
caporale diede la risposta; la guardia, dopo essersela fatta ripetere un paio di
volte («E parla più chiaro, sacr...») richiuse lo spioncino.
Seguì un tempo d’attesa.
«Perché non apre, quello?» chiese uno degli studenti al caporale.
«Eh, calma. È andato a riferire all’ufficiale di picchetto.»
All’interno risuonarono a un tratto i passi di più persone, poi un rumore di
chiavi, e uno sportello si aprì nel portone: uscì sulla strada l’ufficiale di pic-
chetto, un bel ragazzo dal volto deciso, con la sciarpa azzurra a tracolla.
«Distretto di Monza, avete detto?»
«’Gnorsì» gli rispose il caporale, e gli tese un foglio: «ecco la ‘bassa di pas-
saggio’.»
«La bassa conservala tu. Dovete andare più in là.» Avanzò di qualche passo
sull’acciottolato: «La vedi quella strada? La prima a destra.»
«’Gnorsì.»
«Bene. Dovete percorrerla tutta fino in fondo. Capito? Fino in fondo. La
strada conduce a un portone: è là, dentro quel portone, che voi dovete anda-
re.»
«Ah, ho capito, al ‘deposito quadrupedi’.»
L’ufficiale si fece ripetere la frase pronunciata in modo poco intelligibile, e
annuì: «Sì, vedo che sei pratico. Una volta quello era infatti il deposito qua-
drupedi. Forza, non rimanete qui a prender freddo.»
Rispose, alzando la mano guantata alla bustina, al saluto del caporale, poi si
ritirò.
Il drappello s’incamminò di nuovo, imboccò la strada prescritta, anche que-
sta a ciottoli, anche questa priva d’illuminazione, e arrivò al portone di cui
l’ufficiale aveva parlato. Che non era sorvegliato da un servizio di guardia ma
da un semplice piantone, il quale accorse dopo ripetuti e sempre più violenti
colpi vibrati sul legno; intanto vociferava in dialetto lombardo: «Vengo, ven-
go, oh, san furmentu, che maniera l’è»
Li fece entrare e li guidò, attraverso un piccolo cortile, a uno stanzone arre-
dato con poche suppellettili, sul cui pavimento si scorgeva un mucchio infor-
me di gavettini ancora sporchi di fonderia, e una catasta di coperte da caser-
maggio. Qui li lasciò, per andare - come disse - a chiamare ‘el sergent magiur’.
CAPITOLO TERZO
‘El sergent magiur’ un anziano dal viso oltremodo rugoso, arrivò con la di-
visa non bene abbottonata, e sbadigliando sedette su uno sgabello a un tavolo
sproporzionatamente lungo, sopra il quale pendeva l’unica lampadina accesa.
Afferrò la bassa di passaggio che il caporale gli porgeva e lesse, storpiandolo, il
primo nome dall’elenco: «Acosio.»
«Arosio, presente» esclamò uno degli studenti. Senza parlare, perché trop-
po impegnato a sbadigliare, il sottufficiale gli fece segno di prendere dal muc-
chio un gavettino, e dalla catasta non una ma due coperte (due, due, indicava-
no l’indice e il medio della sua mano). Lo studente ritenne che quel due voles-
se dire seconda operazione: prima operazione prendi un gavettino, seconda
operazione una coperta; tenendo quindi d’occhio il laconico sergente maggio-
re, prese prima un gavettino e poi una coperta dai rispettivi mucchi. «Due co-
perte, due» bofonchiò l’altro, e commentò: «Le reclute, ah, le reclute!» Dopo
che il giovane ebbe eseguito, ne spuntò il nome sulla bassa e gli fece segno di
mettersi là, in quel punto, in attesa delle altre reclute, poi passò al nome suc-
cessivo.
Ambrogio osservava attento, cercando di prendere ogni cosa al meglio, ma
si sentiva perplesso: l’ambiente militare, a questo primo incontro, non gli fa-
ceva un’eccelsa impressione; però, obiettivo com’era, s’impose d’aspettare a
trarre conclusioni. “Voglio già giudicare, e ancora non ho visto niente... Potrò
tirare una conclusione solo dopo avere effettivamente visto qualcosa.”
E subito qualcosa vide: preceduta dal pacioso San furmentu una nuova on-
data di studenti - non meno d’una sessantina - entrò vociando nel locale. Di-
chiararono di venire - via Piacenza - dalla linea di Roma, e d’essere toscani,
napoletani, romani, umbri, e d’altri luoghi ancora. Ambrogio li osservò incu-
riosito; non ne sapeva distinguere la provenienza dalla parlata, solo la vita mi-
litare gliel'avrebbe insegnato. Gli sembravano - ed erano - in complesso meno
impacciati di lui e dei suoi compagni lombardi, e più estroversi, più espansivi:
tranne forse quei pochi raggruppati là insieme (si trattava degli umbri, ma egli
l’ignorava) che avevano un’aria placida e nobile (“Sembrano dei gattoni di
marmo”): quelli erano forse anche più impacciati dei lombardi.
Esaurito il drappello di Monza il sergente maggiore passò ai nuovi arrivati;
il primo di cui egli lesse il nome - un biondo dal cranio aguzzo - fece un passo
avanti e dichiarò: «Mi permetto far presente che stasera noi toscani non ab-
biamo mangiato. E chi viene da più lontano» indicò il gruppo «non ha man-
giato neanche a mezzogiorno.»
“Guarda” pensò Ambrogio sorpreso: “guarda! Nessuno di noi avrebbe mai
parlato duna cosa simile.” A dire il vero non gli sembrava virile lamentarsi per
un pasto saltato: lui non l’avrebbe fatto neppure a casa sua; e tuttavia, ecco,
una protesta poteva anche essere l’inizio d’una risistemazione delle cose.
II sergente maggiore guardò incredulo il ragazzo toscano, lo scrutò meglio,
poi si rivolse a San furmentu e: «Son proprio reclute!» sbuffò: «Cosa vuoi far-
ci?»
San furmentu si mise a ridere: «Non li avete visti nelle stazioni i ‘posti di ri-
storo’ per militari?» chiese al ragazzo. «C’è scritto sopra, no? Perché non siete
entrati a farvi dare il rancio? Non avete capito che sono là apposta?»
Il biondo dalla testa aguzza spiegò, rivolgendosi sopra tutto al sottufficiale:
«È stato per gli orari. Durante le soste del nostro treno non era mai ora di ran-
cio.»
«Ma tu adesso cosa vorresti?» gli chiese, tentennando la testa, il sergente
maggiore: «Svegliare i cucinieri perché vi preparino il rancio?» Si rivolse a
San furmentu: «L’avresti detto tu che ci sono ancora in giro degli impagliati
come questo?»
A tali parole il ragazzo toscano, dopo essersi guardato intorno come per sol-
lecitare appoggio, cominciò a bestemmiare, e in modo incredibilmente scurri-
le.
«Ehi tu. Nome. Com’è che ti chiami?» fece allora, duro, il sottufficiale:
«Come ti chiami, ho detto?» Fissò gli occhi sulla bassa di passaggio alla ricer-
ca del nome ch’egli stesso aveva pronunciato poco prima.
Incredibilmente per Ambrogio bastò questo perché l’altro, cessando di be-
stemmiare, mostrasse improvvisamente paura, e assumesse l’aria di un cane
che ha visto il bastone.
«Che razza di merda» lo valutò pesantemente il sergente maggiore.
Ambrogio stava passando attraverso una serie di reazioni diverse. Aveva
dapprima guardato al caporale ‘accompagnatore’ del distretto di Monza: “Per-
ché alla stazione di Milano non ci ha condotti a prendere il rancio, com’era suo
dovere? Soltanto per non darsi da fare: tanto lui il rancio l’aveva certamente
consumato prima di lasciare il distretto. Ecco perché. Una buona punizione lo
convincerebbe a fare il suo dovere...”
Poi le bestemmie mescolate a oscenità del toscano, l’avevano offeso: “In
quanti siamo, qui, che crediamo in Dio?” aveva pensato con indignazione:
“Che lo amiamo quanto nostro padre e nostra madre? Perché questa bocca di
porco lo insulta? Con che diritto? Bene, una volta fra noi, appena questo farà
tanto di bestemmiare, io insulto sua madre: vedremo se gli farà piacere.” E
minaccioso: “E vedremo anche come andrà a finire.” Quando però lo vide mu-
tato di colpo, pauroso, pronto a strisciare, lo sdegno l’abbandonò, si ritrovò
pieno di disgusto: “E magari un individuo così finirà col diventare ufficiale!”
Il sergente maggiore spuntò il nome sulla bassa, e fece segno al pauroso di
prendere il gavettino e le due coperte, poi passò alla recluta successiva: il pri-
mo non lo interessava già più. Ma che tipo era in fin dei conti - si chiese Am-
brogio - quel sergente maggiore? E per cominciare, cosa indicavano i due na-
strini che aveva sul petto? Girò la domanda a uno che gli stava accanto: «Sai
cosa vogliono dire quei due nastrini?»
«Uno mi sembra la campagna d’Africa del 36. L’altro non so.»
«Ehi, non sarà mica sotto le armi da allora, dal 36? E magari anche da pri-
ma, dal 35 o 34?»
«Mah. A guardarlo ne ha l’aria.»
“Quell’altro nastrino, cosa significherà?” Ambrogio, incuriosito, provò a
chiederlo al mezzo parente del fabbricante di Turro, poi a un monzese coi ca-
pelli a spazzola ché gli stava vicino: ma né i due, né gli altri intorno lo sapeva-
no.
«Forse» buttò là spiritoso il mezzo parente «significherà che ha partecipato
alla prima guerra punica.»
Ridacchiarono. Il sergente maggiore se ne accorse, li guardò insospettito,
poi ordinò a San furmentu di portarli via: «Via quelle scamorze del distretto
di Monza. Portali a dormire al grand hôtel.» E mentre si allontanavano: «Se
mai chiedeteglielo ai camerieri in livrea il rancio, scamorze dell’università.»
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
Il giorno dopo altri studenti affluirono, il successivo altri ancora - tutti sici-
liani questi - e furono gli ultimi; in complesso al ‘deposito quadrupedi’ (da
molti anni senza quadrupedi, e prevalentemente adibito a magazzini) si trova-
rono riunite intorno a duecentoquaranta reclute.
Ebbe subito inizio la loro istruzione: scuola a piedi, regolamenti, servizi,
scuola sui materiali. Negli intervalli tra un’istruzione e l’altra (a volte lunghi
perché, come si seppe poi, gli ufficiali non avevano idee chiare sul futuro tipo
d’impiego di queste reclute) e nelle soste dopo il rancio, gli studenti passeg-
giavano nei cortili, oppure sedevano per terra negli spiazzi meglio riparati,
dove già cresceva la prima erba nuova. Se avesse avuta più fantasia, in tali
momenti Ambrogio si sarebbe potuto immaginare i quadrupedi che un tempo
popolavano questo ambiente: cavalli isolati o a pariglie, mute dal passo volen-
teroso, file di muli dalle sagome solide e pazienti, e il buon odore del fieno e
quello dell’avena, insomma i giorni d’una volta; ogni cosa qui li richiamava, ad
esempio le file d’anelli arrugginiti ai muri, le finestre a mezzaluna delle scude-
rie, le lunghe vasche per l’abbeverata lasciate andare in disuso. Ambrogio non
era però portato a fantasticare.
Faceva invece continue piccole acquisizioni; le sue esperienze si sussegui-
vano, aggiungendosi a quelle della prima sera, confermandole oppure gra-
dualmente modificandole. Così se l’opinione circa la sboccatezza dei toscani
rimaneva (e non l’avrebbe più abbandonato per tutta la vita), il suo proposito
d’attaccar briga col bestemmiatore dalla testa aguzza si era invece dissolto del
tutto davanti alla constatata pusillanimità e nullità mentale di quello. Il quale
lungi dal costituire l’elemento di punta del gruppo toscano, era stato dai suoi
soprannominato Geppetto e veniva anche da loro considerato un bisbetico
inconsistente. Del resto Ambrogio notò - e fu pure questa una scoperta - che i
toscani non formavano affatto gruppo a sé, così come non lo formavano gli
studenti delle altre regioni; andava piuttosto prendendo piede una sorta di
tacita emulazione tra tutti, analoga a quella allora abituale a scuola. Più tardi
sarebbe stata per Ambrogio una sorpresa constatare che anche sotto le armi ci
sono ragazzi che formano gruppo, ma sono quelli già solidali tra loro nella vita
civile, in particolare i montanari.
Quanto a lui nei momenti di libertà finiva col ritrovarsi di solito col mezzo
parente del fabbricante d’imballaggi di Turro: non tanto perché tra loro due ci
fossero interessi in comune, quanto per una sorta d’omaggio inerziale al loro
ambiente di provenienza.
Il mezzo parente era in quei giorni seccatissimo per la qualifica, che veniva
a volte affibbiata agli studenti, di volontari; non poteva proprio mandarla giù.
«Da quando in qua» egli ripeteva ad Ambrogio «uno che si trova alle armi
perché l’hanno chiamato con tanto di cartolina, è un volontario?» Ambrogio
conveniva con lui; l’altro si lamentava anche per l’incertezza del loro futuro: «I
GUF vorrebbero che noi si venga impiegati subito come soldati semplici, però
a quanto pare di soldati semplici ce ne sono fin troppi. C’è chi sostiene - li hai
sentiti anche tu - che l’autorità militare vorrebbe invece istruirci come ufficia-
li: ma anche di ufficiali sembra che i corsi normali ne sfornino più che a suffi-
cienza. Allora si può sapere perché ci hanno chiamati?»
«Beh, resta il fatto» gli obiettò una volta Ambrogio «che l’Italia è in guerra,
e tutti gli altri della nostra classe sono alle armi. Non era decente che noi ri-
manessimo a casa solo perché siamo studenti.»
«E gli studenti del 20 allora? e quelli del 19, e del 18, e del 17, e del 16? Per-
ché hanno chiamato noi del 21 e loro no? Ti par giusto questo?» Ambrogio si
limitò ad allargare le braccia.
Egli si accompagnava spesso anche col marrucino, di cui gradiva la costante
serietà e compostezza; aveva inoltre individuata in lui una nascosta religiosità
(“Come finisce col somigliare ai nostri di Brianza, questo!”). Vagamente si
chiedeva se tutti gli abruzzesi fossero fatti così.
«Nella mia terra» gli spiegò a sua domanda il marrucino «siamo sincera-
mente religiosi, lo è soprattutto il popolo, su questo non c’è dubbio. Forse la
cosa ti sorprende?» Non aggiunse altro al riguardo; del resto poiché era, al
pari d’Ambrogio, un ragazzo di poche parole, gli teneva spesso compagnia an-
che senza parlare, semplicemente passeggiando al suo fianco.
***
I materiali assegnati per l’istruzione alle due ‘batterie universitari’ in cui gli
studenti erano stati inquadrati, si riducevano a due vecchi cannoni da 75 mil-
limetri modello 1911, con le ruote cerchiate di ferro, intorno ai quali i giovani
erano costretti a disporsi in gruppi troppo numerosi. Cominciò anche la vesti-
zione, ma a spizzico: poche decine di reclute per volta erano ogni giorno ac-
compagnate da un graduato alla caserma principale, dove venivano loro con-
segnati con strana parsimonia la divisa e i capi d’equipaggiamento più indi-
spensabili. Per cui la sera, durante la libera uscita, si vedevano in giro per le
strade di Cremona, zeppe di soldati (la città contava diverse caserme), studen-
ti in divisa con le scarpe ancor gialle tant’erano nuove, imbrancati con altri in
abiti borghesi sempre più spiegazzati.
Finché un giorno il mezzo parente portò ad Ambrogio e al marrucino una
grande notizia: «Lo sapete? In alto loco ha vinto la tesi dei comandi militari,
non quella dei GUF. Ieri è arrivata in caserma una circolare che prescrive di
darci la stessa istruzione che si dà nelle scuole ufficiali. Anzi la circolare stabi-
lisce che di qui a quaranta giorni si terrà un primo esame e tutti gli idonei ver-
ranno promossi caporali.»
«Caporali?» chiese Ambrogio.
«Beh, è così. L’ho saputo da uno scritturale del comando.»
«Allora» osservò pianamente il marrucino «più che una vittoria degli alti
comandi, questo mi sembra un pateracchio.»
«Chiamalo come vuoi. L’importante è che c’istruiscono da ufficiali.»
Le due batterie di candidati caporali vennero a questo punto trasferite dal
deposito quadrupedi alla caserma principale, e alloggiate non più sulla paglia
ma in normali camerate con brande, materassi, lenzuola. Ebbe inizio, per Am-
brogio e gli altri, una vita intermedia tra quella dell’allievo ufficiale e quella
del soldato comune.
CAPITOLO SESTO
Gli altri soldati non vedevano di buon occhio gli studenti. Non li avevano
perciò accolti bene in caserma: «Ecco quelle facce di palta che gridavano viva
la guerra. - Guardali lì, i disgraziati. - Voi volontari era meglio se vi tenevano
per terra sulla paglia. - Adesso che la guerra c’è, sarete contenti, eh? - Guardali
i ‘firmaioli’.»
A tale accoglienza gli studenti erano ovviamente rimasti molto male, specie
quelli - e si trattava in fin dei conti della maggioranza - che non avevano par-
tecipato alle chiassate interventiste. Alcuni - tra i quali il mezzo parente - tro-
vavano particolarmente intollerabile quell’epiteto di ‘firmaioli’, mai sentito
prima, che nell’esercito designava chi (in genere perché disoccupato) in tempo
di pace sottoscriveva la richiesta di prolungamento della ferma.
«Firmaioli: hai sentito Riva? Firmaioli a noi» ripeteva costernato il mezzo
parente.
«Te la prendi per così poco?»
«Eh» diceva quello, «certo che me la prendo.» Si dava un gran da fare, in-
sieme con alcuni altri, per convincere i soldati del loro errore. Fra tutti quei
ragazzi all’incirca della stessa età, studenti e no, i malintesi non potevano co-
munque durare a lungo: valse a dissiparli l’insistita affermazione che gli stu-
denti si trovavano alle armi perché chiamati con cartolina precetto, al pari di
tutti.
Anziché badare a queste beghe Ambrogio cercava di rendersi conto della si-
tuazione nell’esercito.
Nella caserma - ampia e formata di costruzioni omogenee a uno o due piani,
inframezzate da grandi cortili - il reggimento non era presente. Stava combat-
tendo in Albania; in pratica era come se fosse su un altro pianeta, perché nes-
suno qui aveva la minima idea di ciò che gli stesse succedendo: non c’era, in
apparenza almeno, alcuno scambio tra il reggimento e il suo deposito, e nes-
suno dei presenti, neppure gli ufficiali, ne parlava mai, o lo ricordava come
che sia.
Era intanto in preparazione un reggimento bis, che avrebbe potuto essere
pronto da tempo se non fossero mancati i materiali necessari. Mancavano in
particolare gli autocarri e i trattori, i quali arrivavano sì, ma come assegnati
col contagocce. Tutti si erano talmente abituati a questo fatto che ci scherza-
vano sopra; era stata composta anche una canzonetta:
‘Artiglieria motorizzata
paraponzi - ponzi - po’,
i motori non li vedi
e ti tocca andare a piedi,
paraponzi - ponzi - ponzi
paraponzi - ponzi - po’...’
Anche gli studenti l’avevano adottata.
Oltre al reggimento bis c’erano in caserma forse mille reclute ordinarie, in-
quadrate in batterie d’addestramento, nonché alcuni reparti adibiti ai servizi.
Questi ultimi erano composti d’elementi anziani, in genere stanchi della vita
militare, snervati soprattutto - a loro dire - dai richiami a ripetizione che ave-
vano senza costrutto interrotto di continuo le loro occupazioni civili nei sei o
sette anni precedenti. Erano di questi San furmentu, il vecchio sergente mag-
giore che comunicava quasi solo a gesti, e gli altri pochi anziani scalcagnati
con cui Ambrogio era venuto a contatto nel deposito quadrupedi. Adesso an-
che costoro erano tornati nella caserma principale, dove cercavano accidiosa-
mente di dar tempo al tempo; capitava ogni tanto al giovane di vederne qual-
cuno ciondolare in giro, preoccupato soltanto di non finire tra i piedi dei supe-
riori.
Gli studenti facevano anche qui l’‘istruzione sui materiali’ assiepati intorno
ai due vecchi cannoni, mentre in altri cortili gli uomini del reggimento bis se-
guitavano a ripetere gli stessi esercizi in bianco attorno ai loro pezzi, e le reclu-
te delle batterie d’addestramento erano impegnate - più che in vere esercita-
zioni militari (per le quali mancava il materiale) - in interminabili giochi spor-
tivi. Correvano su e giù a non finire, in maniche di camicia, sudate, coi volti
accesi; davano a chi le vedeva un’acuta sensazione di spensieratezza, né più né
meno dei ragazzi che giocano impetuosi nei cortili degli oratori di paese. Coi
quali, non fosse stato per le bandoliere d’artiglieria, i pantaloni a sbuffo, e i
marziali gambali, le si sarebbe a momenti potute scambiare.
All’andamento della guerra nessuno sembrava pensare; Ambrogio (specie
quando trascinava a mano con gli altri i cannoni dalle ruote cerchiate di ferro,
magari cantando ‘i motori non li vedi - e ti tocca andare a piedi’) si chiedeva
se l’opinione di quelli che ritenevano l’entrata dell’Italia in guerra impostata
interamente su un bluff, non fosse fondata. Dov’erano i mezzi necessari? Co-
me mai i responsabili che da anni, anzi da sempre, esaltavano la guerra, non
avevano dedicato all’armamento un impegno quanto meno uguale a quello
che avevano dedicato alle strade e ai ponti, o agli edifici scolastici? E come mai
non si davano da fare per produrli almeno adesso i mezzi necessari? Per ra-
gazzo che fosse, una simile realtà lo preoccupava perché, si diceva, “il confron-
to con gli inglesi è un confronto con gente seria”.
Ricevette - nel corso di quei mesi - diverse cartoline e lettere militari (‘in
franchigia’, color cenere pallido) dai suoi amici alle armi, ossia da Stefano,
Igino, Pierello, da suo cugino Manno, e dal Michele Tintori di Nova.
Quest’ultimo gli aveva all’inizio comunicato di trovarsi nella vicina Mantova,
dove frequentava un corso analogo al suo, ma in fanteria (‘L’arma che meglio
d’ogni altra ti dà modo di stare a contatto col popolo’ egli asseriva, e più tar-
di, in un’altra sintetica lettera: ‘La fanteria non sarà entusiasmante, ma se la
conosci bene ti rendi conto che dire fanteria è lo stesso che dire Italia.’) Intan-
to i giorni passavano, al momento stabilito dalla circolare Ambrogio e gli altri
universitari furono promossi caporali, poi, a circa sei mesi dalla loro chiamata
alle armi - dopo un esame selettivo abbastanza duro - sergenti.
CAPITOLO SETTIMO
***
CAPITOLO OTTAVO
Il Tintori apprese che alla fine del corso gli allievi col miglior punteggio
avrebbero avuto il diritto di scegliere il reggimento d’assegnazione. Subito in-
travide la possibilità di farsi assegnare al fronte russo, e si applicò con straor-
dinario impegno. Quanto a esercitazioni, studio, orari, la vita al corso era
obiettivamente molto dura: un residuo di barbarie medievale la definivano
alcuni, con rabbia del giovane il quale: «Ecco le solite coglionerie della cultura
illuminista!» immancabilmente interveniva per sostenere la maggior civiltà
del medio evo rispetto all’evo moderno. (In realtà a lui dispiaceva che si spar-
lasse di quell’epoca, soprattutto perché ad essa faceva risalire direttamente la
religiosità sua e della gente di Brianza, e l’attuale religiosità cattolica in gene-
re. Solo molto più tardi avrebbe scoperto che queste sono da ricollegare piut-
tosto alla riforma - autentica riforma, comunque la si chiami - della chiesa,
avviata ben dopo il medio evo da san Carlo e dal concilio Tridentino, e tena-
cemente portata avanti nel corso dei secoli da innumerevoli operatori, in ge-
nere poco conosciuti perché modesti come gli apostoli e i discepoli al tempo
del Signore.) Ma torniamo al corso ufficiali: pur non avendo spiccate attitudini
militari, il Tintori era intelligente e dotato d’invidiabile memoria: questo gli
consentì di riportare voti molto alti in tutte le materie teoriche, comprese
quelle - come ‘Regolamenti e disciplina’ - che gli erano più incongeniali. Alla
fine rientrò nel primo decimo della graduatoria, con diritto alla scelta del reg-
gimento cui essere assegnato; doveva a tal fine indicare, su un apposito foglio,
tre reggimenti in ordine di preferenza, indicò tre dei quattro reggimenti di
fanteria operanti sul fronte russo, e fu assegnato al deposito di uno di essi,
l’Ottantunesimo della divisione Torino, a Parma.
Ambrogio non rientrò nel primo decimo della graduatoria, anche se, pur
non essendoselo proposto, ci arrivò molto vicino: fu assegnato a un deposito
in Casale Monferrato.
Terminata la licenza ‘d’attesa di nomina’, di un mese (la loro prima licenza)
i due giovani raggiunsero i rispettivi depositi, era ormai il febbraio 1942. Ve-
stivano - come Manno a suo tempo - divise nuove di stoffa diagonale color gri-
gioverde chiaro, con cinturoni e stivali, molto eleganti; il Tintori si sforzava di
non pensare alla tremenda preoccupazione che - allontanandosi da Nova -
aveva visto negli occhi del padre, da lui sempre tenuto al corrente delle do-
mande di assegnazione al fronte russo.
CAPITOLO NONO
Le settimane tuttavia e poi i mesi, avevano ripreso a passare senza che per
lui intervenissero novità. Il fronte russo - stabilizzatosi dopo l’enorme avanza-
ta tedesca del 41 e la circoscritta ritirata davanti a Mosca nel corso
dell’inverno - era in stasi, salvo che per un’isolata gigantesca battaglia con cui i
tedeschi avevano da poco infranto un grosso ritorno offensivo del nemico nel-
la zona di Carcov; le divisioni italiane non erano state però coinvolte in questa
battaglia, e non abbisognavano quindi di complementi.
Il Tintori - che non le aveva mai sospese del tutto - finì addirittura con
l’intensificare le proprie preghiere, anche perché al deposito con lui c’erano
almeno altri venti sottotenenti che - mossi da patriottismo o da spirito
d’avventura - avevano pure chiesto di partire per il fronte russo. “Si può sape-
re perché non avete fatto invece domanda d’essere assegnati ai reggimenti di-
slocati sulla Costa Azzurra, o in Riviera?” egli pensava a volte, osservandoli
preoccupato: “Perché non siete andati a farvi dei bei bagni di mare, anziché
venire qui a creare difficoltà a me?” Sapeva di non essere molto logico; la pro-
spettiva però di venire lasciato da parte quando fosse finalmente arrivata una
richiesta di complementi per il fronte, lo innervosiva.
Ma non venne lasciato da parte. Forse il vecchio colonnello che comandava
il deposito - un posato e ironico signore — s’era accorto della sua ansia, o for-
se, chissà, fu Dio stesso a disporre così. Fatto sta che verso metà maggio egli
venne chiamato insieme con altri cinque ufficiali al comando, e avvertito di
tenersi pronto a partire.
Appena ne ebbe la possibilità, il giovane raggiunse casa sua per dare nei do-
vuti modi la notizia al padre; da Nova - rendendosi improvvisamente conto
che dal fronte sarebbe anche potuto non tornare - telefonò inoltre all’unica
altra parente che avesse, una sorella di sua madre, la quale viveva col marito a
Monza. Giacché si trovava al telefono pubblico, pensò bene di chiamare anche
Nomana, di modo che i familiari alla prima occasione informassero Ambrogio.
Venne all’apparecchio la signora Giulia: «Ambrogio sarà qui a Nomana
domenica prossima» gli comunicò: «fra tre giorni. Lei domenica è a casa?»
«Sì. Almeno spero. Stasera devo tornare al deposito, ma se non sarò di ser-
vizio, o non partirò prima, conto appunto di passare a casa la sera di sabato e
la giornata di domenica.»
«Perché allora non viene una scappata da noi? Domenica pomeriggio per
esempio. Potrebbe trascorrere qualche ora in compagnia d’Ambrogio.»
«Venire a Nomana? L’idea mi attira. Sì, potrei fare una scappata d’un paio
d’ore... Però, come le dico, non sono in grado d’impegnarmi.»
«Beh, noi a buon conto le prepariamo il gelato; io so che le piace, non dica
di no. Se potrà venire, l’accoglieremo a braccia aperte.»
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
***
CAPITOLO PRIMO
Principale base di partenza delle tradotte per il fronte russo era, come s’è
detto, Bologna, e qualche settimana dopo di Michele, nel giugno 1942, anche
Ambrogio partì da Bologna. La città (godereccia, laica, quindi a lui inconge-
niale - sebbene egli fosse abbastanza insensibile a queste cose) per quel poco
che ne poté vedere gli riuscì confusamente sgradevole; come sgradevole finiva
col suonargli il suo dialetto: pacioso in apparenza, in realtà duro, cosicché a
lui dava in qualche modo l’impressione d’insincero. Neppure gli piacque,
all’interno della stazione, il saluto ai partenti da parte delle ‘donne fasciste’
bolognesi, rappresentate da tre o quattro vecchiotte in divisa che - dimostran-
do nel camminare su e giù lungo la tradotta d’essere anche piuttosto male in
gamba - distribuivano miseri donativi (come due o tre sigarette legate con un
nastrino tricolore, qualche biscotto, bandierine di carta, e simili) ai militari in
partenza. I quali le guardavano perplessi: tanto che le donne, con qualche
estemporanea battuta sulla migragna del loro federale (ma poteva ridere solo
chi capiva il dialetto) si sforzavano di dissipare quell’atmosfera. Ci riuscirono
alla fine, quando fu evidente a tutti che non un apparato di saluto c’era lì in
stazione, ma delle povere diavole lasciate a sé stesse: un po’ sboccate magari,
però tutto sommato materne, le quali si trovavano in quell’impiccio sopratutto
perché non gli era riuscito di schivarlo, ma forse anche perché qualche solleci-
tudine per i soldati la provavano davvero.
Erano in partenza con quella tradotta (corta, di sei o sette carrozze e carri in
tutto) complementi di svariate specialità: una sessantina di fanti, una quaran-
tina di bersaglieri, un nucleo di genieri lanciafiamme coi loro particolari di-
stintivi, squadre di autieri e d’altre specialità, nonché una quindicina
d’ufficiali subalterni non incorporati in reparti. In complesso bella gioventù,
non entusiasta ma neppure ripugnante alla partenza; nelle frasi di qualcuno
Ambrogio credette anzi d’individuare un malcelato senso d’attesa, il gusto gio-
vanile dell’avventura.
Mentre indugiava sul marciapiede, ora appoggiandosi su una gamba, ora
sull’altra, gli tornavano all’orecchio, piuttosto importuni, i versi d’una canzone
della guerra precedente:
‘La tradotta che parte da Torino
a Milano non si ferma più,
ma la va diretta al Piave,
ma la va diretta al Piave,
cimitero de la gioventù..’
Per fortuna questa guerra - egli obiettò a sé stesso - non era (“per noi italia-
ni almeno”) micidiale come la precedente. Per fortuna!...
Si decise infine a montare in carrozza; saliti i ripidi gradini entrò nello
scompartimento di terza classe in cui, insieme alla sua cassetta d’ordinanza,
erano sistemate sui portabagagli anche quelle degli altri tre sottotenenti del
suo deposito, destinati con lui all’Ottavo reggimento artiglieria Pasubio. Se-
dette coi colleghi, scambiò qualche frase con loro, poi alzatosi di nuovo
s’affacciò al finestrino: intanto si versava da bere da un thermos appena com-
perato, che aveva preso dal portabagagli.
La grande stazione di Bologna, coi suoi molti binari liberi o occupati da lun-
ghi convogli vuoti, non sembrava accorgersi della corta tradotta, dei suoi po-
chi soldati, e delle quattro ‘donne fasciste’ pencolanti sul marciapiede davanti
ad essa. Era in arrivo un lunghissimo treno civile da Roma, strapieno di gente:
allorché il giovane si sporse per vederlo meglio, il thermos gli sfuggì di mano e
andò a infrangersi sui ciottoli bisunti che rincalzavano le traversine ferrovia-
rie, schizzando attorno un po’ di caffè fumante. Ambrogio avvertì fulminea - e
nel medesimo istante respinse - una sensazione di presagio infausto. Si ritras-
se con disappunto dal finestrino. “Mi manca il tempo per comprare un altro
thermos” rifletté, e subito concluse: “Beh, naia, ne farò a meno”. Gli rimaneva
nella mano sinistra il bicchiere di plastica filettato al bordo: “Questo può sem-
pre servire.” Ne bevve i pochi sorsi di contenuto, quindi lo sistemò sul porta-
bagagli accanto alla sua cassetta d’ordinanza, e tornò ad affacciarsi.
CAPITOLO SECONDO
***
Superata Monfalcone e i suoi fumosi cantieri navali, ai due lati della ferro-
via che si addentrava nel Carso e nella bassa boscaglia cominciarono ad appa-
rire delle tende militari, che si fecero poco alla volta più fitte. In piedi o seduti
nei pressi delle tende si scorgevano dei soldati di fanteria i quali se per caso
incontravano lo sguardo degli uomini affacciati, scambiavano magari un cen-
no di saluto.
«Cosa vorrà dire ’sta storia?» domandò il sottotenente veneto, di nome
Bonsaver: «Questa specie di schieramento che non finisce più?»
«Può significare una cosa sola» gli rispose uno degli altri: «che la zona è in-
festata dai partigiani. Evidentemente i soldati son lì per proteggere la ferro-
via.»
«Ma ci troviamo ancora in Italia.»
«Già. Però probabilmente in una zona abitata da slavi.»
«I giornali non hanno mai parlato di partigiani in questi posti; davvero io
non lo sospettavo» disse Ambrogio.
***
A Postumia, poco lontano dal confine, dove la tradotta fece una lunga sosta,
si sentiva ogni tanto sparare. Dal finestrino il giovane vide sulle strade intorno
alla stazione alcuni fascisti in divisa o in semplice camicia nera camminare
guardinghi, con le armi in mano, uno brandiva un fucile mitragliatore Breda;
li indicò agli altri sottotenenti: «Cosa diavolo staranno facendo quelli là?»
chiese.
«Boh.»
Nel recinto della stazione nessuno sembrava dare importanza alla cosa; e sì
che, a intervalli, si udivano anche raffiche di mitragliatore. Il personale civile e
militare addetto ai servizi sbadigliava; era quasi il tramonto. La tradotta ripar-
tì senza che i quattro sotto-tenenti fossero riusciti a farsi un’idea di ciò che
stava succedendo appena fuori della stazione.
***
Nel pieno della notte il treno fece nuovamente alt. Ambrogio, che dormiva
sodo, si svegliò per l’improvviso venir meno del rumore ritmico delle ruote e
delle vibrazioni della carrozza; gli ci volle qualche istante per rendersi conto
d’essere sdraiato su un sedile di legno, piuttosto duro per la verità. Sopra di
lui, nell’incavo del portabagagli, continuava a dormire Bonsaver; sull’altro se-
dile e sull’altro portabagagli dormivano gli altri due sottotenenti; i bagagli di
tutti erano stati accatastati sul pavimento nello spazio tra i due sedili. Tutto
ciò s’intravedeva appena perché le tendine tese impedivano alla luce d’entrare.
Essendo il vetro del finestrino abbassato, da fuori potevano entrare invece i
rumori. Si trattava dei soliti rumori che si odono di notte nelle stazioni ferro-
viarie: un passo solitario sul marciapiede, degli scalpiccii più lontani, qualche
voce, improvvisi brandelli di musica forse da una porta che si apre e richiude.
A farci ben caso però, non si trattava dei soliti rumori; anche semiassopito
Ambrogio finì col rendersene conto: i passi erano infatti tutti di scarpe pesan-
ti, chiodate, e quanto alle voci... già, quanto alle voci, a farci caso, neppure una
era di donna. Chissà dove si era fermata la tradotta?
Il giovane si mise seduto, coi piedi scalzi sul sedile e la schiena contro la pa-
rete del finestrino; quindi, volgendosi a metà, scostò un angolo della tenda: la
stazione era fortemente illuminata, ne poté leggere il nome su una targa che
gli stava quasi di fronte: Lubiana.
Incuriosito esplorò qua e là con lo sguardo: scorse solo militari italiani, e
neanche molti, a causa dell’ora. Qualche soldato, disceso dalla tradotta, bi-
ghellonava insonnolito e negligente, come in Italia. Ma vicino a una porta a
vetri illuminata - forse il comando tappa, forse il comando militare di stazione
- c’era una squadra in armi (di fanteria? della milizia fascista? non riuscì a di-
stinguere) insolitamente disciplinata e anche marziale: questo particolare lo
notò bene.
“Qui devono stare in gamba” rifletté: “Non possono più tirare a campare, o
prendere le cose in scherzo e alla carlona come in Italia: perché è la loro pelle
ch’è in gioco, qui”. Ricordò la disapprovazione di suo padre, e di altri, anche
sua, quando questa città non italiana era stata annessa all’Italia. Che scioc-
chezza! Adesso però non era più questione di giudizi o pareri: adesso - coi par-
tigiani che certamente pullulavano - chi si trovava qui, coinvolto in questa
realtà e non nei discorsi astratti, doveva sfangarsela come poteva, per conto
suo; fare il possibile per salvare la pelle, e anche per impedire (“di chiunque
sia la responsabilità della situazione”) che i civili si scannassero tra loro.
“Meglio il fronte che una vita simile” egli risolse.
CAPITOLO TERZO
La mattina dopo i quattro sottotenenti si svegliarono che il sole era abba-
stanza alto: la tozza tradotta stava percorrendo di buona lena le ultime vallate
slovene, tra fitti boschi. Poi, senza formalità burocratiche, entrò nella pianura
ungherese, in apparenza sterminata: “primo anticipo della pianura russa” si
disse Ambrogio; dal finestrino scorgeva lontanissime mandrie al pascolo, buoi
come puntini neri appena visibili. A volte, nelle vicinanze di qualche fiume, la
tradotta attraversava zone fortemente paludose, e faceva allora levare in volo
branchi e branchi di uccelli acquatici: anitre di molte specie, pavoncelle, bec-
caccini, folaghe ed altri che, effettuate nell’aria brevi parabole, ripiombavano
tra le canne palustri. Quindi la pianura asciutta - col suo orizzonte dilatato,
inattingibile - riprendeva. Di tanto in tanto una stazioncina, con qualche arbu-
sto di lillà carico di fiori, che richiamava puntualmente ad Ambrogio il lillà
della stazione di Nomana.
***
Nel pomeriggio del giorno seguente la tradotta attraversò le ultime terre po-
lacche verso il vecchio confine con la Russia. Erano a lente ondulazioni bosco-
se, che la linea ferroviaria tagliava in genere obliquamente, e il treno percorre-
va con lentezza, in uno sforzo apparentemente inspiegabile. Si scorgevano po-
chi villaggi, e tutti di misere casette dagli intonaci vivaci, blu o rossi o d’altri
colori che istintivamente i riguardanti avvertivano sbagliati. Tra villaggio e
villaggio non c’era, sotto l’incombente cielo, movimento, se non a volte di pic-
coli branchi di corvi che si levavano da un punto per andare a posarsi in un
altro non lontano, e qui rimanevano pencolanti in vetta alle piante, simile ogni
volatile a un brandello di paramento luttuoso.
Su una stradicciola parallela alla ferrovia i quattro ufficiali videro gli ultimi
contadini polacchi, tra cui un bambino che aveva in capo la budiònnaia, il si-
nistro berretto a punta verticale della rivoluzione bolscevica. Come ormai fa-
cevano per sistema, i soldati li salutarono dal treno, e si fecero riconoscere, e
anche questi contadini non meno degli altri risposero animandosi al saluto
degli italiani; un adulto, forse il padre, disse qualcosa al bambino che pronta-
mente si tolse il copricapo e lo scaraventò a terra. I soldati acclamarono tale
gesto; il ragazzo allora raccolse il copricapo e ancora e ancora lo scaraventò a
terra, e concluse addirittura col calpestarlo, tra le crescenti acclamazioni dei
soldati.
CAPITOLO QUARTO
***
Verso il termine del viaggio, alcuni giorni dopo, nel bacino minerario e in-
dustriale del Donetz, l’insediamento umano raffittì. Ambrogio che, affacciato
al finestrino, cercava di non lasciarsi sfuggire nulla, vide enormi fabbriche
semidevastate, grige, accanto a piramidi di scorie di carbone; tra fabbrica e
fabbrica si ergeva qualche casone popolare, a volte qualche quartiere appena
abbozzato, di uno squallore deprimente; e intorno le solite casette o isbe, ma
neanche molte. “Dove vivevano, dove dormivano gli operai?” egli si chiedeva:
“In quelle case lì non poteva starcene che una piccola parte...” Finalmente no-
tò certe ricorrenti distese di uno strano ciarpame: si trattava - s’accorse -
d’innumerevoli baracche di fortuna caoticamente addossate le une alle altre.
Eccoli i quartieri operai... “Guarda dov’erano costretti a vivere i lavoratori!
Poveri disgraziati! E di sicuro erano anche obbligati a fare la faccia contenta...”
Conoscendo la mentalità operaia, egli non aveva dubbi circa la loro interiore
ribellione. “Del resto chi non si ribellerebbe a vivere in condizioni simili?”
A dare ogni volta respiro, e riposo all’occhio, veniva subito dopo l’ultima
fabbrica o l’ultima distesa di baracche di quelle fungaie industriali, la steppa.
Che s’estendeva per chilometri e chilometri con la sua erba rada e fiorita.
Ogni tanto dal treno si scorgeva sulle strade non lontane dalla ferrovia uno
strano formicolio di civili, uomini e donne, i quali - ora fitti, ora molto diluiti -
andavano e venivano con carichi sulle spalle o sospingendo rudimentali veico-
li d’ogni tipo. I militari non riuscivano a capire cosa mai facessero: si trattava
di abitanti delle città diretti in campagna per barattare i più vari oggetti, o che
ne tornavano col loro piccolo - a volte tragicamente minuscolo - carico di ce-
reali. Quelle processioni fuori norma indicavano che nelle città c’era la fame,
ma i quattro non se ne resero conto.
***
CAPITOLO QUINTO
I quattro giovani raggiunsero l’indomani il comando del loro reggimento
una ventina di chilometri più a est, mediante l’autocarro che due volte la set-
timana veniva a Jasinovàtaia per ritirare la posta. Accolti paternamente dal
colonnello comandante, furono da lui subito assegnati ai gruppi, cosicché
Ambrogio dovette separarsi da Bonsaver e dagli altri.
Dopo aver caricato il bagaglio su una logora Millecento da ricognizione che
il suo nuovo comandante di gruppo gli aveva, con signorilità, inviata dalla li-
nea, egli partì il giorno stessa per il villaggio di Caménca.
L’autista, un caporale, guidava con molta perizia la vettura sulla pista di ter-
ra dal fondo irregolare, contemporaneamente rispondeva attento, serio, alle
domande che il neo arrivato gli faceva. «Sì, questa è la vettura personale del
signor maggiore, io sono il suo autista.» «Sì, il gruppo si trova a Caménca dal
mese di novembre.» «Rifugi contraerei? No, non ne abbiamo potuti scavare,
perché il terreno allora era gelato, duro come sasso. I cannoni sono piazzati si
può dire dentro il paese, che è piuttosto sparso, adesso vedrete; noi abbiamo
passato tutto l’inverno nelle case insieme coi civili, è solo da qualche mese che
siamo sotto le tende.»
«Avranno tirato un bel respiro i civili, eh» osservò Ambrogio «quando voi
avete sgombrato?»
«No, perché?» rispose l’altro. «Qualcuno può darsi. Ma in genere erano di-
spiaciuti, le donne specialmente.» Sorrise. Poi si rifece serio: «Però anche gli
altri. I russi a noi italiani ci vogliono bene, vedrete.»
«Hanno da mangiare?»
«Non molto poveretti, almeno qui nella zona del fronte. Quando è l’ora del
rancio ce n’è sempre un certo numero - bambini specialmente, e vecchi - che
vengono con le lattine in mano, a chiedere la minestra. I cucinieri cercano di
risparmiargliene un po’, e un altro po’ gliene versiamo noi dalle nostre gavet-
te, ma... beh, non è una cosa allegra, vedrete. Qui nelle retrovie, a Jasinovàtaia
per esempio, ci devono essere ogni tanto dei morti di fame.»
Caménca era un paese di minatori; vi si scorgevano alcune nere piramidi di
scorie di carbone: «Quelle miniere c’erano già prima della rivoluzione» riferì
l’autista.
«Com’è che lo sai?»
«Lo sanno tutti. E lo si vede per esempio dal cimitero. Che, intendiamoci, è
come gli altri cimiteri russi, cioè trascuratissimo, con le croci quasi tutte di
legno, che in mezzo ci pascolano le vacche, perché i russi se ne fregano della
morte. Però ci sono anche delle vecchie tombe fatte al modo nostro, con le
scritte e i nomi in francese: sono quelle dei tecnici minerari d’una volta.»
Per le vie del villaggio s’aggirava qualche artigliere in maniche di camicia,
con i marziali gambali. Una batteria di cannoni - da 100 millimetri, di piccolo
calibro dunque - era piazzata oltre una fila di casupole: i quattro pezzi, in quel
momento muti, avevano ciascuno la sua rete mimetica stesa sopra. Dietro i
pezzi si scorgevano, defilati tra le case, alcuni autocarri, e raggruppate sotto ad
alberi o allineate negli orti in mezzo ai girasoli, diverse tende.
Le tende militari italiane! Ambrogio al vederle avvertì una strana emozione,
quasi ritrovasse un pezzetto di patria. E davvero chi mai, dopo avervi trascor-
so i giorni e le notti, le potrà dimenticare? Erano diverse da quelle di tutti gli
altri eserciti, formate da teli impermeabili quadrati, ciascuno di due metri di
lato. Ogni militare aveva in dotazione uno di detti teli, che poteva utilizzare in
più modi: come mantellina contro la pioggia se lo indossava infilandovi la te-
sta attraverso un apposito pertugio nel mezzo; o come materasso se dopo
averlo piegato in due, e allacciato, lo riempiva di paglia o d’erba; oppure come
coperta per proteggere i materiali più preziosi, sopratutto le munizioni; infine
- ed era l’uso più proprio - come elemento per comporre la tenda della squa-
dra. Avevano, quei versatili teli, una colorazione rigorosamente mimetica, ra-
zionale. E tuttavia le tende che ne risultavano (di norma a sezione triangolare
quelle dei soldati, fatte a cubo quelle degli ufficiali) erano di un disegno ina-
spettatamente antico e armonioso, al punto da trasformare il luogo in cui sor-
gevano in una sorta di quadro. Anche lo squallido ambiente di Caménca, con
la sua polvere nerastra, e le poche, basse case popolari alternate alle isbe, e le
scorie di carbone.
L’autista fermò la Millecento davanti a un’isba: «Ecco signor tenente, siamo
arrivati» disse. «Qui c’è il comando di gruppo.»
«Qui dove?»
«In questa casa.»
Come i due entrarono i pochi ufficiali presenti si fecero intorno al nuovo ar-
rivato, gli diedero il benvenuto e con parole scherzose si misero a tempestarlo
di domande sull’Italia. «Noi ne manchiamo da dieci mesi» dicevano.
L’aiutante maggiore però - un tenente semicalvo, dal viso lungo e stretto -
s’intromise. «Un momento» disse: «prima fatemelo presentare al signor mag-
giore. Vieni con me; come hai detto che ti chiami?»
«Riva.»
«Lo vedete il bancario?» osservò il tenente medico: «Per prima cosa vuol
fargli compilare il bordereau.»
«Macché bordereau» disse l’aiutante maggiore, tentennando la testa. «Dai
Riva, vieni» e lo precedette verso l’ufficio del comandante. «Tu aspetta un
momento a scaricare il bagaglio» avvertì l’autista.
Il maggiore Casasco sedeva a un tavolo da campo. Era un uomo sui qua-
rant’anni, dai capelli lunghi e grigi, di modi piuttosto raffinati: sorrise al titu-
bante ragazzo che s’era fermato sull’attenti davanti a lui; si alzò in piedi e gli
tese la mano; poi, tornato a sedere, s’informò circa le sue competenze ed even-
tuali preferenze, cercando di studiarlo.
Anche l’aiutante maggiore si sforzava di studiarlo. «È milanese come te»
disse a un tratto di lui il maggiore, e celiò: «milanese e per di più ragioniere:
pensa che disastro.» Al che l’aiutante maggiore, soprannominato per il suo
lungo viso un po’ equino ‘Cavallo Stanco’, sorrise compiaciuto. Ambrogio ven-
ne assegnato a una delle tre batterie, la terza, come ‘ufficiale alla linea pezzi’:
«Però la batteria la raggiungerai dopo avere cenato con noi, perché ci devi
prima dare notizie dell’Italia.»
In seguito anche alla batteria (organico: quattro ufficiali, sei sottufficiali,
centodieci uomini) - ubicata poco lontano e comandata da un asciutto tenente
marchigiano laureato in ingegneria - le accoglienze cordiali da parte degli uffi-
ciali si ripeterono. Per parte loro i soldati scrutavano attenti il nuovo arrivato,
e dopo che il comandante gli ebbe sommariamente mostrata la linea pezzi
(«Nel caso si debba sparare stanotte... Domani poi ti farò vedere ogni cosa con
calma») parecchi gli si fecero intorno e formarono capannello: volevano
anch’essi sapere dell’Italia, di come vi andavano attualmente le cose, ne man-
cavano - ripeterono - da dieci mesi. Erano quasi tutti in maniche di camicia,
assai meno protocollari che in caserma, alcuni con ciabatte o zoccoli ai piedi:
in complesso gli fecero tuttavia buona impressione. Non scorgeva in loro av-
versione per lui, qualche riserva sì, che - si augurava - sarebbe durata solo fin-
ché non lo avessero conosciuto meglio. “Andremo d’accordo” si propose Am-
brogio: “Tocca a me ispirargli fiducia, anche se sono un novellino. Mi arrange-
rò, si renderanno conto che potranno ragionevolmente contare su di me”. Re-
so esperto dai rapporti con gli operai egli sapeva quanto la fiducia reciproca
fosse importante.
Più tardi, nell’isba dai muri storti in cui era insediato il comando di batteria,
il tenente comandante gli diede qualche ragguaglio sulla situazione: «Il fronte
qui è addormentato da un pezzo, te l’avranno già detto al comando di gruppo
immagino. L’ultimo vero combattimento l’abbiamo sostenuto a Natale, quan-
do i russi hanno cercato di sfondare le posizioni dei bersaglieri là sulla de-
stra.» (“La battaglia di Natale, infatti” ricordò Ambrogio: “Stefano è venuto
qui in Russia giusto dopo quella battaglia, a gennaio, certo con gli effettivi che
hanno rimpiazzate le perdite. Chissà dov’è in questo momento Faccia-di-tutti-
i-giorni?”)
«Mi chiedi che perdite abbiamo avute fino a oggi? In batteria un morto, uno
solo dall’inizio della campagna. Nel resto del gruppo altri quattro o cinque:
quasi tutti nei combattimenti per passare il Dnieper in autunno. Finché le co-
se vanno bene e si avanza, l’artiglieria non ha quasi perdite. Per la fanteria
invece è diverso: i fanti qualche perdita ce l’hanno sempre, a contatto come
sono col nemico. Qualche morto ci scappa sempre... Davanti a noi c’è il Set-
tantanovesimo fanteria: è schierato più o meno a tre chilometri da qui, in trin-
cea. Vedessi certe trincee: sono, si può dire, scavate nel carbone, che affiora
tra l’erba, tanto è ricca questa zona. Come poi la gente di qui trovi modo
d’essere così miserabile, per me resta un mistero.» Ambrogio gli aveva riferito
il furto delle scarpe. «Episodi da retrovia» lo rassicurò il tenente comandante:
«In linea l’ambiente non è canagliesco. È migliore non solo di quello delle re-
trovie, che (io l’ho conosciuto bene in Albania) è dappertutto schifoso; ma è
anche migliore di quello delle caserme in Italia. Qui c’è ordine e... cosa ti devo
dire? Vedrai tu stesso, c’è interessamento dell’uno per l’altro. E poi c’è spirito
di sopportazione, e anche una certa allegria.» «In parte me ne sono già reso
conto» disse Ambrogio, intimamente sollevato.
Andò a dormire molto stanco, nella tenda ufficiali che, per fargli posto, era
stata prontamente allungata mediante l’inserimento di tre teli. Dalla circo-
stante campagna giungeva smorzato il canto notturno delle quaglie. Mentre
egli cercava di prender sonno gli tornava alla mente il viaggio durato una set-
timana e appena concluso... l’ufficiale che a Jasinovàtaia aveva tentato di ru-
bare il cuscino tedesco... la stazione di Bologna con le buffe donne fasciste... la
sua casa, sua madre... A Nomana, nella stanza in cui egli dormiva da piccolo,
c’era un tarlo che nelle ore di buio, quando tutto era silenzio, non cessava mai
di far sentire il suo zirlio: insisteva talmente che egli, bambino, finiva col chie-
dersi se quel suono non fosse per caso dentro la sua stessa testa, e a volte si
tappava le orecchie per controllare se cessasse o no; da molti anni egli non
udiva più quel suono, al punto che se n’era dimenticato: stasera però gli tor-
nava in mente, e gli pareva si fosse trasformato nel canto lontano e incessante
delle quaglie. Chissà se anche Stefano (“Faccia-di-tutti-i-giorni”) in questo
momento sentiva le quaglie? E il Michele Tintori? Ma si addormentò presto.
II
CAPITOLO SESTO
***
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
CAPITOLO DODICESIMO
Nel pomeriggio di quella stessa giornata - molto calda - mentre sdraiato sul
letto l’ufficiale cercava di mettere ordine nelle proprie risoluzioni, udì un ina-
spettato scoppiettio di motocicletta. Andò alla finestra: il veicolo era in sosta
accanto alla sentinella.
Lo montavano due militari con le mostrine del genio, i quali stavano infor-
mandosi se quello fosse il deposito materiali dell’Ottantunesimo fanteria.
«Qui c’è un deposito provvisorio di materiali» rispose loro la sentinella.
«Adesso però, tranne io che sono di guardia, tutti dormono.»
«Ah, bene. Noi siamo del genio di corpo d’armata» spiegò il geniere che se-
deva sul sellino posteriore: «Siamo accantonati non lontano di qui, a Fedorov-
ca. Sai dov’è? A un dieci chilometri da qui.»
«E allora?» disse la sentinella.
«Allora ci occorrono con urgenza le retine a incandescenza per le lampade,
e il nostro capitano ci ha mandato da voi a vedere se ne avete.»
A questo punto la sentinella indicò Michele affacciato: «Dovete domandarlo
a lui, al tenente» disse.
Con prontezza i due del genio, voltata la moto, si trasferirono sotto la fine-
stra dell’isba, e quello che sedeva sul sellino posteriore ripeté la presentazione
e la richiesta. «Il materiale che ci occorre non è gran cosa» spiegò: «si tratta
delle retine a incandescenza per le lampade Petromax. Ne siamo rimasti senza
perché ci è saltato un camion su una mina, e sono bruciate.»
«Sono bruciate con tutto che erano a incandescenza?» disse Michele.
«Sì, con tutto che erano a incandescenza» gli rispose sorridendo il geniere,
il quale a differenza del suo compagno indossava una divisa in perfetto ordine,
con la cravatta regolamentare e tutto il resto. «Pare roba da niente, ma per chi
come noi deve lavorare di sera al tavolo da disegno, è un casino» specificò.
«Va bene» disse Michele. «Non so se abbiamo le retine, però possiamo cer-
carle.»
In maniche di camicia, dopo essersi infilati gli stivali e affibbiato il cinturo-
ne con la pistola, uscì dall’isba ed entrò insieme coi due nella grande stalla
dov’era accatastato il materiale.
«Sei studente?» chiese a quello con la divisa in ordine.
«Signorsì, di architettura.»
«Dove, a Milano per caso?» domandò, vagamente speranzoso si trattasse
d’un compagno del Manno Riva.
«No, a Roma.»
«Ah, vedo.»
La stalla in cui erano entrati era, come le altre del colcoz, formata da
un’intelaiatura d’antenne di legno appena dirozzato, sistemate a doppio spio-
vente e coperte di paglia; non aveva finestre, la luce e l’aria entravano da una
delle testate completamente aperta.
«Guarda in che razza di stalle tengono gli animali» osservò il geniere stu-
dente: «Fatte con pali e paglia. Poveracci.»
«Poveracci chi? Gli animali o quelli che ce li tengono?» chiese Michele il
quale, aiutato dall’altro geniere, stava aprendo una cassa. «La gente di qui vo-
glio dire.»
«Ah. È proprio povera gente» convenne Michele.
«Lo sapete che sono arrivati a mangiarsi tra loro?» disse il geniere studente.
L’ufficiale sollevò con vivacità la testa e lo guardò: «Cosa?»
«Sì, signor tenente: sono arrivati al cannibalismo.»
«Ma cosa dici?»
«Ve l’assicuro. In questo paese non so, ma a Fedorovca, dove siamo accan-
tonati noi, a una decina di chilometri da qui...» Si volse all’altro geniere: «Eh?
Dillo anche tu.»
L’altro che al comportamento pareva un operaio, confermò: «Sì, è vero. A
Fedorovca tutti i civili lo dicono.»
«Ma...» ripeté Michele, interrompendo le ricerche e guardando in faccia i
due: «Cosa state dicendo?»
«Nel paese, a un trenta metri dall’isba del nostro comando» continuò il ge-
niere operaio «abita una donna che ha fatto cuocere un bambino morto, per
darlo da mangiare a... sì insomma, agli altri suoi bambini.»
Michele si sentì accapponare la pelle sulle braccia e sul dorso, seguitava a
guardare interrogativo i due.
«È grossa, eh?» disse il geniere studente. «Ma intendiamoci, non è successo
di questi tempi: è stato durante la carestia di dieci anni fa, quando hanno col-
lettivizzata la terra, è allora che a Fedorovca la gente ha mangiato i morti. A
quella donna il figlio era morto di fame, e siccome ne aveva altri che stavano
per morire, lei lo ha fatto cuocere e gliel’ha dato da mangiare. In paese però
hanno sentito l’odore e sono accorsi, con l’idea che in quell’isba si cucinasse
l’arrosto: è così che hanno scoperto la cosa, mi spiego?» «Ecco» confermò
l’altro geniere.
«E adesso» chiese Michele «quella povera disgraziata... Cosa fa? Ne parla?»
«Abita vicino al comando di compagnia v’ho detto. No, è naturale che lei
non ne parli. Sono gli altri che ne parlano.»
«In principio, quando s’è diffusa la voce, pochi giorni fa» disse lo studente
«sapete come succede, tutti i soldati volevano vederla: lei allora si metteva a
piangere, e scappava a nascondersi dentro la sua isba. Anche perché certi le
dicevano delle fesserie per fare gli spiritosi, sapete come fanno. Poi però il ca-
pitano ha dato ordine tassativo: basta disturbarla.»
«Il nostro capitano è uno che non scherza» disse il geniere operaio.
«Ci sono stati altri casi di cannibalismo a Fedorovca, se ho ben capito?»
Sì, ce n’erano stati altri, così asseriva la gente. I due però non erano in gra-
do di dire neppure approssimativamente quanti.
Poterono andarsene con una scatola di retine a incandescenza. In una di-
versa occasione il sottotenente avrebbe forse provata la piccola vanagloria
d’essere stato in grado - lui della ‘scassata fanteria’ - di fornire ricambi ai si-
gnori del genio; stavolta però aveva per la testa ben altro: gli erano tornate in
mente le cronache di Giuseppe Flavio, la deprecazione fatta dai romani agli
dei durante l’assedio di Gerusalemme nel 70, quando s’era risaputo che nella
città gli ebrei mangiavano i loro morti. “Guarda: siamo tornati indietro di
duemila anni, di duemila anni” si ripeteva sbalordito il giovane.
Il geniere studente - dopo averla completata con la penna stilografica - gli
consegnò una ricevuta già munita del timbro e della firma del suo capitano.
«Capitano Carlo Cipolla» compitò Michele.
«Sì, è di Milano» affermò il geniere.
“Di Milano? Forse potrei cercarlo” pensò il sottotenente. “Da lui potrei ave-
re altri particolari... ma quando cercarlo? Io non posso allontanarmi da qui.”
Più tardi, durante il rancio della sera, sentì prepotente il bisogno di riferire
l’episodio ai suoi fanti, di parlarne con loro, non fosse che per scaricarsene
almeno in parte. Ma i commenti dei soldati furono, ovviamente, del tutto ina-
deguati.
CAPITOLO TREDICESIMO
Al giovane occorsero alcuni giorni per digerire la notizia. Ne scrisse subito
ad Ambrogio, invitandolo a raccogliere intorno al cannibalismo informazioni
dovunque gli fosse possibile. Intanto però le sue ricerche nel villaggio rimane-
vano senza esito; lo stàrosta non si era fatto vedere, sembrava avere altro per
la testa che assecondare la sua curiosità.
Una notte Michele si svegliò, e subito quei tremendi fatti - il massacro
d’inermi a Voroscilovgrad e il cannibalismo - gli piombarono addosso. “Ma
perché devo, io solo, tormentarmi per queste cose?” si chiese a un tratto; e
cercò di respingerli quasi con rabbia.
Il dovere immediato, ecco, cerchiamo di pensare a questo. Vediamo... si le-
vò a sedere: da quando era nel villaggio non aveva fatta una sola ispezione
notturna al servizio di guardia. Si vestì, staccò con lentezza dalla testata del
letto il cinturone con la pistola e se ne cinse, quindi prese da sotto il cuscino
una piccola torcia elettrica portata dall’Italia, l’accese e uscì all’aperto.
La sentinella era al suo posto, con la schiena appoggiata a una parete della
grande stalla di paglia. Di semplice cuore il fante - un contadino stava in quel
momento pensando al paese natio nell’Italia del sud, e alla ragazza alla quale
prima di partire non si era purtroppo risolto a dichiararsi; se ne rimproverava
per la centesima volta. All’arrivo dell’ufficiale tornò al presente quasi con dif-
ficoltà; scambiarono qualche parola.
Nel buio la sterminata volta del cielo incredibilmente zeppa di stelle
s’incurvava sul villaggio russo e sull’immensa pianura; l’aria pulita era corsa
per ogni dove dal rustico canto delle quaglie.
“Com’è bello il creato di Dio” pensò Michele, guardandosi intorno, e inspirò
profondamente. “Sì che è bello! Com’è possibile che noi uomini lo trasfor-
miamo puntualmente, ad ogni generazione, in una bolgia?”
Salutò sopra pensiero la sentinella: «Beh, ciao Califano», e tornò con len-
tezza sui propri passi verso l’isba.
Ma non entrò. Si diede invece a passeggiare davanti ad essa, respirando a
pieni polmoni l’aria magnifica della notte. Era e si sentiva giovane, aperto e
sensibile alla bellezza: compenetriamoci dunque della bellezza delle cose, re-
spiriamola nell’aria pura della notte. Le quaglie seguitavano interminabilmen-
te a cantare. “Cantano per amore” ricordò il giovane, “e che ardore ci mettono,
quelle piccole baccanti!”
Sentì nascere anche dentro di sé un’improvvisa voglia d’amore fisico, voglia
ch’è sempre pronta a insorgere nei giovani, anche in lui - nonostante la sua
severità morale - dotato com’era d’esuberante vitalità e di fantasia. Gli venne
in mente la ragazza dell’isba... la incontrava più volte ogni giorno.
“Ehi, un momento” s’impose subito; quella ragazza non era per lui, era de-
stinata a un altro. E lui non doveva partecipare in nessun modo al disordine:
“Perché comincia proprio da qui il guasto che si estende poi a tutto il creato e
lo trasforma in una bolgia... Proprio da qui comincia.”
Era anche una questione di correttezza verso la propria futura moglie. Già.
Chissà dov’era in questo momento - cercò di prospettarsi, sempre passeggian-
do davanti all’isba - la donna che sarebbe stata la compagna della sua vita.
Chissà che viso aveva... Con ogni probabilità doveva essere molto giovane,
quasi certamente lui non l’aveva mai vista. A meno che... Gli venne a un tratto
incontro nella fantasia la figura acerba e stranamente sorridente di Almina, la
sorella quindicenne d’Ambrogio: “Quel giorno a Nomana era come un’agnella,
mentre salticchiava sul prato...” ricordò. Che creatura fuori del comune, dav-
vero unica! Ecco, a lei avrebbe anche potuto pensare! Cominciò ad estasiarse-
ne: sarebbe, chissà, ben potuta essere lei la compagna della sua vita... “Sì, cer-
to. Come mai non me ne sono reso conto prima d’ora? È una creatura... perfet-
ta!”
Il ricordo pulito di Alma l’aiutò un po’ alla volta a sublimare i suoi pensieri e
a uscire dalla tentazione carnale. La bellezza del circostante creato seguitava
ad affluire e a far culmine in lui, non più però in senso fisico: tendeva piutto-
sto, adesso, a tramutarsi in poesia; ricordò a un tratto quei due mirabili versi,
che l’avevano sempre incantato: ‘Signor che volesti creare - per me questo
amore lontano...’ e avvertì un crescente, acuto bisogno di scrivere a sua volta
dei versi, di cantare questo suo forse nascente, bellissimo amore.
‘Canti ad Alma’ pensò, e passando subito al concreto: “Ma in che modo pos-
so scrivere? Al lume della torcia elettrica?” nella sua stanza non c’era neppure
il tavolo. Beh, si sarebbe arrangiato.
Entrò nell’isba, prese dalla cassetta d’ordinanza e depose sul cuscino un fo-
glio e una matita, quindi, spenta la torcia, si diede a passeggiare avanti e in-
dietro nel locale in cui non giungeva che qualche barlume di luce attraverso la
finestra spalancata; le parole e il ritmo del suo canto cominciarono a prendere
forma in lui, esaltandolo sempre più.
D’un tratto ebbe però la sensazione che qualcuno armeggiasse all’uscio: ciò
lo riportò quasi con violenza alla realtà. Era in guerra e... Teneva tuttora in
mano la torcia, la puntò sull’uscio e l’accese: l’uscio si stava adagio adagio
schiudendo, spinto furtivamente dalla ragazza russa, che infine entrò e lo ri-
chiuse dietro di sé. Era in camicia, a piedi nudi, coi capelli biondo-avena legati
in un’unica grossa treccia: sotto la luce scialba della torcia guardava in dire-
zione del giovane con un misto di sfrontatezza e di vergogna.
Dio, Dio, Dio, che prova! Il giovane temette proprio di non riuscire a supe-
rarla. «Mascia» mormorò faticosamente, a bassa voce: «Cosa fai qui? Cosa...
t’è saltato in mente?»
La ragazza, che non capiva le sue parole, additò lui e poi sé stessa, di nuovo
lui e sé stessa; il suo invito era fin troppo chiaro.
Michele si sentì invadere da un’emozione così violenta, che quella poetica
da cui era stato occupato fino a quel momento, e gli era sembrata tanto forte,
al confronto diveniva poca cosa; peggio, sembrava di colpo anche quella con-
fluire in questa, assommarsi a questa. Abbassò inebetito la torcia verso il pa-
vimento: “Non posso, non mi è consentito, non devo cedere! Assolutamente
non devo cedere!” «Mascia» disse con quanta più fermezza poté, parlando sia
a lei che a sé stesso: «No. Non è possibile.»
La ragazza non accennava a muoversi, seguitava a guardarlo: anche in que-
sta minima luce era indicibilmente attraente, attraente al di là d’ogni dire;
mai, nel corso della sua vita, Michele - che pure si faceva un impegno di non
guardarla - aveva sperimentata un’attrazione così forte, qualcosa che lo per-
measse fino a questo punto.
«No dobre (non è bene)» disse, usando una delle poche espressioni russe
che conosceva, e ripeté: «no dobre.»
La ragazza emise un piccolo sospiro e alzò con disappunto le spalle, pure
non si muoveva.
Il giovane andò alla porta, l’aprì curando di non far rumore: Mascia tenten-
nò la testa, sospirò di nuovo (com’era femminile in ogni suo atteggiamento!)
finalmente si voltò e uscì. Michele richiuse la porta.
Aveva respinta la tentazione come la morale gli prescriveva. Ma l’emozione
non lo lasciava per questo. “È Dio che me lo comanda” si ripeté, sforzandosi di
dominarsi del tutto: “quel Dio in cui credo, il cui insegnamento sono risoluto a
seguire”. Cercò anche di prospettarsi, in mucchio, argomenti d’ordine raziona-
le: “Questa Mascia può essere vergine, ed è comunque certo che un giorno
sposerà un povero diavolo; e io non devo, non voglio togliere a quel povero
diavolo il diritto di prima notte, non intendo privarlo di questo bene. E pro-
prio stanotte poi, la notte in cui stava... in cui sta - forse - nascendo il mio
amore per Alma: così che, oltre al resto, il ricordo di questa immonda incoe-
renza m’avrebbe seguito per tutta la vita.” Parole sante, eppure... mentre ne-
glette ormai carta e matita continuava a passeggiare per la stanza, innumere-
voli pensieri si susseguivano nella sua mente, squassandola. Egli non aveva la
fermezza del suo amico Ambrogio, la capacità che aveva Ambrogio di staccarsi
con la forza della volontà dalle cose; gli si prospettavano perciò anche non po-
chi argomenti in contrario: le insistite vanterie d’uno dei suoi soldati, per co-
minciare, che - invidiato dagli altri - asseriva d’avere già avuto rapporti intimi
con una donna del villaggio. E i racconti, uditi prima dell’avanzata, di quei
colleghi e soldati che avevano trascorso l’inverno nelle isbe insieme coi civili,
vivendo in pratica da sposati; e sì che le donne russe di campagna non erano
corrotte, anzi avevano determinati ritegni (i militari di queste cose disquisiva-
no rozzamente, con insistenza: qualcuno sembrava non saper parlare
d’altro)... ma ciò contro cui senza dubbio dovette lottare di più fu la sua stessa
fantasia la quale - intromettendosi nei suoi ragionamenti positivi o negativi -
gli prospettava di colpo, a tradimento, le immagini di quello che si sarebbe
verificato in questo momento se egli non avesse respinto la ragazza.
Dovette, per uscirne, ricorrere con impegno alla preghiera; a soccorrerlo fu
ad ogni modo sopra ogni altra cosa la pratica costante della purezza nel co-
stume, coltivata fin dall’infanzia con tante lotte e tanti ricorsi al sopranaturale.
Per calmarsi fino al punto di poter dormire gli ci vollero ore.
***
Nei giorni seguenti, con la ragazza sott’occhio che - da vera figlia d'Eva - si
comportava con disinvoltura come niente fosse accaduto, e tuttavia ogni tanto
lo guardava negli occhi, la tentazione gli ritornava più forte che mai. Buon per
lui che improvvisamente gli giunse l’ordine di sgombrare di là.
Glielo portò un ufficiale dell’autocentro, arrivato finalmente sul posto con
autocarri bastanti a caricare tutto il materiale. Costui gli diede anche impor-
tanti notizie: «Dall'Italia sono in arrivo tre divisioni di fanteria, cioè un altro
corpo d’armata, destinato a operare con noi. Non solo, ma è in arrivo anche un
corpo d’armata alpino; quello però, io credo, non verrà impiegato qui, ma in
qualche settore montagnoso, chissà, forse nel Caucaso. comunque adesso nel-
le retrovie si fa un gran parlare di questi arrivi, che son già cominciati. La no-
stra forza in Russia viene in pratica a triplicarsi; passiamo da uno a tre corpi
d’armata, diventiamo un’armata.»
«Come farà ad arrivare qui tutta quella gente? Le linee ferroviarie, dalle
vecchie posizioni in poi, hanno tutte senza eccezione i binari a pezzi: le ho vi-
ste io in molti posti.»
«Avevano, vorrai dire, avevano i binari a pezzi» affermò l’ufficiale. «E in
qualche tratto li avranno magari ancora. Ma il genio tedesco sta lavorando
dappertutto a ripristinarle.»
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
III
CAPITOLO QUINDICESIMO
Per Ambrogio si trattò di giorni di fiero trambusto; il suo gruppo aveva in-
cessanti richieste di fuoco non solo dai normali osservatori sul Don, ma anche
da alcuni osservatori imbastiti in tutta fretta a est, sul fianco destro della Pa-
subio, al margine della falla aperta dal nemico. Dentro tale falla il gruppo di
Bonsaver venne addirittura trasferito, cosicché il giovane sottotenente dovette
partecipare, come ufficiale osservatore, a una serie frenetica di condotte di
fuoco, anche a distanza ravvicinata.
Al pari degli altri militari coinvolti nei combattimenti — cui erano di sover-
chio i compiti immediati - sia Bonsaver, che Ambrogio, che lo stesso Michele
Tintori (giunto lui pure sul posto con una colonna di pronto intervento) non
pensavano a porsi le domande più importanti. Come mai, per esempio,
un’intera divisione italiana avesse abbandonate le posizioni senza opporre ve-
ra resistenza; e come mai due soli battaglioni alpini avessero poi rapidamente
risolta una situazione che una decina di battaglioni ordinari avevano difficoltà
a risolvere. Tali domande, ove essi se le fossero poste, li avrebbero indirizzati a
conoscere meglio i connazionali sotto l’aspetto militare: che è aspetto illumi-
nante per conoscere un popolo anche quanto al resto.
***
I quattro cannoni della batteria d’Ambrogio erano piazzati a circa tre chi-
lometri dal Don, presso l’imbocco di una balca, o lunga scanalatura naturale
del terreno. Da quel luogo non si scorgevano altri apprestamenti militari,
neppure il comando di batteria che, con l’autocarreggio e le cucine, era siste-
mato non lontano, nell’interno boscoso della balca. A est e a sud - cioè a destra
e a tergo della linea pezzi (a sinistra si snodava la balca) - il terreno s’allargava
in una delle solite sterminate lande pianeggianti di quei luoghi. Davanti inve-
ce, dopo una corta salita esso scendeva in blandi falsipiani verso il fiume, di
cui i soldati - se si portavano sul colmo davanti ai pezzi - potevano intravedere
qualche piccolo segmento ceruleo, laggiù lontano, tra le verdi pieghe erbose.
Scorgevano allora anche, sulla sponda opposta, la cittadina cosacca di Vescen-
scaia, apparentemente deserta, tutta di tetti di paglia, nel cui mezzo emergeva
- come un pastore tra le pecore - la mole del rustico duomo col tetto a cupola.
Intorno ai quattro cannoni il terreno era senza un albero, lasciato a steppa,
ad erba incolta cioè, e rada, cosicché la tenda d’Ambrogio e quelle dei suoi cir-
ca cinquanta artiglieri, sistemate a poca distanza dai cannoni, erano dall’alba
al tramonto esposte al gran sole di fine agosto. Adesso l’unico ufficiale presen-
te era appunto l’Ambrogio Riva, perché gli altri due subalterni della batteria
erano partiti per l’Italia ‘in licenza d’esami’ (l’esercito si concedeva simili lus-
si!) e il tenente comandante non si muoveva mai dal suo posto nella balca.
Incombeva pesantemente la calura, e l’odore di terra e d’erba calpestata e di
metallo caldo entrava nelle tende mescolandosi al sentor di sudore degli uo-
mini, i quali non potevano lasciare lo schieramento né di giorno né di notte,
sebbene le richieste di fuoco giungessero dagli osservatori con sempre minor
frequenza. Il sottotenente aveva presa l’abitudine d’alzare al mattino una delle
pareti della sua tenda a cubo, fissandola in posizione orizzontale mediante due
pali obliqui: all’ombra di quell’ala o tettoia trascorreva poi la maggior parte
del giorno a leggere, o a chiacchierare con qualche soldato, o a riflettere.
A volte, specie sul far della sera, davanti alla sua tenda si formava un circolo
di quattro o cinque, o anche dieci e più artiglieri, i quali, seduti nell’erba con le
gambe incrociate, conversavano di questo e quello con lui, seduto allo stesso
modo nell’erba.
Qualcuno potrebbe oggi ritenere lo stato d’animo di quei soldati in qualche
modo influenzato dagli orientamenti prevalsi in seguito nell’opinione pubblica
italiana circa la guerra al fronte russo: influenzato ad esempio dall’idea che
una vittoria su questo fronte non avrebbe portato all’Italia alcun utile diretto,
e che anzi l’aumento della potenza tedesca si sarebbe tramutato per noi in un
danno; oppure influenzato dall’immoralità di quell’avanzare da conquistatori
in territorio altrui (non molto prima però anche i russi erano entrati allo stes-
so modo in Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia...) in realtà, co-
munque, niente di tutto questo: simili questioni non si ponevano affatto ai
soldati, al centro dei cui interessi stavano invece - oltre ai problemi del mo-
mento - la casa lontana, la ragazza (se l’avevano), la salute e il lavoro dei pa-
renti, in una parola la famiglia. Quanto al fatto che la sorte d’ogni famiglia fos-
se legata a quella della comunità nazionale, essi se ne rendevano conto solo in
confuso, e comunque con distacco. In sostanza con la comunità organizzata,
diciamo con lo stato, i soldati - settentrionali o meridionali: al di là delle con-
tinue, viete polemiche tra loro - avevano tutti un rapporto analogo a quello
che si ha con la natura: dentro la quale si nasce, e che con una certa periodici-
tà ci sottopone purtroppo a cataclismi cui bisogna per forza di cose far fronte.
C’è chi li affronta con più, e chi con minor coraggio, o decenza, o anche con
indecenza, chi - specie se è cristiano con maggiore, e chi con minor altruismo,
e molti senza alcun altruismo: tutto qui; delle battaglie e della guerra ognuno
avrebbe poi conservato un ricordo appunto come di cataclismi.
Di questo si rendeva sempre più conto il sottotenente che a volte, invece
d’attendere la loro visita, si recava lui stesso a visitare i soldati nelle loro ten-
de, distanti dalla sua un tiro di sasso. Ficcava la testa tra i teli dell’una o
dell’altra, un po’ sollevati alla base in quella stagione, così che l’interno fosse
arieggiato: «Si può?» chiedeva: «O disturbo?»
I soldati mostravano di gradire le sue visite, se ne sentivano lusingati. «Pre-
go signor tenente, accomodatevi.»
«Anche se questa non è proprio una reggia.»
«Beh, qui se non altro stiamo in compagnia» rispondeva magari l’ufficiale
entrando curvo nella tenda a sezione triangolare (che, se composta di sei teli,
ospitava sei artiglieri, se di otto ne ospitava nove, cioè l’intera squadra). Pren-
deva posto tra loro, seduti o sdraiati sui pagliericci. Si ravvivavano allora - for-
se con un po’ d’esibizionismo in più da parte di alcuni - i soliti discorsi: il pae-
se lontano, le donne, la vita senza costrizioni, e non di rado idealizzata, al pae-
se, il padre e la madre, i problemi dell’esistenza, ancora le donne. Su questo
delle donne, principe fra gli argomenti a vent’anni, ciascuno si sentiva in do-
vere di fare dello spirito; tuttavia non tutti lo facevano allo stesso modo. C’era
chi, malgrado il tono scherzoso, parlava delle donne con fiducia e senso
d’attesa; altri con incertezza, sebbene cercassero di non darlo a vedere; altri
con esibizionismo, vantando immancabilmente qualche lontana impresa ama-
toria che ormai tutti conoscevano alla nausea; altri ancora tendevano a par-
larne con linguaggio ottusamente pornografico, cioè ‘da porci’ come si usava
con realismo definirlo.
Il ventenne Moioli, bergamasco, puntatore del primo pezzo, era tra quelli
che ne parlavano con fiducia. «Che bella cosa l’amore!» concludeva a volte le
sue svagatezze, con molta ingenuità. Un giorno Ambrogio, ch’era in visita ap-
punto nella tenda del primo pezzo, gli chiese: «Ma dì un po’: tu l’amore l’hai
mai provato?»
Moioli lì per lì rimase imbarazzato. «Signornò» rispose infine «se devo es-
sere sincero.» A costo di fare cattiva figura davanti ai suoi compagni non era
disposto a mentire, bergamasco e onesto com’era. Aveva da poco compiuto
vent’anni. (È concesso allo scrittore di salutarti, Moioli? Saresti presto morto,
come molti degli altri. La tua figura di bravo ragazzo riaffiora qui solo per
qualche istante, prima d’essere nuovamente inghiottita dal tempo, che tutto
afferra e trascina via.)
«Ecco perché ne parli così» sentenziò allora il caporale Costanzo, trattorista
più che trentenne. «Adesso capisco perché non mi credi quando dico che le
donne, a conoscerle bene, sono tutte puttane. È perché tu non le conosci.»
«Beh, tutte puttane!» fece Ambrogio.
«Certo signor tenente. L’abbiamo visto anche qui in Russia quest’inverno a
Caménca, quando stavamo nelle case con i civili. Quanti erano nella batteria
che non facevano una vita da sposati? Sì e no il dieci o il venti per cento, a dir
tanto.»
«Più che altro quelli venuti su alla scuola dei preti negli oratori, come me»
spiegò pacificamente il tozzo sergente Facchi, capo pezzo, originario della
campagna bresciana.
«E loro, le donne, parlavano tutti i giorni del marito ‘na frontie’ (al fronte),
e si facevano anche il segno della croce così» continuò Costanzo, raccogliendo
le dita in punta, nel modo in cui si segnano gli ortodossi. «Poi la notte veniva-
no a dormire con noi senza neanche domandarglielo. Ecco cosa sono le donne:
tutte puttane.» Costanzo aveva lasciato a casa una moglie molto giovane, e
nessuno sapeva se a ragione o a torto ne era rabbiosamente geloso.
La maggioranza dei presenti sembrava comunque più interessata alla so-
stanza dell’affermazione di Moioli, il quale finì col farsi rosso in viso. Ambro-
gio si rese allora conto d’averlo esposto davanti agli altri; perciò disse: «Beh,
nemmeno io ho ancora provato l’amore fisico, fino a oggi.»
Alcuni si sorpresero: «Ma... cosa dite?»
«Signor tenente è... è impossibile.»
«È talmente impossibile che è vero» disse Ambrogio. «E, se Dio mi aiuta,
non intendo provarlo fino a quando mi sposo.»
«Anche voi per motivi religiosi, eh?» disse tutto contento il sergente Facchi.
«Sì.» Ambrogio fu per aggiungere: «E di lealtà» e spiegare perché, ma in
questo ambiente sarebbe riuscito un discorso troppo predicatorio; meglio li-
mitarsi a testimoniare.
«Signor tenente io non vi credo» esclamò, con un certo ritardo tant’era sta-
to preso in contropiede, il ligure Campanini, porgitore al pezzo. «È... impossi-
bile!» Era uno dei soldati che più apprezzavano Ambrogio; lo venerava addi-
rittura a motivo della sua efficienza milanese, che si era un po’ alla volta anda-
ta imponendo; questa affermazione costituiva per lui un autentico colpo.
Il sottotenente lo guardò in faccia, notò il suo sconcerto e si mise a ridere
tentennando la testa. Per qualche istante ci fu silenzio, poi il parlare riprese, il
discorso cambiò.
Attraverso incontri come questo Ambrogio si sforzava di capire sempre me-
glio ciascuno dei suoi soldati. E di farsi sempre meglio capire da loro. Non di-
menticava che la comprensione reciproca sarebbe stata molto importante se
mai fossero arrivati giorni difficili.
CAPITOLO SEDICESIMO
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
***
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Bonsaver rimase a cena da Ambrogio. Aveva in programma di ripartire con
gli autocarri del servizio munizioni, che nel loro giro sarebbero passati a tarda
sera prima da questo gruppo e poi dal suo.
Dalla cucina - ubicata come s’è detto nella balca - l’attendente di Ambrogio,
Paccoi, portò la cena in due gavette e in due fondine, queste ultime coperte
con piatti capovolti e riunite dentro un tovagliolo, di cui egli teneva con una
mano gli angoli; portò anche, sotto braccio, uno sgabello supplementare e ap-
parecchiò sulla cassa del telefono sistemata a mo’ di piccolo tavolo tra i due
sgabelli. Aveva in precedenza steso sulla cassa, con funzione di tovaglia, il to-
vagliolo dalle cocche raggrinzite in cui aveva portate le fondine, sentenziando
soddisfatto e un po’ impreciso che: «Quando una cosa ci vuole, ci vuole.»
Egli nascondeva una piccola sorpresa: nelle fondine, oltre alla carne del
rancio, c’erano due croccanti razioni di patate fritte: «Omaggio del caporale di
cucina» recitò Paccoi «al signor tenente ospite, per poco non rimasto ammaz-
zato dall’attacco aereo durante l’orario dell’ospitalità.»
«Nel qual caso» completò Ambrogio «io l’avrei oltre tutto dovuto pagare di
tasca mia, perché la linea pezzi non è assicurata contro i danni a terzi.»
Sempre un po’ impacciato l’attendente contadino assisté alla cena, pronto a
intervenire: cercava di comportarsi come, secondo lui, si sarebbe comportato
un cameriere da mensa ufficiali. In realtà non poté far altro che ritirare prima
le gavette e poi i piatti, ogni cosa ben ripulita: lo fece comunque col miglior
stile possibile. Nessuno l’obbligava ad agire così: semplicemente egli era ades-
so molto devoto ad Ambrogio, di cui apprezzava la serietà e il senso del dove-
re, e intendeva quindi, per quanto stava in lui, fargli fare bella figura in pre-
senza dell’ufficiale forestiero.
Dopo cena i due sottotenenti sedettero sugli sgabelli fuori della tenda, a go-
dere il fresco della sera. Il sole era al tramonto; due sentinelle, col moschetto a
‘bracciarm’, diedero inizio al servizio di guardia passeggiando avanti e indietro
lungo lo schieramento dei pezzi. Anche i soldati s’erano messi a sedere fuori
delle loro tende, in circoli sull’erba: alcuni conversavano, e l’argomento
d’obbligo era l’attacco aereo del pomeriggio, altri invece ascoltavano stridule
canzoni da piccoli grammofoni a manovella. Le loro voci e i suoni giungevano
ai due ufficiali.
«Se credi» disse Ambrogio «invece di star qui possiamo anche noi andare a
sederci sull’erba coi soldati. Hanno di sicuro molta voglia di chiacchierare con
te: capirai, qui vediamo sempre le stesse facce.»
«Tu coi soldati te l’intendi, eh?» disse Bonsaver: «Con loro ti senti a tuo
agio.»
«Sì.»
«Me ne sono accorto.»
«Conosco ormai vita morte e miracoli di ciascuno, e anche dei loro parenti.
Ho imparato da mio padre a interessarmi a loro.»
«Perché? Tuo padre fa così con gli operai?»
Ambrogio annuì. «A lui riesce spontaneo. Te l’ho detto che prima d’essere
industriale era operaio?»
«Non ricordo» disse Bonsaver levandosi in piedi: «Beh, su, andiamo in visi-
ta allora.»
Ma proprio in quella squillò il telefono. Ambrogio entrò rapido nella tenda;
ne uscì di lì a poco impugnando il megafono: «Capi pezzo» gridò attraverso lo
strumento: «a rapporto. A rapporto i capi pezzo.» Poi, rivolto alla tenda più
vicina, chiamò senza megafono: «Borghi.»
«Presente» gli gridò dalla tenda l’interpellato.
«Forza, vieni anche tu.»
«Subito.»
«Adesso» disse Ambrogio a Bonsaver «potrai controllare di persona quanto
riuscite scoccianti voi osservatori quando ci mettete in allarme all’ora
d’andare a dormire.»
Tutt’e cinque i chiamati arrivarono di corsa: non avevano più le bandoliere
come nel pomeriggio, due erano in ciabatte.
«Tu Borghi» disse Ambrogio all’artificiere della linea pezzi «accendi subito
il falso scopo. Voi» disse agli altri «dovete tenervi coi pezzi pronti a far fuoco.»
«Pronti?» chiese il caporal maggiore Zanini.
«Già. Non è certo che spareremo. Però se ce lo chiederanno dobbiamo esse-
re pronti a farlo immediatamente. Dunque giù dai pezzi le reti e le cuffie, ottu-
ratori aperti, e che gli uomini siano tutti avvertiti e pronti a scattare appena
chiamati.»
«Signorsì» dissero o mormorarono i capi pezzo. Prima d’andarsene il ser-
gente Facchi (che come s’è detto era il più sordastro dei quattro) riferì in di-
sparte ad Ambrogio: «Alla nostra tenda c’è Colombo, quello con la bella voce.
È venuto in visita dal comando di batteria.»
«Mm.»
«Finora non ha voluto cantare. Però, se glielo chiedete voi, canterà.» Indicò
di straforo Bonsaver, a significare che sarebbe stata una sciccheria offrire
all’ospite un trattenimento come quello. Ambrogio convenne con un cenno del
capo, ma disse: «Dopo però, quando avremo eseguita questa condotta di fuo-
co.» I quattro salutarono, e s’avviarono in fretta verso le loro tende.
Cento e più metri a tergo dello schieramento c’era, profondamente confic-
cata nell’erba, una palina di legno a strisce orizzontali bianche e rosse, il falso
scopo, sul quale erano puntati giorno e notte i cannocchiali panoramici dei
cannoni. Poiché di notte non sarebbe stata visibile, recava saldamente legata a
metà altezza una piccola lanterna rossa. Questa appunto l’artificiere Borghi
andò ad accendere, e la presenza nel buio di quella minuscola luce sarebbe
bastata da sola ad avvertire ogni artigliere di tenersi pronto.
Adesso Ambrogio non poteva più allontanarsi dal telefono. Sopra e intorno
allo schieramento, l’enorme cielo senza luna cominciò a screziarsi di stelle.
Poco alla volta sempre più fittamente.
«Peccato non conoscerle, le stelle» osservò il giovane: «non saperne i nomi,
e anche i nomi dei... come si chiamano? dei loro raggruppamenti.»
«Le costellazioni vuoi dire?» fece Bonsaver.
«Ecco, le costellazioni. Un tempo la gente conosceva queste cose. Più d’una
volta ho pensato che se anche noi le conoscessimo, le stelle ci terrebbero com-
pagnia quando dobbiamo vegliare.»
«È vero» disse Bonsaver «è proprio così.»
«Perché? Non vorrai dirmi, per caso, che tu conosci le stelle?» «’Na scianta
(un poco) sì. Da zoveno me piaseva studiarle: verso i desete, desdoto ani.»
«Ma guarda.» Ambrogio si animò: «Le risorse di questi eroi lontani! Beh,
allora forza, comincia subito a dirozzarmi.» Alzò gli occhi verticalmente: «Per
esempio come si chiama quel gruppetto di stelle là, quasi sopra la nostra te-
sta?»
«Quella è la Lira. Però se vuoi che ti rimanga nella mente qualcosa non devi
imparare i nomi così a rampazzo. Ci vuole un minimo di sistema. Sta attento:
devi sempre riferirti - sempre dico - alla stella polare. Quella la sai ritrovare,
no?»
«Beh, non fosse che per i controlli d’orientamento. Dai, adesso non esage-
rare.»
«Ecco. Tieni presente che tutto il cielo ruota, voglio dire che sembra ruota-
re, intorno a un asse che passa per i nostri due poli e per la stella polare...»
Andò avanti per un po’, mentre dall’osservatorio l’ordine di fuoco non arriva-
va. Sotto la sua guida Ambrogio individuò una dopo l’altra le principali costel-
lazioni che percorrono il cielo estivo, e in esse le poche stelle di prima gran-
dezza; cercò d’imprimersi bene nella memoria figure e nomi, ripetendoli più
volte.
Quella sorta di sedia o scaletta che durante la notte - gli spiegò Bonsaver -
avrebbe fatto da vicino un mezzo giro intorno alla stella polare, era Cassiopea;
chissà mai perché gli antichi le avevano dato il nome d’una principessa. Poi,
sempre nello spazio a est della polare, c’era il grande quadrato di Pegaso, il
cavallo alato. E tra Pegaso e Cassiopea la lunga, tremula coda del cavallo: due
esili file di stelle che hanno - stranamente - il nome d’un’altra principessa,
Andromeda.
Passando dalla parte est del cielo alla zona sopra le loro teste, s’individuava
sullo sfondo fosforescente della Via Lattea una croce di grandi stelle: il Cigno
dalle ali spalancate; e prossima al Cigno, ma separata e distinta, la Lira, un
mucchietto di stelle dominate dalla luminosità azzurrina della più brillante tra
loro, Vega, che - come Bonsaver fece notare - era l’astro più luminoso di tutto
il cielo estivo.
Verso sud dieci o dodici stelle di seconda grandezza formavano l’Aquila. «Io
per la verità, quella costellazione la chiamo Zambon» disse Bonsaver «perché,
come vedi, non somiglia per niente a un’aquila; somiglia piuttosto al marchin-
gegno con cui l’idraulico del mio paese, un certo Zambon (un ubriacone che
non ti dico), filetta i tubi dell’acqua.»
«Allora» osservò Ambrogio «io dovrei chiamarla Pirovano, visto che
l’idraulico di Nomana si chiama così.» Gli tornò in mente l’episodio di
quell’aquila del Pirovano Oreste che all’adunata per la dichiarazione di guerra
non riusciva a far funzionare i suoi altoparlanti applicati alla facciata del mu-
nicipio. «Va bene: costellazione Pirovano» disse.
Spostando lo sguardo da Pirovano verso ovest, si scorgeva - talmente basso
da toccare quasi l’orizzonte - Boote, cioè il guidatore di buoi, che in realtà ri-
chiamava piuttosto l’idea d’un aquilone di quelli con cui giocano i bambini:
l’attacco della sua coda svolazzante era costituito da una grossa stella rossa-
stra e quasi villana, Arturo.
Ora che aveva qualche possibilità di distinguere i convogli di stelle che len-
tamente lo percorrono, l’immenso cielo notturno sembrava già ad Ambrogio
in qualche modo più comprensibile, meno inattingibile. È vero che - come non
mancò d’avvertire Bonsaver — quei convogli sono in realtà fittizi, perché se
una delle stelle che li compongono dista da noi, poniamo, pochi anni luce, le
altre possono distare molti o moltissimi anni luce, e siccome ciascuna va per la
propria strada con inimmaginabile velocità, un po’ alla volta i loro disegni si
scomporranno e se ne formeranno altri. Rimane tuttavia che nel breve corso
di una civiltà - qualche migliaio d’anni - lo scompaginamento è appena avver-
tibile.
Dunque per noi le stelle si raggruppano in questi silenziosi cortei che - se li
guardiamo attentamente - ci affascinano, ed accendono le nostre fantasie, an-
che se talvolta uno ci scherza sopra.
«Tranne le costellazioni più vicine alla stella polare, che si vedono tutto
l’anno, le altre cambiano col cambiare delle stagioni» gli ripeté ancora una
volta Bonsaver. «Tu devi far caso là, all’orizzonte di est e sud-est: è di là che
sorgono, per poi salire nel cielo durante la notte. Quando a quest’ora vedrai
affiorare Orione, il gran cacciatore, che riempirà tutta quella parte di cielo,
allora sta bene attento» disse Bonsaver, finendo con l’autosuggestionarsi un
poco: «è segno che sta arrivando l’inverno.»
Il tremendo inverno russo! All’idea, prospettatagli a quel modo, Ambrogio
si sentì accapponare la pelle sulle braccia. «Che ti pigli un accidente» bofon-
chiò: «Cosa stai dicendo? Per sapere ch’è in arrivo l’inverno non avrò mica
bisogno di guardare le stelle.»
Nella tenda squillò il telefono. Ambrogio scattò in piedi e si mise a ridere;
anche Bonsaver ridacchiò: «Disgraziato» disse «hai rotto l’incanto. Ma vedito
che scherzi che le ne combina le stele?» Mentre sollevava la cornetta, l’altro
convenne.
Non si trattava di dare inizio al fuoco: il sergente maggiore furiere comuni-
cava ch’erano arrivati gli autocarri delle munizioni. Ambrogio lo pregò di pas-
sargli all’apparecchio il tenente comandante, e a questi ricordò che la linea
pezzi era tuttora all’erta e in attesa; il tenente ordinò che seguitasse a mante-
nersi tale. Ambrogio consultò l’orologio: dalla messa all’erta era trascorsa
un’ora e mezza. Per la durata di un’ora e mezza dunque egli aveva conversato
di stelle con Bonsaver.
Il quale, avvertito dell’arrivo degli autocarri, si alzò dallo sgabello. «Xe rivà
el momento de meterse le gambe in spala e nar» disse: «la vacanza è finita.»
Strinse cordialmente la mano di Ambrogio; quel giorno aveva segnato un in-
dubbio progresso della loro amicizia. Preceduto da un artigliere munito di tor-
cia elettrica, il visitatore s’incamminò quindi verso il comando di batteria su
una pista tracciata nell’erba.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
CAPITOLO VENTESIMO
***
Mittenti erano sua sorella Alma, il Michele Tintori e Igino. L’ufficiale aprì
anzitutto la lettera di Alma. Con calligrafia molto femminile la sorella lo rag-
guagliava sugli ultimi fatterelli di casa e di Nomana; si esprimeva come sem-
pre in modo ingenuo e, senza volerlo, gustoso, in un punto però anche con
imprudenza: ‘Sabato c’è stata una grandinata che ha fatto molti danni nei
campi: non so se ve n’è arrivata notizia anche lì’ Ad Ambrogio venne da ride-
re. ‘Domenica dopo la messa’ continuava la lettera ‘il sig. prevosto e il papà
ne hanno parlato sul sagrato (ero presente anch’io) e il sig. prevosto ha detto
una specie di epigramma che ti riporto: «L’altissimo onnipotente del cielo ci
manda la tempesta, l’altissimo onnipotente della terra ci toglie quel che re-
sta, e noi tra due altissimi, restiamo poverissimi.» Cosa ne dici? Sempre
uguale il nostro sig. prevosto, vero?’ Prima di procedere nella lettura Ambro-
gio riprese in mano la busta e ne esaminò le due facciate, quindi esaminò an-
che, il foglio, se recassero il timbro della censura. No, per fortuna la censura
aveva lasciata passare la missiva senza controllarla.
“Bisognerà che nella risposta dica ad Alma d’essere più prudente. Che razza
di gattino di marmo!” Finalmente si mise a ridere per la facezia del prevosto;
gli piaceva.
Passò poi alle altre due lettere; lesse anzitutto quella di Igino, che proveniva
da una località imprecisata e probabilmente molto meridionale dei Balcani:
‘Caro Ambrogio, io sto bene e così spero di te. Ho ricevuto il tuo indirizzo da
casa mia, che gliel’ha dato tua sorella Francesca. Io mi trovo vicino a’ il no-
me della località era stato cancellato con un’impenetrabile pennellata
d’inchiostro di China dalla censura. ‘Dove siamo adesso è un posto di gran
pidocchi. La gente sta seduta tutto il giorno davanti alle case ossia catapec-
chie, e non fanno neanche lo sforzo di cacciar via le mosche dalla faccia. Solo
come partigiani si danno un po’ da fare, ma a noi ci fanno un baffo.’ E più
avanti: ‘Qui ci sono gli avvoltoi, sicché quando un animale ossia un mulo del-
le salmerie cade in un burrone e si va il giorno dopo per recuperarlo, non
dico lui ma la carne, la troviamo già mezza mangiata. Oppure a volte i quar-
ti portati via dai partigiani. Questi partigiani, se radio scarpa dice la verità,
e io credo di sì, combattono più tra loro che contro di noi perché i comunisti
vogliono comandare agli altri, e ogni tanto ne troviamo di morti, o i civili
loro parenti uccisi con stragrande barbarie. E questo in tutta’ seguiva una
seconda pennellata d’impenetrabile inchiostro censorio. Di che regione si trat-
tava? Della Macedonia? Dell’Albania? Non del Montenegro, visto quel ‘tutta’
femminile. Forse però un po’ dovunque nei Balcani stavano succedendo cose
simili. Concludeva la lettera: ‘Tra mosche pidocchi e partigiani rimpiango un
po’ Nomana, ma cerco di non pensarci, e ti saluta il tuo compagno Igino.’
Il Michele Tintori - col quale aveva in precedenza scambiato due o tre lette-
re - gli scriveva da una località del Don di cui non faceva il nome, situata pro-
babilmente un’ottantina di chilometri verso ovest. Dopo avergli riferito con
gratitudine che Fortunato e Pino erano stati simpaticamente a far visita a suo
padre a Nova, continuava: ‘Per quanto mi riguarda il tempo che il servizio mi
lascia libero (poco purtroppo) seguito a spenderlo indagando com’era la vita
in questi villaggi prima del nostro arrivo. Certo qui i padroni del vapore
(padroni assoluti, senza le limitazioni che ci sono in Italia) non si aspettava-
no che qualcuno gli entrasse in casa a questo modo, anzi erano sicuri del
contrario. A momenti mi sembra d’esplorare la faccia nascosta della luna...
Anche qui sul Don che sciocca più d’ogni altra cosa la gente è il ricordo della
grande carestia del 33, provocata dalla collettivizzazione forzata della terra,
con i morti di fame, il cannibalismo ecc. di cui ti ho già parlato nelle mie pre-
cedenti: vicenda sulla quale del resto avrai ormai raccolto notizie anche tu
(guarda che ci conto). Ho l’impressione che le più atroci cose accadute nelle
epoche passate, quelle che tanto ci impressionavano quando studiavamo la
storia, non abbiano mai raggiunto la micidialità e l’orrore di queste a noi
contemporanee. Sei d’accordo? Ma non voglio parlarti sempre e solo di que-
sto. Passiamo dunque a un altro argomento: qui nell’ambiente dei cosacchi
mi sembra in certi momenti d’individuare qualcosa che prima non immagi-
navo. Vorrei appunto sentire il tuo parere: hai avuto modo di osservarla be-
ne questa gente? I cosacchi sono diversi dagli ucraini, e insomma per dirtela
addirittura tutta, a me fanno venire in mente l’antica Grecia.’ (“Questo Scio-
locov non lo scrive, non se lo sogna nemmeno” rifletté divertito Ambrogio:
“Che strano tipo il Michele!”) ‘I cosacchi - e forse in genere i russi fino
all’avvento del comunismo - erano epigoni della Grecia? I motivi che me lo
fanno pensare non posso esporteli in questo breve scritto (non mi va d’essere
sommario), però cerca di osservarli anche tu, e quando ci vedremo confron-
teremo.’ (“A cosa diavolo alluderà?” si chiese Ambrogio. “Forse al loro caratte-
re, diciamo, eccessivo? Sì, per la verità nei cosacchi descritti da Sciolocov un
aspetto, come chiamarlo? bacchico, c’è, e la cosa potrebbe in un certo senso
richiamare i personaggi di Omero. Che alluda a questo, Michele? ”)
Continuava la lettera: ‘Anche i villaggi sono diversi da quelli visti fin qui,
ciascuno con una chiesa imponente (trasformata, al solito, in magazzino), e
vi si respira - credo sarai d’accordo - un’aria diversa. Insomma dopo aver
vista questa gente io non mi meraviglio più che nei secoli scorsi essa sia arri-
vata in Alasca, anzi più in là, fin quasi in California. Però questo non c’entra
con la sua classicità: mi accorgo che sto mescolando due discorsi completa-
mente diversi. Beh, ne parleremo in modo meno sgangherato quando ci ve-
dremo.’ La lettera concludeva con l’auspicio che l’incontro potesse avvenire
presto per - ribadiva - ‘confrontare e mettere a fuoco tutte le nostre esperien-
ze dell’ambiente.’
“Le mie esperienze? Che ne so io della gente di qui? Noi oltretutto non ab-
biamo un interprete in batteria come ha lui” pensò Ambrogio con la lettera
sempre tra le mani. “Noi la gente la vediamo più o meno come la vedono i tu-
risti, cioè in modo del tutto superficiale, ecco come stanno le cose. Lui inve-
ce... Però che tipo!” Ricordò quando Michele affermava di supplicare ogni
giorno Dio per ottenere la grazia d’essere assegnato al fronte russo. E come ci
fosse arrivato sfruttando il piazzamento nella graduatoria al corso ufficiali.
“Che razza d’elemento! Anche il rettore Gemellone se n’era accorto
all’università...” Ambrogio sorrise al ricordo: “Michele è un tipo che non de-
morde, che va per la sua strada, niente da dire. Sì, lo rivedrei proprio volentie-
ri”. Non tuttavia per fare conversazione intellettuale: questa prospettiva non
lo attirava affatto.
***
Con la posta della settimana successiva giunse ad Ambrogio anche una let-
tera di suo cugino Manno dal fronte libico, anzi - come si puntualizzava nella
lettera - dall’Egitto: ‘L’estate qui in Egitto fa sul serio, e non accenna a finire.’
Manno era attualmente osservatore d’artiglieria e: ‘sia che mi trovi
all’osservatorio’ scriveva ‘da cui, se togli sassi e sabbia, ho ben poco da osser-
vare, sia che mi trovi a riposo nella mia buca afosa, coperta da un telo tenda,
in questo periodo di stasi ho davanti ore e ore per riflettere, e rifletto infatti,
e medito continuamente.’ Non specificava su che meditasse, diceva solo: ‘Il
significato di certi particolari della vita civile in Italia, che prima non capivo,
adesso mi pare di capirlo.’
Passava poi a ricordare con strana nostalgia qualche lontano episodio dei
tempi di Nomana. La lettera - piuttosto breve - terminava con una nota di
preoccupazione esplicita: ‘Ne avremo di cose da raccontarci quando ci ve-
dremo. Se pure mi consentirà di rivederti presto la situazione che qui nel cie-
lo si sta capovolgendo.’
Cosa intendeva dire Manno con queste ultime parole? Forse che gli inglesi
stavano prendendo la supremazia aerea? Ambrogio le rilesse un paio di volte:
tali parole non potevano significare altro. “Una prospettiva davvero poco alle-
gra” si disse perplesso. Per la verità anche dall’Italia giungevano notizie sem-
pre più frequenti di bombardamenti aerei sulle città. “Ma... e con ciò? Beh,
forse Manno ha semplicemente scritto in un momento di depressione” cercò
di spiegarsi Ambrogio: “All’aviazione inglese sarà magari riuscito qualche col-
po grosso, e lui mentre scriveva era ancora sotto l’impressione: ecco cosa
dev’essere...” Tuttavia quell’enigmatica frase ogni tanto nei giorni successivi
gli tornava in mente.
***
IV
CAPITOLO VENTUNESIMO
Inforcò l’unica motocicletta rimasta in batteria, una vecchia Alce Guzzi che
aveva fatta la campagna d’Jugoslavia e, durante quella di Russia, la durissima
avanzata nel fango dell’autunno 1941: era una delle poche moto ancora fun-
zionanti nell’intero reggimento. Il sergente addetto agli automezzi della batte-
ria, certo Feltrin, alle cui cure e solerzia si doveva se la moto era sopravvissuta
a tante traversie, gliel’aveva nei giorni precedenti messa a punto.
Il vecchio motore funzionava ancora bene, con scoppi cadenzati, lenti, ga-
gliardi. Staccatosi dal carreggio di batteria, il sottotenente si addentrò nella
balca, o scanalatura naturale del terreno con pareti pressoché verticali di terra
nuda; di simili incisioni nette - di lunghezza molto variabile, profonde in ge-
nere pochi metri, e larghe due o tre volte tanto - ne aveva viste gran numero
nella pianura russa: le scavano, così aveva appreso, le acque del disgelo pri-
maverile, con un processo che a lui rimaneva oscuro. Questa, prima di scende-
re al Don, correva per oltre un chilometro in direzione ovest, cioè con anda-
mento parallelo al fiume, ed era a tratti boscosa, a tratti col fondo coperto dal-
la solita erba stenta della steppa.
In pochi minuti, eseguite alcune modeste curve, il giovane si ritrovò
all’altezza del comando di gruppo: una decina di tende e cinque o sei autocar-
ri, più la Millecento da ricognizione del maggiore, il tutto sistemato sotto gli
alberi in un punto in cui la balca s’allargava alquanto. Una delle tende, a se-
zione quadrata, era più lunga delle altre: doveva trattarsi del comando; gliene
stava accanto una piccola a sezione triangolare, alla quale affluivano molti fili
telefonici, certamente il centralino di gruppo. Ecco poi, poco più in là, la ten-
da-infermeria con davanti alcuni artiglieri in stanca (si trattava dei ‘marcanti
visita’ della giornata) di cui uno - della sua batteria -salutò agitando una mano
l’ufficiale che passava.
Dopo poche centinaia di metri ecco il parcheggio e il comando della secon-
da batteria, e subito dopo quelli della prima ed ultima: le linee pezzi di queste
due batterie erano schierate quasi in prosecuzione una dell’altra lungo la pare-
te nord della balca, che qui non era a picco ma - a causa d’antiche frane - for-
mava un pendio erboso molto irregolare.
La pista - ridotta a due strisce di polvere nell’erba - proseguiva per un certo
tratto a cielo aperto in direzione ovest, poi, allo stesso modo della balca, si bi-
forcava. Appena prima della biforcazione ricominciavano gli alberi e c’erano
baracche e tende della fanteria: era qui, su questo accampamento in parte allo
scoperto che - come l’ufficiale sapeva - qualche settimana avanti gli aerei russi
avevano sganciato il loro carico di bombe prima d’eseguire la virata che li
avrebbe portati sopra la sua linea pezzi. Del bombardamento rimanevano non
pochi segni: rami spezzati, una baracca in rovina, crateri e buche nerastre nel
terreno. Avvicinandosi al punto di biforcazione il sottotenente rallentò il vei-
colo fin quasi a fermarlo ed esplorò intorno con gli occhi.
Il corso principale della balca curvava verso destra per scendere in direzio-
ne del Don, e sembrava allargarsi e farsi insieme più profondo; a sinistra la
balca riceveva un - se così possiamo dire - affluente minore, che proveniva
dalla pianura di sud-ovest, alla quale egli era in linea di massima diretto. Im-
boccò dunque l’affluente e, com’era stato preavvisato dai soldati della ‘spesa
viveri’, trovò che esso diminuiva un po’ alla volta di profondità: continuava
tuttavia per qualche chilometro, ogni tanto allargandosi anche in modo consi-
derevole, per tornare a restringersi fino a pochi metri, sempre con le pareti di
terra nuda e a picco.
In uno degli ultimi slarghi s’imbatté in un accampamento di cosacchi: vec-
chi, donne, bambini, che avendo dovuto abbandonare il loro villaggio in riva al
fiume, s’erano trasferiti qui. Pur senza fermarsi il giovane cercò d’osservarli:
avevano ritagliato i loro ricoveri nelle pareti ormai poco profonde della balca,
coprendoli con frascame; gli uomini - di cui neppure uno in età militare - era-
no di statura superiore a quella degli altri russi, e portavano in genere grandi
barbe bianche e puntute, lunghe talora fino alla cintola.
Anch’essi l’osservavano passare coi loro occhi azzurri e le teste diritte, gravi:
questo particolare richiamò ad Ambrogio ciò che gli aveva scritto Michele nel-
la sua ultima lettera. “Dice che i russi sarebbero i continuatori dell’antica Gre-
cia, proprio i cosacchi gliene danno l’impressione. In effetti qualcosa di classi-
co, di fuori del comune, questi ce l’hanno. Però non credo sia soltanto per la
loro esteriorità, che Michele ha scritto a quel modo...”
Cercò d’osservarli meglio, compatibilmente con la guida della moto: “Certo
non somigliano agli altri russi, a quelli di Caménca per esempio: non sono così
abbacchiati e frustrati, così violentati... E sì che questi per il comunismo devo-
no aver sofferto anche più di quelli, e probabilmente anche adesso soffrono di
più per la nostra occupazione: non dev’essere gente, questa, che se ne infischia
al vedere la sua terra invasa. Beh” risolse “voglio sentire in proposito Miche-
le.” Poco oltre l’accampamento cosacco la balca affiorava nella campagna; la
pista continuava tra estesissimi appezzamenti di frumento, parte mietuti, par-
te no, e distese di girasoli ormai morti, rinsecchiti. Ogni tanto il giovane scor-
geva lontano qualche trattore agricolo abbandonato (i grandi trattori russi a
cingoli, con scappamenti verticali simili a fumaioli, di disegno antiquato, che
allora punteggiavano la pianura; a esaminarli da vicino risultavano tutti senza
eccezione coperti di ruggine e semidemoliti.) Non scorgeva invece intorno
anima viva; la vecchia moto, col suo scoppiettio regolare e potente, seguitava a
lasciarsi indietro pista, finché l’esaurì e sboccò su una strada. La quale differi-
va dalla pista solo per la maggior larghezza, e per il fondo assai più polveroso,
era inoltre fiancheggiata da un’interminabile fila di rustici pali del telegrafo.
Percorrendola verso sud il sottotenente giunse a un villaggio dalle isbe molto
distanziate tra loro, tutte con tetti di paglia e muri malamente a piombo; qui
ritrovò finalmente un po’ di gente, donne sopratutto, vestite al solito di nero,
con la testa coperta e bambini per mano. A metà paese c’era un incrocio, nel
cui mezzo sorgeva spaesato un palo del telegrafo coi fili spezzati e pendenti: vi
erano inchiodate a diverse altezze - fino a un palmo da terra - frecce e frecciole
di legno, recanti sigle, o numeri di reparti e - qualcuna - nomi di località. Il
giovane prese per Dubovi, dove arrivò dopo un’altra mezz’ora di viaggio, piut-
tosto impolverato per aver dovuto sorpassare una colonna d’autocarri prove-
nienti dalla linea.
In questo paese c’erano parecchi insediamenti militari, vigilati da sentinelle
o da piantoni. Ambrogio sapeva che c’era anche il RMV (reparto munizioni e
viveri) del suo gruppo: era infatti qui che due volte la settimana veniva
l’autocarro della batteria a ‘fare la spesa’ e a ritirare la posta; per quanto
esplorasse con lo sguardo, non gli riuscì però d’individuarlo. Controllò
l’orologio alzando fino al viso il polso sinistro: la lancetta era poco oltre le die-
ci; proseguì in direzione sud-ovest senza fermarsi.
Il motore batteva ch’era un incanto; l’ambiente si manteneva sempre ugua-
le, ciononostante il giovane avvertì a un tratto d’essere entrato nel settore
d’un’altra divisione. A riprova ecco sulla strada un gruppetto di bersaglieri coi
loro vivaci fez rossi in testa; poi, dentro un avvallamento boscoso, ecco dei
filari di cavalli legati all’addiaccio. Un reparto del Savoia Cavalleria forse? Del
reggimento cioè che appena un mese prima, in agosto, aveva fatto la carica
d’Isbuscenschi? O si trattava del Novara? “Beh, come che sia ho cambiato di
provincia” pensò allegro il ragazzo: “sono entrato nella provincia Celere, anche
se sulla strada non c’è a indicarlo un paracarro con la scritta, come in Italia”.
Ormai Rassipnàia, il paese in cui il battaglione di Stefano era accantonato,
non doveva più distare molto: “Mi domando se tra poco rivedrò davvero Fac-
cia-di-tutti-i-giorni” si disse con un principio d’animazione.
Non lo rivide; non subito almeno. Infatti come, entrato in paese, fermò la
moto all’altezza del primo bersagliere che incontrò, e quasi gridando per supe-
rare il motore gli chiese d’indicargli gli accantonamenti del nono battaglione,
si sentì rispondere giovialmente che ‘il battaglione del nonno’ era tornato in
linea da alcuni giorni. «Adesso al suo posto ci siamo qui noi dell’ottavo.»
Ci rimase male.
Ma i bersaglieri son ragazzi di pronte risorse; Ambrogio ne ebbe immediata
dimostrazione. «Voi volete andare al nono battaglione? Venite con me, signor
tenente» gli disse infatti quello.
«Dove mi vuoi portare?»
«Al comando della mia compagnia. È qui vicino.»
«Bene. Monta su.»
Il bersagliere salì dietro di lui sulla moto, e lo scortò fino a un piccolo slargo
tra due isbe che parevano sul punto d’essere schiacciate dal peso dei loro vo-
luminosi e sformati tetti di paglia. Tale impressione era confermata dai telai e
dai vetri delle piccole finestre che non erano verticali, ma sensibilmente incli-
nati. Mentre il bersagliere smontava Ambrogio arrestò la moto e spense il mo-
tore, poi smontò a sua volta, e sistemato il veicolo sul cavalletto, seguì la sua
guida dentro una delle isbe.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
Qui alle poche suppellettili russe (qualche sedia, una stufa in muratura a ri-
piani, in un angolo le sacre icone col lumino acceso) si mescolavano alcune
suppellettili militari italiane: un tavolo da casermaggio con sopra una coperta
grigioverde, qualche sgabello, un paio di cassette o cofani chiodati, pure gri-
gioverdi. Al tavolo sedeva, in maniche di camicia, un tenente col capo scoperto
e i capelli corti: era intento a pulire la sua pistola d’ordinanza che gli stava da-
vanti smontata, i pezzi più minuti erano immersi in un po’ di benzina sporca,
contenuta in un coperchio di gavetta. Alzò gli occhi sul bersagliere che, dopo
averlo salutato militarmente, gl’indicò l’ufficiale forestiero. «Il signor tenente
cerca il nono battaglione» disse: «Credeva di trovarlo ancora qui in paese.»
L’ufficiale guardò Ambrogio: «Mi spiace» fece: «Il nono è tornato in linea
da qualche giorno. Al suo posto adesso ci siamo qui noi dell’ottavo.»
«Sì» rispose Ambrogio «ho sentito.» Avanzò di qualche passo e, ‘correg-
gendo la posizione’ come il regolamento e la cortesia gli prescrivevano, si pre-
sentò: «Permetti: sottotenente Riva, dell’Ottavo artiglieria Pasubio.»
«Galimberti» si presentò a sua volta il tenente. «Sto facendo un lavoro di
concetto, come vedi, e non posso darti la mano perché l’ho sporca. Vuol dire
che la mano ce la stringiamo in ispirito, eh?» Sorrise.
«D’accordo.» Anche Ambrogio sorrise.
«Io, se voi permettete, me ne vado» disse ad Ambrogio il bersagliere ac-
compagnatore, e al proprio ufficiale: «Volevo solo far presente che
l’autocarretta di Della Valentina non è ancora partita per la linea.» Fece l’atto
d’avviarsi.
«Aspetta» lo fermò l’ufficiale; e volgendosi ad Ambrogio: «Non per sapere i
fatti tuoi, ma per che motivo cerchi il nono battaglione?» «C’è un bersagliere
del mio paese nella seconda compagnia: un mio amico e compagno di scuola,
si chiama Giovenzana.» Galimberti non diede segno di conoscerlo. «Io vorrei
semplicemente fargli visita.»
«Dunque non ti occorrono più d’un paio d’ore... Ma sei comasco con quella
nèna (cadenza) quasi da canton Ticino?»
«No, della provincia di Milano, anche se sto al confine con Como.
Anche tu dalla parlata mi sembri milanese.»
«Infatti.» Sorrise: «Magari un po’ meno ‘arioso’ di te: sto in città, a porta
Vercellina.»
«Ehilà!» disse Ambrogio: «‘Guardass del sù e de la prina’ (guardarsi dal so-
le e dalla brina), ‘e de quii de porta Verzelina’.»
Il tenente gli fece sorridendo segno di no con la testa, e corresse: «‘e de quii
föra (fuori) de porta Verzelina’»
«Ah, ecco» convenne Ambrogio, che aveva modificato per scherzo il vecchio
detto milanese.
«Dunque sei della Brianza» disse Galimberti: «Si può sapere di che paese?»
«Di Nomana.»
«Ah, ci sono passato, bei posti.» Si volse al bersagliere: «L’autocarretta hai
detto?»
Quello confermò.
«Sentite» intervenne Ambrogio «io non voglio impicciarvi. Ho qui fuori la
moto: se mi date qualche indicazione posso andare in linea per conto mio.» E
rivolgendosi in particolare al tenente: «Se ti sembra che la cosa sia fattibile.»
«Sì» gli rispose quello «certo che lo è. Perché non dovrebbe esserlo? Del re-
sto sulla strada ti prenderebbero tutti per uno della nostra artiglieria. Però se
ci vai con l’autocarretta è meglio. Deve trattenersi in linea più o meno un paio
d’ore, il tempo che ti andrebbe bene.» E al bersagliere: «Sei sicuro che non è
ancora partita?»
«Pochi minuti fa era ferma davanti al comando di battaglione.» «Bene. Va
da Della Valentina.» (Sentì il bisogno di spiegare ad Ambrogio: «È l’autista.»)
«Digli che prima di partire per la linea ripassi di qui. Con la carretta, si capi-
sce.»
Il soldato batté i tacchi, salutò militarmente e via.
«Ehi» gli disse Ambrogio: «lascia almeno che ti ringrazi. Sei stato cortese.»
Quello girò la testa coperta dal fez, annuì lieto e uscì.
«Non sarà che qui potete contare su gente tutta così svelta?» disse Ambro-
gio.
«Beh, non ci lamentiamo» gli rispose il tenente. Poi rifletté: «Davvero, non
ci lamentiamo: al Terzo sono tutti ragazzi svegli; e che si spendono. Dunque tu
sei di Nomana, eh? Sì, ci son passato due o tre volte.»
Nella stanza attigua squillò il telefono: «Acci...» esclamò l’ufficiale alzando-
si in piedi: «Neanche in questi pochi giorni di riposo ti lasciano stare.» Intan-
to cercava intorno con gli occhi qualcosa con cui asciugarsi le mani. Anche
Ambrogio si guardò intorno: finì col prelevare da una risma sul tavolo un fo-
glio di carta bianca, glielo porse; Galimberti lo prese, e stropicciandosi le dita:
«Scusa un momento» mormorò, e si affrettò verso l’altra stanza dove il telefo-
no seguitava a chiamare.
Ambrogio si accostò a una finestra. Fuori c’era la sua moto: l’avrebbe lascia-
ta lì nelle poche ore d’assenza? O non era meglio insistesse per andare in linea
con quella, mantenendosi indipendente? Bisogna dire che l’idea di sperimen-
tare l’ospitalità dei bersaglieri lo attirava... Stava ponderando tra sé, quando
dalla porta di strada entrò una vecchia russa con la testa coperta da un panno
nero: attraversò il locale diretta a una porta interna; mentre passava davanti
alle sacre icone accennò un inchino e si fece il segno della croce.
«Dasidània zinca (buongiorno donna)» la salutò un po’ vacanziero il gio-
vane, nel russo molto approssimativo dei soldati. La vecchia si voltò e gli ri-
spose con un mezzo inchino e un «Dosvidània» appena mormorato.
“Poveretta” pensò Ambrogio quando fu sparita. “Però che disgraziati questi
contadini. Prima la rivoluzione, poi le espropriazioni dei loro campi e la gran-
de carestia, e adesso la guerra”. Guardò le sacre icone nell’angolo: erano due,
di legno dipinto, molto povere, due piccole tavole tarlate; chissà, pensò, con
quanta pena e tenacia la vecchia le aveva difese dai sarcasmi e dalle impazien-
ze dei politrùchi semianalfabeti, i quali dall’alto delle loro ‘cognizioni scientifi-
che’ certamente anche qui prendevano in giro le vecchie credenti. (Era una
delle lamentele più diffuse delle contadine: talmente diffusa che anche Am-
brogio ne era al corrente).
Non ebbe comunque molto tempo per riflettere: attraverso la finestra vide
arrivare, e con una sorta di spericolato ‘cristiania’ fermarsi davanti all’isba,
un’autocarretta dei bersaglieri; nello stesso tempo il tenente - conclusa la sua
telefonata - rientrava nel locale.
«C’è l’autocarretta» disse «andiamo.»
Accompagnò Ambrogio fuori. E al bersagliere autista, che sporgeva
dall’abitacolo la testa coperta dall’elmetto piumato: «Tutto a posto? Sei pronto
a partire?»
«Signorsì.»
«Bene.» Ad Ambrogio: «Se ti vuoi accomodare in cabina.» Ancora
all’autista: «Accompagnerai il signor tenente al comando della seconda com-
pagnia del nono battaglione. Al ritorno passi a riprenderlo e lo riporti qui.
Tutto chiaro?»
«Sissignore, chiarissimo.» E ad Ambrogio: «Prego, accomodatevi signor te-
nente.»
«Grazie» disse Ambrogio. Ebbe un attimo di perplessità: «La moto...»
«Non preoccuparti, quella te la custodisco io» disse il tenente: «Dai, non
perder tempo, ciao.»
Andò alla moto, la spinse giù dal cavalletto, poi verso casa; si vedeva subito
che ci aveva domestichezza, anche più di quanta ne avesse Ambrogio. Che in-
tanto era montato sull’autocarretta, sorprendendosi un po’ per l’angustia
dell’abitacolo.
Appena egli fu seduto, l’autista Della Valentina partì e imboccò speditamen-
te la strada di terra battuta, senza tuttavia (per riguardo all’ospite, o perché
stava sotto gli occhi del proprio ufficiale) entrarvi a cristiania come n’era usci-
to all’arrivo.
CAPITOLO VENTITREESIMO
Stavano avvicinandosi alla linea tenuta dalla divisione Celere sul Don. Il
paesaggio era sempre lo stesso, a enormi, monotone ondulazioni coperte da
sterminati campi di grano, parte mietuti, parte no; negli avvallamenti più
marcati crescevano boschi di latifoglie che disegnavano col loro verde intenso
gli avvallamenti stessi e le relative propaggini. Attraversarono qualche villag-
gio di isbe, in cui c’erano dei comandi e dei magazzini, tutti di bersaglieri o del
Centoventesimo artiglieria. Al margine d’un villaggio scorsero in mezzo agli
orti uno schieramento di cannoni.
«Quelli là» disse Ambrogio «il problema dei rifugi invernali se lo trovano
già bell’e risolto. Non li devono costruire a forza di pala e piccone come noi,
potranno sistemarsi nelle isbe.»
In prossimità del Don imboccarono un’ampia balca boscosa che li portò a
ridosso del fiume. Dopo essersi lasciate indietro alcune diramazioni della bal-
ca e della pista, Della Valentina rallentò l’andatura e cominciò a guardarsi in-
torno tra gli alberi: «La seconda dovrebbe essere da queste parti» ripeteva,
finché fermò accanto a due bersaglieri che camminavano appaiati, il moschet-
to sulla spalla; uno reggeva con una mano un grappolo di borracce dai feltri
stillanti acqua.
«Ehi voi, per favore: il comando della seconda compagnia?»
«La seconda è la nostra» dichiarò uno dei due.
«U comando è alla linia, proprio ’la linia, dentro ’nu buncher» spiegò
l’altro in italo-siciliano.
«Ci si può arrivare con la macchina?»
«Come no? Ci si può ghire. » Il bersagliere fece con la mano libera dalle
borracce un gesto a significare: stammi attento, talia a mia (guarda a me):
«Tu vai avanti pi’ sta trazzera (strada): iannu avanti dintra u vuosco (il bo-
sco) tu avisse a truvari nu parco di macchine, ma nicu (piccolino). Mm?»
«Sì» disse della Valentina: «lo ricordo infatti.»
«Ecco. Al parco un c’è bisuogno ca ti firmi a dumannari (domandare): a
trazzera ca sta la me destra (sulla destra), e sale in salita, porta a u cumannu
compagnia.»
«A che distanza si trova dal parco macchine il comando di compagnia?»
«Avissero a essiri (essere) ’nu triciantu metri.»
Il primo bersagliere intervenne: «Beh, forse anche di più.»
«Ricevuto, vi ringrazio» fece della Valentina ripartendo; anche Ambrogio
ringraziò con un cenno cordiale i due.
Ecco il parcheggio, c’erano pochi automezzi, qualcuno col cofano scoper-
chiato e meccanici attorno al lavoro; qui la balca si biforcava e una sua pro-
paggine - percorsa da una pista minore - s’inerpicava decisamente verso de-
stra. L’autocarretta la imboccò, superò arrancando una cucina da campo si-
stemata in uno slargo (certo quella della seconda compagnia: a legna, con due
grosse pentole che i cucinieri stavano in quel momento sciacquando), e final-
mente, venuti meno gli alberi, affiorò a tergo d’un lungo colmo a prato.
Su quel colmo correva la linea italiana, ben individuabile per i fortini, le cui
cupole erbose - distanti una dall’altra una cinquantina di metri - emergevano
in fila ininterrotta dal terreno. La pista si arrestava in una conca defilata, poco
prima d’uno di quei fortini: in quella cavità c’erano alcune tende a cubo e
un’autocarretta in sosta; evidentemente doveva trattarsi del comando di com-
pagnia.
Della Valentina non ebbe dubbi: «Siamo arrivati» annunciò, e andò a fer-
mare il proprio veicolo accanto a quello in sosta.
Da una delle tende uscì un sergente maggiore, con tutta probabilità cucinie-
re. «D’ordine del tenente Galimberti ho accompagnato qui il signor tenente
dell’artiglieria» gli disse l’autista. «Passerò a riprenderlo tra circa due ore.»
«Ah, il tenente Galimberti» mormorò il sottufficiale, e fatto il saluto ad
Ambrogio, che frattanto era sceso dall’automezzo: «Accomodatevi, vi prego.
Mi spiace che il capitano non sia qui.»
«Non importa» gli rispose Ambrogio. «Non occorre che io parli con
lui.»
«È andato al terzo plotone» spiegò il sergente maggiore indicando la linea
verso destra «dove stanotte dobbiamo rinforzare i reticolati.»
Da un’altra tenda - nella quale si udiva parlottare - uscì un bersagliere con
alcuni sacchetti bozzoluti (contenevano pagnotte) sulle braccia; li buttò speri-
colatamente sull’autocarretta della compagnia, poi rientrò nella tenda, eviden-
temente a prendere dell’altro.
«Sono venuto a far visita a un mio compaesano» spiegava intanto Ambrogio
al sottufficiale: «il bersagliere Stefano Giovenzana, visto il tempo a disposizio-
ne, preferirei andare addirittura da lui.»
«Giovenzana? Fa parte del primo plotone.» Il sottufficiale indicò verso sini-
stra; sembrò riflettere: «Stiamo giusto per distribuire il rancio ai plotoni: se
volete, potete andare là con la corvè.»
«Mi sembra una buona idea.»
Della Valentina, soddisfatto, fece manovra con la sua autocarretta, e ripartì
agitando allegramente una mano, in segno di saluto.
Il bersagliere addetto al rancio uscì di nuovo dalla tenda-magazzino con al-
tri sacchetti di pane sulle braccia; lo seguiva stavolta un secondo bersagliere
con alcuni piccoli bidoni di metallo contenenti vino; a differenza del pane que-
sti vennero sistemati sull’autocarretta con una certa cura. Il completamento
del carico non richiese molti altri andirivieni.
Dopo di che il sergente maggiore fece accomodare Ambrogio in cabina; uno
dei due bersaglieri si pose al volante, l’altro si accoccolò nel cassone e
l’autocarretta s’avviò. Per non sollevare polvere procedette lenta, lungo un
tracciato che si snodava al riparo del colmo, distante dai fortini qualche decina
di metri. Ogni poco il veicolo faceva alt, in genere all’altezza d’un fortino, in un
punto in cui c’era già qualche bersagliere in attesa (se non c’era, l’autista dava
un colpetto di clacson e subito qualcuno compariva): l’uomo che stava nel cas-
sone gli porgeva alcuni contenitori pieni e ne ritirava di vuoti.
«Non è pericoloso suonare il clacson qui sulla linea?» chiese Ambrogio
all’autista.
«Infatti ci sarebbe la proibizione» gli rispose quello, ilare: «ma sapete
com’è, signor tenente: il clacson fa risparmiare tempo e fatica.»
Procedendo in tal modo a sbalzi l’autocarretta avanzò verso sinistra, sempre
mantenendosi defilata dietro il colmo, fino a tergo del primo plotone, dove il
tracciato terminava: in quel punto c’erano due bersaglieri che ricevettero sulle
braccia il rancio rimasto; Ambrogio scese a terra. Il fortino del comandante di
plotone distava un tiro di sasso; i due uomini vi guidarono l’ufficiale seguendo
un sentiero che gradualmente s’incassava fino a trasformarsi in camminamen-
to o meglio in trincea: la quale trincea giunta al fortino si biforcava, da un lato
andava verso i fortini di destra e il comando di compagnia, dall’altro verso
quelli di sinistra; era larga meno d’un metro e profonda intorno a un metro e
mezzo.
Uno dei bersaglieri coi viveri prese a sinistra, l’altro depose il suo carico a
terra e annunciò: «Rancio, è arrivato il rancio.» Subito dal fortino e dai più
vicini tratti della trincea cominciarono ad affluire soldati con le gavette in ma-
no. Ambrogio entrò nel fortino.
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Si trovò in un vano di forse tre metri per tre, scavato in piena terra: la co-
pertura era di tronchetti d’albero sormontati da uno strato di zolle erbose; dal-
la parte verso il nemico c’erano ampie feritoie delimitate anch’esse da tronchi
d’albero; a quella di mezzo - un po’ più grande delle laterali - era piazzata una
mitragliatrice Breda col caricatore innestato, pronta a far fuoco; presso la mi-
tragliatrice, su una cassetta da munizioni vuota, sedeva un sottotenente che
stava scrutando dalla feritoia col binocolo; dall’altro lato della mitragliatrice
era seduto un caporale, certo il mitragliere: anch’egli guardava attentamente
fuori. Come avvertirono la presenza d’un estraneo i due si girarono simulta-
neamente verso di lui, che: «È permesso?» domandò.
«Certo che è permesso» gli rispose il sottotenente.
«Vengo in visita. E, a dirla tutta, mi sento un tantino scocciatore a passeg-
giare così ‘en touriste’ per il fronte.»
«Scocciatore?» gli rispose il sottotenente: «Questo, fratello, non devi dirlo
neanche per scherzo. Chiunque fa visita ai naioni sul campo, fa opera di mise-
ricordia militare, non lo sai?»
Aveva uno smaccato accento piemontese e una faccia stretta e lunga, irrego-
lare; Ambrogio giudicò che doveva essere della sua stessa età, e studente al
pari di lui.
«Grazie» gli disse, e porgendo la destra si presentò: «Riva, dell’Ottavo arti-
glieria Pasubio.»
«Acciati» si presentò a sua volta l’altro, levandosi a mezzo dalla cassetta e
stringendogli lietamente la mano. «Infatti vedo che non hai le mostrine della
nostra artiglieria.»
«Noi stiamo davanti a Vescenscaia, circa quaranta chilometri da qui, verso
destra.»
«Ah, bene. Dimmi dunque fratello: qual buon vento ti porta?» Ci fosse stato
qui Manno, pensò Ambrogio, avrebbe saputo rispondergli nello stesso modo
scherzoso, magari anche con qualche citazione classica voltata in burla. “Per-
ché non io?” si chiese. Ma il solo fatto di cercare una citazione gl’impedì di
trovarla; abituato com’era alla linearità in ogni cosa, non insistette, rinunciò -
fatto che gli succedeva abbastanza spesso - ad essere brillante, e disse piatto
piatto: «Son venuto a far visita a un mio compaesano, il bersagliere Stefano
Giovenzana.»
«Giovenzana è tuo amico? ‘Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei’» sentenziò
Acciati. «Hai una buona referenza, Giovenzana è un ragazzo d’oro.» Fece una
pausa: «D’oro ti dico. Dì, eravate per caso compagni di scuola al paese? Sei
anche tu del 21, eh?»
«Sì.»
«Anch’io. Bene. Te lo faccio chiamare subito.» Ci ripensò: «O forse preferi-
sci vedere la belva nel suo ambiente?»
«Ecco, magari nel suo ambiente.»
«D’accordo.»
Acciati si girò verso l’entrata: «Polito, ehi, Polito» chiamò.
«Eccomi signor tenente» gli rispose con inflessione molto meridionale il
suo attendente Polito, entrando nel fortino con due gavette in una mano e
nell’altra due gavettini: contenevano le prime carne e brodo, e i secondi vino;
in più Polito portava, tenendole strette con le braccia contro le costole, due
pagnotte.
«Cosa fai, arrivi qui come una carovana?» gli chiese Acciati. «Ma guardate-
lo!»
«Ho fatto una pensata» disse l’attendente, che evidentemente aveva un po’
mutuato dal proprio superiore il frasario: «Mi sono detto: se gli ufficiali sono
due, tu Polito di ranci ne devi portare pure due.«
«Bene, questa è una buona pensata» convenne Acciati. «Bravo Polito che
m’hai battuto sul tempo. Così si fa.»
«Io però non ci sto» si oppose Ambrogio con una certa risolutezza: «Volete
scherzare? Con tutto il fastidio che già vi do. E poi sentite, non c’è motivo, io
ho già mangiato.»
«No» disse Acciati, scuotendogli lentamente davanti al viso l’indice della
mano destra. «No artigliere, che non la dai a intendere ai bersaglieri, no che
non ci fai fessi... come puoi aver mangiato se vieni da quaranta chilometri di
distanza?«
«Ma... ve l’assicuro... beh, ti prego.»
«No. Tu adesso accetti d’assiderti alla mensa del povero, e ti fai una bella
scorpacciata di ‘brodo e carne’. Sentirai che sciccheria.»
A quest’ultima uscita il caporale mitragliere e Polito si misero a ridere.
Ambrogio fu costretto ad accettare; lo fece con una punta d’autentico disa-
gio: altro sarebbe stato se i bersaglieri si fossero trovati a riposo, dunque for-
niti di mensa. Prese la gavetta che Polito gli tendeva e il gavettino: «La pa-
gnotta non occorre» tentò di resistere ancora; pensava che le pagnotte erano
certamente contate anche qui. Acciati se ne rese conto: «Tu invece l’accetti,
anche se il mio fedele attendente la porta qui sotto le braccia, come facevano i
tartari con la carne, che la tenevano sotto la sella del cavallo per farla frollire.«
A questa uscita il caporale mitragliere rise di nuovo, non così Polito.
Ambrogio lo liberò sorridendo delle due pagnotte, e ne porse una ad Accia-
ti: «Ti ringrazio Polito»disse, e ad Acciati: «Siete un popolo ospitale voi bersa-
glieri.«
«Sedete, signor tenente» disse il caporale mitragliere, cedendogli la propria
cassetta presso la mitragliatrice.
Ambrogio sedette senza più fare complimenti. Trovandosi davanti alla feri-
toia guardò istintivamente fuori: gli si spalancò dinanzi un ampio tratto di
fronte.
«Ah»non seppe trattenersi dall’esclamare a mezza voce: «guarda.»
Il lungo ciglione erboso su cui correva la linea italiana sovrastava il Don
quasi a picco: il grande fiume lo lambiva al piede qualche decina di metri più
in basso. In questo tratto il fiume non era molto largo. «Più o meno quanto il
Po a Cremona» valutò Ambrogio. L’opposta sponda, in mano al nemico, era
piatta e boscosa, in condizione d’evidente inferiorità rispetto a questa. Al di là
dei suoi boschi rivieraschi s’allargava verso nord la solita sterminata campa-
gna, in cui si scorgevano - inazzurrati per la distanza - due o tre villaggi dai
tetti di paglia, con le loro grandi, tristi chiese sconsacrate nel mezzo. Acciati
notò lo sguardo d’Ambrogio: «Questo paese che abbiamo quasi di fronte è... E
quell’altro laggiù, con la chiesa a cipolla... e quello là più lontano, che si vede
appena, è...»gli spiegò.
«Dove si trova di preciso la linea russa?«
«In pratica segue l’altra sponda del fiume, almeno gli avamposti. Li indivi-
duiamo quando sparano di notte.» aggiunse: «Ci sono anche dei ‘cecchini’ in
riva al fiume, in genere sulle piante. E noi ne stiamo proprio cercando uno che
ci dà fastidio.» Posò a terra la gavetta che Polito gli aveva dato, prese il bino-
colo e per un poco scrutò la linea nemica. «Stamattina mi ha pizzicato un ber-
sagliere, giusto pizzicato: gli ha portato via mezzo un orecchio.» Sbuffò, sul
punto di ridere. «Non c’è niente da ridere» si redarguì. Soffermò con atten-
zione il binocolo sulla chioma d’un albero, insistette a scrutare, poi scosse la
testa; depose il binocolo e riprese la gavetta. «Stasera. Forse stasera lo bec-
chiamo. Conto di preparare un fantoccio con l’elmetto in testa, e di farlo muo-
vere un po’«nella trincea all’ora giusta: se quello spara non ci scapperà.»
«All’ora giusta?»
«Sì. Non sei mai stato all’osservatorio tu, vero? Voglio dire sul principio del
buio, quando ci si vede ancora, ma si comincia anche a vedere la lingua di fuo-
co che esce dal fucile: la fiammata, che di giorno non si vede. Se lui non si ac-
corge del nostro trucco e per la bramosia di finire la sua giornata con una
buona azione, spara, lo localizziamo e...» posò la mano destra sulla mitraglia-
trice, come sulla groppa d’un mastino in attesa: «Saremo noi a tagliargli le
orecchie, allora.»
Ambrogio non disse niente.
«Che discorso tetro, però, a pensarci» rilevò allora lo stesso Acciati. «E dire
che questa è la nostra vita. Basta, buon appetito» e levò il gavettino a bene au-
gurare.
Si dedicarono al pasto. Nel frattempo erano entrati alcuni altri bersaglieri
che, sedutisi su casse o per terra contro le pareti, avevano pure cominciato a
mangiare. Acciati diceva ogni tanto qualche frase, per buona creanza, rispol-
verando cose del tempo in cui era borghese: risultò che era iscritto alla facoltà
di chimica a Torino. Ambrogio, rendendosi conto che toccava anche a lui, se
pure meno brillante, di sostenere la conversazione, riferì dei profughi cosacchi
visti il mattino nella balca davanti a Vescenscaia, passò poi a parlare delle loro
chiese mastodontiche di cui alcune si scorgevano appunto laggiù, nei paesi
oltre il fiume; infine di Sciolocov, lo scrittore, comunista (più tardi premio
Nobel), che secondo lui descriveva i cosacchi in modo contraddittorio.
Verso destra, cioè verso est, lontano, echeggiarono alcuni colpi isolati di fu-
cile; dalla stessa parte un mitragliatore sgranò una breve raffica; i bersaglieri
non sembravano curarsene. Ogni tanto Acciati dava d’istinto un’occhiata fuo-
ri, alla sponda di fronte; talvolta Ambrogio sospendeva la conversazione e lo
imitava. Dei nemici e delle loro postazioni non si scorgeva traccia: il fiume,
d’un colore tra verde e plumbeo, scorreva pigro nella luce del mezzogiorno; i
boschi che coprivano le trincee avversarie erano tuttora in rigoglio, fogliosi;
più oltre la pianura azzurra sembrava perfino infoschire nella calura. “Le ul-
time calure dell’anno” pensò Ambrogio. A differenza di quella russa la linea
italiana era ben visibile sia sulla destra che sulla sinistra, per i fortini che pun-
teggiavano fin dove giungeva l’occhio il profilo del ciglione.
Terminato che ebbero di mangiare, Ambrogio tirò fuori un pacchetto di si-
garette buone, ricevute da casa, e le offrì a ciascuno intorno: tutti, nessuno
escluso, accettarono una sigaretta, e si misero a fumare con gusto, senza dir
più niente.
Finalmente Acciati si risolse: «Fratello, ti abbiamo sequestrato per godere
un po’ della tua compagnia, ma capisco che non eri venuto qui precisamente
per questo. Non fare più complimenti.»
Ambrogio si alzò in piedi: «La vostra è una compagnia interessante, non ve
lo dico per cerimonia, ma convinto. Incomincio a conoscere i bersaglieri. Però
sì, è ora che me ne vada.»
L’attendente Polito si levò a sua volta sveltamente in piedi. «Ecco» gli disse
Acciati, approvandolo col capo.
I due ufficiali si strinsero la mano al di sopra della mitragliatrice: «Sta at-
tento ai cecchini» ricordò Acciati. «Parlo sul serio, non scherzo.»
Ambrogio annuì: «Prima d’andar via ripasso di qui a salutarti, e anche a
dirti grazie per il rancio.» Ciò detto uscì dal fortino preceduto da Polito, che
s’era messo sulla spalla destra un moschetto a canna in giù.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Entrarono nel camminamento-trincea di sinistra, che era a zig zag poco ac-
centuati. Per non essere visti dal nemico i due procedevano curvi, non abba-
stanza tuttavia che le loro teste e anche le spalle non ne emergessero presso-
ché di continuo. Superarono diversi ricoveri scavati nella parete a monte ri-
spetto al nemico: Ambrogio v’intravide - al di là dei teli tenda che ne costitui-
vano la facciata - dei giacigli formati con altri teli tenda sistemati a materasso,
qualche coperta, zaini, elmetti, qualche giubba appesa alla parete di terra. I
bersaglieri stavano sdraiati in quei ricoveri a fare la siesta, oppure seduti su
cassette vuote in slarghi della trincea. Uno montava di vedetta, in piedi con gli
occhi a filo del terreno, la testa riparata da ciuffi d’erba, accanto gli stava il
corto moschetto e, in una nicchia scavata nella parete, quattro o cinque bombe
a mano.
I ricoveri cessarono, mentre il camminamento-trincea continuava; ecco do-
po un po’ altri ricoveri con un altro nucleo di bersaglieri e un’altra vedetta:
appostata, questa, a una feritoia di tronchi d’albero cui era piazzato a cielo
aperto un fucile mitragliatore Breda; poco più in là c’era un fortino.
“Però’’ pensava Ambrogio, sempre camminando “com’è sottile la linea! Un
velo...” Dunque quello che aveva sentito dire, che la divisione Celere teneva
più di cinquanta chilometri di fronte, doveva corrispondere a verità. Fece un
po’ di calcolo: “Qui sulla prima linea” valutò “finirà con l’esserci sì e no un
uomo ogni dieci metri”.
Davanti a lui Polito seguitava a procedere curvo e svelto; ecco un altro for-
tino e altri ricoveri, quindi un fucile mitragliatore russo dal pesante caricatore
a rotella: era piazzato a una feritoia coperta ma incustodita. Poco più in là un
bersagliere montava di vedetta in un’apposita nicchia della trincea: in piedi,
immobile, guardava oltre il bordo erboso con occhi attenti. Al vederlo Polito
ebbe un attimo d’esitazione, poi si girò verso l’ufficiale e gli sorrise con aria
d’intesa; allora anche Ambrogio riconobbe Stefano. Sotto l’elmetto piumato il
collo del giovane sembrava più sottile di com’egli lo ricordava. “Guarda” non
poté a meno di pensare l’ufficiale: “ha lo stesso collo di sua madre e di Giusti-
na”.
Stefano girò un istante gli occhi verso i due sopravvenienti, riconobbe Poli-
to, tornò a fissare la propria attenzione fuori. Polito lo superò di qualche pas-
so, poi si arrestò in attesa. Il sottotenente stette al gioco, arrivò alle spalle
dell’amico e: «Ciao Faccia-di-tutti-i-giorni» disse posandogli una mano su una
spalla.
***
***
«Vieni avanti» gli diceva Stefano in dialetto: «c’è uno slargo dove si può
stare comodi.»
Così era infatti. In quel punto la trincea era stata sensibilmente allargata e
un po’ approfondita, e anche ricoperta con un intreccio di frasche ormai ap-
passite e secche, ma tuttora in grado di dare ombra. «Questo, nei giorni caldi,
è il posto migliore» spiegò Stefano. Il sergente Bellazzi confermò: «Questa è la
nostra hall» disse.
Su tre lati della hall correva lungo le pareti di terra una irregolare panca,
fatta con le assicelle delle casse di munizioni. Vi sedevano in quel momento
tre o quattro bersaglieri, che si alzarono in piedi per rispetto all’ufficiale.
«Vi prego, state comodi» li invitò costui.
«Vado a metter giù questi e torno subito» disse Stefano mostrando il mo-
schetto, e l’elmetto che s’era tolto di testa.
«Dove, nel tuo ricovero?»
«Sì, è qui a pochi passi.»
«Allora fammi vedere.»
«Vieni, vedrai che lusso» fece Stefano.
Poco oltre la hall c’erano nella parete della trincea alcuni ricoveri simili a
quelli già superati da Ambrogio, chiusi da teli tenda.
«Questi sono tutti lavori fatti di notte» spiegò Stefano arrestandosi; parlava
come d’abitudine in dialetto. «Non hai idea di quanto abbiamo dovuto sgob-
bare il mese scorso, sopratutto per la trincea. Beh, ormai è fatta.» Poi ci ripen-
sò: «Adesso però bisognerà trasformare ogni cosa per l’inverno. Boh.» Scostò
uno dei teli che chiudevano la facciata del ricovero, scoprendone l’interno:
c’erano alcuni pagliericci in quel momento disoccupati, degli zaini, un mo-
schetto con un elmo appeso per il sottogola alla canna, qualche tascapane,
qualche cassetta semivuota, una fotografia dell’attrice Alida Valli fissata con
un chiodo alla parete di terra e, fissata allo stesso modo con un chiodo, una
fotografia del Crocefisso di Nomana identica a quella che stava nell’ufficio di
Gerardo, ma più piccola, formato cartolina. Stefano lasciò cadere moschetto
ed elmetto sul pagliericcio sormontato dal Crocefisso.
«Vedo che hai qui il Signore di Nomana» disse Ambrogio. L’altro annuì se-
rio.
«Nessuno ti sfotte per questo?»
«In caserma ci hanno provato, ma qui no.»
Anche ad Ambrogio, più o meno, le cose erano andate allo stesso modo col
piccolo Crocefisso di legno che sua madre gli aveva messo in valigia il giorno
della partenza per la vita militare. «Vedo» concluse. Poi cambiò argomento,
considerò la copertura in lamiere, assi e terra del ricovero: «E quando piove
cosa succede?»
«È tutto a regola d’arte, non credere» disse Stefano: «Magari non sembra,
ma all’interno non entra neppure una goccia.» Ambrogio convenne. «Anche
noi con le tende abbiamo imparato a fare miracoli.»
«Sì eh? Come ve la passate voi?»
«Beh, l’artiglieria non è così vicina ai russi; siamo più riparati, abbiamo
molto più respiro.»
«La guerra è sempre guerra» affermò Stefano. «Quando sento le sventole
della loro artiglieria passare in alto» indicò con la testa il cielo sopra di sé «di-
rette verso la nostra artiglieria, beh in quei momenti io sono contento di tro-
varmi qui.»
Ambrogio negò. «No. Voi siete molto più esposti, non c’è confronto. Ma
dimmi: che notizie hai di Nomana?»
«Giustina mi scrive ogni due settimane senza mai balcare una volta» disse
Stefano: «mi tiene informato d’ogni cosa. Di salute alla cascina stanno bene,
certo mio padre ha molto lavoro, deve fare anche la mia parte, questo si capi-
sce anche se nelle lettere Giustina non lo scrive. Però non possiamo lamentar-
ci: in fin dei conti il padre è ancora in gamba, e Giustina porta a casa la sua
mesata. Dunque.» «Sì» approvò Ambrogio: «sei soltanto tu, in famiglia, a
creare fastidi.»
Stefano sorrise: «Giusto. E i tuoi?»
«Anche loro stanno bene. Beh, in questi giorni c’è Giudittina con gli orec-
chioni.»
«Lo so. Figurati se Giustina non me lo scriveva.» Stefano tacque alquanto:
«Lo sai che a Beolco, il mese scorso, hanno preso paura per Luca?»
«Per Luca? Il mese scorso? Cosa dici?»
«Sì. Lo hanno creduto disperso perché uno del Quinto alpini, però non della
sua compagnia, l’aveva scritto a casa senza informarsi bene, e in paese la voce
è subito corsa. Figurati mia sorella: diventava matta. Invece non si trattava di
lui, di Luca, ma di un altro Sambruna, uno col suo stesso cognome insomma.»
«Bel disgraziato quello di Beolco. Disperso. Disperso qui è lo stesso che dire
morto.»
«Lo credi anche tu, eh?»
«Sì» disse Ambrogio. «Almeno, ho proprio paura di sì. È una brutta faccen-
da ma è così.»
«Anche fra noi molti sono convinti che i russi accoppano tutti i prigionieri
che fanno» disse Stefano. Si chinò, introdusse una mano nel suo zaino, ne
estrasse alcuni accendini d’alluminio, parve sul punto di sceglierne uno, inve-
ce se li mise in tasca.
«Beh, ma non stiamo qui in piedi» disse. «Vieni, torniamo allo slargo. O se
no possiamo anche andare più avanti, al nostro ‘belvedere’: un posto dove an-
che stando seduti si vede il panorama.»
«Cosa? Il panorama?» disse Ambrogio.
«Sì. Vuoi dare un’occhiata?»
CAPITOLO VENTISEIESIMO
Guardando l’orologio l’ufficiale si rese conto che non gli rimaneva più molto
tempo: i due allora si alzarono, e tornati indietro andarono a sedersi nella hall
della trincea, dove il capo squadra sergente Bellazzi e una decina di bersaglieri
stavano in non confessata attesa del visitatore forestiero (speravano di poter
scambiare qualche parola con lui: con lui, come a dire con una faccia diversa
dalle solite eterne facce - sempre le stesse - che ciascuno si vedeva intorno
giorno e notte).
Cominciarono, su avvio di Ambrogio, col parlare del mitragliatore russo
preda bellica che la squadra teneva in postazione. Convennero ch’era un’arma
d’aspetto grossolano, con quel caricatore a pizza, però efficace. A domanda
d’Ambrogio il sergente, dopo aver riflettuto, rispose che secondo lui era mi-
gliore del nostro Breda 30: «Perché s’inceppa di meno.»
Ci fu un po’ di discussione sulla frequenza degli inceppamenti dell’arma ita-
liana: un caporal maggiore, cui era riconosciuta dagli altri grande abilità
nell’usarla, sosteneva che a saperci fare anche con la nostra gl’inceppamenti si
verificavano di raro, e che comunque si trattava d’un’arma delicata appunto a
causa della sua perfezione. Pressoché tutti gli altri bersaglieri, Stefano com-
preso, gli diedero contro, tirarono fuori episodi verificatisi nel corso
dell’inverno: in occasione d’un attacco russo - apprese Ambrogio - di cinque
mitragliatori piazzati su un tratto di linea uno solo era stato in grado di spara-
re senza interruzione. «Il Breda 30» concluse il sergente Bellazzi «in Russia
non spara per il freddo, in Libia non spara per la sabbia, insomma è un’arma
che per funzionare ha bisogno di trovarsi in Riviera.» Parlarono poi di altre
armi, russe specialmente, e tra esse delle ‘catiusce’, ch’erano ancora quasi una
novità. Al riguardo il sottotenente poté sfoggiare una certa conoscenza, aven-
done nel corso dell’avanzata viste parecchie abbandonate nel villaggio di Ta-
rassovca: i carri tedeschi ne avevano schiacciate a terra alcune, ma altre erano
intatte e più d’una con i sedici razzi innestati e pronti al lancio; l’ufficiale le
descrisse. Riferì anche una sua piccola scoperta personale, che cioè gli auto-
carri su cui quelle armi erano montate, non erano i soliti autocarri russi di li-
nea antiquata («Tipo Ridolini» sintetizzò efficacemente un bersagliere), bensì
di linea moderna, aerodinamica; esaminandoli bene si era reso conto ch’erano
americani, marca Dodge.
Dalle armi del nemico il discorso si spostò al nemico stesso, alle sue even-
tuali possibilità di vittoria.
Sottotenente e soldati furono concordi nel giudicarle pressoché nulle: anche
se adesso i russi non disertavano più in massa come l’anno prima, e l’avanzata
tedesca e italiana incontravano assai più resistenza, diserzioni ce n’erano tut-
tora molte, e così pure sabotaggi nel munizionamento: non di raro infatti le
loro granate non esplodevano, segno ch’erano state sabotate dagli operai che
le avevano costruite. Inoltre i russi davano l’impressione di non avere più armi
a sufficienza, visto che - secondo certi disertori - per montare di guardia si
passavano il fucile l’un l’altro.
«Del resto» disse il sergente «come potrebbero competere con noi, spe-
cialmente coi tedeschi, se sono così arretrati?» Saltarono fuori le case col tetto
di paglia e, ancora una volta, il fatto che in Russia nessuno aveva vista una
sola strada asfaltata.
«Anche quanto all’equipaggiamento» osservò un bersagliere: «hanno buo-
ne armi (rudimentali, sì, ma questo può essere un vantaggio) e hanno dei
buoni carri armati purtroppo, però non hanno automezzi adatti. Come po-
trebbero con quei camion tipo Ridolini avanzare fino a Berlino?»
«I camion glieli possono sempre dare gli americani» obiettò uno. «Sai
quanti ne occorrerebbero?» lo contrastò un altro. «Gli americani devono pri-
ma pensare al loro esercito.»
Quest’osservazione sembrò convincente. Ancora quei soldati non avevano il
sospetto delle straordinarie possibilità produttive americane, di cui in Italia
avrebbero tra non molto portato le prime notizie i reduci dalla Tunisia.
«E poi, più che di mezzi, in guerra è questione di spirito» intervenne bersa-
glierescamente un ragazzo meridionale dal viso affilato e allegro: «Loro ven-
gono quasi sempre all’attacco ubriachi, l’avete visto. Questo secondo me non è
un buon segno per loro.» Tutti convennero; Ambrogio andava rendendosi
conto che la polemica tra settentrionali e meridionali - così comune nel resto
dell'esercito - qui era pressoché assente: chissà - si chiese — se ciò dipendeva
dal fatto che tra i bersaglieri c’erano molti meridionali in gamba?
Ma l’ora dell’appuntamento con Della Valentina s’avvicinava; dopo avere
sbirciato un paio di volte l’orologio l’ufficiale si alzò in piedi, imitato da tutti, e
prese congedo.
CAPITOLO VENTISETTESIMO
CAPITOLO VENTOTTESIMO
***
Il bello è che così effettivamente accadde. Non era trascorsa un’ora che Luca
arrivò, in compagnia di un alpino sconosciuto: tutt’e due venivano avanti a
passi gagliardi sull’incerta pista che dalla piana sud conduceva ai pezzi, tutt’e
due avevano la barba. Si fermarono all’inizio dello schieramento per chiedere
informazioni al primo artigliere in cui s’imbatterono; Ambrogio però li aveva
già adocchiati e accorse. Strinse la mano a Luca, poi all’alpino che Luca gli
presentava: «...è delle nostre parti, di Monticello, si chiama Tremolada»,
quindi presi i due sotto braccio, uno a destra e l’altro a sinistra, li pilotò verso
la propria tenda.
Sedettero tutt’e tre su sgabelli e casse sotto la parete della tenda alzata a mo’
di ala. Luca e Ambrogio erano talmente lieti d’incontrarsi che la letizia gli
sprizzava dalla faccia; chi osservasse Luca - col ciuffo castano di traverso sulla
fronte dopo che s’era tolto il cappello, e la barba nuova invece rossastra, e do-
tato della particolare gravità che ora gli veniva dalla costumanza con la gente
di montagna - riceveva l’impressione d’una ferma torre; e non è che fosse mol-
to alto.
Ambrogio gli riferì senza perder tempo la sua recentissima visita a Stefano;
poi parlarono di Nomana e di Manno, il cugino d’Ambrogio coetaneo e amico
di Luca, da cui Luca aveva giusto qualche settimana prima ricevuto una lettera
dall’Africa; quindi Ambrogio s’informò circa il sottotenente Giordano Galbiati,
figlio del mutilato impiegato alla Cassa di Risparmio di Nomana («Lo vedo
piuttosto di raro» spiegò Luca «perché non è della mia compagnia, però so
che sta bene») e di don Carlo Gnocchi. «Quello almeno lo vedi?» chiese Am-
brogio.
«Certo, perché don Carlo ai battaglioni ci viene tutte le settimane, anche se
è cappellano reggimentale.»
«Ah già, voi alpini avete un cappellano per battaglione.»
«Noi abbiamo più cappellani degli altri, e la gavetta più grande» buttò là
per celia l’alpino Tremolada.
Luca, pur sorridendo, disapprovò con la testa: secondo lui non era un ar-
gomento da scherzarci. «Don Carlo è una specie di santo» disse: «da noi tutti
gli vogliono un gran bene (’n ben de l’anima).» Ma ciò che sembrava interes-
sarlo sopra ogni cosa era la visita appena fatta da Ambrogio a Stefano. Quando
se ne rese conto Ambrogio gliene fece una nuova relazione, più dettagliata. «Il
tuo futuro cognato» riferì «riceve ogni due settimane una lettera da sua sorel-
la Giustina. E tu?»
«Anch’io, se devo dire la verità» rispose Luca, abbassando la voce per istin-
tivo pudore. «A volte non sa neanche più cosa scrivere nelle lettere, póra tusa,
e mette sulla carta le parole del prete in chiesa.»
«Accidenti però, gliene date di lavoro a quella povera ragazza.» A queste
parole il Tremolada di Monticello rise come per un motto di grande arguzia.
Era un ragazzo quanto mai semplice e cordiale, anche lui tutto contento d’aver
incontrato, in Ambrogio, un quasi compaesano.
***
I due alpini rimasero a pranzo. L’attendente Paccoi, che durante la cena con
Bonsaver s’era studiato di mostrarsi impersonale, questa volta badava meno
alla forma e più alla sostanza: era perciò assai angustiato di non poter mettere
sul tavolo - o meglio sulla cassa che ne faceva le veci — un paio di bottiglie di
vino. Ciò specialmente dopo che l’alpino di Monticello, partendo da
un’affermazione d’Ambrogio («Gli alpini son gente seria...») ebbe riferito a
dimostrazione una sbronza davvero seria, omerica addirittura, per cui l’intera
compagnia era passata il giorno della partenza dall’Italia.
Luca a questo riguardo conveniva, pacato come sempre. «Bisognava veder-
li: anche dopo che uno li aveva tirati sul carro ferroviario non era mica finita,
era necessario corrergli dietro e recuperarli un’altra volta, perché loro scende-
vano dall’altra parte, magari a gattoni.» «Giusto, a gattoni» convenne con en-
tusiasmo il Tremolada.
«Per i pochi che non erano sbronzi del tutto, tenere la conta è stata una
mezza impresa» disse Luca.
«E noi qui non abbiamo vino» mormorava tra sé e sé Paccoi, premendo con
disappunto il pugno destro sul palmo della mano sinistra «non abbiamo vi-
no!»
Ambrogio si ricordò allora d’avere nella cassetta d’ordinanza due bottiglie
di cognac, giuntegli per posta dall’Italia. «Tira fuori quelle» disse a Paccoi;
cosa che l’attendente si affrettò a fare, mentre gli si dipingeva finalmente in
viso un certo sollievo.
Sul finire del rancio si avvicinarono i quattro capi pezzo e alcuni altri arti-
glieri, per fare la conoscenza dei due alpini: anche a loro naturalmente, oltre
che a Paccoi, fu offerto il cognac, così che le due bottiglie s’esaurirono in un
batter d’occhio.
Mentre il Tremolada di Monticello, che aveva bevuto più di tutti, teneva
concione all’uditorio e lo edificava con storie d’osterie, di muli incredibilmente
restii, di mangiate in patria sotto la frasca, e di piedi congelati o no in monta-
gna a seconda di com’erano messe le pezze che li avvolgevano, Ambrogio e
Luca, staccatisi dalla congrega, passeggiarono alquanto su e giù dietro i can-
noni, parlando nuovamente del paese lontano, della gente che vi avevano la-
sciato, e anche della ditta e dei suoi presumibili attuali problemi.
Infine Luca chiamò - tentennando la testa con solidale disapprovazione -
l’altro alpino, che si alzò dal suo panchetto col cappello spinto indietro perché
la fronte fosse libera di respirare. Una volta districatosi dal panchetto tuttavia
il Tremolada si fece serio e prese congedo da Ambrogio nonché, come ebbe a
dire, ‘da tutta l’artiglieria’, con buon garbo paesano. I due se ne andarono con
passo nonostante il cognac gagliardo, facendosi fretta perché il tempo di sosta
del loro reparto era prossimo a scadere: già si vedevano laggiù, lontano, le
prime appena percettibili filigrane di uomini e di muli staccarsi dalla macchia
nera del grosso in sosta, e avviarsi. Verso quale destino?
CAPITOLO VENTINOVESIMO
***
Dalla sua trincea, alta sopra la sponda del fiume, Stefano poté vedere il bo-
sco sottostante mutare giorno dopo giorno di colore. Prima di cadere le foglie
assumevano - in una sorta di festa d’addio alla loro esistenza così breve - le
tinte più belle: l’oro o il rosso, o il giallo delicato, o il ruggine o il bruno, cia-
scuna secondo la propria specie. Per più giorni da nord-est, cioè dalla stessa
direzione del vento, giunsero anche e si susseguirono - alte nel cielo - schiere
di anitre migranti: volavano in formazione a V o in semplici righe oblique, con
strida insistenti. Il giovane le osservava col disappunto del cacciatore costretto
suo malgrado a non sparare sulla preda (erano stati subito diffusi ordini pe-
rentori al riguardo); quelle roche strida, che risuonavano improvvise di giorno
e di notte, gli giungevano però anche come un saluto: gli animali se ne anda-
vano, abbandonavano questi luoghi dall’inverno tanto inclemente...
Terminato il passo delle anitre egli assisté a un altro passo, davvero impen-
sato: quello dei ragni. Sulle sporgenze dei fortini, sui lunghi fili del telefono da
campo, su ogni stelo secco e in cima alle erbe più alte, comparvero dei fili di
ragnatela che raffittirono sempre più. Dapprima nessuno ci badava, poi di
notte una vedetta s’accorse, alzando gli occhi alla luna, che nell’aria navigava-
no innumerevoli fili. Chiamò a mezza voce un paio di compagni, che venissero
a vedere. Udendo le esclamazioni di meraviglia di costoro altri bersaglieri
uscirono dai ricoveri, uscì anche Stefano e vide: nell’aria sopra la trincea mi-
riadi di fili - lunghi da un palmo a qualche braccio - procedevano orizzontal-
mente, paralleli tra loro, trasportati dalla brezza, e su ogni filo viaggiava un
minuscolo ragno.
«Mai visto uno spettacolo simile.»
«Neanch’io.»
«Neanch’io.»
«Come no?» disse invece un bersagliere. «Questo succede anche in Italia.
Al mio paese per questo l’estate di San Martino la chiamano l’estate dei ra-
gni.»
«Ma va’.»
«Eppure.»
Non tirava vento - solo un po’ di brezza - non faceva quindi freddo; i bersa-
glieri indugiarono alquanto nella trincea illuminata dalla luna a osservare la
migrazione dei ragni.
«A proposito» esclamò uno: «ci avete fatto caso che non si sentono più can-
tare le quaglie?»
«Già, è vero. Io non me n’ero accorto, ma è così.»
«Certo che è vero, son alcune settimane ormai che non si sentono più.»
«Le quaglie? E chi ci ha mai fatto caso? Mica siamo quagliaroli noi.»
«Avranno ricevuto anche loro l’ordine di trasferimento» buttò là spiritoso
un caporale: «come quelli della divisione Pasubio.»
«Già, avete sentito? Che razza di scherzo quello!»
«Che puttanata!»
«Da un giorno all’altro hanno dovuto piantar lì i rifugi ormai pronti» disse
pensoso Biondolillo. «Purché non succeda anche a noi!»
«No, a noi no. Il tenente Acciati ne è certo» assicurò il sergente Bellazzi:
«Me l’ha ripetuto anche stasera quando è passato per il giro d’ispezione.»
«Che naia sarebbe dover rifare ogni cosa da zero, eh?»
«Ma dove vanno quelli della Pasubio?»
«Qui alla nostra sinistra, appena al di là della Torino. Rimarremo insieme
ancora come nell’inverno passato, una divisione a fianco dell'altra.»
«Meglio così. Perché dei nuovi arrivati dall’Italia io, dopo il casino ch’è suc-
cesso in agosto, mi fido poco.»
«Il guaio è» disse Bellazzi «che dalla Pasubio e dalla Torino i vecchi stanno
per smammare. Quelli che hanno fatto un inverno in Russia tornano tutti in
Italia, lo sapete: riceveranno il cambio nelle prossime settimane.»
«E noi?»
«Sapete anche questo, no? Il cambio noi lo riceveremo dopo di loro.»
«Sì, chissà quando.»
«E allora? Forse io posso farci qualcosa?» ribatté il sergente Bellazzi.
Stefano non aveva parlato. Sapeva che, essendo arrivato in Russia in gen-
naio, il cambio lui non l’avrebbe comunque ricevuto.
«Beh» disse uno «se non ci fanno lo scherzo di trasferirci, i nostri rifugi
adesso sono pronti; almeno non soffriremo il freddo.»
Preoccupazioni circa la tenuta del fronte nessuno ne aveva. Fino allora non
si era fatto che avanzare, di che preoccuparsi dunque?
In effetti quei giorni dell’autunno 1942 rappresentarono il periodo di mag-
gior espansione delle armi tedesche, e di conseguenza in qualche modo anche
di quelle italiane. Dai Pirenei al capo Nord, a Creta, l’Europa era praticamente
tutta in mano ai tedeschi. Qui all’est il loro immenso fronte partendo dal mar
Glaciale Artico scendeva per migliaia di chilometri verso sud, fino a Voronez e
al tratto superiore del fiume Don; seguiva poi il corso del fiume in direzione
est, in direzione cioè di Stalingrado. Solo là, nella punta più avanzata del fron-
te, si combatteva terribilmente, e più a sud si combatteva sugli impervi con-
trafforti del Caucaso, al di là dei quali c’erano le fonti di petrolio nemiche. Di,
tali battaglie però nel settore di Stefano, come in quelli d’Ambrogio, di Bonsa-
ver, di Luca e del Michele Tintori, giungeva solo una scarsa eco, portata da
qualche giornale invecchiato, oppure dai bollettini di guerra che la sera certi
centralinisti di reggimento si prendevano la briga di far udire ai reparti in li-
nea. Nell’ora in cui in Italia veniva trasmesso il giornale radio alcuni di loro
usavano infatti chiamare i telefonisti dei reparti, e dopo avere annunciato:
«Bollettino», sistemavano la propria cornetta telefonica davanti a un apparec-
chio radio civile, che nei comandi in genere non mancava. Allora non soltanto
gli addetti ai telefoni che ne avevano voglia, ma anche diversi altri soldati si
mettevano in ascolto, assiepandosi attorno alla cornetta che il telefonista te-
neva sollevata in aria. Spesso però lo facevano più per sentire una voce nota
proveniente dall’Italia (la quale ricordava la radio accesa in casa, e la famiglia
riunita nell’ora di cena), che per seguire le notizie. Perché in guerra che preoc-
cupa veramente il soldato è la situazione del suo settore, la quale lo assorbe al
punto da lasciarlo pressoché indifferente a tutto ciò che succede altrove.
Stando così le cose, l’inizio dei guai finì col coglierli impreparati.
PARTE QUARTA
CAPITOLO PRIMO
***
CAPITOLO SECONDO
Lasciandoseli alle spalle Ambrogio arrivò a una radura nel bosco ai cui bor-
di c’erano altri cumuli oblunghi di terra. Su un lato scorse una piccola baracca
nuova, di legno non verniciato, montata da poco, la vedeva per la prima volta.
Più in là c’erano, parcati tra gli alberi, i sei o sette automezzi del reparto co-
mando di gruppo, tra cui l’autolettiga, e la logora Millecento scoperta del
maggiore: su di essi il giovane fissò la propria attenzione, rendendosi rapida-
mente conto che non ne era stato messo in moto neppure uno. “Già, la Mille-
cento è troppo scassata” argomentò tra sé e sé, “e i camion e la lettiga sono a
nafta”.
In compenso intorno ai loro cofani scoperchiati si davano un gran da fare
gli autisti e uno degli ufficiali nuovi, un tipo che doveva essere competente
d’automezzi; per terra sotto i motori rosseggiavano stitici fuochi, alimentati da
stracci imbevuti di nafta. “Speriamo che riescano a scaldarli senza incendiarli”
pensò il giovane. “Del resto tant’è”.
Notò che una squadra di soldati si stava già inquadrando nella radura.
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
***
Allo schieramento delle batterie non rimanevano adesso che pochi cannoni
abbandonati nelle loro piazzole, tra le altre piazzole vuote. Sulla pista che
usciva dal bosco si era formata una discreta colonna di trattori con i pezzi al
traino, e di autocarri, gli uni e gli altri coi motori accesi, rumorosi; ogni mac-
china sprigionava vapore. A tergo della colonna motorizzata c’erano tre spez-
zoni di colonna a piedi, costituiti dagli uomini delle tre batterie che non ave-
vano potuto trovar posto sulle macchine in moto.
Giunto alla loro altezza il maggiore si arrestò; dietro di lui la breve colonna
del comando di gruppo fece ugualmente alt. A una chiamata dell’aiutante
maggiore: «Ufficiali a rapporto» subito riecheggiata qua e là, tutti gli ufficiali
delle batterie convennero di corsa, fermandosi in cerchio davanti al coman-
dante.
Questi tuttavia, dopo la ‘presentazione’ dei convenuti da parte del più eleva-
to in grado (il capitano della prima batteria) non prese la parola; si limitò a
fare un cenno all’aiutante maggiore che parlò in sua vece: «Vi riepilogo alla
svelta gli ordini del signor maggiore, che del resto vi ho già trasmesso per tele-
fono» disse. «Le formazioni a piedi devono seguire in buon ordine, e ciascuna
coi propri ufficiali alla testa, il reparto comando di gruppo. La colonna moto-
rizzata invece, sotto la guida» qui tentò per l’ultima volta: «del signor maggio-
re...»
«No» intervenne il maggiore, come corrucciato «io rimango con la truppa a
piedi.»
«Bene» riprese Cavallo Stanco, «la colonna motorizzata, al comando del si-
gnor capitano della prima batteria, precederà a passo d’uomo la truppa a pie-
di.» Si rivolse direttamente al capitano: «Come ho già comunicato, se per le
macchine un’andatura così lenta si dimostrerà insostenibile, o interverranno
altri motivi, la colonna motorizzata dovrà comunque raggiungere il borgo di
Mescoff.»
«È quello da cui parte la grande pista, diretta a sud» interloquì un ufficiale
della seconda batteria, che conosceva la località.
Cavallo Stanco, infastidito dall’intrusione, chiuse gli occhi e chinò la lunga
faccia verso terra; per un momento fu silenzio.
“Per essere un ragioniere di banca” pensò Ambrogio “non la fa poi male la
parte dell’organizzatore militare.”
Cavallo Stanco rialzò la testa e guardò in aria: «Le macchine» riprese «de-
vono comunque raggiungere il paese di Mescoff - sono circa sessanta chilome-
tri da qui: ricordatevi il nome, Mescoff, Mescoff - là le macchine sosteranno in
un punto adatto, al margine sud del paese, ripeto: al margine sud, in attesa di
noi che arriveremo a piedi. Per il momento è tutto. Qualche richiesta di chia-
rimenti?» Non ci furono richieste, ma una postilla sì: «Sosteranno a Mescoff
le macchine che hanno abbastanza benzina per arrivarci» puntualizzò infatti,
con sgradevole realismo, il capitano della prima batteria che avrebbe coman-
data la colonna motorizzata «cioè molto poche.» Fece una pausa: «Bene, pos-
siamo andare?»
L’aiutante maggiore guardò interrogativo il maggiore, che annuì. Il capitano
allora diede l’attenti e ‘presentò’ nuovamente gli ufficiali al comandante, che
ordinò sottovoce: «In libertà.» Pur avvertendone l’ironia, il capitano ripete
con voce chiara l’ordine: «In libertà.» Tutti gli ufficiali s’irrigidirono nel saluto
alzando la destra alla bustina, quindi tornarono di corsa ai loro posti. Lo spez-
zone di colonna del comando si trasferì davanti a quelli delle tre batterie; dopo
di che macchine e uomini si misero in marcia.
II
CAPITOLO QUINTO
***
***
CAPITOLO SESTO
Così mentre le altre divisioni - e da poco anche il resto della Celere -erano in
frenetico ripiegamento, la notte tra il 19 e il 20 il Terzo reggimento se ne stava
attestato a Calmicov. Vi era giunto a tarda sera, dopo avere lasciato con calma
le sue trincee sul Don. Fidando nel proprio valore i bersaglieri avevano imba-
stito tutt’attorno a questo villaggio silenzioso, embrioni di linea e trincee di
neve, in cui avevano piazzato un certo numero di armi automatiche, cannon-
cini anticarro, e qualche mortaio. Accanto alle armi si erano nel freddo mici-
diale sistemati di vedetta o all’addiaccio gli uomini delle compagnie incaricate
di vigilare; tutti gli altri si erano stipati nelle case e nelle stalle del villaggio,
riempiendole all'inverosimile, o si erano ammassati contro i loro muri esterni
per cercar di dormire.
Insieme al Terzo bersaglieri era affluita a Calmicov anche la ‘Legione croa-
ta’, unità composta da nazionalisti ustascia in divisa fascista. A questi uomini
in realtà del fascismo niente importava: avevano a cuore soltanto la loro patria
croata, che intendevano col loro gioco d’alleanze conservare indipendente dai
serbi. Il comando del Terzo gli aveva assegnato una parte del villaggio e un
settore da difendere; le loro posizioni si potevano distinguere da quelle degli
italiani per i molti fuochi accesi nella neve.
***
***
A qualche metro da lui, oltre la parete dell’isba, Stefano dormiva sul pavi-
mento, pressato dagli altri che vi stavano stipatissimi. Dopo essersi sdraiato si
era fatto, come ogni sera prima di dormire, il segno della croce (nonostante la
difficoltà, in quella ressa, di muovere il braccio), poi, essendo molto stanco,
aveva dette le preghiere ‘corte’, ossia un requiem per i morti di quei giorni, e
un angele Dei per sé. Il fatto di pregare gli aveva automaticamente riportato
alla mente la soave figura di sua madre, quasi che tra la preghiera e sua madre
ci fosse un nesso inscindibile: e infatti c’era, in un certo senso era proprio così.
Mah! Chissà cosa stava facendo in questo momento la mamm Lusìa, là alla
Nomanella, oltre le immense pianure di neve, che ad attraversarle occorreva
un’intera settimana di treno... Beh, a quest’ora senza dubbio dormiva. Parve al
giovane di vederne gli occhi marroni aprirsi nel buio della camera nuziale, e
guardarlo con bontà e stanchezza: «Dormi anche tu Stefano: hai dette le ora-
zioni, bravo, adesso dormi; lo sai che tra poche ore devi tornare fuori.» Sua
madre! Dopo aver tentennata la testa con muta tenerezza, Stefano aveva mes-
so in pratica l’immaginato consiglio materno, addormentandosi in breve.
Tutti dentro l’isba - i bersaglieri, e anche i pochi spauriti abitatori russi - si
erano addormentati, e ora erano avvolti nel sonno come in un coltrone di
straordinaria pesantezza; l’aria era piena dei loro respiri; dallo sportello non
ben chiuso di una grande stufa in muratura si spandeva un po’ di luce rossa-
stra, ondeggiante, e un borbottio pacato.
Anche fuori, tra quelli sdraiati all’aperto nel gelo orribile, alcuni avevano fi-
nito con l’addormentarsi. Non però il sottotenente Acciati, il quale sempre
steso sul telo tenda attendeva che quelle ore tormentose trascorressero, e arri-
vasse finalmente il suo turno d’entrare in casa. Ogni tanto socchiudeva gli oc-
chi, e un paio di volte gli parve di notare laggiù lontano, in direzione di est, dei
riverberi di luce sulla neve: evidentemente i russi non dormivano, si davano
da fare. Ma che diavolo stavano facendo? Tese per un po’ l’orecchio e rimase
in ascolto, ma non gli riuscì di percepire, nel silenzio spaventosamente gelido,
alcun suono. “Del resto non è affar mio” rifletté quasi con soddisfazione, tor-
nando a rilassarsi. “Ci sono quelli di servizio, le vedette e gli altri di guardia:
vigilare tocca a loro.”
Si adoperò per riportare la mente su qualcosa di pacifico, di non stimolante:
ancora Torino e il sole, se possibile. Poco alla volta ci riuscì, la sua mente en-
trò di nuovo in una sorta di dormiveglia: tormentoso certo, a causa del freddo
che non gli concedeva requie, tuttavia non del tutto cosciente. Le ore trascor-
revano lentissime.
CAPITOLO SETTIMO
Lasciatesi indietro le ultime vedette - le più avanzate - gli otto uomini pro-
gredirono lungo una pista di neve battuta che si snodava verso est. Ci fu anco-
ra qualche motteggio, infine nessuno parlò più; si udiva solo lo stridio ritmico
delle loro scarpe sulla neve ghiacciata.
CAPITOLO OTTAVO
Il terreno - che tutt’intorno a Calmicov formava una conca - andò presto fa-
cendosi accidentato; la pista attraversò alcuni boschi spogli, tenebrosi mal-
grado il bianco rivestimento di brina; qua e là negli avvallamenti
s’intravedevano banchi di nebbia immobile, morta. Nei punti più elevati l’uno
o l’altro degli uomini guardava istintivamente indietro: da principio il villaggio
era individuabile per i fuochi dei croati, i quali però ben presto impiccolirono
fino a scomparire del tutto. Poiché non si vedevano le stelle Acciati adottò il
sistema di fermarsi ogni quarto d’ora circa per controllare la direzione sulla
bussola. Polito sapeva come illuminare sveltamente il minuscolo quadrante
con un cerino schermato dalle mani; a tal fine si sfilava ogni volta i guantoni
di tela impermeabile foderati di flanella, lasciandoli pendere da uno spago che
gli girava dietro il collo (i bersaglieri avevano imparato a portare in quel modo
i guantoni dai tedeschi): istantaneamente aveva la sensazione che le mani nu-
de gli si congelassero; perciò, appena terminata la lettura della bussola infila-
va in fretta le mani nelle tasche dei calzoni, vicino al corpo, al caldo, perché vi
si ristabilisse la circolazione del sangue; solo in seguito le reinfilava nei guan-
toni.
Stefano camminava a metà pattuglia: anche a lui come a Bellazzi, se pure
non per lo stesso motivo, aveva dato fastidio la battuta di Biondolillo all’uscir
dalle linee: «Tenetelo a mente perché è l’indirizzo d’un casino.» Si era detto
che sempre, ma specialmente quando si sta affrontando la morte, è bene avere
nella bocca e nella mente soltanto ‘cose pulite’ secondo s’esprimeva don Mario
là a Nomana. Il giovane - sebbene fosse al pari degli altri terribilmente teso -
non aveva propriamente paura; questa missione certo era rischiosissima, ed
egli se ne rendeva conto: non era però, tutto considerato, più rischiosa di altre
che erano sembrate quasi impossibili e ciononostante erano state portate feli-
cemente a termine. Inoltre egli aveva fiducia in Acciati, nutriva per l’ufficiale
quella fiducia illimitata, simile per certi aspetti alla fede, che non di raro i sol-
dati dei reparti scelti hanno nel proprio comandante quando questi è un buon
comandante. Bisogna anche dire che le precedenti ore di sonno nell’isba
l’avevano ritemprato: si sentiva fisicamente bene, caldo in tutto il corpo; il
freddo tremendo che lo assaliva da ogni parte non riusciva a intaccarlo.
Malgrado non avesse dormito per tutta la notte, Acciati avanzava con passo
spedito, tirandosi dietro la pattuglia. Sul principio la sua maggior preoccupa-
zione era che il nemico avesse spinto in direzione di Calmicov qualche nucleo
esplorante, magari un pattuglione, nel quale sarebbero potuti incappare senza
accorgersi: scrutava perciò il buio davanti a sé, e tendeva l’orecchio, ma senza
fermarsi ad ascoltare meglio perché il tempo a disposizione non glielo consen-
tiva. Dopo forse tre quarti d’ora di scarpinata egli si ritrovò a un bivio che lo
lasciò interdetto; esaminò con cura la bussola: il tronco principale della pista
volgeva inspiegabilmente verso sud-est, dunque grosso modo verso Mescoff,
mentre nella precedente direzione di est proseguiva una pista minore, poco
più d’un sentiero di neve non ben calpestata, percorribile soltanto in fila in-
diana: questa sembrava dirigersi verso una dorsale informe che chiudeva
l’orizzonte.
«Mi spiace» concluse l’ufficiale, dopo avere riflettuto un poco: «ma noi
dobbiamo continuare diritti.»
«Noi tireremo diritto» disse, rifacendo il verso a Mussolini, il suo attenden-
te Polito che, spento il cerino, s’era già infilate le mani in tasca.
Acciati girò la testa: «Tu ti diverti, eh?»
«Per quanto posso» gli rispose, involontariamente a tono, Polito. Acciati si
mise a ridere: «Dai, va, procedamus» concluse, e imboccò la pista minore.
Quel procedamus era una reminiscenza di liceo, un’espressione abituale del
suo insegnante di religione; Acciati ne ricordò per un attimo il viso malinconi-
co e ridacchiò, come di solito faceva quando s’imbatteva in persone o cose
aventi rapporto con la religione. “Perché?” gli si propose ora in confuso la do-
manda. Beh, forse perché fin da ragazzo aveva visto fare così da suo padre, e
poi da tanti altri, anche nell’ambiente bersaglieresco. “Questa magari non è
una gran ragione” si rese conto, sempre in confuso. Ma lui in fin dei conti era
credente o no? Avvertì che si trattava d’una domanda con implicazioni non da
poco: il problema dell’aldilà... C’è chi ci crede e chi no, sia tra la gente abituata
a riflettere, sia tra quella che non riflette mai, tra i colti come tra gli incolti. “E
io? Mah, non lo so nemmeno io...” Fu tentato di approfondire almeno stavolta,
di non restare così in superficie. “Proprio adesso dovrei approfondire? Con
questo impegno che ho alle mani e ’sto freddo? Ci mancherebbe...” Finì col
disattendere l’ispirazione, come tante altre volte aveva fatto; ci sono persone -
anche tra le più generose nell’adempimento dei propri doveri civili - che non
riescono mai a trovare un po’ di tempo per approfondire seriamente le cose
più determinanti per il loro destino.
Arrivarono prima del previsto al piede della grande dorsale (“Ecco” pensò
Acciati “come al solito, la mancanza di luce m’ha fatto valutar male la distan-
za”); qui giunta l’esigua pista curvava improvvisamente verso sinistra, cioè
verso il Don.
«Che ti prenda...» mormorò il sottotenente, fermandosi interdetto; quindi
si girò verso Polito: «Cerino. Sta molto attento, qui, a nascondere bene la lu-
ce.» Cavò la bussola di tasca, l’esaminò con attenzione, poi spense con un ra-
pido soffio il cerino di Polito. «Non abbiamo altra scelta» mormorò; e abban-
donata la pista entrò risolutamente nella neve vergine cominciando a risalire
la dorsale. Sprofondavano tutti fin sopra la caviglia, la marcia si fece di gran
lunga più lenta e sopratutto più faticosa.
Ancor prima d’essere sulla sommità avvertirono un indistinto rombo di mo-
tori: vedevano anche, a tratti, strani riverberi di luci; Acciati, nascostamente
molto turbato, non poté impedirsi d’affrettare ad onta della fatica l’andatura,
mentre si chiedeva ancora una volta (precisamente come gli altri dietro di lui)
se si trattasse d’autocarri o di carri armati. Quando poterono gettare lo sguar-
do oltre il colmo si arrestarono: non si trattava di carri armati per fortuna, e
nondimeno si presentava loro una sconfortante visione: giù in basso, su una
larga strada di neve battuta che correva al piede della dorsale, era in movi-
mento una colonna apparentemente senza principio né fine d’uomini e di au-
tocarri.
Ai bersaglieri, che adesso erano alla sua altezza, l’ufficiale fece segno di ta-
cere, di non far rumore: curvandosi guardinghi si spostarono tutti avanti fino
a poter osservare il fiero spettacolo stando accovacciati nella neve. I russi
marciavano in silenzio, i loro autocarri procedevano coi fari schermati o, la
più parte, addirittura spenti.
A quella vista i bersaglieri si sentivano bloccare il respiro. «Non... Non po-
trebbero essere i nostri del Sesto, che si stanno ritirando?» chiese uno sotto-
voce.
Acciati negò con la testa. «Quelli lì bersaglieri non sono.»
«La fanteria, magari...?»
«Eh, magari!»
Improvvisamente un fascio di luce illuminò per pochi istanti un tratto della
colonna: un autocarro aveva per qualche motivo acceso i propri fari, eviden-
temente non schermati. «Ecco cos’erano quelle strane luci, di cosa si trattava»
mormorò Acciati. “Chi l’avrebbe immaginato? Per la miseria però, come si
sentono sicuri! ”»
Che fossero russi adesso non c’era più dubbio: gli autocarri immediatamen-
te davanti a - quello che aveva acceso i fari erano della nota linea antiquata
‘alla Ridolini’: il che, in questo momento, non riusciva in alcun modo diver-
tente. Anche le sagome degli uomini del resto erano apparse inequivocabili: si
erano visti abbastanza bene i loro berretti di pelo coi paraorecchi abbassati, e i
lunghi pastrani.
“Quelli, se ci scoprono qui a spiarli, come minimo ci castrano” fu la reazione
di Biondolillo, che osservava la colonna tesissimo, con la fascia ventriera che
gli metteva un po’ d’albore intorno al collo.
“Se gli finiamo in mano” pensò Stefano, “se anche per caso non ci ammaz-
zano, ci tolgono le pellicce, i passamontagna e il resto, per indossarli loro, e ci
mettono qui mezzo nudi sulla neve.” Provò una sensazione di sgomento, la
stessa che avvertivano sempre i combattenti italiani in Russia allorché si pro-
spettavano di finire in mano al nemico (e non a torto, come risultò poi).
Biondolillo risolse: “A me però vivo non mi prendono: l’ultima bomba a
mano è per me.” Si vide per un attimo mentre - privata la bomba delle due
sicure - se la picchiava contro la fronte: decisamente neanche questa era una
prospettiva allegra.
Stefano invece pensò: “Comunque non siamo ancora nelle loro mani: siamo
liberi, e armati, e siamo bersaglieri.”
Rimaneva che la situazione generale era molto più critica di quanto al reg-
gimento si ritenesse. Come mai quella fiumana scorreva indisturbata in dire-
zione di Mescoff? Perché non incontrava contrasto? Perché neppure là, verso
la sua testa, si udivano rumori di combattimenti?
«Gente, cercate di riposarvi un pizzico» disse Acciati sottovoce, ansando
lievemente: «Abbiamo dieci minuti di riposo con brivido gratis, poi bisognerà
sgambare di nuovo.» Aggiunse: «Sempre, s’intende, che gli Ivan ce ne diano il
modo.»
CAPITOLO NONO
Gli Ivan lo diedero. Il sottotenente aveva notato che nella colonna c’erano
ogni tanto delle soluzioni - certo tra reparto e reparto - qualcuna anche piutto-
sto ampia. Studiò, per quanto il buio glielo consentiva, l’ambiente intorno alla
strada; infine, trascorsi o quasi i dieci minuti di riposo, si alzò, arretrò in mo-
do da trovarsi defilato e, sempre seguito in silenzio dalla pattuglia, percorse
un semicerchio fino a un punto in cui aveva visto digradare dal colmo e allun-
garsi verso la strada uno smottamento pervio e boscoso.
Qui discesero tra gli alberi e gli arbusti con estrema cautela, fino ad appo-
starsi ad appena dodici o quindici metri dalla strada, in una lingua di bosco
fitta di rovi e cespugli innevati. Rimasero pressoché immobili in quel luogo
per un tempo che parve loro interminabile, con il cuore che impazziva nel pet-
to a ciascuno, alcuni di nuovo lievemente difficoltati a respirare per la tre-
menda tensione. I meno saldi di nervi erano combattuti tra due opposte, quasi
incontenibili spinte nervose: quella a sprofondarsi nella neve fino a scompa-
rirvi, e quella a balzare in piedi e a correre, correr via, scappare di là, succe-
desse quel che succedesse... Con gli occhi chiusi, tesi in ogni fibra, costoro
aspettavano che i più saldi di nervi riprendessero finalmente l’iniziativa.
Nella colonna nemica si produsse a un tratto un’interruzione. «Fuori» disse
tra i denti, balzando curvo in avanti, l’ufficiale; gli altri, in groppo con lui, at-
traversarono di corsa la strada di neve battuta, che sembrò loro - mentre vi
passavano sopra - singolarmente estranea, ostica; poi, sempre curvi, si adden-
trarono il più rapidamente possibile nel pianoro scoperto dall’altra parte. An-
cora non avevano percorso un centinaio di metri che sulla strada il flusso ine-
sorabile dei nemici s’era ristabilito.
Ridotta via via l’andatura, seguitarono a camminare in fila per uno nella
neve vergine, con spossante fatica. Poco alla volta non pensarono più al peri-
colo lasciato alle spalle: gliene rimaneva ancora l’agitazione nel sangue, ma
con la mente si rivolgevano già alla successiva strada da esplorare, preoccupa-
ti non gli capitasse di finire nel campo visivo del nemico senza accorgersene.
Finalmente Acciati ricominciò a fare alt, sia per riprendere fiato che per
controllare la bussola.
«Stanotte sì che ci farebbero comodo le tute bianche» osservò un bersaglie-
re, durante una di tali soste.
«Basterebbe poter camminare su una pista anziché nella neve a questo mo-
do» disse un altro.
Il sergente Bellazzi, dalla coda, si rivolse ad Acciati: «Signor tenente.»
«Eh? Parla adagio.»
«Io credo che nell’aprire la strada dovremmo darci il cambio.»
«Lascia perdere» gli rispose l’ufficiale, «star davanti tocca a me. A ciascuno
la sua naia.»
«No» insiste l’ispido sottufficiale «anzi voglio dirla chiara: non è soltanto
per voi, ma anche per noi che dovete risparmiarvi. Per la missione che dob-
biamo condurre a termine, e per la pelle da riportare indietro.»
Questo parve a tutti ben detto, tanto che alcuni non si peritarono di sottoli-
nearlo.
«Ah, così?» disse Acciati. «Ma guardali. Sembrate una pagina del ‘Cuore’ di
De Amicis.»
«Il cuore? Che cuore?» chiese Biondolillo.
«È un libro. Le donne non c’entrano.» disse Acciati, rimettendosi in marcia.
Dopo pochi passi Polito rese edotto l’uditorio: «Io, se devo dire la verità, di
libri in vita mia ne ho letto uno solo: Pinocchio.»
«E chi se ne frega» commentò quello che gli stava alle spalle.
«L’hai proprio letto tu?» gli chiese invece un altro.
«No, ce l’ha letto la maestra a scuola.»
«La maestra?» chiese Biondolillo.
«Guarda che aveva almeno sessant’anni» disse, ansando un poco per la fa-
tica, Acciati.
Gli altri ridacchiarono.
“Che ne sapete voi?” lo contrastò mentalmente Biondolillo.
«Tu Molisano l’hai letto Pinocchio?» chiese uno all’unica ‘recluta’ della pat-
tuglia, un ragazzo molto solido, giunto da poco dall’Italia, che Bellazzi aveva
scelto appunto per la sua solidità. Il Molisano tuttavia era tipo di poche parole
e non rispose.
«Signor tenente, allora?» insisté dal fondo Bellazzi, rivolto all’ufficiale.
«Non demordi eh? Va bene» acconsentì Acciati: «Possiamo darci il cambio
ogni quarto d’ora. Faremo testa-coda, d’accordo?»
«Sì» disse Bellazzi «signorsì. Dunque, se volete, cominciamo.»
Acciati si fermò; si fermarono tutti. La marcia riprese con le posizioni inver-
tite e Bellazzi alla testa.
Il terreno andò nuovamente corrugandosi in basse colline per lo più bosco-
se; a quasi un’ora dallo scavalcamento della strada percorsa dal nemico il trat-
to superato era molto mediocre, nemmeno d’un paio di chilometri. “Qui se
non troviamo una pista” andava ripetendosi mentalmente Acciati “non com-
biniamo più niente di buono”.
Giunti che furono, dopo una defatigante salita, ad un varco tra due colline,
il sergente Bellazzi che in quel momento era capofila s’arrestò di colpo, tutti
dietro di lui si arrestarono; intorno la neve risultava stranamente calpestata,
c’erano, frammisti alla neve, molti bossoli d’arma portatile, e non parevano
italiani.
Senza parlare Bellazzi traguardava nel buio, la testa spinta in avanti. «Giù»
disse infine a bassa voce, facendo in pari tempo segno con la mano. Tutti
s’inginocchiarono, nuovamente tesissimi, togliendosi in fretta il moschetto di
spalla; Acciati, curvo, sorpassò gli altri e raggiunse con pochi salti il sergente.
«Cosa c’è Bellazzi?» chiese a bassa voce.
«Guardate là.»
CAPITOLO DECIMO
Oltre il varco il terreno scendeva verso un angusto pianoro, attraversato da
un filare d’alberi spogli. Al piede dei quali c’era... qualcosa.
«Voi fermi qui» disse Acciati in un soffio. A Bellazzi invece fece segno di
portarsi avanti con lui; con molta cautela i due raggiunsero un punto da cui
potevano osservare meglio.
Al piede degli alberi sembrava ci fosse una lunga cresta artificiale di neve;
dietro ad essa si scorgevano dei corpi oscuri.
«Di che porca roba si tratta?» mormorò l’ufficiale. Aggiunse, dopo un po’:
«Pare una trincea di neve... Se è così direi che è nostra, dato che, vedi il terre-
no? le scende davanti verso nord, verso il Don.»
«Sì» convenne sottovoce Bellazzi, E dopo qualche istante: «È nostra, sì.
Guardate: è messa a tagliare la strada che stiamo cercando. La vedete la stra-
da? Là davanti, che sale verso la trincea?»
«È una strada quella?» mormorò Acciati. «Non si capisce bene. Così al buio
non si può dire.»
Bellazzi lo guardò in faccia, rimaneva della propria opinione e anzi la voce,
pur molto bassa, gli si fece speranzosa: «Forse le cose non vanno poi tanto
male; forse stiamo per prendere contatto con qualche reparto del Sesto» disse.
«Potremmo anche portare a casa buone notizie.»
Acciati seguitava a scrutare fissamente. «’Sta storia non mi convince» sus-
surrò. «Perché sono così fermi? Tutti quanti immobili?»
«Se stanno dormendo?»
«Disposti a quel modo? E poi, qualche vedetta almeno... Beh, non ci resta
che andare a controllare.» Si volse al sottufficiale: «Ci vai tu Bellazzi, con un
altro. State bene attenti, perché se incappate nei russi poco potremo fare per
voi. Hai sentito l’ordine del capitano? State ben attenti.»
«Signorsì» disse Bellazzi.
I due tornarono dai bersaglieri che seguitavano ad aspettare inginocchiati.
«Giovenzana» chiamò, sempre a bassa voce, il. sottufficiale: «Vuoi venire tu?»
Stefano, che non aveva la minima idea di dove si trattasse d’andare, si fece
avanti senza una parola. Ascoltò attento il piano d’avvicinamento che tenente
e sergente abbozzarono insieme, poi si avviò col sergente, mentre tutti gli altri,
senza far rumore, avanzavano alquanto, fino a prendere posizione nella neve
coi moschetti spianati.
***
***
CAPITOLO UNDICESIMO
Il ritorno, grazie alla pista da loro stessi aperta, fu da principio meno fatico-
so dell’andata. I pensieri di ciascuno andavano e venivano dall’orrenda trincea
dei morti alla strada percorsa dalle colonne nemiche, che bisognava nuova-
mente attraversare. Come ne giunsero in vista Acciati fece alt. Si scorgevano di
nuovo dei fari schermati procedere nel buio, lucciole gelide e lontane, appena
mobili.
«Avvicinarci così allo scoperto è chiaro che non possiamo, sarebbe troppo
da fessi» considerò a mezza voce l’ufficiale, il quale cercava di tenere la pattu-
glia su di giri, che non gliela inceppasse l’orrore.
«Eh!» convenne Bellazzi.
«Ragion per cui» riprese il sottotenente «gambe in spalla e avanti da questa
parte, verso sud: scarpineremo in parallelo alla strada finché non troveremo
un bosco, o una balca, o un’altra porcheria, che ci dia modo di farci sotto stan-
do al coperto. Forza.»
Macinarono neve intatta abbastanza a lungo, con tremenda fatica. Avevano
ripreso a fare testa-coda ogni decina di minuti; tutti erano affranti dalla stan-
chezza.
«C’è di buono» disse uno, durante una breve sosta «che non appena arrivati
dovremo ricominciare a sgambare di nuovo, insieme col reggimento.»
«Sì, bella prospettiva» mugugnò un altro.
«Pensa alla ghirba tu, non alla prospettiva» fece Bellazzi.
Qualcuno ridacchiò. Stefano non diceva nulla; portava a tracolla la borsa di
celluloide del capitano morto, con le carte topografiche e, chissà, forse tra esse
qualche documento utile: ogni tanto s’assicurava col guantone di non averla
perduta. Chissà di che compagnia del Sesto si trattava, di quale battaglione...
Da queste carte sarebbe forse venuta fuori qualche illuminazione sulle ultime
vicende di quei morti? Chissà prima della strage, mentre aspettavano il nemi-
co, cos’avevano detto e pensato quei ragazzi... “Probabilmente” rifletté “ragio-
navano e scherzavano come noi adesso...” Sentì un brivido lungo il filo della
schiena. “Però è impossibile che a noi succeda come a loro...” Ma una voce
gl’insinuava dentro: “Perché è impossibile? Rispondi: perché?”
Finalmente ecco una crepa nel terreno: il corso di un torrente gelato che
zigzagava verso la strada. Seguirono il torrente dapprima tenendosene fuori,
poi entrarono nel suo letto e proseguirono sul ghiaccio tra disordinati arbusti
di salice appesantiti dalla galaverna, e ontani spettrali, e ciuffi di canne palu-
stri bruciate dal gelo. Una volta in prossimità della strada Acciati fece accuc-
ciare tutti tra le canne, e andò avanti seguito dal solo Polito fino ad affiorare
cautamente con la testa dentro un intrico di rovi. La strada - che superava il
corso d’acqua su un ponticello alto un paio di metri - era a un tiro di sasso da
lui: la stavano in quel momento percorrendo soldati a piedi; erano talmente
vicini che gli pareva di sentirne l’odore. Sul ponticello un uomo fece alt per
orinare, si udì un richiamo iroso: «Davai, davai (avanti, avanti)» accompa-
gnato da una frase incomprensibile che suscitò qualche mezza risata.
“Fino a quando durerà ’sta rivista?” si chiedeva, ansimando lievemente, Ac-
ciati; e intanto cercava di rendersi conto dell’armamento dei nemici: erano
tutti piuttosto carichi, con grossi zaini sulla schiena, e le armi individuali - fu-
cili, parabellum, mitragliatori a rotella - portate in vario modo; ogni tanto ce
n’era uno che si tirava dietro su uno slittino una mitragliatrice Maxim munita
di scudo, di aspetto - caso raro per le armi russe - antiquato.
La sfilata sembrava non dovesse finire mai. “Ma forse” rifletté Acciati, sem-
pre ansimando e cercando di dominare la propria opprimente ansietà che a
momenti gl’impediva quasi di respirare, “forse è a me che pare così. Questi
minuti si sa che sono come ore.” Cominciò a temere un alt orario. “Se la co-
lonna si ferma qualcuno potrebbe scendere nel greto del torrente e... Beh, per
noi potrebbe farsi brutta”.
Per fortuna non ci furono alt orari; invece nella colonna comparvero delle
interruzioni, finalmente una lunga interruzione: «Svelto Polito» ordinò
l’ufficiale: «chiama gli altri.»
«Signorsì.» Polito s’era appena mosso che gli altri erano già lì. «Forza» or-
dinò Acciati senza lasciare il suo posto d’osservazione: «Filate sotto il ponte.
Aspettatemi al coperto un centinaio di metri più in là, capito? Via.»
Tutti eseguirono; solo Polito rimase accanto all’ufficiale.
«Forza» ripeté questi non appena vide l’ultimo degli uomini entrare nel
fornice buio. «Tocca a noi.»
Passarono anch’essi sotto il ponticello. Giunti di là se ne allontanarono a
passo veloce, tenendosi sul ghiaccio del torrente tra gli arbusti e le canne, or-
mai più preoccupati di far presto che d’essere cauti. Sembrò loro di udire
qualche voce alle spalle: senza fermarsi l’ufficiale si guardò indietro e gli parve
che sì, ci fosse qualcuno sul ponte, fermo al parapetto: i battiti del suo cuore
aumentarono fin quasi a farlo scoppiare.
Il maledetto (o benedetto?) ponticello rimase comunque indietro nel buio.
Ecco i bersaglieri accucciati tra gli arbusti. «Avanti» ordinò il sottotenente
prima ancora d’averli raggiunti: «Bellazzi, tira tu la fila.»
Aveva appena finito di parlare che dal ponte partì una vampa fulminea e il
frastuono d’una fucilata. Si sentirono anche delle grida, forse d’allarme, forse
intimazioni.
«La p... di tua madre» ansimò in risposta Polito: «la brutta p... di tua ma-
dre.»
I bersaglieri si diedero ad arrancare con celerità, come se la loro marcia
avesse inizio solo in quel momento.
Per un lasso di tempo non ci furono più fucilate. La distanza tra la pattuglia
e il ponte aumentava.
«Perché non sparano più?» chiese balbettando uno.
«Cosa fanno? Ci inseguono forse, quei figli di mignotta?» chiese un altro, e
a una tale prospettiva tutti si sentirono rizzare i capelli in testa.
«Risparmia il fiato, tu» disse con voce strozzata Bellazzi.
Ad un tratto una luce abbagliante color calce viva si spalancò nel cielo quasi
sopra le loro teste.
«Fermi» sibilò immobilizzandosi il sottotenente; per alcuni secondi il razzo
illuminò a giorno ogni cosa, poi cominciò a scendere dondolando, mentre la
sua luce scemava e infine si spegneva.
«Di corsa» ordinò Acciati: «C’è un bosco là avanti, dobbiamo arrivarci.»
Si erano appena infilati nel bosco - o a dir meglio scomposto intrico di sali-
ci, canne e rovi - che dal ponte un secondo razzo sgattaiolò verso l’alto sospin-
to da una lunga coda a spirale di scintille: giunto al vertice della traiettoria
sviluppò la sua luce bianchissima e oscillante che si mantenne per qualche
secondo, mentre l’ordigno pencolava nell’aria.
«Grazie» fece Acciati, «però adesso può bastare: la dorsale che cerchiamo è
là, l’ho vista.» Poi ordinò: «Muoviamoci, in un intrico come questo non pos-
sono vederci.»
La marcia prosegui a passo molto sostenuto. Contemporaneamente un mi-
tragliatore attaccò a sparare dalla strada; sentirono le pallottole fischiare in-
torno a loro e battere qua e là, non molte.
«Sventagliano a casaccio» fece Bellazzi «è chiaro.»
«Che fessi» disse Acciati. «Dev’essere stato un ragazzino appena arrivato
dalla scuola ufficiali a dare un ordine simile.»
Come se i russi avessero intesa la sua critica, il fuoco cessò. Intanto era cosa
buona che si potesse almeno per un po’ camminare nell’intrico, dove oltre tut-
to rimanevano tracce meno evidenti.
Arrivata al piede della dorsale la pattuglia prese a risalirla, avanzando anco-
ra una volta - con spossante fatica - nella neve vergine; raggiuntone il colmo
iniziò la discesa dell’altro versante, spostandosi via via verso destra, verso
nord, in cerca dell’esile pista aperta all’andata. Eccola finalmente: i bersaglieri
vi entrarono e la seguirono finché sboccarono sulla pista vera e propria che
conduceva a Calmicov. Da quando s’erano lasciati alle spalle la dorsale, Acciati
aveva ripreso a fermarsi con puntiglio ogni dieci-quindici minuti per control-
lare la direzione sulla bussola.
«Signor tenente, guardate là» disse a un tratto Polito: «Dev’essere il pa-
gliaio.»
Si scorgeva lontano, tra alcune pieghe del terreno, un vacillante alone ros-
sastro.
«Sì, credo proprio» convenne l’ufficiale; rallentò l’andatura, concedendo a
sé stesso e agli altri un po’ di tregua. «Gli hanno dato fuoco, ci aspettano.»
«E intanto si scaldano anche, i furbazzi» disse Biondolillo.
Giunsero alle trincee di neve davanti a Calmicov poco dopo le sette: due
portaordini del comando di reggimento li attendevano sulla pista battendo i
piedi per il freddo. «Presto» dissero: «Ci siete tutti? Gli esploratori croati sono
rientrati già da un’ora. Hanno perduto un uomo in uno scontro con un pattu-
glione russo.» Affiancatisi alla pattuglia che non ruppe la sua formazione, i
due la guidarono fino all’isba del comando: «È in corso una riunione con tutti
i comandanti di battaglione» riferirono.
Qua e là nel paese qualche reparto si stava già incolonnando nel buio; dal
settore dei croati venivano nitriti di cavalli; sulla strada principale
un’autocarretta scaldava solitaria il motore.
Gli otto reduci dalla rischiosissima missione si sentivano orgogliosi d’avere
assolto un così difficile compito per tutti. Davanti all’isba del comando fecero
alt; Acciati entrò a fare il suo rapporto.
CAPITOLO DODICESIMO
III
CAPITOLO TREDICESIMO
La luce consentiva ormai di vedere tutte le cose quando poco più tardi il
Terzo reggimento bersaglieri e la legione croata uscirono da Calmicov verso
sud, sulla pista per Mescoff.
Era il 20 dicembre: i banchi di smorta foschia che Acciati e i suoi avevano
intravisto qua e là nella notte, si erano alquanto estesi e ora velavano qualche
tratto di prospettiva.
All'avanguardia marciavano i croati in colonna compatta, preceduti da un
nucleo esplorante; alcuni loro reparti montavano a cavallo, e diversi puledri
seguivano intirizziti le cavalle madri, mettendosi ogni tanto improvvisamente
a caracollare: chi gli faceva caso si chiedeva se si comportassero così per ri-
scaldarsi, oppure perché impauriti da qualche cosa, o semplicemente perché
tale era la loro natura. Indosso ai cavalieri e agli uomini che dietro di loro pro-
cedevano a piedi - in genere individui pesanti, di taglio grezzo - le divise fasci-
ste, molto spesso portate in Italia da gente scattante e nervosa, sembravano
stranamente fuori posto. E lo erano: perché, come s’è detto, nessuno di questi
uomini aveva a cuore il fascismo.
Dopo i croati veniva su alcuni autocarri il comando del Terzo, quindi appe-
na staccati uno dall’altro i tre battaglioni di cui il reggimento si componeva,
tutt’e tre ben ordinati, ciascuno fornito di numerose slitte e carrette russe
trainate da cavalli che procedevano alternate agli uomini, e seguito, ciascuno,
dal proprio autocarreggio (da quella parte almeno che nei giorni precedenti
non era stata trasferita indietro presso il comando di divisione: questa ormai -
senza che qui lo si sapesse - non esisteva più.) Tutti o quasi i bersaglieri cam-
minavano o guidavano le macchine con l’elmetto piumato in capo, spicci, riso-
luti. Gli otto uomini appena rientrati dall’esplorazione scarpinavano in silen-
zio inquadrati nella loro compagnia, e non erano in alcun modo distinguibili
dagli altri.
Presso un ponticello a forse metà strada tra Calmicov e Mescoff giaceva rat-
trappito sulla pista il croato della pattuglia esplorante morto nello scontro
notturno col pattuglione russo. I suoi lo raccolsero e caricarono su una slitta.
Del nemico però - tranne il calpestio mal individuabile nella neve - non si
scorgevano adesso tracce. A molti sembrava sorprendente che esso non si fa-
cesse vivo neppure con qualche colpo di mortaio: era infatti inverosimile che
una colonna come questa potesse avanzare senza essere vista.
***
Nascosti nelle pieghe del terreno e dietro numerosi spalti costruiti frettolo-
samente con la neve, i soldati russi attendevano davanti a Mescoff l’arrivo dei
nemici. Gremivano invisibili la parte più alta di una lunga collina che nascon-
deva il borgo, nonché le sommità di alcune alture che fiancheggiavano su am-
bo i lati la pista nell’ultimo tratto prima della collina. Confidavano che gli ita-
liani sarebbero venuti a infilarsi da sé nella trappola; dietro di loro era schie-
rata negli avvallamenti, e pronta a far fuoco, tutta una minuta e sinistra popo-
lazione di mortai, con le gelide bocche rotonde puntate al cielo.
Tre di quei soldati - appartenenti al Millecentottantesimo reggimento fante-
ria - stavano in una buca proprio sul colmo della collina di fondo, tanto che,
voltandosi, potevano vedere in basso alle loro spalle l’abitato di Mescoff, piut-
tosto esteso e formato di case qua fitte là sparse, inframezzate da spianate ed
orti. Erano: il caporale Nichiténco di Voroscilovgrad, operaio; il fante Su-
corùcov, colcosiano della campagna di Vologda sul Volga; e il tenente lenin-
gradese Làricev, di professione pittore (una volta, quand’era ancora in grado
di dipingere, prima cioè non solo della guerra, ma anche di una drammatica
deportazione ai lavori forzati, avvenuta nel ‘nefando’ 1937). Stavano nella loro
buca strinati dal freddo, maleodoranti per il sudore rappreso nei panni specie
sotto le ascelle, assonnati, in apparenza ottusi.
Il tenente era l’unico che ogni tanto si girasse verso il borgo dov’erano in
frettoloso approntamento altre due linee difensive: la più prossima - sul vicino
margine di Mescoff - si prolungava anche fuori dell’abitato a destra e a sinistra
lungo il vitreo rilevato di alcune strade; l’altra era in corso d’allestimento un
paio di chilometri più indietro, lungo l’opposta sponda del fiume Ticaia che,
col suo largo greto bianco, attraversava il borgo nel mezzo. A differenza del
tenente, Nichiténco e Sucorùcov non s’interessavano in alcun modo a quanto
avveniva dietro di loro; Sucorùcov estraeva di tanto in tanto da un suo lercio
sacchetto di tela un pesciolino affumicato e se lo infilava in bocca; costretto a
soffiarsi di continuo il naso perché raffreddato, lo faceva senza ausilio di faz-
zoletto: normalmente come tanti contadini russi egli era bravissimo a proiet-
tare il muco per terra senza insudiciarsi le dita, ma adesso, col raffreddore...
“Beh, non importa (nicevò)”. Masticava i pesciolini, resche e tutto, con marca-
ta lentezza.
Anche per i russi questa immobilità a forse quindici, forse venti gradi sotto
zero, riusciva martoriante. Al tenente Làricev riportava con insistenza alla
mente gli appelli sullo spiazzo del lager siberiano in certe albe d’inverno, al-
lorché le guardie semianalfabete seguitavano a sbagliare la conta. Che incubo
quei giorni! Adesso egli era tenuto a comportarsi bene, anzi più che bene, per-
ché la sua pena era stata soltanto sospesa: la sua pena di dieci anni (la solita
‘decina’) per un delitto politico non commesso. “Che merda la nostra vita!...”
Quell’attesa allo scoperto richiamava alla sua mente anche certe compagnie
che nei giorni scorsi, in preparazione dell’attuale offensiva, erano state trasfe-
rite al di qua del Don sotto le linee italiane, messe in posizione d’attesa perfino
quarantotto ore prima dell’attacco: alcune, quando era poi venuto il momento
d’attaccare, non esistevano più, distrutte fin quasi all’ultimo uomo dal freddo
e dai nevrastenici colpi di mortaio del nemico spaventato. “Dio mio” ricordò il
tenente: “che macerazione quei colpi, per me, che pure stavo soltanto a guar-
dare dalla nostra linea...” La quasi totalità dei soldati russi aveva invece vissu-
ta la vicenda col solito innato fatalismo. Così come - pensò il tenente - da anni
e anni accettavano tutti con fatalismo le arbitrarie, incessanti deportazioni,
delle quali erano perfettamente al corrente. “Povero popolo mio, abituato a
essere maltrattato e massacrato da sempre!” Lui finiva quindi col compren-
derne - anche se certo non le approvava - le improvvise reazioni ultraselvagge,
davvero terrificanti.
Col crescere della luce gli riusciva di distinguere meglio gli uomini al lavoro
laggiù in Mescoff sulle due linee in costituzione (quelli lungo la sponda del
fiume, ovviamente, solo grazie al binocolo): li vedeva sopratutto intenti a sca-
vare la neve con le loro piccole pale... Appostati tra le più lontane isbe del pae-
se aveva inoltre individuato alcuni carri armati: quanti erano? Avrebbe voluto
saperlo. Intanto lungo la pista proveniente da nord-est, ossia dal Don (la stes-
sa che Acciati e i suoi avevano attraversata nel corso della notte) giungeva al-
tra truppa, che adesso veniva incanalata verso la linea difensiva più lontana,
quella sul fiume. “Guarda dove li mandano. Perché non li mettono qui con noi,
a nostro rinforzo? È vero che qui siamo già tanti...”
***
***
CAPITOLO QUINDICESIMO
CAPITOLO SEDICESIMO
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
***
Diversi erano i pensieri del colonnello comandante che, nel buio, studiava
la situazione dietro uno spezzone di muro sulla nuova linea venutasi a formare
all’altezza della chiesa. Per terra accanto a lui erano appostati due bersaglieri
con un piccolo mortaio d’assalto, uno aveva la testa fasciata.
L’infiltrazione russa che aveva tagliate fuori le sue truppe di punta non era
larga. Egli avrebbe anche potuto reciderla: rimettendoci però con ogni proba-
bilità più uomini di quanti - forse nemmeno un centinaio tra bersaglieri e
croati - lo attendevano dall’altra parte. E poi? La linea nemica che stava
sull’opposta sponda del fiume era tremendamente munita, a quest’ora senza
confronto più munita delle due che, a prezzo di tante perdite, erano state su-
perate nel corso della giornata. E i suoi soldati erano adesso esausti, ubriachi
di stanchezza: nessuno se ne rendeva conto meglio di lui che era, a sua volta,
al limite della resistenza psichica. Certo se egli, dopo avere concentrato il
grosso delle forze sul greto, avesse dato l’ordine d’attaccare, i bersaglieri non
avrebbero mancato di buttarsi avanti ancora una volta. Quasi certamente però
non sarebbero riusciti a rompere la munitissima linea nemica; e quand’anche
fossero, per mera ipotesi, riusciti in qualche ristretto settore a inciderla, in
quanti sarebbero potuti arrivare ancora efficienti e in grado di combattere
dall’altra parte? Per che fare poi? A cosa sarebbero serviti domani pochi repar-
ti sulla grande pista, per di più inevitabilmente tenuti sotto controllo dai carri
armati? Non certo a proteggere il deflusso delle altre divisioni in ritirata. E il
resto del reggimento, i feriti, i carriaggi? Che vicolo cieco, mio Dio!... Basta,
vediamo di prendere una decisione. La resa al nemico era impensabile: il co-
lonnello provò a prospettarsela solo perché era una delle due alternative che
gli rimanevano. No, la resa avrebbe comportato il massacro con un colpo alla
nuca di tutti senza eccezione i combattenti croati. Anche se - forse - non degli
italiani: i quali però, una volta nelle mani d’un nemico come questo, sarebbero
comunque morti nella stragrande maggioranza in prigionia... In che propor-
zione sarebbero morti? Dell’ottanta o del novanta per cento? Che prospettiva
pazzesca! Per un istante l’ufficiale rifletté che non aveva elementi oggettivi su
cui fondare tali prospettive, le quali gli venivano semplicemente dalle suppo-
sizioni dei suoi ufficiali. Ma poteva lui, nuovo a questo fronte, trascurare
l’opinione di chi aveva maggior esperienza? (Oggi, a guerra finita, sappiamo
che si sbagliava quanto alla sorte dei croati, non quanto alla percentuale delle
perdite in prigionia: è comunque solo grazie al senno di poi che lo sappiamo.)
La resa era dunque impensabile. Non rimaneva che l’altra soluzione: ripiegare
fino a Calmicov, e subito all’indomani mettersi coi primi albori in marcia ver-
so ovest, al fine di prendere contatto con la divisione Torino, insieme alla qua-
le cercare poi di aprirsi un’altra strada.
E se a quest’ora la pista per Calmicov fosse bloccata? In tal caso - esausti o
no - bisognava riaprirla combattendo. Meglio del resto morire in combatti-
mento, che per un colpo alla nuca, con le mani legate dietro la schiena... oppu-
re di stenti in un campo di prigionia, coperti di pidocchi, dopo essere passati
per ogni sorta d’abiezioni. Dopo essersi magari ridotti, per fame, a mangiare la
carne dei propri morti, come avevano fatto in queste terre gli stessi civili russi
dieci anni prima.
Il colonnello prese con strazio la sua decisione: si sarebbe ritirato coi resti
del reggimento e della legione croata a Calmicov.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
****
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
***
CAPITOLO VENTESIMO
CAPITOLO VENTUNESIMO
***
Sulla neve di Mescoff del giovane bersagliere non era rimasto che il corpo,
vicino al quale - in un violento parapiglia, abbastanza simile a quello in cui
nell’aldilà si agitano i dannati, e altrettanto disperato - si sviluppò un ultimo
brandello di battaglia allorché i nemici arrivarono al terrapieno. Ogni resi-
stenza venne troncata, Mescoff sommersa del tutto. Unici a fuggirne e a rag-
giungere più tardi - attraverso incredibili peripezie - la colonna del Sesto reg-
gimento bersaglieri in ritirata, furono il sottotenente croato e i suoi due legio-
nari che Stefano aveva visto allontanarsi sulla neve.
Da loro, e da loro soltanto, gli italiani ebbero notizie della battaglia di Me-
scoff; altre informazioni non ne ebbero per quasi tre anni, fino a quando cioè,
dopo la guerra, i pochi bersaglieri del Terzo sopravvissuti alla cattura in Cal-
micov, e alla spaventosa prigionia, tornarono in patria. (*)
(*) In seguito, sulla base delle testimonianze raccolte, venne fatta della battaglia di Me-
scoff una ricostruzione ufficiale. Alla quale noi avremmo voluto com’è nostro sistema atte-
nerci; ce ne siamo però dovuti parzialmente scostare perché non disposti a omettere
l’episodio degli uomini accerchiati in paese: dei quali e della cui fine non è rimasta quasi
altra testimonianza che quella portata in quei giorni dai croati. A noi l’episodio venne riferi-
to a fine gennaio (cioè poche settimane dopo che s’era verificato) da ufficiali del Sesto ber-
saglieri che avevano parlato coi tre croati, e da allora ha costituito ai nostri occhi una com-
ponente importante del quadro. L’abbiamo perciò introdotto anche se, a trentanni di di-
stanza, non siamo riusciti nonostante le nostre ricerche a documentarci ulteriormente su di
esso (pur avendone trovata una conferma nelle memorie del colonnello Carloni comandan-
te del Sesto reggimento bersaglieri: ‘Italianzy caputt’ ed. CEN, Roma 1959). Tra l’altro non
siamo riusciti a individuare a quale battaglione appartenevano gli uomini rimasti accer-
chiati in Mescoff: per questo motivo nel romanzo abbiamo dato ai battaglioni che formava-
no il reggimento di Stefano un numero diverso da quello che essi avevano nella realtà, un
numero di nostra invenzione. (Nota dell'A.)
PARTE QUINTA
CAPITOLO PRIMO
Nell’ora della morte di Stefano la colonna di cui Ambrogio faceva parte sta-
va sfilando in direzione sud appena una ventina di chilometri a ovest di Me-
scoff.
Era una colonna lunghissima, formata dalle divisioni di fanteria Pasubio e
Torino, dai resti delle due legioni di ‘camicie nere’ Montebello e Tagliamento,
a
da unità di corpo d’armata, nonché dalla 298 divisione tedesca (incompleta):
nell’insieme venti-venticiquemila italiani e cinque-seimila tedeschi. Queste
unità avevano, nel corso della notte precedente (la prima della ritirata) trovato
sbarrate dal nemico tutte le strade che da ovest portavano a Mescoff, e aveva-
no finito col confluire su un’unica pista diretta a sud, incolonnandosi una die-
tro l’altra.
Davanti marciavano i tedeschi: a sinistra gli uomini, vestiti di divise bian-
che imbottite, a destra le macchine (autocarri, trattori, cannoni, rimorchi
d’ogni genere) tutte dipinte o sporcate di bianco. Con gli uomini procedevano
molte slitte e carrette agricole trainate da piccoli cavalli russi col pelame in-
crostato di ghiaccio: ogni squadra tedesca disponeva di almeno uno di quei
grezzi veicoli, che ne trasportava le armi individuali e le munizioni, gli uomini
potevano così camminare liberi da impedimenti. Massicci nelle loro divise
mimetiche, innegabilmente marziali, impassibili nonostante la temperatura
rigidissima della notte, essi procedevano con lena.
Pattugliavano a sbalzi i fianchi della loro colonna, e della successiva italia-
na, otto o nove carri armati, superstiti - secondo si affermava -
d’un’impossibile battaglia d’arresto ingaggiata qualche giorno prima nella zo-
na di Boguciar da alcune decine di carri tedeschi contro centinaia di carri russi
(solo anni dopo si sarebbe appreso che i carri nemici entrati a Boguciar, e ora
in movimento a tergo dello schieramento italiano, erano più di settecentocin-
quanta, tutti di tipo pesante). Come gli italiani avevano già avuto modo di
constatare durante le soste, i tedeschi seguitavano - nonostante la situazione -
a mostrare un compiacimento tutto tedesco per la potenza dei propri mezzi
(sebbene fossero così scarsi confronto alla paurosa necessità!), e fiducia in sé
stessi, e altero sprezzo del nemico.
Gli italiani che marciavano dietro di loro non formavano allo stesso modo
una duplice colonna, ma una colonna unica di uomini e macchine mescolati.
Non indossavano divise bianche ma grigioverdi, cosicché nel buio la loro co-
lonna - inconfrontabilmente più lunga di quella tedesca - richiamava l’idea
d’una frenetica fiumana scura, scorrente tra i due bordi di neve della pista.
Al principio anche nella colonna italiana c’erano stati innumerevoli auto-
carri, trattori e cannoni, adesso però - sul finire della seconda notte di ritirata
- non ne rimaneva che un numero esiguo, essendo tutti gli altri rimasti lungo
la strada per mancanza di carburante.
Mentre camminava frettoloso, Ambrogio tornava col pensiero alle prime
ore di quella ritirata che nessuno ormai poteva immaginare quando si sarebbe
conclusa. Fin dal primo momento le cose tra queste truppe ordinarie erano
andate diversamente che, tra i bersaglieri: il giovane rivedeva con gli occhi
della mente i bordi della pista nelle immediate retrovie del Don, disseminati
d’innumerevoli oggetti, come capi d’equipaggiamento e di vestiario, maschere
antigas, casse e cassette di munizioni, sacchi, involti d’ogni genere, e poi tubi e
piastre di mortaio, e mitragliatrici, e mitragliatori, di cui i soldati - dopo averli
portati a spalla per un po’ di chilometri - si erano sbarazzati. A qualche ora di
marcia dalle linee questa visione di disordine impressionante era gradatamen-
te venuta meno, per dar luogo all’altra, ancora più impressionante, degli auto-
carri e dei trattori coi loro cannoni al traino, abbandonati sempre più numero-
si sulla pista. I mezzi fermi da alcune ore (appartenuti ai reparti di retrovia,
che se n’erano andati verso mezzogiorno) erano distinguibili da quelli fermati-
si da poco, per una patina di ghiaccio simile a vetro che li rivestiva interamen-
te. Dapprima sulle macchine abbandonate non c’era nessuno, poi su qualcuna
Ambrogio aveva notato con raccapriccio qualche ferito; accorgendosi del suo
interessamento questi infelici si erano messi a urlare invocando soccorso: al
pari di altri ufficiali il giovane s’era allora dato da fare per trasbordarli sulle
macchine ancora in moto. Il che per un certo tempo era stato possibile, ma in
seguito, col procedere della marcia, non più. Cosicché sia lui che gli altri uffi-
ciali avevano dovuto desistere dall’impresa: gli uomini non in grado di cam-
minare - via via più numerosi sulle macchine ferme - erano rimasti in tal mo-
do abbandonati al loro destino, che sarebbe stato probabilmente di morire
assiderati prima ancora dell’arrivo - temutissimo - del nemico.
“Chissà” si chiedeva a momenti Ambrogio “quanti dei disgraziati abbando-
nati ieri notte sono ancora in vita?” Era un quesito estenuante.
Grazie ai corrugamenti del terreno egli intravedeva ogni tanto, lontano sul
davanti, l’ultimo tratto della colonna tedesca simile a un’incerta serpentina
color bianco sporco che si perdeva nel buio: appena davanti a lui invece, e die-
tro a perdita d’occhio, fiumeggiava l’oscura colonna italiana. Il suo attendente
contadino Paccoi, che gli camminava a lato, insisteva a guardare verso un pic-
colo segmento dell’orizzonte di sinistra, cioè di est, dove un modesto alone
rosso, percorso a tratti da brividi, tingeva silenziosamente il basso cielo. Erano
gli ultimi guizzi della battaglia per Mescoff, ma qui nessuno lo sapeva. «Cosa
sarà mai?» fini col domandare Paccoi.
Il sottotenente riaffiorò dai propri pensieri. «Di cosa parli? Di quel colore
rosso?»
«Sì.»
«Cosa vuoi che sia? È un incendio.»
«Che altro potrebbe essere?» disse l’appena ventenne ufficiale topografo, il
quale aveva sul passamontagna, davanti al naso di stile greco, una mascherina
di ghiaccio al pari di tutti: «È nu fucariello. Pochi ne abbiamo visti in queste
due notti ’i sti fucanelli, Paccoi mio.»
Ambrogio ebbe una sfumatura di sorriso e si girò a dare un’occhiata ai sol-
dati: il suo gruppo (adesso egli si trovava in testa, con gli altri ufficiali del re-
parto comando) seguitava a mantenersi in discreto ordine. Gli automezzi è
vero - se per caso ce n’era ancora qualcuno in moto - non stavano più con gli
uomini a piedi, erano incapsulati chissà dove nella colonna. Gli uomini tutta-
via - che il pomeriggio precedente, durante una lunga sosta nel villaggio di
Popovca, si erano completamente scompaginati in cerca di cibo e di ricovero
nelle isbe - ora procedevano di nuovo inquadrati, batteria per batteria; allo
stesso modo procedevano gli altri due gruppi del reggimento; il colonnello e il
comando reggimentale marciavano davanti a tutti.
Da quando avevano lasciata Popovca camminavano ormai ininterrottamen-
te da otto ore, e il maggiore Casasco aveva adesso, sebbene si sforzasse con
dignità di non mostrarlo, un aspetto a tal punto sofferente da sembrare al li-
mite delle sue risorse fisiche. “Per lui il ricordo del disordine di ieri deve esse-
re ancora più penoso che per noi giovani” rifletté Ambrogio. “Ieri sera siamo
riusciti a ricomporre i reparti quasi per miracolo: soprattutto, io credo, per il
diffondersi di quella strana diceria che con poche ore di marcia avremmo rag-
giunte le linee amiche. Come se possano davvero esistere delle linee ami-
che!...” La tendenza che le unità italiane avevano mostrato a dissolversi, scon-
certava ancora il giovane. “È vero che non possiamo distribuire il rancio, e c’è
questo freddo demenziale per cui ad ogni istante si ha l’impressione di non
poter resistere oltre, e il bisogno anche durante le soste di muoversi per non
congelarsi. Però come non si rende conto, ciascuno, che il disordine è, fra tut-
te, la cosa più pericolosa? Io non capisco... Il vero guaio è che nessuno di noi
italiani fa affidamento sugli altri, superiori, inferiori, o pari grado che siano:
ecco il nostro vero guaio, non abbiamo fiducia gli uni negli altri.”
Si avvicinava, incerta, l’alba; la pista aveva preso a salire in modo costante,
cosicché Ambrogio poteva adesso vedere meglio, al di là dei connazionali di
testa, la lunga serpentina bianca della colonna tedesca che si perdeva nel buio.
Al solito con l’avvicinarsi dell’alba il freddo andava facendosi più spietato: lo
indicava l’estendersi delle maschere di ghiaccio e di brina sui passamontagna
davanti al naso. Pochissimi parlavano. La gratuita convinzione che la colonna
fosse ormai prossima a uscire dalla sacca però, anziché venir meno era andata
crescendo nel corso della marcia, e se qualcuno parlava, parlava appunto di
questo. Si andavano addirittura diffondendo, in qualche tratto della colonna,
notizie circostanziate: la linea amica era a dieci chilometri, no soltanto a cin-
que, no era al termine della lunga salita che si stava percorrendo. Là davanti
c’era (cosa ben verosimile, anche se la mancanza di luce non consentiva di ve-
derlo) un crinale: ebbene, la nuova linea correva appunto su quel crinale.
«Cosa ne dite, signor tenente?» chiese Paccoi ad Ambrogio: «Con tutto que-
sto terreno scoperto davanti, l’hanno sistemata bene, non vi pare?»
«Cosa?»
«La linea nuova.»
«Certo» gli rispose Ambrogio «se c’è davvero una linea nuova.»
«Perché non dovrebbe esserci?» mormorò Paccoi. «Lo dicono tutti che c’è.»
«Bene allora» concluse Ambrogio.
Paccoi rimase interdetto: dopo essersi cullato in quella prospettiva non gli
era facile rinunciarvi, o anche solo vederla messa in dubbio. Si girò verso uno
che camminava due righe più indietro: si trattava del caporale osservatore che
aveva lasciato l’osservatorio sul Don insieme con Ambrogio; costui stava spie-
gando a mezza voce a un suo vicino che non si trattava soltanto di una linea
ma, per essere precisi, di due linee contrapposte: una russa e una nostra.
«Ehi» gli chiese Paccoi: «la nuova linea di cui parli, sei sicuro che esiste
davvero?»
Il caporale alzò verso di lui uno sguardo risentito; gli rispose tuttavia con
calma: «Che c’è lo dicono tutti. Lo scopri solo adesso tu?»
«Scusa, ma è soltanto per assicurarmi. Tu da chi l’hai saputo?» Ecco il pun-
to. Il caporale osservatore si frugò nella memoria, preoccupato oltre tutto di
non sfigurare. «La notizia viene dai tedeschi» asserì infine, con voce distacca-
ta. «A me l’ha detto ieri sera un mio paesano della terza batteria che parla te-
desco.»
«Ah, ecco» fece Paccoi, sinceramente sollevato: «Meno male!» Anche il ca-
porale avrebbe voluto rallegrarsi allo stesso modo, ma non poteva. Stava infat-
ti obiettandosi - sia pure in un angolo riposto della mente - che quel compae-
sano (col quale la sera prima aveva effettivamente scambiata qualche parola
sulle linee amiche) forse il tedesco lo sapeva e forse no. Ad ogni modo era stu-
dente, e dunque era ben possibile che lo sapesse. Rimaneva però il fatto che
non aveva per niente detto d’avere parlato coi tedeschi... “Va fa ’n...” finì col
congedare mentalmente il problema il caporale, e spostò la mente su qualcosa
di meno affaticante.
La marcia continuava.
CAPITOLO SECONDO
Vicino ad Ambrogio fece alt un piccolo convoglio di cinque o sei uomini con
due grossi muli, il primo dei quali aveva al traino un cannoncino anticarro da
47/32, e il secondo una slitta con le relative munizioni. Si trattava, guarda un
po’, di bersaglieri: li guidava un sergente con una faccia straordinariamente
somigliante a quella del Virgilio De Lollis, il marrucino dei tempi di Cremona,
il quale con intonazione - manco dirlo - abruzzese: «Che razza di schifezza»
andava rilevando a mezza voce: «Guardate un po’ che merda.»
«Invece d’essere più disciplinati nel pericolo» osservò uno dei suoi «vedi
che casino!»
«Bell’affare per noi trovarci qui con questi, invece che coi nostri» disse un
altro.
Ad Ambrogio era subito venuto in mente il bersagliere Stefano. “Chissà co-
me se la starà passando in questo momento Faccia-di-tutti-i-giorni? Sarà ri-
masto insaccato anche lui? O la Celere avrà fatto in tempo a prendere la gran-
de pista? Ma cosa diavolo ci fanno con noi questi bersaglieri?” Ricordò, vaga-
mente, che alcune squadre di bersaglieri erano state tempo addietro assegnate
alla sua divisione con funzioni anticarro. “Ah, ecco...” Tornò col pensiero a
Stefano: “Come gli starà andando? I russi hanno tagliato le strade tra noi e
Mescoff: è un brutto affare...” Brutto, sì, ma i bersaglieri non erano come que-
sta truppa ordinaria, erano soldati forse non meno efficienti dei tedeschi.
S’immaginò l’amico che, con una sciarpa avvolta attorno al lungo collo, scar-
pinava risoluto insieme ai suoi nella neve. (A quell’ora invece — come sappia-
mo - egli stava già scarpinando nell’eternità, tagliato fuori per sempre dalle
cose di questo mondo.)
Il sergente bersagliere seguitava intanto a guardarsi attorno: scorse oltre la
folla due pezzi anticarro tedeschi piazzati, li considerò attento, poi si rivolse ai
suoi: «Dai» disse «andiamo a prendere posizione al loro fianco.» La squadra
si mosse; nel giro di qualche minuto schierato coi lunghi cannoni tedeschi di-
pinti di bianco ci fu anche il brunito pezzo italiano da 47: che al confronto ap-
pariva piccolo come un giocattolo. E tuttavia - più d’uno se ne rendeva conto -
era temibile in mano a soldati risoluti come quelli.
La folla cresceva di continuo e sempre più si rimescolava; del nemico - per
fortuna - nessun segno. Intanto i tedeschi non accennavano a muoversi e os-
servavano increduli - ogni tanto scambiandosi qualche osservazione - gli ita-
liani e il loro disordine. Di questi alcuni, in esigui gruppi dapprima, poi in
gruppi più consistenti, cominciarono a uscire dal paese, alla ricerca non sape-
vano neppur essi di cosa; altri e altri li seguirono: una volta insieme, ritrovan-
dosi in parecchi, acquistavano una sorta di strana fiducia, tanto che poco alla
volta si allontanavano sempre più, in diverse direzioni. Vedendoli così lontani,
non pochi supposero che avessero scoperto qualcosa, e a un tratto sciamarono
letteralmente al loro seguito.
«Guarda» commentava l’ufficiale topografo: «Vire (vedi) nu poco che sta
succedendo!»
«È pazzesco» mormorava tra sé e sé Ambrogio: «una cosa assolutamente da
non credere.»
«Finiranno col rompere u contatto; va a ffinì ca se perdeno.»
«Sì, finiranno col perdersi tutti. Ma perché? Non è ammissibile.» Ambrogio
scuoteva con caparbietà la testa: «No, no, no! Non è ammissibile che si arrivi a
questo punto di disorganizzazione...» Erano dunque fatti così gli italiani, il suo
popolo? Gli pareva di conoscerli soltanto adesso.
Paccoi lo guardava accorato.
«Andiamo» risolse Ambrogio: «cerchiamo il colonnello e mettiamoci a sua
disposizione: qualche ordine dovrà pur darlo.» S’avviarono nella direzione che
era stata della colonna, attraverso la folla costituita d’innumerevoli capannelli
e crocchi, parte fermi, parte vaganti; da nord intanto, dalla pista, c’era sempre
nuovo afflusso.
S’imbatterono in parecchi artiglieri del reggimento e del gruppo, soli o a
branchi, e anche in qualche ufficiale: nessuno però seppe dir loro dove si tro-
vasse il colonnello. Mazzoleni e Piantanida, che girovagavano uno a fianco
dell’altro nella folla, comunicarono di avere appena visto l’aiutante maggiore,
il quale era in cerca del signor maggiore Casasco. Che direzione aveva preso?
chiese loro Ambrogio, «Quella» indicarono i due, e avviandosi addirittura:
«Se ci affrettiamo probabilmente lo raggiungiamo: dovrebbe essere là, appena
dopo quelle case.»
CAPITOLO TERZO
***
CAPITOLO QUARTO
Oltre le pieghe del terreno indicate dal generale c’era un esteso pianoro, che
digradava più in là, verso sud-est, in una lunghissima vallata. Nella quale -
senza che gli italiani se ne fossero finora accorti - era già in marcia la testa del-
la colonna tedesca, simile a un esile, irrequieto serpente color bianco sporco
nella neve candida. Anche le restanti forze tedesche stavano - più indietro -
lasciando il villaggio e scendendo nella valle lungo una strada; per altri per-
corsi più stretti e più erti, stavano scendendo nella valle anche file di soldati
italiani che non avevano partecipato all’adunata generale, della quale non si
erano neppure accorti: là dove i loro percorsi confluivano in quello dei tede-
schi, gli italiani dovevano fermarsi perché i tedeschi, giustamente, non con-
sentivano loro d’entrare nelle proprie file a scompaginarle.
Sullo spiazzo dell’adunata e sul pianoro ebbero inizio le operazioni
d’inquadramento dei reparti. Quasi tutti i soldati - anche quelli che non ave-
vano udite le parole del generale - avvertivano bene la necessità di ristabilire
l’ordine; si rendevano inoltre conto che era nell’interesse di tutti lasciare ai
tedeschi il tempo di defluire ordinatamente per poi seguirli. Ciononostante
quando gli ufficiali - non tutti, quelli più dotati di buona volontà e ancora di-
sposti a spendersi - tentarono di ricostituire davvero i reparti, ben pochi di
loro collaborarono. Certo i soldati non si opponevano, rimanevano però inerti,
quasi non udissero e non vedessero, e questo anche solo per non separarsi dal
compaesano, o a volte addirittura (ed era paradossale) per tenersi il più possi-
bile vicini all’ufficiale che impartiva gli ordini, il quale - appunto perché si da-
va da fare - ispirava una certa fiducia. E non è che fra tanta gente mancassero
uomini volonterosi: ce n’erano, e parecchi, e s’erano dimostrati tali in molte
occasioni prima della ritirata; ma costoro (gli individui decisi a fare il proprio
dovere, che in tempi normali avevano determinato gli altri, e reso l’esercito
appunto un esercito - gli stessi che in Italia rendono il nostro popolo un popo-
lo) adesso non ce la facevano più a vincere un’inerzia così enorme e diffusa, e
finivano con l’esserne paralizzati.
Intanto - affatto invisibili da qui - sempre altri uomini, e anche altre slitte,
carrette, autocarri entravano in Posniacof dalla pista in salita proveniente da
nord, e attraversato a marea il villaggio giungevano un po’ alla volta al piano-
ro, cosicché la folla vi andava crescendo.
***
CAPITOLO QUINTO
***
Prima di raggiungere le isbe i due sentirono alle loro spalle una voce
dall’intonazione - nientemeno - finto-burocratica: «Ehi, cosa fate qui? Dico a
voi, sottotenente Riva.»
Si voltarono sorpresi: per ritrovarsi davanti la vispa figura di Bonsaver che,
seguito da sei o sette artiglieri in fila indiana, stava arrivando attraverso la fol-
la; aveva sul petto il binocolo e teneva con una mano il moschetto orizzontale
su una spalla; anche i suoi uomini erano armati. «Ah, ti se propio ti» esclamò.
«Guarda, l’ ‘eroe lontano’» lo salutò Ambrogio. «Dove diavolo vai?»
«’Ndemo fora de patuglia» rispose Bonsaver. «Però no d’osservazione sta-
volta. ’Ndemo in serca (cerca) de quei desgraxià che i ne spara adosso. Ordi-
ne del mio maggiore.»
Sembrava lieto d’avere un ordine concreto da eseguire; il suo viso rustico
era circondato dall’ovale di un passamontagna da truppa che lo rendeva
nell’insieme ancora più alla mano.
“Dunque qualcuno s’è conservato soldato e uomo” pensò Ambrogio con sol-
lievo.
L’altro si stava intanto accorgendo di un che d’inconsueto nel comporta-
mento dell’amico, e anche di Paccoi. «Ehi Riva, cosa ti succede?» domandò.
«Mi succede che un minuto fa m’hanno beccato» rispose Ambrogio.
«Beccato? Ti hanno ferito? Dove?»
«A un braccio e...» Si toccò con la sinistra il petto. «A un braccio» ripete.
«Per il resto devo ancora controllare.»
«Ostrega. Quei colpi russi, eh?»
«Sì.»
«Vuoi che ti dia un’occhiata io? Entriamo in una di queste case e...»
«No» disse Ambrogio. «Il mio aiuto ce l’ho già» indicò col mento Paccoi, «e
tu hai quell’ordine da eseguire; non puoi perdere tempo.»
«Va ben. Come te vol.» Bonsaver annuì, sorridendo incoraggiante, ma si ri-
fece subito serio. «’Scoltame Riva: non so quanto tempo impiegherò. Ma
quando torno indrio mi paso de qua, de ’ste case. Se te trovo ancora chi (qui),
la marcia la femo poi insieme. Sito d’acordo? Io non ti dico d’aspettarmi, hai
capito? Regolate ti.»
«Va bene, ti ringrazio.»
«Alora ciao.»
Ambrogio lo salutò con la mano destra, trattenendosi tuttavia dall’alzarla e
facendogli ‘ciao’ con le dita.
«Ma varda se te doveva sucedere proprio a ti» commentò l’altro. Poi si ri-
volse ai suoi, fermi in fila per uno dietro di lui: «Andemo voaltri» disse.
Seguito da loro riprese a tagliare obliquamente la folla, fino a emergerne
verso nord-est.
***
Nella neve intatta la sua pattuglia scarpinò sempre in fila per uno verso una
mediocre sporgenza del terreno, sul cui colmo fece alt. Il sottotenente portò il
binocolo agli occhi e si diede a esplorare metodicamente intorno, sofferman-
dosi su ogni apparente irregolarità e minuzia delle distese nevose: in tale ri-
cerca - il lavoro dell’osservatore - egli era divenuto molto abile, più abile forse
che in qualunque altro genere di lavoro. La sparatoria intermittente del nemi-
co non cessava; da questo punto l’ufficiale poteva rendersi conto con chiarezza
che proveniva da est. Ne chiese conferma al suo vice, un caporal maggiore dal
viso triangolare, il quale confermò; convennero che per osservare meglio in
quella direzione avrebbero dovuto spostarsi alcune centinaia di metri più in là,
su un altro corrugamento del terreno. Mentre procedevano, notarono che
qualche altra pattuglia s’andava staccando dalla massa per mettersi in esplo-
razione al loro stesso modo.
«Ah, qualcun d’altro che se sveia. Volevo ben dire mi.»
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
Altri rigagnoli d’uomini alle loro spalle e anche davanti a loro seguitavano a
uscire da Posniacof per confluire poi nel fondo valle dentro la corrente princi-
pale.
Il mortaio russo continuava a battere con le sue bombe uno dei punti di
confluenza; la cadenza del tiro si manteneva regolare, un colpo ogni mezzo
minuto circa. “E infatti perché dovrebbero farsi fretta?” pensò con amarezza
Ambrogio: “Possono sparare a regola d’arte, senza surriscaldare l’arma”. Si
udiva - piuttosto debole - il colpo di partenza, e quasi subito il sibilo della
bomba in arrivo, cui teneva dietro l’esplosione che sollevava una fumata nera
tra gli uomini in movimento. Per coloro che ne erano investiti doveva essere
tremendo: si trattava d’un calibro sugli ottanta millimetri, dunque con un rag-
gio mortale di schegge di tre quattro metri. Parecchi uomini giacevano sul ter-
reno nel luogo battuto, ma molti di più dovevano essere quelli che prosegui-
vano con le schegge nella carne, alcuni forse con le carni dilaniate. Cionono-
stante la colonna non s’interrompeva affatto prima del punto battuto: data la
lenta cadenza dei colpi infatti subito dopo ogni esplosione si poteva passare
indenni. I più prossimi affrettavano perciò il passo; gli altri che li seguivano,
anziché deviare nella neve vergine, spasmodicamente speravano di poter pas-
sare anch’essi in tempo; così sempre nuovi uomini finivano con l’offrire il
proprio corpo allo strazio.
Ambrogio e Paccoi fecero l’intera discesa con quell’incredibile, tragico spet-
tacolo sotto gli occhi; giunti nel fondo valle da principio si mantennero
anch’essi incolonnati sulla pista, mentre Ambrogio diceva ogni tanto: «È certo
che noi non rimarremo sulla pista, sarebbe da pazzi. Questo è certo.» Intanto
si andavano progressivamente avvicinando al punto battuto, il sottotenente
lanciava continue occhiate alla neve circostante su entrambi i lati: era piutto-
sto alta, la gamba vi sarebbe sprofondata fino a metà polpaccio, camminarvi
sarebbe stato molto faticoso, perciò, ferito com’era, egli non si risolveva a de-
viare.
Fortunatamente davanti a lui alcuni uscirono con decisione dalla pista: di-
stavano dal punto bombardato sessanta o settanta metri, intendevano aggirar-
lo sulla destra. A spizzico altri tennero loro dietro, poi altri ancora, e anche
Ambrogio e Paccoi giunti al solco irregolare e malagevole pieno di neve farino-
sa da quelli aperto, vi entrarono; altri li seguirono, finché - voltandosi - il sot-
totenente constatò che l’intera colonna, veicoli compresi, stava abbandonando
il vecchio percorso ed entrando nel nuovo.
Cos’avrebbe fatto adesso il mortaio? Molti se lo chiedevano e guardavano
alle esplosioni: che seguitavano a prodursi nel medesimo luogo, aggiungendo
sulla neve della pista o appena poco fuori altri imbuti nerastri tra i quali gia-
cevano i morti, mentre tutt’intorno i feriti si sforzavano disperatamente
d’allontanarsi a raggera, chi strisciando, chi alzandosi e cadendo di continuo
nella neve, che ne rimaneva insanguinata. Un poveraccio avanzava barcollan-
do con un braccio teso verso la nuova colonna: invocava aiuto con parole af-
fannose, inintelligibili. Non uno gli andò incontro per soccorrerlo: tutti pensa-
vano soltanto a sé stessi, volevano aggirare il più in fretta possibile il luogo
battuto dalle esplosioni, e si chiedevano con angoscia se il mortaio avrebbe
trasferito prima del loro personale passaggio il tiro sul nuovo percorso, il feri-
to finì col cadere ginocchioni nella neve a qualche metro dalla colonna, e vi
rimase, con una mano puntata a terra e l’altra sempre levata verso i compagni
che sfilavano frenetici.
Aggirato il punto delle esplosioni la colonna rifluì sulla pista principale che
nel tratto battuto era percorsa ormai solo da uno smilzo rigagnolo d’uomini:
qualche minuto più tardi il mortaio trasferì e con pochi colpi aggiustò il tiro su
un diverso punto della pista, alcune centinaia di metri più indietro.
I due continuarono a udire le sue esplosioni ancora a lungo, poi ad esse -
ormai molto affievolite, appena udibili - cominciarono a mescolarsi altre e più
forti detonazioni, di cui in questo tratto della colonna nessuno sapeva darsi
spiegazione. Forse i russi stavano attaccando in forze il villaggio? Stava forse
avendo inizio un combattimento? Ma tra chi? C’era ancora fra gli italiani gente
disposta a combattere? Infine dopo alcune lente curve della vallata di cui la
pista seguitava a percorrere il fondo, ad Ambrogio e a Paccoi non giunse altro
suono che quello minuto prodotto dall’incessante trepestio delle scarpe sulla
neve.
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
Col trascorrere delle ore aumentava il numero di quelli che non ce la face-
vano più: nel buio si scorgevano con sempre maggior frequenza individui ac-
casciati nella neve, incapaci di fare un altro solo passo. In genere non parlava-
no, solo qualcuno, a momenti, invocava a mezza voce l’aiuto dei compatrioti
che seguitavano a camminare.
Ambrogio era entrato in uno stato chiaramente febbrile: aveva dei brividi e
sentiva una insistente sete che la neve inghiottita non bastava a spegnere, av-
vertiva anche - e questo era peggio - una sorta di crescente ottundimento,
quasi un’estraniazione al cervello.
A un tratto si sentì bruscamente trattenuto per il cappotto. Uno degli indi-
vidui caduti sulla pista l’aveva, brancolando, afferrato con una mano a una
tasca. Il sottotenente non ebbe l’animo di dare uno strappo: si arrestò e piegò
su di lui; anche Paccoi, col quale egli adesso camminava sotto braccio, s’era
arrestato.
«Perché andate tutti via?» sussurrò l’uomo prostrato nella neve: «Date una
mano anche a me, non lasciatemi qui a morire.»
«Noi due non possiamo» gli rispose con pietà e insieme con vergogna Am-
brogio «perché io sono ferito.»
«E mia madre?» mormorò lo sconosciuto senza più forze. «Non avete una
madre voi?»
Paccoi allora si staccò dall’ufficiale; chinatosi sull’uomo sollevò senza una
parola il suo braccio sinistro, vi sottopose il proprio collo, poi circondatolo alla
vita col braccio destro, fece forza, e lo mise in piedi. Praticamente appeso a lui
l’altro tentò di muovere qualche passo, ma non era più in grado d’usare le
gambe. “Ha i piedi ormai insensibili, perduti” si resero conto con raccapriccio
i due. Paccoi lo trascinò avanti forse una ventina di metri, con improbo sforzo:
Ambrogio, che seguiva in silenzio, vide l’attendente vacillare più d’una volta;
infine Paccoi si arrestò e, chinatosi, depose di nuovo lo sconosciuto sulla neve
al margine della pista; si raddrizzò ansimando.
«Perché mi lasci?» si lamentò debolmente quello: «Le linee sono vicine, ti
supplico.»
«Sì» ansimò Paccoi: «Sono vicine. Perciò sentimi: appena arriviamo alle li-
nee io trovo una slitta, o una carretta, o qualcosa, e torno qui a prenderti.
M’hai inteso?»
«Le linee sono vicine, basta un po’ di sforzo» ripeté il soldato sconosciuto.
«Andiamo» disse Ambrogio a Paccoi, e a bassa voce: «Non possiamo far
niente per lui, vieni via.»
Col tondo viso come sempre impacciato, l’artigliere contadino ubbidì.
***
Con l’avanzare della notte il freddo andava facendosi più spietato: su tutti i
passamontagna c’erano di nuovo le maschere di brina, l’aria ch’entrava nei
polmoni sembrava infuocata tant’era gelida. Il crescente sfinimento delle
membra faceva anelare a ciascuno una sosta, anche breve; in contrasto con
questa imperiosa necessità la mente avvertiva però, in confuso, che in caso di
sosta il freddo avrebbe anche potuto avere partita vinta. La prospettiva, specie
per quelli che conoscevano i propri limiti di resistenza (o meglio credevano di
conoscerli, perché - come molti scoprirono allora - insospettate sono in realtà
le risorse del fisico umano) era tale da far rizzare i capelli. In conclusione me-
glio non pensare, non riflettere, tirare avanti fino allo stremo e basta.
Dalla lontana testa della colonna giunse a un tratto un rumore di spari: al
principio di fucile e d’armi automatiche, poi anche di cannone. “È proprio il
momento adatto per iniziare un combattimento” pensò con atonia Ambrogio.
Parecchi intorno a lui tendevano l’orecchio. I colpi sembravano sul punto di
cessare, ma ripresero, cessarono e ripresero ancora, finché divennero quasi
continui. La partecipazione dei cannone avvertiva chi era in grado di riflettere
che non si trattava d’una sparatoria immotivata come altre della giornata.
La colonna rallentò gradatamente, e andò sempre più condensandosi fino a
riempire in modo traboccante i due bordi di neve della pista. Cominciarono le
soste, il movimento a sbalzi. Il freddo si faceva sempre più selvaggiamente
sentire, ogni uomo cercava di chiudersi in sé stesso, si rannicchiava, abbassa-
va il capo come per trattenere il proprio calore.
Quanto tempo durò quel movimento a sbalzi? Forse a lungo, perché a guar-
darsi intorno il paesaggio appariva ora mutato: ad avvallamenti, c’era anche
qualche isba... un paese dunque? I colpi continuavano.
Ecco là, su un lato, alcune file di pallottole traccianti che si rincorrevano nel
buio, altre file le intersecavano: tedesche e russe, perché gli italiani non ave-
vano in distribuzione pallottole traccianti. Ecco un grande carro armato tede-
sco fermo al margine della pista, e poco più avanti eccone un altro; improvvi-
samente da quest’ultimo partì un colpo di cannone: la vampata, lunga una
decina di metri, fece a pezzi le tenebre, tutti gli occhi che l’avevano vista si
riempirono di brulicanti punti rossi.
Un interminabile alt. Cominciò a circolare qualche voce: bisognava attra-
versare un paese occupato dai russi; i russi erano anche sulle alture circostan-
ti; erano molti; no, erano pochi, si sarebbe riusciti a passare; tornare indietro
non si poteva: tornare dove? Bisognava sfondare a ogni costo, o sarebbe stata
la fine.
La colonna ormai non procedeva più; Ambrogio notò dei reparti tedeschi
inquadrati fuori strada. Più avanti c’erano, pure fuori strada, i militi italiani
dei battaglioni ‘M’, anch’essi inquadrati e, al pari dei tedeschi, tuttora con evi-
denza in grado di combattere.
“Un bello smacco per noi dell’esercito, che li abbiamo sempre snobbati e
presi in giro’’ pensò il sottotenente. Certo queste non erano ‘camicie nere’ co-
muni: se facevano parte dei battaglioni ‘M’ doveva trattarsi d’uomini scelti e
addestrati alla maniera degli arditi. Tuttavia il senso di smacco rimaneva...
Cos’è che rimaneva? Ah, sì, lo smacco... Che, lo smacco? Sì... lui però adesso
finiva col percepirlo piuttosto in confuso, perché la sua mente, ogni tanto, fati-
cava a connettere.
Tutti, colonna a macchia dentro e fuori la pista, e reparti inquadrati, sem-
bravano stagnare. Ci sarebbe stato combattimento o no? Il sottotenente cercò
di non pensare più a niente; batteva ogni tanto, con insistenza, i piedi sulla
neve compatta della strada per impedire che gli si congelassero. Paccoi si te-
neva di proposito alla sua destra, un po’ obliquo, perché non gli urtassero il
braccio ferito; stava anche lui a capo chino. A pochi metri da loro una voce
nella folla ripeteva: «Il brodo, il brodo caldo, il brodo...» e chiedeva: «Dammi
un po’ di quel brodo.»
«Quale brodo? Armando, piantala di straparlare» le si contrapponeva a
tratti un’altra voce, certo di un amico.
«Il brodo caldo...»
***
II
CAPITOLO UNDICESIMO
I due si svegliarono coi primi cenni di luce. Non stavano più accanto al rogo
- spento da diverse ore - ma sotto una tettoietta di canne addossata a un’isba,
sdraiati in mezzo a soldati sconosciuti. Subito si prospettò loro la tragica si-
tuazione in cui versavano: la sacca, le ferite di Ambrogio, lo sfacelo
dell’esercito. All’ufficiale tornò di colpo in mente anche la morte del suo amico
Bonsaver, e ne provò di nuovo acerbo dolore. Non riusciva a ricordare il mo-
mento in cui nella notte era venuto via dalle ceneri del rogo; ricordava invece
d’avere poi vagato a lungo nel buio e nel freddo tremendo al braccio
dell’illimitatamente disponibile Paccoi, e come si fermassero ogni tanto per
battere entrambi con sfinimento i piedi sulla neve.
A rimanere così immobili sotto la tettoia di canne correvano ora il rischio di
congelarsi; si levarono perciò in piedi e ricominciarono a camminare. Sebbene
la luce fosse ancora molto scarsa, si resero conto d’essere in un villaggio rusti-
co, dalle isbe piuttosto distanziate tra loro; di lì a poco ne avrebbero anche
appreso lo zotico nome: Arbusov (Anguria). Il villaggio giaceva in una vallata
ovale non molto profonda, attraversata da una strada di neve battuta (eviden-
temente la loro pista - anche se i due non la riconoscevano affatto) lungo la
quale seguitavano a giungere a gruppetti o in fila rada soldati italiani.
E i nemici dov’erano? Si rivelarono dopo non molto: occupavano le pareti di
est, sud e ovest della vallata tutt’attorno al villaggio, e forsanche, verso est,
una lontana, rarefatta propaggine del villaggio stesso. Fattasi sufficiente luce
essi cominciarono a sparare sulla colonna in sosta, concentrata soprattutto in
Arbusov e nei suoi dintorni: sparavano colpi d’arma portatile, poco efficaci per
la distanza, ma anche di mortaio e, a intermittenza, micidiali colpi di cannone.
I tedeschi, che avevano imbastito a sud e a est un embrione di linea, risponde-
vano con qualche salva di cannone, ma alla cieca, in quanto le armi pesanti
nemiche si trovavano tutte oltre i bordi della vallata, e non erano quindi indi-
viduabili. In una posizione come questa era chiaro che non si poteva rimane-
re: cosa si aspettava dunque a partire?
Cominciarono, al solito, a circolare voci: si attendeva una colonna corazzata
tedesca; no, si attendeva che gli aerei lanciassero la benzina (che la lanciassero
ai tedeschi beninteso, non a noi); no, forse si attendeva che i comandi superio-
ri indicassero via radio un percorso sufficientemente sgombro di nemici.
Nell’attesa non c’era quasi colpo delle armi pesanti russe che non facesse
vittime. Quando si udiva il sibilo delle granate o delle bombe di mortaio in
arrivo, nel settore investito tutti si buttavano a terra, per poi, ad esplosioni
avvenute, alzarsi in piedi e fuggire via; qualche corpo rimaneva però sempre
sulla neve intorno all’imbuto nerastro d’ogni esplosione.
«È una fortuna» spiegò Ambrogio a Paccoi, dopo avere osservato con atten-
zione ciò che succedeva «che i russi almeno per ora non siano molti, e comun-
que non abbiano sul posto molte armi pesanti. Beh» concluse «è veramente
tempo per noi di metterci alla ricerca del nostro gruppo.»
D’altra parte rimanere fermi era penoso a causa del freddo; i due si misero
dunque a girovagare fianco a fianco tra le sparse case del villaggio e sulla neve
calpestata dei suoi dintorni, ora mescolandosi alla folla che in maggioranza si
manteneva ferma, ora accompagnandosi a individui ugualmente vaganti alla
ricerca di chissà cosa. «Io devo ricostituire a ogni costo le pattuglie» diceva
ogni tanto l’ufficiale.
«Sì, però bisognerebbe anche cercare qualcosa da mangiare» suggeriva a
volte Paccoi, e per fare malgrado tutto un po’ di spirito ripeteva con semplicità
un bonario detto umbro che già in altre occasioni Ambrogio gli aveva sentito
pronunciare: «’Nn du (dove) se magnuca, ’l Signor ce conduca».
Vagarono senza costrutto per ore; più d’una volta tentarono d’entrare in
qualche isba, ma erano tutte stipate di tedeschi, i quali ne vietavano urlando
l’accesso agli italiani (loro che combattevano per tutti, dovevano conservarsi il
più possibile in buone condizioni, questo era giusto; così però agli italiani non
rimaneva che ridursi sempre più a branco informe). Siccome il bombarda-
mento nemico, se pure non molto nutrito, insisteva, e seguitava a fare morti, i
due si provarono al pari di altri ad allontanarsi dal paese e ad addentrarsi in
certe pieghe poco profonde del terreno, con l’intenzione di riposarvi seduti
sulla neve. Anche qualcuno degli autocarri italiani giunti fin qui - tutti invero-
similmente carichi di feriti e di congelati - entrò nell’una o nell’altra di tali val-
lecole; ma anche in queste piombarono dei colpi, per cui gli autocarri si trasfe-
rirono altrove, rischiando continuamente d’impantanarsi nella neve vergine.
«Seguitando così» commentava Paccoi «finiranno col consumare la poca ben-
zina che gli è rimasta.»
«È che gli autisti e i capi macchina non sanno più cosa fare» mormorò Am-
brogio.
Col trascorrere delle ore la sua situazione andava facendosi più difficile,
perché egli avvertiva un crescente bisogno di riposare, e non gli era possibile
all’aperto, a dieci e più gradi sotto zero. Ciononostante persisteva nel voler
rintracciare il suo gruppo d’artiglieria ; finirono con l’imbattersi in qualche
ufficiale e in un certo numero di soldati conosciuti - per lo più individui di
scarse risorse -da cui appresero che nel corso della marcia il gruppo si era dis-
solto al pari degli altri reparti. Degli uomini delle pattuglie comandate da Am-
brogio rintracciarono nel pomeriggio i due ‘lavativi’ Mazzoleni e Piantanida, i
quali si accompagnarono loro di buon grado; per quanto però si dessero poi
da fare, vagando tutti insieme nella folla alla ricerca, non riuscirono a rintrac-
ciarne altri.
Prima che venisse meno la luce i colpi nemici raffittirono per l’arrivo di
nuove armi pesanti. La massa italiana - almeno ventimila uomini - era sempre
concentrata nel ristretto spazio del villaggio e dei suoi immediati dintorni, e
tutti, in attesa di partire, seguitavano a non far niente per difendersi; in mezzo
alla folla i colpi di cannone e di mortaio russi esplodevano ora più frequenti,
falciandola come si trattasse non d’esseri umani, ma di canne o d’erba.
Ad Ambrogio e al suo gruppetto capitò di doversi buttare a terra al pari de-
gli altri quando i colpi piombavano a poca distanza da loro; un paio di volte
vennero a trovarsi dentro la rosa delle esplosioni, poterono tuttavia rialzarsi
indenni mentre intorno a loro c’era chi rimaneva immobile per sempre, o ur-
lava forsennatamente e si voltolava per avere avuta la carne straziata o tagliate
le ossa.
Dopo un po’ di tale esercizio, ufficiale e attendente finirono col ritrovarsi di
nuovo soli, senza più Mazzoleni e Piantanida. Ambrogio non insisté oltre nella
ricerca dei suoi, non se ne sentiva più fisicamente in grado, anche perché la
febbre - attivata forse da quella ginnastica - lo stava un po’ alla volta ripren-
dendo. Con crescente angustia di Paccoi, egli appariva via via sempre più
esausto, tanto che all’attendente capitava di chiedersi: “Se non dovesse più
riuscire a camminare, io cosa faccio?” e si guardava intorno tra la folla, ren-
dendosi con spavento conto che nessuno lo avrebbe aiutato. In quei momenti
gli veniva in mente una botola di legno da lui individuata il mattino fuori pae-
se, nei pressi d’un’isba bruciata. Come tutti egli era al corrente dell’esistenza
accanto a molte isbe di piccoli ripostigli sotterranei, aveva anche sentito dire
che spesso i civili russi vi si nascondevano al passaggio della guerra: chissà se
la botola da lui individuata conduceva appunto a uno di quei sotterranei? Dei
quali gli altri italiani poco si curavano, sia perché erano difficili da scoprire,
sia perché entrando in essi si sarebbero tagliati fuori dalla colonna. Egli si
chiedeva invece se non avrebbe potuto, in caso d’estrema necessità, ricoverar-
vi almeno per qualche ora l’ufficiale.
Il tempo passava, la colonna non accennava a ricostituirsi, le condizioni
d’Ambrogio peggioravano: come calamitato Paccoi finiva col tornare sempre
più spesso col pensiero alla botola.
Finché vi s’indirizzò insieme con l’ufficiale, dubbioso ora che si trattasse
davvero d’una botola; eccola là nella neve, a pochi metri dai resti dell’isba. Sul
posto non c’era quasi gente: dopo essersi guardato attorno, che nessuno
l’osservasse, Paccoi scostò con un piede la neve dal coperchio, quindi lo solle-
vò, scostò uno strato di paglia e alcune assicelle che v’erano sotto, e scoperse
l’inizio d’una scala a pioli. Mise un piede sul primo piolo e prese a discenderla.
Si ritrovò - in un lezzo che gl’impediva quasi di respirare - dentro una calda
celletta sotterranea, in cui stavano nascosti al buio dei civili russi che, mante-
nutisi in silenzio mentre egli discendeva, allorché posò i piedi tra loro comin-
ciarono a protestare tutti insieme. Venne finalmente accesa una candela e il
giovane poté vederci: i contadini - un vecchio, alcune donne, dei bambini -
stavano seduti o sdraiati su trapunte stese per terra: lo spazio - molto ristretto
- era a malapena sufficiente per loro, e tuttavia se non qui, egli non avrebbe
saputo dove ricoverare Ambrogio. Cercò di spiegare più a gesti che a parole
cosa intendeva fare, quindi tornò fuori, e ridiscese seguito dall’ufficiale, men-
tre i russi protestavano stavolta con vero furore: attenuarono le loro proteste
solo quando si resero conto che il soldato, dopo aver fatto sdraiare l’ufficiale
sul pavimento, stava per andarsene; una delle donne mise allora sotto la testa
del ferito, che si guardava intorno con occhi febbrili, un piccolo cuscino di lana
colorata.
«Da mangiare» disse Paccoi ai russi, indicando l’ufficiale: «Mangiare, cucc,
cucete» e faceva il gesto d’infilarsi qualcosa in bocca; poi alzò le spalle.
«Signor tenente» disse ad Ambrogio «io me ne sto qui fora, a fa la guardia,
che la colonna n’esse da partì senza di noi. Voi intanto ete da cercà de dormì,
anche con tutta ’sta puzza. M’ete inteso?»
Ambrogio gli fece un segno affermativo. «Grazie Paccoi» disse a bassa voce.
L’attendente risalì la scaletta.
CAPITOLO DODICESIMO
Era ormai sceso il buio, e su Arbusov - aggiungendosi ai mortai e ai cannoni
- avevano cominciato a lanciare le loro salve di razzi anche le ‘catiusce’, quan-
do Paccoi scorse il sottotenente Michele Tintori di Nova che stanchissimo e
meditativo vagava nel gran gelo in margine alla folla e ai colpi, con la testa ri-
tirata tra le spalle.
Il giorno prima Michele aveva combattuto duramente a Posniacof: come
mai fino allora aveva combattuto, ed era rimasto in vita per miracolo. Adesso
stava pensando (chi lo crederebbe?) al generale Cadorna. Per quel defunto
generale egli aveva sempre nutrito una sorta d’astio personale: attribuiva al
suo ‘arcaico’ modo di condurre la guerra con grandi scontri frontali rigida-
mente controllati (sostenuti tra l’altro dalla decimazione implacabile dei re-
parti in cui si verificavano cedimenti) il fatto che nell’altra guerra ci fossero
stati tanti morti, e suo padre fosse tornato a casa ridotto a un rudere. Ora però
si stava chiedendo se Cadorna non fosse in realtà un conoscitore incomparabi-
le del soldato italiano... Certo bisogna fare il possibile e l’impossibile, e ancora
molte volte il possibile e l’impossibile, per evitare la guerra; quando però uno
si trova comunque obbligato a farla con soldati come questi... Guarda, non
pochi s’erano ormai liberati anche del fucile!
Volgeva intorno con sofferenza i neri occhi intelligenti, e proprio dagli occhi
Paccoi lo riconobbe: ecco là il sottotenente che (“Quando è stato? Appena ieri
mattina!”) aveva tentato di fare l’adunata di tutti i reggimenti. Sapeva che si
trattava d’un compagno di scuola d’Ambrogio perché lo stesso Ambrogio
gliel’aveva riferito in seguito, nel corso della marcia. Andò istintivamente ver-
so di lui, facendogli con una mano segno di fermarsi. «Signor tenente, scusate.
Io sono l’attendente del tenente Ambrogio Riva. È vostro amico, vero?»
«Certo che è mio amico. Dove si trova adesso Riva?»
«È stato ferito.»
Gli spiegò dove e come e ogni cosa; l’altro gli chiese d’essere accompagnato
subito alla botola. Nella quale s’infilò dopo di lui che, prima d’aprirla, si era
ancora una volta guardato intorno, non ci fosse qualcuno nei pressi tentato di
seguirli. Trovarono Ambrogio pesantemente addormentato.
Eccolo qui - si disse con emozione Michele - il suo compagno di scuola, il
fratello di Alma. Era ferito e in grave rischio di perdere la vita. Nello scendere
la scaletta egli aveva per un istante fantasticato che se gli fosse riuscito di sal-
varlo, si sarebbe meritato per sempre la riconoscenza di Alma. “Che grande
occasione!...” Adesso però vedendo l’amico in quello stato, dentro quel puzzo,
col solito viso serio quasi fosse impegnato a fronteggiare i guai anche durante
il sonno, si rimproverò quel pensiero così fatuo.
«Lascialo stare, non svegliarlo» disse a Paccoi.
Il vecchio russo, spiegandosi con le mani, comunicò loro che gli avevano
fatto mangiare qualcosa: «Cartòsca... còscet... cartòsca.»
«Gli han fatto mangiare delle patate» disse Michele a Paccoi. Fece al vec-
chio un segno d’approvazione, poi, afferratagli la destra, gliela strinse. «Spas-
sìba (grazie)» disse e ripeté. E a Paccoi (ma soprattutto a sé stesso): «Però,
che tipi incredibili questi russi!»
Rimasero nella celletta sotterranea soltanto qualche minuto; Michele si
guardava attorno nella malferma luce della candela, mentre le donne e i bam-
bini guardavano lui e la pistola che aveva al cinturone. «Sono pigiati come
sardine» disse a Paccoi: «ci stanno a fatica, quasi non hanno spazio sufficiente
per distendersi tutti. Vieni, cerchiamo di scocciarli il meno possibile.»
Mentre risaliva la scaletta tornò a dirsi: “Però, che gente strana i russi.
Hanno fatto morire di fame, con incredibile spietatezza, milioni di loro com-
patrioti e, guarda, danno da mangiare a un nemico ferito.”
Una volta fuori, nel freddo feroce, chiese anzitutto a Paccoi se avesse già
stabilito dove dormire.
«No» gli rispose questi, «comunque non lontano da qui.»
«Io penso d’andare là, a quel grande pagliaio sopra il paese»,
Lo indicò: «Lo vedi? Là c’è anche un posto di medicazione. Se vuoi venirci
anche tu... Dormire all’aperto è uno scempio dappertutto, ma là uno può al-
meno mettersi un po’ di paglia addosso.»
La prospettiva della paglia tentò Paccoi; non gli andava tuttavia
d’allontanarsi da Ambrogio, e lo disse.
«Scherzi? Se si rifà la colonna, per prima cosa noi torniamo qui a prendere
il tuo tenente. Puoi dubitarne?» disse Michele, toccato dalla rara fedeltà
dell’altro. «Ma non credo che questa notte la colonna si riformerà.»
E mentre Paccoi, finalmente risolto, s’incamminava con lui verso il pagliaio:
«Il tenente Riva è stato mio compagno di collegio per molti anni, te l’ha detto?
E adesso lo è di università, ed è anche quasi mio compaesano. Ti par possibile
che io mi disinteressi di lui? Eh! Noi due domattina studieremo insieme cosa
fare.» E dopo alquanti passi: «Bisogna trovargli a ogni costo un posto su una
slitta. È quello che cercheremo di fare per prima cosa. Poi seguiremo la slitta
senza abbandonarla.»
***
III
CAPITOLO TREDICESIMO
Visti dalle postazioni russe gli italiani accerchiati non davano la sensazione
di disordine che era tanto evidente stando in mezzo a loro.
Dalla parete est della vallata il tenente Làricev (da noi lasciato due giorni
prima a Mescoff) li stava osservando attentamente col binocolo. Erano pros-
sime a calare le tenebre; a qualche passo da lui, ch’era inginocchiato dietro un
rudimentale schermo di neve, stavano accucciati alcuni uomini del suo ploto-
ne, tra cui il vicecomandante - un sergente gigantesco dal pastrano sfrangiato
per l’usura - e l’attendente Balandìn soprannominato ‘Ringhierina’. In una
balca alle loro spalle il battaglione, appena arrivato qui da Mescoff al seguito
d’una batteria di ‘catiusce’, attendeva che il buio fosse completo per entrare
nella vallata principale.
Dove gli italiani - andava constatando con inquietudine Làricev - erano
molto più numerosi che a Mescoff. Mentre i russi qui, secondo almeno egli
aveva appreso, non erano affatto numerosi. Il rapporto esatto delle forze lo si
sarebbe conosciuto tra poco, quando il maggiore comandante il battaglione
fosse rientrato dal comando di settore, dove s’era recato a prendere istruzioni.
Quale che fosse, i nemici erano molti di più... Fresco dell’esperienza fatta coi
bersaglieri a Mescoff, Làricev avvertiva uno straordinario turbamento. “Come
mai i comandi non hanno spostate qui tutte le truppe che stavano là?” si chie-
deva: “Soprattutto i carri armati? Dove diavolo potrebbero utilizzarli meglio di
qui?”
I nemici si presentavano riuniti in enormi masse scure dentro e intorno al
villaggio, ogni macchia costituita da migliaia e forse decine di migliaia di uo-
mini. Stavano soprattutto là, per il resto la vallata sembrava deserta o quasi.
Fatto davvero singolare - il tenente lo notò - tra i nemici si scorgevano pochis-
sime macchine, un numero decisamente sproporzionato.
“Cosa vorrà dire questo? Forse che si preparano ad attaccare?” si chiese,
mentre osservava preoccupato col binocolo. “Ma se sono stazionari da stanot-
te, a quanto ho sentito... Dove le avranno messe le macchine? È un mistero!”
Distingueva qualche reparto incolonnato, il che gli faceva supporre che i
nemici fossero tutti incolonnati, e solo la deficienza di luce gl’impedisse di
rendersene conto. Nell’insieme, così almeno a prima vista, non davano però la
minacciosa impressione d’efficienza che davano i petùchi, i bersaglieri, a Me-
scoff. “Questa non è una gran consolazione” rifletté Làricev. “Oltretutto qui ci
sono anche dei tedeschi, eccoli là, con le divise bianche e i carri armati pur-
troppo. I carri armati! E noi sul posto non ne abbiamo neppure uno. Brutto
affare.”
D’un tratto da una conca alle sue spalle una delle quattro ‘catiusce’ che il
battaglione aveva scortato, fece partire la sua prima raffica di razzi. Làricev ne
udì il sibilo soffiante, diverso sia da quello delle granate che delle bombe, e
fissò bramosamente la massa nemica, per vederne l’effetto. I sedici razzi da
130 millimetri si aprirono fulminei uno in prosieguo dell’altro proprio nel
mezzo dei nemici, sviluppando brillanti fiammate e schianti immani, che dap-
prima si succedettero, poi si fusero tra loro in una sorta di lungo boato.
«Bene» «Prendetela nel...» «Ancora» «Dai» fu il commento borbottato dai
soldati che stavano accanto a lui.
Questa fu all’incirca anche la reazione dell’ufficiale, il quale però si guardò
subito indietro e intorno, nell’istintiva ricerca di una via di scampo: “Perché
quelli adesso ci corrono addosso alla ricerca della ‘catiuscia’. Non staranno
certo là a farsi ammazzare”. C’era oltretutto il pericolo - si disse turbatissimo
l’ufficiale - che quelli non si fermassero tanto presto e avanzassero sulla pista
fino a scoprire quei loro connazionali massacrati con un colpo alla nuca. A un
paio di chilometri di lì, infatti, il suo battaglione aveva superato un tratto di
strada con ai bordi mucchi di cadaveri - diverse centinaia - di prigionieri ita-
liani, tutti con la nuca sfondata. Che sconcio carnaio! «Perché li avranno am-
mazzati a quel modo? Probabilmente per non distaccare degli uomini di scor-
ta» s’erano detti i soldati.
Anche la seconda, la terza e la quarta ‘catiuscia’ lanciarono i loro micidiali
sciami di razzi, che piombarono come il precedente tra gli uomini fermi sulla
neve.
Cosa diavolo succedeva? Làricev vide che i nemici ondeggiavano come erba,
e dove i colpi erano caduti si sbandavano ma per coagularsi di nuovo a poca
distanza. Sui maggiori coaguli piombarono le salve successive. “Ma cosa fan-
no? Perché non reagiscono? Buon per loro” finì col pensare il tenente “che le
‘catiusce’ hanno bisogno di un certo tempo per la ricarica, se no...” Dove infat-
ti erano esplosi i razzi rimanevano sulla neve tante piccole rose scure, formate
ciascuna da tre, quattro morti: eccole là, una in prosieguo dell’altra; perché
erano senza dubbio cadaveri quelle macchioline raggruppate, a fatica distin-
guibili anche col binocolo nella luce ormai minima.
“Che macello” si diceva ora sconcertato Làricev: “Che razza di macello. Ma
come mai questi italiani sono così diversi da quelli di Mescoff?”
Una batteria tedesca rispose alle ‘catiusce’ con alcune salve scalate in gittata
le quali, essendo prive d’osservazione, andarono a infrangersi senza effetto sui
pendii violacei a tergo del battaglione.
Gli italiani rimanevano là a farsi falciare dai colpi nemici, del tutto incapaci
di fare qualcosa per difendersi; finché poco alla volta le tenebre sottrassero
alla vista dell’ufficiale l’incredibile spettacolo.
***
Come al solito, dopo sceso il buio il freddo aumentò. Giù nella balca gli uo-
mini del battaglione russo (il primo del Millecentottantesimo reggimento fan-
teria, come sappiamo) sbarcati dagli autocarri sui quali - in marcia o in sosta -
erano stati esposti al freddo per l’intera giornata, rivolgevano ogni tanto agli
ufficiali i loro volti paonazzi: però senza aspettarsi alcunché, con fatalistica
rassegnazione; gli ufficiali attendevano sempre il ritorno del maggiore.
Perdurando l’attesa, il pachidermico capitano comandante la compagnia di
Làricev diede ordine che venissero distribuiti i viveri a secco, quindi salì
anch’egli, sbuffando, a dare un’occhiata dall’improvvisato posto
d’osservazione.
«Cos’è che si vede da qui?» domandò non appena arrivato.
«Adesso più niente» gli rispose Làricev. «Se non quel fuoco di traccianti
laggiù: le vedete, Semion Grigorievic? Quelle sono tedesche. Contrapposte ci
sono le traccianti dei nostri mitragliatori, le vedete là? Si riconoscono bene.»
«Ma qui, dico qui subito davanti a noi, in queste isbe sparse, nemici ce ne
sono?»
«Non ne ho visti. Stanno tutti ammassati nella zona del paese. Però sono
tanti, veramente tanti.»
«Questo non vuol dire» osservò il capitano. «Mentre tu eri qui ho parlato
con un tenente dei nostri che si trova sul posto da ieri: i nostri hanno fatto pa-
recchi prigionieri, e con poca fatica, perché c’è una quantità di sbandati, tutti
italiani beninteso, non tedeschi. Beh, dal primo all’ultimo i prigionieri concor-
dano nel dire che i loro reparti sono sfasciati.»
«Ah!» fece Làricev. «Adesso capisco... Prima, mentre li guardavo col bino-
colo, ho visto che c’era qualcosa che non andava. Ma perché sfasciati?»
«Hanno dovuto lasciare il Don in gran fretta, senza fare il rifornimento di
benzina. Così dicono i prigionieri.»
«Che fretta, eh, Semion Grigorievic?»
Il corpacciuto capitano sorrise. «La paura di restare insaccati...» Annuì:
«Siccome si tratta di truppe motorizzate, mancandogli la benzina hanno dovu-
to abbandonare tutto l’armamento, ogni cosa.» «Dunque sono senza benzina.
Ecco perché non hanno automezzi o quasi. Questo l’ho visto bene.»
«Sì, eh? In pratica gli italiani vanno dietro ai tedeschi come pecore, per pas-
sare dove quelli aprono la strada. Perché i tedeschi la benzina ce l’hanno, e se
gli finisce, arrivano i loro aerei a buttargliela coi paracadute: gliel’hanno but-
tata anche oggi. A questo riguardo non dobbiamo farci illusioni.» Il capitano
rifletté annuendo. «Così l’hai visto anche tu, eh, che gli italiani sono senza au-
tomezzi? Ecco, questa è una conferma. Bene.»
Tentò, per qualche minuto, di studiare a sua volta la situazione scrutando in
silenzio il buio davanti a sé; a qualche passo dai due ufficiali il fante Sucorùcov
(quello dei pesci secchi) resosi conto che giù in basso, alla compagnia, si sta-
vano distribuendo i viveri, cominciò a dimenarsi. «Le razioni a secco...» tentò,
rivolto al sergente: «Fiodor Cusmic, alla compagnia stanno distribuendo le
razioni a secco.» Il sergente non gli badò.
Le ‘catiusce’ lanciarono ancora nelle tenebre qualche sciame di razzi, poi
cessarono il tiro per non correre il rischio di sprecare munizioni. Un po’ più a
lungo durò il fuoco saltuario di alcuni mortai russi che sparavano da sud, na-
scosti da quei rilievi. Mentre le esplosioni dei razzi erano dorate e luminosis-
sime, e proiettavano all’intorno innumerevoli sferette di materia incandescen-
te, le esplosioni dei mortai richiamavano piuttosto l’idea di piccole belve ros-
sastre che si contorcessero fulminee.
«Beh, io torno giù» disse il capitano. «Tu seguita a fare buona guardia. Non
appena però vedi il battaglione mettersi in marcia, raggiungici coi tuoi quattro
scagnozzi.» Guardò Sucorùcov, Ringhierina e gli altri, che stavano accucciati
nella neve a contatto di gomito.
«D’accordo, Semion Grigorievic» gli rispose con un mezzo sorriso il tenen-
te.
«Sta attento: io son convinto che finiremo tutti come sardine nelle isbe qui
sotto.» Rifletté: «Non vedo altra soluzione: una notte all’aperto, con questo
freddo, ridurrebbe troppo l’efficienza del battaglione. Del resto, inguaiati co-
me sono, gli italiani non ci daranno fastidio. Tu intanto cerca, se puoi, di ren-
derti conto se e dove - qui davanti a noi - hanno imbastita una linea, oppure se
non hanno imbastito niente: dovresti capirlo dal fuoco in partenza delle loro
armi automatiche.»
«Sì.»
«Bene, io vado.» E s’avviò.
Làricev lo vide scendere a passi pesanti il pendio: il capitano aveva una fi-
gura particolarmente inelegante, atticciata, la testa sotto il berretto a pelo si-
mile a una zucca costoluta. Non era cattivo né buono: del tutto indifferente
alla sofferenza altrui, pensò Làricev; ecco era un uomo che davanti alla soffe-
renza degli altri non provava pena né piacere. “Questo ad ogni modo” rifletté il
tenente, ricordando certe sue esperienze di lager, “che la sofferenza altrui non
gli faccia piacere, è già una buona cosa.”
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
***
Stavano le guardie russe suddivise in due nuclei davanti alle isbe: tre appo-
state insieme con l’ufficiale sul bordo della strada, dietro un cumulo di sassi
innevati, altre quattro nascoste in una sorta di pollaio. Il nemico era totalmen-
te invisibile, non era lontano però, tanto che a volte ne giungeva, seppure
smorzata, qualche voce, forse lamenti di feriti.
Ogni tanto si vedevano partire da determinati punti ai margini del paese
brevi file di pallottole traccianti tedesche; a volte traccianti russe le incrocia-
vano; nel settore sud un’isba, colpita forse da uno degli ultimi razzi, ardeva da
tempo solitaria. “Che somma incredibile di sofferenze anche solo in questa
sperduta località dal nome idiota di Arbusov (anguria)” considerò l’ex pittore
Làricev. Ma subito cercò d’interrompersi: non doveva pensare a simili “grandi
cose” che - come sapeva bene - finivano sempre con l’estenuargli la mente.
Il fatto è ch’era un artista, dunque inevitabilmente ricettivo e sensibile...
Tentennò la testa: “Artista? Non sono più un artista, con l’arte io ho chiuso
ormai. Cosa potrei dipingere del resto? Busti di Stalin? O - su ordinazione -
operai e colcosiani con la faccia ebete e felice?” Che ambiente inconciliabile
con l’arte s’era fatto il suo, la grande madre Russia! “Certo gli imbrattatele e i
pennaioli leccapiedi oggi prosperano, anzi dopo i papaveri del regime sono
loro a beccarsi gli stipendi più alti. Ma chi lavora più dei veri, degli autentici
artisti? Tutti i maggiori li hanno uccisi i comunisti, se no si sono suicidati...”
Gli si prospettò alla mente una sequela di figure e di nomi: Gorchi, Maiaco-
schi, Jesenin, Babel, Pilniach, Gumilev, Mandelstam - e poi giù giù altri meno
noti, fino ad alcuni affatto sconosciuti ch’egli aveva visto spegnersi nei lager,
incapaci di resistere alla vita tremenda che vi si conduceva. E che orge
d’ipocrisia, a pensarci, le versioni ch’erano state date di quelle morti: non delle
morti dei poveracci ovviamente, ma dei maggiori, conosciuti anche all’estero...
A Gorchi dopo averlo ucciso i comunisti avevano addirittura intitolata una
grande città. S’era mai vista sotto il cielo un’ipocrisia paragonabile? Ma per-
ché? Perché?
Sui nomi dei poveracci era invece sceso il silenzio, per sempre: nessuno
avrebbe mai più sentito parlare di loro... Ne ricordava due in particolare: la
morte di quei miseri compagni di lager era stata per lui una perdita crudele,
per lui che sempre - ma specialmente da deportato - aveva sentito vivo il biso-
gno dell’incontro con gli altri artisti: delle discussioni, critiche, consensi, dis-
sensi, insomma degli scambi d’idee con loro. Lui era fatto così, al riguardo non
aveva scampo... Ma basta. Làricev inspirò profondamente l’aria che bruciava:
era già troppo stanco, non doveva - si ripeté - estenuarsi con queste riflessioni.
“Lascia perdere, non è il momento per pensare.”
Seduto su un ceppo al suo fianco, il contadino Sucorùcov si toglieva ogni
tanto di tasca un brandello delle aringhe ricevute poco prima con la razione,
se lo ficcava in bocca e lo masticava lentamente; alla fine ne sputava come
d’abitudine i residuati sulla neve, che cominciò così a cospargersi di macchio-
line scure. Era più che mai raffreddato Sucorùcov, per cui le sue mani prive di
fazzoletto erano di continuo alle prese col naso dalle narici tagliuzzate dal ge-
lo. All’altro fianco di Làricev Ringhierina - come sempre quand’era teso - face-
va ogni poco clich con la sua dentiera di ferro stampato. “È una vergogna”
pensò l’ufficiale “che da noi non si fabbrichino dentiere anche per la gente del
popolo, che le fabbrichino solo per... Basta però, adesso davvero basta. Io non
devo più pensare. Devo semplicemente attendere che quest’ora passi, poi per
tre ore - tre ore di fila! - potrò starmene nell’isba al caldo, potrò dormire
anch’io.”
Ma si fa in fretta a dire “Non devo più pensare”; bisognerebbe esserne capa-
ci. E l’ex pittore Làricev non ne era capace. Adesso, per esempio, gli tornava in
mente l’inizio dei suoi guai, quella infinite volte rimuginata condanna a dieci
anni di lavoro forzato (la ‘decina’) che gli aveva stroncata la vita. “Ecco, se c’è
una cosa a cui non devo pensare” si avvertì “è precisamente questa”. Intanto ci
pensava. Spionaggio a favore della Francia, articolo 98, lui! Avevano imputato
di spionaggio lui! Si poteva immaginare niente di più assurdo? Sebbene sapes-
se che tutti i detenuti politici nei lager erano innocenti, Làricev non riusciva
ancor oggi a ingoiare l’indignazione per la propria vicenda personale. Le sole
prove che avevano portato contro di lui erano consistite in alcune schede
compilate di sua mano per la richiesta di libri in una biblioteca: si trattava di
libri francesi. “E con questo? Sono pittore, no? Erano dei testi di pittura, o
comunque d’arte. Cos’avrei dovuto chiedere in biblioteca io? Forse manuali
per l’estrazione del carbone?” Così, senza una ragione al mondo, gli avevano
inflitto dieci anni. Dieci anni! Gliene rimanevano da scontare ancora sei, col
rischio, oltre tutto, di finire in una di quelle zone come la Colima, da cui nes-
suno o quasi fa ritorno. Certo adesso c’era la speranza che, se si fosse compor-
tato bene in guerra...
Come si sentiva offeso e umiliato però. Quando alla fine del turno di un’ora
la squadra lasciò gli appostamenti glaciali per entrare nella più vicina isba, il
tenente Làricev non era ancora riuscito a smettere di rimuginare il proprio
duro caso.
Mangiò con avidità, allo stesso modo dei suoi uomini, una parte dei viveri a
secco; bevve il té bollente che il suo attendente Ringhierina - da lui inviato
apposta in casa con dieci minuti d’anticipo - aveva preparato per tutti, poi
s’allungò a dormire con gli altri sul pavimento di terra battuta, nello spazio
lasciato libero dalla squadra ch’era uscita per il secondo turno.
CAPITOLO QUINDICESIMO
CAPITOLO SEDICESIMO
Dov’era quella specie di varco, di scanalatura nella paglia, lungo la quale era
salito già due volte? Dove accidenti era? Non gli riusciva più di trovarla. Per-
corse inutilmente un paio di volte avanti e indietro il lato nord del pagliaio,
esposto alla brezza mortalmente gelida; il lato sud era impedito per l’intera
lunghezza dai corpi giacenti. Si provò a strappare la paglia dal fianco del cu-
mulo, era però talmente compressa e gelata che nei guantoni di tela gliene ri-
manevano solo miseri ciuffi. Si sentiva proprio sfinito: “Basta, io devo ripren-
dere fiato” risolse “devo riposare almeno... almeno una decina di minuti,
poi...” Poi cosa? Di nuovo non riusciva a connettere bene: sedette sulla neve,
con la schiena appoggiata al pagliaio. Quell’aria gelida, quasi a volute, come
uno strano vortice che non cessava di risucchiarlo...
Forse quell’aria proveniva - forse - da una porta spalancata verso l’esterno...
Chi era stato così idiota da lasciare la porta aperta, causando questa terribile
corrente? In quest’atrio d’albergo di montagna! L’aria veniva certo da fuori,
dalla montagna, ed entrava a vortici per la porta spalancata dell’albergo.
“Chiudete, disgraziati. Chiudete !” Eh, aveva un bel dire chiudete, lì nell’atrio
non c’era nessuno, nessuno lo sentiva. “Potrei provare a dormire qui sul pavi-
mento, contro la parete... Però, com’è gelido questo pavimento, sembra di
ghiaccio. La porta, disgraziati, la por...” Michele finì con l’assopirsi, seduto
contro il pagliaio sul ghiaccio e la neve sporca, dal lato esposto al vento, dove
non c’era nessuno. Fece un sonno di forse mezz’ora, tutto incubi che gli este-
nuarono ulteriore mente il cervello.
***
Quando, una volta desto, si levò in piedi, non riconobbe il luogo, né ricordò
in che modo fosse capitato lì. Del resto non gli importava; che gl’importava
era soltanto di ritrovare il suo compagno di collegio Ambrogio Riva. Era sicuro
d’averlo visto giù in paese la sera prima: certo in questo albergo di montagna
loro ci erano venuti col collegio per sciare... Macché albergo. Dov’era
l’albergo? E macché collegio. Cosa stava dicendo? Non c’erano alberghi né
compagni di collegio qui. E quanto a sciare... Beh, forse sì e forse no: a questo
riguardo le cose non erano chiare. «Niente affatto chiare» si disse ad alta voce.
«Niente affatto» gridò. L’Ambrogio Riva però, quello c’entrava, e come, in
questa storia ingarbugliata. Michele non capiva bene in che modo, ma
c’entrava: al riguardo non aveva dubbi.
«Ambrogio» si provò a chiamarlo ad alta voce. Ripeté il nome. Poi si mise a
urlare: «Ambroogioo Riiva. Ambrooogiooo Riiiva.»
Non gli rispose nessuno, nessuno si faceva vivo. Che freddo intanto, che
freddo spaventoso; da morirne. Michele si mosse, cominciò a camminare, ol-
tre tutto giù nella valle s’intravedevano delle case nella neve. Il villaggio che
stava sotto l’albergo... doveva trattarsi di Madesimo.
Forse era Madesimo, e forse no... Comunque l’Ambrogio quasi certamente
era là, in una di quelle, case. (“Al caldo s’è rintanato, al caldo quel ‘dritto’...”)
Disceso passo passo il pendio, l’ufficiale arrivò alla strada ghiacciata che
percorreva il fondo valle; anche qui non c’era un’anima: dopo essersi guardato
attorno, imboccò la strada in direzione di est, verso i russi. Era armato della
sola pistola, il suo moschetto essendo rimasto contro il pagliaio. Alla prima
casetta cui giunse si provò a chiamare di nuovo «Ambroogioo... Ambrooo-
giooo...» Qui non c’era, a quanto pareva, né Ambrogio né alcun altro, nessuno.
«Che ti pigli un accidente» mormorò all’indirizzo dell’ex compagno di scuola,
e andò oltre.
Certo era strano, e non quadrava, il fatto che quella casa di Madesimo aves-
se il tetto di paglia... Ma lui non aveva tempo né voglia per riflettere. Le case,
notò, in questa zona erano molto sparse, qualcuna piuttosto lontana dalla
strada: là davanti però ce n’erano due vicine alla strada e vicine tra loro; e là
Michele ritenne per certo - o quasi - che avrebbe trovato il suo compagno Am-
brogio. Andò dunque avanti, sogguardando le due case con occhi lucidi; giun-
to a portata di voce ricominciò a chiamare: «Ambroogioo. Ambrooogiooo. Ri-
spoondiii.»
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Con le armi puntate e il cuore che scalciava nel petto, il tenente Làricev e gli
altri russi di vedetta seguivano ogni sua mossa. «Vivo» ordinò a denti stretti
l’ufficiale: «Questo dobbiamo prenderlo vivo.» Guardò di sbieco il caporale
Nichiténco, contratto al suo fianco dietro il mucchio di sassi: «Vitia, corri da
quei quattro» indicò col mento il pollaio «e ripetigli che non devono sparare.
Digli che lo prendiamo noi. Loro stiano pronti a intervenire solo se dietro que-
sto ne arrivano altri. Va e torna qui subito.»
Il caporale sgattaiolò via; nel giro di non molti secondi era nuovamente ap-
postato dietro il mucchio di sassi innevati, ansante; dell’italiano in arrivo
adesso si sentiva, oltre la voce, anche il trepestio delle scarpe sulla neve.
Quando fu all’altezza della postazione Nichiténco, Ringhierina e Sucorùcov gli
balzarono addosso tutti insieme, mentre il tenente Làricev, scattato fuori con
loro dal riparo, gli puntava contro la pistola: «Fa silenzio. Silenzio» gl’intimò
in russo, con voce forzata. Michele non capiva: istintivamente fece per tirarsi
indietro e sottrarsi, ma fu saldamente trattenuto: «Ehi, che scherzo è questo?
Disgraziati» protestò sempre senza capire, la mente tuttora confusa.
Gli faceva un gran male quello che gli aveva afferrato il braccio sinistro, Su-
corùcov, il quale senza ragione stringeva con tutta la sua forza e tendeva a tor-
cergli il braccio: «Disgraziato» urlò Michele: «Disgra...» Fece per colpirlo con
una testata, ma il caporale Nichiténco fu pronto ad afferrargli il mento e la
bocca con una mano. Il sottotenente così preso mugolava e si divincolava con
ogni sua forza. «Silenzio» gli ordinò di nuovo Làricev in russo «fa silenzio.»
Mentre gli altri due lo tenevano, il caporale Nichiténco gli sfilò sveltamente la
sciarpa dal collo, e con quella lo imbavagliò.
«Dai, portiamolo in casa» ordinò Làricev, abbassando la propria arma. Il
prigioniero, che seguitava a divincolarsi con furore, fu portato quasi di peso
dentro l’isba. Dove venne accesa una lanterna che illuminò gli uomini sdraiati
dappertutto sul pavimento; Làricev ne urtò col piede alcuni e li fece spostare
così da avere un po’ di spazio libero intorno a un piccolo tavolo che stava con-
tro una parete. Il prigioniero fu privato del cinturone con la pistola e portato
davanti al tavolo: qui gli tolsero il bavaglio e gli lasciarono libere anche le
braccia. Ai suoi fianchi rimanevano, pronti ad afferrarlo di nuovo, Ringhierina
e Sucorùcov.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
CAPITOLO VENTESIMO
Entrò nell’isba uno degli uomini di guardia a destare quelli del turno suc-
cessivo. Costoro appena alzati scoprirono il prigioniero e gli si assieparono
intorno, esaminandone con bramosia il cappotto a pelliccia, le scarpe. «Scias-
sì? (l’orologio?)» chiese uno; siccome il Tintori non rispondeva, il russo lo af-
ferrò con una mano per i capelli e un orecchione cominciò a scuoterlo dura-
mente: «Dico a te, svegliati, carogna.» Làricev però intervenne e con poche
parole lo fece desistere: «È uno che ha informazioni forse importanti» disse
«non toccatelo.» Gli occhi dei soldati si volsero a lui con meraviglia. «Siamo
stati fortunati» disse l’ufficiale, e questo lo pensava davvero.
Ebbe luogo il cambio della guardia. Gli uomini smontati entrarono in grup-
po nell’isba, commentando la cattura. Làricev ordinò che nessuno
s’avvicinasse al prigioniero. Cui fece dare da Ringhierina una mezza gavetta di
tè e una trancia di pane nerastro. Michele, che digiunava da giorni, si mise a
mangiare lentamente (chissà quando avrebbe avuto occasione di mangiare
ancora...) sforzandosi di non dare a vedere la propria fame. L’ufficiale russo gli
ordinò quindi, con voce severa, di sdraiarsi per terra contro il muro.
«Ogni tanto riprende a vaneggiare» spiegò ai suoi: «Non possiamo mandar-
lo alla compagnia in questo stato: potrebbe cercare di scappare sulla neve e
costringerci a... Mentre a noi interessa vivo.»
Si rivolse anche al prigioniero: «Devi finire di vuotare il sacco, hai capito?
Devi dirmi tutto quello che sai su quelle truppe tedesche che stanno affluendo
a Millerovo, tutto.» Gli ripete queste parole in francese: «Voi m’avete detto
che forze fresche tedesche stanno affluendo a Millerovo. Capito? I tedeschi a
Millerovo. Non dimenticatelo.»
Michele non rispose. Dopo che tutti i russi, ufficiale compreso, si furono
sdraiati (salvo uno della squadra di turno che, incaricato di fargli la guardia,
s’era seduto sullo sgabello) cercò di spiegarsi ciò che gli stava succedendo.
“Cosa gli ha preso a questo qui? Fa sul serio o è tutta una finta? Perché però
dovrebbe fingere? Già, e perché dovrebbe fare sul serio? È una cosa strana,
non spiegabile... In che pasticcio mi vuole imbarcare? ” Da Millerovo lui era
passato durante l’estate, nel corso dell’avanzata: quelle enormi fabbriche me-
scolate a distese di casupole col tetto di paglia... Ma cosa c’entrava adesso Mil-
lerovo? Intanto però i nemici sembravano lasciarlo in pace, nessuno lo angu-
stiava più, poteva (per quanto tempo?) godere questo buon caldo rigeneratore.
“Ecco, per prima cosa io devo assorbire quanto più possibile caldo, disten-
dermi i nervi, riposare la mente. Soprattutto devo riposare la mente. Poi - non
subito, ma quando mi sarò un po’ ripreso - farò il punto della situazione: e de-
vo farlo bene, perché è la mia pelle che ne va di mezzo stavolta.”
La stufa, rifornita da poco, borbottava sommessa. Quel borbottio gli ricor-
dava la vecchia stufa a legna della sua casa di Nova. Nova, suo padre! No, a
suo padre adesso non doveva pensare, se no addio distensione. Alla casa, beh,
a quella poteva anche pensare, al cortiletto magari, col ciuffo dei bambù, cosi
verdi sotto il sole... Da fuori i rumori, compreso ogni tanto qualche sparo,
giungevano come ovattati, quasi provenissero da molto lontano: “Sì da molto
lontano, da molto lontano...” si ripeteva mentalmente il prigioniero, in una
sorta d’inconscio accordo col blando borbottio della stufa. Improvvisamente si
riscosse: “Signore Iddio, in che tremenda situazione mi trovo... Angelo custo-
de, aiutami tu: da che sono al mondo mai ho avuto bisogno del tuo aiuto come
in questo momento! E anche del tuo san Michele, capo degli angeli fedeli, di
cui porto il nome. Mio padre non me l’ha messo a caso il tuo nome, lo sai: ma
come potrò partecipare alla battaglia della fedeltà se adesso... muoio? Quando
quel pover’uomo di mio padre m’ha dato il tuo nome...” Suo padre! No, a suo
padre non doveva pensare. Doveva rilassarsi invece. Ecco, doveva rilassarsi, la
cosa più importante per lui era questa: rilassarsi, riposare la mente, distende-
re i nervi. I pochi rumori esterni seguitavano ad arrivargli come da molto lon-
tano, da molto lontano, da molto lont... Si trovava sdraiato al caldo, dopo tre
notti e tre giorni di marcia e strapazzi nel gelo feroce: senza rendersene conto
scivolò nel sonno.
Fu svegliato quando ebbe inizio il successivo turno di guardia del tenente
Làricev. Costui gli fece stavolta legare senza tanti complimenti le mani dietro
la schiena, e lo spedì al comando di compagnia, accompagnato da un sibillino
biglietto che lo segnalava ‘probabile detentore d’importanti informazioni rela-
tive al settore di Millerovo’. Ragion per cui il pachidermico capitano, dopo
avergli tolto l’orologio e rivolte invano alcune domande in russo e poi - tramite
un interprete davvero inadeguato - in tedesco, se ne liberò inviandolo al mag-
giore, il quale senza perderci tempo lo spedì più indietro ancora. Sempre con
l’avvertimento che fosse tenuto in vita perché probabile detentore
d’importanti informazioni relative a un altro settore del fronte. Il che rappre-
sentò in conclusione la sua salvezza.
CAPITOLO VENTUNESIMO
Alcune ore più tardi, quando ormai mancava poco alla luce (in quella sta-
gione il buio notturno durava, come s’è detto, sedici ore) il tenente Làricev fu
svegliato dal sergente entrato con urgenza nell’isba: «Venite subito compagno
tenente. C’è qualcosa che non va: forse gli italiani si preparano a tagliare la
corda.»
Balzato in piedi Làricev s’infilò frettolosamente il pastrano che s’era tenuto
addosso a mo’ di coperta, e afferrata la pistola e il binocolo si precipitò fuori,
insieme col sottufficiale.
Nella luce appena incipiente, violacea, s’intravedevano in effetti, là in Arbu-
sov, i nemici adunarsi: non con molto ordine si sarebbe detto. E forse non per
mettersi in marcia, infatti non sembravano tanto incolonnarsi, quanto piutto-
sto raggrupparsi in grosse schiere. Làricev li osservò attentamente col binoco-
lo nella scarsa luce, mentre un crescente turbamento gl’invadeva le viscere.
«Fiodor Cusmic, dà l’allarme, sveglia tutti e fa subito schierare il plotone»
ordinò al sergente, «e dì a Macàrov e Calàtov...» s’interruppe: «Stanno tutt’e
due dentro quest’isba, è vero?»
«Sì, in questa.»
«Chiama per prima cosa quei due, forza: digli che vengano qui da me di
corsa.»
Il sergente si mosse, corposo nel lungo pastrano, affrettandosi a eseguire gli
ordini. I due spioni uscirono subito dall’isba: Calàtov teneva su una spalla la
pelliccia tolta all’italiano ucciso.
«Voi due» ordinò Làricev «filate al gran galoppo dal capitano. Più in fretta
che potete, s’intende senza farvi vedere dal nemico. Direte al capitano: primo
che gli italiani si stanno ammassando, e a mio giudizio intendono attaccarci.
Capito? Il nemico si sta ammassando per attaccare. Secondo dovete chiedergli
che ordini ha per il nostro plotone, e - terzo - dovete tornare qui immediata-
mente con gli ordini: immediatamente, anche questo è un ordine tassativo.»
I due sembravano fin troppo impazienti di filar via. «Un momento» li fermò
Làricev: «Vi rendete conto che la sorte del plotone, la vita di tutti, è nelle vo-
stre mani?»
«Certo, compagno tenente» rispose il caporale Macàrov.
L’ufficiale avrebbe preferito inviare qualcuno degli uomini di cui più si fida-
va, ma tant’è, non aveva scampo: “Come staffette il capitano m’ha dato questi
due maiali, che chissà se torneranno davvero indietro...” «Vi do dieci minuti
per andare e tornare» disse. «Capito? Entro dieci minuti dovete in ogni caso
essere qui di nuovo. Via.»
Calàtov fece per avviarsi. «Un momento, scusate» obiettò invece Macàrov:
«Dieci minuti se il compagno capitano ci dà subito la risposta. Ma in caso di-
verso?»
“Guarda, cerca di crearsi un alibi per non tornare” pensò Làricev. Cionono-
stante era costretto a tenerselo buono. «Di voi mi fido» disse. «So che tornere-
te qui appena possibile. Del resto in caso di ritardo ingiustificato dovrete poi
fare i conti con me, anzi con tutti noi. Sapete che non scherzo. Forza, non per-
dete altro tempo, via.»
I due non se lo fecero più ripetere, s’avviarono quasi di corsa, uno dietro
l’altro, in direzione della compagnia.
L’ufficiale tornò a puntare il binocolo sul nemico; intanto gli uomini del
plotone andavano schierandosi in gran fretta all’interno e all’esterno delle due
isbe; l’unica mitragliatrice venne piazzata a una finestra.
Quelli appostati con Làricev accanto alla strada si voltavano ogni tanto a
guardare Macàrov e Calàtov, e una volta spariti i due, a scrutare le isbe della
compagnia. Specie Ringhierina, il quale: “Speriamo che il capitano ci mandi in
tempo l’ordine di rientrare” si ripeteva con angoscia: “Se no presto qui saremo
tra due fuochi”. Làricev intuiva questo pensiero in Ringhierina e negli altri,
era anche il suo pensiero fisso, ma si dava insieme la risposta: “L’ordine di
metterci qui il capitano l’ha ricevuto dal maggiore: per toglierci dall’imbroglio
dovrebbe modificare di sua iniziativa quell’ordine, e non lo farà.”
Mentr’era in tali pensamenti le armi pesanti russe piazzate oltre i bordi del-
la vallata cominciarono a sparare, riprendendo il massacro interrotto al calar
delle tenebre. Furono subito della partita anche le ‘catiusce’. Si vedevano i loro
razzi aprirsi in paese uno in prosieguo dell’altro tra la folla nemica: facevano
gli uomini a pezzi, costringendo i circostanti a buttarsi freneticamente a terra,
per poi fuggire da ogni parte.
«Ecco, così, così» approvavano i soldati del plotone: «Ecco, molto bene,
molto bene. Che gli passi la voglia di venire all’assalto, a quei figli di vacca.»
Ciononostante le formazioni italiane da poco messe insieme cominciarono a
muoversi: lasciavano a raggera il paese e i suoi dintorni avanzando da tutte le
parti nella neve; sembravano intenzionate a impadronirsi dell’intera vallata.
Senza dubbio per sottrarsi a quella sorta di tragico tiro a segno, in cui quasi
non cadeva colpo che non facesse morti.
Làricev notò che ad attaccare non erano tutti gli italiani presenti in paese, e
forse neppure la maggioranza, almeno per ora. Quelli però che si erano mossi
erano pur sempre molti... Là verso sud essi stavano già, in un subisso di fuci-
leria, raggiungendo le prime postazioni russe nella neve: ecco, si mettevano a
correre e a gridare, attaccavano alla baionetta; nel generale frastuono giunge-
va fin qui una debole eco del loro strano grido di guerra «Savoia! Savoia!».
“Che guaio” si diceva sempre più turbato Làricev “che guaio! Tra poco tocche-
rà a noi.” Qua e là, frammisti alle formazioni italiane, il binocolo gli consentiva
d’individuare piccoli nuclei di soldati tedeschi in divisa bianca, con armi
d’accompagnamento come mitragliere o mortai. “Guarda, appoggiano
l’attacco degli italiani” pensava: “Dove c’è da uccidere i tedeschi non possono
mancare”. E intanto dalla compagnia non giungeva alcun ordine.
Ma ormai non poteva più interessarsi all’insieme della battaglia, doveva
concentrare ogni attenzione sul proprio limitato settore, perché gli italiani ve-
nivano avanti numerosi anche nel fondo valle; le loro pallottole - non molte
per ora, e come d’assaggio - fischiavano nell’aria, alcune colpirono con urti
simili a frustate le facciate delle due isbe, infransero qualche vetro. A un tratto
dalla finestra la mitragliatrice del plotone aprì strepitosamente il fuoco; i sol-
dati si diedero a sparare coi fucili; quasi nello stesso tempo, duecento metri
più indietro, aprirono il fuoco le armi della compagnia, poi quelle dell’intero
battaglione: non poche pallottole schioccavano adesso anche contro il retro
delle isbe. Intorno alle quali piombarono due, tre, quattro colpi di mortaio
tedesco, intronando la testa di tutti gli uomini appostati; gli italiani là davanti
s’erano messi a passò di corsa, alcuni cadevano - molti speriamo - ma gli altri
seguitavano a venire avanti urlando e sparando coi fucili e i moschetti. Le di-
fese coperte di neve del plotone - in realtà più parvenza di difese che difese
reali - furono in breve crivellate, molti degli uomini colpiti, la mitragliatrice
nell’isba cessò di sparare, i suoi serventi dovevano essere stati uccisi. A un
passo dall’ufficiale, Ringhierina lanciò un grido: Làricev l’udì malgrado il cla-
more assordante di un mitragliatore all’altro suo fianco, e voltò la testa: vide
l’attendente abbracciato ai sassi, con la fronte insanguinata. All’interno della
seconda isba venne colpito il gigantesco sergente dal pastrano sfrangiato; gli
uomini che stavano con lui si precipitarono allora fuori dell’edificio e si misero
a correre come pazzi verso la compagnia, ma furono investiti contempora-
neamente dal fuoco nemico e da quello della compagnia.
Dei rimasti in vita dentro e fuori le isbe più d’uno si raggomitolò contro il
terreno determinato a darsi prigioniero. Gli italiani erano ormai a pochi metri,
urlavano furibondi il loro grido: «Savoia! Savoia!», tra pochi secondi sarebbe-
ro entrati nelle difese del plotone. Nella postazione sulla strada il caporale Ni-
chiténco era adesso, con Làricev, l’unico sopravvissuto: strappò improvvisa-
mente il mitragliatore a tamburo dalle mani del mitragliere morto, e gridando:
«Compagno tenente, via, via!» si lanciò in direzione della compagnia. Inebeti-
to, terrorizzato, l’ufficiale lo seguì, senza più riuscire in alcun modo a domi-
narsi.
«Qui» urlò Nichiténco in mezzo al turbinio dei colpi «qui», ed effettuati al-
cuni grandi balzi piombò dietro l’isba più vicina, seguito dal tenente. Scorsero
per un attimo, alle loro spalle, alcuni nemici che, con le baionette inastate,
entravano urlando nelle postazioni.
Uno dei nemici però, il primo, che precedeva gli altri di qualche passo, non
urlava, rideva: Làricev lo vide solo per una frazione di secondo, ma ne fu sicu-
ro, tanto gli rimase impresso il suo viso: che era roseo, imberbe, proprio senza
traccia di barba, e con gli occhi azzurri, letteralmente una faccia da bambina:
non urlava, rideva, sembrava si divertisse. Di corporatura mingherlina il ne-
mico ridente - ma questo Làricev non fece in tempo a notarlo - aveva sulle
maniche del cappotto gradi dorati da sottufficiale.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
I due russi non rimasero al riparo dell’isba più di qualche istante: sorpassa-
to con un salto il cadavere incrostato di brina del falegname siciliano (Làricev
ricordò fuggevolmente le fotografie trovategli indosso, quella gente
dall’aspetto dignitoso... quando le aveva esaminate quelle foto, quanto tempo
fa? era stato nel corso di quella stessa notte, incredibile! il portafogli del morto
era tuttora nella sua tasca...) i due si lanciarono in direzione della compagnia.
Passarono tra i corpi senza vita dei compagni che avevano tentata la fuga pri-
ma di loro; per evitare i colpi Nichiténco zigzagava furiosamente e Làricev si
sforzava d’imitarlo: «Uh» fece a un tratto il caporale, e: «Uh!» gridò più forte
dopo qualche passo. C’era - a pochi metri dai due e forse a trenta dall’isba -
una fossa a imbuto nel terreno innevato; più che entrarvi Nichiténco vi preci-
pitò; reggeva sempre il mitragliatore a tamburo: lo depose, con evidente diffi-
coltà, sulla neve, poi si rannicchiò in sé stesso. «Per me è finita» mormorò.
«Cosa dici?» esclamò Làricev ansando.
«M’hanno beccato qui, e...» sussurrò Nichiténco, e fece l’atto di vomitare:
dalla bocca gli uscì un po’ di sangue. Dopo una pausa: «Io a Voroscilovgrad
non ci arrivo più» sussurrò.
Làricev era fuori di sé per il terrore. «No! No!» si mise a gridare: «Vitia,
non è vero, non ti hanno colpito, nooo!» Si alzò in piedi per correre via, non
importa dove, ma i fischi delle pallottole tutt’intorno lo fecero ripiombare nel-
la buca. Nichiténco stava ora con una tempia appoggiata alla neve, un filo di
sangue che gli stillava dall’angolo della bocca era ormai l’unico movimento in
lui. Làricev si stese al suo fianco, col viso e il frontale del berretto di pelo con-
tro la neve.
Aveva fatto sempre, giorno dopo giorno, il suo dovere di soldato nonostante
l’iniqua deportazione, nonostante tutto. Ma adesso... Era troppo sensibile...
“Non sono adatto alla guerra: mi domino per un certo tempo, ma poi... Basta,
non ne posso più, io non ne posso più, basta non ce la faccio più, basta.”
Respirava affannosamente. E dovere, oltre tutto, dare la vita per difendere
la nefanda dittatura comunista! “No, non il comunismo, io sto difendendo la
Russia, non il comunismo, la Russia.” Guai se in passato tutti quelli che ce
l’avevano coi capi, si fossero rifiutati di difendere la Russia... Questo pensiero
gli occupò la mente: tante volte egli l’aveva pensato ed era stato persuaso dalla
sua evidenza, e anche adesso tale evidenza gli s’impose. “Certo questo vale
anche per gli altri, per i tedeschi, per gli italiani... disgraziati anche loro!”
Intanto gli era concesso un momento di tregua, e questa, più di quanto egli
andava rivolgendo nella mente, gli consentì di riprendersi.
“Perché quelli si sono fermati?” si chiese a un tratto. Dalla bocca di Nichi-
ténco il sangue usciva ormai solo a gocce.
«Vitia» lo chiamò di nuovo: «Vitia!» Ma il caporale, come tanti e tanti altri
in quei giorni, schiere innumerevoli, aveva intrapreso il grande viaggio, aveva
lasciate per sempre tutte queste atroci miserie. Forse pensò Làricev - il quale
credeva in una sopravvivenza ultraterrena - a Voroscilovgrad, a controllare se
suo figlio era stato fucilato, Nichiténco ci sarebbe andato in ispirito. Ma forse
adesso delle cose di questo mondo niente gl’importava più, nemmeno la sorte
di suo figlio, talmente distante da questa vita è l’eternità.
Accanto al morto c’era il mitragliatore: Làricev allungò cautamente un
braccio, afferrò l’arma e la trasferì davanti a sé, verso il bordo della buca; gli
assalitori dovevano essersi tutti ammassati a terra all’altezza delle due isbe.
“Certo stanno preparandosi al balzo verso il battaglione”. Egli sapeva che era-
no centinaia, anche se adesso poteva - sollevando la testa - vedere soltanto
qualche ritaglio d’elmetto o di bustina qua e là, qualche profilo di schiena.
Provò il congegno dell’arma: funzionava. Allora la puntò là dove affioravano
alcuni elmetti nemici e fece partire un principio di raffica: gli elmetti sprofon-
darono tra spruzzi di neve. Anche Làricev però dovette tirarsi vivacemente
indietro perché anche attorno a lui la neve fu trapassata dai colpi.
CAPITOLO VENTITREESIMO
IV
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
***
Cercovo si trova su una ferrovia con andamento nord-sud, che costituiva al-
lora una sorta di teorico prolungamento - tra Voronez e il mar d’Azov -
dell’immenso fronte orientale tedesco, il quale si stendeva ancora intatto dal
mar Glaciale Artico fino a Voronez. La tragica colonna ebbe perciò ordine di
trincerarsi nella cittadina, mentre altri corpi in ritirata italiani e tedeschi veni-
vano convogliati a presidiare qualche altra località sulla stessa ferrovia; intan-
to erano attese dalla Francia divisioni fresche tedesche.
I russi circondarono completamente il borgo, ed ebbero così inizio i giorni
apocalittici dell’assedio di Cercovo, che noi non ci soffermeremo a descrivere;
del resto il lettore che lo desideri può trovare la nostra descrizione altrove.
Quanto ad Ambrogio ci basterà dire che visse quei giorni in uno stato di semi-
estraniazione, anche perché la mattina stessa dell’arrivo era stato ferito una
seconda volta da una insidiosa scheggia di mortaio, che gli s’era confitta nella
schiena in prossimità di un rene.
Con la ferita al petto in suppurazione, bruciato dalla febbre, tormentato dai
pidocchi, egli trascorse la prima parte dell’assedio dentro un’ ‘infermeria’ di
fortuna, trasformatasi presto in un’orrenda bolgia nella quale sempre nuovi
feriti venivano portati, e dalla quale ogni mattina sempre nuovi cadaveri veni-
vano trascinati fuori per essere accatastati in alcune grandi buche scavate
presso la porta. Da quel luogo lo trassero gli ufficiali superstiti del suo gruppo
(tra i quali non figurava ormai più il maggiore Casasco, né l’aiutante maggiore
Cavallo Stanco, né il giovane topografo napoletano) che lo portarono nella lo-
ro isba. Dovunque l’attendente Paccoi lo seguì, prestandogli il servizio che po-
teva. Verso metà gennaio, nel corso di un bombardamento russo che non la-
sciò intatto, si può dire, un solo edificio della cittadina, anche Paccoi rimase
ferito: una scheggetta rovente di granata gli trapassò il polso sinistro, miraco-
losamente senza recidergli le vene (ché in tal caso per lui non ci sarebbe stato
scampo).
Intanto, poiché la spinta nemica verso ovest continuava, scalzando un po’
alla volta le forze raccogliticce tedesche che si sforzavano di contenerla, un
ristabilimento del fronte lungo la ferrovia venne giudicato inattuabile. I presi-
di accerchiati ebbero perciò ordine di disimpegnarsi - quelli che ne erano in
grado - e di raggiungere le precarie linee mobili tedesche, prima che queste
arretrassero ulteriormente.
La colonna uscita da Cercovo le raggiunse la notte sul 17 gennaio a Bielo-
vosch; di venti-venticinquemila italiani accerchiati sul Don la sera del 19 di-
cembre, ne rimanevano appena quattromila, in gran parte congelati o feriti; la
maggioranza degli altri era finita in mano al nemico.
Quella marcia di circa cinquanta chilometri da Cercovo a Bielovosch, Am-
brogio e Paccoi la fecero lentamente, tenendosi sotto braccio («E po, sor te-
nente, qualcuno diria che nun semo fortunati: che volemo de più, se proprio
ai bracci giusti semo stati feriti?»), perdendo via via terreno sulla colonna.
Fino a trovarsi soli nell’immensità paralizzante della pianura, a camminarvi
come due formiche, ogni tanto fermandosi a causa della spossatezza
d’Ambrogio, il quale un paio di volte ordinò a Paccoi («Te lo comando, mi ca-
pisci? Io te lo or-di-no») di andarsene, di salvarsi almeno lui, Paccoi scuoteva
con pazienza contadina la testa, lo lasciava dire, e poi domandava: «E allora?
L’ete finita sta lagna, sor tené?» e se lo riprendeva sotto braccio. Raggiunsero
la colonna solo grazie alle sue lunghe soste, provocate dai combattimenti con
cui i tedeschi e i residui dei battaglioni ‘M’ erano costretti ad aprire il passag-
gio.
Giunti a Bielovosch allo stremo delle forze, ed entrambi in preda alla feb-
bre, entrarono in un’isba a caso, e dopo alcuni giorni vi permanevano ancora,
incapaci di riprendere la strada, ormai inerti di fronte alla prospettiva di cade-
re prigionieri. Gli altri italiani erano stati trasportati con autocarri a Starobel-
sch, cinquanta chilometri più a ovest; furono i tedeschi del fronte mobile che
sbarrava al nemico l’entrata in Bielovosch a recuperarli - su segnalazione
d’una donna russa - e a portarseli via al momento dello sgombero della locali-
tà. A Starobelsch, dove funzionava ancora, miracolosamente, la ferrovia, i due
furono caricati su un ‘treno attrezzato ad ospedale’ (composto cioè di carri
merce equipaggiati con cuccette e stufe), che dopo una settimana di penoso
viaggio li scaricò a Leopoli, in Polonia.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
***
Di lì a una settimana anche Ambrogio si era abbastanza ripreso, e fu a sua
volta in grado di far visita a Paccoi; cominciarono in tal modo a scambiarsi le
visite. Nella corsia di Paccoi - assai più grande di quella d’Ambrogio - era rico-
verato per congelamento a un piede un altro soldato delle pattuglie: Mazzole-
ni, l’amico di Piantanida, il quale ultimo era invece rimasto per sempre a Cer-
covo, sepolto sotto un po’ di paglia e di neve: così dei due amici ‘lavativi’ uno
era stato preso e l’altro lasciato. C’era pure, nella grande corsia, quel sergente
Feltrin addetto agli automezzi della terza batteria, che la sera d’inizio della
ritirata aveva confermata ad Ambrogio la mancanza di carburante; adesso Fel-
trin soffriva di una strana forma nervosa: non poteva più dormire. Gli occhi gli
s’erano infossati in modo incredibile, egli però sperava di poter guarire, e si
attaccò anche ad un’affermazione d’Ambrogio: «Una volta in Italia, vedrai, ci
sono degli specialisti per queste forme nervose che ti sistemano senz’altro.»
«Sì, è vero? Sì. Quando potete, signor tenente, venite a trovarmi, che mi date
fiducia.»
Nella stessa corsia - di quaranta e più degenti - c’era anche un alpino della
divisione Tridentina il quale stava tutto il giorno seduto nel letto con la schie-
na contro la testata; di capelli e barba rossi, scarnito come un chiodo,
quell’alpino non aveva possibilità di sopravvivere e lo sapeva: durante
un’operazione per levargli una scheggia gli avevano scoperto - ad onta della
sua giovane età - un tumore già in stadio molto avanzato. Ambrogio si soffer-
mò più d’una volta con lui, che conosceva vagamente il cappellano don Gnoc-
chi, ma non Luca né il tenente Galbiati; della sua divisione Tridentina sapeva
solo che in quei giorni si trovava chiusa in una sacca insieme con tutto il corpo
d’armata alpino. Situazione questa - non mancava di ripetere - ch’egli volon-
tieri avrebbe scambiata con la propria: meglio il male di fuori - affermava - per
tremendo che fosse, da affrontare tutti insieme alla maniera alpina, che questo
silenzioso, atroce male interno, a cui non c’era rimedio.
La somma di dolore nel mondo era davvero sconfinata.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
CAPITOLO VENTISETTESIMO
La mattina seguente nella corsia d’Ambrogio entrò - vispo quel tanto che
glielo consentiva il suo temperamento - l’attendente Paccoi, il quale durante la
notte aveva seguitato a dormire senza accorgersi di nulla: «Signor tenente,
sapete chi è arrivato con gli ultimi feriti? Il Trémola è arrivato. Ve lo ricorda-
te? Quell’alpino che è venuto in estate alla nostra linea pezzi insieme col vo-
stro paesano. Non ve lo ricordate? Che rimasero a mangiare con noi? Il Tré-
mola.»
«Ah, il Tremolàda vuoi dire, di Monticello.»
«Ecco, proprio lui.»
«A che piano sta? È ferito?»
«Sì, è ferito, però non in modo grave. Sta nel piano sotto il nostro, l’hanno
colpito a un braccio: forse perde il gomito, ha detto, ma forse lo salva.»
«Ti ha detto qualcosa di Luca, del mio compaesano, il caporal maggiore Lu-
ca Sambruna?»
«No. Ha detto solo che gli alpini adesso sono tutti nella sacca.»
«Questo lo sapevamo già. Beh, forza, accompagnami da lui.» L’alpino Tre-
molada fu contentissimo di vederli; aveva il braccio destro tenuto teso e fa-
sciato da garze bianchissime: una pallottola, spiegò, gli aveva trapassato
l’avambraccio per il lungo, dal polso fino al gomito. «È successo il giorno 13,
quasi due settimane fa, al caposaldo sul Don. Non c’era una vera buriana, sol-
tanto un po’ di casino per una loro pattuglia, Luca s’è messo a sparare con la
‘pesante’ e io gli stavo innestando un caricatore, quando è arrivata una sven-
tagliata, ma di pochi colpi...» Si esprimeva come sempre in dialetto: «È stato il
13, sciur tenènt, e c’è chi dice che il 13 porta fortuna!»
«Beh, se ti ha evitata la sacca, potrebbe anche darsi.»
«Ah, forzi quell!» consentì il Tremolada, con aria poco convinta.
«Certo che tu la sacca l’hai schivata proprio di misura. Guai dover marciare
ferito a questo modo. Eri perduto in partenza, ti rendi conto?»
«No, perché? Se occorreva, mi mettevano su una slitta» disse fiducioso
l’alpino. «Al Morbegno i feriti non li abbandonano di sicuro. Però dal paese
dov’era l’ospedale, cioè Podgornoie - questo nome lo ricordo - il giorno 14 so-
no partiti dei camion che avevano portate le munizioni, e li hanno riempiti
con noi feriti leggeri e anche con quelli mica tanto leggeri. Forse se la sentiva-
no la buriana che stava arrivando.»
«Hai visto don Carlo Gnocchi?»
«Sì, proprio. È venuto all’ospedale mentre ci caricavano. ‘Cosa fai tu qui?’
m’ha detto. ‘È solo perché hai voglia d’andare in licenza a Monticello, eh?’ ‘Eh,
magari!’ gli ho risposto io. Lui allora m’ha detto di salutargli Monticello, che
da bambino (de fiö) ci veniva sempre con sua mamma per la festa di
sant’Agata. Ha perfino detta quella filastrocca, la conoscete no? ‘Monticello -
piccolo e bello - se fosse in piano - sembrerebbe un pezzo di Milano’ ‘e ’nveci lè
in muntagna - e ’l par ul cù (il fondo) de la cavagna’ gh’ho respondù mi, pro-
pri ’me ’n fiö. Oh, sciur tenent! Don Carlo» continuò il Tremolada «mi ha fatto
anche bere un sorso da una bottiglietta piatta. Oh, sciur tenent, che buntà! El
pareva che gh’avess nuaa dent ul Signur (sembrava ci avesse fatto il bagno il
Signore).»
Ambrogio e Paccoi rimasero a conversare con lui più di mezz’ora: non pote-
rono, ovviamente, cavarne lumi sulla situazione di Luca né del sottotenente
Galbiati di Nomana; l’alpino appariva però fiducioso - pur senza sbrufferia -
circa l’esito della tremenda vicenda nella quale gli altri alpini erano in quel
momento coinvolti.
“Perché lui non sa cos’è una sacca, non ha idea di cosa succede quando si è
accerchiati” si diceva nelle ore successive Ambrogio, con pessimismo. E si raf-
figurava Luca in marcia sulle sterminate distese di neve, col viso tirato per la
fatica e stranito dal freddo.
La notte allorché - come ogni notte - rivisse in sogno le vicende della pro-
pria sacca, ad esse si mescolò ripetutamente anche Luca: il quale a momenti
entrava nel sogno in divisa d’alpino e con la barba rossastra, come quando era
venuto in visita alla linea pezzi sul Don, a momenti invece in tuta da meccani-
co e senza barba, come nei giorni di pace quando lavorava nello stabilimento
di Nomana.
PARTE SESTA
CAPITOLO PRIMO
In realtà Luca stava trascorrendo quella notte (la nona della ritirata del cor-
po d’armata alpino) a Nichitovca, un grosso villaggio situato a più di duecento
chilometri di marcia dal suo vecchio fronte sul Don. Il giovane caporal mag-
giore alpino era, non occorre dirlo, orrendamente stanco, più ancora che per
la marcia e i continui combattimenti, per avere - sia pure alternandosi coi
compagni di squadra - portata fin qui sulle spalle la sua mitragliatrice.
Quando la sera prima se n’era sgravato davanti all’isba in cui adesso, dor-
miva, si era sentito talmente leggero che gli era sembrato di levitare nell’aria;
tale impressione non l’aveva lasciato neppure in seguito mentre, seduto sul
pavimento di terra dell’isba, divorava avidamente il suo rancio di fortuna
(miele misto a cera), né poi mentre, al pari degli altri alpini, rispondeva con
fede a due decine del rosario, recitate da un caporale mortaista in un latino
davvero arbitrario. Il giovane si era in seguito allungato sul pavimento per
dormire, molto pigiato tra gli uomini della sua squadra, perché se è vero che le
isbe di Nichitovca erano state dal comando della Tridentina suddivise tra i
reparti alpini e gli sbandati che li seguivano, è anche vero che esse bastavano a
malapena a contenere tutti. Ciò nonostante il comando avesse fatta proseguire
la robusta avanguardia della colonna alla volta di Arnautovo, un paesino si-
tuato qualche chilometro più avanti verso ovest.
L’isba di Luca era situata nell’estremità occidentale del paese, dalla parte di
Arnautovo dunque. Da questa località un po’ prima di mezzanotte erano co-
minciati a giungere insistenti rumori e lampeggiamenti di sparatorie; siccome
però dentro l’isba tutti dormivano sotto il peso della più dura stanchezza, nes-
suno se n’era accorto. Del resto se anche se ne fossero accorti non ci avrebbero
fatto troppo caso, perché il comando della Tridentina funzionava a dovere, e
quindi se necessario avrebbe provveduto: ci avrebbe insomma pensato il ge-
nerale comandante Reverberi, che tutti gli alpini della divisione chiamavano
con fiducia ‘nostro padre’ (Nelle loro semplici menti non esisteva un termine
più appropriato per esprimere il concetto di autorità; e giustamente, se ci si
consente di manifestare qui il nostro parere, in barba a tutte le scemenze, an-
che dotte, che nei decenni a venire si sarebbero conclamate contro il ‘paterna-
lismo’. )
Nell’isba faceva caldo; a parte quegli attutiti rumori provenienti
dall’esterno, non vi si udivano che i respiri e il russare degli alpini addormen-
tati, e il balbettio volonteroso del fuoco che ricordava quello delle baite di
montagna; proprio come nelle baite, dalle fessure della stufa si spandeva un
tenue chiarore. Nel corso della notte non s’era svegliato che qualche condu-
cente (era consuetudine inveterata dei conducenti d’interrompere - stanchi o
no - periodicamente il loro sonno) il quale - curando di non calpestare i dor-
mienti - era uscito all’aperto per dare un’occhiata ai suoi muli. L’aria esterna
entrava nei polmoni abituati a quella calda della casa talmente gelata da sem-
brare piombo fuso; i muli stavano tutti con la testa bassa e la coda tra le gam-
be davanti all’isba, immobili nel freddo spietato; anche presso le altre isbe
s’intravedevano nel buio muli e slitte. Dopo essersi guardato attorno se ci fos-
se qualcuno o qualcosa di sospetto (capitava infatti che gli sbandati rubassero
a volte qualche animale per divorarlo), il conducente s’era avvicinato ai suoi
muli, ne aveva controllata la coperta ghiacciata, li aveva magari accarezzati un
po’ sul collo e sul muso incrostati di brina dicendogli anche qualche ruvida
parola nell’orecchio per confortarli: brave bestie che facevano con infinita de-
dizione il loro dovere per aiutare gli alpini. Dopo di che era rientrato nell’isba,
aveva, se del caso, introdotto qualche pezzo di legno nella stufa, e sdraiatosi al
suo posto si era riaddormentato.
CAPITOLO SECONDO
Da un conducente appunto, che senza volerlo gli aveva messo un piede ad-
dosso, Luca venne bruscamente destato. Erano circa le tre: dopo un breve
scambio d’improperi e di scuse imbarazzate, mentre già stava per riaddor-
mentarsi il giovane caporal maggiore fu suo malgrado attirato dal rumore di
sparatorie che in quel momento giungeva da fuori con particolare insistenza:
anche ai vetri della piccola finestra si scorgeva un baluginare continuo. “Sem-
bra una buriana coi fiocchi” si disse con stanchezza il giovane. “Non sarà che i
battaglioni andati avanti ieri sera faranno la fine del Morbegno?” Non toccava
a lui preoccuparsene, d’accordo; il pensiero però della fine tragica e talmente
inaspettata del Morbegno, il suo battaglione, finì col rimescolargli il sangue al
punto da destarlo del tutto. Ancora non riusciva a capacitarsene... Il disastro
era stato così improvviso! Solo per un miracolo lui e la sua squadra erano
adesso ancora qui nella colonna alpina, e non morti o prigionieri come gli altri
uomini del battaglione. Se pure n’esistevano di prigionieri... Possibile però che
tutti, proprio tutti, gli uomini del battaglione fossero morti? Non gli pareva
possibile. Luca cambiò - con una certa difficoltà, stretto com’era tra gli altri
giacenti - di fianco. Certo il Giordano Galbiati a quest’ora doveva essere mor-
to, perché la sera che il Morbegno aveva sbagliato strada si trovava già in fin di
vita su una delle slitte ambulanza. Gli era andata male qualche ora prima, du-
rante la battaglia per sfondare a Sceliachino: il sottotenente Galbiati era di
quei pochi che avevano il fegato di farsi sotto ai carri armati con una botti-
glietta di benzina in una mano e la bomba Breda nell’altra: arrivato alla di-
stanza giusta lanciava la bottiglietta contro il carro, poi sulla benzina scara-
ventava la bomba. Ma a Sceliachino gli era andata male. Che problema - pensò
ora Luca - doverlo riferire a suo padre e a sua madre là a Nomana! Sospirò.
Nomana, i suoi famigliari, Giustina... Aveva in una tasca l’ultima delle lettere
quindicinali di Giustina, della sua Giustina... Quel bel viso onesto in cui,
quando rideva, si formavano due fossette, e il collo delicato, e i capelli castani
legati sulla nuca... Scriveva puntualmente una settimana a lui e una settimana
a suo fratello Stefano. Già, Stefano! Mio Dio, chissà s’era ancora vivo a
quest’ora, dopo che i bersaglieri erano stati come inghiottiti dall’avanzata rus-
sa... E l’Ambrogio Riva? Chissà anche l’Ambrogio a che punto si trovava! Il
Giordano Galbiati, beh, era senza dubbio morto. Se almeno quella schifosa
sera in cui il Morbegno aveva sbagliato strada, lui, Luca, si fosse sincerato be-
ne delle condizioni del compaesano, raccogliendone magari un’ultima parola
da riportare ai suoi... E pensare che la slitta su cui il Giordano giaceva in fin di
vita gli era passata a pochi metri! Luca aveva presente ogni particolare: le slit-
te ambulanza venivano come al solito in coda al battaglione, custodite da un
cappellano, don Caneva. Lui, Luca, stava con la sua squadra fermo sulla pista
all’altezza di un ponte di legno, con l’ordine di proteggere il passaggio degli
sbandati dal possibile ritorno offensivo d’un nucleo di partigiani messi in fuga
dalla sua compagnia; quando era transitato don Caneva coi feriti, Luca aveva
lasciata momentaneamente la mitragliatrice e gli s’era affiancato: «Il tenente
Galbiati è ancora vivo?» gli aveva chiesto. Senza fermarsi il cappellano aveva
fatto segno di si. «Sei del suo paese, tu?» aveva domandato.
«Sì, appunto.»
«Dì ai suoi che si è confessato da buon cristiano.»
«Perché? Non ce la farà?»
Don Caneva aveva fatto segno di no con la mano. Luca, mortificato, non
aveva lì per lì saputo far altro che tornare alla mitragliatrice (“E invece avrei
dovuto chiedergli di farmelo vedere!”) Già, ma come poteva in quel momento
sapere che quelle erano le ultime ore del battaglione, immaginare che nel cor-
so di quella notte il Morbegno sarebbe stato annientato? Lui e la sua squadra
si erano salvati soltanto per quel fatto d’essere rimasti indietro al ponte: una
specie di miracolo! Luca cambiò un’altra volta di fianco; fuori, verso Arnauto-
vo, le sparatorie continuavano.
Quanti altri casi tremendi però, nel corso della ritirata! Il giovane ricordò
quel combattimento così difficile a Malacaieve, dov’erano rimaste sulla neve
delle andane di morti: i morti come l’erba... Soprattutto russi, è vero, ma an-
che di alpini quanti. E in quell’altro paese - come si chiamava? - in cui la lotta
s’era svolta con incredibile furore nella tormenta, mentre tutti erano come
ciechi? E a... Livigno? cioè in quel paese lunghissimo, formato da una sola fila
di isbe costruite lungo la strada, per cui al vederlo da lontano gli alpini aveva-
no detto: «Guarda come somiglia a Livigno», e la cosa era sembrata a tutti di
buon auspicio. Invece anche là che dura lotta per passare! Il giovane ricordò
anche quando era apparsa sulla destra quella strana colonna, che non si capi-
va chi fossero: un cannone da montagna aveva sparato un colpo, loro però non
rispondevano e agitavano le braccia e facevano dei segni, poveri cristi, e infatti
si trattava di ungheresi - alcune migliaia - rimasti senza munizioni e scampati
chissà come ai russi: s’erano poi messi al seguito della Tridentina insieme con
gli altri sbandati. E la sparatoria dei partigiani in quel paese dei mulini a ven-
to? E quel gran casino tra gli sbandati a Opit, forse il secondo giorno della riti-
rata, quando...
Noi non possiamo però continuare a seguire a questo modo i ricordi che si
accavallavano senza ordine nella mente di Luca: per darne ragione al lettore e
rendere la situazione in cui adesso egli si trovava, ci è necessario riferire con
un minimo d’ordine le vicende della sua ritirata, tanto diversa da quella dei
bersaglieri e delle truppe ordinarie. Lo faremo con la maggior brevità possibi-
le.
CAPITOLO TERZO
Quando a metà dicembre il nemico aveva sfondato davanti a Boguciar, tra-
volgendo gli altri due corpi dell’armata italiana schierati sul Don con fronte a
nord, il corpo d’armata alpino s’era trovato col fianco destro scoperto. Come
sappiamo esso era schierato sul fiume appena più a monte della sua grande
ansa, dunque con fronte a est. Gli alpini non avevano potuto far altro che to-
gliere dal centro del loro schieramento la divisione Julia, e disporla nella neve
sulla destra, dove si era venuto a formare il vuoto. Più a sud della Julia era
accorso a tamponare in qualche modo il grande vuoto il XXIV corpo corazzato
tedesco, unica riserva disponibile (malgrado il nome si trattava d’appena una
trentina di carri, nonché di due divisioni tedesche di fanteria già molto prova-
te). Appunto contro la Julia e contro questo corpo si era andato subito svilup-
pando il nuovo sforzo nemico, condotto non già - come si credeva - dalle forze
entrate a Boguciar, ma da enormi forze fresche costituite da due corpi
d’armata corazzati (circa trecentocinquanta carri), da un corpo d’armata di
fanteria, e da un corpo di cavalleria. Per un intero feroce mese la Julia - atte-
stata all’aperto nella neve — aveva resistito agli attacchi delle fanterie russe
senza arretrare; gli attacchi si erano susseguiti pressoché senza tregua: davan-
a
ti ad alcune compagnie - come la 59 del battaglione Vicenza, la cosiddetta
‘compagnia dei frati’ - si era arrivati a contare in un sol giorno più di quattro-
cento cadaveri nemici. Ciononostante in nessun punto la divisione dal grande
nome aveva ceduto il solco nella neve largo pochi metri e lungo una ventina di
chilometri che costituiva il suo nuovo fronte. Gli abruzzesi del battaglione
L’Aquila, insistentemente attaccati, non avevano ceduto nemmeno dopo aver
perso tre uomini su quattro: di tanto in tanto fin nei più lontani caposaldi al-
pini sul Don - dove regnava un’inquieta calma - giungeva qualche notizia
dell’incomparabile valore con cui i montanari abruzzesi seguitavano immuta-
bilmente a resistere.
Il XXIV corpo tedesco invece non aveva potuto contenere le forze corazzate
nemiche, troppo superiori, e nel giro di qualche settimana era stato pressoché
annientato; il suo comandante, generale Wandel, era caduto in combattimen-
to, il successore generale Jarr, quando il corpo d’armata era rimasto senza più
carri armati, si era suicidato, il successore di questi, generale Eibl, si era infine
ritirato coi massacrati resti delle sue truppe dietro il bastione costituito dalla
Julia. Non gli rimanevano che pochissime armi efficienti, tra cui quattro can-
noni semoventi blindati, o panzer jäger, (che ricordiamo perché dovevano
rivelarsi straordinariamente preziosi una volta inquadrati con gli alpini) e sei
o settemila uomini logoratissimi e - fatto inconsueto per i tedeschi - pressoché
disarmati.
Intanto, sempre nel corso di quel mese, sull’altro fianco dello schieramento
alpino, ossia a nord, il nemico aveva catapultato avanti forze ancora più im-
ponenti di quelle che operavano a sud, cioè la sua Quarantesima armata e il
XVIII corpo d’armata corazzato, travolgendo un ampio tratto del pur resisten-
te fronte ungherese. I due blocchi di forze russe, quello di nord e quello di sud,
si erano con manovra convergente saldati a tergo del corpo d’armata alpino.
Cosicché quando il 17 gennaio il comando dell’armata italiana aveva via radio
dato agli alpini l’ordine di ripiegare, li aveva anche avvertiti che i russi erano
già arrivati un centinaio di chilometri alle loro spalle ed erano tuttora in mar-
cia verso ovest.
***
Luca aveva lasciato il suo caposaldo sul Don la sera del 17 gennaio (nello
stesso giorno cioè in cui Ambrogio era uscito, più a sud, dalla propria sacca)
inquadrato nel suo battaglione, il Morbegno, che al pari degli altri della divi-
sione Tridentina era in perfetta efficienza. C’era nelle file alpine un elevato
numero di muli, quasi tutti in buono stato, che trasportavano su slitte le mu-
nizioni e gli altri materiali, tranne quelli d’immediato impiego i quali venivano
portati a spalla dagli uomini; Luca procedeva con la mitragliatrice (20 chilo-
grammi), di cui era tiratore, sulle spalle.
Nel corso di quella notte atrocemente fredda, e della giornata successiva 18
gennaio, i formidabili battaglioni della divisione Tridentina si erano andati
radunando a Podgornoie, grosso borgo di retrovia; qui il giovane aveva trovato
un concentramento inaspettato e incredibile non solo d’alpini e di slitte e mez-
zi da soma, ma anche di unità motorizzate di retrovia, nonché una massa di
sbandati che si diceva assommare a quarantamila uomini, formata da italiani
appartenenti ad altre divisioni, ungheresi, tedeschi in divisa bianca, romeni.
Qualche deposito di materiali ardeva, di altri era in corso un selvaggio sac-
cheggio: ciononostante anche delle unità non alpine qualcuna faceva tuttora il
proprio dovere, tra queste l’artiglieria antiaerea che abbatté un ricognitore
nemico (uno di quei malefici ricognitori che nei giorni successivi avrebbero
tenuto sotto controllo la colonna, sorvolandola periodicamente ad alta quota).
Finché era rimasto a Podgornoie il giovane aveva dunque avuto sotto gli occhi
uno spettacolo non dissimile da quello presentato dalle retrovie delle truppe
ordinarie al momento dell’abbandono del fronte: sopra tutto l’aveva colpito il
caos e il materiale disseminato sulla neve dappertutto. Gli alpini però non
s’erano lasciati contagiare dal disordine; dopo avere atteso con calma l’arrivo
dei loro plotoni rimasti secondo le regole in trincea come copertura, verso sera
avevano cominciato a sfilare dal borgo, ogni battaglione alternato a un tetra-
gono gruppo d’artiglieria da montagna, dando così inizio alla grande marcia
verso ovest; da quel momento il disordine era rimasto indietro.
***
Alpini e artiglieri da montagna erano anche nell’aspetto diversi sia dai ber-
saglieri che dalle truppe ordinarie. Fisicamente solidi a causa della vita dura
della montagna cui erano abituati fin da bambini, ma del tutto alieni da atteg-
giamenti arditistici, davano a chi li osservava un’impressione di forza insieme
rude e tranquilla. Sebbene non inclini all’aggressività (in Grecia questo fatto
aveva sul principio creato seri grattacapi ai comandi) essi non erano disposti a
cedere alla forza altrui, perché per un uomo, anche per il più modesto, cedere
alla forza non è dignitoso. Il loro notorio spirito di corpo - molto evidente - era
una naturale prosecuzione di quello paesano e di vallata, per il quale si senti-
vano alla fine tutti membri d’un’unica grande famiglia; aggiungendosi la spe-
rimentata fiducia che ogni alpino riponeva nei propri compagni (stava qui
senza dubbio la loro risorsa maggiore) essi tendevano in ogni circostanza a
rimanere uniti; e se per caso le vicende del combattimento ne disunivano
qualcuno, questi appena poteva provvedeva da sé a riunirsi ai suoi.
Gente dal semplice cuore, gli alpini erano inoltre tutto meno che furbi (se
almeno in questo gli altri italiani gli somigliassero un po’!) Come di norma il
montanaro, ciascuno di loro faceva molto conto dei propri modesti strumenti
(dunque anche della propria arma) pronto perfino a sacrificarsi per non per-
derli. E tuttavia non avevano affatto un culto per i mezzi (come l’hanno ad
esempio i tedeschi, che pure sono soldati indubbiamente valorosi): agli alpini
di armi ne bastava un minimo, al limite quelle individuali e di squadra, o poco
più. Perciò anche una volta rimasti, a causa della situazione, privi dei loro
mezzi più potenti, essi non si sarebbero scoraggiati. Non vogliamo idealizzarli,
ma ci sembra di poter affermare che nell’attuale civiltà della materia e delle
macchine, questa gente che - senza forse rendersene conto - si sosteneva so-
prattutto sullo spirito, costituiva una grande eccezione. Perfino quando gli
capitava d’essere sconfitti, essi in cuor loro (a motivo del dovere compiuto)
non si sentivano propriamente tali; d’altra parte sconfiggerli era molto diffici-
le.
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***
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***
Siamo così tornati alla notte sul 26 gennaio; riportiamoci nell’isba in cui
giaceva Luca.
Dopo essere andato e riandato con la mente a vari episodi della ritirata, il
giovane si era a un tratto imposto di troncare i suoi pensamenti: “Perché pen-
sare non serve, anzi mi fa danno, visto che mi tiene sveglio: mentre io devo
dormire se voglio arrivare a Nomana, da mia madre e da Giustina... La sveglia
è alle sei, poi bisognerà attraversare quel paese dove - secondo dicono quelli
del comando che hanno la radio - dovremmo incontrare l’ultimo sbarramento
russo. Chissà se sarà davvero l’ultimo... Una cosa però è certa: che là ci sarà
buriana grossa. Probabilmente queste sparatorie che si sentono adesso ne so-
no già un segnale... Dunque io devo a ogni costo riposarmi, devo dormire”.
Finì in effetti col riaddormentarsi.
CAPITOLO QUARTO
***
CAPITOLO QUINTO
Gli alpini del reparto comando rimasti alle isbe, che adesso avevano un mi-
nimo di respiro, erano forse anche più preoccupati di quelli giù nel calderone:
bisognava assolutamente fare qualcosa. Preoccupato in cuor suo era anche il
cappellano reggimentale don Carlo Gnocchi, il quale giunto qui da Nichitovca
di propria iniziativa (i cappellani godevano tra gli alpini di grande autorità e
libertà), si dava ora da fare per confortare i feriti e confessare i morenti insie-
me col cappellano del Tirano padre Crosara. (Non appena informato
dell’arrivo di don Carlo, Luca s’era fatto sostituire per qualche istante alla mi-
tragliatrice ed era corso a cercarlo tra le isbe: voleva salutarlo e chiedergli la
benedizione. L’aveva però trovato chino sui feriti fuori dell’isba infermeria, e
non aveva osato disturbarlo; per fortuna don Carlo si era accorto di lui: mo-
strando nel viso gentile dagli occhi ora stranamente infossati una certa sor-
presa, come dicesse: dunque, compaesano, sei ancora con noi!, aveva alzata la
mano e tracciato verso di lui un segno di croce; ciò era bastato perché Luca
tornasse al suo posto riconfortato.) Adesso don Carlo - al pari dei feriti tuttora
coscienti, che gli chiedevano di continuo dell’andamento della battaglia - era
preoccupato che tanto sacrificio rischiasse di non approdare a niente. Tutti
sentivano dunque che bisognava fare qualcosa, ma cosa?
Il tenente del plotone rimasto ad Arnautovo lasciò a un tratto il proprio ri-
paro nella neve e raggiunse un sergente di dimensioni gigantesche appostato
poco lontano a una mitragliatrice. Sedutosi sui calcagni si mise a parlottare
con lui: Luca, che si trovava coi suoi a una ventina di passi (stavano sempre
allo stesso posto davanti alle isbe, semicongelati per l’immobilità), lo sentiva
esprimersi in dialetto, senza però arrivare a capirlo. Gli parve che i due guar-
dassero più d’una volta verso di lui, poi vide il tenente sgattaiolare indietro
fino a raggiungere l’isba dove presumibilmente stava il maggiore; l’ufficiale ne
uscì di lì a poco, fece segno al gigantesco sergente di raggiungerlo è, inaspetta-
tamente, chiamò anche Luca: «Ti, capural magiur del Murbegn, chi ’n de mi
(qui da me).»
Il sergente e Luca - piuttosto turbato quest’ultimo - si levarono in piedi e
s’affrettarono a raggiungerlo; senza pronunciare una parola l’ufficiale li prece-
dette dietro l’isba, dove: «An va» annunciò loro. Poi spiegò a Luca il suo pia-
no, che il sergente già conosceva, e che il maggiore aveva accolto: si trattava
d’aggirare parzialmente il nemico annidato nella balca e di prenderlo d’infilata
sotto il fuoco di almeno una mitragliatrice: «Non sarà facile portare un’arma
fin là, ma se uno ce la porta, quelli dovranno sgombrare la balca per forza.»
L’ufficiale si esprimeva in dialetto, aveva una voce molto rauca che nel rumore
continuo della battaglia s’intendeva male. «Le vostre due squadre tenteranno
insieme sulla destra, mentre io con l’altra mitragliatrice e un mitragliatore
tenterò sulla sinistra. Chi arriva primo attacca subito a sparare. Tu del Morbe-
gno... A proposito, come ti chiami?»
«Sambruna. Caporal maggiore Luca Sambruna.»
«Ecco. Ho visto che sei un calmo. Hai capito ogni cosa?»
Luca fece segno di sì con la testa.
«Bene. Allora forza, partite addirittura perché abbiamo sì e no un’ora di
buio. Ad avvisare le compagnie di scattare avanti al momento giusto ci pensa
il maggiore.»
«D’accordo» disse Luca.
Senza aggiungere altro l’ufficiale si allontanò per prepararsi a uscire a sua
volta.
«Prima cosa riuniamo i nostri uomini qui, dietro questa casa» disse a Luca
il sergente, che ritto in piedi risultava ancor più gigantesco: «Io vado a pren-
dere i miei.»
Luca fece ancora una volta segno di sì. Per stabilire un po’ d’incontro uma-
no con lui, l’altro aggiunse: «Mi chiamo Pedrana, nella mia squadra siamo
quasi tutti di Bormio.»
Luca annuì sorridendo. «Questo lo so. I miei sono la più parte di Tàrtano.»
«Ah!» Pedrana fece con gravità un cenno d’apprezzamento, poi si girò e
s’avviò verso la sua postazione.
Fu di ritorno di lì a un paio di minuti con l’arma sulle spalle, lo seguiva il
suo aiutante col treppiede, e gli altri alpini della squadra, otto o nove, con una
cassetta di munizioni; Luca e i suoi arrivarono quasi contemporaneamente.
«An va» disse Pedrana.
Prima d’incamminarsi gli alpini delle due squadre si fecero tutti il segno
della croce.
***
Tornarono indietro tra le isbe del villaggio fino allo schieramento del grup-
po Val Camonica, quindi scesero, in fila per uno, il pendio di destra, davanti i
bormini di Pedrana con le nappine rosse, dietro venivano le nappine bianche
della squadra di Luca. Il terreno era su questo lato abbastanza boschivo; per
fortuna la luna stava tramontando, nell’eseguire il suo mezzo giro la pattuglia
si adoperò per farsi schermo delle siepi, degli alberi, di ogni ruga del suolo,
non disponeva però di molto tempo e venne più d’una volta investita dai colpi
nemici: «Dio, se i spara!» mormorò un bormino.
«Dai, che se ce la facciamo anche stavolta, dopo ci rimarrà da aprirci la
strada soltanto in quel paese più avanti; perché più in là gli Ivan non sono ar-
rivati, lo sapete» disse il sergente.
“Speriamo sia vero. Se no addio Giustina” pensò Luca, ormai risoluto al tut-
to per tutto.
La manovra d’aggiramento non risultò facile. Ci fu prima uno, poi un altro
scontro con nuclei nemici forse sbandaci, un alpino di Luca restò ucciso, due
di Pedrana vennero feriti seriamente e lasciati sulla neve sotto un cespuglio,
con l’intesa che a combattimento finito si sarebbe tornati a prenderli. Ma per
rendere adeguatamente la marcia di appena tre quarti d’ora che l’aggiramento
comportò ci occorrerebbero delle pagine e il nostro racconto rallenterebbe
troppo.
Quando, sudati nonostante i trenta sotto zero, ed, estenuati dalle nuove
emozioni e dalla fatica, gli alpini emersero al di là della balca, e attraverso una
lingua di bosco poterono raggiungere una posizione in qualche modo domi-
nante, si presentò loro uno spettacolo da mozzare il fiato: i nemici erano
schierati tutti dentro la balca, le loro armi d’accompagnamento stavano sul
pendio retrostante, defilate da siepi e da pagliai. Cominciava a schiarire, si
cominciava a vederci. Gli alpini montarono immediatamente le due mitraglia-
trici, mentre il sergente Pedrana studiava in silenzio la situazione. «Voi rima-
nete qui» disse infine a Luca, «noi invece andiamo là» indicò mi punto al-
quanto più in alto, a forse quaranta metri di distanza. «Prima però control-
liamo il carrello delle armi, che non sia gelato. Forza.»
«Ma se la nostra la dobbiamo smontare di nuovo...» gli obiettò il suo aiu-
tante.
«Chi te l’ha detto?» fece Pedrana, e inginocchiatosi si provò ad armare la
mitragliatrice. A onta di tutti i colpi sparati nel corso della notte il carrello
d’armamento risultò bloccato dal gelo.
«Ecco, mi pareva di saperlo» mugugnò Pedrana, e sempre in dialetto: «dai,
pisciamogli su.» La poca orina che i suoi alpini si trovavano in corpo non ba-
stò tuttavia alla bisogna. Fu necessario strofinare fortemente l’arma con una
coperta di lana (qui il lettore non pensi a un espediente letterario per rendere
la tensione del momento: questo fu, pari pari, ciò che accadde, come lo tro-
viamo nella relazione di un protagonista). Finalmente l’arma fu pronta, anche
quella di Luca era pronta.
«Sta attento che comincio io» disse Pedrana a Luca. «Tu guarda a me: ap-
pena comincio, spari anche tu. Devi sparare sempre dentro la balca, hai capi-
to? Sempre nella balca, senza smettere. A quelli che stanno più indietro cer-
cherò di provvedere io. Del resto vedrai che non appena cominciamo, arrivano
i nostri.»
Ciò detto lo smisurato sergente afferrò la sua mitragliatrice (tra arma e
treppiede quaranta chili di peso) e stringendola al petto come si porta un
bambino, s’incamminò a enormi passi nella neve - con la sua squadra dietro -
verso il punto stabilito. Probabilmente più d’un nemico li scorse, ma dovette
pensare che si trattasse di russi.
«Tu e tu» disse Luca, sistemandosi dietro la propria arma, a due dei suoi:
«pensate soltanto a tenere ben fermo il treppiede.» Poi, mentre andava di
continuo con gli occhi dalla balca piena di nemici alla squadra di Pedrana,
cominciò a recitare mentalmente una preghiera: stavolta difficilmente sarebbe
andata liscia, certo i nemici avrebbero dovuto sloggiare dalla balca, ma per
loro quattro gatti come sarebbe finita?
Vide Pedrana e i suoi accucciarsi nella neve, di lì a poco udì il ta-ta della lo-
ro mitragliatrice: immediatamente aprì a sua volta il fuoco. “Ora e nell’ora
della nostra morte” stava mentalmente dicendo in quell’istante, seguitò a dir-
lo mentre l’arma sparava “ora e nell’ora della nostra morte - ora e nell’ora
della nostra morte - ora e...” Vide che sotto l’inatteso fuoco d’infilata i nemici
si agitavano come erba e cominciavano a rimescolarsi, gli sembrò che qualcu-
no sparasse nella sua direzione, su quello concentrò il fuoco, poi andò oltre:
sempre sparando dentro la balca la percorse più volte su e giù, mentre il suo
aiutante innestava nel bocchettone un caricatore dietro l’altro: “ora e nell’ora
della nostra morte - ora e nell’ora della nostra morte - ora e...”
I nemici abbandonavano la balca, ne uscivano correndo obliquamente per
allontanarsi dalla terribile doppia falce delle due mitragliatrici; Luca spostò
infine il suo tiro sulla massa in fuga sopra la neve: nella balca rimanevano solo
i colpiti, da qui non sembravano molti: “Per fortuna!”. Per fortuna, perché a
Luca quest’orrendo gioco non piaceva affatto, ma c’era tutta quella gente da
salvare: i due feriti lasciati sotto il cespuglio anzitutto, poi quelli sulle slitte, e
le decine di migliaia di sbandati che aspettavano gli si aprisse la strada, e c’era
sua madre a casa, e Giustina; non aveva scampo: “ora e nell’ora della nostra
morte - ora e..” Gli pareva, adesso, di recitare la preghiera per quei disgraziati
là sulla neve sotto i suoi colpi.
Alla balca si affacciarono le prime squadre alpine, sui nemici in fuga adesso
sparavano anche, da Arnautovo, gli otto pezzi del gruppo Val Camonica. Luca
sospese il fuoco, di lì a poco lo sospese anche Pedrana. Delle loro squadre
nemmeno un uomo era stato colpito.
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
Alle sei di quella stessa mattina l’avanguardia che aveva pernottato nel pri-
mo villaggio oltre Arnautovo, s’era rimessa in marcia secondo gli ordini rice-
vuti. Era costituita dai battaglioni Vestone e Val Chiese, dai resti del Verona,
a
dalle due superstiti armi semoventi tedesche, e dalla 32 batteria del gruppo
Bergamo. Tutti questi uomini ignoravano il tentativo del nemico di tagliare la
colonna alle loro spalle: avevano sì udito le incessanti sparatorie, ma ‘a cia-
scuno il suo’. E del resto ogni loro pensiero era proiettato su Nicolaievca, dove
tra poco - secondo il comando della Tridentina - si sarebbe dovuto rompere
l’ultimo sbarramento nemico. La cittadina entrò in vista verso le nove: sorgeva
su una montagnola isolata nel mezzo d’un’ampia conca, davanti le correva il
terrapieno d’una ferrovia, si prestava bene alla difesa purtroppo, ed era lette-
ralmente stipata di nemici in attesa della colonna. Mentre i cannoni e i mortai
alpini, e l’unica ‘catiuscia’ tedesca, schieratisi sul bordo della conca aprivano il
fuoco, i due formidabili battaglioni bresciani scesero in formazione di combat-
timento - sotto un subisso di colpi nemici - il pendio spoglio, superarono con
un incontenibile assalto un tratto del terrapieno, e penetrarono nella città. Qui
il loro slancio si arenò perché i nemici erano troppi, le compagnie massacrate
non ce la facevano ad andare avanti.
La grande colonna e il comando della Tridentina arrivarono dopo qualche
ora, in tempo per assistere dal bordo della conca a un contrattacco russo che,
malgrado la superiorità degli attaccanti, fu stroncato dalla furibonda resisten-
za degli alpini. Verso mezzogiorno arrivò il Tirano (la metà che ne rimaneva),
il gruppo d’artiglieria Val Camonica con tutt’e otto i suoi obici da 105 efficien-
ti, una meraviglia, il gruppo Vicenza e altri reparti armati, che - sotto il fuoco
nemico - scesero di corsa ad aggiungersi agli alpini del Vestone e del Val Chie-
se asserragliati tra le isbe; anche i pochi resti della Julia tuttora armati scesero
il pendio insieme con loro. Con questi rinforzi la penetrazione alpina riprese e
progredì alquanto, ma non in modo risolutivo. Intanto la massa degli sbandati
- forse trentamila uomini a fronte di poche migliaia di combattenti - assisteva
dall’alto con crescente ansia al fiero spettacolo. In mezzo ad essa esplodevano
con frequenza i colpi dei cannoni nemici, su di essa piombarono anche alcuni
aerei russi che la mitragliarono tre volte a volo radente. E intanto là in basso la
battaglia non si risolveva... Una notte all’aperto a 30 sotto zero ed esposti ai
colpi nemici, sarebbe stata la fine per tutti: non ci sarebbe stata una partenza
all’indomani, né mai. Ciascuno in cuor suo si vedeva con invincibile repulsio-
ne cadavere sulla neve, uguale ai cadaveri che già c’erano, miseri mucchietti di
carne congelata e di stracci. Qua e là dalle slitte i feriti, specie i più debilitati
dalla fame, si mettevano ogni tanto a gridare tutti insieme, come colti da paz-
zia.
L’Edolo, occorreva l’Edolo, l’ultima risorsa! Sollecitato da staffette del co-
mando di divisione, il battaglione Edolo, nappine verdi, che era di retroguar-
dia, faticava terribilmente a venire avanti senza scompaginarsi sulla pista in-
gombra di folla. Non appena fuori del disordine iniziò la discesa; quando lo
vide prossimo al terrapieno il generale Reverberi, comandante della Tridenti-
na, montò su un cingolato tedesco, sparò ripetutamente in aria con la pistola
per richiamare l’attenzione e lanciò il suo famoso grido: «Tridentina avanti!
Tutti avanti! Tutti avanti!» Molti di coloro che gli stavano intorno, armati o
disarmati, ripeterono il grido e si buttarono avanti insieme con lui, lo sorpas-
sarono, l’enorme massa li seguì, cominciò a rovesciarsi giù per la discesa; pur
investita dal piombo nemico la congerie d’italiani, ungheresi, tedeschi, correva
tumultuosamente verso il basso, verso Nicolaievca, in prima fila correva an-
sando il capo di stato maggiore del corpo d’armata alpino generale Martinat,
lo stratega accorto e tenace che aveva diretto i combattimenti più difficili: fu
anche tra i primi a cadere stroncato.
Sotto il colpo di maglio dell’Edolo e davanti alla valanga in arrivo, i russi
cominciarono a lasciare le posizioni: non tutti, che i più infervorati nella bat-
taglia e i più valorosi resistevano, e dovettero essere snidati dalle squadre al-
pine; tutti gli altri però abbandonarono le posizioni, sciamarono verso i loro
autocarri, e inseguiti dai colpi dei cannoni da montagna si allontanarono sulle
piste oltre la cittadina. Erano quasi le tre del pomeriggio, già cominciava a far
buio.
***
Luca era ubriaco di stanchezza, e per di più era ferito: un colpo gli aveva at-
traversato il polpaccio sinistro mentre scavalcava il terrapieno (un terrapieno
fatto di terra o di morti? nel punto in cui l’aveva superato lui era letteralmente
coperto dai cadaveri con le nappine azzurre del Vestone...); la sua ferita non
era grave per fortuna, ma egli si chiedeva come l’indomani avrebbe potuto
portare ancora a spalle la mitragliatrice; due alpini della sua squadra - due
cugini di Tartano - erano morti combattendo tra le case (il secondo mentre
tentava di portar soccorso al primo), alcuni altri erano rimasti feriti. Attestati
dietro un muretto i rimasti avevano continuato a sparare con determinazione
e con parsimonia, fino a quando quelli con le nappine verdi dell’Edolo erano
giunti alla loro altezza. Luca aveva allora aiutato con la sua mitragliatrice i so-
praggiunti a distruggere un nido di fuoco nemico dentro un’isba (accanto a lui
uno dell’Edolo - in piedi contro lo spigolo d’un edificio - aveva sparato col
proprio mitragliatore appoggiato sulla spalla di un compagno); quando infine
quelli erano andati avanti, Luca si era pesantemente seduto sul muretto. Le
idee gli si confondevano, i suoi pochi compagni, del tutto esausti, sedettero
intorno a lui nella neve.
«Capural magiur, bisognerà cercare qualcosa da mangiare» borbottò uno.
Luca fece segno di sì.
«Sarà proprio vero che questo è l’ultimo sfondamento?» chiese un altro,
pure in dialetto. (Si trattava dell’undicesimo sfondamento - come venne com-
putato poi - da quando era iniziata la ritirata nove giorni prima, a circa due-
centocinquanta chilometri da qui.)
Luca alzò un poco il mento a significare: chissà.
«Dio car, se al foss vera, quandu an va a baita, an fa dir una mesa in vai
de Sac (se fosse vero, quando si arriva a casa, si fa dire una messa in vai di
Sacco)» mormorò un terzo.
Da un’isba lì accanto uscì inaspettatamente un soldato russo: era armato
soltanto di pugnale, non sembrava avere intenzioni offensive, sedette nella
neve contro il muro dell’isba e si cacciò le mani in tasca; forse si considerava
prigioniero, pareva sfinito.
Arrivarono i primi sbandati, erano ungheresi dai lunghi pastrani, parlotta-
vano tra loro, probabilmente cercavano da mangiare, andarono oltre senza
fermarsi.
Arrivò anche il cappellano del Tirano padre Crosara, francescano: «Ci sono
dei feriti nella tua squadra?» domandò.
«Eh» fece Luca, assentendo.
«Qualcuno grave, che vuole confessarsi?»
«Gravi no» disse Luca «grazie. Però domani bisognerà trovargli un posto
sulle slitte.»
Il cappellano scorse a un tratto il soldato russo e lo fissò sorpreso. Allora il
russo tolse le mani di tasca, con la destra sfilò il pugnale dal fodero, e con la
sinistra armeggiò al bavero del pastrano per scoprirsi la gola.
«No» urlò il cappellano: «Cosa fai? No, no!» Levò in alto il suo Crocefisso e
corse verso di lui: «No, non farlo, non farlo!»
Il russo lo guardò interdetto, con occhi sfiniti: il cappellano gli afferrò il pol-
so che stringeva il pugnale e agitando con l’altra mano il Crocefisso davanti al
suo viso: «Perché ti ammazzi, perché ti ammazzi?» gridava.
Finalmente il russo fermò lo sguardo sul Crocefisso, circondò con la propria
la mano del frate che lo impugnava, e si tirò il Cristo contro la bocca. Gli alpini
guardavano la scena in silenzio; il russo consegnò al frate il pugnale, che ven-
ne scagliato il più lontano possibile. «La madre di Dio ti vuol bene» ansimò
padre Crosara: «ti vuol bene, hai capito? Dio non è come noi uomini.»
Il russo, pur senza comprendere le parole, fece con spossatezza segno di sì.
***
IL CAVALLO LIVIDO
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO
***
Sull’autobus militare che portava per gruppi i partenti alla stazione ferro-
viaria, prese posto accanto a Paccoi. Essendo giunti di notte, i due non aveva-
no finora potuto vedere la città: la trovarono - strade, case, palazzi, giardini -
sorprendentemente simile a quelle italiane. «Sembra quasi d’essere in Italia.
Da non credere, Giovanni, davvero da non credere» disse più d’una volta Am-
brogio. Sulle facciate di non pochi palazzi c’erano però dei grandi Crocefissi di
bronzo: come lungo le strade polacche di campagna, qui s’insisteva nel ri-
chiamo alla croce. “In questo i polacchi sono più esplicitamente cristiani di
noi...” A un tratto quelle croci richiamarono alla sua mente i poveri pazzi tru-
cidati dalle bestie razionali bionde e i poveri borghesi e preti trucidati dalle
bestie razionali rosse: chissà dove giacevano sepolti? Secondo i piantoni
dell’ospedale le vittime dei rossi nei luoghi stessi delle esecuzioni sommarie,
cioè al margine delle strade dirette a est. Una nascosta preoccupazione affiorò
nell’ufficiale: “E se i tedeschi non riuscissero a farcela? Se in conclusione i bol-
scevichi dovessero prevalere? Chi potrà impedire ai ‘berretti blu’ di tornare
un’altra volta qui? E d’arrivare anche in Italia magari?” Il cielo grigio di feb-
braio gli pesò addosso più cupo; a quell’epoca nessuno pensava all’America
come a un possibile argine nei confronti del comunismo.
Sotto la grande arcata in ferro della stazione li attendeva un bel treno ospe-
dale italiano: un treno ospedale vero, formato non di carri merci ma di carroz-
ze; sulle cui fiancate figurava un’enigmatica sigla: ‘SMOM’, sormontata da una
piccola croce bianca in campo rosso.
«SMOM» mormorò a mezza voce Ambrogio: «Cosa vorrà dire?» Glielo
spiegò un soldato di sanità: «Significa ‘Sovrano militare ordine di Malta’.»
«Ah, ecco» fece il sottotenente, annuendo.
«Di che si tratta?» volle sapere Paccoi.
«È un ordine che esiste fin dal medio evo. Tu che sei umbro, di queste cose
dovresti intendertene più di me.»
Paccoi lo guardava con l’onesta faccia impacciata. «A dirtelo in un orec-
chio» gli confessò allora Ambrogio «nemmeno io ne so di più.»
Venne loro nuovamente in soccorso il soldato di sanità: «È un ordine ospe-
daliero, il più antico che esista. Si chiama di Malta perché ha impedito che a
Malta sbarcassero i turchi.»
«I turchi? E quando?» chiese Paccoi.
«Verso il millecinquecento.»
«E ancora se don da fa (si danno da fare) da allora?» esclamò sorpreso
l’attendente.
«Da molto prima» disse, e non aveva affatto l’aria di scherzare, quello della
sanità.
«Com’è che tu sai tutte queste cose?»
«Perché presto servizio sul treno; a noi queste cose le hanno insegnate.»
Giacché c’era, diede dall’alto della sua cultura qualche altra notizia: «È un or-
dine di frati che prima ancora del Mille, cioè prima delle crociate, assistevano
come infermieri i pellegrini in Terrasanta; poi hanno assistito i crociati, e se
per caso c’era bisogno, combattevano anche al loro fianco: per questo erano
nel medesimo tempo frati e cavalieri.» Fece notare: «In un certo senso hanno
anticipato di mille anni la Croce Rossa di oggi. Anche se» e indicò i simboli
sulle fiancate delle carrozze «la loro croce non è rossa, ma bianca in campo
rosso. In fin dei conti la differenza non è poi molta.»
«Infatti» convenne Ambrogio; intanto pensava: “Come piacerebbe, questo
discorso, a Michele, quel patito del medio evo!” Si ripromise sorridendo: “Beh,
vuol dire che glielo riferirò io se...” Finì col sorriso che gli si raggelava sulle
labbra: “se un giorno tornerà a casa”.
Fatta la spiega il soldato s’era staccato dal due con un cordiale cenno del
capo. «Mi sa, eh?» concluse Paccoi «che quelli de ’na volta eron frati di sanità
veramente gagliardi, e non scalcinati come questi piantoni di oggi, che certe
notti manco portano le padelle. Tanto che poi l’han da portà le monache.» (Di
quest’episodio in realtà lo contrariava sopra tutto una cosa: d’aver dormito
come un ghiro mentre aveva luogo, tanto da non accorgersene nemmeno.)
CAPITOLO SECONDO
Sul treno i due non trovarono, come s’aspettavano, frati ospedalieri: appre-
sero dal cappellano che l’ordine si limitava a fornire all’esercito italiano un
certo numero di treni come questo, ma senza personale. Era in ogni caso un
convoglio attrezzato in modo perfetto, con le barelle che facevano da letti -
disposte a due piani lungo le pareti - dotate di lenzuola immacolate.
Dopo poche ore di viaggio Ambrogio fu ripreso dalla febbre, e in seguito an-
che da vaneggiamenti; così, sebbene avesse la testa all’altezza di un finestrino,
finì col non rendersi conto se non in modo frammentario dei luoghi che il tre-
no attraversava. Gli sarebbero rimaste nella mente soltanto alcune visioni di
enormi fabbriche nella neve sporca della Slesia e della Boemia, che lavoravano
certo a gran ritmo perché se ne alzavano imponenti volute di fumo nero; non
si accorse neppure dell’entrata del convoglio in Italia, al mattino presto, anco-
ra col buio.
Alcune ore più tardi riacquistò coscienza; gli occorse un certo tempo per
rendersi conto d’essere su un treno ospedale; giratosi sul fianco si vide accan-
to l’intramontabile faccia tonda di Paccoi. «Sete svejo, sor tené? Sia ringra-
ziato ’l Signore, oh. Semo in Italia, sor tené, in Italia!»
Riferì che alla fermata del Brennero alcuni erano scesi a baciare la terra:
«...tra cui dei nostri c’era il Mazzoleni: chi l’avria detto, quell’impunito?» Ri-
ferì anche che un’ora prima, a Bolzano, quaranta feriti l’eveno scarcati (ave-
vano scaricati) dal treno e portati via con autoambulanze: in tale occasione
egli aveva temuto di venire separato da lui: «Senza manco potevve (potervi)
salutà.»
«Ma al Brennero tu sei sceso o no a baciare la terra?» gli chiese con voce
difficoltata, e ciononostante cercando di scherzare, Ambrogio.
«Io, sor tené? A me ’ste cose me pargon (paiono) fregnacce. Ma loro, in-
tendiamoce, ce credevano e come. Tanto da piagnece (piangerci) quasi.»
Passò un ufficiale medico; si fermò con un: «Oh, finalmente!» a dare
un’occhiata al ferito che aveva ripreso coscienza; gli fece qualche domanda,
concluse: «Peccato non averti potuto sbarcare a Bolzano: quelli sono tutti fini-
ti al grand hôtel Emma di Merano, che è un ospedale coi fiocchi, con un pri-
mario coi fiocchi. Beh» risolse «ti sbarco tra poco a Verona, va bene? Sei con-
tento?»
«Per me...» rispose Ambrogio, a significare: un posto o l’altro fa lo stesso.
Poi indicò con la testa Paccoi: «E lui?»
«D’accordo, anche lui a Verona» disse il medico. E aggiunse: «T’ha fatto da
balia durante tutto il viaggio, come non fosse ferito la sua parte. Beh, in gam-
ba» e s’allontanò.
A Verona vennero scaricati molti feriti. La stazione appariva seriamente
danneggiata dai bombardamenti aerei: si scorgevano qua e là squarci nelle
lamiere di copertura e anche nelle nervature di ferro che le sostenevano, e bu-
chi e crepe nei muri interni, mentre sui marciapiedi c’era polvere (la polvere
delle rovine, che si riforma incessantemente).
Ambrogio però, essendo barellato, per quanto cercasse di rendersi conto
esplorando intorno con gli occhi, non poté vedere molto. Notava invece che lo
scarico e lo smistamento dei feriti si svolgevano in modo rapido e ordinato, e
che i soldati di sanità usavano ogni riguardo. Ancora sotto l’incubo della sacca,
questo buon ordine degli italiani gli riusciva quasi sorprendente. Ma non ebbe
tempo per riflettere: si ritrovò su un’autoambulanza con altri tre feriti, barel-
lati al pari di lui; dapprima in movimento attraverso la città, poi - così pareva -
in corsa attraverso la campagna, senza più rumori intorno e senza scosse alle
ruote. “Si vede che l’ospedale è fuori città” egli pensò, sempre più intontito da
tante sensazioni. «È molto lontano l’ospedale?» chiese dopo un certo tempo al
soldato di sanità vestito di bianco che sedeva in capo alla stretta corsia tra le
barelle, con le spalle appoggiate alla cabina di guida.
«Press’a poco un’ottantina di chilometri» rispose quello.
«Un’ottantina? Ma... Cosa dici?»
«Sì, è a Schio. Noi non andiamo all’ospedale militare di Verona, ma a quello
civile di Schio. È molto più piccolo, però è ben organizzato, un bel posto, ve-
drete.»
«Andiamo a Schio?» intervenne il ferito collocato sopra Ambrogio, che era
come lui passato per l’infermeria-bolgia di Cercovo. «Io da borghese ci sono
stato una volta. È una bella cittadina, sì, tra le montagne, con molte fabbri-
che.»
Ma Paccoi? si chiedeva Ambrogio: era o no tra quelli con destinazione
Schio? Ormai non l’avrebbe potuto sapere fino all’arrivo. Anche questa doveva
capitare! «Perché non me l’avete detto, prima di caricarmi sull’ambulanza?»
chiese vagamente recriminatorio al soldato in camice bianco.
Quello allargò le mani. Aveva in testa - Ambrogio notò - la bustina col com-
plicato stemma della sanità. Lo stesso stemma - ricordò il ferito con una sorta
di crescente lentezza - dei soldati in servizio all’ospedale di Leopoli. Un ghiri-
goro composto di più elementi, che uno non riusciva mai a sceverare tra loro;
nel cerchietto centrale - dove gli altri stemmi hanno il numero del reggimento
- quello di sanità aveva una croce di filo rosso, ma così esile che se la bustina
era scalcagnata - come capitava di sovente - non la si distingueva neppure.
Perché mai - si chiese Ambrogio - i soldati di sanità portavano tutti le bustine
schiacciate a quel modo? Che non sembravano neanche bustine, ma piuttosto
caschetti di tela da infermieri. Non bianchi però... Un momento, perché non
bianchi? Perché? Erano bianchi invece. Sì, guarda, guarda la bustina di que-
sto... Non era bianca forse? Era quasi luminosa... Ambrogio la guardava, la
fissava, senza accorgersi di tenere gli occhi chiusi: cercava di vedere meglio
quel... anzi dentro quel bianco, fiocamente luminoso, che gli si dilatava nella
testa, si dilatava fino al punto d’arrivare a... sommergerlo.
«Ehi Riva, ho visto i cartelli dell’autostrada!» annunciò con animazione il
ferito che stava sopra di lui: «A Vicenza chilometri... non ho fatto in tempo a
leggere. Dì, siamo sull’autostrada. Però, sull’autostrada! Se uno ce l’avesse
detto all’infermeria di Cercovo, eh? Eh, Riva?»
Ambrogio non rispose. L’infermiere si alzò dal suo sedile e attaccandosi via
via ad appigli diversi venne a chinarsi su di lui. «Il signor tenente non può ri-
spondere» disse all’altro; «ha perso coscienza.»
Ambrogio muoveva le labbra, diceva parole appena percettibili, l’infermiere
accostò l’orecchio alla sua bocca: «...quelle traccianti... arrivano, sì, attenti,
attenti che stanno per arrivare...» Era tornato nella sacca.
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
In aprile - dopo quasi due mesi di degenza a Schio - Ambrogio venne trasfe-
rito a Riccione, in una colonia fascista per ragazzi trasformata in convalescen-
ziario. La sua ferita al dorso si era rimarginata, quelle al braccio e al petto era-
no guarite.
L’edificio, arioso e molto balneare, con grandi vetrate, sorgeva sulla spiag-
gia poco fuori città lungo la via litoranea per Rimini. Sia i letti che i comodini,
come le stoviglie, e in genere gli altri oggetti d’uso quotidiano, erano nel con-
valescenziario da colonia estiva e non da ospedale, il che ai degenti riusciva
gradito; sopra ogni cosa riuscivano loro gradite le grandi finestre che davano
sulla spiaggia e sul mare.
Ambrogio prese l’abitudine di passare più ore al giorno seduto a una di
quelle finestre; alle sue spalle si srotolavano pianamente i consueti discorsi da
ospedale militare: le riprese e ricadute della carne straziata, le peripezie di
ciascuno, a volte già fruste, troppo rimasticate, le prospettive della guerra, an-
cora la guerra. Il giovane vedeva sotto di sé l’ampio cortile della colonia suddi-
viso in campi da gioco mediante basse reti metalliche dipinte a colori vivaci;
alcune correvano al piede di filari d’alberelli di tamerice dalla scorza arida,
confacente all’ambiente sabbioso, ma dalle fronde per converso verdissime e
così minute da sembrare nuvolette di vapore. Al di là del cortile scorgeva la
spiaggia che, per l’abbandono in cui era lasciata, sembrava voler tornare
all’originaria conformazione a dune; più in là si stendeva finalmente il mare:
sempre uguale a sé stesso quello; non fosse che ora, così deserto, inspirava un
senso di dilatata solitudine. La quale s’accompagnava bene ai pensieri del gio-
vane: che si vedeva camminare di quel ‘sonante mar lungo la riva’ in compa-
gnia di Tricia dal pagliaccetto a strisce bianche e blu, e dal cappelluccio a co-
no. Chissà dov’era adesso Tricia, dove portava in giro la sua zazzeretta bionda,
a cosa pensava, quali giorni stava vivendo. “Per fortuna Rho è un posto troppo
stupidotto perché gli aerei lo vadano a bombardare” si diceva a volte Ambro-
gio, continuando mentalmente l’antico parlare giocoso: gli capitava perfino di
mettersi improvvisamente a ridere da solo, gli altri degenti allora lo guardava-
no. Certo, dovunque si trovasse, Tricia non pensava a lui; e se per caso qual-
che rara volta lo ricordava, doveva al più provare un blando senso di simpatia,
come appariva evidente dai pochi biglietti ricevuti da lei nel corso di quei tre
anni di lontananza, inclusa l’ultima letterina - addirittura pedestre - con cui la
ragazza l’aveva ringraziato per i fiori del Don. (“Però: tre anni di lontananza!
Sono già passati tre anni... Da non credere! ”) Del resto anch’egli aveva sem-
pre provato per la ragazza soltanto una vaga simpatia. Eppure adesso la cerca-
va di continuo col pensiero: e non solo perché il luogo e quel mare gliela ricor-
davano ad ogni momento, ma anche perché ne sentiva un bisogno incoercibile
dopo le cose disumane tra cui era passato, e tra le quali si ritrovava ancora
ogni notte in sogni simili a incubi. La donna - cioè la possibilità, indicibilmen-
te vitale, dell’amore - costituiva per lui ch’era appena uscito dagli stagni fetidi
della morte, l’approdo più naturale e spontaneo.
Finì col chiedersi seriamente se - per caso — non stesse innamorandosi di
Tricia adesso, dopo tanto che non la vedeva. Finché un giorno si risolse a scri-
verle. Aprile era quasi terminato, egli poteva ora uscire dal convalescenziario
per brevi passeggiate; prese un biglietto postale dell’esercito (di quelli ‘in fran-
chigia’, esenti cioè da bollo, di colore bigio, ripiegabili, con tre bordi incollabili
e la stampigliatura ‘Vinceremo!’, che in quegli anni avevano riportato da tutti i
fronti alle famiglie un’infinita, sgrammaticata eco di riflessioni, fatti, tedio,
viltà ed eroismi) prese dunque uno di quei biglietti e vi espose succintamente i
suoi casi più recenti. Gli pareva di stendere una missiva spigliata, quasi scher-
zosa, alla vecchia maniera: ne uscì invece qualcosa tra il riflessivo e il dram-
matico, del che egli, rileggendola, non si rese che vagamente conto.
Indossò quindi la divisa (l’unica che gli rimanesse: quella di prima nomina,
di tessuto diagonale elegante) e come un ragazzetto che spedisca una lettera
d’amore, si recò di persona a imbucare il biglietto in Riccione centro; con suo
notevole discomodo, essendo il percorso abbastanza lungo. Fu quasi soddi-
sfatto in cuor suo di quel disagio: “Le cose importanti vanno pagate” pensava;
sul fatto che stesse dando tanta importanza al biglietto non si soffermò.
CAPITOLO QUINTO
Alquanti giorni dopo, una domenica mattina verso le dieci (già lavato e
sbarbato il giovane stava riposando - “poltrendo” si diceva - semivestito sul
letto, in attesa dell’ora della messa) salirono dall’atrio a chiamarlo per una
visita.
Afferrati giubba, cinturone e guanti, terminò di vestirsi mentre scendeva le
scale, e intanto andava chiedendosi chi mai potesse essere il visitatore. Con la
famiglia aveva parlato per telefono pochi giorni prima, e di visite non s’era
fatto cenno. Forse altri parenti? O un conoscente, oppure un collega d’armi? O
forse addirittura... possibile? forse Tricia invece di rispondergli per lettera,
avendo magari già occasione di venire da queste parti... “Ma quale occasione?
Non diciamo sciocchezze. Beh, per esempio la ricerca di un posto per la pros-
sima stagione balneare...” No, chiaramente non poteva trattarsi di Tricia; tut-
tavia egli dovette dominarsi per non scendere le scale di corsa.
Entrato nell’atrio vi trovò suo padre e sua madre in attesa, in piedi uno ac-
canto all’altra, intimiditi dall’ambiente ospedaliero. Provò un senso di delu-
sione: non si trattava di Tricia! Si trattava della mamma però. Che al suo ap-
parire s’illuminò di gioia. Il volto ancor bello della mamma non era disfatto
dal dolore come sarebbe certamente stato se egli non avesse fatto ritorno: no,
era invece “per immensa grazia di Dio” uguale a sempre, uguale per esempio a
quando la mamma lo andava a visitare in collegio. Ambrogio si sentì quasi
colpevole per avere desiderato che ad attenderlo ci fosse Tricia. Abbracciò sia
la madre che il padre, e nel far questo s’accorse che l’andava invadendo la loro
stessa timidezza. «Bravi. Che magnifica sorpresa. Vi ringrazio. Che program-
ma abbiamo?»
«Di stare insieme fino alle cinque del pomeriggio» gli, rispose sorridendo
Gerardo.
«Hai già sentita la messa, Ambrogio?» gli chiese la madre.
«No mamma, non ancora.»
«Allora, per prima cosa, potremmo andare insieme a messa.»
«Sì, d’accordo. Vuoi che usciamo addirittura? Ho con me anche i guanti,
vedi?»
L’elegante divisa diagonale dei tempi di prima nomina lo ringiovaniva. Sol-
tanto, a un occhiello della giubba, aveva adesso il ‘nastrino del ghiaccio’, un
distintivo tedesco venuto in uso anche nell’esercito italiano, attestante ch’egli
aveva combattuto durante l’inverno sul fronte russo.
La madre si rimirava il figlio. «Bravo. Ma dì: come stai veramente? Le tue
ferite non ti danno proprio più disturbo?»
«Eh, ormai.»
Il giovane prese con familiarità i due genitori sotto braccio e s’avviò con loro
alla porta.
«Un momento» esclamò il padre: «lasciami prima salutare quel bravo gio-
vanotto.» Tornato indietro di qualche passo strinse con simpatia la mano a
uno dei piantoni di servizio nell’atrio: un tipo notoriamente sfaticato, che
nell’attesa del figlio Gerardo aveva gratificato di frasi come «Anche lei è una
delle brave persone che si dedicano ai feriti, vero?»; al che lo sfaticato non
aveva mancato d’assumere la posa dell’individuo modestamente meritevole.
Adesso, con un occhio ai rimanenti piantoni e l’altro ad Ambrogio, lo sfaticato
rispose assai compiaciuto al saluto del compito signore. Conoscendo il proprio
padre il sottotenente immaginò la scenetta che doveva essersi svolta in prece-
denza, ma non disse nulla.
Presero la messa in una chiesa quasi vuota (“Già, qui siamo in partibus in-
fidelium” ricordò Ambrogio), poi si misero a passeggiare nella via principale
di Riccione in cui, per la giornata festiva, i convalescenti in divisa brulicavano.
Se ne vedevano molti anche sul lungo mare e nelle strade circostanti: italiani e
tedeschi, tutti usciti a passeggio dalle colonie marine trasformate in convale-
scenziari. Non pochi si appoggiavano a uno o due bastoni («Li vedi papà?
Quelli sono i congelati»), o a stampelle, e tutti si guardavano intorno con occhi
in cui sembrava affiorare un fondo di meraviglia: non tanto forse per essere
ancora vivi, quanto perché nel mondo - dopo tutto ciò ch’era accaduto, ed essi
avevano visto - ogni cosa continuava come prima. Ogni tanto un tedesco salu-
tava Ambrogio, irrigidendosi e battendo i tacchi in omaggio al nastrino ch’egli
portava all’occhiello.
Dopo aver passeggiato abbastanza a lungo discorrendo di molte cose (di
Manno anzitutto, che in quei giorni si trovava in Tunisia, di don Carlo Gnoc-
chi tornato dal fronte illeso nel fisico ma assai turbato nello spirito, dei sem-
pre più preoccupanti bombardamenti sulle città italiane, nonché
dell’ambiente di Schio ch’era industrializzato fin dal secolo scorso e profon-
damente cattolico, giusto come l’ambiente di Nomana: «Chi dice che la civiltà
industriale non si concilia col cristianesimo? È vero proprio il contrario, ci va
più d’accordo di quella agricola») entrarono in un ristorante dove poterono
pranzare in modo abbastanza regolare grazie alle carte annonarie portate da
Giulia.
Dopo di che si rimisero a passeggiare finché Giulia ebbe timore che una si-
mile ginnastica potesse affaticare il figlio; lo significò in modo discreto a Ge-
rardo, il quale prese perciò prontamente posto a un tavolino di bar. La conver-
sazione tornava sempre più spesso a Manno, che dopo la lunghissima, fortu-
nosa ritirata da El Alamein, si trovava ora a combattere col mare alle spalle in
Tunisia; dove le cose stavano andando molto male per italiani e tedeschi, an-
che se dalla radio e dai giornali non si riusciva a capire quale fosse esattamen-
te la situazione.
«Ve l’ho detto: ho ricevuto da lui una cartolina due giorni fa» ricordò Am-
brogio «e ve l’ho subito rispedita a Nomana in busta chiusa. È datata 30 apri-
le: meno di una settimana fa dunque.»
«A noi non scriveva ormai da tre settimane» disse Gerardo «per forza sia-
mo preoccupati.»
«Nella cartolina, lo vedrete, dice che non ha un momento di respiro: ecco
perché non scrive. Del resto la guerra di movimento è davvero così, non con-
cede soste.»
«Non sarà per caso ferito anche lui?» chiese (e non era la prima volta) Giu-
lia: «oppure malato? Come quel vostro compagno, quello della Lodosa chiaro
di capelli?»
«Ah, Castagna vuoi dire?»
«Sì. Lo sai ch’è tornato dalla Libia con l’ameba? Pensa quanti strapazzi deve
aver sofferto anche Manno da che è in Africa: più d’un anno e mezzo ormai.
Tanti che noi non possiamo nemmeno immaginarli.»
«Sì. Però dalla cartolina risulta su di giri come al solito, la leggerete» disse
Ambrogio. «E in ospedale non può essere, perché la cartolina - che è normale,
del tipo in franchigia - porta il timbro col visto della sua batteria. Su, mamma,
cerchiamo di non veder nero: Manno non ha effettivamente respiro, in ripie-
gamento com’è per quei mezzi deserti con i cannoni da 75.»
«Povero figlio, chissà che momenti sta vivendo» mormorò Giulia. «Ad ogni
modo sentite» cercò di ricapitolare Ambrogio per confortarli: «Lui non ha
contro i bolscevichi, ma gli inglesi e gli americani. Alla fine supponiamo pure
che lo prendano prigioniero: quella non è gente che uccide i prigionieri o li fa
morire di fame. Anzi, se per caso dovesse restare ferito, lo curerebbero nei lo-
ro ospedali, come noi abbiamo sempre fatto coi loro feriti.»
«Gli inglesi e gli americani sono civili, sì» convenne Gerardo «però...» e ab-
bassò sul tavolo la mano con le dita a doccia, a significare una pioggia di bom-
be. A questo, purtroppo, non c’era niente da obiettare.
Lasciato il bar, Gerardo con una scusa li guidò a un altro bar più conforte-
vole, e li fece sedere di nuovo. Poi, siccome si avvicinavano le cinque - l’ora
della partenza - vincendo la propria provinciale timidezza fece chiamare da un
cameriere una carrozza: «Perché» dichiarò «sono anni che io non vado più in
carrozzella, e a vederli in giro, questi legnetti, mi fanno venire la voglia di
scarrozzarmi.»
Era con evidenza una scusa per risparmiare al figlio la camminata fino alla
colonia-convalescenziario fuori Riccione. Giunto alla quale trattenne la car-
rozza per farsi portare alla stazione ferroviaria.
Si salutarono sulla strada, davanti alla colonia: «Contiamo di averti a casa
presto» disse il padre al figlio. «Sono convinto che l’aria di Nomana ti farà
meglio d’ogni cura.»
«Se Manno per caso dovesse scriverti ancora dall’Africa» disse la madre,
voltata a metà sul mantice «chiamaci subito al telefono, e leggi parola per pa-
rola ciò che scrive.»
«Va bene» promise Ambrogio, facendosi un po’ indietro per lasciarli parti-
re.
La madre gli fece un cenno, indicando prima la propria bocca e poi in alto.
«Cosa?» domandò sorridendo il giovane, che pure aveva capito, e fattosi di
nuovo avanti protese il viso verso quello di lei.
«Prega anche tu per lui, per tuo cugino» disse sottovoce la madre.
«D’accordo mamma.»
Il vetturino romagnolo (che aveva già trovato il modo di dimostrarsi un tipo
bislacco), seduto in serpa, guardava torcendo il collo la madre e il figlio
nell’elegante divisa da ufficiale che parlavano di preghiere.
Finalmente Gerardo gli diede il via; quello agitò le redini e la carrozza parti
al trotto un po’ sbilenco del cavalluccio ossuto.
“Ecco perché io mi sono salvato” pensò Ambrogio mentre guardava il veico-
lo allontanarsi: “ecco perché oggi sono qui e non là nell’erba a Posniacof, o in
una di quelle buche davanti all’infermeria di Cercovo. Dice il Vangelo ‘Bussate
e vi sarà aperto’, ma questo della mamma non è un semplice bussare: è addi-
rittura un aprire la porta con le unghie.”
Rientrò passo passo nella colonia, fronteggiata da una vaporosa fila
d’alberelli di tamerice. “Manno...” pensava: “Chissà oggi quanto gli hanno fi-
schiato le orecchie: tutto il giorno non abbiamo fatto che parlare di lui.”
II
CAPITOLO SESTO
Incurante dei fischi nelle orecchie, Manno in quel momento stava in una
piccola cala di Le Kram alla periferia di Tunisi, assembrato con alcuni militari
e un civile attorno a una barca. Era il pomeriggio del 6 maggio 1943: in Italia
lo si ignorava ancora, ma quel giorno i due ultimi schieramenti italo-tedeschi
in Tunisia (a protezione di Tunisi e Biserta) avevano cessato il fuoco: entro
l’indomani le due città sarebbero state occupate dagli americani e dagli ingle-
si.
Nella piccola cala sul mare, circondata da fatiscenti costruzioni adibite a
depositi minori dell’esercito, in quel momento non giungevano rumori di
guerra: soltanto la rima quieta della risacca contro la sabbia.
L’attenzione di Manno (che, promosso pochi mesi prima tenente, portava
gradi quasi nuovi ai polsi della sahariana) e degli altri era concentrata sul mo-
tore della barca: un motore d’automobile davvero spaesato in
quell’imbarcazione araba, cui era stato applicato fortunosamente.
«Non capisco il criterio con cui l’avete fissato» egli osservò (era molto stan-
co - tanto stanco, appunto, da non accorgersi che le orecchie gli fischiavano -
ma cercava di non darlo a vedere): «Cosa ci stanno a fare tutte quelle travi li
sotto?»
«Noi non avevamo un vero carpentiere» gli rispose sorridendo il suo prin-
cipale interlocutore, un maresciallo dell’autocentro: «Per l’esattezza non ave-
vamo neanche un vero falegname. Avevamo solo lui, Vernazza» lo indicò, «che
ci lasciava credere d’essere falegname, mentre invece è legnaiolo: solo al mo-
mento di cominciare il lavoro l’ha confessato.»
«Legnaiolo vuol dire tagliaboschi, capite?» precisò a Manno un fante adibi-
to ai servizi di retrovia, un tipo dalla faccia larga e cordiale.
«Chi, Vernazza? Certo. Ha fatto il tagliaboschi da quand’era grande così»
attestò l’attendente di Manno, artigliere Battistessa: «A l’è pa ver, Vernasa?»
L’interpellato Vernazza annuì ridacchioso; autiere dell’autocentro (ad ecce-
zione di Manno e del suo attendente tutti i presenti appartenevano a unità di
retrovia) era basso, un po’ panciuto, biondastro, col viso rubicondo; più che
un taglialegna pareva un bottegaio. «Sì, però come l’ho fissato io, quel motore
non lo staccano più neanche le cannonate» dichiarò a mezza voce, in dialetto
piemontese.
«Ah» convenne ilare Manno «vedo.»
«È stato il sergente Vestidello a farmelo piazzare alto: per tenere alta anche
l’elica, e correre meno il rischio delle mine. Per forza ho dovuto mettere quel
rinforzo sotto.»
«Il sergente Vestidello» spiegò il maresciallo a Manno «è quel motorista del
campo d’aviazione qui vicino, di cui v’ho già parlato: uno che il suo mestiere lo
conosce come un angelo. La parte meccanica l’ha curata lui, mentre all’assetto
di navigazione ha provveduto quel tenente triestino, Zustovic, dei servizi
dell’aeronautica, che di barche se ne intende. Dovevano venire con noi tutt’e
due - come v’ho detto - anzi in un certo senso erano loro i promotori principali
dell’impresa, e invece stamattina hanno, chissà come, trovata la maniera di
smammare in aereo.»
“La Provvidenza” pensò Manno: “è stata la Provvidenza a disporre così: per
dare anche a me e al mio attendente il modo di rimpatriare.”
«Certo che a quei due gli è andata bene» commentò Faccia-larga: «A
quest’ora sono ormai tranquilli e al sicuro in Italia.»
«Sì, se la caccia inglese non li ha fregati per strada» ammonì uno,
dall’inflessione briantea. Oltre a Manno i briantei nel piccolo gruppo erano in
realtà due: i fratelli Ulisse e Felice Viganò di Merate. Tutt’e due piccolotti, con
la testa grossa e la faccia grifagna, figli d’un imprenditore artigiano di lavori
stradali, erano stati messi anche in Africa a rappezzare strade nelle retrovie:
avevano visi color cuoio, cotti dal sole e dal catrame.
All’ammonimento del brianteo tutti i presenti, chi più chi meno, annuirono
compunti: perché il pericolo degli aerei nemici - specie della caccia, tanto
diurna che notturna - incombeva anche sulle piccole imbarcazioni, e li preoc-
cupava in cuor loro più d’ogni altro pericolo, incluso quello, pur serio, costitui-
to dalle mine.
«Beh, io la barca ve l’ho mostrata» disse il maresciallo a Manno in tono
conclusivo.
«Sì. E trovo che va benone. Vi confermo che veniamo con voi molto volon-
tieri.» Si rivolse all’attendente: «Vero Battistessa?»
«Certo signor tenente» dichiarò quello con fare convinto.
«Sono contento» disse il maresciallo. «Perché senza il tenente Zustovic... La
mancanza del motorista non mi fa problema: di motori me n’intendo anch’io,
è il mio mestiere. Ma senza il tenente... Io sono dell’autocentro, non apparten-
go ai reparti combattenti. È vero che questi son tutti ragazzi che vengono di
loro volontà, e ciascuno è responsabile di sé stesso. Ma non si sa mai, potrebbe
capitare di dover prendere una di quelle decisioni che ne va di mezzo la vita
degli altri, e io... Beh, insomma, adesso sono più tranquillo.»
«D’accordo. Però non capisco una cosa: i vostri ufficiali? Non avevate qual-
cuno di loro da invitare?»
Il maresciallo tentennò la testa con un’ombra d’ironia negli occhi. «Sapeva-
no che noi stavamo preparando la barca» spiegò. «Per più di due settimane
abbiamo lavorato lì dentro, in quella baracca» indicò una delle costruzioni in
cattivo stato che delimitavano la cala, «e quando capitavano qui al magazzino
la vedevano. Però nessuno di loro s’è mai offerto di venire. Gli aerei, capite?
Ce n’è in giro troppi. Non la smettono mai di picchiare sull’aeroporto e sul
porto - ch’è ridotto tutta un’immensa rovina, se vedeste - e sul mare, là.»
Davanti alla caletta il mare si stendeva in questo momento tranquillo, senza
aerei sopra, delimitato lontano, verso destra, dalla penisola montagnosa che
culmina nel capo Bon: risultava immenso, non certo agevole da attraversare
con un mezzo di fortuna come questo. “Eppure” pensò vagamente Manno “se
una possibilità simile ce l’avessero quelli che stanno in linea!...”
«Adesso di aerei non ce ne sono» disse il maresciallo indicando il cielo che
cominciava a colorarsi dei colori della sera: «Ma è un caso, perché li si vede
tutto il santo giorno rastrellare il golfo: non ne avete un’idea voi.»
«Oh, l’idea ce l’abbiamo sì» disse Manno scambiando un’occhiata con
l’attendente: «Anche all’interno sorvolano dalla mattina alla sera ogni strada e
pista, e mitragliano perfino gli uomini isolati. Bene. V’avverto d’una cosa: io
non m’intendo di navigazione. So però usare la bussola, e la carta topografica,
o nautica, che in fondo non sono molto differenti: questo sì, ma è tutto.»
«No. Il tenente Riva è in gambissima, ve lo dico io» intervenne su queste
parole il suo attendente Battistessa. Si rivolse al maresciallo: «Va bene proprio
per quello che dicevate voi prima: per le decisioni. Sa tirare la gente fuori dagli
inghippi: dovevate vedere dopo Alamein. È proprio per questo che oggi hanno
mandato lui e non un altro qualsiasi a portare la posta al campo d’aviazione:
siccome ci tenevano che la posta partisse a ogni costo. Sì, è così.»
Manno si schermì tentennando la testa con un sorriso. In realtà a lui guida-
re gli uomini tra le difficoltà, e in genere comandare al fronte, riusciva più
congeniale che a suo cugino Ambrogio o al Michele Tintori.
«Ecco, bene» esclamò Faccia-larga, che aveva l’entusiasmo facile: «Credo
proprio che ce la faremo ad arrivare in Italia. Che non finiremo in bocca ai pe-
sci.» Si rivolse al suo amico legnaiolo: «Eh? Che ne dici, Vernazza?»
Quello approvò, ma con minor entusiasmo. «Se vengo, vuol dire che son
convinto anch’io che non finiremo ai pesci» si limitò a osservare.
Dopo di che Manno si rivolse all’unico civile presente, il quale attendeva
con uno zaino appeso a una spalla: «Forza, venite che vi do le chiavi della mo-
to» disse.
I due si scostarono alquanto dagli altri. Manno si tolse di tasca una piccola
chiave e la consegnò al civile: «Come si avvia ve l’ho fatto vedere.»
«Sì.»
«È una Matchless 350, preda bellica: voglio dire, come v’ho già spiegato,
che non è del regio esercito, ma è mia, se questo può interessarvi. L’ho trovata
intatta durante la nostra ultima avanzata, quando gl’inglesi erano in rotta.
Perché» disse con voce a un tratto diversa «c’è stato un tempo in cui, a tremila
chilometri da qui, anche noi avanzavamo...» Tacque un istante sopra pensiero.
«Lo so, signor tenente. Beh, le cose cangiano nella vita: c’è chi scende e c’è
chi sale» cercò a suo modo di consolarlo il civile, con accento fortemente sicu-
lo.
«Sì. State attento a non farvela trovare dagli inglesi. Questo comunque è af-
far vostro.»
II civile gli consegnò lo zaino. «A non farmela fregare ci penso io» lo assicu-
rò, sempre col suo accento siculo; poi, riferendosi al contenuto dello zaino:
«Sono venti scatolette e quaranta gallette nazionali, più due gavettini nuovi.
Controllate per favore.»
«Mi fido» disse Manno. (Era tutta refurtiva militare dunque: del resto, che
altro avrebbe potuto essere? Allo stato delle cose ciò rappresentava se non al-
tro una garanzia d’igiene.)
Prima d’andarsene il civile si offerse d’aiutare a spingere la barca in mare.
Manno girò la proposta al maresciallo, il quale parve incerto, controllò
l’orologio e: «Sì, forse sarebbe meglio» disse. «Grazie. Alle otto e mezzo man-
cano ancora tre ore. Però è meglio essere pronti nel caso che... Insomma, non
si sa mai.»
Nessuno obiettò. Col civile facevano undici persone: si disposero cinque da
un lato e sei dall’altro della barca, che era rivolta al mare: ne sollevarono anzi-
tutto la prua e vi sottoposero un rullo, quindi, ad una voce, spinsero con forza
tutti insieme; la barca fece un tratto avanti. Sottomisero alla prua un secondo
rullo, ne predisposero più avanti un terzo, e spinsero nuovamente, poi, recu-
perato il primo rullo, lo sistemarono ancora più avanti sulla sabbia. In queste
operazioni si dimostravano particolarmente versati i due fratelli Viganò: si
vedeva ch’erano abituati ai lavori pesanti di squadra. Finalmente, a forza di
spinte, la prua dell’imbarcazione toccò l’acqua.
«Allora?» chiesero pressoché all’unisono i due fratelli. Ulisse, il maggiore,
teneva tra le mani un rullo appena ripescato dalla superficie sporca del mare.
Il maresciallo si volse incerto a Manno: «Col tenente Zustovic si era stabili-
to di partire alle otto e mezzo, quando il buio è completo o quasi. Forse voi
credete che...?»
«Non capisco bene» fece Manno. «C’è qualcosa che vi preoccupa in partico-
lare? Che i vostri superiori ci ripensino, magari?»
«No. Non penso ai superiori. Piuttosto ad altri, che so, agli sbandati, oppure
ai tedeschi, chissà, non si può mai sapere. Della nostra barca è al corrente più
d’uno: appunto per questo noi da stamattina siamo tutti qui sul posto armati.»
Dal mare giunse un incerto rombo di motori.
«Gli Spitfire!» esclamò Battistessa.
Tutti guardarono sul mare: individuarono lontano, basse sopra l’orizzonte,
tre o quattro sagome snelle, come di squali, che trascorrevano veloci in perlu-
strazione.
«Le p...!» mormorò Vernazza: «Non la smettono un momento di rastrellare
il mare. Non ne hanno mai abbastanza.»
Manno guardò il maresciallo: «Credo che Zustovic non avesse torto; che sia
meglio aspettare il buio per spingere la barca in mare.»
«Beh» fece allora il civile «quand’è così io vi saluto.» Strinse la mano a
Manno e al maresciallo, poi anche a un soldato che gli stava vicino, infine a
tutti i presenti indistintamente: sembrava, adesso, un po’ emozionato. «Salu-
tatemi a mia Sicilia bedda» disse.
«Ho paura che non avrete la vita facile voi civili italiani qui in Tunisia» gli
disse il maggiore dei Viganò. E aggiunse: «Io ho una sorella suora in Soma-
lia.» Guardò l’altro fratello che assentì con un cenno del capo; i due non spie-
garono meglio.
Il civile fece con la mano un ultimo gesto circolare di saluto, poi risalì passo
passo la caletta verso un varco tra gli edifici. Di cosa sarebbe vissuto, si chiese
Manno, con la guerra che probabilmente gli aveva bloccato il lavoro, e forse
stava per tagliargli ogni altra risorsa? E certo aveva una famiglia cui provvede-
re.
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
All’ora stabilita la barca venne spinta in mare. L’avviamento del motore eb-
be luogo senza difficoltà: il suo rombo regolare - che alle orecchie dei partenti
suonava molto forte - era in realtà abbastanza attutito da un rudimentale con-
gegno di silenziamento applicato dal provvido sergente Vestidello. Nel buio il
natante prese subito ad avanzare beccheggiando in direzione nord-est. Regge-
va il timone l’unico fra i dieci partenti che avesse vera pratica di barche e di
mare, anzi proprio di quel mare, scelto a suo tempo con cura dal tenente
Zustovic: il soldato Patanè, nella vita civile pescatore in Mazara del Vallo, Sici-
lia. Sul banco alla sua destra sedevano Manno e il maresciallo; Manno aveva
fissato sul sedile accanto a sé, con asse parallelo a quello della barca, una bus-
sola tascabile fornita dai Viganò; sulle ginocchia teneva la sua frusta cartella
da ricognizione di celluloide (simile a quella recuperata cinque mesi prima dal
bersagliere Stefano nella trincea dei morti), e sopra, aperta, una carta della
Tunisia con sovrapposto un lucido graduato per misurare gli angoli, strumenti
questi apprestati dal tenente Zustovic. Il maresciallo illuminava ora la carta e
il lucido, ora la bussola, mediante una piccola torcia elettrica. «Ecco» gli fece
notare Manno: «vedete? La costa fino a capo Bon ha questo andamento. La
direzione da tenere è dunque questa, sui sessantacinque gradi est.»
«Sì» conveniva il maresciallo «sì.» Gli altri volgevano gli occhi verso la
sponda appena lasciata, lungo la quale i borghi di Le Kram, Kerredine e La
Goulette venivano disegnandosi nel buio uno in prosieguo dell’altro, fila con-
tinuata di case arabe a specchio del mare; nessuno parlava.
«In questo preciso momento» annunciò a un tratto il maresciallo -
s’interruppe, consultò con pignoleria l’orologio, poi spense la torcia: «Sì, sono
le otto e trentacinque: in questo momento il mio amico maresciallo Saltame-
renda sta telefonando a quelli della difesa costiera. Per avvertirli che non spa-
rino su di noi se per caso ci sentono in mare. Ve l’avevo già detto.»
«Speriamo bene» mugugnò preoccupato il minore dei Viganò, Felice.
Suo fratello Ulisse, che sedeva sul ponte di prua, non disse nulla; molto te-
so, impugnava con la destra una grossa torcia elettrica, pronto ad accenderla
in caso di necessità: intanto scrutava lo spazio di mare davanti alla barca la
quale, sotto la spinta del motore, tagliava ormai metodica senza quasi solleva-
re spume quella superficie nerissima. Anche gli altri - distribuiti con cura per
l’equilibrio sulle due panche lungo i fianchi dell’imbarcazione - fissavano ogni
tanto l’acqua; anche Manno, e benché non fosse un pavido, ne riportava ogni
volta un senso di sgomento. Il mare infatti, in quelle condizioni e a quell’ora,
aveva un che di chiuso, di respingente, era irriconoscibile.
Non essendovi luna non si poteva scorgere verso destra il lontano profilo
della costa in parallelo alla quale si sarebbe navigato; del resto il timoniere
Patanè sembrava non fare alcun conto di quella costa. Minuto di persona, di
pelle scura, col naso aquilino, i baffetti neri e la divisa incredibilmente trasan-
data, pareva un arabo: “A lui questo caicco indigeno deve sembrare
un’imbarcazione più o meno normale” pensò Manno. Lo vedeva cercare di
tanto in tanto con gli occhi la stella del nord e correggere quasi insensibilmen-
te - agendo al timone - l’angolo che l’asse della barca faceva con essa. Da prin-
cipio chiese più volte all’ufficiale se la direzione così ritoccata fosse giusta, e
ogni volta Manno controllò con attenzione sulla bussola, confermando, oppu-
re correggendo di poco; infine Patanè si sentì abbastanza sicuro e non chiese
più controlli.
Nella tensione segreta di ciascuno - alimentata soprattutto da lontane, pic-
cole luminarie di razzi lanciati sul mare da invisibili aerei nemici - la barca
seguitava a procedere scoppiettando, senza incontrare mine, né reti di sbar-
ramento, né altri ostacoli. Cominciavano invece a farsi sentire, sgradevolmen-
te e con forza inaspettata, il freddo e l’umidità, per cui uno degli uomini trasse
da sotto la panca la propria coperta e se ne avvolse; gli altri, preso esempio da
lui, lo imitarono. Il più anziano dei Viganò, Ulisse, lasciò a tal fine momenta-
neamente il ponte di prua, e camminando con qualche inciampo lungo
l’imbarcazione venne a prendere sotto la panca di poppa la propria coperta.
«Riesci a vedere qualche cosa davanti a te?» s’informò il maresciallo allor-
ché quello gli passò davanti.
«No, vedo soltanto buio» gli rispose il Viganò: «mare e aria sono tutto un
inchiostro.»
«Allora potresti anche fare a meno di tornare là sopra, se credi.»
Il Viganò, dopo aver cercato a tentoni e presa sotto il sedile di Patanè la sua
coperta, nel tornare indietro: «No» rispose al maresciallo, «perché non si sa
mai. Col tempo potrei anche abituare un po’ la vista, non si può mai dire. E poi
ho sempre questa.» Alzò nel buio la torcia elettrica spenta.
«Del resto» osservò Manno «che tu stia là o in un altro posto fa lo stesso.»
«Anzi, se saltiamo su una mina» disse, lugubre senza volerlo, l’Ulisse Viga-
nò «avrò probabilmente il vantaggio di trovarmi sistemato subito, e di non
restare storpiato. So quel che dico» aggiunse «e lo preferisco. Mio padre è cie-
co da dieci anni per lo scoppio di una mina da cantiere.» S’allontanò, sempre
camminando un po’ sghembo, verso prua, dove si rimise a sedere con la co-
perta stesa sulle spalle.
Trascorse, senza che nulla di pregiudizievole accadesse, una prima ora. Poi
una seconda. Il lancio di razzi da parte degli aerei nemici sembrava essersi
fatto molto saltuario, la tensione e l’ansia di ciascuno andavano un po’ alla
volta diminuendo; non si estinguevano del tutto però, in quanto ciascuno era
conscio che fino all’ultimo minuto di navigazione una sorpresa mortale era
possibile, questo tutti seguitavano ad avvertirlo.
A Manno tornava in mente il guardiamarina Dabòni di Lecco, già suo com-
pagno al Politecnico di Milano, del quale non si prospettava più - come nel
pomeriggio prima di partire - il fortunato viaggio in motozattera da Tobruch
alla Sicilia, ma piuttosto la successiva tragica fine. Era andato a fondo con la
nave cui era stato poi assegnato, una corvetta... Chissà in che condizioni era in
questo momento il suo povero corpo, se pure ne rimaneva qualcosa, là nella
tomba di metallo in fondo al mare. “Quanto dureranno senza disfarsi i corpi
chiusi negli scafi sprofondati? Vero che per noi, se quest’avventura finisce ma-
le, non ci sarà neanche quel po’ di tomba...”
Essendo fantasioso immaginò sé stesso e i suoi compagni indistinte forme
umane appiattite sul fondo del mare “magari coi pesci intorno che, con le loro
bocche schifose, ti fanno a brandelli”. Per lui ad ogni modo la cosa veramente
preoccupante non era questa, la dissoluzione fisica: per lui (e per tanti, oggi
come mille, come duemila anni fa) la cosa più preoccupante era ciò cui va in-
contro dopo la morte non il corpo ma lo spirito, era la sorte dell’anima
nell’aldilà. Eccolo ancora una volta di fronte al problema per lui massimo: che
sorte avremo nell’aldilà? Ci salveremo tutti? Nel Vangelo certe frasi di Gesù -
cioè di Dio fattosi uomo appunto per salvarci - lo fanno pensare, ma certe altre
non lo fanno pensare affatto. A Manno sembrava perciò arbitraria la placida
fiducia di certuni - di certi giovani preti per esempio - nella salvezza di tutti.
“Su cosa si fonda la loro fiducia? Quelli a essere ottimisti ci si costringono: per
carità magari, o per pietà... Forse che, per cominciare, qui sulla terra l’inferno
non esiste? Accidenti se esiste!” Gli si affacciarono alla mente certe ore ad
Alamein, e quei racconti della vita in trincea nella guerra passata (delle tanto
più recenti vicende di Russia non era ancora al corrente); pensò anche a quale
dovesse essere la condizione degli ebrei - donne, bambini, uomini - caduti in
mano ai nazisti... (“Fortuna che in Italia i fascisti non gli consentono di toccar-
li...”) “Dunque: se di qua l’inferno c’è, perché dobbiamo escludere che possa
esserci anche di là? Per quale ragione? Con la differenza fondamentale che di
là gli esseri umani non si trovano nel tempo, ma nell’eternità, dunque anche
nell’eternità dell’inferno...”
Con gli occhi chiusi, avviluppato in una coperta consegnatagli dal mare-
sciallo, un po’ chino in avanti, Manno pensava e pensava. Avvertiva intanto
sul viso l’aria umida della notte; al suo pensare si accompagnavano, instanca-
bili, il rombo del motore e lo sciacquio della chiglia. (“Che resistenza straordi-
naria, però, a volerla considerare, quella del metallo di cui sono fatti i moto-
ri...”)
‘Ma Dio è amore, lo vuoi capire?’ tornavano a contrastarlo quei preti fidu-
ciosi (anche il cappellano del suo reggimento, col quale proprio di questo ave-
va discusso in un bivacco sulla strada della Sirte, una notte che tutt’e due ca-
devano a pezzi dalla stanchezza). ‘Tu, imperfetto come sei, manderesti qual-
cuno all’inferno, cioè nei tormenti per l’eternità?’ gli obiettava anche adesso il
cappellano: ‘e vuoi che ce lo mandi Dio? Il quale oltretutto ci prescrive, sopra
ogni altra cosa, di amarci e di evitarci le sofferenze gli uni agli altri?’ Il punto
però - si diceva Manno - stava qui: nel fatto che non era mica Dio a mandarce-
li. Proprio come non era Dio a introdurre gli uomini negli inferni di questa
terra: sono loro stessi, gli uomini, che nella loro terribile libertà ci si mettono
(che partono ad esempio in guerra gli uni contro gli altri, che inventano il raz-
zismo, eccetera), e lo fanno in contrasto con Dio, andando cioè contro la sua
volontà e i suoi comandamenti... “Per poi concludere magari, i più incoscienti,
che Dio non esiste, visto che c’è tanto male sulla terra!”
C’era inoltre quel particolare del fuoco, quegli accenni qua e là nei testi sacri
al fuoco eterno. Per quegli accenni più d un credente finisce con l’attribuire
alla parola inferno un significato solo metaforico. “Molti non credenti poi, per
quegli accenni si confermano nell’opinione che la Scrittura è una mescolanza
inattendibile di miti, leggende, racconti storici e prescrizioni varie, messa in-
sieme da un popolo di seminomadi.” Per lui al contrario quei richiami al fuoco
rendevano la sgradevole prospettiva dell’inferno - anche in questo momento
lo constatava - più plausibile. “Perché se l’essere umano è davvero costruito
per formare un tutt’uno con Dio, come i tralci con la vite, allora il trovarsi de-
finitivamente separato da Dio (questo e non altro essendo l’inferno) compor-
terà - per l’essere umano immortale - una sorta di disintegrazione permanen-
te... E cos’altro sulla terra potrebbe rendere meglio del fuoco l’idea della disin-
tegrazione?” Il fatto che quei seminomadi, solo in parte coscienti di ciò che
scrivevano, e certo ignoranti del rapporto vite-tralci, avessero usata la parola
fuoco, secondo lui contribuiva dunque a indicare che avevano scritto sotto
un’ispirazione superiore... Però basta pensare a queste cose, a questi grandi
problemi, per stanotte basta.
***
Al suo fianco il maresciallo ogni tanto si rigirava; finì con l’accendere guar-
dingo la torcia elettrica e consultare l’orologio. «Sono le undici» annunciò,
rompendo il silenzio generale: «Se la stima della velocità fatta dal tenente
Zustovic - otto chilometri all’ora - non è sballata, dovremmo avere ormai per-
corsa una ventina di chilometri.»
«Certo è che abbiamo un buon motore» disse Manno, «un motore che fun-
ziona a dovere: su questo non c’è ormai dubbio.»
Vernazza, che aveva applicato il motore allo scafo, sorrise soddisfatto come
per un elogio fatto a lui personalmente. «E sì che ho dovuto piazzarlo molto
alto» disse «per tenere alta anche l’elica. Siccome Vestidello insisteva che le
mine si trovano tutte ancorate fra i tre e i quattro metri di profondità.»
«Chissà se noi siamo passati su qualche mina?» buttò là Faccialarga.
«Di sicuro su più d’una» gli rispose il maresciallo. «Perché ci sono diversi
sbarramenti nel golfo; noi però non peschiamo neppure un metro.»
«Quello che a me dà più soddisfazione» disse il secondo dei Viganò «è che
nell’acqua il motore funziona bene quanto nelle prove dentro il capannone:
quel Vestidello coi motori è davvero un bulo.»
Il timoniere Patanè, che di barche se ne intendeva, annuì. «Magari tutti i
motori di barca funzionassero come questo» disse, e insisteva nel buio ad an-
nuire.
“Chissà quante ne ha passate sulle barche questo qui” pensò Manno, e:
«Vuoi un po’ di cambio?» gli chiese con simpatia.
Ma l’altro: «Signornò» rispose pronto, e non senza una punta di prosopo-
pea meridionale: «Io resisto la notte intera senza stancarmi» aggiunse.
Corse qualche altra frase, poi si tornarono a udire soltanto lo scoppiettio re-
golare del motore e lo sciacquio della chiglia. Passò, poco alla volta, un’altra
ora, poi un’altra ancora. Gli aerei - là sul mare verso Tunisi - adesso si davano
di nuovo molto da fare coi loro bengala.
A Manno tornava in mente ogni tanto il Dabòni di Lecco. Erano stati com-
pagni al Politecnico s’è detto (dove quello frequentava ingegneria e Manno
architettura), ma si conoscevano già da prima, perché il Dabòni apparteneva a
una famiglia d’industriali paolotti come quella dello zio Gerardo, con la quale
lo zio era da anni in rapporti d’amicizia e d’affari: il giovane aveva fatto parte
d’un en plein di ben undici figli, di cui dieci ragazze e lui solo maschio. E pro-
prio lui, l’unico maschio, era morto... “Come se la caveranno in futuro i Da-
bòni? Chi porterà avanti la loro industria?” Ch’era un’industria importante nel
ramo della grande carpenteria metallica, con molti operai. Aveva costruito
alcuni dei maggiori ponti in ferro d’Italia, per esempio quello ferroviario sul
Po a Piacenza; quando - per la vicinanza della stazione - su quel ponte il treno
rallentava, si poteva leggere la scritta ‘Dabòni - Lecco’ in rilievo sulle travi
principali. “Gente in gamba i Dabòni, che non scherza né in pace né in guerra.
Però come farà il vecchio adesso che è rimasto solo? Chissà se qualcuna delle
ragazze è in grado d’aiutarlo, di affiancarglisi in qualche modo nel lavoro?
L’Adriana forse, che studia con Francesca, nello stesso collegio di monache?
Se un giorno o l’altro il vecchio dovesse mancare, vorrei proprio sapere quale
delle dieci ragazze si assumerà il compito di portare avanti l’industria...” (Oggi
noi siamo in grado di dirlo: fu appunto la compagna di classe di Francesca, la
quale - sebbene intenzionata a farsi monaca - poiché era tra le dieci sorelle la
più dotata per ingegneria, si fece prima ingegnere, portò avanti per diversi
anni, pur così giovane, l’industria paterna, e quando finalmente ci furono dei
cognati in grado di darle il cambio, entrò in un monastero, di carmelitane.)
Quante cose, ricordi, pensieri... E non solo nella testa di Manno, ma anche
degli altri, perché nessuno - data la tensione - riusciva a prendere sonno. Lo
scoppiettio del motore e lo sciacquio della chiglia continuavano incessanti,
tanto da stordire alla lunga un po’ tutti. Sopra questa e sopra ogni altra barca,
e le navi armate, ferme nei porti o in corsa sul mare, e sopra i sommergibili
che vi pencolavano in agguato, e le mine vaganti, e i lunghi filari di torpedini
ancorate quasi a fior d’acqua, si spiegava il gran cielo stellato. Manno si diede
a esaminarlo pigramente: peccato non saper distinguere le costellazioni...
Nell’estate precedente suo cugino Ambrogio gli aveva scritto dalla Russia
dell’interesse per le stelle che un amico (si trattava di Bonsaver) aveva suscita-
to in lui, e gli aveva comunicato d’aver dato incarico ad Alma d’acquistare e
spedire a ciascuno di loro due, Ambrogio e Manno, un manualetto
d’astronomia. Tale iniziativa era molto piaciuta a Manno: Alma però, e dopo
di lei Francesca, non avevano trovato manuali adatti: nelle librerie di Milano
le due ragazze avevano trovato soltanto volumoni scientifici irti di numeri e
diagrammi, che non avevano ritenuto opportuno spedire. Così lui era rimasto
ignorante di stelle. “Però: ‘ignorante di stelle’, che espressione!...”
Mentre il tempo seguitava a trascorrere, Manno si provò, come durante cer-
te veglie all’osservatorio, ad attribuire i pochi nomi di costellazioni che ricor-
dava (la Lira, lo Scorpione, il Toro, la Chioma di Berenice) ai disegni di stelle
che in qualche modo avrebbero potuto corrispondervi. Sbagliò tutte le attribu-
zioni, e sebbene non ne fosse consapevole, rimase insoddisfatto.
CAPITOLO NONO
Un’ora circa prima dell’alba (nonostante la tensione nervosa più d’uno dei
naviganti si era addormentato) il maresciallo fece accostare con decisione la
barca a destra: su quel lato la costa - che culminava nel probabilmente ormai
vicino capo Bon - era stata durante tutta la notte più che vista avvertita nel
buio. Stando al programma si doveva prima della luce tirare in secco la barca
in un luogo deserto: cosa che i naviganti fecero senza difficoltà, approdando a
una spiaggetta circondata da colline brulle e disseminata di falaschi e cannuc-
ce bruciate dal sole. Col qual materiale il mascheramento della barca («Sia dai
nemici che dagli amici» come ammonì il maresciallo) non richiese molto tem-
po. Tutti si rintanarono poi in una grotta nell’arenaria a poca distanza. Batti-
stessa, l’attendente di Manno, sedette per il primo turno di guardia
all’imbocco, col suo mitra tra le ginocchia; gli altri si allungarono con le coper-
te addosso sul fondo sabbioso, e non tardarono ad addormentarsi.
***
***
CAPITOLO DECIMO
Un po’ prima che scendesse il buio la barca venne spinta di nuovo in mare,
e col suo regolare tà-tà-tà riprese ad avanzare, tenendosi da principio vicina
alla costa. La residua luce consentì ai naviganti di scorgere di lì a non molto
qualche casupola araba presso la riva, e anche un piccolo insediamento milita-
re. Dal quale alcuni soldati italiani in pantaloni corti osservarono incuriositi e
perplessi l’imbarcazione trascorrere: intuivano senza dubbio che si trattava di
connazionali profughi, non li degnarono comunque di un allarme, e neanche
d’un saluto.
In tempo per il buio completo la barca era di nuovo al largo. Continuò tut-
tavia a tenere una rotta parallela alla costa, con direzione est-nord-est, fino a
superare - secondo i calcoli di Manno e del maresciallo - l’altezza di capo Bon.
Sebbene tutt’e dieci gli uomini insistessero ad aguzzare la vista, non riusciva
loro d’individuare il capo. La brezza risultava però sensibilmente cresciuta, e
anche le onde - pur conservandosi basse - s’erano fatte più larghe.
«L’impressione è d’essere ormai entrati nel mare aperto, di essere usciti dal
golfo di Tunisi» fece notare Manno: «Che ne dite?» Chiese il parere del timo-
niere: «Tu che ne dici, Patanè?»
«Non si può sapere» rispose quello, scorbutico: «io non lo so.»
Il maresciallo si volse nel buio all’ufficiale: «Cosa decidiamo, signor tenen-
te?»
«Io direi, per sicurezza, d’andare avanti così per un’altra mezz’ora: tra
mezz’ora potremo senza pericolo dirigere la prua verso sud-est.»
«Da qui a Pantelleria abbiamo novanta chilometri buoni.»
«Sì, non è uno scherzo. Ma l’idea di fare una seconda sosta sulla riva tunisi-
na al di là del capo, voi l’avete scartata in partenza. Dunque...»
«Sì, e scartata sia» disse il maresciallo.
«Basta Africa» proclamarono quasi ad una voce anche i due Viganò.
«Coraggio allora» concluse Manno. «Vuol dire che quando la barca virerà
di bordo ci metteremo di vedetta in due. Anzi io mi ci metto addirittura. Chi
vuol venire con me?»
«Io» si offrì il suo attendente Battistessa alzandosi in piedi.
«Dai, andiamo a piazzarci.»
I due percorsero la barca fino al ponte di prua, sul quale si appollaiarono,
Manno con la torcia dei Viganò nella destra.
L’imbarcazione seguitò ad avanzare senza cambiar direzione per un’altra
mezz’ora, poi, a una voce dell’ufficiale, Patanè agì al timone ed essa virò verso
destra di circa novanta gradi. Non ci soffermeremo sui particolari; circa un’ora
più tardi i due fratelli Viganò vennero a dare il cambio a Manno e a Battistes-
sa; il tenente riprese il suo vecchio posto accanto al maresciallo.
«Ormai non c’è più motivo di dubitare» disse sedendo: «sia il capo che la
costa tunisina li stiamo con certezza lasciando indietro.»
«Sì» convenne il maresciallo, «se no a quest’ora ci saremmo già finiti con-
tro.» Si voltò a cercare con gli occhi la costa; anche Manno si provò
un’ennesima volta a cercarla: non scorsero niente, soltanto buio. Come la not-
te precedente tuttavia in quella direzione le stelle non scendevano fino al pia-
no del mare, ma si fermavano un po’ più su, nascoste, le più basse,
dall’invisibile penisola montagnosa.
Il maresciallo mormorò a un tratto a mezza voce: «Ciao Africa.» Manno lo
sbirciò sorpreso; il buio non gli consentiva di vederne l’espressione.
Un soldato seduto vicino — il più giovane della piccola brigata, quasi una
recluta - che aveva percepita la frase malgrado il rombo del motore, se ne en-
tusiasmò e la ripeté a voce alta, più volte: «Ciao Africa! Ciao Africa! Basta
bombe, caldo, sete, pericoli. Basta marcio e puzza, di morti. Eh, cosa ne dite?
Finalmente!» Gli altri, chi più chi meno, assentirono riscuotendosi un po’, con
qualche commento: era per tutti una gran liberazione, e ciononostante...
«State buoni» ammonì il maggiore dei Viganò, «i pericoli per noi non sono
ancora finiti, cosa credete?»
L’entusiasmo rientrò subito.
Dopo qualche minuto: «Quanti anni avete passato in Africa, maresciallo?»
chiese a mezza voce Manno. Il suo vicino non rispose: l’ufficiale si rese allora
conto che piangeva.
“Chissà cosa gli sta passando per la mente” pensò il giovane. “Quanti e quali
ricordi...” Forse l’anziano uomo (sui quarant’anni: ormai un vecchio per quelli
che avevano l’età di Manno) aveva speso in Africa una parte notevole della sua
vita. “Gli anni migliori spesi così, senza possibilità di un seguito... A dirlo si fa
in fretta, ma dev’essere una gran brutta sensazione. Poveraccio!”
«Maresciallo, ci sono quelli che non potranno più tornare del tutto: a loro è
andata ancora peggio» suggerì di lì a un po’, sempre a mezza voce, il giovane.
Neanche stavolta il maresciallo gli rispose. In realtà egli non si sentiva
avanti con gli anni: se Manno e gli altri ragazzi presenti avessero potuto entra-
re nella sua mente, si sarebbero meravigliati di quanto poco si sentisse vec-
chio. Non era questo dunque il punto. Né lo angustiava, per ora almeno, il
pensiero che le sue possibilità economiche sarebbero in futuro ancora dimi-
nuite: era abituato alla povertà sempre nuova (malgrado qualche apparenza in
contrario) della vita che si era scelto. Ciò che non gli riusciva d’accettare era il
naufragio d’un sogno. Se gliel’avessero detto, lui stesso non ci avrebbe credu-
to, eppure era proprio così: era il naufragio del sogno che l’aveva nascosta-
mente sostenuto fin dalla giovinezza, di partecipare a un’impresa di conquista
fuori del comune, non ben chiara nella sua mente, ma reale, in corso, vissuta,
sia pure nelle retrovie. Di famiglia poverissima, egli non aveva intrapresa la
carriera militare per fare l’eroe - e infatti non era entrato in un’arma combat-
tente - però, una volta in servizio, non si era neppure chiuso nell’orizzonte del
piccolo stipendio assicurato: aveva avuto bisogno di credere allo scopo della
sua attività, che gli veniva presentata come tesa a una maggior grandezza della
patria. Così, malgrado il trito cinismo del parlare quotidiano, lui nei ‘luminosi
destini’ della patria ci aveva creduto davvero. Più che nello stipendio e nelle
possibilità materiali di vita che a lui ne derivavano; evidentemente anche i
ruspeghi marescialli d’autocentro - dai lineamenti e dalle idee non bene sboz-
zati - hanno bisogno per vivere d’un po’ d’ideale. Ora egli realizzava in modo
inequivocabile che la patria stava andando incontro a una tremenda sconfitta.
E, quel ch’era più grave, senza nemmeno lasciare un ricordo di gesta memora-
bili, al modo degli odiosi tedeschi; anche qui in Africa infatti, come in Grecia,
come in Russia, c’erano state divisioni nostre che avevano ceduto con inspie-
gabile facilità (una - secondo si asseriva - s’era dissolta nel corso d’una sola
notte: i soldati raccontavano questo episodio come si racconta una barzellet-
ta).
«Vogliamo controllare la carta?» propose a un tratto Manno, per costringe-
re il maresciallo a pensare ad altro; e postosi sulle ginocchia la sua cartella, ne
trasse la carta geografica e la illuminò con la torcia. Quindi vi posò sopra il
doppio decimetro: «Vediamo. Non si scappa: sono tanti centimetri, il che cor-
risponde a tanti chilometri... È esatto? Dico bene?»
«Sì» gli rispose finalmente il maresciallo, consentendo a lasciarsi assorbire
dal problema.
«Con quest’andatura dovremmo essere a Pantelleria più o meno verso le
dieci: dunque saremo costretti a fare cinque o sei ore di navigazione in piena
luce.»
«Che Dio ce la mandi buona» disse il maresciallo in tono scherzoso, anche
se con voce non del tutto franca.
«Ci ha aiutati finora, ci aiuterà sino alla fine, vedrete» disse Manno con fi-
ducia, e nel suo intimo pregò per qualche istante il Signore Iddio: che li aiu-
tasse nell’impresa, ma soprattutto rincuorasse il vecchio maresciallo e gli fa-
cesse superare la pena che chiaramente lo tormentava.
«La cosa più importante è non sbagliare la direzione» riprese: «L’angolo ri-
spetto al nord, se lo misuriamo col lucido graduato, è di...»
CAPITOLO UNDICESIMO
Laggiù davanti alla barca gli sembrò d’individuare una minuscola parvenza,
una macchiolina indefinita. Davanti alla barca? In quella direzione un’isola
appena visibile? Non poteva che trattarsi di Pantelleria...
«Guardate un po’ là, maresciallo» disse al suo vicino, indicando.
«Cosa?»
«Là all’orizzonte, quella piccola macchia che si vede appena appena. Do-
vrebbe essere Pisola di Pantelleria.»
«Dove? Io non vedo niente.»
Ma altri videro, convennero: «Ah, sì, sì. Ecco là. Là.» «Possibile? Di già?»
Tutti guardavano nella direzione che la mano dell’ufficiale seguitava a indi-
care, appena a destra della prua; il maresciallo trasse di sotto la panca il bino-
colo e lo puntò: «Sì» disse «è proprio un’isola. Ha una forma di montagna
piatta.» Precisò meglio: «Di montagna scapitozzata.»
Manno sorrise, gustando il termine non lombardo, espressivo, inconsueto
per lui.
Patanè, che per meglio vedere s’era alzato in piedi, e provvedeva al timone
poggiando semplicemente alla barra l’esterno della gamba destra, sentenziò:
«Allora è Pantelleria. Una montagna scapitozzata? Sissignore. E di che colore
è?» chiese «Nero o giallo?»
«Mah... Nero direi.»
«Ecco, è Pantelleria.»
«L’avete scoperta per primo» disse il maresciallo a Manno. «Si vede che sie-
te osservatore d’artiglieria.»
Manno si mise a ridere. Poi controllò l’ora all’orologio da polso: «Io non
m’intendo di distanze marine, e così a occhio non saprei giudicare. Però stan-
do all’ora dovremmo esserne a una ventina di chilometri. Eh, tu che ne dici,
Patanè?»
Il timoniere osservò nuovamente Pisola poi guardò torno torno il mare, cer-
cando di valutare la consistenza della foschia; quindi tornò a guardare Pisola:
«Stimo che siamo a una decina di miglia» disse, e sedette, tornando a posare
l’avambraccio destro sulla barra del timone.
«Dieci miglia quanti chilometri fanno? Quanti chilometri è un miglio mari-
no?»
«Questo io non lo so» disse Patanè, e borbottò: «Perché chilometri? Qui
siamo sul mare, non sulla terra.»
Lo sapeva il maresciallo: «Un miglio marino è poco più di milleottocento
metri.»
«Allora, se continuiamo così, dovremmo arrivarci in due ore, due ore e un
quarto» fece il conto Vernazza.
Anche qualche altro disse la sua.
«Attenti: adesso stiamo per entrare di nuovo in una zona calda, forse molto
calda» avvertì il maresciallo. «Speriamo che anche queste due ore passino
senza inconvenienti.»
E così fu. Gli inconvenienti se mai toccarono all’isola che - dopo essere en-
trata meglio in vista - venne sorvolata da una formazione aerea nemica del
tutto invisibile dalla barca, e bombardata: le esplosioni si inseguirono tetre sul
mare, venendo incontro ai fuggiaschi; i quali però notarono con sollievo che la
difesa contraerea qui non era allo stremo come in Tunisia: l’artiglieria non
cessò infatti per un solo istante di sparare.
Dopo circa mezz’ora nuovo bombardamento: durò meno del precedente, so-
lo pochi minuti, sufficienti però per riempire d’ansia i naviganti: «Non andrà
avanti così tutta quanta la mattina? E se gli aerei arrivano proprio mentre
stiamo approdando noi?» Invece gli aerei nemici non ricomparvero, la barca
giunse fin davanti all’isola e all’omonimo borgo costiero, situato alla sua
estremità ovest; qui si fermò alquanto prima d’una serie di gavitelli e di boe: il
motore venne spento e il natante, postosi di traverso per essere meglio in vi-
sta, rimase ad altalenare blandamente sull’acqua.
Anche questo rientrava nel piano elaborato dal tenente Zustovic col mare-
sciallo. «Ed è stato studiato bene» convenne Manno: «Siamo passati senza
dubbio su diversi sbarramenti di mine davanti a Tunisi, e probabilmente an-
che davanti a capo Bon; adesso non dobbiamo rischiare inutilmente. Là voi
eravate in qualche modo informati, ma chi ci assicura che qui non ci siano an-
che delle mine affioranti, contro i mezzi da sbarco leggeri? Da terra ci stanno
osservando di sicuro: finiranno col farsi vivi loro. Attraverso le mine è bene
che ci guidino loro.»
CAPITOLO DODICESIMO
Cominciò l’attesa - sempre più angustiosa - sulla barca dondolante. Gli uo-
mini - pressantemente augurandosi in cuor loro che non arrivassero aerei ne-
mici - tornarono a mettersi in divisa; intanto prima il maresciallo e Manno,
quindi alcuni degli altri, esaminavano col cannocchiale ciò che si poteva vede-
re del borgo e del porticciolo che gli si protendeva davanti.
L’isola non era di colore tendente al giallo come quelle tunisine, ma nereg-
giante, e fittamente coperta di vigneti anche sulle alture. Di roccia nera erano
costruite le banchine del porto e quasi tutti i muri visibili dal mare (alcuni dei
quali con evidenza dissestati dai bombardamenti nemici), nonché un bizzarro
edificio che prevaleva sugli altri: una sorta di tenebroso maniero culminante
in una torretta dipinta di rosso vivo.
«Che sarà mai quella costruzione con quella torre rossa?» borbottò il mare-
sciallo.
«Quello è il castello Barbacane» gli spiegò Patanè, ma non seppe aggiunge-
re altro.
«Sai di che epoca è, voglio dire se è antico?» chiese Manno, in cui rispunta-
va lo studente d’architettura.
«Sì, certo. Tutte le cose grandi sono antiche» gli rispose convinto il timonie-
re.
«Già.» “Qui da voi può darsi” completò mentalmente il giovane. “Il nome
comunque” pensò divertito “castello Barbacane, mi pare intonato all’edificio.”
Intanto il legnaiolo-falegname di bordo Vernazza e i due fratelli Viganò
s’erano messi a rifornire il motore.
«Vuotiamo quante più taniche possibile, perché una volta a terra non è
escluso che quelle piene ce le freghino quei barbacani» borbottava il più an-
ziano dei Viganò.
«Se dipendesse da me, io a terra non ci scenderei nemmeno» diceva e ripe-
teva il secondo.
«Tu staresti qui fuori, eh?» se la prese allora con lui, per scaricare un po’ i
propri nervi, il primo: «Fino a quando arrivano gli aerei, vero, e ci sistema-
no?»
«Eh, gli aerei... eh, ci sistemano...» mugugnò il secondo; i due
s’esprimevano in dialetto lombardo, con inflessioni che richiamavano a Man-
no l’ambiente popolare della Brianza.
Finalmente quando tutti cominciavano a entrare in uno stato di vera e pro-
pria tensione, un motoscafo uscì dal porticciolo. Venne avanti dapprima con
lentezza, seguendo un determinato percorso che Manno e Patanè, ciascuno
per proprio conto, si sforzarono d’osservare attentamente, quindi - una volta
superata la fascia minata - prese un po’ di velocità; si fermò disponendosi con
ben eseguita manovra parallelo alla barca.
Aveva a bordo alcuni marinai in divisa bianca, e un tenente d’artiglieria in
divisa cachi piuttosto lisa, con le mostrine di guardia alla frontiera; Manno e
Battistessa le riconobbero subito: quelle mostrine ricordavano loro le depri-
menti batterie di cannoni vetusti (taluni addirittura ad affusto rigido, di mo-
delli già superati nella precedente guerra 1915, figuriamoci in questa) piazzati
per lo più in caverna lungo la costa e i confini alpini.
«È della GAF, vedete signor tenente?» Battistessa avvertì sottovoce Manno.
«Sì» borbottò questi ancor più sottovoce: «Giusto quello che ci vuole per il
castello Barbacane.»
«Da dove arrivate?» chiese il tenente della GAF.
«Da Tunisi città» gli rispose Manno. «Siamo partiti l’altro ieri sera.»
«Da Tunisi?»
Improvvisamente Battistessa esplose in una risata fragorosa: l’idea che
l’ufficiale della GAF fosse in stile col castello Barbacane gli riusciva - anche se
un po’ in ritardo - a tal punto divertente, che non poté frenarsi.
Il tenente della GAF lo guardò interdetto; tutti lo guardarono. «Cos’hai da
ridere, Battistessa?» si trovò costretto a chiedergli Manno. L’artigliere smise
allora di ridere e, chinata la testa, si fece compunto: «Non è niente, chiedo
scusa» rispose.
«Un po’ di nervosismo, eh?» disse Manno, conscio d’affermare soltanto una
parte di verità, e rivolto all’altro ufficiale: «Siamo un po’ tesi, per forza di cose,
ti rendi conto. Tu ci devi scusare.»
«Di che reggimento siete?» domandò quello, e intanto sogguardava poco
persuaso Battistessa.
«Siamo di corpi e specialità diverse: autocentro, commissariato, fanteria,
artiglieria.»
«Allora?»
«A metterci insieme è stata questa barca: cioè la possibilità di non cadere
prigionieri. Alcuni di noi, appunto a questo scopo, le avevano applicato il mo-
tore.»
«Hai detto che siete partiti l’altro ieri sera da Tunisi?»
«Sì, l’altro ieri. Alle otto e mezza di sera.»
«Prima o dopo l’entrata degli ‘alleati’ in città?»
«Ah, ci sono entrati? Questo noi non lo sapevamo, lo sentiamo adesso per la
prima volta. Comunque l’altro ieri sera tanto noi italiani che i tedeschi aveva-
mo cessata la resistenza. Al mio gruppo per esempio non avevamo più una
carica di lancio.»
«Avete i documenti?»
Manno e il maresciallo annuirono: «I nostri personali.» Trassero dal porta-
fogli - imitati da qualcuno degli altri - la carta d’identità e il tesserino militare.
Il tenente della GAF però non fece accostare il motoscafo in modo da poterli
prendere, non diede seguito alla cosa. «Intendete proseguire per la Sicilia
immagino.»
«Sì» rispose il maresciallo; e Manno: «Però non con la luce. Stasera stessa
se possibile, appena si fa buio.»
«Bene. Il comando vi concede di sostare qui, ma a una condizione: che non
entriate in contatto con nessuno. Capito? Avete l’ordine di non parlare con
nessuno. Siamo intesi?»
Ci fu un momento di silenzio.
«Scusate, perché?» volle sapere il maggiore dei Viganò. «Scusate signor te-
nente, ma cosa significa?»
«Non vogliono che i loro imparino da noi a smammare» gli spiegò Manno.
«Ma noi da Tunisi siamo venuti via quando non c’era proprio più niente da
fare, quando restare là significava soltanto cadere prigionieri.»
«Certo. - Eh! - Ma guarda!» Anche altri sulla barca apparivano risentiti.
«Lasciate perdere» troncò Manno. «Cosa volete? Mettervi a discutere? Noi
abbiamo la coscienza a posto e ci basta. Mentre qui nell’isola hanno i loro pro-
blemi: presto farà molto caldo qui.»
«Proprio così» disse cupo il tenente della GAF.
«Faremo come avete stabilito» assicurò Manno.
«Non io, ma il comando» puntualizzò l’altro. «Adesso seguite il nostro mo-
toscafo da vicino, perché siamo rimasti fuori già troppo. Fate attenzione, non è
difficile: dovete rasentare, lasciandoli tutti a dritta, i gavitelli color arancione,
che sono otto; non dovete far caso a quelli di altri colori. Mi sono spiegato? In
questo momento sono i gavitelli arancione a indicare il corridoio tra le mine di
superficie.» Ripete l’istruzione, rivolgendosi direttamente al timoniere; poi
scrutò il cielo: «Spicciamoci» disse, «son dieci giorni ormai che quelli non la
smettono di bombardarci.»
Il maresciallo e Vernazza avviarono il motore e la barca si mise al seguito
del motoscafo. L’attraversamento degli sbarramenti di mine non richiese ma-
novre complicate; una volta davanti all’imboccatura del porticciolo, il tenente
fece fermare nuovamente il motoscafo e diede qualche altra istruzione: «Non
dovete entrare in porto. Andate per conto vostro là a sinistra, in quella caletta,
dove ci sono quegli scafi in secco. Li vedete? Sì, quelli. Là potete tirare o no la
barca all’asciutto, come preferite. Vedrete che sulla spiaggia ci sono delle trin-
cee: vi faranno molto comodo durante gli attacchi aerei. È tutto. E, ripeto,
nessun contatto, neanche coi civili; non costringeteci a mettere delle sentinelle
che vi sorveglino. Sarebbe antipatico.»
«Non temere» gli disse Manno. «Anzi la sentinella la mettiamo noi,
d’accordo? Ti prego di riferire che partiremo appena prima del buio. Ciao, e
scusateci, voi personalmente che ci siete venuti incontro, per il rischio che
v’abbiamo fatto correre.»
«Ti pare? In bocca al lupo» disse quello della GAF, e per la prima volta sor-
rise, poi fece un cenno di saluto con la mano; anche i suoi pochi marinai salu-
tarono; dopo di che il motoscafo si rimise in moto ed entrò nel porto, lascian-
dosi dietro una scia cristallina, leggera, ben disegnata.
La barca - molto sgraziata al confronto - spetezzò lenta alla volta della calet-
ta. Qui giunta non venne tirata in secco: gli occupanti decisero di lasciarla con
la chiglia in acqua, giudicando che così sarebbe stata meno esposta a eventuali
schegge.
***
Mentre tutti le si davano da fare intorno, per assicurarla alla riva e masche-
rarla in qualche modo, il minore dei Viganò, Felice, s’internò nella caletta per
una sua necessità fisica; arrivò con pochi passi a una trincea, sul cui bordo si
fermò, e soddisfacendo a due bisogne contemporaneamente, prese a orinarvi
dentro e a ispezionarla con lo sguardo grifagno.
In quel momento l’artiglieria contraerea aprì il fuoco, mentre si cominciava
a percepire un lontano rombo di motori. Da ovest, dalla Tunisia, era in arrivo,
altissima nel cielo, una formazione nemica; uno dei dieci e più aerei che la
componevano rifletteva il sole come uno specchio.
«Qui, venite qui, ci sono le trincee» urlò il secondo dei Viganò, seguitando a
orinare, non più però dentro la trincea.
Gli altri abbandonarono la barca, un paio si misero a correre, i rimanenti se
ne staccarono invece a passo lento; Manno veniva ultimo e intanto osservava
gli aerei: «Sembrano quadrimotori» disse a Battistessa, che gli stava vicino.
E lo erano. Effettuarono un primo sgancio sulla costa appena fuori del bor-
go: i nuovi arrivati assisterono allo spettacolo sporgendo fino a metà petto dal-
le trincee. Vedevano distintamente le bombe precipitare nell’aria oscillando
oppure rotolando su sé stesse: finché erano molto in alto pareva loro che do-
vessero piombargli addosso, tanto che più d’uno si rannicchiò con affanno
nella trincea. Ad ogni esplosione o insieme d’esplosioni, vram, vram, la terra
vibrava come una lamiera duramente percossa. Gli aerei eseguirono un giro
sul mare, poi effettuarono un secondo sgancio sempre sulla costa ma più in là,
più a nord, quindi se ne andarono.
Quella fu la prima di cinque incursioni con cui la piccola isola venne tartas-
sata durante la sosta della barca; qualche bomba cadde sulla terra in prossimi-
tà del porticciolo, alcune altre in acqua davanti alla cala, i dieci uomini tutta-
via e la loro imbarcazione non subirono danni. Assisterono alla caduta in mare
d’un aereo colpito dalla contraerea della marina, un altro ne videro uscire di
formazione e allontanarsi con una coda di fumo.
CAPITOLO TREDICESIMO
***
L’indomani alla prima luce la Sicilia era in vista, lunga linea di montagne ir-
regolari, basse all’orizzonte. Patanè fu presto in grado d’individuare, verso
sinistra, la posizione di Mazara del Vallo, la sua città natale, e su quella mise la
prua, correggendo alquanto la rotta tenuta fino allora. Prima che le bianche
case della cittadina emergessero dal mare venne incontro ai naviganti una
sorpresa: due, tre, poi dieci, di più, venti vele, e anche qualche peschereccio a
motore senza vela: «Viditi, viditi, viditi (vedete)» diceva eccitato Patanè: «ci
sunno (sono) ancora: stannu piscannu (pescando), i viditi? Puru stanotti ieru
(andarono) a piscari. Beddi! Beddi! (belli) Biniditti! (benedetti)» Riconobbe
diverse barche, ne riferì il nome: «Chidda (Quella) è Niculicchia, e
chidd’antra Santa Rusalia... e, talia (guarda), c’è ’Ntonio Regale... E c’è puru
a Veneranda: porcu Giuda, propriu idda (essa) è. Picciò (ragazzi) supra ’nda
paranza (barca) io ci piscava quann’era nicu (piccolo).»
«Dunque ce l’abbiamo fatta» esclamò a un tratto con voce trasognata il ma-
resciallo. «Vi rendete conto, gente? Ce l’abbiamo fatta davvero. Ce l’abbiamo
fatta» ripeteva, guardando in faccia or l’uno or l’altro.
«Sì. Possiamo proprio segnarci col gomito» convenne tutto contento Man-
no (i due Viganò in particolare, che avvertivano l’espressione - tradotta dal
dialetto lombardo - molto appropriata, assentirono): «Quelle barche ci daran-
no oltre tutto il modo d’entrare nel porto senza pericolo, basterà mettersi da-
vanti alla città e accodarsi alla prima che rientra.»
Guardavano le barche, si guardavano in faccia, ridevano, guardavano anche
all’intorno la distesa immensa del mare, rifattosi con la luce amico e partecipe,
poi tornavano a fissare le barche, commossi ed eccitati.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
L’approdo ebbe luogo - senza perdita di tempo - molto addentro nel lungo
porto canale. Patanè infatti, parlando con certi suoi vociferantissimi cono-
scenti imbarcati su un peschereccio (in dialetto, così che gli altri non capirono
una parola) era stato messo al corrente dell’esistenza di una via segnata da boe
attraverso la quale a quell’ora si poteva passare. Già due barche, egli riferì,
erano arrivate il giorno prima dalla Tunisia, entrambe con dei morti e dei feri-
ti a bordo per mitragliamenti aerei.
L’imbarcazione, che aveva fatto così bene il suo dovere, venne ormeggiata
in capo a una fila: differiva dalle altre barche più che per la forma, per lo spae-
sato motore sistemato nel settore di poppa. Gli uomini - raccolto ciascuno il
proprio zaino o fardello - salirono sul molo. Alcuni, tra cui Manno, si voltaro-
no più d’una volta indietro, a dare un’occhiata riconoscente alla barca fedele.
Sull’altro versante del molo s’estendeva un quartiere popolare di case pres-
soché arabe, molto somiglianti a quelle di Tunisi; sebbene in tali quartieri ci
sia di solito affollamento (ed è questo forse che più vi rende la vita penosa) in
quell’ora non si scorgeva molta gente, sul molo poi non c’era quasi nessuno.
Era giunto il momento dei commiati, le strade dei dieci infatti già diverge-
vano: due o tre in particolare mostravano una straordinaria fretta d’andarsene
perché temevano il sopraggiungere di ronde della marina, che li avrebbero
costretti a presentarsi subito al comando militare: essi intendevano invece
arrivare prima alle loro case, trascorrervi qualche giorno, e solo in seguito
presentarsi ai rispettivi depositi come se giungessero direttamente dalla Tuni-
sia. Era un’impresa irregolare e pericolosa (c’era il rischio d’una denuncia per
diserzione), e non era neppure facile, in divisa com’erano, e con un lungo
viaggio ferroviario davanti. Manno tese comunque loro signorilmente la ma-
no: «Non perdete il foglietto col mio indirizzo, che v’ho distribuito stamattina:
se sarà necessario potrò testimoniare come avete lasciata la Tunisia. Bene,
grazie per la compagnia e... sempre in gamba.»
Si volse quindi agli altri: «Io e Battistessa contiamo di presentarci al co-
mando tappa di stazione a mezzogiorno. Se qualche altro vuole presentarsi
con noi, l’appuntamento è alla stazione ferroviaria, davanti al comando tappa,
a mezzogiorno in punto.»
Il maresciallo e i due Viganò dichiararono che ci sarebbero stati. Prima però
dovevano risolvere il problema della barca: apparteneva a loro tre, oltre che al
tenente Zustovic e a Vestidello, e Patanè aveva accettato di affidare a un suo
‘compare’ l’incarico di venderla; intendeva però essere ‘a posto con le scartof-
fie’: voleva cioè un’autorizzazione a vendere non solo firmata dai tre proprie-
tari presenti, ma anche vistata dall’autorità (da quale autorità non sapeva be-
ne neppur lui). Della cosa s’era già discusso non poco in mattinata, e i quattro
avevano deciso di recarsi insieme alla capitaneria di porto. All’ultimo istante
Manno si offrì di accompagnarli: «Forse però Patanè desidera far prima una
puntata a casa sua. Sarebbe anche giusto.»
Patanè fece segno di no con la testa. A terra sembrava ancora più minuto di
persona: scuro e coi baffetti neri pareva proprio un arabo, né più né meno.
«È lontana da qui la tua casa?» gli chiese il maresciallo.
«No, è vicina» egli rispose.
«Vuoi allora che ci passiamo un momento insieme? Giusto il tempo per dire
ai tuoi che sei rimpatriato sano e salvo?»
«No» disse Patanè «la mia casa non è... non fa per voi.» Intendeva dire - gli
altri afferrarono - che non era presentabile, che era troppo povera.
Intorno ai militari si era frattanto raccolto un piccolo sciame di monelli.
Improvvisamente Patanè ne chiamò uno per nome: «Alessio» (“Guarda, si
conoscevano” registrò Manno “e non lo facevano capire né lui né il ragazzo”) e
gli diede alcune istruzioni in dialetto. Subito il monello partì di corsa, agitando
le braccia verso l’alto in modo glorioso, perché il soldato gli aveva affidato
l’incarico d’avvertire la famiglia del suo ritorno; alcuni altri monelli, ugual-
mente scalzi e sbrindellati, lo seguirono a balzi.
«Andiamo» disse Patanè «e cerchiamo di sbrigarci. Ho mandato a dire che
sarò a casa fra un’ora.»
Ma alla capitaneria di porto la pratica si dimostrò tutt’altro che semplice: i
cinque tornarono al molo e alla barca di lì a circa due ore, accompagnati da un
ben disposto maresciallo della capitaneria che intendeva - come affermò più
d’una volta - favorire il collega dell’autocentro; ma qui si era nel ‘profondo
sud’ d’Italia, legalitario e formalista e cavilloso, e per questo suo modo di esse-
re frustrante qualsiasi iniziativa.
Sul molo c’erano due donne in attesa: la madre di Patanè (all’apparenza una
vecchia, con la pezza nera in testa, agitata, drammatica) la quale gli corse in-
contro e più che abbracciarlo si avvinghiò a lui gridando: «Figghiu! (figlio)
Figghiu miu!» ed eruppe piangendo in una farragine d’incomprensibili parole
dialettali; e una sorella più giovane di lui. Questa era muta, perciò si esprime-
va con le mani e con le dita, e anche col viso, lacrimoso e insieme illuminato
per questo straordinario ritorno: ansimava un poco, emettendo voci spezzate.
Nella sua sciupatissima divisa Patanè ostentava virile distacco da tali effu-
sioni: «Picchì (perché) matri mia, vinisti vu ccà? Vi fici (feci) dire
d’aspittarim’a (aspettarmi a) casa: picchì non lu facisti vu?» Segretamente
però era commosso come di raro in vita sua.
La figura che più colpì Manno fu la sorella mutola: certi suoi inani tentativi
di parlare, d’esprimersi anche lei con parole, dovuti all’incontenibile emozio-
ne, lo turbarono. “Noi che chiediamo ai soldati di prestarsi, di spendersi...
Pensiamo mai che possono avere a casa familiari così, dei quali sono magari il
sostegno? Però, come può essere complicata, e in certi casi tragica, la realtà
dei singoli!”
Al comando militare - preavvisato dalla capitaneria di porto - furono accolti
bene.
Ad eccezione dei tre che se n’erano andati per conto loro, e di Patanè, per il
quale Manno era riuscito a ottenere quarantotto ore di licenza, partirono col
primo treno per Palermo, ciascuno diretto al proprio deposito: Manno e Batti-
stessa quindi (quest’ultimo sempre fieramente armato di mitra) diretti a Pia-
cenza.
III
CAPITOLO QUINDICESIMO
Pochi giorni più tardi a Riccione Ambrogio riposava semivestito sul letto (in
cuor suo rimproverandosi per la propria accidia, come la mattina della visita
dei suoi genitori) quando, precisamente come quella mattina, gli fu annuncia-
ta una visita.
S’alzò in piedi, staccò - stavolta con calma - la giubba e il cinturone dalla
gruccia, li indossò e allacciò chiedendosi chi mai potesse essere il visitatore: i
genitori con certezza no, “e non ricominciamo a pensare a Tricia” si disse,
scartando dalla mente la figurina di lei che già vi stava entrando a passo sciol-
to. Se non i genitori né Tricia, chi? Forse qualche convalescente del suo reg-
gimento (ce n’erano tre o quattro a Riccione, in altre colonie: non però il suo
attendente Paccoi purtroppo), oppure convalescenti di altri corpi, di cui aveva
fatto in quei giorni conoscenza in città. “Beh, entro qualche minuto lo saprò.
Cos’è questa curiosità da donnetta?”
L’ultima persona che si sarebbe aspettato di trovare nell’atrio era suo cugi-
no Manno, che invece stava proprio là, con la fronte quasi contro una vetrata,
lo sguardo fisso nel verde nebbia delle tamerici. Gli voltava le spalle, alto di
statura, snello e biondo, con indosso una sahariana spiegazzata in modo inde-
cente.
«Manno?» lo chiamò a mezza voce Ambrogio «Sei tu?»
Il cugino si girò con vivacità mentre il viso abbronzatissimo gli s’illuminava
nel sorriso: in quel colore di cuoio i suoi occhi parevano ancora più azzurri.
«Ambrogio!» Gli venne incontro a braccia spalancate: «Sfaticatu» disse: «Se-
guiti a farti lustrare in ospedale, eh? Dalle crocerossine, vero? Vergognati!»
«Per la miseria, tu qui! Ma... come accidenti hai fatto a... Si può sapere, in
nome del cielo, in che modo hai potuto attraversare il mare? Eh?»
«Adesso te lo racconto. Possiamo uscire? O hai complicanze di disciplina, o
di visite mediche e quant’altro?»
«Nessuna complicanza. Dai andiamo.» Uscirono dal convalescenziario e
s’incamminarono verso Riccione. «Dimmi come hai fatto a tirarti fuori dalla
pentola. Racconta.»
«Se vuoi saperlo ne sono uscito da sportsman, in barchetta.»
«In barchetta?»
«Sì. È successo che proprio l’ultimo giorno, cioè quello prima dell’entrata
degli inglesi in Tunisi... fammi fare il conto: è stato domenica l’altra (però:
appena otto giorni fa, e mi sembra chissà quando...): dunque il giorno prima
dell’arrivo degli inglesi io e il mio attendente abbiamo trovato, si può dire per
caso, una barca a motore che stava per smammare. L’avevano preparata certi
delle retrovie, gente dell’autocentro e simili, tra cui un compaesano del mio
attendente. Beh, siccome s’erano resi liberi due posti... Da non credere però:
quando siamo capitati là noi, quei due posti si erano resi liberi solo da qualche
ora.»
«E tu subito a pensare che la Provvidenza li aveva preparati su misura per
voi due. Dì la verità.»
«Sì, l’ho pensato» ammise Manno; «e se devo essere sincero lo penso anco-
ra.»
«Sei rimasto sempre lo stesso, eh?» disse Ambrogio: «Anche coi gradi da
tenente. A proposito: ti faccio i miei rallegramenti per la nomina.»
«Grazie.»
«Devi pagare da bere, non credere.»
«D’accordo, al prossimo bar. Beh, se devo dirtela tutta, il viaggio in barca
non s’è poi dimostrato molto difficile.»
«In guerra, quando le cose vanno lisce, sembra così» fece notare Ambrogio:
«Ma sembra così dopo, quando tutto ormai è andato liscio.»
«Questo è piuttosto vero» convenne Manno, «hai ragione.» «In conclusione
hai fatto anche tu come il Dabòni di Lecco» osservò Ambrogio. «Sai che m’è
venuto in mente proprio stamattina mentre pensavo a te, e mi chiedevo come
te la stavi passando dietro il filo spinato?... Perché io ti credevo prigioniero, e
invece tu stavi giusto ripetendo l’impresa del Dabòni.»
«In questi giorni anch’io ho pensato un sacco di volte a lui.» «Ma dì, sei già
stato a Nomana?»
«No, non ancora. Vengo da Piacenza, m’hanno dato dieci giorni di licenza.
A Nomana ho telefonato appena arrivato, cioè ieri mattina: gli ho detto di non
avvertirti, perché volevo farti questa sorpresa. Conto di essere a casa stasera
per la cena.» Fece una pausa: «A casa, per la cena!» ripeté a sé stesso. «Pro-
prio non mi par vero.»
«Sì» disse Ambrogio. «Se pensiamo a quanti... Beh, ma racconta un po’,
stavi parlando della barca.»
«Su qualche campo minato ci dobbiamo essere passati per forza, ma non ce
ne siamo mai accorti, perché era una barchetta indigena che pescava pochis-
simo. Quanto agli aerei ne abbiamo visti diversi, però, cosa vuoi che ti dica?
forse gli abbiamo fatto compassione o schifo, non so, fatto sta che si sono
sempre fregati di noi. Per fortuna, perché ad altre barche invece non è andata
così liscia.» Rise giovanilmente.
Procedevano sull’asfalto fianco a fianco. Più alto di statura Manno, con in-
tatta la sua aria da signore malgrado la sformata sahariana cachi e gli stivali
flosci molto logori; non altrettanto bello e nobile d’aspetto e inoltre troppo
pallido, ma più robusto e in complesso con un’aria più solida Ambrogio, che
indossava l’elegante divisa diagonale e gli stivali rigidi del tempo di prima
nomina. La litoranea verso Riccione non era a quel tempo interamente fian-
cheggiata da edifici, per cui a sinistra la prospettiva si apriva spesso sulla
spiaggia sabbiosa e sul mare.
«Il mare qui» osservò Manno «non è così colorato né... che so? insomma è
diverso da quello africano. È, come posso dire? più casalingo, ti ispira tutt’altri
sentimenti. Eh? Cosa ne dici?»
«Quanto a ispirazioni lascio fare a te, lo sai. Non è roba di mia competenza:
io faccio scienze economiche, non architettura.»
«Voglio dire che questo mare, il suo colore, e anche la spiaggia e tutto il re-
sto... insomma più che altro a me fanno tornare in mente le nostre vacanze del
tempo di pace.»
«Sì, è vero, anche a me.»
«Di un po’...» La faccia di Manno si fece di nuovo ridente: «Come si chia-
mava quella ragazza a Cesenatico che ti piaceva un mucchio? Io manco l’ho
vista, sono arrivato che lei era già partita, ma tu, nel tuo fiero dolore, me n’hai
fatta una testa così, ’na capa tanta, ti ricordi?»
Ambrogio fece con la capa segno di sì, che ricordava, ma non lo seguì nel
discorso. Solo a questo punto il cugino sembrò accorgersi del suo pallore:
«Ehi, sei sicuro d’essere abbastanza in gamba per passeggiare a questo mo-
do?»
«Sì, perché?»
«Hai già fatto colazione stamattina?»
«Hai voglia. Da più d’un’ora ormai.»
«Mi sembri giù di cera, accidenti. Sei pallido.»
Ambrogio alzò le spalle: «Sai come si dice» e recitò: ‘È stata l’aria
dell’Ortigara che mi ha cambia ’l colore’.
«Tu devi averne passate più di me» disse Manno. «Sì, ben di più. E dico
senza contare le ferite. Qualcosa di quello ch’è successo in Russia l’ho sentito,
però non ho ancora le idee ben chiare. Sei tu adesso che devi raccontare, non
io.»
«Dai, sta buono. E va avanti invece. Hai fatto più d’un anno e mezzo
d’Africa tu, eh!»
Però com’era pallido Ambrogio! Invece di raccontare Manno si diede ad
esplorare intorno con gli occhi in cerca di un bar. «È più avanti, al secondo
incrocio, sulla destra» gli disse il cugino.
«Cosa?»
«Il bar con le sedie per sederci.»
Manno si mise a ridere: «Ma guarda che elemento. Ti sei accorto che io...»
«Ti conosco.»
Rimasero insieme circa tre ore. Parlarono delle loro esperienze e vicende
personali, degli amici dispersi (Stefano, Michele), di quelli tornati (Luca, don
Carlo), della Russia e della situazione al fronte russo, della forza aerea degli
‘alleati’, dell’Africa perduta, della guerra in generale, che forse era arrivata a
una svolta senza più ritorno («Anche se non è sicuro che americani, russi, in-
glesi, e partigiani di mezz’Europa uniti insieme riescano a piegare i tedeschi...
Hai visto che soldati spettacolosi? Io non avrei mai creduto che lo fossero fino
a questo punto.» «Sì, è vero, bisogna riconoscerlo.») Manno riferì anche bre-
vemente del suo viaggio in treno attraverso l’Italia: «Si vedono dappertutto i
segni dei bombardamenti: a Catania per esempio per chilometri non c’è una
casa intatta, e anche Napoli non hai idea di com’è ridotta. Non ti dico poi il
servizio dei traghetti sullo stretto di Messina, che sfacelo. L’aria che si respira
in Italia è cambiata rispetto a quando sono partito io, lo strano però è che tutti
sembrano comportarsi come niente fosse: tutti tirano a campare come prima,
senza impegnarsi in nessun modo, in nessuna direzione. O forse sbaglio?»
«Direi di no, che non sbagli» gli rispose Ambrogio: «almeno per quel poco
che posso capire stando in ospedale.»
Ambrogio finì con l’arrivare tardi a mensa. Manno, rimessosi in treno senza
aver pranzato, fece alla stazione di Bologna una puntata al bar, dove acquistò
un cartoccio di caramelle ed altri dolciumi mal definibili, tenendosi contento
di potere con quelli rimpiazzare in qualche modo il rancio di mezzogiorno.
CAPITOLO SEDICESIMO
***
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Anche a tavola dovette parlare, sollecitato ora dall’uno ora dall’altro com-
mensale malgrado i ripetuti tentativi di zia Giulia: «Basta domande, lasciatelo
mangiare in pace... Pensate da quanto tempo non mangia con un minimo di
comodità. E oltretutto oggi ha saltato il pranzo, ed è stanco, non vi rendete
conto?»
«Ma no zia» egli si schermiva: «perché? Non preoccuparti.»
Se dopo quegli interventi gli altri lo lasciavano un poco in pace, qualche
domanda finiva col farla lui: «Mi pare che quanto al mangiare le cose non sia-
no troppo cambiate rispetto a venti mesi fa. Ho l’impressione che ci sia ancora
tutto. O sbaglio? Forse stasera avete preparato meglio del solito per... per col-
pa mia? Eh, Noemi?» Noemi ridacchiava e faceva un po’ la misteriosa, senza
rispondere, mentre andava e veniva con le portate, sollecita di lui non meno
dei suoi parenti.
In effetti non fosse stato per il pane (scarso e di colore verdastro, e non effi-
cacemente rimpiazzato dai biscotti fatti in casa) la cena non sarebbe stata di-
stinguibile da quelle d’anteguerra.
«Qui in campagna» gli spiegò Francesca «non manca quasi niente, anche se
gli sfollati stanno facendo aumentare un po’ i prezzi .»
«In città però non è così» lo avvertì zio Gerardo: «Trovare qualche cosa
fuori tessera in città - e anche nelle periferie industriali come Sesto e Cinisello
- sta diventando un vero problema.»
«Ma qui a Nomana» chiese Manno «gli operai come se la cavano?»
«Coltivano tutti un po’ di terra, lo sai, o hanno parenti con un po’ di terra»
rispose lo zio. «Per ora se la cavano discretamente. Per ora» sottolineò.
«Sì» aggiunse zia Giulia, «a star male sono solo le famiglie più misere, quel-
le che anche in tempo di pace hanno sempre qualche difficoltà. Adesso quelle
bisogna aiutarle sul serio, specie se hanno bambini, se no sarebbero alla fa-
me.» (Aiutarle sul serio... Una delle massime preferite di Giulia era ‘Sèmm al
mund per vütass’: Manno sapeva che non era costume della zia limitarsi agli
enunciati.)
«Gli operai si arrangiano in molti modi» disse Francesca: «Prendi Celeste
per esempio, con tutti quei figli. Macella da tre a quattro conigli la settimana,
così non gli fa mancare la carne. Ha preso in affitto un altro pezzetto d’orto,
dove coltiva solo erba e cavoli per i conigli.»
«E sono begli animali, tu li vedessi» specificò Rodolfo: «io ho fatto qualche
scambio con lui. Sono tutti ‘giganti di Fiandra’, o incroci del nostrano col gi-
gante.»
«No, tiene anche quegli altri» interferì Giudittina: «quelli di colore rossino,
com’è che si chiamano?»
«Ho capito» le disse Manno.
«Cosa?» fece piccato Rodolfo: «i ‘fulvi di Borgogna’?»
«Sì, ecco» rispose Giudittina.
«No invece. Vedi come sei ignorante? Sono almeno quattro mesi che di
quelli non ne tiene più.»
«Beh, fa lo stesso» disse Manno, mettendo pace.
Ma era soprattutto lo zio Gerardo (che appena ne aveva l’occasione non tra-
scurava di documentarsi, e appunto in quel modo s’era fatta la sua cultura
d’autodidatta) a porre nuove domande al nipote, a chiedergli precisazioni. E a
fornirgliene, intorno al lavoro per esempio, e ai bombardamenti.
Sul finir della cena scesero dalle loro camere per il caffè (si trattava di sur-
rogato) i parenti sfollati: dopo gli abbracci e i convenevoli di rito sedettero in-
torno al tavolo - praticamente intorno a Manno - che mentre sorbiva il proprio
surrogato dovette ricominciare da capo la storia della traversata in barca. Nes-
suno, una volta sparecchiato, lasciò il tavolo: tutti volevano sentirlo ancora,
incluso lo zio Ettore di Milano, ingegnere di taglio ottocentesco che, con i suoi
occhiali a pince-nez, introduceva nell’ambiente una nota un po’ eteroclita. Le
due anziane zie di Monza - in realtà prozie - sebbene non facessero domande e
si limitassero a esclamazioni del tipo: «Oh, poveri ragazzi! - Oh, poveri figli! -
Oh, poveretti!» e ad atteggiamenti di sbigottimento, finivano con l’essere for-
se, insieme con Noemi, le più emozionate di tutti. Al di là delle singole vicen-
de, le commoveva indicibilmente il fatto di sentirle riferire da uno che vi aveva
preso parte, e di parteciparvi così in qualche modo anche loro, la cui vita era
sempre stata tanto povera di vicende.
Fuori c’era la sera di maggio, profumata di fieno e percorsa a ondate dallo
stridio dei rondoni, anch’essi - come ricordò Francesca - arrivati da poco
dall’Africa. Avevano i nidi sul margine più sporgente del tetto, in certe fessure
sotto le gronde, e prima di ritirarsi per la notte giravano tutti insieme attorno
alla casa, stridendo, inseguendosi con foga, planando, cabrando, facendo alle-
gre giravolte nell’aria.
Il loro stridio era cessato da un pezzo quando Manno si ritirò nella sua
stanza; adesso, nel sopravvenuto silenzio, in giardino si sentiva cantare
l’usignolo. Senza accendere la luce il giovane aprì una finestra e s’affacciò: il
canto veniva come sempre dalla pianta di tasso isolata ‘a breva’, cioè da nord-
est, la parte di Beolco e delle montagne.
Sul letto c’era in attesa, pronto per essere indossato, uno dei suoi pigiami,
predisposto con materna sollecitudine da zia Giulia. Mentre si toglieva la logo-
ra divisa coloniale Manno rifletté che probabilmente non l’avrebbe indossata
mai più: durante la licenza avrebbe vestito abiti borghesi, poi, per ripresentar-
si al reggimento, si sarebbe messo in grigioverde. Ricordò il pianto
dell’anziano maresciallo sulla barca... Sia pure in confuso avvertì che in quei
giorni la storia della sua patria era giunta a una svolta: cosa sarebbe venuto
adesso?
«Dio mio» mormorò, passandosi una mano sulla fronte.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Il giorno dopo dovette ripetere più volte la storia della sua fuga in barca: la
prima appena uscito in giardino all’alba, al portinaio-giardiniere, l’ultima ver-
so sera sul sagrato della chiesa, ad alcuni conoscenti che gli s’erano fatti intor-
no mentre la gente affluiva per la benedizione.
Essendo il mese di maggio le campane avevano infatti convocato il popolo
al rito, sgolandosi impetuose e poi di colpo trattenendo in un denso ronzio la
loro voce: giusto come nel maggio di tre anni prima, quando Ambrogio era
tornato per l’ultima volta dal collegio. Adesso non era più un collegiale Am-
brogio, ma un soldato, anzi un veterano, che in ospedale si curava le ferite. E
Stefano, che tre anni fa stava con lui sotto il campanile, la giovane testa pari-
mente intronata dalle campane, era morto e sepolto in un luogo di cui allora
non sospettava neppure l’esistenza: a Mescoff, in una fossa comune senza cro-
ci.
Intanto la vita continuava: sotto gli occhi di Manno si ripeteva con poche
varianti la sfilata che s’era svolta allora sotto quelli di Stefano e d’Ambrogio:
passarono puntualmente, allo stesso modo di altri operai, Costante, Tarcisio e
Ignazio; passò l’Oreste Pirovano elettricista e idraulico; seguite dal loro bran-
chetto pigolante di bambine passarono suor Candida e un’altra suora
dell’asilo; poi, in coda a una piccola folla d’operaie, ma alquanto distaccata,
arrivò Marietta ‘delle spole’ con la sua larga faccia gialla, e i capelli repulsivi, e
gli sperduti occhi d’agnello: stavolta anziché Giudittina teneva per mano una
sua minuscola nipote, dal nasino cosparso di lentiggini. Non mancò Romual-
do, l‘ubriaco comunale’, il quale ahimè camminava con passo incerto e la fac-
cia per niente compunta ma trista, segno che non era in fase di pentimento ma
di disperazione, andava però ugualmente in chiesa. Passarono Carlaccio e il
postino Chin, e quattro dei sette figli di Celeste, l’autista della ditta: avevano
stature a scaletta e alcuni gli stessi occhi straordinariamente azzurri del padre,
li aveva anche il maggiore, che li guidava, ed era un ragazzino dell’età di Ro-
dolfo, dall’aria risoluta. Ecco poi la vecchia signora Eleonora, vestita fin
dall’eternità di nero a lustrini, col cappello adorno di piume di struzzo e il ba-
stoncino da passeggio. Incredibilmente stasera non era sola, camminava infat-
ti sotto braccio a una ragazza vestita di bianco, che si muoveva con lentezza
perché la vecchia signora potesse procedere impettita. “Chi sarà quella? Una
sua parente sfollata?” si chiese Manno, senza tuttavia badarle più che tanto.
Quand’egli stava per entrare in chiesa, giunse anche la signorina Quadri
Dodini, insegnante in un ginnasio di monache a Monza, quella che aveva pian-
to per l’ingresso dei nazisti in Parigi. Costei - che anni prima aveva dato al gio-
vane ripetizioni di francese, ed era portata a fare discorsi intellettuali - lo salu-
tò con simpatia, e gli chiese non già della guerra, ma se per caso in Africa
avesse visto qualche edificio arabo particolarmente interessante, sul quale
scrivere magari un bell’articolo: «Come quello che hai pubblicato tre anni fa
nel ‘Cittadino’.» (‘Il cittadino’ era - ed è - il giornale cattolico di Monza.)
«Adesso per la verità a scrivere non ci penso» le rispose il giovane. «Però»
aggiunse per non sembrare scortese «sento che sto maturando, e questo in fin
dei conti mi potrà servire in futuro anche quanto allo scrivere.»
«Bravo Manno. Così mi piace» disse condiscendente la professoressa.
«Signorina: noi stiamo tutti quanti facendo un’esperienza che ci darà mate-
ria di riflessione per un pezzo, a me forse per tutta la vita.»
La vecchia signorina fece - senza sbilanciarsi - segno di sì, con gli occhi che
le brillavano dietro le grosse lenti; infine strinse con forza un gomito del futu-
ro architetto, a significargli la fiducia che riponeva in lui, e in tal modo si con-
gedò. Manno entrò in chiesa dopo di lei.
Andò a mettersi a destra, cioè ‘dalla parte degli uomini’. La chiesa era gre-
mita, al solito: a destra, davanti agli uomini e ai giovani, c’erano i bambini,
irrequieti come sempre: lungo le loro panche stipate andava e veniva don Ma-
rio, sorvegliandoli; a sinistra, davanti alle donne, c’erano le bambine e le ra-
gazzine, placide e placidamente sorvegliate dalle suore. Sfollati ce n’erano po-
chissimi, neppure una decina: s’individuavano anche perché le loro coppie
non s’erano scisse come quelle dei paesani, ma rimanevano unite, indifferen-
temente dalla parte delle donne o da quella degli uomini.
“Non gli vanno le nostre usanze, a quanto sembra” pensò Manno. “Beh, fac-
ciano come credono.” Era per natura disposto alla tolleranza, e tanto più in
chiesa; gli tornò tuttavia in mente quella divisione che in Libia si era dissolta
nel corso di una sola notte e tentennò la testa; “Se non ci si sottomette a un
minimo di disciplina già nella vita civile, non si può valere gran che una volta
alle armi. E infatti se pensiamo ai paesi di reclutamento alpino...” A proposito:
lui non aveva ancora un quadro chiaro di quello che avevano fatto gli alpini in
Russia. A chi rivolgersi per avere notizie di prima mano? Il suo amico Luca,
dopo essere stato a casa in licenza di convalescenza (perché ferito a una gam-
ba: da Nomana gli aveva scritto in Africa, ancora chiaramente sotto
l’impressione d’essere uscito da qualcosa di eccezionale), era ormai tornato
alle armi. “Forse uno di questi giorni potrebbe capitare a Nomana don Carlo
Gnocchi...” Oggi certamente don Carlo non era in paese, visto che in questo
momento non si trovava in chiesa. In chiesa, già... Manno ricordò d’essere in
chiesa. Si rimproverò la propria distrazione, e cercò di concentrarsi nel rito.
Officiava l’anziano prevosto, che aveva sulla nuca una selva di riccioli bian-
chi, tanto da richiamare i pastori delle montagne (“in effetti proviene da un
paese di montagna, di reclutamento alpino” pensò per un istante Manno, sulla
scia delle riflessioni precedenti); in stretta coerenza con l’aspetto pastorale del
prevosto, sull’abside della chiesa erano affrescate due file di pecore (“di razza
bergamasca, come quelle dei greggi transumanti che sostano in Brianza du-
rante l’inverno”) le quali da sinistra e da destra convergevano mansuete verso
un simbolico fonte centrale. Il rito era servito da quattro chierichetti in cotta
bianca, con i sandali e le scarpine scalcagnate dei giorni feriali ai piedi, divisi
in quel momento tra l’irrequietezza invincibile della loro età, e la riverenza che
gli veniva dall’operare attorno al sacramento. Osservatore com’era, Manno
non poté impedirsi di notarlo, ma: “Pensa alla benedizione piuttosto” s’impose
per la seconda volta.
La benedizione, un rito minore, un semplice sacramentale, cioè uno di quei
mezzi con i quali la chiesa cerca d’ottenere benessere non soltanto spirituale,
ma anche materiale, fisico, da quel datore d’ogni bene che è Dio,
Le donne partecipavano al rito cantando gli antichissimi inni latini, gli stes-
si che cantavano a volte anche durante il lavoro nelle fabbriche vincendo il
fragore dei telai e traendone conforto: il ‘Veni creator Spiritus’, ‘O sacrum
convivium’ e il ‘Tantum ergo’. Qui, nella tranquillità della chiesa, coi raggi
dell’ultimo sole ch’entravano ammansiti dalle finestre colorate, quegli inni
conducevano indefinitamente indietro nel tempo: non certo ai padri del più
lontano medio evo che li avevano composti (del tutto sconosciuti a chi canta-
va), ma alle generazioni pur scomparse delle nonne e degli altri vecchi, dalla
cui voce questi inni erano stati uditi nei primi anni della vita. Erano i canti
veramente duraturi, non stagionali del popolo, gli ultimi che il nostro popolo
abbia avuto; riportavano al cuore di ciascuno, insieme a un’ondata confusa e
struggente di memorie, il senso del tempo che passa e quello dell’eternità.
A Manno riportarono a un tratto il ricordo di sua madre, morta quand’egli
aveva quattro anni: la mamma con quel buon odore di pulito (una delle po-
chissime cose ch’egli ricordasse di lei) la quale una volta, mentr’erano in chie-
sa, l’aveva un poco stretto a sé, e lui le si era a sua volta stretto contro; questa
e pochissime altre cose Manno ricordava della madre, oltre al buon odore di
pulito che emanava da lei. Reminiscenze più complesse dovevano essere piut-
tosto sue ricostruzioni successive, magari trasposizioni di gesti di zia Giulia,
che della mamma aveva poi preso il posto. Come l’immagine di sé stesso bam-
bino che, seduto sulle ginocchia della mamma, alzava gli occhi per osservarla,
e allora la mano leggera di lei indirizzava con una carezza il suo viso verso
l’altare: verso Gesù...
Lo volse all’altare anche stavolta il viso, dopo avere aperto e chiuso ripetu-
tamente gli occhi, per vincere anche questa malinconica distrazione.
Ma ce n’era già in agguato un’altra. La ragazza biancovestita, giunta in chie-
sa al braccio della vecchia signora Eleonora (con tutta probabilità una sfollata
e dunque, a rigore, inclusa nel novero della gente ch’egli aveva poco prima
giudicato di scarso valore e interesse) si trovava davanti a lui appena al di là
della corsia centrale, cosicché nel guardare all’altare egli non poteva evitare
d’averne parte della figura dentro il campo visivo.
Ed era, detta parte di figura, costituita anzitutto da una testa che - almeno
vista così di tre quarti - richiamava (forse per il tipo di pettinatura?) le teste
delle statue greche dei libri d’arte. Era inoltre costituita, detta parte di figura,
da un collo “decisamente più spirituale di quelli delle statue greche direi:
sempre che l’aggettivo spirituale si addica a un collo”, cosa di cui il giovane lì
per lì tendeva opportunamente a dubitare. Era infine costituita, detta parte di
figura, da una vita sottile, molto verginale, che rubava gli occhi. “Accidenti” si
rimproverò Manno: “mi trovo in chiesa o dove? E allora?” Provò una sorta di
sdegno verso sé stesso: “È la sera delle distrazioni questa, e dovrebbe essere
invece la sera della concentrazione, del filiale ringraziamento a Dio che m’ha
fatto tornare a casa sano e salvo.” Chiese scusa a Dio con sincerità di cuore, e
per l’ennesima volta si concentrò nella funzione. La quale stava adesso giun-
gendo al suo culmine, in cui il celebrante, alzata con ambe le mani l’ostia
nell’ostensorio, tracciò sui presenti un gran segno di croce, il segno del recu-
pero. Manno si segnò con trasporto, giovanilmente, grato in cuor suo al Signo-
re Gesù, che sulla croce si era sacrificato per lui, per gli altri di Nomana, e per
la gente del mondo intero, compresa la sfollata vestita di bianco che costituiva
un elemento di così notevole disturbo nella prospettiva davanti a lui.
Seguì l’ultimo canto rituale, l’‘O salutaris hostia’ il cui tipo di musicalità
preludeva in modo tangibile alla chiusura della funzione. Nella gente andò
diffondendosi quel senso di avuto, di ricevuto nell’ordine spirituale, che sem-
pre nei credenti si accompagna al rito della benedizione.
La sfollata che al momento del segno di croce si era, allo stesso modo della
vecchia signora, devotamente inginocchiata nella panca di famiglia, si alzò in
piedi al pari di tutti. Tra poco - pensò d’istinto Manno - se ne sarebbe andata,
e lui forse non l’avrebbe rivista più. A tale prospettiva avvertì una sorta
d’inquietudine: questo era inammissibile, non doveva accadere.
“E perché non dovrebbe accadere? In che razza di maniera sto ragionando?
Perché dovrebbe essere inammissibile?” si chiese. “Ma guarda fino a che pun-
to mi sono incretinito. Per essere stato in questi mesi lontano dall’Italia e dalla
vista delle donne, sono ridotto al punto che ne basta una appena un po’ più
carina delle altre per darmi quasi il batticuore. E mentre sono in chiesa poi.
Beh, diciamolo pure: mi faccio schifo.”
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Stabilito questo, uscì dalla sua panca, si genuflesse sino a toccare bene col
ginocchio il pavimento, poi si voltò e avviò verso l’uscita. “Più carina delle al-
tre?” pensava intanto, già che c’era: “Beh, forse sì, e forse no. Anzi probabil-
mente no: perché infatti non m’è sembrata carina mentre entrava in chiesa? È
chiaro, dev’essere di quelle che a vederle in faccia ci rimettono. Dunque guar-
da che cretino sono: tutti questi pensamenti per una ragazza che in fin dei
conti non è neanche carina.” Uscito dalla chiesa si fermò nel pronao, con le
spalle rivolte a una delle colonne di serizzo lucente che lo componevano:
avrebbe atteso a pié fermo la sfollata per vederla in faccia a suo agio, avrebbe
dimostrato a sé stesso il granchio preso, e in conclusione la propria insulsag-
gine.
La ragazza ed Eleonora comparvero di lì a poco, di nuovo sotto braccio: ve-
nivano di continuo sorpassate e intralciate dai ragazzini che - avutane licenza
da don Mario - irrompevano dalla chiesa a sciame: le due donne camminava-
no quiete, la vecchia impettita come sempre, la giovane sciolta e gentile, e vi-
sibilmente divertita dallo scatenamento dei bambini, tra i quali si vedevano
sobbalzare anche le treccine lunghe quattro dita delle figliolette di Celeste.
“Ecco” si disse Manno dandosi ragione un po’ prima del tempo: “Ecco,
guarda.” E poi subito, addirittura senza soluzione di continuità: “Ecco cosa?
Vorresti dire che non è carina? Accidenti se è carina! È... è...” Non riusciva a
trovare l’aggettivo adeguato. “Accidenti però! Come ho fatto a non accorger-
mene prima, quando è entrata in chiesa?”
La sfollata passò a pochi metri da lui, era alta e sottile di figura, giovanissi-
ma (“Non può avere più di diciotto anni”): discese - prestando affettuosamen-
te attenzione ai passi della sua compagna - i pochi gradini del pronao, quindi,
sempre al braccio dell’altra, cominciò ad allontanarsi tra la gente nella grande
piazza acciottolata.
“E io cosa faccio? Le lascio andare?” si chiese il giovane. “Posso sempre far-
gli visita giù alla loro villa, una scusa qualsiasi la metto insieme... Però, la-
sciarle andare così!”
Intanto gli s’erano fatti attorno alcuni conoscenti, ecco uscire di chiesa e
venire verso di lui anche don Mario (il giovane aveva appunto in programma
d’attenderlo per accompagnarlo a casa): cominciarono a interrogarlo, gli chie-
devano questo e quello; rispose loro col solito garbo e anche, com’era nel suo
stile, con brio, ma la sua mente era altrove. “Chissà cosa ha visto in guerra”
pensava di lui don Mario, che se n’era accorto: “Forse adesso quelle tremende
cose gli tornano alla mente”.
CAPITOLO VENTESIMO
Nel pomeriggio del giorno successivo, alle cinque - l’ora del tè - dopo aver
attraversato a piedi il paese, Manno si presentò a ‘I dragoni’, l’ottocentesca
villa della signora Eleonora, ornata sulla facciata da medaglioni in pietra coi
profili dei più illustri milanesi del secolo scorso. Il giovane aveva atteso
quell’ora con segreta impazienza, e adesso mentre - suscitando un concitato
scampanellio - apriva lo sportello ritagliato nel portone ad arco, avvertiva una
notevole sospensione di cuore. “Quasi come al fronte prima d’un assalto” con-
statò, e si disse: “Dai, non farmi ridere”.
Al di là del portone c’era un breve andito carrozzabile lastricato in serizzo, il
bel granito erratico della Brianza, che attraversava il corpo della villa fino al
cortile interno. Solo due porte davano su quell’andito: una a sinistra, dov’era il
nucleo principale dell’edificio, con battenti di legno ermeticamente chiusi;
l’altra, più piccola, a destra. Questa era munita di vetri e tendine che la face-
vano somigliare a una porta di casa operaia: doveva trattarsi dell’ingresso alla
portineria, perché vi si affacciò il vecchio portinaio.
«Buon giorno» lo salutò Manno per primo.
«Buon giorno signore» gli rispose in dialetto il portinaio, un po’ sorpreso,
uscendo del tutto nell’andito. «Vuole che... la annunci alla signora?»
«Sì, per favore.»
«S’accomodi intanto.»
Manno annuì e si dispose a seguirlo, ma fu subito chiaro che, dopo avere
guardata la porta ermeticamente chiusa, l’anziano uomo non sapeva in realtà
dove farlo accomodare. Alla villa non giungevano visitatori estranei da un tale
numero di anni, che egli non sapeva più come regolarsi con loro.
«Beh» disse il giovane «io però preferirei aspettare qui.»
«Va bene, ritorno subito» disse l’altro, e prese per il cortile, lasciandolo so-
lo.
CAPITOLO VENTUNESIMO
Le sale d’armi - con sovraporte dipinte in oro e azzurro stinto - erano due
stanzette intercomunicanti, con panoplie di sciabole un po’ arrugginite, e fio-
retti, e maschere da scherma, alle pareti. Intercalate alle panoplie c’erano ai
muri vecchie stampe a colori, raffiguranti ciascuna un mazzo di selvaggina
appesa per le zampe; Manno individuò lepri, fagiani, beccacce, starne dalla
bella macchia a ferro di cavallo sul petto: ogni figura era d’un disegno strana-
mente spigoloso, di gusto non più attuale.
Quasi a prosecuzione d’un tale ordine d’immagini nel secondo locale
c’erano anche, accatastati sul pavimento in un angolo, gli strumenti occorrenti
all’uccellagione mediante la civetta: panioni nei loro foderi di canna dalla pun-
ta ferrata, gabbiuzze per i richiami, qualche gabbia a campana, e la gruccia per
il rapace.
«Quelle cose lì le usava una volta il povero zio Hermes» spiegò Colomba,
che non sapeva fino a che punto prendere sul serio la propria parte di guida:
«così almeno mi hanno detto.»
«Già, visto che lui è morto prima che tu nascessi.»
«Adesso le adopera il portinaio, però non in questa stagione ma d’autunno,
quando c’è il passo degli uccelli.»
«Ah, non in questa stagione, ecco, ecco, capisco.» Manno atteggiò la faccia a
compunzione, assentendo in modo caricaturale; fece anche: «Hm, hm...» co-
me avrebbe potuto fare un anziano signore in un museo, alle spiegazioni del
cicerone patentato.
«Piantala» disse Colomba mettendosi a ridere: «O non ti faccio più la spie-
ga» lo minacciò.
Il ragazzo andò all’unica finestra del locale, dai vecchi vetri che distorceva-
no un poco le immagini, legati tra loro mediante liste di piombo, e l’aprì: ap-
pena sotto il davanzale, quasi toccabile con le mani, allargava i suoi rami la
vite che ombreggiava l’ingresso dell’andito.
«Da qui, quand’è la stagione (che sarebbe poi la stessa del passo degli uccel-
li) si potrebbe senza fatica cogliere l'uva» disse.
Colomba s’affacciò al suo fianco: «Guarda, sembra un tappeto verde»
esclamò.
Sotto il tappeto verde, ma visibile attraverso alcune fenditure, saettò la ron-
dine che Manno aveva già notato al suo arrivo.
«L’hai vista?» fece Colomba, «è la rondinella che ha il nido nell’androne.
Ha quattro rondinotti, lo sai?»
Manno annuì, stavolta in modo non caricato: «Li ho visti.»
«L’altro ieri» disse Colomba «ho messo accanto al nido, distante appena
tanto così, sopra una mensola, uno scodellino con pane e
latte. Ma le rondini non se ne sono curate, se ne infischiavano. Ho finito col
levare ogni cosa.»
Manno rise, scuotendo la testa. «Gli animali neonati non si nutrono tutti di
latte, ciascuno ha il suo nutrimento appropriato» disse. Poi si mise a ridere
con più gusto, mutando impercettibilmente fisionomia, i suoi occhi preannun-
ciavano una battuta: «Certo che, se invece di rondini, si fosse trattato di ron-
doni alpini, allora il tuo scodellino poteva andar bene.»
«Perché? Bevono il latte quelli?»
«No, bevono la grappa.»
«Cosa? Ma... Cosa vuoi dire?»
«Che se tu gli metti a portata di mano, o meglio di becco, uno scodellino di
grappa, i rondoni alpini, anche se hanno appena qualche giorno di vita, se lo
scolano tutto, puoi esserne sicura.»
Colomba non capiva: non sapeva niente degli alpini, delle loro epiche bevu-
te.
Manno le dovette spiegare. “Com’è indifesa” pensava con tenerezza. Per un
attimo gli erano tornati in mente anche gli alpini: “Don Carlo...” si disse: “bi-
sogna che lo cerchi, che gli parli...” ma se lo scordò quasi subito.
Usciti dalle stanzette delle armi, passarono in corridoio davanti a una con-
sole su cui c’erano delle fotografie di Eleonora giovane che cantava: forse alla
Scala, forse al teatro Carignano di Torino; il visitatore non diede segno di no-
tarle per non doversi impegnare in commenti e complimenti. Discese le scale,
Colomba lo guidò attraverso il cortile fino alla scuderia, che aprì manovrando
il catenaccio, senza bisogno di ricorrere alla chiave. Appena entrato il giovane
comprese perché: all’interno, presso la porta, c’era un mastello con del bucato
in ammollo: «Il bucato di Graziosa» gli spiegò Colomba.
Era, quel modesto bucato, l’unica nota contemporanea là dentro.
Il locale si presentava diviso in sei poste per i cavalli: tre a destra e tre a si-
nistra di una corsia acciottolata centrale, in fondo alla quale - nella parete di
fronte all’ingresso - c’era il pozzo di caduta del fieno dal soprastante fienile. Le
poste avevano sponde di legno massiccio, lisciato dall’uso, e ciascuna la sua
greppia di ferro, di disegno quasi elegante. Sopra le greppie si scorgevano sul
muro certe macchie rettangolari, come ne restano dopo tolto un quadro che
sia rimasto appeso per molto tempo: le avevano lasciate le targhe coi nomi dei
cavalli; delle quali una sola rimaneva, col nome scritto in stampatello e ghiri-
gori.
«Nestore» compitò Manno.
«Sì» disse Colomba «era il cavallo dello zio Giulio, il figlio della zia Eleono-
ra, che è morto in guerra.»
Manno pensò al tempo, neanche molto lontano - il tempo delle carrozze - in
cui per le strade di Nomana si doveva aggirare anche qualche cavaliere. Da
non credere oggi, in questo paese operaio... “Come tutto passa” si disse incer-
to.
«Vieni, adesso ti obbligo a vedere anche le carrozze» annunciò Colomba,
che tra quelle cose morte si sentiva piuttosto a disagio, tanto da volgere ogni
poco gli occhi al mastello, come a qualcosa che la ancorasse, sia pure prosai-
camente, al presente, alla vita.
Le carrozze, due berline coperte di polvere, erano in una rimessa attigua al-
la stalla. Dove c’erano anche, appesi a bracci di legno sporgenti dal muro al-
cuni corredi di finimenti in cuoio, protetti da tele non meno impolverate.
***
CAPITOLO VENTIDUESIMO
Una volta nella strada si ritrovò sotto i medaglioni con i profili dei milanesi
illustri. Quand’era bambino aveva creduto che i dragoni da cui la villa prende-
va il nome, fossero appunto quegli otto signori lì; senza dubbio adesso altri
bambini del paese dovevano crederlo. Alzò, mentre camminava, gli occhi a
osservare qualche profilo, lesse alcuni nomi: Pietro Verri, Gian Domenico
Romagnosi (“A voi due vi pare d’essere poi tanto illustri?”), Alessandro Man-
zoni. Il Manzoni un dragone! A quest’idea gli venne da ridere: «Beh, ciao dra-
goni» li salutò infine tutti insieme.
Percorrendo le vie del paese guardava ogni cosa, le note e ben conosciute
cose del suo mondo, e adesso che l’incontro con Colomba lo stava come rinno-
vando, ogni cosa, anche la più frusta, gli pareva una scoperta, gli procurava
un’acuta gioia. Sostò brevemente in chiesa “per ringraziare Dio d’avermi tirato
fuori dai guai” si proponeva; ma la preghiera che gli venne spontanea alle lab-
bra fu il gloria: lo disse, e ridisse, e ridisse ancora, in un crescendo solenne e
quasi dirompente, come di organo, nella penombra della chiesa vuota. Non
stava ringraziando Dio per averlo salvato dalla guerra e dal mare, ma per ave-
re creata Colomba, per averla fatta com’era, per avere introdotto nel mondo
una tale creatura. Pregò con trasporto anche la madre di Dio, la benedetta tra
le donne, che si prendesse a cuore questa, e l’aiutasse a conservarsi anche in
futuro pulita e incantevole com’era adesso.
***
Superato il cancello della villa di zio Gerardo (la quale come sappiamo - a
differenza de ‘I dragoni’ - prima che una villa era stata una fabbrica, e se anche
dissimulati ne conservava diversi segni) si addentrò nel giardino con
l’intenzione di riflettere, di fare il punto.
Il sole ormai abbastanza basso lo dissuase dal mettersi tra gli alberi dove
l’aria sarebbe stata anche troppo fresca. C’era un vialetto in margine all’orto,
che conduceva alla balconata di nord, fiancheggiato su un lato da una siepe di
carpini, sull’altro da chiazze di camomilla spontanea, dal buon odore arsiccio;
lungo quello il giovane si mise a passeggiare avanti e indietro, con le mani in-
trecciate sulla schiena, riflettendo pieno d’emozione, ogni tanto allontanando
col piede qualche sassetto. “È una creatura assolutamente classica” si diceva
“non la si può definire in altro modo: una donna classica. Al giorno d’oggi, da
non credere! Potrebbe - obiettivamente - essere sorella d’Andromaca e, perché
no? sorella di Beatrice; sia per la bellezza, diciamo per l’involucro esteriore,
sia per il mondo interiore...” (Non gli passava per la mente che il mondo inte-
riore di Colomba lui non lo conosceva. Come già il mattino e il giorno prima
egli la stava idealizzando; ma non per questo noi dobbiamo sorridere: forse
anche per Andromaca e Beatrice le cose a suo tempo non sono andate più o
meno così? E son forse per questo meno mirabili le loro figure, entrambe co-
struite probabilmente in parte di realtà in parte di fantasia? Stava prendendo
forma nella mente del giovane una creatura esaltante, nuova, che tuttavia non
sarebbe potuta nascere senza la Colomba in carne e ossa - cara, attraente ra-
gazza - che abitava a ‘I dragoni’. Per questo Manno d’istinto, senza porsi tanti
problemi, s’andava esaltando alla sintesi della realtà e del sogno, come altri
ben più grandi artisti prima di lui.)
Si dava però il caso che il vialetto ch’egli percorreva passasse accanto non
già a un ‘veterrimo lauro’ come i suoi classici pensieri avrebbero comportato,
ma a un tasso: quello isolato ‘a breva’, nella zona cioè di nord-est del giardino,
su cui ogni notte cantava l’usignolo. Il quale usignolo vi stava anche in quel
momento, e avendo il nido per terra nella siepe di carpini, spiava ansioso
quell’andare e venire dell’uomo nelle immediate vicinanze di esso. Ogni volta
che Manno s’allontanava dal nido la bestiola - a lui invisibile - si rilassava e
faceva sul suo ramo qualche movimento di sollievo e gaiezza, e perfino di spa-
valderia postuma, alzando le piume del capo a mo’ di cresta come un galletto,
per tornare però di lì a poco ad abbassarle e a concentrarsi nell’osservazione
angustiata dell’intruso che - stolido come un pendolo - ecco, aveva invertito il
cammino e si riavvicinava ai suoi indifesi, fragilissimi tesori vivi, chiusi nel
piccolo cavo tra le foglie.
Finché i nervi della bestiola non ressero più: allora sbucò stridendo dal tas-
so, e svolazzando sul colmo abbastanza compatto della siepe di carpini si die-
de a inseguire Manno, serrandolo da vicino, e stridendo senza smettere un
istante con quanta voce aveva in corpo.
Al giovane quella manovra non era nuova: l’aveva già vista fare dagli usi-
gnoli nei confronti di qualche gatto in esplorazione, e anzi da bambino era più
d’una volta intervenuto in loro aiuto, lanciando ai gatti urla e sassi.
«Ho capito» disse perciò alla bestiola eccitata, arrestandosi: «Ho capito,
non mi vuoi tra i piedi. Va bene, me ne vado.» Fece dietro front e s’incamminò
verso casa. Dopo alquanti passi si voltò: vide l’usignolo ritto su uno stecco del-
la siepe che lo guardava vittorioso, col ciuffetto alzato, brontolando con iat-
tanza. Si mise a ridere: “Irresponsabile” lo sgridò mentalmente: “Non sai che
alti pensieri di poesia hai interrotto? Tu, un cantore come te?” L’uccelletto,
poiché l’uomo s’era fermato, ricominciò a dare segni d’irrequietezza e a stride-
re: «Basta, me ne vado, me ne vado» disse Manno, e proseguì verso casa senza
più fermarsi.
CAPITOLO VENTITREESIMO
Nei giorni seguenti ricevette alcune altre telefonate e anche qualche lettera
con richieste di notizie: rispose adoperandosi del suo meglio per togliere
dall’angustia chi gli si rivolgeva; era così costretto a constatare che la guerra -
se anche per lui momentaneamente sospesa - non era per niente finita.
Gliene venne una sorta di maggior determinazione a frequentare Colomba
fin tanto che le circostanze glielo consentivano. (Ma erano poi state le circo-
stanze, il caso, a fargliela incontrare - egli si chiedeva a momenti - o non piut-
tosto la Provvidenza, con una scelta deliberata? Dopo tutto, ricordava, ‘non
cade neppure un passero senza il consenso di Dio’: quest’incontro con Colom-
ba non era forse qualcosa di più importante della caduta d’un passero? Così,
per inciso, Colomba finiva con l’avere a che fare, oltre che con la rondine, gli
sgalzetòn, e l’usignolo, anche col passero del Vangelo.)
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Il giovane non lasciò passare un solo pomeriggio senza far visita a ‘I drago-
ni’, e ogni volta, arrivando alla villa e venendone via, passava sotto i meda-
glioni degli otto illustri personaggi milanesi: finì con l’acquistare una sorta di
domestichezza anche con loro; esuberante come si ritrovava in quei momenti,
non di rado ci scherzava: “Ehi, don Alessandro” diceva al Manzoni che fra tutti
gli era di gran lunga il più famigliare: “ai tuoi giorni li hai presi anche tu i tuoi
svarioni, eh?” Ne osservava con occhi ridenti l’effigie: “Per esempio pensa un
po’: hai combattuto strenuamente tutta la vita contro il classicismo per l’arte
romantica, senza renderti conto che la tua era arte classica. Tanto che per noi
posteri tu sei, né più né meno, il maggior classico della tua epoca. Eh, cosa ne
dici? O forse là in cielo - dove certamente ti trovi - a queste cose non vi inte-
ressate più tanto?”
Quelli furono per il giovane giorni di straordinaria pienezza, quali egli non
aveva fino allora mai sperimentato. Sia l’anziana che la giovane donna
l’accoglievano con crescente simpatia, e gioivano in modo indubbio della sua
presenza. Ma quei giorni passarono in un soffio, ahimè: Colomba infatti do-
vette ben presto partire.
Manno non mancò, successivamente, di visitare ancora, con puntualità, la
vecchia signora, con la quale però, in assenza della ragazza, non gli riusciva
più di conversare con l’esuberante freschezza di prima. «Il Manzoni? Ma cosa
sta dicendo, tenente? Come può parlare in tono quasi di burla di quel ‘povero
grand’uomo’?» protestava Eleonora, ripetendo il titolo di un libro che il gio-
vane aveva visto anche nelle mani di zio Gerardo (il quale, come sappiamo,
leggeva soltanto ‘I promessi sposi’: per cui se gli regalavano un libro si trattava
inevitabilmente d’una nuova edizione del romanzo, o d’uno studio sul roman-
zo o il suo autore.) E una volta, a una severa uscita del giovane su un altro effi-
giato, il Porta («Chi è il Porta? Un poeta dialettale eminente solo nella volgari-
tà») Eleonora lo rimproverò perfino un poco: «Non deve esprimersi così nei
riguardi dei poeti. La poesia è, insieme con la musica, ciò che di più confortan-
te ha la vita.»
L’età la rendeva suo malgrado un po’ retorica pensò Manno. Ma retorica o
no, la vecchia signora, e la sua casa, e il suo giardino, gli ricordavano Colom-
ba: perciò egli seguitava a venir qui ‘in pellegrinaggio’ (come si diceva) addirit-
tura con trasporto.
Dieci giorni di licenza tuttavia passano in fretta: le ore e i minuti ti fuggono
via come sabbia tra le dita; anche per lui giunse il momento di partire.
IV
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Il 24 maggio - data fatidica almeno nel ricordo di quelli che avevano com-
battuta la guerra precedente - Manno lasciò Nomana per tornare al deposito
del suo reggimento a Piacenza. Indossava una divisa nuova di panno grigio-
verde, non coloniale, acquistata a Milano presso l’Unione Militare in Monte
Napoleone, (Montenapo, la via del passeggio elegante e dei ‘gagà’: anche in
quei giorni, nonostante la guerra e i prodromi dello sfacelo.)
A una stazioncina prima di Monza, dove il suo treno sostò per incrociarne
un altro, egli si sporse dal finestrino, se mai gli capitasse di vedere sull’altro
convoglio suo cugino Ambrogio, ch’era atteso a Nomana d’ora in ora.
Ambrogio non c’era, non affacciato ai finestrini da questa parte almeno;
c’era invece Pierello, il compagno di leva d’Ambrogio, quello dal viso mite e
rotondo ch’era solito allargare le braccia e alzare gli occhi al cielo in segno di
cedimento al destino; indossava una divisa logora, con le mostrine della fante-
ria. Riconobbe Manno, e poiché era il primo compaesano in cui s’imbatteva lo
salutò gioiosamente, agitando la destra, che poi, una volta attirata
l’attenzione, portò alla bustina nel saluto militare: «Manno, Manno... Signor
tenente» disse a metà famigliare e a metà rispettoso dei regolamenti: «Dieci
giorni» e li concretò accostando le dita delle due mani spalancate: «Dieci
giorni di licenza, che ormai non me li toglie più nessuno. Eh?» annuiva rag-
giante.
«Da dove vieni? Dalla Slovenia mi pare?»
«No, Croazia.»
«Beh, Slovenia o Croazia...»
«Tutta una porcheria» ammise Pierello. «Dieci giorni di licenza! Eh?»
“Te n’accorgerai come passano in fretta dieci giorni” avrebbe voluto dirgli
Manno, ma: «Son contento per te» gli disse invece.
«Sì» fece Pierello «contento!» e insisteva ad annuire; finalmente allargò le
braccia nel gesto che Manno s’attendeva, e alzò gli occhi al cielo, conforman-
dosi al destino che gli aveva concessa una così radiosa licenza.
«Bravo Pierello» disse Manno: «mi fa piacere!» Già il suo treno accennava
a muoversi: «Ma dì, hai visto per caso se lì sul tuo treno c’è Ambrogio?»
Pierello non capiva e annuì: «Dieci giorni» ripeté.
«Va bene, ma volevo sapere: lì sul tuo treno c’è per caso Ambrogio?»
«Eh? Ambrogio?» Pierello si voltò, a guardare nella sua carrozza. Il convo-
glio di Manno stava prendendo l’abbrivo, non potevano ormai più parlarsi.
«Ciao Pierello» gridò l’ufficiale. Pierello si affacciò di nuovo e rispose agitando
il braccio, poi fece il saluto regolamentare.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
***
Durante la cena, anche per far fronte al silenzio che ogni tanto rischiava di
formarsi, Francesca riferì di Colomba: «Lo sai Ambrogio? Ancora non te
l’abbiamo detto bene: Manno s’è messo a far la corte a una ragazza.»
«Mm. Quella colonna di santa romana chiesa! Si dà ai corteggiamenti dun-
que. Ma dici sul serio o...?»
«Certo, sul serio, e come.»
«Beh, non esagerare» intervenne Giulia. «Le ha fatto, diciamo, un po’ di
compagnia, ecco.» Sfuggì un sorriso anche a lei.
«Sì, compagnia tutti i giorni le faceva. Pensa Ambrogio: finché lei è rimasta
a Nomana, ogni pomeriggio lui l’ha passato a ‘I dragoni’.»
«Beh» fece notare con indulgenza Gerardo: «dopo tutto è la sua età.»
Francesca si rivolse al fratello: «Pensa che l’ha portata anche qui in casa:
anzi ha voluto che io e lei diventassimo amiche, capisci? Ce l’ha quasi ordinato
di diventare amiche. Perché io le faccia poi coraggio, poverina, quando lui sarà
di nuovo via. Capisci? Manno ha preso una cotta proprio solenne, te lo dico
io.»
«Non esagerare» ripeté la madre «su, non esagerare.»
«Ehi, qui va a finire che m’incuriosite sul serio» disse Ambrogio. «Chi sa-
rebbe questa ragazza? Che tipo è?»
«Come t’abbiamo detto è nipote della signora Eleonora. Adesso però è par-
tita, è ritornata a casa sua, a Novara.»
«E bravo il Manno.»
«Si chiama Colomba» intervenne Rodolfo. «È un... bel nome, no?» Lo disse
a mezza voce, con strana timidezza.
«Sarà bella anche lei, immagino» disse sorridendo Ambrogio. «Si, e come»
rispose sempre con timidezza Rodolfo, e si fece a un tratto rosso fino alla radi-
ce dei capelli.
Ambrogio pensò: “Guarda che è lui, è Manno, a essere innamorato, non tu”,
ma non disse niente, lo lasciò in pace.
Da fuori veniva odore di fieno e lo stridio allegro dei rondoni che giravano
in cerchio attorno alla casa prima di ritirarsi per la notte. La vita a Nomana
continuava. Tutti quei ragazzi erano morti, ma la vita continuava.
***
Il giovane si ritirò poco dopo la cena nella sua stanza, assecondando senza
farsi pregare un invito della madre: «Sei convalescente, ricordalo, non devi
strafare, specie nei primi tempi.»
«Hai ragione mamma. Infatti mi sento un po’ stanco.»
Nella stanza c’era oltre al suo il letto di Rodolfo, che però quella sera era di-
sfatto. «Abbiamo trasferito tuo fratello nella camera di Manno, almeno per
qualche giorno» gli spiegò la madre: «Se no, con la sua mania di farsi raccon-
tare le storie di guerra, è capace di tenerti sveglio chissà fino a che ora.»
«Sì.» Neanche a questo Ambrogio aveva obiettato;, si sentiva come vuoto.
Da fuori giungeva adesso, oltre al buon odore del fieno, il canto
dell’usignolo. Il giovane, toltasi la divisa, indossò il pigiama; poi spense la luce
e spalancò del tutto la finestra.
Il canto veniva da nord-est. “Canta come al solito sul tasso ‘a breva’”. Lo
stette ad ascoltare per un certo tempo: ignorava il bisticcio intercorso pochi
giorni prima tra la bestiola e Manno. Nelle pause del canto sentiva un altro
usignolo cantare più lontano, laggiù verso la Nomanella, come una eco.
Alzò gli occhi al cielo stellato: c’era sopra di lui il gruppetto di stelle della Li-
ra, accanto alla grande croce del Cigno; appena più in là scorse quella costella-
zione mal sagomata e stramba, l’Aquila, alias Oreste Pirovano... Gli venne da
ridere: adesso che si trovava a Nomana, e l’idraulico Pirovano stava a due pas-
si, col negozietto pieno di lavabi e grappoli di rubinetti appesi alle pareti, c’era
effettivamente da ridere: la costellazione Pirovano! Per mesi in Russia egli
l’aveva chiamata così: dalla sera in cui Bonsaver gli aveva insegnato a ricono-
scerla. Aveva detto che lui la chiamava col nome dell’idraulico del suo paese -
un nome veneto - perché il disegno delle stelle dell’Aquila non raffigura il vo-
latile, ma un attrezzo da idraulico, il giratubi. Bonsaver! Bonsaver e gli altri...
Ambrogio chiuse le persiane. Il sorriso gli s’andava trasformando in smorfia.
Il canto dei due usignoli, fuori, continuava.
CAPITOLO VENTISETTESIMO
Lucia sedeva in cucina, con una mano poggiata sul piano del tavolo e l’altra
in grembo. Aveva sentito poco prima la voce d’Ambrogio ed era accorsa alla
porta, ma poi era tornata indietro e si era seduta: la prospettiva di avere, come
che sia, un’altra conferma alla tragica situazione del figlio, la paralizzava.
«Mamm Lusìa» esclamò Ambrogio entrando «cara mamm Lusìa» Prese la
destra della contadina nelle proprie mani, gliela strinse e gliela baciò. «Cara
mamm Lusìa!» ripete.
La donna, che s’era levata in piedi, lo guardava di sotto in su, con gli occhi
marroni pieni di lacrime.
Ambrogio la fece nuovamente sedere e, presa una sedia, sedette di fronte a
lei dallo stesso lato del tavolo, il quale era coperto dalla cerata a disegni con-
sunti ch’egli ricordava bene; Lucia si tolse dalla tasca del grembiule il fazzolet-
to, e mentre s’asciugava i miti occhi: «Ieri sera suo padre e io volevamo venire
da te» disse «non appena abbiamo sentito ch’eri arrivato a Nomana. Ma poi
abbiamo pensato: chissà com’è stanco...» Fece una pausa: «Ti hanno anche
ferito, povero Ambrogio.»
«Anch’io ieri sera avrei voluto venire qui da voi: non sono venuto giusto
perché ero cotto. Sarà che a forza di stare in ospedale ho imparato a fare il pol-
trone, eh?»
Lucia fece segno di no con la testa.
«Io non vi porto notizie di Stefano, purtroppo» disse il giovane, con voce il
più possibile distesa: «voi lo sapete, mamm Lusìa. Il poco, anzi il niente che
sapevo, ve l’ho scritto.»
«Sì, due volte ci hai scritto dall’ospedale, povero Ambrogio. Ti ringrazio.»
Esplose in contenuti singhiozzi: «Tanto» disse balbettando «è tutto inutile.
Ogni cosa è inutile, perché Stefano è morto.»
«Questo voi non potete dirlo» protestò il giovane. «Nessuno l’ha visto mor-
to, dunque non si può dire.»
«Ecco» gli s’aggiunse Giustina. Anche Luca sottolineò tali parole con ripe-
tuti cenni del capo.
«Non ci sono notizie di lui, né di tutto il suo reggimento» disse Ambrogio.
«Come vi ho scritto, nessuno sa cosa sia successo al Terzo bersaglieri.» Dietro
la donna scorgeva, attaccato alla sbarra, il secchio di ferro stagnato per l’acqua
del pozzo, col mestolo appeso all’orlo. Com’erano inconciliabili con questo
ambiente di pace tutti quei ricordi di morte... «Mamm Lusìa» disse il giovane
«lo sa Dio se vorrei darvi qualche buona notizia. Ma non ne ho purtroppo. È
incredibile, ma del Terzo non sa niente nessuno.»
Intervenne Luca: «Gliel’ho spiegato anch’io. In ospedale ho cercato
d’informarmi, però i bersaglieri ricoverati erano tutti del Sesto: pare impossi-
bile, ma nessuno di loro sapeva niente di quelli del Terzo.»
«È perché il Terzo doveva passare, al principio della ritirata, da un paese
che si chiama Mescoff.» Ambrogio tracciò con l’unghia, nell’intento di riuscire
più chiaro alla mamm Lusìa, qualche inutile riga sulla cerata del tavolo. «Ma
là, nel paese di Mescoff, prima dei bersaglieri erano arrivati i russi, e proba-
bilmente erano anche tanti: per questo i bersaglieri non sono poi riusciti a
passare.»
«Oh, povera me» mormorò Lucia «povera me» e cercava di raffigurarsi ciò
ch’era accaduto, e non riuscendole, prese a dondolare avanti e indietro la testa
con struggimento: «Erano tanti, vero? Tanti! Chissà cosa è successo.»
«Ma il fatto ch’erano tanti» tentò di correre ai ripari il giovane «potrebbe
anche... forse... essere stato un bene. Intendiamoci, io non lo so» aggiunse
perché in realtà non credeva a ciò che stava dicendo: «nessuno lo sa: però, per
via della sproporzione, i bersaglieri potrebbero anche essersi arresi. Se è anda-
ta così, chissà adesso quanti di loro si trovano in prigionia.»
«Ma se è prigioniero perché non scrive? Io sono sicura che Stefano farebbe
l’impossibile per scrivere, e una maniera la troverebbe, perché lo sa bene che
altrimenti noi qui... io... in queste condizioni io muoio.»
Tutti avvertivano che non si trattava d’un modo di dire: era l’atroce realtà di
questa, e d’innumerevoli altre madri. “Com’è bestiale” tornò a pensare Am-
brogio “che dalla prigionia in Russia non possa scrivere nessuno! Forse li
hanno davvero ammazzati tutti!...”
Quasi intuendo ciò che passava per la sua mente, la donna scoppiò in pianto
dirotto.
«Calmatevi mamm Lusìa» esclamò il giovane con un improvviso groppo al-
la gola: «Calmatevi. Non dovete disperarvi perché... Dio vede e Dio provve-
de...» Non sapeva più neppur lui cosa diceva.
«Dobbiamo cercare d’aver fede, mamma» fece allora Giustina: «dire rosari,
pregare senza stancarci mai, strappare al Signore la grazia.» Le tremava il
mento mentre diceva questo; il suo fidanzato Luca distolse gli occhi da lei.
«Ma se è morto, è tutto inutile, non capisci?» si ribellò Lucia. Si volse ad
Ambrogio: «Se è prigioniero perché non scrive?» ripeté. «Dimmelo. In Africa
è finita solo da pochi giorni, eppure qualcuno di quelli rimasti prigionieri ha
già scritto a casa: uno del Raperio per esempio, e qui a Nomana il Carletto
Astori che fa l’imbianchino.» Abbassò la voce: «Ve lo dico io: soltanto chi è
morto non scrive.»
Ambrogio tentennò la testa; non se la sentiva d’argomentare di nuovo, di
mettere avanti ragioni in cui poco credeva.
«Mamma, non potete pensare che i dispersi in Russia siano morti tutti» in-
tervenne allora pacatamente Luca. «Sono forse centomila, lo sapete?» Guardò
Ambrogio: «Eh?»
«Sì. Centomila dispersi, così si dice» confermò questi «e neppure uno di lo-
ro fino a oggi ha scritto a casa.»
«Se fossero morti tutti?» disse Lucia.
«Centomila persone? Come potete pensarlo, mamma?» fece costernata
Giustina.
«Io non lo credo» dichiarò con calma Luca. «Non lo credo perché sei o sette
del mio battaglione, dopo una settimana ch’erano prigionieri noi li abbiamo
liberati a Nicolaievca. Li ho visti io, con questi occhi, ci ho anche parlato. Non
li avevano uccisi, anzi i russi gli avevano dato qualcosa da mangiare.»
«Sei un bravo ragazzo tu Luca» disse Lucia: «questo fatto me l’hai già detto,
e io ci ho pensato molto.»
«Sì» ribadì Luca «è successo proprio in quel modo.»
«Ci penso di continuo» affermò Lucia: «Però sei o sette su tanti... Cosa sono
sei o sette?»
«Questo è il poco che sappiamo noi» le fece notare Luca: «ma intanto è una
cosa che fa sperare.»
Lucia rifletté. Da un che di appena percettibile che cominciò a pervadere la
sua fisionomia, Ambrogio ebbe l’impressione che dalla disperazione stesse
passando a un principio di speranza. “Dio mio!” pensò: “quante volte - ogni
giorno magari - passerà per questa altalena?” Lucia lo fissò in viso, voleva il
suo parere; egli si rese conto che non poteva tergiversare.
«Sentite mamm Lusìa: un fatto come quello che ha detto Luca è successo
anche nella nostra sacca. Un autiere i russi l’avevano incorporato nel loro
esercito, dandogli da guidare un camion, perché hanno molto bisogno di spe-
cialisti. Gli avevano detto che a guerra finita l’avrebbero rimandato a casa. In-
vece di lì a qualche giorno, a un incrocio, il suo camion è finito in bocca a noi:
c’è stata una sparatoria, lui s’è salvato ed è tornato in colonna con noi.» Ebbe
un attimo d’esitazione: gli era venuto in mente anche quel soldato di Varese,
del Trentesimo artiglieria, che ripeteva d’essere stato lui pure in mano ai russi:
quello asseriva d’essere l’unico superstite d’una colonna di prigionieri italiani
massacrati dai russi a colpi di parabellum poco fuori Arbusov. Forse però,
chissà, vaneggiava, oppure era impazzito del tutto... «Dunque» concluse Am-
brogio «di vivi ce ne sono, anche se adesso non possono scrivere. Per sapere se
sono tanti o pochi bisogna per forza aspettare la fine della guerra.»
Si fece silenzio; Lucia lo guardò sgomenta: la fine della guerra! Quanto
tempo, quanti anni si sarebbe dovuto aspettare? «Anche il signor prevosto
m’ha detto così» mormorò. Guardò Giustina, che annuì.
Dopo un po’ di silenzio Ambrogio domandò: «Come mai il pà Ferrante, e
anche la nonna e i due bambini non sono qui?»
«I bambini li ha portati la nonna a messa a Monticello» gli rispose Lucia:
«perché oggi in paese è festa e nella piazza ci sono le banchine col torrone.
Ferrante invece... pover’uomo...» La passione la costrinse a interrompersi.
«Il papà è nella stalla» spiegò Giustina.
«Vado a trovarlo, a salutarlo» disse Ambrogio alzandosi in piedi, «poi torno
qui»; e uscì.
***
Ferrante era effettivamente nella stalla, ma non lavorava. Anch’egli come
Lucia s’era accorto dell’arrivo d’Ambrogio, e non s’era risolto ad andargli in-
contro: adesso, per pudore, fingeva di lavorare: il giovane lo trovò che, col tri-
dente, insisteva nel riordinare la lettiera delle vacche, la quale era già in ordi-
ne e non aveva alcun bisogno di sistemazione.
«Grazie che sei venuto a trovarci» disse Ferrante.
«Avrei voluto arrivare con qualche buona notizia» gli rispose Ambrogio.
«Eh!...» fece Ferrante, e parve concentrarsi ancor più nel lavoro.
«L’ho visto l’ultima volta in settembre.» Dentro la sua posta il cavallino
sauro raddrizzò le orecchie e guardò il visitatore: sembrava essersi fatto atten-
to anche lui.
«Sì» annuì Ferrante, «ce l’ha scritto infatti: ha scritto che la tua è stata una
bella improvvisata. La lettera l’abbiamo ancora là nel cassetto.»
«È stato contento, sì; e anch’io.»
«Sì, ti credo.» Ferrante seguitava a manovrare il tridente, senza guardare in
viso l’interlocutore.
«Ve l’ha scritto che ho mangiato il rancio dei bersaglieri al suo plotone?
Erano tutti, dal primo all’ultimo, ragazzi in gamba e affiatati. Sono sicuro che
al bisogno si saranno aiutati uno con l’altro. Non c’è dubbio; e lo faranno an-
che adesso in prigionia.»
«Eh!» approvò genericamente Ferrante.
Ci fu una pausa piuttosto lunga. L’oleografia con sant’Antonio del porcello
era sempre là, appesa al suo posto: avrebbe dovuto irradiare pace, ma in que-
sto momento non ce la faceva. Le lacrime premevano adesso negli occhi del
contadino, che riuscì però a trattenerle.
Ambrogio si sentiva molto a disagio, aveva una gran voglia d’andarsene, di
scappare, e se ne vergognava. “La perdita d’un figlio in guerra” constatò “non
ha niente di poetico, proprio niente. Se mai fa lo stesso effetto che facevano i
corpi in decomposizione nell’erba dopo i combattimenti...” La constatazione
per cui era passato anche Manno durante la sua prima visita a Eleonora.
Il giovane si trattenne nella stalla senza quasi più dir niente. Come per in-
dagare il nuovo silenzio, a un buco nella parete presso l’effigie di sant’Antonio
s’affacciò un topolino: chissà se era lo stesso di qualche anno prima? Ambro-
gio al vederlo provò uno straordinario senso di struggimento; attese ancora un
po’, poi risolse di tornare con gli altri. «Quando sono arrivato in linea da Ste-
fano» disse a mo’ di congedo «lui montava di vedetta. Anche voi avete fatta la
guerra, sapete cosa vuol dire, cos’è un camminamento e com’è fatta una trin-
cea.» Ferrante annuì, suo malgrado interessato. «Uno di questi giorni» prose-
guì il giovane «vengo qui con più calma, e vi racconto com’era sistemato Ste-
fano là sul Don; ogni particolare insomma. Così, tanto per farvi sapere.»
«Sì» approvò Ferrante: «sì, grazie.»
Ambrogio afferrò all’altezza del gomito il braccio villoso del contadino, e lo
strinse. Poi tornò in cucina da Lucia, con la quale, e coi due fidanzati, rimase
un’altra mezz’ora. Durante questo tempo alla conversazione partecipò anche
la donna, su argomenti non in rapporto con la sorte di Stefano. Finalmente il
visitatore strinse con pietà la mano ossuta della contadina, salutò i due fidan-
zati, e venne via.
CAPITOLO VENTOTTESIMO
CAPITOLO VENTINOVESIMO
A tavola lo zio Ettore, ingegnere, che da giovane aveva studiato due anni in
Germania, senza rendersi affatto conto dello stato d’animo del nipote insisté
fin da principio nel fargli domande sulla situazione strategica venutasi a crea-
re al fronte russo.
«Dopo che sei venuto via tu i russi hanno, diciamo, terminato di prendere
Stalingrado, no?»
«Sì, in febbraio.»
«E poi sono venuti parecchio avanti.»
Anche questi erano discorsi che bisognava fare. Ambrogio avrebbe voluto
avvertire che tali notizie lui le aveva apprese dai giornali e dalla radio come
tutti; ma temeva di riuscire poco cortese verso lo zio. Riepilogò dunque la si-
tuazione strategica, anche se a parlarne direttamente a quel modo, quasi per
cognizione diretta, aveva la sensazione di bluffare un po’.
I russi dunque non avevano solo ‘terminato di occupare’ Stalingrado, ma sul
fronte sud erano venuti davvero ‘parecchio avanti’, creando un grosso saliente
intorno a Carcov. I tedeschi però, con le divisioni fresche fatte affluire in gran
fretta dalla Francia, avevano - con la consueta violenza e, si sarebbe detto, per
questa volta ancora con facilità - annientato quel saliente, ripresa Carcov, e
ristabilito un fronte in qualche modo rettilineo da capo Nord fino a Rostov sul
mar Nero, press’a poco come al termine del primo inverno di guerra. I due
enormi eserciti - di centinaia di divisioni ciascuno - in questo momento si
fronteggiavano, preparandosi a buttarsi di nuovo uno sull’altro.
«È una situazione molto pericolosa» commentava lo zio Ettore fissando sul
nipote gli occhi chiari, un po’ imbambolati dietro le lenti a pince-nez: «Se tra i
due eserciti dovesse definitivamente prevalere quello russo, cosa succederà?
In teoria potrebbe non fermarsi neppure dopo avere occupata la Germania,
potrebbe arrivare fino all’Atlantico.»
«Come andranno a finire le cose non possiamo davvero indovinarlo» gli ri-
spose Ambrogio, cercando di prendere in considerazione tale prospettiva:
«Però i tedeschi sono, uomo per uomo, o se preferisci reparto per reparto,
molto più efficienti dei russi. È vero che la sproporzione del numero è grande,
e se si tien conto che i tedeschi hanno anche tutti gli altri nemici da fronteg-
giare, è veramente enorme.»
«Gli americani, è vero?» disse Rodolfo.
«Si, e gli inglesi, e i partigiani che stanno formandosi un po’ dappertutto:
insomma hanno ormai contro mezzo mondo. Ad ogni modo se i russi dovesse-
ro spuntarla e venire sempre più avanti - cosa di cui io non sono affatto sicuro
- ogni loro progresso lo pagherebbero certamente caro.»
«Vuoi dire che arriverebbero in Germania stremati, dissanguati?»
«Sì. Credo proprio.»
«Non è detto però che si fermino per questo, una volta che non abbiano più
davanti veri oppositori.»
«Non è detto, no» ammise cupamente Ambrogio.
«O forse Stalin e gli altri responsabili potrebbero a un certo punto preoccu-
parsi per il dissanguamento del loro popolo? Il comunismo è nato umanitario,
non dimentichiamolo» disse lo zio Ettore, che essendo di formazione mentale
laica era l’unico fra i commensali disposto a fare qualche credito a
quell’ideologia dichiaratamente atea.
«No zio, cosa dici? Umanitari quelli? No, in questo ti sbagli!»
«Dico che lo erano in partenza, al loro inizio, quanto meno come program-
ma.»
«Al loro inizio io non so, lo saranno stati. Ma oggi!» Ambrogio riferì qualco-
sa dei massacri, vere e proprie ecatombi, che avevano fatto per costringere i
loro contadini a entrare nelle fattorie collettive. Poi si soffermò sulle proprie
esperienze dirette del modo disumano con cui i comandi sovietici impiegava-
no i loro uomini.
«Hai capito!» mormorava ogni tanto interessato lo zio Ettore: «Hai capito!
Nemmeno Cadorna nell’altra guerra faceva un simile spreco di soldati.»
«Povera gente» osservò invece Gerardo, che essendo d’estrazione popolare
era autenticamente sensibile alle sofferenze del popolo: «Pensate, alla fine
sono ragazzi come i nostri, o padri di famiglia come noi. Povera gente.»
«E anche questo solo fatto, che adesso non consentono ai prigionieri di
scrivere a casa?» fece osservare Ambrogio allo zio: «Non è un indice sufficien-
te del loro livello umanitario?»
Intervenne la madre Giulia: «Come potevi pensare» rimproverò il cognato
«che dei senza Dio siano umanitari? Non ti rendi conto che è un controsen-
so?»
Le due anziane zie di Monza approvavano con la testa. Lo zio Ettore - ap-
punto perché tendenzialmente laico - si mise invece a sorridere dietro i suoi
occhiali alla Trotschi. (Forse anche altri sorrideranno, al leggerle, delle parole
di Giulia: senza rendersi conto che i fatti, gli invincibili fatti, davano ragione -
e clamorosamente ragione - al suo buon senso cristiano.)
Noemi frattanto andava e veniva tra sala e cucina con le portate; ogni tanto
Francesca e la stessa Giulia si alzavano per darle una mano. Tentava d’alzarsi
anche Giudittina: per aiutare asseriva, ma era regolarmente bloccata dalla
madre che: «No, sta seduta, oggi non ce n’è bisogno» le diceva. Rodolfo allora:
«Aiutare tu? A far cosa? Confusione?»
Giudittina - gli replicava facendogli le boccacce, correva qualche epiteto.
Per cui interveniva l’una o l’altra delle due zie di Monza: «Al tuo fratellino?
Questi dispetti? Su da brava...» e sorrideva benevola, invitando i due ragazzi
alla conciliazione. Per il resto le zie - intimamente spaventate da quelle pro-
spettive di così spietata violenza - non prendevano parte alla conversazione se
non costrette da apposite domande di Giulia e di Francesca. Preferivano ascol-
tare senza perdere una sola parola ciò che gli altri, e in particolare Ambrogio,
dicevano: era il loro modo riflesso di partecipare alle cose tremende che sta-
vano succedendo nel mondo, quelle cose che, da un certo tempo in qua, si fa-
cevano sentire anche nella loro vita incolore e priva d’avvenimenti. (La loro
vita senza novità! Era una sorta d’interminabile attesa: ma di cosa ormai? Una
volta, tanti anni fa, quand’erano giovani ragazze, avevano atteso l’amore che le
completasse... Ma l’amore per loro non era venuto, ed esse avevano seguitato
ad attendere: non avrebbero cessato d’attendere fino al giorno della loro mor-
te. Era da sperare che non se ne rendessero conto. Forse però se ne rendevano
conto, e non ne facevano parola per non appenare gli altri, per ‘non disturba-
re’ - la loro preoccupazione d’ogni momento - gli altri.)
Il discorso tornò sui tedeschi, perché Gerardo voleva essere informato me-
glio circa la loro efficienza: l’argomento lo interessava, visto che in passato se
li era trovati di fronte come concorrenti in più d’una esportazione, e ragione-
volmente s’aspettava, una volta finita la guerra, di trovarseli ancora di fronte.
«Non capisco» osservò al figlio: «Se tra i tedeschi e i russi c’è la sproporzio-
ne d’efficienza che tu dici, come mai a Stalingrado le cose sono andate come
sono andate?»
«Questo non me lo spiego nemmeno io» ammise Ambrogio: «Devo dirti che
quella resa non me l’aspettavo. Va bene che a Stalingrado si trattava
d’un’armata contro cinque o sei, e rifornita dall’aviazione, cioè rifornita solo a
metà: ma in base alla mia esperienza ero convinto che i tedeschi, una volta
resisi conto di non poter tenere la città, avrebbero rotto l’accerchiamento e
sarebbero venuti via. Come hanno fatto a Cercovo, per intenderci. Se ci si met-
tevano, le linee russe le avrebbero sfondate, di questo rimango convinto: per-
ché dunque non si sono mossi? Questo non lo capisco.»
Ignorava che a vietare caparbiamente alla Sesta armata di ritirarsi era stato
Hitler in persona, contro il parere di tutti i militari; ignorava - e sino alla fine
della guerra le avrebbe ignorate - le pressanti richieste del comandante tede-
sco accerchiato perché in dicembre gli fosse concesso di lasciare la città, e di
raggiungere i duecento carri armati del generale Hoth che da sud, dopo essersi
fatti strada distruggendo successivamente circa mille carri russi, erano arrivati
a una cinquantina di chilometri da Stalingrado.
«Resta il fatto che, per quanto lurchi, i tedeschi sono soldati tremendamen-
te efficienti» disse Ambrogio: «e non soltanto per la loro organizzazione, che è
perfetta, ma anche perché sono, uno per uno, uomini valorosi nel senso che
questa parola ha sempre avuto. Voglio dire che nessun altro soldato è disposto
a dare la vita in combattimento come loro.»
Tutti ascoltavano senza commentare.
«Questo gli va riconosciuto» disse il giovane: «a ciascuno il suo. Bisogna
però anche dire che in certe cose i tedeschi sono ciechi in maniera incredibi-
le.»
«In quali cose?» chiese lo zio Ettore.
«Basta dire questo: che avrebbero potuto prendere la Russia con molte me-
no divisioni di quelle che hanno messo in campo.»
«Ma... cosa stai dicendo?»
«Sì, perché al principio pochi tra i russi gli si opponevano con impegno.
Non lo sai? Questa non è propaganda, è realtà. I russi speravano che i tedeschi
li liberassero dal comunismo: all’entrata in tanti paesi - parlo del principio
della guerra - la gente veniva incontro alle truppe, anche a quelle italiane, col
pane e col sale, e partigiani non ce n’erano. I tedeschi dovevano fare i conti
forse più con lo spazio e la mancanza di strade che con l’esercito russo, che
pure, all’inizio, era armatissimo; ecco perché sono arrivati in pochi mesi fino a
Mosca, e se non li avesse bloccati il fango, probabilmente nell’autunno del 41
l’avrebbero anche presa. Ma in che modo hanno corrisposto alle aspettative
dei russi? Da quei disgraziati che sono, cioè considerandoli sotto-uomini, mal-
trattandoli in tutti i modi, e ammazzandone un’infinità: è una cosa di cui qui
in Italia non si ha neanche l’idea. E coi disertori? Erano un mare al principio:
beh, soltanto perché il comando russo ce ne mescolava qualcuno col compito
di fare poi il partigiano, i tedeschi hanno deciso di trattarli tutti quanti come
possibili partigiani, cioè in modo barbaro. Il risultato è che tutti i russi hanno
cominciato a opporsi con ogni loro forza, e nelle zone occupate a darsi alla
macchia. Capisci zio? Ecco cos’hanno ottenuto i tedeschi con la loro cecità.»
Ambrogio tacque per un po’, annuendo come chi avrebbe ancora non poche
cose da aggiungere.
«È incredibile» commentava il padre «incredibile!»
«Beh, è la loro... come dire?» s’ingegnò di spiegare a Gerardo e agli altri lo
zio Ettore che conosceva la Germania: «il loro... schematismo mentale, dei
tedeschi, che... Ecco, è questo.»
«Adesso basta» intervenne la madre Giulia, preoccupata che il figlio si stan-
casse: «Lo sai che non devi affaticarti; adesso lascia che parlino un po’ gli al-
tri.»
Ambrogio tentò lì per lì di schermirsi, ma poi seguì passivamente il consi-
glio materno. La conversazione - che proseguiva, e alla quale egli prendeva
parte solo con qualche frase - poco alla volta finì con l’interessarlo sempre
meno. Tornava invece a pungerlo il ricordo della mamm Lusìa, incontrata
qualche ora prima alla Nomanella. Nello stesso stato d’animo avrebbe potuto
trovarsi in questo momento sua madre... E a penare come Lucia era la grande
maggioranza delle madri dei militari italiani da lui incontrati o visti nel corso
dell’inverno al fronte russo...
Ogni tanto il giovane si versava sopra pensiero e quasi automaticamente del
vino da una limpida caraffa di cristallo che aveva davanti, finì contro le sue
abitudini col vuotarla. Allora Noemi la tolse e la riportò piena; e di nuovo Am-
brogio prese a versarsi da bere. Si alzò da tavola un po’ stordito.
CAPITOLO TRENTESIMO
Indugiò in tinello con gli altri che - prima d’uscire in giardino - vi presero in
piedi un surrogato di caffè. Stava per chiedere il permesso di ritirarsi in came-
ra sua (“Le ferite mi giustificano anche del sonno dovuto al vino” pensava,
“anzi lo nobilitano: quando tornerò a vergognarmi di me stesso?”) allorché
tramite ‘telefonino’ (il citofono d’allora) la portineria annunciò che c’era: «Il
Pierello della frazione Lodosa, con una certa Savina, madre d’un soldato di-
sperso in Russia.» «Dì che li facciano passare» disse Ambrogio a Francesca,
che aveva risposto all’apparecchio; quindi uscì in giardino incontro ai due.
I quali già venivano verso la casa, accompagnati dal portinaio-giardiniere.
La madre del disperso era a colpo d’occhio un’operaia: in abito festivo, teneva
in mano una fotografia, ed essendo nuova del luogo procedeva guardandosi
intorno con timidezza. Pierello al vedere Ambrogio si arrestò e spalancò le
braccia; anche Ambrogio lo salutò agitando vivamente una mano, dopo di che
i due si affrettarono uno incontro all’altro e si strinsero con effusione la mano.
«Piero, lo sapevo che eri in licenza» disse Ambrogio in dialetto.
«Eh» rispose Piero, «siamo qui. Tu piuttosto... Hai visto la strega, eh?»
«Proprio» convenne Ambrogio. «Ma dì, quanto tempo è che non
c’incontriamo noi due?»
L’altro ritrasse la testa tra le spalle come di fronte a uno sproposito: «È da
quel giorno, lo ricordi, no? che m’hai portato al distretto.»
«Ecco, infatti.»
«Quante cose ci sarebbero da raccontare!» disse Piero. «Beh, basta.» Passò
a presentargli la donna, che sembrava prendere come un buon auspicio quelle
espressioni amicali: «Questa è la Savina, la mamma del Dino, il Dino Riga-
monti della Lodosa. Siccome abita vicino a casa mia, ho pensato di portartela
qui: ‘Chissà che Ambrogio una mezza strada per avere qualche notizia non la
trovi’, ho pensato.»
Ambrogio strinse con pietà la mano della donna: «Non scrive più a casa dai
giorni di Natale, è vero?»
«Sì» rispose la poveretta, guardandolo con occhi improvvisamente timoro-
si.
“Anche questa come la mamm Lusìa” pensò il giovane: “vorrebbe più d’ogni
cosa al mondo avere notizie, e nello stesso tempo le teme.” «In che reggimento
era il vostro ragazzo?» le chiese, sempre in dialetto.
«Si chiama Rigamonti Davide, è questo.» La donna gli porse la fotografia
che teneva nella sinistra.
Raffigurava, a mezzo busto, un giovanotto paesano vestito da soldato.
«Ah, me lo ricordo» disse Ambrogio: «sì, lo conosco di vista. Della Lodosa
infatti.» Si volse a Pierello: «Ha qualche anno più di noi, vero? Dunque era in
Russia anche lui. Lo sai in quale divisione, in che reggimento?»
Pierello tentennò la testa: «Neanche se m’ammazzi (a damm la mort) po-
trei risponderti» disse. «So appena ch’è di fanteria. Voi però mamm Savina i
dati ce li dovreste avere.»
«È della classe del 18» disse la donna, andando con gli occhi dall’uno
all’altro.
«Del 18, sì. Ma di che reggimento?» le chiese di nuovo Ambrogio. «Ha scrit-
to l’ultima volta il 14 dicembre: una di quelle carte postali.»
«L’avete qui?»
«No» rispose la mamm Savina. «Con me doveva venire anche mio marito,
forse lui lo sa, ma poi all’ultimo momento... Non ha più spirito il mio uomo.»
A queste parole il portinaio, che aveva seguito ogni frase con grande atten-
zione, fece segno di no con la testa, a significare che secondo lui non era affat-
to questione di pochezza d’animo del marito; poi si scostò dagli altri e tornò
alla portineria.
Ambrogio diede un’occhiata al retro della fotografia: «Ah, guarda» disse,
«l’indirizzo è qui.» Lesse: «Rigamonti Davide, classe 1918, 37° fanteria, 2°
a
battaglione, 2 compagnia, Posta Militare 53. Era... voglio dire, è della divi-
sione Ravenna.»
«Rav...» mormorò la donna. «Ma allora lei sa qualche cosa! L’ha forse vi-
sto? L’ha incontrato?»
Ambrogio fece segno di no con la testa. «Mi spiace» rispose sempre in dia-
letto: «non l’ho visto né incontrato; in Russia non ho visto nessuno di questa
divisione. Non stavano vicino a noi. Purtroppo non posso darvi nessuna noti-
zia.»
«Oh» mormorò la donna «oh, povera me! Oh, povera Savina!» Le lacrime
cominciarono a sgorgarle dagli occhi; però non si lasciava andare, tentava
d’inghiottirle.
«Venite» disse Ambrogio ai due visitatori: «Non stiamo qui in piedi. En-
triamo in casa.»
«No, no, è inutile» rispose la donna. «Ho già disturbato anche troppo. Se lei
non sa niente del mio Dino, è inutile.»
«Venite in casa mamm Savina» insisté Ambrogio, prendendola anche per
un braccio: «Vediamo se si può trovare una strada per arrivare ad avere qual-
che notizia. Su, venite.»
«Oh, sapesse, caro il mio signore» si lamentò la povera madre mentre cede-
va alla sua amorevole insistenza «in quanti posti siamo già state io e sua sorel-
la. A Milano, alla stazione Centrale quando in marzo arrivavano quei treni...
Con la fotografia, a tenerla alta così per farla vedere ai soldati: ma niente, è
stato sempre per niente. Quante donne c’erano con le fotografie, se lei avesse
visto! Oh, poverette, poverette! Mia figlia è andata anche all’ospedale di Bag-
gio, e in altri posti, ma sempre...» Tentennò la testa: «Tanto che adesso non
vuole più andare da nessuna parte: ‘Basta, dice, basta. Mamma, non serve a
niente, non vedete? Non sa mai niente nessuno.’ S’è persa di spirito, capite? E
pensare che ne aveva tanto al principio, a quel tempo faceva coraggio anche a
me.»
Ambrogio fece entrare i due nello studio e li fece accomodare; poi sedette a
sua volta con un notes e una matita in mano. Ma l’unico piano che aveva preso
forma nella sua mente: di cercare il deposito del Trentasettesimo fanteria per
svolgervi indagini tra i superstiti del fronte, si mostrò immediatamente supe-
rato: la sorella del disperso infatti a quel deposito in Alessandria c’era già stata
due volte.
«Ma ha parlato di persona con i compagni di suo figlio? Voglio dire con
quelli della sua compagnia, che erano con lui nella ritirata?» «Sì, è stato il
cappellano a farli chiamare. Sì, mia figlia ci ha parlato, ma nessuno ha saputo
dirle niente di preciso, nessuno. A meno che... A meno che tutti, e specialmen-
te mia figlia, mi nascondano la verità.»
«Ma no, mamm Savina. Cosa dite? Perché dovrebbero farlo?» obiettò Pie-
ro.
«Ecco: perché dovrebbero farlo? Io a stare così nell’incertezza divento mat-
ta, matta divento, e lei, mia figlia, lo vede. Qualunque cosa - tenga bene a
mente - qualunque cosa per una mamma sarebbe meglio di questa incertezza.
Come posso avere un momento di pace con questa raspa nel cuore? Non smet-
to di domandarmi se è vivo o se è morto. E a momenti mi persuado che è vivo,
e a momenti che è morto. Per me è una... è come... Voglio dire... Io non so
spiegarmi.»
Ambrogio la guardava con un nodo alla gola; anche Pierello taceva, tenten-
nando la testa.
«Qualunque cosa sarebbe meglio di questa incertezza: anche sapere che lui,
il mio Dino, è... è... No. No, questo no. Non devo dirlo, non devo neanche pen-
sarlo, altrimenti il Signore mi castiga e me lo fa perdere davvero.»
Guardò i due impaurita di ciò che, per liberarsi dal tormento, aveva osato
pensare.
«Di cosa volete che vi castighi il Signore?» disse Ambrogio. «Castigare voi?
Ma voi siete in croce tal quale come lui, non capite? Proprio come lui: senza
colpa, allo stesso modo.»
«Sì, è così, oh, è proprio così... Come ha detto giusto! Io sono in croce, in
croce.»
Entrò Francesca con una bottiglia e dei bicchierini su un vassoio. Al vedere
la donna in quello stato si turbò, ma lì per lì non seppe intervenire; posò il
vassoio sulla scrivania, e mentre versava il liquore nei bicchierini, ogni tanto
la guardava.
«No, perché?» le si rivolse la donna tra i singhiozzi: «Non si disturbi signo-
rina. E poi liquori io non ne prendo mai, non ci sono abituata. Oh che vergo-
gna, oh quanti fastidi che do.»
Pierello, dolente, seguiva ogni sua parola negando con la testa. «Non parli
di fastidi» le disse con dolcezza Francesca, «non deve dire così.»
«Sentite mamm Savina: supponete che fossi rimasto... via io» esemplificò
Ambrogio: «e oggi mia madre fosse venuta a casa vostra a chiedere notizie; voi
questo l’avreste chiamato un fastidio, un disturbo? No di sicuro. Ci sono mo-
menti che queste cose non si pensano nemmeno. Non è così?»
La donna annuì dolorosamente.
«Ecco, dunque basta, non lo pensate nemmeno di disturbare.»
«Ma il liquore non posso... Non ci sono abituata.»
«Va bene» disse allora Ambrogio «un caffè dunque. Sì, è meglio. Ma vi av-
verto» e cercava sorridendo d’allentare un po’ la tensione «che è solo surroga-
to: noi lo abbiamo appena bevuto.»
«No» spiegò allora Francesca, che stava porgendo il bicchierino a Pierello:
«Tu non lo sai, ma un po’ di caffè vero c’è ancora. Poco, ma c’è. Adesso ve lo
preparo.»
«Ecco, brava» approvò Ambrogio.
Al vedersi oggetto di tante gentilezze, la povera madre passò attraverso una
nuova crisi di pianto.
Ambrogio - che aveva levato un istante il proprio bicchierino accennando a
un brindisi con Pierello - lasciò che Savina si calmasse un po’, quindi le ripeté,
sforzandosi d’essere convincente, gli argomenti di speranza che insieme con
Luca aveva elencati a Lucia poche ore prima: i dispersi erano forse centomila
(«Vi ripeto: centomila uomini...») e non potevano essersi tutti volatilizzati.
Molti dovevano essere ‘per forza’ prigionieri, e a guerra finita i prigionieri tor-
nano a casa. Ma perché - chiedeva la donna - se era così, non scrivevano? E la
solita, ripetuta domanda: perché quelli fatti prigionieri in Africa scrivevano, e
perfino dall’America arrivavano notizie, mentre dalla Russia non scriveva nes-
suno?
Ambrogio buttò là qualche frase sulla trascuratezza che c’è nell’ambiente
sovietico in ordine alla sorte dei singoli, senza però insistere troppo, per non
spaventarla ancora di più.
Tornò Francesca con due tazzine di caffè buono, profumato. Ne offrì una al-
la donna e l’altra prese a sorbirla lei, con quieta grazia; intanto la intratteneva
con parole distensive. Dopo di che, insieme col fratello, la accompagnò fino
alla strada.
Pierello rimase con Ambrogio ancora un po’, ma ormai era troppo frastor-
nato, tanto che - contro l’aspettativa dell’amico - non allargò neppure una vol-
ta le braccia in segno di cedimento al destino. Se ne andò con un pretesto,
promettendo di tornare il giorno seguente «quando tutt’e due saremo più di
buona voglia».
Ambrogio si ritirò nella sua camera con animo affranto; s’era fatto promet-
tere dalla mamm Savina che all’indomani gli avrebbe inviato, tramite la figlia,
tutti i ragguagli disponibili, in base ai quali egli avrebbe poi studiato il da farsi.
Ma sapeva già che non gli sarebbe stato possibile approdare ad alcunché di
concreto. “È davvero incredibile però” pensava “che di tutti quei ragazzi non si
abbia una pur minima notizia. Cosa ne sarà in questo momento di quel pove-
raccio? E di Stefano? E di tutti gli altri? Del Michele Tintori? Cosa dirò io al
padre di Michele?... Non so che darei per sapere se in questo momento ci sono
dei prigionieri vivi in mano ai russi oppure no.”
PARTE SECONDA
‘Est locus extremis Scythiae glacialis in oris, triste
solum... Frigus iners illic habitant Pallorque Tremor-
que et jejuna Fames.’ (’C’è un luogo nelle remote lande
della Russia glaciale, triste posto... là abitano il Fred-
do inerte e il Pallore e il Tremore e la Fame struggibu-
della.’ - La sede della Fame, in Ovidio, Metamorfosi
VIII)
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
L’automobile fornita dalla polizia militare al commissario (una modernis-
sima vettura americana carrozzata a furgone) era giunta al lager in piena not-
te.
Su richiesta dello stesso commissario, il prigioniero era stato subito asse-
gnato a un reparto. «Non avete per caso una squadra comandata da un pre-
te?» aveva detto per scherno il commissario, dapprima in italiano e poi in rus-
so, al comandante, un colonnello: «Assegnatelo a quella, che gli farete un
grosso piacere.»
A quanto pareva una squadra comandata da un prete c’era davvero perché:
«Da, da (Sì, sì)» aveva risposto il comandante russo. Palesemente alticcio e
inquieto per l’inattesa visita di quell’inviato da Mosca, costui aveva dato con
poche parole a uno dei soldati del corpo di guardia le necessarie istruzioni.
Camminando di malavoglia la guardia precedette Michele attraverso un
largo piazzale buio, coperto di ghiaccio e neve calpestata e incredibilmente
sporca. Il prigioniero si guardava intorno addirittura con avidità: essendo sce-
so dal furgone davanti alla porta del comando, poco egli aveva finora potuto
vedere della sua destinazione; aveva l’impressione di trovarsi nel cortile d’una
grande scuderia, forse, chissà, dell’epoca zarista... Come che sia tra poco
avrebbe incontrato i suoi connazionali, la cosa lo emozionava: questione solo
di qualche minuto ormai. Per evitar d’inciampare, la guardia s’illuminava ogni
tanto il percorso davanti ai piedi con una torcia elettrica, il cui cono di luce
investì improvvisamente la testa di un cadavere nudo, dalla bocca spalancata.
A tale visione Michele sbarrò gli occhi, li richiuse, li riaprì: non si sbagliava.
«Acci...» esclamò inorridito: «Questo cos’è?» e s’arrestò.
La guardia, voltatasi a mezzo, gli disse qualche parola incomprensibile, e
perché non rimanesse lì fermo: «Davai, davai» lo sollecitò.
Il giovane riprese a camminare, e ogni tanto si voltava a guardare in dire-
zione del cadavere; il suo animo era entrato in gran subbuglio: in che razza di
posto era capitato? Cercò d’esplorare intorno con gli occhi, se per caso ci fos-
sero altri cadaveri, ma il buio, e la neve sempre più sordida e perciò priva di
riflessi, gl’impedivano di darsi una risposta. Attraversato che ebbero per inte-
ro il cortile verso una porta che aveva, anch’essa, l’aspetto d’una porta di scu-
deria, la guardia illuminò per lui, a poca distanza da quella, un mucchio di og-
getti strani e biancastri di forma irregolare,, che si rivelarono cadaveri nudi.
Disse anche qualcosa, muovendo avanti e indietro il cono di luce su quelle
forme sbilenche, che fino a qualche giorno prima erano state giovani corpi
umani.
“Signore Iddio!” non poté trattenersi dall’invocare mentalmente Michele,
fissando con sgomento quel groviglio terrificante.
Dietro il quale emersero di colpo due soldati italiani dall’inconfondibile
cappotto a pelliccia, che balzati su da terra - dove evidentemente stavano ac-
cucciati - fuggirono via con strepito sulla neve gelata. La guardia lanciò un ur-
lo, e indicandoli con la torcia disse al sottotenente prigioniero alcune concitate
parole; poi si calmò, scrollò le spalle: «Nicevò (non importa)» concluse. Rag-
giunta la porta l’aprì con un piede, e facendo luce all’interno della costruzione:
«Davai» ordinò al prigioniero.
Questi entrò. Non era assolutamente in grado di spiegarsi la strana appari-
zione e la fuga dei due soldati. Cosa diavolo potevano fare nascosti dietro i ca-
daveri? Ma non indugiò a chiederselo; chiamò invece a raccolta tutto il pro-
prio coraggio: “In fin dei conti” si disse “anche in questo posto il peggio che
può succedermi è di morire. Ho affrontata la morte tante volte, su, andiamo
avanti.”
All’interno la costruzione si rivelò definitivamente una scuderia militare,
vecchia e molto malandata; il soffitto era in più punti sconnesso e rotto, le fi-
nestre - tutte a forma di mezzaluna - erano prive di vetri, e sui muri luccicava-
no qua e là patine di ghiaccio. C’erano tuttora i box per i cavalli, e gremiti
all’interno dei box, ma anche disseminati nel corridoio, più che vedersi
s’indovinavano innumerevoli corpi umani; dai quali si levava un russare con-
fuso e pesante, mescolato a qualche voce spezzata e a gemiti; l’aria era am-
morbata da un urtante tanfo di sterco umano.
La guardia puntò la torcia su uno dei box più vicini, facendovi oscillare la
luce sopra: «Pop» disse, e ripete: «pop.»
Il sottotenente raggiunse il box, chiuso al pari degli altri da una cancellata
di legno: dentro, per terra, intravide uno strato di corpi stipati. «Qui?» chiese
alla guardia.
«Da, da (Sì, sì)» rispose quella, e scostato dal box il cono di luce, fece dietro
front e se ne andò.
***
Michele si ritrovò nel buio più completo. Rimase per qualche tempo immo-
bile, poi tastò adagio con le mani la cancellata di legno e coi piedi il pavimento
davanti ad essa, quindi, vincendo il ribrezzo (quei cadaveri fuori gli facevano
ora supporre d’essere capitato in un ambiente infettato da qualche epidemia)
piegò con lentezza le ginocchia e sedette per terra, appoggiando la schiena alla
cancellata.
Allora il corpo che giaceva immediatamente al di là delle sbarre
«Chi sei?» si sentì chiedere a bassa voce.
«Sottotenente Tintori, dell’Ottantunesimo Torino. E tu?»
«Don Turla, cappellano del battaglione Saluzzo.»
«Sei tu il pop capo squadra?»
«Sì, il naciàlnich. Sono io. Perché?»
«Mi hanno assegnato alla tua squadra.» Pausa. «Battaglione Saluzzo hai
detto? Ci sono altri alpini qui dentro?»
«Hai voglia, un mucchio.»
«Da come parli mi sembri bergamasco o bresciano.»
«Sono bergamasco.»
«Io della provincia di Milano.»
«Come hai detto che ti chiami?»
«Tintori. Michele Tintori. C’è qualcuno dell’Ottantunesimo fanteria Torino
qui dentro?»
«Credo di no. Forse, chissà, ce ne saranno nelle scuderie dei soldati. Qui in
questa siamo tutti ufficiali.»
“Acc...” si disse mentalmente il Tintori: “Tutti ufficiali! Quanti ne devono
aver presi! Forse anche gli alpini sono rimasti accerchiati come noi?” Stava
per domandarlo, ma: «Tu non sei di questo lager» gli disse l’altro: «Da dove
arrivi?»
«Mi hanno portato qui adesso.»
«T’hanno appena preso?»
«No, mi hanno preso ad Arbusov, poco prima di Natale. Hai sentito parlare
di Arbusov?»
«No.»
«Un gran brutto posto.»
«Quanto a brutti posti, in guerra non c’è che da scegliere» affermò con
buon senso bergamasco don Turla. Poi: «Prima di Natale, hai detto?»
«Sì. I russi che m’hanno preso s’erano messi in testa che avessi chissà quali
informazioni militari. Una storia complicata, te la racconterò. Soltanto oggi la
polizia mi ha lasciato andare, cioè mi ha portato qui.»
«Da prima di Natale? Sei stato due mesi con la polizia?»
«Sì. Ma... Cosa vuoi dire? In mano alla polizia come prigioniero. Cosa stai
pensando?»
Il cappellano, dall’altra parte delle sbarre, pareva perplesso.
«Cosa stai pensando?» ripeté il sottotenente. «Beh, senti, adesso pensa
quello che vuoi. Poi mi conoscerai e ti ricrederai.» Fece una pausa: «Come si
chiama questo campo?»
«Crinovaia, è il lager di Crinovaia.»
«Dimmi una cosa: ho visto un... una specie di mucchio di morti poco fuori
della porta. Cosa significa? Che c’è un’epidemia? Forse di tifo petecchiale?»
«Nessuna epidemia» disse don Turla. «Siamo immersi nei pidocchi fino al
collo, ma niente epidemie per adesso. Grazie a Dio.»
«E quel mucchio di morti?»
«Sono morti di fame. In cortile non ce n’è un mucchio solo, ma molti muc-
chi, domani li vedrai. Davvero non sai niente? Qui stiamo morendo tutti di
fame: questa è la situazione.»
Stavolta fu Michele ad ammutolire. Si sentì invadere da un turbamento tale
da aver difficoltà a respirare: una morte orrenda quella di fame nel chiuso
d’una prigione; gli ci vollero alcuni interminabili secondi per riprendersi.
«Una fine allegra» disse appena poté, con voce dura e che avrebbe voluto es-
sere spavalda.
Gli venne a un tratto in mente il conte Ugolino: ricordò il raccapriccio - un
raccapriccio straordinario, durato molto a lungo - che da ragazzo aveva prova-
to nel leggere la prima volta quella tragedia di tanti secoli fa; a tale ricordo Io
sgomento fu per sopraffarlo una seconda volta. Per la seconda volta faticosa-
mente si dominò.
«Allora è per questo che qui non ci sono prigionieri della Torino, cioè pri-
gionieri fatti prima di Natale? Vuol dire che quelli sono ormai morti tutti?»
chiese.
«Vedo che sei davvero poco informato» disse il cappellano. «Questo è un
lager di smistamento nei pressi del vecchio fronte, anche se da qui finora non
hanno mai smistato nessuno o quasi. Chissà però quanti altri lager di smi-
stamento e di prigionia ci saranno.»
Il sottotenente non parlava più.
«Noi abbiamo sempre la speranza» gli disse il cappellano «che queste be-
stie incoscienti si decidano a darci da mangiare. Se Dio vorrà. Ce l’hanno pro-
messo tante volte.»
«Ah, ve l’hanno promesso...!» A tale notizia Michele provò dentro di sé un
impulso di gioia irragionevole, quasi d’esultanza: «Dunque non è che fanno
morire i prigionieri per sistema, per programma.»
«Questo io non saprei dirlo» rispose il cappellano. «Non hai idea di quante
supposizioni abbiamo fatto noialtri. Ma ne parleremo.
Hai detto che ti hanno assegnato alla mia squadra?»
«Sì.»
«Allora sarà bene che entri nel box.»
«Con questo buio? E poi c’è posto lì dentro?»
«Due settimane fa, appena arrivati, qui dentro eravamo ammucchiati in
ventisette. Adesso siamo in quindici, anzi quattordici: dunque il posto si tro-
va.»
«Ma... Forse io non ho visto bene: m’è sembrato lo spazio per un cavallo.»
«Infatti: saranno un quattro metri per quattro.»
«In ventisette?»
«Sì. Adesso accendiamo, così ci vedi, e ti facciamo posto.» Il cappellano si
levò a sedere.
«Aspetta» disse il sottotenente: «non stanotte. Ci verrò domani lì dentro.»
E aggiunse con malumore: «Quando vi sarete resi conto che non sono una
spia.»
«Che non sei una spia l’ho capito» mormorò il cappellano. «Senti: se t’ho
offeso ti chiedo scusa. Qui si diffida di tutto e di tutti, ti rendi conto? Poverac-
cio però: chissà cosa stai provando a essere capitato in questa bolgia. E io...»
«Non parliamone più» disse Michele.
«Nel nome di Cristo e davanti a lui ti chiedo scusa.»
«Ti ringrazio» esclamò commosso Michele: «Non hai idea del bene che mi
fa sentire il nome di Cristo in un posto come questo.» Ci fu una pausa. «Ades-
so facciamo un po’ di luce» ripeté poi il cappellano. E chiamò a mezza voce:
«Ghiglione, ehi, Ghiglione. Mi senti?»
«No, aspetta» si oppose ancora il sottotenente: «lascia stare. Per stanotte
dormo qui fuori: l’unica differenza è che lì dentro avrete un po’ di paglia.»
«Non è l’unica differenza» disse don Turla: «c’è la dissenteria, e non tutti ce
la fanno a uscire all’aperto. Prima di domani mattina il corridoio dove sei tu
sarà tutto un cesso di sangue diarroico.»
«Ma... Ci sono già altri che dormono nel corridoio.»
«No» disse don Turla «ti sbagli, quelli non dormono. Senti, lascia fare a
me.» S’era intanto messo in ginocchio; protendendosi oltre il proprio vicino
scrollò più volte l’ufficiale che stava al di là di quello: «Ehi, Ghiglione.»
«Cosa vuoi?» bofonchiò il sottotenente alpino Ghiglione; che infine si levò
su un braccio: «Cosa succede?»
«C’è un nuovo arrivato. Fa lume per favore.»
«Uno nuovo? Va bene.»
L’ufficiale armeggiò alquanto; finalmente accese un cerino e l’accostò a uno
straccio che teneva in una mano, il quale cominciò a bruciare con una scialba
fiammella bluastra.
«Dai, entra» disse allora don Turla. Sempre levato sulle ginocchia esplorò
con gli occhi tra i corpi giacenti: «Lì» indicò al nuovo arrivato «mettiti lì, tra
Ghiglione e quell’altro. Forza voi due: cercate di liberare il posto dove stava
don Caneva.»
Ci fu un certo movimento tra i giacenti, più d’una testa si sollevò. In quella
luce da tomba Michele rivide, dopo più di due mesi, dei visi italiani: visi inca-
vati, coperti di pelo incolto, con gli occhi febbricitanti, però inconfondibilmen-
te italiani: simili a quelli che aveva avuto intorno durante le lunghe notti di
veglia in linea. Gliene venne un’assurda sensazione di ritorno a casa.
«Vieni dal fronte?» gli domandò Ghiglione.
«Sì» rispose Michele mentre prendeva posto tra lui e il suo vicino: «Però mi
hanno preso prima di Natale. Sono della divisione Torino.»
«Sai come vanno adesso le cose al fronte?»
«No.»
«Sai se la Tridentina ce l’ha fatta a uscire dalla sacca?» gli chiese il vicino
dall’altra parte: «Se almeno quella è riuscita a sfondare?»
«La Tridentina in una sacca? Non ne so niente. Da quanto tempo vi trovate
chiusi qui dentro voi?»
«Noi della Cuneense da due settimane. Ci hanno fatto marciare fin qui da
Valuichi, quasi senza darci da mangiare.»
«Hai sentito parlare di Valuichi?» chiese Ghiglione.
«No.»
«Si trova ad almeno duecentocinquanta chilometri dal Don. È là che era ar-
rivata la nostra colonna.»
«Dì, dove stavi prima tu» s’informò un altro «c’era qualcuno del Secondo
alpini?»
«Qualcuno» chiese una voce «della vai Varaita?»
«E di val Maira?» chiese un’altra voce. Parevano tutti parlare stranamente
al rallentatore.
«No.»
«Nessuno della Cuneense allora?»
«No. Qui siete tutti alpini, vero?»
«In questo box sì, la più parte della Cuneense.»
Un’altra voce domandò: «Nel vostro lager vi davano da mangiare?»
«Non ero in un lager. Mi hanno tenuto isolato fino a oggi. È per questo che
non so niente degli altri e del fronte. Domani vi spiegherò.»
«Ma ti hanno dato da mangiare?»
«Sì.»
«A sufficienza?»
«Beh, certi giorni sì.»
«Sentite questa!»
«Da non credere!»
«È... pazzesco!»
«Cosa? Ti hanno dato da mangiare? Beato te!»
Michele si era intanto sistemato sulla poca paglia incredibilmente trita e
lercia che copriva il fondo del box; la fiammella, consumato lo straccetto che
Ghiglione aveva tenuto fino all’ultimo sospeso in aria, s’era spenta, si era rifat-
to buio.
«Dì» egli chiese con voce più bassa a Ghiglione: «quel cappellano, don...
che occupava questo posto dove sto io adesso...» «Don Caneva, anche lui alpi-
no.»
«Di che male è morto?»
«Non è morto. Ieri si è trasferito nel box dove ci sono quelli del Morbegno,
presi con lui a Varvarovca. Siccome là s’era venuto a formare un po’ di spa-
zio.»
«Ah.»
«Sentite» intervenne don Turla, che a sua volta si era rimesso a giacere
«parlerete domani. Adesso lasciamolo dormire.»
Ma per l’intera notte Michele non poté dormire. Pressato tra i corpi dei suoi
due vicini parlottò dapprima con loro, poi anche con gli altri, tutti inebetiti
dalla fame. Apprese che per arrivare qui da Valuichi quei ragazzi avevano do-
vuto marciare per diciassette giorni: diciassette giorni pressoché senza man-
giare; di tremila, già sfibrati dalla stanchezza, che formavano la loro colonna
alla partenza, erano arrivati in poco più di cinquecento: tutti gli altri erano
morti lungo la strada. Cominciò a rendersi conto della sorte tremenda toccata
ai prigionieri su questo fronte, e ad afferrare la vitale importanza, per lui, del
singolare foglietto scritto dallo strano tenente russo di Arbusov con la faccia
da santo. Giunse l’alba ch’era ancora sveglio e terribilmente teso, nervoso.
CAPITOLO TERZO
Quando la mattina uscì all’aperto era ormai al corrente della situazione nel
lager, e il problema alimentare costituiva già per lui, come per tutti gli altri,
un’ossessione. Fino allora i russi avevano distribuito ogni due o tre giorni agli
ufficiali una razione di cento grammi di pane a testa; distribuivano inoltre
ogni giorno - ma secondo orari molto irregolari, a volte quand’era già sceso il
buio - un mestolo d’acqua bollente e salata, senza grassi, con bucce di patata e
pochi grani di miglio in sospensione. I soldati erano trattati decisamente peg-
gio degli ufficiali: nel corso di due settimane i russi avevano loro distribuito
due sole volte (in due settimane!) cinquanta grammi di pane a testa, oltre alla
broda: questa tuttavia, ai soldati, non tutti i giorni. In conseguenza del qual
trattamento i soldati (che, al pari degli ufficiali, non erano soltanto italiani, ma
anche ungheresi e romeni, giunti essi pure al lager esauriti dalle terribili mar-
ce) a quest’ora sarebbero tutti senza eccezione morti di fame, se non si fossero
risolti a mangiare carne umana. In genere - aveva spiegato un sottotenente a
Michele - veniva mangiato il fegato e il cuore dei morti, meno spesso il cervel-
lo o un pezzo di polpa. Così il giovane poteva ora spiegarsi l’episodio della sera
prima, quei due soldati fuggiti via dalla catasta dei cadaveri: si trattava di due
antropofagi venutisi a fornire di cibo tra i corpi degli ufficiali morti, suppo-
nendoli forse meno denutriti.
Di fronte a una tale situazione cos’avrebbe potuto fare lui, Michele? Strap-
parsi i capelli, mettersi a urlare, voltolarsi nella neve per l’orrore? A cosa sa-
rebbe servito? “Son capitato bene” egli si limitava a ripetere come un automa,
camminando con le mani in tasca avanti e indietro nel vasto cortile giallo
d’orina e disseminato d’escrementi umani e di cadaveri nudi, “ah, son capitato
proprio bene!”
Camminò a lungo struggendosi d’angoscia; finalmente si riprese alquanto e
decise di visitare anche il settore dei soldati per esplorare - finché era compos
sui - quanto più possibile di questa orrenda realtà. S’avviò, uscì a lenti passi
dal cortile della scuderia riservata agli ufficiali, ed entrò nella zona dei soldati,
i quali alloggiavano in altre grandi scuderie costruite in serie con la prima,
nonché in un gruppo di baracche sconquassate, un tempo esse pure adibite a
ricovero per i cavalli; tutt’intorno agli edifici del lager si stendeva un immenso
bosco candido di brina.
Nei cortili dei soldati i cadaveri erano più numerosi, se ne scorgevano cen-
tinaia, tutti senza indumenti indosso, isolati o ammucchiati qua e là tra i detri-
ti e le deiezioni. Le tracce del cannibalismo si facevano più evidenti: di quei
corpi scheletriti e lividi molti risultavano aperti, sventrati, sul ghiaccio intorno
ad essi c’erano brani di visceri; se ne vedeva anche qualcuno decapitato.
Michele non poté evitarsi d’immaginare i soldati che - in banchetti di due o
tre - si portavano via una testa per andarla a rompere in disparte con una pie-
tra onde estrarne il cervello. Chiuse gli occhi sotto l’urto dello sbigottimento e
del raccapriccio: immaginò la propria testa portata via a quel modo, la vedeva
anche sobbalzare sotto i colpi di pietra, finché si sfondava e ne colava il cervel-
lo. Gliene venne un impulso di vomito; lo prese inoltre una sconvolgente vo-
glia di tornare indietro, di fuggire a rintanarsi nel suo ricovero, tra creature
ancora umane. Ma anche là nelle baracche cui era diretto c’erano creature
umane: forse, chissà, vi stava rannicchiato qualcuno dei soldati con cui egli
aveva condivisa la vita al fronte. “Che bei tempi quelli, Dio mio, che bei tempi
erano!” Da loro intendeva fuggire? No, doveva andare avanti. Riuscì ad andare
avanti; intanto masticava adagio tra i denti, a mo’ di febbricitante, dei re-
quiem per quei miserrimi morti.
Nella zona delle baracche, retrostante quella delle scuderie, s’aggiravano
all’aperto pochi soldati: qualche ungherese dal lungo, malandato pastrano co-
lor pepe, romeni coi berrettoni di pelo di cavallo in testa, e italiani dal corto
cappotto a pelliccia.
Uno di questi - piccolo di statura, un po’ ingobbito, baffetti scuri e barba
ispida alle gote - veniva, tenendo le mani dietro la schiena, in direzione di Mi-
chele sullo stesso sentiero. Come gli fu di fronte si arrestò e lo guardò in fac-
cia; il sottotenente notò che aveva il naso un poco storto, il viso mite.
«Io credo che tra poco distribuiscono la sbobba, eh signor tenente?» disse il
piccolo soldato. Sembrava volere una conferma, per un istante la sua fisiono-
mia si fece quasi supplice. Sotto la bustina con lo stemma del genio i suoi ca-
pelli erano neri, ricci.
«Beh» gli rispose con pietà l’ufficiale «non possiamo esserne sicuri, però lo
credo anch’io.»
«Ecco» fece il soldato (balbettava lievemente) : «apposta io sono uscito con
questo.» Portò le mani davanti al petto: nella destra teneva un barattolo di
latta.
Ci fu una pausa, Michele gli sorrise con simpatia: «Allora? Qui la va grigia,
eh?» disse.
«Se la va grigia!» sospirò il soldato, mentre i suoi occhi s’arrossavano di
colpo.
«Di dove sei?» gli chiese, sempre mostrandosi affabile, l’ufficiale.
Quello si passò lentamente una mano sul viso, poi tentennando la testa no-
minò una località: «..., distretto di Pavia; a casa lavoro sotto un fittavolo.» E
dopo una breve pausa: «Genio zappatori sotto la naia, eh? E zappatore senza
genio a casa.» Doveva trattarsi di una battuta chissà quante volte ripetuta in
giorni diversi da questi. «E voi di dove siete?» volle sapere.
«Sono di Nova, distretto di Monza.»
«Allora siamo quasi paesani, lombardi là.»
«Sì» convenne l’ufficiale «quasi paesani.»
Ci fu un’altra pausa.
«Chissà cosa starà succedendo adesso a casa nostra, eh signor tenente?»
«Veramente è di quello che succede qui, non di quello che succede là, che
dobbiamo preoccuparci» gli rispose in dialetto Michele, indicando intorno
senza particolare intenzione.
Il soldato guardò nella direzione in cui, prima di ricadere, la mano
dell’ufficiale coperta dal guanto di tela s’era per un istante soffermata: ivi, a
pochi metri dai due, c’era - visione orribile - un cadavere nudo, col torace
aperto fino all’ombelico.
«Io l’ho fatto soltanto due volte» esclamò, pure in dialetto, il soldato: «Sulla
testa del mio bambino vi giuro che l’ho fatto soltanto due volte, quando pro-
prio ero come matto per la fame. Se non lo facevo» farfugliò, «a quest’ora ero
già morto.»
«Ma di cosa parli? Io non parlavo di... di quello» mormorò imbarazzato Mi-
chele.
«Se ci dessero almeno un poco da mangiare!» gemette il soldato. «Non si
può stare senza mangiare, non si può. Ma, signor tenente» adesso balbettava
molto più di prima: «io non l’ho mai fatto a un vivo, ossia quando sta per mo-
rire, come fanno certi, perché dopo è troppa fatica aprire col temperino la car-
ne gelata. Io mai a un vivo, e neanche a quelli appena morti. Il sangue fresco
non l’ho mai bevuto. Mai!» quasi gridava.
«Calmati» gli disse il sottotenente «cerca di calmarti. Io non parlavo di
questo, e non te ne faccio una colpa. Che diritto avrei? Su, coraggio.»
Ma il piccolo soldato, sempre col barattolo nella destra, s’era portato en-
trambe le mani alla fronte e, tutto ingobbito, seguitava a smaniare in preda a
un’incontenibile agitazione.
***
Michele non sapeva più cosa dire o fare per calmarlo; a trarlo d’imbarazzo
si levarono confuse grida che lo fecero voltare: stavano per entrare nel settore
delle baracche alcuni carri scortati da guardie armate; trasportavano dei bido-
ni metallici da cui s’alzava un denso vapore.
«Ehi, c’è la sbobba» avvertì il soldato: «su, fatti coraggio, arriva la sbobba.»
Quello rizzò la testa come elettrizzato.
«Vedi? L’avevi detto e hai proprio indovinato» disse Michele tornando
all’italiano: «arriva la zuppa.»
L’altro neppure l’udiva più. Fissò ripetutamente gli occhi arrossati sui carri,
poi sulle baracche da cui sarebbero a momenti usciti gli altri prigionieri; alzò il
suo barattolo verso il cielo, fece alcuni passi affrettati verso i carri, si fermò,
tornò indietro, si fermò ancora a guardare con folle bramosia i bidoni in arri-
vo, poi quasi di corsa si diresse verso la propria baracca da cui cominciavano a
uscire vociando altri soldati; si arrestò a una certa distanza dalla baracca, e si
girò verso i carri, col barattolo nuovamente levato in alto. Gli altri si precipita-
rono a far la fila dietro di lui, erano per lo più italiani, ma anche romeni e un-
gheresi, ugualmente lerci.
Altre disordinate file cominciavano a formarsi davanti ad altre baracche o
gruppi di baracche. Udendo il grido «la sbobba, la sbobba» i prigionieri che
giacevano inerti e intorpiditi sulla paglia e sui cenci affioravano dal letargo,
spalancavano gli occhi, e con gavette, barattoli, gavettini, coperchi di gavette,
abbandonavano i covi e si precipitavano fuori verso il cibo. Una piccola parte -
non degli ungheresi, ma dei romeni e soprattutto degli italiani - anziché risol-
versi a fare la fila correva verso i carri, dai quali li respingevano le guardie ar-
mate, puntandogli al petto le lunghe, taglienti baionette inastate sui fucili. In-
tanto dai ricoveri seguitavano a uscire prigionieri, qualcuno trascinandosi
carponi sul ghiaccio. Tuttavia ce n’erano d’incapaci di camminare che veniva-
no verso le file sorretti da qualche compagno il quale portava anche il loro ba-
rattolo: in qualche caso dunque - sia pure molto raro - l’antica solidarietà non
era sparita, al contrario si era fatta più eroica.
Michele - dopo essersi certificato, con egoistico disappunto, che nessun car-
ro si sarebbe diretto alla scuderia degli ufficiali - decise di cogliere l’occasione
per osservare dà vicino i soldati. Erano molto smagriti, taluni simili a spettri,
tutti avevano perduto decine di chili di peso; le gavette e i coperchi che essi
tenevano in mano erano in genere anneriti dal fuoco: ecco dunque dove veni-
vano cotti gli orrendi brodi (Michele ricordò d’aver visto anche nel ricovero
ufficiali parecchie gavette annerite). Le file s’andavano facendo più simili a
ingorghi che a file, specie dopo che i bidoni (si trattava di fusti per la benzina
tagliati a metà) furono tirati giù dai carri, uno di fronte a ogni fila. I cucinieri e
i prigionieri loro aiutanti urlavano che si facesse ordine, picchiavano i più in-
vadenti coi pesanti mestoli di ferro, glieli puntavano contro il petto e anche
contro la faccia per tenerli indietro.
Il sottotenente s’era fermato vicino alla fila del piccolo soldato di Pavia il
quale, sempre col barattolo brandito nella destra, i calcagni puntati nella neve,
si sforzava di tenere indietro con le spalle gli altri che lo premevano. Un grup-
petto di quelli ch’erano stati respinti dai carri tentò d’intrufolarsi a forza nella
sua fila poco dietro di lui: tutta la fila urlava, vociava, spingeva, finché accadde
una cosa tremenda: Michele vide distintamente il piccolo soldato piombare
sotto una spinta più forte nel bidone, a capofitto dentro la broda bollente; non
distinse le sue urla, confuse con quelle degli altri: vide le sue gambe agitarsi in
aria per qualche istante, poi afflosciarsi.
Si precipitò verso di lui: insieme con i più vicini lo strappò fuori, tirandolo
per le gambe e per il cappotto. Il soldato gli rimase tra le braccia, con la testa
reclinata: il suo barattolo giaceva per terra nella brodaglia traboccata e fuman-
te; brodo e vapore uscivano anche dalle sue vesti e dai capelli neri, slavati, non
più ricci. «Maledetti disgraziati!» urlò il sottotenente ai circostanti; «Maledet-
te bestie feroci!» urlò anche, come impazzito, ai cucinieri romeni. I quali ‘via,
via’ gli fecero segno con i mestoli: loro dovevano provvedere alla distribuzio-
ne. Del resto solo i primi della fila s’erano veramente accorti dell’accaduto ed
erano ammutoliti, gli altri seguitavano a premere e a gridare. L’ufficiale si
dominò: sostenendo il piccolo soldato dalla testa reclinata si tirò indietro
d’alcuni passi.
«Chi mi aiuta a portarlo nella baracca?» chiese con voce mutata: «Eh, chi
mi aiuta?»
«Io» gli rispose uno alle sue spalle.
Michele si voltò: si trattava d’un cappellano, con la barba e il cappello alpi-
no. Che aveva un aspetto affranto, doveva essere uscito allora allora dalla ba-
racca, insieme con gli ultimi.
«Credi di farcela?»
«Sì.»
«Forza allora» disse Michele, «sollevalo per i piedi.»
«Sì» sospirò l’altro.
Portarono di peso l’uomo svenuto - che non pesava molto, e dalle cui vesti
seguitavano a colare fili e gocce di brodaglia - dentro la baracca.
«Qui» disse con affanno il cappellano, indicando col mento un covile: «il
suo posto dev’essere questo. È uno di Pavia, vero?»
«Sì, della provincia di Pavia.»
Dopo ch’ebbero adagiato l’uomo tra gli stracci: «Te non t’ho mai visto» an-
simò il cappellano.
«Sono arrivato stanotte. Tu come ti chiami?»
«Padre Norberto Fiora, cappuccino.»
Era scheletrico e sciupato al pari di tutti; in viso aveva un innaturale colore
rosa, a motivo dello sforzo.
Michele disse il proprio nome poi, indicando il soldato svenuto: «Credi che
ce la farà?» chiese.
«No» gli rispose il cappellano chiudendo per un istante gli occhi. «No. È
troppo ustionato.»
«Te n’intendi di queste cose?»
L’altro fece segno di sì: «Ero nella sezione sanità della Julia.»
«Allora cosa possiamo fare?» chiese il sottotenente.
«Cosa possiamo fare?» ripeté il cappellano. «Io aspetterò che rinvenga per
assolverlo. Certo una volta sveglio griderà dal dolore finché avrà fiato. Ho vi-
sto gli ustionati dai lanciafiamme: ci vorrebbe qui della morfina, ma...»
Sedette sui cenci accanto all’uomo svenuto, si tolse il cappello alpino e se lo
pose sulle ginocchia, poi guardò il sottotenente: forse s’aspettava che anch’egli
sedesse in attesa.
Ma questi non se la sentì. «Non giudicarmi un vigliacco» disse. «Io ritorno
nel capannone ufficiali. Sono arrivato stanotte e...» tentennò la testa senza
aggiungere altro.
Il cappellano convenne: «Sì, certo, ti devi abituare. Poi, in forze come sei,
vedrai che potrai aiutare molti.»
«Io? Chissà. Beh, dai, benedicimi» disse il giovane. «Anzi, meglio, assolvi
anche me.» S’inginocchiò e si tolse la bustina.
Senza alzarsi dagli stracci il cappuccino levò la destra, e mormorando le pa-
role latine tracciò su di lui il segno della croce. Michele notò che aveva il collo
esile, i capelli corti e disposti a corona intorno alla testa, la barba rada e gli
occhi chiari, infantili; gli vennero in mente i cappuccini che curavano gli appe-
stati nel lazzaretto manzoniano.
«Dì, lo sai che sembri il ritratto di san Francesco?» osservò dopo essersi
rialzato. «Come hai detto che ti chiami?»
«Padre Fiora.»
«Ciao padre Fiora.» Calzata la bustina Michele lo salutò anche militarmen-
te; quindi si voltò e uscì dalla baracca.
Fuori, davanti alla marmitta, l’orrore continuava: c’erano perfino individui
che, proni a terra tra i piedi degli altri, succhiavano la broda versata, impasta-
ta col fango. Senza fermarsi il sottotenente s’indirizzò verso il proprio ricove-
ro.
Intravide lontano, nel cortile d’una delle scuderie, il commissario italiano
che l’aveva accompagnato in quell’orribile luogo. “Quello avrà appena fatta la
sua brava colazione...” Con la giacca di cuoio nero indosso il commissario
camminava severo, accompagnato da due ufficiali russi, ai quali indicava
qualcosa con la mano guantata. “Guardalo là il recuperatore della civiltà con-
tro il fascismo.” Chissà mai di cosa stava parlando con quegli altri due cam-
pioni.
CAPITOLO QUARTO
Una volta entrato nella sua scuderia allontanò definitivamente l’idea - che
covava dal mattino - d’esplorarne il lungo corridoio interno disseminato di
cadaveri e deiezioni, e s’infilò nel box della squadra, dove tutti gli altri per non
consumare energie erano rimasti a giacere sul tritume di paglia.
Riprese il suo posto tra i sottotenenti Ghiglione e Dal Toso, rispose ad alcu-
ne domande cercando di partecipare alla conversazione lenta e frammentaria
ch’era in corso; ma dopo un certo tempo non gli riuscì più di parlare: le cose
che aveva visto gli si rivoltavano dentro, urlavano in lui, al punto che non riu-
sciva quasi ad afferrare ciò che gli altri dicevano.
«Non ci sono nel lager ufficiali medici?» chiese a un tratto, angosciato dal
pensiero del piccolo soldato ustionato. (“Chissà se adesso avrà ripreso co-
scienza, se in questo momento starà gridando per il dolore? ‘Io lavoro sotto un
fittavolo: genio zappatori sotto la naia, e zappatore senza genio a casa... eh,
signor tenente?’ Oh, povero Cristo!”)
«Sicuro che ci sono ufficiali medici» gli rispose Ghiglione «e certuni si dan-
no da fare, per esempio qui, due box dopo il nostro, Giannetto di Messina. Ma
vedi anche tu qual è la situazione.»
«I medici hanno calcolato che se si va avanti così, noi della Cuneense ab-
biamo ancora, in media, quindici giorni di vita» disse Dal Toso: «Dicono che
alcuni, i meno denutriti, potranno forse arrivare a un mese.»
«Quanti sono i prigionieri in tutto il lager?»
«Nessuno lo sa: chi dice venti, chi trentamila, ma è una cosa incerta. Ne ar-
rivano ogni tanto di nuovi, adesso quasi solo ungheresi.»
«I morti sono sui cinquecento al giorno: questo lo sappiamo, perché fino a
tre giorni fa li portavamo ogni mattina con una slitta e coi carri fuori del cam-
po, e li buttavamo dentro una grande balca.»
«Senza seppellirli?»
«Si capisce. Come fai a muovere la terra ghiacciata? Buttarli nella balca era
già una grossa fatica; perché dovresti vederla quella balca: è piena rasa di
morti, chissà quante migliaia sono.»
«Adesso però non abbiamo più la forza materiale di fare il carico dei carri.
Il comando russo da principio ha insistito, poi ha lasciato perdere; tanto loro
se ne fregano.»
«Ma se non li portiamo fuori» fece notare inorridito Michele «questo lager
a un certo punto diventerà una gran fossa di morti e vivi mescolati insieme.
Sarà una cosa spaventosa.»
«Non lo è già?»
«Sentite» disse il sottotenente levandosi a sedere; non riusciva, per
l’eccitazione, a dominare i movimenti della bocca. «Perché, visto che non ab-
biamo scampo, non chiediamo d’essere fucilati tutti?»
«Chi ti dice che non l’abbiamo già chiesto? Se vuoi saperlo abbiamo, tutti
insieme, delegato il colonnello Scrimin, che è il comandante del Secondo alpi-
ni, mica l’ultimo venuto, a fare la richiesta. Il comandante russo - che è colon-
nello anche lui - lo ha ricevuto, e sai cosa gli ha risposto? Semplicemente che a
fucilarci non è autorizzato. Scrimin allora gli ha chiesto di lasciarci raccogliere
le patate che si trovano nei campi al di là della balca dei morti: là i contadini,
col disordine che c’è in Russia, o forse per la vicinanza del fronte, non so, non
hanno fatto il raccolto: è tutta roba che col disgelo andrà comunque in malora.
Vuoi sapere il comandante russo? S’è messo a ridere: ha detto a Scrimin che
questa sarebbe un’iniziativa individuale che in Russia non è concepibile, più o
meno così. Poi gli ha detto di non cacciarsela, che i viveri arriveranno.»
«Sì, i russi lo dicono sempre» sospirò uno. «Non perché siano dei sadici: lo-
ro ci lasciano morire più che altro per non dare agli altri russi l’impressione
d’essere favorevoli al nemico.»
«Non è solo questo: sono anche menefreghisti e infingardi per natura.»
«E poi c’è il fatto che la loro vita è talmente schifosa che non ne fanno alcun
conto. Figurati che conto possono fare della nostra.» Interruppe quei lugubri
discorsi il ritorno del naciàlnich o capo squadra don Turla, il quale era stato
chiamato in un altro box della scuderia per i conforti religiosi a un morente.
«Dai» disse aprendo la porta «è ora di portar via i morti e spazzare il corri-
doio.» Guardò Michele: «Tu ci sarai di vero aiuto, in forze come sei.» Poi si
rivolse ad altri tre: «Massobrio, Francescone, Torsegno, oggi tocca a voi, su.»
Gli interpellati si levarono prima a sedere o in ginocchio, poi in piedi: erano
in condizioni pietose.
«Forza» disse don Turla «prendiamo le cinghie.»
Andò egli stesso a staccare da un chiodo alcune cinghie da pantaloni (chissà
a chi erano appartenute...), ed uscì con i quattro dal box. Diedero inizio
all’ingrato lavoro: giravano le cinghie attorno alle caviglie dei cadaveri (i più
già spinti fuori dai box nel corridoio, qualcuno però rimasto nei box) e, due o
tre uomini per cadavere, li trascinavano lentamente sul pavimento cosparso di
feci, orina, e sangue diarroico, fino all’aperto. Visto il loro esempio qualche
altra squadra - non molte - e singoli individui uscirono da qualche altro box, e
si misero allo stesso modo al lavoro.
***
Nel pomeriggio si fecero sentire i benefici effetti della visita del commissa-
rio italiano: non già che venisse distribuito del cibo, questo no, vennero però
convocati i naciàlnichi e fu loro ordinato di costituire subito delle squadre anti
cannibalismo, alla cui testa, come coordinatore, veniva posto l’energico capi-
tano Fortunato Amico della divisione Cuneense.
Le squadre - fu spiegato - avrebbero dovuto svolgere la loro sorveglianza a
turno, armate di spranghe di ferro o di bastoni: «Perché solo le sprangate,
purché date senza misericordia, bloccano il cannibalismo» spiegò il commis-
sario; sembrava competente in materia. Don Turla, che l’ascoltava insieme
con gli altri naciàlnichi, rimase turbato: cosa poteva significare questo? Forse
anche negli altri lager si verificavano gli stessi orrori di qui? Cercò di tranquil-
lizzarsi pensando che no, non era possibile. Forse, chissà, il fuoruscito aveva
partecipato alla lotta per costringere i contadini alla collettivizzazione: tutti
sapevano che in quella circostanza - dieci anni prima - in molti villaggi ucraini
la fame aveva provocato casi d’antropofagia.
«I cannibali presi sul fatto» intervenne di suo il colonnello comandante
russo «dovranno essere consegnati alle guardie, che li fucileranno immedia-
tamente.» Tarchiato, ben pasciuto, parlava di fucilazione con disinvoltura:
non immaginava che presto, molto presto - secondo la prassi comunista di
quel tempo - d’essere fucilato sarebbe toccato a lui.
I capi squadra proposero e ottennero che venisse ripresa l’evacuazione dei
cadaveri dal campo ad opera dei prigionieri appena arrivati, non ancora to-
talmente stremati dalla fame. L’evacuazione riprese quel giorno stesso, sui
carri che servivano anche al trasporto dei bidoni con la zuppa.
CAPITOLO QUINTO
Nel secondo giorno dal suo arrivo Michele - molto abbattuto (dopo avere
prestato aiuto ai colleghi del box nel trascinar fuori i cadaveri, aveva provve-
duto quasi da solo alle pulizie, e infine accompagnato e sostenuto alcuni dei
più sfiniti mentre defecavano) - giaceva immobile al pari degli altri sulla pa-
glia, gli occhi chiusi. In quei due giorni aveva ricevuto solo cento grammi di
pane nero. Nessuno parlava; malgrado il freddo ancora tremendo, don Turla
s’era tolto il cappotto, e sfilatasi a metà la giubba si soffregava lentamente, con
un cencio di lana, un braccio che lo faceva soffrire per postumi di congelamen-
to.
Improvvisamente la porta della scuderia si spalancò e, simile a un forsenna-
to, irruppe nel corridoio un alpino: «Padre! Dov’è padre Turla?» vociferava.
«Eccomi» gli rispose il cappellano «sono qui.»
Il soldato corse al box e si afferrò alle sbarre, appariva emaciatissimo: «Ve-
nite padre» urlò: «venite subito. Vogliono mangiare mio cugino.»
Il cappellano lo guardò un istante in silenzio, poi si affrettò a reinfilarsi gli
abiti: «Vengo» disse.
«Ti accompagno» fece Michele al prete, alzandosi a sua volta.
Seguirono in gran fretta l’alpino. «È la vista del sangue che gli fa perdere la
testa, sono come impazziti» riferiva quello in dialetto bresciano: «È stata una
guardia a sparargli a mio cugino, maledetta»; raccontava a pezzi e bocconi:
«Mentre rientravamo dal trasporto dei morti lui ha visto della porcheria
sull’altro lato della strada: ‘Le patate’ ha detto ‘ci sono dei pezzi di patata...’
sono giorni che vede patate dappertutto; io non ho fatto in tempo a trattener-
lo, appena è uscito dalla fila la guardia gli ha sparato, la troia, gli ha quasi
stroncata una gamba. L’abbiamo riportato sopra il carro. Ma con tutto quel
sangue... Oh, padre!»
«Dove si trova adesso?»
«È al chiuso dentro la stalla. Lo difendono due paesani della vai Camoni-
ca.»
«E quanti sono quelli che lo vogliono... mangiare?»
«Quattro, sono in quattro.»
Entrarono nella più vicina scuderia, suddivisa non in box ma in stalle chiu-
se: nel corridoio una striscia di sangue fresco guidava a quella do vera il ferito.
Di fronte alla cui porta sgangherata quattro soldati si davano da fare con ac-
canimento: cercavano d’aprirla usando un legno appuntito come leva.
«Eccoli, li vedete?» sbraitò l’alpino.
Quelli non badarono ai nuovi arrivati; sembravano non vedere, non sentire,
non pensare che a una cosa: al sangue rosso e alla carne e ai visceri freschi
disponibili al di là della porta.
Correndo verso di loro il sottotenente gridò: «Ehi voi, cosa fate? Siete di-
ventati matti? Fermi, fermi.»
«Fermatevi» ripeté anche don Turla, accorrendo a sua volta.
I due che, dall’altra parte della porta, si davano da fare per impedirne
l’apertura, sembravano, alle voci, a loro volta mezzo invasati.
«Ragazzi, ascoltatemi» disse il prete rivolgendosi ai quattro con gravità: «Vi
rendete conto di quello che volete fare? Vorreste uccidere un uomo, un disgra-
ziato come voi, per bergli il sangue. È una cosa mostruosa, cercate di riflette-
re.»
«Se io ammazzassi uno di voi, eh?» gridò l’alpino: «e vi giuro che se voi...
io...» Il prete lo fermò con un gesto. «Calma» gli disse.
«Sì, calma» ripeté Michele.
L’alpino emaciato abbassò le mani che aveva alzato a mo’ d’artigli.
Sui quattro invasati ad ogni modo niente sembrava far presa. Continuavano
ad accanirsi quasi con metodo. «Dai» si dicevano l’un l’altro stronfiando:
«Dai, spingi di punta. - Qui, il legno qui. - Dai. Forza.»
Padre Turla, rannicchiatosi, si cacciò in mezzo a loro e gli emerse di fronte,
con la schiena contro la porta. Michele mise la destra sul bastone che quelli
manovravano, pronto a stringere: per lo meno non gli avrebbe permesso
d’usarlo come arma. «Cerchiamo di ragionare un po’» disse con voce fatico-
samente calma il cappellano.
I quattro a questo punto si ritrovarono impediti. Uno aveva la faccia quasi
contro quella del prete: sembrò stesse per azzannarlo in viso: «Aaah, cosa vuoi
tu?» barbugliò, fissandolo con occhi offuscati.
«Voglio parlare con te» gli rispose don Turla: «sono un cappellano e sono
venuto qui per parlare con te.»
«Un cappellano?» L’altro aprì e chiuse più volte gli occhi: «Un co... cooo-
sa?» Sembrava non afferrare, intanto oscillava percettibilmente, indebolito
com’era dalla fame.
«Sì, un cappellano» ripeté padre Turla. «Non volete parlare col cappellano,
ragazzi?»
Non gli risposero, però adesso lo fissavano tutt’e quattro coi loro occhi stra-
niti.
«La vostra casa in Italia» disse il prete. «Vostra madre. Non ci pensate?» Si
rivolse a quello che gli stava di faccia: «Tua madre. Dove sarà tua madre in
questo momento? Cosa starà facendo? Eh, dì? Tua madre. Tua madre.»
Quello, che seguitava a guardarlo col ceffo proteso, si ritrasse un poco, aprì
di nuovo e chiuse ripetutamente gli occhi; cominciò a respirare con affanno:
«Mia madre...» bofonchiò.
Anche negli altri pareva molto lentamente accendersi un barlume di rifles-
sione.
I due che al di là della porta la tenevano bloccata, ogni tanto la scuotevano
ancora, seguitando a parlare tra loro con furore, non capivano ciò che stava
succedendo di qua.
Il cappellano guardava or l’uno or l’altro dei quattro, chiedendosi se stesse-
ro tornando realmente all’uso della ragione: gli stavano ancora tutt’e quattro
davanti, ma non più aggressivi.
Riprese a parlare, rivolgendosi sempre direttamente ora all’uno ora
all’altro: gli parlava del suo paese, della casa lontana, di sua madre. Poi parlò
di Dio, dell’empietà - davanti a lui - di ciò che essi, travolti dall’orribile fame,
erano stati sul punto di fare. Si sentiva sfinito (egli pure dalla fame, nonché
dal dolore reumatico al braccio, e ora anche da questo sforzo emotivo); uno
dei quattro, forse meno incolto degli altri, finì col rendersene conto, gli prese a
un tratto la destra, s’inginocchiò, e gliela baciò.
Il cappellano si chinò ad abbracciarlo; gli altri tre fecero un passo o un mez-
zo passo indietro. «Alzati» disse il prete all’uomo inginocchiato «alzati»; e si
passò una mano sul viso rigato di lacrime.
A questo punto l’alpino batté con forza sulla porta, chiamando per nome
quelli che stavano dall’altra parte: «Aprite, è finita» diceva nel dialetto della
val Camonica: «non c’è più pericolo. Aprite che c’è qui il cappellano.» Gli ci
volle un certo tempo per fargliela capire.
Finalmente la porta si schiuse: preceduti dall’alpino, padre Turla e Michele
poterono entrare; gli altri quattro rimasero, intontiti e ancora mezzo straluna-
ti, sul limitare.
Nella stalla c’erano forse venti soldati: solo due in piedi presso la porta ed
agitati, tutti gli altri all’apparenza indifferenti. Esausti, sfiniti, giacevano sul
pavimento e dentro le mangiatoie nella gelida penombra; facevano pensare a
un branco di spettri che, accasciati e inerti, ruminassero una loro disumana
angoscia, non trasferibile in parole.
Il ferito - accanto al quale il cugino era subito accorso - risultava cosciente:
aveva dunque seguito, si può immaginare con che terrore, gli sforzi dei suoi
due compaesani per impedire l’entrata dei bevitori di sangue. Don Turla si
chinò su di lui e cercò di confortarlo ripetendogli che adesso non c’era più pe-
ricolo: quello gli chiese d’essere confessato; era debolissimo, non gli rimaneva,
chiaramente, che qualche ora di vita. Il cugino si scostò alquanto, il prete con-
fessò e assolse il morente.
Poi, rizzatosi, si girò verso gli altri, e con voce rattristata li rimproverò per la
loro precedente indifferenza. Gli spettri lo guardavano attoniti. Con termini
forse un po’ impropri - da quel prete montanaro che era - ma anche con
l’autorità altissima che gli veniva dall’essere portavoce di Dio, don Turla ri-
cordò loro il destino dell’uomo, la sua incomparabile dignità. Dopo di che li
invitò a recitare insieme con lui l’atto di pentimento: li avrebbe, disse, assolti
collettivamente, con l’assoluzione in articulo mortis che si dà sul campo di
battaglia. Qualcuno degli spettri si mise in ginocchio; a un invito di don Turla
anche i quattro disgraziati che stavano sulla porta entrarono e, urtandosi al-
quanto tra loro nel poco spazio, s’inginocchiarono per terra. Incerte voci ac-
compagnarono parola per parola la voce del cappellano nella recita dell’atto di
pentimento.
CAPITOLO SESTO
Alcuni giorni più tardi, vincendo con immensa fatica la propria ripugnanza,
Michele si decise a riprendere l’esplorazione del lager. Uscito dalla zona degli
ufficiali s’avviò a capo chino verso un settore nel quale, secondo gli era stato
comunicato dai colleghi del box, i russi non avevano mai, o quasi mai, effet-
tuate distribuzioni di viveri: «E là c’è gente arrivata anche dieci o quindici
giorni prima di noi». Se le cose stavano davvero così, si chiedeva il sottotenen-
te, come potevano quegli sventurati essere ancora in vita?
Entrò a caso in una delle scuderie di quel settore, esternamente uguale alle
altre: l’interno, semibuio, non era com’egli s’aspettava suddiviso in box o stal-
le, ma formava un unico lunghissimo stanzone. Nel quale, con sua sorpresa, i
prigionieri (da tre a cinquecento, secondo una valutazione molto incerta da lui
fatta in seguito) stavano tutti seduti per terra, in file quasi ordinate. Una pri-
ma fila sedeva contro una delle pareti maggiori; davanti a questa ne sedeva
una seconda con le schiene in qualche modo appoggiate alla prima; venivano
poi altre file, ciascuna appoggiata a quella che le stava a tergo.. Tra la distesa
dei soldati - tutti italiani - e la parete di fronte, rimaneva un passaggio, in cui il
sottotenente si addentrò, fendendo un odore di putrefazione addirittura de-
menziale.
Fin dai primi passi ebbe l’impressione che, nel relativo silenzio
dell’ambiente, tutti o quasi i soldati davanti ai quali egli passava, lo guardasse-
ro. Mentre procedeva, via via più incerto, cominciò a sua volta a esplorare con
gli occhi quelle file di visi stremati, se ce ne fosse qualcuno a lui noto; come
calamitati molti di quei ragazzi accompagnavano il suo passaggio col lento
movimento delle loro teste. Chissà cosa stavano farneticando! Non tutti però -
egli si accorse - lo guardavano realmente: infatti, sebbene avessero gli occhi
aperti, non pochi di loro erano morti; c’erano anche dei morti con gli occhi
chiusi, e più d’uno con la bocca spalancata. Quanti erano i morti? L’ufficiale
cercò di darsi una risposta: forse addirittura un terzo dei seduti sul pavimento
erano cadaveri. Quando se ne rese conto con chiarezza si arrestò: avrebbe vo-
luto parlare, ma la lingua gli s’era come paralizzata.
Da contro la parete libera si alzò allora a fatica in ginocchio e poi in piedi, e
venne a passi strascicati verso di lui, uno senza copricapo, con alle braccia
gradi da sergente: teneva gli occhi chiusi, li apriva solo impercettibilmente
ogni tanto. «Sta per arrivare il pane, eh?» disse quando fu davanti all’ufficiale.
«Il... Cosa?» balbettò Michele.
«Il pane. Lo stiamo aspettando, perché sappiamo che deve arrivare.»
Anziché rispondergli l’ufficiale lo squadrò per qualche istante: «Tu... chi
sei?» gli domandò, parlando a fatica.
«Sergente B., del Quinto alpini. Sono il capo camerata.»
«Come mai nella tua camerata... stanno tutti seduti in fila, a questo modo?»
«Per fare ordine. È stato il commissario italiano, ieri, a dirci che se la smet-
tiamo col cannibalismo e facciamo ordine, i russi ci daranno da mangiare. E io
li ho persuasi tutti, vedete? Abbiamo portato fuori i morti, e quelli...» fece con
le due mani il gesto di aprirsi il petto «li abbiamo fatti sparire».
«Fatti sparire?»
L’altro annuì, ammiccando con un povero ghigno, poi indicò con la testa
dagli occhi chiusi una sorta di fenditura nel soffitto, da cui penzolavano quat-
tro gambe stecchite.
«Avete nascosto là sopra quelli aperti?»
Il sergente fece segno di sì: «Così adesso loro devono darci da mangiare.»
«Il commissario italiano non è stato qui ieri, ma tre giorni fa» mormorò,
tuttora stranito, l’ufficiale.
«Cosa?» chiese l’altro, che non aveva capito.
L’ufficiale non ripete la frase, rendendosi a un tratto conto che avrebbe an-
che potuto precipitare quei disgraziati nella disperazione.
«Erano tutti vivi quando li hai fatti sedere a questo modo?»
Il sergente dagli occhi semichiusi fece segno di sì.
“Dunque in appena tre giorni ne è morta una terza parte” valutò il sottote-
nente. Si sentì invadere da un incontenibile terrore: “Qui non si salva più nes-
suno... Moriamo tutti” si disse: “Per forza. Tutti, tutti!” Non gli riusciva di
pensare ad altro. Fece un cenno che voleva essere di saluto al sergente e, senza
più tentare una parola, tornò indietro verso la porta; mentre camminava nel
fetore mozza-respiro ricominciarono a seguirlo i muti sguardi dei soldati se-
duti sul pavimento.
Una volta all’aperto l’ufficiale raggiunse con affanno la sua scuderia, e andò
ad accucciarsi in silenzio nel box tra gli altri della squadra.
***
Da quel giorno non uscì più in esplorazione, e si applicò invece con punti-
glio a risparmiarsi in ogni modo, a evitare di spendere energie, a durare. Pro-
vava a momenti vergogna per questa scelta e per la capacità d’egoismo incre-
dibilmente spietato che andava scoprendo in sé stesso: ma il terrore di ridursi
in uno stato subumano, e comunque di morire per fame com’erano ormai
morti alcuni di quelli con cui aveva parlato la notte dell’arrivo, era troppo più
forte del suo senso del dovere e della dignità.
Rimase a Crinovaia ancora pochi giorni, durante i quali ricevette, al pari
degli altri ufficiali, soltanto un etto) di pane nerastro. Che mangiò lentissima-
mente, evitando di pensare ai soldati nello stanzone, i quali certo erano ancora
là, i vivi e i morti, seduti tutti insieme ad aspettare il loro pane.
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
Assai più tardi, dopo avere parlato con prigionieri passati attraverso le
esperienze più diverse, Michele ed altri furono - come s’è già detto - in grado
di valutare che, in media, le perdite subite dai connazionali durante le feroci
marce del davai seguite alla cattura, dovevano essere state all’incirca di quat-
tro uomini ogni dieci. Dei superstiti ancora intorno a quattro ogni dieci (pari
dunque al venticinque per cento circa dei catturati) dovevano essere poi morti
nei carri ferroviari che li trasportavano ai lager. Infine di quelli arrivati ai la-
ger di nuovo all’incirca quattro su dieci (il quindici per cento dei catturati)
erano morti entro il mese di aprile: non più soltanto di fame e di stenti, ma
anche per epidemie di tifo petecchiale scoppiate un po’ dovunque. A fine apri-
le 1943 rimaneva perciò in vita solo il venti per cento degli italiani catturati, e
anche le possibilità di sopravvivenza di questi si presentavano minime, perché
- seppure bloccate le epidemie (grazie soprattutto agli sforzi dei medici prigio-
nieri) - la mortalità si manteneva elevatissima, a causa dell’alimentazione
sempre inadeguata.(*)
[(*) A quella data - fine aprile 1943 - i prigionieri di guerra italiani chiusi nei lager so-
vietici erano intorno a diecimilacinquecento (come si poté ricostruire più tardi rappor-
tandosi al numero dei rimpatriati che fu di 10.030). Dal che - stando ai computi riportati
sopra - si può dedurre che gli italiani catturati dai russi (senza contare i feriti incapaci di
camminare, uccisi o lasciati morire sulla neve al momento della cattura) devono essere
stati complessivamente da cinquanta a sessantamila, e non oltre centomila, come gene-
ralmente si riteneva allora nei lager e in Italia, sulla base delle notizie trionfalistiche dif-
fuse da radio Mosca. Il numero di cinquantacinquemila catturati circa (di cui 10.030
rimpatriati e quarantacinquemila morti in prigionia) si accorda in effetti col dato rias-
suntivo pubblicato parecchi anni dopo dal ministero della difesa (74.800 morti comples-
sivamente in battaglia e in prigionia). (Nota dell’A.)
Così stavano le cose quando a fine aprile si verificò un fatto inatteso: una
ordinanza dell’N.K.V.D. - l’onnipotente polizia politica da cui dipendevano i
lager d’ogni tipo - aveva da un giorno all’altro prescritto che i prigionieri di
guerra venissero alimentati a sufficienza. La mortalità era diminuita di colpo;
gradatamente gli uomini, ormai tutti ridotti a larve, avevano cominciato a ri-
vivere.
Molto s’era congetturato nel lager di Oranchi intorno a questa miracolosa
ordinanza: lo Stalin pricàs (ordine di Stalin), come veniva chiamata. Secondo
alcuni essa era dovuta a una immaginaria minaccia di Hitler di far morire per
ritorsione di fame tutti i prigionieri russi, inglesi e americani in sue mani;
questa congettura veniva però facilmente smontata da chi osservava come a
Hitler non importasse niente dei propri soldati finiti prigionieri: egli addirit-
tura non ammetteva che ce ne fossero. Quanto a Stalin, allo stesso modo, non
gl’importava niente dei prigionieri russi: tutti ricordavano ancora che quelli da
noi impiegati durante la guerra nei lavori campali, avevano molta paura di
venire liberati dall’armata rossa perché - per il solo fatto d’essere caduti pri-
gionieri - si trovavano equiparati ai disertori. (In effetti dopo la guerra i pri-
gionieri russi rimpatriati - inclusi di norma quelli che avevano combattuto coi
partigiani contro i nazisti - vennero deportati dalla N.K.V.D.)
Altra dunque doveva essere la causa dello Stalin pricàs: quale? Solo pochi
tra i prigionieri la individuarono, con fondamento, nelle necessità della pro-
paganda comunista. Con la primavera del 43 - essi argomentavano - si pro-
spettava per i bolscevichi la possibilità di vincere la guerra; si rifaceva perciò
attuale il loro vecchio programma d’estendere il comunismo all’Europa intera.
E il mancato ritorno a casa di tutti senza eccezione i prigionieri di guerra,
avrebbe rappresentato un grosso ostacolo nell’ordine della propaganda.
La maggioranza dei sopravvissuti seguitava tuttavia a ritenere impossibile
che i russi - tanto arretrati in tutto - potessero vincere la guerra. Quanto a un
allargamento del comunismo essi, dopo averne sperimentata la barbarie, rifiu-
tavano addirittura di prenderlo in considerazione. Le discussioni durarono
mesi; servì a rinfocolarle la notizia - comunicata con discrezione da un com-
missario ungherese ai prigionieri suoi compatrioti - che il comandante russo
del lager di Crinovaia era stato ‘debitamente fucilato’ per le sue ‘negligenze’ in
ordine al cannibalismo.
A quelle discussioni partecipò anche Michele il quale, dopo essere passato
per il tifo petecchiale, ed essere giunto in punto di morte, stava ora lentamente
riprendendosi.
Poiché l’alimentazione, seppure scarsa, si manteneva entro il limite di sus-
sistenza, in maggio egli aveva al pari degli altri timidamente cominciato a spe-
rare di poter sopravvivere. Tanto più che nell’alimentazione rientrava adesso
un piccolo apporto proteico quotidiano - di valore inestimabile come spiega-
vano i medici prigionieri - costituito da soia inviata in Russia dagli americani
apposta per i prigionieri di guerra.
Questo particolare della soia riusciva a Michele straordinariamente confor-
tante. “Dunque gli americani pensano a noi!” egli si diceva a volte, con istupi-
dita commozione. Cercava di spiegarsi il perché. Perché mai degli stranieri,
oltretutto nemici, potevano interessarsi a resti d’uomini come lui e i suoi
compagni, se non per civiltà e spirito d’umanità? “Dunque gli americani, al-
meno loro, si sono conservati civili” argomentava. “La civiltà che il cristiane-
simo ha elaborato nel corso dei secoli, loro l’hanno conservata: non l’hanno
perduta come gli altri popoli oggi all’avanguardia della modernità, i tedeschi e
i russi. Che siano mille volte benedetti!” (Non meravigli il fatto che il giovane
interpretasse le sue attuali enormi esperienze sulla base dei ragionamenti di
un tempo: proprio in seguito a quanto aveva sperimentato del mondo nazista
e di quello comunista, la sua visione cristiana della storia si era infatti gagliar-
damente confermata in sé stessa, e gli appariva, rispetto a prima, ancora più
fondata e convincente.)
***
Con l’arrivo della bella stagione il sottotenente era passato attraverso altre
esperienze. Sugli infelici prigionieri infatti - non più incapaci di recepire per
l’inedia - s’erano messi al lavoro i commissari comunisti, adoperandosi con
molto impegno per plagiarli e cambiarne il modo di pensare. Agli occhi di Mi-
chele, che non aveva il minimo timore d’essere convertito, ciò costituiva
un’esperienza aberrante e interessante insieme: e proprio con l’intendimento
di servirsene - se mai fosse rimpatriato - per aiutare i propri connazionali a
difendersi dal comunismo, egli non ne rifuggiva. Ne rifuggivano invece in
stragrande maggioranza gli altri: i quali, costretti fisicamente a presenziare
alle cosiddette ‘lezioni d’antifascismo’, non vi prestavano mai, neppure per
sbaglio, orecchio o attenzione.
I prigionieri comunque non dovevano sottostare soltanto al martellamento
sistematico della propaganda: dovevano anche quotidianamente recarsi in
squadre al lavoro fuori del campo; scoprirono così - in un crescendo
d’emozioni - che nell’immensa plaga boscosa d’Oranchi non c’era soltanto il
loro lager 74 per prigionieri di guerra, ma di lager ce n’erano a decine, tutti
gremiti di deportati civili russi. Alla squadra di Michele capitò più volte di
passare accanto ad alcuni di tali lager, specie al più prossimo, riservato per
intero (così si affermava) a intellettuali, cioè professori, maestri di scuola,
giornalisti, artisti, scrittori, e operai specializzati. Nonostante il severo divieto,
i militari italiani riuscirono a scambiare qualche principio di conversazione
con essi: furono i primi incontri di Michele con l’universo concentrazionario
comunista, della cui estensione sterminata egli non riusciva ancora, a quel
tempo, a rendersi chiaramente conto. Al di là dello spontaneo senso di com-
passione per quei deportati cenciosi e famelici (le sofferenze davvero senza
limiti del popolo russo!) il giovane avvertiva, sia pure in confuso, che questa
realtà non poteva non essere correlata con l’ideologia comunista, quella stessa
che gli istruttori si adoperavano a ficcare nella testa dei prigionieri: anzi, che
ne doveva essere un prodotto. Il che l’aveva, poco alla volta, reso ancor più
bramoso d’afferrare il vero, il tremendo meccanismo di tale ideologia.
I mesi intanto passavano, ed egli era ancora vivo; la guerra continuava, ed
egli non era morto.
E come Ambrogio ogni tanto pensava a lui, così lui - specie al termine delle
sue lunghe giornate senza premio, disteso sul tavolaccio - pensava talvolta ad
Ambrogio. Chissà se ce l’aveva fatta a uscire da Arbusov e poi dalla sacca, feri-
to a quel modo? E adesso cosa faceva? Chissà cosa stava succedendo a Noma-
na, dove viveva quella strana, attraente creatura, Almina la inespressa? Da un
pezzo ormai di tutte le ragazze che Michele aveva incontrato nella vita (non
molte per la verità) quella che gli tornava in mente con più frequenza era ap-
punto Almina, la seconda sorella d’Ambrogio. Ne rivedeva con
l’immaginazione, che gli era tornata fervida, la figura acerba, il bel viso in ap-
parenza non partecipe, dai nitidi occhi e capelli castani, quel gestire che sem-
brava solo abbozzato (“anche l’ultima volta a Nomana, mentre correva nel gio-
co...”) Tra Almina e la realtà circostante sembrava ci fosse una sorta di stacco,
di cesura; come la chiamavano i suoi fratelli? Statuina di marmo. “Ecco, è
proprio così.” Che creatura interessante... “Almina però era così quando io
sono partito” si diceva a volte, rigirandosi sul duro tavolaccio, il giovane. “Ma
oggi?” Quand’egli l’aveva vista l’ultima volta, Alma aveva quindici anni: forse
adesso non era già più la stessa, era completamente cambiata.
Del resto chissà quante cose erano cambiate in Italia. Suo padre mutilato
chissà in che condizioni era? Suo padre! Crocifisso dal tempo dell’altra guerra,
con la spina dorsale spezzata... Michele pensava spesso a lui: avrebbe resistito
alla totale mancanza di notizie del figlio, come a dire dell’unico bene e interes-
se che gli era rimasto?
PARTE TERZA
CAPITOLO PRIMO
In quel tempo a Piacenza Manno si ritrovava senza gran che da fare. La se-
ra, sforzandosi di non pensare sempre e soltanto a Colomba, passeggiava per
le vie in cui, prima di partire per la Libia, aveva rimuginato tante cose, era
passato per sensazioni allora nuove, si era posti molti interrogativi. Le vie non
avevano mutato aspetto, pressoché uguale era il movimento dei soldati in libe-
ra uscita: il giovane sapeva però che la situazione militare era adesso radical-
mente cambiata.
Perdute l’Africa orientale e la Libia, andata distrutta e non potuta sostituire
l’armata italiana in Russia, le zone d’occupazione nei Balcani infestate dalla
guerriglia («È tutta una porcheria» aveva significativamente detto Pierello),
sempre più numerosi e quasi incontrastati i bombardamenti aerei sulle stesse
città italiane... Gli occorreva riflettere: una tale realtà comportava grosse im-
plicazioni ch’egli avrebbe voluto prospettarsi e analizzare. Ma le vie di Piacen-
za - e specialmente il ‘Faxal’, la strada alberata che corre sull’antico bastione
meridionale della città, da lui tante volte percorsa coi soldati e i colleghi ora
prigionieri in Africa - finivano regolarmente con lo sviarlo, con l’indurlo a
tutt’altri pensieri. Si fermava sul marciapiede del ‘Faxal’ in vista d’un riquadro
d’erba spelacchiata su cui aveva tante volte fatta l’esercitazione di servizio al
pezzo coi suoi ‘vecchi’ (la caserma non era lontana, la si scorgeva dall’altra
parte del bastione). Qui, proprio sotto questo platano, aveva fatta una tre-
menda ‘cazziata’ al povero Sciulli, il caporalino abruzzese che poi ad Alamein
gli era morto accanto nell’osservatorio, con un braccio e l’intera spalla aspor-
tati da uno scheggione: attraverso l’orribile squarcio lui aveva per un certo
tempo visto il cuore e i polmoni di Sciulli funzionare ancora. A quel tremendo
cicchetto (provocato dalla recidività del caporale nel dare il ‘goniometro pron-
to’ prima d’averlo livellato) Manno non aveva in seguito pensato più, adesso
però gli tornava in mente: vedeva il viso contrito, certo di circostanza, del ca-
porale sull’attenti davanti a lui, e sé stesso alzare con rabbia il volume della
voce. Che faccia di palta era stato, anzi più propriamente di merda, a sgridare
a quel modo Sciulli che, essendo inferiore, non poteva ribattere! E sì che le
sfuriate non rientravano nel suo stile. Beh, il caporale non se l’era presa, aveva
dimenticato subito, e in seguito durante la guerra si era dimostrato sempre
disponibile, a quella sua maniera così simpatica, abruzzese appunto, cioè fede-
le e modesta: anzi proprio per la sua disponibilità lui l’aveva trattenuto nei
giorni dell’atroce buriana di Alamein all’osservatorio là nella pietraia. Signore
Iddio, che malinconia...
Gli tornavano in mente anche gli altri ‘vecchi’, i quali scherzavano sempre
prima di partire per l’Africa, per esempio mentre trascinavano a mano i can-
noni fino a questo prato (‘Artiglieria motorizzata - i motori non li vedi - e ti
tocca andare a piedi’: le solite tiritere; i motori erano poi arrivati.) Anche in
guerra scherzavano di continuo; chissà se scherzavano anche adesso ch’erano
dietro il filo spinato? Probabilmente sì. Se pure li avevano lasciati insieme...
Qui a Piacenza faceva spesso le spese dei loro motti l’artigliere Corneo, un tipo
d’intelligenza non inferiore alla media, solo un po’ più lento degli altri
nell’afferrare, e col corpo già curvo nonostante la giovane età e la bocca sem-
pre un po’ aperta, un contadino. A volte, per darsi anche lui le sue arie, Corneo
diceva qualche frase sporca. “Offendeva anche lui Domine Dio a credito” pen-
sò Manno con disapprovazione. “Adesso chissà come se la caverà in prigionia.
Non si troverà più degli altri le guardie del campo addosso? Chissà, se io fossi
rimasto con loro, e non li avessi piantati, forse oggi potrei...” No. Gli ufficiali
erano stati con certezza separati dai soldati, e lui non avrebbe potuto fare
niente. Proprio niente avrebbe potuto fare. Del resto laggiù erano rimasti gli
altri ufficiali, per più d’uno dei quali egli nutriva profonda stima. Rivedeva (in
modo assai impreciso, come si può con l’immaginazione) le fattezze e il gestire
immancabilmente pacato di uno, i modi prudenti, a volte una sfumatura ap-
prensivi di un altro, il quale in realtà era sì apprensivo, ma alla prova se la ca-
vava sempre molto bene; rivedeva anche lo stile scanzonato di Mussone, la cui
madre gli aveva telefonato a Nomana. Cari vecchi compagni d’armi! Ragazzi
tra i venti e i venticinque anni, maturati dalla responsabilità precoce e da
esperienze tremende, quali a volte un uomo non fa nel corso dell’intera vita.
Quella dura necessità di prendere - subito e sui due piedi - decisioni da cui
può dipendere la vita o la morte... E quell’obbligo di essere in ogni momento
d’esempio ai soldati (se no - Manno l’aveva sperimentato - addio disciplina,
come a dire addio alla vita per molti). Non fosse stato per il riaffacciarsi insi-
stente della testolina di Colomba, il giovane avrebbe faticato, stando a Piacen-
za dove ogni cosa glieli ricordava, a staccare la mente dai suoi vecchi compa-
gni d’armi.
Dopo una ventina di giorni dal suo arrivo però, ebbe inaspettatamente un
nuovo e più urgente motivo di riflessione: gli comunicarono d’averlo incluso
in uno scaglione di complementi con destinazione Grecia, doveva essere pron-
to a partire nel giro d’una settimana.
Tale assegnazione lo sorprese: vegetavano inutilizzati al deposito molti altri
ufficiali subalterni, forse una sessantina, di cui la più parte non era mai stata
in zona d’operazioni: perché dunque inviavano in Grecia lui ch’era appena
tornato dal fronte? L’aiutante maggiore, cui a mensa Manno si provò a chie-
derlo in modo scherzoso, gli rispose serio serio ch’egli dava affidamento ap-
punto per la sua esperienza: per lo stesso motivo, disse, era stato scelto anche
l’anziano tenente Pigliapoco, pure proveniente dalla Tunisia.
Costui - una sorta di mulo molto ligio al dovere, rimpatriato qualche mese
prima per ferite - diede a Manno una sua più esistenziale spiegazione: «Credi
a me» gli disse: «qui non bisogna pensare a raccomandazioni, o intrallazzi, o
roba del genere: qui ci troviamo, né più né meno, davanti al fatto che in guerra
sono sempre gli stessi, ma proprio sempre gli stessi, a ballare. Insomma è una
questione di destino e nient’altro.»
Dopo avere per alcuni giorni ponderata tra sé e sé la novità, passando per
differenti stati d’animo, Manno finì col dirsi che anche questa sarebbe stata
per lui un’utile esperienza, probabilmente un nuovo passo avanti nella sua
preparazione allo sconosciuto compito cui si sentiva predestinato dalla Prov-
videnza. S’affrettò a completare il proprio equipaggiamento, mentre il suo spi-
rito andava rapidamente rasserenandosi. Tanto che una sera a mensa Piglia-
poco brontolò: «Cosa ti prende? T’è passata la malinconia, non solo, ma stai
diventandomi addirittura allegro. Che motivo hai di essere allegro, si può sa-
pere?»
«Francescana letizia» propose un altro ufficiale, che aveva in simpatia
Manno per la totale mancanza di rispetto umano con cui ogni volta sedendo a
mensa si faceva il segno della croce.
«No, giovanile incoscienza, temo» mugugnò Pigliapoco.
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
***
Nella stazione di Villasanta, appena prima di Monza, salì sulla ‘littorina’ un
tizio di forse quarant’anni con la ‘cimice’ (ossia il distintivo del partito nazio-
nale fascista, diffusissimo fino al giorno prima) ancora all’occhiello. Qualcuno
se ne accorse e sorrise: evidentemente questo qui doveva ignorare la grande
notizia. Il tizio sedette quasi di fronte ad Ambrogio, accanto alla donna che
aveva ricordate le manifestazioni degli studenti in favore della guerra; ficcò
entrambe le mani nelle tasche laterali della giacca, poggiò la testa all’indietro e
chiuse gli occhi. La donna consultò con uno sguardo i più vicini, se fosse il ca-
so d’avvertirlo. Essendo determinato a non intervenire, per tutta risposta Am-
brogio guardò fuori del finestrino, anche gli altri vicini finsero di non capire.
Vogliosa ciononostante di far qualcosa, la donna pensò allora di parlare con
un’altra donna sua conoscente del modo in cui la radio aveva data la notizia
del licenziamento di Mussolini: «Il cavalier Benito Mussolini» ripeté un paio
di volte. Il tizio con la ‘cimice’ non diede alcun segno d’avere inteso. “Eppure
m’ha sentito, mi ha sentito per forza” pensava la donna: “dunque adesso sa...
Beh, faccia un po’ come gli pare. Se va in giro con quel distintivo però...”
Guardò ancora i vicini, alcuni dei quali finirono col sorridere imbarazzati: al-
lora la donna si decise, e toccò con la punta delle dita un braccio dell’uomo, il
quale aprì gli occhi.
«Quel distintivo» disse la donna a mezza voce. Il tizio osservò, torcendo un
poco il collo, il proprio distintivo, poi tornò a guardare la donna. «Mussolini è
stato licenziato dal re, lo sapete? L’ha detto la radio ieri sera. Beh, non sono
affari miei, lo dico solo nel vostro interesse, perché se quel distintivo ve lo ve-
de qualche scalmanato...» Non aggiunse altro.
L’uomo la guardò ancora un poco, poi chiuse nuovamente gli occhi.
La donna alzò il mento e strinse le labbra, come a dire: «Io quello che pote-
vo fare l’ho fatto, adesso s’arrangi».
Ecco Monza e il Lambro, verdastro e sporco, non limpido come in Brianza;
il treno procedette quasi a passo d’uomo su un ponte di ferro che scavalcava
obliquamente il fiume; Ambrogio guardò fuori, se anche dopo la gran notizia
della caduta del fascismo ci fossero alle solite poste i soliti anziani pescatori.
Sì, c’erano, sebbene ancora radi per l’ora mattinale: certo tra poco si sarebbero
infittiti, come sempre.
Dopo la sosta a Monza la ‘littorina’ riprese a correre verso Milano. La donna
guardava ogni tanto il tizio dagli occhi chiusi. “Che sia un fascista di quelli du-
ri, uno che non vuol saperne di piegarsi?” si chiedeva. “Chissà cos’ha nella te-
sta in questo momento...”
Nella testa dell’uomo c’era un formidabile guazzabuglio: “Guarda un po’ co-
sa mi sta capitando” egli pensava: “Mussolini liquidato dal re... Incredibile.
Non che a me della cosa importi un fico secco, intendiamoci, io al partito mi ci
son dovuto iscrivere per forza, per lavorare, anche se questi non lo sanno.
Come potevo se no vendere la mia cancelleria ai comuni? E anche ai privati
del resto, dato che la tessera è... era obbligatoria. Fortuna che così ci siamo
dentro tutti quanti allo stesso modo. Ma non è questo il punto. Mussolini è
caduto... Certo non può trattarsi d’uno scherzo, nessuno si arrischierebbe a
scherzare su una cosa simile. Il punto però è un altro: è che ’sta bisbetica (za-
bèta) con le sue chiacchiere.. Che figura ci farei io, se adesso... Di sicuro son
tutti lì che aspettano solo di vedermi togliere il distintivo (maledetto distinti-
vo!) per mettersi a sghignazzare. Ma io questa soddisfazione non gliela do:
succeda ciò che vuole, mai e poi mai io me lo tolgo davanti a loro. Una volta a
Milano, quando nessuno mi guarderà, allora...”
In tali e simili considerazioni e propositi trascorse i dieci-dodici minuti di
viaggio tra Monza e Milano. I discorsi, almeno quelli ad alta voce, intorno alla
caduta di Mussolini erano cessati, le ruote di ferro della ‘littorina’ schioccava-
no sempre più spesso passando sopra gli scambi delle rotaie le quali aumenta-
vano via via di numero, quattro, cinque, sei coppie, molte di più, poco alla vol-
ta tutta una pianura di binari, e in mezzo qua e là le garitte di servizio, qualche
edificio in muratura con leve ed altre apparecchiature all’interno e all’esterno,
monconi di treni in sosta, locomotive, rari ferrovieri vaganti. La stazione Cen-
trale di Milano si approssimava; nell’ultimo tratto la distesa dei binari correva
su un enorme terrapieno, ai due lati del quale - separate da strade profonde
come canali, che dal treno s’indovinavano appena - si allineavano in lunga fila
case e casoni disformi, sormontati da sporchi telai per la pubblicità luminosa
da tempo non più funzionante. La ‘littorina’ ridusse poco alla volta la velocità,
fino ad entrare a passo d’uomo sotto le grandi arcate in ferro della stazione,
insolitamente buie perché, a causa dei bombardamenti, parecchie delle lastre
di vetro che davano luce dall’alto, erano state sostituite con lastre di fibroce-
mento; s’arrestò infine con un ultimo sussulto; i viaggiatori si accalcarono agli
sportelli.
CAPITOLO QUINTO
Ambrogio ebbe l’impressione che sui marciapiedi ci fosse più gente del soli-
to. E verso l’interno della stazione sembrava raffittire; ogni tanto si sentivano
lontani, improvvisi clamori. “Cosa diavolo può essere?” egli si chiese.
«Che starà succedendo? Cosa fanno?» si domandava anche qualche altro
degli arrivati dalla Brianza mentre procedeva verso l’uscita.
Passavano parlando con animazione gruppi di persone, la gente non sem-
brava comportarsi nel solito modo, molti individui apparivano eccitati. A un
tratto, mentre uno di quei gruppi intersecava la diluita corrente di viaggiatori
provenienti dal treno: «Eccone uno, eccone uno» si sentì gridare; esplosero
molte voci, alcuni ragazzoni e uomini dapprima, poi tutto il gruppo circondò
qualcuno non lontano da Ambrogio. Guarda, avevano scoperto il tizio con la
‘cimice’, di cui il giovane si era completamente dimenticato.
«Un fascista!»
«Ha il distintivo: ve’, ha ancora il distintivo ’sto porco, guardate» vociferava
strepitando un ragazzotto.
«La carogna.»
Molti accorrevano da più lontano, vociando e anche ridendo.
Ambrogio cercò, in divisa com’era, di farsi avanti, ma il raffittimento della
gente glielo impediva. Vide che un individuo scamiciato tratteneva per il ri-
svolto della giacca, su cui ancora s’intravedeva la ‘cimice’, il tizio sceso dal tre-
no di Nomana, terreo in volto.
«Lasciatemi stare» protestava costui «lasciatemi stare. Sono fascista come
lo eravate tutti voi, né più né meno.»
«A noi fascisti? A noi? Ah disgraziato!»
«Che merda!»
«Maledetto porco. Figlio di puttana.»
L’individuo scamiciato dava strattoni sempre più violenti al risvolto, tanto
che finì con lo strapparlo dalla giacca: dopo di che - tra le acclamazioni degli
altri - lo alzò in aria come un trofeo, giubilando.
«La polizia» gridò a questo punto una voce di donna: «arriva la polizia.»
L’allarme ebbe un certo effetto, tutti si guardarono intorno, il capannello
che stringeva il tizio si aprì un poco; non si vedeva però la polizia.
L’individuo col risvolto in mano scorse invece Ambrogio: «Non è la polizia»
gridò «è l’esercito.» Levò nuovamente in alto il brandello di stoffa: «Viva
l’esercito» gridò, «viva l’esercito che ha liquidato questi cagoni...» Poi, non
ricevendo corrispondenza dall’esercito, si avviò, seguito dagli altri. Il tizio con
la giacca lacerata rimase fermo sul posto: «Non possono farlo, non possono»
ripeteva.
Ambrogio lo raggiunse; la gente ch’era arrivata col treno si stava riavviando
tra fitti commenti. «Andiamo» disse Ambrogio all’uomo «venite via prima che
a quelli salti in mente di tornare qui.»
Alle spalle dei due camminava, con altri, la donna che in treno aveva sugge-
rito all’uomo di togliersi la ‘cimice’. «Gliel’avevo detto» ripeteva eccitata: «io
gliel’avevo detto.» Ambrogio le diede un’occhiata di traverso, quella allora ab-
bassò un poco la voce, ma non smise di ripetere: «In treno io l’avevo avvisato,
gliel’avevo detto.»
Ecco là un pattuglione di polizia, fermo presso la rampa delle scale centrali,
e laggiù eccone un altro.
«Se volete, potete rivolgervi alla polizia» disse Ambrogio al tizio.
«La polizia? Sì, certo» rispose questi, ancora sbalordito.
«Più che altro se a quelli venisse in mente di tornare a cercarvi...» disse
Ambrogio, e lo lasciò.
All’uscita della stazione c’erano alcuni che, con scale e martelli, stavano
puntigliosamente demolendo i simboli fascisti incorporati nei muri; intorno
piccole folle acclamavano, ma soprattutto ridevano.
CAPITOLO SESTO
***
Tornò in ospedale ad aspettare. Nel tardo pomeriggio fu chiamato in un uf-
ficio da uno dei due assistenti, che adesso non era più in camice, indossava la
divisa da sottotenente medico. «Senti, non è urgentissimo, ma bisogna che ti
ricoveriamo» disse subito costui: «mi dispiace.»
«Ma...»
«No. Qui non c’è da scherzare; attento che coi reni non si scherza.» Gli
espose, senza dilungarsi, il suo quadro clinico.
Poi gli tese un primo foglio: «Qui c’è il rinnovo della tua licenza per due set-
timane: il professore ti viene incontro, come vedi.»
«Ma... Non è che io gli chiedessi un prolungamento della licenza.»
S’interruppe, pensò a Manno: questo supplemento di licenza gli avrebbe se
non altro consentito di rivederlo.
«Beh» disse il giovane medico «ormai è andata così.» Aggiunse: «Quel che
è certo, è che al reggimento tu non puoi tornare.»
Gli tese poi gli altri due fogli: «La prescrizione delle medicine che devi co-
minciare a prendere subito - subito hai inteso? - con la dieta. E questo è il fo-
glio di ricovero, al termine delle due settimane, direttamente nell’ospedale
militare dell’isola Bella, sul lago Maggiore. Le conosci, no, quelle isolette da-
vanti a Stresa? Un bel posto, vedrai. E soprattutto (per te è la cosa più impor-
tante) c’è un direttore, Braga, ch’è un padreterno quanto ai reni. Appunto per
questo ti mandiamo là.»
«In fondo non è neanche molto lontano da casa mia» mormorò Ambrogio.
«Ecco, bravo. E poi, fra noi, con la situazione in cui siamo... Se dovessero
ricominciare i bombardamenti, non credo che gli aerei verranno a gettar
bombe proprio su quelle isolette in mezzo al lago.»
«Sono d’accordo.»
«Tieni presente quello che ti ho detto» concluse il medico congedandolo:
«Non hai motivo per spaventarti, ma per allarmarti sì. Tu ti rimetti davvero in
sesto soltanto se ricominci a curarti in modo serio. Ascolta me: cerca di non
perdere tempo.»
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
Gli aerei - tutti inglesi - tornarono molto più numerosi nel corso della notte,
e guidati dagli incendi accesi nel pomeriggio eseguirono una terribile distru-
zione. Il giorno dopo - 14 agosto - la città ebbe tregua; ma nelle due notti suc-
cessive le divisioni aeree tornarono in formazioni ancora più massicce, ed ope-
rarono distruzioni quali per estensione non s’erano fino allora viste in nessuna
città italiana. Più tardi, al censimento, risultò che dei novecento trentamila
vani che formavano Milano, ben cinquecentosessantamila erano stati distrutti
o danneggiati.
Innumerevoli case erano crollate, ingombrando anche le strade già per loro
conto interrotte da voragini e crateri; in moltissime strade non si poteva quin-
di più circolare, e questo rendeva difficile portare aiuto alla gente rimasta in-
trappolata nei rifugi e nelle cantine; sopra la città stagnava una tetra nube di
fumo, perché gli incendi durarono giorni.
I treni che portavano via da Milano gli sfollati (più esatto ormai sarebbe di-
re i profughi) non potendo partire dalle stazioni cittadine - tutte inagibili - fa-
cevano capo, sulle diverse linee, alle prime interruzioni. Per fortuna la popola-
zione a quel tempo era già in notevole parte sfollata, e quella che lavorava an-
cora in città, ogni sera se ne allontanava sistematicamente con tutti i mezzi
(bisogna dire che almeno in questo lo spirito d’iniziativa dei milanesi si espli-
cava ancora in pieno): così i morti furono in tutto poco più d’un migliaio, cioè
incredibilmente pochi confronto all’enormità delle distruzioni. Un morto ogni
cinquecento e più vani distrutti o danneggiati: la gente si sarebbe rifiutata a
lungo di crederci, molti si rifiutano ancora oggi. Anche perché tanti avevano
udito i racconti degli scampati, fuggiti coi soli abiti che avevano indosso (don-
ne specialmente, scese a caso dai treni nell’una o nell’altra stazione della pro-
vincia - n’erano arrivate anche a Nomana): racconti che facevano pensare a
chissà quali stragi.
Il 16 agosto, al colmo dei bombardamenti, giunse a Nomana la brutta noti-
zia della morte del padre del Michele Tintori, l’ex scultore paralizzato: secon-
do il referto medico il decesso era da attribuire a collasso cardiaco.
Diede la notizia per telefono ai Riva una parente del Tintori residente a
Monza, avvertendo che il funerale avrebbe avuto luogo l’indomani: Gerardo -
che l’aveva ricevuta personalmente - la comunicò di proposito ad Ambrogio
con un giorno di ritardo, così da non consentirgli di presenziare.
“Collasso cardiaco vuol dire, probabilmente, che è morto di crepacuore per
la mancanza di notizie del figlio” argomentò tra sé e sé il giovane, “e io, duran-
te tutta la licenza, sono stato a trovarlo una volta sola, al principio...” Quando
Michele fosse tornato non avrebbe trovato più nessuno dei suoi ad attenderlo,
forse non avrebbe trovata nemmeno la sua casa. Questi pensieri turbarono
Ambrogio per giorni, toccandolo nell’intimo non meno del fatto dei bombar-
damenti.
Intanto con le linee telefoniche verso la pianura dissestate, le comunicazio-
ni con Piacenza si erano fatte difficoltose: Manno riuscì a gran fatica a far sa-
pere che la sua partenza stava per essere un’altra volta rimandata. Ambrogio
si lasciò allora convincere a partire per l’ospedale. Ve lo accompagnarono in
automobile il padre e l’autista Celeste, quello che a suo tempo era stato autista
di Badoglio (attualmente nuovo capo del governo: «Il che» disse Ambrogio a
Celeste nel corso del viaggio «ti fa crescere di statura almeno dieci centimetri,
eh? Tutt’in una volta».)
II
CAPITOLO DECIMO
Manno effettuò la tanto attesa visita a Nomana circa una settimana più tar-
di, il 23 agosto.
Il suo treno - sulla grande linea ferrata proveniente da Roma - non poté
giungere alla stazione Centrale di Milano e dovette fermarsi all’inizio della
città, alla stazione di smistamento di Lambrate.
«Soltanto da ieri i treni arrivano qui» gli comunicò un ferroviere: «Fino
all’altro ieri dovevano fermarsi qualche chilometro più indietro, dove ci sono
quei crateri con tutti quegli operai al lavoro.» «Operai e crateri, per la verità,
ne ho visti diversi.»
«Dove gli operai sono più numerosi; dove c’è quel cratere strano, con le ro-
taie puntate verso il cielo.»
«Ah, sì, lo ricordo.»
Il giovane era dunque sceso alla stazione di Lambrate, piuttosto malconcia,
con la tettoia qua e là sforacchiata, angoli di muro asportati e grezze slabbra-
ture nel cemento della scalea che scendeva dal piano della ferrovia a quello
della città. Non gli era mai capitato di fermarsi in questa stazione allora di pe-
riferia, che pure aveva attraversato tante volte, e si guardava perciò attorno
con curiosità: come succede in simili casi la trovava più complessa di quanto
s’attendesse.
Giunto sul piazzale antistante notò che le strade che ne partivano erano tut-
te senza eccezione invase da frane di macerie, tanto da sembrare a prima vista
impercorribili.
“Son capitato bene!” pensò, e cominciò a preoccuparsi; a Nomana oltre ai
parenti sperava di rivedere Colomba, e non aveva molte ore a disposizione.
C’erano, in sosta davanti alla stazione, due camion a cassone ribaltabile,
molto scalcinati, e un motocarro dell’ ‘Unpa’, il servizio di protezione antiae-
rea; il conducente del motocarro, un giovanotto in sommaria divisa color caf-
fè, forse da pompiere, notò la sua perplessità. «Signor tenente» lo chiamò,
senza allontanarsi dal veicolo Manno lo raggiunse. «Non so dove siate diret-
to» disse il conducente; «io sto aspettando il ‘capo’ per tornare in centro, ab-
biamo caricato adesso dei picchi e badili: se volete approfittare... Questione
solo di minuti.»
«Va bene» gli rispose Manno «grazie.»
Di lì a non molto uscì dal sotterraneo della stazione il ‘capo’, un geometra
anziano con cartella sotto braccio; strinse la mano dell’ufficiale e lo fece acco-
modare sul sedile a panca del veicolo alla destra del conducente, mentr’egli
prendeva posto alla sinistra: «Stiamo un po’ stretti, eh?» commentò ridac-
chiando, ma aveva la mente altrove, al suo non facile lavoro.
I pochi viaggiatori scesi con Manno che ancora indugiavano nel piazzale -
due o tre - alla vista del veicolo in partenza accorsero. Dopo averli avvertiti:
«Noi andiamo in centro» il geometra consentì loro di montare nel cassone.
II motocarro s’avviò imboccando la più larga delle strade: arrivato alla pri-
ma frana di macerie, che dal piazzale sembrava ostruire completamente il pas-
saggio, si avventurò a passo d’uomo, sobbalzando e inclinandosi fortemente,
sul suo margine più basso, ch’era stato spianato in modo sommario.
La medesima manovra si ripete alle frane successive, in un’altalena conti-
nua.
Milano - l’ufficiale si rese conto - era stata ben più duramente colpita di
quanto le notizie diffuse dalla radio facessero supporre. Egli aveva addirittura
l’impressione che neppure una casa fosse rimasta indenne. Molte, anzi moltis-
sime, risultavano rase al suolo in cumuli informi di macerie; ancor più nume-
rose erano quelle demolite solo in parte: sull’interno dei muri diroccati di que-
ste si disegnavano a riquadri di diversi colori le pareti dei locali scomparsi, su
qualcuna c’era ancora un quadretto o un mazzo di fiori artificiali appeso di
sghembo; si vedevano anche lembi di pavimento che sostenevano a mo’ di
mensola qualche mobile, per esempio una sedia, un attaccapanni, oppure un
letto di ferro a metà pencolante nel vuoto.
Le strade - anche le poche ch’erano già state in qualche modo ripulite - ri-
sultavano tutte senza eccezione cosparse di minuti frammenti di vetro, perché
non un vetro pareva fosse rimasto integro; in qualche telaio di finestra se ne
scorgevano degli avanzi con incollate sopra strisce di carta, secondo il sugge-
rimento dato dalle autorità competenti. “Il nostro modo di fare la guerra” pen-
sò amaramente il giovane, “la nostra risposta ai quadrimotori!” Rifletté tutta-
via, con equanimità, che anche lassù nelle città inglesi da cui gli aerei erano
partiti, dovevano esserci dei vetri rotti con le loro brave strisce di carta incolla-
te sopra... Non provava per il nemico alcuna animosità: “È il modo di fare la
guerra degli anglosassoni, inglesi e americani.” Lui li aveva conosciuti in Afri-
ca: “Non potrebbero mai battere i tedeschi sul campo, però hanno senza con-
fronto più macchine, specialmente aerei con cui possono distruggere le città e
le retrovie avversarie, e le distruggono. Diversamente vincere non potrebbero,
e alla lunga finirebbero con l’essere vinti.”
Ma radere al suolo le città italiane proprio mentre il nuovo governo stava
sforzandosi in tutti i modi d’uscire dalla guerra...
“Si vede che non si fidano del nuovo governo, che non ci credono. Così di
noi italiani non si fidano loro, e non si fidano - a ragione - i tedeschi. In con-
clusione povera Italia!”
Strada dopo strada, sempre attraverso quell’uguale spettacolo di desolazio-
ne, in cui tuttavia si scorgevano parecchie squadre d’operai al lavoro, il moto-
carro arrivò in centro. Fece alt nell’impolveratissima piazza della Scala,
dov’erano parcheggiati altri mezzi similari e un certo numero d’autocarri a
cassone ribaltabile.
«Vedete che situazione anche qui?» disse, dopo essere sceso a terra, il geo-
metra al tenente, indicando tutt’intorno.
La copertura a cupola del grande teatro, orgoglio della città, non esisteva
più, era sprofondata, scomparsa. Della cinquecentesca mole di palazzo Mari-
no, sede del comune, che fronteggia il teatro, rimanevano soltanto le mura
annerite: tutto l’interno era franato, divorato dal fuoco. Quanto alla Galleria
(‘il salotto di Milano’ come ricordò Manno) che collega piazza della Scala alla
vicina piazza del duomo, era totalmente ostruita dalle sue grandi volte in ferro
e vetro, cadute o pencolanti fino al pavimento.
«Che bel servizio!» mormorò il giovane, nel linguaggio con cui i soldati, non
potendo sfuggirla, ricevevano ogni tempesta, fosse d’acqua o di fuoco.
«Eh» sospirò l’uomo anziano, «eh!» Poi sembrò riscuotersi: «Se volete arri-
vare a un treno per Monza, vi consiglio di rivolgervi ai conducenti di quei
mezzi là in fondo. Chissà che l’uno o l’altro non debba partire con destinazione
Sesto, o press’a poco...» Tese la destra al giovane, che gliela strinse e lo ringra-
ziò.
In effetti un mezzo sarebbe ‘molto probabilmente’ partito per Sesto entro
un’ora; si trattava d’un altro triciclo, anche più sgangherato del precedente e
appena requisito: l’insegna del suo ex proprietario, un lattoniere, era ancora
visibile sotto una frettolosa mano di vernice.
“La Provvidenza” pensò subito il giovane: “guarda, la Provvidenza mi viene
incontro”. Non mancò tuttavia di chiedersi se, in così enorme sfacelo, fosse
pensabile che la Provvidenza stesse davvero prendendosi cura d’un essere mi-
nuscolo come lui, e anzi del suo problema in fondo neppure vitale, di andare
in licenza per un giorno... Ricordò quella frase del Vangelo: anche i capelli che
ciascuno di voi ha sul capo sono contati, e si rispose con convinzione che la
Provvidenza stava, né più né meno, prendendosi cura del problema d’un esse-
re minuscolo come lui. Ma dei problemi di tutti gli altri allora, di quelli che
erano morti schiacciati, o soffocati nelle cantine, o avevano persa la casa e i
beni?
Nell’attesa che quest’altro veicolo si risolvesse a partire, il giovane cominciò
a passeggiare su e giù lungo uno dei marciapiedi di piazza della Scala, quello
davanti all’imponente sede della Banca Commerciale. Già, e tutti gli altri? Gli
tornò in mente una seconda frase del Vangelo: cosa conta un passero? eppure
neanche un passero può cadere senza il permesso di Dio. Doveva dunque ri-
spondersi che, quanto agli altri, la Provvidenza - la quale stava adesso pren-
dendosi cura della sua licenza - aveva invece con indifferenza consentito che
fossero uccisi? “Vediamo, cerchiamo di capire.”
Bisognava prendere la rincorsa un po’ da lontano per dare la scalata a un
ostacolo come questo. C’era - lui n’era convinto - una Provvidenza (un’azione
conservatrice e promotrice di Dio) che presiede alle vicende degli astri e delle
galassie (cos’era questo pulviscolo del nostro pianeta terra, se confrontato coi
miliardi di miliardi di astri dell’universo?) e presiede anche, sulla terra, alla
crescita del singolo filo d’erba e alla sua evoluzione nel corso dei millenni. Sol-
tanto un essere privo d’intelletto potrebbe infatti credere che un organismo
così straordinariamente complicato come un filo d’erba (“pensa anche solo
alle ‘memorie’ che dentro un minuscolo seme d’erba determinano il suo ordi-
nato sviluppo individuale, e nei millenni l’evoluzione della specie in accordo
con l’evoluzione di tutto il creato...”) solo un essere privo d’intelletto potrebbe
credere che tutto ciò sia frutto del caos, e non opera di una Intelligenza. E che
Intelligenza! Venendo poi agli uomini...
Prima d’andare oltre l’ufficiale si chiese se fosse davvero il caso di fare tante
riflessioni esistenziali nel mezzo d’una catastrofe come questa, e si rispose che
sì: “Forse quando la vicenda che stiamo vivendo è più grande del consueto, o è
particolarmente tragica, proprio allora dovremmo rinunciare a riflettere?”
Era dunque arrivato agli uomini. I quali sono gli unici, fra tutti gli esseri
creati, che hanno la possibilità d’andare contro l’ordine posto da Dio nel crea-
to: gli uomini sono cioè gli unici esseri veramente liberi, appunto perché sono
liberi nei confronti di Dio. Questo stesso disordine, questo enorme disastro
che gli stava sotto gli occhi, ne era una dimostrazione. Perché certamente Dio
non aveva voluto questo male: bastava pensare alle parole di Cristo e anche
solo del papa, contro la violenza e la guerra. Dio aveva dovuto tollerare, ecco,
aveva dovuto permettere questo male, e tutte le altre cattiverie e carognate che
gli uomini fanno: e ciò per non andare contro la loro libertà. Il gran problema
del male nel mondo... Appunto per non impedire la libertà dell’uomo (il che
equivarrebbe in conclusione a snaturare l’uomo) Dio è costretto a tollerare il
male.
Ricominciamo: c’era la Provvidenza, cioè un’azione conservatrice e promo-
trice di Dio, nell’esercizio della quale egli si compiace di partecipare con amo-
re anche ai casi delle sue creature più piccole (ai problemi del filo d’erba e al
problema della licenza di Manno per esempio - come il giovane avvertiva così
bene). E c’era la libertà umana che - unica - può andare contro l’ordine di Dio.
Così stando le cose è grazia che al male si connetta la sofferenza, la quale trat-
tiene in qualche modo gli uomini nello scempio ch’essi possono fare del creato
e di sé stessi.
Rimaneva il fatto che a Milano e altrove non pochi, del tutto innocenti, era-
no periti. A un tratto Dio non li aveva più protetti né aiutati, non aveva più
potuto... Per non opporsi alla libertà dell’uomo, tutto ciò che Dio aveva potuto
fare era stato di morire - in Cristo - con loro, innocente con gli innocenti, in
modo da accomunare al proprio il loro sacrificio, sublimando quest’ultimo:
Cristo e tutti gli innocenti con lui, compensavano il male compiuto dagli altri
esseri liberi, in particolare da quelli che non accetterebbero mai di emendar-
si...
“Può venire per ciascuno l’ora del sacrificio: gli innocenti però non muoiono
inutilmente, ecco il punto”; ciò ridava senso alle cose.
Il giovane ufficiale decise - se mai un giorno fosse stato a sua volta chiamato
al sacrificio - di rispondere fin d’ora «presente!» Non immaginava che quel
giorno si stava avvicinando con tragica rapidità.
CAPITOLO UNDICESIMO
***
Ambrogio e Colomba non si trovavano a Nomana: glielo comunicò, non ap-
pena egli mise piede in casa, zia Giulia, la quale aveva un aspetto per niente
disteso.
«Ma... Non mi avevate detto al telefono, una settimana fa, che a ‘I dragoni’
aspettavano Colomba da un momento all’altro?»
«Sì, infatti è... era così. Poi però non è arrivata. Può darsi per
i bombardamenti.»
«E Ambrogio?»
«Da cinque giorni si trova nell’ospedale militare sul lago Maggiore. Non sta
troppo bene, lo sai?» Negli occhi di zia Giulia cominciò a formarsi un velo di
lacrime.
Che delusione! Ma: «Zia, su, non preoccuparti così. Ambrogio ha portata la
pelle fuori dall’inferno, cosa vuoi che sia per lui un po’ di... di ricaduta?»
«Sì, Manno mio, sì.»
Zio Gerardo, avvertito per telefono, lasciò immediatamente l’ufficio e venne
a casa: «Quante ore hai a disposizione?»
«Devo essere in caserma domani alle quattro, perché il nostro treno parte
alle sei e mezza.»
«Senti, la serata la passi insieme con noi; poi se domattina vuoi fare una
corsa a Stresa... O preferisci passare anche quelle poche ore qui in casa, in pa-
ce?»
«No zio. Mi daresti per caso... la macchina?»
«Sì. Sto appunto pensando a questo. Ti mando da un nostro cliente a Ome-
gna: figurativamente, si capisce, se mai qualcuno ti fermasse per strada; non
occorre che tu arrivi davvero a Omegna.»
«Ottimo» disse Manno, «mi va bene così.» Rifletté: «Al ritorno potrei ma-
gari passare da Novara. O no?»
Lo zio capì a volo: «Certo. Fammi pensare un poco, aspetta.» Considerò per
qualche istante la cosa. «D’accordo, lascia fare a me. Adesso torno in ufficio
e... Sarà meglio che predisponga subito tutto.»
Rincasò dopo parecchio tempo con due plichi: uno della ditta per il cliente
d’Omegna, e l’altro delle officine Argati di Beolco per l’arsenale militare di
Piacenza. «Il commendator Argati è mio buon amico, lo sai, una cara persona,
fa parte come me del consiglio dell’ospedale. Beh, lui t’incarica - sempre pro
forma, si capisce - di fare questo sopralluogo a Piacenza. Così ci potrai andare
in macchina, e Novara si trova precisamente sulla strada tra Omegna e Pia-
cenza.» Tolse dal plico una lettera intestata, lesse: ‘Il presente dottor Manno
Riva è da noi incaricato di un sopralluogo presso cotesto spettabile arsenale,
in relazione alla nostra fornitura di...’ S’interruppe, celiò: «Ti chiama dottore,
senti?»
«Beh, è giusto» disse zia Giulia: «dottore, perché ti laureerai presto.»
«Io? Se ho dato appena la metà degli esami?» rise Manno. «E poi, oltre tut-
to, cosa c’entra dottore? Visto che faccio architettura non sarò mai dottore.»
«Questo non vuol dire» insisté la zia: «qui sta per laureato.»
«Ah, ecco» fece Manno ridendo.
Lo zio completò la lettura del foglio. «Bene» disse, «non occorre che tu vada
effettivamente all’arsenale: questi sono, diciamo, dei salvacondotti. Me li ri-
manderai indietro da Celeste una volta arrivato a Piacenza. A Celeste spieghe-
rò io come deve comportarsi se per caso lo fermano. Così» concluse «avrai
qualche ora in più. Se no, con le linee ferrate tutte per aria...»
Manno guardò lo zio negli occhi: malgrado l’aria ilare che ostentava non
doveva essergli facile ricorrere a simili sotterfugi, egli lo sapeva bene. «Mi aiu-
ti come farebbe mio padre se fosse vivo» disse.
«Sì» rispose Gerardo, toccato da tali parole: «precisamente. Per quello che
posso.»
Manno si mise i due plichi in tasca. Così, oltre ad Ambrogio, avrebbe rivista
Colomba! “La c’è la Provvidenza” pensò, parafrasando Renzo Tramaglino: “al-
tro che se la c’è!” e malgrado tutto quel putiferio di rovine attraversa cui era
passato, avrebbe voluto mettersi a cantare dalla gioia...
CAPITOLO DODICESIMO
La mattina dopo incontrò il cugino sul lungo lago di Stresa. Preavvisato per
telefono Ambrogio gli era voluto venire incontro: l’attendeva seduto al tavoli-
no di un bar, sotto un tiglio scapitozzato greve di foglie; era in divisa diagona-
le, al suo fianco sedeva una giovane crocerossina. Non si alzò in piedi, lo rice-
vette con un: «Alla faccia tua! Bravo che sei venuto a trovarmi, ci tenevo
anch’io a vederti.» E dopo avergli vigorosamente stretta la mano: «Ti presento
qui sorella Mayer.»
Esauriti i convenevoli anche Manno e l’autista Celeste presero posto intorno
al tavolino.
«Racconta un po’» gli disse subito Ambrogio: «son proprio curioso: a No-
mana hai incontrata Colomba?»
Manno notò che il cugino era straordinariamente mal ridotto, come non
l’aveva forse visto mai, ancora più mal ridotto di quando stava al convalescen-
ziario di Riccione. «Colomba?» rispose: «Ehi, si può sapere come fai a cono-
scere questa storia molto riservata? Ah, capisco, Francesca... Chissà quanto
avrà chiacchierato quella stupidella.»
«Rispondi Manno» gli disse Ambrogio, «non divagare.»
«Beh, se proprio vuoi saperlo, non l’ho ancora vista, perché non è a Noma-
na, ma a Novara.»
«A Novara? A Novara dici? Oh, mi dispiace.» Gli dispiaceva davvero. «Ma
allora» esclamò «cosa fai qui, fermo immobile? Dai, fila via, corri subito a No-
vara.»
«Ma sentitelo» disse Manno alla crocerossina e a Celeste. «Io ho fatto un
viaggio faticoso per venire a trovare il mio povero cugino infermo, e lui ecco
come mi accoglie: mi caccia via.»
La crocerossina scoppiò a ridere di gusto, aveva modi vispi, non formali
come Manno s’immaginava avessero tutte le crocerossine; il giovane la osser-
vò un poco senza darlo a vedere: era incredibilmente giovane e aggraziata, e
aveva gli occhi d’un gradevole, strano colore chiaro.
Ambrogio notò il suo interesse. «Lo sai chi è costei?» gli chiese senza peri-
frasi.
Manno rizzò un poco la testa e cercò di destreggiarsi, non potendo sapere
dove il cugino volesse arrivare: «Non ho capito bene il nome alla presentazio-
ne: sorella Jucker, mi pare tu abbia detto.»
«Mayer» corresse lei: «Epifània Mayer.»
«Hai sentito? Epifània. Pazzesco, da non credere!» continuò Ambrogio:
«L’avevi mai sentito tu un nome simile?» Trovandosi in presenza d’una ragaz-
za, anche se giù di corda egli non poteva trattenersi dal fare dello spirito.
«Non fategli caso, sorella» disse Manno, scuotendo la testa con accentuata
disapprovazione (Celeste finì con l’imitarlo, scuotendo a sua volta la testa): «È
fatto così, ma non è propriamente un malvagio; anche se sembra.»
Per la seconda volta la crocerossina uscì in un’allegra risata. «Sembra, sì,
questo è vero» convenne.
«Costei, questa sorella Epifània, quand’è in borghese si chiama Fanny, e al-
la Cattolica noi matricole di scienze economiche la chiamavamo Fanny D.O.V.,
che vuol dire: Dagli Occhi Verdi» continuò Ambrogio.
«Ah, siete compagni d’università! Che caso formidabile.»
«Sì, sono iscritta anch’io a scienze economiche» disse Fanny D.O.V.
«Forse qualche volta me l’avrai sentita nominare.»
«Ah, infatti» fece Manno «adesso ricordo.» Ricordava davvero, anche se
vagamente: Ambrogio gliene aveva parlato in occasione d’una licenza: ‘dagli-
occhi-verdi’, sì: una delle poche compagne decenti del suo corso, aveva detto,
o qualcosa di simile. «Guarda che combinazione!» commentò. E rivolgendosi
a Fanny, che aveva effettivamente gli occhi verdi: «E così, sorella, non soltanto
a scuola, ma anche sotto le armi voi dovete sorbirvi la sua opprimente presen-
za.»
«Eh» convenne lei, stando al gioco «eh! Poveretta me!»
«Io, al vostro posto, chiederei il trasferimento» disse Manno. «Ci sta infatti
pensando» gli spiegò Ambrogio: «Lei ci sta pensando, ma non le conviene. Ha
la villa qui a Pallanza, e le fa troppo comodo prestare servizio a Stresa. Per lei
in pratica è come fare il servizio militare in villeggiatura.»
Per tutto il tempo della visita - una bell’ora abbondante - non si mossero dal
tavolino sotto il tiglio scapitozzato. Sulla strada del lungo lago - la via naziona-
le del Sempione - non c’era molto traffico, e ogni cosa aveva l’aspetto di sem-
pre, ma la gravità della situazione era nell’aria e sulle facce della gente. Si ri-
fletteva del resto anche in loro, che pure avevano cura di non darlo a vedere.
In aggiunta al resto Manno si sentiva nascostamente preoccupato per la sa-
lute del cugino, che in vita sua - si ripeteva - non aveva mai visto così malri-
dotto. L’altro finì col rendersene conto, e a lui che lo sbirciava: «Non preoccu-
parti per me» esclamò a un tratto: «come vedi» indicò col mento la croceros-
sina «io ricevo ogni possibile cura. Se mai» gli sfuggì «è agli altri che do-
vremmo pensare, a quelli che sono caduti prigionieri in condizioni peggiori
delle mie.» Svagò per un istante con gli occhi sulla pacifica distesa del lago:
«Se pure ne hanno presi di prigionieri» mormorò.
Gli altri tre lo guardarono in silenzio. «Perché, tu credi che non ne abbiano
presi?» chiese con spavento Celeste.
«Non dico questo. Io non lo so, nessuno lo può dire.»
«Beh, sentite, perché non parliamo di cose più allegre?» fece Manno, e
provvide a riportare la conversazione su toni distesi.
Mentre l’osservava scherzare di nuovo, facendo ridere sempre più spesso
Fanny, Ambrogio ebbe come già nei giorni precedenti a Nomana un improvvi-
so presentimento: che non avrebbe più rivisto il cugino per molto, moltissimo
tempo. “Per tutto il tempo della vita, magari?” si chiese beffardo, quasi a
schernire sé stesso. “Forse sì” gli rispose una voce dentro: “probabilmente sì”.
“Ma va, son tutte scemenze dovute al fatto che sono giù di corda” tentò di li-
quidare il problema.
«In Grecia» disse tuttavia, cogliendo a volo lo spunto da una battuta di
Manno «cerca di non fare troppo il bulo, magari per poi, una volta tornato,
raccontare a Colomba le tue imprese. Ti conosco io.»
«Il bulo?» esclamò l’altro con occhi ancora ridenti: «Ti figuri che razza di
bulo potrei essere, in un momento in cui tutti si preparano a smammare?» A
questo punto intuì la segreta preoccupazione del cugino. «Ehi, un momento:
ho l’impressione che noi due facciamo a chi si preoccupa di più per l’altro,
come due balie. Non è da ridere?» Rise, Fanny e Celestino sorrisero.
Ambrogio lo disapprovò con la testa, pur senza obiettare.
«Dai Ambrogio» disse allora Manno: «Sai bene come io vedo le cose, no? Se
la Provvidenza mi spedisce in Grecia, vuol dire che per me va bene andare in
Grecia, che questo mi servirà al compito per il quale Domine Dio mi sta te-
nendo in caldo, quale esso sia.» Fece con le mani un gesto, come a indicare un
piatto tenuto coperto: «E fino ad allora, fino a quando cioè non avrò assolto
per benino il mio compito, non mi potrà succedere niente, mi spiego? Anche
se mi buttassi nel fuoco non mi succederebbe niente.»
«Lo sentite? Parla come uno che con Domine Dio ha la linea telefonica di-
retta» disse Ambrogio agli altri due. E a Fanny: «Non mi crederai, ma riguar-
do a questa storia d’una sua predestinazione, non scherza mica: l’ha già tirata
fuori seriamente diverse volte.» Fanny sgranò sorridendo gli O.V. (occhi ver-
di).
CAPITOLO TREDICESIMO
Circa un’ora dopo aver lasciata Stresa Manno era a Novara davanti alla casa
di Colomba, lungo uno di quei baluardi - o larghe vie silenziose, ombreggiate
da file di grossi ippocastani - che circoscrivono in parte il nucleo più antico
della città.
Nel suonare il campanello avverti lo stesso batticuore di quando a Nomana
s’era presentato la prima volta a ‘I dragoni’. “Neanche stessi per entrare in
combattimento” pensò anche stavolta, e anche stavolta si prese in giro: “Cerca
per favore di non farmi ridere.” Venne ad aprirgli Colomba in persona: «Oh,
Manno» gridò gioiosa: «Manno, tu! Che sorpresa, che gioia!»
Invece di parlare il giovane la contemplò per alcuni istanti: «Come sei bella
Colomba» disse pieno d’emozione: «sei un incanto!» Colomba avrebbe voluto
rispondere in modo scherzoso, ma un gran turbamento la prese, non riuscì più
a dire una parola.
«Beh, come va Colombina?» le chiese allora, con voce ridivenuta terrestre,
il giovane. «Come stai?»
«Manno, ti sei ricordato di me!» mormorò Colomba.
«Certo, cosa credevi? Ma che succede? Non mi fai entrare?» Sempre emo-
zionatissima la ragazza gli lasciò libero il passaggio. Ritrovò la parola
quand’egli, nell’anticamera, si arrestò in attesa d’essere indirizzato. «Mamma,
mamma» gridò «vieni, c’è Manno. Vieni mamma.»
S’affacciò a una porta interna una vecchia cameriera coi capelli bianchi:
«Cleofe, chiama la mamma per favore. C’è... c’è qui... Chiamala, su.»
Seguirono le presentazioni alla genitrice (il padre, gli spiegarono, era fuori,
al lavoro) e i primi impacciati scambi di convenevoli in salotto: «Manno è uffi-
ciale, lo sai?»
«Sì Colomba, me l’hai detto.»
«Perché non sei venuto in divisa, Manno?»
Manno - che del resto era bello anche cosi - spiegò perché non era in divisa,
riferì degli incarichi-pretesto: «Insomma devi mettere che io stia facendo una
specie di giro d’affari in qualità di tecnico, o forse di piazzista, non lo so nem-
meno io.»
Colomba rise scuotendo la giovane testa; stava riprendendo la padronanza
di sé. «Adesso mi cambio, va bene Manno? Faccio in un attimo.»
Tornò di lì a poco, nell’abito già indossato più d’una volta a ‘I dragoni’:
quello che Manno aveva trovato simile a un peplo greco. Quanto ai capelli li
aveva legati a crocchia con frettolosa impazienza davanti allo specchio della
sua cameretta: una pettinatura provata e riprovata in segreto per sembrare
più donna, e possibilmente anche più greca, e comunque meno bambina.
«Per amor del cielo!» esclamò la madre al vederla, ma non aggiunse altro.
Quanto a Manno a sorprendersi o a ridere non ci pensava neppure. Rimase
di nuovo a bocca aperta: era al punto che gli si fosse anche presentata accon-
ciata da pagliaccio, l’avrebbe ammirata ugualmente: “Che bella creatura! Gra-
zie, Signore Iddio, grazie!” pensava.
Avvertendo lo sconcerto della madre e temendone qualche intervento cor-
rettivo, Colomba propose subito al giovane: «Usciamo a fare due passi? Che
ne dici?»
«Sì, certo» colse la palla al balzo lui.
La madre arrischiò: «Uscire così...» e stava per dire: «pettinata?», ma girò
la frase: «così, a quest’ora?»
«Sì, mamma, perché no?»
«Perché no?» le fece eco Manno.
«Come volete ragazzi.»
I due ragazzi uscirono, e si misero a passeggiare sotto gli ippocastani del ba-
luardo, conversando tra loro sempre più spontaneamente. A un certo punto
Colomba con la volubilità dei suoi diciotto anni si lasciò intimamente sugge-
stionare dalle ragioni della madre e levò le forcine che trattenevano i capelli a
crocchia: i capelli ricaddero, senza assumere però la loro piega normale. Così
la ragazza risultava sempre pettinata in modo eccentrico, bizzarro: «Per tener-
li a crocchia li ho un po’ corti, non ti pare?» si giustificò.
«No. Perché?» le disse Manno: «Ti stava molto bene quella pettinatura» e
con voce più bassa «quasi greca.»
Colomba negò scuotendo la testolina, poi si mise a ridere con naturalezza.
«Beh, non importa» fece Manno: «ti sta bene anche questa; tu sei bella co-
munque, sei sempre bella.»
L’intero tempo che Manno poté rimanere, quasi due ore, lo trascorsero pas-
seggiando su e giù lungo quel viale e i circostanti. Parlarono di tante cose, ma
avrebbero anche potuto non parlare affatto: erano due ragazzi che facevano
un’esperienza nuovissima, la nascita in loro dell’amore, questo dono sbalordi-
tivo di Dio.
Alla fine - ligio alle istruzioni ricevute - ecco arrivare Celeste in Millecento.
Come li scorse andò a fermarsi accanto al marciapiede a una certa distanza;
senza scendere di macchina si tolse di tasca e spiegò, addirittura con ostenta-
zione, un giornale.
La sua presenza indicava ad ogni modo ch’era venuto il momento
dell’addio; Colomba si fece inquieta: «Tu vai in guerra» esclamò a un tratto,
interrompendo il discorso che stavano facendo.
«Beh, in guerra un po’ per modo di dire» rispose sorridendo Manno: «Vado
in Grecia, cioè in zona d’occupazione. Là non si fa più la guerra da un pezzo.
Ma ne abbiamo già parlato, no?»
«La guerra è dappertutto» disse Colomba,
«Sì, se vogliamo metterla così. Dunque anch’io devo fare la mia particina.
Non sono ufficiale più o meno per questo?» Seguitava a sorriderle.
Colomba intuì con chiarezza che il ragazzo che le parlava non era di quelli
che davanti al dovere si tirano indietro. «Non ridere» esclamò impaurita:
«Con la guerra non si scherza: è una cosa spaventosa, bruttissima.» E aggiun-
se: «Adesso lo capisco anch’io.»
Non era più una bambina, ma una donna che parlava, e in questo momento
più adulta di lui: Manno se ne rese conto con sorpresa.
«Oh, Manno, Manno mio» disse accorata Colomba.
«Colombina, cosa ti prende? Su allegra.» Il giovane rise di nuovo in modo
noncurante, per rassicurarla; intanto la guardava coi suoi occhi azzurri da
‘giovin signore’ che volevano essere canzonatori. «Senti Colomba: dall’Africa
sono tornato in barchetta, dalla Grecia, per tornare da te, se sarà necessario
verrò addirittura a nuoto, d’accordo? Te lo prometto.»
Colomba non rideva. «Che cosa atroce!» disse, seguendo il filo della propria
ansia.
«Cosa dovrei fare? Tu non puoi desiderare che io lasci gli altri ‘nel bagno’ e
me ne stia in disparte. Che uomo sarei? Tu stessa mi disprezzeresti.»
«Sì, ma... Oh che cose, che cose accadono nella vita» esclamò Colomba «e la
nostra vita sta incominciando adesso.» Gli pose una mano sulla spalla: aveva
gli occhi - Manno s’accorse - pieni di lacrime.
Che piacere il contatto di quella mano! Il giovane gliela prese con delicatez-
za e la baciò commosso: «Abbi fiducia, vedrai che tornerò. Anzi, vuoi sapere di
più? Io devo» sottolineò la parola «devo tornare. Non scherzo. Spiegartelo
adesso seriamente non sarebbe possibile in poche parole. Mio cugino Ambro-
gio però lo sa, ne ho parlato con lui anche stamattina; all’occorrenza te lo farai
spiegare da lui, va bene?»
«Ambrogio? Spiegare?»
«Sì, Colombina: come e qualmente io tornerò.»
La ragazza lo guardava coi giovani occhi grigio-azzurri traboccanti di lacri-
me: ancora Manno insisteva a scherzare?
Sembrava che no: «È così, Colombina; è precisamente così. Beh, adesso ti
riaccompagno a casa.»
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
PARTE QUARTA
CAPITOLO PRIMO
***
Si trattava d’una batteria di mitragliere da 20 millimetri, piazzata su una
piccola altura in riva al mare. Il suo comandante tenente Cioffi - un tipo di
mezza età, incredibilmente trasandato - indicò un po’ all’incirca a Manno un
posto tra gli ulivi dove i suoi avrebbero potuto rizzare le tende. «Se credi, tu
puoi venire a dormire con noi nella nostra reggia» disse: «siamo in tre e non
in quattro, perché il sottocomandante è giù all’ospedale con la malaria, dun-
que il posto nella tenda ufficiali ci sarebbe. Se però preferisci dormire in pae-
se...»
«No, è meglio che stia qui allo schieramento, con i miei.»
«Figurati. Voi, per i pochi giorni che rimarrete qui, potete considerarvi in
villeggiatura. Bella villeggiatura, vedrai. Ah, che bella villeggiatura!»
Il neo arrivato era perplesso.
Davanti a tale perplessità Cioffi si mise a ridere. «Va bene» disse, «prendi
uno dei tuoi, o magari due, o anche tre, come attendenti, e fatti preparare con
dei picchetti un lettino nella tenda ufficiali.» «Ho la brandina.»
«Oh, bravo. Allora fatti preparare la brandina.»
Manno diede ai suoi artiglieri gli ordini per l’impianto delle loro tende, e ne
seguì di persona l’esecuzione. Fece inoltre scavare una latrina supplementare
in una macchia di canne polverose: «Perché dobbiamo scocciare il meno pos-
sibile questi della batteria, che mi sembrano già abbastanza scocciati per con-
to proprio.» Arrivata l’ora del rancio vespertino lo consumò - come già quello
di mezzogiorno - a secco coi suoi artiglieri: «Da domani la batteria preleverà i
viveri anche per noi, così potremo mangiare in modo regolare.»
I soldati vecchi del posto, trasandati quanto e più del loro comandante, im-
pigriti, avevano seguito motteggiando il po’ di lavoro dei nuovi venuti. Dopo il
rancio vecchi e nuovi si frammischiarono, parte scendendo in libera uscita nel
paese, parte sedendo in circoli sotto gli ulivi e i carrubi. Pur avvicinandosi il
tramonto le cicale non cessavano un istante di frinire, faceva molto caldo, e
c’era abbondanza di mosche e di polvere; tuttavia l’ambiente - per chi si pren-
desse la pena d’osservarlo - era in sé molto bello, col mare azzurro a poca di-
stanza, e l’isola montuosa e verde di Corfù che ne emergeva là di fronte.
Manno raggiunse la tenda davanti alla quale i tre ufficiali della batteria se-
devano a un rustico tavolo su panchetti scalcagnati; il comandante Cioffi s’era
slacciato il cinturone e se ne batteva di tanto in tanto il lembo più lungo sulla
pancia; avevano appena finito di consumare il loro rancio, sul tavolo, con le
briciole, era rimasta una bottiglia di vino semivuota e qualche bicchiere. Fece-
ro accomodare il nuovo venuto, scambiarono con lui qualche convenevolo, poi
lo interrogarono sul suo viaggio per nave (aveva incontrato qualche sommer-
gibile? no? strano) e sull’Italia, su come la gente vedesse ora la situazione; ma
non sembravano far veramente caso alle sue risposte, quasi si trattasse d’una
realtà che tutto considerato non li riguardava.
Ogni tanto Manno lanciava qualche occhiata alle otto piccole mitragliere
della batteria, piazzate a poca distanza tra i cespugli.
«Guardi i nostri schizzetti?» chiese il tenente comandante: «Beh, da quan-
do siamo qui - e sono due anni ormai; due anni, forse a te sembra niente, ma...
- beh, non hanno ancora avuto occasione di sparare un colpo.»
«Non un colpo?»
«Non uno. Perché a bombardare questo porto non ci viene mai nessuno. E
perché dovrebbero venirci? Di questo porto le nostre navi non si servono che
di raro: solo quando è segnalato qualche sottomarino inglese davanti a Valo-
na. Anche stanotte dev’essere andata così.»
«Finisce che v’annoiate un po’, eh?»
«Un po’?» disse Cioffi, e rivolto ai suoi due sottotenenti: «Avete sentito? Un
po’.»
I due sorrisero depressi. Uno, molto giovane, con la faccia da pacioccone,
disse: «Io sono arrivato dopo gli altri, sei mesi dopo, son qui soltanto da un
anno e mezzo. Al principio a sentire che qui non veniva mai nessuno a bom-
bardare, ero entusiasta: ‘Ecco il posto ideale per passarci il resto della guerra’
pensavo. Perché prima facevo servizio sulle navi di spola tra la Puglia e
l’Albania, e... beh, quella era una brutta vita. Insomma questo posto al princi-
pio m’è sembrato l’ideale. Per parecchi mesi l’ho pensato, e anche i soldati ar-
rivati qui con me seguitavano a dirlo, ma poi...»
«Già, poi» disse Cioffi con una sorta di mestizia.
“Questo è decisamente un reparto d’ ‘insabbiati’” andava realizzando Man-
no: “Anche in Libia, in certi posti dell’interno, i soldati erano così prima che
arrivasse la guerra a pungergli il sedere...” «Vi capisco» disse. «Adesso però,
al punto in cui siamo, ogni cosa si sta per rimettere in movimento.»
«In movimento?» fece Cioffi con assai scarsa convinzione; tentennò la te-
sta. «Mm» fece «Mm...» ripete.
«Per forza» disse Manno. A lui pareva talmente ovvio; cercò
d’esemplificare: «Qui, immagino, saranno quanto prima i partigiani a...»
«Quali partigiani?» esclamò Cioffi. «Qui a Porto Edda di partigiani non ce
ne sono. Stanno sulle montagne dell’interno» indicò vagamente con la mano:
«E a quel che si sente sono, per fortuna, occupati soprattutto a combattersi tra
loro. Perché qui in Albania ci sono tre varietà di partigiani; sei al corrente di
questo?»
«Tre varietà?»
«Sì: i nazionalisti, i comunisti e i ballisti; tutti nemici giurati tra loro.» Sba-
digliò.
Manno dubitò che l’altro lo stesse prendendo in giro; o aveva capito male?
«Come hai detto?» chiese sconcertato: «Partigiani nazionalisti, comunisti
e...?»
Cioffi notò la sua sorpresa e si mise a ridere. «Ballisti. Proprio così. Dì la ve-
rità, dovevi venire in Albania, eh, per scoprire che esistono anche i partigiani
ballisti?»
«Di che tendenza politica sarebbero?»
«Lo sai tu? Non lo sa nessuno. Ho solo sentito dire che, fra tutti, sono i più
svelti nel fregare le capre ai contadini. Di loro non sappiamo quasi altro.»
Anche Manno fu obbligato a ridere. «Comunque» insisté «questi sono gior-
ni cruciali, e...»
«Ma chi te l’ha detto?» fece Cioffi, per un istante vagamente speranzoso suo
malgrado. Poi fece segno di no: «Macché, stavolta non mi lascio illudere» dis-
se, «non mi lascio fregare come dopo il 25 luglio. Questi sono semplicemente
giorni d’inedia, precisi a tutti gli altri.»
«Ma non avete una radio qui?» gli chiese Manno. «Non siete al corrente
delle notizie?»
«No» rispose Cioffi: «non abbiamo una radio. L’avevamo, me l’ero portata
io dall’Italia, ma poi l’ha fatta cadere il mio attendente, quand’è stato? un sei o
sette mesi fa, e pace all’anima sua, della radio intendo: s’è scassata.» Aggiun-
se: «Forse meglio così.»
«Tanto» disse il sottotenente dalla faccia pacifica «le belle cose che succe-
dono nel mondo le sappiamo lo stesso dal giornaletto dell’armata, che ci arriva
ogni due settimane. E poi riceviamo anche qualche altro giornale.»
«Ogni due settimane?» ripete Manno.
«Dai» disse Cioffi, smettendo di battersi il cinturone sulla pancia: «perché
non ti versi da bere?» Indicò col mento la bottiglia: «Non ha l’etichetta però è
vino greco, mica male. Non hai il bicchiere, eh?» Fu tentato d’alzarsi ma pensò
che davanti al forestiero era meglio dimostrarsi organizzati. Si voltò verso le
tende della truppa: «Carapelle» gridò, e ripeté: «Carapelle.»
Comparve il suo attendente Carapelle, non si capiva bene se era in calzonci-
ni o in mutande, aveva i piedi infilati in due zoccoli di autoproduzione, i capel-
li arruffati e l’aria interrogativa. «Porta un bicchiere» gli ordinò Cioffi.
Carapelle controllò con un’occhiata il numero dei bicchieri sul tavolo: «È
rimasto solo il gavettino» mormorò.
Entrò nella tenda degli ufficiali, vi armeggiò alquanto, quindi tornò al tavo-
lo con un gavettino d’alluminio; sotto gli occhi dell’ospite passò con calma un
dito sull’orlo del gavettino per toglierne ogni eventuale sudiciume. Manno no-
tò il gesto e: “Non preoccuparti” si disse: “hai appena rifatte le vaccinazioni
polivalenti”. Poi si versò da bere; «Buono» dovette convenire, e: «Accidenti,
com’è forte.»
«Oh, finalmente qualcosa che ti piace» disse Cioffi. Si rivolse a Carapelle:
«Dai, stura un’altra bottiglia.»
Carapelle eseguì. S’avvicinava ormai il tramonto e lungo una viuzza sassosa
cominciavano a passare a lato dello schieramento i contadini che rientravano
in paese dai campi; parecchi erano a dorso d’asino, li seguivano a piedi le loro
donne velate in faccia, con i calzoni legati alle caviglie e logore babbucce a
punta.
«Sono tutti musulmani qui, vero?» s’informò Manno.
«Non tutti ma la maggior parte.»
«Ho visto in paese un piccolo minareto.»
«Non parlarmi di quel minareto; per favore non parlarmene» esclamò Ciof-
fi.
«Perché? Cos’intendi dire?»
«Lo so io cosa intendo dire.»
«È per un fatto successo quest’estate» spiegò ridacchiando il sottotenente
pacioccone: «I soldati avevano presa una specie d’abitudine d’adunarsi ogni
sera sotto il minareto a rifare il verso al muezzin. Fra gli artiglieri che stavano
in basso, e lui che stava in alto, facevano a chi gridava di più, immaginati che
cagnara. Ma poi a certuni non gli è sembrato abbastanza, e una sera due o tre
disgraziati hanno sparato a un tratto in aria coi moschetti: non per colpire il
muezzin, intendiamoci, soltanto per aumentare la cagnara.»
«Quelle teste di c... dei soldati» esclamò l’altro sottotenente: «Capisci? Que-
sta sarebbe la nostra mentalità imperiale!» Guardò in faccia Manno: «Ti rendi
conto?» Era la prima volta che interveniva nella conversazione, le sue prime
parole dopo i convenevoli all’inizio. Manno annuì: non gli riusciva di capire se
fosse fascista o al contrario antifascista; era molto stempiato, aveva una faccia
da intellettuale inasprito.
«Il fatto è» concluse il pacioccone «che il muezzin a quei colpi s’è spaventa-
to da non dire: è venuto giù a razzo dal minareto, e per giorni non ha più volu-
to saperne di salirci. Per cui la popolazione musulmana era entrata in un mez-
zo subbuglio.»
Cioffi ogni tanto annuiva. «Sì» sbuffò «è stata una scocciatura coi fiocchi,
perché poi quegli stronzi del comando di presidio se la sono presa con me, ca-
pisci?»
Quando, esaurito l’inconsueto argomento, la conversazione si riportò
sull’attualità, Manno cercò di rendere i suoi interlocutori partecipi del senso di
attesa che regnava in Italia. Ma ancora una volta con scarso successo: si sa-
rebbe detto che quelli rifuggissero d’istinto dall’aprirsi a uno stato d’animo
che avrebbe potuto turbare la loro vita vegetativa; quanto al sottotenente con
la faccia d’intellettuale s’era richiuso nel suo silenzio.
«Io spero solo questo» finì col concludere Manno tra sé e sé: «che le cose
non stiamo così anche nel reggimento al quale siamo destinati noi».
CAPITOLO SECONDO
***
La sera di quel giorno, 8 settembre, Manno - come già la sera precedente —
scese dopo il rancio a fare quattro passi in paese; non aveva molto da vedere
oltre al minareto del famoso muezzin con l’attigua piccola moschea, le misere
casupole degli albanesi e quelle, scrupolosamente intonacate di bianco ma
sempre poverissime, dei pochi abitanti greci. Concluse, come la sera prece-
dente, con l’imboccare la via litoranea, stavolta in direzione nord. Intanto ri-
fletteva sulla difficile situazione della patria, fantasticava di Colomba. Quando
fosse finita questa maledetta guerra, e loro due fossero sposati (certo lui dove-
va prima laurearsi... gli ci volevano anni!) sarebbero potuti tornare qui insie-
me: senza dubbio nell’isola di Corfù, che a non molta distanza emergeva così
bella dal piano turchino del mare, c’erano degli alberghi. Prima d’ogni cosa
però bisognava uscire dalla tragica situazione presente, non si poteva preven-
tivare niente, se non se ne usciva.
La litoranea s’inerpicava sempre più, un passo dopo l’altro il giovane finì
con l’allontanarsi parecchio dal paese; tutto immerso nelle sue fantasticherie
giunse sopra una piccola cala singolarmente solitaria, di cui una targa indica-
va il nome: Porto Limione. Dalla strada - in questo punto a picco sul mare - il
suo sguardo spaziava lontano sopra lo Jonio in direzione ovest, verso la patria;
c’era un fiero silenzio, sottolineato dal canto smorzato delle cicale, e un forte
odore di erbe aromatiche.
D’un tratto gli giunse lo scoppiettio d’un motore: immediatamente si rese
conto d’essere solo e armato della sola pistola: se si fosse trattato, Dio non vo-
glia, d’una macchina di partigiani? Cioffi gli aveva detto che non se n’erano
mai visti a Porto Edda, il giovane sapeva però - essendosi successivamente
meglio informato - che non ne distavano molto, e attaccavano spesso i presìdi
vicini, come quello di Delvino che in linea d’aria era a una quindicina di chi-
lometri verso l’interno.
Fortunatamente il mezzo in arrivo non era di partigiani, era una motociclet-
ta del regio esercito, con due militari a bordo. Giunta alla sua altezza fece alt:
il pilota, un sergente, sembrava molto eccitato, si alzò gli occhialoni sulla fron-
te: «Signor tenente» disse «la sapete qui a Porto Edda la gran notizia? Che c’è
l’armistizio?»
«Che c’è...? Cosa dici?»
«L’armistizio. L’Italia ha fatto l’armistizio con gli inglesi e gli americani.
Radio Roma non smette di ripeterlo: l’abbiamo sentita mezz’ora fa a Porto
Palermo. Giusto il tempo d’arrivare qui.» Il sergente si volse al suo compagno:
«Non è vero? Dì tu.»
«Sì, è vero» confermò l’altro, un caporale: «la guerra è finita, ordine di Ba-
doglio.»
«Beh, noi dobbiamo proseguire» disse il sergente; e senza dar tempo a
Manno di fargli domande, accennò un saluto e ripartì quasi a strappo.
CAPITOLO TERZO
Manno fece subito dietro front e tornò a gran passi verso il paese. Adesso
era eccitato a sua volta, al punto che per poco non si metteva a parlare da solo
per commentare il grande avvenimento. Avvertiva un’acuta necessità
d’ulteriori ragguagli, faceva e scartava congetture, a momenti se la prendeva
con i due della "moto: “Macachi. Almeno m’avessero detto tutto quello che
hanno sentito dalla radio, tutto il poco che sanno... Se i tedeschi per esempio
sono d’accordo (questo non è possibile!) Se...” Gli si prospettarono via via in-
terrogativi uno più preoccupante dell’altro: “Ce la farà la marina a sgombrare
l’armata dai Balcani? Se non altro le truppe che stanno vicino alla costa? Ci si
proverà almeno?” Egli ignorava che la marina aveva da qualche ora ricevuto
l’ordine di consegnarsi a Malta agli ‘alleati’, e che già le navi (le grandi navi
potentemente armate, che nei giorni a venire sarebbero state tanto necessarie
qui) erano tutte in rotta verso sud. E ancora: i tedeschi fino a qualche ora pri-
ma alleati - uomini in fin dei conti fatti di carne e d’ossa al pari degli altri -
come se la sarebbero cavata nei Balcani da soli, dopo la defezione degli italia-
ni? “In mezzo a questo pullulare di partigiani? Dopo tutto loro sono venuti qui
per causa nostra. Da sé, senza gli stupidi colpi di testa di Mussolini, non ci sa-
rebbero venuti.”
Arrivò in breve a Porto Edda, dove trovò che i soldati del comando presidio,
quelli dell’ospedale, e un certo numero di quelli della batteria contraerea face-
vano capannelli, si spostavano dall’uno all’altro per raccogliere informazioni,
ogni tanto gridavano in preda all’entusiasmo.
S’affrettò a raggiungere lo schieramento delle mitragliere; il tenente Cioffi
aveva spedito i suoi due sottotenenti al comando di presidio: «Là hanno la
radio. Voglio sapere se c’è qualcosa di vero in tutta questa storia.»
«Perché? Dubiti che si tratti d’una ‘balla’?» gli chiese Manno.
«Non lo so. Io non lo so. Può darsi che avessi ragione tu quando dicevi che
questi sono giorni, com’è che dicevi? risolutivi. Beh, staremo a vedere.»
«Sì» convenne Manno «staremo a vedere.»
I due sottotenenti tornarono di lì a forse mezz’ora, quello con la faccia da
intellettuale teneva un foglietto in mano; mentre camminava ne discuteva il
contenuto con l’altro. Giunto alla tenda ufficiali consegnò il foglietto al tenente
comandante, mentre i soldati presenti in batteria si assiepavano intorno festo-
si. «Abbiamo scritto, più o meno, le parole del proclama d’armistizio» disse il
sottotenente, «la radio non dà altre notizie. Ogni tanto ripete il proclama, e
per il resto trasmette musica.»
«Dunque c’è l’armistizio! L’armistizio!» esclamarono i soldati. «C’è davve-
ro. È arrivata la pace!» Alcuni cominciarono a gridare entusiasti: «A casa. Tut-
ti a casa. Evviva. È finita, è finita...»
Cioffi lesse attentamente il foglietto, poi ordinò silenzio: «Piantatela di far
bordello.» Rilesse per tutti ad alta voce il proclama; prima ch’egli terminasse i
soldati avevano ripreso ad acclamare, battevano le mani, si davano pacche
sulle spalle, spiccavano salti di gioia: «È finita, è veramente finita. A casa.
Torniamo tutti a casa!» L’ufficiale strinse le labbra perplesso, poi si girò ed
entrò con gli altri ufficiali nella tenda. «Voi cosa ne dite?» chiese guardando
interrogativo Manno.
«C’è quella frase» osservò costui: «che dobbiamo difenderci non più dagli
inglesi e dagli americani, ma da tutti gli altri se ci attaccano.»
«Stai pensando ai tedeschi, eh?»
«Sì, precisamente. Anche ai partigiani però. Quelli come minimo vorranno
le nostre armi.»
«E allora? Ai partigiani gliele possiamo ben dare, almeno serviranno a
qualcosa» esclamò aggressivo l’intellettuale. «Ai tedeschi no, mai. Mai» ripe-
te.
Manno lo guardò in faccia: «Quando avrai consegnato le armi ai partigiani,
e non le avrai più» disse con durezza «come la metterai coi tedeschi? O a quel-
li conti di dargli il sedere?»
«Ma...» gli s’aggiunse, molto sorpreso, il sottotenente pacioccone: «Tu fino
a poco fa non eri... Non sei sempre stato fascista? Cosa stai dicendo adesso?»
L’intellettuale non rispose. Ci fu qualche istante di silenzio.
Cioffi alzò gli occhi al cielo: «Chissà che bordello nei prossimi giorni» bia-
scicò.
«È probabile che dall’interno molti battaglioni si riversino qui sulla costa»
avanzò Manno, lasciando perdere l’intellettuale.
«Sì» convenne il pacioccone: «questo ce lo dobbiamo aspettare.»
«Noi però qui ci siamo già» esclamò Cioffi, quasi volesse fissare un diritto
di precedenza. «Da due anni siamo qui, e appena arriva una nave tocca a noi
imbarcarci.»
I suoi sottotenenti, intellettuale compreso, a questa frase assentirono con
fervore; sembravano tuttavia non nascondersi le difficoltà.
«Fammi leggere ancora il proclama» disse Manno, «lasciamelo esaminare
bene.»
II comandante gli tese il foglietto; l’avrebbero riletto tutt’e quattro parec-
chie volte nei giorni seguenti, sempre alla ricerca d’una illuminazione, d’una
più precisa direttiva, che non c’era.
Fuori i soldati seguitavano ad acclamare. Anche quelli che, nel loro intimo,
cominciavano ad avvertire le stesse preoccupazioni degli ufficiali. Non inten-
devano però rinunciare alla presente festa; e del resto, nella vita, una cosa per
volta.
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
Manno eseguì l’ordine e gli ci volle un certo tempo; avvertì anche Cioffi, cui
ora dispiaceva separarsi da lui; quindi tornò in fretta da Cirino. «Con me al
rapporto ci vieni tu» gli disse spiccio costui. «Mi farai tu da aiutante. Perché
durante la mia assenza è bene che il mio aiutante maggiore rimanga qui.»
Il tenente lo seguì di buon grado in paese, dove ebbe nuovamente modo di
notare che al seguito della colonna erano arrivati anche parecchi sbandati e
molta gente dei servizi, non utilizzabile per una difesa.
Il rapporto degli ufficiali superiori era da poco iniziato nella casa del co-
mando territoriale, quando lontano sul mare apparvero due navi: Manno e gli
altri aiutanti, riuniti nel vestibolo, ne furono avvertiti dalle grida di giubilo che
si alzavano in tutto il paese: «Le navi! Le navi! Arrivano le navi!» Temettero
da principio che si trattasse di navi tedesche, ma dal locale dov’era in corso il
rapporto uscì un comandante di battaglione che si rivolse al proprio aiutante
maggiore: «Per favore fa una scappata al porto e assicurati che ci sia la ban-
diera issata.» Quelle navi erano dunque attese.
Stava per imbrunire. Gli sbandati e molti uomini dei servizi si erano messi a
correre da ogni parte verso la banchina del porto. Udendone lo scalpitio Man-
no uscì all’aperto per osservarli: vestivano nelle fogge più disparate, parecchi
erano laceri, avevano la barba lunga, erano sporchi, senza più bagaglio. Molti
vociavano eccitati, ma altri, al contrario, camminavano lungo le straducole col
volto torvo e chiuso, e gli occhi stranamente fissi; il giovane si rese conto che
nessuna forza al mondo avrebbe potuto trattenerli: per salire sulle navi erano
pronti anche al delitto, di più, sarebbero passati addirittura sul corpo dei loro
cari, di quegli stessi famigliari che intendevano a ogni costo raggiungere. Mai,
neppure in Africa, egli era stato testimone d’uno stato d’animo simile. “È un
invasamento, una specie di pazzia collettiva...” si diceva. Notò tra gli sbandati
anche il sottotenente della batteria contraerea con la faccia da intellettuale, e
alcuni artiglieri, finse di non vederli.
Di lì a poco un altro degli ufficiali presenti nel vestibolo, un capitano col
monocolo all’occhio, fu inviato al porto con l’incarico di accompagnare qui gli
ufficiali delle navi non appena queste avessero attraccato. Tornò dopo un’ora
circa seguito da due ufficiali di marina, e da uno sconosciuto sottotenente di
fanteria in maniche di camicia, i quali furono subito fatti entrare nel locale del
rapporto.
Appena chiusa la porta alle loro spalle, gli altri aiutanti circondarono il ca-
pitano col monocolo, che appariva preoccupato. «Le cose vanno male» riferì
costui. «I tedeschi sono padroni di Scutari, di Valona e di tutti gli altri porti
albanesi, tranne Porto Palermo, il porticciolo che sta qui vicino a noi. In nes-
suna parte dei Balcani sembra che i nostri stiano facendo una vera difesa,
tranne a Cefalonia, dove hanno combattuto sul serio, ma...» e tentennò la te-
sta.
«Nell’isola di Cefalonia? Cos’è successo? Ci è andata male?» chiese uno dei
presenti.
Il capitano si guardò attorno per assicurarsi che non ci fossero nel vestibolo
soldati che potessero diffondere la notizia fuori. «Sì, molto male» disse asse-
standosi nervosamente il monocolo: «un vero disastro, un... macello.»
«Ma... Cos’è successo?»
«A Cefalonia sapete che c’è la divisione Acqui. Hanno disarmato parte dei
tedeschi che stavano sull’isola, ma poi non sono riusciti a impedire che altri
tedeschi sbarcassero. N’è venuta fuori una battaglia campale che è durata sette
giorni: è finita ieri.»
«Sette giorni di battaglia?»
«Sì. In qualche settore, come ad Argostoli, ch’è il capoluogo dell’isola, i no-
stri l’avevano spuntata catturando tra l’altro più di cinquecento tedeschi. Ma
non è servito a niente, perché alla fine hanno vinto loro.»
Il capitano contrasse un poco l’occhio protetto dal monocolo, abbassò la vo-
ce: «E hanno fucilato tutti senza eccezione gli ufficiali italiani. Tutti gli ufficiali
della divisione Acqui hanno fucilato, e migliaia, dico migliaia, di soldati, quelli
dei settori dove la battaglia è stata più accanita. Probabilmente ne stanno fuci-
lando ancora adesso, mentre noi siamo qui a parlarne.»
«Come fanno quelli della marina» chiese Manno «a sapere tutte queste co-
se?»
«Le sanno: primo, perché, il comando di Brindisi è stato sempre in colle-
gamento radio con la Acqui, anzi - anche se può sembrare strano - lo era anco-
ra ieri sera a battaglia finita, quando queste due navi sono uscite dal porto. E,
secondo, perché le navi hanno incontrato in alto mare un motoscafo tedesco
in mano ai nostri, proveniente da Cefalonia. Avete visto il sottotenente di fan-
teria arrivato qui con me? Quello che adesso sta dentro a rapporto? Beh, quel
motoscafo lo conduceva lui con alcuni uomini del suo plotone: se ne sono im-
padroniti stamattina con un colpo di mano, senza sparare, usando le baionette
come pugnali - un’impresa da disperati - e hanno lasciato Cefalonia senza che
i tedeschi se ne accorgessero. Avevano con loro cinque prigionieri legati come
salami, che adesso sono nella stiva d’una delle navi giù al porto, tra i quali c’è
un tenente austriaco che ha confermato ogni cosa delle fucilazioni; ha detto
che questo è l’ordine di Hitler, e che lui lo trova giusto.»
«Allora» disse uno «adesso quel porco troverà giusto che noi fuciliamo lui.»
«Noi fucilare? E quando mai?» ribatté un altro: «Figurati.»
«Beh» disse il capitano «intanto questo è l’ordine che i tedeschi hanno.»
«Di fucilare tutti gli ufficiali?»
Il capitano annuì: «Tutti senza eccezione gli ufficiali dei reparti che fanno
resistenza, e anche i soldati: ma per questi pare che ogni comandante tedesco
decida a capocchia.»
Seguì uno sgradevole silenzio.
«È una bella prospettiva» commentò infine uno.
«E tutti quegli idioti! Dicevano che per noi la guerra è finita.» Una lanterna
posta sul tavolo illuminava quella piccola accolta di uomini che in vario modo
già tanto avevano dato e sofferto, e ora si trovavano improvvisamente precipi-
tati in questa nuova, minacciosa congiuntura.
«Beh, io v’ho riferito tutto quello che so» concluse il capitano dal monocolo.
L’unica altra notizia di rilievo che i presenti poterono cavare da lui fu che
l’isola di Corfù - là nel mare davanti a Porto Edda - era tuttora in mani italia-
ne. A detta degli ufficiali di marina anzi, proprio la sua radio aveva costante-
mente fatto da ponte tra Cefalonia e Brindisi.
Di lì a un’ora circa il rapporto ebbe termine. Uscirono dal locale gli ufficiali
di marina e il temerario sottotenente di fanteria, e s’avviarono verso il porto.
Uscirono gli ufficiali superiori che, con i rispettivi aiutanti al seguito,
s’incamminarono in fretta ciascuno verso il proprio battaglione. Siccome il
tenente colonnello Cirino tardava invece a uscire, Manno s’affacciò al locale
del rapporto. Intravide il generale, seduto al tavolo: aveva un aspetto sedenta-
rio e bonaccione, in quel momento molto angustiato; davanti a lui stavano
Cirino e un maggiore d’artiglieria dall’aria energica: con tutta probabilità -
pensò il giovane - il maggiore Costadura, comandante del gruppo schierato
sulle alture sopra il paese.
«Giusto tu» gli disse Cirino scorgendolo, e venne verso di lui, quindi uscì
con lui nel vestibolo: «Va dal comandante la batteria contraerea. Questi sono
gli ordini per lui: che trasferisca addirittura le sue mitragliere, col relativo per-
sonale e tutte le munizioni disponibili, sui due piroscafi: quattro su un piro-
scafo e quattro sull’altro. Le deve - senza attendere altri ordini - piazzare in
coperta, a rinforzo di quel po’ di contraerea che c’è già sulle navi: mi sono
spiegato?»
«Signorsì.»
«Quanto alle munizioni per i moschetti che ha in batteria, e se ha qual-
cos’altro di utile per i battaglioni che rimangono qui - ma soprattutto le muni-
zioni da moschetto - digli che le porti giù alla banchina, accanto alle munizioni
che in questo momento si stanno scaricando dalle navi. Tutto chiaro?»
«Signorsì.»
«Bene, non c’è altro. Esegui per favore.»
Manno ebbe un attimo d’esitazione: «Signor colonnello...»
«Cosa c’è?» gli chiese Cirino. «Ah, i tuoi quattro gatti. Seguono la batteria
contraerea naturalmente. Come pure la segui tu. Ti lascio libero fin da questo
momento: si è deciso che quanti erano qui a Porto Edda al nostro arrivo, si
imbarchino. Ringraziate la vostra buona stella.» Fece per voltarsi.
«Signor colonnello» ripeté Manno.
«Beh, cos’altro vuoi?»
«Vado di corsa a trasmettere gli ordini, e curerò che vengano eseguiti. Io
però resto con voi: m’avete nominato vostro aiutante, e non intendo...» voleva
aggiungere altro, precisare meglio il suo pensiero, ma gli sembrava di portar
via troppo tempo.
«Hai saputo di Cefalonia?» gli chiese Cirino.
«Signorsì.»
«E ciononostante... Però!» Fece una pausa e sorrise: «Bene. Se davvero
vuoi stare con me, a maggior ragione devi prepararti a partire: vengo anch’io a
Brindisi.»
«Voi scherzate» non seppe trattenersi dal mormorare Manno.
Il tenente colonnello si mise a ridere. «Non scherzo, no, vedrai. Vengo a
Brindisi per... Beh, questi non sono affari tuoi. Va, esegui, e poi aspettami di-
ciamo... sul più grande dei due piroscafi.» Si voltò, il colloquio era finito.
CAPITOLO SESTO
Molto perplesso Manno uscì dal comando territoriale (intorno non si vede-
va un solo civile: stavano tutti rinserrati nelle loro casupole, in chissà quale
stato d’animo) e raggiunse in fretta le postazioni contraeree. Qui Cioffi con la
maggior parte dei soldati e il sottotenente pacioccone erano sulle spine in at-
tesa d’istruzioni; s’aspettavano che le portasse il sottotenente con la faccia da
intellettuale, recatosi in paese diverse ore prima.
Manno trasmise gli ordini di Cirino in presenza dei soldati, che si misero a
urlare di gioia. Li completò poi di propria iniziativa, secondo aveva risolto tra
sé: «Ho l’incarico di effettuare personalmente giù al porto la consegna delle
munizioni, dei moschetti, e di tutto quanto il materiale della batteria, eccet-
tuati i pezzi e le munizioni per i pezzi. Se una qualsiasi cosa mancherà, il re-
sponsabile di quella qualsiasi cosa rimane qui e non parte. Vi avverto che non
scherzo.»
I soldati ammutolirono. Nel buio rischiarato dalle prime stelle e dai deboli
riflessi di qualche lanterna appesa nelle tende, ascoltavano attenti.
«È dunque nel vostro interesse smontare le tende, il magazzino, la cucina,
insomma ogni cosa, e portare tutto - con quanti viaggi sarà necessario - giù al
porto. Non solo, ma al momento del carico delle mitragliere sulle navi, ciascu-
na dev’essere in grado di funzionare perfettamente, quindi coi suoi serventi al
completo. Se no rimane a terra il capo pezzo.»
Alcuni dei capi pezzo si misero a vociferare: «Quella testa di c... di Mancini
è scappato.» «Anche quel maiale di Liberatore non è tornato dalla corvè
dell’acqua. In questo cosa c’entriamo noi?» «Bene» urlò Manno, con impeto
tale che tutti fecero di colpo silenzio: «non possono essere andati lontano.
Adesso il signor tenente Cioffi vi darà gli ordini per trasferire ordinatamente
ogni cosa al porto. Dove ci sarò io a riceverla. Prima di salire coi pezzi sulle
navi cercherete i vostri sbandati, ogni squadra i suoi, gli darete i calci nel sede-
re che si meritano, anche per il lavoro che adesso siete costretti a fare al loro
posto, e poi ve li porterete dietro inquadrati. Si capisce che, non appena in Ita-
lia, verranno denunciati per diserzione.» Ciò detto lasciò la parola a Cioffi.
«Adunata per squadra, subito» ordinò costui, di malumore per l’evidente
scavalcamento, ma insieme con una certa risolutezza. «Facciamo anzitutto il
controllo di chi manca.»
Risultò mancare una ventina d’uomini su poco più di cento; anche del
gruppo giunto dall’Italia con Manno qualcuno mancava; era inoltre sempre
assente il sottotenente con la faccia da intellettuale.
I soldati si misero con impegno a smontare le tende, mentre alcuni davano
subito inizio al trasporto dei materiali al porto, impresa che si rivelò faticosa
soprattutto a causa del buio, e che richiese alcune ore. Noi non ci soffermere-
mo a descriverla. Ci basterà dire che mentr’era in corso non pochi sbandati
ripresero spontaneamente contatto con le loro squadre, rientrando nei ranghi
alla chetichella. Anzi nei ranghi s’infilarono perfino sbandati sconosciuti, i
quali se ne andarono solo dopo essersi resi conto che nel porto alcuni ufficiali
stavano, con l’aiuto dei carabinieri, organizzando la totalità degli sbandati in
compagnie di formazione per un imbarco ordinato.
CAPITOLO SETTIMO
Dopo essersi assicurato che Cirino fosse a bordo, Manno s’era imbarcato sul
piroscafo più grande. Non appena la nave fu fuori del porto egli si mise - pro-
cedendo con difficoltà nella calca - alla ricerca del tenente colonnello. La nave
avanzava via via sempre più veloce sul mare buio, il suo motore pulsava pro-
mettente facendo fremere ogni struttura: improvvisamente, all’idea d’essere in
viaggio verso la propria casa e verso Colomba, il giovane si sentì invadere da
un enorme senso di liberazione, una gioia incontenibile lo prese, travolgendo
ogni ragionamento in contrario. Il ricordo anzi di quelli rimasti a terra, dei
battaglioni schierati nel buio della notte intorno a Porto Edda, gli suscitò den-
tro una sorta di fastidio, quasi di ribellione: come se quegli uomini pazienti
che, anziché sbandarsi, facevano di necessità virtù, adesso rappresentassero
per lui un ostacolo, un odioso inciampo al piede. Interruppe la ricerca del co-
lonnello e si affacciò a una murata: in basso l’acqua scorreva nerissima, a ma-
lapena visibile, lungo il fianco della nave. “Cosa c’entro io con quelli là?” prese
ad argomentare: “I miei guai, e grossi, io li ho già passati in Africa. Qui son
capitato all’ultimo momento per caso. Con questi qui io non ho niente da spar-
tire...” Gli attraversò la mente quella frase di suo cugino Ambrogio: «Cerca,
una volta in Grecia, di non fare il bulo: ti conosco io.» Quanto aveva ragione
Ambrogio! Ecco, con la sua mania di dare - non richiesto - una mano a Cirino,
lui stava precisamente facendo il bulo. Beh, per fortuna non c’era niente di
pregiudicato: se adesso non si fosse presentato al tenente colonnello, quello
non l’avrebbe cercato di sicuro, e in conclusione di tutta questa storia nessuno
avrebbe saputo niente, e meno degli altri ne avrebbero saputo qualcosa i fanti
schierati là nel buio intorno a Porto Edda. Fu quest’ultima considerazione a
farlo un po’ alla volta rinsavire: anche quelli là, che non gli chiedevano niente,
e dai quali egli voleva ora separare la propria sorte, avevano uno per uno le
loro famiglie, chissà quanti avevano una loro Colomba alla quale desideravano
con tutta l’anima di tornare... Si riscosse: “Che razza d’ufficiale sarei se...”
Chiuse gli occhi e com’era suo sistema nei momenti critici si mise a pregare.
Finì col prospettargli l’immagine del Signore Gesù nell’orto degli ulivi: anche
il Signore aveva desiderato d’allontanare da sé l’amaro calice. Questo ricordo
gli diede conforto: dunque, dopo tutto, lui non era un rettile se per qualche
minuto aveva ceduto alla tentazione... L’importante era non lasciarsi vincere.
Trovò Cirino che si stava apparecchiando, con un materasso fattogli portare
dal comandante della nave, un giaciglio in un angolo della plancia di coman-
do. Si mise sull’attenti: «Ho eseguito al meglio l’ordine ricevuto» gli comuni-
cò.
«Sì» fece Cirino «ho visto i pezzi contraerei piazzati in coperta.»
«Avete altri ordini?»
«Che tu dorma quanto più ti riesce. A Brindisi avremo il nostro da fare.»
«Cercherò di dormire» disse sorridendo il giovane, lieto ma in pari tempo
di nuovo angustiato, per un ultimo colpo di coda della sua tentazione, che
l’altro non lo congedasse definitivamente.
«Venga con me, tenente» l’invitò con simpatia il comandante della nave
(essendo di marina - notò Manno - usava, nonostante le prescrizioni, il lei an-
ziché il voi): «un posto per dormire glielo trovo io.»
Glielo trovò infatti e gli fece anche portare una coperta. Sdraiatosi nello
stambugio che gli era stato indicato, Manno si fece il segno della croce e
s’addormentò quasi immediatamente, determinato ormai a compiere quello
che la coscienza gli prospettava come suo ‘marcio dovere’.
***
Dormì sodo e a lungo. Quando si destò la cosa che più lo disturbava era la
sete. Il motore della nave continuava a pulsare profondo e promettente facen-
do fremere ogni struttura metallica; il giovane si ravviò in qualche modo i ca-
pelli con le mani, poi scese in coperta, dove apprese che era quasi mezzogior-
no e Brindisi distava soltanto un paio d’ore. Lontano era vagamente visibile la
costa pugliese, i soldati la scrutavano aguzzando la vista, indicandosela ogni
tanto. Gli artiglieri della contraerea, muniti d’elmetto e raggruppati intorno ai
loro pezzi, lo salutarono con gratitudine quasi fosse dipeso anche da lui, dalla
sua energia, questo loro felice rimpatrio.
C’era anche il comandante Cioffi, pure con tanto d’elmetto in testa, il quale
gli strinse allegramente la mano: «Dove sei stato fino a questo momento?»
«A dormire. Mi sveglio soltanto adesso.»
«Lo si vede dalla faccia.»
«Appena sbarchiamo dovrò fare da tirapiedi a Cirino in giro per i comandi
di Brindisi.»
«Ah.»
«Io non ho pezzi contraerei, per cui mi rendo utile come posso.»
Cioffi sorrise, il suo malumore della sera precedente era del tutto scompar-
so. «È stata la marina, lo sai? a chiedere il nostro schieramento sul ponte delle
navi. Contro eventuali attacchi degli Stukas tedeschi.»
Manno annuì interessato.
«I tuoi venti sono giù nella stiva» continuò l’altro «pigiati come sardine ma
felici come pasque. Sono sceso poco fa a dargli un’occhiata.»
«Stanotte io li ho trascurati del tutto» disse Manno.
«Beh, ci siamo qui noi, no?»
«Anche a Brindisi temo proprio che dovrai pensare tu al loro rancio.»
«E ci penserò, no? Vi ho fatto mai mancare il ‘sostentamento’?» Cioffi era
lieto di riuscire utile. Staccò dal sedile della più vicina mitragliera una borrac-
cia dal feltro madido, su cui Manno aveva fermato più volte gli occhi; gliela
porse: «Avrai sete, immagino.»
«Sì, certo. Molta.»
Manno bevve alcuni lunghissimi sorsi, l’acqua era buona e abbastanza fre-
sca, e non sapeva di nafta.
«Beh, adesso sarà meglio che scenda dai miei» disse restituendo la borrac-
cia. Diede un’ultima occhiata intorno: fin dove giungeva la vista il mare si
stendeva pacifico, indolente. L’altro piroscafo seguiva a non molta distanza;
Manno notò che più in là c’erano alcuni puntini: tre o quattro altre navi. «So-
no inglesi» gli spiegò Cioffi: «stanotte ne abbiamo incontrate parecchie.»
Con soddisfazione di tutti il tragico mondo balcanico era rimasto indietro;
ai civili - uomini, donne, bambini - e all’atroce situazione in cui li aveva ridotti
la velleitaria occupazione italiana, non pensava nessuno.
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
Al piano superiore Cirino, affacciatosi per pochi istanti a una porta, gli die-
de un incarico abbastanza stravagante: che gli procurasse due fogli da lettera e
due buste: «Possibilmente decenti, voglio dire con la colla che attacca davve-
ro. Se non li trovi qui, va per favore fuori e comprali.»
Li procurò Gambacurta, ch’era rimasto in attesa da basso. Manno li portò al
colonnello.
«Bene» gli disse costui, asciutto come al solito «ti ringrazio. È sempre giù il
maresciallo?»
«Signorsì.»
«Avvertilo che mi ci vorrà ancora un po’ di tempo. Aspettatemi giù tutt’e
due.»
Gli ci vollero in realtà diverse ore. Scese le scale verso sera, accompagnato
da un altro ufficiale superiore.
Si avvicinò ai due in attesa: «Io torno al porto» comunicò. «Da questo mo-
mento non ho più bisogno di voi, siete liberi.»
«Eh no» disse Manno.
Il tenente colonnello lo guardò, quindi tese la destra al maresciallo: «Voi
raggiungerete quelli dei servizi reggimentali che oggi sono arrivati a Brindisi
con noi. Ditegli che... sì, che qui abbiamo organizzato le cose bene, per cui en-
tro qualche giorno conto di raggiungerli anch’io, insieme con tutti gli altri.»
Fece una pausa. «In ogni caso vi ringrazio per la vostra lunga, molto lunga
collaborazione. Li sappiamo solo noi i momenti che abbiamo passato, eh?»
L’anziano sottufficiale fece segno di sì: avrebbe voluto rispondergli adegua-
tamente, ma l’emozione e l’interno contrasto dei sentimenti gl’impedivano di
parlare. Tentò d’augurargli almeno l’ ‘in bocca al lupo’ di prammatica, che a
lui pareva un augurio importante: «In... In... boc... In bocca...» cincischiò,
senza concludere la frase.
«Grazie» gli rispose Cirino.
Tese poi la destra a Manno, il quale anziché stringerla esclamò con emozio-
ne aggressiva: «Voi siete in errore, signor colonnello» non sapeva neppure lui
cosa diceva: «perché io qui non ci resto. Io vengo con voi, e voi non potete im-
pedirmelo perché... m’avete data la vostra parola.»
«Quale parola? Quando mai?» disse Cirino. Si volse all’ufficiale superiore,
sorrise: «Me l’aspettavo che questo m’avrebbe fatto delle storie.» Tornò a
Manno: «Allora ti rifiuti di darmi la mano?»
«Voi praticamente me l’avete promesso» insiste questi: «era... implicito.»
«Non vuoi darmi la mano?» il colonnello ritirò la propria. Manno stringeva
i denti «Io non ho moglie, né padre, né madre» disse. «Signor colonnello: so-
no adatto più di chiunque altro per tornare là.»
Cirino era a sua volta intimamente emozionato, ma non lo diede a vedere.
«Ah, un momento» fece, «per la verità ho ancora un servizio da chiederti.»
Trasse da una tasca della giubba le due buste che il giovane gli aveva procu-
rato: erano sigillate e fornite d’indirizzo. «Non sto scherzando: queste le affido
a te, sono per la mia famiglia. Dall’indirizzo potrai vedere che si trova al di là
del fronte che s’è venuto a formare, nel territorio oggi occupato dai tedeschi.
Se io torno troverai il modo di restituirmele; in caso... contrario le spedirai tu
quando sarà il momento giusto, in modo che arrivino con certezza.» Gli tese le
lettere: «Allora?»
Manno le prese. E subito si fece paonazzo in viso: avvampava di vergogna
soprattutto per il senso di sollievo, di liberazione, che malgrado la sua volontà
di partire gli si stava allargando fortissimo dentro. Avrebbe voluto sputarsi in
faccia, prendersi a schiaffi.
«Tu sei un vero ufficiale» gli disse Cirino. «Sono contento d’averti incontra-
to. Qua la mano» ripeté.
Manno gliela tese, e intanto faceva segno di no, di no con la testa. «Ricorda
quello che ti dico» soggiunse Cirino dopo avergli stretta la mano: «neanche
qui nel territorio libero son rose e fiori, tutt’altro. C’è bisogno anche qui di veri
soldati; se vorrai, tu potrai essere più utile qui che in Albania.»
Quindi si volse all’altro ufficiale superiore: «Andiamo.»
Manno e il maresciallo seguirono i due fin sulla strada, dove attendeva
un’automobile e dove, ma guarda, sull’opposto marciapiede passeggiava
Gambacurta. Il marinaio autista aprì una delle portiere della macchina, il ma-
resciallo si precipitò ad aprire l’altra, i due ufficiali superiori presero posto.
Mentre la macchina s’allontanava Cirino agitò una mano al di là del cristallo
posteriore per salutare i due rimasti. Manno doveva in seguito ricordare molte
volte quel gesto che il colonnello gli aveva fatto mentre andava a morire.
Per il momento sia lui che il maresciallo rimasero lì frastornati, senza nep-
pure porsi il problema di cosa fare. Li raggiunse subito Gambacurta: «Dun-
que?» chiese.
«Non mi ha voluto con lui» mormorò Manno, pieno di vergogna; poco
mancava gli tremasse il mento come a un bambino.
Gambacurta se lo prese sotto braccio: «Chissà da quante ore non mangiate
voi due» disse. «Forza, venite a mensa con me.»
E mentre se li tirava dietro, sollecitandoli con l’espressione del viso e la voce
rattenuta a rendersi conto di ciò che avevano evitato: «Un’ora fa, appena pri-
ma che io smontassi, è arrivato un ‘radio’ da Corfù: i tedeschi hanno ormai
dato inizio allo sbarco. Se s’impadroniscono dell’isola, nessuna nostra nave
potrà più entrare nella rada di Porto Edda.»
CAPITOLO DECIMO
La sera del giorno dopo, 24 settembre, entrò tuttavia nella rada il convoglio
del colonnello Cirino: tre navi da carico scortate da due piccole unità da guer-
ra. Una terza piccola unità - la torpediniera Stocco - aveva qualche ora prima
lasciato il convoglio perché dirottata via radio in direzione sud-est.
Al suo sbarco il tenente colonnello trovò che i militari italiani erano gran-
demente cresciuti di numero a causa di massicci arrivi di sbandati
dall’interno, ed erano molto inquieti per aver assistito durante l’intera giorna-
ta ad azioni di aerei tedeschi su Corfù; ignoravano che il nemico era anche
sbarcato nell’isola.
Le tre navi ripartirono nel corso della notte, stracariche di soldati: ancora
una volta fu data la precedenza ai malati e agli inefficienti. Durante la traver-
sata il convoglio venne attaccato da aerei tedeschi in picchiata: malgrado la
reazione delle piccole unità da guerra, una nave fu gravemente colpita e si ca-
povolse: era per fortuna in vista di Otranto, sicché molti dei naufraghi potero-
no essere salvati.
Il 25 la battaglia per Corfù raggiunse il suo culmine: i nostri che il 13 e il 14
settembre avevano disarmato il presidio tedesco dell’isola con un duro com-
battimento in cui erano morti più di duecento tedeschi, e ne avevano inviato
quattrocentocinquanta prigionieri a Brindisi mediante i soliti motovelieri,
erano convinti di fare in caso di sconfitta la fine dei difensori di Cefalonia.
Combattevano perciò con tutte le loro forze.
Per far fronte all’aviazione tedesca i pochi aerei italiani presenti negli aero-
porti della Puglia furono gettati nella mischia: i piloti avvertivano l’angoscia
dei fanti, laggiù a terra, e si prodigarono con straordinaria temerità; diversi di
loro vennero abbattuti, ma furono abbattuti anche vari aerei tedeschi perché
alcuni dei nostri cacciabombardieri erano del modello recentissimo Re 2002,
in grado finalmente di competere coi modelli avversari.
La marina partecipò come poté alla battaglia con le sue piccole unità: la
torpediniera Stocco, dirottata appunto verso Corfù dal convoglio giunto con
Cirino, venne mentr’era ancora in mare aperto avvistata da una formazione di
dodici Stukas, e fatta letteralmente a pezzi; quasi nessuno dei suoi marinai si
salvò.
La sera del 25 i tedeschi erano padroni dell’isola; contro l’aspettativa gene-
rale essi si limitarono a fucilare il colonnello comandante italiano e soltanto
sedici dei suoi ufficiali.
***
Il 26 settembre i tedeschi tentarono di passare da Corfù a Porto Edda, ma le
loro zattere a motore vennero facilmente respinte dalle batterie del maggiore
Costadura. Alcuni loro uomini, che all’inizio erano sbarcati da grossi motosca-
fi venuti avanti con bandiera bianca, furono impegnati e annientati sulla
spiaggia dal battaglione di Cirino.
La sera uno dei pochi aerei italiani che ancora volavano si abbassò sul borgo
e lanciò un messaggio con l’informazione che Corfù era in mano tedesca, e
perciò l’unico porto albanese raggiungibile dalle navi italiane era adesso Porto
Palermo, una quarantina di chilometri più a nord.
Il generale convocò gli ufficiali superiori a rapporto: venne presa la decisio-
ne di trasferirsi a Porto Palermo.
Si formò una colonna che non poté però mettersi in moto: i partigiani co-
munisti infatti, ormai numerosi come mosche, s’erano arroccati sulla via lito-
ranea e sulle ripide alture che la dominavano, e vietavano il passaggio. Si co-
minciò a parlamentare: i comunisti volevano le armi, tutte le armi. Respinsero
un patto proposto dal generale, in base al quale le armi sarebbero state loro
consegnate a Porto Palermo al momento dell’imbarco dei reparti; proposero
invece, in cambio delle armi, di provvedere essi stessi alla difesa degli italiani
dai tedeschi fino ad imbarco avvenuto. Tra i comandanti italiani alcuni erano
dell’idea di dare battaglia; altri, in vista dei non pochi morti, e ancor più della
perdita di tempo - forse alcuni giorni - che quel difficile combattimento tra le
montagne costiere avrebbe comportato, erano incerti; la truppa era impazien-
te di partire e qua e là rumoreggiava, le ore della notte passavano. Finalmente
il generale decise di consegnare le armi.
La colonna totalmente disarmata ma coi battaglioni ancora inquadrati,
giunse in vista di Porto Palermo la sera del giorno dopo: trovò la rada deserta,
anche se sul principio una roccia emergente dal mare fu scambiata da molti
per una nave e, in uno strano fenomeno di suggestione collettiva, salutata con
lunghe acclamazioni e grida.
Passarono alcuni giorni; i battaglioni - piantati in asso dai partigiani all’atto
stesso della consegna delle armi (e fu già una grazia) - cercavano di nascon-
dersi nei boschi alla ricognizione aerea tedesca: si mantenevano inquadrati
per difendersi almeno coi bastoni dai partigiani isolati e dai ladri comuni che
spogliavano i soldati se li trovavano soli o in piccoli gruppi. Navi intanto non
ne giungevano; giunsero infine i tedeschi.
Avviarono tutti coloro che si diedero prigionieri a Porto Edda, qui separa-
rono gli ufficiali dai soldati e fucilarono a piccoli gruppi gli ufficiali: scelsero
per il massacro la curva della via litoranea sopra la cala solitaria di Porto Li-
mione, il luogo cioè dove Manno aveva, una ventina di giorni prima, appresa
la notizia dell’armistizio. I corpi degli uccisi - più di centoventi, incluso quello
del generale - precipitarono dall’alto nel mare, e il mare per giorni e settimane
li prese e respinse distribuendoli sulla costa, se li riprese e li ridistribuì, finché
poco alla volta li dissolse.
***
Cirino col suo battaglione, Costadura col suo gruppo, e alcuni altri reparti,
non s’erano consegnati ai tedeschi. Si misero in marcia verso l’interno, inse-
guiti da loro. Cercavano affannosamente di procurarsi delle armi, e in parte vi
riuscirono; il 5 ottobre, trovato chiuso il cammino da una parete a strapiombo,
tentarono d’aprirsi la strada all’indietro tra i tedeschi inseguitori sparando
finché ebbero munizioni, poi attaccando alla baionetta; furono catturati uno
sull’altro in numero di circa ottocento. Anche qui gli ufficiali vennero separati
dai soldati e fucilati. Prima d’ucciderli, i tedeschi obbligarono con sadismo
Cirino e un altro ufficiale superiore a percorrere di corsa una lunga salita: li
fecero correre fino a fargli perdere i sensi, tornati che furono in sé li obbliga-
rono a correre ancora; infine li uccisero.
Costadura, che coi suoi artiglieri si era separato qualche giorno prima dai
fanti, morì poco più tardi, fucilato dai partigiani nazionalisti di Memo Meto, ai
quali era andato a offrire la propria collaborazione.
II
CAPITOLO UNDICESIMO
Alcune settimane dopo che aveva avuto luogo, Manno ebbe notizia della
strage dei centoventi ufficiali a Porto Limione; gliela comunicò Gambacurta,
affermando erroneamente che si trattava di tutti senza eccezione gli ufficiali
rimasti a Porto Edda, a cominciare dal generale comandante.
Perciò Manno ritenne che tra loro si trovasse anche Cirino. Gliene venne
una pesante malinconia; aveva presso di sé le due lettere che il tenente colon-
nello gli aveva affidato prima di tornare in Albania: decise che non le avrebbe
spedite, ma appena possibile consegnate personalmente ai famigliari.
Si trovava adesso in un piccolo paese della Puglia, Murgiano, presso una
scuola allievi ufficiali di complemento cui era stato assegnato per iniziativa di
Gambacurta. («Lì ti troverai meglio che altrove» gli aveva detto il piccolo te-
nente dagli occhi mesti: «se non altro avrai a che fare con ragazzi d’una certa
cultura.» Riteneva le preferenze altrui affini alle proprie, non sospettava che
Manno avrebbe preferito avere a che fare con soldati semplici, contadini e
operai, anziché con studenti. Manno ad ogni modo non aveva sollevato obie-
zioni.)
Più tardi anzi aveva avuto modo d’apprezzare la premura di Gambacurta:
recatosi infatti in un ‘campo di riordinamento’ a far visita ai venti artiglieri
rimpatriati con lui dall’Albania, li aveva trovati in condizioni ben peggiori del-
le sue. In quei campi - istituiti nelle provincie di Brindisi e Lecce, per lo più in
edifici scolastici requisiti - erano convogliati non solo i militari affluiti dalla
Balcania, ma anche quelli che - giunti dal settentrione dopo aver attraversate
le contrapposte linee tedesca e ‘alleata’ verso casa - venivano fermati da appo-
site squadre di carabinieri sulle strade e nelle stazioni ferroviarie. La discipli-
na vi era lasca, le diserzioni quotidiane; nell’accampamento visitato da Manno
le sentinelle, per mancanza di divise, erano addirittura in abiti civili, con le
bandoliere di traverso sulla giacca. I suoi artiglieri si erano comunque lamen-
tati soprattutto della scarsità di cibo: «Signor tenente, certi giorni ci danno
appena due gallette: una asciutta, che serve da pane, e l’altra cotta nell’acqua,
come zuppa.»
Gli ufficiali del campo gli avevano spiegato: «Ormai la sussistenza ha i ma-
gazzini vuoti. Se gli ‘alleati’ non si decidono a rifornirci, tra poco non sarà più
possibile tenere insieme questa parodia di reparti.»
Gli ‘alleati’ però, come non avevano data una mano in Albania - dove sareb-
bero bastate poche navi e qualche deciso intervento aereo per risolvere impor-
tanti situazioni - così non venivano incontro nemmeno qui.
Nel ‘regno del sud’ vegetavano oltre ai soldati raccolti nei ‘campi di riordi-
namento’ anche sei o sette divisioni regolari, per la maggior parte dislocate in
Sardegna. Gli ‘alleati’ diffidavano anche di quelle. Come spiegava Gambacurta,
i più di loro avrebbero preferito non trovarsi tra i piedi quel residuo d’esercito
italiano, e si auguravano semplicemente che si dissolvesse del tutto.
A Manno tornavano con frequenza in mente le parole del colonnello Cirino:
«Neanche qui son rose e fiori... Se vorrai, potrai essere più utile qui che in Al-
bania.» Ma come? In che modo avrebbe potuto, in questa dissoluzione, riusci-
re utile lui, un semplice tenente?
Murgiano era un villaggio come tanti altri in Puglia di casette d’aspetto ara-
bo, coi tetti a terrazzo o emisferici. Il corso ufficiali era insediato - da prima
dell’armistizio - nell’edificio delle scuole elementari, il più vasto del paese; qui
Manno ricevette, in sostituzione di un ufficiale malato, l’incarico d’insegnare
in via provvisoria ‘addestramento al combattimento’, una materia di cui aveva
buona esperienza personale. Si dedicò all’insegnamento con molto impegno.
Gli allievi (che da principio, come accade negli ambienti in cui gli equilibri so-
no già assestati, avevano visto di malocchio il suo arrivo) presero nel giro di
qualche giorno a seguirlo con una certa curiosità. Alcuni - specie studenti
d’ingegneria (scientificamente più preparati di lui che proveniva da architettu-
ra) - si provarono a metterlo in imbarazzo con domande teoriche, per esempio
di trigonometria. Egli ammise con dignità i propri limiti in campo teorico, ma
in pari tempo promise che avrebbe cercato d’ovviarvi. Si recò a Brindisi da
Gambacurta e tanto fece che il piccolo tenente riuscì a scovargli, nel giro di un
pomeriggio, i testi sui quali addestramento al combattimento veniva prima
dell’armistizio studiato all’accademia militare. Tornato a Murgiano il giovane
passò diverse sere a impadronirsi delle fondamenta scientifiche di ciò che a
suo tempo aveva appreso in versione solo applicata; poi dedicò un’apposita
lezione a rispondere alle domande imbarazzanti che gli erano state poste. Gli
allievi finirono col rimanere colpiti dalla sua tetragona buona volontà, in un
tempo di disimpegno così generale.
Da allora ogni lezione egli la preparò studiando la sera, e talvolta anche la
notte; non mancava però di mettere in rilievo la prevalenza - in una materia
come quella - della pratica sulla teoria, ed esemplificava utilizzando le proprie
esperienze dirette, impastate di carne e sangue, e di vita vissuta.
Poiché gli altri ufficiali della scuola non avevano in genere partecipato alle
grandi campagne di guerra, non pochi allievi cominciarono a ricercare la sua
compagnia come quella di un maestro, anche fuori delle ore di lezione. A lui
pareva di rivivere - per poco appropriato che ciò possa sembrare - la vicenda
dell’oratorio di Nomana: parlava loro continuamente (in un modo che voleva
essere scherzoso, ma non di raro era malinconico) del dovere; dei soldati mor-
ti - com’egli diceva - pagando per tutti, anche per i commilitoni che badavano
soltanto a salvare la pelle; di Cirino che, per non venir meno al suo dovere, al
momento del maggior sfacelo dell’esercito era tornato a morire in Albania:
ripeteva spesso quelle sue parole «anche nel territorio libero dai tedeschi c’è
bisogno di veri soldati» ponendole come un riferimento per tutti.
«Vedete in che situazione di sfascio è oggi l’Italia» prospettava: «cercate di
rendervi conto di come ci ridurremo in futuro se ci lasceremo andare ancora
di più. Guai se ciascuno di noi, uno per uno, non si rimbocca le maniche e non
fa qualcosa per uscire dalla palude.»
«Ma alla fine di questo corso» gli obiettava con amarezza qualche allievo
«noi non sappiamo neppure se riceveremo la nomina a sottotenente o no. Di
ufficiali qui al sud ce n’è già troppi, e sempre altri ne arrivano da oltre le linee.
Signor tenente: noi a volte ci chiediamo se il nostro studiare non sia sempli-
cemente inutile.»
«No» rispondeva Manno. «Non fosse perché, rifiutando di studiare, favori-
reste per quanto vi riguarda questo tremendo caos in cui stiamo sempre più
sprofondando. Ci sono dei momenti, a volte periodi di pochi mesi, in cui si
gioca il futuro di un popolo per molto tempo. E noi ci troviamo in uno di tali
momenti, come non ve ne rendete conto?»
Le poche ore della sera che riservava a sé stesso il ‘giovin signore’ le spen-
deva passeggiando in solitudine per le vie polverose di Murgiano, immerso in
riflessioni e meditazioni; qualche volta si chiudeva nella sua stanza a scrivere
lettere che non avrebbe potuto per il momento spedire. Scriveva a Colomba,
talvolta ad Ambrogio, che era rimasto il suo amico più caro; quelle lettere co-
stituivano per lui, più che un conforto, una sorta di ricarica. Non era possibile
- egli finiva col dirsi - che un popolo, una patria che esprimeva creature come
Colomba (la quale - egli n’era convinto - non aveva oggettivamente l’uguale
sulla terra) non era possibile che una tale patria fosse destinata
all’invilimento.
Riponeva via via quelle lettere nello stesso cassetto in cui conservava le due
di Cirino.
CAPITOLO DODICESIMO
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Ma c’era un’altra linea poco più sopra, e mentre gli attaccanti procedevano,
la nebbia si ritirò, lasciandoli in pieno sole. Per fortuna il pendio era fittamen-
te disseminato di macigni e cespugli, che consentivano un certo defilamento;
non si poteva ad ogni modo più andare avanti.
Guidate per radio da un sottotenente osservatore, le artigliere italiane apri-
rono il fuoco dal fondo valle, dandosi da fare per neutralizzare le postazioni
nemiche; vi si aggiunsero, come al principio dell’attacco, le artiglierie ameri-
cane, le quali però non avevano osservatori sul posto: le loro granate - molto
fitte - esplodevano tutte troppo lunghe, oltre la vicina quota 343, verso quota
‘senza nome’ e quota 351.
Manno stava rannicchiato in uno svaso della roccia con un paio dei suoi;
non aveva occhi per le irregolari creste di montagne che tutt’intorno sporge-
vano come lunghe isole dal mare di nebbia: a sinistra monte Maggiore, a de-
stra monte Sammucro sulle cui pendici era in corso l’attacco americano, die-
tro, alle sue spalle, monte Cesima, tutt’e tre illuminati dal sole giallo di dicem-
bre. Davanti, a forse quindici chilometri, c’era in vetta a un altro monte che
sbarrava la valle principale, una strana costruzione quadrata: certo l’abbazia
di Montecassino. Mentre l’attesa si prolungava e continuavano sia la sparato-
ria delle armi portatili che i sibili e le esplosioni dei proietti d’artiglieria, il gio-
vane aveva bene o male un momento per riflettere.
Cosa gli stava succedendo? Come mai queste ferite? Ferito lui che finora era
stato invulnerabile, perché destinato da Dio a quell’ignoto compito... In che
modo avrebbe potuto assolverlo quel compito se gli fossero venute a mancare
le mani? Se addirittura... Ma cos’è che gli stava realmente succedendo? Non
riusciva a comprendere.
La voce del suo ferimento era corsa fra gli allievi che con l’esempio e le pa-
role appassionate egli aveva trascinato fin qui: «Dobbiamo togliere l’Italia dal-
la palude...» tutti quei discorsi. Li aveva convinti, adesso i più vicini lo guar-
davano con apprensione, l’ufficiale se n’era accorto. “Non vi abbandono, cosa
temete?” pensava a momenti in risposta. Per nulla al mondo li avrebbe ab-
bandonati nella congiuntura più difficile che doveva ancora venire; «Se ci re-
steremo, ci resteremo tutti insieme» aveva detto e ripetuto allora, e così sa-
rebbe stato. Sarebbe stato così, al di là d’ogni tentazione di sottrarsi a questa
selvaggia realtà.
A sprazzi gli si affacciava alla mente il suo mondo lontano: i parenti, gli
amici, Luca e gli altri, i ragazzi dell’oratorio («L’arte è l’universale nel partico-
lare...»!), gli operai cui bisognava dar modo di continuare a vivere civilmente.
Visti da qui, in prospettiva, parenti, ragazzi e operai formavano una sorta
d’unico insieme. Non però Colomba. Quella si staccava da tutti. «Per amor del
cielo!» aveva detto sua madre a Novara, vedendola pettinata a quel modo.
Manno abbozzò una sfumatura di sorriso. Chissà cosa stava facendo in questo
momento Colomba? Forse s’era appena svegliata e pensava a lui? Si chiese chi
avrebbe avvertito Colomba e gli altri, se oggi gli fosse capitato di...
Senza dubbio Luca, il suo coetaneo di Nomana, sergente degli alpini, che al-
cune settimane prima egli aveva - davvero inopinatamente - incontrato in una
stazioncina delle Puglie. Che festa era stata! Luca l’aveva riconosciuto per
primo: «Signor tenente... cioè, Manno, sei proprio tu? Manno! Son qui
anch’io, vedi? Roba da non credere!» Aveva poi spiegato: «L’8 settembre mi
trovavo a Brindisi, con un carico di congegni per la divisione Taurinense che
sta, cioè stava, in Montenegro. E così... Ma guarda che caso, incontrarci noi
due!» Luca s’era subito offerto di venire con lui ai ‘reparti combattenti’, Man-
no però l’aveva sconsigliato: «No, meglio no, lascia perdere.» Perché l’aveva
sconsigliato? Chissà perché; era stata una di quelle scelte istintive, non ragio-
nate. “Beh, ecco, ci penserà Luca ad avvisare gli altri nel caso che io...” Ma ba-
sta con questi pensieri, non doveva correre il rischio d’infrollirsi.
L’artiglieria italiana seguitava a picchiare sulla fascia delle postazioni tede-
sche. Finché arrivò, fatto passare d’uomo in uomo, l’ordine di tenersi pronti a
scattare di nuovo avanti. L’allievo che glielo trasmise (il milanese, il quale dal
momento in cui l’ufficiale era rimasto ferito, non l’abbandonava) lo completò,
sospirando, con un molto convenzionale: «E speriamo che questa sia la volta
buona!»
«Su di giri» l’incoraggiò Manno; e volgendosi anche agli altri a portata di
voce: «Non possiamo lasciare le cose a mezzo. Dobbiamo dare la prova che
siamo decisi a riscattarci, a uscire dalla palude, non dimenticatelo.»
A tali parole l’allievo, emozionato, mormorò qualcosa.
«Cos’hai detto?» gli chiese Manno.
«Ho detto» rispose quello «che voi per noi siete come una bandiera.»
«Ma va» disse Manno.
S’udì l’ordine di ‘fuori!’. Il tenente lo ripeté con forza e si buttò avanti, con le
mani fasciate protese come quelle di un pugile; tutti gli altri dietro, mentre
intorno e in mezzo a loro ricominciava il finimondo.
Presero a correre su per la salita rocciosa come pazzi, come invasati:
dov’erano quelle maledette postazioni tedesche? Dov’erano? Uno, due ragazzi
caddero. Altri, pur indenni, si buttarono a terra terrorizzati, uno batteva lette-
ralmente i denti per la paura. «Avanti, cosa fai lì? Su in piedi. Avanti. Avanti.»
Gli allievi correvano sparando disordinatamente coi mitra, gridavano: «Sa-
voia! Savoia!»; Manno correva tra i primi, protendendo le mani fasciate: «Ita-
lia» urlava con quanta voce aveva in corpo: «Italia! Italia!» Cadde improvvi-
samente in avanti, urtò col frontale dell’elmetto contro il suolo roccioso, quelli
che gli erano più vicini udirono distintamente il cozzo del metallo, ma in
quell’inferno non si fermarono.
Aveva perso coscienza. La riprese dopo poco: sentiva un gran male tra collo
e clavicola, e anche al ventre, specie al bacino; la colonna vertebrale, incredibi-
le, non gli faceva più da supporto, perciò, per quanto egli si provasse, non gli
riusciva di rigirarsi. Andava perdendo rapidamente sangue, se lo sentiva per
tutto il corpo. “Una raffica” realizzò “è stata una raffica. Dio! Dio!” Per lui era
finita, non aveva più scampo... Che cosa orrenda, inammissibile! Ma
dov’erano adesso i suoi? La buriana tremenda continuava, gli parve di sentirli
gridare poco più avanti... Però a lui cosa importava ormai? Per lui era venuto
il momento di morire, di morire! Qui, col viso contro la roccia, non gli restava
altro, nient’altro sulla terra che morire! Come ne fu veramente conscio provò
un indicibile senso di ribellione. No. No. No. Gli ci volle un grande sforzo per
dominarsi, per sottrarsi a una tale rivolta inconsulta. Ansimava. Ciao vita, ciao
Colomba, ciao a ogni cosa... No, no, no, non può accadere a me! Non a me! A
me no! Sì invece, gli stava accadendo proprio questo. Tanti e tanti altri soldati
erano morti, e adesso toccava a lui. Ma allora come avrebbe potuto assolvere il
suo compito? Quale compito? Malgrado l’affanno del momento ebbe a un trat-
to un’illuminazione, anche se, sul principio, molto confusa: la Provvidenza
forse l’aveva tenuto in serbo proprio per... per questo? L’aveva destinato a...
collaborare all’inizio della risalita, al recupero dell’Italia dalla palude? Nooo...
Eppure... Se era così, non gli rimaneva che suggellare la sua opera di trascina-
tore col sacrificio della giovane vita. Per grazia di Dio lo percepì improvvisa-
mente in modo chiaro, perfetto. Ecco dunque il perché di quella barca pronta
per lui in Africa, e poi l’invio in Albania, e... Ma allora già da tempo Dio stava
predisponendo il recupero dell’Italia! Quanta pena si dava Dio per le cose de-
gli uomini! «Grazie, Signore Iddio» mormorò Manno col suo ultimo fiato
«grazie.»
Sentì, non con l’orecchio della carne ormai, ma coi sensi dello spirito, un
principio di fruscio: gli tornarono in mente, come da molto lontano, le parole
dell’allievo: “La bandiera! ” Spalancò gli occhi dello spirito per vederla: ma
non era la bandiera che frusciava, erano le ali del suo angelo: lo vide in faccia
per la prima volta e gli sorrise, mentre intorno a lui si produceva il grande ca-
povolgimento.
Quel giorno non riuscì agli italiani di raggiungere gli obiettivi prestabiliti ;
alla sera essi vennero ritirati sulle posizioni di partenza: avevano avuto 47
morti e 102 feriti. Otto giorno dopo, il 16 dicembre, l’attacco fu ripetuto, e sta-
volta con successo. L’azione di Montelungo costituì oggettivamente l’inizio
della ripresa dell’Italia, della sua risalita dalla palude: dopo l’esperienza di
Montelungo infatti gli ‘alleati’ consentirono che il piccolo ‘raggruppamento
motorizzato’ venisse ampliato fino alla forza di due divisioni, che presero il
nome di ‘Corpo italiano di liberazione’. Alla fine della guerra le divisioni rego-
lari italiane in linea contro i tedeschi sarebbero state sei.
PARTE QUINTA
CAPITOLO PRIMO
***
A volte erano i partigiani a costituire argomento di conversazione. Doveva-
no essercene anche sui monti intorno al lago Maggiore, almeno a quel che
Giulia aveva sentito affermare in albergo. «Però non so se crederci. C’è chi di-
ce che si tratta solo di delinquenti comuni, che rubano e basta. Qualcuno inve-
ce dice il contrario, che si tratta di partigiani badogliani, comandati da veri
ufficiali, insomma di gente corretta che di rubare tra l’altro non ha bisogno,
perché ogni cosa gliela buttano gli americani coi paracadute. Ditemi voi a chi
posso credere.»
«Beh, coi paracadute non si può gettare tutto l’occorrente a una banda par-
tigiana» le spiegò più d’una volta il figlio: «Per forza dovranno ricorrere anche
alle risorse locali.»
A Decio interessava sapere chi le avesse detto che si trattava di ‘badogliani’:
«Signora, gliel’ha detto gente che dà affidamento?» Malgrado la fiducia in De-
cio, Giulia temeva per il suo principale informatore, l’attempato e un po’
chiacchierone portiere dell’albergo. «No» finiva sempre col rispondere «o me-
glio non saprei. L’ho sentito da persone che non conosco.»
Decio intuiva i suoi scrupoli e non insisteva.
Per misurare la febbre ai feriti o per altre simili incombenze entrava Fanny:
salutava con gentilezza la visitatrice e - incantevolmente giovane - le sorrideva
incoraggiante con gli strani occhi verdi. Ogni volta la ragazza si meravigliava
della semplicità e quasi castigatezza dell’altra: che non usava rossetto, né bi-
stro, né si laccava le unghie (“Però le ha sempre in ordine, attenta!”), e che le
aveva confessato di non avere mai giocato a carte in vita sua. La confrontava
con la propria madre, la quale andava in giro coi capelli tinti in blu, branden-
do un originale bastone da passeggio non più lungo di due palmi (‘il bastone
del comando’ lo definiva il padre): il contrasto tra le due madri la divertiva.
Nelle ore d’assenza della madre e della crocerossina, specie se anche Decio
lasciava la stanza per scendere con i convalescenti nella hall a pianterreno,
Ambrogio - che di giorno non riusciva mai ad assopirsi - lucidamente, per la
febbre, fantasticava.
Gli tornava spesso in mente il suo attendente Paccoi, al quale doveva la vita:
lo sapeva dall’armistizio tornato a casa in Umbria, chissà come se la sarebbe
cavata adesso coi bandi? Suo padre Gerardo circa un paio di mesi dopo il rim-
patrio aveva senza informare il figlio inviato all’attendente un bell’orologio
d’oro accompagnato da un biglietto: ‘...non certo per sdebitarci con lei, che
sdebitarci non potremo mai, ma per dimostrarle gratitudine e amicizia...’
Quando Ambrogio aveva risaputa la cosa, aveva debolmente protestato: «Pa-
pà, non capisci che potrebbe aversene a male? Quello che ha fatto a rischio
della sua vita, appartiene a tutto un altro ordine.» Invece Paccoi, da
quell’anima semplice che era, aveva ringraziato molto contento: ‘Vedo che vi
siete ricordati del sottoscritto artigliere Giovanni Paccoi...’
Sulla scia di Paccoi entravano talvolta a giostrare nella mente d’Ambrogio
anche gli altri: Stefano anzitutto, e il Michele di Nova, il cui padre mutilato
non aveva resistito alla terribile mancanza di notizie, e quel povero maggiore
Casasco che non ce l’aveva fatta fin dai primi giorni della ritirata, e Cavallo
Stanco, e quei due sfaticati, Mazzoleni è Piantanida (Piantanida poveraccio
era rimasto sotto un po’ di paglia e neve a Cercovo), e il caporale Colombo che
cantava la sera sull’erba (quello per sua fortuna a novembre aveva avuto
l’avvicendamento), e Feltrin, che a Leopoli non riusciva più a dormire, chissà
adesso? e quello e quell’altro... Chissà qual’era stata la sorte dei prigionieri,
specie dei feriti? Ma anche gli altri, i sani, erano ancora vivi? Se sì, come
avrebbero affrontato questo nuovo inverno? Con indosso le logore divise
dell’anno precedente, dopo averci senza dubbio dormito fino a oggi? I russi
glieli avevano lasciati oppure no i cappotti a pelliccia? Da settimane la tempe-
ratura lassù doveva essere scesa nuovamente sotto zero; l’anno avanti il gelo
era cominciato quasi di colpo a principio novembre: nel giro di pochi giorni i
rami degli alberi lungo il Don si erano interamente rivestiti di brina, li aveva
ancora qui, negli occhi della lucida mente. Anche in questo momento il pae-
saggio in Russia doveva essere a quel modo... Ma ce n’erano o no di prigionieri
vivi? L’eterna domanda. Neppure uno, finora, aveva scritto a casa. Pensare a
loro - constatava a volte Ambrogio - era come pensare alle anime che sono
nell’aldilà: non ne giungeva una pur minima voce, un segno qualsiasi, niente.
E chi del resto pensava più a loro oggi, dopo tutto quello ch’era successo in
Italia? Soltanto i parenti, con strazio, e gli amici: giusto come accade per i
morti.
II
CAPITOLO SECONDO
***
A offrirgli inaspettatamente l’occasione di parlare con le cucle era stata una
grossa frana verificatasi nella cava del minerale di calce, in seguito alla quale
la sua e un’altra squadra erano state adibite al carico e al trasporto dal circo-
stante bosco di una partita di tronchi per le riparazioni.
A tagliare e dirozzare i tronchi provvedevano le donne (era il loro lavoro
abituale): i prigionieri italiani si limitavano a caricarli su carri a mano e a tra-
sportarli alla cava. La sorveglianza di questo lavoro non era regolare: le poche
guardie seguivano di solito i carri che andavano e venivano, mentre quelli fra i
prigionieri che di volta in volta non partecipavano al trasporto, rimanevano
provvisoriamente sotto la sorveglianza dei guardiani delle donne. Le quali ri-
sultavano tutte cenciose allo stesso modo, vestite d’indumenti la più parte ma-
schili, strappati e sfilacciati, (tutte ugualmente ‘umiliate e offese’ pensava Mi-
chele, che ora capiva davvero il significato di tali parole). Non uguali si dimo-
stravano però nella resistenza al lavoro: ce n’era qualcuna talmente sfinita che
sollevava la propria scure con difficoltà, e la vibrava traballando, a volte senza
neppure colpire dentro il taglio iniziato. Per quanto tempo ancora queste di-
sgraziate sarebbero riuscite a tirare avanti?
Angustiato il giovane approfittò d’un momento in cui non c’erano guardiani
nelle vicinanze per chiederlo a una prigioniera diversa dalle altre, che si trova-
va a pochi passi da lui e ogni tanto lo scrutava. Si rivolse a lei appunto perché
era diversa, in apparenza meno fatalista delle altre russe; la donna, appoggiata
a terra la testa della sua scure, lo stette ad ascoltare con le mani e la bocca del-
lo stomaco premute sulla punta del manico. Dopo avere, con scarso successo,
tentato d’esprimersi in russo, il sottotenente provò a chiederle in francese:
«Chi sono quelle? Dico quelle due là, che lavorano a quel tronco. Perché han-
no così poca forza?»
«Perché sono a mezza razione» gli rispose in francese la prigioniera: «Per-
ché da giorni non raggiungono la ‘norma’, e quindi sono a mezza razione.» Ciò
detto torse la bocca e stralunò gli occhi verso l’alto, mostrandone il bianco.
Quindi riprese: «Non mangiano abbastanza, avete capito? Ormai a quelle due
non gli resta che morire: caputt.»
«Caputt?» ripeté come una eco il giovane.
La strana prigioniera annuì. «Sì» disse «ed è bene. Perché sono due cagne
comuniste, tutt’e due moglie di papaveri (personnages). C’est bien: è bene»
ripeté con odio. E dopo aver deglutito: «Ce ne sono anche altre di comuniste
nel nostro lager» spiegò «anche altre. C’è anche un’italiana, sì, la moglie di un
comunista, venuta qui con lui dall’Italia.» Annuì: «Il marito gliel’hanno fucila-
to nel 37. Très bien.»
Michele squadrò la sua interlocutrice: aveva la pelle del viso simile a una
calza, eccessiva, e i capelli in qualche modo tagliati a frangia, alla maniera del-
le femministe di vent’anni prima; soprattutto però erano impressionanti i suoi
denti, con le radici scure fuoriuscenti dagli alveoli, così da far sembrare mar-
cia tutta la sua fisionomia quando apriva la bocca.
Le compagne di squadra della prigioniera andavano una dopo l’altra so-
spendendo a loro volta il lavoro: non sembravano comprendere la conversa-
zione, si limitavano a guardare in silenzio l’ufficiale.
«Voi, se ho ben capito, non siete comunista» disse questi alla donna.
«No, bien sûr, no; io sono social-rivoluzionaria-di-sinistra» compitò, sem-
pre in francese, con un’aria spossata di sfida al mondo intero. Nuovamente
torse la bocca e stralunò gli occhi verso l’alto.
Michele conosceva - grazie alla bibliotechina politicizzata del lager - la sto-
ria di quel partito estremista: sapeva che dopo avere con entusiasmo aiutato i
comunisti nella rivoluzione, si era loro ribellato, ed era stato distrutto.
«Conosco la storia del vostro partito» dichiarò.
«Voi conoscete?» disse la donna, visibilmente lusingata.
«La conosco» ripete il giovane, annuendo. Ma tornò all’argomento che gli
stava più a cuore: «Davvero voi dite che a quelle donne non rimane altro che
morire?»
L’altra lo guardò meravigliata: «Bien sûr.» («In che mondo vivi?» parevano
chiedere i suoi occhi.) «Ormai per salvarsi» spiegò «dovrebbero diventare
amanti di un cuciniere o di un guardiano. Ma come fanno in quello stato?»
«E nessuna di voi le aiuta?»
«Io no certamente» rispose con durezza la forzata: «io vorrei che tutte le
cagne comuniste crepassero.» Vedendo lo sconcerto del sottotenente fece una
pausa e tentennò la testa, a significare: tu non puoi capire. Poi indicò una
squadra femminile a una trentina di metri: «Qualche volta le aiutano quelle
là» disse. Si trattava di poche donne che seguitavano a lavorare metodiche,
senza distrarsi: Michele le aveva già notate per il loro contegno stranamente
composto; gli erano anche sembrate più anziane delle altre (ma era difficile
dare un’età a donne in quello stato: ce n’erano di calve e di canute che forse
erano giovanissime). «Quelle» disse la deportata mutando l’inflessione della
voce, come stesse parlando di povere idiote «certe volte, quando la loro squa-
dra ha finita la ‘norma’, aiutano le altre lavoratrici in difficoltà.»
«Sono comuniste quelle?» chiese Michele.
«Comuniste? Nooo» esclamò la deportata. «Sono suore. Suore, capite?» e
rise con scherno, mostrando gli orribili denti.
«Suore?» mormorò emozionato Michele: «Monache volete dire?»
«Sì» confermò l’altra. «Così. (Comme ça.) Nel lager sono quelle deportate
da più tempo: resistono ancora soltanto perché sono contadine. Le altre suore
deportate insieme con loro, da un pezzo ormai» bestemmiò senza rendersene
conto «hanno raggiunto il loro Dio sotto terra.» Stralunò di nuovo gli occhi
fino a farne apparire il bianco. «Vedete quella più a destra? È Natascia, c’est-
à-dire Natalie: è deportata da più di ventanni. Eh? Incredibile, no? E pensare
che tante non resistono neppure un anno, muoiono subito. La durata media
della vita nei lager è di sei o sette anni, lo sapete. Lei invece...»
«Da più di ventanni!» mormorò il sottotenente.
«Certo l’ha aiutata il fatto d’aver lavorato per lunghi periodi nelle inferme-
rie, a portar fuori la merda.» La donna rise.
«E voi?» s’interessò, superando il proprio disgusto, Michele.
«Eh bien» (c’era, a momenti, una pretesa di disinvoltura nel suo francese)
«anch’io sono una veterana. Ho fatto dentro quattordici anni anch’io, capite?
Quattordici anni! Non tutti di fila però, non come Natascia.»
«Non tutti di fila? Quattordici anni?» ripeté il giovane. Poi, indicando col
mento la suora: «Sapete se per caso parla francese?»
«No di certo» rispose la socialrivoluzionaria: «credete che sia la Natascia di
Tolstoi?» rise. «Questa è una contadinaccia v’ho detto. Spaccava legna con la
scure già prima che i comunisti la fottessero.»
«Cosa intendete dire?» chiese Michele, dubbioso se la donna parlasse in
senso traslato o...
A questo punto l’interlocutrice fu colta, con notevole ritardo, da un sospet-
to: «Io ho fatta la rivoluzione» dichiarò con un orgoglio che al sottotenente
riusciva davvero incomprensibile: «Voi non sareste per caso fascista?»
«No, per niente.»
La socialrivoluzionaria annuì approvando: «Socialista allora?»
«No, sono cristiano.»
«Cristiano? Cosa significa?»
S’avvicinavano tra gli alberi, a passi affrettati, due guardie; come se ne ac-
corsero le altre deportate si passarono la voce e ripresero il lavoro; anche la
socialrivoluzionaria smise di parlare e sollevata la propria scure ricominciò a
vibrarla. Il che non impedì a una delle guardie di arrivarle quasi addosso e di
rivolgerle un duro sproloquio, nel quale Michele distinse più volte la parola
puttana.
La donna sopportò senza far motto, seguitando a lavorare, con la sua orribi-
le bocca semiaperta per l’impegno.
“Quattordici anni” diceva intanto tra sé sgomento il sottotenente: “quattor-
dici anni in cui ha tirato avanti nutrendosi d’odio. Che vita!”
Le due guardie - con la solita divisa cachi, il solito berretto con la stella ros-
sa nel frontale, i soliti fucili a ‘bracciarm’, insopportabilmente pasciute rispet-
to ai prigionieri - rimasero sul posto. Il sottotenente riferì sotto voce ad alcuni
compagni di squadra - che sotto voce gliel’avevano chiesto - ciò che aveva ap-
preso dalla donna. Ma non rispose a tutte le loro domande, né fece caso ai loro
commenti; lanciava ogni tanto, senza darlo a vedere, un’occhiata in direzione
delle poche suore, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare per loro: che gesto
compiere, o quale frase di solidarietà mettere insieme, nel suo russo inadegua-
to.
Le ore trascorsero senza ch’egli approdasse ad alcunché. Verso sera poté
vedere le suore, completata la propria ‘norma’ (ossia la cubatura di legname
prescritta), interrompere il lavoro e chinare la fronte: probabilmente pregava-
no, forse rendevano grazie a Dio d’avercela fatta anche quel giorno. Dopo di
che, scambiatosi un cenno, si diressero verso le due comuniste sfinite, che
adesso erano particolarmente in difficoltà: non ce la facevano proprio più, sol-
levavano le scuri ad intervalli sempre più lunghi, e le calavano con gesti da
ubriache, senza quasi riuscire a indirizzarle; una delle due piangeva perché un
guardiano, dopo averla sgridata più volte, l’aveva sollecitata urtandole ripetu-
tamente la schiena con la bocca del fucile fino a farla urlare di dolore. Quasi
non bastasse anche le loro compagne di squadra per tema d’andare di mezzo
si mostravano esacerbate. Le suore si avvicinarono dunque con passo pesante,
come di boscaioli, alle comuniste, e presero ad aiutarle in silenzio. Anche suor
Natalia, deportata da più di vent’anni: si mise con stanchezza all’opera per
aiutare chi le aveva, con le sue scelte, deliberatamente distrutta la vita. Uno
spettacolo, pensò emozionato Michele, che Cristo in questo momento doveva
guardarsi con le lacrime agli occhi dal cielo.
CAPITOLO TERZO
Stava per imbrunire, l’aria aveva un buon odore di legno tagliato, il sole
basso sui boschi sembrava salutare gli uomini ed esortarli ad un po’ di pace
almeno alla fine della giornata. Lungo una pista era in arrivo una colonna di
deportate: veniva avanti lenta, sorvegliata da pochi guardiani, di cui alcuni
tenevano dei cani al guinzaglio; fece alt fra i tronchi abbattuti perché anche
queste donne s’incolonnassero. Ma i guardiani di queste - che dovevano prov-
visoriamente sorvegliare i prigionieri di guerra - si avvicinarono ai loro com-
pagni appena giunti per far presente il problema; cominciarono a confabulare.
Del fatto che si erano scostati alquanto approfittò la socialrivoluzionaria, la
quale: «Attenzione» avvertì in francese Michele: «Fate bene attenzione:
l’italiana, la vostra connazionale, è là in testa alla colonna, la vedete? Nella
seconda fila, quella coi capelli neri. La vedete? La vedete?»
Il giovane esplorò con gli occhi, ma ce n’erano parecchie coi capelli neri. Lo
disse: «Il y en a plusieures avec les cheveux noirs...»
«Quella nella seconda fila» insisté la forzata. «È la moglie del comunista
italiano che hanno fucilato. È comunista anche lei.»
«Ma perché lo hanno fucilato? Cos’aveva fatto?» non seppe trattenersi dal
chiedere Michele, mentre inutilmente seguitava a cercare d individuarla.
«Cos’aveva fatto? Siete pazzo? Niente aveva fatto. Non sapete che si man-
giano tra loro questi lupi?»
Dei prigionieri italiani - i quali in attesa di tornare al lager si venivano as-
sembrando - alcuni comprendevano le frasi della donna, altri no, e questi
chiesero a Michele cosa stesse dicendo. Egli lo riferì loro in poche parole.
«Un’italiana? Una donna italiana? - Là, in testa alla colonna?» cominciaro-
no a commentare: «Moglie d’un comunista fucilato? - Anche lei comunista? -
Beh, sarà stata comunista.» «No» spiegò Michele: «questa mi dice che è anco-
ra comunista.» «Storie. - Come potrebbe esserlo ancora? - Non è possibile.»
«Ragazzi» propose uno «bisognerebbe chiamarla. Ci facciamo dire il nome e
l’indirizzo.» «Sì, certo» gli s’aggiunse un altro: «è un’idea...» «Dov’è? In testa
alla colonna hai detto?»
Un sottotenente tozzo e scuro, con la barba affiorante dura come filo di fer-
ro, si girò verso la testa della colonna che distava forse una trentina di passi, e
facendo megafono con le mani: «Ehi» gridò con voce di basso: «C’è un’italiana
lì tra voi? Una donna italiana? Se c’è, dica il suo nome e il cognome, e
l’indirizzo in Italia, che al ritorno in patria noi avviseremo i famigliari. Capito?
Capito?» Dalla testa della colonna nessuno rispose, la socialrivoluzionaria
s’era intanto prontamente scostata e confusa tra le sue compagne di squadra;
le guardie russe - che non avevano capita una sola parola - guardavano sor-
prese in direzione degli italiani.
«Se c’è lì una deportata italiana» ripete il sottotenente dalla voce profonda
«gridi subito il suo nome e l’indirizzo, che noi lo faremo sapere in Italia. Se»
aggiunse a mezza voce, per i soli compagni di squadra «in Italia ci tornere-
mo.» Dopo di che azzittì perché un guardiano s’era messo a correre verso di
lui sfilandosi dalla spalla il parabellum. Istintivamente gli altri prigionieri si
mossero in modo da inglobare il sottotenente; alla guardia andò incontro il
capitano capo squadra, cercando d’attirarne l’attenzione su di sé: «Naciàl-
nich» si presentò: «Naciàlnich.» Debitamente la guardia cominciò allora a
sbraitare con lui, indicando furibonda col braccio nel mucchio degli italiani.
“Ecco, maiale, così. Va bene così, maiale” gli rispondeva mentalmente il ca-
pitano.
La donna ad ogni modo non s’era fatta viva, non aveva risposto. “Mi sa che
quella è rimasta davvero comunista” opinò Michele. “Beh, contenta lei...”
Una volta conclusa la strapazzata al capitano, i guardiani diedero alle donne
ancora sparse nel bosco il segnale d’adunata. Caricandosi gli arnesi sulle spal-
le, esse convennero con stanchezza nel luogo indicato; tutte quante: le povere
suore ortodosse dimenticate dall’intera cristianità, la rivoluzionaria che viveva
sostentandosi d’odio, le due disgraziate vicine a morire per sfinimento, tutte:
si trasformarono in una corta colonna di pupattole straccione, che a un altro
ordine si mosse per accodarsi alla colonna principale. A vigilare i prigionieri di
guerra sarebbero, a quanto pareva, rimasti alcuni guardiani. Il sole basso sui
boschi sembrava ancora salutare gli uomini ed esortarli a un po’ di pace,
nell’aria c’era quel buon odore di legno tagliato.
Improvvisamente dalla testa della colonna si levò un urlo femminile: «Bo-
logna... sono di Bologna, di Bologna...»
Alcuni cani cominciarono a latrare, altri ad abbaiare e a tirare il guinzaglio.
«Bologna, Bologna...» I militari prigionieri cercavano d’individuare la donna
che gridava, s’alzavano perfino - assurdamente - in punta di piedi, ma non
riuscivano a distinguerla, non capivano da quale delle pupattole venisse la vo-
ce. Nell’ululo presto generalizzatosi dei cani finirono col non distinguere più
nemmeno le parole della donna: solo, ogni tanto «Bologna» e «Togliatti, To-
gliatti» e bestemmie.
Un guardiano si buttò dentro la testa della colonna, impugnava una verga di
bosco con la quale prese a frustare selvaggiamente una delle deportate, che
così tutti poterono individuare. La donna non si moveva dal suo posto: china
sotto i colpi seguitava a gridare e a bestemmiare.
«Se questo non è l’inferno...» mormorava, tesissimo, Michele.
I cani s’erano fatti simili a demoni, le guardie faticavano a trattenerli; anche
i prigionieri di guerra entrarono in agitazione: «Una donna. Una delle nostre
donne...» dicevano. Ma ricordò loro, pur eccitato, il capitano naciàlnich: «È
venuta qui di sua volontà. State calmi.» Le poche guardie destinate agli italia-
ni brandirono i fucili e i mitra; una fece improvvisamente partire una raffica
verso l’alto. Agli spari la donna ammutolì. Seguitava a conservarsi immobile al
suo posto, rannicchiata su sé stessa, il guardiano cessò di frustarla, la testa di
colonna le si ricompose intorno.
«Davai» risuonò infine un ordine, che venne ripetuto qua e là, «Davai, da-
vai». La colonna s’avviò lentamente, solo qualche cane ringhiava e guaiolava
ancora, con sommessa ferocia.
CAPITOLO QUARTO
Successivamente Michele non aveva più avuto modo per mesi di parlare coi
deportati russi. L’occasione gli si era ripresentata in settembre - sempre di
quell’anno 1943, una settimana circa dopo l’armistizio in Italia - mentre la sua
squadra era impegnata nei raccolti agricoli, i quali in Russia, da che
l’agricoltura è stata collettivizzata, si concludono cronicamente in ritardo. La
zona di lavoro trovandosi lontana dal lager, i prigionieri vi rimanevano anche
di notte, accantonati nei rustici di un colcoz. Dentro rustici finitimi era accan-
tonata una compagnia di forzati russi provenienti dal cosiddetto ‘lager degli
intellettuali’, cui abbiamo fatto cenno a suo tempo. In teoria la separazione tra
i due gruppi di lavoratori coatti avrebbe dovuto essere rigorosa, in pratica le
squadre italiane e quelle russe si trovavano non di raro a lavorare perfino me-
scolate.
Specie durante la mietitura d’uno sterminato campo di grano. Gli uomini lo
mietevano manualmente, procedendo con lentezza in schieramenti segmenta-
ti e irregolari, perché quel grano - che avrebbe dovuto essere tagliato già da
mesi - fattosi per le intemperie d’un colore grigio sporco, era non solo infra-
mezzato da ogni sorta d’erbacce, ma in molti punti allettato sul terreno.
Michele aveva trovato modo di piazzarsi accanto a una squadra di forzati
russi: qualche passo alla sua destra lavorava un tipo anziano dal viso ossuto e
stretto, con capelli a spazzola e occhi color nocciola, che indossava una vecchia
giacca dalle maniche risibilmente corte (anche le divise degli italiani però era-
no ormai indecenti). Pur sapendo che non di tutti i deportati ci si poteva fidare
(tra loro c’erano senza dubbio dei delatori, come se n’erano ultimamente for-
mati tra gli stessi prigionieri di guerra) appena gli era sembrato di poterlo fare
di nascosto dalle guardie, Michele aveva rivolta al suo vicino la parola in un
russo quanto mai approssimativo. L’altro, dopo essersi guardato intorno con
circospezione, gli aveva risposto senza smettere di lavorare. Dapprima aveva
pronunciato alcune frasi in tedesco, poi, visto che il giovane non le capiva, era
passato al francese, lingua che sembrava padroneggiare un po’ meno bene. Si
era, con dignità, qualificato professore di scuola. «E voi, quelle est votre pro-
fession?»
«Studente in legge a Milano. Monsieur le professeur posso chiedervi dove
abitate?»
«A Rostov sul Don. È là che insegnavo.»
Stavolta Michele era intenzionato ad arrivare subito a ciò che più gli preme-
va: le dimensioni e le caratteristiche del fenomeno concentrazionario: «Posso
chiedervi, monsieur le professeur, perché vi hanno deportato?»
«Articolo 58. Conoscete? No? Propaganda controrivoluzionaria. Come qua-
si tutti gli arrestati negli anni fra il 36 e il 39. Naturalmente io sono innocente,
justement come tutti gli altri. Le sapete queste cose voi italiani?»
«No. Prima d’essere fatti prigionieri, noi non avevamo quasi notizia
dell’esistenza dei lager.»
«Comprendo.»
«Anche adesso per noi è molto difficile parlare con i deportati civili. Io ame-
rei che voi mi faceste, se lo credete, un quadro della situazione dei lager.»
Il professore s’era guardato un’altra volta intorno se ci fossero nelle vici-
nanze dei secsoti (deportati spioni) o qualche guardia: «È precisamente ciò
che desidero fare» gli rispose. «Statemi attento, e le cose che vi dirò riferitele
anche ai vostri compatrioti di cui vi potete fidare. Poi, una volta in Italia, do-
vete far conoscere il più possibile la nostra situazione a tutti.»
Michele promise, con contenuta emozione; si chiedeva se costui non si fosse
alla sua stessa maniera adoperato per capitare vicino agli stranieri, al fine di
comunicare con loro. Gli chiese: «Tutti i deportati sono innocenti, avete detto?
Volete per favore chiarirmi questo?»
L’altro annuì appena. «Li vedete questi miei compagni di sorte?» disse,
sempre parlando a mezza voce e sempre senza guardare il suo interlocutore:
«Io ne conosco parecchi: ce n’è d’ogni tipo, brava gente e carogne (des va-
ches), ma non c’è un solo colpevole; non uno, voglio dire, che abbia commesso
le délit (il reato) per cui è stato condannato. Avete capito? Non uno. E così tut-
ti gli altri milioni di deportati.»
Michele sussultò: «Milioni avete detto? Milioni?»
«Certamente. Ho detto milioni di deportati. E tutti innocenti. In Russia
chiunque sa che noi deportati siamo innocenti: i giudici, le guardie, la gente,
ogni persona lo sa. Però tutti fingono (font semblant) di non saperlo. Anzi di
più: fingono di non sapere nemmeno che milioni di loro concittadini sono rin-
chiusi nei lager. Perché ciascuno ha paura, se ne parla, di fare la stessa fine.
Capite?»
Michele si sentiva sempre più emozionato: aveva la sensazione d’aver trova-
to finalmente chi gli desse le informazioni in cerca delle quali era venuto in
Russia. «Ma come fate voi - vogliate scusarmi monsieur le professeur - a par-
lare di milioni? Com’è che siete in grado di saperlo?»
«Lo sappiamo attraverso... tutte le fonti. In Russia ci sono lager dappertut-
to, e gli ‘zech’ - c’est-à-dire les déportés - vengono di continuo trasferiti
dall’uno all’altro. Così si fanno dei calcoli. E poi, per farvi un esempio, nel no-
stro lager sono arrivati in marzo due che lavoravano negli uffici centrali di
statistica - tutt’e due condannati a dieci anni, alla ‘decina’, come me - bene,
secondo loro i deportati dovrebbero essere intorno a nove milioni. M’avete
inteso? Intorno a nove milioni.» Tenendo nella sinistra un mannello di grano
e nella destra il falcetto, il professore si fermò un istante nel suo lavoro e strin-
se le labbra, a sottolineare come poteva l’enormità della cosa.
«È... È una... realtà difficile da comprendere» mormorò il giovane.
«Sì. Anche per noi è difficile da comprendere, ve l’assicuro. Ma questa è,
appunto, la realtà.» Si drizzò di nuovo sulle reni, controllò - senza darlo e ve-
dere - i deportati più prossimi: la sua testa ossuta e lunga richiamava alla
mente di Michele quella di un insetto, la cavalletta dei prati; chissà per quante
sofferenze era passata quella povera testa. E non erano finite! Vide l’uomo
piegarsi di nuovo sul grano, rimettersi a mietere in modo maldestro: “Povero
cristo!” pensò.
«Questo che io v’ho detto» riprese il professore «voi prigionieri lo dovete ri-
ferire in Italia: dovete farlo sapere a tutti. Anche se... non so bene che vantag-
gio noi ne potremmo avere ormai» disse a un tratto con voce mutata: «I co-
munisti stanno vincendo la guerra, e nessuno potrà più aiutarci. Perché» chie-
se improvvisamente «voi siete stati così ciechi?» Adesso, pur seguitando in
qualche modo a lavorare, guardava ogni tanto direttamente Michele: «Non
avete visto che al principio i nostri non combattevano o quasi, che la gente dei
villaggi vi accoglieva come liberatori? Perché voi avete fatto tanti horreurs?
Perché siete stati così pazzi?»
“Lo stesso discorso dello stàrosta in quel paesino dell’Ucraina! ” pensò Mi-
chele. «Ascoltatemi, vi prego» gli rispose: «sono stati i tedeschi, non noi ita-
liani, a fare cela. I nazisti sono stati, che hanno la testa sbagliata justement
come i comunisti, anche se in tutt’un’altra maniera.»
L’altro però proseguì (questo era, con evidenza, un discorso che gli stava a
cuore: chissà da quanto tempo si riprometteva di farlo ai prigionieri di guerra)
«Come non avete compreso che Stalin, appena la guerra è cominciata, l’ha
data per perduta? Ha lasciato andare tutto, non ha impartito un ordine per la
difesa, non ha nemmeno parlato alla radio, non... Ah, mon Dieu! Stalin capiva
che un popolo di cui i comunisti hanno massacrato tanti milioni, e che ha nove
milioni di deportati - ciò significa altrettanti milioni di famiglie nello strazio,
vi rendete conto? - non avrebbe combattuto in difesa del comunismo. E infatti
era proprio così: nessuno o quasi del popolo avrebbe voluto difenderlo. Siete
stati voi a...»
«Non noi italiani, vi dico: i tedeschi, anzi i nazisti.»
«Che differenza fa? Va bene, i nazisti, a costringere il nostro popolo a difen-
dere il comunismo. Avete obbligato tutti i russi a fare corpo con
l’organizzazione comunista, la quale era l’unica esistente.» Da lontano una
guardia gridò qualcosa ai due che sempre più scopertamente conversavano; e
poiché Michele, emozionato, non pareva darsene per inteso, si mise a impre-
care con rabbia.
«Fate attenzione» sussurrò allora a mezza bocca il professore: «mi spiace-
rebbe non poter continuare questo discorso con voi: noi dobbiamo riprender-
lo. Adesso m’allontano.» Afferrati due covoni se li mise sotto braccio e andò a
deporli alquanto più indietro, su una bica; quando tornò alla linea dei mietito-
ri anziché riprendere posto accanto a Michele, si piazzò in uno spazio vuoto
tra due deportati russi.
***
Michele provvide a ricapitolare mentalmente, con intensa emozione, ciò che
l’altro gli aveva detto, a fissarsi ogni particolare nella memoria; intanto conti-
nuava lento e con evidente imperizia, e con fatica, a mietere. Ancora una volta
gli si prospettava anzitutto l’incredibile somma di sofferenze a cui da anni, e
forse, in un certo senso, da secoli, era sottoposto il popolo russo. Quello che
non riusciva tuttavia a spiegarsi era perché i comunisti, al potere ormai da un
quarto di secolo, seguitassero a uccidere e a deportare la gente su una simile
scala di milioni. Gli veniva spontaneo il confronto col comportamento dei fa-
scisti: la cosiddetta rivoluzione fascista - anche ad includervi tutte le vittime
dei disordini che l’avevano preceduta, e delle spedizioni punitive che l’avevano
seguita - era costata soltanto poche centinaia di morti; quanto ai confinati
(versione italiana dei deportati russi) non dovevano essere molti di più. Ciò
indicava che per conservare il potere non ne occorrevano di più. Perché dun-
que i comunisti seguitavano a uccidere e a deportare (perfino a deportare i
loro stessi compagni) su così incredibile scala? A cosa mai gli serviva?
Che gente disgraziata, ad ogni modo, i russi! Da una parte il comunismo,
dall’altra un esercito agguerrito come quello tedesco che - se anche ormai si
stava ritirando - faceva loro pagare ogni passo avanti con un numero terribil-
mente elevato di morti. Vero che i russi sembravano in complesso accettare
ogni cosa con fatalismo. Specie i contadini erano dotati di una capacità di
sopportazione assolutamente incredibile (gli tornò in mente suor Natalia...)
Ma erano pur sempre esseri umani, fatti di carne e nervi: la somma delle loro
sofferenze era tale che al giovane riusciva quasi impossibile prospettarsela.
Adesso alla sua destra - dove prima c’era il professore - lavorava un uomo
tozzo, con una grossa testa in cui erano incastrati due occhi chiari quasi come
l’acqua, il quale al pari del professore e di Michele manovrava con evidente
imperizia il falcetto. Il giovane - che non sapeva quando avrebbe avuto ancora
la possibilità di parlare coi deportati - al fine di stabilire un contatto con lui gli
fece a un tratto notare appunto questo: dopo avere, in qualche modo, sottoli-
neata la propria imperizia, indicò col mento lo strumento del russo che veniva
parimente mal usato. L’uomo - il quale prima, mentre il professore si espri-
meva in francese, non aveva mosso un muscolo del volto - spiò in direzione
della guardia e la vide non più attenta; diede un’occhiata anche ai suoi compa-
gni più vicini, quindi mostrò lui stesso per un istante a Michele il proprio fal-
cetto: «Questo, insieme col martello, è il simbolo del comunismo» compitò in
un francese molto stentato, appena intelligibile: «e anche questo campo, che
viene mietuto a mano, e con mesi di ritardo, è un simbolo del comunismo. E
simbolo del comunismo sono anch’io: un ingegnere meccanico impiegato per
mietere a mano il frumento. Ricordatevi di dire anche queste cose, quando
sarete in Italia.» Non aggiunse altro; dopo avere controllata di nuovo la guar-
dia con i suoi incredibili occhi chiari, riprese, tozzo come un massello, a taglia-
re maldestramente, il grano.
CAPITOLO QUINTO
III
CAPITOLO SESTO
***
Del tenente Decio Pino ammirava i modi signorili. Lo stava in certi momen-
ti a osservare attento: «Voi avete uno stile da signore che mi fa venire in men-
te mio cugino Manno» gli disse una volta. «Mi piacerebbe avere anch’io dei
modi come i vostri.» Non ebbe però molto a che fare con lui perché l’ufficiale,
ormai convalescente, venne dimesso dall’ospedale in tempo per trascorrere a
casa il Natale.
Quando, già col cappotto di gabardina indosso, salutò Ambrogio, questi -
che sedeva in poltrona accanto alla finestra - si tolse di tasca un foglietto e
glielo porse. Un po’ sorpreso Decio lo lesse: conteneva solo l’ultimo indirizzo
militare di Manno, scritto in stampatello. Il tenente guardò interrogativo Am-
brogio.
«Chissà. Ho pensato che, siccome tu abiti nell’Italia centrale, potresti un
giorno trovarti al di là delle linee» spiegò questi. «In tal caso, se non ti sarà di
troppo disturbo, potresti cercarlo e se lo trovi dargli nostre notizie.»
Decio annuì: dunque Ambrogio s’era reso conto della sua intenzione di pas-
sare le linee... «D’accordo Riva, te lo prometto» disse.
«E cercate, fra tutt’e due, di farci avere notizie vostre. Un qualche modo ci
dovrà pur essere.»
«Sì» rispose Decio.
Pino volle accompagnarlo e portargli la valigia alla stazione.
CAPITOLO SETTIMO
***
Di lui Fanny aveva paura, tanto che qualche giorno più tardi, approfittando
d’un momento in cui quello s’era assopito, Ambrogio la rimproverò un poco:
«Dovresti averne compassione invece. E fascista, d’accordo, ma prima di tutto
è un essere umano, un poveraccio convinto di non avere alcuna alternativa
alla morte.»
«Proprio per questo mi fa senso, non capisci?»
Ambrogio disapprovò con la testa.
«Non giudicarmi male» gli sussurrò Fanny: «anche tu sei una specie di
guerriero, ma lo sei in un modo che non mi spaventa; anzi con te io mi trovo
bene.» Fece il visetto sbarazzino: «Lo sai che vicino a te io mi sento protetta?»
«Sono una specie di guerriero, eh?» scherzò allora Ambrogio: «Ah, andia-
mo bene!»
«Certo.» Fanny annuiva, guardandolo negli occhi. Poi gli sorrise e improv-
visamente lo accarezzò con lievità su una guancia: era la prima volta che lo
faceva. «Tu sei il mio guerriero» disse sottovoce, avvicinando un po’ il viso al
suo. La voce quasi le tremava, anche Ambrogio si sentì pervadere da una
grande emozione.
I due giovani si guardarono negli occhi in silenzio.
Fanny accarezzò una seconda volta Ambrogio sulla guancia: «Stasera vado
in licenza, lo sai: dunque posso finalmente farti una carezza. E non dire, ti
prego, qualcuna delle tue frasi puritane.»
Ambrogio prese la destra della ragazza, che gli sembrò commoventemente
piccola e fragile (non era originale nelle sue sensazioni), e la portò in silenzio
alle labbra. Si rendeva conto d’agire, in una cosa tanto importante, d’istinto e
senza riflettere, pure si sentiva risoluto ad agire così.
Qualcuno bussò alla porta in modo professionale, una voce femminile chie-
se: «Permesso?»
Era la solita infermiera con l’iniezione. «Di già» esclamò Fanny ritraendosi,
e si riassettò la cuffia anche se non ce n’era alcun bisogno. Tittoni emise un
sospiro nel sonno. L’incanto era durato meno d’un minuto.
La ragazza partì effettivamente per la licenza la sera di quel giorno: avrebbe
dovuto andarci settimane prima, ma allora Ambrogio era in pericolo e, per
non abbandonarlo, essa senza dir niente aveva scambiato il proprio turno con
quello d’una collega.
CAPITOLO OTTAVO
Con Tittoni Pino non riuscì proprio a ingranare. Le sue battute fanciulle-
sche disturbavano l’altro, che lo prese in considerazione soltanto una volta per
domandargli brusco come mai non si presentasse volontario, visto che aveva
diciotto anni. Alla sua risposta insincera («Mi presenterò quando mi arriverà
la cartolina») diede in uno sbuffo d’insofferenza. Pino finì col detestarlo, tanto
più che, lui presente nella stanza, non poteva più conversare in libertà col fra-
tello. Ciò veniva a costituire un inciampo continuo e alla lunga irritante.
Una sera, per rivalsa, il ragazzo s’intrattenne a parlare dei partigiani col
portiere del suo albergo. Costui, che non sapeva come far passare le lunghe
ore serali, fu ben lieto d’avere una volta tanto un uditore così disponibile. Do-
po aver affermato e anche ripetuto - in modo peraltro un po’ vago - che su tut-
te le montagne della zona c’erano dei partigiani, aveva insinuato che forse cer-
ti non andavano messi nel conto «perché più che altro son ladri di polli.» Al-
meno due bande però, anzi «se vogliamo essere esatti» tre bande, erano una
cosa seria, un avversario reale per la repubblica: «Qui, sulle montagne da que-
sta parte del lago, c’è la banda del capitano Beltrami, che è un signore di Mila-
no con la villa a Omegna. Questi sono partigiani seri, comandati da veri uffi-
ciali; portano i fazzoletti azzurri: di questi so di sicuro che sono monarchici,
insomma vogliono il re.»
«Come fa lei a saperlo di sicuro?»
«Beh, se mi permette, non è una domanda da fare in tempi così pericolosi.
Però le dico che lo so: i partigiani di Beltrami vogliono il re. Sulle montagne
dall’altra parte del lago c’è invece la banda dei due fratelli Di Dio. Quella ban-
da, secondo alcuni, farebbe ancora parte della banda Beltrami, è una cosa che
non si capisce bene. Dicono che abbia i fazzoletti verdi, non azzurri, ecco il
punto. Forse chissà» fantasticò il portiere «i fratelli Di Dio erano ufficiali degli
alpini, e per questo hanno conservato il colore verde... Intendiamoci però, che
fossero ufficiali degli alpini io non lo so, dico così per deduzione logica. Beh,
c’è poi l’altra banda importante, quella della Valsesia. Là sono comunisti, coi
fazzoletti rossi, gente» qui enfatizzò un tantino «che dove arriva fa scorrere il
sangue come acqua. Ecco» concluse «queste sono le tre bande che contano
veramente.»
«E vanno d’accordo tra loro, oppure si sparano, i monarchici con i comuni-
sti?»
«Io credo che... Mah! Non lo so. È una cosa un po’ diplomatica, dunque dif-
ficile da sapere. Però, siccome sono tutti partigiani, penso che andranno
d’accordo.»
«A me sembra difficile» opinò Pino. «Comunque all’ospedale c’è un ufficia-
le fascista, un certo Tittoni, che è stato ferito ad Anzola, e ogni tanto tira fuori
Anzola, anche se è un tipo che parla di raro. Sapete quali partigiani possono
essere stati a ferirlo?»
«Anzola? Senz’altro quelli di Beltrami. Là c’è un posto di blocco permanen-
te dei partigiani di Beltrami. E poi tutte le azioni importanti contro i fascisti da
questa parte del lago le fanno loro, quelli della brigata Beltrami. Su questo lei
ci può scommettere.»
«Un posto di blocco permanente ha detto? Ad Anzola? Cosa significa?»
«Cosa significa? È chiaro, no? Però si trova sulla strada piccola che porta in
paese, non sulla strada nazionale.»
«Ma sono i partigiani a tenere un posto di blocco, e per di più permanen-
te?»
«Certo, i partigiani.»
Pino ne fu molto sorpreso. «A che distanza si trova Anzola da qui?» chiese.
«Saranno, diciamo un venticinque chilometri. Se uno percorre la strada na-
zionale del Sempione fino a Ornavasso, e appena dopo Ornavasso prende la
strada minore che costeggia il piede delle montagne sul lato sinistro della val-
le, arriva per forza ad Anzola. Non può sbagliare. Del resto ci sono i cartelli.»
Il ragazzo rimuginò a lungo la notizia, e nei giorni successivi tornò a chiede-
re qualche particolare al portiere, che sarebbe stato lieto di dargliene se non
gliene avesse già dati più di quanti ne possedeva. Pino avrebbe voluto parlare
del posto di blocco partigiano anche con suo fratello Ambrogio, il quale pro-
prio in quei giorni cominciava a lasciare per qualche ora la stanza e a scendere
a pianterreno; nel timore però che il fratello lo invitasse in modo perentorio a
non impicciarsi di simili cose, finì col non dirgli nulla.
Un bel mattino di metà gennaio si risolse: prese a nolo una bicicletta in una
botteguccia da ciclista (nella quale era già entrato a informarsi giorni prima) e
partì per Anzola.
Risalì la riva del lago - luminosa e soleggiata nel gran freddo - fino a Bave-
no. Qui se ne staccò, e sempre tenendosi sulla via nazionale entrò nella val
d’Ossola, tra pareti di montagne quasi a strapiombo: la valle - in questo primo
tratto piuttosto stretta - è uniformemente piana; dopo aver superato il paese
di Ornavasso, tutto di case con tetti di pietra grigia, imboccò verso sinistra una
strada minore che costeggiava il piede della montagna. A una curva si trovò in
un blocco di militi fascisti, attraverso il quale tuttavia passò senza che nessuno
gli dicesse niente. Dopo alcuni chilometri vide una targa stradale col nome di
Anzola; il paese era appena più in là, formato da poche case e ortaglie e qual-
che giardinetto abbarbicati al piede della montagna.
Un’antenna orizzontale, come di passaggio a livello ferroviario, ma in legno
grezzo, sbarrava la strada. Seduto su un’estremità dell’antenna, col mitra tra le
gambe e un binocolo al collo, c’era un partigiano. Indossava una giacca a ven-
to color oliva, in testa aveva uno zucchetto da sciatore a cerchi colorati, e ai
piedi scarpe da sci. Lasciò, senza muoversi che Pino venisse avanti.
Il ragazzo fermò la bicicletta a pochi passi da lui e mise un piede a terra:
«Salve» disse.
«Salve» gli rispose il partigiano; aveva - notò Pino - all’incirca la sua età;
non sembrava uno studente.
«Dunque è vero: qui ad Anzola c’è proprio un posto di blocco.»
«Mm» annuì il partigiano.
«Vedo» disse Pino.
«Da dove vieni, tu?» gli chiese in dialetto l’altro. Strano, non parlava il dia-
letto del posto, non il piemontese, bensì un dialetto lombardo.
«Da Stresa» rispose Pino.
«E cosa vieni a fare qui?»
«A vedervi, a fare la vostra conoscenza.» Anche Pino era passato provviso-
riamente al dialetto; per conoscenza usò il termine ‘cugnuscanza’ vetusto, che
a Nomana si usava ormai solo per celia.
Il partigiano lo guardò incerto. Alla porta di una vicina casupola s’affacciò
un secondo partigiano alquanto più anziano, forse il capo posto. A differenza
del primo sembrava piuttosto diffidente; aveva in testa un vecchio cappello
alpino e gettato sulle spalle un impermeabile tedesco. «Con chi parli?» chiese
in dialetto piemontese al partigiano di guardia.
«Ehi Tom» gli disse la guardia per tutta risposta, «c’è qui uno che viene a
vederci per turismo.»
«Cosa?» fece il capo posto. «Gli hai chiesto i documenti?»
«No. Cioè, non ancora.»
«E cosa aspetti?»
«Volete vedere la mia carta d’identità?» disse Pino: «Pronto, eccola.» Si tol-
se di tasca il portafogli, ne levò la carta e, ad abundantiam, un secondo docu-
mento: «Questo è il mio tesserino dell’università, facoltà di medicina.»
Il capo posto, venuto avanti, prese entrambi i documenti e li esaminò: «E
anlora?» Poi passò all’italiano: «Cosa l’è che vuoi?» Neppure lui era studente.
«Niente» rispose Pino. «A Stresa si parla di voi, e io ho voluto vedervi.»
«Ma sent-lo» fece il capo posto.
La guardia si mise a ridere fragorosamente. Neppure per un momento a Pi-
no passò per la testa che poteva anche essersi ficcato nei guai, che la sua cu-
riosità poteva riuscire sospetta.
Il capo posto lo considerò: «Tu sei uno studente, hai detto?»
«Sì, hai nelle mani il mio tesserino.»
L’altro, dopo averli sfiorati nuovamente con gli occhi, chiuse tesserino e
carta d’identità e glieli restituì: «Bene, ci hai visti. Così puoi ritornare a Stresa
contento.»
«Di già?» disse Pino. «Ma io ho fatto venticinque chilometri di strada, con
questo freddo, per venire qui.»
«E allora? Cos’è che vuoi? Che ti portiamo a visitare gli accantonamenti e il
comando, e magara» aggiunse «ch’i fasso ’n po’ de sciopatà (che facciamo un
po’ di schioppettate), per fete vedde come ch’as fa? (per farti vedere come si
fa?)»
La guardia si mise a ridere di nuovo.
Il capo posto invece era serio: «Lo saprai, spero, che se uno non è conosciu-
to, o non ha il lasciapassare, non può entrare in questo paese.»
«Il lasciapassare? Già... Avrei dovuto portare almeno un fiasco di vino» dis-
se allora il ragazzo: «l’avremmo bevuto insieme.»
«Lo puoi portare la prossima volta» fece, sempre ridendo, la guardia.
Il capo posto si manteneva serio. Aveva un viso magro e piuttosto stanco,
anche se giovanile; il vecchio cappello alpino, da sottufficiale, sebbene proba-
bilmente non suo, gli s’adattava bene: «In sostanza tu ti diverti all’idea della
guerra, eh? Ti sembra una festa o press’a poco. No invece, la guerra è una gran
porcata. Non c’è merda più merda della guerra.»
«Lo so. Io sono a Stresa per assistere mio fratello che è tornato ferito dal
fronte russo» disse Pino: «Figurati che allegria. Si trova all’ospedale
sull’isola.»
«Fronte russo...» mormorò il capo posto, suo malgrado interessato: «In che
divisione era?»
«Nella Pasubio.»
«Allora non con gli alpini.»
«No, lui è d’artiglieria.»
«Ma non d’artiglieria alpina.»
«No. Perché lo domandi? Forse anche tu eri al fronte russo?» Il capo posto
fece segno di no con la testa.
«Non lui, suo fratello» spiegò la guardia «e anche un suo cugino: erano nel-
la Cuneense. Sono dispersi. Li hanno dati dispersi tutt’e due.»
Ci fu una pausa.
«È al corrente tuo fratello, là in ospedale, che tu venivi qui?» chiese dopo
un po’ il capo posto.
«No. Non gliel’ho detto.»
L’altro lo considerò nuovamente: «Ti credo» fece.
«Sentite, non potreste farmi vedere almeno il... lì, come si chiama? il posto
di guardia?» propose Pino.
«Va a fa ’n...» disse il capo posto, «e va bene, entra. Vedrai quanto ti si lu-
stra la vista.»
Pino non se lo fece ripetere: con un paio di pedalate raggiunse la casupola
da cui era uscito il capo posto, appoggiò la bicicletta al muro, ed entrò.
L’interno si componeva di due locali: nel primo c’era un camino col fuoco
acceso e, appeso alla catena, un paiolo con dell’acqua in ebollizione; sul tavolo
stava una ciotola di legno tornito, colma di farina di granturco d’un attraente
colore giallo dorato. Appesi ai muri si vedevano alcuni moschetti e mitra, e
giberne da mitra gonfie di caricatori, nonché qualche indumento invernale e
un paio di fazzoletti azzurri piuttosto sporchi; tre paia di scarponi da monta-
gna erano sul pavimento davanti al camino. Il secondo locale, molto piccolo,
era quasi per intero occupato da materassi stesi sul pavimento: su tre stavano
sdraiati altrettanti partigiani che dormivano, o semplicemente si riposavano,
sotto coperte di lana. L’insieme dava più l’impressione di baita che di caserma.
Il ragazzo notò anche due immaginette di santi appiccicate al muro in capo
a due dei materassi, al modo dei quadri sacri sopra i letti dei contadini. Le ar-
mi, appese senza particolare ordine né formalità ai muri del primo locale, ri-
chiamavano alla sua mente le armi da caccia, brunite al pari di queste, ecci-
tanti la fantasia d’un ragazzo come lui a immaginare boschi e prati e lunghe
camminate, e avventure di cani e di animali selvatici.
«Beh» gli uscì detto, «in fondo è piuttosto bello qui da voi.»
«Che Dio ti strafulmini» esclamò il capo posto, il quale gli stava alle spalle:
«si può sapere cosa ci trovi di bello?»
«Mah, non lo so nemmeno io» ammise Pino: «però non mi dispiace.»
«Proprio ti sembra che siamo qui a giocare, eh? O press’a poco.»
«No, lo so che la vostra vita non è un gioco. Ma...»
L’idea d’essere soldato al modo d’Ambrogio o di Manno non l’aveva mai at-
tirato: la disciplina, quell’essere tenuti a dominare le situazioni e a dare
l’esempio, era una prospettiva che non gli era mai piaciuta; aveva sempre pen-
sato che ‘un poveretto come lui’ non ce l’avrebbe fatta. Una guerra a questo
modo invece, alla buona, e tra ragazzi... «Senti» disse senza rendersi ben con-
to di ciò che diceva: «e se io vi chiedessi di prendermi con voi, di diventare
uno dei vostri?»
«Ah» fece il partigiano, guardandolo con altri occhi: «era a questo dunque
che miravi? Caspita, tu vieni fuori a rate con le tue richieste.»
«Come combattente credo di valere poco» disse Pino. «Ma come studente
di medicina» (non precisò di che anno, non disse che i testi di medicina finora
li aveva aperti quasi solo per vedere com’eran fatti) «potrei anche esservi utile.
Potrei curare i feriti e... e roba del genere.»
«Mm» fece il capo posto. Divenne pensieroso: «Hai con te la presentazio-
ne?»
«No. La... cosa? Presentazione? E da parte di chi?»
«Non importa. Vediamo. Studente di medicina... Sì, potresti anche farci
comodo. Sai scarpinare in montagna?»
«Questo sì. Certo.»
«Vediamo» ripeté l’altro: «Di che paese sei?»
«Di Nomana, provincia di Milano, in Brianza: c’è sulla carta d’identità.»
«Facciamo così, io me lo segno: Nomana, col tuo nome e il resto. Ridammi
un momento la carta. Dieci giorni ci basteranno per avere le informazioni...
Perché, se anche dalla faccia si capisce che non sei un gerarca, noi le nostre
precauzioni le dobbiamo prendere. Poi se tra dieci, anzi facciamo una dozzina
di giorni, sarai ancora della stessa idea di oggi, potrai ripresentarti qui, al po-
sto di blocco.» Gli guardò le scarpe: «Con le scarpe da montagna, si capisce, e
qualche maglione di scorta, e un po’ di cambio. Ecco, basterà.»
Gli occhi del ragazzo s’illuminarono.
«Sta attento ai fascisti se davvero ritorni qui. Nell’ultimo tratto di strada
soprattutto. Potresti fare la fine del pollastro. Non saresti il primo.»
CAPITOLO NONO
Mentre pedalava con energia alla volta di Stresa, Pino era straordinaria-
mente emozionato. Pensieri diversi gli si accavallavano nella mente: avrebbe
partecipato anche lui alla guerra, anche lui - un poveretto come lui - avrebbe
fatta la sua parte e - questo era scontato - non indegnamente. Così un giorno
gli altri, specie le ragazze, Fanny tanto per fare un esempio, guardandolo
avrebbero pensato: “Quello lì non sembra, ma è un tipo che non scherza, è
stato partigiano. Ha partecipato alla tale azione, alla talaltra...” Si vedeva addi-
rittura nell’azione, col suo bravo fazzoletto azzurro al collo: c’era un prato in
salita, battuto dai colpi nemici, le raffiche sollevavano le zolle tutte in fila, co-
me al cinema, un vero finimondo, ma lui ci passava in mezzo indenne, e rag-
giungeva un ferito. «Grazie Pino che sei venuto!» «Tu non parlare, metti piut-
tosto il braccio attorno al mio collo, fa così.» Lo sollevava, lo trascinava fin
dietro un... un qualche cosa, in salvo. (Ma sarebbe riuscito a sollevare davvero
uno non in grado di muoversi? “Lasciamo perdere, queste sono quisquilie,
non sta qui la questione...”) Dopo salvato quello, ne salvava subito un altro:
«Sì» dicevano gli altri partigiani, approvando: «Sì, ci sa fare Pino. Ci sa fare
veramente, quel dannato.»
Anche suo padre e i suoi fratelli maggiori - non subito, non adesso, si capi-
sce, anzi adesso guai, l’avrebbero acerbamente sgridato - però in seguito, fini-
ta la guerra, sarebbero stati orgogliosi di lui. Il problema se mai era la mam-
ma, la prospettiva del suo struggimento durante la lontananza: con un figlio
già all’ospedale, e Manno che non dava notizie... ‘Il problema è la mamma’ si
disse Pino, come se stesse argomentando col capo posto Tom. E subito si ri-
spose in luogo di Tom: ‘Non solo per te.’ Gli parve una risposta centrata, sag-
gia, da vero partigiano come ormai quasi si considerava.
Quando fu nei pressi del blocco fascista però, il cuore prese a battergli fino a
scoppiare. E se stavolta l’avessero fermato? Gli pareva che quelli dovessero
leggergli in faccia il suo proposito di diventare partigiano. “Risponderò che
sono andato a fare una passeggiata, un po’ di moto in bicicletta, come avrei
risposto al venire. Che cos’ho di diverso, del resto, rispetto a prima?” “La tua
nuova decisione, la grande decisione che hai preso” si rispondeva. Ma l’aveva
davvero presa? E in che modo, poi? Non aveva minimamente riflettuto... “È
forse così, senza riflettere, che uno prende le sue decisioni più importanti?”
Riteneva che certamente no; non sospettava che invece spesso, molto spesso,
è proprio così: che avrebbe dovuto rispondersi in modo affermativo.
Dodici giorni dopo, il primo febbraio, arrivò a Stresa la mamma per dargli il
cambio: stavolta aveva in programma di non fermarsi a lungo perché Ambro-
gio era, a detta dei medici, felicemente uscito dallo stato di pericolo, e stava -
sia pure con lentezza - avviandosi alla convalescenza.
Quel giorno, dopo essersi congedato da lei e dal fratello, Pino in luogo di
prendere il treno per Milano partì in bicicletta per Anzola. In albergo aveva -
con imprudenza - lasciato sul comodino della camera materna un biglietto in
cui annunciava la sua ‘decisione irrevocabile’ di raggiungere i partigiani della
brigata Beltrami. ‘Vi prego di non venirmi a cercare’ avvertiva ‘cosa che del
resto non servirebbe a niente’. E prometteva: ‘Vi farò avere mie notizie nella
seconda metà del corrente febbraio.’
IV
CAPITOLO DECIMO
Appena oltre Anzola, sempre contro il piede della montagna, c’è la località
di Megolo: allora poche case e una chiesetta all’inizio di un’erta mulattiera; il
maggior ornamento del paesino era costituito da una fontana di sasso, alla
quale due volte al giorno venivano cogitabonde ad abbeverarsi le vacche; sic-
come uscivano da stalle calde, si vedeva il loro pelame fumigare nell’aria in-
vernale.
Il comando partigiano era insediato dentro un alberghetto; qui il coman-
dante Beltrami ricevette con signorile affabilità Pino il giorno stesso del suo
arrivo. Era, questo Beltrami, un uomo alto quasi due metri, milanese, di pro-
fessione architetto, di grado nell’esercito capitano (e tutti appunto lo chiama-
vano così: il capitano); sulla sua testa pendeva da novembre una taglia di cen-
tomila lire.
La maggior parte dei partigiani - un’ottantina - non era però accantonata in
paese, ma in alcune baite qualche centinaio di metri più in alto sulla monta-
gna. Nei primi giorni dopo il suo arrivo Pino si meravigliò che nessuno lo im-
portunasse con servizi, addestramenti o altro. Gli era stato consegnato un mo-
schetto, ch’egli aveva più volte ripulito e oliato da capo a fondo con la stessa
meticolosità e la stessa quieta eccitazione di fantasia con cui, a casa, il fucile
da caccia alla vigilia del giorno d’apertura.
«Una volta avresti dovuto fare la coda per averlo, quel moschetto» gli disse
Tom, il capo squadra dal cappello alpino che due settimane prima stava al
blocco di Anzola. «Adesso invece di armi ne abbiamo più del necessario, pur-
troppo.»
«Perché più del necessario? Le armi non bastano mai» affermò Pino. Sede-
vano nella baita della loro squadra, Pino sul bordo d’una mangiatoia di legno
consunta dall’uso; mentre parlava soffregava il suo moschetto con una pez-
zuola.
«Eh, perché!»
«No, dillo, perché?»
«Perché qualche giorno fa non pochi dei nostri se ne sono andati, hanno
smammato. Per questo adesso abbiamo delle armi disponibili.»
«Oh là! E in quanti hanno smammato?»
«Beh, lasciamo stare.»
«No, dì, in quanti?»
«Una cinquantina.»
«Cavolo!» Pino ci ripensò: «Ma non capisco bene: smammato dove? Cos’è
che vuoi dire?»
«A casa se ne sono andati, quei puzzoni. Hanno detto basta alla vita parti-
giana.»
«E voialtri, il capitano e... li avete lasciati andare? Quelli sanno tutto di voi,
cioè di noi: il numero voglio dire, le posizioni, l’armamento, insomma tutto.»
«Sì, certo. Fossero stati coi comunisti non avrebbero potuto farla così co-
moda. Ma il capitano è un signore, e quando ha visto che mugugnavano: ’Chi
non vuol rimanere con noi si accomodi’ ha detto. Capisci? Ha perfino cercato
di non fargli fare troppo brutta figura a quei puzzoni: ‘Chi si è accorto di non
avere il fisico adatto vada pure...’ Così ha detto.» Tom tentennò la testa, di-
sapprovando. «Però vedrai, c’è anche soddisfazione ad avere un comandante
come questo, uno che non è una carogna ma il contrario. Solo chi è stato come
me sotto la naia può rendersene conto... Senza dire del fegato che ha, e... Beh,
vedrai anche tu.»
«Però come mai, per quale ragione voglio dire, quelli - addirittura cinquan-
ta - se ne sono andati?»
«L’inverno. È il risultato dell’inverno, questo dover stare per settimane e
mesi chiusi ad ammuffire nelle baite, mentre la guerra non finisce mai. Certo
che cinquanta... a pensarci bene è un bel risultato, non c’è che dire.»
Tom sedeva su uno sgabello basso da mungitore; mentre parlava si dondo-
lava avanti e indietro, costringendo il povero sgabello su due soli piedi; a un
metro da lui una stufa, introdotta nel locale dai partigiani, sfrigolava sommes-
sa.
In quel momento nella baita c’erano soltanto loro due, gli altri uomini della
squadra essendo scesi in paese a berne un bicchiere all’osteria della Mariuccia.
(«A pagamento, intendiamoci» aveva spiegato uno di loro a Pino: «perché noi
non siamo mica come i ladri di polli; a questo riguardo il capitano non scher-
za.» Pino non li aveva seguiti, a lui il vino non piaceva, da quand’era bambino
gli faceva anzi un po’ schifo.)
«Però!» concluse ora: «Che situazione!»
«Cos’hai? Ti vien voglia di smammare anche tu?» gli chiese Tom. «No,
macché, non ci penso davvero. Ma dimmi una cosa: allora quello che si dice a
Stresa, che su queste montagne ci sono almeno diecimila partigiani, è una bal-
la?»
«Precisamente, una gran balla. La nostra brigata è la più forte. Qui a Mego-
lo, intendiamoci, ce n’è solo una metà: gli altri - l’avrai sentito - sono
all’interno dell’Ossola, suddivisi in diversi gruppi, per dare l’impressione che
siamo tanti.»
«Ma come avete fatto, così in pochi, a mettere in piedi un posto di blocco? E
a conservarlo soprattutto?»
«Ah beh, al blocco noi abbiamo diritto.»
«Diritto? Abbiamo diritto? Cosa significa?»
«È stata una pensata del capitano, verso... fammi fare il conto: verso i primi
di dicembre. Avevamo combinato coi comunisti della Valsesia di occupare in-
sieme per qualche ora Omegna, che è una località grossa, una cittadina. Sic-
come però noi siamo arrivati in anticipo abbiamo fatto praticamente tutto da
soli, i comunisti sono arrivati dopo. Spartita la roba (più di duecento quintali,
ci credi? tra armi, munizioni, viveri, benzina, coperte, un ben di Dio: ci sono
voluti due camion e tre rimorchi per portarla via) erano rimasti i prigionieri
che avevamo preso, tra cui il fratello del comandante le squadre d’azione di
Novara, Zurlo, capitato fresco fresco in paese col tram di Verbania. Cosa dove-
vamo farne? Se appena è possibile noi i prigionieri non li accoppiamo, li la-
sciamo andare; ma quella volta, coi comunisti presenti, non era mica igienico
per loro lasciarli andare, specie per il gerarca Zurlo, che poi, in fin dei conti, il
gerarca non era lui, ma suo fratello. Beh, in conclusione il capitano li ha porta-
ti qui a Megolo, con l’idea di liberarli dopo. Una volta arrivati qui però ha fatto
la pensata: ‘Perché non li scambiamo con qualche cosa?’ dice. Detto fatto s’è
attaccato al telefono dell’albergo, ha chiamato il federale di Novara, Dongo, ha
parlamentato, insomma per farla breve ha combinato lo scambio dei prigio-
nieri con una zona neutra, cioè una ‘terra di nessuno’ tra noi e i fascisti, da
Gravellona a Cesara. E anche le SS tedesche della provincia, che come forza
militare contano più dei fascisti, la rispettano. Abbastanza almeno. Capisci
perché al posto di blocco di Anzola noi abbiamo diritto?» «Ma quanti eravate
in quel momento? Di quanti uomini era composta la brigata al momento di
quel colpo di mano?»
«Diciamo trecento.»
«E adesso, se ho ben capito, dovremmo essere sotto i duecento: è un bel ca-
lo.»
«Sì purtroppo. Tanto più se ci aggiungi quelli della brigata Di Dio, che allo-
ra stavano per conto loro, mentre adesso sono con noi. Lo sai che una volta
per sbaglio, a Buccione, ci siamo sparati addosso a vicenda, noi e loro? Si sono
fusi con noi soltanto dopo, verso Natale.»
«Verso Natale?»
«Sì. Per l’inverno. Per cercar di far fronte insieme a questa demoralizzazio-
ne dell’inverno. Senonché Alfredo Di Dio, che era il loro capo, poco dopo
l’hanno preso i fascisti mentre era in missione a Milano... Anzi questa è stata,
fra tutte, la causa di demoralizzazione più grossa: era diventato il nostro vice
comandante, un drago come pochi, tu l’avessi visto.»
Tom si levò in piedi con un mezzo sospiro: «Comunque» concluse
«l’importante è che non ci demoralizziamo noi rimasti. Perché la bella stagio-
ne dovrà pur venire, e allora vedrai che ogni cosa si rimette a funzionare..»
CAPITOLO UNDICESIMO
La sera di quello stesso giorno - era il terzo dall’arrivo di Pino - giunse una
cattiva nuova, recata da una donna in bicicletta: i fascisti avevano preso a
Druogno un amico personale del capitano, un certo avvocato Ferraris, che fa-
ceva da tramite fra la brigata e il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale)
di Torino; l’avevano portato nel carcere di Domodossola.
Era quasi buio; i capi partigiani tennero subito consiglio e decisero d’agire
immediatamente, perché l’indomani sarebbe stato già tardi. Fecero uscire da
certi nascondigli tra le casupole un’automobile e due autocarri: sulla prima
presero posto il capitano e alcuni ufficiali, sui secondi una quarantina
d’uomini, tra cui la squadra di Pino (al quale Tom aveva offerto di non parte-
cipare: «Se va bene tu non hai mai sparato col moschetto.» «Cosa vuol dire?
Col fucile da caccia so sparare, e dunque...») I tre automezzi procedettero len-
tamente fino ad Anzola, da qui raggiunsero, sempre a fari spenti, la via nazio-
nale del Sempione; una volta su questa accesero i fari schermati e comincia-
rono a correre.
Pino sedeva nel cassone del primo autocarro, contro una delle sponde late-
rali, col moschetto tra le ginocchia e una borsa da medicazione a tracolla,
premuto dai due partigiani che gli sedevano ai fianchi. Pioveva e faceva fred-
do, il lembo posteriore del telone - lasciato di proposito lasco perché gli uomi-
ni potessero in caso di necessità balzare a terra - fiottava incessantemente. Il
che consentiva d’intravedere, nella luce dei fari dell’autocarro successivo,
qualche tronco d’albero bagnato al margine della strada, qualche sprazzo di
muretto campestre; nell’attraversamento dei paesi ritagli improvvisi di case
dalle finestre serrate, chiuse sulla paura della gente. Siccome vigeva il copri-
fuoco, non c’era un’anima in giro.
«Cosa succede? Li tolgono di notte i loro posti di blocco i fascisti?» doman-
dò Pino a uno dei suoi vicini.
«Dipende. A volte sì e a volte no» gli rispose quello.
«A volte succede che i militi ci sono, ma fanno finta di non vedere» disse un
altro.
«Del resto davanti c’è il capitano» disse ancora il primo, con la tranquilla
irresponsabilità del soldato che ha piena fede nel proprio comandante. «A
queste cose ci pensa lui, noi non c’è bisogno che ci preoccupiamo.»
«Lo so, ma...» Era il primo fatto d’armi cui il ragazzo partecipava: si sentiva
diviso tra un acuto entusiasmo per l’azione - quel passare baldanzoso attraver-
so il territorio nemico - e il timore di qualche ostacolo improvviso, che incep-
passe a un tratto irrimediabilmente ogni cosa. I più degli altri, sebbene non
nuovi a queste esperienze, erano in uno stato d’animo analogo al suo; soltanto
qualcuno avvertiva unicamente il lato euforico della vicenda e, anche se non lo
diceva, avrebbe voluto che quella corsa notturna non finisse mai.
Finì entro mezz’ora. I tre automezzi fecero alt in un viale alberato
all’ingresso di Domodossola, nel buio più fitto, tanto che le circostanti immi-
nenti montagne non si vedevano. Tutti scesero a terra in silenzio, e secondo le
disposizioni ricevute si ordinarono in tre nuclei, di cui due s’avviarono subito.
A Pino fecero particolarmente impressione gli uomini - due per nucleo - che
portavano il fucile mitragliatore tenendolo orizzontale su una spalla.
Al nucleo rimasto era preposto il tenente Antonio Di Dio, fratello d’Alfredo:
«Vi avverto che quelli tra poco cominciano a sparare» disse ai suoi. «Finge-
ranno d’attaccare il presidio fascista del Calvario per attirare tutta l’attenzione
da quella parte. La vera azione però tocca a noi. Chiaro? Forza, seguiamo il
capitano.»
Il capitano, in giacca a vento e zucchetto da sciatore, s’incamminò verso il
centro della cittadina dov’era il carcere, tutti gli altri dietro; a causa
dell’oscuramento ogni luce stradale era spenta, il buio pressoché totale, la
pioggia insisteva a cadere minuta, fastidiosa. In un piccolo slargo fiancheggia-
to da muri privi di finestre, il capitano fece alt; gli altri serrarono sotto e si
fermarono alle sue spalle senza una parola, i due che portavano i mitragliatori
poggiarono le armi a terra verticalmente, tenendole per il coprifiamma. Fi-
nalmente dalla parte del Calvario rintronarono i primi colpi, che in breve si
trasformarono in una sparatoria; cominciarono a distinguersi anche le raffi-
che delle mitragliatrici Breda, diverse da quelle dei mitragliatori, segno che
anche i nemici sparavano.
Il capitano attese ancora un poco, poi: «È il momento» disse calmo, «an-
diamo.» La piccola colonna si rimise in moto.
“Chissà quanti fascisti e tedeschi ci saranno in Domodossola?” si chiedeva
Pino: “E cosa staranno facendo in questo momento?” L’aveva preso un impor-
tuno, fortissimo batticuore: meno male, davvero, che c’era il capitano a pensa-
re a tutto!
Mentre passavano davanti a un portone (quello della caserma dei carabinie-
ri, Pino però non lo sapeva) il capitano si arrestò un istante e, giratosi, scam-
biò qualche parola col tenente Antonio, quindi - sempre seguito da tutti - de-
viò verso il portone, mise la mano sul battente, guardò nel buio gli altri, che
impugnassero ciascuno la propria arma, quindi toch, toch, toch azionò il bat-
tente.
Nel portone si aprì uno spiòlo, dal quale uscì un po’ di luce e una voce: «Chi
è?»
«Sono il capitano Beltrami. Apri.»
«Signorsì» rispose la voce. Con un rumore di chiavi e catenacci si spalancò
un portello: tutti vi s’infilarono rapidi, il tenente Antonio per ultimo e richiuse
il portello dietro di sé.
Il carabiniere che aveva aperto stava adesso sull’attenti, molto pallido, da-
vanti al capitano, il quale impugnava la propria pistola: «C’è il maresciallo?»
chiese.
«Signorsì» rispose il carabiniere: «c’è.»
Pino - che non era meno emozionato - si accorse che al carabiniere
sull’attenti tremava un ginocchio.
«Chiamalo senza muoverti di qui.»
Proprio in quella però il maresciallo comandante la stazione si affacciò alla
scala interna: aveva sentito le sparatorie fuori, aprire la porta, le voci e il tre-
pestio, e voleva ‘appurare’ chi fosse arrivato: certo non s’aspettava i partigiani,
tant’è vero che al vederli si piegò istintivamente indietro, come per evitare un
colpo; tuttavia non scappò, si ricompose subito e discese i gradini. «Signor
capitano.» Aveva riconosciuto Beltrami.
«Vedo che siete proprio voi» disse il capitano: «Dunque sono bene informa-
to.»
«Signorsì.»
Il maresciallo, una volta scesi i gradini, si mise sull’attenti: «Comandate si-
gnor capitano.»
«State comodo» ordinò Beltrami, e rimise la pistola nella fondina; si volse
anche al carabiniere: «Stai comodo.» Tornò nuovamente al sottufficiale che
aveva smessa la posizione d’attenti; lo fissò negli occhi con severità (dentro di
sé però avvertiva un senso di malinconia: questi anziani servitori dello stato,
che si erano visti crollare il mondo intorno... Chissà che guazzabuglio doveva
esserci adesso nella testa di costui) : «Noi ci siamo già incontrati a Omegna:
qualche mese fa voi comandavate quella stazione.»
«Signorsì.»
«Allora ho avuto l’impressione che in cuor vostro siate rimasto fedele al
giuramento prestato a sua maestà il re.»
«Signorsì. Proprio così. E non lo dico perché adesso... perché ora mi trovo...
No, è così: fedele.»
«Sì» fece grave Beltrami. «Ricordatevi che appunto su questo si deciderà la
vostra sorte a guerra finita.»
Un paio di partigiani mossero significativamente il mitra, il maresciallo li
guardò con la coda dell’occhio.
«Bene» disse Beltrami «ho bisogno di un’informazione e in fretta, sempre
che siate in grado di darmela. Dove si trova l’avvocato Ferraris?»
«Non sta più a Domodossola» rispose il maresciallo. «Di questo sono al
corrente. Quelli della ‘guardia nazionale’ l’hanno dapprima portato nel carcere
in centro e interrogato. Poi l’hanno portato via di là e nascosto in casa di uno
di loro, di un milite, perché temevano un vostro colpo di mano. Però neanche
lì l’hanno lasciato: due ore fa l’hanno caricato su un’automobile e portato via
di nuovo, certo a Novara. È stato all’incirca due ore fa. Sono sicuro di quello
che dico.»
A richiesta del capitano spiegò perché fosse sicuro, diede dei particolari.
Beltrami si convinse che diceva la verità. «Mi date la vostra parola d’onore? Se
mentite, ricordatevi che presto o tardi si verrà a sapere: sarete portato davanti
a un tribunale e pagherete con la vita.»
«Non mento. Vi do la mia parola d’onore.»
«Va bene, vi credo.» Si volse ai suoi: «Purtroppo non ci resta che tornare a
casa» disse.
Il carabiniere che aveva aperta la caserma (altri due n’erano frattanto com-
parsi) fece un passo avanti: «Un, momento, sentite... io vengo con voi.»
«Spicciati» gli disse il tenente Antonio: «prendi il tuo mitra e il pastrano,
muoviti.»
Quello s’allontanò di corsa, tornò con due mitra, il pastrano, e un tascapane
in cui aveva ficcato alla rinfusa la propria roba.
Il capitano si volse nuovamente al maresciallo: «Volete che facciamo un po’
di sparatoria contro la facciata della caserma? Che scardiniamo magari la por-
ta?»
«No» disse sommessamente il maresciallo «me la caverò lo stesso, lasciate
stare.»
«Va bene.»
Il gruppo, col ‘caramba’ (così i partigiani chiamavano i carabinieri) incorpo-
rato, uscì nella strada. Lontano la sparatoria continuava, pareva anzi essersi
fatta più intensa.
«Il razzo rosso» disse il capitano al tenente Antonio «dai, sparalo.»
Il tenente trasse da una fondina che portava al cinturone una tozza pistola
lanciarazzi Very, v’introdusse un razzo, e puntata l’arma verso il cielo lo fece
partire. Il razzo sgattaiolò veloce verso l’alto lasciandosi dietro una lunga scia
di scintille color carminio luminoso.
«Andiamo» sospirò il capitano. La pattuglia si diede a ripercorrere in senso
inverso la strada verso gli autocarri.
Pino in cuor suo era felice per la piega presa dagli avvenimenti. Ormai non
ci sarebbe stato combattimento, così erano entrati nel cuore di Domodossola,
avevano incorporata una nuova recluta, e ne uscivano senza perdite, una bel-
lissima storia da raccontare. All’avvocato Ferraris non pensava: non lo cono-
sceva, non l’aveva mai visto né sentito nominare, in fondo ce n’era tanta di
gente prigioniera dei fascisti.
Pensavano invece a Ferraris gli altri, specialmente il capitano che: “Non se
la caverà” si ripeteva con amarezza in cuor suo. “Se lo tengono stretto a quel
modo vuol dire che hanno delle prove contro di lui. Non se la caverà. Ci siamo
fatti battere sul tempo, impagliati che non siamo altro... Per due sole ore! Or-
mai è un uomo morto, povero. Paolo...” Non sapeva di dire il vero: anche se
l’avvocato Ferraris, di prigione in prigione, da Novara a Fossoli, a Mauthau-
sen, a Gusen - luoghi, questi ultimi due, spaventosi al modo di Crinovaia e di
Oranchi - sarebbe morto soltanto di lì a un anno; cioè molto dopo di lui, capi-
tano Beltrami, che in questo momento lo compiangeva.
La sparatoria intorno al Calvario stava già scemando: i partigiani visto il
razzo rosso dovevano avere iniziato lo sganciamento. Giunsero agli automezzi
venti minuti circa dopo il gruppo del capitano.
Il viaggio di ritorno fu senza inconvenienti come quello d’andata; verso
mezzanotte i partigiani, col ‘caramba’ al seguito, entravano nei loro ricoveri
sopra Megolo.
CAPITOLO DODICESIMO
Nei giorni seguenti Beltrami fece effettuare diversi altri colpi di mano: in
genere le squadre partivano da Anzola in autocarro col primo buio, raggiunge-
vano la via nazionale, assalivano di sorpresa qualche posto di blocco fascista, o
un piccolo presidio o un deposito di materiali. Non si trattò comunque di vi-
cende in grado di risollevare il morale, il quale anzi dopo la precedente diser-
zione, sia pure autorizzata, di cinquanta partigiani, e la mancata liberazione di
Ferraris, seguitava a calare. Pino tuttavia - non disponendo di termini di con-
fronto - non se ne rendeva conto o quasi.
Una mattina, mentre si trovava all’osteria della Mariuccia a bere una malin-
conica gazosa (nel negozio non vendevano aranciate) il ragazzo ebbe una gros-
sa sorpresa: vide, attraverso una finestra, una camionetta tedesca fermarsi
nella stradicciola del paese. A bordo c’era un ufficiale germanico d’aspetto im-
ponente, con qualche altro tedesco e alcuni partigiani. Pensando a un colpo di
mano ben riuscito, il giovane corse fuori: ma non si trattava di prigionieri,
erano - qualcuno gli spiegò - nientemeno il capitano delle SS di Omegna, Si-
mon, e il suo interprete, venuti a parlamentare col capitano Beltrami dopo
avere debitamente lasciate le armi al blocco di Anzola.
Sotto gli occhi di Pino i due capitani col tenente Antonio, un paio d’altri
comandanti partigiani, e l’interprete tedesco, entrarono nell’asilo infantile di
Megolo, dove le monache avevano appositamente preparata una saletta.
Fuori cominciarono a far capannello partigiani e paesani. «Hai visto Simon
che bestione?» disse a Pino uno della squadra: «è più alto di due metri: di si-
curo pesa più d’un quintale.»
«Sì, è più alto anche del nostro capitano» convenne il ragazzo.
«Beltrami però, anche se è in borghese, ha l’aria più in gamba. Non c’è con-
fronto» affermò un partigiano di un’altra squadra.
«Sì. E ci avete fatto caso? Ha il vestito in ordine e senza patacche. Chissà chi
gliel’avrà sistemato?»
(Gliel’avevano sistemato la sera prima le monache dell’asilo. Quando i par-
tigiani erano andati a chieder loro la saletta per quell’incontro, non solo
l’avevano subito messa a disposizione, ma s’erano anche preoccupate che il
capitano italiano si presentasse in ordine. Avevano suggerito che mandasse
loro l’abito, e fatta una pulizia a fondo sia dell’abito, che della saletta, perfino
dei quattro canarini imbalsamati sotto una campana di vetro che ne costitui-
vano l’ornamento principale. Di queste cose tuttavia nessuno dei presenti era
al corrente.)
«Il capitano Simon? Quello che comanda le SS? Ecco l’ostaggio adatto per
fare il cambio con Alfredo Di Dio. Non dobbiamo lasciarcelo scappare.»
«Cosa dici?» s’irritò uno, si trattava di Tom: «Se è venuto qui, vuol dire che
Beltrami gli ha data la sua parola. E col-lì, ma gnanca s’it lo fass a toch e fette
a manca pa ’d parola (quello neanche se tu lo fai a pezzi e fette manca alla sua
parola).»
Mentre il colloquio era in corso uscì dall’asilo il tenente Antonio Di Dio, e
invitò i presenti ad allontanarsi un po’, cosa che essi fecero a malincuore.
Più tardi, partiti i tedeschi, il capitano riunì i partigiani e li informò punto
per punto di quanto era intercorso: il nemico, al corrente delle recenti diser-
zioni partigiane, era venuto qui per trattare se possibile lo scioglimento della
brigata, se no almeno una tregua; nel primo caso si offriva di scortare i parti-
giani - liberi e armati - alla frontiera svizzera. Accettando, essi si sarebbero, a
suo dire, sottratti a un’imminente offensiva con cui il comando tedesco inten-
deva ripulire la valle una volta per tutte.
Beltrami comunicò d’avere respinta sia la proposta dello scioglimento che
quella d’una tregua, grazie alla quale i nemici avrebbero potuto disporre di
tutte le loro forze per colpire altrove. Al termine del colloquio il tedesco s’era
alzato in piedi: «Sapevo d’avere a che fare con gentiluomini» aveva affermato
«ora però ne ho l’assoluta certezza.» Facendo leva su tale atteggiamento, Bel-
trami gli aveva chiesto di liberare certi parenti dei partigiani ch’erano tenuti in
ostaggio a Omegna e in vai Strona; il capitano tedesco aveva promesso.
«Chissà se manterrà la parola?» si commentava dopo la riunione. «Forse
sono soltanto chiacchiere Non è possibile che un SS si comporti così da signo-
re.»
Prima di sera giunse per telefono la comunicazione che tutti gli ostaggi era-
no stati effettivamente rilasciati.
Questa era una buona notizia. Ma nei giorni successivi ne giunsero di catti-
ve: che s’erano verificate diserzioni nei nuclei della brigata operanti all’interno
dell’Ossola, che alcuni di tali nuclei si erano addirittura dissolti. Inaspettata-
mente una notte due partigiani disertarono anche da Megolo. Il capitano allo-
ra ordinò mediante staffette a tutti i distaccamenti di convenire a Megolo, av-
vertendo che presto ci sarebbe stata battaglia; era necessario dare una batta-
glia e vincerla per risollevare il morale della brigata: questa stava diventando
la sua idea fissa.
Pino assistette curioso all’arrivo dei singoli nuclei: lo impressionarono gli
uomini del suo quasi compaesano tenente Bettini, cinquanta circa, pesante-
mente armati, e molto solidali tra loro; avevano l’aspetto di un vero e proprio
reparto alpino, ed erano in effetti quasi tutti ex alpini. Gli altri reparti erano
senza confronto più esigui, un comandante arrivò addirittura senza neppure
un uomo.
***
Un pomeriggio il ragazzo venne convocato al comando. Scese con animo so-
speso all’alberghetto in paese: si chiedeva cosa mai potesse volere da lui il ca-
pitano, in cosa aveva sbagliato?
Nel locale del comando, rivestito d’abete, c’era un’aria stantia e piena di
fumo; Pino si mise sull’attenti: aveva i capelli biondi schiacciati contro il retro
del capo, che appariva ancora più piatto del solito.
«M’ha fatto chiamare, signor capitano?»
Beltrami, seduto all’unico tavolo, gli sorrise; poi allungando una mano
spinse verso di lui un libro che stava sul tavolo: «Prendi questo e studialo.»
Pino prese il volume e l’esaminò: era un trattato universitario di patologia
chirurgica. «Ah» disse «un testo di medicina.»
«Precisamente. Guarda che l’ho avuto in prestito da un medico e lo devo re-
stituire. Tu sei matricola, vero?»
«Sì.»
«Suppongo quindi che non sappia poi molto intorno al trattamento delle fe-
rite.»
«Ho fatto un po’ d’assistenza nell’ospedale del mio paese; certo roba da po-
co» ammise Pino. «Anche in queste cose io sono un poveretto. Però ho la pas-
sione per la medicina e...»
«Studia il trattamento delle ferite più in fretta che puoi, ma anche meglio
che puoi. Sono certo che in seguito farai la tua parte.»
«Sì.»
«Dopo che avrai fatta la tua parte, il tuo dovere, non sarai più un poveretto,
tienilo presente.»
«Signorsì» disse Pino, irrigidendosi; del che si sorprese lui stesso, che aveva
sempre avuto a fastidio la solennità.
«Bene, va, non perdere tempo. E ricordati di questo che t’ho detto.»
Pino uscì dal locale molto sorpreso: dunque il capitano sapeva leggere nel
suo intimo, intuiva le sue deficienze e preoccupazioni... E dire che fino allora
non aveva quasi dato segno d’accorgersi di lui. “Chissà se fa lo stesso anche
con gli altri partigiani? Certo è un capo, un vero capo!”
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Raggiunse di corsa la vicina trincea e vi balzò dentro: era vuota, come del
resto egli s’attendeva. Da quella sporse cauto la testa e guardò giù nella valle;
da principio non capì: nella postazione a lato della mulattiera, poco sotto di
lui, c’erano due soli uomini con una mitragliatrice che sparava incessanti raf-
fiche furiose verso il basso; appena più in alto, ma sempre sotto di lui, c’erano
altri partigiani ammucchiati dietro una roccia: stavano inchiodati contro il
terreno, non si capiva cosa diavolo facessero.
Giù in basso Pino intravide, nel bosco ai lati della scoscesa salita, alcune di-
vise mimetizzate, con certezza tedesche. Le SS! Ancora più in basso, nei prati
intorno a Megolo, c’erano alcuni cadaveri di partigiani. Il cuore del ragazzo
cominciò a martellare con furia: non potevano esserci dubbi, il nemico stava
avendo il sopravvento.
Come mai? Cos’era successo? Per quale ragione le sorti della battaglia
s’erano capovolte? E - problema più urgente d’ogni altro - cosa sarebbe acca-
duto adesso?
Osservando attento con la bocca semi aperta, Pino si rese conto che i parti-
giani inchiodati dietro la roccia avrebbero voluto raggiungere la trincea dove
stava lui, ma n’erano impediti dal tiro di un’arma automatica nemica: come
infatti uno di loro faceva per lasciare il riparo, le raffiche nemiche investivano
la mulattiera accanto al riparo stesso, facendone saltare per aria ciottoli e pez-
zi di ciottoli. “Signore, che situazione, che razza di situazione!”
A un tratto il mitragliere partigiano che insisteva a sparare verso il basso ur-
lò: «L’ho fottuto, l’ho fottuto. Fuori, fuori.» Gli uomini ammucchiati dietro la
roccia balzarono allora in piedi, e si lanciarono lungo la mulattiera verso la
soprastante trincea dov’era Pino, nella quale piombarono: erano una decina.
Uno portava un fucile mitragliatore che piazzò febbrilmente: «Là» gl’indicò
un altro che pareva il comandante: «e subito dopo là.» Il mitragliere aprì il
fuoco sui due punti indicati, e cominciò a passare dall’uno all’altro, a spola.
«Dai» gridò allora il comandante ai due uomini rimasti con la mitragliatrice
nella postazione sottostante: «Su di corsa, mentre noi vi copriamo.» Nel giro
di qualche minuto anche i due furono nella trincea (uno - Pino se ne accorse
solo adesso - era il ‘caramba’ aggregatosi ai partigiani durante il colpo di mano
a Domodossola); i due piazzarono di nuovo la loro arma: «Le munizioni» dis-
se uno dei due al comandante: «N’è rimaste poche. Ci occorrono le munizio-
ni.»
«E io dove le piglio?» rispose il comandante.
Pino lo fissò spaventato: si trattava di Tide, un sottotenente con la faccia
angolosa, utilizzato da Beltrami soprattutto per i servizi di sussistenza; il ra-
gazzo si trasferì accanto a lui: «Dov’è il capitano?» gli chiese.
Tide lo squadrò senza rispondere: «Da dove spunti tu?» fece; poi ricostruì:
«Ah, sei l’infermiere.»
«Sì. Dov’è il capitano?» tornò a chiedere Pino.
La faccia quadrata di Tide si contrasse in una sorta di smorfia: «Il capitano
è morto» disse «e anche il tenente Antonio.»
Pino rimase con la bocca mezzo aperta.
«Quanti feriti hai?» gli chiese l’ufficiale.
«Eh? Io? Due.»
«In grado di camminare?»
«Uno sì, se aiutato.»
«Aiutalo tu. Dovete venir via con noi.»
«L’altro è moribondo» disse Pino.
Ma Tide non gli badava più; il ragazzo si rese conto che poiché non era in
grado di camminare, l’altro ferito sarebbe stato comunque abbandonato (lo
stesso Beltrami - egli avrebbe appreso in seguito - era stato abbandonato in
quel modo).
«Attenzione!» Tide richiamò l’attenzione di tutti, anche i mitraglieri, sospe-
so il fuoco, lo guardavano sudati, coi loro fazzoletti azzurri appiccicati al collo:
«Il sentiero qui sopra è abbastanza mascherato dalle siepi, nasconde alla vista
per un certo tratto. Mentre voi filate, restiamo qui soltanto io e Giuse col mi-
tragliatore, poi fra quattro-cinque minuti ci sganciamo anche noi. Voi ci aspet-
tate su, al sasso con la croce. Capito? Al sasso con la croce: saremo là un cin-
que minuti dopo di voi. Via.»
Gli uomini uscirono a balzi dalla trincea; il mitragliatore attaccò a sparare
verso il basso. «E io?» domandò Pino a Tide: «e il ferito? Come facciamo a
star dietro agli altri?»
«Sei ancora qui? Muoviti » gli gridò l’ufficiale.
Il ragazzo si mise improvvisamente a correre verso la baita-infermeria, vi
entrò, ne uscì al più presto, col moschetto e la borsa da medicazione a tracolla,
e il ferito meno grave che, terrorizzato, camminava tenendo un braccio attor-
no al suo collo. Presero a salire lenti la mulattiera. Due dei partigiani che li
precedevano si arrestarono, li attesero, li lasciarono passare, e tennero loro
dietro senza dire una parola. Pino e il ferito però capivano che sarebbero stati
da loro aiutati in caso di necessità: il cameratismo ricominciava a funzionare.
Pino provò per i due un senso di riconoscenza quale rare volte in vita sua.
***
In alto, prima di svettare attraverso il passo di Sola dalla montagna al cui
piede stava Megolo, la pattuglia dei fuggiaschi incontrò gli alpini di Bettini che
per un’altra via ripiegavano ordinati, in fila per uno sulla neve, carichi delle
loro armi: avevano avuto - dissero - due morti in tutto.
«Adesso il comandante sei tu» disse Tide a Bettini, dopo avergli riferita la
fine del capitano e di Antonio.
Mentre i due parlavano Pino - pur trafelato, e con la testa bionda sudata
nonostante il freddo - si mise a medicare uno degli uomini di Bettini ch’era
stato colpito a un avambraccio. Tutti gli altri, fermi sulla neve, guardavano le
SS che in basso, piccole come formiche per la distanza, stavano bruciando coi
lanciafiamme le baite partigiane.
***
Più della metà degli uomini della brigata si era dispersa; le scorte di viveri e
di munizioni erano andate totalmente perdute; Bettini e i pochi ufficiali so-
pravvissuti decisero pertanto d’inviare ‘in licenza’ chiunque fosse disposto ad
andarci. I restanti avrebbero raggiunta, con alcune giornate di cammino attra-
verso le montagne, la Valsesia, e chiesta ospitalità ai partigiani comunisti di
Moscatelli. «Noi li abbiamo ospitati una volta ch’erano ridotti come noi oggi»
ricordò Tide: «adesso tocca a loro aiutare noi.»
A Pino la prospettiva d’affidarsi, anche per poco, ai comunisti, non piacque:
vero che verso di loro lo spingeva la sua innata curiosità; ma il fatto che essi
avessero per programma finale di togliere di mezzo - probabilmente uccidere -
persone come suo padre, bastava - per ora - a trattenerlo. Del resto lui a casa
ci poteva tornare meglio di chiunque, dato che la sua assenza da Nomana do-
veva essere rimasta inosservata; optò quindi per la ‘licenza’. Il tenente Bettini
gliela diede: verbalmente, si capisce, dopo essersi annotato il suo indirizzo, e
con l’accordo che l’avrebbe richiamato mediante una semplice cartolina di sa-
luti a firma ‘Margherita’, quando la brigata fosse per tornare in azione.
Così Pino arrivò a Nomana di lì a qualche giorno, il 17 febbraio, davvero
inaspettato. Era stato alla macchia in tutto due settimane: le notizie di sé stes-
so, che aveva promesso d’inviare alla madre nella seconda metà di febbraio, le
portò di persona.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Ricevuta dai genitori l’attesa lavata di capo - che fu colossale - Pino si pro-
pose d’utilizzare la licenza per portare un po’ avanti gli studi universitari. Ma
ogni cosa che non fosse l’azione lo annoiava, e lo studio in particolare: anche
lo studio del manuale di patologia chirurgica che si era portato dalla monta-
gna.
Poiché si sentiva quasi un delegato del mondo partigiano nel proprio am-
biente e nei suoi dintorni, pensò bene di fare un giorno una puntata in bici-
cletta a Incastigo, per aggiornarsi sulle imprese del Praga, il fascista che aveva
a suo tempo fatto deportare il ragionier Mambretti direttore della locale Banca
Artigiana. Venne a sapere che il Praga non abitava più lì: adesso era a Milano,
nella polizia, e secondo certuni dirigeva addirittura una squadra di tortura,
specializzata nello strappare confessioni ai partigiani. Questa voce - dopo che
egli ebbe al riguardo esaurite senza costrutto le sue due uniche fonti di infor-
mazione (un ex compagno di scuola, e un ex operaio della ditta di suo padre),
e dopo che ebbe inutilmente interrogato all’osteria gente che non conosceva -
gli fu confermata in un breve colloquio da un giovane seminarista non meno
imprudente di lui. Nell’atrio dell’oratorio, dove il seminarista - che si definì
‘candidato prete da corsa’ - lo ricevette rosso in viso, trafelato, e con i lembi
della veste alzati e infilati nella cintura perché stava giocando al pallone coi
ragazzi.
«Comunque» gli ricordò per scrupolo di coscienza il seminarista «tieni pre-
sente che di questi tempi fanno presto a circolare voci simili. Di sicuro si sa
soltanto che da più d’un mese il Praga è andato a stare a Milano.»
«Questo colloquio» disse alla fine Pino, preso da uno scrupolo tardivo
«dobbiamo considerarlo come fatto in confessione. D’accordo ?»
«D’accordo» gli rispose, impegnandosi anche con una stretta di mano, il
candidato prete da corsa.
«Un momento» volle a questo punto fare un supplemento d’indagine Pino:
«E Panzone? È andato via anche lui?» (Si trattava del fascistello locale - chia-
mato così per beffa, in realtà senza pancia e magrissimo - che aveva a suo
tempo fatto da compare al Praga nell’insidia al ragionier Mambretti.)
«No» gli rispose il seminarista «quello sta ancora qui, ma non è più fasci-
sta, non è più niente: fa soltanto compassione a tutti, seguita a sbronzarsi per
il rimorso.»
Pino approvò con gravità, in un certo senso impegnando ad averne compas-
sione anche coloro che stavano alle sue spalle.
Il candidato prete da corsa lo ringraziò con un sorriso, e uscito senza indu-
giare oltre in cortile, riprese a correre coi ragazzi.
***
Al ritorno a casa Pino s’imbatté sul cancello nel padre, che lo scrutò attento,
subodorando qualche sua sciocchezza; gli chiese dove fosse stato.
«A Incastigo.»
«A che fare?»
«Per... servizio.»
«Per cosa?»
«Beh, per assumere informazioni.»
«Su chi?»
«Oh, su un tale che tu non conosci.»
Poi, siccome il padre mostrava di averne abbastanza d’un dialogo così reti-
cente, gli spiegò chi era il ‘tale’, e spiattellò punto per punto tutto ciò che aveva
fatto, senza escludere l’interrogatorio alla gente in osteria.
Gerardo rimase assai turbato; si trovavano in giardino, davanti alla casa: fe-
ce entrare, indicandogli in silenzio l’ingresso con la mano, il figlio nel proprio
studio, e lo seguì; nei pochi passi dal giardino allo studio s’era andato carican-
do d’ira: «Ti rendi conto d’avere a che fare con un pericoloso, anzi un perico-
losissimo delinquente?» cominciò: «Avresti potuto comportarti in modo più
incosciente, anzi, lasciamelo dire, più stupido di così?» e andò avanti di que-
sto passo, tra turbato e iroso, prospettando al figlio le possibili conseguenze
della sua azione, che avrebbero potuto coinvolgere, disse, anche gli altri di ca-
sa: «...magari tua madre e le tue sorelle. Te ne rendi conto, stupidone?»
A Pino sembrava che facesse parte dei suoi doveri di partigiano in licenza
non lasciarsi suggestionare da timori di questo tipo; e se per rispetto al padre
cercava di non darlo a vedere, pure il suo atteggiamento finiva col non essere
quale il genitore avrebbe voluto; il che comportò dei supplementi di filippica.
Per risolverla il ragazzo propose: «Senti papà: me ne vado di casa, così la
famiglia resta fuori da ogni possibile rappresaglia. Io non sono ancora in età
militare, dunque nessuno può dir niente se vado via.»
«Tu resti qui» gli disse ancor più preoccupato Gerardo: «Tu resti a casa tua.
Dove vorresti andare? E a che fare poi? A combinare altre sciocchezze? Adesso
quello che più importa è che tu eviti ogni iniziativa partigiana.» Ebbe
un’ispirazione: «Pino, cerca di riflettere: credi che i tuoi ufficiali e i tuoi com-
pagni facciano il partigiano anche quando si trovano a casa loro?»
Pino dovette riconoscere che probabilmente no, e anche se, non lo disse,
che questo fatto ‘tagliava la testa al toro’.
Uscito però dallo studio paterno (poiché almeno un po’ di ragione ciascuno
se la vuol pur dare) si ripeteva che gli era capitato un genitore decisamente
troppo suggestionabile. Forse quel Praga, di cui suo padre si preoccupava tan-
to, non era altro, giusto come Panzone, che un fesso integrale.
In questo il ragazzo si sbagliava di grosso: se avesse conosciuto l’uomo che
con tanta svagatezza pretendeva di controllare, se ne sarebbe spaventato.
CAPITOLO SEDICESIMO
In quello stesso momento il Praga, seduto nel proprio ufficio a Milano, era a
sua volta in vena di ricapitolazioni.
La possibilità di lasciare Incastigo gliel’aveva offerta un’opportuna circolare
del partito che invitava ad arruolarsi nella polizia (da cui in quei giorni chi ap-
pena poteva usciva). Aveva, in quell’occasione, riflettuto bene: certo la nuova
vita non sarebbe stata senza inconvenienti; custodire e (a lui sembrava impli-
cito) ‘far cantare’ i prigionieri, avrebbe comportato grossi rischi; però arruo-
landosi si sarebbe finalmente sottratto all’autorità limitatrice dei capi fascisti
locali, nonché all’ambiente di Brianza, a lui da sempre odioso; inoltre avrebbe
avuto nelle sue mani degli esseri umani totalmente indifesi... Era stata sopra
tutto quest’ultima per lui fascinosa prospettiva a risolverlo. E come chi, presa
una decisione a fin di bene, indipendentemente dall’utile che gliene potrà poi
derivare, si sente in pace con la propria coscienza, così egli s’era sentito ap-
provare non già dalla coscienza, ma da una presenza indefinibile - una sorta di
contro-coscienza - che, in genere schernitrice e beffarda, si annidava in lui.
Una volta arruolato e trasferito a Milano però, s’era reso conto che le cose
non andavano affatto com’egli supponeva, e che anzi la polizia ordinaria
adempiva tuttora alla sua funzione di far rispettare la legge, anche nel tratta-
mento dei carcerati. Che razza di cantonata, che svarione s’era accorto d’aver
preso!
Per fortuna, mentr’era nel rovello per la delusione, gli era capitato di sentir
decantare da un collega malcontento come lui un reparto o formazione poli-
ziesca minore (uno dei tanti organismi semi indipendenti, che pullulavano in
quei giorni d’anarchia) nel quale i poliziotti erano «come dei», e non «i soliti
poveri fessi come noi». In breve, preso contatto con quel reparto insediato in
una ex pensione del centro, aveva avvertito che vi tirava un’aria a lui più con-
geniale, e vi s’era trasferito senz’altro, lasciando ai nuovi superiori il compito
di regolarizzare la sua posizione matricolare. (Anche questo, il passare di pro-
pria iniziativa da un corpo a un altro, era fenomeno frequente in quei tempi,
tra le forze armate fasciste come tra quelle partigiane).
Nella ex pensione - situata in una traversa di via Broletto, e fornita di diver-
si piani di scantinato silenziosi come tombe - il lavoro gli s’era subito rivelato
interessante. Per di più il luogo era molto ben protetto, com’egli aveva potuto
constatare allorché un agente suo collega era stato inseguito fin là dentro da
due partigiani, prontamente bloccati dal servizio di guardia.
Proprio quei due sprovveduti partigiani - che il comandante del reparto
aveva affidato alle sue cure di novellino - erano poi stati al principio della sua
‘entratura’ nel nuovo ambiente. Da alcuni minimi particolari egli aveva infatti
fiutata in loro l’appartenenza alla ripugnante genia dei frequentatori di sacre-
stie, come dire - secondo la scultorea definizione mussoliniana - alla genia dei
‘vilissimi guelfi’, di cui aveva fatta fin troppa esperienza in Brianza. Conoscen-
do la loro mentalità pretesca, egli s’era detto, a ragione, che i due (e uno in
particolare, un ragazzo insufficiente, brufoloso, pieno di buoni propositi ma
mezzo morto di paura ancor prima d’essere torturato) dovevano essersi messi
in quell’impresa disperata non già per uccidere l’agente, o per un altro fine
negativo, ma per un fine a parer loro positivo. Quale? Qui stava il punto. Vole-
vano prendere vivo l’agente, e va bene, non però per uno scambio: sarebbe
stato per loro troppo più conveniente e più facile prendere un qualsiasi gerar-
ca. Perché dunque s’erano messi alle calcagna di quell’agente, che non era
nemmeno graduato?
Grazie a un ‘trattamento’ separato dei due (eseguito sotto i suoi occhi da
torturatori abituali in un modo decisamente grossolano, cioè mediante per-
cosse e scottature di sigarette) il Praga era riuscito a ricostruire il movente
dell’azione: l’agente inseguito aveva qualche tempo prima tolto di circolazione
un prete che dava fastidio. I suoi due inseguitori non erano partigiani abituali:
erano semplicemente ragazzi frequentatori dell’oratorio di quel prete, e pro-
prio per avere notizie di lui - di cui l’autorità dichiarava di non sapere - nulla -
avevano tentata la cattura dell’agente. Un episodio di scarso interesse polizie-
sco, addirittura banale: non fosse che, prima di considerarlo chiuso, il Praga si
era voluto accertare se la responsabilità di quel determinato agente fosse co-
nosciuta fuori dell’ambiente della sezione, e gli era risultato che no, non
avrebbe dovuto. Interrogati, sempre separatamente, i due ragazzi su chi
l’avesse rivelata loro, il più debole (che nel prete scomparso aveva avuto un
appoggio, e lo ricercava appunto perché ne sentiva bisogno) dopo una congrua
aggiunta di ‘trattamento’, tutto insanguinato, con la faccia irriconoscibile per
le ecchimosi, l’aveva confessato piangendo; la confessione dell’altro era stata
più laboriosa, ma aveva costituito alla fine una conferma; la polizia speciale
era così arrivata a mettere le mani sul responsabile: uno dei propri uomini
che, per una modesta somma, aveva parlato.
Dopo questa prima, ancora recente indagine, al Praga n’erano state affidate
altre, anche se in questa prima c’era stato un neo, un particolare per i suoi su-
periori e colleghi poco chiaro: i due ragazzi a indagine terminata erano stati
infatti entrambi da lui uccisi nei sotterranei della prigione, durante un ‘tenta-
tivo di fuga’ assolutamente inverosimile. Non erano state fatte indagini,
d’accordo, il Praga però non mancava d’avvertire il rischio corso; e anche
adesso, seduto alla sua malferma scrivania nell’ufficio che gli era stato da poco
destinato (un localino della pensione, con un quadretto di barche ancora ap-
peso a una parete) ci ripensava. “È così, io devo ancora imparare” finì col dir-
si: “mi spiace, ma devo ancora imparare”. Prima d’allora del resto cos’aveva
fatto? quali erano state le sue imprese? Lo smascheramento e la deportazione
in Germania (“ad Auschwitz, un campo dal quale per fortuna non si torna”)
del ragionier Mambretti, e più tardi la deportazione di un altro incastighese,
un capetto fascista che s’era opposto con tenacia alle sue iniziative... Un ba-
stardo piuttosto coraggioso, a ripensarci: mentre gli altri fascisti infatti, anche
i più importanti, avevano con l’allentarsi della disciplina cominciato a temere
il Praga, e si auguravano che se n’andasse, quello: «No» si era permesso di
dire in una riunione (e lui l’aveva risaputo): «noi non dobbiamo lasciarlo an-
dare: dobbiamo tenerlo qui sotto di noi, per impedirgli di combinar porche-
rie.» Il bastardo! Bene, l’aveva poi sistemato, e mentre col Mambretti - pun-
tualizzò ora con disappunto - si era comportato da idiota, con questo aveva
avuto l’accortezza di non esporsi. Tutte qui finora, ad ogni modo, le sue im-
prese, perché le successive erano soltanto agli inizi. Tutte qui, poche davvero!
A meno di voler aggiungere... No, cosa c’entrava? Eppure da quando s’era
messo in queste riflessioni, gli tornavano alla mente anche le sconclusionate
accuse di sua moglie due anni prima (chissà dov’era adesso quella carogna?
“Lontana da qui purtroppo, se no questo sarebbe il momento per saldare il
conto anche con lei!”): beh, quella carogna l’aveva quasi pubblicamente accu-
sato d’essere il responsabile della morte della loro unica bambina. Figuriamo-
ci. Solo per quegli spaventi che certe sere lui si divertiva a farle prendere... La
bambina aveva una straordinaria paura del buio, e lui: «Da brava Alida, scen-
di a prendermi le ciabatte» e dietro la piccola scendeva lui pure senza farsi
sentire. Giunta a pianterreno la stupidina era regolarmente incapace - tale
terrore le incuteva il buio - di trovare l’interruttore della luce: lui allora faceva
dei versacci cavernosi, quella si metteva a urlare e urlare, ed era incredibile
l’agitazione e il batter di denti che la prendevano, e che continuavano per un
certo tempo anche dopo accesa la luce. Sebbene la bambina ubbidisse con
scrupolo al suo ordine di non parlarne mai, una sera sua moglie rincasando in
anticipo dal lavoro l’aveva colto sul fatto e s’era ribellata: malgrado la paura
che abitualmente aveva di lui, quella volta gli aveva mostrato le unghie, la
schifosa! Al ricordo il Praga torceva anche adesso la bocca con rabbia, come
allora... Prendendo a pretesto la cattiva salute della piccola (in effetti era ma-
lata di leucemia: ma in questo gli spaventi non c’entravano) la carogna se l’era
portata al suo paese, e lui era stato costretto a lasciarle andare, perché quella
l’aveva minacciato, se no, di spiattellare ogni cosa al fascio: «Anche se poi tu
demonio mi ammazzerai». Comunque di lì a poco la bambina era morta, e
questo era tutto.
Beh, ma cosa c’entrava ora quest’acqua passata? C’entrava, c’entrava - si
disse vagamente il Praga - movendo le natiche sulla sedia. Era un individuo
tozzo, con la testa rotonda come una palla, e gli occhi sfumati in paglierino:
quei ricordi finivano col suggestionarlo. In realtà a suggestionarlo era soprat-
tutto la bocca esagitata della sua bambina, quel visino che sembrava disfarsi
per il terrore. Disfare, ecco, il disfare, era questo che lo attirava sopra ogni co-
sa al mondo: a questo appunto tendeva la presenza indefinibile, quell’alterità
insediata in lui, che sembrava fare tutt’uno con lui. Non avendo purtroppo la
possibilità di disfare gli individui su grande scala - lui era solo un sottufficiale
- avrebbe voluto almeno disfare punto per punto i pochi in suo potere. Con i
due ‘vilissimi guelfi’ questo intendimento gli aveva tuttavia preso la mano in
modo troppo scoperto. Da non credere però... pareva impossibile che anche
qui, nei sotterranei di un carcere in cui si praticavano le torture, ci fossero dei
limiti, delle regole da rispettare! In conclusione lui doveva stare più accorto.
Non agire come con quei due che, in seguito al brillante successo conseguito,
aveva creduto di potersi concedere come premio, mettendosi a sperimentare
su di loro un complesso sistema di tortura che covava da tempo nella fantasia.
Da quanto tempo? Mah... A pensarci bene da queste cose lui si sentiva attratto
- implicitamente almeno - da parecchi anni. Quella continua tentazione, già da
ragazzo, di bruciare vivi, a fuoco lento, i piccoli animali, che così di raro aveva
potuto soddisfare! Beh, sebbene imperfetto (“Per forza, in queste cose io sono
ancora un principiante!”) il suo vagheggiato sistema di tortura si era alla pro-
va dimostrato obiettivamente efficace, forse più efficace di quelli tradizionali:
l’agitazione convulsa dei due prigionieri legati e imbavagliati, il loro mugliare
spasmodico, addirittura folle, gli avevano dimostrato di essere sulla strada
giusta. Per lui era stata un’orgia di piacere: anche se, tutto considerato, era
durata troppo poco. È vero che adesso, se non altro, il ricordo degli scuoti-
menti di quelle due bocche imbavagliate - un po’ come della bocca senza re-
spiro della sua bambina - lo faceva godere ancora... I due n’erano usciti però
così mal ridotti, che non potendoli rimandare in cella egli aveva dovuto ucci-
derli con un colpo di pistola, di questa buona pistola che adesso teneva davan-
ti a sé sulla scrivania. (Anche l’arma lo incantava: beninteso non era una mi-
tragliatrice che moltiplica prodigiosamente la morte, ma anche questa uccide-
va la sua parte, altro che se uccideva! “Sfonda la carne, le ossa, e...”)
Tale era dunque l’uomo (possiamo noi chiamarlo uomo? Senza dubbio, anzi
non possiamo chiamarlo in altro modo, perché le bestie feroci non sono affat-
to così) che il ragazzo Pino avrebbe voluto tenere sotto controllo. Queste le sue
riflessioni quel giorno.
VI
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
CAPITOLO DICIOTTESIMO
***
La marcia fino al Pan Perdu si prese quasi l’intera giornata successiva. E
non fu l’unica marcia, ché nei giorni seguenti le reclute partigiane, e anche gli
anziani, dovettero sottoporsi a una serie di dure marce d’addestramento al-
ternate a frequenti esercitazioni di ‘scuola sui gomiti’ (propria della fanteria),
scuola sui materiali, e tiri col moschetto e col mitragliatore. Lo scenario in cui
si muovevano - a volte cantando una canzone dei tempi di Beltrami: ‘Marciar,
marciar, - marciar ci batte il cuore...’ - era incomparabile: una colorata pro-
spettiva di dorsi e vette di montagne fuoriuscenti dai limiti della vegetazione,
dominati dalla superba vetta del Rosa che, coi suoi 4600 metri, è la seconda
per altezza delle Alpi.
L’ufficiale comandante del campo - il ‘vecchio’ sottotenente Tide - era molto
esigente, e si sincerava di persona della preparazione d’ogni singolo uomo,
specie nell’uso delle armi. L’attuazione sistematica dei suoi programmi veniva
però seriamente ostacolata dal continuo afflusso di nuove reclute, che risali-
vano la montagna sospinte dai bandi della repubblica.
Un paio di volte giunse in visita il comandante Marco, alias Alfredo Di Dio,
il quale parlò agli uomini riuniti, cercando d’infondere in loro un retto senso
dei comuni compiti e doveri. Era meno autorevole (anche per la più giovane
età, aveva solo ventiquattro anni) dell’indimenticabile comandante Beltrami,
ma si avvertiva in lui un fuoco interiore che nell’altro - più distaccato - non
c’era. Marco parlava con slancio di patria, di civiltà, di Dio. Parlava continua-
mente di Dio, che era la sua passione: il compito di loro tutti non era soltanto
la liberazione della patria dall’oppressione tedesca, era anche il recupero del
popolo alla sua civiltà più autentica, che è quella cristiana. Del resto - egli as-
seriva - da Cristo in poi non ci può essere vera civiltà in opposizione ai principi
del cristianesimo, e ricordava che l’Italia era stata grande solo quando era sta-
ta anche realmente cristiana.
A Pino sembrava quasi di sentire il Tintori di Nova e, per un altro verso, suo
cugino Manno, che chissà dov’erano in questo momento, se pure erano ancora
vivi: Marco gli appariva fatto della stessa pasta, anche se aveva modi decisa-
mente più militari di loro. «Io non riesco a capire se il nostro comandante è
un soldato oppure un asceta» disse a Pino, al termine d’uno di quei discorsi,
un partigiano adulto arrivato da poco, centrando esattamente anche il pensie-
ro del ragazzo.
«E se fosse l’uno e l’altro insieme?» propose Pino.
«Sì, forse è proprio così. Ci hai fatto caso? I ‘nazi’ gli hanno ammazzato il
fratello, e ciononostante lui non parla mai di vendetta; non fa parte della sua
mentalità.»
Forse appunto per questo, pensavano alcuni, i fascisti in un momento di lu-
cidità l’avevano lasciato andare: in tempi in cui non pochi partigiani assaliva-
no gli avversari nelle strade e nelle case, e li uccidevano anche se inermi, un
comandante come questo avrebbe potuto costituire una sorta di garanzia (al-
meno per le donne e i figli, i quali vivevano nel terrore di ciò che sarebbe ac-
caduto alla fine della guerra, ormai chiaramente perduta). Un uomo civile co-
me questo si sarebbe certo opposto, forse anche con la forza, alla carneficina
generalizzata.
Dal punto di vista militare già nelle settimane seguenti Marco, ch’era uffi-
ciale effettivo dell’esercito, cominciò a dimostrarsi molto abile: gli attacchi
delle sue formazioni - mai a caso e mai slegati - diedero addirittura inizio a un
principio di capovolgimento del rapporto di forze nella zona: si cominciò ad
avere la sensazione che la prevalenza sarebbe ora potuta passare ai partigiani.
L’afflusso di reclute nei mesi di maggio, giugno, luglio e seguenti, divenne
teoricamente illimitato: ormai i bandi di chiamata del governo fascista anziché
fornire uomini alla repubblica li fornivano alla guerriglia d’ogni colore e impo-
stazione ideologica: «Piuttosto che in Germania anche all’inferno» dichiara-
vano le reclute presentandosi agli avamposti partigiani.
Marco non poté accoglierne oltre un certo numero: aveva già moltiplicato le
sue brigate, e mantenerle armate ed efficienti comportava uno sforzo logistico
enorme; nel sostenere il quale gli era di valido aiuto un nuovo collaboratore,
giovane ufficiale effettivo come lui, Eugenio Cefis, che aveva assunto lo pseu-
donimo di Alberto. Costui andava, per parte sua, rivelandosi un organizzatore
di primo piano: riusciva a procurarsi mezzi da molte parti, incluso denaro
tramite centri di raccolta istituiti a Milano, e armi dagli ‘alleati’, che ogni tanto
adesso effettuavano lanci alla cosiddetta ‘casa dell’eremita’, dove funzionava
anche una stazione radio collegata col governo del sud.
I tedeschi e i fascisti, esasperati dai continui colpi di mano, reagivano come
potevano con rastrellamenti, sempre però poco fruttuosi perché Marco - am-
maestrato dall’esperienza dello scontro di Megolo - puntigliosamente non ac-
cettava il combattimento campale. Nella seconda metà di giugno tedeschi e
fascisti fecero - con l’aiuto di rinforzi imponenti fatti affluire da altre provincie
- un tentativo di ‘bonifica’ integrale della zona: la val d’Ossola e le sue affluenti
val Vigezzo, val Grande, val Cannobina, furono rastrellate fino al confine sviz-
zero da forti colonne armate; le artiglierie e i mortai batterono dal basso i bo-
schi sollevando incendi qua e là; reparti salirono per ogni dove, bruciarono i
ricoveri, ma non riuscirono ad agganciare che marginalmente i partigiani delle
varie formazioni. I quali rispondevano soltanto con puntate ritardatrici o con
scaramucce diversive sui fianchi del nemico, spostando di continuo da un luo-
go all’altro il grosso delle loro forze. Perdettero, complessivamente, è vero, tra
morti, feriti, e dispersi, alcune centinaia di uomini - più di quanti cioè ne ave-
va persi la brigata Beltrami nel corso di tutta la sua storia - ma non furono
perdite tali da compromettere nessuna delle formazioni principali.
Anche Pino marciò freneticamente con gli altri, sempre con la sua borsa da
medicazione a tracolla, ed ebbe modo di vedere da lontano l’incendio di qual-
che bosco, soprattutto di udire le esplosioni che si susseguivano giorno e not-
te; vide più volte dall’alto la strada del lago - così pacifica un tempo - ingom-
bra di colonne armate.
Una formazione partigiana minore - non inquadrata nelle brigate di Marco
- venne sorpresa sopra Intra e catturata al completo. I prigionieri, quaranta-
due uomini e una donna, furono portati a Fondotoce, fatti girare incolonnati
per le vie del paese con un cartello che li qualificava ‘banditi’ (la donna cam-
minava in prima fila, spaurita, con le scarpe basse ai piedi e la borsetta al
braccio) e infine fucilati tutti.
I partigiani allora fucilarono i prigionieri in loro mani e altri che nel corso di
ripetuti agguati riuscirono a fare, incluso il capo della Feldgendarmerie della
provincia, catturato dagli uomini di Marco proprio mentre tornava dalla stra-
ge di Fondotoce.
I tedeschi, in risposta, presero ventun civili di Baveno, per lo più uomini
anziani, e li fucilarono sul lungolago della cittadina.
I partigiani risposero con altre fucilazioni. Essi - non solo quelli di Marco,
ma anche di altre formazioni non estremiste in cui permaneva il rispetto per la
vita umana - avevano da tempo costituito dei nascondigli in montagna deno-
minati ‘campi di concentramento’, nei quali riunivano i loro prigionieri per lo
scambio. Da quei giorni però sempre meno prigionieri vennero avviati ai
‘campi’, perché un elemento nuovo, deteriore, lo spirito di vendetta, s’andava
insinuando nel cuore di molti. Marco - che pure, per non farsi scavalcare, ave-
va aderito e anche ordinato alcune fucilazioni - lo avvertiva chiaramente come
un elemento demoniaco. Per fargli in qualche modo fronte, chiese ed ottenne
dal vescovo di Novara due cappellani che si adoperassero per riportare gli
animi inaspriti alla carità eroica cristiana.
Intanto insisteva con rigore perché nelle sue bande l’addestramento milita-
re proseguisse. Già le truppe nemiche giunte da fuori per il grande rastrella-
mento erano tornate alle loro basi; il controllo nazifascista s’andava di nuovo
circoscrivendo agli abitati e alle maggiori vie di comunicazione; i colpi di ma-
no partigiani - cui anche Pino e Sèp parteciparono più d’una volta - erano in
crescendo: ciononostante l’addestramento veniva portato avanti senza tregua.
Marco si era infatti messo in testa di compiere una grande impresa, qualcosa
d’esemplare, che arrivasse a scuotere l’opinione pubblica dell’Italia intera: a
tal fine gli occorreva uno strumento bellico adeguato.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
***
La notizia di questa strage feroce diffuse il terrore negli esigui nuclei fascisti
e tedeschi rimasti a presidiare le valli, i quali sapevano d’essere ormai troppo
inferiori per numero ai partigiani: anzi l’ignoranza circa la consistenza reale
dei nemici, moltiplicava nella mente di ciascuno la sproporzione delle forze.
Il comando tedesco e fascista della zona sollecitò - tramite l’arciprete di
Domodossola - un incontro urgente col comando partigiano: Marco intravide
così a un tratto la possibilità di realizzare il suo agognato programma. Alla
richiesta d’una tregua d’armi chiese in cambio - di concerto col maggiore Su-
per ti - lo sgombero dell’intera zona, dal lago al confine svizzero (si trattava
d’una metà della provincia di Novara): i tedeschi se ne sarebbero potuti anda-
re con le armi, i fascisti con le sole armi personali degli ufficiali. La richiesta
venne, con meraviglia dei capi partigiani, accolta senza discussione, e lo
sgombero fissato di lì a qualche ora. Marco dovette affrettarsi a inviare a Do-
modossola i pochi autocarri e uomini che aveva sotto mano per la presa in
consegna delle armi e dei materiali che sarebbero stati abbandonati.
Tutto ciò nella notte sul 10 settembre. La mattina del 10 all’alba trecento
uomini delle brigate partigiane Valtoce di Marco (fazzoletti azzurri) e Valdos-
sola di Superti (fazzoletti verdi) entrarono marciando a ranghi serrati nella
cittadina.
CAPITOLO VENTESIMO
Stavolta Pino era presente. Entrò fieramente inquadrato nella sua compa-
gnia, aveva il moschetto a ‘spallarm’ e la borsa da medicazione a tracolla. Agli
ordini di Marco che dava il tempo, i partigiani avanzarono a passo cadenzato,
fieri del loro grande successo; a un tratto sbottarono a cantare la loro canzone:
‘Marciar, marciar, - marciar ci batte il cuore...’ Erano la maggior parte in
calzoni corti color cachi o grigioverde, parecchi con i capelli incolti per neces-
sità o civetteria, un certo numero aveva la barba a imitazione degli alpini che -
non molti ormai - erano nei ranghi e che (qui come altrove, in tutte le maggio-
ri formazioni partigiane italiane) ne costituivano il nerbo reale. I più di loro
erano giovanissimi, non avevano dunque imparato a marciare sotto le armi
ma nelle organizzazioni giovanili fasciste.
Tutt’intorno rumoreggiava la folla, davvero imponente, sebbene fossero le
sette del mattino: donne, uomini, bambini, migliaia di persone, c’era tutta
Domodossola, perché nessuno aveva voluto restare a casa in un’ora simile.
Tutti gridavano, battevano le mani, taluni anche i piedi, lanciavano con entu-
siasmo fiori raccolti frettolosamente nei giardinetti e nei campi. Le campane
d’una chiesa attaccarono a un tratto a suonare la marcia del Piave.
“Un’apoteosi” si diceva Pino, sforzandosi di mantenere il passo (impresa in
cui non era molto abile): “è un’apoteosi, un trionfo. Grazie gente, grazie...”; gli
pareva, a momenti, che tutti acclamassero lui.
Giunta la colonna nella piazza principale, Marco diede l’alt: tutt’intorno e
nelle vie adiacenti si assiepava la folla che aveva seguito in massa i partigiani.
Qui Marco parlò: nominò ripetutamente l’Italia, con un’emozione in lui sem-
pre nuova - ne parlava come d’una ragazza di cui fosse innamorato -, ricordò
l’esempio di patriottismo e civiltà che i partigiani erano tenuti a dare al popo-
lo: a quello di qui, e all’intero popolo italiano: se la barbarie connaturata alla
guerra - disse - poteva in qualche caso averli trascinati (non la nominò, ma si
capiva che alludeva alla selvaggia strage di Piedimulera) essi dovevano ora
dominarsi e ricominciare a dare esempio di civiltà; parlò insistentemente di
Dio. Concluse ordinando che ogni reparto raggiungesse il proprio acquartie-
ramento in città, e subito dopo - lasciatevi solo poche sentinelle - tornasse qui
per una messa di ringraziamento a Dio. Così fu: la messa solenne, cui parti-
giani e folla mescolati assistettero esultanti qualche ora più tardi, venne a co-
stituire, com’era nelle intenzioni del comandante, la cerimonia culmine di
quel giorno.
***
La zona liberata - una mezza provincia come s’è detto, con sessanta comuni
e forse ottantamila abitanti - era di forma grosso modo triangolare: i due lati
verso settentrione confinavano con la Svizzera, soltanto quello meridionale
con la repubblica fascista. Quest’ultimo confine, lungo circa ottanta chilome-
tri, correva per metà sull’inattraversabile catena di montagne che culmina nel
Rosa, e per l’altra metà sulla sponda settentrionale del lago Maggiore,
anch’essa abbastanza impervia. Solo al punto d’incontro tra la catena del Rosa
e le montagne del lago c’era un esiguo tratto pianeggiante: lo sbocco della vai
d’Ossola, largo appena qualche chilometro. Di qui passavano l’unica strada e
l’unica ferrovia che immettevano nel territorio liberato: era dunque qui, in
questo punto - dove sorgeva il paese d’Ornavasso - che ci si doveva attendere il
futuro sforzo nemico. Almeno quello principale, ché nella zona del lago esiste-
va anche un ingresso minore - la vai Cannobina - percorsa da un’esigua strada
che dal ridente paese rivierasco di Cannobio saliva tortuosa verso l’interno: e a
Cannobio il giorno stesso dello sgombro i fascisti della Decima Mas erano ac-
corsi a impiantare una testa di ponte; male alimentabile tuttavia attraverso la
piatta distesa del lago.
Pino trascorse alcuni giorni a Domodossola dove assistette, e se appena il
servizio glielo consentiva partecipò, allo spontaneo guazzabuglio di manifesta-
zioni festose che tennero dietro alla librazione. Andava a zonzo a tutte le ore
per le strade acciottolate della cittadina, di solito in compagnia di Sèp. Si ripe-
teva svagatamente che avrebbe dovuto visitare il collegio in cui avevano stu-
diato suo fratello Fortunato e suo cugino Manno, senza però mai risolversi.
La gente non cessava di acclamare i partigiani, e all’incontrarli stringeva lo-
ro la mano, gli dava pacche sulla schiena, li ringraziava con calore sincero; sui
muri i manifesti minacciosi della repubblica fascista furono ricoperti da altri
con un asciutto proclama dei comandanti Marco e Superti che annunciavano
l’assunzione dei poteri, e da quelli esultanti e inevitabilmente retorici della
giunta di governo da loro subito insediata: ‘Per virtù sola di petti italiani...
l’orifiamma della redenzione della patria sventola sulle cime e nelle valli
dell’Ossola’. Cominciarono a scendere dalle montagne e dalle valli interne an-
che partigiani di altre bande, gente d’ogni colore: comunisti, monarchici, so-
cialisti, ma soprattutto senza partito, in genere ragazzi del luogo che si erano
dati alla macchia per sottrarsi alla leva; erano vestiti nei modi più inverosimi-
li, alcuni addirittura da tedeschi, e - tranne i comunisti - erano palesemente
meno disciplinati di quelli già non molto disciplinati di Marco.
Pino e Sèp ne saggiarono alcuni per rendersi conto di come la pensassero,
ma i partigiani rispondevano loro quasi solo con spiritosaggini, alle quali Sèp
rideva ogni volta divertito: non sembravano in complesso avere programmi
molto chiari per il futuro. Sempre ad eccezione dei comunisti (i ‘garibaldini’,
come si facevano chiamare): questi tuttavia, anziché esporre i loro program-
mi, ripetevano d’essere determinati a rispettare l’attuale alleanza con gli altri
partigiani: nel che a Pino sembravano sinceri. Soprattutto però i comunisti
insistevano a parlare di un loro successo in val Formazza (una delle valli che
salgono da quella principale al confine svizzero) da cui affermavano di avere,
nei giorni precedenti, anch’essi scacciato i fascisti; c’era in loro una spiegabile
invidia per il successo tanto maggiore ottenuto da Marco.
Nel giro di qualche giorno, esaurito il materiale fascista su cui porre le ma-
ni, molti dei partigiani ultimi arrivati cominciarono a dare la caccia alle ‘spie
fasciste’ cioè, in realtà, a chiunque non gli garbasse. Ne furono prontamente
dissuasi dal furore di Marco; d’altra parte la giunta di governo, cui compete-
vano le epurazioni, era composta di elementi di tutti i partiti (con recrimina-
zioni al principio da parte di certuni che avrebbero voluto maggiormente rap-
presentata la propria parte: poi - essendo da tutti avvertita la provvisorietà di
quell’avventura - prevalse in ciascuno il desiderio di viverla comunque).
Dalla Svizzera principiarono ad affluire rifugiati politici e internati militari,
e - ancor più graditi - funzionari svizzeri delle vicine amministrazioni cantona-
li, intenzionati a studiare il modo di portare aiuto: le popolazioni montanare
d’oltre confine erano infatti molto sensibili alla sorte di questa dell’Ossola, per
tanti versi simile a loro, e intendevano sostenerla.
I comunisti intanto seguitavano a misurare il successo propagandistico ot-
tenuto dai partigiani cristiani (la stampa e la radio di tutto il mondo parlavano
della ‘repubblica dell’Ossola’), e se anche esteriormente continuavano a dimo-
strarsi esultanti al pari degli altri, sempre meno lo sopportavano. Finché deci-
sero d’effettuare un colpo di mano e sovrapporvi un successo proprio: si tra-
sferirono tutti all’imbocco della vai d’Ossola, oltre la linea Ornavasso-
Mergozzo stabilita da Marco e Superti negli accordi di tregua, e il 13 settem-
bre, insieme con altre forze comuniste fatte affluire da fuori, si lanciarono
avanti per occupare Gravellona. Se il colpo fosse loro riuscito avrebbero poi
costituito l’avanguardia armata dell’intera repubblica partigiana. Ma a Gravel-
lona c’erano i tedeschi che non solo li respinsero con dure perdite, ma contrat-
taccarono. Per potersi sganciare e ritirare dentro la linea di tregua, i comunisti
furono costretti a chiedere l’aiuto di Marco. Il quale lo diede a denti stretti, poi
- temendo che i tedeschi venissero avanti anche nell’Ossola - si diede a fortifi-
care febbrilmente l’imbocco della valle tra Ornavasso e Mergozzo.
Per questo lavoro fu impiegata, con altre, anche la compagnia di Pino e Sèp,
che dovettero lasciare perciò gli ozi di Domodossola per Ornavasso.
CAPITOLO VENTUNESIMO
***
Le giornate si susseguivano: erano belle giornate di principio autunno, tie-
pide, col sole che - non più bruciante come in estate - ravvivava le praterie del
fondo valle dall’erba magra, montanina, costellata di fiori. Nel mezzo della
valle scorreva borbottando il fiume Toce, ombreggiato da alberi coi tronchi
rivestiti di lichene; parallela al fiume si allungava la ferrovia del Sempione la
quale, non più percorsa da convogli, sembrava lentamente perdere il suo
aspetto artificiale e trasmutarsi anch’essa in qualcosa di naturale, con l’erba
che spuntava tra i sassi della massicciata. Ai due lati della valle le montagne si
alzavano quasi a perpendicolo, pareti altissime accastellate le une sopra le al-
tre, con rari alberi di castagno sulle rughe qua e là, e in alto in alto qualche
abete, diritto e nero contro il cielo.
Durante i turni di guardia Pino, seduto nella trincea col suo fazzoletto az-
zurro al collo, staccava ogni tanto gli occhi dal libro di patologia chirurgica
consegnatogli dal capitano Beltrami («Guarda quel disgraziato in che modo fa
la guardia!» aveva un paio di volte inutilmente imprecato Tide) e fantasticava:
chissà se a Nomana si rendevano conto che lui era qui, partecipe di questa
grande avventura? Certo in questo momento non potevano immaginare che
stesse ‘vegliando in armi’ sul confine di questo lembo dell’Italia liberata. “Ve-
gliando in armi”: si ripeteva la frase, udita in qualche discorso, “vegliando in
armi”, e se ne beava. Tanto può in certi momenti la poesia, anche retorica, an-
che in spiriti impoetici com’era il suo.
Ogni pochi giorni Marco, oppure Alberto l’organizzatore, nominato ulti-
mamente suo vice comandante, venivano a dare un’occhiata alla linea difensi-
va. Dietro la quale, ad alcuni chilometri, ne stavano facendo approntare una
seconda, e più indietro ancora una terza.
Furono stabiliti dei turni di riposo per i reparti; la compagnia di Tide - Pino
e Sèp ovviamente compresi - poté così tornare a Domodossola.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
Qui l’entusiasmo dei primi giorni non era ancora venuto meno. Pino stavol-
ta si risolse a visitare il collegio dei suoi fratelli, tanto più dopo avere appreso
che uno degli insegnanti di scienze faceva parte, quale commissario
all’istruzione, della giunta di governo. Non poté parlare col commissario, ma
con altri del collegio sì, tra cui un prefetto - un chierico di poco più anziano di
lui, dalla faccia foruncolosa - ch’era stato compagno di classe di Fortunato.
«Tuo fratello» affermò costui dopo i primi convenevoli «non c’è dubbio che
diventerà un vero industriale. Il Fortunato Riva! È dotato d’un senso degli af-
fari quale io non ho mai visto l’uguale.»
«È vero. Però che affari poteva combinare mentr’era qui in collegio?»
«Qui non ne poteva combinare, si capisce. Ma io parlo della sua forma
mentis, mi spiego? Vuoi che ti dica una cosa? Quando sento parlare
d’industriali milanesi, io non penso, che so, ai Pirelli o ai Donegani: no, mi
viene in mente tuo fratello Fortunato.»
«Sì» lo approvò con modestia Pino. Poi spiegò meglio: «Voglio dire che dei
lati di nostro padre, lui ha ripreso soprattutto l’abilità negli affari.»
«Il Manno Riva invece non era così» continuò, sempre un po’ apodittico, il
prefetto: «E, da come parli, neanche tu, ho idea.»
«Oh, io no di sicuro» disse Pino. Stavolta però non disse: io sono un pove-
retto; non lo diceva più da quando il capitano Beltrami, consegnandogli il ma-
nuale di patologia chirurgica aveva dichiarato: «Dopo che avrai fatto il tuo
dovere non sarai più un poveretto, tienilo a mente.» Anche in questo momen-
to si ricordò di Beltrami: “Come mi ha aiutato, povero capitano, che bene mi
ha fatto” pensò con tacita gratitudine.
Col giovane prefetto Pino s’intrattenne a chiacchierare a lungo. In seguito
ritornò a trovarlo, e uscì anche a passeggio con lui per le vie di Domodossola.
«Chi ti vede con me» osservò il chierico alludendo al proprio abito talare
«penserà che hanno ragione a chiamarvi ‘opera pia’.»
«Opera pia? Ah sì, ho sentito.»
«Gli altri partigiani vi chiamano così per invidia, perché voi col fazzoletto
azzurro siete i più in gamba, e siete stati i veri liberatori dell’Ossola. Anche la
gente però adesso comincia a chiamarvi così: perché non vi vergognate
d’essere cristiani, io credo.»
«Cristiani noi? Magari! Sapessi cos’è successo a... (pensava a Piedimulera.)
Beh, lasciamo andare.» Pino cambiò discorso: «Piuttosto dimmi, appunto, la
gente: cosa pensa adesso la gente in generale? Ho sentito che è costretta a
stringere la cinghia più che sotto il fascio.»
«Sì. Ma non si lamentano. Sperano tutti negli aiuti della Svizzera, e infatti
qualcosa è già arrivato, patate soprattutto. Comunque meglio la fame ma libe-
ri: praticamente tutti quelli che conosco io la pensano così: tutti ti dico. Il
guaio se mai sono quei commissari di governo che...»
«Ecco. Dì. Cos’è che succede di preciso? Tu dovresti essere informato, con
quel vostro professore che fa parte del governo.»
«Oh, se fosse per lui...» Il chierico tentennò la testa: «Quello non critica mai
gli altri della giunta; non è da lui che si viene a sapere. Anche lui però noi lo
vediamo con la faccia tirata, quando gli altri esagerano.»
«Quali altri? Tutti gli altri?»
«No, non tutti, sei matto? Staremmo freschi allora. Insomma succede que-
sto: che mentre alcuni dei commissari si danno da fare per risolvere i proble-
mi, quello alimentare prima di tutto, e poi quello dei trasporti: sai che stanno
ripristinando la linea del Sempione per poter ricevere gli aiuti dalla Svizzera;
stanno anche costruendo quella pista d’atterraggio per gli aerei americani...»
S’interruppe: «Chissà poi se gli aerei americani scenderanno davvero.»
«Speriamolo. Se no, t’accorgi che gas.»
«Beh, insomma» continuò il prefetto «alcuni commissari lavorano sodo,
senza risparmiarsi. Ma altri... Vedi, in genere sono quelli arrivati dopo, che
hanno preso il posto di alcuni già insediati. Adesso vogliono fare quello che
non gli spetta, promulgano leggi strane, ma soprattutto litigano tra loro come
Caini, e in pratica finiscono col far diventare matti quelli che lavorano. Non
sono di qui, vengono tutti da fuori, e sembrerebbero anche persone importan-
ti, io non so... Insomma che persone siano io di preciso non arrivo a capirlo.»
Erano in realtà degli intellettuali utopisti - non tutti con l’incarico di com-
missario, per la verità - i quali reputavano di possedere la chiave per la solu-
zione d’ogni problema nazionale, anzi umano; erano piombati nell’Ossola (e
ancora ne seguitavano ad arrivare, come mosche attirate dal miele) sia dalla
Svizzera, dove s’erano rifugiati all’armistizio, che da Milano e da Torino attra-
verso le montagne. Alcuni di loro, con l’appoggio dei compagni di fede politica
presenti nella giunta, erano riusciti a scalzare qualche modesto commissario
già insediato, e adesso si adoperavano tutti insieme - commissari e no - per
scalzarne altri: intanto, in interminabili riunioni tra loro, specie all’hôtel Ter-
minus, discutevano il rinnovamento della cultura e della natura umana, e pre-
tendevano di emanare decreti che lo favorissero. I commissari che lavoravano
sul serio avevano dapprima guardato a questi utopisti quasi con spasso, ma
ora se ne preoccupavano perché la confusione stava facendosi molesta.
«Non c’è il tempo per fare le elezioni, ecco il punto. Te lo dico io: quando
potremo fare elezioni regolari» affermò con ottimismo il giovane prefetto «si
vedrà che questa gente non ha alcun seguito. Sarà quello il modo per toglierla
di mezzo.»
«Sì. Può darsi. Che strano però» commentò Pino: «in conclusione da una
parte c’è chi lavora sodo, e dall’altra... Beh, secondo me dovremmo tutti cerca-
re di dare una mano a quelli che lavorano; insomma bisognerebbe, nei limiti
delle nostre possibilità, lavorare anche noi. Io per esempio... sai che ogni tanto
ci penso? Che ne dici se mi presentassi all’ospedale? Se mi offro di lavorare
gratis nelle ore libere, vuoi che non mi prendano?»
«Se non ti fai pagare, sta sicuro che ti prendono» gli disse l’altro. Rifletté un
po’: «Certo che... In fin dei conti, all’ospedale, è un lavoro che potrei fare
anch’io; specie ora che stanno trasformando in ospedale un’ala del collegio.
Fare il partigiano, col pericolo d’uccidere qualcuno, no; ma lavorare
all’ospedale... Sai che non mi sembra una cattiva idea?»
«Allora cosa facciamo?» chiese Pino: «Potrei parlare oggi stesso col mio
comandante.»
Tide però non gli diede il permesso. «Stiamo per tornare in linea, lascia
perdere. Tanto non avresti neanche il tempo di cominciare.» Così il chierico
dalla faccia foruncolosa finì col presentarsi da solo all’ospedale, venne accetta-
to, e non ebbe più il tempo per andare a zonzo con Pino.
Incontrò l’amico per caso qualche giorno più tardi, che attraversava la città
con la sua compagnia incolonnata, diretta a Ornavasso. L’autocarro di Pino
s’era fermato a un incrocio, e il chierico accorse festoso: «Mi hanno accettato,
dico all’ospedale» annunciò. «Ho già cominciato a lavorare. Hai avuta un’idea
magnifica.»
«Bene» gli gridò Pino dal cassone, e approvò cordiale: «Sono contento.»
«Sai cosa ti dico?» gridò l’altro: «Si vede che sei fratello di Fortunato; sei un
realizzatore anche tu. Eh, questi industriali milanesi!»
Pino, a causa del motore salito a un tratto di giri, non aveva capite le ultime
parole: «Cos’hai detto?» gridò sporgendosi.
«Ho detto: questi industriali milanesi!» urlò il chierico salutandolo festo-
samente con la mano mentre l’autocarro - molto malconcio, con una coperta
stesa davanti a rimpiazzare in qualche modo il parabrezza mancante - si allon-
tanava col promettente industriale milanese, il suo amico Sèp, il sottotenente
Tide e gli altri partigiani a bordo.
CAPITOLO VENTITREESIMO
Ricominciarono i giorni d’attesa allo sbocco della valle, sulla trincea costrui-
ta dalla compagnia. I viveri, e ogni tanto un po’ di materiale bellico, arrivava-
no per camion da Domodossola; arrivò anche un numero del giornaletto della
divisione, il ‘Valtoce’ (poco più d’un volantino, però a stampa) il cui editoriale
stavolta prendeva in considerazione l’appellativo di ‘opera pia’ con cui le for-
mazioni di Marco venivano designate. ‘Se quei signori con opera pia intendo-
no alludere alla dirittura morale del nostro Comando, oppure all’assidua
protezione e all’interessamento che sempre abbiamo spiegato verso la popo-
lazione civile, allora noi rispondiamo che siamo fieri di essere dell’opera pia.’
I partigiani della squadra, riuniti per il rancio, commentarono la cosa tra
divertiti e seccati. «Adesso lo scrivono anche a stampa che siamo dell’ ‘opera
pia’»
«Fossero capaci gli altri di far cantare la mitraglia come noi.»
«Sono i comunisti che hanno cominciato a chiamarci così, però avete visto:
hanno chiesto uno dei nostri cappellani e lo tengono da conto. I comunisti che
tutte le domeniche sentono la messa come noi... Non è da ridere?»
«Certo che è da ridere.»
«Se non altro significa che gli abbiamo insegnato qualcosa.» Pino approva-
va compiaciuto. Non così Sèp, cui il nomignolo - Pino si accorse - dava un gran
fastidio: «Dai, non storcere il naso per così poco» gli disse.
«Dovremmo dargli dei buoni pugni in faccia a chi ci chiama così» fece Sèp
con rabbia, «allora vedresti che smetterebbero.» Il fazzoletto azzurro, intorno
al suo collo, s’era raggricciato come i fazzoletti intorno al collo dei contadini di
Nomana.
«Quando tornerai a casa nessuno saprà che qui ci chiamavano ‘opera pia’»
gli disse Pino. Ma l’altro seguitava a mostrarsi scontento.
***
Ben più gravi problemi però incombevano. Molti sintomi facevano ritenere
imminente l’attacco nemico. Per due volte un aereo ricognitore tedesco sorvo-
lò lentamente le tre linee difensive imbastite allo sbocco della valle; segnala-
zioni scritte o verbali (portate in genere da donne o ragazzi-staffetta) circa un
crescente ammassamento di truppe, giungevano ormai di continuo dalla fini-
tima zona occupata; i comandanti Marco e Superti schierarono perciò sulla
prima delle tre linee difensive le loro forze in grado di combattere. Le quali, al
momento conclusivo, si rivelarono inspiegabilmente scarse: appena duecento
uomini coi fazzoletti azzurri a destra del fiume Toce e altrettanti coi fazzoletti
verdi a sinistra. Gli altri partigiani, di vario colore e impostazione ideologica -
raggruppati in tre formazioni - proteggevano la sponda del lago, in particolare
la seconda stretta via di penetrazione nell’Ossola attraverso la val Cannobina.
Sulla quale in posizione arretrata Marco, che scarsa fiducia aveva in questi
alleati, sistemò di riserva un altro centinaio dei suoi azzurri. Come ‘massa di
manovra’ gli rimaneva soltanto la sua compagnia comando, che trattenne
presso di sé a Domodossola: non erano nemmeno cento uomini, però i miglio-
ri di cui disponesse.
All’alba dell’11 ottobre i fascisti, appoggiati da alcuni reparti tedeschi, ven-
nero avanti: era trascorso un mese dalla loro fuga; attaccarono contempora-
neamente in val Toce e in val Cannobina.
***
Un improvviso fuoco di mortai avvertì Pino e gli altri che il ballo comincia-
va: i partigiani, rannicchiati nella prima trincea e nei suoi rari fortini, rispose-
ro col fuoco dei loro mitragliatori. Anche il nemico prese a sparare con le sue
armi automatiche: strano, lì davanti non dava l’impressione d’essere numero-
so, forse un pattuglione. Ci furono, dall’una e dall’altra parte, alcune lunghe
raffiche di mitragliatrice, che sono come la voce della morte. Inginocchiato
nella trincea Pino sparava col suo moschetto assolutamente a casaccio nel
verde, bruciando un colpo dopo l’altro; al suo fianco Sèp sparava con accani-
mento anche maggiore. «Piantatela» gridò loro un partigiano più anziano:
«volete consumare tutte le munizioni per niente?»
Pino e Sèp, mortificati, smisero di sparare. Anche gli altri azzurri modera-
rono poco alla volta il fuoco. Peccato non fosse qui il sottotenente Tide! Alle
prime luci, non sospettando l’imminenza dell’attacco, aveva approfittato d’un
autocarro che tornava a Domodossola, per andare a ritirare del materiale. Lui
assente, dopo un certo tempo di sparatoria non intensa alcuni partigiani - i
più arditi - decisero d’uscire dalla trincea e d’avvicinarsi al nemico al fine, così
dissero, di poterlo vedere. Col risultato che gli altri, per non colpirli, cessarono
quasi del tutto il fuoco.
Il fuoco avversario sembrava invece aumentare, sempre tuttavia senza farsi
molto nutrito; poi nell’aria - fatto del tutto nuovo - si aprirono con dure esplo-
sioni alcune nuvolette di fumo rossastro. «Gli 88 tedeschi!» «È l’artiglieria
tedesca che spara ‘a tempo’.» Alcuni degli ultimi arrivati, impressionatissimi,
si buttarono nel fondo della trincea, e quando i colpi nemici esplodevano
nell’aria sulla verticale della trincea stessa si schiacciavano contro la terra e
cercavano di sprofondarvi. «Cosa fate? i sommergibilisti?» gridò uno dei vec-
chi.
«Buona questa» commentò un altro: «i sommergibilisti.»
La battuta piacque, venne ripetuta, ma i sommergibilisti non si diedero per
intesi; a un tratto anzi uno, due, tre di loro balzarono fuori dalla trincea e si
portarono di corsa più indietro; diversi altri li imitarono, di star lì fermi nella
trincea in mezzo a quella baraonda non se la sentivano, le idee cominciavano
già a confondergli. Quel movimento all’indietro era arbitrario e contro ogni
regola, precisamente come lo era stato quello in avanti. Presi da rabbia per
tanto disordine e codardia, alcuni dei più combattivi uscirono allora fuori e si
portarono con ostentazione avanti; i rimasti nella trincea si sentirono inutili, e
uno dopo l’altro cominciarono a uscirne, per andare avanti, chi indietro. “Tan-
to” pensavano questi ultimi, procedendo con armi e bagagli sulle spalle, “ci
sono altre due linee da cui fare resistenza”.
Arrivati nel paese di Ornavasso (porte e finestre sbarrate, i civili tutti serrati
nelle case dai tetti di pietra) costoro s’imbatterono nel sottotenente Tide che
arrivava di corsa e li aggredì come una belva: «Disgraziati, bestie, perché vi
ritirate? Chi ha dato l’ordine? E sareste dei combattenti voi?» Si fermarono
spaventati.
«Forza, dietro front, e tutti di nuovo in trincea con me.»
Si voltarono tutti, e tornarono mortificati in linea. Dove, di lì a poco, giunse
uno di quelli che erano invece andati avanti: «Al casello ferroviario ci sono i
fascisti» annunciò trafelato, «noi prima li abbiamo snidati con le bombe a
mano, ma poi loro sono tornati più numerosi e hanno ripreso il casello. Ci oc-
corrono rinforzi.»
«Te li do io i rinforzi» urlò in risposta Tide «a calci nel sedere te li do. Chi vi
ha ordinato d’uscire dalla trincea? Come facciamo a sparare da qui, se voi vi
trovate là davanti?»
Il partigiano - un ragazzo vispo e coraggioso - atteggiò la faccia a contrizio-
ne. «Forza» gli gridò Tide «torna dagli altri e digli di rientrare tutti in trincea,
subito. Subito, hai capito? Tutti. È un ordine.»
Quello eseguì; gli spavaldi tornarono indietro, sacramentando contro la pu-
sillanimità dei comandi (i quali qui si riducevano in pratica al tenente Tide); la
linea si ricostituì.
In questo settore; ma non in quelli laterali, e cioè più a destra, al piede della
montagna, e anche verso sinistra in riva al fiume, dove si erano verificati ana-
loghi disordini. Più a sinistra ancora, al di là del fiume, si sentivano le mitra-
gliatrici e i mitragliatori dei verdi di Superti sparare raffiche su raffiche: chissà
cosa stava succedendo là, collegamenti non ce n’erano.
Davanti a un simile confuso ripiegamento delle ali, il responsabile dello
schieramento azzurro nella zona del Toce, un capitano, ordinò dapprima che
nessuno si ritirasse oltre Ornavasso, e fece per ammonimento aprire da alcune
sue squadre fidate il fuoco in direzione di quelli che non si fermavano
all’altezza del paese: per il che tutti gli sbandati si arrestarono e disposero a
terra, costituendo di fatto una sorta di linea allo scoperto, nei prati ai due lati
del paese. Conscio tuttavia che al minimo urto questa linea si sarebbe sfascia-
ta, il capitano dopo avere attentamente ponderata la situazione, senza consul-
tarsi con Tide né con gli altri ufficiali subalterni, diede ordine ai reparti che gli
uomini fossero lasciati liberi di agganciare come meglio credevano il nemico.
«È l’unico modo in cui i partigiani sanno combattere: è inutile tentare, con
uomini così, di sostenere una battaglia campale. Meglio una lotta disorganica,
a colpi di mano e a scaramucce, che nessuna lotta.»
La sua decisione si rivelò realistica: grazie a una serie di minute iniziative
individuali si svilupparono qua e là molti piccoli combattimenti isolati, che
finirono in pratica col dar luogo a una battaglia d’arresto, almeno provvisorio.
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Marco a tarda sera di quel primo giorno visitò il fronte del Toce, che ora
correva sulla seconda linea difensiva, e conferì con i comandanti. A chi gli di-
ceva che stava sbagliando, che commetteva lo stesso errore del capitano Bel-
trami, che i partigiani non erano adatti a combattere una battaglia campale,
espose con foga e con autorità insieme, le ragioni della sua scelta: dobbiamo
dimostrare che i depositari dello spirito e del coraggio non sono i fascisti ma
noi, se loro danno prova di saper combattere una guerra che è priva di speran-
za, tanto più siamo tenuti a saper combattere noi; tutti gli italiani ci guardano,
dobbiamo ridare loro la fiducia in sé stessi, indurli al risveglio; e dobbiamo
combattere anche per questa gente montanara dell’Ossola, la quale deve ren-
dersi conto che non ha riposta male la sua fiducia, che noi non siamo buratti-
ni, ma uomini su cui si può contare, come appunto essa ci considera. Chi
spenderà la sua vita qui, non l’avrà sprecata, ma spesa bene.
Così disse all’incirca, e gli altri comandanti partigiani - Tide compreso, Tide
nemico d’ogni retorica - si sentirono dopo le sue parole intimamente determi-
nati a resistere, a tentar l’impossibile. Sebbene giovane, Marco si dimostrava
un capo autentico.
Ripartì subito, avvertendo che nel corso della notte avrebbe raggiunta con
la compagnia comando la val Vigezzo, dove avrebbe ricostituita una linea di-
fensiva all’altezza di Finero. Gli uomini della compagnia comando - ricordò -
erano in buona parte alpini: per pochi che fossero, a nessuno, neanche ai te-
mibili marinai della Decima Mas, sarebbe stato facile, in montagna, sfondare
la loro linea. «Qui in pianura il nemico esercita uno sforzo minore. Almeno
fino a quando resisteremo noi, siete tenuti a resistere anche voi: questo è il
vostro compito, e questa è la mia consegna.»
Raggiunta Domodossola conferì per l’ultima volta in municipio coi commis-
sari della giunta di governo: quelli che avevano sempre lavorato, beninteso, e
che anche adesso si adoperavano attivamente affinché lo sgombero dei civili
compromessi si effettuasse in buon ordine. Tornò poi al suo comando dove,
insieme al cappellano e agli altri ufficiali che nel corso della notte sarebbero
partiti con lui, dormì un paio d’ore su coperte stese per terra.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Il giorno dopo i partigiani del Toce difesero la loro seconda linea nello stes-
so disordinato modo in cui avevano difesa la prima. Tide seguitava a mugu-
gnare: «La mancanza d’addestramento: ecco i risultati della mancanza
d’addestramento! Questa non è una battaglia, è un casino...» Comunque il
fronte tenne, grazie agli improvvisati e coraggiosi colpi di mano con cui veni-
vano fortunosamente rintuzzate le infiltrazioni nemiche. I fascisti però, là da-
vanti, andavano con evidenza facendosi sempre più fiduciosi di spuntarla, più
baldanzosi.
Anche in val Vigezzo la compagnia comando aveva ricostituito un fronte,
tanto che in Domodossola la giunta fece affiggere ai muri il seguente procla-
ma:
‘Giunta provvisoria di Governo
Cittadini,
non vi è ragione di allarme. Il principio di panico verificatosi ieri è sorto
da notizie inesatte. Le formazioni patriote combattono, resistono e tengono
su ogni punto. Siate calmi, riprendete il vostro lavoro, conservatevi fiduciosi
e sereni come sempre.
Domodossola 12 ottobre 1944’
Alberto, il vice comandante delle formazioni azzurre, che ora stava in per-
manenza nell’ufficio di Marco, era però preoccupato fino all’angoscia. Perché
aveva avuto notizia che Marco, spintosi in automobile fuori della nuova linea
per studiare uno spostamento, in avanti del fronte, non accennava a tornare;
invece avevano ripreso ad avanzare i nemici. A sera il comandante Marco non
era rientrato, e bisognava considerarlo disperso.
***
Il giorno successivo, terzo della battaglia, sul fronte del Toce si ripeterono
all’incirca le vicende dei due giorni precedenti: il nemico venne inesorabil-
mente avanti per un altro tratto, mentre ai partigiani cominciavano adesso a
scarseggiare le munizioni. Tutte e tre le linee difensive erano state abbandona-
te, la terza in gran fretta, sotto il fuoco d’un pattuglione di SS italiane che
l’aveva aggirata attraverso l’impervia montagna: le squadre inviategli contro
per fermarlo col solito sistema dei colpi di mano, si erano tutte disperse, e
quasi solo i comandanti erano ridiscesi nella valle.
A sera Alberto spedì in linea una colonna formata da non molti autocarri e
ordinò un ripiegamento per scaglioni di tutte le truppe del Toce, sia azzurre
che verdi, su Domodossola.
Dalla città partivano ora in continuazione convogli ferroviari per la Svizze-
ra: scaricavano i profughi nella prima stazione oltre la galleria del Sempione, e
tornavano indietro a caricarne altri. Adesso se ne andavano intere famiglie,
quelle i cui figli si erano aggiunti ai partigiani: le partenze si susseguivano in
buon ordine, dato che il comando di Alberto e la giunta di governo seguitava-
no a funzionare; quest’ultima anzi non aveva forse mai funzionato così bene,
perché gli utopisti - membri del governo e no - non la intralciavano più: erano
già tutti in Svizzera, a spiegare con malinconia, a chi aveva voglia d’ascoltarli,
come e perché si era perduto, e soprattutto cosa si sarebbe dovuto fare per
non perdere.
***
Pino e Sèp ripercorsero la strada di Domodossola sullo stesso autocarro
malconcio che li aveva a suo tempo portati in linea. Pioveva dal mattino, e la
coperta che rimpiazzava il parabrezza non evitava all’autista e al tenente Tide,
che sedevano in cabina, d’infradiciarsi allo stesso modo degli altri, pigiati nel
cassone scoperto Vedendo il proprio comandante in quello stato, Pino con una
certa improprietà pensava: “Guardalo, è ridotto come san Quintino alla batta-
glia di Rocroi!” e tentennava la testa. Sulla via nazionale l’autocolonna supe-
rava di continuo nuclei di profughi civili, uomini e donne, e alternati o mesco-
lati ad essi partigiani d’ogni colore, provenienti dalla riva del lago, tutti diretti
a piedi verso il capoluogo e la sua stazione ferroviaria. Gli autocarri partigiani
ne accolsero sui predellini e sui parafanghi quanti poterono starcene. “È un
miracolo se non saltano le balestre” rifletteva Pino; portava sempre la sua bor-
sa da medicazione a tracolla: l’aveva usata più volte nel corso della battaglia, e
cominciava ad avere una certa fiducia in sé stesso come infermiere. Al suo
fianco Sèp parlottava con tre partigiani rossi che s’erano infilati nel cassone
tra gli azzurri: si faceva spiegare i loro casi. «Loro sono stati più liberi di noi di
fare come gli pareva» riferiva ogni tanto a Pino: «gli ufficiali a loro non gli
rompono le scatole come fa Tide.»
«Già ma cos’hanno fatto in conclusione?» gli rispose infine seccato Pino:
«Lo sanno tutti chi è che ha veramente combattuto.» «È perché voi dell’ ‘ope-
ra pia’ siete molto più armati» ribatté punto sul vivo uno dei rossi: «più nu-
merosi e più armati. Non c’è confronto. A Domodossola avete perfino un treno
blindato.»
“Un treno, sì, ma le munizioni?” fu tentato di controbattere Pino; si limitò
tuttavia a sbuffare con compatimento: meglio non dargli corda, tanto a cosa
sarebbe servito?
«E poi loro avevano le mani più libere contro i fascisti e contro i traditori»
insisté Sèp. «Mica come noi che non possiamo mai toccare nessuno.»
«Beh Sèp, cerca di piantarla» fece Pino.
Mentre gli autocarri procedevano nel buio che raffittiva, alla luce dei loro
fari schermati s’intravedevano i tronchi fradici degli alberi ai lati della strada e
qualche spezzone di muro campestre battuto dalla pioggia. Precisamente co-
me quando Pino aveva percorsa questa stessa strada in febbraio, durante la
sua prima avventura partigiana, la notte in cui Beltrami e Antonio Di Dio ave-
vano inutilmente tentato di liberare l’avvocato Ferraris. Quante cose erano
cambiate da allora... Beltrami e Antonio erano morti, e dell’avvocato Ferraris
non s’era più saputo niente, anche il ‘caramba’ che s’era intruppato coi parti-
giani a Domo, e poi a Megolo aveva operato alla mitragliatrice, non era più
nelle formazioni, chissà dov’era finito. Vicende tutte quante ormai lontane, la
situazione a quel tempo era completamente diversa... Sì, ma cosa si sarebbe
fatto adesso? Il pensiero di Pino andava ogni tanto anche ai feriti da lui medi-
cati in quei giorni: sei o sette (morti e feriti ce n’erano stati pochi per fortuna,
e un’autoambulanza li aveva portati tutti man mano dal fronte all’ospedale di
Domo). Quale sarebbe stata la loro sorte? Avrebbe provveduto il comando —
se non l’aveva già fatto - a trasferirli in Svizzera? Sì, c’era d’aver fiducia in Al-
berto, nella sua capacità d’organizzare le cose. Se Marco era della stoffa di
Manno e del Michele Tintori, Alberto era piuttosto della stoffa dei suoi fratelli
Ambrogio e Fortunato, anzi era anche più abile di loro nell’organizzare. Am-
brogio, Fortunato, la casa... Chissà cosa pensavano di lui adesso là a Nomana,
chissà se erano al corrente di questo disastro.
Mentre rimuginava tali cose gli autocarri arrivarono alle prime case di Do-
modossola; fecero alt all’imbocco della strada del Sempione, davanti a un por-
tico.
Sotto il quale era in attesa un sottotenente del comando, che venne avanti
nella scarsa luce dei fari rigata da fili di pioggia; aveva in testa uno zucchetto
da sciatore, secondo lo stile che era stato del capitano Beltrami: «Ordine di
Alberto: aspettare tutti qui, coi reparti inquadrati. Presto arriveranno gli au-
tobus e i camion che stanno facendo la spola con... con la nuova destinazio-
ne.»
Scesi dagli autocarri - che immediatamente ripartirono per la zona del Toce
- i partigiani azzurri si raggrupparono sotto il portico; tutta l’altra gente arri-
vata con loro invece, civili e partigiani sbandati, s’incamminò verso la stazione
o il centro della città, sotto l’acqua.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
CAPITOLO VENTISETTESIMO
CAPITOLO VENTOTTESIMO
L’esile strada che portava al passo San Giacomo e alla Svizzera era coperta
di neve e seminterrotta da slavine; gli ultimi feriti partigiani e fascisti dovette-
ro essere espatriati su slitte. Le poche armi pesanti erano state sepolte; diversi
partigiani, tra cui il sottotenente Tide, si erano nottetempo messi in marcia
per tornare indietro con un lungo giro attraverso le montagne, nella zona delle
prime azioni, sopra Megolo, così che rimanesse nell’Ossola almeno un nucleo
di partigiani azzurri intorno al quale ricostituire le future formazioni.
Pino e gli altri camminavano verso il confine in fila per uno. Malgrado i
duemila e passa metri d’altitudine l’aria non era cruda, c’era un gran silenzio,
le pareti della valle s’erano fatte d’altezza modesta. Pino non pensava più alla
bella ragazza, pensava al comandante Marco che era morto, la notizia era cer-
ta, l’aveva portata Alberto quando aveva raggiunto i suoi: era morto dissan-
guato (“anche lui come Beltrami!”) nella terra di nessuno. Il giorno preceden-
te, domenica, molti partigiani lasciate per mezz’ora le postazioni a lato d’un
paesino, s’erano inquadrati davanti alla chiesa per sentire la messa; l’avevano
fatto di propria iniziativa, non sollecitati da alcuno, perché ricordavano
l’importanza che Marco dava alla messa: era stato un modo d’onorarne la
memoria. Che differenza però confronto alla messa solenne d’un mese prima a
Domodossola, nel culmine del successo!
Pino sospirò: chissà dopo la guerra quanto sarebbe stato utile all’Italia un
uomo come Marco... Invece era morto!
Gli tornava in mente ogni tanto anche il suo amico Sèp, che aveva disertato.
Chissà dov’era adesso, e che fesserie avrebbe combinato quell’imbecille. E se
fosse finito in mano ai fascisti? Se, in conclusione, ci avesse rimesse le penne?
Con che faccia lui, Pino, avrebbe risposto alle domande angosciate dei genitori
di Sèp una volta tornato a casa? “Non me lo perdonerebbero per tutta la vita
d’averlo portato via da Nomana. Senza di me, infatti, lui non avrebbe mai la-
sciato il paese.”
Trasse un nuovo sospiro e fece segno di no, di no, con la testa piatta. Sèp
non avrebbe dovuto disertare come aveva fatto. «Non avrebbe dovuto» mor-
morò Pino.
«Con chi ce l’hai?» gli chiese il partigiano che scarpinava alle sue spalle:
«Chi è che non avrebbe dovuto?»
«Niente, stavo riflettendo tra me» disse Pino a mezza voce, senza spiegare.
L’altro lasciò perdere.
Appena più indietro camminava però il giovane operaio di Busto Arsizio, in
quel momento eccitato dalla prospettiva d’andare all’estero (durante una sosta
aveva tolto dallo zaino un fazzoletto azzurro nuovo e se l’era messo al collo in
luogo di quello vecchio e bisunto: «Per entrare in Svizzera un po’ meno da
barbone» aveva spiegato): «Te lo dico io» proclamò ad alta voce «a cosa pensa
Pino: pensa ancora al suo amico Sèp, che se n’è andato con quei ladri di polli.
È vero o no, Pino? Dì la verità.»
«Piantala» fece Pino.
«Sì, piantala» disse anche l’altro partigiano.
L’operaio invece si mise a cantare:
‘Me regordi di temp indree,
quand che ’ndavi a spazzà i pulee,
spazzà i pulee, robà i gainn,
per la mamm grandaaa...’
Tre o quattro nella fila ridacchiarono; anche Pino tentennò la testa sorri-
dendo.
«Non preoccuparti» gli disse l’operaio: «il tuo amico tornerà al paese con
un mestiere nuovo, vedrai: il mestiere del ladro di polli.» Celiò ancora per un
poco, infine s’acquietò.
La lenta marcia proseguì nel silenzio: era un giorno di tristezza, quello, la
fine dell’epopea dell’Ossola, che pur con tutti i suoi limiti sarebbe rimasta la
più celebre delle imprese partigiane in Italia.
Non diciamo la più importante: per utilità oggettiva l’avrebbe infatti di gran
lunga superata quell’altra lotta - assai meno conosciuta ancor oggi - in cui i
partigiani alpini ‘verdi’ delle brigate Osoppo erano da tempo sanguinosamente
impegnati nel goriziano contro tre distinti nemici: i nazisti, gli iugoslavi di Ti-
to e, ogni tanto, i locali partigiani comunisti italiani, militarmente dipendenti
dai titini. Alla fine della guerra la linea irregolare tenuta dai ‘verdi’ delle briga-
te Osoppo avrebbe costituito il confine est d’Italia.
PARTE SESTA
CAPITOLO PRIMO
Il giorno dell’espatrio di Pino fu a Milano per il Praga di gran ‘lavoro’: la
guerra civile si era infatti incrementata anche nelle città. Dove però essa man-
cava della componente romantica che in qualche modo aveva in montagna:
nelle città si riduceva a un’atroce successione di assassini e contro-assassini.
Da una parte agguati a fascisti e tedeschi, o a loro collaboratori, o presunti tali,
che venivano spesso freddati a bruciapelo nelle strade; a queste uccisioni si
rispondeva, soprattutto da parte tedesca, con fucilazioni non meno spietate di
prigionieri ed ostaggi. Appunto a ciò miravano gli autori degli agguati, i quali
volevano che i fucilatori diventassero sempre più odiosi alla popolazione. Le
torture da parte delle ‘polizie speciali’ - che i fascisti più responsabili, bisogna
pur dirlo, e il ministero della giustizia di Salò in particolare, non avrebbero
voluto - s’inserivano in tale scellerato contesto, e venivano messe avanti dai
partigiani a ulteriore giustificazione del proprio modo d’agire.
La sezione del Praga era tuttora acquartierata nel silenzioso edificio al cen-
tro della città, e conservava la sua autonomia dopo un’inconcludente trattativa
per entrare a far parte della famigerata polizia speciale di Koch. Quest’ultima -
pure poco numerosa - era approdata a Milano dopo l’abbandono di Roma, e
s’era insediata in una villa di via Paolo Uccello, nel quartiere allora periferico
di San Siro. Le trattative per la fusione dei due reparti non si erano potute
concludere a causa d’una improvvisa levata di testa del cardinale di Milano il
quale, al diffondersi delle voci di torture, s’era messo a tempestare di proteste
l’autorità: le definiva nelle sue lettere ‘orrori tali da degradare tutto il nostro
secolo’, e minacciava di lanciare scomuniche dal pulpito. Finché - incredibil-
mente per il Praga - a metà settembre, su ordine del prefetto di Milano la poli-
zia ordinaria aveva circondato la ‘villa triste’ di via Paolo Uccello, e arrestati
Koch e i componenti la sua banda, cinquantatre persone in tutto. La forma-
zione insediata al centro invece, come meno importante e pressoché scono-
sciuta, non era stata toccata.
Durante le trattative per la fusione, il Praga aveva avuto modo di visitare le
segrete di Koch e di assistere alle torture che vi si praticavano (celebri quelle
di quattro inquirenti picchiatori, denominati ‘i quattro santi’), rimanendo sor-
preso per la loro grossolanità e scarsa professionalità. A ‘villa triste’ si picchia-
va, sì, si spezzavano le ossa, certo, e a non pochi prigionieri ciò bastava per
confessare: ma quelle orge di botte sferrate da uomini drogati, non di rado
urlanti, eccitatissimi alla vista del sangue, non erano sembrate al Praga tortu-
re vere e proprie. Che differenza rispetto ai metodi della Gestapo tedesca! Che
abisso!
Sulla base delle ormai notevoli esperienze acquisite, egli usava adesso, in
contrasto con altri aguzzini, affermare - e ne aveva discusso accademicamente
anche con uno dei ‘quattro santi’ - che nessun prigioniero può resistere oltre
un certo limite a una tortura ben condotta: il problema stava tutto nel saper
dosare la tortura. «Se alcuni, perché cantino, non occorre neppure toccarli in
quanto gli basta vedere i ferri, altri invece resistono in modo incredibile ai
trattamenti: in questo siamo d’accordo. Però resistono fino alla morte, soltan-
to se voi siete così stupidi da dargliela la morte. Ecco il punto: dovete sapervi
fermare a tempo, e poi ricominciare al momento giusto (voglio dire non trop-
po presto né troppo tardi), fermandovi di nuovo a tempo quante volte occorre.
Vi accorgerete» sosteneva con competenza il Praga «che uno può resistere an-
che a lungo, ma a un tratto non ce la fa più. Questo» egli concludeva «è certo,
come è certo che un uomo è fatto di carne.» (In fondo la sua non era una
grande scoperta: anche i soldati che abbiano affrontata la morte un numero
sufficiente di volte, finiscono col farla: a un certo punto anche i più forti spiri-
tualmente non riescono ad affrontarla una volta ancora, non ce la fanno più.)
Come che sia quella scoperta, in certo qual modo teorizzata, aveva contribuito
alla fama del Praga all’interno della sua sezione: la quale fama, anche se di-
scussa (qualcuno affermava ch’egli parlava così soltanto per poter continuare
a torturare i suoi prigionieri anche quando non ce nera più bisogno), pure fa-
ceva sì che adesso con sempre maggior frequenza gli venissero affidati dei casi
difficili. Bisogna anche dire che il suo impegno personale non era col passar
del tempo diminuito: al contrario, dopo i giorni di forzata stasi - una vera sof-
ferenza per lui - succeduti alla chiusura della ‘villa triste’, egli aveva poco alla
volta prolungato spontaneamente il proprio orario di lavoro, al punto che
adesso riusciva a malapena a portarne il peso. Ciononostante se gli fosse stato
possibile l’avrebbe ancora prolungato, perché la guerra purtroppo era agli
sgoccioli, e presto gli sarebbe stato precluso l’indicibile piacere di disfare poco
alla volta un nemico (ossia un uomo: in quanto ormai tutti gli uomini erano
nemici per lui, giusto come per l’entità diversa da lui, che s’annidava nel suo
intimo).
Quel giorno in cui s’era conclusa la battaglia per l’Ossola, il Praga aveva ‘la-
vorato’ senza sosta a casi comuni. Quando nel tardo pomeriggio - letteralmen-
te esausto - era stato sul punto di staccare, gli avevano senza preannuncio por-
tato un prigioniero che davvero comune non era: un partigiano comunista so-
spetto torturatore, che chissà quanti fascisti, o presunti tali, e chissà con che
efferatezza, aveva ‘fatto cantare’. Si trattava d’un tipo con la fronte alta, secca,
e le tempie tirate, da cui - come le guardie avvertirono - in due giorni di carce-
re non si era potuto, con gli interrogatori normali, ricavare assolutamente nul-
la.
Malgrado la stanchezza il Praga se l’era studiato, e ne aveva ricevuto
un’impressione straordinaria: un caino come questo nei luoghi di tortura par-
tigiana doveva contare almeno quanto i ‘quattro santi’ messi insieme. Anche
l’altro aveva subito afferrato che il nuovo esaminatore non era uno qualsiasi, e
sebbene impedito, s’era sforzato di studiarlo a sua volta: si erano fiutati a vi-
cenda, al pari di due cani prima d’azzannarsi (usiamo il paragone anche se
improprio, perché mai i cani, o le iene, o le altre bestie feroci farebbero le ne-
fandezze che gli uomini fanno). Al termine dell’esame il Praga aveva deciso di
riservargli l’intera notte.
Adesso si rilassava al buffet in attesa della cena, un po’ trasognato. Quel
prigioniero ai comunisti doveva premere molto. Che successo riuscire a farlo
parlare! E che colpo per i rossi... “Perché loro, i rossi, non sono castroni come i
nostri gerarchi, non chiedono diplomi o lauree per portare avanti uno: se uno
ci sa fare, lo promuovono a qualsiasi incarico.” Questo doveva essere senza
dubbio molto ben piazzato.
Il corridoio dov’era sistemato il buffet - nel sotterraneo della ‘sezione spe-
ciale’ - era un ambiente squallido, arredato con mobili scompagnati: le sedie
erano per la maggior parte d’ufficio, il banco, pieno di graffi, proveniva da un
esercizio bombardato, c’erano alcuni tavolini da marciapiede vivacemente di-
pinti, nonché poche altre attrezzature, tra cui una macchina per il caffè
espresso, frutto d’un sequestro arbitrario; in un angolo stavano quattro pol-
tronacce larghe e sdruscite accanto a un apparecchio radio che trasmetteva
musica in sordina. In una delle poltrone appunto s’era sistemato il Praga, nel-
le altre avevano via via preso posto due suoi colleghi pure sottufficiali, al pari
di lui in abito borghese, e un terzo in divisa. Fumavano tutt’e quattro quasi
senza parlare, facendo ogni tanto cadere la cenere in uno spaesato contenitore
con la scritta ‘Grand Hôtel et de Milan’ sistemato per terra in mezzo a loro.
«Ancora non la pianta di pisciare musica» disse a un tratto, indicando col
mento la radio, uno dei quattro, piccolo, non più giovane, biondiccio, faccia
smorta, mani singolarmente smorte.
«Perché?» gli chiese il figuro che sedeva alla sua destra, un orso con dita
corte, grosse, pelose, faccia oscurata da punte di barba e un orecchio privo del
lobo: «Hai ancora la fissa del giornale radio straordinario?»
«Eh no?» rispose lo Smorto: «Coi risultati complessivi là dell’Ossola: le ar-
mi catturate, il numero dei prigionieri, e che so; è da ieri che io me l’aspetto
un giornale radio straordinario. Sarebbero dei fessi a non farlo.»
«Cosa credi? Che quei prigionieri li porteranno poi qui a te?» chiese sarca-
stico Orecchio Tagliato, e ridacchiando sinistramente sbirciò il Praga, come in
attesa della sua approvazione.
Il Praga però non disse niente.
«Eh, lo credo bene che non li porteranno qui» esclamò, senza avere mini-
mamente capito il senso della battuta, il quarto del gruppetto, quello in divisa,
ch’era un individuo d’aspetto comune, coi capelli brillantinati e un forte ac-
cento meridionale. «Ci mancherebbe! Con tutto il lavoro che già teniamo...»
Dei quattro questo meridionale era l’unico che non avesse un’aria trista: face-
va parte della ‘sezione speciale’ solo da qualche giorno, con semplici mansioni
di custodia. Abbozzò ridacchiando una strizzata d’occhio, aspettandosi il con-
senso generale.
Gli altri seguitarono invece a fumare in silenzio.
«Non ho detto bene, aiutante capo?» chiese allora incerto il meridionale, ri-
volgendosi al più alto in grado, ch’era il Praga.
Gli altri due sbirciarono di sottecchi il Praga, aspettandosi una sua uscita
pesante o bestemmia; ma l’aiutante capo Praga non batté ciglio, come nean-
che avesse udito.
«In conclusione vorresti anche tu ridimensionare il nostro lavoro, eh?» os-
servò allora ironico Orecchio Tagliato.
«Certo, come no?» rispose il meridionale. «Non vi pare che ne abbiamo an-
che troppi di detenuti qui dentro, voglio dire se rapportati al nostro numero?
Dove stavo io prima...»
«Lo sentite? Troppi detenuti...» ghignò Orecchio Tagliato. «Parla anche lui
come quel tale, quell’ispettore del ministero.»
Il Praga a queste parole lo fissò per un istante. “No, questa merda non in-
tende offendermi” si limitò a registrare, e scostò lo sguardo.
«Non capisco» mormorò il meridionale: «Di quale ministero stai parlan-
do?»
Orecchio Tagliato non avrebbe voluto sprecar fiato con questo fesso. «Mini-
stero degli interni» spiegò di malagrazia. «Una settimana fa è venuto qui da
noi uno sfintere d’ispettore che...» Nuovamente il Praga guardò Orecchio Ta-
gliato: questi allora ricordò di colpo quanto quell’ispezione fosse stata mortifi-
cante per il Praga, e cercò quasi con paura di cambiare discorso: «Beh, ma
queste sono tutte coglionate. Com’è però che tu ‘ferribòt’ non capisci? Se noi
dovessimo mettere questi figli di troia in mano alla polizia ordinaria, per loro
sarebbe troppo comodo, no?»
«Troppo comodo?»
«Uff, che testa di minchia» sbuffò Orecchio Tagliato.
«Ma...» protestò il meridionale.
L’altro, chiaramente, non avrebbe più voluto dargli corda. «Senti» disse al
solo scopo di liquidare l’argomento, «un piano in grado di risolvere la situa-
zione l’aveva proposto lui, l’aiutante capo Praga. Però siccome la nostra dire-
zione ragiona coi coglioni e non con la testa... È chiaro?» Concluse con un vol-
gare schiocco della bocca, in segno di sprezzo per la direzione che non aveva
compresa l’utilità di quel piano.
Si fece silenzio.
«Quello sì ch’era un piano» non seppe però impedirsi d’osservare di lì a po-
co l’altro, lo Smorto. «Ci pensate? Nel nostro piccolo avremmo finalmente po-
tuto operare anche noi al modo della Gestapo e dell’Enchevedé, e invece...»
Seguì un nuovo silenzio; per alcuni lunghi secondi non si udì che la musica
della radio, la solita musica sconclusionata, il riempitivo del nostro tempo:
assurdo che una musica simile facesse da accompagnamento anche alle atroci
cose che si succedevano in quei giorni.
Il piano del Praga, cui i due alludevano, era incentrato sulla proposta di tra-
sformare il corridoio più basso della ‘sezione speciale’ in locale per le elimina-
zioni. Quel corridoio (già ora dotato d’un grosso montacarichi che sembrava
fatto apposta per l’allontanamento dei cadaveri) si trovava tre piani sotto il
livello stradale: i colpi d’arma da fuoco sparati laggiù non si sarebbero potuti
sentire all’esterno.
«Scusa» tornò a un certo punto poco intelligentemente alla carica il meri-
dionale, nel tentativo d’uscire una buona volta da quei discorsi allusivi e con-
tinuamente troncati: «Come hai detto? L’Enche... Cosa?»
Lo Smorto lo considerò per un istante in silenzio. «L’En-che-ve-dé» sillabò
poi, come si fa coi bambini: «la polizia russa. Mm?»
«Ah.»
«Quest’estate due ex agenti russi, che adesso lavorano nella Gestapo, sono
stati a Milano» andò avanti lo Smorto. «E noi» indicò il Praga a precisare: io e
lui «abbiamo avuto modo di parlarci. Mm?»
«E che v’hanno detto?»
«Eh!» fece lo Smorto «sarebbe lunga. È solo perché ti renda conto che noi
dell’Enchevedé non parliamo a vanvera» specificò con losca albagia. «Uno dei
due, oltre tutto, aveva operato a Catin, mi spiego?»
«A dove?»
«A Catin.»
«E cos’è?»
«Neanche questo sai? È il posto dove i servizi di sicurezza russi hanno li-
quidato gli ufficiali polacchi prigionieri. Era sui giornali.» «Ah, sì, questo lo
ricordo: tutti con... un colpo alla nuca.»
«Ecco, bravo: lavoro in serie. È stato precisamente quel tale, quello con cui
abbiamo parlato noi due, a condurre i tedeschi sul posto; dopo, s’intende, che
l’avevano incorporato nella Gestapo.
L’altro cechista invece, più elevato in grado... Che grado aveva l’altro
nell’Enchevedé?» chiese lo Smorto al Praga.
Il quale neanche stavolta rispose.
«Prima della guerra quell’altro prestava servizio alla Butirca, che è la più
gutt - a sentir lui - delle prigioni di Mosca. Là in certi anni, nel 37 per esem-
pio, hanno fucilato in media mille persone al giorno. Mi spiego? Portavano
fuori dai sotterranei i morti a camionate, a volte i camion non ce la facevano a
portarli via tutti. E sì che non c’era la guerra allora...» Ciò dicendo lo Smorto
annuiva a sé stesso, come preso da una tale visione; infine tentennò la testa:
«La nostra direzione invece continua a respingere gente da ‘trattamento spe-
ciale’ soltanto perché ci manca lo spazio... E tu ‘ferribòt’» concluse passando
grossolanamente alla celia «vorresti quasi mandar via anche i pochi che ab-
biamo qui.»
«Io dicevo così solo per... per scherzo» farfugliò il meridionale. “Accidenti
però” pensava intanto, “accidenti, in che razza di posto son capitato! Che ci
fosse del marcio l’avevo capito, ma fino a questo punto! E per cosa poi mi son
fatto trasferire qui? Soltanto per quella miseria di stipendio in più!” Cominciò
a ripulire nervosamente, con gesto quasi di lavacro, una manica su cui gli era
caduta della cenere.
Lo Smorto notò il suo disagio e sorrise.
S’era fatto ancora una volta silenzio, non si udiva che la musichetta della
radio. Il Praga adesso non poteva più distogliere la mente dall’ispettore del
ministero. Il fatto è che questi discorsi da bestie gli avevano riaperta dentro la
ferita. Il comandante la sezione speciale, pur senza accogliere il suo piano, gli
aveva risposto con ogni riguardo, sapendo con chi aveva a che fare. L’ispettore
del ministero invece, cui il pro memoria col piano era capitato in mano per
caso, era addirittura uscito dai gangheri e aveva voluto parlare con lui, l’autore
del progetto. Subito alle sue prime parole d’argomentazione si era messo a
gridare: «Noi non siamo dei barbari, non siamo come loro» aveva affermato
con voce alterata (alludeva, il porco, non solo ai russi, ma anche ai camerati
tedeschi) : «La volete capire? Qui dentro gli arbitri devono cessare, e anche le
torture vanno contenute nel minimo indispensabile, solo il minimo e basta.
Perché la tortura non rientra nello stile fascista, è chiaro?» Più o meno così
aveva detto; l’aveva in sostanza chiamato barbaro, umiliato. Da tempo non
succedeva al Praga d’essere umiliato. Tanto più l’affronto gli bruciava... Sul
momento era stato per prenderlo alla gola: alla prospettiva però di dover poi
rinunciare per sempre a ciò che ora stava facendo, s’era dominato. Ne con-
venne di nuovo anche adesso: qualunque umiliazione, qualunque affronto,
qualunque cosa, ma non rinunciare a... questo. Poterlo però avere tra le mani
quel bastardo, disfarlo anche lui pezzetto per pezzetto. E non lui solo, ma an-
che il direttore della sezione che lasciava i progetti in giro, e... tutti. Sì, poterle
disfare tutte quante, a mazzi, a caterve, queste sporche bestie che appena pos-
sono ti offendono: la gente. Tutta quanta senza eccezione.
La conversazione degli altri (il meridionale adesso avrebbe voluto togliersi
dal gruppo, ma non osava) procedeva sempre più lasca, con lunghi ristagni. Il
Praga si rese a un certo punto conto che i suoi interlocutori gli stavano facen-
do una domanda; egli però li ascoltava solo in superficie, quel tanto che gli
bastava per guardarsi, al caso, da loro.
Finalmente cessarono anch’essi di parlare, “di vomitare merda” come rea-
lizzò il Praga; si limitavano a fumare una sigaretta dopo l’altra. Ogni tanto
l’aiutante capo guardava le mani esangui dello Smorto: allora, per strana asso-
ciazione, gli tornavano in mente le parole dell’ex cechista, quei camion che
uscivano dalla Butirca carichi di morti, che quasi non ce la facevano a portar
via i cadaveri: quel lavoro in grande, alla moderna. Ecco, i bolscevichi erano
gente seria, precisamente come i nazisti. Non erano dei buffoni come noi fa-
scisti, che consentiamo a qualsiasi cane di funzionario d’insolentire i nostri
servizi di sicurezza; noi che sospendiamo il lavoro per riguardo ai cardinali
che... (espressione irriferibile) i loro rimproveri dal pulpito. Quelli ai loro car-
dinali gli avevano infilato del buon piombo nel cranio. Ecco, erano gente seria;
per questo adesso stavano vincendo la guerra.
Giunse l’ora di cena senza che la radio trasmettesse alcun giornale straordi-
nario.
CAPITOLO SECONDO
Dopo la cena il Praga entrò nel locale in cui, legato strettamente su una se-
dia metallica, il ‘suo’ nuovo prigioniero lo attendeva.
La luce di un riflettore investiva spietatamente il viso dell’uomo, che strin-
geva il più possibile gli occhi, anche se ciò a poco gli serviva; una guardia
camminava avanti e indietro nel piccolo locale, tenendosi fuori del fascio di
luce cruda. Il Praga le fece col mento un cenno di congedo. «Non s’è quasi
mosso» riferì la guardia, ed eseguito un saluto sommario sgombrò volontieri.
L’aguzzino prese uno scranno, lo sistemò di fronte alla vittima e, teso pro-
fessionalmente un braccio, ruotò alquanto il riflettore, così da scostare dal suo
viso il fascio di luce. Il prigioniero aprì verso di lui gli occhi momentaneamen-
te ciechi.
«Sei nelle mie mani» gli disse l’aguzzino. «Non sei stupido, quindi sai che
non hai scampo. Tu non hai assolutamente scampo.»
L’altro cercò di scostare da lui lo sguardo degli occhi che non vedevano.
“Accecarlo col ferro” si disse il Praga: “Prima di ucciderlo ricordarsi di acce-
carlo”. Prima ancora però avrebbe dovuto farlo cantare, e questa non si pro-
spettava impresa facile. “Uno così potrebbe trovare il modo di farmi fesso, di
morirmi tra le mani senza parlare” rifletté con un’ombra d’angustia
l’aguzzino.. A tale prospettiva un gorgo d’odio per la vittima prese a formargli-
si dentro. “Attento, cerca di dominarti” s’impose.
Contemporaneamente l’altro, che malgrado la sofferenza agli occhi e al cer-
vello si rendeva conto di come le cose stessero mettendosi per lui (aveva effet-
tivamente torturate molte persone, e stavolta sarebbe toccato al suo corpo di
subire le cose nefande ch’egli aveva con sadismo inflitto ad altri corpi) lottava
fino allo spasimo per non farsi fuorviare dal panico.
Quand’era stato introdotto in questo locale egli ne aveva afferrato il caratte-
re per così dire di ‘privatezza’, e nello stato di tetra impotenza in cui versava
s’era infiltrato, malgrado tutto, un incerto, oscuro senso di possibilità: “Se
adesso avrò a che fare con uno solo, posso anche riuscire a corromperlo... sì,
forse...” Uscito il Praga - finché non era stato assorbito per intero dalla lotta
fisica contro la luce accesagli in viso - si era dato da fare per imbastire un pia-
no: “Devo puntare sul fatto che loro sanno d’essere alla fine. In cambio della
mia vita io gli posso offrire la sua e l’impunità (se non è un? bestia, è impossi-
bile che non pensi al dopo...) Ma riuscirò credibile? Ecco il punto. E non devo
trascurare i soldi, un mucchio di soldi: questi porci borghesi vogliono i soldi.
Una prima rata, e consistente, bisognerebbe fargliela avere subito, come ca-
parra... La cosa più importante è però quello scambio: la mia vita, contro la
sua vita e l’impunità.” Ma sempre più disturbato dalla luce, non era arrivato a
concretare un vero piano; doveva dunque farlo adesso,, e senza perdere tem-
po.
«Ti avverto una volta per tutte» gli disse lentamente il Praga: «appena ti
deciderai a parlare, la tortura cesserà. Non solo, ma ti toglieremo subito il do-
lore con la morfina. Se no...» Volle assicurarsi che quello avesse capito: «Hai
capito quello che ho detto?»
Per un istante l’altro non pensò al proprio piano: girò di nuovo su di lui gli
occhi semiciechi: «So che tu mi torturerai lo stesso, che non cesserai di tortu-
rarmi finché io avrò un filo di vita.» L’aguzzino si mise a ridere. «Capisco:
questo è quello che faresti tu» (avvertiva di non sbagliare); «ma io? Certo po-
trei fare anch’io la stessa cosa. Però» (e qui mentì, e godeva acutamente anche
di questo, di mentire, il bel gioco era ormai cominciato) «non lo farò. Ti giuro
che se parlerai cesseremo del tutto di torturarti, e ti ripeto e ti giuro che ti to-
glierò immediatamente il dolore con la morfina.» Fece una pausa, rise di nuo-
vo: «Tu non hai scelta, ti rendi conto? Se costretto a correre il rischio di cre-
dermi.»
L'altro non rispose; avvertiva che doveva concentrare tutto il proprio acume
nella ricerca d'una via d'uscita, senza più perdere un istante.
«Adesso a noi» proseguì l’aguzzino. «C’è rischio che una volta nei tormenti
tu non capisca più niente, e creda la morte vicina. Disilluditi: con uno come te
io doserò i trattamenti non per giorni, ma per settimane. Mi hai capito? Setti-
mane di trattamento. Hai afferrato bene? E ogni minuto sarà per te come
un’eternità. Ti disferò punto per punto, punto per punto.» Detto questo azzit-
tì, cercando con avidità le possibili reazioni d’angoscia dell’altro.
«C’è una cosa» gli oppose allora il prigioniero con voce alterata: «che tutto
questo i miei lo sapranno. Ci sono alcuni qui dentro - più di uno - che glielo
riferiranno. E per voi ormai la va a pochi: qualche mese al massimo, poi toc-
cherà a te.»
«Ah sì? Ma bene. Allora senti: io per prima cosa ti...»
Il lettore ci esimerà dal riferire la minuta elencazione, e quasi descrizione
dei nefandi tormenti cui il Praga intendeva sottoporre la sua vittima. Un filo di
saliva cominciava a colargli dalla bocca, il suo parlare si faceva a momenti da
lento incalzante: malgrado la stanchezza che l’opprimeva, gli tardava
d’iniziare il ‘trattamento’, riusciva sempre meno a sopportare l’indugio.
L’altro se ne rendeva conto essendo passato a suo tempo per stati d’animo
analoghi: doveva, dunque portare avanti al più presto il proprio tentativo:
“Perché sta già per essere troppo tardi”. Ma in che modo entrare in argomento
con reale efficacia, e senza sbagliare?
Lo indirizzò, lui pressoché inconscio, la presenza demoniaca che albergava
in lui allo stesso modo che nel Praga: lo fece esplodere anzitutto in una filza di
bestemmie straordinariamente triviali. Dopo le quali tacque, come estenuato.
«Cos’hai?» fece il Praga: «Non dirmi che cominci già a piagnucolare.»
«Chi, io?»
«Allora?»
«Non riesco proprio a capire come...» (e qui una sconcia bestemmia) «tu ti
trovi dalla parte sbagliata.»
«Va avanti.» (“La lingua: ricordarsi di trattargli la lingua col ferro.”)
«Secondo me il tuo posto non è con questi porci che sono ormai fottuti, ma
con noi» e lo guardò fisso in faccia; cominciava a vederci adesso.
«Mi deludi» sussurrò con occhi ridenti il Praga. «Non dirmi che cerchi di
convertirmi.»
“Ormai non posso fermarmi, devo continuare” s’impose il prigioniero, an-
che se i suoi sforzi cominciavano ad apparire a lui stesso vani, risibili; la pre-
senza ‘altra’ che era in lui però non gli consentiva d’interromperli, lo sospin-
geva: «Ti propongo uno scambio... I miei capi a me tengono molto. Di questo
ti rendi conto?»
«Sì» rispose convinto il Praga. Era proprio curioso di vedere dove, nel ten-
tativo di salvarsi, quello avrebbe parato.
«Se uno mi restituisse loro, qualunque cosa abbia fatto in precedenza... fos-
se anche il capo della polizia... sistemerebbe la sua posizione.»
«Cosa vuoi dire? Che mi darebbe dei soldi?»
«Se è questo che vuoi. Ma dipende da te.» Improvvisamente il prigioniero
ebbe un’illuminazione’: «Potrebbero darti invece un posto nella nostra poli-
zia... e se per caso hai da aggiustare i conti con qualcuno, saresti dalla parte
vincente stavolta.» Aggiunse, come parlando tra sé: «Qui non avete la più pal-
lida idea delle possibilità che abbiamo nella polizia comunista.»
“Chi ti dice che non ne ho l’idea?” pensò il Praga, cui erano subito tornati in
mente i discorsi dei due ex cechisti sul massacro di Catin e sulle fucilazioni
sistematiche che a Mosca si succedevano anche in tempo di pace. Anche in
tempo di pace! “Io ne so forse più di te.”
«Va avanti» si limitò a dire, sempre con l’aria di divertirsi, di non credergli.
«Prova per un momento a vedere le cose dalla nostra parte: se un partigia-
no di qualsiasi colore accoppa uno, non importa chi, tutta la gente lo ringrazia
e basta. E dopo, a guerra finita e vinta, ti ringrazieranno ancora di più tutti
quanti, anche i non comunisti, per quello che avrai fatto. Ti rendi conto?»
“Troppo tardi per me” pensò a questo punto con una sfumatura di reale
rammarico il Praga. Egli non si sentiva fascista: per lui il fascismo non era mai
stato altro che un mezzo (precisamente come, né più né meno, le nebulose
teorie comuniste per il suo prigioniero). Però aveva per troppi anni fatta vita
comune coi fascisti. Gli venne in mente il direttore della Banca Artigiana
d’Incastigo: quello un intero paese sapeva che lui l’aveva deportato in Germa-
nia.
«Non cerco d’ingannarti per salvarmi» continuò l’altro, che cominciava ad
avere un’incerta percezione d’entratura. «Noi non abbiamo bisogno
d’ingannarti: perché per noi uno come te sarebbe obiettivamente utile, ed è
solo questo che a noi importa.» Parlava con sincerità: molti dei suoi compagni
comunisti - egli lo sapeva -non avrebbero voluto nelle loro file un individuo
abietto come lui: ciononostante erano dalla dottrina costretti ad accettarlo e a
fargli anche molto spazio. Per la morale comunista infatti un delinquente non
è più un delinquente ma un eroe, se lavora (se delinque) per la rivoluzione.
Non doveva però portare il discorso troppo sull’astratto... «Senti, per dimo-
strarti che in questo momento non sto parlando a vanvera, voglio darti una
prova: dimmi dove vuoi che io faccia depositare una somma per te; non devi
fare altro che dirmelo e concedermi quarantotto ore di tempo. Fissa tu la ci-
fra.»
«Una prova? E voi» rispose - senza rendersi conto se parlasse per scherno
oppure no - il Praga «provvedereste nel giro di quarantotto ore?»
«Sì» disse l’altro sempre più attento, nonostante la testa gli dolesse da
spaccarsi. «Guarda» aggiunse «mi espongo del tutto: basterà che nel frattem-
po tu mi faccia sorvegliare nella stessa cella dalle stesse guardie che mi hanno
sorvegliato finora.»
Il Praga, lasciato il suo scranno, fece qualche passo avanti e indietro nel pic-
colo locale, sforzandosi di riflettere. «Come prova non voglio soldi» disse a un
tratto «ma un’altra cosa: che facciate fuori uno che dico io. E non in quaran-
totto ore, ma entro domani sera.»
«Uno dei nostri o dei vostri?»
«Dei miei, un fascista. Puoi?»
«Sì, credo di sì.»
«Non dovrebbe essere difficile. Si tratta d’un funzionario del ministero degli
interni» disse il Praga: «Vedi che mi sto esponendo anch’io? Ti riferirò certi
particolari delle sue abitudini, così non perderete tempo.» “Cominciamo col
far fuori quel bastardo” aveva deciso: “Questa può essere un’occasione unica.”
Non che, poi, fosse intenzionato a mettersi davvero coi partigiani. Non ci pen-
sava neppure. Per ora almeno.
Gli agenti di servizio non mostrarono meraviglia quando, poco più tardi, il
Praga ordinò loro di riportare il prigioniero intatto nella sua cella: «Perché
stasera sono proprio cotto»; e aggressivamente: «Va bene? Non vorrei comin-
ciare male un lavoro importante come questo.» Gli sorrisero e non si meravi-
gliarono, quella sera.
Si meravigliarono invece, e si spaventarono, e fecero un notevole chiasso la
notte successiva, quando constatarono che l’aiutante capo Praga era sparito
insieme con l’importante prigioniero.
II
CAPITOLO TERZO
***
Per le vacanze di Natale tornarono a casa i più giovani, e raccontarono del
freddo sopportato: erano costretti a studiare col cappotto addosso e una co-
perta intorno alle gambe, la quale coperta - spiegavano - se era utile alle gam-
be, poco giovava ai piedi.
Li aveva riportati a Nomana l’autista Celeste, con la Millecento che adesso
funzionava a gasogeno. Sulla linea ferroviaria infatti il pericolo dei mitraglia-
menti aerei s’era fatto continuo: l’aviazione alleata cessati i bombardamenti in
grande stile, stava ora perseguendo con tenacia obiettivi minori, tra cui la di-
struzione delle locomotive ferroviarie, e due delle quattro ‘littorine’ in eserci-
zio sulla linea di Nomana erano state messe fuori uso. Quasi in compenso ave-
va però ripreso a funzionare un discreto numero d’automobili civili: a gasoge-
no appunto, cioè a carbone di legna o addirittura a legna; diversi ingegnosi
artigiani - copiandosi l’un l’altro - costruivano gli apparecchi necessari (in ge-
nere di forma cilindrica, vagamente somiglianti a scaldabagni) che applicati
posteriormente alle vetture consentivano loro di viaggiare a modesta velocità.
Anche le forze armate della repubblica andavano applicandoli ad automobili e
autocarri, e perfino i tedeschi che - sebbene fossero molto inferiori per mezzi
bellici agli ‘alleati’ - sembravano tuttavia disporre ancora di benzina a suffi-
cienza.
CAPITOLO QUARTO
Il pranzo di Natale di quell’anno 1944 - cui parteciparono anche gli zii sfol-
lati - fu davvero modesto: riuscì festivo quasi soltanto a causa dei rametti
d’agrifoglio che Francesca e Alma avevamo colto in giardino e disposto sulla
tovaglia: «Chi ha messo qui questi impicci?» aveva chiesto Fortunato allonta-
nandone un paio dopo essersi seduto a tavola.
«È Natale, e bisogna ricordarlo» gli aveva spiegato Alma.
«Evviva» aveva gridato Giudittina, battendo solitaria le mani.
Quando tutti ebbero preso posto, la madre Giulia avviò l’abituale preghiera:
‘Benedici o Signore questo cibo,’ ‘e fa che serva a tua gloria, e a nostra salute
e salvezza’ risposero i figli, con la consueta sfumatura di cantilena.
Siccome era Natale Giulia volle fare un’aggiunta: ‘Fa o Signore che, come
noi, anche quei nostri due figli lontani, Manno e Pino, possano... in questo
santo giorno possano...’ Era stata sorridente fino a quel momento, ma in quel
momento scoppiò a piangere. «Oh, Manno, Manno mio!» esclamò alzandosi
in piedi e lasciando il locale.
Francesca scattò a sua volta in piedi, lei pure con le lacrime agli occhi; ma si
alzò anche Gerardo, e fatto segno a Francesca di rimettersi a sedere, seguì la
moglie; i due coniugi tornarono di lì a poco in sala, Giulia sforzandosi peno-
samente di sorridere.
Gli altri si diedero allora a parlare di Pino, che in Svizzera era al sicuro e
fuori d’ogni pericolo. «Con certezza al sicuro» sottolineavano i due figli mag-
giori, avendo cura di farsi sentire dalla madre: sul suo conto si poteva stare del
tutto tranquilli. E le zie di Monza ai ragazzi più giovani: «Ricordatevi, eh, guai
a voi se dite che Pino è in Svizzera, se lo fate sapere in giro. Guai a voi.» Di
Manno però nessuno se la sentiva di parlare, perché questo era già il secondo
Natale senza sue notizie. Anziché di lui Ambrogio parlò di Colomba, alla quale
qualche giorno prima aveva telefonato per gli auguri. «Ha detto che
quest’estate verrà a Nomana.» Gli altri lo sapevano già, ma s’interessarono
ugualmente della cosa, insistendovi finché la tensione un po’ alla volta si ri-
dusse e la conversazione stabilì.
Gli uomini finirono col portarla sull’incredibile capacità produttiva
dell’industria tedesca, della quale presero a occuparsi in modo quasi profes-
sionale: «Producono abbastanza da alimentare la guerra su tutti i fronti» ri-
cordò il padre: «tanto che se mai sono gli uomini che in conclusione gli man-
cano, non le armi o i materiali. Eppure la Germania è sotto i bombardamenti
aerei si può dire giorno e notte. Come fa a produrre ancora a quel modo?»
«Certo» osservò lo zio Ettore, con la sua aria un po’ artificiale a causa degli
occhiali a pince-nez: «non può essere soltanto questione di volontà, o di forza
di carattere. Ci dev’essere qualcosa di nuovo, nei metodi o non so, che a noi
sfugge.»
«Che abbiano messe le industrie in bunker, in caverna?» propose Fortuna-
to. «Ma no» si rispose subito egli stesso: «per quanto estesi, i bunker non pos-
sono coprire che una piccola parte delle fabbriche. I tedeschi non possono
aver risolto il problema dei bombardamenti blindando le industrie.»
«No di certo» convenne il padre, «e non credo nemmeno che sia questione
di un prolungamento d’orari, o di un maggior impiego di mano d’opera, per
esempio di prigionieri, o femminile: da anni le loro fabbriche lavorano sia di
giorno che di notte.»
«Come faranno allora?»
«Bisogna dire che qui a Milano» fece presente lo zio Ettore «tutto sembrava
distrutto, avete visto. Eppure nel giro di pochi mesi la vita è ripresa, e adesso
la città produce.»
«D’accordo» disse Ambrogio: «ma a Milano hanno distrutto soprattutto le
case, non le fabbriche: le zone industriali vere e proprie, come quella di Sesto,
non le hanno si può dire toccate. Proprio per questo la città s’è ripresa. In
Germania invece insieme con le case bombardano di continuo anche le indu-
strie.»
«Non solo» osservò Fortunato che, sebbene ventenne, era d’un realismo
stringente: «C’è da dire che se Milano dopo l’agosto dell’anno scorso fosse sta-
ta bombardata ancora altre volte a quel modo, adesso non produrrebbe di si-
curo.»
«E allora? Di fabbriche gliene distruggono ogni giorno, questo è fuori di-
scussione. Dobbiamo pensare che i tedeschi non solo le ricostruiscano in mo-
do sistematico, ma che con quelle in funzione abbiano trovato il modo di pro-
durre di più, molto di più degli altri? È possibile?»
Era possibile e s’era proprio verificato. Grazie al sistema dell’ ‘autorespon-
sabilità dell’industria’ introdotto dal ministro per gli armamenti Albert Speer,
insieme a un’estrema specializzazione delle produzioni: ciascuna fabbrica do-
veva limitarsi a produrre un’unica arma o meglio ancora parte di arma, però
in quantità il più possibile elevata; per superare di continuo la quale ogni in-
dustriale era lasciato libero di fare ciò che meglio credeva: non aveva problemi
di collocamento - ecco il punto essenziale - perché il ministero acquistava tut-
to il prodotto. Seguendo tali criteri la produzione bellica tedesca si era - nono-
stante le immense distruzioni - triplicata in tre anni, senza che la mano
d’opera in essa occupata avesse avuto, o quasi, bisogno d’essere aumentata.
Questo però lo si sarebbe appreso solo a guerra finita.
(Considerazioni molteplici si potrebbero fare sul sistema introdotto da Al-
bert Speer. Un razzista vi potrebbe scorgere una conferma della superiorità
germanica. Al contrario - poiché più tardi lo stesso Speer spiegò che il sistema
era stato ideato, anche se non potuto introdurre, da Walther Rathenau, l’ebreo
preposto all’economia bellica tedesca durante la prima guerra mondiale - un
filosemita vi potrebbe scorgere una conferma della superiorità
dell’intelligenza ebraica. A un livello decisamente più pratico i quattro indu-
striali lombardi riuniti a Nomana intorno al tavolo natalizio avrebbero potuto
trovarvi una conferma alla loro radicata convinzione: che se l’industriale capa-
ce non avesse intralci commerciali, potrebbe - coi soli mezzi di cui dispone, e
senza bisogno di altri - moltiplicare la propria produzione. Quanto a noi, se ci
si consente di dire la nostra, ci limiteremo a notare che grazie a tale sistema la
guerra poteva, nonostante le immense distruzioni che causava, seguitare ad
alimentarsi: poteva cioè continuare, e con la guerra potevano continuare le
sofferenze ad essa connesse; in altre parole la geniale trovata di Speer-
Rathenau si configura ai nostri occhi soprattutto come un impensato, effica-
cissimo strumento dell’autopunizione dell’uomo in quel periodo.)
Dalle inspiegabili capacità produttive tedesche il discorso si spostò ad ar-
gomenti più terra terra, come la spedizione dei pacchi di generi alimentari ai
soldati nomanesi prigionieri in Germania, che proseguiva pur tra feroci diffi-
coltà.
«A proposito: Pierello seguita a non scrivere?» chiese Ambrogio alle sorelle.
(Pierello era quel suo coscritto che aveva per abitudine di allargare le braccia e
alzare gli occhi al cielo: chissà se il lettore lo ricorda ancora. Rientrato in
Croazia dopo la licenza durante la quale aveva accompagnato in visita da Am-
brogio quella povera mamm Savina, era stato all’armistizio deportato dai te-
deschi, e adesso si trovava in una delle zone di maggior tragedia, nel settore
nord-orientale della Germania, vicino al vecchio confine con la Polonia.)
«Purtroppo non ha scritto ancora» rispose Francesca. «Anche stamattina
dopo la messa io e Alma abbiamo parlato con sua madre. È ormai da ottobre
che non riceve posta: è preoccupatissima, povera donna.»
«In quella famiglia» ricordò Almina «hanno già un disperso in Russia, un
cugino che abita al Casaretto: Tito, fratello di quel Giacomo che porta la croce
grande nelle processioni. L’avete presente?»
«Giacomo? Sì, certo» disse Gerardo.
«Comunque finora nessun pacco indirizzato a Pierello è tornato indietro,
vero?» chiese Ambrogio. «Questo potrebbe anche, chissà, essere un buon se-
gno. L’avete detto a sua madre, come si chiama quella povera donna, a Erme-
linda?»
«Sì» rispose Francesca «gliel’ho appunto detto. Però mi capisci, non è un
argomento che possa rassicurarla.»
«D’accordo.»
La figura della madre angosciata di Pierello si fissò nella mente
d’Ambrogio; ad essa finì con l’associarsi un’altra immagine ancora più dolen-
te, quella di Lucia, la madre di Stefano che - da due anni ormai - era inchioda-
ta alla stessa terribile croce.
CAPITOLO QUINTO
***
Il giovane tornò a casa pieno di tristezza. Mentre camminava sulla carrarec-
cia gelata gli tornarono in mente i suoi pensieri fiduciosi di qualche anno pri-
ma, alla vigilia della guerra, quando gli sembrava che la morte non avesse
niente, ma proprio niente da spartire con lui e con quelli della sua età. Invece
quanti se n’erano già andati! E chissà se anche Stefano... Basta. Giustina piut-
tosto. Due sbocchi di sangue... Se si trattava - come probabilmente si trattava -
di tisi, la situazione era preoccupante. “E quel povero Luca...! Tagliato fuori da
casa, con la prospettiva in fondo a ogni pensiero di rivedere la sua ragazza, e
invece chissà se la ritroverà! ”
Da un prato chiazzato di neve si levò improvvisamente a pochi passi da lui
un bell’uccello invernale color ruggine, una viscarda, che dopo alcuni risoluti
colpi d’ala andò planando a posarsi più in là, sulla cima d’uno dei biancospini
che fiancheggiavano la carrareccia. Dalla cima spoglia l’uccello osservò - di-
menando il collo - il giovane venire avanti, poi spiccò nuovamente il volo: sta-
volta non si fermò, seguitò a volare verso tramonto fino a scomparire nella
foschia. Ambrogio fece alt sotto il biancospino: proprio in questo punto aveva
incontrata Giustina alla vigilia della guerra la sera che le aveva detto: «Hai
paura che ti mangi?» e lei arrossendo aveva risposto: «No. So che sei un ra-
gazzo pulito di fuori e di dentro.» “Per fortuna non sono superstizioso” si disse
riprendendo a camminare: “Se no chissà che significato darei a quell’uccello
che, giusto da qui, s’è allontanato fino a scomparire nel fosco.” Gli venne in
mente suo cugino Manno: “Ci fosse qui lui, forse un significato lo vedrebbe in
questa storia, convinto com’è che tutto, anche le cose, partecipano alla sorte
degli esseri umani...” Poi si rimproverò di lasciarsi suggestionare a questo
modo, e da cosa in fin dei conti? dal volo d’un uccello. “Come non fosse nor-
male incontrare viscarde d’inverno”.
CAPITOLO SESTO
***
Quando la mattina dopo Giulia e Francesca erano entrate nella corsia, Giu-
stina era passata per un nuovo spavento: era dunque così grave che le signore
si disturbavano per venirla a trovare? Le aveva osservate avvicinarsi al letto
coi suoi occhi marroni, grandi come quelli di Stefano, sbarrati, e il collo, lungo
e gentile, rigido, come paralizzato. La signora Giulia s’era affrettata a rompere
quel malefico incantesimo baciandola sulle gote, così come avrebbe baciata
una delle proprie figlie.
“Non ha paura dei microbi” constatò con indicibile sollievo la malata “non
ha paura della malattia! Allora, forse, non sono così grave”.
Le due donne erano rimaste più di un’ora con lei, sedute accanto al letto, e
poco alla volta erano riuscite a farla parlare, a farla conversare. Francesca so-
prattutto, col suo chiacchiericcio piano che la riportava a giorni e a ore mera-
vigliosamente diversi. Giustina finì col rilassarsi alquanto, anche se la serenità
dei momenti che Francesca rievocava, confrontata con la presente pena, le era
motivo di nuova sofferenza. Madre e figlia se ne andarono dopo essersi fatte
promettere che, in attesa dell’esito delle analisi, Giustina si sarebbe applicata
con impegno ad alimentarsi - se necessario anche contro volontà - e a riposare
il più possibile.
«Guarda che l’hai promesso, non dimenticare che ce l’hai promesso, eh!»
l’ammonì Francesca nell’accomiatarsi: «Ti preparerò anch’io ogni giorno
qualche cosa di buono, e io o la mamma oppure Alma verremo a trovarti e te
lo porteremo. Tu però devi mangiare.»
«E riposare: anche quello è importante» le ricordò Giulia: «devi cacciare via
tutti i pensieri, e sforzarti di riposare il più possibile.»
Le visitatrici non poterono tuttavia venirla a trovare molte volte, perché il
responso delle analisi fu disastroso: «Tisi galoppante» come riferì il dottor
Cazzaniga, direttore dell’ospedale, al signor Gerardo, che dell’ospedale era il
presidente: «e a uno stadio molto avanzato purtroppo. Temo che non ci sia
alcuna possibilità di salvarla.» Decisero di avanzare subito richiesta per
l’inoltro della ragazza in un sanatorio: «Per scrupolo di coscienza» specificò il
medico «soltanto per questo. Non perché io nutra qualche fiducia. Vorrei sba-
gliarmi, si capisce, ma...» e tentennò la testa.
Era un medico giovane, freddo, molto abile. Gerardo sapeva che difficil-
mente sbagliava una diagnosi: alle sue orecchie questa suonò pertanto come
una sentenza di morte.
Il giorno dopo l’Epifania Giustina fu caricata in barella sull’autolettiga
dell’ospedale e portata in sanatorio. L’autolettiga (una Millecento carrozzata
in legno, con due croci rosse dipinte sui fianchi, e i vetri smerigliati) non aveva
un autista fisso: la guidavano Celeste oppure Massimino, cioè gli autisti della
ditta del presidente dell’ospedale; e toccò a Celeste di portare via Giustina da
Nomana per sempre.
CAPITOLO SETTIMO
Nel corso di quello stesso gennaio l’ufficio postale restituì al comitato per gli
aiuti ai prigionieri un pacco tornato dalla Germania con la motivazione (in
tedesco ovviamente): ‘Destinatario deceduto per cause belliche’. Ciò diede
luogo, nello scantinato ove si confezionavano i pacchi, a commenti diversi.
«Povero Giovannino, anche lui è morto. Così svelto che era!» «Chissà come
sarà successo?»
«E i suoi che non lo sospettano nemmeno.»
«Ma chi è questo Giovannino?» domandò il signor Ermanno Ghezzi, ma-
gazziniere nella ditta di Gerardo, preposto alla confezione dei pacchi: «Forse
quel ragazzo della Lodosa, il figlio d’Ermelinda, che non scrive da mesi?»
«No signor Ermanno: quello non si chiama Giovanni, ma Piero.»
«Ah, infatti, Pierello. Quello non c’entra.»
Uno disse: «Fa un po’ vedere il pacco. ‘Giovanni Morganti’. Sì, questo face-
va il garzone dagli Erba. Non lo ricorda, signor Ermanno?»
«Ah, il garzone del fornaio. Sì, adesso lo ricordo.»
Altri commentarono: «Aveva la faccia che pareva sempre infarinata, povero
Giovannino.»
«Giovannino Faccia-infarinata, infatti.»
«Proprio così, Faccia-infarinata lo chiamavano. A casa sua non sanno anco-
ra niente.»
«Sì, lo ricordo anch’io: è uno che andava sempre in giro in canottiera.»
«Era del 21, la stessa classe del Pierello Valli, e dell’Ambrogio Riva, e di quel
contadino della Nomanella disperso in Russia, come si chiama? Stefano.»
«Giovenzana Stefano.»
Nessuno dei presenti sapeva che Stefano, prima di morire, aveva creduto di
scorgere nel viso del bersagliere sconosciuto che s’era chinato su di lui, il viso
di questo suo coscritto Giovannino Faccia-infarinata. Nessuno l’avrebbe mai
saputo.
«E adesso? Come facciamo ad avvisare i suoi?»
«Non tocca mica a noi.»
«A chi tocca?» chiese una ragazza.
«Mah.»
«A me no» intervenne lo scriteriato portalettere Chin, che dopo aver conse-
gnato il pacco si era trattenuto per sentire i commenti: «A me no, sia chiaro.
Non tocca a me.»
«E chi dice che tocca a te?» lo rimbrottò l’ex sergente Mario Alfieri, che
aveva lasciato mezzo piede in Albania.
«Né a me, né al mio ufficiale postale» insisté Chin, allargando, giacché
c’era, la difesa anche al suo superiore.
«Il tuo ufficiale postale? Che discorso è?» lo scherni la Isa, studentessa:
«Chi ti dice che l’ufficiale postale sia tuo o di chiunque altro?»
Tutti tentennarono la testa con compatimento.
«È il mio capo.»
«Piantala Chin» lo ammonì il signor Ghezzi Ermanno: «Cerca di farla fini-
ta.»
«Ma a chi tocca avvisarli, i famigliari?» chiese la ragazza che già aveva for-
mulata la domanda.
«Facciamo così: io adesso stacco dal pacco l’indirizzo e la scritta in tedesco»
disse il signor Ghezzi «e li porto al podestà. Deciderà lui.»
***
Passarono altri giorni e Pierello seguitava a non dare notizie. Ogni domeni-
ca dopo la messa Francesca e Alma aspettavano sul sagrato sua madre per in-
formarsi, e per dirle qualche parola di conforto; anche l’ultima domenica di
gennaio la risposta della povera donna era stata negativa: non soltanto il figlio
non aveva scritto, ma una lettera con richiesta d’informazioni inviata dal po-
destà a chissà quale ufficio per prigionieri, seguitava a rimanere senza rispo-
sta.
Francesca e Alma avevano accompagnato per un certo tratto la madre che -
diretta alla frazione Lodosa dove abitava - si stringeva nel suo scialle nero, e
rabbrividiva per il freddo e il disagio. Ma ancor più avrebbe rabbrividito se
avesse conosciuta la reale situazione del figlio.
III
CAPITOLO OTTAVO
***
Uno dei quali, tra gli ultimi, era guidato da un ragazzo forse quattordicenne,
parzialmente in divisa militare, che teneva accanto a sé sulla paglia due grossi
razzi da panzerfaust.
Al vederlo il comandante d’una piccola formazione del Volkssturm schiera-
ta coi soldati - un uomo anziano, dal petto incavato, con spessi occhiali - uscì
dalla trincea e accorse alla strada facendogli segno di fermarsi. Gli occhi del
ragazzo si riempirono di paura mentre - tirando a sé le redini - arrestava il
carro. Il comandante del Volkssturm lo interrogò, gli altri non poterono udire
che parzialmente il dialogo.
«Eri inquadrato nel Volkssturm?»
«Sissignore.»
«Perché hai lasciato il tuo posto e scappi? Non sai che il tuo compito è di
combattere fino alla morte?»
«La difesa dov’ero io, a..., non esisteva più. Siamo rimasti vivi solo in po-
chissimi.»
«E tu allora sei filato a casa tua?»
«Sono tornato a casa. Ma non subito: solo dopo che i panzer russi se
n’erano andati e non esisteva più una linea nostra. La mia casa era lì vicino.»
Si udì una voce dall’interno del carro: «Il ragazzo non scappa. È riuscito a
recuperare due panzerfaust: noi contiamo sulla sua difesa se ci attaccano i
carri.»
Il capo del Volkssturm avanzò di qualche passo e, protendendosi, guardò
sotto la tenda: aveva parlato un uomo dal viso tumefatto, che giaceva disteso
sulla paglia con le braccia piegate in modo innaturale; accanto a lui giaceva
una donna, certo la moglie, forse addormentata, forse svenuta.
«Lei è il padre?»
«Sissignore.»
«Perché il carro non lo conduce lei?»
«Ho le braccia spezzate.» Ci fu una pausa. L’uomo era, con evidenza, rilut-
tante a dare ulteriori spiegazioni.
«Cos’è accaduto?» chiese a mezza voce il comandante del Volkssturm.
L’uomo non rispose.
«Mi dispiace» disse allora il comandante al ragazzo «ma tu scendi e rimani
qui con noi.» S’irrigidì: «Forza, trova qualcuno nella colonna che ti sostituisca
alla guida.»
Il ragazzo non si mosse. Intanto si era fatta avanti la donna che conduceva il
carro successivo, una vecchia; come tutte le donne aveva un fazzoletto sul ca-
po e la figura ingrossata dal cappotto impolverato di neve. «Signor comandan-
te» disse «le spiego io.» E abbassando la voce, e cercando invano di tirare il
comandante un po’ in disparte: «I bolscevichi hanno obbligato il signor Len-
sens a tenere il lume mentre gli violentavano la moglie. Erano un’infinità, sia
dentro che fuori la casa. Lui dopo un certo tempo si è rifiutato di tenere la lan-
terna, e allora loro gli hanno spezzato il braccio, e poi pretendevano che tenes-
se la lanterna con l’altra mano; ma per il dolore lui non poteva e allora gli
hanno spezzato anche l’altro braccio. Ecco cos’è successo.»
Mentre la donna parlava il ragazzo seduto al posto di guida guardava fisso
davanti a sé: ogni tanto le sue labbra avevano dei fremiti, dagli occhi azzurri
cominciarono a colare le lacrime.
L’ufficiale comandante la compagnia, un veterano dal viso asciutto, aveva
intanto a sua volta raggiunta la strada e il carro. Si fece ripetere sommaria-
mente ogni cosa, poi: «Va pure» disse al ragazzo.
«Ma signor tenente...» protestò quello del Volkssturm: «Per regolamento e
sotto la mia responsabilità...»
«Ogni responsabilità qui fa capo a me» disse il tenente, e aggiunse: «pur-
troppo.» Poi ripeté al ragazzo: «Spicciati, su, cercate di non restare indietro
dagli altri.»
Il ragazzo lo guardò coi suoi occhi gonfi di lacrime: «Questi due razzi» bal-
bettò infantilmente, con incontenibile emozione «le giuro che non andranno
sprecati, quelle bestie me la pagheranno.» Agì alle redini, e il carro ripartì
scricchiolando sul ghiaccio, col suo carico di strazio.
CAPITOLO DECIMO
Era trascorsa forse un’ora dal passaggio dei profughi, che da nord-ovest,
dalla zona cioè in cui essi si trovavano attualmente, giunse un improvviso fra-
stuono di cannonate e, assai più debole, di armi automatiche: la solita, tragica
musica dei combattimenti, che una volta ai tedeschi piaceva tanto. Nel silenzio
della trincea - fattosi totale perché ciascuno s’era messo in ascolto - quel deso-
lante rumore giungeva come a ondate, e andava oltre, perdendosi sulla pianu-
ra nevosa.
Forse una formazione di carri russi era capitata addosso alla colonna dei
profughi? Pierello guardò in direzione del tenente comandante, se per caso
decidesse d’accorrere in loro aiuto. Ma l’ufficiale - l’unico che la compagnia
contava - seduto adesso sul bordo posteriore della trincea, non accennava a
muoversi. Puntò anzi, quasi in risposta a quello sguardo, il binocolo nella di-
rezione opposta, verso sud-est, da dove si attendeva l’arrivo del nemico.
Non che l’ufficiale fosse insensibile a quanto stava accadendo: sapeva però
che da un milione e mezzo a due milioni di civili, soprattutto donne e bambini,
erano in quel momento in cammino alle sue spalle verso il Frisches Haff, la
laguna di Koenigsberg, per attraversarla sui precari ‘ponti di ghiaccio’, e inter-
porla tra sé e il nemico. Compito del suo e degli altri reparti armati era, in
questa zona, di mantenere un embrione di linea, sia pure discontinua, che
proteggesse la laguna se non da tutti, almeno dal grosso dei nemici: date le
forze disponibili non si poteva fare altro.
Il suo binocolo individuò a un tratto laggiù, lontano, dove la strada tagliava
una fila d’alberi spogli, un principio di movimento. “Forse ci siamo” pensò
l’ufficiale, e senza staccare gli occhi dallo strumento chiese a uno che gli stava
accanto conferma di ciò che aveva individuato. Diversi binocoli
s’appuntarono; risultò che non di nemici si trattava, bensì ancora di profughi,
i quali arrivarono infatti dopo un certo tempo in lunga fila.
Un’altra colonna sopravvenne più tardi.
I nemici comparvero a mezzo pomeriggio, preannunciati da sinistre colon-
ne di fumo che s’alzarono una dopo l’altra da alcuni villaggi annidati nella
pianura al di là degli alberi. Poco prima di loro arrivarono altri profughi, gli
ultimi: non più sui carri, ma a piedi, e in fuga affannosa; c’erano vecchi ancora
impettiti che arrancavano appoggiandosi al bastone, bambini, donne ansanti
che magari si tiravano dietro per mano un figlio piccolo, il quale a volte cadeva
e veniva trascinato per un certo tratto sul ghiaccio.
Pierello si mosse d’istinto per correre incontro a una di queste donne, ma
un ordine secco di un sottufficiale lo bloccò. Dovette attendere accucciato di
nuovo con gli altri nella trincea, invisibile ai nemici.
Tadeusz, ch’era tornato al proprio posto, pensava con malinconia: “Guarda:
gli innocenti pagano sempre allo stesso modo dei colpevoli, la solita storia!”
Quella fuga spasmodica gli riattizzava dentro una domanda che in quei giorni
lo angustiava molto: cos’era accaduto e cosa stava accadendo nella sua patria,
la Polonia? Tra loro prigionieri circolavano al riguardo voci contrastanti: se-
condo alcune c’erano enormi masse di civili polacchi in fuga verso la Germa-
nia.
Le avanguardie russe che seguivano a non molta distanza i profughi in pic-
coli nuclei a piedi e sopra mezza dozzina di slittoni - macchie grigio-brune sul-
la neve - furono lasciate avanzare, inconsce di ciò che le attendeva, fin sotto la
trincea; solo al momento più redditizio, a un ordine del suo comandante la
compagnia tedesca aprì il fuoco.
Risparmieremo al lettore la descrizione della carneficina operata soprattut-
to dagli spandau, le mitragliatrici-falcianti: non solo gli uomini, ma anche i
cavalli e le slitte, tutto venne crivellato.
Dopo essersi precipitosamente ritirati, i superstiti attesero i compagni che li
seguivano più da vicino e vennero all’assalto, ma furono respinti. Sferrarono
un altro più pericoloso assalto appena scese le tenebre, che avevano consenti-
to loro di portarsi fin sotto la trincea malgrado i razzi illuminanti lanciati dai
tedeschi.
I quali stavolta furono costretti a un difficile corpo a corpo che costò loro
sensibili perdite. Inseguendo il nemico arrivarono fino agli slittoni bloccati nel
primo scontro, e vi scorsero sopra cinque o sei donne tedesche seminude e
legate, uccise insieme ai nemici dal fuoco degli spandau. Allora alcuni dei sol-
dati si buttarono come impazziti sui pochi prigionieri fatti, li stesero a terra a
forza, e mentre quelli urlavano per il terrore strapparono loro gli abiti al fine
di castrarli. Il tenente comandante intervenne appena in tempo: un russo però
era ormai mutilato, e si voltolava ansimando nella neve plumbea, cospargen-
dola di sangue. Il suo corpo sarebbe rimasto là a rinfocolare fino al calor bian-
co l’odio del nemico non appena fosse sopraggiunto, in una spirale sempre più
spaventosa, che ormai era impossibile spezzare.
Qualche ora più tardi la compagnia, ricevutone l’ordine tramite una staffet-
ta in side-car, sgombrò il luogo per trasferirsi alquanti chilometri più indietro,
a difesa d’un altro paese. Rimase sul posto il Volkssturm, coi suoi pochi anzia-
ni e ragazzi male armati, al comando del caparbio vecchio con gli occhiali. Il
quale, mentre gli autocarri della compagnia scaldavano i motori, fece le sue
rimostranze al tenente comandante: «Io ho sentito pochi minuti fa la radio.»
«L’ho sentita anch’io» disse l’ufficiale parlando con lentezza e come masti-
cando le parole, tant’era in tensione per i combattimenti sostenuti (ma quan-
do mai i soldati tedeschi non erano in tensione, in quei giorni?)
«Allora lei saprà, signor tenente, che l’ordine rimane per tutti di non cedere
nemmeno un metro di terreno.»
«Sì, infatti. È un ordine che conosco bene: lo sento da quand’ero in vista di
Mosca.»
Il vecchio batté con ira un piede sulla neve: «Lei non ha diritto di andarse-
ne. Lei è tenuto, come chiunque, a eseguire gli ordini.»
«Proprio così. Eseguo gli ordini del mio comando: ha visto anche lei la staf-
fetta che me li ha portati.» L’ufficiale annuì meditabondo, sempre nervosa-
mente accennando a masticare a vuoto: «Però le dico di più: siccome questa
posizione sarà tra poco indifendibile, anche senza un ordine io l’avrei sgom-
brata. Vuol sapere con certezza cosa, in questo momento, sta facendo il nemi-
co? Ivan è quanto mai monotono, lei non ne ha l’idea: in questo momento sta
aggirandoci sui due lati per stringere in una morsa il paese. Domani con le
prime luci si farà sotto da ogni parte, e nessuno potrà più uscire vivo di qui.»
Il vecchio alzò la voce: «Anche così il suo dovere è di restare.»
«Il mio dovere è di difendere il nostro popolo, in pratica le donne e i bam-
bini, finché è nelle mie possibilità» gli rispose con amarezza l’ufficiale: «dargli
il modo di mettersi in salvo al di là della laguna prima, poi della Vistola, poi
dell’Oder, poi...» S’interruppe: «Io non so se compiangerla o invidiarla» disse:
«per lei tra qualche ora questa storia bestiale sarà finita.»
Così la compagnia - ciò che n’era rimasto - era partita, e poco fuori paese
era stata salutata sulla destra da alcune lontane raffiche di ‘parabellum’: a di-
mostrazione che le previsioni del suo comandante si stavano già realizzando.
***
Nella nuova zona di schieramento, sei o sette chilometri più indietro, le
pervennero dalle retrovie - nonostante il marasma che sconvolgeva l’intera
regione - munizioni e rifornimenti. Gli uomini poterono qui, nel corso di quel-
la notte, dormire a turno nelle case per la maggior parte abbandonate dagli
abitanti. Sopra ogni altra cosa i soldati avevano bisogno di riposo.
La mattina seguente arrivò con grande strepito da tergo, cioè da nord, una
formazione di carri armati tedeschi, perché i comandi - in base alla loro pur
malridotta osservazione aerea - prevedevano in questo punto un attacco di
carri russi. Che comparvero infatti: vennero avanti di corsa sulla pianura, tra-
scinandosi dietro brevi criniere di neve polverizzata. Con enorme sollievo i
carristi tedeschi constatarono che erano in numero appena doppio dei loro
carri: poterono quindi uscirgli incontro e respingerli senza perdite eccessive.
Dopo di che la formazione di carri tedeschi venne trasferita d’urgenza altro-
ve, e la compagnia lasciata sola a difendere la località. Fu impegnata da fante-
rie e da qualche carro, e nel giro d’alcuni giorni dovette sgombrare anche di là.
Si schierò di nuovo lungo un fiumiciattolo gelato, alquanti chilometri più
indietro. Qui ricevette, oltre alle munizioni e ai rifornimenti, anche una venti-
na d’uomini di rincalzo, ch’erano quanto rimaneva di un’altra compagnia del
reggimento cui essa apparteneva. In questa posizione fu impegnata in un mas-
siccio scontro, in seguito al quale dovette ritirarsi dopo avere subito sensibili
perdite.
Tra i nuovi assegnati alla compagnia c’era un prete cattolico, non cappella-
no ma semplice soldato: prima di lasciare la posizione il tenente comandante
lo incaricò di raccogliere, con l’aiuto di Pierello, i piastrini di riconoscimento
dei caduti e i loro portafogli e documenti.
I due - con meticolosità (il prete era pur sempre un tedesco) - sfilarono dal
collo dei singoli caduti i piastrini a medaglia, e vuotarono loro le tasche, que-
ste non senza ripugnanza, perché a volte erano sporche di sangue e in qualche
caso anche di brandelli di interiora. Ne vennero fuori - insieme agli umili og-
getti della vita del soldato, come temperini, pipe, fiammiferi, spago - da alcune
anche immagini pornografiche, da altre corone del rosario.
Il prete passava via via con gesto meccanico ogni cosa a Pierello, il quale ri-
poneva tutto in un sacco. Al giovane le immagini pornografiche (cui non era
abituato) riuscivano sconcertanti, ma gli riusciva anche sorprendente la rela-
tiva frequenza di corone del rosario: si rese conto, meglio che in altre occasio-
ni, delle profonde differenze esistenti nel mondo interiore dei soldati tedeschi,
in apparenza tutti così uguali. A un certo punto le foto pornografiche (quei
discorsi di don Mario là a Nomana...) finirono con l’apparirgli in qualche mo-
do legate, come causa ed effetto, ai brandelli d’intestini, per cui anziché riporle
nel sacco cominciò a buttarle via. Il prete, dopò un istante di sorpresa, lo ap-
provò con la testa e non gliele porse più, ma senza pronunciare una parola. Il
suo atteggiamento pareva se mai suggerire che tanto, al di là delle piccole scel-
te che ancora si potevano fare, la morte era ormai il destino di tutti in Germa-
nia. Dio aveva distolto il suo sguardo dagli uomini: non rimaneva che la mor-
te.
CAPITOLO UNDICESIMO
***
Davanti ad alcuni capannoni nei quali era sistemato il deposito di carburan-
ti, erano in sosta autocarri dell’esercito, da cui venivano scaricati fusti vuoti
che squadre di prigionieri francesi e russi provvedevano a sostituire con fusti
pieni. Si scorgevano qua e là carcasse d’automezzi bruciati, certo ad opera
dell’aviazione russa, ma il deposito funzionava regolarmente. Il maresciallo
entrò anzitutto nell’ufficio per telefonare a un altro deposito, di pezzi di ri-
cambio, situato, a quanto si apprese, a non molta distanza. Ne uscì dopo circa
un’ora, mentre il trattore stava facendo il carico di fusti. Comunicò che il pez-
zo occorrente non si trovava nel vicino deposito, ma in un altro, nel settore
opposto della città; approfittando d’uno degli autocarri in partenza - disse -
egli avrebbe anzitutto raggiunto il comando della polizia per farsi autorizzare,
poi si sarebbe - sempre con mezzi di fortuna - recato al deposito, e infine sa-
rebbe tornato qui al più presto col ricambio. Sperava d’essere di ritorno prima
del buio: in ogni caso i suoi compagni di viaggio l’attendessero senza allonta-
narsi dal trattore.
***
Cominciò l’attesa. Chiuso nel suo cappottone tedesco, con le mani in tasca,
Pierello si mise un po’ in disparte a osservare la fiumana dei profughi che
scorreva molto lentamente sulla strada non lontana, oltre un filare d’alberi
spogli. Tornava a chiedersi se la vedova Hufenbach, Joachim e le lavoranti
della fattoria fossero anche loro per strada a quel modo.
A interrompere i suoi pensieri arrivarono fulminei e bassi - e per contrasto
colorati contro il cielo plumbeo - tre aerei bimotori, che dopo aver investito
con alcune raffiche gli autocarri e i capannoni, si allontanarono sparando in-
cessantemente sulla colonna dei profughi in direzione della laguna caliginosa;
sopra la quale, ormai fuori vista, sganciarono a più riprese il loro carico di
bombe. L’eco delle esplosioni suscitò in Piero - che alzatosi da terra dove s’era
buttato, stava spolverandosi la neve dal cappotto - immagini di voragini aper-
te nel ghiaccio, e di misere donne e bambini e cavalli annaspanti come topi
nell’acqua gelida; gliene venne quasi un senso di nausea.
Ma tutto passa. Passò anche il senso di nausea, passarono alcune lentissime
ore. Andava facendosi buio. La colonna di profughi, dopo essersi ripetutamen-
te fermata, s’era arrestata del tutto: segno, secondo Tadeusz, che i ‘ponti di
ghiaccio’ erano stati interrotti.
A rimanere così all’aperto il freddo si faceva sempre più sentire; perciò il
trattorista tedesco - che tendeva a considerare i suoi due compagni piuttosto
volontari che prigionieri - propose loro di dare inizio a un turno di guardia:
mentre uno dei tre sarebbe rimasto sull’automezzo carico, gli altri due si sa-
rebbero riposati all’interno d’uno degli edifici. Procedettero senz’altro.
I profughi intanto cominciavano a rifluire dalla laguna: i più tornavano in
città, ma molti s’accampavano sotto il primo riparo che gli capitava; l’anziano
sottufficiale tedesco comandante il deposito fece aprire per loro due capanno-
ni vuoti, ed essi vi si stiparono in breve all’inverosimile, mentre non pochi altri
s’accampavano all’esterno, nei carri. Molti raccolsero sterpi e pezzi di legno e
accesero piccoli fuochi, su cui cominciarono a cuocere gli alimenti, adoperan-
dosi anche perché i bambini vi si scaldassero intorno.
Che situazione, pensava Pierello osservandoli dal trattore: in che stato
s’erano ridotti, loro che pure erano gente così in gamba! D’altra parte il castigo
i tedeschi se l’erano voluto, al riguardo non esistevano dubbi. Perché poi gente
che per tanti aspetti era in gamba come nessun’altra, avesse scelto di fare tan-
te prepotenze e mascalzonate, era una cosa che lui - per quanto ci pensasse -
non riusciva a spiegarsela. Mah!
(Noi non troviamo gratuita la sua perplessità. Se è vero che non esistono
popoli superiori, né inferiori, agli altri, è anche vero che ogni popolo ha un
proprio momento di particolare efficacia, in cui è chiamato a costruire con
grandezza non solo per sé ma per tutti, e secondo ogni verosimiglianza il no-
stro avrebbe dovuto essere il secolo dei tedeschi. Li abbiamo visti al culmine
delle possibilità realizzatrici, come devono essere stati gli elleni nel loro tempo
più felice, quando diedero alla civiltà quell’incommensurabile apporto, come i
romani alcuni secoli più tardi, e gli italiani nel medio evo, e gli spagnoli nel
cinquecento, quando furono tali da arrestare nel vecchio mondo la minaccia
dell’Islam e in pari tempo da colonizzare il nuovo. Come i francesi nel sette-
cento, come infine nell’ottocento gli inglesi, quando con la macchina e
l’industria moderna hanno creato nuove, impensate possibilità di vita per
l’umanità intera. Disgraziatamente il loro grande momento i tedeschi l’hanno
sciupato al seguito di falsi maestri, in un’impresa del tutto contro Dio, esclu-
dendosi con ciò dalla possibilità di costruire alcunché. E non basta: lo sperpe-
ro delle loro immense energie - di cui gli ultimi brandelli avrebbero portato
l’uomo sulla luna - e la perdita d’un numero così spaventoso di loro, uomini
dotati di fermezza oggi introvabile altrove, avrebbero negli anni a venire rap-
presentato per l’umanità intera un impoverimento forse irreparabile.)
CAPITOLO DODICESIMO
***
Stesi un po’ in disparte nel locale semiriscaldato in cui - su coperte disposte
per terra - giacevano diversi soldati, presero ad architettare il loro piano.
«Sei proprio deciso a venire anche tu?» chiese anzitutto sottovoce Pierello
all’altro.
«Adesso me lo domandi? Dopo che hai deciso alles (ogni cosa), lo doman-
di?»
«Tu sei libero» sentenziò sempre sottovoce Pierello «puoi scappare con me
se vuoi, oppure restare. Sei libero.»
«Libero io, o prigioniero? Dai, Piero, dinn pù de vacàd (non dire più scioc-
chezze)» puntualizzò Tadeusz in dialetto nomanese. «Dai dichiamo invece
cosa fare.» In realtà non sembrava scontento della decisione presa dall’altro
anche per lui.
«Basta col rischiare la vita» gli fece osservare Pierello. «Se continuiamo a
stare in linea coi tedeschi finiremo per forza con l’essere uccisi; anzi è già un
miracolo che c’è andata bene fino a oggi.» «Ja» convenne Tadeusz «ja. Penso
anch’io sempre. Dai Piero, dichiamo cosa fare.»
Convennero che smammare immediatamente non sarebbe stata la scelta
migliore: come ritrovare la vedova nel buio? Meglio aspettare il successivo
turno di guardia del trattorista (i turni erano di tre ore ciascuno); nel frattem-
po avrebbero potuto dormire un po’ al caldo: avevano parecchio sonno in ar-
retrato tutt’e due.
Ma addormentarsi non era facile dopo una decisione così grave e improvvi-
sa e non abbastanza meditata. Tadeusz tuttavia ci riuscì, non Pierello, la cui
mente seguitava a lavorare e lavorare, passando senza requie da cosa a cosa,
da prospettiva a prospettiva; e se a momenti un pensiero quieto la avviava alla
stasi e al sonno, subito dopo un altro preoccupante la riscuoteva ed eccitava. Il
giovane allora si voltava e rivoltava su sé stesso.
Da alcuni segni si accorse, dopo un certo tempo, che anche uno dei tedeschi
sconosciuti sdraiati nel locale - quasi tutti conducenti d’automezzi o loro aiu-
tanti - non riusciva ad addormentarsi: lo sentiva muoversi, e ogni tanto emet-
tere una sorta di contenuto sospiro. Sospettoso com’era a causa della decisio-
ne presa, Piero si domandò più volte se questo fatto avrebbe costituito un
ostacolo per lui e per Tadeusz; col passare delle ore lo prese anche una certa
curiosità di conoscere il motivo per cui l’altro non poteva dormire; avrebbe
voluto scambiare qualche parola con lui, ma come? l’ostacolo della lingua era
insuperabile.
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Sulla sponda della laguna dovettero attendere per ore, mescolati a innume-
revoli altri; senza darlo a vedere i due prigionieri - in particolare Pierello - si
guardavano ogni tanto intorno, segretamente preoccupati che qualcuno so-
praggiungesse a cercarli. Uno scarno e tuttavia efficiente servizio d’ordine di
soldati non consentiva ai carri di scendere a caso la breve scarpata, ma li ob-
bligava a scendere uno alla volta, e a imboccare, distanziati tra loro d’una de-
cina di metri, il ‘ponte di ghiaccio’. Che almeno nel primo tratto, dove sulla
laguna c’erano pozze d’acqua e poltiglia, era formato di tavole di legno grezzo
collegate tra loro e sprofondate per oltre la metà dello spessore nel ghiaccio
verdastro.
Dalla sponda su cui sempre più numerosi carri e profughi a piedi si anda-
vano ammassando, si scorgeva la lunghissima fila di quelli in movimento per-
dersi lontano sopra la laguna infida. Cupo era il cielo, di nuvolaglia mista a
nebbia, l’ambiente desolato al di là d’ogni immaginazione. Certe pariglie di
cavalli si rifiutavano d’imboccare il ‘ponte di ghiaccio’, sbuffavano, puntavano
i piedi: allora il conducente (che spesso era una donna) da una parte, e un sol-
dato dall’altra, le costringevano; appena sulle tavole tali pariglie affrettavano
magari il passo spaventate, e il conducente e il soldato le trattenevano con
sforzo, finché non avevano assunta l’andatura giusta; dopo di che il soldato
tornava indietro, per ripetere l’operazione.
Venne anche la volta dei nostri profughi, i quali non si erano nel frattempo
accorti d’aver perduto il cagnetto, a tal punto immedesimatosi dell’impazienza
degli uomini, da andarsene di soppiatto dietro uno dei carri scesi prima del
loro sul ghiaccio.
Sopra le tavole di legno lo slittino era duro a tirarsi; ogni tanto Pierello e
Tadeusz si voltavano a dargli un’occhiata, temendo che si sfasciasse. Final-
mente le tavole cessarono, la pista continuava sul solo ghiaccio dove, mentre il
pericolo d’uno sfasciamento del veicolo era minore, tirare costava anche meno
fatica. I due prigionieri tenevano il passo con la colonna, attenti a conservare
le distanze; non si trattava d’un passo molto spedito per fortuna, determinato
com’era da un gran numero di cavalli sfiniti, alcuni appena in grado di trasci-
narsi. “È l’andatura che ci vuole per noi” pensava Piero, nel quale cominciava
a stemperarsi l’ansia segreta che fino allora l’aveva occupato, di veder capitare
qualcuno alla loro ricerca.
Poco alla volta la riva alle spalle venne cancellata dalla foschia fino a scom-
parire; adesso i fuggiaschi non scorgevano che la colonna in movimento da-
vanti e dietro di loro: sapevano di dover percorrere a quel modo circa nove
chilometri. Nonostante il freddo Pierello cominciò a sudare: la marcia andava
malgrado tutto rivelandosi faticosa, ed egli era stanco della stanchezza del
fronte che si assomma e stratifica nelle ossa, aveva inoltre parecchio sonno in
arretrato, nella notte precedente non aveva dormito un solo minuto... La co-
lonna che procedeva in silenzio, e sembrava non avere né principio né fine,
cominciò a dargli una strana sensazione d’irrealtà. Gli accadde, col trascorrere
del tempo, di chiedersi dove mai stessero andando tutti in fila a quel modo, in
quell’aria smorta che non sembrava affatto di questo mondo. E cos’era quel
lontano incessante accompagnamento come di tuono, che ormai gli era entra-
to nel cranio, e non s’interrompeva mai, mai? Cercò di prendersi in giro, quin-
di d’argomentare con sé stesso: finì, senza rendersene conto, con
l’argomentare a mezza voce. Lo risvegliò Joachim, che l’aveva afferrato per
una mano e gliela scuoteva, chiedendo di dargli il cambio. «No, no, Joachim»
esclamò Pierello in dialetto «cosa ti salta in mente? Macché cambio. Ci man-
cherebbe altro.» Inspirò profondamente un paio di volte e sorrise con aria
d’intesa al bambino. Però, Signore Iddio, una faccia di bambino, che conforto!
Richiamava la casa, i giorni di pace... Pierello, un po’ vergognoso per quanto
gli era successo, decise di ‘tenersi in mano’ (secondo s’esprimevano i tedeschi,
cioè di dominarsi) con più energia. Fece a Joachim il muso del coniglio per
farlo ridere, e ogni pochi passi glielo ripeteva, con movimenti buffi del naso e
della bocca, finché il bambino, rinfrancato, si provò sorridendo a imitarlo,
senza più pensare ad altro.
Ecco i segni del bombardamento del giorno prima. No, non poteva trattarsi
di quello del giorno prima, perché il ghiaccio negli squarci era già troppo con-
solidato. La pista deviava e procedeva a grandi zig zag tra pali con frecce di
legno che indicavano il percorso; dal ghiaccio nuovo affioravano timoni e
sponde di carri, e panni e, guarda, in quel punto una mezza testa di cavallo.
Oh, che brutta vista! Meno male che oggi c’era quella nuvolaglia bassa, così
forse gli aerei non sarebbero venuti. Forse. Sul ghiaccio a lato della pista si
scorgevano oggetti e involti, buttati certo dai carri per alleggerirli; poi ecco
uno, due, più carri abbandonati, qualcuno con le ruote spezzate, qualche altro
semi impennato e parzialmente assorbito dal ghiaccio. Per un certo tratto in
questo luogo erano state sistemate sulla pista delle tavole di legno come
all’inizio del ‘ponte’, e le ruote dei carri vi passavano sopra sobbalzando.
Eccolo là, dopo circa un altro chilometro di strada, il luogo del bombarda-
mento di ieri: una zona abbastanza vasta. Vi si scorgevano dei soldati - non
molti - in piedi sul ghiaccio, che tenevano lontana dai punti pericolosi la co-
lonna e indicavano il percorso, il quale a volte passava tra squarci abbastanza
vicini tra loro.
«Dove sono quelli del partito?» chiese a un tratto la vedova (e sottintende-
va: «loro che ci hanno messo in questa situazione?»): «Tutto ai soldati tocca
fare?»
Qui nei cerchi d’acqua sporca, appena coperta da un velo di ghiaccio, affio-
ravano non solo carri e cavalli e oggetti, ma anche corpi umani. «Povera gen-
te» mormorò Pierello, e a Joachim, che seguitava a camminargli al fianco: «Tu
non guardare, Joachim, guarda dall’altra parte.»
Lui e Tadeusz però guardavano, e proprio in una di quelle tragiche gore Ta-
deusz scoperse qualcosa che avrebbe potuto fare al caso loro: lo indicò a Pie-
rello, si scambiarono qualche frase, poi, concordemente, tirarono lo slittino
fuori pista e fecero alt.
«Voi aspettatemi qui» disse Pierello agli altri «che io vado a dare
un’occhiata»; e mentre il polacco spiegava alla vedova la ragione della sosta, si
avvicinò guardingo allo squarcio; negli ultimi metri lo favorì il fatto che sul
labbro della spaccatura un grande lastrone si era sovrapposto al pavimento di
ghiaccio, raddoppiandone lo spessore. Nell’acqua brunastra affiorava un car-
retto capovolto, lungo forse un paio di metri e con le ruote in apparenza sane.
Un soldato tedesco di vedetta poco lontano gridò qualcosa, poi, vedendo
che il prigioniero non si scostava, venne irritato verso di lui. Fu tuttavia pro-
prio col suo aiuto, e con un rampone (che il soldato, piuttosto anziano, dopo
avere severamente predicato, era andato a prendere al suo posto di staziona-
mento) che Pierello e Tadeusz poterono trarre dall’acqua il piccolo carro. Il
quale risultò del tipo da fieno, leggero, con le pareti a rastrelliera e il timone a
mano: aveva effettivamente tutt’e quattro le ruote in buono stato.
Il trasferimento della vedova (molto sofferente quando si alzava in piedi) e
delle sue poche cose sul carretto non richiese gran tempo; tra le braccia della
donna venne da Pierello - tuttora un po’ vergognoso della debolezza dimostra-
ta in precedenza - sistemato il bambino più piccolo.
Dopo un’altra ora di marcia, e tre complessive trascorse sulla laguna, la pic-
cola comitiva chiusa da Joachim, che a ogni buon conto si tirava dietro il suo
slittino vuoto, raggiunse finalmente la sponda opposta. Solo qui Joachim si
decise ad abbandonare lo slittino: lo lasciò giudiziosamente bene in vista, se
mai qualcuno ne avesse bisogno. Malgrado il suo atteggiamento serio e risolu-
to, da piccolo tedesco, che faceva sorridere Pierello, egli in realtà era sfinito,
stanco da morire.
I cinque si trovavano da poco sulla terra ferma che alle loro spalle schiattò
un violentissimo frastuono d’esplosioni, mescolato a scariche di mitragliatrici
e a rombi di motori; immediatamente arrivarono anche gli aerei nemici, quat-
tro, bassissimi, impetuosi, i cui colori risaltavano vivaci per contrasto contro il
cielo grigio. Giunti alla sponda essi curvarono con un assordante boato, e
s’allontanarono sopra la terra ferma sparando incessantemente con le mitra-
gliatrici sulla colonna dei profughi; scomparvero in un attimo verso ovest.
«Anche stavolta ci è andata bene» commentò Pierello, levandosi con uno
stanco sorriso dalla neve nella quale si era prontamente buttato. A loro era
andata bene, sì, ma agli altri, specie a quelli in cammino sul ghiaccio? E
com’era andata al soldato predicatorio, che li aveva aiutati a recuperare il car-
ro? Che n’era in questo momento di lui? Ma non bisognava pensarci: uno non
può contenere in sé i guai di tutti.
CAPITOLO QUINDICESIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO QUARTO
***
Una volta rimasto solo il dottor Agazzino si trovò intrigato almeno quanto
prima: certo la situazione stava per risolversi da sola - aveva detto bene Am-
brogio - con la Germania ormai quasi totalmente occupata e il fronte italiano
in movimento. Forse gli ‘alleati’ erano addirittura a pochi chilometri da Mila-
no... Ma appunto per questo qualcosa bisognava fare. La proposta
d’Ambrogio, anche quella, non era male: oltre tutto esponeva il solo don Ma-
rio... A cui, intendiamoci, difficilmente i militi avrebbero dato noie, visto che
andava a parlargli nel loro interesse. Perché era fuori dubbio che don Mario ci
sarebbe andato, e senza pensarci su nemmeno un istante. Figuriamoci! L’idea
di poter evitare uno spargimento di sangue... Come a nozze ci sarebbe andato.
E chi sarebbe più riuscito a trattenerlo? Anzi (questo, attenti, creava una pro-
spettiva nuova) non appena al corrente della situazione don Mario si sarebbe
mosso anche di propria iniziativa, senza aspettare il via del C.L.N. Sì, ecco co-
sa sarebbe successo. E allora lui che figura ci avrebbe fatto? Lui, il presidente
del C.L.N., ossia del Comitato di Liberazione Nazionale? (Parole che in realtà
facevano una certa impressione.) Beh, dopo tutto forse meglio così: se poi le
cose si fossero girate (se la ribellione fosse cioè rientrata, e all’indomani fosse
arrivato in paese qualche castigamatti) nessuno avrebbe potuto imputare a lui,
Agazzino, e ai suoi, l’impresa compiuta di testa propria da don Mario. Dun-
que, alla fine, meglio così... Meglio o peggio? A chi infatti sarebbe andato quel
po’ di gloria? Eh, a chi? E a che scopo, allora, tutto il suo lavoro fino a oggi?
Quei viaggi cospirativi a Milano, i pericolosi contatti (sia pure pochi) col mon-
do esaltante della ribellione, le confabulazioni e le ingrate trattative locali, tut-
ti i... pericoli corsi? A che scopo? Quel lavoro di preparazione sarebbe andato
interamente in fumo, e una grande occasione come questa non si sarebbe pre-
sentata mai più; nella sua vita non sarebbe rimasto, di eroico, che quel lonta-
no ricordo dei due bicchieri d’olio di ricino... Ah no, questo no. Non era più
possibile, dopo ch’egli aveva mentalmente assaporato il gusto di ben altra - e
oltretutto meno ambigua - gloria. Improvvisamente si risolse. Calzò sulla cal-
vizie il basco, aprì la scampanellante portina e la richiuse con la chiave, che
sfilò e si mise in tasca.
CAPITOLO QUINTO
Poco lontano c’era, in attesa contro lo stipite della porta di casa, il candidato
partigiano Giacomino: il farmacista gli fece un cenno con la mano. Quello si
staccò in silenzio dallo stipite e lo raggiunse.
«Vieni con me» gli sussurrò il dottor Agazzino avviandosi.
Stavano scendendo le tenebre; la gente era tutta nelle case raccolta intorno
alle mense modeste, l’ora sarebbe stata propizia al rilassamento, a pensieri di
pace. “E invece io... Ma chi me lo fa fare, in fin dei conti?” pensava il farmaci-
sta percorrendo una via dopo l’altra, sempre con Giacomino alle calcagna. Im-
boccarono finalmente il viale ‘della rimembranza’ che scendeva alla stazione.
Nelle tenebre incipienti i rami delle querce protesi sopra le loro teste, ancora
una volta rivestiti di foglie nuove fittamente dentellate, sembravano suggerire
qualcosa di non esprimibile, d’inafferrabile, che introdusse entrambi in uno
stato di sospensione. Ma: “Sia come sia” risolse Agazzino “ormai non posso
più fermarmi. Del resto non è solo questione di... gloria o simili, è un’impresa
utile alla comunità questa in cui mi sono messo, il punto è tutto qui. Dovesse
anche, Dio non voglia, capitarmi qualcosa, io ormai non mi tiro più indietro.”
Raggiunsero il piazzaletto della stazione, affatto deserto, su cui dava la ca-
serma un tempo dei carabinieri, ora della ‘guardia nazionale repubblicana’. Si
trattava d’una villa non grande, dipinta in rosso, circondata da un giardinetto
con siepi di lauro ceraso e una fontanella di cemento al posto d’onore; dentro
la villa non si scorgeva alcuna luce. I due si fermarono.»
«Adesso tu rimani qui» disse, ansando un po’, il, farmacista al ragazzo: «qui
contro quest’angolo, e cerca di non dare nell’occhio. Io entro nella caserma.
Tu sta bene attento: se vedi o senti qualcosa di strano, o se dopo quindici, anzi
facciamo venti minuti, io...»
«Non ho mica l’orologio» sussurrò Giacomino.
«Non importa, farai tu il conto, sei un ragazzo sveglio. Se dunque dopo cir-
ca quindici o venti minuti io non sarò ancora uscito, o anche prima se vedi o
senti qualcosa di strano, tu fili come una saetta dal signor Ambrogio e lo av-
verti. Chiaro?»
«Sì» mormorò il ragazzo. «Ma lei, posso sapere cosa ci va a fare lì dentro?»
«A farmi consegnare le armi» disse sempre ansimando, e sperimentando
mescolata alla paura un’acuta sensazione d’orgoglio, il farmacista, mentre il
viso gli s’imporporava.
Si avviò, e arrivato al cancelletto di ferro del giardino premette il pulsante
del campanello; udì distintamente il suono all’interno della villa. Rimase in
attesa con la testa china e il cuore in gran tumulto: “Ah, la mia asma, la mia
asma...” Trascorsero diversi secondi; come mai nessuno rispondeva? Forse i
militi dopo i fatti di Milano diffidavano d’ogni visitatore e non intendevano
rispondere se non con le armi? Forse, Dio non voglia, in questo momento al di
là delle finestre buie i loro mitra erano puntati su di lui? O forse, più sempli-
cemente, i militi se n’erano andati? Suonò una seconda volta, più a lungo.
Sentiva nelle orecchie il rombo del proprio sangue e insieme, distintamente, il
suono che faceva il campanello all’interno della villa. Nessuno rispose neppure
stavolta. Dopo un po’ suonò ancora, poi ancora; finalmente si rese conto che la
caserma era abbandonata.
Abbandonata ma chiusa, com’egli poté accertare agendo alla maniglia del
cancelletto. Giacomino, che s’era fatto avanti, scavalcò per suo ordine il can-
celletto e controllò se fosse chiuso anche il portoncino dell’edificio. Era chiuso.
Provò allora a bussare e chiamò anche ripetutamente, ma invano.
«Presto» gli disse il farmacista «torna fuori e... Dai, prima vieni fuori.» Gia-
comino scavalcò di nuovo, bravamente, il cancelletto verso l’esterno.
«Adesso» gli disse il farmacista «mentre io rimango qui di guardia e non mi
muovo, tu vai dal Farirö» (che significa Piccolo Fabbro): «Digli che venga qui
subito, ma subito, con gli arnesi necessari per forzare queste due serrature.
Digli che ti mando io, il presidente del C.L.N.»
«Del... cosa?»
«C.L.N. Comitato di... Non importa: digli il farmacista. Va, spicciati. E non
appena hai avvisato il Farirö, passa ad avvertire uno per uno i partigiani no-
stri: ma attento, soltanto i nostri, non i comunisti. Inteso? E non farti sentire
da nessun borghese, e neanche dai parenti dei nostri partigiani, ma solo da
loro: digli che corrano qui subito.»
«E il signor Ambrogio?» chiese Giacomino.
«Sì, anche lui. Anzi no, quello no, adesso non è necessario. Lo chiameremo
più tardi. Quello no, hai capito? Su va, spicciati.» Giacomino partì come una
saetta.
***
Era però talmente eccitato che - aggiungendosi l’affanno della corsa - non
gli riuscì di agire con la debita segretezza. Tanto è vero ch’erano appena giunti
il fabbro e i primi due o tre partigiani democristiani, che arrivò anche, scuris-
simo in volto, il comunista forestiero. Calzava per l’occasione un inedito ber-
retto di pelo con copriorecchie e una stella rossa sul risvolto frontale, alla bol-
scevica.
«Perché non mi ha fatto chiamare?» chiese in modo villano al farmacista, e
bestemmiò.
«E perché avrei dovuto farla chiamare?» gli rispose quello.
«Come: perché?» e bestemmiò di nuovo: «Per la spartizione delle armi.
Non siamo d’accordo che le armi vanno spartite?»
«Certo. Prima però dobbiamo vedere se di armi ce ne sono o no.»
«Ci sono per forza.»
«Adesso vedremo.»
«Si fa metà per uno. Metà per i miei e metà per i suoi uomini.»
«D’accordo: metà per uno.»
Questo, rifletté il farmacista, costituiva pur sempre un punto a favore: non
era infatti chiaro, fino allora, se le armi avrebbero dovuto essere suddivise tra i
partigiani comunisti e quelli democristiani a metà, oppure in proporzione al
rispettivo numero: nel quale caso ne sarebbe toccata una piccola frazione in
più ai comunisti.
Il forestiero afferrò a un tratto ciò che passava per la mente del farmacista,
e fu sul punto di rimettere in questione l’accordo appena concluso, ma si limi-
tò a bestemmiare un’altra volta. Poi rifletté che se fosse capitato a lui
d’impadronirsi delle armi, accordi o no, non ne avrebbe certamente fatto parte
ai democristiani, e quelli lo sapevano. Ciò valse a calmarlo alquanto.
Intanto il Farirö aveva quieto quieto tagliato il chiavistello e aperto il can-
celletto. Si applicò quindi alla serratura del portoncino: «Qui non taglio» spie-
gò: «qui dobbiamo cercar d’aprire senza scassare, perché è un peccato rovina-
re la porta.»
Stavano sopraggiungendo altri partigiani, tutti democristiani. Il comunista
si agitò: «Dai» gridò al piccolo fabbro: «muoviti, se no provvedo io con que-
sta.» E tolta di tasca una pistola militare fece l’atto di puntarla contro la serra-
tura. Era un gesto chiaramente intimidatorio nei confronti di tutti i presenti.
Ma il fabbro non si lasciò intimidire: piccolo di statura e curvo com’era (non
più giovane, aveva pochi capelli grigi, la faccia tutta rughe, il naso aquilino con
la pelle tirata, mancava di parecchi denti) non si lasciò intimidire. «Avanti»
disse ritraendosi «su, provaci. Prova con quell’arnese (udesèll) lì: spara, vedrai
se la porta si apre.»
Il comunista sbuffò e reintascò la pistola: «Dai, muovetevi» disse.
«Ricordati che io potrei esser tuo padre» gl’intimò il piccolo fabbro con se-
verità, quindi riprese il suo lavoro riguardoso. Gli ci volle un certo tempo per
aprire la serratura senza romperla; finalmente il branchetto dei presenti, co-
stituito ormai da una decina di persone, poté entrare dietro di lui nella villa.
Lo stesso fabbro fece scattare inutilmente l’interruttore della luce, dopo di
che accese - uno dopo l’altro, strofinandoli com’era sua abitudine contro il
fondo dei pantaloni - due o tre fiammiferi, trovò l’interruttore generale e agì
su quello: la caserma s’illuminò.
***
I presenti si precipitarono a ispezionare i vari locali. «Le armi. Venite, ecco
le armi» chiamò uno. C’erano, in un armadio a muro, alcuni moschetti, due
fucili mitragliatori Breda e un mitra. Il presidente del C.L.N. suddivise subito
le armi in parti uguali tra i ragazzi democristiani e il forestiero comunista; la
stessa cosa fece con i pacchetti delle munizioni. Aveva appena terminata la
suddivisione che arrivò tutto trafelato don Mario.
CAPITOLO SESTO
La mattina dopo, 26 aprile, Nomana si svegliò alle concitate raffiche dei due
fucili mitragliatori, nonché ai colpi delle altre armi che i neo-partigiani speri-
mentavano in un prato vicino al paese.
Nell’esaltazione del momento sparavano mescolati tra loro democristiani e
comunisti (questi ultimi col fazzoletto rosso al collo, mentre i primi erano sen-
za distintivi.) Del resto quei ragazzi che avevano frequentato insieme l’asilo
infantile delle monache, poi la scuola elementare, e almeno per qualche anno
l’oratorio, non si sentivano ancora divisi tra loro. Da istruttore fungeva il figlio
della levatrice, il Carletto Mangiagalli, apolitico e con fama più che altro di
scapestrato (ma ancora troppo giovane per esserlo veramente) il quale aveva
disertato dai bersaglieri qualche mese prima. Si era aggiunto ai partigiani
quella mattina, chiamato con urgenza da loro che s’erano resi conto di non
sapere affatto usare le armi.
Quale spasso, stando distesi nell’erba, sparare e sparare contro il pendio
d’un ronchetto, senza staccare mai il dito dal congegno, col mitragliatore che
sobbalzava come avesse la tarantola, e la canna che diventava qua e là violacea
per il surriscaldamento!
«Che ‘goduria’, eh?» diceva, interrompendosi ogni tanto e staccando per un
istante la guancia dal calcio, il Carletto Mangiagalli; e gli altri - più giovani di
lui - approvavano entusiasti, e sparavano anche loro con l’altro mitragliatore,
e col mitra («Ve’ che raffica!») e i moschetti, sempre nel fianco della collina.
Finché, a farla finita, intervenne il dottor Agazzino, il quale si portò via le
munizioni residue: «Se no voi scervellati me le consumate tutte.»
Dopo di che i partigiani, con le armi brandite o tenute orizzontali su una
spalla (peccato fossero così poche, non bastanti per tutti) si diedero a girova-
gare per il paese tutti insieme, e ogni tanto cantavano ‘bandiera rossa’, ch’era
l’unica canzone antifascista che sapessero (non la sapevano neppur tutta del
resto), la cantavano anche i democristiani, con l’idea di fare gli spiritosi. La
gente li guardava con un misto di familiarità, di sollievo (perché questa fiera
significava che la guerra era finita), ma anche di timore, che non cominciasse-
ro a fare soperchierie.
Nelle case intanto ‘radio Milano libera’ - cioè occupata dai partigiani duran-
te la notte - diffondeva freneticamente proclami, notizie, comunicati. Più d’un
nomanese stava ad ascoltarla come calamitato, senza potersene staccare. Tra
gli altri, per un certo tempo, il farmacista, che solo a metà mattina riuscì ad
avere la comunicazione telefonica col suo corrispondente del C.L.N. di Milano.
Il quale gli comunicò che il ribaltone aveva avuto luogo senza ombra di dub-
bio: lo disse con voce non meno trionfalistica di quella della radio.
«Ma se fino a ieri sera non ci sono state sparatorie?» gli obiettò il farmaci-
sta.
«Fino a ieri sera infatti» convenne l’altro. «Però ieri in mattinata il grosso
dei fascisti ha lasciato Milano insieme con Mussolini. E quelli rimasti erano
col morale completamente a terra, tanto che noi, una volta arrivato il buio, gli
siamo saltati addosso. Altro che sparatorie stanotte a Milano, bisognava esser
qui a sentire! E ancora di più questa mattina all’alba: lo sa che abbiamo presa
la prefettura e la radio? E la questura centrale, e i commissariati di polizia, e
ogni cosa insomma? E che nessuno ha reagito, e adesso li stiamo andando a
prelevare dove si son nascosti, casa per casa, come topi?»
Il paragone non piacque al farmacista, che in fin dei conti era una persona
civile: «Ma loro, voglio dire, se non fanno resistenza... Insomma, voi cos’è che
gli fate quando li prendete?»
«A sentirli adesso sono tutti innocenti» eluse la domanda l’altro. «Più nes-
suno è fascista adesso.»
«Ma io volevo sapere se...» Il farmacista tentennò la testa e cambiò argo-
mento: «Beh, le armi ormai non vi mancheranno, ne avrete in abbondanza.»
«Sì» la voce dell’altro si raffreddò sensibilmente «certo.»
«Quand’è allora che posso venire a ritirare le mie, quelle che m’avete pro-
messo?»
Il milanese fu piuttosto vago: «Ma ormai... Comunque quando lei vuole.»
«Anche oggi stesso?»
«Quando lei vuole» ripete l’altro elusivo.
Dopo di che il farmacista non perse tempo: si rivolse per telefono ad Am-
brogio chiedendogli il furgoncino Millecento a gasogeno della ditta, e nel po-
meriggio di quello stesso 26 aprile scese a Milano; guidava l’automezzo Cele-
ste, al suo fianco sedeva in cabina il dottor Agazzino, e dietro, all’interno del
furgone, il forestiero comunista con un paio di partigiani.
Tornarono la sera a Nomana senza nemmeno un’arma: vi ritrovarono lo
stesso ambiente di festa paesana che avevano lasciato; i partigiani erano anco-
ra in giro a fare i bulli per le strade.
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
L’ora d’inizio della messa passò senza che il parroco uscisse dalla merceria,
la cui porta era stata accostata; un battente aveva i vetri rotti. Il sacerdote
s’affacciò solo quando - su una macchina a gasogeno munita di una grande
bandiera tricolore (ma in molti c’era ormai la sensazione che la commedia si
fosse capovolta in tragedia) - arrivò il dottor Agazzino con tre dei suoi parti-
giani. Scambiata qualche parola col parroco, il presidente del C.L.N. entrò con
apprensione nella merceria, la cui porta venne nuovamente accostata. Fuori
rimasero i tre partigiani, che non sapevano bene quale atteggiamento tenere;
portavano al collo fazzoletti tricolori nuovissimi e sorridevano incerti ai pre-
senti. Alcuni dei quali cominciarono a prendersela con loro per l’accaduto: gli
rinfacciavano d’essere incapaci di difendere la popolazione, uno addirittura li
insolentì; era tuttavia un atteggiamento ancora incerto, non definitivo. Dopo
circa dieci minuti ecco arrivare un’altra automobile, con tanto di bandiera ros-
sa, che andò ad arrestarsi accanto alla precedente. Ne scesero il Forestiero e
quattro dei suoi ragazzi comunisti. Al che Agazzino - prontamente avvertito -
s’affacciò alla merceria e, sebbene sorpreso da questo arrivo, fece più volte
segno al Forestiero (o Foresto, come con voce dialettale lo chiamava la gente)
che lo raggiungesse. Cosa che quello fece attraversando la piazzetta a passi
lenti e gravi, aveva in capo il berretto di pelo con la stella rossa sul frontale, e
alla vita un cinturone con fondina e pistola. La gente non poté a meno di col-
legare lui e i suoi partigiani rossi con gli altri che s’erano portati via la donna,
e ammutolì. Quelli che avevano sgridato i partigiani col fazzoletto tricolore,
non sgridarono questi, rimasti a loro volta in attesa sulla piazzetta: li guarda-
vano invece fissamente, qualcuno con durezza. I ragazzi neo arrivati avverti-
vano l’ostilità della gente: la conoscevano quella gente, non se n’erano mai
sentiti divisi, adesso cominciavano ad accorgersi che qualcosa li stava divi-
dendo in modo forse definitivo. Non dissero quasi parola finché dalla merce-
ria uscirono il presidente del C.L.N., il Foresto col suo truce berretto bolscevi-
co in capo, e il parroco. Presidente e Foresto fecero ciascuno segno ai propri
partigiani di seguirli, e raggiunsero le rispettive automobili nel silenzio di tutti
i presenti.
Solo dopo che le automobili si furono avviate: «Vanno a Incastigo» spiegò il
parroco alla gente: «per tentar di riavere quella povera donna. Se non la tro-
vano là, andranno a Milano al Ci-elle-enne, che sarebbe il comando, e se sarà
necessario anche alle carceri. Che Dio li aiuti.»
Questo all’incirca ripete di lì a poco dall’altare, con indosso i paramenti sa-
cri: «La messa di oggi la offriamo per la nostra sorella che in questo momento
è in pericolo di morte. Dobbiamo pregare tutti per lei, cercar di strappare a
Dio la grazia.»
***
Le due auto, rimandate da un luogo all’altro, girovagarono per ore inutil-
mente; furono di ritorno a Nomana nel primo pomeriggio. Gli occupanti ne
scesero in diverso modo abbacchiati. Per darsi un tono il Foresto ostentava un
atteggiamento polemico nei confronti del presidente del C.L.N, che, com’egli
ripeté ai suoi, ‘voleva saperla troppo lunga’; i ragazzi in tricolore erano addirit-
tura traumatizzati non solo dalla vicenda della donna, ma anche dalla consta-
tazione - particolarmente evidente davanti al carcere di san Vittore - che la
‘liberazione’ non era affatto una festa, ma piuttosto un orrido scatenamento di
violenza su chi - colpevole o no - non era comunque in grado di difendersi. Il
dottor Agazzino era molto turbato per l’impotenza propria e della propria par-
te: nella zona rossa sopra Milano - a quanto egli aveva appreso - erano in cor-
so stragi: a Nova, per esempio, sul margine nord di tale zona, sempre nuovi
cadaveri venivano a incagliarsi contro il ponte del canale Villoresi (ne sareb-
bero stati in effetti raccolti, e sepolti a spese dell’amministrazione comunale,
più di centoventi). “Speriamo che arrivino presto gli americani” s’augurava
perciò pressantemente il farmacista, “speriamo che non ritardino.” Quanto ai
ragazzi in fazzoletto rosso li irritava la disapprovazione d’Agazzino e dei ra-
gazzi col tricolore: si erano resi conto che altrove i partigiani - vecchi o
dell’ultima ora che fossero - erano padroni incontrastati d’ogni cosa: perché
non doveva essere così anche a Nomana? Perché quei musi lunghi?
Della donna non si ebbero notizie per mesi, fino a quando si diffuse a Inca-
stigo, e di là rimbalzò al Raperio e a Nomana, la voce che la poveretta era stata
dopo la cattura portata in una fabbrica di Sesto dove già si trovava suo marito,
e che prima di mezzogiorno dei due ‘non era rimasto più niente’. In che modo
di due coniugi non fosse rimasto più niente la voce non specificava; al tempo
in cui si diffuse però tutti sapevano che a Sesto nei giorni della liberazione pa-
recchi corpi umani erano stati gettati negli altiforni.
TERZO VOLUME
PARTE PRIMA
I
CAPITOLO PRIMO
***
Di lì a un paio di giorni arrivò a Nomana una piccola colonna di jeeps, auto-
carri, trattori, cannoni, forte di circa centocinquanta uomini, che rizzarono le
loro tende in un giardino.
Dopo alcune ore quei soldati cominciarono a bighellonare per il paese e le
osterie; indossavano sformate camicie color cachi chiaro su calzoni dello stes-
so colore, ed erano in genere taciturni. La gente li chiamava ‘gli americani’
sebbene si trattasse di sudafricani dell’Ottava armata inglese, soldati che,
quanto alle divise almeno, agli americani non somigliavano affatto. La loro
presenza - in sé umiliante - fu accolta da quasi tutti i nomanesi come il minor
male: la considerarono una garanzia contro il ripetersi di episodi tipo quello
del Raperio. Con reazione inversa i partigiani comunisti vedevano ‘gli ameri-
cani’ di mal occhio: «Non presidiano Incastigo, ch’è un paese più grosso e im-
portante» dicevano, «proprio Nomana dovevano venire a impestare?» Appa-
riva ad ogni modo sempre più chiaro che i rossi erano in paese minoranza,
anche se adesso coi partigiani cominciavano a intrupparsi e a riunirsi in una
data osteria elementi più anziani. I quali si definivano abbastanza in confuso
comunisti e socialisti; da costoro Sèp - accolto dapprima con indifferenza - fu
presto considerato gloria e lustro cittadino.
CAPITOLO SECONDO
***
Poiché la caldaia della Millecento a gasogeno non era in pressione, il giova-
ne si portò in fretta a casa, prese la sua bicicletta da liceale (quella sportiva,
color azzurro, con cui cinque anni prima, appena tornato dal collegio, aveva
fatto visita a Stefano) e la inforcò.
«Dove vai?» gli gridò Almina che, col fazzoletto attorno al capo, stava spor-
gendo un tappeto dal davanzale di una finestra.
«Torno subito» eluse la domanda Ambrogio.
Pedalò sulla ghiaia del viale poi, una volta uscito dal cancello, rasente la ca-
sa e il muro del giardino; all’angolo con la carrareccia della Nomanella salutò
l’affresco della Madonna del rosario, e proseguì lungo la strada maestra in di-
scesa, verso Beolco. Per un istante supplicò la Madonna: che suo cugino non
fosse morto, che fosse vivo e il lungo incubo ora finalmente si dissolvesse.
Chissà, forse Luca aveva addirittura incontrato Manno, e tra poco avrebbe fat-
te le sue meraviglie al sentire che nessuna notizia di lui era arrivata a Nomana.
Forse...
Da una curva Ambrogio notò laggiù verso sinistra - a lato della stazione fer-
roviaria - i fabbricati nuovi della vetreria. Più in qui il verde dei prati di fondo
valle era ritagliato in lunghi riquadri paralleli da siepi di salice color verde-
grigio, oppure di ontano dalle foglie quasi rotonde. Il giovane provava una
sorta di difficoltà a staccare gli occhi da simili particolari.
Poco più avanti ecco, sull’altro lato della strada, il sentiero che portava alla
cappelletta dei ‘privilegiati morti di Crea’, nella quale erano raccolti - dentro
una sorta di greppia a una parete - i teschi dei morti in una pestilenza di vari
secoli prima (la peste del Manzoni, diceva la gente, ma chissà se si trattava di
quella o di un’altra: nella cappelletta non si leggevano date, c’era soltanto
un’iscrizione su un muro con l’invito a lucrare per quei morti un’indulgenza
‘privilegiata’, concessa loro da un antico, ormai del tutto dimenticato arcive-
scovo di Milano).
Più avanti ancora, sempre dalla stessa parte, c’era un valloncello boscoso e
fresco che portava al ‘fontanin del soldato’; chissà di quale soldato si trattava,
di quanti anni prima. Ambrogio ricordò che Manno da ragazzo - fantasioso
com’era - asseriva doversi trattare d’un lanzichenecco. Certo lo diceva perché
lì presso c’erano le ossa dei morti nella peste... Intorno a quel rustico fontani-
no - che non distava molto dalla Nomanella - Stefano da ragazzetto usava di-
sporre le panie col vischio, per catturare gli uccelli quando d’estate scendeva-
no ad abbeverarsi.
Al termine del verdeggiante fondo valle ecco Beolco, un arioso paese attra-
versato dalla strada, ed ecco la piazza in cui il camion della naia aveva scarica-
to i due alpini. Superato il paese, dopo essersi lasciati indietro uno stabilimen-
to industriale (le officine Argati) e alcuni vecchi giardini, la strada attaccava a
salire verso la Catafame, la cascina in cui coi genitori e gli zii abitava Luca.
Era la Catafame una costruzione singolare, a mezzo tra la casa e la fortezza:
di forma grossolanamente quadrata, a due piani, con mura spesse un metro,
aveva poche finestre, e le grondaie alte e sporgenti cariche di tegole; nel quar-
to verso Beolco - ch’era un po’ in rilievo sul restante corpo, così da suggerire
l’idea d’un torrione - si scorgevano sotto le grondaie alcune file di fori, quasi
minute feritoie che immettevano - Ambrogio sapeva - nel ‘solaio delle passe-
re’. Proprio da quel solaio era originata l’amicizia tra Manno e Luca al tempo
della scuola elementare: da un invito a Manno perché partecipasse alla cattura
dei nidiacei, che si effettuava una volta all’anno. Ambrogio se ne sovvenne
mentre - senza scendere di bicicletta - attraversava un umido passaggio a volta
che immetteva nell’esigua corte della cascina. Qui erano raggruppati alcuni
parenti di Luca, qualche altro stava affacciato a un ballatoio di legno che spor-
geva torno tornò al primo piano su tre lati della profonda corte: c’era dunque
un po’ d’animazione per l’arrivo del congiunto dopo così lunga assenza.
Ambrogio scese di bicicletta e appoggiò il veicolo al muro. «Dov’è Luca?»
chiese con voce il più possibile festosa, quasi a stornare i cattivi presagi.
Gli risposero con una premura eccessiva, che non gli piacque; intanto tutti
lo fissavano. «È qui» lo chiamò il ragazzo che gli aveva appena fatto visita a
Nomana, uscendo da una portina a pianterreno: «Venga signor Ambrogio.»
Tenne la porta aperta mentre il giovane entrava, e la richiuse dietro di lui sen-
za seguirlo.
Luca - con gli occhi molto arrossati - sedeva su un divanetto: aveva sempre
la barba fuori serie, e il distintivo azzurro della medaglia, e le mostrine alpine,
le quali però apparivano spaesate sulla divisa inglese di colore cachi chiaro.
Non appena il visitatore entrò nel locale egli si levò in piedi e gli andò incon-
tro, spalancando le braccia.
Stretto ad Ambrogio, con la testa china, rimase alquanto senza parlare,
straordinariamente commosso. «Povero Luca» disse Ambrogio: «Che ritorno
t’è toccato, che ritorno!»
Il reduce fece ripetutamente segno di no con la testa, con struggimento, a
significare che un simile ritorno non era giusto; poi, appena poté parlare:
«Non avete saputo di Manno?» chiese con voce incerta, in dialetto.
«No» rispose Ambrogio, e avvertì un brivido lungo la schiena. «Di lui non
sappiamo niente dai giorni dell’armistizio, dal settembre 43». Si staccò
dall’amico: «Tu cosa sai?»
Luca lo guardò negli occhi senza rispondere.
«Cos’è che sai? Sai qualche cosa?» tornò a chiedere Ambrogio.
L’altro fece segno di sì.
«Perché non parli?»
«Di Montelungo, della battaglia che c’è stata, non sapete niente?»
«No» sussurrò Ambrogio, e senza aggiungere parola lo fissò, tesissimo.
Luca volse altrove lo sguardo: «È morto a Montelungo, ancora al principio,
nel dicembre del 43» disse con voce atona. Adesso - lo si vedeva - gli veniva da
piangere anche per questo, ma buttò fuori: «Nella prima battaglia che c’è stata
contro i tedeschi. Manno ci è andato volontario, gli hanno data la medaglia
d’oro.»
«Dunque è morto!» mormorò Ambrogio. Ebbe l’impressione di non potersi
reggere sulle gambe, che gli tremavano come non gli era mai accaduto in vita
sua; allungò una mano, prese una sedia, sedette.
«È morto» ripeté.
Luca lo guardò, annuendo senza parlare.
Nel locale - una modesta cucina da operai - c’erano anche i genitori di Luca
e una sua parente, forse una zia, d’età indefinibile: mentre le due donne si
scambiavano occhiate di costernazione, il padre - lo si vedeva - avrebbe voluto
riuscire d’aiuto, dire almeno qualcosa: «La... la medaglia» finì con lo spiccica-
re a fatica, e: «Povero signor Manno!»
Ambrogio ebbe per un istante la percezione di quella che doveva essere sta-
ta l’angoscia del cugino nei giorni tremendi della dissoluzione succeduta
all’armistizio, la disperata energia con cui doveva essersi impegnato anima e
corpo nella risalita.
«Noi lo vorremmo qui lui, non la medaglia, eh?» disse Luca ad Ambrogio, e
tirò un sospiro. Poi, nell’accasciato silenzio degli altri, continuò: «Io e Manno
eravamo amici fin da bambini, lo sai, amici per la pelle, come tu lo sei di Ste-
fano e d’Igino...» S’interruppe: «Anche Stefano, por fiö» Di nuovo la pena gli
mozzò la parola.
Il padre allora, e anche la madre, cercarono di subentrargli, di dire loro, con
umanità, qualche parola al visitatore; ma per confortarlo non seppero che
pronunciare le solite ritrite frasi di convenienza.
Superato il magone Luca tornò a sedersi sul divano e tirò fuori tutte le noti-
zie di cui disponeva: riferì il suo incontro con Manno in quella stazioncina fer-
roviaria in Puglia («È stata l’ultima volta che l’ho visto»), e di una cartolina
ricevuta da lui poco dopo, con l’indirizzo d’un certo tenente Gambacurta quale
recapito. Riepilogò ciò che aveva sentito della battaglia di Montelungo,
dell’opera trascinatrice di Manno, e della sua morte. Non aveva mancato
d’informarsi in merito alla sepoltura, e ne aveva anche scritto a Gambacurta,
segnalandogli il luogo. Gambacurta però era già al corrente d’ogni cosa, e nella
risposta gli aveva comunicato d’avere certe lettere sentite da Manno per i pa-
renti. «Dopo, quando hanno organizzato il CIL, cioè il Corpo Italiano di Libe-
razione, io e il tenente Gambacurta ci siamo finiti dentro tutt’e due: lui asse-
gnato al comando e io al battaglione alpino. Però l’ho visto soltanto ieri matti-
na, che sono andato appositamente da lui a Verona, al comando della divisio-
ne Legnano, per farmi consegnare quelle lettere, siccome venivo in licenza. Ma
lui non le ha mica volute mollare, e ha detto d’avvisarvi che verrà in persona a
portarvele non appena possibile, perché si tratta d’una specie di promessa che
ha fatto a Manno.»
«Quando sarà, secondo te, questo ‘non appena possibile’?» chiese Ambro-
gio, pur stranito com’era: «Ne hai un’idea?»
«No. E neanche lui, credo. Sai bene come vanno le cose sotto la naia.»
Ambrogio non mancò d’annotarsi nome e indirizzo di Gambacurta, poi fece
a Luca alcune domande per rendersi meglio conto dell’accaduto. Intanto non
dimenticava - e dal proprio per la perdita del congiunto misurava - lo strazio
che doveva esserci nell’altro per la perdita della fidanzata. Non rimase dunque
a lungo; alzatosi in piedi strinse la mano all’amico. «Devi ripartire stasera, eh?
Non sei solo, siete in due, ho sentito.»
«Sì, c’è con me uno qui del Brugarolo, un certo Picozzi.»
«Sai dove vi manderanno adesso?»
Luca fece con la testa segno di no: «In questo momento siamo accampati
vicino a Villafranca.»
«Beh, ti lascio ai tuoi» disse Ambrogio, «che siete stati tanto tempo senza
vedervi.» Annuì: «Sono contento che tu sia qui tutt’intero, dopo averne passa-
te tante.»
«Sì.»
I due giovani si strinsero di nuovo la mano e Ambrogio uscì.
Attraversando la piccola corte si rese conto che i presenti erano già al cor-
rente della morte di Manno: Luca evidentemente doveva averne parlato prima
del suo arrivo. Prese la bicicletta, la inforcò, e uscì attraverso l’umido passag-
gio a volta sulla strada; che poi si diede a percorrere con lentezza verso Beolco.
Da una curva si voltò a guardare la Catafame, la sua sagoma bizzarra: l’occhio
gli corse alle file di fori che immettevano nel ‘solaio delle passere’. “Altro che
passere, ormai” pensò; ben diverse memorie gli avrebbe d’ora in poi richiama-
to la Catafame.
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
Ebbe inizio anche il rientro dei prigionieri dalla Germania. In principio po-
chi e alla spicciolata, trasportati da autocarri dell’esercito americano che, es-
sendo la ferrovia interrotta, scendevano dall’Austria lungo la strada del Bren-
nero. Agli autocarri americani si aggiunsero un po’ alla volta anche autocarri
civili italiani, organizzati dalla Pontificia Commissione di Assistenza.
«Ho sentito che i Marsavi di Visate hanno messo a disposizione per il tra-
sporto dei prigionieri due camion» riferì una sera Ambrogio durante la cena.
«Li hanno mandati ieri mattina a Verona, da dove andranno - anzi a quest’ora
dovrebbero essere già andati - in Germania. Papà, in queste settimane il no-
stro camion ha poco da fare: che ne diresti se...? Eh?»
Gerardo rifletté alquanto e annuì. «Sì, potremmo» disse. «Potremmo» ripe-
té: «Sai a chi ci si deve rivolgere? Ti sei già informato?»
«In Germania posso andarci benissimo io» s’intromise Pino. «Che bisogno
abbiamo di rivolgerci a qualcuno? Io mi saprei arrangiare: là sarà più o meno
come nella Svizzera tedesca. Anzi io potrei ogni tanto anche dare il cambio
all’autista.»
«Vorresti andarci magari con quella tua dannata borsa da medicazione a
tracolla, eh?» lo motteggiò Fortunato, che stavolta era presente.
Tutti si misero a ridere.
«L’organizzazione della Commissione Pontificia è indispensabile» fece os-
servare il padre a Pino: «Per i documenti e le pratiche alla frontiera, per il ri-
fornimento della benzina, per i viveri. Per tutto è indispensabile.»
«Bene. Allora posso andarci con quella» propose Pino.
«Vedremo» disse il padre. Si volse di nuovo ad Ambrogio da cui attendeva
risposta.
«Io non so a chi ci si deve rivolgere» gli rispose questi «ma basterà telefo-
nare in curia a Milano. Vuoi che me ne incarichi?»
«Perché in curia a Milano?» obiettò Pino. «Facciamo più in fretta a telefo-
nare ai Marsavi, all’Andrea Marsavi che stava in Svizzera con me. Anzi, sapete
cosa vi dico? Lo chiamo addirittura al telefono.» Si alzò e, non trattenuto da
nessuno, andò nel vestibolo a effettuare la chiamata.
«La Commissione Pontificia?» chiedeva intanto la madre, compiaciuta per
quest’altra iniziativa benefica della chiesa.
«Sì. È la stessa organizzazione che faceva arrivare i messaggi dei prigionie-
ri» le spiegò Ambrogio: «quei foglietti standard. Ti ricordi i due arrivati
dall’Italia meridionale, in cui si parlava di Luca? Te li ho fatti vedere.»
«Sì ricordo.»
«Adesso la Commissione sta distribuendo viveri e soccorsi d’ogni genere
nelle zone devastate: tutta roba che riceve dai cattolici americani. Ha fatto e
sta facendo un grosso lavoro.»
«Sì» ammise quasi suo malgrado Fortunato, l’abile in affari, ch’era il più
‘laico’ dei figli di Gerardo. «Se non ci fossero i preti in Italia, mi dite voi cosa
saremmo capaci di combinare? Sono i soli sempre all’altezza della situazione.
Anche adesso, guarda un po’, sono loro che organizzano il va e vieni degli au-
tocarri con la Germania. Una cosa da non credere, a pensarci.»
«A chi altri vuoi che uno affidi il suo autocarro, se non a loro?» gli chiese il
fratello Ambrogio: «Ai C.L.N. magari?»
«Per amor del cielo!» convenne Fortunato.
La comunicazione con Visate arrivò nel giro di pochi minuti, cosa che sor-
prese, perché se Visate era a tre chilometri, si trovava tuttavia in provincia di
Como, il che comportava di solito una più lunga attesa.
L’Andrea Marsavi raccomandò tramite Pino ai Riva di ‘non muoversi’, che
sarebbe venuto di persona l’indomani a mezzogiorno ‘per combinare ogni co-
sa’.
«A mezzogiorno, capite?» sottolineò Pino nel riferire agli altri. «Quello vie-
ne qui durante l’intervallo di mezzogiorno, perché non gli reggerebbe il cuore
di rubare una mezz’ora al lavoro; gli sembrerebbe un sacrilegio.»
Come al solito l’ironia nei riguardi del lavoro - poco frequente del resto in
quella casa - incontrò la disapprovazione del padre Gerardo, che anche stavol-
ta, anziché sorridere, si fece scuro in viso: «Invece di scherzare, dovresti impa-
rare da lui» disse, scandendo le parole, a Pino.
***
L’indomani l’Andrea Marsavi arrivò in motocicletta alle dodici e un quarto
(«Un quarto d’ora, visto? Il tempo necessario per venire in moto da Visate a
qui dopo lo stacco dal lavoro» fece notare alle donne di casa lo sfaccendato
Pino.) Il quale osservò, da una finestra della sala, il giovane dal naso affilato
scendere dalla moto e - non senza giovanile compiacenza perché si trattava
d’un mezzo molto potente - issarla sul cavalletto. Ciò fatto venne verso la por-
ta di casa e Pino gli usci incontro.
Gerardo, Ambrogio e Fortunato non erano ancora tornati dalla fabbrica, co-
sì Pino e il Marsavi sedettero in attesa in un angolo della sala, e qui - a benefi-
cio sopra tutto di Francesca e di Alma che stavano apparecchiando - rievoca-
rono un loro favoloso incontro in Svizzera, in occasione d’una distribuzione
extra di biancheria, che Andrea aveva contribuito a organizzare. Passarono
quindi a parlare di quell’altro favoloso episodio del ritorno di Pino a Nomana
chiuso dentro il furgone dei salami. Mentre - bonariamente motteggiando -
conversava, il Marsavi fermava con sempre maggior frequenza lo sguardo su
Francesca che - sempre bella - in quei giorni lo era particolarmente: era tutta
in fiore, come lo è un ramo di pesco a primavera. Con la testa circondata dalla
grossa treccia castana, andava e veniva tra sala e cucina portando stoviglie e
posate: si muoveva con spigliatezza e insieme con garbo sulle lunghe gambe,
volgendo ogni tanto all’ospite il viso sorridente dagli occhi azzurri. Gli stessi
occhi di Gerardo, di Pino e di Giudittina e, quand’era vivo, di Manno: ma che
questi occhi somigliassero a quelli di altri, Andrea non lo sapeva, e se mai
gliel’avessero fatto notare, la cosa l’avrebbe disturbato. “Che occhi unici” pen-
sava infatti: “Guarda che luce! Ma come, vive da queste parti una ragazza così,
e io non me n’ero nemmeno accorto?”
Cominciò a seccargli un tantino di fare la figura dell’‘internato in Svizzera’
davanti a questa straordinaria ragazza che aveva avuto un fratello ferito in
guerra, è un cugino caduto e medaglia d’oro. Si diede a frugare nella propria
memoria in cerca di episodi anteriori all’espatrio in Svizzera: ma poiché non
era mai stato al fronte, si rese conto con mortificazione che quanto di glorioso
avrebbe potuto mettere insieme si riduceva a un paio di scaramucce con i te-
deschi nei giorni dell’armistizio. Non poté tuttavia tirar fuori neppure quelle
perché, prima che Pino gliene desse il modo, entrarono in casa Gerardo e i due
figli maggiori, corposi come tre operai. Al che Andrea si mise il cuore in pace:
del resto cosa andava cercando? Quando mai lui aveva pensato che gli uomini
si dovessero misurare in base al loro valore militare? “Siamo forse nati per
fare la guerra?” Lo stesso signor Gerardo probabilmente militare non era mai
stato. E se questa meravigliosa ragazza era intelligente (“Lo è!” una voce in-
terna nell’entusiasmo del momento gli suggeriva: “Lo è senza dubbio”) avreb-
be saputo apprezzare anche altre doti: la laboriosità, per esempio, e
l’abnegazione civile: e a tale riguardo lui si sentiva modestamente a posto.
Gerardo strinse con grande cordialità la mano del giovane. «Come va il la-
voro a Visate?» s’informò per prima cosa, e gli chiese come stessero il padre e
lo zio che, disse, stimava ambedue molto, anzi moltissimo (in casi come que-
sto Gerardo si lasciava un po’ prendere dall’enfasi: erano le rare occasioni in
cui gli accadeva.) Si fece quindi precedere dal giovane nel proprio studio, dove
entrò seguito da Ambrogio e da Pino.
Il problema dell’autocarro non portò via molto tempo: Andrea era venuto a
Nomana per chiedere che gli consentissero di ‘metterlo in forza’ con una sem-
plice telefonata al gruppo autocarri della Commissione Pontificia di Como:
«Perché» spiegò «ho promesso a un prelato comasco... (Don Curioni: Pino, te
lo ricordi? No?) Beh, signor Riva, era uno che si dava molto da fare per noi
espatriati in Svizzera, e domenica scorsa mi ha letteralmente obbligato a pro-
mettergli che gli avrei trovato qualche altro autocarro oltre ai due della mia
ditta.» Mentre il giovane parlava, Gerardo annuiva con simpatia: l’autocarro
fu senz’altro messo a disposizione; il Marsavi si annotò targa, portata e qual-
che altro dato.
Venne invece contrastato il desiderio, nuovamente espresso da Pino, di
viaggiare come secondo autista: «Hai la patente per autocarri? No? Allora ho
paura che non ci sia niente da fare» ci si mise da principio anche il Marsavi:
«Mi dispiace per te. In queste cose quelli della Commissione Pontificia sono
intransigenti.»
«E hanno ragione» approvò il padre: «Supponi che un autocarro carico di
gente gli finisca in un fosso, che so, oppure...»
«Proprio mentre guido io?» disse Pino.
Gli altri tentennarono la testa sorridendo.
«Senti, facciamo così» propose allora Andrea: «I miei camionisti rientrano
venerdì, io li confesso bene e venerdì sera vengo qui a dirti come stanno le co-
se: se per te c’è o non c’è possibilità. D’accordo?» «Sì, ma non devi disturbarti,
vengo io a Visate» gli rispose Pino. «No» replicò Andrea «perché? Vengo qui
volontieri.»
Era davvero gentile: gli altri attribuirono la sua gentilezza al fatto ch’era sta-
to compagno d’internamento di Pino; non pensavano a Francesca.
«Beh» concluse nel suo modo spiccio lui, protendendo il polso con
l’orologio: «s’è fatta quasi l’una e il vostro pranzo si sta raffreddando. È tempo
che io tolga il disturbo. A venerdì sera dunque.»
Tornò venerdì, poi - sempre sulla sua potente moto, e sempre tagliando
l’aria col suo naso affilato - tornò anche domenica, e altri giorni ancora.
CAPITOLO SESTO
***
Una sera, proveniente dalla Germania, arrivò a Nomana anche Igino. Am-
brogio se lo trovò davanti per caso che risaliva solo solo il viale dalla stazione
verso la piazza: aveva indosso la vecchia divisa grigioverde usuratissima, e in
mano, per tutto bagaglio, un pacchetto legato con lo spago. Ambrogio lo ab-
bracciò eccitato, e rinunciando all’incombenza per cui era uscito, tornò indie-
tro al suo fianco.
Con la faccia come sempre pallida, anzi ancora più pallida, e i capelli tirati
alla istrice, Igino - dopo aver dato all’amico, in risposta alle sue domande,
qualche sommaria notizia sul proprio viaggio - gli chiese quale fosse la situa-
zione del lavoro: in particolare se alle officine di Beolco (dov’egli lavorava
prima della guerra) adesso riassumevano i reduci oppure no.
L’altro gli rispose che a quanto gli constava ne avevano già riassunti alcuni.
«Oggi come oggi nel lavoro c’è fiacca» avvertì: «però non devi preoccuparti: le
industrie i loro operai, anche quelli che avevano prima della guerra, se li ten-
gono da conto. Perché il lavoro dovrà riprendere per forza.»
Al sentirsi confermare che c’era poco lavoro Igino fece una smorfia. Ambro-
gio finì con l’essere coinvolto dalla sua ansia: “Papà ha ragione da vendere”
pensò “nel porsi come dovere fondamentale la creazione di sempre nuovi posti
di lavoro. È veramente questo il nostro compito, la missione di noi industria-
li”. «Senti» disse a Igino: «se per caso a Beolco ti fanno storie, non preoccu-
parti: mi fai un fischio e un posto te lo faccio saltar fuori io in ditta. Siamo in-
tesi?»
L’altro sorrise a fatica e lo ringraziò con un cenno del capo, senza dir niente.
Ambrogio ebbe l’impressione che ci fosse in lui una riserva. “Ma in fondo Igi-
no è sempre stato così” pensò, “sempre un tantino sgradevole”.
Gli diede alcune notizie: che Manno era morto, e che erano morti Giovanni-
no Faccia-infarinata e un altro loro coscritto; che di Stefano mancavano sem-
pre notizie.
Quando furono davanti alla portina a vetri della casa del reduce, Ambrogio
si fermò, lui pure emozionato; Igino mise una mano sulla maniglia, rimase
qualche istante così, poi l’azionò di colpo ed entrò, con la testa a istrice un po’
china. Fu accolto da un grido. La madre, che sedeva con gli altri a tavola, si
alzò in piedi e rimase con le braccia spalancate; il padre operaio invece (in gi-
lè, con le maniche della camicia rimboccate), e il fratello, ora sui quattordici
anni, gli si precipitarono incontro: il fratello gli saltò al collo, mentre il padre -
impedito dal ragazzo d’abbracciarlo - gli prese con ambe le mani una mano, e
si mise a scuotergliela, incapace di parlare.
Ambrogio, affacciatosi: «Ve lo lascio tutto per voi» disse senza entrare. E a
Igino: «Noi ci vediamo domani, ciao» e richiuse la porta.
In un incontenibile bisogno di coinvolgere tutti nella propria allegrezza:
«Ce l’ha portato lei» gli gridò la madre: «Grazie, grazie!»
I quattro della famiglia operaia si ritrovarono insieme. Non appena lasciato
libero dal fratello Igino raggiunse la madre che scoppiò a piangere e, abbrac-
ciatolo, non voleva lasciarlo, lo teneva stretto a sé.
«Cosa fai? La vedete? Piange» diceva a fatica il padre, e tentennava la testa:
«È ritornato, e lei piange!»
Dopo un po’ la madre, notando un incipiente imbarazzo nel figlio, si staccò
da lui, e asciugandosi con le dita gli occhi lo invitò a sedere: «Su, mettiti qui,
siediti. Bravo Igino! Vedi? Sei tornato in tempo per la cena. Siediti, ecco, così.
Il mio Igino! (Chissà che appetito hai.»
«L’appetito non manca di sicuro» fece lui «dopo la fame boia che ci han fat-
to fare.» E sorrise con aria d’intesa al padre, che gli sembrava quello meglio in
grado di comprendere tali cose.
II padre assentì, come a significare: «Eh, non c’è bisogno che tu lo dica».
«E il lavoro?» gli chiese subito Igino.
«Niente paura, ho parlato giù in officina: ti riprendono subito. Anche se di
lavoro ce n’è poco. Il ‘comenda’ però è in giro tutto il giorno a cercarne: quello,
per procurarselo, si caccia anche tra le gambe del diavolo, lo sai; finirà col por-
tarne a casa di sicuro.»
«Ma come mai non c’è lavoro?» disse Igino. «Io non capisco. Se ogni cosa è
da rifare, da ricostruire?»
«Eppure!» Il padre spalancò le mani: «Mah! Però tutti dicono ch’è soltanto
questione di tempo, che il lavoro presto ci sarà.»
«Saran quelli che hanno fatto i soldi mentre noi eravamo via» avanzò con
durezza Igino: «saranno loro che adesso non vogliono tirarli fuori per far lavo-
rare la gente.»
«Mah!» ripete il padre, aprendo di nuovo le palme: «Io non so. Tu ad ogni
modo sei a posto: giù all’officina ti riprendono, te l’ho detto. Dunque...»
Igino annuì, senza sembrare rasserenato.
«Non pensarci» fece la madre che seguitava a contemplarselo, «pensa che
adesso sei a casa tua, che sei finalmente qui con noi.»
«Sì» convenne lui.
«Devi raccontarmi tutto» gli disse il fratello: «Hai capito Igino? Tutto.»
«Tutto cosa?»
«Della guerra, e i combattimenti, e i morti... Insomma tutto.»
«A proposito» Igino si rivolse alla madre: «m’avete scritto in quella lettera
che è morta la zia Agata. Com’è successo di preciso?»
«Due mesi fa» gli rispose la madre, rabbuiandosi: «Quasi di sicuro aveva un
tumore, così ha detto il medico: era diventata magra da far compassione; non
c’è stato niente da fare: s’è messa a letto e in poche settimane è andata.»
«Un tumore? Povera diavola!»
«Allora mi racconti o no?» insiste il fratello.
«Ma se non è ancora arrivato» protestò la madre. «Non disturbarlo, su, la-
scialo in pace almeno stasera.»
«Eh, raccontare!» Igino si rivolse al ragazzo: «Cosa vuoi raccontare?... Cosa
si può dire con le parole?» Intendeva: in che modo si potrebbe rendere con
parole un’esperienza come quella che ho fatto? Rifletté e si rese conto che, ef-
fettivamente, non gli sarebbe mai stato possibile. Notò in pari tempo la delu-
sione sul volto del ragazzo: «Beh, domani» promise, «domani ti racconto.»
«Ecco, e adesso lascialo in pace» intervenne anche il padre «E così sei qui a
casa» mormorò la madre, ancora estasiata.
«Sono a casa» disse Igino, annuendo. «Certo non mi par vero. Se penso a
cosa ho dovuto fare in certi momenti per mettere insieme qualche buccia di
patata.»
«Eh, la guerra!» mormorò il padre.
«Ho di là un bel pezzo di lardo» fece la madre, accattivante «e una filagna
di salamini che abbiamo tenuti via apposta per te.»
«Come?» esclamò il giovane, sorpreso: «C’è ancora di questa roba, in Ita-
lia?»
«Li abbiamo avuti da Ferrante» spiegò la madre «quest’inverno, che ha
ammazzato il maiale, e a buon prezzo, senza tessera né storie. Se hai pazienza
un momento, mentre tuo padre e tuo fratello finiscono di mangiare, io ti pre-
paro un bel minestrone col lardo, e un piatto intero di salame. Eh? Ti va?»
«Son quasi due anni che non lo mangio, il salame» disse Igino. «Non crede-
re, anche qui è stata dura» fece il padre «anche se il fatto d’essere in campa-
gna aiuta sempre.»
«I signori, quelli, della scarsità neanche se ne saranno accorti, eh? Quelli
pieni di soldi, intendo.»
«Eh» lo assecondò un poco il padre. «Il peggio tocca sempre a noi poveret-
ti.»
«I Riva, per esempio, non se ne saranno accorti» volle sapere il giovane.
Il padre non gli rispose, ci fu una pausa.
«Beh, i Riva hanno avuto anche loro un figlio morto» ricordò la madre. «E
poi hanno organizzato quel servizio dei pacchi per voi prigionieri: in paese
davano una mano un po’ tutti, ma la cosa la tenevano in piedi loro. A proposi-
to: ti è arrivata sempre in ordine e godibile la roba? Era mangiabile?»
«Sì, ve l’ho scritto» rispose Igino. Rifletté, poi chiese: «Che Manno è morto
me l’ha detto poco fa Ambrogio, ma non ho capito bene: chi l’ha fatto fuori?
Gli inglesi o i tedeschi?»
«I tedeschi.»
«Gli hanno data la medaglia d’oro, lo sai?» disse il fratello minore.
«La medaglia d’oro, eh?» ripeté Igino; fu sul punto di dire: «Già, solo agli
ufficiali danno la medaglia d’oro» ma si trattenne. Il fatto che Manno non sa-
rebbe tornato più, che non avrebbe mai avuta la consolazione che lui, Igino,
stava pur avendo in questo momento, gli apparve a un tratto nella sua tragici-
tà. «Però, povero Manno!» mormorò.
«Signori e poveretti» disse la madre «la guerra è stata una gran brutta be-
stia per tutti.»
CAPITOLO SETTIMO
Pierello arrivò qualche giorno più tardi, approfittando d’un autocarro che
dopo aver prestato servizio per la Commissione Pontificia fra Verona e
l’Austria, rientrava alla propria base d’Incastigo.
Indossava un’accozzaglia d’indumenti scompagnati, parte militari parte ci-
vili, completati da un cappelluccio tirolese, e sedeva nel cassone scoperto. Al
suo fianco, con la schiena pure appoggiata alla cabina, sedeva un sergente
d’Incastigo, da Pierello incontrato qualche settimana prima a Praga in Ceco-
slovacchia, poi perso di vista, poi la sera avanti incontrato di nuovo casual-
mente a Verona: costui appunto gli aveva procurato il posto sull’autocarro.
A più riprese, durante il viaggio, i due avevano parlato dei recentissimi fatti
di Praga, e in particolare della sollevazione contro i tedeschi cui avevano en-
trambi separatamente assistito. «Sembravano buoni, gente così pacifica i ce-
chi» osservò Pierello «e invece hai visto che roba? Quando si sono scatenati
son diventati come belve.»
«Non devi dire ‘sembravano’: sono veramente di pasta buona i cechi» aveva
obiettato il sergente. «Lascialo dire a me, che ci ho passato in mezzo più d’un
anno. Sono stati i tedeschi a tirarsi addosso il disastro. Lo sai o no com’è co-
minciata?»
«Di quando parli?»
«Del 5 o il 6 di questo mese di maggio, quand’è corsa quella voce che stava-
no per arrivare gli americani. Tu eri ancora a Praga, hai detto.»
«Sì, certo.»
«L’avrai vista anche tu allora la gente nelle strade, che faceva come due
spalliere di popolo, ‘Arrivano gli americani, arrivano gli americani, hanno già
occupato l’aeroporto’ dicevano tutti, e gli lasciavano nelle strade lo spazio ap-
posta per passare, agli americani; tanto che anch’io m’aspettavo di vederli ar-
rivare da un momento all’altro.»
«Sì, questo fatto l’ho visto. Chissà chi è stato a mettere in giro una simile
panzana.»
«Ai tedeschi comunque fino allora non gli avevano fatto niente. Anzi gli di-
cevano ‘Andate a casa, che la guerra ormai è finita’, li ho sentiti io. E anche:
‘V’è andata bene anche a voi, che invece dei russi arrivano qui gli americani’.
«Sì, al principio ho visto ch’era così. Però io intendo dopo» obiettò Pierello
e, con gli avambracci appoggiati sulle ginocchia, spalancò entrambe le mani,
per esprimere la sua costernazione.
«La colpa è stata dei tedeschi, che per liberare le strade han cominciato a
sparare addosso alla gente» disse il sergente: «è stato questo a provocare tutta
quella rivolta. Anzi più ancora di questo è stato il sapere che non gli americani
stavano per arrivare a Praga, ma i russi. La gente è diventata come matta per-
ché, tranne quei pochi comunisti scalcinati con le bandiere rosse, i cechi i rus-
si non li vogliono: li hanno sullo stomaco. Lo sai questo, o no?»
«Eh, l’ho ben visto.»
«Dicevano: ‘Guai a noi. Per colpa di questi porci tedeschi adesso finiamo
per chissà quanti anni sotto ai russi. Per voi prigionieri i dolori stanno per fi-
nire, ma per noi incomincia tutto da capo’. Capisci perché se la son presa così
a morte coi tedeschi?»
«Sì, però ammazzare a sassate anche le donne e i bambini, e farli correre
tutti a quel modo per le strade sotto le sassate, e schiacciarli perfino con i pie-
di... Non può essere brava gente quella che fa così.»
«Io li conosco bene i cechi» ripeté il sergente: «son brava gente, e come.
Prova a metterti tu nei loro panni. Su, prova.»
«Però, a pensarci, quante cose schifose abbiamo visto!» fece Pierello. «Tu
eri ancora là quando sono arrivati quei reggimenti con la croce di traverso sul-
le bandiere? Quei russi passati ai tedeschi, in divisa tedesca?»
«Ah, vuoi dire i cosacchi con la croce di sant’Andrea? No, ne ho soltanto
sentito parlare» rispose il sergente, «perché una volta rimasti senza guardie,
noi siamo scappati via da Praga.»
«Poveri disgraziati quelli. Avresti dovuto vederli» disse Piero. «Non sape-
vano proprio cosa fare: certi si son messi a sparare contro le SS che resisteva-
no ancora, certi invece contro i partigiani comunisti. Che casino, accidenti!»
«Che casino sì» convenne il sergente.
«Io comunque se adesso sono qui lo devo a loro, a quei cosacchi» dichiarò
Pierello. «Perché quando si sono messi in marcia per andare incontro agli
americani (loro sapevano dov’erano), io e un certo Tadeusz, un polacco che
stava con me da più d’un anno, li abbiamo seguiti passo passo, non siamo cer-
to rimasti là ad aspettare i russi. È stato scarpinando dietro i cosacchi che
siamo entrati finalmente nella linea americana: a Suchomast.»
Suchomast il sergente non l’aveva mai neppure sentita nominare. “Povero
Tadeusz” pensò Pierello: “Chissà cosa starà combinando in questo momento!
Chissà se anche lui ce la farà ad arrivare a casa sua...”
A tratti, durante il viaggio, i due avevano parlato anche d’altro: delle condi-
zioni d’Italia per esempio, come le avevano viste a Verona, e come se le vede-
vano intorno dal cassone del camion; erano tuttavia tornati di nuovo agli epi-
sodi orrendi cui ciascuno di loro aveva assistito a Praga, ai quali - per il solo
fatto di trovarsi insieme - le loro menti si sentivano di continuo richiamate.
Finché - superato l’Adda sul ponte di Brivio - erano entrati in Brianza. Ver-
so nord l’anfiteatro dei monti andava gradualmente assumendo la fisionomia
che Pierello conosceva così bene; nell’ultimo tratto prima di Nomana gli erano
infine venuti incontro paesi e luoghi noti. Ecco laggiù, dopo il bivio di Visate,
la cascina Nomanella, con la forma di rettangolo aperto: aveva sempre davan-
ti, allineate, le tre grosse piante di ciliegio e il fico più piccolo. Chissà se in
questo momento ci stava quella bella ragazza quieta, Giustina? E di Stefano
avevano o no avuto finalmente notizie? Quei poveri Ferrante e Lucia... Al
margine nord di Nomana si scorgevano gli alberi del giardino dei Riva: Man-
no... chissà se Manno era tornato?
A Verona l’autista aveva promesso a Pierello che l’avrebbe portato fino alla
sua frazione, la Lodosa, attraversarono perciò Nomana senza fermarsi. Sem-
pre seduto nel cassone con la schiena contro la cabina e il cappelluccio tirolese
in testa, emozionato, il reduce si guardava intorno con avidità: riconobbe uno
dopo l’altro tutti quelli che camminavano per strada, e ne salutò diversi con la
mano e con la voce, tra gli altri Carlaccio che, con gli occhi mesti e le braccia
pendenti, seguitava guerra o no a portare immutabilmente in giro il suo gran
corpo dalla colonna vertebrale offesa. Al pari degli altri Carlaccio impiegò un
certo tempo per riconoscere Pierello, e rispose al suo saluto ch’era ormai fuori
portata di voce. Solo Chin, il portalettere strampalato, che pedalava sulla sua
bicicletta con la grossa borsa di cuoio legata al manubrio, lo riconobbe istan-
tanea-mente e: «Piero, Piero!» gli gridò animandosi: «Bravo il Piero...» per
rimanere però subito indietro anche lui. Il ponte che scavalcava la ferrovia
sembrò a Piero inverosimilmente piccolo; dopo di che, superato il modesto
campo sportivo del paese e certi boschi di robinie, gli venne incontro la cam-
pagna che scendeva alla sua Lodosa. Era coltivata parte a grano, già con la
spiga, d’un bel verde che rubava gli occhi, parte a prato, qua e là percorsa da
filari di gelsi; in basso lungo la bevera i salici e i pioppi s’erano molto infoltiti,
al punto d’impedirgli di vedere l’esigua corrente pulita nella quale tante volte,
da bambino, lui aveva pescato col fazzoletto i ghiozzi, quei pesciolini che sem-
brano insetti. Li pescava insieme con ‘Castagna’ e gli altri bambini della sua
età; per valorizzare la loro pesca infantile Castagna usava affermare: «A me
basta mangiare otto o dieci di questi ghiozzi per sentirmi satollo (sagòll).»
Chissà se adesso Castagna era a casa?
Ecco la Lodosa: non più d’una dozzina tra case e casette, su tre strade ad
angoli retti davanti a una secolare cascina a corte che dava il nome alla locali-
tà; di ciascuno di quegli edifici egli conosceva ogni più minuto particolare. Il
cuore gli batteva forte mentre, levatosi in piedi e tenendosi con le mani alla
ringhiera che sovrastava la cabina, esplorava ogni cosa, se ci fossero cambia-
menti; no, non c’erano cambiamenti, soltanto ogni cosa gli risultava molto più
piccola di come la ricordava.
Era ormai la seretta, l’ora gentile che in campagna precede le ultime fatiche
della giornata; il camion avanzava a piccola velocità, l’aiuto autista sporse a
un tratto ridente la testa dal finestrino, e volgendola verso l’alto: «Dove sta la
tua casa?»
«È là in fondo, una delle ultime. Ma fermatevi qui: avete fatto fin troppo,
fermate, dai, fermate.»
«Quali ultime?»
«Non si vede, è là, dietro quell’edificio.»
«Okay» fece l’aiuto autista, e ritirò la testa in cabina.
Superato l’edificio la casetta entrò in vista; l’autocarro si fermò alquanto
prima sulla strada - anzi stradetta ormai - che fendeva i campi compatti di
grano, all’incrocio con una carrareccia: nella quale entrò in parte a retro mar-
cia per poi, manovrando, disporsi sulla strada in senso inverso, col muso ri-
volto a Nomana; non venne spento il motore, autista e aiuto non scesero di
cabina.
«Piero, sei arrivato» disse il sergente.
«Sì» fece Pierello «sì.» Adesso era quasi spaventato. Prese il sacchetto che
gli faceva da valigia, si premette sulla testa rotonda il cappello tirolese, e sca-
valcata la sponda dell’autocarro saltò a terra; vi giunse un po’ pesantemente,
perché aveva le gambe intorpidite.
La sua casa era a qualche decina di metri, lungo la strada: piccola e piutto-
sto misera (ora se ne rendeva conto), col balconcino bordato da una smilza
ringhiera di ferro tubolare e, a pianterreno, un esiguo vano a mo’ di portico.
All’esterno non c’era nessuno.
Pierello si fece sotto la cabina, col suo sacchetto in mano: «Perché non
scendete a berne un bicchiere?» invitò i due autisti.
Dall’interno della cabina i due gli fecero segno di no, sorridendo, e che ave-
vano fretta; poi lo salutarono, sempre più a gesti che con la voce, e l’autocarro
ripartì. «Ehi... allora vi ringrazio, grazie tante» gridò il giovane.
«Ciao Piero» gli gridò il sergente dal cassone.
«Ciao» rispose Pierello. Così la naia per lui era proprio finita, finita per
sempre. S’avviò verso casa sulle gambe intorpidite.
CAPITOLO OTTAVO
A lato della casetta c’era, intagliato nel grano, un piccolo riquadro di terra
battuta, circondato torno torno da una siepe di ligustro che a memoria del
giovane non s’era mai decisa a crescere bene: forse perché la madre, senza
pensarci, dopo fatto il bucato rovesciava spesso al suo piede l’acqua insapona-
ta del mastello.
Piero attraversò il riquadro e il portico delle dimensioni d’un locale, su un
muro del quale era dipinta a secco una Madonnina ch’egli salutò con un ri-
spettoso cenno del capo; quindi premette con trepidazione il saliscendi della
porta d’ingresso, credendo d’aprirla. Ma la porta non si aprì: era, egli consta-
tò, chiusa a chiave.
Un po’ preoccupato il giovane si accostò all’unica finestra che dava sul por-
tichetto (quella della cucina) e, poggiate le mani sul davanzale, esplorò
l’interno attraverso i vetri per quanto glielo consentivano le tendine. Vide, ac-
ciambellato al solito posto su una sedia, il gatto, che lo esaminò a sua volta
pigramente, con un occhio solo (“Guarda, c’è ancora la gattina nera” approvò
lui); sulla stufa si vedeva una pentola in lenta ebollizione, ne usciva, tra bordo
e coperchio, una lieve traccia di vapore; torcendo il collo e premendo la fronte
contro il vetro, il giovane poté vedere anche, appesa a un muro, la gabbietta
col canarino, il quale all’incontrare il suo sguardo si animò tutto, e cominciò a
dimenarsi e a saltellare. “Ogni cosa è al suo posto, c’è anche il canarino, non ci
sono problemi” respirò il giovane. “Certo la mamma è uscita con Martina per
qualche incombenza, ma non può tardare se ha lasciato la pentola sul fuoco. E
anche il pa’ vedrai, sarà qui a momenti, di ritorno dal lavoro. Non preoccupar-
ti.” A suo maggior conforto notò sopra la credenza la vecchia sveglia rettango-
lare d’ottone: stava coricata su un fianco, Pierello sorrise perché sapeva che il
suo logoro meccanismo funzionava solo se la si teneva adagiata a quel modo.
“Tutto è a posto. Dio ti ringrazio!” mormorò con profonda riconoscenza, ri-
traendosi dalla finestra. “Beh” concluse “posso anche aspettare”.
Era davvero fortunato lui - pensò guardandosi intorno - a ritrovare la sua
casa tal quale. Gli tornavano in mente le città tedesche ridotte a selve di rude-
ri, e le interminabili colonne di profughi che fuggivano dopo avere abbando-
nato tutto, il loro impressionante silenzio mentre andavano e andavano senza
sosta in quel colore di caligine. Chissà cosa n’era a quest’ora della vedova Hu-
fenbach, di Joachim e dell’altro bambino... «Povera gente!» mormorò il gio-
vane. E poveri disgraziati anche quei russi in divisa tedesca, i cosacchi, ch’egli
pochi giorni prima aveva seguito fino a Suchomast. Che incredibile inerzia li
aveva presi tutti quando gli americani avevano loro ordinato di deporre le ar-
mi! «Per noi è finita, ormai siamo uomini morti» si dicevano l’un l’altro con
fatalismo: «Ci mettono in mano a Stalin, non abbiamo scampo.» (Parlavano
russo, ma Tadeusz aveva tradotto per lui.) Chissà poi come gli era veramente
andata... Possibile che gli americani li avessero messi davvero in mano a Sta-
lin? No. Consegnare a freddo migliaia, anzi decine di migliaia di uomini alla
morte, gli americani? Secondo lui era impossibile. E anche secondo Tadeusz
del resto. Già, Tadeusz! Chissà a quello come gli sarebbe andata a finire... “Po-
vero Tadeusz! Non ho mai avuto sulla terra un amico più amico di lui” si disse,
e non era la prima volta, Piero. Che sporca faccenda però questa, che uno non
possa vivere in pace neanche dopo finita la guerra! Erano soltanto i nazisti è i
comunisti che avevano questa schifosa mania, di non lasciare la gente in pace
nemmeno quando si trova a casa sua. Maledetti caini! “Ma perché non fanno
anche loro come questi altri, gli americani e gli inglesi, che in Italia non si sa
nemmeno d’averceli?” Anzi a quel che aveva sentito a Verona, questi aiutava-
no chi era nei guai... Mentre Piero rifletteva, dall’interno della casa gli giunge-
va la voce del canarino che, emozionatosi sempre più, lo stupidello, si era
messo a cantare a squarciagola.
Sulla strada intanto non compariva nessuno. Il giovane si chiese se non gli
convenisse fare una corsa fino alle case più vicine - a quella di Castagna per
esempio - in cerca di notizie; ma risolse che no: l’avrebbero trattenuto senza
dubbio oltre il necessario, avrebbe poi faticato a districarsi.
S’andò a mettere davanti al dipinto della Madonnina: anche il dipinto sem-
brava diventato più piccolo, era alto forse un metro e largo poco più e aveva
sopra una scritta ‘B.V. di Caravaggio’ in caratteri a stampa assai irregolari. La
Madonna era raffigurata in piedi, dentro un’aureola: di fronte a lei stava una
donna in ginocchio con le braccia spalancate per il gran miracolo
dell’apparizione; tra la Vergine e la donna scorreva, in direzione di chi guar-
dava, una roggia. La roggia tuttavia era stata dipinta con una tale ignoranza
delle leggi della prospettiva, che i riguardanti faticavano molto - nonostante il
suo accentuato colore azzurro - a capire che si trattava d’una roggia; ragion
per cui Pierello, da ragazzo, vi aveva graffiato sopra con un chiodo alcune sa-
gome di pesci: non disposti però secondo il verso della corrente, ma di profilo.
Si scorgevano anche adesso: “Guarda, si vedono ancora. Mentre io ero là, a
tirare il carretto sulla Frische Nehrung, questi pesci stavano qui, e adesso li
ritrovo.” Dal tempo in cui il nonno aveva fatto eseguire da un imbianchino il
dipinto per compiacere la nonna (la stessa nonna che raccontava a Piero bam-
bino tutte quelle storie dei vecchi tempi, e dei signori che andavano e venivano
in carrozza attraverso il portone de ‘I dragoni’), da allora le figure erano state
rinfrescate più volte, perché i colori a secco stingono presto; ad ogni ritocco il
bordo intorno alla rappresentazione, di tinta rosso carico, s’era un po’ allarga-
to, e ora appariva decisamente troppo largo. Quanto pregare, ad ogni modo,
davanti a questa sacra immagine! Era qui che ogni sera, anche dopo morta la
nonna, la famiglia usava recitare il rosario e le altre divozioni: le guidava la
mamma, mentre le voci dei piccoli - Pierello se ne ricordava bene - si facevano
lente per il sonno. Rivide il viso invocante di sua madre (“Quante orazioni hai
detto, povera mamma!”) ed ebbe, improvvisa, la cognizione che il suo ritorno
di oggi fosse legato appunto a quel pregare instancabile, che ne fosse stato de-
terminato. «Grazie Madonna» mormorò con commossa semplicità, chinando
la testa: “Ti ringrazio e ti raccomando Tadeusz, che possa anche lui arrivare a
casa sua, e che lo lascino in pace, povero diavolo”.
Ciù-ciu-ciù martellava dall’interno il canarino, dandogli come poteva il ben-
tornato. Che pace c’era qui! Ecco com’era fatta la pace... Il senso di ricono-
scenza verso la Madonna e Dio che gli avevano concesso il ritorno, si assom-
mava nel giovane a questa pace, rendendola perfetta. Ciù-ciù-ciù seguitava a
martellare il canarino; Pierello sorrise.
A un tratto si voltò perché aveva avvertito che qualcuno lo stava osservan-
do. Toh, era Martina, la sua sorella di sei anni, che visibilmente sconcertata,
un dito in bocca, lo guardava dal cortiletto senza osare metter piede dentro il
portico. Aveva - più in piccolo - lo stesso viso tondo del fratello, gli stessi ca-
pelli e occhi color marrone chiaro, la stessa aria modesta; aveva anche un po’
di moccio al naso.
«Martina» esclamò il giovane: «cosa fai? Non mi saluti?» S’avvicinò tutto
emozionato alla bambina: «Ma come, mi vedi qui, che sono tornato, e neanche
mi saluti?» ripeté. «Dov’è la mamma?»
La bambina guardava ora fisso il cappelluccio del fratello. «È andata a dar
da mangiare ai conigli» disse finalmente. Pierello l’afferrò sotto le ascelle e la
sollevò fino a portarne il viso all’altezza del proprio: «E allora? Proprio non mi
saluti?»
«Ciao» fece pianamente Martina, e allungò un dito verso il cappelluccio ti-
rolese.
«Ah, ti interessa il cappello?» il giovane strinse a sé ridendo e baciò la sorel-
lina; poi, depostala a terra: «Dai, accompagnami subito dalla mamma. Dov’è
che li tiene i conigli?»
«Sotto il portico dei Terenghi» rispose la bambina, indicando col dito. E già
fiduciosa, posta la piccola mano in quella del fratello, si avviò con lui.
***
Così, uno dopo l’altro quelli rimasti in vita facevano ritorno da ogni parte,
tranne che dalla Russia. A Nomana gli arrivi si susseguirono per mesi, a mo-
menti fitti - anche due o tre al giorno - a momenti radi, uno alla settimana e
meno.
Molti trovavano a casa penuria d’ogni cosa, qualcuno non aveva neppure un
vestito decente da mettersi indosso, per cui - stimolato dal padre Gerardo -
Ambrogio propose che i consiglieri della vecchia Associazione Combattenti si
mobilitassero per raccogliere fondi al fine di distribuire un taglio d’abito a cia-
scun reduce dalla prigionia. S’impegnò personalmente, visitando in coppia col
presidente dell’associazione, ch’era un ufficiale della guerra precedente, tutti i
possibili oblatori di Nomana e delle frazioni. Abbastanza in fretta - anche se
non con facilità - la somma necessaria fu raggiunta, e a metà estate si poté
procedere - nel salone dell’oratorio pavesato di bandiere tricolori - alla distri-
buzione dei tagli d’abito. L’effettuarono le ragazze del paese, e grazie alla loro
festosità sincera la cerimonia riuscì gradevole e autentica.
II
CAPITOLO NONO
Tagliato fuori da tutto ciò che succedeva in Italia e nel mondo, lontano co-
me se fosse sull’altra faccia della luna, Michele continuava in Russia la trita
vita del prigioniero. Le sue condizioni avrebbero dovuto da un certo tempo in
qua essere migliori, perché le autorità sovietiche - che non avevano sottoscrit-
te le convenzioni di Ginevra - s’erano improvvisamente risolte, per ragioni di
propaganda, a trattare i prigionieri di guerra appunto secondo tali convenzio-
ni. Con esclusione tuttavia d’alcuni importanti diritti, tra cui fondamentale
quello alla corrispondenza. In pratica le cose finivano con l’andare su per giù
come prima, tranne quanto al lavoro, divenuto per gli ufficiali facoltativo, per i
soldati meno duro.
Da Oranchi - dove l’abbiamo lasciato - alla fine del 1943 il giovane era stato,
con tutti gli altri ufficiali italiani superstiti nei diversi lager, trasferito a Su-
sdal, uno dei luoghi santi dell’ortodossia, situato tra Mosca e il Volga. Il borgo
contava diversi conventi, tutti trasformati in lager, e ben cinquanta chiese, di
cui neppure una in funzione; nel maggiore dei conventi, circondato da una
muraglia seicentesca in rovina, era sistemato il lager per prigionieri di guerra:
sugli spalti parzialmente franati della muraglia le guardie bolsceviche avevano
costruito le loro garitte, e vigilavano armate di mitragliatrici i laceri branchi di
militari non solo italiani, ma anche tedeschi, romeni, ungheresi.
Dai muri interni degli edifici li guardavano invece tante piccole schiere di
santi ieratici, dipinti al modo bizantino: tutti con gli occhi ugualmente spalan-
cati, i visi smunti e severi, le membra e le vesti rigide. “Religio depopulata” si
diceva con sgomento Michele incontrando quei muti sguardi: e ogni volta —
affinché le immagini adempissero, malgrado tutto, alla funzione per cui erano
state dipinte - recitava mentalmente una preghiera. Si chiedeva talora che fine
avessero fatto i monaci di Susdal: chissà se qualcuno vegetava ancora in qual-
che luogo della sterminata Russia, come quella povera suor Natalia e le altre
poche suore contadine recluse nel lager per donne di Oranchi? Durante il la-
voro s’era provato a interrogare al riguardo alcuni civili, dai quali aveva avuto
conferma che in tutti i conventi della città santa s’erano succedute e continua-
vano a succedersi ondate di deportati civili, e che un numero incalcolabile di
loro vi era morto; dei monaci che li popolavano un tempo tuttavia nessuno
aveva saputo dargli notizie.
Gli ufficiali sovietici del lager e gli stessi commissari italiani fuorusciti (gen-
te ben più smaliziata dei russi) non riuscivano ancora a capire il suo compor-
tamento. Lo vedevano amico degli elementi che avevano fama di ‘irriducibili’
perché puntualmente si opponevano con tenacia alle iniziative servili dei po-
chi ‘antifascisti’, i quali cercavano di spingere la massa a compiacere i guar-
diani. Notavano inoltre che coi suddetti ‘antifascisti’ egli non legava affatto.
Ma d’altra parte constatavano pure che nessuno s’impegnava quanto lui nello
studio dei testi marxisti, leninisti e stalinisti, sia di teoria che di storia, assimi-
lando lentamente un grosso volume dopo l’altro, al punto d’arrivare a domi-
narne la materia meglio degli stessi istruttori e conferenzieri; questo fatto fi-
niva anzi col destare in molti prigionieri qualche riserva nei suoi riguardi.
Richiesto direttamente da più d’un istruttore se ciò che veniva studiando lo
convincesse, aveva ogni volta risposto di non avere finora studiato abbastanza,
e che prima di pronunciarsi gli occorreva studiare ancora.
«Beh, si convincerà per forza» affermavano essi, con un’ottusità che a Mi-
chele pareva quella propria dei bruti, buoi e simili animali: era infatti per loro
inconcepibile che, anche in quell’inferno reale, uno potesse venire a contatto
con la radiosa dottrina marxista del futuro paradiso in terra, senza esserne
conquistato.
***
Nella seconda metà dell’anno 1944, penetrate le truppe russe in Polonia,
c’erano state le prime scoperte dei lager di sterminio nazisti. I giornali e la
radio le avevano da principio diffuse in Russia con qualche reticenza, comuni-
cando certi particolari e tacendone altri: dimostravano un’ovvia difficoltà a
richiamare l’attenzione generale sull’ambiente concentrazionario, sia pure
nemico. Non così i commissari fuorusciti italiani, i quali ritennero d’avere
l’argomento definitivo per tirare dalla propria parte la massa dei prigionieri:
nei loro cervelli di poca luce infatti antinazista (antifascista, com’essi usavano
dire, confondendo di proposito) equivaleva a procomunista.
Dopo una di tali scoperte avvenuta a Maidanek presso Lublino il loro capo
Paolo Robotti - cognato del segretario del partito comunista italiano Togliatti -
era venuto di persona a Susdal, e nel corso d’una tesa conferenza aveva con
gravità elencato i ritrovamenti: camere a gas, forni crematori, circa un milione
di scarpe appartenute a uomini, donne, miseri bambini, quintali di capelli
femminili suddivisi per colore, parte imballati e parte no. «L’indagine ha ac-
certato» disse e ripeté «che i corpi umani inceneriti nei forni sono stati intor-
no a seicentomila.» Terminata la sua funerea conferenza aveva distribuito
all’uditorio, incupito e tetro, un certo numero di giornali russi con la notizia; si
era quindi trattenuto qualche giorno nel lager a commentarla, anche passeg-
giando nei cortili con piccoli gruppi di ufficiali.
«È raggiante, lo vedete? È felice di un’enormità simile, solo perché fa il suo
gioco» commentavano alcuni, incerti tra ira e sgomento.
Altri dicevano: «Questo a lui pare che riscatti i crimini comunisti.»
Quanto a Michele si limitava a commentare coi suoi pochi amici: «Che fes-
so, vedete? Non si domanda nemmeno perché queste atrocità si verifichino
oggi, cioè contemporaneamente a quelle comuniste, dopo che da secoli
l’umanità civile credeva d’essersi lasciati indietro per sempre simili orrori.»
Studiando i sacri testi del marxismo egli aveva ormai afferrato con chiarezza
alcune realtà fondamentali: e in primo luogo che le idee più importanti in essi
contenute procedevano dalle medesime fonti anticristiane da cui procedevano
anche i comportamenti nazisti. A dirla in breve quelle idee e quei comporta-
menti procedevano dall’idealismo tedesco, e più su dall’illuminismo sei e set-
tecentesco, e più su ancora dalla ribellione di Lutero, e più su
dall’antropocentrismo rinascimentale; procedevano inoltre da alcune linee di
pensiero anticristiano derivate da quelle stesse fonti, come per esempio il dar-
vinismo voltato in filosofia atea. In sostanza Michele s’era reso conto che mar-
xismo e nazismo avevano un numero straordinariamente elevato d’antenati in
comune, erano cioè dello stesso sangue. E infatti entrambi - in un’antitesi or-
mai quasi perfetta col cristianesimo, che è amore - si esplicavano attraverso
analoghi meccanismi d’odio: soltanto mentre nel marxismo c’era una classe
redentrice (il proletariato) chiamata a rovesciare e ‘reprimere’ le altre classi,
nel nazismo c’era invece una razza eletta, chiamata a dominare e ad asservire
le altre razze. Vero che il nazismo - più moderno - faceva rispetto al marxismo
un passo avanti, in quanto non prevedeva affatto il recupero teorico alla sua
società nuova (millenaria, al pari di quella comunista) dei rovesciati e repres-
si, ma emancipatosi dalle utopie umanitarie laiche ottocentesche ancora pre-
senti nel marxismo, proclamava di voler dominare, stradominare e basta. In
compenso tuttavia, essendo - a guardar bene - più propriamente un rovescia-
mento dell’ebraismo che del cristianesimo, il nazismo finiva con l’essere di
gran lunga meno universale del marxismo, e in conclusione - Michele pensava
— meno pericoloso per l’umanità.
La notizia dei ritrovamenti di Maidanek aveva prodotto nel lager molta
sensazione, non solo tra i prigionieri italiani ma anche tra quelli delle altre
nazionalità, soprattutto fra i tedeschi, i quali ne furono particolarmente scossi;
non pochi di loro - in particolare ufficiali e soldati delle truppe di linea - si ri-
fiutavano di crederla vera, perché gli sembrava impossibile che tanta loro di-
sponibilità e spirito di sacrificio fossero stati traditi dai capi a quel modo. Una
cosa era infatti la durezza e sia pure la brutalità nel condurre la guerra - en-
trambe congeniali da sempre alla loro nazione - e un’altra cosa questa elimi-
nazione massaie d’inermi, di gente indifesa, che per la stessa Germania era
una terribile novità.
«Ad ogni modo non potete dubitarne, è una cosa troppo in linea col fanati-
smo dei nazisti» dicevano loro gli italiani.
La cui reazione non fu comunque quella sperata da Robotti: tranne i soliti
pochi ‘antifascisti’ dichiarati, i prigionieri non mostrarono in alcun modo di
propendere per il comunismo «che stava prostrando la belva nazista». Una
volta partito il commissario (il quale avvertì che sarebbe tornato non appena
fatto il giro degli altri lager con prigionieri italiani) s’erano però ritrovati con
la tremenda notizia tra le mani. Dunque non bastavano tutti gli indicibili orro-
ri e le innominabili bestialità compiute dai rossi: alla resa dei conti risultava
che i nazisti ne avevano compiuti d’analoghi e fors’anche di peggiori (per
quanto non fosse facile pensare a qualcosa di peggiore di Crinovaia, per chi
c’era passato).
«Come possono i tedeschi avere anche loro persa la testa fino a questo pun-
to?» si chiedevano sgomenti molti prigionieri.
«Almeno adesso vi rendete conto che non è questione di arretratezza?» Mi-
chele faceva osservare a padre Turla e agli altri suoi compagni di squadra:
«Che è sbagliato imputare simili fatti all’arretratezza russa? O forse dovremo
parlare anche di arretratezza tedesca?»
Padre Turla, di nuovo ammalazzato e ridotto a pesare cinquanta chili, non
era più da un pezzo, come sappiamo, il naciàlnich della squadra. Passava mol-
to del suo tempo nella cella (còmnata) del convento-lager che divideva con
Michele e altri otto prigionieri, seduto al suo posto, sotto una straziante croce-
fissione bizantina col Cristo magrissimo circondato da soldati romani in vesti
lunghe fino ai piedi: ancora più lunghe dei cappottoni dei soldati russi moder-
ni.
«Queste cose» finì un giorno con raffrontare decisamente l’argomento Mi-
chele «noi ce le dobbiamo spiegare, se l’intelletto non ce l’abbiamo per scher-
zo. Dobbiamo individuare da cosa deriva questa incredibile marcia indietro
del mondo verso la barbarie, verso le caverne. E se sia possibile arrestarla op-
pure no.»
«Ho capito. È la tua idea fissa della scristianizzazione, vero?» gli disse, vol-
gendo verso di lui la faccia smunta padre Turla.
«Già. Prendiamo per esempio gli argomenti di quel disgraziato ch’è venuto
a tenerci la conferenza il mese scorso...»
«Quale disgraziato? Qui i disgraziati che vengono a tenere conferenze si
sprecano.»
«Quello dell’università di Mosca.»
«Ah, il professore... Ma cosa vai a rivangare? Io le sue boiate non le ho
nemmeno ascoltate.»
Anche gli altri presenti nella cella, tutti seduti sui pagliericci ripiegati contro
il muro, tentennarono la testa: i soliti discorsi astratti del Tintori, la sua eterna
mania.
«Beh, se tu, se voialtri, quel giorno foste stati attenti come vi consigliavo io,
se invece di sbuffare adesso, aveste allora seguita la conferenza, vi sareste se
non altro resi conto che senza la filosofia sviluppatasi nell’ambiente e nelle
università protestanti, e in particolare senza Hegel e Feuerbach, le teorie di
Marx e di Lenin non sarebbero mai potute nascere, sarebbero oggi semplice-
mente inconcepibili. Proprio come - ricordiamolo - senza i discorsi di Nietsche
sul ‘superuomo’ e sulla ‘volontà di potenza’, sarebbe inconcepibile Hitler.»
Gli altri alzarono le spalle e non ribatterono; padre Turla, oltre tutto, era
troppo sfinito per farlo. Michele concluse, come altre volte, col ritrovarsi a ri-
muginare da solo; c’era abituato del resto. Seduto sul suo pagliericcio prese a
riflettere in silenzio. Non erano astrazioni gratuite le sue, non si trattava d’un
gioco: si trattava dell’obiettivo perché dei maggiori massacri della storia.
L’eresia protestante... eccoli qui i suoi frutti! Gli tornò in mente la paura, il
terror panico addirittura, che nel medio evo - nel ‘suo’ medio evo - si aveva
dell’eresia. Gli eretici allora erano considerati nocivi quanto la peste... E in
effetti ecco cos’era derivato dall’affermarsi dell’eresia: le decine e decine di
milioni di morti prodotti dal comunismo e dal nazismo. “E non è detto che sia
finita: anzi, se non si riuscirà a rovesciare l’andamento delle cose, forse non
siamo che al principio. Chissà cosa ci riserva il futuro!” Davanti a tale prospet-
tiva, emozionato com’era, gli veniva quasi voglia di giustificare l’inquisizione...
Nella bibliotechina del lager c’erano i libri di Llorente in edizione francese, e
lui se li era coscienziosamente letti: nell’epoca culminante, quella di Torque-
mada, le vittime dell’inquisizione erano computate in 10.220: un dato che
aveva l’aria d’essere gonfiato; ad ogni modo era evidente che in tutta la sua
storia plurisecolare l’inquisizione aveva fatto molte meno vittime di quante ne
facessero ora nel corso d un solo anno Stalin o Hitler. “In fin dei conti, se con
quelle poche migliaia di morti fossero davvero riusciti a evitare tutti i milioni
di oggi, quasi quasi...” Lo sguardo gli si fermò sul crocefisso: il Cristo dal viso
straziato - egli si rese conto - era adesso lì a subire dolorosamente anche que-
sto ragionamento col quale si pretendeva d’approvare che nel suo amorevole
nome tanti esseri umani fossero stati uccisi, bruciati vivi... “Ehi, Michele, cosa
ti prende? Approvare che si possa ammazzare il prossimo in nome di Cristo?
Stai perdendo l’intelletto anche tu?” Il giovane tentennò la testa e tirò un so-
spiro. Risolse che, certo, l’inquisizione andava condannata e senza scampo,
ma a una precisa condizione: che a condannarla fossero i cristiani, non gli al-
tri.
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
CAPITOLO DODICESIMO
***
Di che parlare, per la verità, aveva ugualmente. E non mancò di farlo già di
lì a qualche ora, nell’intervallo del rancio.
Tito - nel timore d’essere contagioso - si era andato a sedere un po’ in di-
sparte dalla sua squadra, su una piccola proda erbosa tra gli edifici sparsi del
colcoz; qui Michele l’aveva raggiunto, e dopo essersi meglio informato sulla
sua salute (“Povero disgraziato, guarda com’è ridotto! Chissà se ce la farà a
tornare a casa”) aveva - sempre parlando in dialetto - ricordato con lui certi
particolari della Brianza, come la piazza di Nomana, il trenino delle ‘littorine’,
il ponte d’Incastigo, la cerchia delle Prealpi col Resegone, le due Grigne e il
San Primo, tutte cose che da qui parevano per sempre irraggiungibili. Dopo di
che non aveva saputo trattenersi dal fare al Valli qualche domanda relativa
alla stazione di Cazan e agli spaventosi convogli che quotidianamente vi giun-
gevano dalla Romania.
«Che cose! Oh, che cose!» intercalava ogni tanto le proprie risposte il solda-
to. Non aveva persa la sua sensibilità, e il parlare di così atroci fatti lo sgomen-
tava e metteva in agitazione; guardava a momenti l’ufficiale compaesano negli
occhi, quasi a cercarvi qualcosa: un appiglio, un’ancora cui aggrapparsi in tan-
to orrore.
«Basta» finì col risolvere Michele, trattenendosi dal fargli altre domande
«per adesso basta. Senti, ho qui qualcosa che ho fregato a Stalin.» Infilò la
mano in una delle due tasche laterali della giubba che apparivano gonfie, e la
ritrasse piena di frumento: «Ti va, Tito?»
Il soldato lo guardava senza parlare, sembrava ancora con la mente a Cazan.
«Si può mangiarlo anche crudo» spiegò, del tutto superfluamente, Michele:
«basta metterne in bocca poco per volta.»
«Sì, lo so» disse l’altro. Infine riunì le proprie mani a coppa; l’ufficiale vi
depose una prima manciata di grano: era dorato, pulito, invitante.
«Sai cosa facciamo?» disse Michele: «Qua, tieni aperta questa tasca che te
la riempio.» Stavano seduti ambedue sulla scarpata erbosa della ‘colonia spa-
gnola’ (due casupole circondate da una rete metallica): Michele si mise su un
ginocchio e cominciò il travaso del grano; l’altro teneva aperta la tasca e os-
servava senza commentare.
«Tanto la guardia della vostra squadra» (era l’unica in vista) «se ne frega»
osservò Michele. «Quel mongolo là, quella faccia di gialdone... Lo sai che pri-
ma era una delle peggiori carogne del lager? Adesso invece pare diventato un
pezzo di pane.» (Ignorava il perché: ignorava che l’intero popolo cui la guardia
apparteneva, quello dei Tatari di Crimea, era stato ultimamente - uomini,
donne, bambini, sani e malati - deportato dai comunisti in Siberia. In quelle
settimane stavano percorrendo le ferrovie russe gli ultimi convogli di deporta-
zione; la guardia non faceva che domandarsi giorno e notte quale fosse la sorte
dei suoi famigliari sui terribili treni a piccola velocità: avrebbe voluto aiutarli,
e nello stesso tempo viveva nel terrore di essere deportata a sua volta.)
«Facciamo conto d’essere ‘a sposa’ a Nomana, eh?» disse ancora il sottote-
nente «e che questi siano confetti.»
Tito sorrise: «Quanti confetti» mormorò.
«A saccocciate» disse Michele: «Sono di quelli piccoli, che si buttano in te-
sta agli sposi.»
«Nomana...» mormorò Tito. Quanto appariva lontana a tutt’e due!
«Señor» si udì una voce alle loro spalle.
Voltarono entrambi la testa: un ragazzino era venuto alla rete, e di là, da
una distanza di pochi metri, li stava osservando. Michele sapeva che la ‘colo-
nia’ era composta per intero di ragazzi tra i dodici e i quindici anni: forse cin-
quanta, forse sessanta ragazzi spagnoli; ne aveva incontrati più volte sul lavo-
ro. «Cosa vuoi?» gli chiese bonariamente.
«Confieti, los confites, señor» mormorò il ragazzo.
Il sottotenente si mise a ridere. «Questi non sono confetti: no estàn confi-
tes» disse in uno spagnolo alquanto arbitrario, mostrando il frumento che te-
neva in mano, e riprese il lavoro di trasferimento nella tasca di Tito.
«Confites, señor, confites!» disse con voce più forte il ragazzo.
Michele gli fece sorridendo segno di no con la testa; alcuni altri ragazzi era-
no intanto usciti dalle casupole e venivano verso la rete. Erano vestiti di strac-
ci, avevano in genere capelli neri, folti, e le sopracciglia e i visi marcatamente
disegnati, gli occhi vivaci: chiaramente non erano russi. «Confites, confites»
cominciarono essi pure a chiedere: pronunciavano la parola piuttosto male,
probabilmente la stavano riscoprendo dopo chissà quanto tempo.
«Chi sono quelli?» domandò Tito.
«Sono gli spagnoli. Ne hai sentito parlare, no?»
«Io no. Ma sono dei bambini... Com’è che sono prigionieri?»
«Sono di quei bambini che i rossi hanno portato via quando han dovuto ri-
tirarsi dalla Spagna: è successo verso la fine della guerra, nel 38-39. In Italia
l’avrai sentito dire di questi bambini.»
«Ah, sì, qualcosa infatti.»
«Ce n’è diversi che adesso non ricordano più la loro madre e neanche la
Spagna. Non si può nemmeno dire che parlino veramente lo spagnolo, ma una
mescolanza di spagnolo e russo. L’intenzione dei rossi era di tirarli su nel co-
munismo, per poi utilizzarli in Spagna come propagandisti. E forse, chissà, lo
faranno anche, ma fino a oggi si sono limitati a tirarli su negli stracci, senza
insegnargli niente o quasi. Io li ho incontrati al lavoro nel colcoz e ci ho parla-
to.»
«Ma» disse Tito «non capisco bene. Sono orfani dei rossi, oppure sono figli
di... altri; voglio dire, sono stati rubati?»
«Questo gliel’ho domandato anch’io, ma i ragazzi non lo sanno. Da come li
tengono sequestrati sembrerebbero figli di anticomunisti: però ci sono forse
anche degli orfani di comunisti, chissà.»
«Che cosa!» mormorò il Tito Valli con spossatezza, e ripete: «Che cosa!»
«Sì, poveri ragazzi» convenne Michele.
«Confites, señor» gridò più forte il ragazzo, vedendo che i due militari inve-
ce di prestargli attenzione conversavano tra loro; anche gli altri allora si mise-
ro a urlare: «Confites, confites!»
«Ehi, muchachos» disse Michele levandosi in piedi, e dirigendosi un po’
preoccupato verso il gruppo: «non gridate così. Ticho, ticho (niente chiasso: in
russo).»
Si fermò davanti alla rete metallica: «Vedete no? Questi qui non sono con-
fetti, no estàn confites.» Tornò al russo: «È zernò (frumento). L’ho fregato al
colcoz: zabràl (rubare)» fece il gesto con la mano «en el colcoz: anche voi ne
zabrate quando potete, non è vero?»
I ragazzi, raggruppati al di là della rete, erano ammutoliti e lo guardavano
con gli occhi neri pieni di delusione. Michele provò una stretta al cuore: non
aveva nulla, proprio nulla da offrire a degli innocenti così bestialmente violen-
tati... «No estàn confites» ripeté sorridendo un po’ melenso, e fece scorrere il
grano da una mano all’altra. «No son confites, no» ammise uno dei ragazzi, e
tentennò la testa: «No existen confites aqui en Rossìa.»
Michele approvò: «Ecco, giusto.»
Il ragazzo, che era lacero come un mendicante, ma aveva un bel viso fiero,
esclamò: «Este, señor, es el pais de la mierda.»
Dopo di che si staccò dalla recinzione e s’incamminò al pari degli altri verso
le due baracche. Michele tornò da Tito che, volgendo all’indietro la sua faccia
gialla, gonfia, da malato, aveva seguita ogni cosa attentamente. «Dei bambini
rubati» disse: «Io, quando in Italia la radio lo diceva, non ci credevo.»
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
III
CAPITOLO QUINDICESIMO
***
Nel corridoio della facoltà di scienze economiche incontrava a volte (e se
non la incontrava l’andava magari a cercare) Fanny, alla quale per laurearsi
mancavano meno esami che a lui. Adesso la ragazza non indossava più la divi-
sa candida e inamidata con la croce rossa, bensì, come tutte in università, il
grembiule nero. «Oh! Ecco il mio paziente!» lo salutava lei festosa. (Non dice-
va «il mio guerriero» come quel giorno a Stresa: di quell’unico momento di
tenerezza che c’era stato tra loro, essi, stranamente, non avevano mai parlato.)
«Ciao, sorella D.O.V.» le rispondeva di solito lui: «Sempre in forma, eh?»
Se qualcuno degli studenti più giovani li udiva, non comprendeva il loro
gioco. «Dov? Sei straniera?» capitò che qualcuno chiedesse a Fanny.
«I miei vecchi sì, visto che mi chiamo Mayer.»
«Dov Mayer?»
«Sì» tagliava corto Ambrogio: «Dov Mayer, precisamente». Degli antichi
compagni che usavano designarla con quell’appellativo D.O.V. (Dagli Occhi
Verdi) a lezione ne incontravano pochi ormai, perché parte erano oltre il loro
livello di studi, parte avevano abbandonata l’università, qualcuno era morto.
A volte terminate le lezioni Ambrogio e Fanny uscivano insieme in piazza
sant’Ambrogio; la ragazza - sempre elegante nonostante i tempi - indossava
gonne sportive che, con quei suoi capelli corti alla paggio, la facevano apparire
molto giovane, Ambrogio ne subiva inconsciamente il fascino.
«Ti sta bene, posso dirtelo?» dichiarò una volta, un pomeriggio.
«Cosa?» domandò lei, talmente sorpresa da arrestarsi.
Egli indicò col mento la sua gonna di disegno scozzese: «Intendo quella.»
«Ah, la gonna. Grazie.» E divertita, riprendendo a camminare: «Però. Come
ti sbilanci oggi!» Nel suo ambiente, che lei definiva ‘very borghese e molto cit-
tadino’, era abituata a ben più disinvolti complimenti. Proprio per questo i rari
complimenti del ragazzo tetragono e semplice che ora le camminava al fianco
la toccavano, le riuscivano graditi.
«Senti Ambrogio» gli chiese: «cos’hai in programma di fare oggi?»
«Per cominciare ti offro un caffè, diciamo al bar che c’è qui all’incrocio con
corso Magenta.»
«Per cominciare va bene. E poi?»
«E poi, beh, ti offro anche le paste.»
«Non miravo a questo, non sono così ingorda. Volevo sapere cosa conti di
fare dopo preso il caffè.»
«Potrei accompagnarti fin sotto casa tua. Stai in via Boccaccio, ricordo be-
ne?» (Ricordava bene, sì: gliel’aveva detto lei stessa a Stresa; gli aveva anche
spiegato d’essersi iscritta all’università cattolica anziché alla governativa per
semplice comodità, appunto perché abitava vicino alla cattolica; Ambrogio
l’aveva debitamente redarguita: «Chi ha cervello» le aveva all’incirca detto «la
scelta della Cattolica la dovrebbe fare per ben altre ragioni che per la comodi-
tà».) «Allora, ricordo bene o no?»
Fanny mosse la testa: dapprima in senso verticale, affermativo, a significare
che sì, ricordava bene; e poi in senso orizzontale, come a dire no, vedo che non
c’intendiamo. «Vorrei sapere qual è oggi il tuo programma. Conti di prendere
subito il treno per il paesello?»
«No, devo prima cercare un libro in centro.»
«Oh, finalmente! Beh, se mi vuoi ti accompagno.»
«Certo che ti voglio» disse Ambrogio. «C’è bisogno di chiederlo?»
“Ma allora, se è così, perché non m’inviti mai?” gli rispose mentalmente
Fanny, guardandolo per un momento negli occhi.
CAPITOLO SEDICESIMO
Usciti dalla piazza entrarono nel bar di corso Magenta, dove Ambrogio or-
dinò due caffè e le paste, precisando: «Se poi tu, non essendo ingorda, non le
vuoi, pazienza: vuol dire che le mangerò io.» «Beh, se proprio intendi offrirmi
le paste» disse Fanny sorridendo divertita «allora non è il caffè ma il tè che
dovresti ordinare.»
«Sì eh? Va bene» il giovane cambiò l’ordinazione.
Mentre, lieti di trovarsi uno accanto all’altro, attendevano il tè seduti a un
tavolino, sul marciapiede oltre la vetrina del bar passò un piccolo prete di car-
nagione scura, che Ambrogio riconobbe all’istante: si trattava del suo vice ret-
tore di collegio, don Clero Indigeno, da noi già incontrato sulla spiaggia di Ce-
senatico; istintivamente il giovane gli fece un segno di saluto con la mano.
Il piccolo prete notò quella mano in movimento al di là del cristallo - mira-
colosamente illeso - del bar, e, arrestatosi, scrutò all’interno, per vedere a chi
la mano appartenesse: riconosciuto Ambrogio s’illuminò in viso e s’affrettò
all’ingresso. L’ex discepolo gli andò incontro e stringendogli lietamente la ma-
no: «Invece d’essere al lavoro in collegio, siamo in giro a zonzo, eh?» lo salutò
nell’antico frasario; incontrare il vicerettore era un tornare indietro nel tempo,
ai bei giorni irresponsabili.
«Taci, pezzo di lazzarone» gli rispose Clero Indigeno, a sua volta nell’antico
frasario, che per lui però non era antico ma tuttora corrente. Prima ancora
d’interessarsi a Fanny s’informò tuttavia con premura: «Dì, infingardo, ti sei
ripreso? Stai bene adesso? Perché quel giorno a Stresa non m’eri piaciuto, lo
sai? Non m’eri piaciuto per niente.» Si riferiva a una visita che gli aveva fatta
all’ospedale quasi due anni prima (era stato il loro ultimo incontro) : «Adesso
però mi sembri in ordine. Non sbaglio vero?»
«No, non sbaglia, grazie.» E presentando Fanny, seduta in sorridente attesa
al tavolino: «Se sto bene, io lo devo a lei» disse. «La riconosce? Attento a non
dire di no perché sarebbe una gaffe: questa donzella lei l’ha già incontrata.»
Il vicerettore non andò col pensiero alla crocerossina di Stresa, alla quale
durante la sua visita non aveva, si può dire, fatto caso; frugò invece più indie-
tro nel tempo, e ricordò l’altra ragazza (Tricia) con cui Ambrogio, appena usci-
to di collegio - incosciente, infame! - passeggiava sulla riva del mare a Cesena-
tico; era bionda infatti: magari a Cesenatico sembrava anche più bionda
d’adesso, ma vatti a fidare del colore delle donne. «Certo che la riconosco»
esclamò «si capisce. C’è bisogno di chiederlo?» E a mo’ di punizione gli diede
con la mano aperta una pacca sulla schiena. Tendendo poi la medesima mano
a Fanny: «Buongiorno figliola» le disse in tono caricaturale, mellifluo, pren-
dendo in giro sé stesso: «Piacere di rivederla. Dunque lei sembra fidarsi di
questo... diciamo individuo, eh?»
Fanny sorrise divertita, pur non comprendendo dove l’altro volesse arriva-
re: «Non dovrei fidarmi, è vero reverendo?» rispose stando al gioco.
«No, signorina, no, mai, neppure per un momento, neanche per un istante»
disse il vicerettore. «Stia attenta che questo sciagurato, portandola a spasso
come faceva a Cesenatico sulla riva del mare, finirà col farcela cadere dentro.»
Fanny non capiva. Ambrogio invece intuì a volo l’errore: «Non del mare, del
lago deve dire. Con questa qui, con Fanny, ho passeggiato - piuttosto poco
magari - in riva al lago, a Stresa. Perché era la crocerossina del mio reparto,
oltre a essere mia compagna d’università: è a Stresa che lei l’ha vista. Quella di
Cesenatico è un’altra, si chiama Tricia.» Si mise a ridere di gusto, scuotendo la
testa: «Questa poi! Ah, questa è buona, questa è proprio buona!»
Non riuscì in un primo tempo a ridere il vicerettore, che anzi arrossì tutto:
«Allora sono due ragazze diverse» esclamò.
«Certo, proprio così.»
«Mascalzone!» Lo colpì di nuovo con forza sulla schiena col palmo della
mano aperta. «E sembravi uno dei pochi elementi seri della tua classe. Ma
guarda che razza di filibustiere!»
Ambrogio seguitava a ridere; anche Fanny adesso rideva.
«Mi scusi signorina se non l’ho subito riconosciuta.»
«Le pare? È solo un piccolo qui pro quo, reverendo; non è niente.»
«E dire» mormorò Clero Indigeno «che io passo per fisionomista.»
«È vero» convenne Ambrogio. «Eh, a far credito a lei si sbaglia sempre.»
«Taci tu, poligamo» (nonostante la sua disinvoltura, Fanny strabuzzò per
un istante gli occhi.) «Oh, povero me, come invecchio! È che la divisa da cro-
cerossina e la cuffia e... E poi le circostanze, quel giorno io ero molto preoccu-
pato per questo sciagurato che non se lo merita, e...»
«Certo!» ricordò Fanny: «Durante la sua visita io sono rimasta nella stanza
soltanto pochi minuti, ma ho visto bene che lei era preoccupato. Tanto che al
principio la credevo un parente.»
«Son tutti parenti per noi questi ragazzi» disse il vicerettore: «sono i nostri
figli, questi pezzi di disgraziati.» Sospirò, temette d’apparire sentimentale:
«Che gaffe però» concluse; e rivolto ad Ambrogio: «Da voi sotto le armi chi
‘gaffa’ paga la consumazione, è vero?» Usava il presente, quasi che Ambrogio
fosse ancora alle armi.
«Sì» gli rispose questi «anche se per caso si tratta del cappellano, è tenuto a
pagare come tutti gli altri, né più né meno.» Dopo di che al momento del saldo
cercò invano di pagare lui: il vicerettore non glielo permise.
Pagato il conto con frasi che suscitarono anche l’ilare approvazione della
cassiera (in quel momento nel bar non c’erano altri avventori), il piccolo prete
se ne andò sospirando, ma già con evidenza più divertito che mortificato
dall’episodio.
«Non ho mai incontrato un prete così» disse Fanny, ancora tutta ridente, ad
Ambrogio: «Si comporta sempre a questo modo?»
«Sì, press’a poco. Credo che la sua intenzione, di partenza almeno, sia di
farsi ‘ragazzo coi ragazzi’ per motivi apostolici, capisci? Come dice... chi? mi
pare san Paolo. Un po’ alla volta però questo modo di fare è diventato per lui
una seconda natura.»
«Sì, mi son resa conto. È molto simpatico ad ogni modo.»
«Sì, questo puoi dirlo.»
«Adesso ti crederà un impenitente dongiovanni.»
«No» disse Ambrogio: «mi conosce bene.»
«Forse» insinuò Fanny «è proprio perché ti conosce che lo penserà.»
«Tu credi?» fece il giovane, assumendo un’aria sibillina per stare allo scher-
zo. Ma lasciò subito perdere e fece segno di no con la testa.
A Fanny però, da quel giorno una sfornatura di dubbio sembrò rimanere;
Ambrogio notò che, incredibilmente, un tale sospetto non le dispiaceva, e anzi
lo faceva in apparenza crescere nella di lei considerazione.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Da quel giorno uscirono più spesso insieme dall’università, di solito per ini-
ziativa di Fanny. La quale: «Se uno vuol prendere qualcosa, non è affatto ob-
bligato a entrare come per inerzia nel primo bar che trova» gli spiegò una vol-
ta. «C’è locale e locale: per esempio qui in corso Magenta c’è la boiserie di
Marchesi, che è uno dei posti più chic di Milano.»
«La... cosa?»
«Boiserie. Caffè diciamo. L’avrai sentita almeno nominare, spero.»
«No.» Ambrogio fece segno di no con la testa. Era vissuto per sette anni in
un collegio che dava appunto su corso Magenta, eppure non aveva mai sentito
nominare la boiserie di Marchesi.
«Oh, Ambrogio, sei esasperante!» Fanny provò per lui un senso di materna
tenerezza.
***
Nel corso di una di quelle tranquille passeggiate si trovarono la strada ta-
gliata da un corteo di manifestanti che, risalito corso Magenta, s’erano ingol-
fati nella molto più stretta via Meravigli e la percorrevano tra urla varie e slo-
gans, diretti a piazza del duomo: la gente che - come Ambrogio e Fanny -
camminava per i fatti suoi, era costretta a premersi contro i muri o a ritirarsi
dentro i portoni.
«Cosa vorranno questi?» chiese Fanny, infilatasi appunto insieme con Am-
brogio e alcuni altri, nel vano d’un portone.
«Far disordine» le rispose Ambrogio, «impedire agli altri di ricostruire e di
uscire dalla miseria, ecco cosa vogliono. Non loro e non tutti: ma quelli che li
manovrano sì. Mettono avanti dei grandi ideali, ma la realtà nuda e cruda è
questa.»
Fanny tuttavia, più aperta di lui alla protesta, osservava con qualche inte-
resse i dimostranti, e incontrato lo sguardo di uno di loro, molto giovane: «Per
cosa dimostrate?» gli chiese.
«Abbasso il re» urlò quello, ripetendo uno slogan.
Un altro, più anziano, che lo seguiva: «Vogliamo che la regina ci mostri
la...» affermò, nominando l’organo genitale femminile. Siccome aveva a che
fare con una donna, ed era sicuro dell’impunità, si compiaceva di comportarsi
da villanzone.
«Maiale» gli disse Ambrogio a voce alta, e guardandolo in faccia gli ripete
distintamente: «maiale».
«Fascista» esclamò quello di rimando, balbettando per l’eccitazione, e si ar-
restò, indicandolo agli altri che aveva attorno.
Fanny si sentì raggelare il sangue. Anche Ambrogio provò paura, cionono-
stante seguitò a guardare il dimostrante negli occhi. Fortunatamente sia quel-
lo che qualche altro che accennava a fermarsi, furono, dalla massa che li se-
guiva, sospinti avanti.
«Cos’hai fatto?» mormorò dopo qualche istante Fanny. «Come t’è saltato in
testa? Io sono qui che... le gambe quasi non mi reggono. Accipicchia. Ti vede-
vo già linciato!»
«Non potevo permettergli di parlarti a quel modo» disse Ambrogio.
«Ma a me non importa niente di quello che ha detto, proprio niente. Figu-
rati se può farmi impressione una parola.»
Il giovane constatò, ancora una volta, quanto la ragazza fosse dissimile dalle
sue sorelle e da sua madre.
«Per te sarà come dici, ma per altre donne è diverso. E forse quel maiale
d’ora in poi rifletterà prima di dire maialate sulla faccia alle donne. Specie a
certe donne del popolo che - te lo assicuro io - da un parlare come quello si
sentono offese. Anche se a volte magari sono costrette a subirlo.»
«Bravo, lei è stato molto coraggioso» esclamò a questo punto un uomo an-
ziano che, costretto lui pure nel vano del portone, aveva seguito ogni cosa:
«bravo giovanotto».
«Oh Ambrogio, Ambrogio mio» fece Fanny, tuttora emozionata da quella
che a lei sembrava un’azione donchisciottesca; e infilato il braccio sotto quello
di lui lo guardò in faccia, scuotendo la testa con tenerezza: «Uno come te biso-
gna custodirlo.»
Ambrogio non disse niente, si limitò a disapprovare ancora col capo.
«Beh, adesso s’è fatta via libera, andiamo» propose di lì a un po’. Si avvia-
rono tenendosi sotto braccio. «Se penso» disse Fanny «che in questo momen-
to tu potresti essere qui per terra in un...» Scacciò con orrore il pensiero. «Tu
non sai cos’ho visto io il giorno della liberazione in via... Un povero diavolo
l’hanno buttato giù dalla finestra, e c’erano sua moglie e i figli che seguitavano
a gridare. Ho visto tutto coi miei occhi, anzi appena i partigiani se ne sono an-
dati ho cercato di prestargli un po’ di cure: ma era già morto.» Ambrogio ten-
tennò il capo; avrebbe voluto dirle: “E dopo aver visto questo, rivolgi la parola
ai rossi in foia?” Ma preferì tacere, «Dì» continuò lei: «però adesso i fascisti
non li uccidono più a quel modo, adesso li processano regolarmente, è vero?»
«Quanti dei disgraziati che hanno ammazzato erano davvero fascisti?» ri-
spose lui; pensò alla donna del Raperio. «In quei giorni è stato come al tempo
degli untori, né più né meno. Adesso però in effetti non è più così: qui in
Lombardia almeno, dove i carabinieri e la polizia hanno ripreso a funzionare.
In Emilia invece lo leggi tutti i giorni nei giornali, no, cosa succede? Special-
mente nel ‘triangolo della morte’.»
«Che tempi!» convenne Fanny.
«Meno male che c’è un governo che ha riorganizzato i carabinieri e la poli-
zia. Perché se fosse per gli ‘alleati’, col loro scrupolo di non intromettersi... A
volte penso che Manno tutte queste cose deve averle come presentite. Si è sa-
crificato per questo, per conservare a tutti noi la possibilità di sopravvivere, di
uscire dal pantano.»
«Me lo ricordo bene tuo cugino Manno» disse Fanny: «con quegli occhi az-
zurri. Che splendido ragazzo era.»
«Sì. C’eri anche tu a Stresa il giorno in cui l’ho visto per l’ultima volta.»
La giovane annuì: «E c’era anche quell’autista, anche lui con gli occhi azzur-
ri. Come si chiamava?»
«Celeste. Beh, quello c’è ancora, lavora sempre in ditta.»
«Che simpatico. Aveva con voi molta famigliarità.»
«A Nomana è normale» spiegò Ambrogio. E traendo un mezzo sospiro:
«Meno male che esistono posti come Nomana.»
«Il tuo paesello» disse Fanny.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
CAPITOLO VENTESIMO
La sera, quando Ambrogio suonò alla porta, Agazzino scese in farmacia e gli
aprì, impedendo con la mano al campanello d’emettere il noto tintinnio. Cer-
cava di mostrarsi scherzoso, ma aveva in realtà un’aria piuttosto accasciata.
Fece sedere il giovane e sedette di fronte a lui, tra gli scaffali con le file di vasi
ornati d’arabeschi e svolazzi colorati, nell’odore acuto dei medicamenti.
«Il segretario mi ha comunicato che lei accetta. La ringrazio.»
«Il segretario?»
«Della sezione, sì: il Sambruna, il Luca Sambruna.»
«Ah, Luca, infatti. Beh, il C.L.N. s’è rivelato un discreto impegno, eh?»
«È piuttosto dura» ammise Agazzino. «Non diciamolo ad alta voce, ma è
dura.» Fece una pausa. «C’è una cosa specialmente che mi dà ai nervi, e gliela
dico subito: il Foresto come lo chiamano, il comunista, non lascia passare riu-
nione senza trovare il modo di tirar fuori di tasca la pistola. Questo gliel’ha
detto Luca?»
«No» rispose Ambrogio: «La pistola? E per che farne, per minacciare?»
«Non esattamente. È per... ricordarmi qualcosa; insomma è un avvertimen-
to, dato alla sua maniera.»
«Non capisco.»
«Senta» fece Agazzino, accostando un po’ la propria sedia a quella del gio-
vane e abbassando nel contempo la voce, che pure non era elevata: «È bene
che lei lo sappia...» Rifletté: «Ormai lei fa parte del C.L.N., e dunque è neces-
sario che conosca ogni cosa. Resta inteso che si impegna a mantenere il segre-
to.»
«Si capisce. Ha la mia parola. Allora?»
«È stato in maggio, o forse a principio giugno, insomma quando ancora i
partigiani rossi non avevano del tutto smesso d’ammazzare la gente. Non so se
lei sia al corrente del giro che in quei giorni L.» (nominò uno dei maggiori
esponenti della resistenza comunista) «ha fatto per i paesi qui del milanese,
contattando i capi comunisti locali. È al corrente?»
«Per la verità no.»
«Beh, L. ha visitato in macchina, uno dopo l’altro, i principali paesi, e dap-
pertutto s’è informato sul numero dei fascisti ch’erano stati giustiziati (questo
mi è stato riferito in seguito a Milano). In ogni posto ha dichiarato: ‘Troppo
pochi’, e come niente fosse ha stabilito lì sui due piedi il numero delle persone
da giustiziare ancora per ciascun paese. Qui nella Brianza collinare, dove in
genere non ci sono stati morti, ha ordinato che si uccidesse almeno un fascista
per comune: ‘uno, ma dovete giustiziarlo, per esempio’»
«Per l’esempio?»
«Intendeva altro ovviamente: vogliono, volevano... creare un’atmosfera di...
sì insomma» Agazzino in queste cose non era a suo agio: «di terrore.»
«Infatti ricordo quella ripresa degli ammazzamenti giù nelle periferie ros-
se...» fece Ambrogio, «e anche più su, al margine tra noi e la periferia rossa.
Sì, ricordo. Anche qui in Brianza hanno ammazzato qualcuno. Una cosa che
allora mi sembrava inspiegabile. In maggio, sì.»
«Beh, anche a Nomana L. ha dato ordine d’ammazzare una persona; e par-
tito lui il Foresto, senza pensarci su, aveva fedelmente disposto ogni cosa per
eseguire. Non che il Foresto sia un farabutto, ormai lo conosco, e anche lei lo
conoscerà: sotto certi aspetti è perfino generoso.»
«Possibile?»
«Constaterà lei stesso. Però è uno scriteriato, e siccome aveva ricevuto un
ordine dal suo capo... Beh, io non sapevo ancora niente quando i rossi sono
andati a prelevare a casa sua il Tavelli, e l’hanno portato giù alla caserma dei
carabinieri. Questo fatto lo ricorda?»
«Sì, il fatto del Tavelli sì.»
«Ecco: era lui la vittima designata per Nomana.»
«Ma no! Il Tavelli? Fascista quello? Sua moglie può darsi, che faceva
l’istruzione ai balilla... E poi macché, neanche lei: l’istruzione doveva fargliela
per forza, visto che è maestra.»
«Comunque avevano scelto lui.»
«Povero disgraziato. Un bel rischio ha corso.»
«Il piano era di caricarlo su un’automobile col pretesto di condurlo a un in-
terrogatorio a Monza, e arrivati... sa dove c’è quella cava lungo la strada
d’Incastigo? Ecco, il programma era di farlo scendere lì, costringerlo a scappa-
re e sparargli nella schiena, insomma ucciderlo lungo la strada. Fortuna che
l’autista della macchina - l’unico dei nostri partigiani che sappia guidare - non
è comunista. È il Carletto Mangiagalli, il figlio della levatrice.»
«Ah, il bersagliere, quello che nei giorni della liberazione sparava sempre
col mitragliatore.»
«Sì, lui. Siccome è un ragazzo sveglio ha capito a volo che c’era del marcio, e
sebbene morisse dalla voglia di farsi un viaggetto in macchina (sa come sono
questi ragazzi) è venuto di corsa ad avvisarmi. Ho potuto intervenire appena
in tempo: appena in tempo le dico. Sono andato direttamente a casa del Fore-
sto e...» Agazzino si oscurò in viso: «È stato un brutto incontro, anzi diciamo-
lo, uno scontro molto brutto. Ho creduto proprio di non farcela, quasi mi sen-
tivo male. Perché lui, il Foresto, siccome l’ho messo alle strette, a un certo
punto non ha esitato a spiattellarmi l’ordine ricevuto dall’esponente del suo
partito, che secondo lui equivaleva a un ordine dell’autorità superiore. Grida-
va che doveva eseguirlo. Intendeva salire in macchina di lì a poco: aveva già in
testa quel maledetto berretto con la stella rossa. L’ho minacciato di denunciar-
lo alla magistratura, ai politici, agli americani, a tutti, e lui duro. Pensi che gli
ho perfino consegnato un mio ordine scritto lì per lì su un foglio di notes, di
non ammazzare nessuno. Ordine del presidente del C.L.N., capisce? di non
ammazzare. Cose da pazzi, da non crederci, adesso.»
«Infatti.»
«Non l’avrei spuntata se non mi fosse venuta, non so nemmeno io come,
un’ispirazione: gli ho detto che secondo me lui stava dimostrandosi complice
del Praga, un complice dei fascisti camuffati insomma. Questo gli ha fatto ef-
fetto: s’è preso paura e... È incredibile come un’insinuazione tanto infondata
abbia potuto funzionare.» (A quell’epoca il Praga - dopo aver compiuto nuovi
crimini - era stato finalmente sconfessato dal partito comunista e veniva atti-
vamente ricercato dai carabinieri.)
«A che punto siamo!» commentò Ambrogio, ridacchiando verde.
«Vero?» disse Agazzino.
«Adesso capisco perché lei ha detto al Tavelli di cambiare aria, perché gli ha
fatto tagliar la corda.»
«Infatti. E sua moglie subito a dirlo in giro a tutti, la furba, ch’ero stato io a
consigliarlo. Ma non è questo il punto; è che da allora il Foresto si considera
defraudato da me con un raggiro, mi spiego? Pensi che originale! Quando nel-
le riunioni non c’è accordo su una qualsiasi cosa, lui finisce col tirar fuori di
tasca la pistola per ricordarmi quel sospeso.»
«Capisco. Ma cosa ne fa esattamente della pistola? Non gliela punta contro,
immagino.»
«No. Ma la muove, la agita. Oppure la sbatte di piatto sul tavolo, così, e in-
tanto urla che pare voglia mangiarmi. Insomma, non è un complimento.»
«Lo credo bene.» Ambrogio immaginò il capo dei comunisti che urlava col
tronco e la testa protesi verso il presidente del C.L.N., congestionati in volto
entrambi: non era davvero un complimento per Agazzino.
«Questi, io direi, sono interventi di tipo paramilitare» cercò di scherzare il
farmacista: «Ecco perché la presenza in C.L.N. di un ex militare come lei sarà
molto opportuna.»
«Che macaco quel Foresto» mormorò Ambrogio. «Va bene. Do una mano
volontieri: bisognerà fargli capire che non solo lui ha famigliarità con le armi.
Ma forse basterà un po’ di sarcasmo.»
«Sì, però stia attento.»
«D’accordo. E gli altri, quelli degli altri partiti? Anche loro si comportano
più o meno così?»
«Oh no. Con gli altri è una mezza farsa. Però che pazienza ci vuole!»
CAPITOLO VENTUNESIMO
La prima riunione del C.L.N. allargato ebbe luogo di lì a non molto, una se-
ra dopo cena. Ambrogio giunse al portone del municipio in compagnia del
presidente, dopo essere passato a prenderlo alla farmacia. Gli altri membri
stavano pure giungendo alla spicciolata.
Entrarono tutti nella sala ch’era stata del podestà, indicata da un’apposita
targa, sulla quale era stato incollato un pezzo di carta con la scritta a mano
‘Comitato di Liberazione Nazionale’. Sedettero, invitati da Agazzino, attorno a
un tavolo stile rinascimento, lungo e stretto, su sedie molto rigide, fornite di
sottili e dure imbottiture in pelle; i due alle estremità (uno era Sèp, convenuto
per i comunisti, nuovo al pari d’Ambrogio) presero posto su due ‘savonarole’
senza schienale, particolarmente scomode.
Agazzino diede il benvenuto in modo abbastanza sommario ai nuovi mem-
bri, quindi esordì ricordando a tutti, vecchi e nuovi, che le casse comunali
erano «desolatamente vuote». Dopo di che aprì il dibattito sul primo punto
all’ordine del giorno: l’aumento, a causa dell’inflazione galoppante, del canone
che i cittadini dovevano pagare per la mutua sanitaria comunale. Si trattava -
come Ambrogio sapeva - d’una istituzione locale molto utile, funzionante da
prima che venissero introdotte le mutue nazionali obbligatorie. Il giovane era
ad ogni modo intenzionato a non intervenire: “Stasera devo limitarmi a impa-
rare” diceva a sé stesso. Si rese però subito conto con sorpresa che nessuno
affrontava il problema in quanto tale: i rappresentanti dei vari partiti utilizza-
vano semplicemente l’occasione per rendersi a vicenda la vita difficile. Dopo
mezz’ora buona d’accesa discussione, e ripetute accuse da parte del Foresto
alla democrazia cristiana e ai liberali di volere «anche in questo modo» toglie-
re i soldi di tasca al popolo, Ambrogio seguiva con orecchio sempre più stacca-
to il dibattito (“Se anche al mio posto ci fosse qui Manno, cosa potrebbe cavare
di buono da queste idiozie?”), quando: «Non pensate a quei mucchi di
ghiaia?» sentì a un tratto che diceva il signor Pollastri, rappresentante del par-
tito d’azione. Costui, sebbene avesse più volte alzata la mano, non era fino a
quel momento riuscito a ottenere la parola; si fece per qualche istante silenzio,
e non solo Ambrogio ma anche gli altri guardarono interdetti il Pollastri, chie-
dendosi se avessero capito bene.
«Dico quella ghiaia che sta lungo le strade, tutti quei mucchi» ripeté colui,
in dialetto.
«Stiamo parlando della mutua sanitaria, cosa c’entra la ghiaia?» osservò il
presidente.
«Se io ho voglia di parlare della ghiaia» rispose il Pollastri, fissando il pre-
sidente con malagrazia «parlo della ghiaia. O a me volete impedire di parlare?
Volete parlare soltanto voialtri? Eh?»
Questo Pollastri, se il lettore ricorda, rappresentava il partito d’azione per
ripiego, in quanto, allorché Agazzino l’aveva interpellato, avrebbe preferito
rappresentare i socialisti o in alternativa, non essendo questi disponibili, i
monarchici. Com’egli aveva giustamente temuto, la rappresentanza del partito
d’azione (rivelatosi - cose da pazzi - un partito d’intellettuali) aveva finito col
dimostrarsi un pessimo affare per lui, tanto che malgrado i più ostinati sforzi
non gli era riuscito di trovare in tutta Nomana un’anima («non un cane» dice-
va parlandone con amarezza in famiglia) disposta a iscriversi al partito. “Vuoi
vedere che mi succede come al tempo del fascio?” egli si prospettava ogni tan-
to con angoscia: “Che anche stavolta perdo l’occasione di fare la mia figura?
Ma cos’hanno gli altri che io non ho?” Questo rodio segreto, e l’età non più
giovane, avevano quasi cambiato il suo carattere: se al tempo del fascio era
stato inutilmente scodinzolante, adesso appariva intrattabile, puntiglioso. Per
cui nessuno si sentiva invogliato a contraddirlo.
«Va bene» disse Agazzino: «Visto che ci tiene tanto, parli. Ma si ricordi che
in anticamera c’è quella gente venuta per la mutua sanitaria.»
«I cumuli di ghiaia, ve ne siete accorti?» attaccò, avuta via libera, il Polla-
stri, sempre in dialetto: «sono tutti quanti sulle strade intorno al Raperio e
alla Lodosa.» Sembrava dovesse continuare, invece qui si fermò, guardando in
faccia gli altri, con un’occhiata circolare.
«Ebbene?» gli chiese il titolare dei liberali.
«Come ‘ebbene’? Non vi dice niente questo?»
Il titolare dei liberali era quello sfollato da Monza vagamente pro fascista,
che per le sue barzellette sul duce durante i viaggi in ‘littorina’, aveva trascorso
due giorni in carcere. «Cosa dovrebbe dirci questo fatto» chiese, lui pure in
dialetto, «che i mucchi di ghiaia sono in un posto piuttosto che in un altro?
Sentiamo.»
«Dov’è che abitano i due stradini comunali?» esclamò, come si trattasse
d’un’illuminazione, il Pollastri: «Non ve lo chiedete? Uno abita al Raperio, e
l’altro alla Lodosa: ecco dove abitano.»
«E allora?» fece il barzellettista liberale, subodorando un’occasione di spas-
so.
«Voglio dir questo» spiegò il Pollastri, disgustato che l’assemblea non lo se-
guisse nella sua perspicacia: «se gli stradini hanno fatta scaricare la ghiaia vi-
cino ai loro paesi, è su quelle strade che hanno intenzione di stenderla, e non
sulle strade che portano qui al capoluogo. Così quest’inverno noi resteremo
pieni di buchi.»
«Ma va» disse il barzellettista: «come faremo a restar pieni di buchi?» Tutti
scoppiarono a ridere. «Nella cinghia forse sì» continuò il liberale «perché la
ghiaia purtroppo non è polenta. Magari lo fosse.»
«Eh, magari» convenne candidamente l’aggiunto dei socialisti, un pensio-
nato completamente calvo, buon diavolaccio.
«Guardi» disse - mentre le risate crescevano - Agazzino rivolto al Pollastri:
«che quei cumuli di ghiaia sono là almeno dal mese di marzo: ce li ha fatti
portare ancora il signor Paolo» (si trattava del decaduto podestà). «Non siamo
responsabili noi di quella distribuzione.»
«Il signor Paolo? Beh, però noi possiamo correggerla quella distribuzione.»
«Possiamo incaricare il segretario comunale d’eseguire un sopralluogo»
cercò di farla finita Agazzino: «di dare un’occhiata.»
«Ma no» si oppose il liberale: «Il signor Paolo è uno con la testa sulle spal-
le. Se ha fatto scaricare la ghiaia là, ci sarà il suo motivo: e noi stiamo attenti a
non far ridere la gente.»
A queste parole il Foresto picchiò con rabbia la mano sul tavolo: «Io non
ammetto che qui, in pieno C.L.N., si parli bene dei fascisti» urlò protendendo-
si verso il liberale.
«Cerchiamo di non uscire dai binari» richiamò tutti il presidente Agazzino
«e soprattutto cerchiamo, se possibile, di non perder tempo. Ho detto che il
segretario comunale farà un sopralluogo di controllo. Mi pare che basti.» E
rivolto al liberale: «La popolazione non se ne accorgerà nemmeno.» Concluse:
«Basta così. L’argomento è chiuso.»
«No che non è chiuso» urlò il comunista, il quale parlava metà in dialetto e
metà in italiano: «qui si continua a dimostrare la massima benevolenza per il
passato regime, e questo il popolo non è più disposto a sopportarlo. Capito?»
«Per favore, cerchi di non cominciare a gridare al suo solito» gli disse Agaz-
zino.
«Il signor Paolo» osservò il liberale «non è il passato regime. È solo una
persona con la testa sulle spalle, e a questo riguardo noi del C.L.N. non pos-
siamo farci proprio niente.»
«Basta così, l’argomento è chiuso» ripete Agazzino nel tentativo di non per-
dere altro tempo: «Torniamo all’ordine del giorno: il canone della mutua.»
«Ah no, eh! Ah no, eh!» fece il Pollastri che, vedendosi ormai appoggiato
dal comunista, esplose: «Il popolo è stanco del comportamento schifoso della
democrazia cristiana e dei liberali: il popolo ne ha piene le tasche» (usò, per la
verità, un termine meno riferibile) «il popolo...»
Malgrado si fosse ripromesso di non intervenire, Ambrogio improvvisa-
mente lo interruppe: «Un momento» e guardandolo in viso con durezza:
«Lei» esclamò «deve fare marcia indietro su quel termine ‘schifoso’. E sarà
bene che la faccia addirittura.»
Il Pollastri guardò sorpreso e un po’ impressionato il giovane:
«Siamo alle... imposizioni adesso?»
«No» rispose con calma Ambrogio «siamo all’educazione, alle norme della
più elementare educazione.»
Il Foresto fece per intervenire, ma era talmente sorpreso che aprì le braccia:
«Come si vede che lei non ha mai partecipato a riunioni politiche» disse con
tutta franchezza ad Ambrogio. «Se lei resta in C.L.N. dovrà sentire ben altro,
se ne accorgerà.»
Il Pollastri non era comunque disposto a lasciarsi fuorviare. «Il popolo»
disse con faccia cattiva «il popolo, e specialmente il mio partito, siamo assolu-
tamente stufi del comportamento provocatorio della democrazia cristiana. In
nome del popolo io esigo che...»
«Mi dica una cosa» lo interruppe Agazzino. Era lui pure molto seccato per
l’insulto di cui il suo partito era stato gratificato, specie dopo che Ambrogio
l’aveva in qualche modo fatto rilevare, andava perciò lentamente facendosi
rosso in viso come un tacchino: «Mi dica: dov’è il popolo che lei rappresen-
ta?» Tutti guardarono sorpresi il presidente, che non aveva mai parlato tanto
chiaro; sapevano tutti che il partito d’azione non contava neppure un iscritto,
tanto che all’interno del C.L.N. il Pollastri, unico, non aveva l’aggiunto. «Lo sa
lei cosa rappresenta?» continuò il presidente: «Lei qui rappresenta soltanto
un timbro: perché il partito d’azione a Nomana si riduce a lei, e al timbro che
lei ha fatto fare, e che ogni tanto usa più o meno a proposito.»
A questa affermazione tutti i presenti, titolari e vice, uscirono in una risata
irrefrenabile, mostrando in tal modo d’essere d’accordo.
«E adesso» concluse Tirato Agazzino, che aveva ripreso il sopravvento:
«basta con la ghiaia o con altri argomenti che non sono all’ordine del giorno.
Portiamo avanti invece il primo degli argomenti in programma: la mutua sani-
taria.»
Pollastri, battuto e in ritirata, alzò un dito: «Protesto, e chiedo che la mia
protesta sia iscritta a verbale.»
«Cos’è che devo scrivere a verbale?» chiese il segretario, ch’era poi un im-
piegato del comune il quale sussultava tuttora per il gran ridere.
«Che il presidente agisce in modo antipopolare» disse rabbioso il Pollastri.
A questo punto il mite ufficiale postale signor Benfatti, titolare un po’ spae-
sato dei socialisti, intervenne con aria addolorata: «No signori» disse «no, vi
prego.»
Era un idealista ingenuo, non per niente durante l’intero ventennio fascista
aveva portata la cravatta nera a fiocco e la barba a pizzo; oriundo del manto-
vano, e di forma mentis non cattolica, lui nel socialismo ci credeva davvero (in
quello democratico beninteso, e non in quello nuovo, populista, alleato dei
comunisti): per tale sua fede, nota a tutti, aveva finito col rimanere rappresen-
tante titolare dei socialisti. «Vi prego di non scrivere niente a verbale, perché
di simili cose disdicevoli non deve rimanere traccia.»
Pollastri lo guardò: “Cose disdicevoli... Ma sentilo! Non è la prima volta”
pensò con ira “che questo ‘incantato’ si permette di tagliarmi l’erba sotto i pie-
di”; comunque la situazione ormai non gli era favorevole, e si limitò a sbuffa-
re.
«Non possiamo far aspettare ancora quella gente. Fate entrare i due che so-
no nell’atrio per cose relative alla mutua» ordinò il presidente.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
CAPITOLO VENTITREESIMO
La seduta ebbe termine verso mezzanotte. Ambrogio uscì dal portone del
municipio tra Agazzino e il barzellettista liberale, il quale: «Ha visto che ca-
gnara, eh? Cosa gliene sembra?» gli chiese amichevolmente in dialetto, e sen-
za aspettare la risposta: «Qui l’unica cosa che importa, ormai, è arrivare a ele-
zioni regolari. E siccome in Italia ci sono gli americani e gli inglesi, io son con-
vinto che ci arriveremo. Allora vedrà che fine faranno tutti questi malnati.»
«Purché le elezioni vadano bene. Chi può esserne sicuro, oggi?»
«Senta: giurarlo, non può giurarlo nessuno» fece l’altro: «Però io ne sono
convinto. Prima di tutto perché in Italia ci sono molti contadini e, si sa, ‘il vil-
lano è democristiano’. Poi...»
Dovette attendere che Ambrogio smettesse di ridere per questa uscita. «Poi
per via degli americani: dopo tutta la guerra che hanno fatta, non saranno così
stupidi da... Insomma ragioni ce ne sono. In conclusione la spunteranno i pre-
ti, vedrà.»
«Ma i rossi? Se restano soccombenti non faranno la rivoluzione? Anzi, non
la faranno magari prima?»
«No finché ci sono qui gli americani.»
«Guardi in Grecia. Anche in Grecia ci sono gli americani, eppure vede cosa
sta succedendo.»
Era tardi, non potevano esaurire un argomento simile; dopo qualche altra
frase il liberale prese affabilmente congedo e s’avviò verso casa sua.
Nella piazza le lampade dei sei vecchi lampioni ch’erano stati poco prima
oggetto di discussione diffondevano la loro luce. Modesta ma sufficiente per-
ché si potessero distinguere le cose note e care: l’acciottolato su cui d’estate
sfrecciavano le rondini, la chiesa con le sue belle colonne di serizzo davanti, il
campanile... Mentre, ascoltando solo a metà le parole d’Agazzino passava ra-
sente il campanile, Ambrogio ricordò il giorno in cui, alla vigilia della guerra,
da là sopra le campane ora mancanti avevano intronata la testa di Stefano e la
sua... Chissà dov’era adesso Stefano, se era ancora vivo! E il Michele Tintori, e
tutti gli altri? Dalla Russia nessun prigioniero era finora tornato, però erano
giunti inaspettatamente alcuni loro messaggi: pochissimi, ma con certezza
provenienti dai lager di là, tramite la ‘mezza luna’ turca. Lui stesso ne aveva
avuto tra le mani uno, arrivato a una famiglia d’Incastigo. Inoltre aveva senti-
to dire che un elenco di prigionieri italiani era stato ultimamente trasmesso da
radio Mosca. Chissà dunque, chissà.
IV
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Pierello aveva ripreso il vecchio lavoro in ferriera a Sesto San Giovanni. Do-
po tante e così tempestose avventure, le sue giornate s’erano fatte di colpo
monotone: il che, almeno per ora, non gli dispiaceva. Usciva ogni mattina di
casa prima dell’alba con la cartella della colazione sottobraccio, e
s’incamminava di buon passo verso la stazione di Nomana. Superato un tratto
di salita in mezzo ai campi, si voltava puntualmente a guardare il casale - a
quell’ora poco distinguibile nel buio - in cui abitava la Luisina. Perché gli stava
succedendo un fatto strano: che una ragazza, la Luisina appunto, di un anno
più giovane di lui, ch’egli conosceva fin dagli anni della scuola, anzi da prima,
dalla nascita, e alla quale non aveva mai prestato attenzione, da un certo tem-
po in qua (“Che cosa strana, però!”) non gli voleva più uscire di mente. Alla
stazione prendeva l’affollato treno operaio delle sei e un quarto, quasi sempre
la stessa carrozza; se gli era possibile sedeva anche in un dato posto, tra le
medesime persone o quasi - operai saliti con lui a Nomana, oppure ‘d’in
somm’ provenienti cioè dalla finitima provincia di Como. Qualcuno era stato
come lui prigioniero in Germania, da tempo però non parlavano più della pri-
gionia né d’altro: le mani sprofondate nelle tasche, i baveri dei giacconi alzati,
preferivano sonnecchiare. Pierello finiva col pensare di nuovo alla Luisina:
alla sua fronte bombata, ai capelli castani legati a crocchia, e ancor più alle sue
belle maniere. Proprio da queste era originato il suo interesse per lei, quella
mattina di domenica che - per risparmiare l’incomodo alla madre - lui era
uscito a comperare il pane. L’aveva incontrata sulla porta del negozietto, an-
che lei con la borsa di rete al braccio: «Oh, Piero, me l’hanno detto che sei tor-
nato. Stai bene, vero?» l’aveva salutato con garbo.
«Beh» aveva risposto lui, celiando come si conviene a un giovanotto che in-
contra una ragazza: «dovresti saperlo che le bestie grame non muoiono mai.»
Intanto però era sorpreso non solo dalla faccia, ma dall’intero ‘personale’ di
lei. (“Come avrà fatto, mentre io ero via, a migliorare così?”) Avrebbe voluto
farle un complimento adeguato, ma inesperto com’era finì col dirle: «Ehi, Lui-
sina, non sei più come ai tempi che venivi a scuola col moccio al naso, eh?»
Lei, anziché rispondergli ‘in qualche maniera’ (cioè in malo modo) come si
sarebbe meritato, aveva messe le cose nel verso giusto: «Anche tu sei cambia-
to, Piero.» E dopo una pausa: «Chissà quante ne hai passate là in Germania!»
Quest’ultima frase l’aveva detta in un modo, ma in un modo, che a lui era
sembrato ci fosse, in quelle poche parole, una straordinaria comprensione di
tutte quante le tremende esperienze per cui era passato.
Da non credere come le maniere d’una ragazza ti possano riuscire gradite,
davvero da non credere! “Che bel fare, che garbo!” rifletteva Pierello, viag-
giando nel treno stipato: “Ce l’ha proprio avute da natura le belle maniere la
Luisina: nemmeno una signora, o ben poche, sono d’un garbo compagno. E io,
che bestia: il moccio al naso! Che poi non è vero: non ce l’aveva il moccio al
naso la Luisina quando veniva a scuola. Lei però ha capito subito che dicevo
per scherzo, che dicevo così tanto per... per...” si sforzava nel ron ron del treno
di trovare il termine e il concetto.
La domenica successiva a quell’incontro non era andato come di solito alla
seconda, bensì alla terza messa, apposta per rivedere la ragazza. La chiesa di
Nomana però era gremita, così che lui, con nascosto disappunto, si era dovuto
lemme lemme portare avanti fino alle prime panche, dove aveva preso posto
accanto a due suoi coscritti: Severino, già bersagliere in Africa, della Lodosa al
pari di lui, e Damiano di Nomana, rientrato da poco da una dura prigionia in
Jugoslavia e ancora molto malconcio (“Però, che classe di bastonati, il 21!”) In
conclusione durante l’intera messa non aveva potuto dare alla Luisina che
qualche fugace occhiata, torcendo il collo. Per cui alla fine della funzione era
uscito in fretta, quasi senza salutare i coscritti, dal portello laterale, ed era an-
dato a collocarsi davanti al pronao della chiesa, deciso se non proprio ad ac-
compagnare la ragazza fino a casa, almeno a intrattenerla un po’ più a lungo
della domenica precedente, e non certo parlando di moccio, ma di qualcosa di
meglio. Già, di cosa però? Vediamo, che discorso plausibile avrebbe potuto
mettere insieme? Mentre la ragazza usciva con la madre di chiesa, e poi scen-
deva lentamente i pochi gradini del pronao, s’era accorto che, nonché un di-
scorso sensato, non gli veniva alla bocca nemmeno una parola, neanche mez-
za, niente. Finì, quando le due donne gli passarono davanti, col rispondere in
modo melenso al loro saluto affabile. “O Piero, che imbranato, che razza
d’imbranato quella volta! Meno male che t’ha dato una mano san Michele ar-
cangelo, se no...”
Il fatto di san Michele era consistito in questo: che mentre lui si guardava
intorno angustiato, gli era venuto sotto gli occhi quel manifesto azzurro affisso
alla porta della chiesa col programma della sagra di Beolco, di cui san Michele
è patrono: Luisina era già oltre di qualche passo, ma c’era per fortuna in arrivo
tra la gente il suo coscritto Severino. «Ehi Severino» aveva improvvisamente
esclamato Piero: «Te l’ho detto o no che oggi pomeriggio io vado alla sagra di
Beolco? Cosa fai, ci vieni anche tu?»
«Eh? Cosa?» aveva risposto l’ex bersagliere d’Africa: «Beolco?» «Sì, oggi è
san Michele e c’è la sagra. E io» aveva ripetuto Pierello con voce sostenuta
«nel pomeriggio ci vado.»
L’altro gli s’era accostato per intendersi meglio: intanto però - ed era questo
l’essenziale - la Luisina aveva certamente sentito, e sapeva che lui nel pome-
riggio sarebbe andato a Beolco.
In seguito Pierello era entrato in uno stato di vera e propria ansia: “Cosa
vuol dire che lo sappia? Forse che ci verrà anche lei? E perché ci dovrebbe ve-
nire?”
Era ancora inquieto quando, qualche ora più tardi, insieme con Severino
l’africano s’era messo in via per Beolco; tanto che, giunti all’altezza della ca-
scina Casaretto, allorché il suo compagno aveva proposto: «Cosa dici? Gliela
facciamo una visita ai vecchi di tuo cugino Tito che è disperso?» lui aveva ri-
sposto: «Sì, però dopo. Ci fermeremo dopo, quando torniamo, non adesso.»
Finalmente, entrando nel paese di Beolco in festa, aveva scorta la Luisina fer-
ma sullo spiazzo delle giostre insieme con due amiche. Dio del cielo, era venu-
ta davvero, eccola là: era proprio venuta! Che urto al cuore a quella vista! Vero
che subito dopo aveva notato anche altre ragazze e un gruppetto di ragazzetti
della sua frazione più giovani di lui e della Luisina: tutta gente che non era
certo lì a motivo delle parole da lui pronunciate la mattina in piazza; anche la
Luisina e le sue amiche era dunque possibile che... Ad ogni modo non aveva
potuto indugiare in queste riflessioni perché: «Ehi, Piero, guarda là chi si ve-
de» aveva esclamato Severino, e senza por tempo di mezzo si era indirizzato
verso le tre ragazze, e dopo averle abbordate con un aggressivo: «Cosa fate in
giro, zingare?», aveva cominciato a dire spiritosaggini.
Anche Pierello allora s’era messo a discorrere: per prima cosa delle giostre,
una coi sedili appesi alle catene, l’altra coi cavalli a dondolo per i bambini, en-
trambe tempestate di lustrini e specchietti, al solito, e con strani dipinti di
donne velate, logori oltre ogni dire per la vernice tutta scrostata. Pierello ave-
va spiegato - dissipando i timori delle tre ragazze - che sulla tenuta delle cate-
ne non c’erano comunque da nutrire preoccupazioni: «Perché il ferro è sem-
pre ferro» aveva affermato con la sua voce mite e seria, «non è mica vernice.»
Avevano quindi fatto un po’ di giri sulla giostra a sedili, con quello scriteria-
to di Severino che ogni tanto abbrancava lo schienale della ragazza davanti a
lui e gli dava una tremenda spinta, facendo urlare la ragazza a squarciagola
per il troppo spavento.
E sì. Dentro il ron ron del treno, a quella giornata Piero ci aveva ripensato
parecchie volte, anche perché in seguito i suoi incontri con la Luisina erano
stati tutti più brevi. La festa di Beolco invece sembrava combinata apposta per
loro: con le strade principali del paese parate come usava prima della guerra,
cioè a mezzo di sandaline bianche e rosse tese da muro a muro sopra la testa
della gente, mentre lungo i muri c’erano alberelli di bambù ornati con fiori di
carta, una vera sciccheria. O magari non una sciccheria - rifletteva Piero, che
ormai aveva girato e conosceva il mondo - però comunque una cosa ben fatta,
questo sì, se non altro perché dava come l’impressione che la guerra non ci
fosse mai stata, ecco, ne allontanava il ricordo. Lui e la Luisina, e Severino
l’africano, e le altre due ragazze avevano trascorso l’intero pomeriggio in com-
pagnia: parte sulla giostra, parte passeggiando sotto le sandaline in mezzo alla
folla, e davanti all’antica chiesetta di san Michele avevano comprato il torrone.
Qui s’erano imbattuti in Luca - ch’era di Beolco appunto - il quale stava acqui-
stando lo zucchero filato per due suoi nipotini che gli scalpitavano intorno:
«Giusto tu, Piero, devo parlarti. Sai di cosa.» Certo che lo sapeva: era per il
partito della democrazia, voleva che s’iscrivesse, gliel’aveva già mandato a dire
un paio di volte. Beh, che non gli venisse fuori con quel discorso adesso
mentr’era in compagnia. «Parleremo, ma non adesso» gli aveva risposto, ar-
rossendo fino alle orecchie in quanto non era abituato ad avere impicci di
donne; al che l’altro, distolto il proprio sguardo dai bastoncini dello zucchero
filato, l’aveva fermato su di lui, quindi sulla Luisina e, dopo aver capito, aveva
fatto segno di sì con un gran sorriso d’approvazione, quel disgraziato.
La Luisina aveva un ‘personale’ davvero gradevole, che quel giorno il vestito
buono metteva in risalto; ripensandoci sembrava a Piero quasi sorprendente
che una ragazza così fosse in realtà semplice e pudica com’era: tutta - egli lo
sapeva - casa e chiesa, e oratorio delle monache a Nomana, e lavoro laggiù
nella filatura di Briosco, dove le donne quando si mettevano a cantare, canta-
vano le litanie. Gli tornava in mente quella promiscuità spaventosa in Germa-
nia: il comportamento delle deportate e non deportate, che il sesso te lo sbat-
tevano in faccia... Qui invece, ecco, uno - anche un povero diavolo - poteva
essere sicuro della donna che sarebbe diventata sua moglie. Questo - lui lo sa-
peva bene - non succedeva a caso: veniva dall’impegno e dall’esempio di gene-
razioni e generazioni, dai rosari recitati ogni sera, dagli insegnamenti pazienti
di suor Candida, e di don Mario, e degli altri preti ferventi come il don Piero di
Briosco: “Che Dio li benedica quei custodi del tesoro più prezioso dei poveri”.
La Luisina non era soltanto onesta e seria, era anche spigliata quanto basta,
e sapeva per esempio - con quel garbo paesano che tanto piaceva a Pierello -
ridar vita al discorso se per caso lui lo lasciava languire. (In realtà si sentiva a
sua volta emozionata perché il giovane compaesano le piaceva: l’attraeva so-
prattutto per la sua disarmata e insieme solida mitezza, che in effetti - per im-
pressione non soltanto sua ma anche di altri - era il tratto più simpatico di
Pierello: sia prima della guerra, come durante, come poi sempre.) Quel giorno
egli si era provato a indagare se la ragazza fosse venuta a Beolco per le sue pa-
role del mattino o per caso: aveva però smesso quando s’era chiaramente reso
conto che in ogni modo la Luisina gradiva la sua compagnia. “Cosa poi trovi di
buono in me, questo non lo capisco” concludeva ogni volta che ci pensava.
Basta. Ci siamo dilungati anche troppo a rendere le sue riflessioni mentre in
treno - semiassopito, con le mani in tasca e il bavero del giaccone alzato - an-
dava al lavoro.
Non è, intendiamoci, che pensasse alla Luisina per tutta la durata del viag-
gio, di un’ora e più. A volte, mentre i suoi vicini si mantenevano in silenzio, gli
giungevano all’orecchio frasi di altri che sedevano qualche sedile più in là; si
trattava in genere di discorsi banali, in cui magari la stessa cosa, di nessun
interesse se non per chi ne parlava, veniva ripetuta un mucchio di volte. Ogni
tanto gli capitava però anche d’udire notizie d’un certo rilievo; relative per
esempio ad assunzioni d’operai da parte di qualche ditta; allora Pierello ten-
deva l’orecchio e si faceva attento: “Che il lavoro finalmente si decida a tira-
re?” Arrivava a parlarne con l’uno o l’altro dei suoi taciturni vicini: «Sarebbe
ora, no?»
«Cosa?»
«Che il lavoro ricominci a tirare.»
«Eh, credo bene.»
«Lo dico anch’io» interveniva magari un altro: «con tutte le cose che man-
cano, che bisognerebbe costruire.»
«Eh già.»
«Treni, e case, e mobili, e... insomma tutto.»
«Mm.»
Ma perché il lavoro stentava tanto ad avviarsi? La cosa preoccupava segre-
tamente un po’ tutti gli operai, i quali non riuscivano a spiegarsela.
Se c’era presente qualcuno di quelli invasati dalla propaganda rossa, mette-
va subito avanti la sua spiegazione: «Credete a me: la colpa è di chi ha i soldi e
non li vuol tirar fuori per far lavorare la povera gente, ecco di chi è la colpa.» Il
solito discorso. Siccome però chi diceva così dava quasi l’impressione d’essere
contento della scarsità di lavoro, la maggior parte degli operai briantei non
concordava con lui. Tuttavia sul treno raramente c’era chi controargomentava,
come sarebbe accaduto nei paesi; al corrente delle atrocità verificatesi a Sesto
nei giorni della liberazione, gli operai preferivano mantenersi in silenzio, opa-
chi, chiusi in sé stessi per quieto vivere.
Se per caso si trovavano nella carrozza anche dei non operai, capitava che
qualche operaio dicesse delle frasi apposta per farsi sentire da costoro. Una
volta Pierello fu distratto dai suoi pensieri da uno che seguitava a ripetere:
«Quello che noi operai dobbiamo continuare a fare, è non lavorare e intanto
farci pagare.» Riconosceva quel tizio dalla voce: non si trattava d’un sovversi-
vo, ma di uno qualsiasi di Nomana che lavorava alla Marelli, in un’industria
cioè in delicata fase di trapasso alla produzione di pace; probabilmente non
era vero che in quei giorni egli non lavorasse, perché dunque insisteva a parla-
re così? Fingendo di stiracchiarsi Pierello si voltò e scoprì che a poca distanza
c’era l’anziana professoressa Quadri Dodini (quella che aveva pianto per
l’entrata dei tedeschi a Parigi: una ‘signora’ a quel tempo se confrontata con
gli operai), certamente si recava a sua volta al lavoro a Monza, nel ginnasio
delle monache dove insegnava.
Il giovane comprese che lo sproloquio era indirizzato a lei, in quanto solo lei
poteva riceverne turbamento. In sostanza quell’uomo meschino, avendo la
possibilità di causare un’angustia, la causava per il solo piacere di causarla. A
Pierello tornarono per un momento in mente i tedeschi: quelli non erano così
vili... Sì, però, invece di far porcherie di questo genere, ne facevano altre anco-
ra peggiori. Chissà perché gli uomini devono sempre fare delle porcate?
Così tra assopimenti, riflessioni e non molte parole, egli arrivava alla sta-
zione di Sesto, dove scendeva verso le sette e mezzo; il che gli consentiva di
raggiungere la ferriera senza farsi fretta.
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Nell’androne grigio della fabbrica timbrava il cartellino poi, dopo avere in-
dossato con calma in uno spogliatoio la tenuta cachi da lavoro, attendeva in
piedi con altri operai (un centinaio in quello spogliatoio) il suono della sirena.
Nella breve attesa si scambiavano tra loro qualche battuta scherzosa, come un
tempo i soldati all’alba prima di mettersi in marcia: qui però con più indiffe-
renza, con minor emozione.
La sirena avviava tutti ai reparti; Pierello entrava di buon passo nel suo, un
laminatoio su tre linee, che avevano inizio con tre forni di riscaldo. In ognuno
dei quali venivano anzitutto introdotti, e portati all’incandescenza, parecchi
lingotti di ferro. Estratto dal forno con apposite pinze, ogni lingotto veniva poi
trascinato per una decina di metri sul pavimento di ferro (questo era uno dei
compiti di Piero), issato - sempre mediante le pinze - sulla placca di lamina-
zione, e sospinto verso la gola di due pesanti cilindri lentamente ruotanti uno
sopra l’altro. Recuperato dopo il passaggio, il lingotto già parzialmente appiat-
tito veniva di nuovo fatto passare più e più volte tra i cilindri, fino a essere tra-
sformato, in capo a una quindicina di passaggi, in una lamiera. Cimate da una
trancia, le stridule lamiere venivano quindi accatastate.
Tra fuochisti, tira-ferro, laminatori e trancia tori, a ciascuna linea lavorava-
no in tutto sette operai. I quali non parlavano tra loro se non per scambiarsi
qualche avvertimento, anche perché nel capannone c’era un notevole frastuo-
no: all’incessante boato delle ventole che alimentavano i forni si sovrappone-
vano di continuo i colpi cadenziali delle trance e, assai più forti, gli schianti
con cui i cilindri superiori cadevano sugli inferiori una volta passate le piatti-
ne. Nell’aria c’era sempre un po’ di polvere, tanto che - non usando a quel
tempo gli elmetti da fabbrica - ogni operaio si proteggeva i capelli con un co-
pricapo portato da casa: con un berretto, o magari uno zucchetto da sci i più
giovani, gli anziani col cappello a falda. Quanto a Pierello inalberava il cappel-
luccio tirolese con cui era tornato dalla prigionia. L’avesse visto la Luisina tra-
scinare, con quell’allegro arnese in testa, il lingotto incandescente di forse
trenta chili sul pavimento, quindi - aiutato dal laminatore - issarlo metodico
sulla placca di laminazione... Durante il lavoro tuttavia non aveva tempo per
pensare alla Luisina. Avrebbe potuto pensarci, volendo, durante la sosta - ogni
ora e mezza o due - per la ricarica dei lingotti nei forni: ma non era invasato a
tal punto. Preferiva, durante la sosta, distendersi al pari degli altri, scambiare
finalmente qualche parola.
Da mezzogiorno all’una c’era l’interruzione per il pasto: di solito una mine-
stra, carne, verdura e vino, preparati nella mensa della fabbrica, cui ognuno
aggiungeva qualcosa portato da casa. Piero mangiava quasi sempre a un dato
tavolo, insieme coi suoi compagni di squadra: qui i più giovani parlavano soli-
tamente di sport, gli altri o tacevano o parlavano di paghe e lavoro; non di ra-
do si commentava qualche episodio di cronaca nera (atti di banditismo so-
prattutto, allora molto frequenti) riferito dalla radio al mattino; qualche volta
si parlava anche di politica, ma con circospezione e senza portare il discorso a
fondo. Per il solo fatto di provenire dalla Brianza Pierello era considerato un
paolotto, cioè un cattolico praticante, il che non gli veniva peraltro fatto pesa-
re: tra loro infatti gli operai si rispettano abbastanza, e questa è, bisogna dirlo,
grazia grande.
All’una il lavoro riprendeva, per concludersi, ancora una volta al suono del-
la sirena, alle cinque. Allora gli operai raggiungevano senza perder tempo gli
spogliatoi, si lavavano davanti a lunghe vasche munite di sei, otto rubinetti
ciascuna, facendo tornar bianchi a forza di sapone i visi e i colli anneriti, infine
si cambiavano d’abito (ognuno di loro disponeva d’un armadietto metallico
con chiave), e uscivano sulla strada.
Le strade di Sesto - il maggior sobborgo industriale lombardo - non erano
allora, come non sono oggi, molto accoglienti. Agli operai tuttavia esse riusci-
vano gradevoli per l’aria più pulita che in fabbrica (c’erano poche automobili a
quel tempo), e per quel po’ di verde - alberi o cespugli - che si scorgeva qua e
là.
Percorrevano tali vie più o meno frettolosi - certuni correndo - verso i capi-
linea delle tramvie extraurbane e verso la stazione ferroviaria. Una volta in
stazione Pierello dava un’occhiata ai binari, per assicurarsi che il suo treno
non fosse ancora arrivato, poi entrava nel bar e si beveva con grande soddisfa-
zione una ‘spuma’. All’arrivo del treno saliva in ressa con gli altri, e dopo
un’ora e un quarto di viaggio scendeva a Nomana.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
Uscito dalla stazione s’avviava, sempre con la sua brava cartella sotto brac-
cio, verso casa tra i campi autunnali; malgrado fosse un po’ intontito dalla
stanchezza, c’era nei suoi movimenti un che d’accentuato, di pacificamente
risoluto, come di persona che sa il fatto suo. Certo lui non aveva studiato eco-
nomia al pari d’Ambrogio, e non sapeva niente di prodotto nazionale lordo e
di percentuali d’incremento, ignorava quindi che - continuando così - sia lui
che gli altri operai sarebbero arrivati ad avere, prima d’invecchiare,
l’automobile e l’appartamento: anzi se gli avessero detto una cosa simile, lui
non ci avrebbe assolutamente creduto. Aveva però la consapevolezza - e non
era poco - d’essere col proprio lavoro vitalmente utile ai suoi, alla propria fa-
miglia: a quella attuale e, quando fosse venuto il momento, a quella futura,
che avrebbe formato. Con la Luisina? Probabilmente sì, con la Luisina.
Camminando seguitava, poiché era solo, a tacere come aveva fatto durante
quasi l’intera giornata; in realtà non è che gli fosse mancato il modo di parla-
re, specie in treno; ma a lui, come ad altri, non garbava ripetere cose trite e
inutili, col solo risultato di ‘spendere fiato’. E d’altra parte per uno del popolo
come lui che - secondo ci si esprimeva allora - ‘non aveva studiato’, era diffici-
le parlare di cose meno risapute e usuali, per esempio della sua grande espe-
rienza di guerra e di prigionia. Più volte ci s’era provato: ma si era accorto che
di queste cose poteva parlare con costrutto solo con chi era passato per espe-
rienze analoghe. Gli altri non riescono a capirti, a rendersi con chiarezza conto
dei fatti che tu riferisci. Questo non soltanto in treno o in fabbrica, ma dovun-
que, anche al tuo paese, perfino in casa, dove tua madre - pur agitandosi tutta,
poveretta - finisce solo col provare una gran pietà per te e per gli altri che ci si
son trovati... Così l’enorme esperienza ch’egli aveva messa insieme, e alla qua-
le ritornava a volte col pensiero (il modo di vivere dei contadini tedeschi, la
spaventosa marcia dei profughi prussiani - un popolo intero sradicato dalla
propria terra -, la barbarie indicibile di quei combattimenti tra gente che ave-
va perso il timor di Dio, “Povero cugino Tito ancora in quelle mani!”) tutte
queste cose egli era costretto a tenersele soltanto per sé. Forse un’esperienza
simile avrebbe finito poco alla volta col dissiparsi, col perdersi? No, adesso
egli cominciava ad avere fiducia che no. Grazie alla Luisina, appunto; la quale
aveva tutta l’aria di capire le cose, sembrava addirittura le capisse senza dir-
gliele... Con lei - quando fosse divenuta sua moglie - ne avrebbe parlato, e for-
se in tal modo le avrebbe lui stesso capite meglio. Ne avrebbe magari anche,
chissà, ricavata una sapienza da trasmettere ai figli, al pari di altri che non
avevano studiato, e tuttavia erano più sapienti di tanti dottori e professori.
Nei campi l’erba autunnale, destinata a essere tra poco bruciata dal gelo,
appariva verdissima, turgida d’acqua: i granturchi, smesso il loro precedente
colore maturo, un po’ esotico, ne andavano assumendo uno nostrale tra rug-
gine e grigio, che richiamava alla mente il colore degli uccelli di passo; i filari
dei gelsi si stavano qua e là spogliando e le foglie cadute formavano tante
chiazze sulla terra arata al piede dei tronchi. Ecco la Lodosa, e in fila con gli
altri il casale in cui abitava la Luisina, che a quest’ora - rientrata dalla filatura
- dava certo una mano alla madre nei preparativi della cena.
Finalmente ecco la sua casetta, col minuscolo portico nel quale - sebbene
non fosse ancora buio - la finestra della cucina risultava illuminata. Attraver-
sandolo il giovane salutava sempre col capo l’immagine della Vergine di Cara-
vaggio poi, prima d’entrare in casa, si soffermava a guardare per qualche
istante attraverso i vetri dentro la cucina. C’era sua madre che trafficava alla
stufa, e spesso anche suo padre intento a leggere il giornale spiegato sul tavo-
lo. Martina, la sorella piccola, sedeva composta su una sedia; accanto a lei ec-
co passare la gattina nera, lenta, con la coda tenuta verticale; sul piano della
credenza stava coricata la vecchia sveglia d’ottone che, se tenuta diritta, non
avrebbe funzionato...
Una sera, appena egli aprì la porta, la madre gli rivolse un: «L’hai già sapu-
to, Piero? Te l’hanno detto? È tornato tuo cugino Tito dalla prigionia.»
«Cosa dici? Tito è tornato dalla Russia?»
La madre annuì. «È. ridotto che peserà sì e no quaranta chili, povero fi-
glio.»
«Dov’è adesso?»
«Su a casa sua, al Casaretto.»
CAPITOLO VENTISETTESIMO
Tito rimase al Casaretto pochi giorni soltanto. Non aveva assolutamente vo-
luto essere ricoverato in un ospedale militare («No, basta, portatemi a casa, a
casa mia»), poi però il dottor Cazzaniga, subito chiamato dai famigliari e tor-
nato un paio di volte di propria iniziativa, era riuscito a farlo ragionare: «Vuoi
morire adesso che sei in Italia? Adesso che hai la possibilità di salvarti?» Ai
famigliari il dottore ripeteva: «Dobbiamo tenerlo in ospedale per qualche set-
timana, quanto basta perché si rimetta un po’ in forze. Nel frattempo gli trove-
remo un posto in sanatorio: perché questo ragazzo va salvato a ogni costo.» Il
dottor Cazzaniga, sempre pallido in faccia e misurato nei gesti, era di carattere
freddo, ma questo caso lo emozionava: fossero occorsi dieci o vent’anni di cu-
re per salvare la vita del reduce - diceva a sé stesso - ebbene per vent’anni egli
non si sarebbe stancato di prodigargliele.
Così Tito, lasciata la stanza mal riscaldata della cascina, ma anche, purtrop-
po, le cure inuguagliabili di sua madre, si ritrovò all’ospedale di Nomana, lo
stesso in cui due anni prima era stata ricoverata la povera Giustina, al pari di
lui malata di tisi. Anche la stanza che lo accoglieva aveva le pareti verniciate
fino al soffitto di colore giallino: il luccichio della vernice però non disturbava
il soldato, proveniente da un mondo di cenci e putredine, al contrario gli dava
se mai un confortevole senso d’igiene. Del resto a queste cose Tito non badava
in alcun modo, ridotto com’era a trentasette chili di peso, e completamente
esausto; più che vivere egli vegetava, al punto che non poteva soffermarsi oltre
un certo tempo su nessun pensiero.
I suoi parenti, gli amici, tutti i compagni di classe gli avevano fatto visita,
chi al Casaretto, chi in ospedale, anche Ambrogio, che pure non lo conosceva
personalmente, si era precipitato da lui dopo che Tito, tramite il cugino Pierel-
lo, gli aveva mandato - sbalorditivamente - a dire che il sottotenente Michele
Tintori di Nova era vivo e gli inviava i suoi saluti dal lager di Susdal. Tito con-
fermò a un Ambrogio emozionatissimo la grande notizia: «Lui non l’hanno
rimpatriato perché per questo primo scaglione hanno scelto solo chi era in
rischio di morire come me, e quelli convertiti al comunismo: che non sono
molti, e anche di questi c’è chi fa soltanto finta, intendiamoci.»
Ambrogio avrebbe voluto fargli un’infinità di domande, e aveva cominciato,
ma smise presto vedendo la fatica che all’altro costava rispondere. Il giorno
dopo tuttavia Tito fu costretto a ripeterle la buona nuova relativa a Michele
anche agli zii di lui, due anziani coniugi che Ambrogio era andato ad avvertire
a Monza, e che l’avevano lì sui due piedi supplicato d’essere accompagnati
all’ospedale.
Sempre più gente intanto veniva, giorno dopo giorno, a chiedere notizie dei
dispersi: stava diventando una processione, perché il portinaio dell’ospedale, e
le stesse suore, non se la sentivano di respingere gente come quella: special-
mente le madri dagli occhi pieni di paura ora che gli pareva - dopo anni di
dubbio dilaniante - d’essere sul punto di conoscere la sorte dei figli. Il rispon-
dere a tante persone però estenuava visibilmente Tito, tanto che alla fine il
dottor Cazzaniga intervenne con energia dando ordini perentori al portinaio e
a tutti, e apponendo all’uscio della sua stanza un cartello a stampa con la scrit-
ta ‘Isolamento - è severamente vietato entrare’.
***
Dopo di che per Tito cominciarono a succedersi giornate finalmente disten-
sive e silenziose, ch’egli trascorreva per lo più in dormiveglia. La suora e i due
infermieri che a turno prestavano servizio nel suo reparto gli dimostravano
ogni possibile premura; dal seminterrato anche suor Agape, la cuciniera, gli
inviava ogni giorno qualche leccornia supplementare, come cioccolato auten-
tico, americano, o primizie di mandarini ed arance; alternandosi tra loro veni-
vano ogni pomeriggio a tenergli compagnia il padre o la madre o suo fratello
Giacomo (il crocifero, come abbiamo già avuto occasione di dire), e tutti ave-
vano cura di non disturbarlo e di lasciarlo il più possibile dormire. Sia pure
con una lentezza che segretamente preoccupava il dottor Cazzaniga, Tito co-
minciò ad aumentare di peso.
Ogni mattina lo veniva a trovare anche don Mario la cui presenza riusciva al
reduce molto gradita: con la sua faccia da bambino con gli occhiali, e i capelli
a spazzola sempre un po’ spiegazzati, il prete gli parlava del recupero definiti-
vo che Dio ha fatto degli uomini a mezzo di Cristo. «Quaggiù non ce ne ren-
diamo ben conto» diceva: «ce ne renderemo conto però quando ci ritroveremo
nell’aldilà, salvi, dopo aver visto tanto male, tanta forza del male. Come hai
visto tu.»
«La forza del male, sì, è vero» diceva a volte il soldato, annuendo: «Proprio
così. Se lei avesse visto!»
Aveva raccontato a don Mario la sua esperienza di Cazan, quei treni carichi
di morti - uomini, donne, bambini - tutti sventrati e cannibalizzati. «Che cose,
don Mario! E chissà quante ne succedono anche adesso, mentre noi ne par-
liamo. Oh che cose!» Guardava con i suoi occhi sofferenti il prete negli occhi, a
cercarvi un appiglio, un aiuto.
«Adesso tu, finché sei in cura, devi sforzarti di non pensarci» lo consigliava
don Mario: «Adesso tu devi riposare, e pensare a una cosa sola, a rifarti le for-
ze.» Ma mentre gli dava questo e simili consigli non riusciva, egli stesso, a
staccare gli occhi della propria mente da quelle orrende visioni.
«Lo diceva il santo curato d’Ars» commentò una volta, rifacendosi alle sue
letture di seminario: «lo diceva che a levare il prete da una comunità, questa si
trasforma in una comunità di belve. Ecco, è proprio vero.»
Tito lo guardava sempre allo stesso modo: «È vero, sì, è così.»
«Tu comunque adesso cerca di non pensarci. Adesso devi pensare soltanto
a guarire.»
«Sì.»
Nel cuore del prete si era però andato accumulando un tale peso, che egli
non riusciva quasi a sopportarlo; certe volte, quando al mattino prendeva tra
le sue la mano del malato e si sforzava di sorridergli, faceva - dati i suoi linea-
menti - una smorfia come di bambino che stia per mettersi a piangere. Tito
per fortuna non aveva la possibilità di indugiare a lungo sulle cose, e si sentiva
ben presto riafferrare dalla semi incoscienza del dormiveglia.
«Però» gli disse una volta don Mario, con una sorta quasi di ribellione:
«anche in Russia una qualche bontà, un qualche barlume, l’avrai pur incontra-
to. Era gente che prima venerava la Madonna, basta pensare a tutte quelle
icone. E non è possibile che in qualche decennio soltanto...» Notò che gli occhi
di Tito lo guardavano fissi, sorpresi. «Voglio dire: qualche caso di bontà l’avrai
incontrato anche tu. Come quelle contadine che - a quanto ho sentito - mas-
saggiavano, senza che nessuno le obbligasse, i piedi congelati ai nostri che gli
capitavano in casa durante la ritirata.»
«Io quello non l’ho visto» affermò Tito. «Ma un caso di bontà... Beh, sì, cer-
to: proprio a Cazan, in quell’ospedale dove le guardie venivano a tirarci giù dai
letti noi prigionieri malati, per condurci a scaricare i treni alla stazione. Là c’è
una dottoressa ucraina, che mi aveva preso a benvolere, come una madre, e mi
ha fatto mangiare una quantità di cose buone. Perché anche allora ero molto
deperito: tanto che senza di lei sarei morto.» Fece una pausa: «Quando suor
Agape mi manda su dalla cucina le cose buone, mi viene sempre in mente
quella dottoressa ucraina, la sistrà (sorella) Evghenia; sempre. Chissà adesso
come andranno le cose là nell’ospedale di Cazan...»
Anche per don Mario quel lontano episodio aveva finito col costituire un
motivo di conforto.
CAPITOLO VENTOTTESIMO
Un giorno, mentre Tito era solo, entrò nella sua stanza l’ex partigiano Sèp,
ch’era suo lontano parente per parte di madre. «Come va, cugino?» lo salutò
in dialetto: «Son proprio contento che sei tornato.»
«L’importante è esser vivi» gli rispose Tito, sorridendo.
«Ecco, bravo.» Sèp gli strinse, non senza emozione, la mano con la propria
sinistra in quanto aveva la destra fasciata e sospesa al collo mediante una
sciarpa. Poi, sempre con la sinistra, batté amichevolmente su una spalla del
malato: non s’aspettava di sentire sotto le dita le ossa e ossicine sporgenti
dell’altro.
«A questa mano m’hanno operato ieri» dichiarò un po’ impacciato mo-
strando la destra rivestita di garze. «Lo sai, no? Il dottor Cazzaniga, a lasciarlo
fare, opererebbe anche la Madonna di gesso delle monache.»
Tito sorrise. «L’avevo sentito infatti che ti hanno operato.» L’altro intuì che
allora doveva essere al corrente anche dei suoi trascorsi partigiani e del suo
attuale attivismo nel partito comunista. «Boh» fece, e alzò marcatamente le
spalle, a significare che comunque a lui non importava niente sia
dell’operazione chirurgica, che delle riserve della gente, che delle eventuali
riserve dello stesso Tito.
A quest’ultimo riguardo tuttavia non era sincero, tanto che poi nel parlare
gesticolava più del necessario, a momenti anche con l’ingombrante destra fa-
sciata; cominciò col farsi beffe del cartello ‘Isolamento - è severamente vietato
entrare’ appeso fuori della porta; al che Tito gli sorrise, con popolana compli-
cità. Notava intanto che il viso di Sèp - sebbene questi avesse soltanto
vent’anni - si stava già raggrinzendo intorno al naso e sulla fronte; ma i visi
raggrinziti - ricordò il malato - erano un distintivo della famiglia di Sèp.
«Non ti siedi un momento?» gli propose.
L’ex partigiano prese allora posto sull’unica sedia del locale, sulla quale se-
devano di solito don Mario e Giacomo il crocifero; accavallò le gambe piutto-
sto lunghe, distintivo di famiglia anche questo.
Il malato gli chiese notizie dei comuni parenti, e Sèp nel dargliele si diffuse
con qualche prolissità; parlò quindi delle difficoltà del momento, tenendosi
però sempre sulle generali, tanto che Tito pensò non ci sarebbero state discus-
sioni, e ne fu lieto, perché l’idea di discutere non l’attirava in alcun modo.
Costituì tuttavia pietra d’inciampo una delle abituali frasi di Sèp, pronun-
ciata senza riflettere: «Peccato che Stalin non sia arrivato fin qui, perché le
cose le avrebbe sistemate lui.»
Tito impallidì un poco. «No» ribatté con calma: «Quello avrebbe soltanto
chiuso in prigione e fatto morire un mare d’operai e di contadini, senza siste-
mare niente.»
A quest’uscita Sèp azzittì; nel suo atteggiamento affiorava l’insofferenza
propria del dogmatico che viene contraddetto, insieme però gli si disegnava in
viso anche un principio di preoccupazione, la preoccupazione che l’altro con-
fermasse certe notizie circolanti nell’ospedale. Quelle sconvolgenti notizie
erano state in realtà il principale movente della sua visita.
«O Tito, non ti sarai messo anche tu coi fascisti, per caso?» esclamò.
«E perché?» rispose Tito: «E da quando in qua? Dopo che hanno perduta la
guerra mi sarei messo con loro?»
«Beh, guarda, non discutiamo» fece Sèp; ma era un proposito velleitario:
l’ultima cosa che avrebbe voluto era di rinunciare davvero a proseguire quel
discorso.
«Ecco, va bene, non discutiamo» aderì incondizionatamente Tito: «oltre
tutto io non me la sento proprio.»
Sèp stava sulle spine. «Tu lo sai che io sono stato partigiano?» buttò fuori:
«Partigiano comunista? E che adesso, qui in paese, sono in politica?»
«Sì, lo so. E allora? Vuoi che per questo non ti dica la verità? Però ascolta:
hai appena detto che non dobbiamo discutere, dunque basta.»
«Tu Tito non puoi metterti dalla parte dei signori. In fin dei conti sei anche
tu un povero diavolo come me» insisté quasi aggressivo l’altro.
«Anche più povero, se è per questo, specialmente di salute.»
«Ecco. Dunque fai male a metterti contro il popolo, lasciamelo dire. Devi
piantarla di raccontare in giro quelle cose che t’hanno messo in bocca... chi?
Saranno stati gli ufficiali, i signori insomma, che sono poi i responsabili d’ogni
miseria dappertutto. Non ti rendi conto?»
«Le cose che m’hanno messo in bocca?» Tito sbuffò. «Senti, tu parli di po-
vera gente, parli di miseria» disse lento, volgendo verso l’altro il viso gonfio
sul collo scarnito: «Lo sai che in Russia c’è molta, ma molta più miseria che
qui da noi?»
«È impossibile.»
«Molta di più. Senza confronto. E quanto ai responsabili... là i responsabili
sono i tuoi comunisti, perché sono loro i padroni di tutto. E trattano la povera
gente in una maniera che i padroni di qui non l’hanno fatto mai. Ecco come
stanno le cose.»
A sentir parlare a quel modo dei comunisti da uno ch’era stato in Russia,
negli occhi di Sèp passò un’ombra di paura. «Tu non puoi avere visto molto»
esclamò «sei sempre stato al chiuso, non hai visto quasi niente.»
«Senti ragazzo, io sono stato là più di tre anni» disse Tito. Sembrava voler
aggiungere altro, ma alzò le spalle e si riaccomodò nel letto. «Va bene. Vuol
dire che quando voglio sapere come stanno le cose in Russia, me lo faccio
spiegare da te. E adesso cambiamo discorso.»
Ci fu una lunga pausa; Sèp, era chiaro, non voleva che l’incontro si conclu-
desse a questo modo.
«Però hanno ragione» non seppe trattenersi dall’osservare Tito «quelli che
dicono che voi comunisti avete portato tutti la testa all’ammasso. È proprio
così. Pare impossibile, la testa all’ammasso. Anche tu.».
Sèp a questa uscita aprì e chiuse un paio di volte la bocca per replicare, ma
non lo fece. Tito s’aspettava d’essere insultato: era chiaro che la sua accusa,
d’avere portata la testa all’ammasso, doveva riuscire particolarmente insop-
portabile all’altro, che in fin dei conti si era ribellato alla dittatura al punto da
combatterla con le armi.
Il reduce provò un senso di malinconia; Sèp riuscì ad ogni modo a dominar-
si, non cedette all’irritazione. Si limitò a dire: «Tito, tu sbagli e fai male a... a
metterti contro la speranza della povera gente. Ecco.»
«Piantala Sèp, piantala. Quale speranza? Quella del comunismo è solo un
inganno, non è una speranza.»
Sèp finì con l’alzarsi in piedi; considerò ancora una volta il malato, rivelato-
si così irriducibile. «Cugino, oggi non avevo in mente di discutere con te» di-
chiarò, «non volevo stancarti o metterti in agitazione (tratt all’ari). E invece ti
ho messo in agitazione, mi dispiace. Adesso è meglio che me ne vada; però io
qui ci torno ancora. Perché la testa all’ammasso non l’ho portata.»
«Lascia perdere» disse Tito con stanchezza: «Non volevo mica offenderti.»
«No» continuò l’altro «devi dirmi tutto quello che hai visto.»
«Soltanto brutte cose» mormorò Tito.
«Va bene, mi dirai quelle. Ritorno domani. E tieni bene a mente che io la
testa all’ammasso non l’ho portata.»
Sèp intendeva effettivamente tornare l’indomani. Ma quel giorno stesso il
dottor Cazzaniga lo tolse di torno, dimettendolo dall’ospedale.
PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO
Anche il rosso 1945 ebbe termine, sprofondò nel baratro degli anni finiti,
col suo carico di speranze, d’assassini, di sforzi, di grida rimaste a mezz’aria.
L’azione politica spicciola di Luca e Ambrogio e degli innumerevoli altri
come loro sparsi dovunque in Italia, cominciò a rivelarsi efficace quando, nella
primavera del 46, furono tenute qua e là - anche con intenzione d’assaggio - le
prime elezioni amministrative. Il partito d’ispirazione cristiana si dimostrava
in grado di tener testa a quelli marxisti: anzi l’unico in grado, tutti gli altri an-
davano rivelandosi poco consistenti.
A Nomana come dovunque la radio e i giornali diffondevano dopo ogni
giornata elettorale i risultati. «Vedete? Non ci siamo sbagliati» si commentava
la sera durante le riunioni all’oratorio maschile: «Adesso quel che occorre è
perseverare, non contentarci.»
«Dobbiamo anzi aumentare gli sforzi. Perché non basta vincere le elezioni
qui nei nostri paesi: bisogna mettere insieme quanti più voti possibile per
fronteggiare quelli delle zone rosse» affermava e ripeteva Luca.
Ad Ambrogio tornava in mente la situazione nell’esercito: come là, anche
nella vita civile erano gli individui più disposti a portare il peso, che facevano
procedere le cose per tutti.
Tanto più se ne convinse dopo che il governo legittimo, d’accordo con gli
‘alleati’, ebbe fissata al 2 giugno la data della prima consultazione generale:
per la scelta tra repubblica e monarchia, e per l’elezione dei deputati
all’assemblea costituente. Il giovane poté constatare coi propri occhi che an-
che a Milano il lavoro del partito d’ispirazione cristiana aveva carattere quasi
del tutto volontario o, come allora si diceva, spontaneistico. Aveva adottato il
sistema di passare una o due volte la settimana - tornando dall’università -
dalla sede provinciale della democrazia cristiana, situata in un vecchio palazzo
del centro nei pressi della Scala. Ritirava il materiale propagandistico destina-
to a Nomana (volantini, opuscoli, i primi manifesti) ed eventuali direttive.
L’ambiente umano, lo stile, erano quelli ch’egli conosceva bene dell’Azione
Cattolica: si rese anzi conto che il partito, a Milano come a Nomana, finiva con
l’essere una filiazione diretta dell’Azione Cattolica.
Con l’approssimarsi delle elezioni nella sede milanese i collaboratori anda-
rono crescendo di numero, il materiale da ritirare si fece più abbondante, Am-
brogio fu costretto più d’una volta a scendere a Milano in automobile anziché
in treno, perché diversamente non gli sarebbe stato possibile portarselo via
tutto. In paese si formarono per l’affissione dei manifesti squadre di ragazzi
dell’oratorio, che eseguivano il loro lavoro con entusiasmo, vociando, ridendo,
servendosi d’un paio di traballanti scalette. Uno dei loro leaders (sempre per
esprimerci secondo la terminologia che stava entrando in voga allora) era Sau-
lo, il figlio maggiore dell’autista Celeste. Nessuno in quei giorni si sarebbe
immaginato che quel ragazzino magro e volonteroso avrebbe ripetuta la vi-
cenda di Gerardo, creando nel giro di pochi decenni un’industria del valore di
miliardi, e che sarebbe inoltre diventato sindaco di Nomana.
In paese e nelle frazioni anche gli attivisti comunisti e socialisti si davano da
fare: le notizie che giungevano dalle zone rosse della pianura dove il loro pre-
dominio era incontrastato, li inducevano a credere di poter vincere le elezioni
sul piano nazionale, sebbene avvertissero che la gente del paese, anzi della
Brianza in genere, invitata a scegliere tra loro e i cristiani, anziché suddivider-
si, tendeva a identificarsi con i cristiani. Della classe operaia, di cui essi a quel
tempo si dichiaravano apoditticamente gli unici interpreti, solo una parte e -
almeno in Brianza - non certo la migliore, era effettivamente con loro.
Una sera davanti alla fabbrica di Gerardo un attivista della ‘camera del la-
voro’ d’Incastigo, salito in piedi su un tavolino, invitò gli operai a non votare
per il partito cui appartenevano anche i padroni; affermava e ripeteva (in
buona fede, essendo marxista) che gli interessi degli uni erano inconciliabili
con quelli degli altri: gli riusciva irritante constatare che gli operai pensavano
precisamente il contrario. Terminò con grida di «Abbasso i padroni - I padro-
ni a piazzale Loreto» e simili. Un operaio in tuta chiese allora la parola, e bal-
zato a sua volta sul tavolino: «Ho da dire anch’io qualcosa a proposito dei pa-
droni» asserì in dialetto. Era un giovane molto attivo, tornato dalla prigionia
in Germania; Luca, ch’era presente, si fece inquieto: possibile che quello aves-
se abboccato alla propaganda dei rossi?
«Voglio dire una cosa sola» esclamò l’operaio alzando la voce: «quando io
stavo in Germania, e la mia famiglia, come voi sapete, s’è trovata nel bisogno,
l’aiuto non gliel’hanno dato i sindacati, ma il padrone. Se siamo uomini, que-
ste cose dobbiamo ricordarle» gridò «non dobbiamo dimenticarle.» E dopo
essersi guardato attorno alquanto, in attesa di possibili contradditori, balzò
giù dal tavolo, mentre parecchi dei presenti convenivano, e anzi qualcuno ap-
plaudiva.
«Perché» si fece allora avanti un operaio anziano, rivolgendosi al sindacali-
sta «venite qui a parlare di piazzale Loreto? Perché dovremmo uccidere il pa-
drone o chiunque altro? Sempre di uccidere si deve parlare? Cosa siamo di-
ventati, bestie feroci?»
Quando Gerardo riseppe, poco più tardi, l’episodio ne rimase toccato; nei
giorni seguenti i figli lo udirono ripetere più duna volta: «Abbiamo degli ope-
rai (‘delle maestranze’ egli diceva) migliori di noi», e: «Per questa gente dob-
biamo trovare il modo di fare di più...»
I comizi dei rossi non diedero a Nomana il risultato sperato dai loro orga-
nizzatori, né la conquista della direzione socialista da parte del Pollastri - che
era effettivamente riuscito a ‘fare le scarpe’ al Benfatti - giovò loro. A un comi-
zio davanti a un cantiere della vetreria (era iniziata la costruzione d’un altro
capannone) si verificò un mezzo incidente: uno degli assistenti del cantiere
prese il Foresto per il bavero: «Dov’è finita quella disgraziata del Raperio?
Cosa ne avete fatto?» si mise a urlare, reagendo alla qualifica affibbiata
dall’altro ai nomanesi di ‘gente addormentata’: «Cosa pretendete d’insegnare
a noi, voi che siete degli assassini?» I muratori ed altri operai presenti inter-
vennero, separarono i due, spinsero via il Foresto: «Va, va, tornerai un’altra
volta, adesso lascia perdere» gli dicevano.
Ai comizi del partito cristiano (tutti tenuti al chiuso, nel modesto salone
dell’oratorio) il pubblico partecipava via via più numeroso. L’ultimo di tali
comizi ebbe luogo l’antivigilia delle elezioni: in paese era già arrivata la polizia
che avrebbe dovuto sorvegliare l’ordine pubblico (in pratica i seggi elettorali),
costituita da giovani appena incorporati, tutti ex partigiani con la divisa nuova
nuova. A costoro l’ambiente di Nomana non piacque: alcuni assistettero - an-
che se non avrebbero dovuto - al comizio nell’oratorio, e lungi dal curare
l’ordine, lo disturbarono per la prima volta seriamente, mettendosi a sbraita-
re; uno fu addirittura colto da una crisi isterica, si videro alla fine tre o quattro
poliziotti seguire urlando e insultando, attraverso la piazza del paese, l’oratore
che camminava tra Luca e Ambrogio.
Anche questo fatto giovò: alla votazione per l’assemblea costituente il parti-
to cristiano ottenne il 56 per cento dei voti, contro il 44 degli altri partiti nel
loro insieme. Non molto diverso fu il risultato nei vicini comuni della Brianza
milanese; in quelli comaschi - a Visate per esempio - il partito cristiano otten-
ne una percentuale di voti ancora superiore.
Quanto alla scelta istituzionale nella zona prevalsero in genere i voti per la
monarchia: più però per reazione alla feroce propaganda in contrario dei ros-
si, che per fiducia in un istituto i cui rappresentanti conducevano da sempre
una vita agli occhi del popolo poco convincente, se non addirittura dissipata.
CAPITOLO SECONDO
***
Così Colomba si recò in visita da Francesca. Attraversò Nomana per il mez-
zo, lungo le strade acciottolate, rese polverose dalla calura; ricordava d’averle
percorse altre volte con lentezza, al braccio della prozia Eleonora, per andare
in chiesa o tornarne. Passando davanti all’arco scemo della corte di Sansone
gettò un’occhiata curiosa all’interno: c’erano le solite donne anziane sedute a
sferruzzare nell’ombra dei gelsi, davanti alle stalle si scorgevano ancora i carri
stracarichi d’erba, le rondini andavano e venivano raso terra come negli anni
passati, felici d’essere al mondo.
La giovinetta ricordò l’interesse di Manno per il nido di rondini che stava
nell’androne de ‘I dragoni’ (quest’anno il nido non c’era più); l’aveva presa un
po’ in giro per lo scodellino con pane e latte che lei aveva sistemato accanto ai
nidiacei: «Dovevi metterci la grappa, non il latte» le aveva detto, o qualcosa di
simile, con uno scherzo di parole soldatesco di cui nemmeno oggi lei afferrava
del tutto lo spirito. “Allora poi avevo solo diciotto anni”.
Adesso che di anni ne aveva ventuno si era fatta ancora più bella, glielo di-
cevano gli sguardi della gente che incontrava: sei bella sembravano dirle. An-
che in piazza c’erano, guarda, molte rondini come un tempo, e a lei che
l’attraversava di buon passo, volavano più vicine del dovuto, qualcuna perfino
(impertinente!) sfiorandola con agreste galanteria: sei bella, lo sai? sei bella,
parevano gridarle involandosi; anche le sue scarpette glielo sussurravano, pic-
chiettando sull’acciottolato: sei bella Colomba, sei bella. “Eh...” si schermiva
lei, tra compiaciuta e malinconica. Passò sotto il campanile, che aveva le cam-
pane nuove, splendenti, passò davanti alla casa d’Igino, che lei però non cono-
sceva. Ecco la cancellata dei Riva (tuttora di legno) e al di là della cancellata il
prato e la vecchia casa ch’era stata una fabbrica, e il giardino dagli alberi color
verde cupo; la ragazza fece il suo ingresso salutata (anche qui: sei bella!) con
simpatia dalla portinaia.
Rimase con Francesca e Giulia l’intero pomeriggio. L’incuriosiva l’ambiente
ch’era stato di Manno, certe notizie relative agli anni più lontani di lui; l’aveva
frequentato così poco, Manno, che nell’apprendere questo o quel particolare
della sua vita da lei finora ignorato, provava la strana impressione di non
averlo, in realtà, conosciuto veramente.
Francesca e Giulia non le parlarono però soltanto di Manno, ebbero cura
d’intrattenerla anche con discorsi di poco impegno, da vacanza, distensivi; la
giovinetta riferì a sua volta qualche esperienza universitaria: «Frequento
scienze biologiche a Pavia, lo sapevate?»
No, non lo sapevano. «Ma perché a Pavia, e non a Milano?» le domandò
Francesca.
«Perché a Milano scienze biologiche non c’è.»
«Oh, guarda!» disse Francesca. «Io invece, tu lo sai, mi sono fermata al di-
ploma di maestra, non ho continuato. Chissà se ho fatto bene.»
«E Alma? Ha intenzione di continuare o no?» chiese Colomba. «È incerta.
Si è diplomata maestra il mese scorso, lo sapevi?»
«Sì.»
«Adesso non ha ancora deciso se continuare.»
«La nostra Almina» fece con tenerezza la madre.
«Quel gattino di marmo» celiò Francesca.
«Domani io devo raggiungerle in montagna, lei e la Giuditta» dichiarò la
madre, e con espressione dialettale: «quei due ‘pastrugni’ (pasticci).»
«Chissà cosa staranno combinando quelle due» disse Francesca. «Ma tu
piuttosto va avanti, raccontaci di Pavia.»
Colomba continuò; ciò che riferiva interessava realmente le ospiti, specie
Francesca. Alla giovinetta quell’interesse riusciva gradito; finì con l’accettare
volentieri l’invito a tornare anche il giorno dopo, al mattino.
Tornò poi anche il seguente (Giulia era partita ormai per la montagna) e i
successivi; portava con sé, in una borsa, il suo lavoro, e conversava sferruz-
zando. «Qui da voi mi piace» diceva talvolta a Francesca: «Ci sei tu, ci tenia-
mo compagnia. Mia madre? Beh, la sua compagnia ce l’ho già tutto l’anno.»
«Non quando sei a Pavia magari.»
«Quando sono a Pavia no.»
Di Manno parlavano sempre meno.
CAPITOLO TERZO
Finì, una volta, con l’alzarsi in piedi: raggiunse le due ragazze e si affiancò
loro; con sorpresa di Francesca si mise a parlare dei fiori.
I suoi erano ragguagli decisamente pedestri, lo stesso giovane se ne rendeva
conto, tanto che: «Ci vorrebbe qui Manno» concluse: «Lui sì che conosceva
bene le piante e i fiori; come gli animali del resto, specialmente gli uccelli.»
«Sì» disse Francesca «Manno conosceva tutte le cose belle.»
«È vero» convenne Colomba. E ad Ambrogio: «Però anche quello che dici
tu è interessante.»
«Beh.»
«No, dico sul serio.»
Era sincera. Anzi se avesse saputo leggere meglio in sé stessa, si sarebbe re-
sa conto che il modo di parlare d’Ambrogio, concreto e pratico, le era più con-
geniale di quello di Manno.
Un giorno, di primo pomeriggio, il giovane fece un passo avanti: si offrì
d’accompagnare le due ragazze a fare una passeggiata in bicicletta. «Eh, cosa
ne dite? Siamo in agosto: così prendo qualche ora di vacanza anch’io.»
«Oh, finalmente. Però quasi non credo ai miei orecchi» commentò France-
sca: «Qui va a finire che si mette a piovere anche se c’è il sole.»
Diedero a Colomba la bicicletta di Alma; in poco meno d’un’ora raggiunsero
e poi - come impropriamente s’espresse Ambrogio - ‘circumnavigarono’ il la-
ghetto di Pusiano, l’Eupili del Parini.
Sul finire della circumnavigazione, ricordando certi versi studiati a scuola,
Colomba domandò quale fosse il ‘clivo di Brianza’.
«Un clivo?» le rispose allegramente Ambrogio, che non ne aveva la minima
idea: «Di clivi qui intorno, come vedi, ce n’è un mucchio: quasi quasi non ci
sono altro che clivi.»
«Dico quello dove danzava la donna di Brianza amata dal Foscolo.»
«Ah, pensa un po’, io credevo si trattasse d’una citazione del Parini.»
«Ma no, sta nell’episodio con cui si concludono ‘Le Grazie’» disse Colomba.
«Aspetta, l’abbiamo studiato a memoria e qualcosa dovrei ricordare: ‘Vaga e
felice i balli e le fanciulle...’ ecco, sì ‘di nera treccia insigni e di sen colmo - sul
molle clivo di Brianza un giorno - guidar la vidi.’
«Che brava!» fece Ambrogio. «E poi il pozzo di scienza sarei io! Sei sicura
però che quella danzava proprio in questi paraggi?»
«Sì, certo, perché c’entra anche il lago. Infatti a un certo punto lei ‘oblia’ le
vesti allegre, ‘e se alla luna’ eccetera ‘più azzurro il scintillante Eupili ondeg-
gia... plora col rosignuol’.
«Oh poveretta! E perché plora?»
«Mah, pene d’amore credo. Ad ogni modo esattamente non ricordo.»
I tre giovani si misero a ridere con allegria. Quella Brianza - settecentesca e
un po’ pagana - era infinitamente lontana da loro, apparteneva a un’altra cul-
tura, la stessa dei nobili e proprietari terrieri, una cultura scomparsa al pari
dell’ignota donna di Brianza cantata dal Foscolo. Adesso, dopo l’avvento della
cultura paolotta del popolo, il tipo della donna di Brianza era se mai la Lucia
manzoniana, questa sì ancor viva e presente in mezzo alla gente. Come che sia
quella lontana, neoclassica vicenda, non li riguardava.
Intanto a passeggiare senza pensieri a quel modo in bicicletta tra campi,
‘clivi’, boschi e lago, in compagnia di due ragazze dalle gonne variopinte, Am-
brogio finiva col vergognarsi un po’: “Neanche fossi un ragazzino!” Per met-
tersi in pace si disse alquanto vilmente (cosa che non gli era abituale): “In
fondo la colpa è di mio padre, che mi costringe, a venticinque anni, a fare an-
cora lo studentello”.
***
Fosse o no colpa di suo padre, di lì a qualche giorno, senza che le ragazze
glielo chiedessero, egli propose loro di fare un’altra passeggiata. E avendogli
Francesca ricordato che nel giardino dei Marsavi a Visate c’era il campo da
tennis, ve le accompagnò senz’altro per una partita. Colomba dimostrò di sa-
per giocare bene, certamente meglio dei due Riva, e mostrò sopra tutto di di-
vertirsi un mondo. Ragion per cui Ambrogio nei giorni successivi, sempre con
Francesca, ve l’accompagnò altre volte ancora.
Quanto mai entusiasta d’una simile frequenza della sua fidanzata (France-
sca appunto, alla quale i genitori non avrebbero mai permesso di recarsi da
sola a Visate) si dimostrò l’Andrea Marsavi, tanto che commetteva lui pure
l’inaudito scempio d’abbandonare il lavoro per partecipare al gioco. «In tre»
spiegò la prima volta mentre usciva dal salumificio a uno dei suoi fratelli (ne
aveva otto di fratelli) «non potrebbero giocare. E in fin dei conti siamo nel
mese d’agosto.»
«Certo. Chi ti dice niente?» gli rispose il fratello.
«Beh, è inutile che mi guardi come fossi un debosciato» esclamò Andrea
quasi con irritazione: «Io ci vado lo stesso, va bene?»
«Ma chi ti guarda?» disse l’altro, tentennando la testa divertito.
Fabbrica, uffici, casa, giardino dei Marsavi, ogni cosa confinava, anzi addi-
rittura s’intersecava; al campo da tennis, situato in mezzo al giardino, giunge-
vano ogni tanto le grida dei poveri suini morituri, sospinti verso le catene di
lavorazione.
Andrea giocava con forza, raggrinzendo nei momenti difficili il naso affilato;
era così preso della sua Francesca, che malgrado l’innata cortesia si accorgeva
a malapena degli altri: la gioia d’averla vicina gli sprizzava dal giovane viso.
Francesca in qualche modo ne riverberava. Non dava importanza al gioco,
nel quale del resto - senza per nulla preoccuparsene - era poco abile; per lei il
gioco era soltanto occasione: con la pesante treccia castana attorno alla testa
gustava in pace la vicinanza del giovane cui voleva bene, le ore buone che la
Provvidenza le concedeva. “Non è una donna: è la donna” pensava allora di lei
Andrea, e s’esaltava: “è ‘la donna eterna’.” In quei giorni d’innamoramento si
ritrovava un po’ poeta anche lui.
Colomba giocava per il gusto di giocare: s’impegnava a fondo, il bel viso le
s’arrossava gradatamente per la traspirazione, i ridenti occhi grigio-azzurri
brillavano, quando un colpo le riusciva bene lanciava esclamazioni gioiose.
Ambrogio non poteva impedirsi d’osservarla; ogni tanto naturalmente
scambiava con lei e con gli altri qualche frase, sopra tutto però rifletteva e -
cosa per lui nuova - perfino fantasticava: questa ragazza non somigliava affat-
to a una donna greca, come a suo tempo sosteneva Manno. “Beh, nel fisico
può darsi, qualche cosa di classico magari c’è: nella testa forse. Anche se il na-
so, per fortuna, a guardarlo bene non è a quel modo, non continua la linea del-
la fronte. Quanto allo spirito però, è escluso che sia greca”. Ma poi: “Che razza
di ragionamento ‘a pera’ sto facendo? Cosa ne so io di com’erano le donne gre-
che? E tanto più nello spirito?” Riconosceva di non averne la minima idea.
“Beh, una cosa è certa: che non potevano avere uno spirito moderno come
quello di Colomba.” E di nuovo, dopo averla - senza darlo a vedere - osservata
e ancora osservata: “Macché donna antica. È una ragazza di oggi, e una gran
bella ragazza anche; ecco cos’è”.
Una ragazza della cui vicinanza, col passare dei giorni egli s’inebriava sem-
pre più.
CAPITOLO QUARTO
Finì col rendersene conto. Durante le ore di studio, alle quali riservava pun-
tigliosamente la mattinata (che, proprio per eliminare le occasioni d’incontro,
adesso non trascorreva più all’ombra del fico, ma in casa, nello studio pater-
no) provava una crescente, straordinaria impazienza che venisse il pomeriggio
e con esso il momento di rivedere Colomba. Fanny - egli constatava - non ave-
va mai esercitato su di lui un’attrattiva tanto forte.
“Ehi, ehi” non mancò d’ammonirsi: “Ricordati che questa è la ragazza di
Manno!” Non gli sembrò tuttavia il caso di drammatizzare: “In che modo po-
trei dimenticarlo? Di cosa mi preoccupo? Dai, non creiamoci fisime inutili”.
Quanto a Colomba, alla quale la presenza d’Ambrogio riusciva allo stesso
modo sempre più gradita, non se ne faceva un problema: era a sua volta de-
terminata, in linea di principio, a conservarsi fedele alla memoria di Manno,
non le sarebbe venuta meno proprio col cugino di lui: “Come se, oltre tutto, al
mondo ci fosse soltanto questa famiglia”. Il solo fatto che le passassero per la
testa simili pensieri avrebbe dovuto metterla in guardia, era però troppo sem-
plice e sprovveduta per rendersene conto.
Intanto più frequentava Ambrogio, più il giovane le piaceva: certo non era
brillante come Manno, la cui forte personalità l’aveva a suo tempo abbagliata.
Ambrogio però, che dimostrava in ogni circostanza spirito pratico, e anche se
credente non avrebbe mai parlato di predestinazione, né mai l’avrebbe para-
gonata a una pianticella, le riusciva in fondo assai più vicino. “Devo ammette-
re che mi fa sentire sempre a mio agio: ha i piedi ben piantati sulla terra, con
lui mi trovo bene”. Per lo stesso motivo, per lo spirito pratico che vi si respira-
va, le riusciva congeniale anche l’ambiente di Visate, in cui il lavoro s’infiltrava
coi suoi rumori, e qualche volta anche odori, da per tutto, anche nel campo da
tennis. Così, tenendosi entrambi scarsamente in guardia, la reciproca attratti-
va cresceva tra loro, com’è nell’ordine di natura.
Fine della natura è anche il congiungimento fisico. Ambrogio, che rifuggiva
per sistema dalla sensualità - a ciò educato con fermezza sin dall’infanzia - fu
il primo ad avvertirlo. Gli accadde all’improvviso, in occasione d’un piccolo
episodio, tanto piccolo che non fu neppure un episodio: mentre durante una
partita egli osservava senza darlo a vedere la sua compagna, questa tutta presa
dal gioco fece alcuni salti avanti e di lato, per cui la gonna le si sollevò al punto
da scoprirle le gambe fino all’inguine. Sebbene usasse nei momenti di maggior
foga tenersi la gonna a posto con la mano libera, non era la prima volta che
questo le accadeva: stavolta però il giovane non riuscì a rimanere insensibile,
provò anzi un’emozione così forte quale, in quest’ordine, non aveva ancora
sperimentato in vita sua.
“Acc... accidenti” si disse mentalmente, accusando il colpo. “Che razza di
scossa! Beh, dai, non dimenticare che hai provato altro, tu che hai visto la
morte in faccia tante volte.” Sì, ma questa era un’emozione del tutto diversa, e
non era qualcosa che si potesse accantonare facilmente mediante riflessioni.
“Che animale sono però! Lei è qui che gioca in piena innocenza, e io le guardo
le gambe... Non di proposito, è vero; dopo tutto non ho mica la testa chiusa in
un sacco...”
Colomba non s’accorse del suo impaccio; neanche gli altri due si resero con-
to che per un certo tempo Ambrogio giocò come assorto e sopra pensiero; ave-
vano entrambi la mente altrove.
CAPITOLO QUINTO
Già dal giorno seguente tuttavia non tenne fede neppure a quell’irrazionale
proposito.
L’attirava ormai a tal punto Ambrogio, che nonostante le risoluzioni in con-
trario, la ragazza finiva addirittura con l’andare a fargli qualche visita per gio-
co anche durante le ore da lui riservate allo studio. Trovava un pretesto per far
capolino alla sua porta: «Ehi, pozzo di scienza, Francesca ha detto... Oggi po-
meriggio il programma di Francesca sarebbe... Ma dì, tu sei d’accordo? Me ne
vado subito, scappo, eh, non arrabbiarti per così poco.»
Una mattina s’affacciò a quel modo: «Ehi, pozzo di scienza, posso rubarti
un istante del tuo tempo prezioso? Lo sai che Francesca sta macchinando di
preparare i ravanelli? Anche se a te non piacciono, ha detto. Io però non ci sto
a questa congiura: dì, quale verdura vuoi che ti vada a cogliere nell’orto?»
«Verdura? La verdura!» esclamò lui, scuotendo la testa con finto sdegno: «I
ravanelli! Cose da pazzi!» Picchiò la mano sul tavolo: «Via, lasciatemi studia-
re, donnette senza criterio.»
Colomba non si mosse, sorrideva: «Dai, dimmi quale verdura devo coglie-
re.»
Che incantevole creatura! Era vestita di bianco come al tempo in cui Manno
la paragonava ad Andromaca, attraente oltre ogni dire. Ambrogio la sogguar-
dava con finto cipiglio: non gli riuscì di star fermo, si alzò in piedi: «Adesso te
li do io i ravanelli» esclamò, e corse verso di lei.
Invece di fuggire com’egli s’aspettava, e concludere in tal modo il gioco, Co-
lomba si piegò un poco, alzando le braccia come per proteggersi: qualcosa
dentro di lei, un’emozione dolcissima, le impediva di muoversi. Ambrogio le
afferrò le due mani, e gliele agitò per scherzo: «La verdura, eh, i ravanelli?
Come ti permetti di...» Poi si ritrovò che balbettava: «Colomba... tu vieni qui
a... tu...» Sentiva una sconvolgente voglia di stringerla a sé, di accostare il
proprio viso al fresco viso di lei, il quale appariva in attesa, con la bocca se-
miaperta. “Tutto il resto all’inferno” una voce prepotente gridava nel suo inti-
mo. Ecco, lui adesso avrebbe... adesso... “Adesso cosa? Animale! Manno è
morto e questa è la sua ragazza. Lui non te la può contendere, non può fare
niente. Su, fatti avanti tu, maledetto animale”.
Lasciò libere le mani di Colomba: «Scusa» le disse con voce alterata: «Per
poco non perdevo la testa. Scusami.»
Colomba gli fece segno di no, di no con la bella testolina: non doveva pren-
derla così, preoccuparsi, non era accaduto niente, stavano solo giocando: anzi,
dai, continuiamo a giocare.
«Beh, ciao» disse Ambrogio; si voltò e tornò alla scrivania. Colomba rimase
lì ancora per qualche istante, poi se ne andò.
Il giovane non sedette, ma si diede a passeggiare avanti e indietro nello stu-
dio dopo averne chiusa la porta: calma, un po’ di calma! “ Cos’è successo? Beh,
che abbia desiderato, e fisicamente anche, una donna, è naturale alla mia età.
Sì, è naturale, come è naturale sognare certe cose di notte, provare certe ten-
sioni fisiche. Non c’è niente di male, è la natura: l’importante è tenerla in pu-
gno la natura, la bestia, dominarla, non farsi prendere la mano. Ecco. Quanto
al fatto che Colomba...”
Solo a ricordarla lo riafferrava il desiderio: però che creatura attraente, mio
Dio! Era mai possibile che al mondo esistesse una creatura tanto attraente?
“Calmati!” Provò a prospettarsi le cose da un punto di vista strettamente ra-
zionale: “Dopo tutto anche se lei è, cioè è stata, la ragazza di Manno, nessuno,
adesso che lui non c’è più, potrebbe rimproverarmi se io mi faccio avanti con
onestà. Al contrario, quelli che sanno di morale - don Mario, don Carlo Gnoc-
chi - mi direbbero che la vita non si ferma, che non bisogna farsi un feticcio
del passato, che non si deve sacrificare un vivo, anzi due vivi, a un morto,
che... Ecco, cose simili. E avrebbero senza dubbio ragione. Ragione da vende-
re. Con tutto questo io la vigliaccata di prendermi la ragazza di Manno non la
faccio. Punto e basta. E non occorre che mi agiti: tutto sta nel sapersi fermare
risolutamente in tempo. Tutto qui.” Passeggiava avanti e indietro: “Adesso
quel po’ di forza di carattere mi ci vuole davvero tutto, proprio tutto. Mio Dio,
che tristezza però!”
CAPITOLO SESTO
Seguirono giorni per lui molto penosi. E se agosto non fosse stato sul finire,
se Colomba fosse rimasta più a lungo a Nomana, la determinazione del giova-
ne forse non sarebbe bastata; la storia personale di tutt’e due allora sarebbe
stata diversa. Ma agosto era al termine, e la famiglia di Colomba venne, una
sera dopo cena, in visita di congedo.
In tale occasione il padre della ragazza fece a Gerardo la proposta di acqui-
starli lui ‘I dragoni’. «Con tutti i figli che ha... e tra non molto i maggiori do-
vranno metter su casa, no?» Parlava senza rendersi minimamente conto di ciò
che era intercorso tra sua figlia ed Ambrogio: «Il nostro Ambrogio qui per
esempio, sta per laurearsi. Del resto anche gli altri maggiori...» Ci teneva, era
evidente, a liberarsi della villa che per lui costituiva un peso.
Gerardo, con sorpresa dei figli, gli rispose che «per la verità» ci aveva da
parte sua «fatto un mezzo pensiero»: «Purtroppo però questa spesa non va
d’accordo col programma che stiamo maturando, di procedere a un amplia-
mento dell’azienda. Perché, caro dottore, vengon su anche i figli degli operai, e
se non provvediamo noi a mettergli insieme un po’ di lavoro, chi provvede?»
L’altro, di professione medico, non riusciva a capire se l’industriale
s’esprimesse così per diplomazia (“Per tener basso il prezzo?”) o per altre ra-
gioni. Ambrogio tese invece l’orecchio: “Il papà sta decidendo di ampliare, e
con noi non ne parla! ”
«Beh» concluse il medico: «Veda, se crede, di farci sopra un altro ‘mezzo
pensiero’: se poi decide per il sì, può sempre telefonarmi.»
«D’accordo. Perché in fondo lei dice bene: presto i ragazzi vorranno metter
su famiglia.» Gerardo non mancò, scadendo un poco nella retorica (il difetto
più puntuale degli autodidatti), d’aggiungere: «Cosa vuole mai? Questa è la
vita, che i figli si facciano avanti e ci spingano un po’ da parte.»
La mattina dopo Colomba, la nostra Colombina, partì, lasciò Nomana, la la-
sciò per sempre. Perché in seguito Gerardo, fatti i conti e sotto l’insistente
pressione di Fortunato («Questo è comunque il momento di comprare, di
comprare a occhi chiusi: con l’inflazione che c’è, se poi avrai bisogno di soldi
tu rivendi e te li trovi raddoppiati, anche triplicati») finì con l’acquistare dav-
vero ‘I dragoni’.
Così Colomba non ebbe più occasione di ritornare in paese; la gente non vi-
de più per le strade la sua figura leggiadra, la giovane testa ben disegnata, le
gonne variopinte ch’erano una festa per gli occhi di tutti quelli che
l’incontravano («Sei bella... sei bella...»); le rondini non la sfiorarono più con
galanteria impertinente sulla piazza luminosa. Colomba passò, come erano
passate tante altre belle ragazze prima di lei, popolane o benestanti, vistose o
modeste: com’era passata Giustina, coi suoi occhi scuri e gli zoccoletti ai piedi
e la figura alta e troppo sottile; e prima ancora tante altre negli anni e anni,
creature di cui s’era perduta ogni memoria.
CAPITOLO SETTIMO
II
CAPITOLO OTTAVO
Nel settembre di quell’anno 1946 (a quasi un anno e mezzo dalla fine della
guerra) rimpatriò finalmente Michele. Arrivò alla stazione dì Milano allo scoc-
care della mezzanotte d’un giorno feriale; al pari dei suoi compagni di prigio-
nia - un centinaio, su due carrozze agganciate in coda a un treno normale - era
emozionato ma soprattutto stanco. Il giorno prima, dal confine, aveva spedito
agli zii di Monza un telegramma preavvertendoli dell’arrivo: era infatti al cor-
rente della morte di suo padre, perché da un anno a questa parte c’era stato un
sia pur ridotto scambio di posta tra i lager e l’Italia, ed egli aveva ricevuto due
missive, una dagli zii, l’altra da Ambrogio. La missiva di Ambrogio gli aveva
trasmesso i saluti del Tito Valli, il soldato di Nomana rimpatriato da Susdal
nell’autunno dell’anno prima: “Così” si diceva Michele mentre il convoglio
entrava con lentezza in stazione “un’idea di quello che io ho passato, a casa la
devono già avere". Ma quale casa? Ed era ancora suo l’appartamento di Nova,
a tre anni dalla morte del padre?
Si affacciò al finestrino, cui stava già affacciato don Turla, il quale per fargli
posto si mise di sbieco. «Stiamo un po’ stretti, eh?» osservò Michele.
«Mai come sul carro che ci ha portato da Crinovaia a Oranchi, ti ricordi?»
gli rispose euforico don Turla, che adesso quanto a salute s’era abbastanza
ripreso.
«Se mi ricordo!» borbottò l’altro. “ Quattrocento trentotto partiti, centono-
vantacinque arrivati’’ riepilogò mentalmente. Tutti gli altri spinti giù dai carri
nella neve una mattina dopo l’altra; chissà se, e quando, e in che modo, li ave-
vano poi sepolti... E il freddo crocifiggente, e quella sete che faceva impazzire,
e il foro sporco, immerdato, del cesso nell’angolo, attraverso cui si raccoglieva
con tanto ribrezzo e fatica la neve per bere. E... ma basta. Uno deve pur smet-
terla di pensare a queste cose.
Alla stessa conclusione doveva per parte sua essere arrivato don Turla, il
quale dopo avere, senza volerlo, messo l’amico sulla via dei ripensamenti, cer-
cò di sviarlo: «Milano è... sempre un gran Milano» finì con l’affermare, in
mancanza di meglio.
Michele sorrise: «Sì, certo, retorico d’un cappellano.»
La stazione Centrale, con le enormi arcate metalliche qua e là ancora segna-
te dalle offese dei bombardamenti, era a quell’ora semi deserta; risultava più
illuminata che durante la guerra, tuttavia ancora scarsamente illuminata.
«Chissà se ci sono qui i miei ad aspettarmi» mormorò il prete. «Arriviamo
con un ritardo d’almeno due ore.»
«Vedi quella gente, quei gruppetti là, in testa al marciapiede?» gli fece nota-
re Michele: «Credo che aspettino noi.» Aggiunse pensieroso: «Chissà se ci so-
no anche i miei zii.»
Non c’erano. Come il treno si arrestò con un ultimo sussulto, mentre la gen-
te in attesa, individuate le carrozze dei reduci accorreva emozionata e perfino
agitata verso di esse, egli poté rendersene conto. «Non ci sono, non ci sono»
ripeteva a mezza voce a sé stesso e a don Turla che - individuati invece i propri
parenti - si tirò di colpo indietro per scendere a precipizio. In luogo degli zii
c’era però, guarda, il suo amico Ambrogio, il quale appena lo vide si mise ad
agitare le braccia e corse verso di lui chiamandolo: «Tintori, Michele, Michele
Tintori». Giunto sotto il finestrino gli afferrò una mano e gliela scuoteva: «Sei
arrivato. Dio sia ringraziato! Bravo Michele, sei arrivato!» Al fianco
d’Ambrogio c’era una bella ragazza, o si trattava d’una giovane signora, sua
moglie? (“Che sia già sposato? Non me l’ha scritto”) la quale, col viso alzato,
gli sorrideva a sua volta ed annuiva commossa, con gli occhi pieni di lacrime; e
fu quando si mise del tutto a piangere, che Michele la riconobbe alle smorfie
infantili della bocca: come no? Si trattava di Francesca, ma certo. E lui non
l’aveva riconosciuta! Che bella ragazza s’era fatta! Francesca, sì, che adesso
non portava più le trecce ma lo chignon. Dio del cielo, se ci fosse stata qui an-
che la ‘sua’ Alma! A nessuno durante il lungo viaggio da Susdal egli aveva tan-
to pensato, e con tanta intensità, quanto ad Alma, la ‘sua Almina’.
«Che bravo Michele!» straparlava Ambrogio, difficoltato per la troppa emo-
zione a dire qualcosa che avesse un costrutto: «Che bravo!»
«Grazie che siete venuti» ripeteva Michele, piegato su di loro dal finestrino.
«Sai che fino a un’ora fa c’erano qui i tuoi zii?» gli riferì Ambrogio: «Poi,
siccome non si riusciva a sapere se sareste arrivati o no stanotte, hanno deciso
di prendere l’ultimo tram per Monza. Perché tua zia è un po’ indisposta. Ma
forza, scendi giù, scendi che parliamo con... più calma.»
Già molti dei reduci stavano scendendo di carrozza; Michele prese dal por-
tabagagli un tascapane semivuoto - ricevuto, insieme alla divisa nuova che
indossava, al comando tappa di Udine - e si accodò a loro.
«Omnia mea mecum porto» disse quando fu sul marciapiede, mostrando
agli amici il tascapane; Francesca annuì sorridendo, Ambrogio gli saltò quasi
addosso con le braccia spalancate, lo strinse a sé e lo baciò: «L’importante è
che adesso sei a casa. Però! Pare incredibile!»
«Lascia che t’abbracci anch’io» disse Francesca «come tu fossi mio fratello»
e lo abbracciò e baciò anche lei. «Bravo Michele» gli disse mite «noi lo sap-
piamo che... sei molto bravo.»
«Questa poi!» si schermì lui, pur commosso da quell’accoglienza affettuosa.
«Sì, certo» insisté la ragazza: «Ambrogio lo diceva anche poco fa di quando,
nella ritirata, tu da solo li stavi riordinando tutti.»
«Io?» fece Michele, e volgendosi ad Ambrogio: «Sei matto?»
«Perché?» rispose Ambrogio: «Il secondo giorno della sacca, a Posniacof.
L’hai dimenticato?» (Pensò: “La stessa mattina in cui è morto Bonsaver. Se
adesso ci fosse qui anche lui!”)
«Ah, per così poco» disse Michele, finalmente ricordando.
Si erano formati tanti piccoli crocchi, uno per ogni reduce o quasi: non
c’erano soltanto i loro parenti ed amici ad attenderli, ma anche dei parenti di
militari dispersi, soprattutto madri e sorelle, in cerca di notizie.
«C’è qualcuno del mio reggimento qui con te?» chiese Ambrogio. «No.
Dell’Ottavo artiglieria nessuno.»
Accanto a loro don Turla, circondato dai suoi famigliari - tutti biondi e con
la parlata bergamasca come lui, e più biondi degli altri un paio di bambini -
vociferava per dominarsi, ma non ci riusciva: le lacrime gli scorrevano per
l’emaciato volto virile.
«Lo vedete quel cappellano lì?» disse Michele: «Sapeste per quanti casi be-
stiali siamo passati io e lui. Talmente tremendi che... Ma non voglio parlarne a
spizzico, e comunque non stasera, che son troppo stanco.»
«Ecco, fai bene» gli disse Ambrogio: «Così devi fare.»
Era ad ogni modo destino che don Turla non avesse ancora pace. Gli si sta-
vano avvicinando con aria spaurita due anziani coniugi i quali, dopo avere in-
terpellato più d’uno nella piccola folla, erano inutilmente saliti sul treno vuoto
a ispezionarlo. Si tenevano stretti uno al braccio dell’altro: «Tenente cappella-
no... è lei il tenente cappellano padre Turla, vero?» chiese l’uomo. «Ci hanno
detto di rivolgerci a lei.»
«Eccomi» rispose il sacerdote passandosi una mano sulla faccia, ad asciu-
garne le lacrime: «In cosa posso servirvi?»
«Noi siamo il papà e la mamma del capitano Riccardo Barrel di Milano, che
è arri... che dovrebbe essere arrivato con voi, perché ne abbiamo ricevuto il
preavviso dal comando militare. Noi però non... non l’abbiamo ancora visto.»
«Ah, il sottotenente Riccardo Barrel» corresse don Turla: «di Milano, sì. C’è
infatti. Ve lo cerco subito.»
«No» precisò l’uomo (la moglie, un po’ curva in avanti, la testa protesa,
apriva e muoveva la bocca come a ripetere le stesse parole del marito): «Quel-
lo l’abbiamo già visto: anche lui si chiama Riccardo Barrel, ma è sottotenente.
Nostro figlio è un altro, ed è capitano.»
“Tra gli ufficiali prigionieri di Barrel c’era solo il sottotenente” riepilogò
mentalmente il prete: “Altri Barrel non ce n’erano, almeno tra gli ufficiali.”
«Voi» chiese ai due «negli ultimi mesi, diciamo da un anno a questa parte,
avete ricevuto posta da vostro figlio? Oppure sue notizie attraverso altri rim-
patriati?»
«No» mormorò il padre.
La madre, con la bocca socchiusa, pronunciò anche lei una sfumatura di no.
«Ma questo è... quasi normale, non è vero?» disse angosciato l’uomo: «Non
è vero?»
Il cappellano annuì pensieroso: «Sì, certo.» Cercò con gli occhi il sottote-
nente Barrel e gli fece con una mano segno d’avvicinarsi. «In sostanza» disse
ai due coniugi «prima della comunicazione del comando, voi di vostro figlio
non avevate alcuna notizia?»
«No. La sua ultima lettera è del dicembre 42: quattordici dicembre» spiegò
il padre. Chissà quante volte aveva parlato di quella lettera.
«La comunicazione del comando quando v’è arrivata?»
«Ieri sera» disse con bocca tremante l’uomo. «Per noi... capite? è stato un
rivivere. Mi capite? Tutta la notte non abbiamo dormito. Oggi poi... Per noi è
impossibile pensare ad altro!»
Padre Turla rifletteva: “Al confine ci hanno detto che avrebbero trasmesso
subito i nostri nomi ai comandi territoriali, perché venissero avvertiti i paren-
ti...”
«Scusate, sulla comunicazione del comando c’era il grado?»
I due coniugi si guardarono l’un l’altro con angoscia: «No. Solo il nome e il
cognome.»
«Aspettate un momento.» Il cappellano prese in disparte il sotto-tenente
Riccardo Barrel, frattanto sopraggiunto. «Sai se i tuoi parenti sono stati avver-
titi del tuo arrivo? C’è qualcuno dei tuoi qui ad aspettarti?» gli domandò.
Quello fece segno di no: «No» rispose, «non c’è nessuno.»
«E durante la prigionia hai mai incontrato un capitano col tuo nome e co-
gnome?»
Ancora una volta l’altro fece segno di no, afflitto: «Nessun capitano Barrel.
A quelli gliel’ho già detto.»
«Oh, poveri cristi!» mormorò padre Turla, e tornò ai due coniugi; era fin
troppo evidente che a motivo dell’omonimia era stato commesso un errore
burocratico. Spiegarlo a questi due adesso! Che tremenda pietà gli facevano.
«Occorre che vi rivolgiate al comando da cui avete ricevuto la comunicazio-
ne» disse. «Sentite: io resto qui a Milano anche domani» (a queste parole, ve-
ramente eroiche, i suoi parenti lo guardarono costernati) «e vi accompagno al
comando subito domani mattina. Là ci chiariranno ogni cosa.»
«No, non possiamo aspettare, non possiamo aspettare fino a domani»
esclamò la madre: «se aspettiamo fino a domani è finita, non lo capite? Ric-
cardo non ci ritorna più.»
Mosse un po’ le labbra, senza aggiungere altre parole, poi si strinse di più,
ancora di più, al braccio del suo compagno, e cominciò a emettere dalla bocca
chiusa uno strano gemito.
«Si sente male» sussurrò il marito, e aiutato dal cappellano e seguito dai
parenti di questi e dal sottotenente Barrel, la condusse a un sedile di pietra
che stava sul marciapiede; ve la fece sedere e seguitava a tenerle una mano.
«Riccardo non torna più» mormorava ogni tanto la donna: «più.»
«Ma no, cosa dici?» la contrastava il marito, e guardava in viso il cappella-
no, in cerca d’aiuto.
Padre Turla stava lì stanchissimo; si chiedeva cosa mai avrebbe potuto fare
per quei due poveretti, e non gli veniva in mente niente.
A un tratto l’uomo alzò un dito, il cappellano notò che adesso aveva il viso
un po’ alterato. «La carrozza precedente» disse l’uomo: «forse Riccardo è pas-
sato su quella. Là noi non abbiamo guardato.»
«Ma...» disse il cappellano: «No, senta...»
L’uomo lasciò andare la mano della moglie che una parente di don Turla fu
svelta ad afferrare: «Badatele un momento voi per favore» disse «che torno
subito.» E si diresse inebetito verso il treno.
Il cappellano lo seguì: «No, senta signor Barrel. Mi ascolti un momento.»
Lo fermò che aveva già posto il piede su un gradino, gli mise un braccio attor-
no alle spalle, cominciò a parlargli.
Ambrogio fissò Michele: «Adesso tu vieni via» disse ribellandosi. «Basta.
Tu non puoi continuare a...» Ma dopo aver detto questo si cacciò una mano in
tasca: «Un momento solo: senti, qui sul treno con voi c’erano dei bersaglieri
del Terzo?»
«Sì, pochi, tre o quattro.»
«Presentami a loro per favore.» Si era tolto di tasca una fotografia di Stefa-
no formato cartolina: «Quali sono?»
«Quello là per cominciare. Vieni.»
«Si tratta di Stefano, Giovenzana Stefano, quel mio compagno di Nomana
ch’era nel Terzo bersaglieri» disse Ambrogio, riferendosi alla fotografia. «È
disperso.»
«Sì» fece Michele.
Risultò che nessuno dei bersaglieri presenti ricordava di avere mai visto
Stefano in prigionia.
Ambrogio non era il solo impegnato in quel pietoso tentativo: diversi rim-
patriati stavano infatti qua e là esaminando nella scarsa luce le fotografie che
venivano loro sottoposte, chiedevano magari qualche ragguaglio, poi le resti-
tuivano facendo segno di no con la testa.
La madre del capitano non tornato si era frattanto ripresa dal suo malore e
piangeva in silenzio, senza più dire nulla. Don Turla e i suoi parenti si avvia-
rono con lei e il marito verso la farmacia della stazione; anche gli altri reduci
cominciavano ad andarsene: chi verso l’uscita, chi - dovendo proseguire in
treno - verso il comando tappa di stazione.
CAPITOLO NONO
Michele scese lentamente, tra Ambrogio - che s’era appeso il suo tascapane
a una spalla - e Francesca, la gradinata interna della stazione.
Uscirono all’aperto attraverso gli alti portici. La sera estiva era gradevole,
calda quanto bastava; il vasto piazzale illuminato dai lampioni e le case circo-
stanti erano ben quelli che il reduce ricordava. “Milano” egli pensò con nuova
commozione, e: “la patria!”, e anche: “Mio padre adesso non c’è più”, ma non
pronunciò una parola.
«La macchina è là» indicò Ambrogio, avvertendo lo stato d’animo
dell’amico: «Su, venite.»
Aveva in quei pochi minuti trovato modo di comunicargli alcune notizie:
che la casa di Nova era sempre sua e attendeva d’essere intestata a lui dopo la
morte del padre; era però attualmente occupata da sfollati. Che i suoi zii vole-
vano egli andasse ad abitare da loro a Monza, almeno fino a quando la casa
non si fosse resa libera («Per questo ci vorranno mesi, forse anni, intendiamo-
ci») e gli avevano a tal fine preparata una stanza. Anzi a sentire gli zii Michele
avrebbe dovuto recarsi a Monza quella notte stessa. («Son matti,
gliel’abbiamo spiegato bene che non è possibile: a Nomana ti stanno aspet-
tando tutti, se arriviamo senza di te, ci linciano.» Francesca annuiva, sorri-
dendo partecipe.) Gli aveva anche comunicato, Ambrogio, la morte di Manno
(«Nelle mie lettere non te ne ho parlato perché... Beh, tu capisci.»)
«Quante lettere mi hai scritto?»
«Per l’esattezza tre.»
«Me ne hanno consegnata una sola.»
Dopo Milano Sesto San Giovanni, i cui muri apparivano qua e là macchiati
da disordinate scritte comuniste e socialiste, con disegni di falci e martelli;
Michele ne fu intimamente allarmato, anche se Ambrogio, resosene conto,
badava a dirgli: «Non devi preoccuparti, non ce la faranno. Intanto ci sono
sempre qui gli americani e gli inglesi, e ci resteranno per tutto il tempo che
sarà necessario. Ma poi, dopo le elezioni di giugno, è chiaro che sono mino-
ranza.»
«Sono dei disgraziati che non hanno la più lontana idea di cosa sia realmen-
te il comunismo» mormorò Michele. «Appena... quanti? quattro giorni fa, in
Galizia, siamo stati più d’un’ora fermi vicino a un treno merci chiuso, stracari-
co di uomini, donne e bambini polacchi che venivano deportati. Dovevate sen-
tire come gridavano i bambini che chiedevano da bere. Se in Italia si conosces-
se questo solo fatto delle deportazioni... Ma vi riferirò poi» disse con stanchez-
za.
«I rossi nelle fabbriche cercano d’intimidire gli altri operai, di spingerli a fa-
re quello che vorrebbero loro» spiegò Ambrogio «ma gli altri non restano pas-
sivi, e in complesso gli fanno fronte. Quelli dell’Azione Cattolica e delle Acli
soprattutto: una cosa magnifica. Non sai cosa sono le Acli? È l’organizzazione
nuova degli operai cristiani: l’ha voluta il papa. Ne parleremo con calma.»
«A fargli fronte a questi incoscienti, a questi assassini a fin di bene, potete
star certi che mi ci metterò anch’io» disse Michele con determinazione, «per
quel poco che posso.»
CAPITOLO DECIMO
***
Si udì la voce di Francesca che, in anticamera, informava il padre e la madre
dell’arrivo di Michele.
«Oh, mi spiace» disse il reduce, riaffiorando di colpo al presente, «d’avervi
svegliato proprio tutti. Non... non avrei dovuto accettare di venire qui a
quest’ora.»
«Non dirlo più» lo pregò Alma. Aggiunse: «Con noi tu non devi fare com-
plimenti, ti prego. Noi ti vogliamo bene davvero.»
«Sì, lo so» disse il giovane «me ne accorgo...» e si rimise a contemplarla.
La contemplazione fu però subito interrotta dall’ingresso in sala di Gerardo
e di Giulia, e dagli inevitabili convenevoli; entrambi i genitori di Alma piace-
vano a Michele: Giulia perché dava l’impressione d’essere madre non soltanto
dei suoi figli, ma di tutti (prima di partire questo Michele una volta l’aveva
anche detto, e ora se ne ricordò); Gerardo gli piaceva per la sua tetragona atti-
vità d’imprenditore; aveva visto in Russia a cosa può condurre la mancanza o
la scarsità d’imprenditori: “questi capi utilissimi nell’incessante lotta degli
uomini contro la miseria”, com’egli li vedeva ora, convinto a contrario dalle
analisi che sono nei testi marxisti. Non appena tutti si furono seduti di nuovo
al tavolo, Alma raggiunse in cucina Francesca e Noemi, ch’era lei pure scesa a
pianterreno coi capelli tutti arruffati; la ‘statuina’ cominciò a darsi da fare in
un modo tale da generare nelle altre due l’impressione che a Michele inten-
desse accudire lei con le sue mani, e se possibile in esclusiva.
CAPITOLO UNDICESIMO
Dopo un abbondante spuntino dei tre giunti da Milano, cui non mancò
d’associarsi il tredicenne Rodolfo, salirono tutti al piano superiore. Per Miche-
le era stata approntata la camera di Manno: «Che rimarrà a tua disposizione
non soltanto in questi mesi, ma anche tutto l’anno venturo e oltre, finché tu
vorrai» gli disse Giulia. «Mi sono spiegata? M’hai capito bene? Hai sofferto
cose terribili, povero figlio, e in aggiunta non trovi più tuo padre al ritorno.
Noi - non solo Ambrogio, ma tutti noi - vorremmo riuscire a farti sentire la
nostra amicizia.»
Sul letto era predisposto un pigiama: «È nuovo, non l’ha mai indossato nes-
suno» gli disse ancora la madre: «per Ambrogio è un po’ grande, mentre a te
dovrebbe andar bene. L’avevo fatto fare per Manno al tempo che
l’aspettavamo...» S’interruppe, gli occhi le si empirono di lacrime; uscì dalla
camera dopo aver disegnato con la destra un segno di croce: non ampio e so-
lenne come usava tracciare ogni sera sul gruppo dei figli Gerardo, il capo fa-
miglia, ma più modesto, più schivo.
Michele non poté addormentarsi subito, perché a causa delle troppe emo-
zioni e della stanchezza non gli riusciva di rilassarsi. Gli tornava in mente suo
padre: se fosse stato in vita, certo nel corso di questa notte il padre l’avrebbe
trattenuto a conversare per ore e ore. Invece... Gli si prospettava a tratti -
atroce visione - il povero viso paterno come doveva essere in questo momento,
disfatto da tre anni di sepoltura (“Lui però, il suo spirito, per fortuna non è là
in quello sfacelo: è nella gloria di Dio, felice per sempre, insieme con la mam-
ma.”) Introdotti dalla lugubre visione gli tornavano in mente anche i morti
cannibalizzati di Crinovaia, ora tutti riuniti nella balca (un groviglio di venti-
settemila cadaveri!), e quelli che a Oranchi venivano portati fuori della barac-
ca-infermeria al tempo del tifo petecchiale. Da quell’infermeria non uscivano
quasi altro che cadaveri: una terribile sera i malati di tifo - tutti ormai convinti
di morire - avevano rizzato in piedi sul suo pancaccio l’unico cappellano pre-
sente, moribondo, con gli occhi sbarrati, grottesco in mutandone e camicia, e
un soldato gli aveva guidata la mano inerte a impartire l’assoluzione; il cappel-
lano, con quegli occhi fissi, s’era a un tratto messo a biascicare la formula, as-
solvendoli tutti in articulo mortis. Anche dopo ridisteso sul pancaccio aveva
poi continuato a biascicare la formula come un automa, però non era morto: si
trattava di quel padre Brevi che in seguito... Beh, basta. Padre Brevi non era
stato rimpatriato: adesso era da qualche parte in Siberia, con gli altri ‘irriduci-
bili’ che più fieramente si erano opposti al plagio comunista; chissà dove si
trovavano in questo momento... Il loro coraggio lo stavano pagando caro, mol-
to caro; chissà se sarebbero mai tornati in patria? Ma basta, basta. Almeno per
un po’ basta con queste atroci cose.
Per liberarsi da tali pensieri - qui a Nomana, come già tante e tante volte
durante la prigionia - Michele finì col ricorrere ad Alma. (S’era innamorato di
lei appunto evocandola a questo modo: più che d’una ragazza reale si era dun-
que innamorato della sua immagine; quanto fosse prodigioso e fuori del co-
mune che l’incontro con l’Alma in carne ed ossa non l’avesse deluso, egli non
si rendeva per ora affatto conto: seguitava a pensare che si fosse rinnovata
quell’antica vicenda ‘Signor che volesti creare - per me questo amore lonta-
no...’ e trovava la cosa naturale, o quasi.) L’incredibile, a riflettere bene, era
piuttosto che Alma fosse ora a soli pochi passi da lui, al di là d’alcune pareti...
E lui se ne rimaneva qui inerte, come quand’era lontana migliaia di chilome-
tri? Si rigirò parecchie volte nervosamente nel letto, finché: “Piantala, cerca di
calmarti” si disse.
“Cosa vorresti? Bussare alla sua porta” (aveva notato qual era la porta della
camera che la ragazza divideva con Francesca) “e dirle... Dirle cosa? ‘Scusa
Alma, ti chiedo una bazzecola: che tu continui a dormire tranquillamente,
mentre io sto qui a contemplarti.’ Questo vorresti dirle? Basta, cerca di dormi-
re piuttosto, di non rimanere insonne fino all’alba.” All’alba l’avrebbe poi rivi-
sta e contemplata a suo agio, ed avrebbe potuto esaltarsi, e... cantarla - si girò
e rigirò di nuovo nel letto - proprio così: cantarla, al modo di Beatrice... Già,
dunque, ricominciava a idealizzarla. Finché gli attraversò la mente un aspetto
molto pratico della situazione: “Attento! Almina appartiene a una famiglia
facoltosa, d’industriali...” Mentre lui era davvero povero, senza nemmeno la
laurea, senza un mestiere, senza, come si dice, ‘arte né parte’. Stava per entra-
re nel sonno, a questo pensiero sussultò e il sonno si ritrasse da lui. Beh, la sua
‘arte’ lui l’aveva, altroché se l’aveva: la possibilità di scrivere stava in lui allo
stato di singolare potenza, così come stava in lui, a momenti traboccante, la
potenza virile, la possibilità di generare, che pure egli non aveva mai usata.
Anzi il Signore Iddio non gli aveva concesso soltanto la possibilità di scrivere,
ma anche, guarda, a soli venticinque anni un’esperienza degli uomini e delle
cose davvero straordinaria, una materia prima oggettivamente enorme...
S’addormentò finalmente: poco alla volta il sonno sciolse la sua tensione;
fuori della finestra aperta c’era la propizia notte di settembre in Lombardia,
alla quale Manno, e Stefano, e tanti altri ragazzi non avevano fatto ritorno. Lui
invece era tornato, la sua tremenda peregrinazione avanti e indietro tra le
sponde della vita e quelle fetide della morte, era finita; gli era stata concessa la
vita.
CAPITOLO DODICESIMO
L’indomani si svegliò poco dopo gli altri, che avevano tutti avuto cura di
non far rumore per non disturbarlo (specie Giudittina, la quale avvertiva bene
l’importanza di tener da conto uno che, sia pure indirettamente, spartiva i suoi
casi con sant’Antonio).
Quando il giovane scese a pianterreno Alma gli andò incontro festosa e lo
fece premurosamente accomodare in sala per la colazione. Ambrogio era già
uscito (dopo aver fatto colazione in piedi, al modo dei contadini e degli operai
perché - come al padre ch’era stato operaio - gli pareva sconveniente consu-
mare la prima colazione seduto, con davanti bricchi e cuccume). Almina inve-
ce fece sedere Michele e gli portò il caffè («Guarda che si tratta sempre di sur-
rogato») e il pane («Questo è buono, è fresco») e una frittata (le uova! da che
tempo immemorabile lui non le gustava più?), e rimase a tenergli compagnia
mentr’egli mangiava, sorridendo gentile, con le trecce castane sul petto e il
grembiule a mezza vita.
«Poi, se ti va, qui c’è il giornale. Chissà da quanto tempo non lo leggi.»
«Sì, infatti, m’interessa veramente.»
Vennero anche Francesca e la madre Giulia ad assicurarsi che niente man-
casse all’ospite. Prima ch’egli terminasse la colazione fu di ritorno Ambrogio,
il quale si era recato in fabbrica a dare alcune disposizioni urgenti (malgrado
la dispensa paterna, al lavoro in fabbrica non aveva mai rinunciato del tutto) :
«Oggi sono libero» annunciò, «così posso accompagnarti in auto a Monza e a
Nova e dovunque ti pare.»
Ma a questo riguardo Michele non fu d’accordo: «Ti prego, niente macchi-
na. Prestami una bicicletta piuttosto.»
«Che bicicletta? Dai piantala, che ormai non sai neanche più come si fa ad
andare in bicicletta.»
«No Ambrogio, ti prego, fammi saltar fuori una bicicletta. Che oltre tutto mi
sarà utile, in questi giorni, per tornare da voi.»
«Tornare? Sei matto? Tu qui ci sei e ci resti. Ma sentilo.»
«No, Ambrogio, ascolta...»
Ambrogio finì col dargli la propria bicicletta - sempre la stessa, sportiva, di
colore azzurrino, col manubrio orizzontale - sulla quale Michele, tuttora in
divisa, partì alla volta di Monza. Promettendo che sarebbe tornato il giorno
dopo, mentre tutti intorno lo pregavano di tornare quel giorno stesso. «Ti
prepariamo un po’ di cena» dicevano le donne: «Ci fai torto se no.» Ma seb-
bene commosso egli faceva segno di no con la testa.
***
Partito lui, Almina si sentì straordinariamente sola: una brutta sensazione,
che di rado aveva sperimentato nella sua breve vita; si ritirò pensosa in cucina.
Prima di tornare in fabbrica Ambrogio passò dalla cucina e le chiese una mez-
za scodella di surrogato. «Sai quanti esami deve ancora dare Michele?»
s’informò Alma, mentre gli porgeva la scodella.
«All’università vuoi dire?»
«Sì, appunto.»
«Oh, poveretto! Fa conto che li abbia da dare tutti: perché ne ha dati soltan-
to un paio dei minori, sai, come pretesto per venire in licenza. Però è molto in
gamba, e dunque...»
Sorbì il surrogato di caffè, sorrise alla sorella, figurina gentile con le trecce e
il mezzo grembiule: sembrava una bambina che stesse giocando. «Beh, ciao,
gattino di marmo» le disse, e se ne andò.
Che giovane meraviglioso era Michele, pensava Alma mentre rigovernava
trasognata all’acquaio. E, per incredibile che la cosa fosse, non c’erano dubbi:
aveva mostrato d’interessarsi a lei: sì, più a lei che a Francesca. Cosa che nes-
suno aveva mai fatto finora. “E non soltanto ieri sera, che poteva anche essere
frastornato dalla stanchezza, ma stamattina, poco fa: non c’è dubbio ch’è stato
molto contento di rivedermi. Cosa trovi di buono in me non capisco, però è
certo che mi ha rivista con... gioia, sì, ecco, anche se pare incredibile, con
gioia. E per tutto il tempo era contento d’avermi vicina, sono sicura di non
sbagliare”.
Le venne accanto la madre, e non indovinò la sua emozione, che anche sta-
volta non traspariva all’esterno.
«Sai mamma?» disse dopo un po’ Alma: «Stavo pensando a quella decisio-
ne che devo prendere... dico riguardo ai miei studi, se continuarli oppure no.»
«Sì?»
Alma s’era diplomata maestra qualche mese prima, obbediente al volere del
padre Gerardo che tutti i figli maschi si laureassero e le femmine almeno si
diplomassero, per garantirsi il pane.
«Allora?» disse la mamma.
«L’altro giorno avrai, credo, avuta l’impressione ch’ero piuttosto per il no,
per non continuare. Ma adesso ci sto ripensando.»
«Beh, per decidere hai ancora tempo.»
«Sì, ma ormai sto cambiando parere. Insomma non ho ancora deciso, ma
credo che m’iscriverò all’università, alla facoltà di magistero.»
«Il papà ne sarà contento.»
«E tu?»
«Se lo fai volontieri, perché no? Ne sarò contenta anch’io.» “Michele non è
ricco” rifletteva Alma: “Se dovesse scegliere me, un gattino da niente come
me, per sua sposa, io non devo essergli di peso, ma al contrario devo essere in
grado d’aiutarlo. E lo sarò”.
Non smise di fantasticare nemmeno dopo lasciata la cucina, mentre sfac-
cendava nelle stanze con Noemi. “Lui farà lo scrittore e io insegnerò. Nelle ore
libere dall’insegnamento, ogni pomeriggio per esempio, potrò - se lui si fiderà
- fargli da segretaria: andrò in biblioteca a Milano, farò le ricerche per lui, per
evitargli di perdere tempo”. C’era un fondo pratico, una disposizione
all’efficienza nei suoi pensieri: ora come sempre, in strano contrasto con
l’aspetto esteriore di statuina.
“Se poi non mi volesse (perché infatti è quasi impossibile che mi voglia dav-
vero per moglie, sarebbe troppo bello) beh, come laureata in lettere sarò se
non altro in grado di capire meglio i suoi libri, che saranno... di sicuro saranno
meravigliosi”.
CAPITOLO TREDICESIMO
Nei giorni seguenti Michele tornò più volte a Nomana, trattenendosi però
sempre poche ore soltanto. Con suo sincero rincrescimento, perché - anche
senza mettere in conto Alma - il suo naturale punto d’approdo lo sentiva qui,
in questo ambiente pieno di vita, e non a Monza nella deprimente casa degli
zii. I quali si dimostravano solleciti di lui, poveretti, ma erano tutt’e due an-
ziani e con la mente inevitabilmente irretita dai propri acciacchi e problemi, la
zia poi quasi in permanenza lamentosa; pure avevano, con loro incomodo,
lasciata libera per lui la stanza meglio illuminata del loro appartamento, e
v’avevano fatto sistemare un letto ottocentesco, e un tavolino accanto alla fi-
nestra.
Il giovane s’era anzitutto dato da fare per trasferire qui dalla casa di Nova i
pochi abiti civili (adesso troppo giovanili e stranamente inadeguati alla sua
figura), i testi di giurisprudenza, nonché la scrivania regalatagli dal padre
quando s’era iscritto all’università. Intendeva affrontare gli esami universitari
al più presto, uno dopo l’altro: “Devo toglierli di mezzo tutti e arrivare a lau-
rearmi: bisogna che ce la faccia in un anno, in non più d’un anno, perché devo
assolutamente mantenermi da me.” Nel frattempo avrebbe cominciata anche
la stesura di un libro che gli stava già tutto delineato nella mente.
Sistemata ch’ebbe nella stanza di Monza la scrivania al posto del tavolino, si
soffermava a osservarla, e s’incantava: era tutta per lui, un’intera scrivania per
lui! Chi l’avrebbe creduto possibile là nel lager? Adesso nessuno avrebbe po-
tuto impedirgli di scrivere il suo libro: gli unici ostacoli sarebbero stati il son-
no e la stanchezza, al più lo sfinimento per troppo lavoro. “Che sono scioc-
chezze, roba da ridere: cos’è un po’ di sfinimento, se nel contempo non sei co-
stretto a dormire nella neve con decine di gradi sotto zero, e oltre tutto hai da
mangiare a sufficienza? Cosa vuoi che sia un po’ di sfinimento? Davvero roba
da ridere.”
In pari tempo non gli sarebbe stato difficile andare a trovare Alma, parlarle,
contemplarla; la possibilità d’incontrare Alma era senza dubbio la cosa più
importante di tutte: avrebbe introdotto nella sua vita qualcosa di molto simile
alla felicità. L’assaporava fin d’ora nell’aspettativa. Ma perché a lui toccava
tutto questo, mentre tanti altri... Già, gli altri. Quei morti lividi nei cortili di
Crinovaia, ciascuno di loro un essere umano, un destino. E le grida di quel po-
veraccio di Pavia, bestialmente sospinto nel bidone del brodo bollente, e... Ma
basta. Bisognava saper troncare questi pensieri. “L’eterno riposo dona loro
Signore, e mostragli la tua faccia, ti prego, in cui sta tutto il bene”. Forse, a
ripensarci, la felicità per lui non era ancora precisamente a portata di mano...
“Beh, forza, andiamo dai Riva. Là c’è una compagnia simpatica, e non c’è tem-
po per pensare a queste cose. Dai, in meno d’un’ora di bicicletta sono a No-
mana.”
***
Non ci poteva però restare a lungo a Nomana. Perché quand’era là, in quel
movimento, gli succedeva di riandare con la mente il proprio programma
d’azione, e gli pareva per esempio necessario chiedere a un dato compagno di
corso come andassero le cose nella sua facoltà riguardo agli esami. Se Ambro-
gio (dopo aver magari protestato: «Non ti basta quello che ti dico io?» «No, tu
fai scienze economiche, io devo sapere con precisione come vanno le cose a
legge») trovava modo di farlo parlare per telefono con quel compagno, questi -
prossimo alla laurea - oltre a dargli le informazioni, gli offriva impensatamen-
te in prestito i propri libri. Tutti i libri del secondo, terzo e quarto anno di leg-
ge... una vera manna! Allora Michele diventava impaziente di andare da quel
compagno, di portarsi a casa quei libri.
La vista stessa di Alma era un continuo sprone per lui: “Mio Dio, non per-
mettere che la perda, non farmela perdere. Già, ma io cosa faccio qui inerte?
Aspetto forse che un altro, finiti gli studi, si faccia avanti e... No, Signore, no,
tu questo non lo devi permettere.”
In effetti il Signore non l’avrebbe permesso; del resto considerando le cose
con più calma lo stesso Michele inclinava a pensarlo: se infatti era nei piani
provvidenziali ch’egli scrivesse (“Altrimenti perché sarei stato salvato a quel
modo ad Arbusov e in seguito?”) visto che non avrebbe potuto scrivere senza
avere Alma accanto...
Con la ragazza non intendeva bruciare i tempi. “Non precipitiamo le cose”
s’imponeva quando avvertiva particolarmente forte la spinta ad aprirle i pro-
pri sentimenti: “questo splendido amore deve durare tutta la vita”. Alma da
parte sua non gli chiedeva niente: ma che fosse a sua volta attirata da lui il
giovane lo arguiva da diversi particolari. Per esempio: visto il suo interesse per
i giornali, la ragazza aveva raccolto con cura quelli sparsi nei cassetti di casa, e
s’era anche recata dal fruttivendolo-giornalaio del paese (il ‘bel Peppo’) ad ac-
quistare gli arretrati disponibili (si trattava tuttora di larve di giornali, formati
da un solo foglio di quattro facciate); glieli aveva poi consegnati sorridendo:
«Non sono gran cosa, ma siccome ho visto che t’interessano... Guarda, in que-
sto ci sono i risultati elettorali del 2 giugno, tutti i prospetti, vedi? Il papà ave-
va messo questo giornale in un cassetto della sua scrivania, e adesso vien buo-
no.» Più avanti, arrivato per lei il momento di lasciare Nomana per trascorre-
re l’ultima decade di settembre nella colonia del suo collegio a Varenna sul
lago di Como, s’era semplicemente rifiutata di partire.
«Ma se è una cosa decisa da mesi» le ricordava perplessa Francesca.
«Andateci voi, io non ne ho più voglia» rispondeva lei. «Non mi sento più.»
Finì con l’intervenire la madre: «Alma, ti metti adesso, a diciannove anni, a
fare i capricci?»
«Non è un capriccio.»
«No? E cos’è allora?»
«È che... ho paura delle vipere.» (Quest’era una vecchia storia, quasi una
barzelletta. Quante volte i suoi fratelli l’avevano presa in giro per la faccenda
della vipera che, qualche anno prima, per poco - com’essi sottolineavano - non
l’aveva morsa a Varenna...)
«Ma se non hai avuto paura allora» le ricordava Francesca che aveva assi-
stito all’episodio. Alma si era inavvertitamente seduta sul rettile nel prato del-
la villa, e sentendolo muovere sotto di sé l’aveva preso e sollevato con una
mano: e da quella statuina che era, lo teneva così sospeso in aria, non lo but-
tava via, non scappava strillando come le altre collegiali. Fortuna che c’era lì
presso il giardiniere, il quale aveva prontamente ucciso il rettile con un colpo
di falcetto; bianche di spavento le suore Marcelline avevano poi portato tutte
le alunne in cappella a recitare una preghiera di ringraziamento per lo scam-
pato pericolo. «Se allora tu hai avuto meno paura di me? Io sì ch’ero spaventa-
ta, tanto che suor Tobietta mi ha fatto bere il fernet, ti ricordi? Mentre tu non
lo hai voluto, non eri per niente impressionata. E adesso...»
«Beh, adesso invece m’è venuta paura. Insomma io a Varenna non ci vengo,
vi prego di non insistere.»
Francesca e Giudittina finirono col partire senza di lei.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
***
All’ora dei pasti comparivano Fortunato e Pino, e tenevano a loro volta un
po’ di compagnia a Michele. Questi interrogò a più riprese minutamente Pino
sulla sua esperienza partigiana: cercava d’afferrarne l’essenziale e i particolari,
sembrava non averne mai abbastanza. «Ne riparleremo ancora» era ogni volta
la sua conclusione.
«Senti, ho l’impressione che alla vicenda partigiana tu dia più importanza
del dovuto» lo avvertì onestamente Pino.
Michele tentennò la testa: «Il fatto è che - sia giusto o no - col tempo finirà
col contare sempre di più, vedrai: non c’è il minimo dubbio.»
Libero da esami e preoccupazioni arrivava, ultimo, Rodolfo, tredici anni
come s’è detto; veniva direttamente da ‘I dragoni’ dove, insieme col vecchio
portinaio, tendeva in quella stagione insidie agli uccelli di passo. Poiché aveva
le mani regolarmente sporche di vischio, era costretto a insaponarle e sciac-
quarle non una ma parecchie volte; così si metteva sempre a tavola in ritardo.
«Gente» diceva sedendo, con la mente ancora tutta presa dalle piccole vi-
cende dell’uccellagione: «dovevate vedere stamattina il mio frisone di richia-
mo che fenomeno. Non ‘stacchettava’ soltanto agli altri frisoni, ma a ogni uc-
cello che entrava in vista, anche alle passere.» E mentre si legava il tovagliolo
intorno al collo: «‘Stacchettava’ che pareva un falegname: a momenti mi face-
va diventare sordo.»
«Cos’è questo ‘stacchettare’?» gli chiese la madre, accennando uno scuoti-
mento di testa: «Perché non parli in italiano?»
«Perché, mamma, la parola giusta in italiano non esiste; esiste soltanto in
dialetto: ‘stacchettare’, cioè piantare ‘stacchette’, chiodi. E infatti i frisoni - che
hanno un beccone grosso così, ecco, grosso quasi quanto la testa - per chia-
marsi tra loro battono i... i due mezzi becchi, e fanno un rumore come quando
si picchietta col martello su un chiodo.»
«I due mezzi becchi?» fece Pino, e scoppiò a ridere: «Ma sentitelo.»
«Oh, quanto sei stitico» borbottò Rodolfo, infilando la forchetta nella pasta
asciutta.
Tutti finivano col sorridergli con simpatia.
Dopo il pasto e due passi con gli altri in giardino, Fortunato e Pino tornava-
no ai loro libri. Anche questo fatto spronava nascostamente Michele: “E io co-
sa sto aspettando? Posso forse perdere tempo, io? ” Certo non veniva precisa-
mente dalla villeggiatura: un po’ di riposo, di distensione di nervi, gli avrebbe
fatto un gran bene, ma tant’è... finché non si fosse messo al lavoro non avreb-
be avuto pace. Finalmente cominciò a dare attuazione al suo programma di
studio, il che lo costrinse a ridurre le visite a Nomana.
III
CAPITOLO QUINDICESIMO
Alla ripresa delle lezioni universitarie i tre figli maggiori di Gerardo, cui ora
s’aggiungeva Alma, ricominciarono a fare la spola tra Nomana e Milano.
Michele invece si recava all’università piuttosto di raro, quasi soltanto per
dare esami; aveva, come reduce di guerra, la facoltà di convocare la commis-
sione esaminatrice, e se ne servì subito. (Una tale facoltà lo sorprendeva ogni
volta che l’usava: “C’è innegabilmente del buono nello spirito della democra-
zia” constatava.) Nei primi esami - scelti tra i più facili - ottenne senza difficol-
tà la sufficienza. Ne preparò allora uno impegnativo, e anche questo gli riuscì
bene. Dopo tali esperienze si trovò in grado - sulla base d’un’occhiata allo
spessore dei testi - di stabilire quanti giorni di studio all’incirca gli occorresse-
ro per la preparazione d’ogni singolo esame: il periodo andava da una setti-
mana per i minori, a due o tre settimane per quelli - com’egli li definiva - di
‘medio calibro’, a uno o anche più mesi per i maggiori.
«Come fai» gli chiedeva a volte meravigliato Ambrogio «a liquidare gli
esami con questa rapidità? Va bene che Gemellone l’aveva capito in anticipo
che sei un mezzo fenomeno; però spiegamelo, come fai? In liceo non eri così
bravo.»
«Beh, con gli anni si matura» rispondeva lui. Ma una volta: «Disilluditi. Co-
sa credi che mi rimarrà di uno studio portato avanti a questo modo? Il fatto è
che ho bisogno di laurearmi, e perciò non guardo per il sottile: mi basta arri-
vare all’esame con appiccicato nella mente tutto quello che sta nei testi, pagi-
na per pagina, in modo da poter rispondere. È una specie di violento gioco di
memoria, ma di memoria a breve termine.»
«Non vorrai dirmi che studi, ma non per imparare.»
«È così: studio per l’esame, non per dopo. Esattamente il contrario di quello
che si dovrebbe fare.»
«Beh, adesso non buttarti troppo giù.»
«Devo confessarti una cosa, Ambrogio. M’accorgo d’aver sbagliato quando
mi sono iscritto a legge. Io non ho assolutamente la mentalità adatta, la men-
talità giuridica, e - se escludi filosofia del diritto - di tutte queste cose che sono
obbligato a ficcarmi in testa, non me n’importa niente. Per cui la prospettiva
di sgombrare poi, alla fine, ogni cosa dalla mente, tutto considerato non mi
dispiace. Anzi è l’unica prospettiva che mi sembra sensata: cosa ce lo terrei a
fare tutto questo armamentario?»
«Ma allora dovresti cambiare facoltà, studiare qualcosa d’altro, che ti inte-
ressi.»
«Non sono più in tempo, perché se cambio facoltà non posso laurearmi nel
giro di un anno: me ne occorrerebbero quattro, lo sai.»
«Sì, questo è vero.»
Come gli accadeva un tempo trattando con suo cugino Manno, così ora trat-
tando con Michele, Ambrogio aveva a momenti la sensazione d’essere sì meno
dotato, però anche, in conclusione, più costruttivo. “Che non ci sia scampo?
Forse quando uno è molto intelligente deve per forza combinare anche delle
sciocchezze?” Avrebbe voluto aiutare Michele, ma in che modo?
In realtà fu il ritmo serrato con cui Michele dava gli esami ad aiutare lui.
Che presto ridusse drasticamente la propria frequenza alle lezioni, concen-
trando a sua volta ogni sforzo nella preparazione degli esami. Anch’egli pote-
va, come reduce, convocare la commissione esaminatrice: si rese conto che,
procedendo d’esame in esame, avrebbe potuto laurearsi entro l’anno accade-
mico, e si propose di farlo.
Michele intanto - sempre attenendosi al programma stabilito - aveva co-
minciato anche a scrivere il libro delle sue esperienze di Russia; il quale però
lo assorbì in breve a un punto tale da fargli, contro la sua volontà, trascurare
completamente lo studio, gli esami, e ogni altra cosa.
Dopo un certo tempo s’impuntò: “Cosa sto facendo? Io ho bisogno di lau-
rearmi al più presto, devo assolutamente laurearmi, non ci sono storie.” Deci-
se di ricominciare a dare gli esami: “Domani stesso vado all’università e con-
voco la commissione esaminatrice.”
CAPITOLO SEDICESIMO
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
All’ingresso dell’università, appena oltre l’arco sormontato dalla statua di
Cristo benedicente, una lapide ricordava in latino le distruzioni belliche ‘igni-
vomis globis ab Anglis e caelo temere coniectis’ ora però del tutto riparate e
trasformate in ricordo, in lapide appunto. Alquanto più avanti c’era sulla de-
stra il duplice portale della cappella: Michele sapeva che là dentro il Santissi-
mo era esposto in permanenza, e che almeno due persone vi stavano genufles-
se davanti giorno e notte in adorazione. Entrò per una visita, l’interno era gra-
devolmente riscaldato; inginocchiatosi sulla più vicina panca (munita di cu-
scinetti in pelle, anche questi tutto considerato confortevoli: “Si vede bene che
Gemellone è psicologo”), pregò per qualche minuto intensamente. Com’era
sua abitudine non mancò, dopo avere ringraziato Dio, di ringraziare anche il
proprio angelo custode, al quale stavolta raccomandò in modo particolare Al-
ma: “Quella ragazza, Alma, che sarà la compagna della mia vita: posso chie-
derti di vegliare su di lei con la stessa efficacia con cui vegli su di me? Senti...
secondo me tu dovresti fare una specie di... consorzio col suo angelo.” Già co-
minciava a fantasticare: “Vorrei afferrare la vostra essenza, almeno vedervi
come effettivamente siete, strane creature fatte di luce, specialmente te vorrei
vedere, splendido compagno che in certi momenti m’hai aiutato in maniera
addirittura sfrontata. Io non credo che l’angelo di Almina possa essere ga-
gliardo come te, quindi...” Si rese conto che questa non era più propriamente
preghiera; “Beh” disse all’angelo “mi hai comunque capito”. Si alzò, fece una
profonda genuflessione al Santissimo, quindi, con la testa voltata un po’ di
lato, un cenno di saluto anche all’angelo, e uscì di cappella.
Raggiunse il primo chiostro interno con l’intenzione di proseguire verso si-
nistra, dov’era la segreteria: avrebbe anzitutto convocata la commissione per il
prossimo esame, dopo di che si sarebbe recato nel settore di lettere e magiste-
ro, situato a destra, in cerca di Alma. La ragazza doveva probabilmente trovar-
si là, visto che frequentava le lezioni in modo tanto metodico. Proprio come
una scolaretta! E sembrava una scolaretta davvero con quelle lunghe trecce...
Una volta entrato nel chiostro però il giovane (non siamo in grado di dire se
per una sollecitazione del suo angelo, oppure, chissà, di quello di Alma, per
niente impermalito dalla precedente preghiera, ma anzi ormai associato al
suo) anziché indirizzarsi verso sinistra, s’incamminò subito verso destra, cioè
verso le facoltà letterarie; in segreteria ci sarebbe andato più tardi.
All’albo della facoltà di magistero esaminò l’orario delle lezioni, consultò
anche l’orologio (“Quasi le dieci!”): gli iscritti al primo anno si trovavano dun-
que nell’aula Toniolo, anzi no, nella Salvadori, dove c’era lezione di letteratura
italiana, docente Apollonio. (“Apollonio, niente meno. Bene, perdiana, vuol
dire che finalmente lo vedo.”)
Mentre saliva le scale ricordò le scriteriate incursioni che da matricola face-
va con Ambrogio in questo settore: chissà dov’era finita, dove insegnava ades-
so, quella ragazza emiliana, la Nilde (“Brunilde o Leonilde? Chissà”) che aveva
la fronte a bauletto e la battuta così pronta... Tentennò la testa sorridendo.
Quanto a frate Bertrando (quello alto e bello che scriveva poesie su Mussolini)
tutti sapevano che durante la guerra aveva fatto il partigiano: non in monta-
gna beninteso, ma qui all’università... Il reduce da Crinovaia sbuffò a ridere.
***
L’aula Salvadori, al primo piano, era spalancata e si stava svuotando, la le-
zione essendo appena terminata. Apollonio non c’era già più, e non c’era
nemmeno Alma. Gli studenti - in gran maggioranza ragazze in grembiule nero
- indugiavano nel corridoio, non pochi s’andavano lentamente spostando ver-
so un’altra aula per la lezione successiva. Michele si aggirò tra loro chiedendo
se Alma fosse stata presente alla lezione. «Riva? - Riva?» le studentesse scuo-
tevano la testa o sporgevano le labbra: nessuna sembrava conoscerla; quando
però egli specificò: «È una con le trecce, che pare ancora del ginnasio» la indi-
viduarono subito. «Ah, sì, c’era infatti» dissero alcune; «Stava nella fila da-
vanti alla mia» specificò una con gli occhiali, d’accento meridionale.
«Dove può essersi cacciata?» chiese il giovane.
Nessuna delle ragazze lo sapeva.
Che avesse deciso di non assistere alla lezione successiva? In tal caso lui
avrebbe forse fatto in tempo a raggiungerla negli spogliatoi... Vi si recò difila-
to. Ma negli spogliatoi femminili - situati a metà strada tra le facoltà letterarie
e quelle giuridiche - Alma non c’era.
Il giovane finì con l’incamminarsi sopra pensiero verso la propria facoltà,
quella di giurisprudenza. “Che fesso sono stato a non telefonarle” pensava:
“proprio uno stupido.” Forse Alma, da quella matricola che era, aveva deciso
di marinare la scuola... Anche lui e Ambrogio l’avevano marinata tante volte
durante il primo anno... Forse in questo momento, giusto come un gattino in-
cosciente, stava uscendo dall’università insieme con qualche compagnetta, o
magari compagno di corso. Magari il ragazzo con cui Alma s’era accompagna-
ta le sarebbe col tempo piaciuto sul serio... O forse era addirittura un mascal-
zone, uno di quegli sporcaccioni che... Sì, anche questo era possibile. Michele
cercava istintivamente con gli occhi per terra, se ci fossero sassolini da pren-
dere a calci, come usava fare camminando nei cortili di Susdal quand’era ner-
voso: qui però non c’erano sassi. Stava percorrendo il lungo corridoio nel qua-
le, prima della guerra, Gemellone aveva risposto al suo saluto chiamandolo
per cognome «Ciao Tintori», ma adesso non poteva avere la mente a queste
cose. La sua mente era occupata da altro; la gelosia - cui egli non era abituato -
era una sensazione molto umiliante. “Che bestia sono stato a trascurare Alma”
si diceva, “che disgraziato e superbestia! E dire che non smetto di pensare a
lei. Penso a lei in ogni ora del giorno, e intanto cosa faccio? Mi dedico al libro,
agli esami, a un sacco d’altre cose, ma non a lei, che è di gran lunga più impor-
tante di tutto il resto...”
C’era a metà corridoio una corta diramazione verso la biblioteca: qui si tro-
vava un albo con gli orari di giurisprudenza; istintivamente Michele si chiese
se dovesse dare un’occhiata a quegli orari. Ma no, a cosa gli sarebbe servito?
Arrivato alla diramazione guardò tuttavia in direzione dell’albo. E in piedi da-
vanti ad esso vide, davvero inaspettatamente, Alma.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
La quale gli voltava le spalle. Indossava il grembiule nero come tutte le stu-
dentesse, tuttavia non potevano esserci dubbi: la scriminatura diritta che le
rigava la nuca, e le trecce, erano assolutamente sue, e così la figura snella, e la
vita sottile. Un po’ curva in avanti la ragazza stava esaminando gli orari: forse
non si districava ancora bene in simili cose.
Il cuore di Michele cominciò a battere furiosamente. “Che mi succede ades-
so? Cos’è questa emozione?” Trangugiò un po’ di saliva; dunque Alma era ve-
nuta qui, nel settore di legge, il suo settore... Per che fare, se non per... avvici-
narsi a lui, al suo mondo? Sì, certo. Che altro ci sarebbe venuta a fare? “E io,
da quel disgraziato che sono, stavo dubitando di lei! ”
«Alma» la chiamò a mezza voce, rendendosi conto d’avere difficoltà a parla-
re.
La ragazza si girò di scatto, lo vide, s’illuminò in volto, quindi arrossì fino
all’attaccatura dei capelli. «Michele, oh, finalmente!» non seppe trattenersi
dal dire.
Il giovane le si avvicinò: «Cosa ci fai qui, nella zona di legge, eh?» cercò di
scherzare con la strana voce che si ritrovava.
Il viso di lei si fece ancora più rosso; da principio sembrò non volesse ri-
spondere, poi disse: «Non lo può immaginare uno scrittore come te?»
«Sì, lo può» rispose lui.
Ancora una volta lei sembrò non voler aggiungere altro, ma poi disse con
tono di rimprovero: «Perché non ti fai vedere da tanto tempo?»
«Sei disposta a credermi? Me lo stavo chiedendo anch’io. E sai cosa mi ri-
spondevo? ‘Perché sono un fesso’.»
«Oh no» protestò lei.
«Senti, anch’io ti stavo cercando, è la verità, e con...» stava per dire: con
grande ansia, ma non lo disse. «Vengo dalla zona di lettere, dall’aula Salvado-
ri, dove tu hai appena finito di seguire la lezione d’Apollonio. Dico giusto?»
«Sì» rispose lei, non mostrando fuori, al solito, che in minima parte la gioia
che già avvertiva in cuore. «Ma come lo sai? Chi te l’ha detto che ero a lezio-
ne?»
«Le tue compagnette me l’hanno detto, le altre matricoline.»
«Ah.»
«Siccome però di là tu ormai eri venuta via, sono stato a cercarti agli spo-
gliatoi.»
«Come? Agli spogliatoi delle ragazze? Non sai che ai ragazzi è proibito en-
trarci?»
«Certo che lo so» sorrise Michele. «Per cui mi sono affacciato tenendo gli
occhi chiusi, e solo per il tempo strettamente necessario; ma neanche là tu
c’eri. Allora non sapevo più dove dar di testa. Han cominciato a venirmi certi
pensieri che... Pensieri da fesso, appunto.»
«Ma cosa dici?» mormorò Alma; quei pensieri però glieli leggeva ancora in
viso.
«Beh, adesso basta. Adesso cerchiamo di stare un poco insieme» disse il
giovane, circondandole con un braccio le spalle.
S’incamminarono per il corridoio; lei alzò la testa a guardarlo negli occhi,
riconoscente come un’agnellina. «Se ci vedesse il rettore» mormorò. Il contat-
to della mano e del braccio di lui le davano uno strano, indicibile senso
d’appagamento. “Perché lo fai così di raro, perché?” pensò la ragazza. Anche
Michele a causa di quel contatto era emozionato.
«Che pensieri ti erano venuti?» chiese a un tratto lei: «Non vuoi confidar-
ti?»
«Non ci farei una figura famosa, ecco il punto.»
«Ti prego, Michele.»
«Te l’ho già detto, dei pensieri scemi.» Ma poiché lei era sempre in attesa:
«Beh, ti confesso: mi è... insomma ho avuto un attacco di gelosia.»
Alma si fermò, lo guardò negli occhi: «Di gelosia?» Provò un nuovo straor-
dinario impulso di gioia. «Se tu sei geloso, geloso di me, vuol dire che... che io
per te...»
«Sì, tu per me. Proprio così» disse Michele.
«Oh, scusami, scusami» fece lei «che sfacciata sono!»
«No, perché?» disse il giovane «perché sfacciata? Di questo non vedo nean-
che il principio.»
«Ma se tu hai provato, diciamo, anche soltanto un po’ di gelosia... Oh, ba-
sta» s’interruppe Alma: «Tu vuoi solo scherzare.»
«No, Alma, non scherzo.»
«Gelosia vera? Con... con angoscia all’idea che io magari...»
«Proprio così» disse lui: «Che tu magari.»
«Ma non capisci che la gelosia nei miei riguardi non ha senso?» esclamò
Alma. «Non lo dico per rimproverarti, intendiamoci, non confondere. Sempli-
cemente devi renderti conto che è un non senso, una cosa priva di fondamen-
to. Quando io prometterò fedeltà a qualcuno, gli sarò fedele per tutta la vita,
per ogni istante della mia vita, e con gioia anche. Potrebbero farmi a pezzi, e
con questo? Io non ci penserò nemmeno a mancare di fedeltà.»
«Quando prometterai fedeltà a qualcuno?» disse Michele, piuttosto stupi-
damente: «Come sarebbe a dire ‘a qualcuno’?»
“Oh, perché non ti dichiari, perché non impegni la mia fedeltà?” gli chiese
mentalmente Alma, guardandolo fisso. Poi però si vergognò: “Non devo chie-
dere a un uomo come lui, a un artista, di comportarsi come un... chissà, come
un borghese. Che mi vuol bene me lo sta facendo capire anche in questo mo-
mento, dunque...” Ripresero a camminare. «Lasciami spiegare, ti prego» disse
Alma: «Quello che volevo dirti, di cui tu devi renderti tranquillamente conto, è
che non ha senso essere geloso a causa mia. Perché sarebbe una sofferenza
inutile, del tutto assurda.»
“Ah, ecco, così va un tantino meglio” pensò Michele.
«Forse non so esprimermi bene...» proseguì Alma: «Insomma voglio dire
che io, all’uomo che amerò sono fedele da sempre. È da quando ero bambina
che mi riservo per lui anche nei pensieri, che...» «E dalli... cosa significa
‘l’uomo che amerò’?» fece Michele tornando quasi a rannuvolarsi. «Ricominci
a parlare in astratto? Perché dici ‘l’uomo che amerò’?»
Alma alzò di nuovo la testa verso di lui, lo guardò negli occhi: «L’uomo che
io amo» disse a bassa voce. E improvvisamente arrestandosi: «Di cui sono
innamorata da... morire.» Nascose il volto nell’incavo della spalla di lui, con-
tro il suo petto.
«Sapessi anch’io quanto sono innamorato di te» mormorò allora Michele, e
non riuscendo più a dominarsi poggiò le labbra contro i capelli di lei.
Per un po’ non dissero altro; Michele le pose una mano sotto il mento e alzò
il viso di lei verso il proprio, la guardò nei begli occhi castani, onesti, ancora
quasi infantili: «Alma!»
Ricominciarono a passeggiare. Per fortuna, essendo ormai riprese le lezioni,
il corridoio si manteneva deserto; Michele cingeva sempre col braccio le spalle
della ragazza: «Avrei voluto dirtelo fin dal primo momento quanto ti amo, la
sera stessa del mio arrivo: gridartelo quando sei apparsa là, nella tua vestaglia
celestina, in cima alle scale. Tu non hai idea, non hai la più lontana idea di
quante volte io ho pensato a te in prigionia. Non sai di che immenso, indicibile
aiuto mi sei stata.»
«Io?»
«Sì, tu. Il tuo bel viso, la tua figurina gentile, Alma. Quante volte mi sei ve-
nuta in mente! Te lo volevo dire appena tornato, raccontarti ogni cosa la pri-
ma sera» ripete. Annuì, terribilmente commosso. «Invece ero tenuto a domi-
narmi, capisci? E tanto più in seguito, quando ho visto che tu mi corrisponde-
vi.» S’esaltò: «Per forza però tu dovevi corrispondermi: è Dio stesso che ha
disposto così.» S’interruppe: «Signore, che tu sia benedetto!» esclamò con
voce più forte. «Diciamolo insieme Alma: che tu sia benedetto in eterno.»
«Sì, sì. È stato veramente il Signore. Oh, Michele!» mormorò la ragazza.
«Il ringraziamento a Dio ci voleva» esclamò lui. «Anzi io dovrei ringraziarlo
lì in ginocchio, e non basterebbe. Non basterà mai. Ma quello che volevo dir-
ti...» ansimò un poco: «Vedendo che tu mi corrispondevi io pensavo: ‘Se le
parlo, se le dico tutto, e quante volte ho pensato a lei in prigionia, e con che
amore, e con che gioia, e le apro i miei sentimenti, insomma se faccio tutto
questo, poi vivere separati diventerebbe molto più penoso, molto più diffici-
le’.» Michele annuì. «E sarà così da oggi, ho paura. Ancora per anni noi non
possiamo sposarci e... Però come potevamo tacere ancora, e non dirci il nostro
amore? Non si poteva più, ecco, era materialmente impossibile.»
«Che cosa meravigliosa» mormorò Alma. «È una cosa talmente bella! Tu mi
vuoi bene, tu mi dici questo: che mi vuoi bene. Tu!» Il giovane la fissò nuova-
mente in viso: «Sei un capolavoro di Dio» mormorò.
Nel corridoio che stavano lentamente percorrendo entrarono, laggiù in fon-
do, due studenti; venivano verso di loro, erano quasi certamente due matrico-
le. Michele tolse il braccio dalle spalle di Alma: «Dobbiamo ricordarci che
siamo in un posto abitato» osservò, e di lì a poco aggiunse: «purtroppo», poi
tacque. Al momento in cui incrociarono i due, anche per darsi un po’ di conte-
gno fece: «Lo sai dove vanno quelli?»
Alma lo guardò vagamente interrogativa, la sua emozione era tale che non
poteva pensare ad altro.
«Quelli vanno nel settore di lettere e magistero ‘per motivi che non tornano
a loro onore’.»
«Eh? Cosa? Come lo sai tu?»
Anche altri studenti stavano, sempre dalla parte di legge, entrando nel cor-
ridoio. «‘Per motivi che non tornano a loro onore’ significa per vedere le ra-
gazze.» Il giovane ridacchiò scuotendo la testa. «Questo l’aveva scritto Gemel-
lone in un proclama, figurati, cinque, anzi, fammi contare: sei, un po’ più di
sei anni fa, sì: un proclama che era esposto giù nell’albo principale, quello vi-
cino all’ingresso. Anch’io e tuo fratello Ambrogio eravamo di quegli individui
privi d’onore, lo sai? Ci andavamo anche noi a vedere le ragazze di magistero.
Non ci pareva vero di poter perdere tempo, allora.»
«Ma come fai, dopo sei anni, a ricordare una frase che stava esposta
nell’albo?»
«L’ho frequentata per così poco tempo l’università, che ogni cosa di quei
giorni la ricordo. A te sembra di esserci da molto all’università?»
«Io ho appena cominciato.»
«Ecco. E siamo a fine febbraio. Noi due, io e tuo fratello, in febbraio erava-
mo già sotto le armi.»
«Oh, poveretti» mormorò Alma, rendendosi improvvisamente conto della
brevità della loro vita goliardica.
«Non mi compiangere. E comunque non oggi. Oggi sono l’uomo senza con-
fronto più felice del mondo.» Annuì, mentre la contemplava: «Oggi che ci
siamo dichiarati il nostro amore. Però, Signore Iddio, quanto sei attraente!»
non poté trattenersi dall’esclamare. Alma si sentiva scoppiare il cuore dalla
gioia.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Scesero a passeggiare nei bei chiostri aperti del piano terreno, poi pranza-
rono molto frugalmente alla mensa universitaria, poi - siccome sentivano il
bisogno di stare insieme ancora e ancora - decisero di uscire a passeggio per
Milano. Michele accompagnò la ragazza fin sulla porta degli spogliatoi fem-
minili, da cui Alma uscì quasi subito, col cappotto e la cartella sotto braccio:
per non stare neppure un minuto più del necessario lontana da lui, non si era
nemmeno levata il grembiule nero; se lo tolse mentre andavano verso l’uscita,
e tenendo l’indumento per un polso lo fece ruotare con disinvoltura attorno al
pugno, quindi gettò il piccolo involto che s’era venuto a formare dentro la car-
tella. «Cosa fai? Lo manipoli sempre così il tuo grembiule?»
«Perché? A volte sì.»
Michele rise. Senza grembiule la vita di Almina appariva ancora più sottile,
ancora più verginale. “Dio del cielo, che meravigliosa creatura’’ pensò il giova-
ne. In questo cominciava magari, per essere uno scrittore, a dimostrarsi un po’
monotono; ma non se ne accorgeva, e potrebbe essere interessante aggiungere
qui che non se ne sarebbe accorto durante tutta la vita, pur seguitando a ripe-
tere alla sua compagna - a voce, o più spesso mentalmente - una tale constata-
zione, incantato ogni volta da quel capolavoro di Dio.
***
Sulla città, umida per la nebbia dei giorni precedenti, batteva un sole anco-
ra quasi invernale; e tuttavia anche nelle sue strade si avvertiva
l’approssimarsi della primavera per certe folate d’aria fresca ma non cruda,
un’aria nuova, che a Michele faceva tornare in mente le viole della sua infan-
zia. Camminarono l’intero pomeriggio, incuranti di dove andassero, perché la
loro gioia li accompagnava dovunque. Del resto non si sentivano attratti da
alcun luogo in particolare perché - al contrario di Fanny - sia l’uno che l’altra
non conoscevano locali più o meno alla moda (ed erano implicitamente con-
tenti di non conoscerli: da quei campagnoli che in fondo erano, ma anche da
persone ricche dentro, cui ciò che stava all’esterno avrebbe in ogni caso più
tolto che aggiunto.)
Sul tardi, mentre il buio scendeva e la stanchezza cominciava a tagliare le
gambe di Almina (ma per nessuna ragione lei ne avrebbe parlato, col rischio
d’interrompere una passeggiata come quella, e un tale incanto), il loro dialogo
si trasformò, poco alla volta, in un monologo di Michele. Il quale confessò tan-
te cose: come ad Arbusov, nell’inferno della ‘valle della morte’, mentre scen-
deva attraverso la botola nello stambugio sotterraneo in cui Ambrogio giaceva
ferito, avesse pensato, più che alle tragiche condizioni dell’amico, alla possibi-
lità di fare - salvandolo - bella figura davanti a lei: «Che vergogna a ripensarci
dopo, durante la prigionia, quando non sapevo se Ambrogio se la fosse cavata.
Comunque è andata così.» Le riferì con uguale semplicità altri terribili episo-
di: rievocava la vita e la morte, i giorni e le notti dell’interminabile prigionia,
la cieca prostrazione al principio, e poi l’estenuante attesa del ritorno; e in
mezzo a tutto ciò - le diceva - simile a un piccolo lume che brilla incessante-
mente nel buio, c’era stata l’immagine di lei nel suo cuore: di questa bambina
con le trecce, della quale si era un po’ alla volta sempre più innamorato. Le sue
parole rendevano le cose vissute con straordinaria forza suggestiva: Alma pro-
vava una voglia sconvolgente di stringersi a lui, di diventare una cosa sola con
lui.
Si erano accese le luci, le vetrine di Milano proiettavano riquadri gialli, co-
me d’oro, sui marciapiedi bagnati.
CAPITOLO VENTESIMO
Arrivarono così, sempre uno al braccio dell’altro, alla stazione Centrale; in-
sieme viaggiarono in treno fino a Monza: pareva loro ormai assurdo doversi
separare, sebbene sia l’uno che l’altra sentissero anche, a tratti, bisogno d’un
po’ di solitudine per riflettere su ciò che stava loro accadendo, riandare le ore
meravigliose passate insieme, rendersi conto che, obiettivamente, non si trat-
tava d’un sogno. È da dire che sia l’uno che l’altra non avevano mai fatto in
vita loro un sogno bello come questa realtà.
Una volta sceso a Monza il giovane ricominciò a lodare Dio in cuor suo con
grande forza: lo lodò mentre usciva di stazione, mentre camminava per le
strade, poi mentre viaggiava su un piccolo autobus cittadino; lo lodò, con
straordinario entusiasmo, mentre saliva le modeste scale di casa. Il giorno se-
guente egli sarebbe dovuto tornare all’università per convocare la commissio-
ne esaminatrice, non avendone trovato durante tutta quella giornata il tempo;
si era perciò messo d’accordo con Alma che avrebbero fatto insieme il percor-
so da Monza a Milano sul trenino di Nomana. Dopo aver cenato - mentre
scambiava qualche faticosa e inconcludente parola con gli zii (per i quali la
conversazione con lui era diventata giorno dopo giorno sempre più necessa-
ria) - andava di continuo con la mente da ciò ch’era accaduto (il viso di lei, ve-
deva soprattutto il bel viso di lei), all’incontro nuovissimo, portentoso, ancora
tutto da vivere, che avrebbe avuto luogo l’indomani.
***
Per parte sua Alma, mentre il treno la portava a Nomana, ascoltava appena
(non riusciva quasi a sentirle) le parole della signorina Quadri Dodini che, sa-
lita a Monza, aveva occupato con un largo sorriso di soddisfazione il posto la-
sciato libero da Michele. Col bel viso di statuina intento a ciò che le stava
nell’animo, la ragazza non dava all’esterno segni d’eccitazione: dentro però le
andavano e venivano le cose meravigliose scoperte nel corso della giornata:
non solo che l’amore di Michele per lei era certo, indubitabile, ma anche quan-
to fosse grande: un amore quale solo un uomo davvero tale, e riservatosi per
tutta la vita ad un unico amore, può esprimere. E quel fatto singolare, che nel-
le vicende oggettivamente così enormi da lui vissute, lei fosse già stata in qual-
che modo presente: sempre presente nel suo cuore, le aveva detto, al modo
della fiammella rossa che c’è in certe isbe, nell’angolo che chiamano delle ico-
ne. Il profilo di Michele! I suoi lineamenti, quegli occhi neri, intelligenti,
straordinariamente intelligenti, e... “Signore, è troppo: ti ringrazio, ti ringra-
zio, ti ringrazio!” La signorina Quadri Dodini parlava dell’uggia da cui viene
presa l’insegnante che per anni è costretta a ripetere le stesse lezioni: «Se an-
che tu arriverai a insegnare, ti renderai conto di quello che intendo dire. Ma tu
a insegnare non ci arrivi, perché ti sposi prima.»
«Che significa? Dovessi anche sposarmi prima, io alla laurea e
all’insegnamento intendo arrivarci comunque» dichiarò Alma, trattenendosi a
fatica dallo spiegare che, in quanto moglie d’uno scrittore, avrebbe dovuto ba-
dare a non dargli impicci d’ordine economico: “E non soltanto per me, ma an-
che per le necessità dei figli che nasceranno, io devo lavorare” pensava. Certo
un proposito come questo Michele non l’avrebbe approvato, forse ne sarebbe
rimasto sorpreso: ma lei, formulandolo, si dimostrava donna coi piedi ben
fermi sulla terra, e figlia di Gerardo.
Mentre la Quadri Dodini seguitava a parlare, Alma cercò di raffigurarsi, con
crescente curiosità, i figli che avrebbe dato a Michele. Non si prospettava an-
cora il rapporto fisico con lui - attraente certo, e forse più d’ogni altra cosa - da
cui i figli sarebbero venuti: la sua morale cristiana glielo vietava per ora, e lei
obbediva docilmente, rendendosi conto che se il suo amore era oggi così
splendido lei lo doveva anche, in non piccola parte, al fatto d’essersi sempre
attenuta alle norme di quella morale. E senza quella morale, insegnataci diret-
tamente da Dio, adesso anche l’amore di Michele per lei sarebbe stato qualco-
sa di ben più modesto, di già in parte sciupato e come monco... Pensava dun-
que ai figli che un giorno avrebbe dato a Michele, cercando di raffigurarsene le
fattezze, i visini. S’inteneriva all’idea di loro, malgrado non le riuscisse di pro-
spettarseli bene: le era infatti impossibile ridurre allo stadio infantile il viso
serio di Michele. Una cosa le pareva comunque irrinunciabile: che tutti quei
figli, maschi e femmine, dovessero avere i begli occhi neri e intelligenti di lui.
“Ecco, io rivestirò di nuova, tenera carne l’intelligenza di Michele, perpetuan-
dola”; questo le parve (ed era) un bel pensiero, degno della donna d’un grande
scrittore, per cui non mancò di gioire in cuor suo anche di questo.
Una volta scesa dal treno, mentre camminava sotto le querce spoglie del
‘viale della rimembranza’ non smise di pensare al giovane che amava: il buio
anzi, e i rami bassi e protesi degli alberi, le richiamavano il senso di solitudine
che - com’egli le aveva raccontato - lo coglieva in prigionia quando calavano le
tenebre nei lager terribili, circondati da distese di boschi. Neppure smise di
pensare a lui più tardi, durante la cena, nel corso della quale non pronunciò
una sola parola. Né smise dopo, finché si addormentò.
***
Non soltanto il giorno successivo i due giovani lo trascorsero per intero in-
sieme a Milano, ma altri giorni ancora. Fino a quando Alma si rese conto che
toccava a lei - con tutta la sua fragilità - rimettere ordine nelle giornate di Mi-
chele, e lo fece abbastanza rapidamente, con una risolutezza che un poco sor-
prese lei stessa.
Michele ricominciò a dare gli esami nel suo modo serrato e sistematico; do-
po qualche mese tuttavia trasferì un’altra volta la propria attenzione sul libro,
dal quale venne di nuovo totalmente assorbito. Se questo gli faceva trascurare
gli esami, non trascurò più Alma però, non lasciò più passare un’intera setti-
mana senza vederla. A tal fine si recava ogni pochi giorni, la sera dopo cena, in
bicicletta a Nomana: il che l’obbligava - una volta tornato a casa - a fare le ore
piccole per non ridurre il tempo destinato al lavoro.
CAPITOLO VENTUNESIMO
***
S’incontrò coi Riva - c’era anche Alma - all’ingresso dell’università: scam-
biarono le strette di mano davanti alla lapide che ne ricordava la ricostruzione
dopo i bombardamenti effettuati mediante ‘ignivomis globis e caelo temere
coniectis’. Sfiorando con gli occhi la lapide, Michele non poté a meno di dirsi
che i bombardamenti adesso erano un fatto davvero lontano, e anzi - se non
fosse stato una mezza bestemmia pensarlo - quasi invidiabile, perché allora i
soldi venivano del tutto in secondo piano, non avevano - schifosi come sono -
il maledetto potere di angustiarti che hanno invece oggi.
Tutti i componenti del branco Riva si mostrarono lieti di vederlo; il festeg-
giato Ambrogio, un po’ eccitato, lo prese per un gomito: «Sei venuto a farti
delle risate, eh?» gli disse. «Tu che sei super bravo. Vuoi vedere come se la
caverà sotto il fuoco incrociato un poveraccio come me.»
«Macché super bravo» fece Michele, «se c’è una cosa in cui so già che farò
schifo è il mio esame di laurea, figurati.» Poi sorrise incoraggiante: «Ambro-
gio lascia perdere i fuochi incrociati. Vedrai che sarà soltanto una cerimonia,
un po’ come ricevere un’onorificenza, o qualcosa di simile.»
«Questo non è detto» gli obiettò Ambrogio; «ieri mattina ho assistito alla
discussione delle tesi e ho visto che ci sono certi professori - non i relatori, ma
alcuni di quelli delle tesine - che sembra si divertano a rompere le scatole.»
Michele tentennò la testa; intanto: “Ambrogio è un vero amico” pensava,
“tutti costoro mi vogliono bene. Se conoscessero i miei guai, mi aiuterebbero
subito, un prestito me lo farebbero senza neanche chiederglielo. Ma io proprio
a loro, alla famiglia di Alma, i miei guai non glieli posso far conoscere, sarebbe
troppo mortificante.” La sua Alma, col fascicolo della tesi di Ambrogio sotto
un braccio, gli s’era messa al fianco e lo guardava estasiata, come fosse
l’oracolo. “No, piuttosto io crepo.”
Intanto però era giovane, e al suo fianco c’era la ragazza ch’egli amava: i
guai si sarebbero tra poco rincantucciati in un angolo della sua mente, non
sarebbero scomparsi purtroppo, ma se ne sarebbero rimasti per un po’ quieti
in quel canto.
CAPITOLO VENTIDUESIMO
CAPITOLO VENTITREESIMO
La ragazza rientrò nell’aula magna che andava sempre più affollandosi: ac-
canto al padre e alla madre - i quali sedevano nel mezzo del gruppo Riva - non
c’erano sedili liberi; per mettersi vicino a loro Fanny fece perciò alzare il poco
formalista Pino e ne prese il posto. Dall’altra parte dei genitori sedevano Mi-
chele ed Almina che facevano un po’ repubblica a sé.
Fanny si dedicò col suo garbo abituale all’intrattenimento dei genitori e di
Francesca; ogni tanto si trovava però costretta a frugare negli angoli più ripo-
sti della memoria in cerca - se mai l’aveva conosciuto - di qualche dato relativo
per esempio alla capienza dell’aula magna, oppure al suo anno
d’inaugurazione, perché Gerardo - che permaneva in uno stato
d’incondizionata ammirazione per tutto ciò che padre Gemelli aveva saputo
fare - glielo chiedeva. Per avere aiuto Fanny pensò bene di coinvolgere Alma:
la quale, improvvisamente strappata all’empireo in cui navigava, e messa di
fronte a simili retorici problemi, atteggiò il viso di statuina a schietta ignoran-
za, e alle domande dell’altra strabuzzava gli occhi o sporgeva il labbro inferio-
re a significare: «E chi lo sa? Io domande come queste non me le sono mai
poste». Fanny decise di lasciarla perdere.
***
Ricondotta sia pure per poco sulla terra, Alma si guardò intorno, e le capitò
di scorgere una figura femminile a lei nota, che veniva avanti con calma nella
corsia principale dell’aula magna, tra le poltrone e la gente. «Oh, guarda chi si
vede, Colomba! Come mai è qui?» mormorò.
La udì soltanto Michele, che guardò verso la ragazza in arrivo. Alta ed ele-
gante, col bel viso che il povero Manno prima di morire aveva evocato tra i
sassi di Cassino (in mezzo alle raffiche falcianti degli spandau e al frastuono
dell’artiglieria: chi ricordava più simili cose?) Colomba, che nessuno aveva
pensato a invitare, veniva anche lei ad assistere alla laurea d’Ambrogio.
«Di chi stai parlando? Di quella ragazza là?» domandò Michele, che prima
d’allora non l’aveva mai vista.
«Sì.»
«La conosci?»
«È Colomba, la fidanzata di Manno, quella delle sue ultime lettere.»
«Ah. Si vede che anche lei ha saputo della laurea di oggi.»
Alma si girò istintivamente per avvertire gli altri della presenza di Colomba,
poi ci ripensò e si trattenne. «Non so se dirlo agli altri» mormorò.
«Perché non dovresti dirlo?» le chiese Michele.
Ma proprio in quella s’affacciarono all’ingresso di fondo, e cominciarono a
entrare nell’aula i professori in toga e tocco. Avanzando solennemente in fila
per uno andarono a prendere posto a un versante del tavolo delle discussioni,
mentre il brusio della piccola folla, dopo essere cresciuto, quasi cessava; la
gente ancora in piedi s’affrettò a un posto qualsiasi; anche Colomba, che tut-
tavia seguitava a guardarsi intorno, senza dubbio in cerca dei Riva.
«Perché non dovresti dirlo agli altri?» Michele tornò a chiedere sottovoce
ad Almina.
Lei fece spallucce: «Beh, sai, c’è Fanny.»
“Fanny?” pensò Michele: “E con ciò?” Ma non erano affari suoi.
Nel giro di qualche minuto tuttavia anche Francesca individuò Colomba: ne
aveva incontrati gli occhi voltandosi; le due ragazze si scambiarono un allegro
cenno di saluto. Subito Francesca avvertì tutti, e spiegò a Fanny: «Quella era
la fidanzata di Manno. L’hai conosciuto anche tu Manno, è vero?»
«Sì, a Stresa» le rispose Fanny annuendo. Fino a quando non giunse il tur-
no della discussione di Ambrogio, Colomba finì col rappresentare il principale
centro d’interesse del gruppo Riva.
La discussione delle tesi infatti riusciva ai profani (com’era da aspettarsi)
decisamente noiosa: non solo essi non capivano ciò di cui si parlava al lungo
tavolo, ma a momenti non lo udivano neppure.
Ambrogio fu il quinto del gruppo di scienze economiche; entrò - al pari de-
gli altri laureandi prima di lui - da un ingresso minore; mentre raggiungeva la
sedia solitaria davanti al severo tavolo dei professori salutò con un cenno del
capo i suoi e, individuata Colomba, salutò anche lei.
Rispose alle domande che via via gli venivano fatte con la sua calma abitua-
le, si sarebbe detto con pacatezza. La madre Giulia provava ciononostante tre-
pidazione per lui, costretto là senza possibilità d’aiuto in mezzo alla cerimonia,
davanti a quei professori dall’aria così importante.
Discussa la tesi, un giovane relatore di tesina fece al candidato
un’osservazione piuttosto pungente circa la ‘disinvoltura’ con cui aveva supe-
rato una difficoltà. «Essere abietto» lo gratificò a mezza voce Pino: «Caino-
mane, faccia di palta!» ma fu presto chiaro che intendimento del giovane rela-
tore non era di mettere in imbarazzo Ambrogio, bensì di cogliere l’occasione
della presenza di tanti illustri colleghi per fare sfoggio della propria raffinata
competenza. (Anche la conclusione degli studi dunque, e anche all’università
cattolica, poteva essere occasione d’esibizione: in fondo era bene che Gerardo,
il quale - al pari di tanti altri incolti come lui - si era dato da fare con semplici-
tà per la realizzazione di quell’università diversa dalle altre, non se ne rendes-
se del tutto conto.)
Terminata la discussione delle tesi di scienze economiche la commissione
esaminatrice si alzò e uscì processionalmente dall’aula: il suo presidente aveva
in precedenza avvertito che sarebbe rientrata di lì a una decina di minuti per
la proclamazione e il punteggio.
Subito Ambrogio raggiunse i suoi, anche Colomba li raggiunse. «È andata
bene, bravo, sei stato bravo» commentarono a gara un po’ tutti; il giovane si
schermì con modestia, era però visibilmente contento che la lunga tirata degli
studi universitari si fosse una buona volta conclusa. Gli ci volle un certo tempo
per rendersi conto che toccava anche a lui dir qualcosa, informarsi per esem-
pio da Colomba come stesse e come andassero i suoi studi. «Cerco di dare
quanti più esami mi riesce» rispose lei «perché a primavera mi sposo, e allora
addio, ho paura che poco tempo potrò dedicare alle cose di prima.»
Ambrogio si chiese se per caso in queste parole non ci fosse una sorta di
rimpianto. “Ma forse penso così perché se la porta via un altro” provvide subi-
to a ‘ridimensionarsi’, secondo il suo solito.
Visibilmente Colomba era più bella di Fanny, e forse d’ogni altra ragazza
presente nell’aula magna. Si congedò prima che rientrassero i professori: «Mi
dispiace, dovete scusarmi, ma ho poco tempo.»
Osservandola allontanarsi Michele disse al Alma: «Vuoi il mio parere?
Quella si conserverà bella finché campa. Precisamente come te. Beh, ne ripar-
leremo fra trenta o quarant’anni.»
«Che strano discorso» fece Alma.
«Infatti» ammise Michele.
«Poi mi spieghi» sussurrò Alma. Michele le fece sorridendo segno di sì.
Rientrata la commissione esaminatrice il presidente chiamò al tavolo ogni
singolo candidato, e consegnandogli una pergamena lo proclamò dottore; di
ciascuno lesse il voto di laurea. Quello di Ambrogio era di centocinque punti
su centodieci, un buon esito.
Quando la commissione di scienze economiche nuovamente sgombrò per
lasciare il campo a quella di lettere, anche i Riva si alzarono e avviarono verso
l’uscita. «Dì, lo vedi quello davanti a tutti, il presidente della commissione di
lettere?» disse, indugiando un istante, Almina a Michele: «è Apollonio.»
«Quello? Oh, finalmente lo vedo!» (Mario Apollonio, preside della facoltà di
lettere e filosofia, scrittore, e critico letterario e teatrale di gran fama, veniva
avanti sorridendo della sagra delle lauree; come tuttavia di un gioco che non
gli spiacesse del tutto: aveva un viso straordinariamente umano.) «Ha una
faccia che mi piace» osservò Michele.
«Papà, vedi quello?» disse allora Alma, indicandolo anche al padre: «È il
professor Apollonio, il preside della facoltà di lettere: è uno dei professori di
lettere più importanti d’Italia.»
«Ah, vedo, vedo» commentò Gerardo, compiaciuto che nell’università cat-
tolica insegnasse un professore tanto importante.
***
Come il gruppo fu all’esterno dell’aula, Fanny riprese saldamente in mano
la situazione. Curando, senza darlo a vedere, che non si facessero inutili soste,
guidò la comitiva per un itinerario che consentisse a Gerardo di farsi l’idea
d’un altro settore dell’università («Questo l’ho già visto» diceva però lui ogni
tanto «all’inaugurazione del 26»; era comunque estasiato quasi quanto allo-
ra.)
Una volta fuori dell’università seguirono tutti Fanny fino a una pasticceria
molto chic di via Borgonuovo. Per la verità Giulia avrebbe preferito intratte-
nersi senza ulteriori distrazioni col figlio, a gioire con lui del successo conse-
guito; Michele e Alma, per parte loro, avrebbero desiderato ‘sganciarsi’ dagli
altri: sarebbe stato però uno sgarbo non assecondare una padrona di casa
compita come Fanny (la cui casa adesso sembrava in qualche modo coincidere
con l’intera Milano), e oltre tutto Michele era stato pregato di rimanere della
comitiva direttamente da Ambrogio .
La pasticceria inalberava il nome abbastanza insolito di ‘Terza Gallia’, che
suscitò la perplessità di Pino: «Cosa vorrà dire? Che razza di stramberia è?» Si
rivolse a Michele: «Ehi, scrittore, a te non pare un nome cervellotico?» Miche-
le si guardò bene dall’impegnarsi: la vicinanza di Almina che camminava al
suo fianco come un’agnella, lo incantava al punto da fargli sembrare invero-
simile uno spostamento dell’attenzione su qualsiasi altra cosa, anche su una
scherzosa disamina filologica. Si limitò a un borbottio.
«Gente» pensò allora bene di puntualizzare Fanny, a beneficio di tutti quei
provinciali: «Questo in cui stiamo per entrare è forse lo ‘squaglio’ di cioccolato
più famoso d’Europa. Mi sono spiegata?» E al distratto Michele, per suo parti-
colare ammaestramento: «Qui ci vengono molti dei più bei nomi della cultura
di Milano, come lo scrittore Piovene e i professori Andrea Guerritore e Carlo
Felice Manara dell’università statale, e la Zezi Locatelli, e la Liliana Grassi di
Architettura.»
In quell’importantissimo ‘squaglio’ ebbero dunque luogo i festeggiamenti
per la laurea d’Ambrogio.
PARTE TERZA
CAPITOLO PRIMO
***
Il giorno dopo, anziché arrivare col tram fino all’università, Almina scese in
centro, alla fermata di piazza della Scala, ed entrò - con una certa sospensione
di cuore - in Galleria. La percorse di buon passo (il pavimento era ancora in
parte a grandi rappezzature di cemento) fin davanti alla libreria di rappresen-
tanza della casa editrice: nella vetrina principale il libro nuovo occupava il po-
sto d’onore e portava ben leggibili sulla copertina il nome e il cognome di Mi-
chele, del suo Michele... Era presente anche, come la giovinetta constatò con
allegrezza, nelle altre librerie della Galleria e in quelle dei dintorni. Quel mat-
tino Alma arrivò all’università con molto ritardo.
Nei pomeriggi seguenti, al termine delle lezioni, invece di prendere com’era
sua abitudine il tram per la stazione ferroviaria, essa raggiungeva a piedi il
centro della città. Entrava - ogni volta con un tantino di batticuore - in Galle-
ria, e andava difilato davanti alla libreria dell’editore: il libro occupava immu-
tabilmente il posto d’onore nella vetrina principale, con dieci-dodici esemplari
disposti in modo ogni pochi giorni diverso: ora a semicerchio, ora a scaletta,
ora in altra maniera. Alma contava e ricontava attentamente quelle copie: col
passare dei giorni notò con una certa preoccupazione che erano alquanto di-
minuite di numero; tuttavia non scomparivano: altri libri erano entrati in ve-
trina e n’erano usciti nel volgere d’una sola settimana, e anche meno, (con di-
spiacere della ragazza, che provava per gli sconosciuti autori una sorta di soli-
darietà): quello di Michele invece resisteva.
Dopo aver indugiato quanto bastava, e anche un po’ di più, davanti alla ve-
trina, la ragazza - molto graziosa, con le trecce che accompagnavano i movi-
menti del capo - ispezionava le vetrine delle altre tre librerie situate in Galle-
ria, e di una quarta ubicata poco fuori, sotto i portici settentrionali di piazza
del duomo: il libro si manteneva presente in tutte, sia pure con uno o due
esemplari soltanto. (Una volta che non l’aveva individuato nella vetrina sotto i
portici, Alma ebbe un tuffo al cuore, pose la mano sulla maniglia della porta:
col pretesto d’acquistarlo avrebbe dichiarata la propria meraviglia che non
tenessero in vetrina un libro «come quello» di cui «tutti parlavano»: lo scorse
appena in tempo per trattenersi.)
Siccome la più vicina fermata dei tram per la stazione Centrale era in piazza
della Scala, la ragazza doveva al termine della sua ispezione necessariamente
ripercorrere la Galleria: ne approfittava ogni volta per sostare ancora un poco
in muta contemplazione davanti alla vetrina dell’editore. Si avvicinava però il
momento della ‘punta’ in cui le vetture tramviarie dirette alla stazione si sa-
rebbero sovraccaricate di gente, anche a grappoli, e Alma sentiva che avrebbe
fatto bene a spicciarsi; prima di staccarsi di là tuttavia entrava a volte nel ne-
gozio e ordinava una copia del libro con voce chiara, sottolineando («di Mi-
chele Tintori») il nome dell’autore, perché i presenti udissero, e magari, per-
ché no? s’incuriosissero e lo comprassero anche loro. Qualche volta le capitava
di non saper resistere alla tentazione di chiedere (a voce più bassa, s’intende)
al commesso che glielo incartava: «Beh, come va questo libro? Sempre bene?»
«Sì, certo, ha successo, lo vendiamo sempre» le rispondeva il commesso.
«Vi sembra che le prospettive siano buone anche per il futuro?» Il commes-
so si stringeva nelle spalle: «Se la cosa la interessa, posso farla parlare col di-
rettore, venga» e malgrado lei a questo punto, si schermisse, s’avviava
senz’altro, facendole segno di seguirlo: zigzagando tra scaffali carichi di libri
fino al soffitto, la guidava a una scrivania in un angolo: «Commendatore, la
signorina desidera dei ragguagli.»
Finì che il commendatore, un ometto bonario, dotato, per quanto attineva
ai libri, d’una memoria prodigiosa, imparò a conoscerla: «Oh, la nostra signo-
rina! È venuta a prendere un’altra copia del Tintori? Ma brava.» Un giorno le
chiese: «Mi dica un po’, lei forse lo conosce personalmente questo autore?»
«Io?... Sì.»
Attribuì ad Almina, d’aspetto così contegnoso, e con le trecce, un’età parec-
chio inferiore alla reale: «È forse la sua nipotina?»
«No, sono un’amica» rispose Alma, avvampando di rossore.
«Ma allora, in questo caso» affermò generico il commendatore, ben lontano
comunque dall’immaginare che di quella bimbetta l’autore fosse innamorato
«alla signorina bisogna fare lo sconto.» E rivolto alla cassa: «Sconto del dieci
per cento alla signorina.» Anche dopo quest’esperienza Alma non riuscì a im-
pedirsi d’entrare altre volte nel negozio, e da allora - con femminile spirito
pratico - pagò sempre col dieci per cento di sconto.
***
Le difficoltà di Michele raggiunsero il culmine verso la fine dell’anno. Egli
vedeva il bisogno dello zio d’essere aiutato a sostenere almeno le maggiori
spese vive che la sua presenza comportava (quelle alimentari, e il conto della
luce, triplicato a causa delle sue lunghe veglie di studio); aveva inoltre più che
urgente bisogno d’acquistare un cappotto e un abito nuovi. Il poco però che
riusciva a raggranellare, gli bastava appena per le spese universitarie (il tram
‘forese’, la mensa nel seminterrato dell’università, le tasse ch’era tenuto a pa-
gare in segreteria), nonché per le sigarette delle quali, data la continua tensio-
ne nervosa, non riusciva adesso a fare a meno. Nei giorni di più acuto sconfor-
to egli giungeva a chiedersi se valesse davvero la pena di vivere in un mondo
come questo; a volte - in qualche momento particolarmente sconsolato - gli
pareva che delle molte mancanze di libertà per l’uomo, la maggiore e più tra-
gica fosse di non poter scegliere se esistere o no. Poi si rimproverava, ricorda-
va che, ‘oltre tutto’, della sua esistenza faceva parte anche Alma, e questo non
era poco... “Ma cosa mi vale essere innamorato di lei, e che lei lo sia di me, se
non ho neppure un abito decente per andarla a trovare?” Non aveva scampo
comunque: come uomo era tenuto a combattere non solo le battaglie militari -
in cui lo avevano aiutato, così mirabilmente e tangibilmente, il suo angelo e il
suo patrono san Michele arcangelo - ma anche queste piccole e incessanti bat-
taglie contro le miserie quotidiane: “Se ci si ritrova sprofondati
nell’immondizia e nella merda, come capita e ricapita durante la vita, non ri-
mane che lottare anche contro queste, per tirarsene fuori...”
CAPITOLO SECONDO
Si laureò nella primavera successiva, del 1948, poco prima delle famose ele-
zioni generali del 18 aprile, a un anno e mezzo dal rimpatrio.
Soltanto Ambrogio presenziò alla discussione della sua tesi, e il laureando
avrebbe preferito che non ci fosse neppure lui, perché aveva scelto un argo-
mento di poco interesse, non solo, ma non l’aveva neppure preparato bene.
Egli s’era opposto in particolare alla presenza di Alma: «Ti prego di non insi-
stere. Desidero che tu non mi veda in questo, diciamo, frangente, perché mi
piace troppo fare ai tuoi occhi la figura del grand’uomo. Finché dura,
s’intende.» Così Alma quel giorno (un sabato), seppure dispiaciuta, era rima-
sta a Nomana a preparare una cenetta per festeggiare la laurea.
I due giovani - Ambrogio e Michele - uscirono insieme dall’università subito
dopo la proclamazione dei risultati; erano entrambi stanchi: Ambrogio per il
lavoro in fabbrica, il cui peso al termine della settimana si faceva sentire, Mi-
chele per la prolungata tensione nervosa; il neo laureato indossava un cappot-
to color cammello in apparenza nuovo, in realtà ricavato da una vecchia co-
perta di casa.
Stava facendosi sera; nel piazzale antistante l’università, come del resto in
tutte le altre piazze e vie di Milano, erano in sosta pochissime macchine; i due
montarono sulla Millecento nuova dei Riva, di tipo sportivo, che Ambrogio
avviò, indirizzandola verso il centro. «Allora?» disse, per intavolare un po’ di
conversazione.
«Eh, allora!» mormorò Michele; della laurea ritenevano entrambi d’aver già
parlato abbastanza.
«Non te l’ho chiesto, scusa, e sì che l’avevo in mente da stamattina: come va
la seconda edizione del tuo libro?»
«È appena uscita» sorrise Michele, «quanti giorni saranno? Una decina sì e
no.»
«Una seconda edizione è in ogni caso un buon segno.»
«Sì» convenne l’altro.
«E poi vedo che il libro funziona, che la gente lo cerca e lo legge con interes-
se. Ne sento parlare da parecchi.»
Michele annuì. «Anche se mi rende poco o niente. Lo sai che la prima edi-
zione non m’ha reso una lira?»
«Come mai?»
«Era nel contratto: doveva bastarmi la gloria d’essere pubblicato da una ca-
sa editrice tanto importante. Cominceranno a darmi una piccola percentuale
solo adesso, con la seconda edizione.»
«Beh, chissà quante ne usciranno d’edizioni» disse fiducioso Ambrogio. «A
proposito dì, ci sei stato da Apollonio?»
«Non te l’ha detto Alma? Ci sono stato, sì.»
«Oh, era quasi ora. Meglio tardi che mai, eh Michele?» commentò Ambro-
gio.
Ridacchiarono entrambi. Nonostante i propositi formulati fin dal tempo in
cui era matricola, Michele non si era mai risolto a far visita al celebre critico.
Ultimamente, in occasione dell’uscita del libro, aveva progettato di portarglie-
ne una copia: prima però che arrivasse ad attuare quest’ennesimo proposito,
una recensione di Apollonio era apparsa sul quotidiano cattolico milanese.
S’era trattato di una recensione splendida, entusiasta: mai, per nessun’opera
di autore vivente, Apollonio aveva scritto a quel modo.
Almina quando l’aveva letta (su segnalazione del padre, cui era capitata sot-
tocchio durante la colazione del mattino) si era messa a gridare di gioia: il che
per lei, per una statuina di marmo come lei, era davvero inedito. Aveva poi
cominciato a girare tra sala e cucina, tenendo alto il giornale, emozionatissi-
ma: «Vi rendete conto? Capite cosa significa questo? Non c’è in Italia un altro
critico letterario del valore di Apollonio: nessuno può giudicare meglio di lui.»
«Tra quelli cattolici, vuoi dire?» le aveva chiesto il fratello Fortunato, inten-
to al pari del padre a sorbirsi il caffè e latte.
«No, in assoluto, tra tutti. Non c’è uno studioso di letteratura più profondo,
e neanche più autorevole di lui.» La ragazza non aveva mancato di dare dei
ragguagli (sentiva un gran bisogno di parlare): «Ti faccio un esempio: da
quando all’università statale Alfredo Galletti - che è forse il maggior critico
della vecchia scuola - ha lasciata vacante la cattedra d’italiano, tutti insistono
perché concorra Apollonio, capisci? Per la sua fama, e perché ha più titoli
d’ogni altro. Ma lui per fortuna non intende abbandonare la Cattolica.»
«E così alla fine sei andato a trovarlo?» ripeté ora Ambrogio.
«Sì, però non all’università, a casa sua. C’erano già in visita Grassi e Stre-
hler, li hai sentiti nominare?» E a un cenno negativo dell’altro: «Sono due pa-
titi del teatro, della nostra età o poco più anziani. Hanno addosso una febbre
per il teatro che fa impressione. Insieme ad Apollonio - che quando parla di
teatro con loro, sembra quasi un ragazzo anche lui - vorrebbero metter su qui
a Milano un teatro stabile o qualcosa di simile. Chissà se ci arriveranno però.
Gli ci vuole un mucchio di soldi.»
S’incupì un poco: “Sempre i soldi, i maledetti soldi” pensò, e fece una smor-
fia. Da qualche tempo per la verità (da quando il vicerettore del suo collegio -
quel ‘Clero Indigeno’ che anche noi conosciamo - gli aveva trovato lavoro co-
me supplente in un istituto privato di Milano) la sua situazione al riguardo
s’era fatta un po’ meno precaria, tanto che si era potuto comprare un abito,
quello che indossava ora. Di più: da un certo tempo in qua, da quando cioè
erano state fissate per il prossimo 18 aprile le elezioni generali, i problemi
economici stavano di nuovo passando in secondo piano per tutti: perché era in
gioco la sopravvivenza dell’appena conseguita libertà, e forse per molti la vita.
«Beh, cosa t’ha detto in sostanza Apollonio?»
«Non è soltanto un maestro, è un signore. Mi ha accolto molto bene. Per
quanto concerne i miei programmi per il futuro però...» Michele tentennò la
testa: «Ha detto in sostanza che devo fare la mia strada da solo. Dobbiamo
rimanere amici, questo assolutamente, e m’ha invitato ad andare da lui tutte
le volte che credo, però non al modo dei suoi assistenti e degli altri del suo gi-
ro. Perché secondo lui io non posso che sviluppare da me le mie tecniche
espressive, e anche... Beh, così. Ha detto che non devo far gruppo con nessu-
no, neanche con lui.» Il giovane strinse perplesso le labbra.
«Non capisco. Sei contento o no?»
«Non lo so. La mia prima reazione è stata di superbia, puoi ben immaginar-
lo, inquinati come siamo dal peccato originale...»
Ambrogio si mise a ridere.
«Perché ridi? Non è forse così?»
«Non dico di no. Solo che tu lo dici come potresti dire che lì davanti a noi
c’è quel camion.»
«Infatti.»
«Va bene, continua.»
«Beh, dopo quella superbia peccaminosa» Michele sorrise a sua volta «mi
ha preso, devo dirti, una certa preoccupazione, e questa m’è rimasta, ce l’ho
ancora adesso. Perché io sono davvero un isolato, capisci? Del tutto fuori
dell’ambiente, e senza i più elementari accorgimenti del mestiere... Però non è
tanto questo. Se tu d’un’idea che hai in testa parli con altri, con gente davvero
in grado di parlarle voglio dire, sai quanto tempo eviti di perdere? Non soltan-
to gli altri possono aggiungerti qualche cosa, ma la tua stessa idea ti si fa più
chiara, ti si costruisce.»
«Capisco.»
«Beh» concluse Michele «resta il fatto che potrò sempre parlarne con Al-
ma.»
«Con Alma? Cosa stai dicendo? Del tuo lavoro? Ma se è una... bambina. È
intelligente, sono d’accordo, ma in che modo vuoi che t’aiuti?»
«Sbagli» esclamò reciso Michele. «Parlare con lei è un po’ come fare
l’esame d’un progetto davanti a... per esempio a una di quelle pitture del Tre o
del Quattrocento; ciò che nel tuo progetto è inutile o sbagliato cade da sé, per
inconciliabilità voglio dire. Insomma il solo fatto che lei è com’è, ti aiuta
enormemente. Mi sono spiegato?» Davanti alla tacita resistenza dell’altro, Mi-
chele finì con l’annuire a sé stesso, approvandosi in silenzio, come usava fare
in prigionia.
«Accidenti però, che cotta» osservò Ambrogio. «A che punto ti sei ridotto,
povero Michele. Sia ben chiaro che io non c’entro» continuò ridendo: «Io della
tua cotta per Alma non ho la minima responsabilità.»
Erano arrivati in piazza della Scala. Secondo avevano preventivato vi par-
cheggiarono agevolmente la macchina, e raggiunsero a piedi la vicina sede
provinciale della Democrazia Cristiana, dove Ambrogio doveva ritirare del
materiale.
II
CAPITOLO TERZO
Nel vecchio palazzo di via Clerici in cui era insediato il partito c’era a
quell’ora un notevole andirivieni di gente: impiegati e operai, ma anche stu-
denti, che al termine della loro giornata lavorativa, prima di tornare in provin-
cia passavano di qui per incarico delle rispettive sezioni paesane. Alcuni si
portavano via sottobraccio o su una spalla pesanti rotoli di manifesti o pacchi
di volantini e d’opuscoli, altri salivano le scale verso gli uffici per fissare comi-
zi o per ricevere istruzioni, altri ancora scendevano negli scantinati dove il
materiale di propaganda era ammassato.
Scesero anche Ambrogio e Michele il quale, come nuovo del posto, si guar-
dava intorno con curiosità. Negli scantinati manifesti e volantini erano accata-
stati dovunque; in un grande locale delimitato su un lato da transenne, si
scorgevano alle pareti numerosi cartelli coi nomi dei comuni, e davanti ad
ogni cartello, sul pavimento, il materiale destinato a quel comune già assortito
e pronto. Provvedevano alla consegna cinque o sei studenti - quasi tutti muniti
del distintivo dell’Azione Cattolica - i quali facevano capo a un ragazzo pallido
ed efficiente, dai modi molto ambrosiani e col purillo in testa, che tutti chia-
mavano ragioniere.
«Ragioniere» lo chiamò anche Ambrogio, e dopo averlo salutato con un
sorriso: «Il materiale di Nomana per favore.»
Il ragioniere stava in quel momento discutendo con un anziano operaio; lo
lasciò per avvicinarsi ad Ambrogio, pareva seccatissimo.
«Che succede?» gli chiese Ambrogio: «Qualcosa non va?»
«Non va che un incosciente di Limito s’è portato via i manifesti destinati a
Cernusco» disse il ragioniere (doveva essere diplomato da poco, non poteva
avere più di diciotto o diciannove anni): «così l’incaricato di Cernusco se la
piglia con me.» Protestò: «Lo vedete cosa mi combinate con la vostra fretta? È
mai possibile che un giorno sì e un altro sì, debbano succedere di queste co-
se?»
«Mi spiace» disse Ambrogio.
S’era avvicinato anche l’anziano operaio: «Dai ragioniere» perorò in dialet-
to: «faccia il bravo. Di manifesti ne avete qui a montoni, non vorrete mica la-
sciare senza Cernusco sul Naviglio.»
«Non sa che quelli di Cernusco» intervenne pure in vernacolo un giovanot-
to di Gorgonzola, ch’era lì accanto: «se lo vedono arrivare senza manifesti lo
prendono e lo intingono (el pùccen) nel Naviglio?»
«Tas lì ti (Taci tu), disgrasiaa de Gurgunsöla» lo rimbeccò il cernuschese.
«Gurgunsöla e Cernusch, tucc famèi» s’intromise, ridacchiando, un altro
che non c’entrava per niente (era - Ambrogio lo riconobbe - d’Incastigo, zona
industriale: per questo definiva in massa ‘famigli’ quelli della pianura agrico-
la).
Il ragioniere alzò gli occhi al soffitto, emise un sospiro, poi entrò in azione.
«Su, non perdiamo tempo» disse; e ad Ambrogio: «Ritira soltanto per Noma-
na o anche per le frazioni?»
«Non so. Se c’è la roba del Raperio me la dia, che passando gliela lascio.»
Uno degli studenti addetti alla distribuzione avvertì però che la roba del
Raperio era già stata ritirata un’ora prima da un tale coi capelli rossi.
«Ah, sì, lo conosco» dichiarò Ambrogio.
«Senti tu, fammi il favore.» Il ragioniere impegnò addirittura lo studente:
«Metti insieme i manifesti per Cernusco. Prendi la tabella e fa le proporzioni
giuste, mica come viene viene.»
«Gli do addirittura anche quelli con lo scheletro?»
«No» gridò quasi il ragioniere. «Quelli del Guareschi cominciamo a distri-
buirli dopodomani, e non prima. Quante volte ve lo devo dire?»
Poi alzò le spalle. «Le porto subito il suo materiale» disse ad Ambrogio.
Coadiuvato da un altro portò il materiale alla transenna: Ambrogio e Mi-
chele se ne caricarono e s’avviarono verso l’uscita. Prima di lasciare il locale
Michele si voltò per un’ultima occhiata: erano tutti volontari quelli che si da-
vano da fare per le prossime, tremende elezioni: gente dei ceti più disparati,
ma in un modo o nell’altro formata - come lui ed Ambrogio del resto -
dall’Azione Cattolica, della quale si respirava qui la particolare atmosfera, pu-
lita e decisamente popolare.
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
***
Michele e Alma avrebbero voluto stare un po’ soli, ma era quasi buio e in
giardino non si poteva ormai più passeggiare. Come entrarono in casa, allo
stesso modo di Giudittina anche gli altri presenti - cioè Pino, Rodolfo, e per un
momento anche Giulia e Francesca, che pure avevano il loro da fare in cucina
- si strinsero attorno al festeggiato. Giulia propose che in attesa della cena egli
riposasse un po’: «Anche soltanto dieci o quindici minuti, è sempre meglio di
niente. Chissà che giornata faticosa hai avuto oggi. La tua stanza è pronta,
perché non ti stendi un po’ sul letto?»
“Non andartene, no, resta qui” invocavano gli occhi di Alma, che tuttavia si
manteneva zitta.
«Grazie, non mi sento stanco» rispose Michele alla madre. Venivano dalla
cucina odori di minestra e d’arrosto, i confortanti odori della vita. “La ‘mia’
stanza” pensò Michele “cioè quella di Manno, che è morto” (gli accadeva anco-
ra, specie nei momenti lieti come questo, di tornare improvvisamente alla sua
esperienza di morte): “lui non li può più sentire questi buoni odori. Chissà”
svagò col pensiero “com’è abissalmente diversa dalla nostra la realtà in cui si
trova lo spirito di Manno in questo momento... Potessimo farci un’idea del
mondo dei morti, del loro modo di essere nell’aldilà! Ma non possiamo. Tanto
per cominciare, nell’eternità non esistono momenti...”
«Vieni» gli disse Alma, tutta contenta ch’egli fosse rimasto con lei «acco-
modiamoci in salotto.»
“Bisogna che nel nuovo libro io parli di Manno” registrò mentalmente Mi-
chele mentre, con gli altri, seguiva la ragazza: “non devo permettere che,
scomparsi noi, il suo ricordo si perda, ingoiato subito dal silenzio, dal ‘racca-
pricciante silenzio.’ ” E tuttavia, anche supponendo che il nuovo libro avesse
avuto successo, per quanto tempo la gente lo avrebbe letto? “Foss’anche per
cento, anche per due o trecento anni, è sempre un’inezia, addirittura un niente
confronto all’eternità...”
«Tra poco arrivano dall’ufficio papà e Fortunato» gli stava dicendo Alma «e
arriverà anche Andrea, sai, l’Andrea Marsavi: vuol farti festa anche lui. Sei
contento?»
Il giovane fermò quasi stupito gli occhi sulla ragazza, sulla sua testa viva,
fragile, sui suoi capelli castani: «Sì, certo» disse, e le sorrise.
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
La cena era al caffè (caffè vero, importato dal Brasile come una volta) e i di-
scorsi al tavolo s’erano frazionati, quando giunse dalla strada un confuso vo-
cio. I nervi di tutti erano tesi: sebbene non mancasse una componente giocon-
da in quel rumore, Ambrogio, alzatosi, anziché aprire una delle finestre che
dalla sala davano sulla strada, si trasferì nel locale attiguo: qui aprì l’unica fi-
nestra e s’affacciò. Era in arrivo una delle squadre di ragazzi addetti
all’affissione dei manifesti; il giovane rientrò in sala e chiamò Michele: «Vieni
a vedere.» Tornarono ad affacciarsi insieme.
I ragazzi venivano avanti motteggiando e ridendo, con alla testa come capo
squadra Saulo, il maggiore dei sette figli dell’autista Celeste (futuro industriale
e futuro sindaco di Nomana, come s’è detto.) Dietro costui avanzava il porta-
tore della scala, con la sua scaletta di appena sei o sette pioli collocata orizzon-
talmente su una bicicletta, nonché un ragazzino più piccolo, pure con biciclet-
ta a mano, che portava appeso al manubrio il secchio della colla. Dietro, coi
rotoli dei manifesti e con pennelli vari e qualche pennellessa ad asta, venivano
gli altri, e in coda alcuni pressoché bambini, i quali seguivano non per lavora-
re ma per gioco, e vociavano allegramente con le loro voci bianche. Il capo
squadra Saulo, piuttosto seccato per quel chiasso, contribuiva a incrementarlo
gratificando ogni tanto la propria truppa di frasi come: «Avanti ragazzaglia
(bagaiéra). - Avanti squadra della buona morte. - Avanti branco di paolotti col
secchio della colla...» Alle quali frasi i più vicini tra i suoi seguaci, in particola-
re il piccolo che portava la colla, gli rispondevano puntualmente: «E tu anche.
- E tu sei il capo. - E tu sei il più paolotto di tutti...» senza perdere una battuta,
finché scorsero due alla finestra e allora azzittirono. «Buona sera dottore» sa-
lutò il capo squadra, e ai suoi: «Alt, ferma qui» ordinò.
Indicò uno spazio sul muro della casa di fronte: «Qui ne mettiamo quattro,
uno di fianco all’altro: due con lo scudo e due con la faccia della Democrazia.»
.
«Ne abbiamo di più col filo spinato» lo avvertì uno dei portatori dei manife-
sti, mentre la squadra si disponeva all’azione.
«Lo so» rispose con voce marcatamente seccata Saulo: «Lo so. Però quelli
v’ho detto che li mettiamo nella strada del circolino comunista. Dai, non per-
diamo tempo.»
Di lì a poco era costretto ad alzare di nuovo la voce: «No, Adeodato, no.
Quante volte devo dirtelo che, per mettere la colla, il manifesto non bisogna
mica stenderlo per terra? Non capisci che così sporchi la faccia della Demo-
crazia?»
«La faccia della Democrazia» sussurrò Michele: «Questo mi piace.»
«Vuoi che scendiamo in strada?» gli propose sotto voce Ambrogio: «Che
facciamo magari una puntata all’oratorio? È là che le squadre fanno capo.»
«È la centrale operativa, vuoi dire?» fece Michele; risero tutt’e due.
«La centrale magari è nella sede del partito. Beh, possiamo, se credi, passa-
re anche da quella, si trova giusto sulla strada per l’oratorio. Per te sarebbe
un’esperienza, no?»
«Ma... e qui? Vorresti piantare in asso la compagnia?» Era evidente che
pensava soprattutto ad Almina, che gli dispiaceva, separarsi da lei; nel con-
tempo però l’occasione di vedere coi propri occhi come si svolgeva in paese la
battaglia elettorale l’attirava.
«Forza» disse Ambrogio: «Ormai la cena è finita e non staremo mica via
molto. In mezz’ora siamo di ritorno.» Riaccostò le persiane.
«Massa di deficienti» si sentì fuori la voce di Saulo: «Avete rovesciato il
secchio della colla. Disgraziati. Adeodato, sei stato tu, eh?»
«No» si sentì la voce d’Adeodato rispondere: «è stato quell’impappinato di
Beniamino.»
CAPITOLO OTTAVO
La sede del partito - con la sua brava targa fuori - era nella stessa via Man-
zoni, poco prima dello sbocco in piazza. Coincideva con la bottega d’un orolo-
giaio d’Incastigo il quale - poiché l’utilizzava soltanto il mercoledì, giorno di
mercato - non aveva avuto difficoltà a subaffittarla per gli altri sei giorni della
settimana al partito. Nel suo interno c’erano poche mensole da esposizione e
un paio di piccoli armadi con gli stipetti tenuti rigorosamente vuoti, nonché
un certo numero di sedie impagliate, portate qui dall’oratorio. In un angolo
stava accatastato, su sedie e anche per terra, del materiale di propaganda:
Ambrogio riconobbe alcuni dei pacchi di volantini ritirati da lui e da Michele
quel giorno a Milano.
Nel locale si trovavano in quel momento sei o sette iscritti, tutti operai, che
conversavano seduti in circolo: salutarono i due giovani in modo cordiale, ma
senza alzarsi in piedi, alla maniera indipendente e magari un po’ inurbana dei
briantei.
«Così questa sarebbe la centrale operativa?» disse Michele, tornando al
precedente scherzo.
Ambrogio annuì con un sorriso: «A noi va bene.» E rivolto agli altri: «È ve-
ro o no?», poi a Michele: «Dai, sediamoci un momento.»
Sedettero, mentre tutti spostavano le loro sedie in modo da includerli nel
circolo. Ambrogio si rivolse a uno dei presenti, un tipo biondastro di mezz’età,
dal collo taurino: «Renzo, per il materiale le squadre dei ragazzi fanno capo
qui o all’oratorio?»
«Fanno capo un po’ dappertutto» gli rispose in dialetto l’interpellato, e an-
nuì ilare.
«Per i manifesti vengono qui» precisò, pure in dialetto, un altro «mentre
per la colla - siccome l’ha preparata il figlio del cartolaio, che è il tecnico
dell’articolo - vanno alla cartoleria.»
«Ah, bene.»
«Ha sentito che fiera, eh?» disse l’operaio biondastro a Michele: «Ci sono
anche tre dei miei figlioli nel mazzo.»
«Questo» lo presentò allora Ambrogio a Michele «è il Renzo Crippa, il vice
segretario.» E a Renzo: «L’ho appena visto infatti uno dei vostri figli: Adeoda-
to.»
L’operaio annuì sorridendo: «È piccolo, ma...» (intendeva: ma si arrangia la
sua parte.)
«Eh!» convenne Ambrogio. «Beh» disse poi, con l’aria di fare punto e a ca-
po, «si può sapere di cosa stavate discorrendo?»
«Se lo può immaginare anche lei di cosa stiamo discorrendo» gli rispose
Renzo: «delle elezioni. Per forza.»
«Questo si sa» esclamò spalancando le mani un terzo operaio, giovane, coi
capelli neri, molto corti.
«Che fantasia, vero?» fece un ometto curvo e bianco, si trattava di Felice
(Felizìn): «Ma ormai è così: non si riesce quasi a parlare d’altro.»
«Qui a Nomana comunque siete sicuri di spuntarla, no?» osservò Michele.
«Beh, Nomana non è un problema» ammise Felice.
«Però non dobbiamo dormirci sopra» intervenne uno che finora non aveva
parlato, d’età non facilmente definibile, dal viso sottile, i lineamenti delicati.
Ambrogio lo presentò a Michele: «Questo è il Pio Cavenago. Ha un figlio
che studia da prete.»
Il Cavenago annuì compostamente.
«Si capisce che non dobbiamo dormirci sopra» disse il giovane dai capelli
corti: «perché i rossi, loro, lavorano. E come.»
«Però è incredibile...» Il vice segretario Renzo si rivolse ad Ambrogio con
aria interrogativa: «Lo sa che tra i rossi adesso ce n’è tanti convinti, ma pro-
prio convinti, di vincere? Non dico di vincere qui a Nomana, si capisce, ma in
Italia. Dovrebbe sentirli.» «Più che altro sono quelli che lavorano a Sesto» af-
fermò Felice: «È là che gl’imbottiscono la testa a quel modo.»
«Però è strano» insisté Renzo, sempre guardando in modo interrogativo
Ambrogio, «che siano così convinti.»
«Mah...» gli rispose Ambrogio: «Ragioni fondate non ne possono avere. In
fin dei conti queste non sono le prime elezioni che facciamo. Si saranno lascia-
ti convincere dalla loro stessa propaganda, non credo ci sia altro.»
«Speriamo. Perché guai se no» mormorò il Renzo Crippa. «Meglio la morte
piuttosto.»
Michele lo considerò interessato: era un operaio al pari degli altri, a diffe-
renza degli altri anzi indossava ancora la giubba da lavoro di tela. Perché par-
lava a quel modo? Cos’era a determinarlo? Soltanto motivi religiosi, oppure...
«Il dottor Ambrogio qui, e il Tito Valli, vi hanno riferito come stanno le cose
in Russia, eh?» si provò a saggiarlo.
Renzo annuì. «Lei conosce il Tito Valli, quel povero tapino in croce?» chie-
se.
«Certo che lo conosco» rispose Michele, «eravamo insieme in prigionia.»
«Ah. Allora anche lei è un miracolato. Beh, sì, ci hanno spiegato ogni cosa.
E anche Luca del resto. Lei lo conosce il Luca Sambruna, il nostro segretario
di sezione? Era in Russia anche lui.»
«Alpino, gavetta grande» precisò quello coi capelli corti.
«Conosco Luca, sì.»
«Ecco. Lui ogni tanto ci racconta cos’ha visto, anche ieri sera ne ha parlato»
disse Renzo. «Ma per me, più che queste cose... Vede, io ho quattro figli. Quel-
lo che mi fa veramente paura, del comunismo, è che ti ruba i figli. Non dico
che se vincono le elezioni ce li porteranno via materialmente. Questo in Italia
potrà accadere e non accadere, e per i miei almeno, che sono figli d’operaio,
non credo che accadrà: però gli cambieranno la testa, ecco il punto. Perché noi
del popolo» continuò, sempre in dialetto «non possiamo competere con una
propaganda come la loro, anche se comprendiamo bene che è sbagliata: ab-
biamo fatte a malapena le elementari noi. Gli pompano ogni giorno la testa e...
So io quello che dico. Insomma succederà dei nostri figli - per fare un esempio
- come di quei ragazzi che vanno con le cattive compagnie, sapete, con gente
che gli volta la testa: poi finiscono col non ragionare più come gli altri della
famiglia. Ce l’ho giusto sott’occhio un caso simile. Si disaffezionano e... In-
somma a questo modo uno i suoi figli li perde. E io i miei non intendo perder-
li. Per niente al mondo.»
Michele annuiva (“Per i proletari il maggior bene è la prole... Del resto an-
che mio padre, per non rischiare di perdermi, non mi ha forse fatto studiare in
un collegio che gli assorbiva due terzi del suo assegno di mutilato?”)
«Beh dai, adesso non facciamo i pessimisti» s’intromise Pio, con l’intento di
sdrammatizzare: «I rossi non ce la faranno, perché di gente con la testa sulle
spalle in Italia ce n’è ancora tanta ma tanta. E poi abbiamo la chiesa, no?»
«Contrordine compagni» recitò a questo punto il più giovane dei presenti,
sui diciassette anni, aprendo la bocca per la prima volta: «la frase dell’Unità:
‘Tutti i compagni devono avere in testa il pitale’ contiene un errore di stam-
pa, e va letta: ‘devono avere in testa il Capitale’».
«Cosa vuol dire?» chiese sorpreso Michele ad Ambrogio.
«È una delle vignette del ‘Candido’ di questa settimana, sai, il giornale di
Guareschi; anche qui a Nomana è molto letto.»
Gli altri ridacchiarono, Renzo motteggiò allora in maniera più popolana:
«Martell e scighezz, e ’l popul de mezz.» L’atmosfera, con disappunto di Mi-
chele, si andava facendo convenzionale.
«E Luca?» propose, passando ad altro discorso, Ambrogio: «Come mai sta-
sera non è qui in sede?»
«È uscito poco fa per dare un’occhiata alle squadre.»
«Ha detto però che sarebbe passato prima dall’oratorio, per intendersi con
don Mario» precisò Felice. «In questo momento dovrebbe trovarsi là.»
«Cosa? Don Mario?» esclamò Michele, e ad Ambrogio: «Esiste dunque an-
cora don Mario?»
«Altro che se esiste. E sta più che mai sulla breccia.»
«Sì» disse Pio «è uno che non dorme. È un prete vero don Mario.»
A tali parole gli altri assentirono, con evidente rispetto.
«Lo vuoi vedere?» chiese Ambrogio. «Se lo vuoi vedere dobbiamo spicciar-
ci» consultò l’orologio, «perché fra un quarto d’ora l’oratorio chiude. Vuol dire
che qui in sede ci possiamo se mai tornare dopo.»
«Vorresti portarmi all’oratorio?»
«Su, vieni; qui ci possiamo tornare dopo.»
I due s’alzarono in piedi, salutarono la piccola brigata e uscirono. «Però...»
osservò Michele: «avevamo appena cominciato a discorrere.»
«Davvero ti interessano questi discorsi?» fece perplesso l’altro. «Può darsi,
sì; io ci sono talmente abituato che... Beh, tra poco l’oratorio chiude: al ritor-
no, se credi, possiamo fermarci qui di nuovo.» E dopo una pausa: «Io mi face-
vo scrupolo di non tenerti troppo tempo lontano da... da casa.»
Michele gli batté col palmo della mano sulla schiena.
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
Dichiaratosi Michele d’accordo, anziché tornare sui loro passi i due amici
seguirono per tornare a casa un percorso che passava davanti al circolo Gari-
baldi, sede dei rossi. Del quale però poco poterono vedere, perché era in una
casa dalle finestre piuttosto alte sul livello stradale; soltanto si scorgeva, ac-
canto al suo ingresso una targa, illeggibile al buio.
«Cosa c’è scritto?» domandò Michele, che nel passare aveva, senza fermar-
si, cercato di decifrarla.
«Qualcosa come circolo proletario Garibaldi. In fondo si tratta d’un’osteria
uguale alle altre.»
Il passaggio dei due fu notato all’interno da un frequentatore, che si trovava
per caso vicino a una finestra.
«Cosa vogliono quelle due carogne?» esclamò costui. Si trattava del Mara-
sca, un operaio che faticava a conservarsi nella condizione operaia, sempre
pieno di debiti e nel rischio di finire barbone.
Da un tavolo a pochi passi il Foresto alzò gli occhi interrogativo.
«Cosa vogliono quelle due carogne?» ripeté allora a voce più alta il Mara-
sca.
Il Foresto cessò di scozzare le carte: «Cosa c’è?» domandò.
In luogo di rispondere il Marasca fece schioccare la lingua con disapprova-
zione.
«Allora?» gli chiese severo il Foresto.
Il Marasca, tenuto a dare una spiegazione, non sapeva come concretare in
parole il proprio allarmismo, tanto più che Ambrogio e Michele, senza accor-
gersi di niente, erano ormai andati oltre. «Sono passate di qui due facce di
merda» dichiarò infine.
Sèp, che sedeva allo stesso tavolo del Foresto, dopo avere scambiata
un’occhiata con lui si alzò svelto in piedi, andò alla finestra, scostò una tendi-
na e guardò fuori. «È l’Ambrogio Riva con un suo compagno... uno che mi
sembra d’avere già visto in paese» disse; lasciò ricadere la tendina e tornò al
tavolo.
«Allora si tratta dei tuoi amici, eh?» osservò il Foresto riprendendo a me-
scolare le carte.
Per tutta risposta Sèp pronunciò una mezza bestemmia. (Non era più co-
munista, i discorsi di suo cugino Tito e la quotidiana angoscia di sua madre
non erano rimasti senza effetto su di lui, che aveva concluso col passare ai so-
cialisti. Del che al principio il Foresto e gli altri comunisti s’erano irritati; da
un certo tempo in qua però, visto che in queste elezioni comunisti e socialisti
si presentavano insieme, il corruccio era stato accantonato. Non al punto, tut-
tavia, che all’occasione non si concretasse in qualche punzecchiatura.)
«Veramente non è con questo Riva, non con l’Ambrogio, che io in val
d’Ossola ho fatto il partigiano sul serio» dichiarò Sèp dopo essersi seduto, but-
tando così in faccia all’altro il suo passato di partigiano fasullo.
Il Foresto incassò senza ribattere.
«Ma io dico: cosa ci vengono a fare gli industriali nella nostra strada?» in-
tervenne a questo punto con acredine il Pollastri, che sedeva in bretelle a un
tavolo vicino.
«A fare due passi, perché no?» gli rispose il Foresto.
Seguì una pausa.
«Fan bene gli industriali ad andare a spasso finché possono» concluse,
sempre in dialetto, il Foresto: «perché tra poco chissà se potranno circolare.»
Erano frasi come questa che alimentavano nei suoi seguaci la speranza di
un ribaltone autentico, malgrado tutto.
«Io...» disse allora il Marasca, che s’era avvicinato al suo tavolo, ma non
proseguì.
«Tu cosa?» fece con durezza il Foresto. «Hai forse ancora in mente la mac-
china sport?»
Gli altri, seduti al tavolo con le carte in mano, ridacchiarono a fior di labbra:
quell’idiota del Marasca era andato in giro a dire che dopo vinte le elezioni, al
momento della ‘spartizione’, la Millecento nuova dei Riva se la sarebbe presa
lui. L’aveva detto e ripetuto un sacco di volte, da quell’ignorante che era, susci-
tando in non poca gente anche del popolo timore per i propri beni, tanto che il
Foresto era dovuto intervenire ingiungendogli di smetterla.
Disse ora: «E chi porteresti a spasso con la macchina sport, dì un po’: forse
quel bell’arnese di tua moglie?»
Più d’uno intorno sghignazzò, perché la moglie del Marasca - donna poco
intelligente e, per la sua inettitudine, causa principale della miseria di lui - era
anche singolarmente brutta.
Il Marasca si scostò dal tavolo del Foresto bestemmiando; in qualsiasi am-
biente si trovasse, lui finiva sempre con l’essere maltrattato! La vita non era
generosa con lui...
CAPITOLO UNDICESIMO
Quando Ambrogio e Michele entrarono in casa, Andrea era ancora là, felice
per la vicinanza della sua Francesca. «Avete scansata la recita del rosario, eh,
voi due?» li rimproverò accogliendoli con viso ridente.
«Se vuoi, possiamo recitarne subito un altro» propose per scherzo Ambro-
gio.
«Ma certo, è una buona idea» gli s’aggiunse Michele.
Andrea fece segno di no con la testa, atteggiando il viso a spavento, poi si
girò verso Francesca e le sorrise.
All’udire la voce di Michele Alma - che stava rigovernando in cucina - si tol-
se prontamente il grembiule colorato e accorse in sala: fece accomodare il
neolaureato al tavolo, e sedendo con gioia accanto a lui: «Cos’hai visto di
straordinario?» gli chiese.
“Peccato non sia qui anche Fanny” pensò ancora una volta Ambrogio.
La conversazione si riaccese; Giulia servì un liquore, più tardi Francesca ne
servì un secondo. Alle undici (suonate alla pendola sul mobile copricalorifero,
i cui rintocchi Michele ascoltò trasognato, mentre gli tornavano in mente i rin-
tocchi del campanile e i suoi pensieri di qualche ora prima) Andrea si levò con
evidente dispiacere in piedi e prese congedo. Giudittina era già andata a dor-
mire, così pure Rodolfo (dopo avere - al suo rientro - riferito a pezzi e bocconi
le imprese della squadra manifesti).
Più tardi, era quasi mezzanotte: «Ci ritiriamo anche noi» comunicarono
Gerardo e Giulia. Giunti che furono alla porta della sala, Giulia si voltò: «Voi
non vi sentite stanchi?» chiese. «Tu specialmente Michele, che oggi sei passa-
to per tutta quella trafila?»
Michele non sembrò afferrare bene la domanda: mezzo intontito, si limitò
per tutta risposta a sorridere alla mater familias.
«Qui ci cacciano via» gli disse allora Ambrogio, anch’egli ormai desideroso
di riposo: «Sarà bene che ci decidiamo.» E all’altro, che seguitava a non reagi-
re: «Dai, con la tua Almina ci potrai passare l’intera giornata di domani,
dall’alba al tramonto.»
«Sciocco» si risentì un poco Alma.
Salirono tutti al piano superiore. Si congedarono con ripetuti e assonnati:
«Buona notte - A domani allora - Buona notte». Ciascuno entrò nella propria
stanza.
***
Mentre, seguitando a ciondolare, Michele faceva gli abituali piccoli prepara-
tivi per la notte, gli tornava in mente il campanile di Nomana a cui - come ab-
biamo detto - l’avevano poco prima riportato i rintocchi della pendola. Non
più sviato dai discorsi degli altri, se lo immaginò con maggior evidenza cir-
condato dalla guerra civile: ecco, c’era gente che sparava dalla cella campana-
ria e dal tetto della chiesa, altri, stesi a terra, gli sparavano furiosamente con-
tro dai margini della piazza; più indietro squadre di rossi erano in giro per i
quartieri a imprigionare gente; gli americani non si vedevano, chissà
dov’erano; i rossi entravano nelle case, anche in questa dei Riva entravano,
che però - meno male! - era deserta, perché Ambrogio e i suoi fratelli erano
fuori coi loro mitra a combattere. Almina non poteva comunque essere lonta-
na: forse stava in qualche cantina con altre donne del paese, e i rossi avrebbe-
ro potuto prenderla se i nostri - sempre poco propensi a far fuori il prossimo,
a uccidere -fossero stati sopraffatti. La fervida fantasia gli prospettò la sua
Alma trascinata via dai rossi: com’erano bestialmente felici d’aver messe le
mani su una ragazza così, loro, i più grandi assassini e deportatori della storia,
oggettivamente più micidiali - ad onta di tutto il loro umanitarismo di parten-
za - degli stessi nazisti.
Immaginò i comunisti che costringevano Alma su un letto o sull’erba e...
L’avevano fatto con innumerevoli altre donne prima di deportarle: perché non
avrebbero potuto farlo anche con lei? “Beh, basta, piantala di fantasticare.
Smettila una buona volta.” Lui l’avrebbe smessa, va bene: però a quanti milio-
ni di donne tra russe, romene, polacche eccetera, questo non era accaduto nel-
la realtà? “E anche adesso, anche in questo momento, mentre io son qui che
mi preparo a dormire, a quante starà succedendo in Grecia? E più ancora in
Cina, dove ormai i comunisti sembra stiano vincendo la partita? Chissà a
quante! Dio mio! Dio, Dio, aiutale tu!”
Batté ripetutamente le palpebre, inspirò una gran boccata d’aria, poi si
guardò intorno nella stanza pacifica e ben ordinata ch’era stata di Manno.
“Cerca di piantarla davvero” si disse “o va a finire che ti carichi d’adrenalina al
punto che non riesci più a dormire”.
Terminati i pochi preparativi si fece il segno della croce e recitò una pre-
ghiera; quindi, infilatosi tra le lenzuola odorose di pulizia, spense la luce.
Chissà se anche in Italia si sarebbe arrivati davvero a una tale orribile situa-
zione? Forse, dopo tutto, i comunisti italiani non erano così succubi della dot-
trina, con le teste così totalmente ‘alienate’ come quelli dell’est... Certo se pen-
sava a quel disastroso Robotti incontrato durante la prigionia... Gli venne però
in mente che a Susdal aveva visto e ascoltato anche Togliatti, il segretario del
partito. Già, Togliatti... La sua faccia grassoccia, da professore con gli occhiali
e la cravatta sempre un po’ storta, che i giornali dovevano poi rendere così no-
ta, lui l’aveva vista in anteprima a Susdal, dove il segretario comunista aveva
tenuto una concione ai prigionieri. Della concione Michele ricordava quasi
soltanto la punteggiatura di bestemmie. La Russia era, si può dire, il paese
delle bestemmie: ciononostante quelle d’un individuo consapevole come To-
gliatti lo avevano talmente urtato che - contro le sue abitudini - quella volta
s’era con pervicacia rifiutato di prestare attenzione al discorso. Peccato, per-
ché l’uomo - egli s’era reso conto - aveva una personalità originale, che in con-
clusione lui non aveva potuto afferrare. Ma che tipo d’uomo era in realtà To-
gliatti? Un giorno alla Camera, con sorpresa di tutti, era uscito a parlare di
Guido Cavalcanti e del Trecento fiorentino... Michele se n’era indignato, gli
era sembrata una provocazione: “Come s’è permesso? Con che diritto? Uno
come lui il medio evo, il nostro bel medio evo cristiano, lo deve odiare e ba-
sta”. Un’altra volta era arrivato a paragonare il ministro dell’interno Scelba
al... a... come si chiamava? insomma a un oscuro ghibellino del Tre, no forse
del Duecento: uno che Michele - con tutta la sua passione per quell’epoca -
non aveva mai sentito nominare. Che individuo strano Togliatti! “A rigore, se
conosce davvero la realtà medievale, non può essere nel suo intimo succube
dell’ideologia al modo degli altri. Del resto già a Susdal l’avevo notato che un
bovide non è... Ma basta! Chissà se, come dicono, s’è davvero preso per com-
pagna quella ragazza dell’università cattolica...” Ch’era poi la Nilde, nienteme-
no, quella con la parlata emiliana e la fronte a bauletto, che da matricole lui e
Ambrogio avevano incontrata durante le loro incursioni nella facoltà di lette-
re. “Però, com’è piccolo il mondo!”
A ogni modo anche Togliatti e i comunisti erano soltanto dei mezzi - non
dimentichiamolo - semplici strumenti di castigo, di contrappasso alle colpe
degli uomini. Se lui - sebbene semicotto - voleva in questo momento affronta-
re con serietà il problema d’un’eventuale guerra civile, era da qui che doveva
partire: dalle colpe degli uomini, di tutti i componenti la società italiana... Nel-
la guerra appena finita i morti italiani non erano stati - relativamente parlan-
do - molti: secondo gli ultimi computi da quattro a cinquecento-mila, inclusi i
civili vittime dei bombardamenti e i caduti nella lotta tra partigiani e fascisti.
Ragionando a freddo non molti, se confrontati con le ecatombi di altri paesi
(la Russia e la Germania in particolare). Si poteva pertanto presumere che -
nei misteriosi equilibri della ‘società dei santi’ - da noi si fosse fatto sentire in
modo massiccio il peso appunto di tutti i nostri santi, dall’interminabile
splendida schiera che va da Francesco, Tomaso, Caterina, e gli altri del medio
evo (chissà come Togliatti li giudicava) giù giù fino ai più recenti: a don Bosco,
al Cottolengo, a don Orione (“don Orione, figlio d’uno scalpellino...”) e al vi-
vente padre Pio. Dovevano inoltre avere fatto sentire il loro peso anche i santi
per così dire impropri (“ci esprimiamo un po’ a spanne, eh Michele?”) cioè
tutta la brava gente di ieri e di oggi, come don Mario, e Luca, e il Tito Valli, e il
signor Gerardo che si dava senza tregua da fare per creare nuovi posti di lavo-
ro, e quegli operai riuniti là nella bottega dell’orologiaio trasformata in centra-
le operativa (anche se di questo c’era un po’ da ridere), e tutti gli innumerevoli
buoni padri e madri di famiglia, e le monache di clausura e i frati contemplati-
vi, i quali spendono ogni loro giorno ed ora proprio in questo: nel cercar
d’espiare davanti a Dio, con le orazioni e la penitenza, anche i peccati degli
altri. Insomma il punto era di sapere se, nell’equilibrio della ‘società dei santi’,
i meriti di tutti costoro sarebbero riusciti ancora una volta a compensare le
colpe complessive. “Vent’anni fa, dopo l’altra guerra, l’insurrezione rossa in
Italia si è potuta evitare: ce la faremo anche adesso che non c’è più il fasci-
smo?” O invece stavolta sarebbe iniziato anche per l’Italia un periodo
d’abbandono da parte di Dio, la condizione terrificante di cui lui era stato te-
stimone là all’est?
Il sonno l’andava pian piano sommergendo. Già, ma personalmente cos’è
che faceva per aiutare la comunità? Quella comunità di cui era parte anche la
sua Alma? Aveva scritto il libro, va bene, va bene, ma non poteva proprio fare
altro? Adesso che s’era tolto gli esami dai piedi (all’idea d’essere finalmente
laureato sperimentò ancora una volta un senso di liberazione), adesso...
avrebbe anche potuto tenere, per esempio, delle conferenze, parlare... Ecco, sì,
certo... Sarebbe andato là, alla sede provinciale del partito, da quel ragioniere
col purillo... e gli avrebbe proposto... Il sonno finalmente lo sommerse.
Sognò il ragioniere col purillo che accettava tutto contento la sua offerta di
tenere conferenze sul comunismo, poi sognò il suo amico cappellano padre
Turla, il quale invece gli faceva la faccia scura: «Perché» diceva in bergamasco
«quando hai fatto la lista dei santi ‘impropri’ di me non ti sei nemmeno ricor-
dato, e te ne sei strafottuto completamente.»
***
A distanza di anni possiamo presumere che il meccanismo salvifico della
‘società dei santi’ stesse in quel tempo effettivamente esplicando la sua azione.
Possiamo presumere che il nuovo grande bagno di sangue non abbia avuto
luogo perché i meriti hanno pesato più dei demeriti nella società italiana
d’allora. La quale era sì - per quanto a noi è dato vedere - gravemente imper-
fetta, ma tutto sommato pulita, e non ancora ‘affrancata da Dio’ secondo gli
schemi laicisti, né infognata nei peccati della carne, come sarebbe stata in se-
guito.
Siamo - è chiaro - nel campo delle intuizioni, e una realtà finché è solo in-
tuita, rimane indimostrata: tuttavia noi riteniamo che le cose siano andate
appunto così. Attraverso quale procedimento storico? Cioè - scomparso il fa-
scismo - attraverso quali altre vie di fatto?
Noi riteniamo proprio attraverso le scelte e l’azione - in sé tutt’altro che
santa, ma risultata poi, nei disegni della Provvidenza, salvifica - del segretario
del partito comunista Togliatti. Il quale in quei giorni, a onta della sua fami-
gliarità col medio evo, era senza dubbio assai lontano dal rendersene conto.
(In conclusione Togliatti ‘uomo della Provvidenza’, allo stesso modo di Musso-
lini prima di lui? È quel che pensiamo.)
CAPITOLO DODICESIMO
CAPITOLO PRIMO
Circa un mese più tardi, cioè due settimane dopo le elezioni generali, ci fu il
fidanzamento ufficiale tra Ambrogio e Fanny.
Ebbe luogo di domenica. Il giovane scese a Milano con la Millecento sporti-
va, portando con sé, dentro un piccolo astuccio di raso, l’anello per la fidanza-
ta: intorno al gioiello e all’immagine di Fanny (Fanny che gli avrebbe aperto
esultante la porta di casa, Fanny dagli occhi verdi dolce-ridenti, Fanny che
ammirando l’anello piegava vezzosa la testa dai capelli tagliati alla paggio)
giostravano lieti i suoi pensieri, accordandosi in baldanza al ritmo del motore.
L’attraversamento dei paesi - coi muri ancora tappezzati di manifesti eletto-
rali, e coi lunghi striscioni di tela degli slogans sospesi a funi ormai lasche so-
pra le strade - distraevano però ogni tanto la sua mente dall’attesa gioiosa per
riportarla alle elezioni, e più in particolare ai commenti fatti la sera prima a
Nomana. Gli si prospettavano certe frasi di Michele, che era letteralmente
elettrizzato dalla grande vittoria del partito d’ispirazione cristiana. «Ce ne
rendiamo conto o no?» aveva detto all’incirca: «In tutta l’Europa libera i po-
poli stanno affidando la direzione delle cose ai cristiani: è successo in Francia,
in Belgio, in Olanda, in Germania, perfino in Germania! e adesso anche in Ita-
lia. Ci rendiamo conto che questo non accadeva più da secoli? E cosa significa?
Che la gente, dopo aver sperimentato i bei risultati a cui conducono le altre
strade, ha finalmente capito che solo da Cristo può venire la salvezza: anche
nell’ordine politico.» E ancora: «Dobbiamo ringraziare più d’ogni altro il pa-
pa: raramente nella storia della chiesa un pastore è stato così all’altezza della
situazione, così valido nell’indirizzare il gregge.» Michele aveva anche, im-
pressionando un po’ tutti, sottolineato: «Per noi cristiani questa è
un’occasione enorme: si presenta, precisamente a noi, della nostra generazio-
ne, la possibilità di bloccare la frana della civiltà verso il disastro. Adesso la
possibilità d’evitare che l’Europa intera si trasformi in un’immensa Crinovaia
c’è, esiste veramente.» (Intendeva dire - Ambrogio l’aveva capito - in
un’immensa fossa di cannibali, non solo in senso figurato.) «Su questa possi-
bilità» aveva insistito Michele «noi dobbiamo impostare tutta la nostra azione
futura, che non sarà facile. È un lavoro culturale enorme quello che ci aspetta:
dobbiamo supplire in breve al mancato lavoro d’intere generazioni.» Quando
poi lui, Ambrogio, gli aveva chiesto qualche esempio concreto di ciò che si sa-
rebbe dovuto fare, aveva affermato che, per cominciare, era inammissibile ci
fosse in Italia una sola università cattolica: «Bisogna metterne insieme cinque,
dieci. E come in Italia, negli altri paesi d’Europa.» E s’era messo a parlare di
case editrici, e di giornali, ma a questo punto un po’ tutti erano intervenuti, e
così quel discorso interessante era rimasto a mezzo. Una prospettiva grandio-
sa, comunque, quella del giovane scrittore.
“Beh, arriveremo a realizzarla, vedrai” si disse Ambrogio, cedendo
all’euforia. In quei giorni successivi alla grande vittoria (a Nomana il partito
d’ispirazione cristiana aveva ottenuto il 71 per cento dei voti) ogni cosa sem-
brava possibile. Premette con entusiasmo l’acceleratore.
In Monza, città paolotta, gli sembrò che la gente avesse - e forse realmente
aveva - la faccia più distesa e più allegra del solito.
(Se euforici e come usciti da un incubo erano in quei giorni i paolotti, lo sta-
to d’animo dei loro avversari ci è reso bene dal comportamento del poeta Sa-
ba, secondo lo descrisse più tardi il quasi poeta Vittorio Sereni:
‘E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,
lo vidi errare da una piazza all’altra,
dall’uno all’altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
«Porca» vociferando «porca.» Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.’)
Ma ormai l’incontro con Fanny si approssimava, e le sollecitazioni d’ogni al-
tro ordine raggiungevano sempre meno Ambrogio. Il quale dopo essersi la-
sciata indietro, senza più badare a ciò che lo circondava, anche Sesto, percorse
di buona lena le strade di Milano fino a via Boccaccio, arrestò la macchina da-
vanti al palazzo in cui la ragazza abitava, e salì in ascensore, con crescente im-
pazienza, al suo appartamento.
CAPITOLO SECONDO
La cameriera Ines tornò di lì a non molto per comunicare, sempre con di-
screzione, che il pranzo era servito.
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
***
Per i Riva il felice 1948 fu anche anno di matrimoni: in giugno si sposò
Francesca, nella chiesa di Nomana tutta parata a fiori (Andrea aveva la mania
dei fiori); in agosto si sposò Ambrogio.
Per questo secondo matrimonio la famiglia Riva calò in massa a Milano;
contemporaneamente vi convennero i parenti più prossimi, tra cui le due zie
di Monza che un tempo erano sfollate a Nomana; allo zio Ettore bastò uscire
di casa e avviarsi, coi suoi eterni occhiali a pince-nez bravamente inforcati,
verso la chiesa dove si sarebbe celebrato il matrimonio. Che era san Pietro in
Gessate, scelta da Fanny sebbene non fosse la sua parrocchia «perché mi piace
da morire» (ossia per capriccio: se la sentiva cornice adatta a motivo degli an-
tichi affreschi alle pareti, nei quali alcune figure portavano i capelli tagliati alla
paggio, precisamente come lei. «Intendiamoci eh, noi l’offerta al nostro parro-
co l’abbiamo fatta lo stesso» non aveva mancato di precisare il commendatore
padre). Convennero coi parenti anche gli amici, tra cui - in qualità di testimoni
dello sposo - Michele e Luca, quest’ultimo col nastrino azzurro della medaglia
al risvolto della giacca. Era andato a prenderlo in macchina Celeste: nel breve
tratto fra la Catafame e Nomana i due avevano menzionato il povero Manno,
coetaneo e amico di Luca, che «oggi poteva essere qui a far festa anche lui»;
Celeste aveva ricordato l’ultimo viaggio in compagnia del giovane fino a Pia-
cenza («Io gliel’avevo tanto raccomandato di non esporsi!»), Luca il casuale
incontro con lui nella stazioncina delle Puglie.
La chiesa di san Pietro in Gessate - dominata e come schiacciata
dall’enorme, indigeribile mole del palazzo di giustizia che le sorge di fronte - è
di mattoni, placida, edificata nell’età sforzesca, quando Milano era città
d’acque e di silenzio; il suo pavimento si trova a un livello sensibilmente infe-
riore a quello stradale.
“Il passare del tempo” fantasticava Michele mentre, in chiesa, attendeva la
sposa insieme con gli altri testimoni: “i secoli, guarda, gli anni che passano,
che fuggono via inarrestabili, e di ogni anno cosa rimane? Appena un po’ di
polvere. Quanta? È misurabile...” Fece, in rapporto all’attuale piano stradale,
un calcolo sommario: “Da uno a due millimetri per anno: ecco cosa rimane del
tempo che è stato”. A un tratto vide entrare in chiesa e venire gioiosa verso di
lui Alma, come sempre indicibilmente attraente ai suoi occhi, oggi ancora più
attraente nell’abito nuovo che s’era fatto per l’occasione. “Guarda come un
abito può sottolineare la bellezza d’una donna. È incredibile” si sorprese a
pensare il giovane scrittore. Con Almina accanto i cattivi pensieri non poteva-
no durare, l’idea della caducità delle cose abbandonò la sua mente.
I parenti e gli amici di Fanny - assai meno numerosi di quelli d’Ambrogio -
erano distinguibili da questi non già per le acconciature (anche fra le donne
calate dalla Brianza alcune si servivano in sartorie o boutiques milanesi) ma
per un che di più disinvolto e profano, e di meno ‘compreso’ nel comporta-
mento; erano ad ogni modo, i parenti di Fanny, meno belli dei campagnoli
d’Ambrogio, specialmente i maschi.
Attenendosi alla tradizione, tutti s’erano disposti ad aspettare la sposa
all’interno della chiesa, ciascuno in piedi al proprio posto: lo sposo a pochi
passi dall’altare, accanto a un inginocchiatoio rivestito di velluto rosso e cir-
condato di fiori; dietro di lui, presso le loro poltrone pure drappeggiate di vel-
luto rosso, i quattro testimoni, e in compagnia di Michele finché non fosse in
arrivo la sposa, Alma, trepida come una colombina. I due testimoni di Fanny
non erano giovani come quelli d’Ambrogio; si trattava di due suoi zii, uno pa-
terno, l’altro materno, quest’ultimo (primario medico, nonché «socialista pie-
no di soldi» come aveva spiegato qualche giorno prima, con la solita aurea
spregiudicatezza la Fanny) era un «tipo della haute, molto ammanicato con la
nuova amministrazione cittadina». Non si riusciva a indovinare quale dei due
fosse: erano entrambi sulla sessantina, entrambi forniti in abbondanza di den-
ti d’oro, e con un aspetto in complesso malinconico. Gli altri invitati occupa-
vano le prime panche della chiesa, pure coperte di stoffa rossa e infiorate: le
donne e le ragazze, in abiti da cerimonia delle più diverse fogge e colori, inal-
beravano una quantità di cappellini con gale e nastri, e molte portavano guan-
ti lunghi sugli avambracci nudi; erano combattute fra l’interesse alla cerimo-
nia e quello (in genere vincente) al proprio abbigliamento. Al loro fianco gli
uomini, vestiti di grigio scuro in gradazioni diverse, qualcuno dei campagnoli
coi guanti scamosciati emergenti da una tasca della giacca, attendevano sorri-
dendo un po’ impacciati; sentivano per le acconciature delle loro donne suffi-
cienza e compiacenza insieme. Unico Fortunato - investito dell’incarico di ce-
rimoniere - andava e veniva scompagnato per la chiesa, sorvegliando non sa-
peva neppur lui cosa, ogni tanto chiedendosi quale dei due testimoni di Fanny
fosse il socialista danaroso per cui gli era stato raccomandato d’avere partico-
lari riguardi: “Quale dei due potrebbe essere privo di cervello come un sociali-
sta’?” si chiedeva, da quel liberale polemico che era. Quale fosse il socialista se
lo stava chiedendo anche Pino, però senza polemica: sebbene dai socialisti - a
cominciare da Sèp - egli non avesse ricevuto che calci, gli pareva vagamente,
come ex partigiano, di avere pur sempre qualcosa da spartire con loro.
Dopo la giusta dose d’attesa arrivò Fanny, non inferiore quel giorno per bel-
lezza ad alcuna, coi suoi compatti capelli color castano-dorato e l’abito bianco
dalle maniche aderenti che faceva risaltare la tornita fragilità delle braccia.
Venne avanti con grazia, al braccio del padre, sulla passatoia rossa stesa per
lei nel mezzo della navata centrale. Lo sposo, senza darlo a vedere, se la ri-
guardava con emozione: intendeva conservarsi imperturbabile, il pensiero
però che tra poche ore avrebbe potuto tenere fra le braccia questa splendida
creatura senza esserne separato da alcun velo, lo turbava, gli faceva battere il
cuore. A ventisette anni non aveva ancora conosciuto carnalmente la donna, e
la prospettiva del prossimo amplesso si accompagnava in lui a un senso di mi-
stero, cui andava incontro con conscia potenza virile.
Anche Fanny era turbata in segreto; meno dello sposo tuttavia, e ad ogni
modo non aveva tempo per esaminarsi fino a che punto. «Mamma mia» disse
sottovoce una volta preso posto accanto a lui: «Hai visto mia zia Fiorenza co-
me s’è combinata, che tailleur folle?» E di lì a un po’: «Sapessi Ambrogione
che fatica per convincere papà a non usare la bombetta...» Non riusciva in-
somma a sottrarsi - o forse si faceva un impegno d’essere presente - alle picco-
le cose del momento.
Venne dalla sacrestia all’altare il celebrante don Carlo Gnocchi, il quale do-
po la guerra aveva fondato alcuni collegi per il recupero dei bambini mutilati.
Indossava paramenti bianchi intessuti d’oro, e aveva un bel viso fine; alla vista
del quale Luca sussultò sulla sua poltrona coperta di velluto: ricordò com’era
quel viso ad Arnautovo, durante la terribile notte della battaglia, ispido di
barba e giallo e con gli occhi infossati. Ricordò come don Carlo - inginocchiato
tra i feriti davanti all’isba infermeria - lo avesse riconosciuto nonostante il
buio e benedetto, tracciando su di lui il segno della croce. Dopo c’era stata
quell’uscita pazzesca con Pedrana e gli altri per snidare i russi dalla balca
(“Ora e nell’ora della nostra morte...”), e poi la tremenda marcia verso Nico-
laievca, durante la quale il capitano Grandi era morto mentre i suoi alpini can-
tavano piangendo la canzone...
Le nozze vennero celebrate prima della messa: in procinto di pronunciare il
sì definitivo, il giuramento solenne sopra ogni altro, che l’avrebbe legato per
tutta la vita a Fanny, Ambrogio si esaminò ancora una volta rapidamente -
giusto come aveva fatto prima del giuramento militare - e constatò che agiva
in coscienza e libertà: promise quindi solennemente a sé stesso di rimanere se
necessario a costo della vita fedele a questa creatura che gli stava fiduciosa al
fianco. Fanny non fu così complicata: lei aveva deciso da tempo (prima ancora
di lui), e ora ciò che desiderava sopra ogni cosa era che le ‘formalità’ si conclu-
dessero presto.
Dopo i flash del fotografo, e le letture di rito, e gli altri piccoli adempimenti
cui il celebrante e gli sposi erano tenuti, ebbe inizio la messa. Il punto più sa-
liente della quale fu l’omelia di don Carlo: un augurio straordinariamente
semplice e affettuoso, e senza alcuna ricerca d’effetto, agli sposi: così sentito
che riuscì perfetto; Pino lo registrò, o piuttosto credette di registrarlo, su na-
stro (erano da poco comparsi nei negozi i magnetofoni). Disgraziatamente
l’apparecchio che il giovane - piuttosto maldestro in queste cose - aveva siste-
mato sulla balaustra accanto al sacerdote, sebbene le sue bobine girassero do-
cilmente, non aveva le leve dei comandi nella posizione giusta: così del
bell’augurio spontaneo non rimase registrata una sola parola. (Del che ci si
rese conto solo più tardi, dopo partiti gli sposi: e la cosa più irritante fu con-
statare ch’erano rimasti invece registrati i brindisi farciti di luoghi comuni, e i
discorsetti faticosi, pronunciati poi durante il pranzo all’hôtel.)
Di tutto questo inconscia, Fanny seguì l’omelia standosene seduta, per
esprimerci alla sua maniera, «buonina buonina», e ringraziò alla fine don Car-
lo - che vedeva per la prima volta - chinando mitemente la testa.
***
Non seguiremo i particolari della messa, né del successivo pranzo, di nozze,
minutamente organizzato dalla stessa Fanny in un albergo ‘all’altezza’. Pranzo
durante il quale il testimone medico e socialista ‘ammanicato’ con
l’amministrazione comunale di Milano, snobbò lo studentello in medicina Pi-
no che gli si dava d’attorno; l’importante personaggio fu piuttosto asciutto an-
che con Gerardo il quale - rispettoso come sempre d’ogni autorità, e anche sua
apparenza - gli dimostrava deferente interessamento; invece, non dimentico
della grande tradizione umanistica dei medici italiani, una volta eccitato dal
vino l’ ‘ammanicato’ credé bene di gratificare d’una lezione estetico-letteraria
il suo co-testimone Michele. Che sorbì i luoghi comuni dell’altro con perfetta
impermeabilità di mente, senza battere ciglio.
CAPITOLO SESTO
La cosiddetta luna di miele gli sposi la trascorsero a Napoli e nei suoi incan-
tevoli dintorni, Amalfi, Positano, Capri.
Durante il viaggio di ritorno, eseguito a tappe, fecero sosta a Perugia. Vi
giunsero di sera; la mattina dopo Ambrogio (mentre Fanny pigramente indu-
giava a letto nella luminosa stanza d’albergo, ed era convenuto che sarebbe
poi uscita da sola a fare qualche compera in città) si mise in macchina per far
visita al suo ex attendente Paccoi, che non vedeva dal lontano giorno del rim-
patrio, cinque anni prima.
Pur non essendo particolarmente sensibile alla bellezza, mentre percorreva
le vie di Perugia il giovane industriale avvertiva d’averne intorno parecchia:
non c’era quasi strada o edificio, o anche - a guardar bene - semplice muro,
che non ne mostrasse qualche segno. “Accidenti” egli si disse più d’una volta
“che bella città! Ha ragione Michele quando afferma che Perugia è la più bella
di tutte le città... in effetti nemmeno Firenze è così bella. Chissà com’era la vita
della gente una volta qui, quando sapevano costruire a questo modo...” Né la
bellezza si limitava alle architetture, ma entrava si può dire in ogni cosa: an-
che - egli notò - nei nomi delle strade e delle porte cittadine, i quali non erano
etichette intercambiabili come succede altrove, ma ciascuno (di quelli antichi
almeno) rendeva davvero, con poetica proprietà, gli attributi del luogo che
designava.
I colpi d’occhio a suo giudizio più belli gli vennero incontro allorché rag-
giunse il margine settentrionale della città: qui i colli su cui sorge Perugia es-
sendo particolarmente frastagliati, obbligano le alte mura (non di rado forma-
te da tre strati sovrapposti: etrusco, romano, medievale) a continue sporgenze
e rientranze, tra le quali s’incuneava la campagna con valloncelli d’erba d’un
verde prodigioso e fiori spontanei, oppure con argentee piante d’ulivo. Un
paio di volte Ambrogio arrestò l’automobile per scendere e ammirare. Senza
dubbio cooperavano le circostanze: fatto sta che ogni cosa gli appariva d’una
bellezza inaudita: “Non è pensabile” si diceva in cuor suo “che nel mondo inte-
ro esista un posto altrettanto bello. Io devo assolutamente tornare qui con
Fanny”. (Si sarebbe non poco meravigliato se avesse conosciuto i pensieri di
tanti perugini i quali, mentre andavano per gli affari loro senza la fretta ‘che
l’onestade dismaga’, notando la targa della sua macchina “Fortunato costui”
pensavano, “che vive a Milano: la città delle industrie, dove si può guadagna-
re”.)
La via della Tramontana, non asfaltata, ch’egli imboccò una volta uscito dal-
le mura, lo condusse sempre più a nord nella campagna ben coltivata, tenen-
dosi dapprima alta sulle dorsali (da qui certo il suo nome, da questa posizione
ventosa), poi snodandosi al piede dei colli qua e là coronati sulle cime da nitidi
cerchi di pini a ombrello, oppure risaliti sui fianchi da cipressi in lunghe file o
in piccole folle; i pendii meno erti erano a grano, ulivi e viti, i più erti intera-
mente a ulivi, i quali finivano con l’improntare l’intero paesaggio col loro
mansueto color verde-argento.
La macchina attraversò qualche piccolo paese, percorse un tratto della via
statale Tiberina, fiancheggiata da cipressi e cipresse allineati, e da qualche ca-
sa colonica coi suoi bei pagliai dorati davanti. Il giovane chiese ripetutamente
indicazioni ai contadini, infine imboccò, dentro una forra boscosa, una stra-
dicciola di terra che lo condusse a una larga conca coltivata; qui gli fu indicata,
da lontano, la casa colonica in cui abitava la famiglia di Giovanni Paccoi.
Il quale Paccoi, in quel momento, stava placidamente rompendo con
l’aratro le zolle di un piccolo campo situato poco lontano dalla carrareccia.
Come lo vide, Ambrogio lo riconobbe: pieno d’emozione fece avanzare ancora
un po’ la macchina, fino ad arrestarla dietro alcuni filari di viti che l’avrebbero
nascosta alla vista dell’altro. E senza scendere, ristette a osservarlo. Basso e
robusto, col braccio sinistro un po’ rattrappito per la ferita riportata a Cerco-
vo, il viso impacciato come allora, ma cotto dal sole e un poco più largo, e coi
capelli sudati, l’ex artigliere di Russia seguiva passo passo l’aratro tirato da
due monumentali vacche bianche. Eccolo dunque nel suo ambiente: sempre
più commosso Ambrogio - che a lui era consapevole di dovere la vita - se lo
ricordò com’era sei anni prima: il giorno della visita di Bonsaver per esempio,
impegnato con zelo a far ben figurare la sua piccola mensa (“una cassa coperta
da un tovagliolo, tra due sgabelli!”); oppure mentre, infagottato e con la ma-
schera di ghiaccio sul viso, scarpinava nella ritirata. E la tremenda mattina in
cui lui, Ambrogio, era stato ferito? L’aveva lasciato libero d’andarsene per con-
to suo: “Se m’avesse abbandonato davvero, io sarei morto”; e invece no: «Que-
sto discorso voi non me lo dovete fare, va bene signor tenente? Io so qual è il
mio dovere». Adesso qui, nel suo ambiente umbro, quella risposta d’una di-
gnità così totale Ambrogio se la spiegava meglio. “Giovanni Paccoi” mormorò
“io non ti potrò mai ringraziare abbastanza.”
L’appezzamento che il contadino stava arando era talmente piccolo (forse
destinato a semenzaio) che l’aratro doveva di continuo invertire la marcia:
arrivate al termine della breve tratta le due vacche aggiogate si arrestavano a
una voce dell’aratore e attendevano ch’egli disimpegnasse il vomere dalla ter-
ra; ad un’altra sua voce eseguivano, sbuffando e urtandosi un poco tra loro, un
mezzo giro, e mentre il vomere s’impegnava di nuovo riprendevano lente il
percorso in senso inverso. Il lavoro era quasi senza rumore (solo Paccoi udiva
il brusio della fertile terra che si rivoltava davanti ai suoi piedi), lo accompa-
gnava però da un albero di fico il canto d’un uccello sconosciuto, un canto for-
te e strano, che sembrava rituale.
Il visitatore era incerto se farsi avanti e interrompere un tale lavoro; cosa
che istintivamente gli dispiaceva. A risolvere il problema provvide lo stesso
Paccoi il quale, avendo notata la macchina in arrivo, e non avendola poi vista
sbucare dal tratto di strada mascherato dalle viti, si fermò a una delle inver-
sioni di marcia dell’aratro e facendo solecchio con la mano guardò attento in
quella direzione. Prontamente Ambrogio fece allora avanzare la macchina al
di là delle viti, l’arrestò di nuovo, ne discese e s’avviò a grandi passi verso
l’amico; a questo punto l’uccello - un rigogolo - smise di cantare.
Paccoi - cui Ambrogio aveva preavvisata per lettera la propria visita - lo ri-
conobbe subito, e fece per ‘rettificare la posizione’; poi ricordò di non essere
più alle armi, diede una voce che confermasse le vacche nello stato di sosta, e
abbandonato l’aratro si affrettò verso di lui; a tale mossa il rigogolo si staccò a
precipizio dal fico e volò via sotto il sole: era - Ambrogio fece in tempo a nota-
re - d’un colore intensamente dorato, pareva una scheggia d’oro.
«Giovanni, finalmente ti rivedo, era ora!»
«Signor tenente!» disse Paccoi, ricambiando con il consueto imbarazzo
l’abbraccio del suo ex superiore: «Perché non m’avete scritto il giorno che sa-
reste venuto? V’avria spettato a casa, anzi saria nuto (venuto) a Perugia a
piavve (pigliarvi).»
«Il giorno non ero in grado di precisarlo» gli rispose Ambrogio. «Come stai,
Giovanni? Come va il tuo polso?»
«Bene, signor tenente, ormai va bene.» Sollevò alquanto il braccio offeso, e
fece ruotare nei due sensi la mano: «Dopo tutto quel ch’emo (abbiamo) passa-
to, ringraziamo ’l Signore. E le vostre ferite?»
«Anch’io sto bene, grazie a Dio. L’ho fatta un po’ lunga con gli ospedali, ma
ormai è solo un ricordo. Tanto che mi son sposato, sono in viaggio di nozze, lo
sai.»
«Sì, me l’ete scritto ’n te la lettera.» Paccoi tacque, lui pure emozionato.
«Eh, sor tenente» mormorò «v’aricordate? (ricordate?)» Ambrogio fece ripe-
tutamente segno di sì con la testa.
«Ma io» disse Paccoi, sovvenendosi a un tratto, «v’ho da ringrazià d’una
cosa: de tutti quei regali.»
«Dai, non farmi ridere.»
«Quei due tagli d’abito massemalmente: m’hon fatto proprio comodo sa-
pete?»
«Io ti devo la vita, altro che tagli d’abito» dichiarò Ambrogio, e lo prese sot-
to braccio. «Beh, fammi vedere il tuo lavoro. M’interessa.»
Si diressero insieme verso l’aratro: «Adesso finisci, fai il poco che ancora ti
resta, mentre io aspetto qui. Si sta bene qui, in questa campagna così bella.»
«Ma no, che dicete? Adesso gimo (andiamo) a casa subito. Anche i miei
v’aspettano; son curiosi de conosceve.»
«Vorresti lasciare il lavoro a mezzo? Così poi sarai costretto a riprenderlo?
No. Tanto che ti ci vuole a finire?»
«Non tanto, a dì la verità, però...»
«Forza allora. Così imparo anch’io come si conduce un aratro. ’» Paccoi fece
ancora qualche resistenza: gli pareva scortese non mettersi subito a disposi-
zione dell’ospite; infine accondiscese, o piuttosto ubbidì, secondo la consuetu-
dine d’un tempo.
Ambrogio gli camminò a fianco durante il primo tragitto d’andata e di ri-
torno, procedendo lento dentro la stoppia, al passo delle vacche sbuffanti, ma
s’accorse che in tal modo disturbava il lavoro; risolse allora di fermarsi
all’ombra d’un albero, una piccola quercia. «Ti guardo lavorare da qui» disse:
«Se no t’impiccio.»
Con lo scuro volto nuovamente sudato, Paccoi camminò avanti e indietro,
avanti e indietro, procedendo lento sotto il magnifico sole, finché la terra del
piccolo campo fu tutta rivoltata. C’era intorno una tangibile pace che faceva
scordare non soltanto la guerra, ormai passata e lontana, ma anche l’industria,
e la vita di tensione ad essa inerente. “Gli avevo offerto di venire a lavorare su
da noi: quale sciocchezza se avesse accettato!”
Finalmente Paccoi fece alt, e prima di staccare le vacche dall’aratro si volse
al visitatore, che s’affrettò a raggiungerlo.
S’avviarono al seguito delle due grandi vacche bianche, sempre aggiogate
tra loro, verso la casa colonica.
CAPITOLO SETTIMO
Seguì la cortese ma niente affatto esuberante (si era in Umbria, dove ogni
eccesso è disdicevole) accoglienza delle donne di casa: la madre e una cognata.
Giovanni, sistemate le vacche nella stalla, salì nella sua stanzetta a fior di tetto
a lavarsi in gran fretta testa, collo e torace, poi ridiscese con indosso una ca-
micia di bucato. L’ospite fu fatto accomodare in cucina, gli venne posto davan-
ti del vino color paglia e - su un tagliere di legno - prosciutto e formaggio pe-
corino. Il vino in particolare era squisito: “Dalle nostre parti i contadini un
vino simile non se lo sono mai nemmeno sognato” egli constatò.
Notò che in pari tempo le due donne cominciavano a darsi da fare per pre-
parare - in merito non potevano esserci dubbi - un pranzo vero e proprio.
«Preparate per il rientro degli uomini a mezzogiorno?» chiese incerto.
«Sì, e per vò sor tenente» gli rispose la madre: «se ve contentate.»
«Ma io... ho lasciato mia moglie a Perugia, è sola e...»
«Nun la potete gì (andare) a pià co la macchina?» fece Giovanni allarmato:
«Mica vorrete ricusà de restà con noaltri.»
Anche la madre e la cognata guardarono il visitatore costernate. Ad Ambro-
gio tornò in mente l’ospitalità che si praticava nei tempi omerici. «Io resterei
più che volontieri ma...» disse: «non... Questo non era previsto.»
«Come sarebbe a dì non era previsto?» fece Paccoi.
«Voglio dire: io non ci avevo pensato. Se no avrei portato con me mia mo-
glie, e sarei venuto qui in un’ora più adatta. Insomma so che voi siete gentilis-
simi, ma così vi do troppo disturbo.»
«Ma no, che dicete? Che ve viene in mente?»
«Ah, facete i complimenti» respirò la madre, e fece un segno alla nuora, a
significare: su, continuiamo.
Il risultato fu che, consultato l’orologio e calcolati i tempi, Ambrogio ripartì
di lì a poco per andare a prendere Fanny; il vino bevuto lo rendeva già legger-
mente euforico, tanto che mentre viaggiava si proponeva con allegria di ripe-
tere alla moglie il vecchio detto umbro appreso in Russia da Paccoi: «’N du
(dove) se magnuca, ’l Signor ce conduca’».
***
Fanny accolse di buon grado l’invito. E durante il pranzo, inevitabilmente
abbondante, si dimostrò all’altezza nell’intrattenere le due donne, alle quali
Ambrogio non sapeva rivolgere che convenevoli; lei invece s’interessò
d’un’infinità di cose, e riuscì simpatica a tutti, anche agli altri uomini di casa,
cioè al padre e al fratello di Giovanni, rientrati a mezzogiorno.
Si venne a sapere che Giovanni stava a sua volta per sposarsi, e con la nuova
annata agraria avrebbe ricevuto in mezzadria un podere non lontano da que-
sto. «I proprietari, che sono gli stessi del nostro podere, sanno che è un bravo
ragazzo e gran lavoratore» disse compiaciuta la madre, «ci conoscono da ge-
nerazioni.»
Gli uomini parlarono di molte cose: risultò che, purtroppo, la situazione di
pace era in realtà precaria anche qui. Certo la gente di qui, i contadini, erano
alieni dalla violenza e dal sangue: sotto questo aspetto le cose andavano diver-
samente che in Lombardia; qui l’antica civiltà, come permeava l’ambiente,
così permeava l’animo della gente, anche di quanti avevano votato comunista.
«Che nun son maligni, c’ete da crede: sol che voion la terra.» Per questo mo-
tivo, con evidente disappunto degli uomini di casa - avversi al comunismo e
perciò, quasi fosse inevitabile, pro fascisti (le scoperte non finivano mai) - la
quasi totalità dei contadini mezzadri aveva votato comunista. «Ma la terra in
proprietà ai contadini non è affatto comunismo» fece presente Ambrogio: «è il
suo, contrario.» Tanto valeva: la propaganda rossa in Umbria (e nelle regioni
circostanti) s’incentrava precisamente su questa promessa menzognera.
“Alla fine anche qui la via d’uscita non potrà essere che
l’industrializzazione” si diceva l’industriale lombardo. “Ma se sorgeranno in-
dustrie e fabbriche in posti come questi, ogni cosa finirà con l’esserne per for-
za modificata, forse sconvolta” (era profeta assai più di quanto immaginasse,
ahimè). “E allora?” Non sapeva bene cosa auspicare: dato che non è possibile
costringere la gente a un genere di vita del quale non è più contenta...
Nell’aia c’era il carro su cui il padre e il fratello di Giovanni erano tornati dal
lavoro: si trattava d’un carro di foggia incredibilmente antica, basso e quadra-
to, con due ruote massicce e il timone: “Somiglia al plaustro romano” alma-
naccava Ambrogio (in effetti lo era: era l’antico carro rimasto in queste cam-
pagne immutato da duemila anni). Ogni tanto, attraverso la porta spalancata
della cucina, lo sguardo del giovane ci capitava sopra; egli finì con l’avvertire
un senso di rammarico all’idea che presto, forse, uno strumento di lavoro di
così attraente disegno, eredità ancor viva del passato, sarebbe diventato un
cimelio.
CAPITOLO OTTAVO
Sulla via del ritorno a Perugia, nel tardo pomeriggio, Fanny tolse dal ricet-
tacolo del cruscotto la guida del Touring, volume Italia centrale, e si diede a
sfogliarla. «Lo sai che questa gente mi è piaciuta molto?» dichiarò: «Piuttosto
incredibile ma... cosa ti posso dire? M’è piaciuta, sì.»
«Puoi ben dirlo» mormorò Ambrogio.
«Pôere stelle, che cari! Beh, fammi un po’ vedere: qui sopra Perugia c’è
Gubbio, vediamo un po’ cosa dice di Gubbio. Ehi, città misterica, figurati...»
Lesse un poco in silenzio: «Ah già, le ‘tavole eugubine’, io non le ricordavo
più.»
«Le tavole eugubine? Che roba è?»
«Come, non le hai studiate in ginnasio?»
«Io no. Che roba è?»
«Ci sono scritte le regole per prevedere il futuro in base al volo degli uccelli,
senti qui: ‘Sono sette lastre di bronzo verdastro, del terzo secolo avanti Cri-
sto: le prime due ricoperte di caratteri etruschi e le altre di caratteri latini. Vi
si prescrive come si devono trarre gli auspici dal volo del picchio verde’»
«Il picchio verde? Hai detto il picchio verde?»
«Sì, perché? Così c’è scritto.»
«Ma lo sai che io stamattina, quando sono arrivato sul posto ho visto per
prima cosa un picchio verde? Almeno credo: era grande quanto un merlo, e
d’un bel colore dorato, verde dorato, che altro poteva essere? Me lo sono chie-
sto e, guarda, credo che fosse proprio un picchio verde. Non l’avevo mai visto
in vita mia.»
«Stai scherzando, Ambrogione?»
«No, dico sul serio.»
Fanny si rese conto che il marito non scherzava (noi sappiamo tuttavia che
in quel momento egli si sbagliava: non aveva visto un picchio verde bensì un
rigogolo. Però i due uccelli si somigliano molto, e il secondo - il rigogolo - è in
quei luoghi più abbondante del primo, ed è anche più suggestivo a vedersi: chi
può garantirci che - dopo tutte - non siano stati i traduttori delle tavole eugu-
bine a cadere in errore, e che l’uccello di cui nelle tavole si parla in etrusco non
sia appunto il rigogolo?) «Vuoi vedere» fece Fanny «che io ho sposato un aru-
spice? Allora, che auspici dobbiamo trarre? Dimmi un po’ su.»
«Che ne so io?» rispose Ambrogio divertito. «Cosa dice circa il modo di vo-
lare la guida del Touring? Quello di stamattina è volato da sinistra verso de-
stra per una cinquantina di metri, diciamo la tratta d’una freccia, poi non l’ho
più visto. E prima di mettersi a volare cantava, anche.»
«Anche» disse Fanny. «Cantava? Ma guarda che tipo, quel picchio. Però qui
la guida non spiega niente, mi spiace, non dice altro. E allora?»
«Allora» fece Ambrogio «sta tranquilla. Significa che tutto va bene. Questi
sono posti di buona creanza, no? Anche lui ci ha augurato felicità e fortuna,
come tutti quelli che incontrano degli sposini in viaggio di nozze.»
«Oh, che bravo il mio aruspice!» E dopo un po’, con trasporto: «Ma in che
posto meraviglioso mi hai portata» disse Fanny. «Perfino i picchi si scomoda-
no per farci gli auguri.» Gli sfiorò delicatamente con una mano la guancia:
«Ambrogio mio» disse.
«Hai voglia che ti stringa tra le braccia, vero?» (Con questa frase in quei
primi tempi indicavano tra loro l’unione coniugale).
«Sì» rispose sotto voce Fanny.
«Adesso arriviamo all’albergo» disse Ambrogio: «Suppongo che neanche tu
stasera abbia voglia di scendere per la cena.»
«No di certo, dopo tutto quello che ci han fatto mangiare.»
«Ecco. Così andremo subito a nanna, e questa notte sarà lunga il doppio
delle altre.»
La giovane moglie lo ringraziò con un sorriso.
CAPITOLO NONO
***
A Nomana i due sposi diedero inizio a una vita metodica. Ambrogio si alza-
va presto per essere in fabbrica (quella ‘vecchia’) contemporaneamente al pa-
dre, ossia un po’ prima dell’entrata degli operai. L’interruzione di mezzo gior-
no avrebbe dovuto essere di due ore, ma spesso si riduceva, a causa di clienti o
fornitori capitati in ufficio all’ultimo momento. Il ritardo del marito spazienti-
va Fanny, la quale dopo il pranzo amava passeggiare con lui nel giardino de ‘I
dragoni’, tutto a loro disposizione, col capinero (la voce dell’estate in Brianza)
che faceva udire ogni tanto dal folto la sua cascatella di note. («Cosa lo tenia-
mo a fare un giardino che oltretutto ci costa, se poi lo godiamo così poco? Me
lo vuoi spiegare?») La sera Ambrogio avrebbe dovuto essere di ritorno a casa
alle sette, ma poiché riservava il pomeriggio alla fabbrica ‘nuova’ sul Lambro,
e ai connessi viaggi a Milano, Monza, o nel ‘bustocco’, si può dire che la sera
egli in realtà non avesse orario. Dapprima Fanny cercò di richiamarlo
all’ordine, prospettandogli - visto che soprattutto a questo egli era sensibile - i
suoi doveri verso la famiglia; poi un po’ alla volta si adattò. Del resto si rende-
va conto che col passare del tempo Ambrogio le si affezionava sempre più: la
loro vita famigliare era non solo senza screzi (non si potevano dire tali quelli
causati dall’orario) ma anche, nell’ordine dei sentimenti, tranquilla e sicura.
Solo, durante le lunghe ore d’assenza del marito, la giovane moglie s’annoiava
un poco; dedicava insieme alla suocera Giulia qualche pomeriggio
all’assistenza dei bisognosi, non però in modo sistematico; del resto
quest’assistenza non era mai stata pianificata al modo del lavoro degli uomini
(sebbene - soggetta com’era a richieste improvvise e non di raro indilazionabi-
li - riuscisse nel proprio ordine abbastanza impegnativa). La suocera non la
spronava: «Siete appena sposati» diceva «presto arriveranno i bebé, e vedrai
che troverai appena il tempo per provvedere a loro. Al principio, si capisce,
perché poi ci si organizza. Dunque fa con calma: che importa, con i più poveri,
è fargli sentire fin dal principio che t’interessi a loro col cuore, che gli vuoi be-
ne, allora un po’ alla volta cominciano ad avere confidenza e in seguito ci pen-
seranno loro stessi a metterti in movimento, vedrai. Ma questo è meglio che ti
succeda quando ti sarai già impratichita nel fare la mamma, e non prima.»
Sembrava dare per scontato, Giulia, che Fanny volesse avere molti figli, set-
te o otto, magari dieci, come ne voleva avere Francesca che già stava portando
nel grembo il primo. A tale riguardo però la nuora - che non proveniva come i
Riva da un ambiente cattolico praticante, né popolare - aveva idee sue. E ave-
va cominciato, dopo che i primi mesi di matrimonio erano trascorsi senza che
rimanesse incinta, a seguire nei rapporti col marito le norme prescritte dal
metodo Ogino-Knaus per rimandare le gravidanze: «Non è un metodo immo-
rale, anche la chiesa lo ammette, perché noi per qualche annetto non do-
vremmo seguirlo?» Ambrogio, dopo qualche perplessità, aveva acconsentito.
CAPITOLO DECIMO
Il felice 1948 vide anche (in ottobre, al momento della ripresa delle scuole)
l’entrata in noviziato missionario del quindicenne Rodolfo. Il ragazzo, che
s’era andato facendo sempre più mite e insieme più risoluto, partì in un giorno
di pioggia per quel di Vicenza, la terra da cui a suo tempo era venuta, giovane
sposa, la madre di Manno. Giulia e Gerardo erano felici della sua decisione
(‘dare un figlio a Dio!’) e non lo nascondevano; ciononostante al momento del-
la separazione, quando sotto l’acquerugiola il ragazzo entrò nell’automobile al
cui volante sedeva, tutto serio e compreso, Celeste, Giulia scoppiò a piangere,
invasa dallo sgomento. Come quando al principio della guerra Ambrogio era
andato soldato: sapeva che anche questo suo figlio non si sarebbe tirato indie-
tro davanti al dovere, anche al più ingrato, e le pareva già di vederlo, chissà,
prestar servizio in un lebbrosario, incurante di sé, tra la povera gente strazia-
ta. Anche ad Ambrogio, mentre entrava in macchina per accompagnare il fra-
tello in seminario, questa partenza ricordò in qualche modo la propria per le
armi, tanto che finì col rivolgere ai famigliari assiepati accanto allo sportello
una facezia di sapore militaresco: «Mi raccomando, non dite a Luca o a don
Carlo che Rodolfo va in zona di reclutamento della divisione Julia: potrebbero
restarci male, loro che sono della Tridentina.»
Senza comprendere del tutto la facezia la madre aumentò i singhiozzi, e le si
unirono Noemi e, abbastanza inaspettatamente Fanny; avevano le lacrime agli
occhi anche Alma, e Francesca venuta da Visate apposta per assistere a questa
partenza, e perfino Pino, da quell’emotivo che era. Tanto che gli occhi dello
stesso Rodolfo si fecero improvvisamente rossi.
Per la famiglia Riva il felice 1948 si concluse con due lauree: quella di For-
tunato e quella di Pino. Si era nel tardo autunno, gli operai dei Riva superava-
no adesso il numero di settecento: erano cioè più che raddoppiati, e parevano
avviati a raggiungere il numero di quelli del salumificio Marsavi, che pure
continuava lentamente a crescere.
CAPITOLO UNDICESIMO
Gli occupati nelle due fabbriche tessili aumentarono ancora negli anni suc-
cessivi.
«Però a questo modo non va bene» obiettava talvolta Ambrogio al padre:
«C’è troppa sproporzione tra le nostre possibilità finanziare e una simile cre-
scita.»
«I capitali occorrenti ce li mettono a disposizione le banche» diceva Gerar-
do: «Lo vedete anche voi che ci allargano i crediti non appena glielo chiedia-
mo.»
«Perché i direttori hanno fiducia in te. Ma appunto per questo noi dobbia-
mo stare attenti. Certo sei tu che devi giudicare, non io, ma... E poi c’è anche la
questione del rapporto tra operai e impiegati: non è un rapporto normale il
nostro.»
A questo riguardo Fortunato sosteneva il fratello: «Ambrogio ha ragione.
Presto arriveremo a - mille operai, e quanti sono a fronte gli impiegati? Una
ventina.»
«Oggi come oggi sono ventiquattro» ribatteva Gerardo.
«E ti pare una proporzione normale? Ma papà, è un rapporto addirittura
pazzesco» diceva Fortunato: «è pazzesco, altro che normale.»
«Proprio così» sottolineava Ambrogio. «Anche questo è un aspetto della si-
tuazione che dovremmo, secondo me, esaminare bene, studiare a fondo.»
«Tanto più» ribadiva Fortunato «che tra i nostri ventiquattro impiegati non
c’è un solo laureato o diplomato: non uno. Così tutti gli incarichi direttivi a chi
sono in mano? A degli autodidatti o press’a poco, che hanno fatto soltanto
qualche anno di scuola tecnica.»
«Ma cosa gli faremmo, fare a dei laureati o diplomati nelle nostre fabbriche,
volete dirmelo?» obiettava il padre che, come sappiamo, aveva fatta solo la
quinta elementare. «Del resto non ci siete voi due? Non siete laureati voi
due?»
Ambrogio e Fortunato tentennavano la testa. «Papà, non è per farla lunga,
ma questo è un problema che va studiato sul serio.»
«Possiamo studiarlo, d’accordo. Però non capisco cos’avete contro i nostri
capi operai. Vi pare che Serafino, per esempio, non sappia il fatto suo? O che
non sia all’altezza il figlio della Rina?» (La Rina era un’anziana maestra-
operaia della ditta, Serafino era il migliore dei tecnici: gli incarichi direzionali
di cui via via si sentiva la necessità, Gerardo li affidava ai più capaci tra i suoi
dipendenti, o ai loro figli che avevano fatto qualche corso tecnico ed erano sta-
ti assunti da poco.)
«Papà, sia Serafino che il figlio della Rina sono anche troppo bravi» conve-
niva Ambrogio: «fanno addirittura miracoli, ma... non è questo.»
«E li fanno volontieri» sosteneva Gerardo. «In un certo senso insegnano
anche a noi con che grinta va affrontato il lavoro. Anche se non sono diploma-
ti. Comunque, ragazzi, io non son qui per oppormi: volete che esaminiamo
questo problema a fondo? Che gli dedichiamo, per esempio, tre mezze giorna-
te di fila? D’accordo, questo si può fare.»
«Guarda i Marsavi» proponeva ancora Ambrogio, sapendo per esperienza
che i riferimenti pratici erano per il padre gli argomenti più efficaci «loro in
ditta hanno decine di laureati e di diplomati, lo sai.»
«Vuol dire che per il loro lavoro occorrono, che sono necessari. Ad ogni
modo vi ho detto che questo problema lo possiamo esaminare.»
«E un’altra cosa sarebbe necessario esaminare» affermava a volte Ambro-
gio: «cioè come separare i conti dell’attività industriale da quelli commerciali,
insomma dalle continue compra-vendite che tu papà fai.»
«Già, come quella partita di cotone brasiliano che hai comprato e venduto
‘cif Genova’ la settimana scorsa» aggiungeva Fortunato.
«Però hai visto, Ambrogio, che affare magistrale è stato quello? Basta da so-
lo a ripagarci d’una metà della spesa per gli ultimi telai. Papà, sei stato davve-
ro in gamba.»
«Sì, certo» conveniva Ambrogio «ma sono due attività diverse. Il dottor
Mascheroni di Monza» (si trattava del consulente fiscale della ditta) «ogni
anno, quando gli presentiamo il materiale per il bilancio legale, insiste perché
teniamo separati i documenti delle due attività. Dice - e ha ragione - che oggi
come oggi non siamo noi stessi in grado di sapere se l’attività industriale ci
rende effettivamente, oppure no, e quanto.»
«Il dottor Pino Mascheroni è un benedetto uomo» ribatteva il padre:
«Gliel’ho spiegato tante volte che per noi è impossibile dargli le fatture suddi-
vise come vorrebbe lui. Lo sapete anche voi no, che a volte la materia prima
che compriamo con l’idea di rivenderla, poi la mettiamo invece in lavorazione,
oppure ne mettiamo in lavorazione una parte. Anzi questo è forse il caso più
frequente.»
«Però se avessimo nello studio un bravo ragioniere, anche uno soltanto, con
questo preciso incarico, i conti li potremmo avere suddivisi: basterebbe uno
che provveda a fare le imputazioni.»
«Va bene, possiamo esaminare anche questa eventualità, sebbene...» Seb-
bene, intendeva Gerardo, e i figli se ne rendevano conto, l’idea d’impiegare
gente per ‘imputare’ qualcosa di già prodotto non l’attirasse affatto: lui la gen-
te l’avrebbe se mai utilizzata per produrre dell’altro.
Finalmente al problema di una organizzazione più razionale della ditta fu-
rono dedicati tre successivi pomeriggi. All’ultimo dei quali Fortunato - che si
era nel frattempo iscritto presso il Politecnico di Milano a un corso per diri-
genti industriali - fece intervenire come consulente uno dei suoi insegnanti.
Costui si dichiarò ‘strabiliato’ per il rapporto impiegati-operai esistente, ma in
pari tempo rimase così colpito dalle intuitive doti imprenditoriali di Gerardo,
da consigliare che ci si guardasse bene dall’introdurre cambiamenti in contra-
sto con la sua ‘linea manageriale’. Della diagnosi del docente ciò che più rima-
se impresso nella mente dei tre industriali fu un avvertimento, che Gerardo in
particolare ruminò poi a lungo: «Attenzione: è da prevedere che le industrie
con macchinari vecchi, com’è in sostanza la vostra, entreranno in crisi nel giro
di non molti anni per la concorrenza di quelle nuove, che stanno sorgendo.»
Alla fine Gerardo prese la sua decisione: capitali, anche se non abbondanti,
per procedere a un sostanziale rinnovamento delle strutture produttive ce
n’erano, per ora investiti - a evitarne la svalutazione - in alcuni immobili a Mi-
lano e a Monza (case e terreni che era stato possibile conservare nonostante lo
sforzo per i recenti ampliamenti) : «Quei capitali» egli disse ai figli «dobbiamo
continuare a tenerli di riserva. Intanto voi ragazzi vi fate la vostra pratica per,
diciamo, altri due anni, cioè fino a metà 1952, va bene? Dopo di che, quando
avrete le idee sufficientemente chiare, realizzeremo quegli immobili, e sulla
base d’un progetto che studieremo insieme in ogni particolare, procederemo
al rinnovo degli impianti.»
Tale dunque il programma, che rappresentò poi durante il tempo che seguì
un costante riferimento per Ambrogio e Fortunato e per tutti gli altri che ave-
vano responsabilità nella ditta. Tuttavia, come dice il proverbio, ‘l’uomo pro-
pone e Dio dispone’: la crisi, la burrasca, arrivò prima del previsto. E non per
la vetustà degli impianti, o per gli scompensi nell’organico del personale, o per
altre cause interne alla ditta, ma, davvero impensatamente, per cause esterne:
la burrasca ebbe un’origine politica.
II
CAPITOLO DODICESIMO
Una mattina del febbraio 1952 - mentre Noemi gli preparava la prima cola-
zione - Fortunato lesse un titolo nel giornale: la Francia aveva, con un decreto
del suo ministro delle finanze Pinay, rescisso senza preavviso il trattato
d’unione doganale con l’Italia.
Lesse con attenzione riga dopo riga: sapeva che, per una serie di contratti
stipulati l’anno prima, la ditta stava in quel momento lavorando sopra tutto
per il mercato francese: due terzi e anche più della sua produzione erano de-
stinati a quel mercato. Non direttamente (“per fortuna” com’egli subito pensò)
ma indirettamente, in quanto acquirente del prodotto era un gruppo indu-
striale milanese con laboratori di confezione non solo in Lombardia ma anche
in Piemonte e in Liguria. In quei laboratori venivano tagliate ed elaborate le
pezze di tela di canapa e i rotoli di cinghia inviati a vagoni dalla ditta Riva. Il
prodotto finito veniva, poi esportato in base a una serie di contratti che il
gruppo aveva con società ferroviarie e marittime francesi.
Letti attentamente i pochi e con evidenza inesatti particolari, Fortunato si
rivolse a Giudittina, lei pure appena scesa a pianterreno e tuttora semiaddor-
mentata, le mise in mano il giornale piegato in modo che l’articolo fosse in
vista, e: «Sali di sopra dal papà che si sta alzando» le disse: «Indicagli questo
articolo qui. Questo, vedi? Digli di leggerlo subito.»
Poi rimase in attesa, sorbendo pensoso il suo caffè, in piedi, com’era abitua-
to da sempre; di lì a poco il padre lo raggiunse.
Duramente colpito dalla notizia, Gerardo s’impose anzitutto di non darlo a
vedere. «Senza dubbio possono essere guai seri» disse al figlio «ma non dob-
biamo fasciarci la testa prima d’averla rotta. Appena in fabbrica chiama Am-
brogio e vedete di compilarmi subito una situazione: della merce destinata alla
Francia pronta, di quella in lavorazione, della materia prima in magazzino, di
quella che abbiamo ordinata e ci deve arrivare, eccetera. E della merce che
abbiamo già consegnata e non ci è stata ancora pagata. Ci sono poi quei mazzi
di cambiali dei Brusasca che abbiamo girato ai fornitori e alle banche: famme-
ne fare subito uno specchio. Beh, vedremo. Da parte mia cerco di combinare
un incontro coi Brusasca.» I Brusasca erano i titolari del gruppo esportatore.
Quel primo incontro con loro non bastò, ne occorse un secondo, quindi al-
tri, mentre un autorevole funzionario del gruppo dapprima, poi il vecchio Bru-
sasca in persona principiavano a fare la spola con Parigi.
La decisione più difficile da prendere - in quanto carica di conseguenze sia
per i Brusasca che per i Riva - era se interrompere le lavorazioni o portare a
termine i contratti in corso. La prima alternativa - la più sicura dal punto di
vista finanziario - avrebbe comportato l’immediata messa ‘in sospensione’ di
centinaia di dipendenti sia del gruppo che della ditta, e un contemporaneo
colossale immagazzinamento di merci e materie prime non facilmente utiliz-
zabili in altro modo. La seconda soluzione avrebbe invece concesso un respiro
d’alcuni mesi, impiegabile nella ricerca di nuove commesse di lavoro, e con-
sentito quindi - probabilmente - di non fermare le fabbriche: c’era però il peri-
colo che non si riuscisse poi a far entrare in Francia i prodotti finiti. Venderli
in Italia con quelle misure, e confezionati a quel modo, sarebbe stato presso-
ché impossibile.
«Non si deve preoccupare» ripetevano i funzionari del gruppo esportatore
(con sede a Milano in Foro Bonaparte) a Gerardo: «Le sue cambiali portano
tutte la firma d’avallo del commendator Brusasca: lei a suo tempo l’ha for-
malmente richiesta, e ha avuto ragione. È una firma che vale miliardi, di cosa
si preoccupa?»
«Eh» rispondeva per niente convinto Gerardo: «eh.» Tra sé e sé pensava:
“E dire che per far fronte a queste grosse ordinazioni, ho trascurato tanti vec-
chi clienti! ”
Le autorità politiche di Roma, interessate e per quanto possibile sollecitate
dai Brusasca (i quali però non disponevano nella capitale di corrispondenti
adatti) fecero sapere che il presidente del consiglio De Gasperi in persona si
stava attivamente adoperando per ristabilire l’unione doganale con la Francia,
proprio da lui a suo tempo voluta, e riferivano d’incontri a livello diplomatico
già intervenuti o predisposti, dando assicurazioni generiche. In rapporto alle
quali si passava a Milano e a Nomana dallo scetticismo (lo stato d’animo più
frequente) all’ottimismo e perfino all’euforia (ad Ambrogio tornavano in men-
te le prime ore seguite alla chiusura della sacca sul fronte russo).
In occasione dell’incontro risolutivo il vecchio Brusasca disse a Gerardo:
«Senta, io leggo la domanda che c’è nei suoi occhi. Le dico una cosa sola: che
ho sempre, da che sono al mondo, onorata la mia firma, e intendo onorare
anche quella che sta sulle cambiali a sue mani.»
«Sì, ma consenta una domanda. Supponiamo che la merce non entri in
Francia. In questo caso lei ha il liquido disponibile per far fronte? O almeno
delle riserve in case e terreni, realizzabili in breve tempo?»
«Tutti i miei soldi sono investiti negli stabilimenti» rispose piano il Brusa-
sca, e tacque un istante. «Però» aggiunse «sono stabilimenti che fan gola a
molti, e non dovrebbe essere difficile venderli.» Cercò d’allontanare una simi-
le prospettiva negando ripetutamente con la testa (i lineamenti gli s’erano fatti
tesi): «Senta Riva, non facciamoci prendere dal panico.»
In conclusione il Brusasca comunicò di propendere per la seconda delle so-
luzioni sopra prospettate, quella di portare a termine le forniture: «Sempre
che lei Riva sia disposto a darmi i semilavorati.»
«Mi lasci parlare coi miei figli» gli rispose Gerardo, che voleva riflettere an-
cora: «Le darò la risposta entro domani.»
Messi di fronte al dilemma Ambrogio e Fortunato si trovarono sprovveduti
come bambini; la decisione la dovette prendere ancora una volta Gerardo, col
suo intuito innato, sì, ma anche con la sua preparazione da quinta elementare.
L’idea di mettere in sospensione da una settimana all’altra centinaia d’operai
gli era intollerabile sopra ogni cosa, e non solo per le agitazioni, i cortei e gli
schiamazzi che i rossi avrebbero immediatamente organizzato. «Io mi metto
nei panni di certi operai: il pane e il companatico noi sul tavolo ce l’avremo
ancora, ma loro? E ci sono alcuni, come il Gatti, con quella figlia così malata,
che gli costa un occhio della testa... e un sacco d’altri coi loro guai. Beh, in fin
dei conti il Brusasca è un galantuomo: sentite ragazzi, io gli do la roba.»
I manufatti spediti dal Brusasca però - prima un treno, poi il successivo, poi
altri - vennero bloccati alle dogane francesi e qui fatti scaricare. Mentre si af-
fannava per trovare il modo di svincolarli e farli entrare in Francia, di solo de-
posito doganale il Brusasca si trovò in breve a dover pagare intorno a un mi-
lione di lire al giorno. Non fu più in grado di ritirare le proprie cambiali in
scadenza e ne chiese ai Riva il rinnovo: «Per il tempo strettamente necessario
a sbloccare la situazione.»
Così, nella primavera del 1952 ebbe inizio per i Riva una nuova guerra, di-
versa ma per certi aspetti non meno estenuante di quella che si era conclusa
sette anni prima.
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Di lì a tre mesi, in settembre, la situazione non era affatto mutata. Alla fine
di quel mese Michele ed Alma si sposarono; insegnavano entrambi adesso,
Alma, laureata in lettere, nello stesso ginnasio della Quadri Dodini. Non
s’erano sposati in giugno - ossia all’inizio delle vacanze scolastiche - soltanto
perché Michele aveva prima voluto terminare e consegnare all’editore il datti-
loscritto del suo secondo libro (un romanzo-saggio), che a differenza
dell’opera precedente gli era riuscito abbastanza difficile licenziare. Avendo
egli fatta un’esperienza praticamente ignota alla cultura italiana (aveva visto
coi propri occhi e sperimentato di persona i frutti dell’anticristianesimo inte-
grale) in questa seconda opera si era sforzato di far confluire - tramite le vi-
cende, le scoperte, le conversazioni dei personaggi - tutti i fili del processo di
scristianizzazione che, iniziatosi ancor prima dell’evo moderno, aveva portato
ultimamente ai forni crematori di Auschwitz e al cannibalismo di Crinovaia e
degli altri lager (e non solo lager) sovietici. Per tale lavoro non meno della
storiografia cattolica egli s’era servito a contrario delle indagini laiciste, so-
prattutto di quelle di Marx che gli erano familiari dai tempi della prigionia.
D’accordo con molti altri studiosi cattolici, Michele vedeva il principio della
scristianizzazione nel passaggio dall’umanesimo cristiano all’umanesimo tout
court: passaggio che - iniziatosi in Italia - era giunto a produrvi un primo e
perfetto - anche se su scala ridotta -Hitler o Stalin, col granduca Valentino, il
famoso principe del Machiavelli. Si trattava d’un uomo della cerchia papale:
fin là dunque s’erano infiltrati il riscoperto paganesimo e l’immoralità che
avevano cominciato a corrompere un po’ dovunque i costumi cristiani... Quel
tragico processo era stato più tardi arrestato, e poi rovesciato (segno questo,
secondo Michele, che Cristo è sempre coi successori dei suoi apostoli, per
quanto indegni e peccatori) dalla grande riforma cattolica, la cosiddetta Con-
troriforma, la quale però non aveva potuto interessare tutta la cristianità, e
nelle stesse nazioni cattoliche non tutti quanti gli ambiti culturali. A quel pri-
mo gigantesco episodio di scristianizzazione Marx - secondo risultava a Mi-
chele - non aveva dato rilievo; egli aveva invece afferrato molto bene, e saluta-
to con entusiasmo, il passo successivo, cioè la frattura prodotta nella società
cristiana dal protestantesimo. Partendo dal presupposto che ‘la critica della
religione è la premessa d’ogni critica’ Marx aveva indicato in Lutero il libera-
tore dell’uomo dalla ‘schiavitù esteriore a Dio’ e mostrato come la filosofia
tedesca avesse poi successivamente completata l’opera di Lutero, liberando
l’uomo anche dalla ‘schiavitù interiore a Dio’. Una volta liberi da Dio - in pra-
tica dalla sua morale - i diversi gruppi umani comunque in grado d’aspirare al
predominio (dapprima lo stato, poi la classe, poi la razza) avevano - sempre
secondo l’individuazione di Michele - teorizzata ciascuno la propria suprema-
zia e l’asservimento a sé di tutti gli altri gruppi, e in modo tanto più radicale
quanto più il senso morale cristiano s’era andato attenuando. I due episodi-
apice di questo processo erano stati finora lo sterminio dei sei milioni d’ebrei
inermi nella lotta razziale nazista, e di dieci milioni (come si riteneva: in realtà
erano stati il doppio) di contadini russi, pure inermi, nella lotta di classe co-
munista. Questo gigantesco fenomeno d’annientamento dell’uomo, ch’era il
vero prodotto della sua ‘liberazione da Dio’, il giovane scrittore aveva cercato
di renderlo in modo definitivo: s’era però reso conto di quanto l’impresa fosse
difficile, stanti gli innumerevoli preconcetti ormai introdotti dal laicismo e
dalla scristianizzazione un po’ in tutte le menti. Aveva avvertito che le pur ri-
gorose analisi su cui le sue pagine si fondavano avrebbero urtato contro molti
ostacoli: perciò s’era sforzato di dare ad ogni singola pagina il massimo
d’incisività. Perché l’opera lo soddisfacesse appieno gli sarebbe occorso altro
tempo: durante il quale tuttavia la sua voce non sarebbe stata presente nel
concerto della cultura in un periodo in cui nuove apocalittiche stragi - ad ope-
ra dei comunisti detentori del potere - avevano cominciato a prodursi in Asia;
s’era dunque risolto a pubblicare l’opera non rifinita, col proposito di tornarci
eventualmente sopra in seguito. Anche perché si era accorto che - nonostante
la ferma vigilanza di papa Pio - un grave errore di matrice francese, tendente a
presentare le verità marxiste come ‘verità cristiane impazzite’, ma pur sempre
verità cristiane - stava subdolamente infiltrandosi nello stesso mondo cattoli-
co, col rischio d’una immensa confusione; ciò l’aveva reso tanto più impazien-
te.
CAPITOLO QUINDICESIMO
***
Finalmente arrivò per Pino il giorno della partenza. Era giulivo quel giorno,
nella sua aria tuttora disarmata di ragazzo, e per non darsi importanza faceva
ogni tanto la faccia di chi sta per combinare una marachella. Il fratello Rodol-
fo, cui i superiori avevano accordato un apposito permesso, lo accompagnò in
macchina all’aeroporto di Milano-Linate insieme con Ambrogio e Fortunato;
Rodolfo adesso vestiva da frate ed era prossimo ai voti: «Così mi hai tagliata la
strada, eh? In Africa arrivi prima tu.»
«Sono o no maggiore di te? Di anni magari, anche se non di criterio?»
CAPITOLO SEDICESIMO
A sua volta Rodolfo partì per l’Africa alla fine del 55. Aveva quasi ventitré
anni, si era fatto alto e magro e, nonostante il viso un po’ irregolare, veramen-
te un bel giovane: era lui il più bello dei figli di Gerardo. Insieme al senso di
responsabilità per la sua nuova condizione (“Sono sacerdote di Cristo, in eter-
no!”) gli si leggeva negli occhi una contenuta gioia: ecco, la Provvidenza gli
concedeva d’entrare - dopo anni di preparazione e penitenze, e dopo tanto che
lo desiderava - nel campo del Signore, operaio da lui inviato alla messe ster-
minata. Le cose della famiglia sembravano toccarlo meno (‘Nessuno, che dopo
aver posta mano all’aratro si volge indietro, è adatto al regno di Dio’), e tut-
tavia prima d’uscire di casa per salire sull’automobile che l’avrebbe portato
all’aeroporto di Milano-Linate, non poté a meno di schiudersi - per un mo-
mento - all’ansia dei suoi, soprattutto della madre. Gli sforzi continui per stare
vicina al marito e sostenerlo nella strenua lotta che durava da più di tre anni
(la quale, nonché cessare, pareva in seguito a una comunicazione ricevuta
proprio in quei giorni, sul punto di farsi ancora più drammatica) avevano im-
presso nella figura di Giulia tracce visibili. Tanto più visibili a lui, Rodolfo, che
non aveva di continuo la madre sotto gli occhi, ma la vedeva solo di tanto in
tanto: “Guarda la mamma com’è sciupata, povera donna: s’è come rattrappi-
ta...” Sul punto di partire prese dunque in disparte i genitori: «C’è una cosa di
cui sono convinto» disse loro: «ed è che questa penitenza, questo ‘bagnoma-
ria’ come dicevate prima a tavola, in cui il Signore da anni ci tiene - anzi vi tie-
ne - non è dovuta al caso.»
«Speriamo» non seppe trattenersi dal mormorare con un sospiro Gerardo.
(Aveva, poco prima, consegnato al figlio un piccolo fascio di banconote france-
si di grosso taglio, messe insieme con feroce sacrificio: «Agli altri ho fatto un
regalo quando si sono sposati, è dunque giusto che oggi lo faccia anche a te.
Con questi soldi - mi sono informato bene - tu non avrai impicci di dogana,
perché hanno corso legale nell’Africa equatoriale francese dove vai.» E avendo
il figlio cercato di ricusarli: «Ma no papà, perché? Non mi occorrono», «Ti
saranno molto utili invece, vedrai. Non fosse che per procurar da mangiare
alla povera gente di là. Il problema del pane quotidiano là dev’essere ancora
per tanti il problema numero uno.»)
Ora Rodolfo disse: «Sono convinto che questa grossa prova in cui il Signore
vi tiene è voluta da lui, a fin di bene. Vi impedirà, a tutti, di diventare ricchi,
come c’era effettivamente il pericolo.»
Il padre fu sul punto di protestare: “Ma lo sai che per creare un posto di la-
voro oggi occorrono intorno a cinque milioni? Se uno non mette insieme i ca-
pitali necessari, come può creare nuovi posti di lavoro? E noi industriali se
non diamo lavoro, cosa ci stiamo a fare al mondo?” questo, più o meno,
avrebbe voluto obiettare Gerardo. Ma non disse nulla; nelle parole del figlio
frate che gli si rivolgeva con autorità nuova, sentiva che c’era un fondo di veri-
tà: si tenne, davanti a lui, come fosse in chiesa davanti al confessore.
«Lo so bene» disse il giovane «che tu papà non hai mai agito per i soldi, e
che tutta la tua vita è stata un servizio. Questo l’ho davanti agli occhi da che
sono al mondo. Anzi se oggi vado dove vado, è appunto perché ho imparato la
tua lezione; per lo stesso motivo, credo, anche Pino è medico missionario in
Tanganica. Però il pericolo c’era: non per te, magari, ma un po’ per tutti noi
c’era, che prendessimo gusto alla ricchezza, che attaccassimo il cuore
all’abbondanza materiale. Ecco, vorrei che questo dato entrasse nel vostro
prospetto delle cose.» Si rivolse alla madre: «Mamma, se è così, non dobbia-
mo smangiarci, non dobbiamo angosciarci per la prova. Io volevo dirvi que-
sto, nient’altro.» Alzò molto commosso la giovane mano e li benedisse.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
A causare ai Riva la preoccupazione che la crisi della ditta fosse sul punto di
farsi ancora più drammatica, era stato un annuncio del Brusasca. Il vecchio
imprenditore li aveva improvvisamente avvertiti di non essere più in grado
‘comunque si mettano le cose’ di pagare le proprie cambiali mediante denaro.
Aveva perciò proposto loro di accettare in pagamento alcuni dei suoi stabili-
menti.
Poiché bisognava dargli una risposta, Gerardo e i suoi due figli maggiori si
riunirono, la sera stessa della partenza di Rodolfo, nello studio di casa. (Era il
medesimo locale in cui, allorché Ambrogio si preparava agli esami,
s’affacciava per gioco Colomba: «Ehi, pozzo di scienza...» Com’erano lontani
quei giorni! Adesso bisognava tenersi a galla, resistere, non lasciarsi distrarre
neppure dal ricordo.)
I due giovani Riva si ritrovarono molto presto, nell’esame della situazione,
agitati: «Perché il Brusasca ci ha tirato in lungo fino a oggi prima di offrirci le
sue fabbriche? Perché non ce le ha offerte quando non eravamo stremati fino a
questo punto?»
«Probabilmente perché» rispose Gerardo «sperava di non esservi costretto,
e comunque se ce le avesse offerte al principio, noi ci saremmo ben guardati d
Accettarle.»
«Se le prendiamo adesso, quanto tempo ci occorrerà per venderle? Mesi o
anni?»
«Questo nessuno lo può dire.»
«E nel frattempo? Lui non ci darà più cambiali sue da scontare.»
«Proprio così» disse, un po’ pallido in volto, Gerardo: «noi saremmo tenuti,
man mano scadono le sue, a sostituirle con cambiali nostre.»
«Dunque, se si arriva al protesto, sarà la nostra firma e non la sua ad essere
protestata?»
«Precisamente.»
«Ah no, è troppo comodo per lui.»
«Non ce la fa più, ha perduto troppo» osservò, tirandosi indietro sulla se-
dia, Fortunato. «Pensiamo alle cifre enormi che abbiamo perso noi: lui ha
perduto ancora di più.»
«Dopo tutto» fece notare Gerardo «coll’avvertirci, e col proporci questa
transazione, il Brusasca si dimostra ancora un galantuomo.»
«Ma come faremo noi a caricarci sulle spalle degli altri stabilimenti? Quanti
sarebbero?»
«Tre, secondo i suoi calcoli. Bisognerà fare bene le valutazioni.»
«Altri tre stabilimenti oltre ai nostri due? È chiaro che non abbiamo assolu-
tamente i soldi per farli funzionare, neanche per cominciare.»
«Questo è fuori discussione. E infatti gli stabilimenti lui s’impegna a darceli
chiusi: fermi e chiusi. Li sta già fermando del resto, perché non ha più i soldi
per farli funzionare; sapete anche voi che da tempo versa ai suoi operai soltan-
to acconti sulle paghe.»
«E così a chiudere stabilimenti ci si è arrivati comunque» fece notare For-
tunato, il quale aveva in quegli anni più d’una volta rimproverato al padre le
sue ‘fisime’ sociali, che rendevano tutto più difficile.
«Sì» convenne Gerardo. «Ci si è arrivati. Però dopo avere fatto anche
l’impossibile per non arrivarci.»
«Ecco la parola giusta» disse Ambrogio: «l’impossibile. Proprio così. E se
pensiamo che non è finita!»
«Già. Allora ragazzi, cosa si decide?»
«Supponi che rifiutiamo.»
«In questo caso ho paura che il Brusasca tra un po’ non sarà più in grado di
darci neppure gli stabilimenti.»
«Ah, che bella situazione!»
«Papà, se siamo a questo punto non c’è proprio niente da decidere: c’è solo
da pregar Dio che ce la mandi buona.»
Così, ancora una volta costretti dalla forza delle cose a fare ciò che non
avrebbero voluto, i Riva si presero in pagamento tre complessi industriali - di
cui uno solo situato in Lombardia - e subito cominciarono a darsi dattorno per
venderli. L’impresa, già tentata senza successo dal gruppo Brusasca, si rivelò
particolarmente difficile. Gerardo risolse allora di sollevare Fortunato da ogni
altro incarico, delegandolo a questo unico; il giovane ingegnere (pur essendo
all’atto pratico sollevato dalle sue abituali incombenze quasi soltanto
nell’intenzione paterna) si dedicò a questo compito con straordinario impegno
e insieme con un’abilità tale, che venne notata da più d’un imprenditore. Oc-
correva assolutamente ai Riva - per non fallire nella sostituzione delle cambia-
li Brusasca con le proprie - un minimo di liquido fresco: in pratica dovevano
vendere subito almeno un complesso. Fortunato ci riuscì (“Le preghiere della
mamma...” pensarono molti in famiglia, a cominciare da Gerardo): vendette
quello ubicato in Lombardia a un prezzo tutto sommato discreto.
Il vecchio Brusasca, come ne ebbe notizia e seppe dell’abilità con cui il gio-
vane aveva condotto la trattativa, fece una cosa insolita, chiamò personalmen-
te al telefono Gerardo: «Il futuro della sua ditta è assicurato da quel ragazzo»
gli disse: «mi congratulo con lei.» Era, lo si capiva dalla voce, contento anche
per sé stesso, per questa dimostrazione che gli ostacoli più angosciosi possono
pur venire superati.
Venduto il primo stabilimento, Fortunato si buttò a far la spola tra Piemon-
te e Liguria - dov’erano situati gli altri due - per tentare di vendere subito an-
che quelli; ma per quanto si desse da fare, non gli riuscì di ripetere l’exploit.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Pochi mesi dopo, all’inizio del 56, comparve sui giornali la notizia che l’ex
cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi era stato ricoverato in una clinica in
condizioni di salute gravissime. Da parecchio tempo a Nomana non lo si vede-
va più; anche i suoi amici Riva furono costretti a seguire le ultime fasi della
sua malattia sui giornali, perché i medici vietavano ogni visita. Don Carlo era
adesso conosciuto nell’Italia intera: c’erano suoi collegi per il recupero dei
bambini mutilati anche al centro e al sud, per l’inaugurazione d’uno dei quali
s’era addirittura scomodato il presidente della repubblica. (In tale circostanza
Fanny, ricordando che il discorso così bello e sincero, fatto alle sue nozze
dall’adesso celebre sacerdote era andato perduto, se n’era molto rammaricata.
Tutto per l’insipienza di Pino nel manovrare il registratore... Se n’era lamenta-
ta con Ambrogio: «Il tuo caro fratello! Quel giorno s’è comportato da vero par-
tigiano.» Ambrogio aveva sorriso: «Ti pare un discorso logico? Cosa c’entrano
i partigiani coi magnetofoni? E poi tu i partigiani non li hai sempre visti piut-
tosto di buon occhio?» «Oh, basta, falla finita, so io cosa dico.» Ogni tanto
Fanny, ribellandosi alla situazione che s’era creata con la crisi, aveva uscite
d’aspra insofferenza.)
Il 28 febbraio don Carlo capì d’essere alla fine: il cancro l’aveva fisicamente
consumato, da diverse ore il suo corpo scheletrico era, dallo stomaco in giù,
paralizzato, inerte. Volgeva ogni tanto gli occhi al Crocefisso che teneva sul
comodino, un Crocefisso donatogli da sua madre il giorno dell’ordinazione
sacerdotale, e pregavi in silenzio. Forse chiedeva a Dio d’abbreviare quelle ore
tremende; di tanto in tanto alzava a fatica una mano e se la passava sugli oc-
chi; entrò infine in agonia e cominciò a rantolare. Pochi minuti prima di mori-
re ritornò lucido, aprì gli occhi, con uno sforzo supremo afferrò il Crocefisso e
se lo pose sul petto. Chissà com’erano in attesa, di là, tutti gli alpini cui egli
aveva chiuso gli occhi sulla neve...
Per il funerale si formò a Milano un’enorme folla, comprendente anche
moltissimi ex alpini col cappello militare in testa, e centinaia di bambini muti-
lati; nel triste corteo gli alpini portavano sulle spalle i bambini mutilati, come
avevano già fatto in altre occasioni, con un gesto che a don Carlo era molto
piaciuto.
Un mattino sui muri di Nomana apparvero grandi scritte in calce: ‘Riva, pa-
ga gli operai, non la polizia’, tra disegni di forche. Tutti in paese sapevano che
i Riva avevano pagato i salari fino all’ultima lira, e che la polizia non era affat-
to intervenuta; ciononostante per Gerardo vedere il proprio nome additato
all’abominio sui muri, e sperimentare su di sé l’odio usato come strumento di
potere da questi anticristi di provincia, fu causa d’indicibile pena.
In seguito gran parte degli operai licenziati venne effettivamente assunta
dal gruppo chimico; a casa restarono i più anziani, che furono poi, sia pure
con molta lentezza, quasi tutti riassorbiti dalla fabbrica di Nomana.
CAPITOLO VENTESIMO
La crisi della ditta, iniziata come abbiamo detto nel 52, ebbe termine solo
nel 58, allorché i Riva riuscirono a vendere - a pochi mesi di distanza uno
dall’altro - i residui due stabilimenti avuti in pagamento dal Brusasca tre anni
prima. Nel frattempo l’altro cliente insolvente era fallito, e i Riva avevano do-
vuto pagare anche tutte le cambiali ricevute da lui e girate a terzi.
Dopo che col ricavo dell’ultimo stabilimento Brusasca essi ebbero ritirata
l’ultima cambiale, e rimborsati i prestiti ricevuti da parenti (dallo zio Ettore e
dai Marsavi in particolare) e da amici, si ritrovarono economicamente strema-
ti, senza più uno solo degli immobili di Milano e di Monza, ma con lo stabili-
mento di Nomana ancora in funzione. «Dunque siamo vivi e in piedi, e con
intatta la voglia di lavorare» ripeteva ai suoi figli Gerardo, pover’uomo, che
aveva ormai passato i settant’anni.
In realtà occorsero ai Riva altri anni ancora per tornare al pieno equilibrio e
a un ritmo di produzione normale: a questo fine ciò che più li aiutò fu il rinno-
vo parziale del macchinario della fabbrica, attuato testardamente da Ambro-
gio nel periodo delle difficoltà. Intanto Fortunato - che da tempo s’era sposato
e abitava a Milano donde gli era più facile tenere i contatti con clienti e forni-
tori - era giunto ad averne abbastanza di fare l’industriale. Al padre per il
momento non ne faceva parola, ma al fratello ripeteva: «È una vita dannata,
come non te ne rendi conto? La crisi della nostra ditta l’hanno causata i fran-
cesi, ha avuto origine politica, d’accordo. Però è un fatto che praticamente tut-
te le industrie - dico tutte senza eccezione - si ritrovano ogni po’ di anni - di-
ciamo ogni venti o trentanni - in grave rischio di fallire.»
«Per i Marsavi non è stato così, finora.»
«Hanno visto anche loro i sorci verdi al tempo della crisi mondiale del 29, e
poi nel 44. Del resto aspettiamo un altro po’ di anni e vedremo.»
«Nel 44 è stato a causa della guerra, perché non trovavano materia prima.»
«Per un motivo o per l’altro, intanto è successo. E poi, ti ripeto, lasciamo
passare ancora un po’ di anni e vedremo.»
Dubitare in quei giorni della sorte dei Marsavi pareva insensato: non solo
essi avevano dalla fine della guerra raddoppiata la loro industria, ma affron-
tando risolutamente il problema della scarsità d’abitazioni operaie, divenuto
in Brianza tormentoso, avevano appena terminato di costruire per i loro di-
pendenti un quartiere di moderni condomini a riscatto (proprio così, un quar-
tiere, che copriva il versante d’una collina) e stavano per dare inizio alla co-
struzione d’un secondo quartiere, sempre ai margini di Visate.
«E il rischio periodico di fallire, di perdere tutto, non è l’unico
bell’inconveniente» continuava Fortunato: «C’è anche quell’altro fatto non
meno gradevole, d’essere in compenso considerati degli sfruttatori, quasi dei
ladri di professione.»
«Non dalla nostra gente di Nomana però, né della Brianza in genere.»
«Cos’è la Brianza? Un fazzoletto di terra. Non arriviamo a un milione di
persone su cinquanta in Italia. No Ambrogio. Guarda anche alla televisione,
con tutto che è governativa: come ci considerano noi industriali? Ci sopporta-
no perché in qualche modo necessari, però danno per scontato che siamo degli
sfruttatori, e sembra facciano fatica a non sghignazzare ogni volta che ci no-
minano.»
«Sì. Ma se noi ci tiriamo indietro, se gettiamo la spugna, la diamo vinta a
simili cialtroni. E in conclusione ai marxisti che li manovrano.»
In effetti questo mezzo nuovissimo, la televisione, che aveva cominciato a
diffondersi in Italia nel 1953, col passare degli anni andava dimostrandosi
sempre più influenzato dai marxisti e pro marxisti. Per non scontentare i qua-
li, i cristiani pur presenti nell’ente, da tempo ormai non facevano più il discor-
so loro proprio, limitandosi a un discorso di compromesso che gradualmente
si andava per così dire istituzionalizzando. (Con viva preoccupazione dello
scrittore Michele Tintori, il quale afferrava bene l’enorme influsso del nuovo
mezzo sul pubblico: «Ha più effetto dei giornali e di tutta quanta la stampa nel
suo insieme» asseriva: «Finirà per forza con l’influenzare le generazioni che
vengono su. Alle quali è gravissimo che non venga proposto - come sarebbe
giusto aspettarsi - il modello italiano che s’è dimostrato più valido alla prova
della guerra: quello alpino per intenderci, o se vogliamo quello popolare cri-
stiano. La televisione invece, lo vedete, finisce col proporre di continuo, alme-
no implicitamente, il modello del progressista, del rivoluzionario potenziale, e
al più, durante le trasmissioni di svago, sottopone agli spettatori quello roma-
nesco dello scroccone, che è uno dei nostri modelli umani peggiori. Ci fate ca-
so che il linguaggio ‘disimpegnato’ in Italia sta diventando sempre più roma-
nesco?»)
Fino allora, nonostante le messe in guardia di Michele, i Riva presi
com’erano dalla lotta per la sopravvivenza, non avevano avuto il tempo di
rendersene conto. E adesso che - usciti dall’incubo della crisi, affiorati final-
mente dal pozzo buio - cominciavano a guardarsi intorno, non lo afferravano
bene.
Vedevano il tenore di vita degli italiani sensibilmente migliorato proprio
grazie all’espansione delle industrie, mentre la minaccia rossa non accennava
per questo a diminuire, anzi. È che la presenza nel corpo della nazione di un
così enorme ed organizzato partito comunista s’andava inevitabilmente facen-
do sempre più sentire. Tale era l’impegno dei suoi adepti, che l’ideologia mar-
xista era riuscita a non perdere il proprio fascino neppure dopo il rovescia-
mento del ‘culto’ di Stalin nel 56, e le connesse sconvolgenti rivelazioni fatte
dagli stessi capi russi sulle smisurate stragi susseguitesi in quel paese. Il com-
pito d’approfondire, di diffondere, di far debitamente recepire quelle notizie,
sarebbe spettato soprattutto ai cristiani operanti alla televisione, ma costoro,
tenuti in permanenza sotto il ricatto della qualifica di fascisti dal potentissimo
apparato politico-culturale comunista, e insieme sollecitati senza posa a dar
prova d’essere antifascisti come al tempo mitico della ‘Resistenza’, conclude-
vano - per quieto vivere - col non lasciar trascorrere si può dire giorno senza
richiamare - monotoni come burattini - l’attenzione generale sui passati cri-
mini nazisti e fascisti. In tal modo - com’era nell’intendimento dei burattinai -
l’attenzione generale finiva con l’essere puntualmente stornata dagli ancor più
colossali crimini comunisti. L’orrore sempre rinnovato per l’indubbiamente
nefando sterminio di sei milioni d’ebrei (ad opera dei nazisti, da anni ormai
scomparsi dalla scena) aveva conseguito lo scopo d’annebbiare le rivelazioni
sullo sterminio di circa venti milioni di contadini piccoli proprietari ad opera
dei comunisti. E riusciva giorno dopo giorno ad occultare i massacri - ancora
più sterminati di quelli russi - che in quel tempo si susseguivano in Cina.
Va inoltre detto che gli intellettuali ‘laici’ (i quali, pur non essendo comuni-
sti, finiscono anch’essi col porre come obiettivo dell’uomo la sua felicità sulla
terra) col passare del tempo andavano in numero crescente scoprendo la pro-
pria affinità ideale coi comunisti. Meglio ancora: s’andavano rendendo conto
che, per il fatto d’essere i più a sinistra fra tutti i materialisti, i comunisti era-
no anche - almeno nelle intenzioni - i più coerenti. Ciò andava condizionando
in modo crescente il campo laico, e incideva in particolare sui giornali, i quali
da sempre sono in Italia in mano ai laici.
In un simile contesto continuavano - sempre più isolati per il mancato so-
stegno dei mezzi della comunicazione sociale - i tenaci, mirabili insegnamenti
di papa Pio XII, che durarono fino al giorno della sua morte. Perciò i marxisti
e i laicisti d’ogni tipo si scagliavano ormai sopra tutto contro di lui. Così anche
il Vangelo continuava: il tempo degli osanna al papa era finito da un pezzo, ed
era sopravvenuto quello dei ‘crucifige’, in una marea di vociferazioni e di ca-
lunnie crescenti e sempre più insensate, di fronte alle quali i suoi finirono col
lasciarlo talmente solo che una sera, mentr’egli giaceva malato e pieno di
sconforto, Cristo gli apparve per confortarlo. (In relazione a questo episodio
possiamo dire che il Vangelo continua ancor oggi, a ventanni di distanza: gli
stessi cristiani infatti che allora, durante l’agonia di sangue di papa Pio hanno
dormito nell’ignavia, non amano che ora si parli di quel miracolo. Intorno al
quale ha finito col crearsi una sorta di congiura del silenzio, interrotta solo, di
tanto in tanto, da qualche miscredente che lo ricorda per sghignazzarne.)
PARTE QUINTA
CAPITOLO PRIMO
Un altro stacco di anni, ma non di vita. Michele - che non aveva neppure
tentato d’inserirsi nella televisione (pensava con ragione che i democristiani
responsabili, per non guastarsi coi rossi, non avrebbero mai accettato uno
come lui) - aveva terminata una nuova opera, una tragedia. Sottopostala per
l’eventuale pubblicazione al suo editore, ne aveva in attesa della risposta fatte
tirare un centinaio di copie al ciclostile, e le andava inviando a uomini di tea-
tro. Con la prima di tali copie sotto braccio si era recato all’università cattolica
per consegnarla personalmente a Mario Apollonio; non senza batticuore:
Apollonio era allora ritenuto, anche fuori degli ambienti cattolici, il maggiore
dei critici (oltreché storici) italiani del teatro, e il suo giudizio sarebbe stato
per il neo drammaturgo in ogni caso determinante.
L’illustre docente aveva accolto con un benevolo sorriso il fascicolo (intorno
a lui, appena uscito da un’aula, gli studenti stavano sfollando, e molti lancia-
vano occhiate di curiosità a Michele, non più giovanissimo, sulla quarantina
ormai): «Leggerò la sua opera con immenso interesse» aveva dichiarato. Poi-
ché doveva raggiungere un seminario interno, lo scrittore gli s’era messo al
fianco, accompagnandolo passo passo: «Lei non ha voluto spezzettarmi le tec-
niche del teatro» s’era permesso di dirgli in tono amichevole: «non ha voluto
insegnarmele, discorrendone a fondo con me, come io le avevo chiesto. Lo sa
che questo m’ha obbligato a una fatica tremenda?»
«D’individuazione personale nel corso del lavoro, oppure di ricerca sui ma-
nuali? Voglio dire: quelle tecniche lei le è andate a cercare in studi o testi, o le
ha messe insieme da sé?»
«Me le sono inventate nel corso del lavoro, si capisce, come lei m’aveva con-
sigliato. Che impresa però! Non avrei mai creduto che lo scrivere per la rap-
presentazione fosse tanto diverso dallo scrivere per la lettura. È enormemente
diverso, tutt’un’altra cosa.»
Apollonio annuiva: «Un autore originale come lei, modi e tecniche se li deve
appunto inventare, in questo non ha scampo» affermò. «Toccherà poi a noi,
che spezziamo il pane della conoscenza al pubblico, studiarli e farli conosce-
re.»
Era ancora una volta un grande riconoscimento. Michele, per ringraziarlo,
non aveva saputo far altro che sorridere timidamente (in queste cose era ri-
masto un ragazzo). «Intanto» aveva osservato «invece dei cinque o sei mesi
canonici, per scrivere questa tragedia me ne sono occorsi... beh, molti di più.»
«Questo» aveva detto Apollonio «mi fa venire ancora più voglia di leggerla.
Lo farò con l’interesse che lei può immaginare. Poi le telefonerò.»
***
Non fu lui a telefonare, ma sua moglie, qualche giorno dopo.
All’apparecchio le rispose Alma, che ne riconobbe la voce essendo stata più
d’una volta con Michele in visita dal professore. «Cercavo proprio lei signora»
le disse la Apollonio: «Volevo comunicarle che in vita mia non ho mai visto
mio marito così emozionato durante la lettura di un’opera. Mai l’ho visto così.
Dice che è un capolavoro, un lavoro straordinario. Sono felice per lei, mi cre-
da, felice.»
Come quattordici anni innanzi - al tempo della pubblicazione del primo li-
bro di Michele (le opere successive avevano incontrato un’accoglienza sempre
più ostile, per il graduale prevalere del marxismo e promarxismo negli am-
bienti culturali) - ad Alma sembrava di toccare il cielo col dito. Ringraziò, nel
suo solito modo compito, da quella statuina di marmo ch’era rimasta, la si-
gnora Apollonio, quindi corse nello studio a comunicare la grande notizia al
marito: «Sai chi ha telefonato adesso? La moglie d’Apollonio. E sai cos’ha det-
to? Che non ha mai visto - mai - suo marito così emozionato durante la lettura
di un’opera, come adesso che sta leggendo la tua. E... insomma che la tua tra-
gedia è un capolavoro.»
Michele s’illuminò in volto, “Forse ci siamo” pensò, “forse è finalmente arri-
vato il mio momento. Stavolta entro in lizza anch’io e...” «Dimmi cosa t’ha
detto esattamente» chiese alla moglie. «Ripetimelo, su.»
«Ha detto che secondo Apollonio è un lavoro straordinario, un vero capola-
voro.»
«Ah, così.»
Alma era tuttora molto attraente, lo era senza dubbio in questo momento,
arrossata in viso per la grande emozione che le vibrava dentro e tuttavia, al
solito, pareva non riuscisse a venire in superficie.
«Sei tu il capolavoro» disse il marito. Scostò alquanto la poltrona dal tavolo
a cui stava lavorando, e: «Vieni qui». Sì prese la statuina sulle ginocchia:
«Raccontami bene come stanno le cose».
«Ma io t’ho già detto tutto» e lo baciò.
«Sì, infatti, è una buona notizia. Fammi riflettere...» Si abbracciarono, e ba-
ciarono ripetutamente, come due ragazzi invasi dalla felicità.
«Un momento» fece lui: «La signora ti ha detto se è stato Apollonio a inca-
ricarla di telefonare?»
«No, non l’ha detto. Io ho l’impressione che mi abbia telefonato di sua ini-
ziativa per... amicizia. Non hai idea di quant’era contenta.»
«È una gran donna. Del resto questo l’abbiamo già constatato altre volte,
no? Beh, vuol dire che domani o dopo si farà vivo anche Apollonio.»
«Sì. Oh, Michele mio!» Almina poggiò la fronte contro la gota del marito, ve
la premette: «Che incanto essere tua moglie.»
«Anche se magari» disse lui «occasioni per essere fiera di me, come questa,
te ne do piuttosto di raro.»
«Ma va!» In realtà pensava: “È che tu, nelle cose pratiche, vuoi fare a ogni
costo di testa tua. Come quando non hai voluto nemmeno mostrare all’editore
la lettera di Croce, perché dicevi che i cattolici non devono farsi sostenere da-
gli altri, non devono ‘consegnarsi’ agli altri, ma devono bastare a sé stessi...” Si
astenne comunque dal dirlo, gattino di marmo come sempre.
«Beh, meglio una volta ogni tanto che mai» concluse lui.
Le effusioni dopo dieci anni di matrimonio non erano infrequenti tra loro.
Quando svegliandosi al mattino scorgeva accanto a sé la moglie addormenta-
ta, Michele se ne sorprendeva sempre, come d’un incredibile dono di Dio, e la
esaminava con emozione nell’incerta luce; a volte ne esplorava delicatamente
con una mano i lineamenti del viso (gli pareva di sentirne la perfezione di sta-
tua sotto le dita), il collo gentile, una spalla, il seno. “Non è un sogno, non è
affatto un sogno, è vera... Ed è qui, è veramente qui con me!” si diceva. Gli ca-
pitava di mettersi improvvisamente a baciarla con furia: «Sei qui, Alma, sei
qui con me!»
«Ma... cosa ti piglia? Per forza... io sono tua moglie» biascicava lei sveglian-
dosi frastornata. «Cosa t’aspettavi? Di non trovarmi più?» Poi, svegliatasi me-
glio, corrispondeva con trasporto alle sue effusioni, perché erano tuttora ‘cotti’
uno dell’altro. E sì che già in quei primi dieci anni in comune la vita non aveva
risparmiato loro le prove: pur desiderandoli, non avevano avuto figli, e aveva-
no dovuto assistere, senza poter fare niente, alla tragica lotta per la sopravvi-
venza economica dei parenti di Alma, che ormai erano anche gli unici parenti
di Michele. Inoltre, sebbene il modo di scrivere di questi fosse arrivato a in-
fluenzare altri narratori e anche giornalisti di successo, il suo nome non si era
affatto affermato nell’olimpo letterario. Nessuno infatti riconosceva formal-
mente quell’incidenza a lui, che seguitava a lavorare isolato e poco conosciuto,
guardandosi dal rivendicare alcunché.
CAPITOLO SECONDO
Passarono alcuni mesi. Un po’ alla volta Michele si andò rendendo conto
che se la sua opera fosse stata apolitica, non avrebbe incontrato difficoltà a
essere rappresentata, anzi data la scarsità di testi nuovi, sarebbe stata per il
suo indubbio valore drammatico accolta a braccia aperte. Ma si trattava di tea-
tro politico... (In effetti la tragedia, ambientata con realismo in Russia tra i
protagonisti delle enormi vicende di quel paese, rendeva in modo vigoroso e
insieme straziante l’impossibilità di cambiare con mezzi materialistici la co-
scienza e la natura dell’uomo, e dunque - né più né meno - l’impossibilità di
costruire il comunismo; si trattava senza dubbio di teatro politico.)
A chi glielo faceva osservare, egli obiettava: «Si trova o no oggi la politica al
centro delle passioni della gente? Dunque oggi il teatro non può evitare
d’essere, in maggiore o minor misura, politico. Così come quello medievale
non poteva evitare d’essere religioso, e quello greco mitico.» Non mancava di
portare solidi esempi a sostegno: «Guardate Brecht, il successo straordinario
che sta avendo in Germania e un po’ dappertutto Brecht. Nessun autore
drammatico è oggi sulla cresta dell’onda quanto lui: ditemi, s’è mai visto un
teatro più politico del suo?»
«Sì, questo è vero. Ma...»
Il ma non glielo dicevano, era tuttavia evidente: «Ma Brecht è marxista, si
trova cioè dalla parte verso cui si sta spostando, con molti altri settori della
cultura, l’intero ambiente dei critici, dei cronisti, e degli impresari teatrali.
Non te ne rendi conto? Brecht è addirittura il vate del marxismo.»
Michele, com’è ovvio, intuiva tale obiezione. “Brecht è soprattutto un pove-
ro disgraziato” si limitava a rispondere mentalmente: “Per conservarsi comu-
nista ha sopportato senza difenderla con una sola parola che la sua amante, la
Carola Neher, fosse deportata nei lager di Stalin. Dov’è morta chissà in che
condizioni, e dopo chissà quali sporchi ‘trattamenti’ da parte dei cechisti. E
pensare che finora è stata la miglior protagonista dell’ ‘Opera da tre soldi’. Co-
sa proverà adesso Brecht quando gli capita d’assistere alla sua ‘Opera’? Si sen-
tirà debitamente un verme, o è ormai a tal punto cerebroinvertito, da non pro-
vare alcuna emozione?”
Una sera si decise a esporre le proprie perplessità ad Apollonio, dopo averlo
chiamato al telefono per sentire se qualcuno si fosse fatto vivo con proposte
concrete.
«Io non credo che le cose siano deteriorate fino a questo punto, che i marxi-
sti la facciano a tal punto da padroni» gli rispose un po’ incerto il professore. E
dopo qualche istante di riflessione: «Senta Tintori: nei prossimi giorni sarà
qui a Milano il regista De Ponti, che la settimana ventura ha la compagnia in
scena al teatro Goldoni. Quello è d’estrazione cattolica, e quindi... Facciamo
così: io gli telefono e vedo di fissare un incontro. Lo andremo a trovare insie-
me.»
***
Il teatro Goldoni - uno dei maggiori della città - è ubicato non lontano dal
duomo; il professore e Michele vi si diressero a piedi, partendo appunto da
piazza del duomo dove s’erano dati appuntamento (sotto l’arcata di mezzo del
portico settentrionale: qui - a farlo apposta - era esposto il nuovissimo reper-
torio del Piccolo Teatro del comune di Milano diretto da Grassi e Strehler: si
trattava di tutte o quasi opere di Brecht, d’accesa propaganda marxista; i due
avevano finto di non vederlo).
Una volta usciti dalla piazza passarono davanti a una trattoria che Michele
conosceva per avervi subito dopo la guerra pranzato più volte con John Burns,
a quel tempo giovane speranza della letteratura americana, adesso già spieta-
tamente dimenticato. Lo scrittore avrebbe voluto ricordare Burns ad Apollo-
nio, ma ne fu impedito dal fatto che questi lo veniva ragguagliando sul regista
col quale stavano per incontrarsi: «È figlio dell’ex senatore De Ponti, che è
uomo oltretutto molto facoltoso» Apollonio strofinò il pollice e l’indice della
mano, «miliardario. Ed è anche nipote del ministro Tiziano.»
«Ah, questo non lo sapevo.»
«Si tratta di due personalità importanti della Democrazia Cristiana come
vede, specialmente il secondo. De Ponti - parlo del regista - ha press’a poco
l’età che ha lei Tintori. Se è già potuto arrivare dov’è arrivato, non lo deve sol-
tanto ai propri meriti di regista (che pure sono notevoli, gliel’assicuro) ma an-
che al fatto d’avere quei parenti, cioè in conclusione al partito. Ora uno che dal
partito cristiano ha ricevuto tanto, non può assolutamente essersi intruppato
coi marxisti. Le pare? Sarebbe un comportamento da... addirittura da...»
«Eh!» convenne Michele.
«Ecco, noi non dobbiamo nemmeno pensarlo, sarebbe un pensar male del
nostro prossimo» disse Apollonio. «Io anzi sono convinto che oggi De Ponti
non si lascerà sfuggire l’occasione per dimostrare che la fiducia riposta in lui è
ben riposta. Vedrà.» Apollonio si aspettava con evidenza dagli altri un com-
portamento analogo al proprio; Michele - altrettanto sprovveduto - fu
d’accordo senza difficoltà.
Entrarono nel grosso immobile del teatro Goldoni per un ingresso minore;
erano attesi e vennero accompagnati dietro il palcoscenico, in un locale am-
mobiliato con mobili scompagnati e di fortuna; Michele si guardava intorno
con vivo interesse: “È la mia prima entrata nei sacri penetrali del teatro” si
diceva, cominciando a gustare la piccola vicenda.
De Ponti li raggiunse subito: vestiva in modo finto-trasandato, con maglio-
ne a girocollo e giacca a spacchi, aveva la fronte alta, da intellettuale, in una
mano teneva il copione di Michele fattogli recapitare da Apollonio.
«Caro professore. Non immagina quanto la veda volontieri. Come sta? Co-
me sta?»
E dopo che si furono seduti tutt’e tre, sempre rivolgendosi ad Apollonio:
«L’ho molto ammirata, sa? Dico per quella strigliata nell’ultimo numero di
‘Drammaturgia’ ai finti tonti del Ministero. Un discorso magistrale: lei gli leva,
con garbo, la pelle di dosso.»
«Oh» fece Apollonio sorridendo «sono svagatezze, nugae...» Andarono
avanti così a scherzare per un po’; quindi De Ponti, alzando il copione della
tragedia: «Ma veniamo al punto, al motivo del nostro incontro» fece; e quasi
senza mutare tono: «Purtroppo devo subito dire che questo lavoro io non lo
posso inserire nel mio programma, perché per quest’anno e anche per tutto
l’anno venturo mi trovo così.» Tagliò con la mano l’aria sopra la propria testa,
a significare: mi trovo sommerso. «Il mio programma è già completo, e stipato
anche.»
La cosa non sembrava verosimile; i due visitatori lo guardarono interdetti.
“Ecco, siamo alle solite” pensò Michele.
«Ma questa è un’opera obiettivamente importante» disse Apollonio a mezza
voce: «Uno che sta sulla breccia come lei, non dovrebbe lasciarsela sfuggire.»
«Non ne dubito» rispose l’altro. «Poiché lo dice lei» (“Prendi nota” afferrò
Michele: “poiché lo dice lei”) «non dubito che sia importante. Ma cosa posso
fare? Il mio piano di lavoro è già completo le dico. Per due anni. Non posso
introdurre dell’altro.»
A queste parole tenne dietro un breve silenzio.
«Mi scusi» fece a un tratto Michele, che fino a quel momento non aveva
quasi parlato: «Posso chiederle se il copione lei lo ha letto?»
«Se l’ho letto? Si capisce che l’ho letto. Eh, credo bene.»
«E come lo giudica?»
«A me lo chiede? Ma se abbiamo qui il nostro maestro? Non esiste un giu-
dizio più autorevole del suo.»
“Non si vuol sbilanciare nemmeno con un giudizio verbale” realizzò di nuo-
vo Michele, e guardò Apollonio tentennando la testa, come a dire: è inutile che
perdiamo il nostro tempo.
De Ponti afferrò quell’occhiata e se ne risentì; la fronte e gli zigomi gli
s’arrossarono un poco. «Senta signor mio» disse a Michele: «lo sa lei che io ho
partecipato alla resistenza?»
«Alla resistenza?» rispose Michele «E cosa c’entra?»
«Ah, le sembra niente questo?»
S’intromise prontamente Apollonio, che provvide a smorzare sul nascere la
schermaglia: «Sa, anche Tintori ha molto sofferto per la guerra: è uno dei po-
chi sopravvissuti ai campi russi di prigionia, che in realtà furono spesso di
sterminio, come sappiamo appunto grazie a lui.» Sorrise invitando alla disten-
sione poi, con cortesia, mostrò d’interessarsi all’affermazione del regista:
«Dunque lei ha partecipato alla resistenza? L’ho letto da qualche parte infatti.
Dove ha operato che non ricordo?»
«A Urbino.»
«A Urbino?»
«Sì, all’università. Certo» continuò De Ponti con aria risentita «non s’è trat-
tato d’uno dei maggiori episodi della resistenza nazionale. Non dico questo.
Quella d’Urbino in fin dei conti è soltanto una piccola università. Però qualco-
sa» ribadì teso «abbiamo fatto anche là. Altroché.»
Apollonio annuì ripetutamente, invitando con ciò l’altro ad andare avanti.
Gli occhi di Michele - che in quel momento era tentato per reazione di manda-
re a quel paese, e senza ritorno, tutta quanta la ‘resistenza’ - si fermarono sulla
cicatrice d’una frattura ossea che il professore aveva in fronte. Di quella cica-
trice solo pochissimi conoscevano l’origine: gliel’aveva provocata una SS col
calcio ferrato del fucile un giorno che Apollonio - visti in sosta in una piazzetta
di Milano alcuni autocarri carichi di deportati - dopo essersi precipitato a
comperare per loro, in mancanza di meglio, della frutta in un negozio, aveva
cercato di passargliela. Era stato raccolto da terra privo di sensi, con la testa
insanguinata. Per lui la resistenza al nazismo era stata qualcosa di sofferto e
autentico - pensò Michele - proprio per questo non ne parlava mai, e tanto
meno a vanvera.
Risolse a un tratto di non lasciar perdere, e interrompendo il discorso già
un po’ meno risentito di De Ponti: «Senta» gli disse «ho l’impressione che ci
sia un malinteso. Lei ha parlato di resistenza; perché - io mi chiedo - lei s’è
opposto al nazismo? Per gli errori su cui sì fondava, immagino, e per le sue
prepotenze, e sopra tutto per le vittime che faceva. In questo io sono toto cor-
de con lei. Però anche nel comunismo ci sono errori che comportano conse-
guenze molto tragiche. E infatti quanto alle vittime il comunismo ne ha fatte
senza confronto di più, e poiché non è scomparso come il nazismo, di ecatom-
bi ne sta provocando anche oggi, anche adesso: in Cina come lei sa. Dunque,
proprio a motivo del suo spirito resistenziale, lei dovrebbe essere d’accordo
con me in questo: che il fenomeno comunista va quanto meno indagato. Il
processo allo stalinismo non lo possiamo lasciar fare ai soli stalinisti, le pare?
Ora la mia tragedia intende appunto...»
Il regista, che l’aveva ascoltato diventando sempre più rosso in viso, lo in-
terruppe in modo quasi isterico: «No, signor mio. No. No. Io ho fatto la resi-
stenza» ripeté alzando addirittura la voce. «La vuol capire? E lei non può ob-
bligarmi ad agire come se non l’avessi fatta.»
Michele cessò d’argomentare. Era troppo evidente che all’altro non stava in
alcun modo a cuore la resistenza, ma soltanto il proprio utile, il suo ‘particu-
lare’. “Non pensa ad altro. Con un padre e uno zio così formidabilmente piaz-
zati, si sente a posto dal lato governativo, e si dà quindi da fare per tenersi
buoni sull’altro versante i comunisti. Delle vittime in Cina se ne frega. Tutto
qui. Che schifo però!”
Apollonio intervenne di nuovo, ricucì con pazienza le fila della conversazio-
ne, e la portò avanti seppure con minor vivacità quel tanto che consentisse a
lui e a Michele di venir via senza strappi. Infine s’alzò in piedi. I due visitatori
presero congedo; gli ambienti del teatro, mentre li riattraversava diretto
all’uscita, non avevano già più per Michele l’attrattiva di poco prima.
CAPITOLO TERZO
«Urbino...» osservò lo scrittore una volta che furono nella pubblica via:
«non l’hanno liberata le truppe italiane dell’esercito regolare?»
«Non saprei» rispose il professore, guardandolo incuriosito.
«Credo proprio. Oppure i polacchi di Anders, che in fondo fa lo stesso. Lo
dico perché a Nomana - sa, il paese di mia moglie - c’è un tale, allora sottuffi-
ciale degli alpini nel corpo italiano che stava con gli ‘alleati’, il quale una sera
chiacchierando mi ha detto: ‘Il nostro battaglione ha ricevuto il cambio dai
polacchi sotto Urbino: avevamo la città in faccia’. Più o meno così, tanto che
m’è venuto in mente l’ ‘abbiamo in faccia Urbino ventosa’ del Pascoli. Sì. Non
credo che sia stata liberata dai resistenti dell’università.»
Procedettero in silenzio. Dopo un po’ Apollonio disse: «Forse le cose vanno
effettivamente peggio di quanto io supponessi.»
«A me dispiace per lei» fece Michele; intendeva mi dispiace che un uomo
come lei si sia, per causa mia, esposto a un rifiuto.
Il professore tentennò la testa bonariamente: pur a sua volta mortificato,
non aveva perduto il bel sorriso intelligente e paterno che ha dato conforto a
tanti.
Le vie di Milano - anche le più centrali - hanno sempre un che d’attivo e di
feriale, e questo invitava i due a non drammatizzare, a darsi da fare ancora, a
non cedere.
«La cosa che forse dovrebbe preoccuparci di più» propose Apollonio dopo
altri pochi passi «è la confusione che mi pare si stia infiltrando un po’ dovun-
que. Adesso tutti applaudono quel sant’uomo di papa Giovanni, e fanno bene;
il fatto strano - che non torna - è però che lo applaude anche chi non dovreb-
be. E in primo luogo i comunisti.»
«A quelli importa soprattutto una cosa: che nel suo amore, per tutti senza
eccezione gli uomini, il papa stia abbassando di fatto le difese nei loro riguar-
di.»
«Già. Ma è implicito che in pari tempo gli chiede di convertirsi.»
«Sì, senza dubbio. Intanto però abbassa le difese, ed è questo che conta per
loro.»
«Ecco, come le dicevo, la confusione non è poca. Io non vorrei che in mezzo
a noi i profittatori, come questo signore che abbiamo appena incontrato, fini-
scano col creare dei guasti troppo grandi.» Tacquero di nuovo.
«Beh» buttò là Michele «in duemila anni noi cattolici non siamo riusciti a
far naufragare la chiesa, non ci riusciremo neppure adesso.» Sorrisero en-
trambi: era una facezia, ma anche una constatazione obiettiva. Del resto per-
ché allarmarsi oltre misura? A quel tempo il mondo cattolico risentiva ancora
in pieno gli effetti dell’illuminata guida di Pio XII: la dottrina della chiesa era
tuttora così limpida e univoca, e le sue certezze talmente radicate nel cuore dei
fedeli, che l’idea d’una prossima crisi sembrava davvero fuori posto. E tutta-
via...
«Lo sa professore che il mese scorso il mio editore m’ha restituito il dattilo-
scritto della tragedia? Con tante scuse e belle parole, s’intende; però non lo
pubblica. Credo che anche nella casa editrice non se la sentano più di dispia-
cere ai marxisti.»
«Capisco.»
In prossimità della piazza del duomo i due ripassarono davanti alla trattoria
in cui un tempo usava pranzare John Burns; stavolta lo scrittore lo ricordò al
docente: «Vede questa trattoria, professore? Qui ho pranzato più volte con
John Burns, lo scrittore americano. L’ha ancora presente? Ha letto la sua ‘Gal-
leria’?»
«Sì, certo. In seguito però non ho letto altro di suo. John Burns... È morto
mi pare.»
«Sì. Il suo secondo romanzo ‘Lucifero con un libro’ non ha avuto successo, e
lui, ridotto in miseria e alcolizzato, s’è suicidato con l’alcol.»
«Qui in Italia?»
«Sì. Non a Milano però, a Roma; non riusciva più a staccarsi dall’Italia, po-
veraccio. È morto senza una lira in tasca, tanto che l’editore ha dovuto pagare
il funerale.»
Che malinconia!
Michele cercò inutilmente di dare attraverso le finestre un’occhiata dentro il
locale: chissà se c’era ancora quel cameriere comunista che lui - sotto lo
sguardo dapprima beffardo, poi un po’ alla volta partecipe di Burns - s’era tan-
to dato da fare per convertire al cristianesimo e alla democrazia? Abbastanza
impensatamente quel cameriere aveva concluso col convertirsi davvero... “Il
mio unico successo apostolico e politico fino a oggi” pensò ora lo scrittore:
“Chissà però se col tempo quello si è conservato nella fede?”
Entrati in piazza del duomo i due si salutarono senza giungere al portico
settentrionale in cui era trionfalmente esposta la programmazione marxista
del Piccolo Teatro del comune di Milano. «L’esperienza che abbiamo fatta oggi
è quanto meno un sintomo» disse Apollonio (ignaro che anche per lui sareb-
bero arrivati i giorni dell’ostracismo: per mettere in difficoltà la cultura cri-
stiana infatti i rossi e soprattutto i loro portavoce sedicenti cristiani come que-
sto De Ponti, avrebbero instancabilmente sottoposto a contestazione i suoi
esponenti, fino a privarli d’ogni autorità effettiva: anche Apollonio sarebbe
stato un po’ alla volta escluso dai vari mass media, e alla fine anche da quelli
cattolici). «Perciò noi adesso dobbiamo sentirci impegnati a lavorare più di
prima» proseguì: «Lei specialmente, che s’è assunto il compito - e anzi la
Provvidenza stessa, io credo, gliel’ha assegnato, conducendola attraverso quel-
le terribili esperienze - di far conoscere la realtà del comunismo.» E poiché
Michele annuiva in silenzio: «Siamo d’accordo?»
«Sì» gli rispose lo scrittore. «Del resto io non posso fare a meno di lavorare.
E poi, beh, come lei ha detto, ho visto cose peggiori di questa.»
Partito il docente lo scrittore bighellonò alquanto con le mani in tasca nei
dintorni della cattedrale. Come una volta, quando vagava con John Burns...
Poiché non poteva più disputare con lui, gli venne spontaneo di recitare per lo
scrittore scomparso le preghiere dei morti, per aiutarlo almeno da morto, vi-
sto che non era riuscito con le sue argomentazioni ad aiutarlo da vivo. Ogni
tanto alzava gli occhi ai fastigi del duomo, che gli apparivano da prospettive
diverse: dovunque sulle guglie gotiche c’erano statue, fatte dello stesso marmo
delle pareti, erano centinaia e centinaia. Pensò ai maestri scalpellini che le
avevano scolpite: uomini sconosciuti i quali, qui e altrove, avevano spesa la
vita intera, soprattutto nel medio evo, a scolpire con pazienza, e spesso con
arte mirabile, le statue delle cattedrali, anche quando sapevano che una volta
issate al loro posto, nessuno avrebbe potuto ammirarle: nessuno, tranne Dio.
Lui dopo tutto non si era sempre considerato uno scalpellino? Sebbene
scolpisse pagine anziché pietra. Cos’era dunque questa pena che l’attanagliava
perché la gente non avrebbe forse mai conosciuta la sua opera? Certo, come
dice il Vangelo, non si accende un lume per metterlo sotto il moggio: tuttavia
il suo dovere era di continuare a scrivere senza lasciarsi turbare, seguisse o no
il successo. Delle sue opere avrebbe certamente goduto Iddio; e anche suo pa-
dre, lo scalpellino-scultore, che si trovava con Dio là in alto.
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
Quel giorno stesso Apollonio telefonò a sua volta a Ferri a Roma, poi chia-
mò Michele: «Ha intenzione di mettere in scena il lavoro. Proprio oggi ha av-
viata la pratica per la sovvenzione statale.»
«La sovvenzione statale?»
«Sì. C’è una leggina che stanzia un po’ di fondi per le opere di autori nuovi -
tre milioni a opera - e lui cerca d’avvalersene. Ho fiducia, stavolta ci siamo.»
Diede per ogni evenienza a Michele il numero telefonico di Ferri.
Nelle settimane successive, mentre da Roma non giungevano notizie, Mi-
chele e con lui Alma passavano dal senso dell’attesa (ricco di suggestione, av-
vincente) a qualche momento d’inquietudine, finché una sera, non sopportan-
do più tale altalena, lo scrittore si decise a telefonare a Ferri. Gli rispose il ca-
po compagnia in persona. «Non gliel’ha detto Apollonio?» chiese non appena
udì il nome di Tintori: «Andiamo in scena, certo, è tutto deciso. Adesso sto
scegliendo gli attori. Diamo due opere nuove, una è la sua. Un momento, i co-
pioni... ha dei copioni disponibili? Sì? E non me li ha ancora spediti? Forza, li
spedisca subito. A casa mia? No, meglio al teatro: prenda nota, le detto
l’indirizzo e il numero di telefono, d’ora in poi mi telefoni là.»
“Sono stato indiscreto” si rendeva conto Michele, “a telefonargli a casa... Ad
ogni modo ormai bene così”. Annotava intanto l’indirizzo: teatro della Stella,
via del teatro di Marcello: «Due teatri sulla stessa via?» chiese.
«Sì» gli rispose ridendo Ferri: «soltanto che il teatro di Marcello ha duemila
anni e li dimostra tutti, perché è un rudere, piuttosto grosso magari.» Si rese
conto che Michele non conosceva quella parte di Roma: «Sa dov’è la via del
teatro di Marcello? Corre al piede del Campidoglio. Ha presente la famosa sa-
lita del Campidoglio, quella di Michelangelo? Ecco, ha inizio proprio di fronte
al nostro teatrino della Stella.»
Michele s’informò anche circa il regista, se fosse già stato scelto. «No, non
l’ho ancora scelto» rispose Ferri «e, a dir la verità, della sua tragedia sto pro-
gettando di farlo io stesso il regista. Sarebbe la mia prima regia, che ne dice?
Però non so, devo ancora decidere.» Michele era sempre più emozionato (ac-
canto a lui Alma, con la tempia appoggiata alla sua, seguiva attentamente il
colloquio, e poco mancava non le scoppiasse il cuore per la gioia): «Io non...
Non so proprio come ringraziarla» concluse la conversazione, assolutamente
con poca fantasia, Michele.
«Come si vede che lei è nuovo a queste cose» fece il capo compagnia
all’altro capo del filo, e si mise a ridere. Dava ai due che l’ascoltavano
l’impressione di un uomo non solo all’altezza dei propri compiti, ma anche
d’animo buono.
Una volta riappeso il ricevitore: «‘La c’è la Provvidenza’, vedi?» esclamò
Michele, e alzandosi in piedi: «Pensare che io, dopo quell’incontro con De
Ponti, temevo che il lavoro non sarebbe mai stato rappresentato, almeno me
vivente. E invece.»
Alma, indicibilmente felice, gli fece una carezza. All’altro parve a un tratto
d’essere troppo fortunato, tanto che divenne per qualche momento pensiero-
so: sapeva che a molti ciò ch’egli aveva temuto per sé, di non venire rappre-
sentati o pubblicati, era in effetti accaduto, e stava accadendo.
***
Nei giorni che seguirono il senso d’attesa si fece in Michele straordinaria-
mente intenso; l’avvertiva si può dire, ogni volta che nel corso della giornata
staccava l’attenzione da ciò che la teneva occupata: subito, in luogo d’una
qualsiasi altra cosa, gli si prospettava la stupenda vicenda che stava per vivere.
Sarebbe andato a Roma, avrebbe visto i personaggi costruiti dalla sua imma-
ginazione prendere corpo, impersonati da attori che si sarebbero adoperati a
rendere nel modo migliore i casi, i sentimenti, il mondo da lui immaginati.
Ciascuno di quegli attori - di cui tuttora ignorava i nomi - avrebbe necessa-
riamente trasformato un po’, non fosse che a causa del proprio aspetto, il per-
sonaggio da lui inventato, gli avrebbe cioè dato un proprio apporto. Quale sa-
rebbe stato il risultato? “Davvero” constatava Michele “altra cosa è scrivere
per la lettura, e altra, molto diversa, scrivere per la rappresentazione.”
Se gli capitava di destarsi nel corso della notte quel senso d’attesa lo per-
meava totalmente: gli si prospettava la sala, la gente, la recitazione, e poi gli
applausi, e poi gli articoli dei giornali con i commenti, un incontro con questo
o quel critico (di cui ignorava le fattezze, e quindi gliele prestava). La sua di-
mostrazione davvero inattaccabile (egli n’era convinto) dell’impossibilità di
costruire il comunismo - la quale veniva oltre tutto a costituire un’eccellente
convalida storica a contrario della dottrina sociale della chiesa - sarebbe fi-
nalmente entrata nel concerto della cultura, vi avrebbe portato frutti. Forse
sarebbe arrivata a insinuare dei dubbi, se non tra i comunisti, almeno tra gli
intellettuali ‘laici’ loro sostenitori. Fors’anche dei forti dubbi... Dopo Roma -
perché no? - lo spettacolo, dato l’immancabile successo, si sarebbe trasferito
in altre città, e dovunque i giornali ne avrebbero parlato. La fantasia dello
scrittore si sbrigliava: chissà, se ne sarebbe forse interessata anche la stampa
estera, la quale influisce ben più della nostra sulla realtà mondiale in divenire.
La sua tragedia (“come quelle dell’antico teatro greco” egli pensava esaltando-
si “ch’erano state realmente maestre di vita”) sarebbe potuta diventare un
ostacolo concreto all’imbarbarimento, in particolare all’estendersi delle terri-
bili ecatombi comuniste - dopo la Russia e la Cina - ad altri paesi...
CAPITOLO SESTO
***
All’esterno l’ambiente era suggestivo oltre ogni dire: davanti al teatro,
sull’altro versante della strada (che scendeva verso destra ai ruderi del teatro
di Marcello e al Tevere) s’innalzava il colle Campidoglio, ornato di lauri e di
pini, risalito dalla nitida scalinata di pietra ‘che pare conduca al cielo costruita
da Michelangelo.
Michele ricordò la sensazione provata qualche tempo addietro all’uscita dal
teatro Goldoni di Milano, dopo l’infelice incontro con De Ponti: l’invito a ope-
rare ancora, a non cedere, che gli era venuto dall’ambiente milanese così per-
meato d’attività. “Qui l’ambiente è del tutto diverso” constatò. E tuttavia sen-
tiva di trovarsi anche in questo perfettamente a suo agio: apparteneva anche
questo, non meno di quello, alla sua cultura e civiltà.
D’accordo. Adesso però aveva bisogno di riflettere. Si mise a passeggiare
avanti e indietro lungo la strada che scendeva al Tevere, rimuginando. Non gli
occorse molto tempo per afferrare cosa si nascondesse dietro le scelte di Pavi
Austeri: il regista stava comportandosi, con l’opera che s’era ritrovato fra le
mani, né più né meno di come si sarebbe comportato se fra le mani gli fosse
capitata una patata bollente. Non rinunciava a dirigerla (perché? probabil-
mente a causa dei suoi rapporti professionali con Ferri) ma in pari tempo
gliene doveva venire disagio e fors’anche paura. Certo si prospettava le reazio-
ni sfavorevoli della maggior parte del mondo teatrale, che in fin dei conti era il
suo mondo, quello in cui egli doveva vivere... Sì, questo, e nient’altro che que-
sto, poteva spiegare il suo strano comportamento: anche qui a Roma infatti,
secondo Ferri gli aveva confermato la sera prima, i più dei critici e dei cronisti
teatrali, se anche non erano passati al marxismo, si fingevano attivamente
promarxisti per interesse. (“Però, quanta viltà in Italia!”) Come che sia, con
tale realtà Pavi Austeri doveva fare i conti: ecco perché era apparso così imba-
razzato con lui, perché non aveva voluto nel cast attori adatti, i quali avrebbe-
ro ovviamente contribuito al successo della, rappresentazione... Ed ecco per-
ché stava trasformando la rappresentazione stessa non già, come aveva affer-
mato, in un ‘esperimento nuovo’, ma in un’asettica lettura drammatizzata, né
più né meno, cioè in qualcosa di devitalizzato, di neutro, di non propriamente
teatrale.
La prima mossa di Michele - una volta afferrato tutto questo - fu un deciso
dietro-front per tornare in teatro: avrebbe invitato il regista a sospendere le
prove: ove quello si fosse rifiutato, avrebbe - pensava - fatto intervenire la so-
cietà nazionale che tutela i diritti degli autori, bloccando in ogni caso la rap-
presentazione.
Dopo alcuni passi furibondi s’impose però un’ulteriore riflessione. Valeva la
pena di mettersi a discutere con uno sconosciuto? Non sarebbe stato meglio
affrontare la questione con Ferri? Era troppo evidente che sì. Però i suoi im-
pegni scolastici (insegnava in un liceo adesso) non gli consentivano
d’attendere il ritorno del capo compagnia a Roma. E allora? Trattare la que-
stione con lui per telefono, da casa? “No, eh no. Cosa potrei concludere per
telefono?” Pensò che il meglio sarebbe stato raggiungere Ferri a Firenze: “Oggi
stesso, perché no? Sì, è la soluzione migliore: io non devo perdere tempo.” De-
cise di rimettersi in macchina e partire addirittura. “Se poi, per qualche ragio-
ne, non riesco ad incontrarlo, mi libero dalla scuola per un’intera settimana,
torno qui a Roma, e non mi muovo finché non risolvo questo maledetto pro-
blema”.
CAPITOLO SETTIMO
Non poté incontrare Ferri a Firenze. Ebbe modo di parlare con lui soltanto
qualche giorno più tardi per telefono, da casa (stavolta Alma non era presente
alla conversazione: pur tenendola informata di tutto, il marito aveva di propo-
sito effettuata la chiamata in sua assenza).
Ostentando di non dare troppa importanza alla cosa, Ferri ammise che sì,
forse la scelta del regista non era stata del tutto felice. Ma cosa poteva fare
ormai? Si dovevano in particolare tenere presenti le spese già sostenute...
In quei giorni Michele aveva ponderato a lungo sulla decisione da prendere
nel caso non fosse riuscito ad ottenere da Ferri una vera e propria rappresen-
tazione. Doveva buttare tutto all’aria? Oppure chiudere gli occhi e piegarsi alle
manipolazioni del regista Pavi Austeri? Certo se in conclusione nemmeno Fer-
ri risultava in grado di rappresentare la sua tragedia, ben difficilmente egli
avrebbe potuto trovare un altro capo compagnia in grado di rappresentarla...
Ragionando a freddo aveva finito col riconoscere che una lettura drammatiz-
zata sarebbe stata, dopo tutto, meglio di niente. Glien’era venuto un pesante
senso di violenza e d’umiliazione. Com’era potente però, e come si faceva sen-
tire anche qui il demonio che là all’est aveva intruppato centinaia di milioni
d’esseri umani nel sistema dei lager e del cannibalismo! Ma possibile che
un’opera obiettivamente importante - sulla cui importanza c’era il giudizio
concorde d’Apollonio, di Zarbini e dello stesso Ferri - dovesse rimanere come
non scritta? Era dunque questa la vita? (Sì, anche questa - gli diceva una voce
dentro - era la vita: la difficoltà, e per tanti l’impossibilità di realizzarsi.) Un
tal fatto tuttavia gli ripugnava al punto che aveva finito col non decidere, col
lasciare la decisione in sospeso.
Adesso, con Ferri al telefono, cercò di convincerlo del grosso errore che si
stava per commettere («Anche sotto l’aspetto economico: chi vuoi che compe-
ri il biglietto per assistere a una lettura drammatizzata?») e che la vera solu-
zione sarebbe stata il ritorno al progetto iniziale («Devi deciderti a fare tu
stesso il regista: è l’unico modo per sistemare ogni cosa.»)
L’altro però gli rispose che no, questo ormai non era più possibile, neanche
pensabile. Promise soltanto, sotto il pressante argomentare di Michele, che
avrebbe chiesto a Pavi Austeri di rappresentare in modo regolare almeno i
punti chiave dell’opera. Poi - da vero uomo di teatro, cui i colpi di scena veni-
vano spontanei - diede a Michele, sempre in tono minore, un’importante noti-
zia: «Non te l’ho ancora detto che la televisione ha deciso di registrare il lavoro
e di metterlo in onda? Ho già definito ogni cosa. Sei contento?» Lì per lì Mi-
chele ammutolì: la televisione significava milioni di spettatori, il che cambiava
oggettivamente la prospettiva, anche se - magari - rendeva più bruciante il
fatto che l’opera non venisse rappresentata nel debito modo.
«Ho capito bene?» domandò: «Daranno la tragedia alla televisione?»
«Sì, hai capito bene. La prendono a scatola chiusa: la verranno a registrare
qui in teatro, e poi la trasmetteranno in televisione, è già tutto definito.» Ferri
parlava con la naturalezza di chi alla televisione è di casa; e lui lo era infatti.
«Senti, m’assicuri che almeno i punti principali verranno rappresentati
normalmente?»
«Ti assicuro che lo chiederò a Pavi.»
***
La prospettiva della televisione entusiasmò Alma, e con lei tutti i parenti di
Nomana, i quali decisero di assistere in massa alla prima d’un’opera tanto im-
portante. La sola a non mostrarsi attirata fu Fanny, alla quale dagli anni della
crisi della ditta tutto ciò che concerneva i parenti d’Ambrogio dava soltanto
fastidio: «Me non m’incanti più, caro» aveva risposto al marito che le prospet-
tava la gita a Roma; s’era fatta un po’ nevrotica, non di rado gli rispondeva con
sgarbo a quel modo, e anche in modo peggiore.
Per cui Ambrogio stabilì che si sarebbe recato a Roma senza di lei, accom-
pagnandovi in macchina il padre e la sorella Francesca, che per essere presen-
te aveva in programma di lasciare a Visate la nidiata dei suoi figli (sette ormai,
in quattordici anni di matrimonio, tutti col nasino affilato, distintivo dei Mar-
savi). Giuditta, in quei giorni prossima al parto (s’era sposata da qualche an-
no), dovette invece suo malgrado rinunciare. Fortunato (da un pezzo non più
industriale, divenuto commerciante di immobili e terreni) e sua moglie, e con
loro Alma, si sarebbero recati a Roma in aereo giusto in tempo per la prima.
Michele raggiunse la città con qualche giorno d’anticipo per assistere alla
ultime prove. Com’era prevedibile il regista Pavi Austeri non aveva accolta la
proposta di Ferri di rappresentare in modo normale i punti salienti della tra-
gedia: gli era stato facile obiettare che ne sarebbe derivata un’inammissibile
mistura. Aveva invece, il giorno prima dell’arrivo dell’autore, tentato di fare
un’altra cosa: recatosi nella tipografia in cui si dovevano stampare i manifesti
e le locandine dello spettacolo, aveva fatto togliere da ogni bozza il proprio
nome, sostituendolo con quello d’un suo aiuto-regista, un ragazzo che gli era
stato saltuariamente al fianco nel corso delle prove. Fu per puro caso che Mi-
chele - recatosi a sua volta nella tipografia a dare un’occhiata - venne a cono-
scenza della cosa. Prontamente bloccò la stampa del materiale e fece interve-
nire Ferri, minacciando apertamente, stavolta, d’impedire la rappresentazio-
ne. Riconoscendo le sue buone ragioni Ferri finì con l’indignarsi per il com-
portamento di Pavi Austeri il quale, dopo avere manipolato a suo piacimento
lo spettacolo, tentava ora di non figurarvi, e ne fece reintegrare il nome negli
stampati: «Vedi però con che gente si è costretti a lavorare nel nostro ambien-
te? Ti rendi conto? E Pavi, t’assicuro, non è dei peggiori. Anzi.»
Alla prova generale presenziarono - seduti in platea insieme col regista Pavi
Austeri - il capo compagnia Ferri, l’autore Tintori, il giornalista e deputato
Ludovico Zarbini, un paio di critici teatrali loro amici, e un anziano giornalista
dell’ ‘Osservatore Romano’ che si era anni prima favorevolmente occupato dei
libri del Tintori.
Malgrado l’assurdo dei personaggi tutti vestiti in modo identico e inchiodati
ciascuno dietro un leggio, ridotti in pratica a semplici voci, finì grazie alle ri-
sorse del testo col riuscire una serata in qualche modo esaltante: i non ordina-
ri spettatori, che avevano letto il copione, s’immaginavano l’azione mancante e
se ne commovevano; Zarbini e Ferri specialmente, il quale ultimo, quasi in
risposta alle obiezioni dell’autore, ripeteva ogni tanto: «Se non è teatro que-
sto! Se non è teatro questo!» al punto che Michele si lasciò contagiare
dall’entusiasmo generale e cominciò, contro ragione, a sperare in una riuscita.
Tutto ciò venne avvertito da Pavi Austeri (che unico tra i presenti serbava -
come per modestia - un atteggiamento distaccato), e finì con l’allarmarlo an-
cora di più.
II
CAPITOLO OTTAVO
La sera della prima il teatro della Stella si riempì di gente fino a traboccar-
ne. Michele vi giunse in compagnia dei parenti di Nomana, con i quali aveva
cenato; gli camminava a fianco Almina, che per l’occasione s’era fatta un bel-
lissimo abito da sera nuovo, di velo azzurro: il più bell’abito che Michele le
avesse mai visto (e che le avrebbe mai visto anche in seguito); era talmente
fiduciosa, che sembrava irradiare luce: coi suoi lineamenti di statua, e i capelli
castani raccolti a chignon sulla nuca, s’intonava singolarmente - lei lombarda -
all’ambiente romano. Il marito era a tal punto preso dalla sua presenza che
avrebbe voluto non dedicarsi ad altro. Ma doveva dedicarsi ad altro: dovette
per cominciare presentare il famoso giornalista Zarbini - venutogli incontro
nel ridotto - a Gerardo e ai cognati, i quali lo conoscevano di fama e furono
emozionati di poter scambiare qualche parola con lui. Dovette informarsi da
un valletto se fosse arrivata per caso qualche personalità del mondo romano
(sì, c’erano alcune personalità politiche). Dovette chiedere all’anziano giorna-
lista dell’ ‘Osservatore Romano’, che attendeva passeggiando su e giù nel ri-
dotto, se gli fosse riuscito di portare un importante critico (no, stasera quel
critico era impegnato altrove, aveva però promesso di venire l’indomani). In
compenso c’erano tutti senza eccezione i cronisti teatrali dei giornali romani:
«E sono, la avverto, un po’ nervosi» gli riferì Zarbini. «Certo non si aspettano
un panegirico del comunismo: si augurano però che la sua critica non vada
troppo a fondo. Se ne accorgeranno, eh?» Il giornalista sorrise: «Attento però:
è gente che morde.» Indicò un tale seduto su un divanetto: uno strano indivi-
duo col viso duro e i capelli striati in bianco e bruno, tanto da richiamare il
mantello d’una zebra: «Quello lo conosce? È...» e glielo nominò.
«Ah, l’invert... Non l’avevo mai visto.»
«È uno dei più inesorabili quando ci si mette.»
Lo spettacolo, o meglio la lettura, cominciò puntualmente. Come già duran-
te la prova generale, le luci - cui era preposto un tecnico capace - furono im-
piegate senza risparmiò e con abilità, tanto da dare, al principio, l’impressione
che sarebbero state in grado di supplire alla mancanza di movimento sulla
scena. Ma fu un’impressione passeggera. Nel giro duna decina di minuti Mi-
chele si rese conto che il rapporto stabilitosi tra la scena e la platea non era
affatto quello teatrale, di compartecipazione. “Non è lo stato d’animo di cui
parla così spesso Apollonio. È qualcosa di diverso: un, come chiamarlo? un
rapporto d’attenzione, ecco, simile a quello che si stabilisce tra il pubblico e un
conferenziere... È dunque a questo che mirava Pavi Austeri? Sì, senza dubbio,
e dev’essere andato a colpo sicuro: conosce troppo bene il suo mestiere per
sbagliare.” Alma, seduta al suo fianco, e gli altri spettatori in genere, non era-
no ovviamente in grado di analizzare in profondità ciò che succedeva, avverti-
vano solo, in confuso, che mancava qualche cosa: forse c’era troppa immobili-
tà sulla scena, ecco; a ogni buon conto cercavano di stare bene attenti per non
perdere il filo del discorso (proprio così: il filo del discorso).
Non ci furono grandi battimani se non al calare del sipario per l’intervallo;
il quale - come Michele notò con sorpresa - fu anticipato di alcune scene. “Per-
ché? Cos’è quest’altra scoperta?” Ma non aveva tempo per rispondersi.
Mentre si trasferiva con Alma nel ridotto, Zarbini gli fece lietamente segno
di raggiungerlo agitando una mano: intendeva presentarlo a un importante
personaggio politico, ex presidente del consiglio dei ministri e tuttora parla-
mentare influente, d’origine piemontese. Costui salutò l’autore con semplicità
e volontieri intavolò discorso con lui: «Sa che io ho incontrato qualcuno dei
suoi personaggi ancora l’anno scorso a Mosca? Con Crusciov, per esempio, ho
bevuto la vodca, e le dico che adesso mi fa un certo effetto vederlo trasferito
sulla scena.» Sebbene fosse passato attraverso cariche tanto alte, l’uomo poli-
tico s’era conservato genuino, perfino rustico; doveva inoltre essere un cri-
stiano autentico. Michele, che da principio si comportava con lui in punta
d’etichetta, si trovò talmente a suo agio da rimandare le varie cose di cui
avrebbe dovuto occuparsi in quell’intervallo: è che quest’incontro inaspettato
gli si stava già trasformando dentro in nuova poesia. Fu sua cura far parteci-
pare alla conversazione - sostenuta in parte anche da Zarbini - la consorte
dell’ex presidente, la quale al pari del marito era persona senza infingimenti
(indossava una gradevole pelliccia: «Altro che gradevole» gli avrebbe spiegato
più tardi Almina «è addirittura fa-vo-lo-sa, chissà quanto costa»); anche
l’anziano presidente non mancava di rivolgere con garbo la parola ad Alma; i
minuti passavano.
Gerardo e Ambrogio - essendo le donne rimaste in sala in compagnia di
Fortunato - passeggiavano uno a fianco dell’altro per l’affollatissimo ridotto e
guardavano ogni tanto in direzione del gruppetto: Gerardo non credeva ai
propri occhi, suo genero e sua figlia in tranquilla conversazione con l’ex presi-
dente del consiglio e con Zarbini! Michele captò per caso una delle occhiate
del suocero e subito si chiese in che modo avrebbe potuto farlo partecipare
alla conversazione. Poiché l’uomo politico proveniva dall’ambiente tessile
piemontese, si provò a trasferire il discorso su tale ambiente: con vero piacere
l’anziano uomo accettò di parlare della terra natia; Michele infilò allora nel
discorso l’industria tessile della Brianza («che è il mio paese») e abbozzò va-
gamente un parallelo; l’altro gli chiese se però l’industria tessile in Brianza
non fosse in prevalenza cotoniera. Michele, dichiaratosi non in grado di ri-
spondere, girò la domanda alla moglie: «Che è appunto figlia d’un industriale
tessile» spiegò. Ovviamente Almina non poteva rispondere in modo adeguato.
«Qui ci vuole tuo padre» disse allora Michele, e sempre più divertito dalle
proprie inusitate manovre, chiamati con una mano Gerardo e Ambrogio, li
presentò, quindi sottopose loro la questione.
Il giornalista Zarbini intanto si meravigliava ch’egli non si preoccupasse
d’indagare le reazioni dei critici teatrali; a un tratto risolse: «Io faccio una
scappata, vado a sentire cosa dicono i cronisti e i critici dei giornali.» Michele
fu da queste parole richiamato alla realtà; avrebbe voluto seguirlo, ma eviden-
temente gli sarebbe occorso del tempo per disimpegnarsi. Zarbini se n’andò
da solo.
Tornò di lì a non molto che Gerardo aveva finito di spiegare con impegno
all’ex presidente le caratteristiche dell’industria tessile in Brianza. «C’è un po’
di contrasto» annunciò a Michele, che lo guardava interrogativo «di discus-
sione.»
«Molto contrasto?» chiese Michele. L’altro gli fece segno di sì.
«Ci vorrebbero accompagnare, questi signori, a prendere una bibita al
bar?» propose la consorte dell’ex presidente.
«Ecco, farebbe piacere anche a me!» le s’aggiunse vezzosamente Alma.
Con premura gli uomini, dopo essersi inchinati, scortarono le signore verso
il bar, mentre Gerardo e Ambrogio provvedevano a congedarsi.
Davanti al banco c’era un po’ di ressa. Informatosi quali bibite le signore e
gli altri gradissero, Michele - come più giovane del gruppo - si ficcò nella mi-
schia; passò così altro tempo. Mentre finalmente sorbivano le bibite, notarono
che alcuni dei presenti lasciavano in fretta il ridotto per tornare in sala. «Che
sia ricominciato lo spettacolo?» chiese dubbioso Zarbini.
«Non è possibile, non hanno dato il segnale con le luci» osservò Michele. La
maggior parte della gente, del resto, indugiava tuttora nel ridotto.
L’ex presidente ad ogni buon conto li lasciò liberi: «Vadano pure, controlli-
no, non vorrei essere d’impiccio.»
Mentre si avvicinavano agli ingressi della sala, Zarbini, Michele ed Alma
udirono le voci degli attori: la lettura era già ricominciata. Appena preso posto
Michele valutò che doveva durare da una decina di minuti almeno... Come
mai? Com’era potuto accadere? Perché la ripresa non era stata segnalata nel
ridotto con gli abituali movimenti di luci?
Non ebbe il tempo di riflettere neppure su questo, perché la sua attenzione
fu nuovamente assorbita dalla lettura che gli attori facevano, sempre tenendo-
si immobili dietro i loro leggii. L’autore avvertì ancora una volta che il rappor-
to tra scena e spettatori non era quello proprio del teatro.
Finalmente, terminata la lettura, scrosciarono gli applausi e durarono a
lungo. Ci furono anche ripetute chiamate alla ribalta degli attori e del regista,
al punto che Gerardo, Ambrogio, Fortunato, Alma, e gli altri nomanesi, ebbero
l’impressione di trovarsi di fronte a un grande successo: ignoravano (ma non
l’ignorava Michele) che gli applausi dei molti amici ed estimatori di Ferri e di
Pavi Austeri sarebbero bastati in ogni caso a sostenere la prima.
Durante una chiamata più lunga delle altre, qualcuno si mise a gridare:
«L’autore... Vogliamo l’autore» per cui anche Michele - che poca voglia ne
aveva - dovette salire sul palcoscenico a inchinarsi, a ringraziare, a sorridere
in fila con gli altri.
CAPITOLO NONO
***
Anche cosi però l’ambiente era straordinariamente suggestivo: la salita di
pietra al Campidoglio pareva irradiare una contenuta luce azzurrina, grazie a
riflettori sapientemente disposti tra gli alberi circostanti; alla sua sommità
irradiavano allo stesso modo luce le due statue equestri dei Dioscuri e, più in
là, i fastigi - che assumevano un che di favoloso - degli edifici michelangiole-
schi. Mentre il gruppo s’incamminava verso il più vicino parcheggio di auto
pubbliche, Michele cercò per un istante con gli occhi la gabbia dell’aquila pri-
gioniera: ne individuò a fatica la sagoma. “Là dentro, a pochi passi da noi, c’è
sempre quel povero animale prigioniero” rifletté: “c’è, anche se nessuno ci
pensa e se ne cura.”
Dietro di lui Fortunato commentava il contrattempo dell’intervallo: «Chissà
com’è potuto succedere... Mi chiedo come mai abbiano ripresa la recitazione
pur vedendo che la platea era quasi vuota. E perché non hanno dato il solito
segnale con le luci?» Si rivolse dettamente a Michele: «In quei cinque o dieci
minuti è andato perduto per gli spettatori qualcosa d’importante?»
«Sì purtroppo. Uno dei momenti più drammatici e salienti, che conclude la
prima parte. Senza una ragione al mondo Pavi Austeri l’ha spostato a dopo
l’intervallo...» “Senza una ragione? ehi, un momento, un momento...”
«Non sarà» disse Ambrogio «che l’ha fatto apposta?»
Solo adesso Michele se ne rendeva conto: «Sì» rispose annuendo:
«Dev’essere proprio così. Io non ci avevo pensato, ma dev’essere così. Anzi, ne
sono convinto: il regista l’ha fatto per paura delle critiche dei comunisti. Sì, se
non altro ha creato una certa confusione.»
«Ma perché?» domandò la moglie di Fortunato che, al pari degli altri, era
all’oscuro del comportamento di Pavi Austeri.
Michele spiegò in breve: «A quello non importa il successo o l’insuccesso
della mia tragedia» concluse. «A lui importa di non avere contro, in futuro,
tutta la stampa progressista.» Riferì il tentativo del regista di togliere il pro-
prio nome dai manifesti.
«Che razza di...» esclamò tra i denti Fortunato.
Gli altri tuttavia presero la cosa senza drammi: quello era un fifone, va be-
ne. L’essenziale però era, secondo loro, che non gli fosse riuscito d’impedire il
successo. In merito al quale non esistevano dubbi.
«Lo credete voi» disse Michele, «ma non è così. Da come si son messe le co-
se è chiaro che il successo non c’è stato. Domani ve ne renderete conto dai
giornali.»
Le sue parole sollevarono un coro di proteste; nessuno gli credette.
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
CAPITOLO DODICESIMO
Quello stesso giorno i Riva lasciarono Roma per far ritorno in Lombardia;
con loro partì anche Alma, chiamata dai suoi doveri d’insegnante. Michele ri-
mase invece nella capitale ancora qualche giorno per seguire le repliche della
tragedia: intendeva afferrare bene la trasformazione che le frasi subivano nel
momento in cui, da scritte, diventavano parlate.
Una sera Lucio Ferri, incuriosito, lo raggiunse in sala e prese posto accanto
a lui: finì con l’interessarsi al problema dell’altro, che per parte sua aveva ri-
solto da molto tempo: «Tanto che per me lo scritto è un semplice appunto, un
pro memoria; a me il discorso viene in testa già con l’effetto che produrrà a
teatro. Certo è una questione d’esperienza, di pratica.»
«Dì un po’» gli chiese Michele durante l’intervallo (erano rimasti seduti ai
loro posti) : «Te la spieghi tu l’indignazione del cronista del...?» nominò il dif-
fuso quotidiano della capitale.
«Certo» gli rispose Ferri. «Come no? Quello se l’è presa con te perché du-
rante le prove non l’hai avvicinato per lisciarlo, diciamo per reclamizzargli il
tuo lavoro. Tutto qui; se n’è offeso in modo da non credere.»
«Ma... io gli ho consegnato un copione. Che altro potevo fare? Mi sarebbe
sembrata una cosa scorretta fare di più.»
«E infatti è così. Lo vuoi sapere? Io ti ho ammirato per questo. E a lui l’ho
anche detto, gli ho ricordato che in America gli autori si guardano bene dal
reclamizzare la loro opera prima della rappresentazione: se lo facessero si
squalificherebbero. Però qui ci troviamo in Italia, non in America.» Tentennò
la testa: «Senti, giacché siamo in tema di malinconie, ho qualcosa di peggio da
comunicarti. Non sapevo come dirtelo e... Sai la registrazione per la televisio-
ne?» s’interruppe.
«Sì?»
«Me l’hanno annullata. Dopo il chiasso dei giornali di sinistra io me
l’aspettavo. Comunque mi hanno avvertito stamattina. M’ha chiamato al tele-
fono il direttore in persona: ‘Non se ne parla neppure’ m’ha detto. Aveva quasi
l’aria di prendersela con me, che gli ho fatto correre un ‘rischio tanto’.» Ferri
ridacchiò amaro. «E pensare che se tu, invece d’una realtà come questa che
veramente coinvolge la sorte di tutti, avessi trattato robetta, il tuo lavoro in
televisione l’avrebbero dato senz’altro. Era già tutto combinato, lo sai.»
Michele si limitò ad annuire. Di lì a un po’ disse: «Mi viene in mente, come
si chiama? il direttore dell’ ‘Unità’, quel fascista convertito al comunismo. Hai
visto come s’è comportata la televisione con lui? Non solo ha parlato e riparla-
to del libro in cui racconta la sua edificante conversione, ma gliel’ha anche
sceneggiato. L’hanno trasmesso in due puntate, te ne ricordi? Un cinque o sei
mesi fa.»
«Altro che se me ne ricordo» rispose Ferri.
«Beh, in fin dei conti gli scrittori russi prigionieri nei lager e nei manicomi
criminali, non hanno nemmeno loro la televisione a disposizione: non per
questo piagnucolano. Dunque neanch’io piagnucolerò.»
Ferri lo guardò interessato: ad adeguarsi alla situazione, a piegarsi a un mi-
nimo di compromesso - era chiaro - Michele non ci pensava.
«Tu non hai bisogno di guadagnare per vivere?» gli chiese.
«No, grazie a Dio. Insegno in un liceo, e questo mi basta per il pane. E mia
moglie, per vivere, non ha bisogno di me, perché insegna anche lei. Dunque.»
«Ah, è così che la metti?»
«Sì» rispose tranquillamente Michele.
Al termine dello spettacolo Ferri gli disse: «Senti, domani ho qualche ora
libera: mi piacerebbe spenderla a chiacchierare con te.»
«Anche a me» rispose Michele.
***
Trascorsero buona parte della mattinata successiva a conversare, dapprima
nello studio di Ferri, poi girovagando per le vie di Roma.
Il capo compagnia fu assolutamente sincero con Michele, rispose a tutte le
sue domande, anche alle più indiscrete sull’ambiente teatrale («La conosci
quella battuta: ‘Invertito soltanto da un anno, e già regista?’») e sul mondo
della televisione, tutto quanto impostato sul compromesso.
«Dì» chiese a un tratto allo scrittore lombardo: «ti fa vomitare l’ambiente
romano?»
Michele fece segno di no: «M’interessa piuttosto essere al corrente di come
la corruzione originale si faccia sentire anche qui, al centro della nazione.»
Stando con lui l’altro aveva l’impressione di respirare un’aria singolarmente
ossigenata: “un’aria di montagna” pensava. Si chiese se potesse trarre da
quest’individuo così fedele a sé stesso un personaggio per il nuovo dramma
cui stava per mettere mano, e finì col rispondersi che no: “Riuscirebbe un per-
sonaggio troppo improbabile” disse, “anche se è vero”.
***
Nel pomeriggio di quel giorno - che fu il suo ultimo a Roma - Michele
s’incontrò coi due profughi russi nei modestissimi locali in cui approntavano
la loro rivistina. Finì col concordare con loro la traduzione della tragedia in
russo, impegnandosi a rinunciare a ogni compenso. E poiché si rese conto che
il costo della pubblicazione a stampa avrebbe ciononostante costituito per i
due un notevole peso, si offerse di contribuire. “Faccio quei viaggi all’estero
ogni due anni per conoscere il mondo” rifletté, “vuol dire che i pochi soldi
messi da parte per andare negli Stati Uniti, li spenderò in questa impresa.
Tanto l’America non scappa, resta sempre là.”
Così fece. E la tragedia - tradotta in russo dal profugo biondo e stempiato
che somigliava vagamente al tenente Làricev di Arbusov - venne di lì a un an-
no messa in vendita negli ambienti della diaspora russa sia in Europa che in
America, e fu anche inviata per posta in Unione Sovietica, poche copie alla
volta, settimana dopo settimana, sempre con un involucro diverso. In Italia
parecchie copie furono collocate nelle stanze d’albergo degli intellettuali russi
che capitavano in ‘visita organizzata’: la voce si diffuse tra loro, tanto che più
d’uno chiese nascostamente il volumetto agli interpreti o ai portieri d’albergo.
Così Michele si trovò in qualche modo a essere - del tutto inconscio - partecipe
del fenomeno che doveva poi assumere il nome di samizdat. Di lì a poco anche
certi intellettuali polacchi, pure esuli, chiesero d’entrare in contatto con lui e
anche con loro, e alle medesime condizioni, Michele combinò una traduzione.
Intanto a Roma stava per avere inizio il Concilio Vaticano Secondo. A
quell’epoca la chiesa - grazie soprattutto all’azione dei passati pontefici - era
simile a una città perfettamente difesa e in ordine: proprio questo però faceva
sì che la sua voce e il suo insegnamento non arrivassero alla gente uscita dalle
sue mura nei tempi andati. Al lodevole fine di non estraniarsi di più tale gente,
e anzi per ristabilire un colloquio con essa, gli attuali pastori sembravano in-
tenzionati a fare (nei limiti del possibile, e perfino - si aveva a momenti
l’impressione - al di là di tali limiti) lo stesso discorso di quella gente. Che fini-
va ovviamente col non essere più il discorso di Michele, né di tutti gli altri ser-
batisi fedeli nel corso dei secoli.
PARTE SESTA
CAPITOLO PRIMO
Il tempo continuò a passare. Non può fermarsi il tempo: una parte degli es-
seri umani fa crescere («Questo tempo che non passa mai!»), una parte ne fa
declinare («Però... Come fuggono in fretta i giorni e gli anni...»), tutti ugual-
mente porta - senza che lo si possa in alcun modo arrestare - verso la conclu-
sione misteriosa.
«Dopo la morte... Chissà in che condizioni verremo a trovarci realmente? Io
certe volte mi domando com’è fatto l’aldilà» diceva Gerardo a suo figlio padre
Rodolfo, giunto a Nomana dall’Africa per un turno di riposo.
Correva l’agosto 1968, Gerardo era vicino agli ottantanni. Appariva molto
smagrito rispetto a una volta: gli abiti - sebbene Giulia, lei pure una vecchiet-
ta, provvedesse ogni tanto a farglieli restringere, ed egli stesso non mancasse
di farsene confezionare di nuovi - gli stavano tutti larghi; aveva perso molti
denti, per cui la sua bocca specie quando rideva riusciva assai sgradevole a
vedersi; stava anche diventando sordo. Non aveva tuttavia cessato di lavorare:
«Io ho bisogno di sentire i telai che battono» usava dire (le sue affermazioni,
un tempo prese molto sul serio da tutti, adesso potevano apparire - anche se
non lo erano - un po’ velleitarie, e c’era a volte chi ne sorrideva). In più d’una
circostanza egli si era ultimamente trovato in contrasto col figlio Ambrogio su
importanti decisioni da prendere circa il lavoro: in genere a torto, e l’aveva poi
riconosciuto. In seguito a ciò, dopo avere ben ponderato, senza che nessuno
glielo chiedesse aveva trasferita integralmente la direzione della ditta ad Am-
brogio, riservando per sé soltanto un piccolo ufficio isolato. Là aveva fatto si-
stemare la sua vecchia scrivania e un telefono, là il rumore dei telai non gli
mancava, anzi gli giungeva meno attutito che nell’ufficio principale. E là Ge-
rardo indipendentemente dalla ditta, adesso comprava e vendeva in proprio
filati e tessuti in modesti quantitativi, come all’inizio della sua attività im-
prenditoriale. «Cosi non rimango in ozio» diceva ai pochi rappresentanti di
commercio che l’andavano a visitare (in genere individui anziani con cui aveva
trafficato per tanti anni, ma anche qualche sprovveduto novellino al quale il
suo nome suonava ancora importante). A non lasciarlo in ozio sarebbero co-
munque bastati i due figli missionari, padre Rodolfo appunto - che ora gli pas-
seggiava al fianco - e il medico Pino, le cui iniziative egli s’era sempre più as-
sunto il compito di sostenere mediante un invio metodico di materiali raccolti
anche da appositi centri: medicinali e ancora medicinali, apparecchiature sa-
nitarie, idriche, agricole, scolastiche, macchine varie, viveri, capi di vestiario;
più d’una volta era riuscito a servirsi, per trasferirli in Africa, degli aerei da
trasporto dell’aeronautica militare (la quale era allora tenuta per regolamento
a effettuare ogni anno voli di addestramento in ‘zone particolarmente disagia-
te’); frequentando missionari e militari il vecchio industriale aveva con sor-
presa scoperta l’affinità esistente tra i due tipi umani: non tutto ciò che aveva-
no in comune egli era in grado d’individuare, ne vedeva però bene l’uguale
disponibilità a spendersi e la facilità di contentatura, e certi conseguenti at-
teggiamenti, bizzarramente simili.
Ora Gerardo - come s’è detto - stava parlando col figlio dell’aldilà. Passeg-
giavano sul vialetto dell’orto che conduceva alla balconata e al tasso ‘a breva’
dal quale una volta cantavano gli usignoli (non più adesso, da quando gli in-
cessanti sibili notturni della vetreria li avevano scacciati: da anni a Nomana
non se ne sentiva più cantare uno). A lato del vialetto rimaneva però ancora la
siepe di carpini lungo cui Manno aveva fatto baruffa con l’usignolo durante la
sua ultima licenza, prima di partire per sempre; sull’altro lato cresceva ancora
la solita camomilla spontanea, dal buon odore arsiccio, pacifico; poiché era
giorno, e c’erano quindi nell’aria altri rumori, i sibili della vetreria giungevano
smorzati.
«Se si potesse sapere com’è fatto realmente il mondo di là» disse Gerardo.
«Da giovane un idea io credevo d’avercela, ma adesso...»
«Non è facile farsene un’idea» convenne il figlio, che provava un nascosto
senso di pena per il disfacimento paterno. (“Per forza gli si prospetta il pensie-
ro della morte” pensava “chissà quante insufficienze gliela richiamano ogni
giorno, povero papà”.)
«Ma perché» gli chiese «vorresti avere un’idea esatta dell’aldilà?»
«Eh, perché...» mormorò Gerardo.
«Noi uomini non possiamo raffigurarci una realtà fatta solo di spirito» dis-
se il frate: «temo proprio che a questo riguardo non ci sia scampo.»
«Ma perché, io mi chiedo a volte, nessuno è mai tornato indietro a riferire
come stanno le cose dall’altra parte?»
«Qualcuno con certezza è tornato» gli fece notare il frate: «Lazzaro per
esempio, che è stato resuscitato dal Signore.» Siccome aveva parlato con voce
normale, il vecchio socchiuse la bocca dai brutti denti e inclinò la testa verso
di lui, porgendo un orecchio. “Devo ricordarmi ch’è un po’ sordo” pensò padre
Rodolfo, “io seguito a dimenticarlo”. «Lazzaro, quello del Vangelo, per esem-
pio» disse con voce più sostenuta: «Quello senza dubbio deve aver riferite le
cose che ha visto di là, perché dopo uscito dal sepolcro non s’è mica chiuso in
sé stesso, tant’è vero che in seguito, se ricordi, ha offerto al Signore e agli apo-
stoli una cena in casa sua.»
«Il Vangelo non dice cos’ha riferito?»
«No. Significa che coincideva con quanto il Signore andava insegnando tutti
i giorni. È ovvio del resto.»
«Ma cosa insegna precisamente il Signore?»
«Le stesse cose che ci insegna oggi la chiesa: in sostanza chi si salva va a
godere per l’eternità della visione beatifica di Dio.»
«Già. Ma di cosa si tratta esattamente? La visione... Noi non ce la possiamo
immaginare, dici tu.» Il vecchio rifletté pensoso. «Ad ogni modo quello che io
vorrei soprattutto sapere è se di là c’importerà ancora veramente delle perso-
ne alle quali abbiamo voluto bene su questa terra, e se staremo ancora in loro
compagnia.»
«Io credo proprio di sì. Pensa alla posizione privilegiata - al di sopra degli
angeli e dei santi - in cui Gesù ha voluto porre la sua mamma terrena... Del
resto l’amore umano è oggettivamente un bene: dunque, siccome in Dio c’è
ogni bene, noi di là lo ritroveremo. In ogni caso, papà, tieni presente che
dall’altra parte noi non troveremo una realtà, come dire? inferiore a questa,
ma proprio il contrario. Troveremo una felicità duratura: quella che tutti cer-
chiamo sempre anche qui sulla terra, perché appunto per essa siamo costrui-
ti.»
«Già» mormorò Gerardo «già.» Rifletteva, utilizzando il suo cervello che
presto si sarebbe sfatto, come è nel destino di ogni organo di carne: «Però...»
«Però papà?»
«Le cose di là non avranno quasi più rapporto con quelle di questa vita: sa-
ranno per forza diverse, diversissime.»
«Sì, certo.» Il figlio lo considerò con pietà: «Papà, son d’accordo anch’io che
le cose di quaggiù hanno una loro validità. Mi viene in mente san Francesco e
il sasso ‘spicco’ della Verna: lui, dico san Francesco, aveva come pochi il senso
delle cose terrestri: l’aria, l’acqua, il fuoco, i fiori, l’erba... pensa al cantico del-
le creature; inoltre, a differenza di noi, conosceva anche il mondo di là, perché
c’era stato in estasi parecchie volte: insomma era in qualche modo in grado di
fare il confronto. Beh, al momento di lasciare la Verna per andare ad Assisi a
morire (sapeva d’andare a morire, e lo diceva, perché Dio gliel’aveva rivelato)
pur essendo impaziente di raggiungere il cielo, s’è messo a piangere quando
ha salutato quel sasso che gli era caro, perché alla sua ombra tante volte aveva
pregato e meditato. Ecco: anche le cose di qui contano. E lo stesso Lazzaro...
non è che dopo avere sperimentato l’aldilà, considerasse zero tutto quello che
c’è e si fa sulla terra. Tant’è vero che s’è dato da fare per offrire al Signore
quella cena: una cena preparata con grande impegno, giusto come faremmo
noi nelle nostre case.»
«Sì» disse il vecchio industriale annuendo ripetutamente: «Sì. Tanto che le
cose di là io... Beh, finiscono col non attirarmi. Un posto in cui ci saranno mi-
liardi e miliardi di anime, anzi dopo la resurrezione dei corpi, miliardi di per-
sone: chissà quanti miliardi, ti rendi conto? Senza contare gli angeli, che sono
anche loro un’infinità... Come potrebbe attirare un posto simile? Mi chiedo
perfino se sia possibile che uno ci si trovi a suo agio...»
«Beh, una volta a questo riguardo sarebbero mancati riferimenti, ma non
oggi. Certo, ripeto, noi non possiamo raffigurarci l’aldilà. Che però al Creatore
sia possibile creare un paradiso... adeguato» padre Rodolfo sorrise «ce lo di-
mostra, e d’avanzo, il creato materiale. Papà, io non sono uno studioso di
scienze, ma ho letto nelle divulgazioni che nella nostra sola galassia ci sono
più o meno cento miliardi di stelle, e che nell’universo finora esplorato coi
mezzi moderni, ci sono più o meno cento miliardi di galassie: vuol dire - stan-
do a quanto gli scienziati hanno scoperto finora - cento miliardi per cento mi-
liardi di stelle, cioè di soli... Che numero dà? Insomma chi ha potuto creare un
simile numero di soli, non può certo avere difficoltà a creare un posto in cui
stiano magnificamente a loro agio quanti vuoi miliardi di persone e di angeli.»
«Questo è anche vero, sì.»
Per allontanare il padre dal pensiero della morte, il missionario cercò di de-
viare un poco il discorso: «Noi non sappiamo se - come certuni suppongono -
ci siano anche altri astri abitati. Se però non ce ne sono, beh mi sembra che
questa immensa estensione dell’universo non sarebbe ugualmente senza sco-
po, appunto perché serve a dare a noi uomini l’idea della potenza del Creato-
re.»
«A noi uomini? Vuoi dire che siamo così importanti?...» mormorò Gerardo.
«Sappiamo per rivelazione che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio:
qui sta il punto. E vediamo che, effettivamente, c’è un abisso tra l’uomo e tutte
le altre creature. Pensa per esempio: noi siamo gli unici in grado di uscire
dall’astro in cui siamo nati, con la materia del quale (il fango di cui parla la
Bibbia) Dio ci ha fatti. Lo sai che per Natale gli americani hanno in program-
ma di arrivare a girare intorno alla luna.»
Gerardo annuì; guardava il figlio coi vecchi occhi azzurri slavati e un po’
spenti. Non avrebbe dovuto attendere molto - pensò questi, con una nuova
sensazione di rammarico - per sincerarsi d’ogni cosa nell’aldilà.
CAPITOLO SECONDO
Dalla porta di casa uscì Noemi (aveva più di settant’anni, s’era fatta grossa e
alquanto sbilenca, e molto grigia di capelli, mancava di vari denti; cionono-
stante era lei pure sempre attiva. Disponeva d’un conto in banca di qualche
milione, e d’una stanza ben organizzata, con letto e cucina, a ‘I dragoni’, sopra
l’appartamento dei portinai: vi si recava soltanto la domenica per rassettare:
«Quella stanza mi sarà utile quando sarò vecchia» affermava.) Fece ora solec-
chio con la mano ed esplorò nelle varie direzioni: scorti i due che passeggiava-
no nell’orto, li chiamò ad alta voce come faceva una volta coi bambini: «Signor
Gerardo, padre Rodolfo, è pronto...»
«Veniamo subito» le gridò con sollecitudine il religioso, per evitarle di ripe-
tere - come doveva immancabilmente fare un tempo coi bambini - il suo ri-
chiamo. E giratosi s’incamminò senz’altro con Gerardo verso casa.
Nella sala da pranzo - sempre la stessa, sempre tenuta in buon ordine, sen-
za cambiamenti di rilievo - c’erano in quel momento Giulia e Ambrogio,
quest’ultimo appena giunto dalla fabbrica (sua moglie e i suoi figli erano al
mare: per tale motivo, e tanto più volontieri da quando era arrivato il fratello
Rodolfo, egli consumava i pasti nella casa paterna).
Giulia stava facendo ordine in un cassetto del buffè: da qualche tempo que-
sta del fare ordine era diventata in lei una sorta di mania, quasi sentisse il bi-
sogno di mettere ogni cosa a posto prima d’andarsene per sempre. Negli ulti-
mi anni aveva fatto passare più volte la vecchia corrispondenza, i libri, i qua-
derni, gli oggetti di scuola dei figli, estraendone dei pezzi, che aveva consegna-
to all’uno o all’altro di loro: «È roba tua: forse col tempo potrebbe ancora inte-
ressarti, portalo via.» Alle figlie e alle nuore, sempre materna, aveva, anno per
anno, un Natale dopo l’altro, distribuito quasi tutti i propri gioielli, i sopramo-
bili di valore, i piatti e i vasi d’argento e di cristallo della casa (di questi alcuni
non venivano mai usati, altri però tutti erano abituati a vederli in un dato pun-
to della casa, perciò avrebbero voluto che vi rimanessero, ma lei: «Perché
aspettare che io muoia? Prendeteli, su, godeteli adesso mentre siete ancora
giovani»). Nel fisico s’era ulteriormente rattrappita e fatta anche un po’ gob-
ba: “Però è pur sempre lei, la mamma” pensò padre Rodolfo al vederla, rin-
graziando istintivamente Iddio che gliela conservava.
Dopo essersi lavate le mani (in una toletta nuova, ricavata dove prima era
un ripostiglio) gli uomini raggiunsero il proprio posto intorno al tavolo; Giulia
invece indugiava, china sul cassetto che stava riordinando. Il marito la prese
bonariamente in giro: «Una volta ero io a non arrivare mai puntuale a tavola,
ma adesso!»
«Vengo, arrivo subito» esclamò Giulia: «intanto voi cominciate a mangiare.
Un minuto solo e ho finito.»
«No mamma, finché non vieni non benedico la mensa» disse Rodolfo.
La vecchietta chiuse allora - ma non del tutto - il cassetto a cui stava traffi-
cando, e s’affrettò al tavolo dove prese devotamente parte alla preghiera in
comune; poi, mentre gli altri sedevano, uscì in fretta dalla sala: «Vado a la-
varmi le mani e torno subito».
«La mamma» commentò Ambrogio «non riesce proprio a stare in pace.» E
a Rodolfo: «Lo vedi come fa?»
Rodolfo annuì: «L’avevo già notato» mormorò.
«Francesca cerca di tenerle compagnia» disse Gerardo, che per udire le pa-
role del figlio aveva protesa la testa verso di lui: «Viene apposta ogni giorno da
Visate. E sì che a Visate adesso hanno i loro guai, poveretti.»
«Ho sentito» fece padre Rodolfo.
«I Marsavi stanno male quasi quanto noi al tempo del Brusasca e di
quell’esportazione in Francia» specificò Ambrogio. «Sputano sangue giorno
dopo giorno per tenersi in piedi, e a loro occorrono cifre più grosse di quelle
che occorrevano allora a noi. Povero Andrea, sempre in giro a combattere con
le banche.»
«E pensare» osservò Rodolfo «che, almeno nel nuovo settore, quello farma-
ceutico, producono roba talmente buona. Il loro preparato contro la lebbra è
risolutivo: noi lo usiamo da qualche anno, e non ce l’hanno mai fatto pagare,
lo sapete: basta che gli scriviamo e subito lo mandano. Che brava gente!»
Gerardo annuì pensoso: «È una vera vergogna quel parroco» disse.
«Il parroco?» domandò meravigliato padre Rodolfo: «Cosa vuoi dire?»
«L’attuale parroco di Visate» gli spiegò Ambrogio per il padre. «È uno di
quei preti nuovo stile che... Per quanto riguarda gli operai, i guai più seri ai
Marsavi glieli procura lui: pensa, è arrivato a dire in una predica che se non
sono pagati come si deve, gli operai hanno il diritto di rubare, perché non sa-
rebbe più un rubare. Chi lo decide però se sono pagati o no come si deve? Io
vedo che oggi hanno tutti quanti la macchina, e molti anche l’appartamento, e
un mucchio d’altre cose.»
«E loro, gli operai, come reagiscono?»
«Quelli anziani sono sempre a posto, continuano come prima; ma tanti dei
giovani sono un vero disastro» disse Ambrogio. «Non rubano, ma a volte gua-
stano la roba. Anche perché le Acli e la Cisl (sai bene quanto contano qui in
Brianza) fanno più o meno i discorsi balordi del parroco.» Tentennò la testa:
«Io proprio non capisco cosa gli ha preso ai nostri sindacalisti: dopo il Conci-
lio, lasciati liberi di scegliersi la strada, non hanno saputo far altro che acco-
darsi ai rossi, e non gl’importa se così smentiscono tutto quello che han detto
e fatto prima. Trattare con loro, con quelli della Cisl voglio dire, oggi per noi è
diventato anche peggio che trattare coi rossi. Lo sto sperimentando io in que-
sti giorni, che sono cominciate le trattative per il nuovo contratto di lavoro.
Figurati i Marsavi...»
«Sai che a Visate certi ragazzotti» disse Gerardo «sono arrivati a picchiare
due operai anziani che li avevano sgridati per i vandalismi?»
«Ma cosa diavolo state combinando qui in Italia?» esclamò padre Rodolfo.
Egli vedeva ogni cosa dalla sua prospettiva particolare: gli italiani, e gli euro-
pei in genere - tutti, anche gli operai - a lui sembravano straordinariamente
ricchi; e lo erano, se paragonati agli indigeni tra i quali egli viveva: queste vi-
cende che gli venivano riferite - come anche le recenti, grandi baraonde stu-
dentesche di cui gli era giunta notizia laggiù in missione - a lui sembravano
dunque in un certo senso delle beghe, dei capricci di ricchi.
Prima che gli altri rispondessero tornò in sala Giulia la quale, dopo essersi
lavate le mani aveva trovato modo d’indugiare un poco di là. Gli uomini cam-
biarono allora discorso (era diventata piuttosto apprensiva la mamma): Am-
brogio attaccò a parlare degli americani che, come la televisione aveva ricor-
dato la sera prima, progettavano di mandare entro l’anno un’astronave con tre
uomini a bordo a girare intorno alla luna: «È da tempo che ne parlano, e del
resto avete visto, le loro astronavi vuote ci sono già andate tre volte senza in-
convenienti. Anche gli equipaggi andranno e torneranno senza inconvenienti,
ci possiamo giurare.»
«Ma davvero arriveranno anche a sbarcare sulla luna?» fece Gerardo. «A
me pare una cosa talmente impossibile.»
«Eppure vedrai papà» disse il figlio frate: «entro l’anno venturo o al mas-
simo in due anni ci arriveranno, precisamente com’è nel loro programma.»
«Certo, a pensarci, sembra una cosa impossibile» osservò anche Ambrogio:
«Andare sulla luna!»
La madre ascoltava senza parlare, come attonita.
«Sarà veramente una grande vittoria dell’uomo» disse il frate; «anche pri-
ma in giardino se n’è parlato col papà: una straordinaria dimostrazione della
superiorità dell’uomo sulle altre creature.»
«Sì» fece Gerardo. «Eppure vedi come si comportano certi commentatori
della televisione? Si direbbe che a loro la cosa gli faccia rabbia: ogni volta tira-
no fuori quanto costa.»
«Con tutto che noi italiani per quei viaggi non spendiamo un quattrino» fe-
ce notare Ambrogio.
Non potevano immaginare allora che un tale meschino spirito denigratorio
si sarebbe andato sviluppando nel mondo intero fino a stendere - qualche an-
no dopo la grande impresa - una sorta di velo d’avversione e infine di silenzio
su di essa. Gli uomini avrebbero così trovato modo di guastare anche
un’impresa delle dimensioni di questa... Tuttavia, va pure detto che
l’avrebbero compiuta.
CAPITOLO TERZO
Al termine del pranzo, dopo avere sorbito con una certa fretta il caffè, Am-
brogio s’avviò verso la fabbrica da solo, in quanto Gerardo intendeva trascor-
rere l’intera giornata in compagnia del figlio giunto dall’Africa.
Nell’ultimo tratto di strada il rumore dei telai venne incontro all’industriale:
erano tutti automatici adesso, non soltanto più veloci di quelli d’una volta, ma
anche in grado di cambiare da sé le spole man mano s’esaurivano (Marietta
‘delle spole’ - dal fare bislacco, e i capelli repulsivi, e gli occhi neri d’agnello —
era morta, e le vecchie spoliere cui un tempo accudivano le sue principianti
non esistevano più); erano anche in grado, i telai nuovi, d’arrestarsi da soli
appena un filo dell’ordito si spezzava; ogni operaia non ne sorvegliava più due
o quattro come un tempo (quando lavorava Giustina) ma otto o dieci, e anche
più. I muri della fabbrica erano sempre gli stessi, solo rintonacati e con serra-
menti nuovi in alluminio; per gli uffici era stata costruita una palazzina a lato
dell’ingresso, sull’area d’un capannone demolito: intorno alla palazzina cre-
scevano pianticelle di tiglio ancora gracili, contrastanti con i vecchi tigli su-
perpotati degli altri cortili.
Ambrogio entrò nel proprio ufficio a pianterreno e sedette alla scrivania; di
fronte a lui l’ampia finestra del locale (in cui non c’erano altre scrivanie oltre
la sua) era spalancata e lasciava entrare l’incalzante rumore dei telai e il gran
caldo d’agosto. Aveva mezz’ora di tempo prima dell’incontro ‘informale’ (“In-
formale: questo frasario da burocrati!”) che gli era stato chiesto dal consiglio
di fabbrica, e intendeva prepararsi. Sul tavolo insieme ad altri documenti era
predisposto un grafico con le coordinate relative alla mano d’opera: tre linee
spezzate che divergevano sempre più. Il numero dei dipendenti (di poco supe-
riore ai duecento) da anni non variava o quasi; quello dei presenti al lavoro
(una linea curvata all’ingiù) era da qualche anno in diminuzione a causa del
nuovo fenomeno dell’assenteismo, che aveva cominciato a farsi sentire anche
a Nomana; la terza linea, quella relativa al costo della mano d’opera,
s’impennava addirittura attraverso tutto il foglio; Questo in particolare preoc-
cupava Ambrogio; non che avesse bisogno del grafico per esserne al corrente,
anzi la nozione di tale realtà non lo lasciava si può dire mai; ma a vederla così
prospettata se ne sentiva maggiormente incalzato.
Doveva risolversi a eliminare qualche altra delle lavorazioni ormai in perdi-
ta o quasi (alcune schede disposte sul tavolo gliele indicavano), perché chissà
che sberla sarebbe stato il nuovo contratto di lavoro. Da quando i socialisti
erano entrati nel governo, i sindacati erano riusciti a far promulgare leggi pu-
nitive per l’industria, che avevano resa agli imprenditori la vita più difficile,
sovente senza vantaggio alcuno per gli operai. Ciò soprattutto dopo la decisio-
ne (uno schiaffo tremendo per i sindacalisti) dei capi sovietici di far costruire
agli imprenditori italiani la maggiore fabbrica d’automobili della Russia a To-
gliattigrad sul Volga. Nel corso del corrente anno 1968 a complicare le cose
erano poi intervenute le gazzarre studentesche. Questa - a sentire il cognato
Michele tuttora specialista di comunismo - era un’ondata che partiva dalla
Cina: gli studenti occidentali (sollecitati senza tregua - non va dimenticato -
dai loro maestri in modernità, alla rivoluzione e ai mutamenti) avevano a un
tratto preso un abbaglio colossale su quanto stava succedendo in Cina. Aveva-
no cioè creduto che davvero gli studenti cinesi impegnati nella cosiddetta ‘ri-
voluzione culturale’ (in realtà intruppati e mossi come burattini dalla fazione
più feroce del partito comunista cinese) stessero trasformando il loro paese
‘con la fantasia’, e s’erano buttati a corpo perduto sulla medesima strada. Nei
diversi paesi occidentali le grandi gazzarre studentesche stavano producendo
conseguenze diverse (particolarmente gravi negli USA); in Italia rendevano di
fatto ogni giorno più dimissionaria la classe politica nei confronti della piazza.
Il vuoto di potere che s’andava producendo non veniva però occupato dagli
studenti, incapaci di fare altro che chiasso, ma dai sindacati, i quali una certa
presa sulla piazza la mantenevano. Dopo di che - com’è nella loro natura - i
sindacati andavano traducendo tale crescente potere in richieste sempre più
sconsiderate d’aumenti salariali e delle spese sociali. Quanto ai pochissimi
uomini di cultura che si sforzavano - come il cognato Michele sul quotidiano
cattolico milanese - di far conoscere ciò che realmente stava succedendo in
Cina, e denunciavano il grande abbaglio collettivo, non venivano presi in con-
siderazione neppure per essere derisi...
“Siamo al punto” pensò Ambrogio “che anche chi viene a conoscenza di
queste cose, non riesce neppure a capire che deve preoccuparsene...”
L’industriale fece ripetuti segni di diniego con la testa: a volte aveva la para-
dossale impressione che in Italia gli unici individui ancora dotati di senso di
responsabilità, addirittura gli unici individui maggiorenni, fossero gli impren-
ditori. “Verrebbe voglia di lasciare che se la sbrighino gli altri, lasciarli andare
avanti fino a sbattere il naso... Ha fatto bene Fortunato a piantare l’industria!”
Ma aveva fatto davvero bene? Ancora Ambrogio non aveva finito di pensarlo,
che già ne dubitava: “Eh no. Ci deve pur essere qualcuno che faccia fronte,
perché le cose non potranno andare sempre avanti così: la gente dovrà per
forza tornare a ragionare un giorno...” Ma basta con tutto questo; doveva con-
centrarsi nel suo problema immediato, fissò l’attenzione sulle schede.
Dopo alquanti minuti squillò il telefono. L’industriale sollevò con gesto
meccanico il ricevitore: «Sì? Pronto.»
«Pronto? Pronto? Sei tu Ambrogio, sì? Qui è Fanny.»
«Ah. Buon giorno cara, come stai?»
«Vedi un po’» disse Fanny «se ho sbagliato a chiamarti in ufficio anziché a
casa» e rise.
«Eh già. Ma dì, com’è che chiami a quest’ora?» Fanny si trovava al mare sul
Gargano, con i due figli maschi (Manno di quindici, e Filippo detto Popi di
quattordici anni) e la figlia Orsetta di undici. Ambrogio in quei giorni avverti-
va molto la mancanza dei due ragazzi, specialmente del maggiore, così ‘suo’:
somigliante com’era nel carattere lineare e nella buona volontà a lui e a suo
padre Gerardo. «Dì un po’, da dove mi telefoni, dall’albergo?»
«Certo Ambrogio, si capisce. Immaginati se con questo sole potrei essere al-
la spiaggia o fuori a passeggio... Bisognerebbe essere pazzi fanatici.»
«Mm.» Ambrogio sorrise; in fin dei conti gli faceva piacere risentire sua
moglie: quel modo di parlare gli richiamava tempi lontani; pensò che
l’indomani, sabato, l’avrebbe rivista, e con lei avrebbe rivisto i figli; anche la
prospettiva d’un paio di giorni d’interruzione del lavoro gli riusciva in questo
momento gradita. «Dimmi allora, perché questa telefonata? Cosa c’è di bel-
lo?» S’aspettava che la moglie gli chiedesse di portarle qualche oggetto o in-
dumento lasciato a casa.
«Non vorrei dispiacerti» rispose invece Fanny «dato eh eravamo d’accordo
che tu saresti stato qui con noi domenica e forse già domani pomeriggio...»
«Infatti, già domani pomeriggio, non forse» disse Ambrogio. «Perché?»
Non sorrideva più.
«Però quanto a domani parevi incerto.»
«È vero. Ma poi mi son reso libero.»
«Beh, allora, se è così, non importa» disse la moglie.
Ambrogio ne immaginava il viso non più bello - con quella fronte angolosa e
i denti un po’ sporgenti - contrariato. Sentì nascersi dentro, mescolate, pietà e
irritazione. Ma fu solo questione di attimi: «Cosa c’è, dimmi» chiese con voce
il più possibile distesa: «Voi lì avete per caso fatto un altro programma?»
«I ragazzi. Insistono per andare alle isole Tremiti, capisci?»
«E non potremmo andarci tutti insieme domenica?»
«No. Gli unici posti - l’unico buco disponibile sul piroscafo - sono per la
partenza di domani, ecco il guaio. Abbiamo telefonato al porto, non credere,
ma per la partenza di domenica non c’è niente da fare: tutto esaurito.»
«Capisco.»
«Ad ogni modo non importa» disse la moglie. «Come non detto, lasciamo
pur perdere.»
«No» fece Ambrogio «aspetta, perché? I ragazzi ci terranno di sicuro.»
«Sì. Figurati che Manno s’è ficcato in testa di cercare le tartarughe.»
«Va bene. Io potrei anche rimandare la mia venuta a sabato venturo, ve-
diamo, fammi controllare l’agenda... Sì, potremmo fare così.» «Se però non ti
va di rimandare...»
«Perché? Non importa. Già la sfacchinata del viaggio - aereo, poi macchina
rent - sarebbe stata notevole, e... Ecco, facciamo così: vengo sabato venturo.»
«Vuoi parlare coi ragazzi?»
«Sì. Cioè non adesso. Sto aspettando da un momento all’altro il consiglio di
fabbrica e devo ancora consultare dei documenti. Salutameli tu i ragazzi, e
buona passeggiata, cercate di divertirvi.»
«Ciao caro. Non volermene.» La voce di lei era chiaramente sollevata.
«Di cosa? Ti pare? Attenta piuttosto sul piroscafo, specialmente a Filippo.»
«Sì, ciao. Stammi bene.»
Dov’era finita pensò Ambrogio, deponendo il ricevitore, la Fanny D.O.V.
che lui aveva conosciuto all’università, che poi lo aveva curato come croceros-
sina (com’era leggiadra allora...), e in seguito l’aveva sposato? Gli occhi verdi li
aveva sempre, si capisce, ma adesso le si erano fatti duri, e soprattutto alieni.
“Povera Fanny. L’ho portata in un mondo che non era il suo, che non le si con-
faceva. ” Lei al principio aveva cercato d’adeguarsi, con brio anche, ma era
arrivata troppo presto quella prova interminabile, la crisi della ditta “e ha fini-
to con lo spoetizzarsi...” C’erano stati giorni in cui Ambrogio aveva creduto
d’essere sul punto di perderla: un paio di volte Fanny aveva abbandonata la
casa (che momenti quelli!), però s’era ogni volta rifugiata dai suoi, per fortu-
na, e dopo qualche giorno era tornata. In seguito, col tempo, avevano trovato
un modus vivendi: alle crescenti fatuità di lei (l’esigenza di vestirsi sempre in
sartorie à la page, la passione per le partite di canasta, la frequentazione di
quei ricevimenti chic a lui così incongeniali) egli si era adeguato senza fiatare,
pago che lei, se non altro, gli si conservasse rassegnatamente fedele. Del resto
a questo aveva contribuito molto la presenza dei figli.
Ma bando a tutto ciò: doveva preparare l’incontro col consiglio, chiarirsi
bene i limiti entro i quali avrebbe potuto assecondare le sue immancabili ri-
chieste. Dispose meglio le schede davanti a sé sul tavolo; s’era accorto che ne
mancavano alcune che gli sarebbero state utili, chiamò - premendo un pulsan-
te - l’impiegata che gli faceva da segretaria, una donna di mezza età in grem-
biule nero, la quale prontamente entrò e prese dagli scaffali le schede mancan-
ti. Gliele dispose sul tavolo, quindi se ne andò dopo aver chiesto se gli occor-
resse altro: aveva un’aria solidale e preoccupata per i nuovi, immancabili osta-
coli che nell’imminente visita sarebbero stati frapposti al buon andamento
dell’azienda. “Ecco una che s’è conservata fedele” pensò Ambrogio con un
mezzo sorriso. Da fuori seguitava a entrare il caldo estivo e il fragore dei te-
lai... La vita, che serie ininterrotta di ostacoli! Più ne superi e più se ne presen-
tano. Vale davvero la pena di continuare in un simile gioco? L’industriale tor-
nò a concentrarsi nei suoi prospetti.
Trillò di nuovo il telefono; l’uomo afferrò ancora meccanicamente il ricevi-
tore: «Sì? Ditta Riva» recitò.
«Potrei parlare, per favore, col dottor Ambrogio Riva?» chiese una voce un
po’ esitante di donna (di chi poteva essere? Gli pareva di conoscerla quella
voce...)
«Sono io. Chi parla?»
«Sei tu Ambrogio? Davvero?» esclamò la voce facendosi gioiosa: «Che effet-
to mi fa, sapessi, risentirti dopo tanto tempo. Ma sei proprio tu?»
«Sì, sono io.»
«Indovina chi ti parla.»
«Sei Colomba vero?» disse Ambrogio, di colpo stranamente emozionato.
Non aveva più vista Colomba dal giorno della tesi di laurea, quanti anni pri-
ma? «Colomba! Che piacere sentirti. Come stai? Come va? Hai ricevuta la mia
cartolina d’auguri, è così?»
«Sì, appunto. L’ho ricevuta oggi, pensa, con tre settimane di ritardo. Da
Novara me l’hanno rispedita qui ad Alagna dove siamo in villeggiatura. Per cui
mi son detta: ‘Questo incredibile Ambrogio, che dopo tanti anni mi manda gli
auguri per il mio compleanno!’ È la seconda volta che me li mandi, vero? An-
che l’anno scorso li ho ricevuti: anche allora una cartolina.»
«Sì, infatti.»
«Beh, mi son detta, stavolta voglio proprio telefonargli. Ed ecco.»
«Hai fatto molto bene.»
«Sapessi che strano effetto mi fa sentirti dopo tanto tempo.»
«Anche a me» rispose Ambrogio. (Era la verità: avvertiva un’emozione in-
tensa, paradossale, quasi di ragazzo ai primi approcci d’amore.) «Non ci siamo
più visti dal giorno della mia laurea, ti ricordi? Dunque dal 47. Fanno, vedia-
mo... fanno ventun anni, pensa un po’.»
«Proprio così, Ambrogio.»
A quel tempo egli s’era imposto, per lealtà verso Fanny, di non incontrare
più Colomba; com’era nel suo carattere aveva tenuto fede al proprio impegno,
non aveva mai sgarrato.
«Però che strano tipo sei» disse Colomba. (La sua voce era sempre fresca,
giovanile, il che la faceva supporre immutata anche quanto al resto: “Ma cer-
tamente non può essere così” pensò Ambrogio.)
«Perché? Perché mi son fatto vivo dopo tanti anni? Beh, dimmi di te. Come
stai? Cosa fai di bello? E i tuoi figli? Sono due vero? Saranno già abbastanza
grandi adesso.»
«Eh sì. La maggiore è ormai fidanzata. Gli anni passano, caro Ambrogio. Il
maschio veramente è ancora piccolo, fa il ginnasio, pensa che...» Colomba gli
diede alcuni concisi ragguagli; davvero la sua voce non era cambiata: pareva
ad Ambrogio di vedersela davanti ragazza, con la figura a giunco, gli occhi gri-
gio-azzurri e la bella testa da statua greca. «Ma perché, dico io» concluse Co-
lomba «non ci decidiamo a incontrarci, qualche volta?»
«Eh!» convenne l’industriale: «ti rivedrei proprio volentieri.»
«Noi torniamo a Novara a fine settembre. Potresti venirci a trovare subito
dopo; bada però, senza lasciar passare altri mesi, o magari anni. L’indirizzo ce
l’hai.»
«Sì» fece Ambrogio. «Ma... Dove hai detto che ti trovi adesso? Ad Alagna?»
«Sì, in Valsesia. Ho una villa qui: una villetta di legno, non credere, però è
frutto del mio lavoro. L’ho comprata dopo la morte di mio marito: d’estate per
i ragazzi è l’ideale.»
«Che brava» la complimentò Ambrogio. Intanto si chiedeva: “Perché aspet-
tare? Dopo tanti anni, maturati come siamo tutt’e due... È vero che sentire la
sua voce mi commuove, ma è ridicolo pensare che adesso io possa mancare di
fedeltà a mia moglie, anche soltanto col pensiero.”
«Fammi fare un po’ il conto, Colombina» disse: «Quanto tempo mi ci vor-
rebbe per venire ad Alagna? Due o tre ore immagino?»
«Sì, credo. Noi da Novara impieghiamo poco più di due ore. Perché? Stai
per caso pensando di fare una passeggiata fin qui?»
«Beh, quasi quasi...»
«Davvero? Ma che meraviglia, ma che bellezza!»
«Domani sei... siete in villa? O avete in programma qualche passeggiata?»
«No, siamo qui. Vieni domani?»
«Se tu m’inviti...»
«Certo. Ehi, che tipo deciso sei! Sempre lo stesso, eh? Allora ti aspetto do-
mani. Guarda che non puoi più ritirarti.» Pareva sorpresa e nello stesso tempo
un po’ emozionata: «A che ora pensi di arrivare?»
«Facciamo intorno alle quattro? Vi va bene?»
«Benone. Ma sai che stento a crederci? Senti, ti spiego come devi fare per
trovare la nostra villa: c’è una strada che esce da Alagna verso...» cominciò a
dargli le indicazioni.
L’impiegata-segretaria batté con le nocche alla porta dell’ufficio e la soc-
chiuse; Ambrogio, coprendo con una mano il trasmettitore telefonico, le fece
col mento un cenno interrogativo.
«C’è qui il consiglio di fabbrica» annunciò a mezza voce l’impiegata.
«Va bene, un attimo solo.»
La donna si ritirò, chiudendo la porta.
Dopo un ultimo: «Allora a domani, e guarda che sono in grande attesa, non
devi mancare» anche Colomba chiuse la conversazione.
Ambrogio si ritrovò notevolmente sorpreso. “Cosa diavolo sto combinando?
E dove accidenti intendo arrivare? Vediamo, non sarà una ripicca per la tele-
fonata di Fanny?” Dalla finestra il caldo e il rumore incalzante dei telai conti-
nuavano a entrare imperturbati; al di là d’una parete laterale si sentiva a tratti
ticchettare una macchina da scrivere. “La mia vita sempre uguale...” pensò
Ambrogio, e “Io la mia vita me la sono ormai giocata!” Ebbe una sensazione di
sgomento, ma subito si riprese con la dovuta energia: “Beh? Non l’ho forse
scelta io questa vita? E del resto che altro sarei capace di fare?” Ma non aveva
tempo per riflettere: oltre la porta c’erano i rappresentanti degli operai che
aspettavano d’entrare. Allungò una mano verso il pulsante, la solita urgenza...
“Di urgenza in urgenza: è sempre così per me. Già, e con ciò?...” Ma perché
tutte queste riflessioni? Non agì sul pulsante. Molto inaspettatamente domani
avrebbe rivista Colomba, un caso a dir poco bizzarro. Tentennò la testa, e tut-
tavia tale prospettiva gli rinnovò dentro quell’emozione, da ragazzo ai primi
incontri d’amore. “Ehi, che importanza sto dando a un fatto che d’importanza
non ne può avere? Se mai avrei dovuto inserire il nome di Colomba nella lista
per gli auguri non due, ma dieci o dodici anni fa, ecco.” No. Ancora dieci anni
fa gli sarebbe sembrato sleale verso Fanny inviare biglietti d’auguri a una
donna come Colomba, per la quale aveva a suo tempo provata una così forte
propensione... Tanto più che in lui i sentimenti non mutavano facilmente. A
ripensarci adesso, che straordinario fascino allora, appena finita la guerra,
aveva esercitato su di lui la ragazza! Era stato il ricordo del povero Manno, la
ripugnanza all’idea di portarla via a lui ch’era morto, a trattenerlo dal farle la
corte, dal dichiararsi... A quel tempo gli sarebbe sembrato un sacrilegio. “Che
cose incredibili si fanno da ragazzi!” Beh, ma cos’andava rimestando ormai?
“Renditi conto: a quel tempo Colomba (Andromaca diceva Manno parlando di
lei: proprio discorsi da ragazzi) aveva vent’anni, mentre adesso ne ha sulle
spalle quarantatre o quaranta-quattro, di cui non pochi di vedovanza e di la-
voro per portare avanti la baracca. Ha anche una figlia che sta per sposarsi...
Chissà in che stato è ridotta, povera diavola”. Sentì per lei, certo molto cam-
biata da allora (bastava confrontare la Fanny d’adesso con quella d’una volta),
un diverso e malinconico trasporto di simpatia. È vero che la voce non gli era
sembrata quella d’una donna disfatta... “Ma che razza di sciocchezze vado fan-
tasticando? Io sono un uomo sposato, dunque basta con simili fantasticherie.”
Premette il pulsante.
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
***
Terminata la cena Ambrogio la riaccompagnò a casa. S’era fatto buio, notte
proprio, il cielo fresco e pulito era pieno di stelle; Colomba in macchina non
parlava più. Ambrogio si voltò a mezzo verso di lei e notò che i suoi occhi così
belli sembravano ancora più belli; finalmente si rese conto che piangeva.
Lo invase allora una tentazione tremenda: di non fermarsi alla villa di tron-
chi, ma d’andare oltre e portarsela via. In pochi istanti gli passarono per la
mente un’infinità di cose: ciò che aveva letto e sentito dire, della sempre mi-
nore importanza che anche nell’ambito cattolico si dava adesso al peccato del-
la carne: certi preti sostenevano la liceità o quasi delle relazioni prematrimo-
niali, perché non dunque anche extramatrimoniali? C’erano state donne, egli
aveva sentito dire, cattoliche e serie, che in seguito all’affermarsi della ‘morale
nuova’ s’erano come pentite della propria intransigenza e buttate allo sbara-
glio nel tentativo di recuperare il tempo perduto... Del resto non aveva Dio
stesso, e proprio quel giorno, mostrata evidente comprensione per il suo stato
d’animo, aiutandolo tangibilmente in quei momenti pazzi del viaggio? Già,
Dio! Con lui però non si poteva scherzare. I preti nuovi sostenevano...: ‘Ma io
vi dico: se uno guarda con desiderio una donna ha già commesso peccato
con lei’ ‘Io vi dico’ altro che il chiacchiericcio dei teologi del momento, i quali
‘purché ci sia l’amore’ giustificavano qualsiasi cosa. E poi bastava pensare al
vecchio don Mario che ora faceva il cappellano nell’ospedale di Monza, e a don
Carlo Gnocchi quand’era vivo, ai preti veri, che parlavano lo stesso, identico
linguaggio da duemila anni: erano loro i portavoce di Dio, non questi preti
permissivi d’adesso.
Arrestò la macchina davanti alla villa, scesero entrambi: alle finestre non si
scorgeva alcuna luce, i figli di Colomba dovevano essere ancora fuori. Prese la
mano di lei, se l’accostò alle labbra e la baciò; Colomba continuava a piangere,
sempre in silenzio, senza singhiozzare. Chissà - da quando era vedova - quante
volte aveva pianto così. Ambrogio premette più volte le labbra sul dorso della
sua mano, poi la lasciò e risalì in macchina.
***
Il viaggio di ritorno non fu agitato come quello d’andata, anzi in apparenza
tranquillo, ma ci furono dei momenti per lui di quasi desolazione. Certo non
avrebbe potuto concludere diversamente da come aveva concluso. Avrebbe
mai consentito lui che Fanny si concedesse a un altro uomo? Una simile pro-
spettiva gli era assolutamente intollerabile; gli uomini non possono vivere alla
maniera delle bestie, questo era evidente, e la nuova morale, di cui si parlava,
semplicemente non era una morale. Tutto ciò gli fu via via sempre più chiaro:
il problema morale non si poneva neppure. Restava la sua pena, e più ancora
la pena di lei, la loro sorte, e restavano le grandi domande: perché a suo tem-
po, quand’era possibile, essi non si erano scelti, se l’attrazione tra loro era tale
da dimostrarsi ancora così forte dopo vent’anni? E anzi perché Manno che
prima di lui s’era innamorato di Colomba, era morto, era stato tolto via? Que-
sti due fatti avevano cambiata completamente la vita di lei... Perché si erano
verificati? Non poteva rispondersi.
“Andromaca s’è messa a giocare a tennis” si diceva ogni tanto: e a differenza
di prima, adesso gli pareva che in questo fatto ci fosse un che di straziante. La
giovane donna che più volte s’era vista troncata la vita affettiva, non si lasciava
andare, al contrario, sembrava avere ingaggiata una partita con la propria sor-
te: non intendeva decadere, non intendeva entrare in disfacimento. E resiste-
va in modo mirabile, perfino sorprendente; ma fino a quando? Cos’era la forza
di una donna, se paragonata alla forza del tempo, che polverizza ogni cosa?
Venne ad Ambrogio, da un così impari confronto, un angoscioso senso
d’inanità. Era ben lontano dal supporre che anche la sua agitazione di ieri e di
oggi, quel suo improvviso comportarsi come un ragazzo, erano una ribellione
alla propria decadenza incipiente, al lento disfacimento che anticipa in cia-
scuno, mentre è ancora vivo, la tomba. Ignorava che non pochi altri alla sua
età erano passati e passano per esperienze analoghe, che essi non sanno spie-
garsi, e di cui in genere si vergognano di parlare.
Una volta a casa e a letto non gli riuscì di prendere sonno, ogni tanto si rigi-
rava turbato, dovette lottare anche con la fantasia che gli prospettava come
avrebbe trascorse queste stesse ore se le avesse passate con Colomba; cristia-
no a metà (come tutti noi cristiani siamo) si aiutò con la preghiera, e anche
prospettandosi la sbalordita, dolorosa disapprovazione dei suoi figli, special-
mente del maggiore, così coerente e severo. Al trillo della sveglia si alzò senza
avere dormito un solo minuto, cosa che non gli capitava dal lontano tempo
della guerra.
PARTE SETTIMA
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
Uscito a piedi dal giardino Luca sistemò i pacchi sul sedile posteriore del
proprio automezzo (una Millecento in ottime condizioni nella quale, come in
molte automobili degli operai briantei, c’era una piccola croce appesa allo
specchietto), e sedette a sua volta al volante.
Raggiunse anzitutto la casa del tipografo Corbetta, al pari di lui vecchio mi-
litante della Democrazia Cristiana, tanto che poteva permettersi di disturbarlo
a qualsiasi ora. Mentre spalancava lo sportello davanti alla cartoleria-
tipografia, per un soffio non urtò il Farirö - il piccolo fabbro che, ai tempi,
aveva aperto ai partigiani la caserma dei carabinieri: chissà se il lettore lo ri-
corda ancora -, il quale avanzava lungo lo stretto marciapiede; sceso in fretta
di macchina Luca si scusò con lui, e scambiò ridendo qualche parola sullo
scampato pericolo. (Da anni il Farirö andava in giro tutto ripulito perché suo
figlio era diventato un industriale - anzi un importante industriale - metal-
meccanico; per il resto l’ex piccolo fabbro non aveva mutato stile, e tra l’altro
seguitava come prima ad accendere i fiammiferi strofinandoli sul fondo dei
calzoni: che adesso, per essere di ottima lana, si prestavano ancor meglio a
tale servizio.)
Alle spalle del Farirö ecco venire avanti a lunghi passi Pierello, accompa-
gnato dalla figlia minore. Aveva in testa il berretto a visiera e sotto braccio la
cartella: doveva - Luca pensò - essere appena sbarcato dal treno (lavorava tut-
tora a Sesto, in ferriera); come mai dunque lo accompagnava la figlia?
«Ciao Piero» lo salutò.
«Ciao» gli rispose asciutto Pierello.
«Sempre in gamba, eh?»
L’altro non disse nulla; era - Luca si accorse - molto abbacchiato. «Ehi, t’è
successo qualcosa?»
Pierello fece segno di no con la testa, e andò oltre senza fermarsi. Luca ri-
mase perplesso: “Cosa diavolo può essergli capitato?” Dopo aver consegnata al
tipografo la bozza del manifesto, ed essersi intrattenuto con lui una mezz’ora
(il Corbetta, gran conversatore, non l’avrebbe lasciato mai venir via), Luca
raggiunse la propria casa. Non abitava più alla Catafame (dov’erano rimasti i
suoi vecchi, che avevano affittati i locali lasciati vuoti dai figli, e perfino il ‘so-
laio delle passere’, a immigrati meridionali), bensì a Nomana, in un condomi-
nio della zona nuova. Come tanti altri operai della sua età - come lo stesso Pie-
rello ad esempio, che risiedeva in un condominio non lontano - era proprieta-
rio d’un bell’appartamento di quattro locali con riscaldamento centrale, forni-
to di mobili che potevano gareggiare per comodità con quelli di casa Riva.
Venne ad aprirgli il figlio ventunenne Tarcisio, studente d’architettura, che
premurosamente lo liberò dei pacchi: «Vuoi che li porti addirittura in sede,
pa’?»
«No, lascia. In sede ci andiamo poi insieme, dopo mangiato.»
«Va bene pa’» (Parlavano entrambi in dialetto.)
«Il tuo compagno Manno ti manda i suoi saluti: l’ho visto poco fa.»
«Ah, grazie.»
Era un bravo figlio il Tarcisio, pensò Luca, anche lui un ‘fiö de la leg’ al pari
di Manno, nonostante quella bolgia di scuola che entrambi frequentavano a
Milano. Anche degli altri suoi quattro figli e figlie Luca non si poteva lamenta-
re: non uno sbandava. Egli sapeva d’essere sotto questo aspetto molto fortu-
nato, perché le cose non andavano affatto allo stesso modo per altri capi fami-
glia operai, i quali si ritrovavano ad avere dei figli ‘contestatori’ che li facevano
dannare. A Nomana ultimamente era comparsa anche la droga...
«Ah, dimmi un po’, quel ragazzo della tua età, come ha nome? Taddeo, il fi-
glio di Pierello e della Luisina, quello che studiava da prete... per caso oggi ne
ha combinata qualcuna delle sue?»
«L’hai già saputo? Forse te l’hanno detto dai Riva?»
«No. È che ho visto suo padre, e m’è sembrato preoccupato.»
«Ci credo. Oggi pomeriggio i carabinieri hanno chiamato un’altra volta
Taddeo in caserma. Forse però sarà ancora per quella macchina che ha brucia-
to a Milano.»
«Ha bruciato una macchina? Ah già, sì, me l’avevi detto.»
«In una manifestazione per il VietNam.»
«Sì? Che testa sbagliata! Cos’ha fatto di male suo padre, per meritarsi un fi-
glio simile?»
CAPITOLO QUARTO
In quel momento Pierello, a casa sua, era seduto a tavola per la cena: una
cena che gli stava andando tutta in veleno. Ogni tanto scuoteva con disappun-
to la testa rotonda dagli occhi marroni (anche i capelli gli s’erano conservati
dello stesso colore marrone chiaro, quasi senza fili bianchi, sebbene adesso,
nel 74, egli avesse più di cinquantanni). Sedeva con la moglie Luisina e le due
giovani figlie al tavolo della cucina, perché la famiglia non si serviva mai per i
pasti del tavolo buono della sala, tenuto sempre lustro come uno specchio.
Le tre donne tacevano per rispetto alla sua pena; ogni tanto la moglie - piut-
tosto invecchiata, ma tuttora provvista del bel garbo che aveva a suo tempo
conquistato Pierello - si alzava da tavola per andare a prendere qualcosa, op-
pure raggiungeva con un piatto sporco l’angolo dov’era la pattumiera di plasti-
ca, liberava il piatto dai residui di cibo, quindi lo sistemava addirittura nella
lavastoviglie spalancata; dopo un po’ s’alzava di nuovo per qualche altra in-
combenza; quel suo continuo movimento ne indicava agli altri il nervosismo.
Alla fine tolse dal fuoco e portò al tavolo la macchinetta del caffè espresso;
prima che prendesse anche dalla credenza pensile le tazze, i cucchiaini e lo
zucchero, si alzò la maggiore delle due figlie e provvide a tale bisogna. Luisina
la guardò per un attimo interrogativa (siccome le figlie lavoravano tutto il
giorno in ufficio, la madre, nonostante le loro sempre rinnovate proteste, non
gli consentiva di sobbarcarsi al servizio della mensa). «Mamma, almeno per
stasera lascia perdere, ti prego» disse la figlia. La Luisina non ribatte; la ra-
gazza versò il caffè fumante, dal buon odore, anzitutto al capo famiglia. «An-
che il caffè volete farmi prendere?» protestò Pierello.
«Lo prendiamo tutte le sere, papà» osservò la figlia.
«Sì, ma...»
«Piero, passerà anche questa» disse la Luisina. Al pari del marito
s’esprimeva in dialetto, le due ragazze invece in italiano.
L’uomo annuì e si diede a rimestare col cucchiaino nella tazza. Dopo che la
figlia ebbe versato il caffè anche alla madre, alla sorella e a sé stessa, la madre
si alzò per collocare la macchinetta col caffè residuo sopra una mensola accan-
to a due piatti coperti in cui stava la cena del figlio. Pierello seguì con gli occhi
i movimenti della moglie, fissò i due piatti coperti, quindi allontanò da sé il
proprio caffè. «Stasera non ne ho voglia» disse con sconforto.
«Piero ti prego.»
«Lasciami fare.»
La donna sorbì pensierosa un paio di sorsi del proprio caffè, poi allontanò a
sua volta la tazzina.
«Mamma!» intervenne allora la figlia maggiore. E rivolgendosi anche al pa-
dre: «In fin dei conti oggi non è mica successo niente di nuovo. Non è che
Taddeo ne abbia combinata un’altra. I carabinieri gli hanno soltanto chiesto
dei particolari su quel fatto della macchina, lo sapete.»
«E ti par poco?» esclamò il padre, atteggiando il viso a severità. «No, non è
che mi par poco.» La figlia sospirò: «Ma ormai quello che è successo è succes-
so, e adesso questa storia deve fare il suo corso.»
«Ah, quello che è successo è successo! Bella roba. Ma perché è successo?
Cosa diresti tu se un farab... se qualcuno ci bruciasse la nostra macchina?» e
alla moglie: «Oltre tutto è un operaio anche quello là, vero?»
Alludeva al proprietario della macchina bruciata qualche settimana prima a
Milano dal figlio e da altri dimostranti.
«È un impiegato» precisò la figlia, «ma... per caso.»
«Ecco, è un impiegato come te» disse Piero; «e del resto chiunque fosse...
Perché dei disgraziati devono bruciare a caso le macchine ferme in margine
alla strada?»
«Quando ci sono le dimostrazioni, lo fanno. Non dico che fanno bene: sono
dei senza testa, in questo sono d’accordo con te, con voi, lo sapete bene.»
«Sono dei ladri» dichiarò Piero: «perché poi chi si trova la macchina bru-
ciata, non ce l’ha più, e nessuno gliela paga.»
«Siamo d’accordo papà. Però in fin dei conti queste cose succedono quasi
tutti i giorni. Il nostro Taddeo è stato soltanto più salame degli altri perché
l’ha fatto sotto gli occhi di quegli studenti che lo conoscevano, che poi lo han-
no denunciato. E lui, quando la polizia gliel’ha chiesto, non ha detto di no, non
ha negato. In questo, dopo tutto, è stato onesto.»
«Ah, onesto! Onesto a bruciare le macchine degli altri?»
«Come puoi dire così?» esclamò accorata anche la Luisina.
«No, sentite... Quello che voglio dire è che adesso voi non dovete smangiar-
vi. Perché di sicuro Taddeo lo chiameranno ancora altre volte, e gli faranno
magari anche il processo. Voi non potete prendetela ogni volta a questo modo.
Ci rimettete la salute, non capite?»
«A che punto siamo!» fece Pierello, e tacque. Ricordò quanto fosse glorioso
di quell’unico figlio maschio (cui aveva posto il nome del suo indimenticabile
amico Tadeusz, il prigioniero polacco) qualche anno prima, allorché studiava
da prete in seminario. Poi, chissà come, gli si era voltata completamente la
testa.
«Sono stati quei suoi due compagni a traviarlo» affermò senza spiegare,
continuando il proprio pensiero: «quelli che studiavano con lui giù in semina-
rio: il figlio del Consonni sopra tutto. Ecco chi è stato. E insieme con quei due
il coadiutore nuovo, don Vittorio.»
«A sentire la madre del Consonni, sarebbe stato invece il nostro a traviare il
loro» osservò la Luisina.
«Il nostro? Beh, chissà, potrebbe anche avere ragione lei. Chi può saperlo
con certezza? Ma cosa gli ha preso a questi ragazzi, io mi chiedo. Addirittura
in tre hanno abbandonato il seminario... E prima erano tutt’e tre bravi ragazzi,
tra i meglio del paese, e quanto mai di buon comando. Poi si sono come inca-
rogniti. E anche a certi preti giovani cosa gli ha preso, me lo sai dire tu?»
«Non devi parlare così delle persone consacrate» osservò con gravità la Lui-
sina, lanciando un’occhiata alle figlie: «Non tocca a noi di giudicarle.»
«Già, però hai visto don Mario l’anno scorso quand’è venuto a Nomana per
la festa del Crocefisso. Mentre io gli contavo di nostro figlio e del brutto esem-
pio che gli dà don Vittorio, gli son venute le lacrime agli occhi: non ha detto
niente, però è d’accordo anche lui, e come!»
La madre rivolse di nuovo uno sguardo angustiato alle figlie: «Non tutti i
preti giovani sono così» obiettò: «Soltanto qualcuno.»
Là maggiore delle figlie, ch’era una ragazza di molto buon senso, si alzò in
piedi: «Ermelinda» disse alla più giovane «ci stavamo dimenticando che sta-
sera alla televisione c’è Mike Bongiorno; su, è quasi ora.»
Ermelinda (ripeteva il nome della nonna paterna) si alzò in piedi un po’ in-
certa: «Mike Bongiorno, ah sì, è vero.»
«Vieni» disse la maggiore. La precedette nella sala dove, in un angolo, stava
l’apparecchio televisivo. «Ma non sarebbe meglio, stasera, aiutare la mamma
a sparecchiare?» propose la minore.
«Lascia perdere» fece sottovoce la prima: «la mamma ha paura che ci scan-
dalizziamo, non vedi? Povera donna, sapesse che discorsi dobbiamo sentire
ogni giorno in ufficio.»
«Lo credo bene che non tutti i preti giovani sono così» continuò Pierello ri-
volto alla moglie: «Perché allora vorrebbe dire che non c’è più religione. Eh, ci
mancherebbe!»
«Quando gli si volta la testa a quel modo, i preti finiscono in genere con lo
spretarsi» disse liberamente la Luisina, adesso che non erano più presenti le
figlie. «Come ha fatto il don X coadiutore a L. per esempio. Beh, in fondo è
una grazia che il nostro ragazzo abbia abbandonata la veste prima, mentr’era
ancora in tempo: se no io ne sarei morta di magone.»
«In questo sono d’accordo. Però non chiamarla una grazia.» Pierello fece
una pausa. «Che brutto lazzarone!»
Si alzò in piedi come qualche istante prima avevano fatto le figlie. Proprio
non riusciva a darsi pace: «Dove sarà adesso?»
«Lo puoi immaginare, sarà andato a quel giornaletto.»
«Così io, che son tornato dal lavoro col treno delle otto, per parlare con lui
dovrò aspettare fino a mezzanotte, e anche più tardi, eh? Eppure alla fine toc-
cherà a me, a noi, di pagare la macchina che lui ha bruciato. Perché lui, il si-
gnor studente, non guadagna una lira: anzi a noi ci tocca di pagargli anche gli
studi.»
La Luisina fece un gesto a significare: «Lascia perdere.»
«Dimmi un po’» le chiese il marito: «Lo ha detto a te che domande gli han-
no fatto i carabinieri, insomma a che punto stanno adesso le cose?»
La moglie fece un segno di diniego. «A me non ha detto niente, ma ne ha
parlato un po’ con sua sorella.»
«Ah, così.»
In piedi nella cucina l’operaio rimuginava la situazione. «Così io, che sono
suo padre, per sapere dovrò aspettare fin dopo mezzanotte, eh?» ripeté.
La moglie lo guardò in silenzio.
«Beh, non mi va d’aspettare» esclamò Piero. Andò all’attaccapanni e prese
il berretto a visiera con cui era tornato dal lavoro: «Non mi va d’aspettare»
ripete. Mise la mano sulla maniglia della porta.
«Piero, quel figlio... cerchiamo di non perderlo del tutto» fece la moglie; le
si andavano arrossando gli occhi.
Il marito la considerò per qualche istante: «Non avere paura, non mi lasce-
rò prendere dalla rabbia» disse a mezza voce, e uscì.
CAPITOLO QUINTO
La sede della rivistina progressista ‘Brianza Nuova’ era nella ‘Libreria don
Milani’, un negozietto a un solo occhio situato a pochi metri dalla piazza in un
edificio di costruzione recente. Tale edificio (insieme con una fabbrica molto
più voluminosa ad esso retrostante, venuta su negli anni del ‘miracolo econo-
mico’) impediva ora quasi del tutto la vista che una volta si godeva sulla cer-
chia delle montagne.
In quel momento Taddeo e gli altri giovani redattori non si trovavano però
nella sede, bensì nel finitimo bar Piper, ‘ ’l bar de la scema’, che faceva angolo
con la piazza. V’erano entrati uno dopo l’altro scorgendovi don Vittorio, il
coadiutore rosso, seduto a un tavolino mentre in chiesa si stava impartendo la
benedizione. Il prete aveva accolto ciascuno con frasi sarcastiche: «Come? Tu
non vai in chiesa a sentire la storia del popolo eletto che scappa dal faraone tra
due muraglie d’acqua?» oppure: «Entri qui invece d’andare in chiesa? Non
t’interessa la storia di san Pietro che fa cadere morti a terra i cattivi?»
La poca gente che circolava per la piazza (adesso asfaltata e quasi per intero
occupata da un grande parcheggio) era abbastanza simile a quella d’una volta:
meglio vestita però, in particolare le ragazze, anche quelle molto giovani, le
quali ultime sotto l’influenza della televisione e dei tempi nuovi avevano tutte
un che di sexy nell’abbigliamento (tanto che Michele le definiva ‘le vampine’).
Appunto per la comodità d’osservare le ragazze don Vittorio era diventato fre-
quentatore del bar in piazza: non era un ipocrita e non se lo nascondeva, ma
nell’attuale fase del suo travaglio interiore - in cui si mescolavano anche aspi-
razioni in sé nobili e giuste, però sempre meno regolate, e sempre più perdenti
di fronte alla suggestione del grande rinnovamento preconizzato dalle teorie
di Carlo Marx - egli non dava ormai a questo genere di tentazioni molta im-
portanza. A suo tempo, diversi anni prima, il giovane sacerdote aveva come
tanti altri imboccata la via delle novità e del progressismo credendo in buona
fede d’interpretare un indirizzo proveniente dall’alto. In seguito l’avevano più
d’una volta preso dei dubbi anche tormentosi, sebbene la sua lettura del Van-
gelo si fosse andata diversificando da quella ‘tridentina’ e ‘borghese’. Anche
l’attuale crescente propensione per la donna lo aveva sul principio lasciato
interdetto, non tuttavia fino al punto da indurlo a un ripensamento.
I ragazzi progressisti lo ammiravano per la sua spregiudicatezza a dispetto
d’ogni protesta dei ‘benpensanti’ (specie del parroco - nuovo pure lui, ma di
mentalità antica): il che finiva con l’indurlo ad atteggiamenti sempre più spre-
giudicati. Quella sera i giovani erano dunque venuti a sedersi attorno a lui. Si
trattava di maschi e di femmine, per la maggior parte d’estrazione cristiana -
alcuni come s’è detto ex seminaristi -, ma comprendevano anche l’élite della
tuttora scarsa gioventù comunista di Nomana, la quale adesso, assai più
istruita e aperta, lasciatisi indietro i tempi bradi del comunismo staliniano,
formava in pratica un tutt’uno con i ‘contestatori’ cattolici.
Dai motteggi - che si rinnovavano ad ogni nuovo arrivo - si era nel gruppo
passati al commento delle ultime novità: ovviamente l’eroe del giorno era
Taddeo, il figlio di Pierello, nei guai a causa del suo impegno per la vittoria dei
comunisti indocinesi. Quei giovani s’inorgoglivano all’idea che il sostenere la
guerra di liberazione comunista costasse loro sacrifici reali come questo.
Quanto al fatto che gli indocinesi - vietnamiti, cambogiani e laotiani - non vo-
lessero saperne d’essere liberati dai comunisti (e lo dimostravano in modo
inequivocabile ad ogni avanzata di questi, fuggendo nella proporzione di nove
su dieci con le truppe dei rispettivi eserciti nazionali, o raggiungendo in pro-
porzione di nove su dieci le linee nazionali non appena le circostanze lo con-
sentivano loro) quei giovani un tale fatto l’ignoravano, oppure - se glien’era
giunta notizia - lo giudicavano mostruoso, e dovuto all’impreparazione di
quelle popolazioni. Le ragioni degli americani (che dopo essere entrati in
guerra per la libertà di quei popoli, esattamente come a suo tempo in Europa
contro i nazisti, avevano due anni prima, nel 72, ritirate le proprie truppe, e
ora si limitavano a rifornire gli eserciti nazionali) erano soverchiate dal clamo-
re in contrario di tutti o quasi i giornali italiani, nonché della radio e della te-
levisione.
L’ ‘imperialismo’ americano finì con l’entrare anche nei discorsi di quella
sera: «Quei porci d’americani devono piantarla d’aiutare i loro reggicoda ri-
masti in VietNam e in Cambogia.»
«Hanno contro gli studenti d’America, e l’opinione pubblica del mondo in-
tero, tanto che sono stati costretti a venirsene via: però lo vedete, non vogliono
saperne di mollare del tutto.»
«A sperare che vincano loro è rimasta ormai solo la gente di Nomana.»
«È proprio gente che non capisce niente. Come fanno a non rendersi conto
che una sconfitta degli americani rappresenterebbe una straordinaria vittoria
della libertà nel mondo intero?»
«Beh, forse è appunto questo che loro non vogliono.»
«Che razza di disgraziati! Ma com’è possibile che non gl’importi niente di
tutte quelle sofferenze, di tutti quei morti?» (Pronunciò questa frase la Tecla,
una ragazza in blue jeans, dagli occhi ardenti.)
«Già. E noi non dovremmo fare dei falò di macchine per svegliarli, questi
ipocriti?» esclamò con durezza un altro.
Taddeo annuì con aria severa e insieme modesta: al centro com’era
dell’attenzione, si manteneva debitamente schivo..
«La gente di Nomana seguiterà a non capire niente finché sarà plagiata dal
capitalismo» spiegò con gravità il Consonni, ex seminarista, laureando in filo-
sofia all’università statale e direttore della rivista. «Per rendercene conto ci
basta sentire i ragionamenti che fanno i nostri famigliari, no?»
«Ecco, bravi ragazzi!» lo approvò il prete. Anche gli altri erano incondizio-
natamente d’accordo.
(Con questi giovani che, considerandosi affrancatori del popolo, avevano
non senza sacrifici personali messo in piedi il periodico e la piccola libreria
progressista, Michele aveva inutilmente tentato di discutere. D’essere anziché
liberatori, dei plagiati portatori di schiavitù, essi non potevano a quel tempo
prenderlo in considerazione nemmeno per ipotesi; soltanto anni dopo alcuni
di loro l’avrebbero capito. Finivano perciò, a quel tempo, con l’apparire allo
scrittore una dimostrazione vivente di come avesse a suo tempo visto giusto il
‘gobbetto’ Gramsci, il quale aveva indicata ai suoi la conquista del potere non
per la via leninista della rivoluzione violenta, ma attraverso il plagio: attraver-
so cioè il progressivo condizionamento di tutti gli organi dell’informazione -
come giornali, radio, televisione - nonché degli istituti culturali: scuole, case
editrici, teatri, cinema. Gramsci aveva, con straordinaria lucidità, previsto che
una volta conseguito tale condizionamento, il compito di togliere di mezzo il
grande ostacolo, la visione cristiana della realtà, se lo sarebbero assunto spon-
taneamente gli stessi cristiani, i quali sarebbero gradualmente diventati atei
dopo aver accettata l’analisi sedicente neutra e scientifica che della realtà fa il
marxismo. In effetti questi ragazzi e questo prete, e tanti altri come loro sparsi
in Italia e in Europa, si erano precisamente messi su tale strada dopo che -
morto Pio XII - la cultura cattolica, anziché lottare contro le analisi marxiste,
insisteva a cercare dei punti d’incontro con esse. Va anche detto che, nel con-
tempo, l’intera cultura europea - soprattutto per l’analoga situazione creatasi
in Francia, suo centro - era incredibilmente scaduta, compiendo in pochi anni
enormi passi indietro verso una condizione precivile. Emblematica al riguardo
appariva a Michele la recente affermazione di Picasso, riportata da tutti i gior-
nali ‘Se oggi rinascesse Raffaello non venderebbe neppure uno dei suoi qua-
dri, e nessuno li guarderebbe’: purtroppo le cose stavano effettivamente così.
Venuta meno la sensibilità per le opere d’arte autentiche, succedeva ora di ve-
dere in certe esposizioni - e non delle minori - una fila di boccette con le feci
dell’artista allineate in luogo dei suoi quadri.)
«Beh, il VietNam è estremamente importante» aveva richiamata
l’attenzione di tutti il Consonni: «però dobbiamo ricordarci che questo nume-
ro del giornale va dedicato alla libertà di divorzio. All’Indocina stavolta non
possiamo dedicare più di mezza facciata.»
«In questo siamo d’accordo.»
«Già. Cioè, eh già.»
«Sì, certo che siamo d’accordo.»
«I pezzi sul divorzio li avete preparati nel modo che abbiamo deciso duran-
te l’ultimo collettivo?» egli s’era assicurato.
«Io il mio sì.»
«Io non ancora; cioè, l’ho solo abbozzato, perché, cioè, vorrei sentire il vo-
stro parere.»
«Io sono pronto.»
«Beh poi, nella seduta di redazione, esamineremo ogni cosa. Comunque en-
tro domani sera dovete consegnarmeli: perché questo numero non può uscire
in ritardo.»
«Ah, no di sicuro.»
«Ci mancherebbe.»
«Allora?» chiese quello che ancora doveva terminare il proprio pezzo: «Non
sarebbe ora di trasferirci in redazione, cioè, sì, in redazione?»
«È che manca l’Elvira...» (si trattava della figlia secondogenita d’Igino, stu-
dentessa in lettere all’università cattolica).
«Ah già.»
«Sempre ritardataria quella,.»
«Già. Cioè, infatti.»
I giovani contestatori avevano indugiato ancora un po’, in attesa della com-
pagna assente.
Nel ristagno della conversazione don Vittorio si era rivolto direttamente a
Taddeo: «Beh? Ce lo vuoi raccontare o no cosa t’hanno chiesto i carabinieri?»
«Cos’è che volete? Anche voi un rapporto circostanziato?» Dopo avere sor-
riso il giovane, tornato alla sua spigolosa serietà, s’era messo a raccontare.
Fu a questo punto che Pierello, diretto alla libreria don Milani, arrivò da-
vanti al bar.
CAPITOLO SESTO
Vide attraverso le vetrine illuminate suo figlio intento a riferire agli altri:
“Eccolo là. Cosa starà predicando quel disgraziato? Sta per forza parlando del-
la sua impresa di oggi... E di che altro? Beh, avrò diritto di sentirla finalmente
anch’io che sono suo padre, no?”
Non gli usciva tuttavia dalla mente l’ammonimento angosciato della moglie:
«Piero, quel figlio... cerchiamo di non perderlo del tutto». Perdere il figlio, a
questo punto! Eppure se lui fosse entrato nel bar, non avrebbe potuto ascol-
tarne le malefatte senza interloquire, e ne sarebbe nata - in pubblico a quel
modo - una discussione ben più grave che se fosse stata a tu per tu. Da
quell’uomo semplice che era, Piero quel figlio - il suo unico maschio - l’amava
fin dalla nascita con tutta l’anima... Avvertiva quindi, con tormento, che non
era cosa da poco arrischiare una rottura.
Mentre se ne stava così irresoluto davanti alla vetrina, vide il prete approva-
re a un tratto calorosamente Taddeo, e sollecitare anche l’approvazione degli
altri. Finì con l’incentrare il proprio interesse su questo particolare: se merita-
va riprovazione suo figlio, è certo che ancora di più ne meritava quel prete.
Piero si scostò un poco dalla vetrina per riflettere: un sacerdote che si compor-
tava a quel modo! Per un operaio paolotto come lui era un vero scandalo, tan-
to che di proposito a quel prete egli cercava di non pensare mai. Sempre con
quelle ragazze scalmanate attorno poi, un sacerdote di Cristo! Come poteva,
con un simile esempio sotto gli occhi, venir su bene la gioventù? È vero che
anche senza quel prete i tempi erano cambiati, e anche qui a Nomana i rap-
porti tra i sessi non erano più quelli d’una volta, quand’era ragazzo lui, che la
maggior parte dei maschi arrivava al matrimonio senza aver conosciuta la
donna. Ah, no davvero, le cose adesso non andavano più così. Tanto che ormai
circolava anche qui quel detto che una volta si sentiva soltanto giù in pianura,
a Sesto per esempio, dove tuttora egli lavorava nella ferriera: ‘Se ’l Signur el
perduna no ’l pecaa de la braghèta - el pò resta sú de per lü a sunà la trum-
bèta’ (Se il Signore non perdona il peccato delle mutandine - può restarsene
lassù da solo a suonare il piffero). A questa riflessione l’operaio sorrise con
una certa indulgenza, anche se tale realtà intimamente gli dispiaceva: perché
quanto tempo sarebbe poi occorso al popolo cristiano per tornare ai propri
costumi? Beh, la gente comune pazienza: ma un prete? Possibile che non si
rendesse conto, se non altro, della sconvenienza di quella promiscuità? Per
forza poi tanti preti rossi finivano con lo spretarsi, per forza i seminari si vuo-
tavano... In quello della diocesi, a quanto lui aveva sentito dire, nel giro di po-
chi anni gli aspiranti al sacerdozio s’erano ridotti addirittura alla metà. Non
gliene importava niente a don Vittorio d’un fatto così tremendo? Non ci pen-
sava mai? Pierello tentennò con disapprovazione la testa rotonda: chissà come
sarebbe finito questo prete! Gli venne in mente il don X, coadiutore di L., un
paese vicino a Nomana, che - incalzato dal bisogno della donna - aveva poco
tempo prima ottenuta la riduzione allo stato laicale per sposarsi, e poi, in una
delle prime notti dalle nozze, era morto d’infarto. Certo lui non intendeva eri-
gersi a giudice, ma non era forse un esempio per tutti quello? E che esempio
anche!
Rimuginando tali cose Piero si era passo passo allontanato dal bar Piper, e
stava lasciando anche la piazza, di cui in quel momento gli dava fastidio
l’eccessiva illuminazione e l’andirivieni delle automobili. Oltrepassò l’oratorio
nuovo (in cemento armato, dotato d’un grande salone ad anfiteatro con le pol-
trone di velluto, e d’un magnifico cortile per i giochi; disponeva perfino d’un
pulmino per accompagnare i ragazzi: che differenza rispetto a una volta! Ma
cosa valeva tutto questo - pensò l’operaio - se adesso molti genitori non ci
mandavano più i loro figli, per tema che il prete contestatore glieli rendesse
ribelli?) Dio mio, a pensarci bene, che razza di situazione s’era creata!
Piero scantonò per una viuzza poco illuminata. Cosa diavolo stava succe-
dendo in fin dei conti, si può sapere? Dopo la guerra il benessere di tutti era
cresciuto, il popolo, gli operai, erano arrivati - lavorando sodo, si capisce, e
sacrificandosi - ad avere l’appartamento e la macchina, e potevano mandare i
loro figli all’università: tutte cose un tempo assolutamente impensabili. Certo
non tutti c’erano ancora arrivati, ma la gran maggioranza sì, e andando avanti
sulla strada buona, in un ragionevole numero di anni ci sarebbero arrivati tut-
ti. La gente avrebbe dovuto essere contenta, avere finalmente il cuore in pace,
e invece... Non solo succedeva che i figli si ribellavano ai genitori e alle istitu-
zioni, come il suo Taddeo, ma la più parte della gente anziché contenta sem-
brava diventata rabbiosa. Volevano sempre di più, e sempre più presto, e lavo-
rando di meno... Ci s’erano messi senza misericordia anche i sindacati: da
quando quelli cristiani è quelli rossi si erano collegati insieme, prendevano le
imprese per il collo in una maniera tale che le cose dovevano finire male per
forza... E infatti molte fabbriche, pur seguitando ad alzare i loro prezzi per pa-
gare quelle paghe incessantemente crescenti, non ce la facevano più, e chiede-
vano soldi al governo per tirare avanti, e più d’una chiudeva: aveva chiuso la
vecchia filatura sul Lambro dove un tempo lavorava sua moglie Luisina, e an-
che il nuovo salumificio di Nomana, mentre altre fabbriche - come la Motta a
Milano - erano occupate in permanenza dagli operai che seguitavano a fare
cortei. “Dovevate aver criterio quand’era il momento, invece di fare i cortei
adesso” pensò Pierello. Ma cos’è che stava succedendo infine? Possibile che gli
uomini non dovessero mai, proprio mai, avere pace?
Dopo eseguito un irregolare giro, egli finì col ritrovarsi di nuovo in piazza,
attirato dal bar Piper come da una calamita; qui scoprì che suo figlio e gli altri
giovani contestatori avevano lasciato il locale: certo s’erano trasferiti nella se-
de del giornaletto. L’operaio fu dubbioso se raggiungerla a sua volta, secondo
il primitivo disegno: avrebbe chiamato fuori Taddeo e... E cosa? Ancora non
aveva capito che il discutere non sarebbe servito a niente, proprio a niente? E
allora? Già, allora! Con un rinnovato senso di frustrazione egli finì col voltarsi
e con l’incamminarsi lentamente verso casa: “Domani mattina devo prendere
di buon’ora il treno per Sesto”. Il lavoro in ferriera non era più pesante come
una volta adesso che ogni cosa era automatizzata, anche lui però non era più
giovane.
II
CAPITOLO SETTIMO
Nel pomeriggio del giorno seguente, del tutto inconscio di come quel viag-
gio si sarebbe concluso, Michele partì per la Valtellina. Tenne una riunione
organizzativa a Sondrio, quindi cenò in un piccolo ristorante con i componenti
del locale comitato, che gli esposero le loro preoccupazioni: «La vittoria qui
sarebbe pacifica» affermarono in sostanza costoro «se non fosse per gli aclisti
e i nostri sindacalisti.»
«Si danno da fare per la libertà di divorzio?»
«Non proprio. Però quando capita la difendono, e il popolo - abituato a fi-
darsi di loro - non riesce a capire come mai altri cristiani, e gli stessi vescovi, si
esprimano in modo contrario. Il nostro clero è molto preoccupato, al punto
che cerca di non prendere posizione.» «Ma le Acli da quando si sono accodate
ai marxisti non le possiamo più considerare cristiane. Com’è che questa gente
fedele le prende ancora per riferimento?»
«Ecco, lei dice bene» osservò il presidente del comitato, un solido ragionie-
re quarantenne molto sensato e di modi molto alpini: «Proprio questo è il
punto: che la nostra è gente fedele, dunque non cambia facilmente.»
«Capisco» convenne Michele con una stretta al cuore. Gli tornarono in
mente i grandi anni di Pio XII: come avevano potuto, in seguito, i cattolici
sbandarsi fino a questo punto? A fin di bene, s’intende, per andare il più pos-
sibile incontro agli erranti, per farsi lievito nell’intera massa, su questo non
esistevano dubbi. C’era un’altra scusante: nel suo cammino storico la chiesa
non s’imbatte soltanto nel bene e nel male, ma anche nella stupidità umana:
bastava pensare alle tragiche defezioni da essa subite - anche a livello popola-
re - per la sua pur giusta lotta agli errori della rivoluzione francese. In certi
periodi l’ottusità della gente si fa talmente invincibile che determinate lotte,
anche se giuste, è meglio evitarle, per non estraniarsi da troppi. Michele nel
suo intimo avvertiva che forse, alla fine, le attuali sciocchezze e inadempienze
avrebbero potuto - nelle mani di Dio - non riuscire negative. Beh, tutto quello
che si vuole, però le sciocchezze non cessano di essere sciocchezze. Eccolo qui,
per ora, il risultato degli indirizzi di Maritain e Mounier e degli altri che ave-
vano aperto a comunisti e modernisti: eccolo il bell’esito. Ricordò come da
principio egli si fosse opposto con tutte le forze ai nuovi indirizzi; in seguito -
dopo il Concilio - avendo la sensazione d’andar contro una scelta deliberata
dei pastori, si era (e non lui solo) tirato in disparte. Non aveva pubblicato qua-
si più, seguitando però a scrivere «per dopo il diluvio», come malinconica-
mente usava dire. Tra l’altro aveva messo mano a una grande opera narrativa
che compendiasse l’esperienza della sua generazione «per quelli che, domani,
dovranno pur accingersi a ricostruire.» Intanto anno dopo anno le notizie
provenienti dall’est avevano sempre più confermata la giustezza delle sue ana-
lisi di partenza; adesso si sapeva che le vittime fatte dal comunismo in Unione
Sovietica assommavano a molte decine di milioni: secondo le statistiche di
Curganov-Solgenitsin addirittura a sessantasei milioni, e senza il minimo ‘sal-
to di qualità’ nella vita della gente. Altro che una società nuova, più giusta e
felice... Sessantasei milioni d’esseri umani sacrificati nell’inane tentativo di
cambiare la coscienza e la natura dell’uomo. In Cina le vittime erano ancor più
numerose, anche se finora non esistevano statistiche al riguardo: c’era però
quel terrificante computo di Walker per incarico del senato americano (da
trentaquattro a sessantaquattro milioni di vittime fino al 1970), e - ultima-
mente - c’erano le valutazioni di certi specialisti di demografia parigini, che
segnalavano l’assenza nei compendi statistici cinesi di centocinquanta milioni
d’esseri umani... E in Indocina? La vittoria dei comunisti era soltanto questio-
ne di mesi: ad onta delle attese beote di tutti i plagiati, molti dei quali scende-
vano di continuo nelle strade a manifestare per la ‘libertà’ dei popoli indocine-
si, quante sarebbero state anche là le vittime? Quanti altri milioni e milioni?
Mai, assolutamente mai, nell’intero corso della storia si ora assistito a un fe-
nomeno tanto omicida, e in pari tempo tanto menzognero: perché mentre uc-
cideva un così inconcepibile numero d’esseri umani, il comunismo seguitava a
presentarsi come riscattatore dell’uomo. (Ciò gli era possibile soprattutto per
l’appoggio costante che gli veniva da gran parte della cultura ‘laica’ padrona
dei mass media, la quale, sebbene sia anti totalitaria, ha diversi antenati in
comune col marxismo. Dobbiamo anzi dire che senza lo strenuo impegno di
tanti campioni dell’‘illuminismo’ democratico per coprire - naturalmente ‘a fin
di bene’ - prima le stragi di Lenin e Stalin, poi quelle di Mao, infine ciò che
stava ora realmente accadendo in Indocina, ai comunisti non sarebbe stato
possibile compiere ecatombi così immani, né ridurre un così sterminato nu-
mero d’esseri umani in schiavitù.)
Quanto ai pastori, per fortuna, da un certo tempo in qua non riuscivano più
a nascondere la propria angoscia per l’andamento delle cose. Appena se n’era
accorto Michele era tornato in campo con saggi e articoli sui pochi periodici
che ancora li accettavano: “Chissà però se siamo in tempo a recuperare la si-
tuazione?” si chiedeva a volte. Se lo chiese anche quella sera a Sondrio.
Dopo la cena egli si trasferì con alcuni membri del comitato nella cittadina
di Tirano, dove tenne una conferenza nel cinema Italia, alla presenza di appe-
na una cinquantina di persone. Tra queste c’era un esiguo gruppo di divorzisti,
non più di cinque o sei, intorno a un giovane sindacalista cristiano, venuto -
come dichiarò - per esporre in contradditorio con l’oratore le tesi del ‘mondo
del lavoro’. Ovviamente non poteva disporre di tesi divorziste cristiane, ed in-
fatti espose pari pari quelle marxiste. Michele le conosceva al punto che
avrebbe potuto elencarle al suo contraddittore nello stesso ordine in cui gli
sarebbero state esposte: l’aveva comunque lasciato dire, e dopo avergli rispo-
sto punto per punto come a un normale contraddittore marxista, aveva fatto
notare il carattere appunto marxista di quelle tesi, e messo con fermezza
l’altro di fronte all’incompatibilità tra cristianesimo e comunismo marxista. Il
giovane s’era sforzato in vari modi di negare tale incompatibilità: fu subito
evidente a Michele la sua pressoché perfetta ignoranza del comunismo, teoria
e prassi. Ciò finì con l’immalinconire lo scrittore: non era forse proprio questo
il compito ch’egli s’era assunto fin da principio, di far conoscere almeno
nell’ambito dei credenti la realtà del fenomeno comunista? Che insuccesso la
sua vita! Il maggior quotidiano cattolico - quello milanese - qualche anno pri-
ma lo aveva addirittura emarginato (e con lui aveva emarginato Apollonio ed
altri lottatori per la verità). Nello stesso tempo il giornale aveva chiamato a
collaborare dei comunisti tesserati... Per forza molta gioventù cristiana era
oggi così ignorante, qui, come a Nomana e dappertutto, e così incredibilmente
plagiata dall’avversario. Il quale da parte sua, dopo avere un po’ alla volta por-
tata l’Italia all’attuale fase preinsurrezionale, da un certo tempo in qua - con-
statati i fallimenti all’est, e che la via al potere attraverso il plagio, preconizza-
ta da Gramsci, era invece molto pagante - non intendeva più fare la rivoluzio-
ne violenta. E sì che adesso gli sarebbe bastato poco per rovesciare
l’organizzazione statale ormai a pezzi... Se ai cristiani non fosse riuscito con
una chiara vittoria in questo referendum di ribaltare la situazione, per quanto
tempo ancora si sarebbe prolungata l’attuale fase di disfacimento nella parali-
si? Una fase in cui - guarda - non pochi degli attivisti per il comunismo erano
appunto giovani cristiani come questo, che nella sua invincibile ignoranza si
dava da fare contro il cristianesimo...
Dopo la conferenza gli organizzatori chiesero allo scrittore di restare ancora
un poco con loro, desiderando essere meglio informati sull’andamento della
battaglia elettorale nel resto della Lombardia, e anche semplicemente per of-
frirgli da bere, all’alpina. Pur schermendosi («S’è fatto tardi, e domani mattina
ho un incontro a Milano») Michele aveva finito con l’accompagnarli in un bar,
perché questa gente gli piaceva, in quanto tutta d’un pezzo, e senza isterismi
verbali, e fedele sotto ogni aspetto: gli richiamava il suo vecchio amico padre
Turla (che adesso era parroco in un paese» della val Camonica, la grande valle
parallela a questa, dove aveva finalmente costruito il suo santuario a ricordo
dei caduti: “Padre Turla non lo vedo da molto tempo, però la colpa non è sol-
tanto mia, è anche sua, che Dio lo perdoni, quell’‘impunito’.”) Oltre a padre
Turla questa gente gli richiamava gli altri compagni di prigionia dell’atroce
box per cavalli di Crinovaia: e non importava che l’inflessione piemontese,
della val Maira, della val Varaita, di quelli, fosse diversa dall’inflessione lom-
barda di questi.
CAPITOLO OTTAVO
I lunghi rettilinei della Valtellina erano ormai rimasti indietro; ecco a destra
la diramazione verso la valle Spluga: lassù tra quelle montagne c’era Madesi-
mo, dove Michele era stato qualche volta a sciare da ragazzo. Ricordò ora che
nella notte tremenda in cui ad Arbusov era caduto prigioniero dei russi, aveva
vaneggiato d’essere appunto a Madesimo: gli sembrava di vagare per le sue
strade gelate in cerca d’Ambrogio... Sulla scoscesa catena che gli stava a sini-
stra era invece annidato Tartano, il paese degli alpini di Luca, che compone-
vano cioè la squadra comandata da Luca ad Arnautovo e a Nicolaievca. Chissà
- si chiese lo scrittore - in che proporzione la gente d’un paese così ‘alpino’
come Tartano, avrebbe votato per l’indissolubilità del matrimonio? (Noi sia-
mo ora in grado di rispondere: nella proporzione dell’ottantanove per cento.)
Le prime avvisaglie del lago di Como: rigagnoli geometrici nei prati di fondo
valle e qualche specchio d’acqua quadrato, tenebroso nell’erba; la strada si
strinse a sinistra contro il fianco della montagna, e cominciò a torcersi e in-
curvarsi, seguendo e a tratti anche intagliando la parete rocciosa; finché rag-
giunse la sponda del lago, se ne staccò per poco, la raggiunse di nuovo e prese
a seguirla intagliata sempre più spesso nel piede dei promontori che scende-
vano dirupati verso l’acqua.
Lo scrittore ridusse ulteriormente la velocità, non tanto tuttavia che a qual-
che curva le ruote posteriori non guaissero strisciando rudemente sull’asfalto.
Nel buio la superficie solenne del lago era pressoché invisibile, delineata sol-
tanto lungo l’opposta sponda dalle file di luci dei paesi che vi si specchiavano.
Michele però non aveva più occhi per l’ambiente: si era a un tratto ricordato di
non aver ancora recitate le preghiere di quel giorno: “Altro che criticare quelli
che boicottano il rosario: pensa tu a pregare piuttosto!” Ma era troppo stanco
per farlo debitamente; risolse di recitare un semplice ‘angele Dei’: “Angeli di
Dio, che siete i nostri custodi” invocò mentalmente, rivolgendosi com’era sua
abitudine non solo al proprio ma anche all’angelo della moglie: “custodite noi
che vi fummo affidati dalla pietà celeste...” Che incantevole preghiera era que-
sta! Gli uomini e gli angeli che si danno una mano e lottano insieme... “Voi
due angeli custodi” insisté Michele “non vegliate solo su di me che sono in
viaggio, ma anche su di lei, su Alma, che a quest’ora starà dormendo indifesa.”
Terminata la preghiera tornò a vagabondare col pensiero; la macchina se-
guitava a correre lungo la strada del lago pressoché deserta, a momenti lo
scrittore scuoteva repentinamente la testa e spalancava gli occhi per non far-
seli chiudere dal sonno.
Avvertì a un tratto un piccolo sussulto, forse al motore, forse alle ruote:
“Ehi” farfugliò, “cosa succede?” Stava attraversando un paese, Dervio: si augu-
rò che a causare quel sussulto fosse stata un’irregolarità del fondo stradale:
“Perché se no, a quest’ora... Sarebbe davvero un bel guaio rimanere per strada
a quest’ora”.
All’uscita dal paese il motore sussultò di nuovo, poi si spense; senza frenare
Michele esplorò con gli occhi dinanzi a sé: c’era alquanto più avanti verso de-
stra, cioè dalla parte del lago, uno spiazzo con un distributore di benzina e un
edificio ancora illuminato che pareva un negozio (si trattava in effetti di un
bar): Michele guidò la macchina, che procedeva ormai solo per inerzia, fin so-
pra lo spiazzo, e la fermò davanti al bar. “Proprio non mi ci voleva” si disse e
ripeté: “Questa non ci voleva”.
CAPITOLO NONO
Agendo alla chiavetta si provò più e più volte, se pure con scarsa fiducia, a
riavviare il motore. Infine smise i tentativi e considerò la propria situazione:
era quasi l’una e mezza, certo tra poco anche questo bar avrebbe chiuso; dove-
va dunque telefonare subito ad Alma per avvertirla che non sarebbe rincasato,
quindi cercarsi un posto per dormire. “Fortuna che in questi paesi gli alber-
ghetti e le pensioni non mancano”. Alla riparazione dell’auto avrebbe provve-
duto non appena si fossero aperte le officine l’indomani mattina: “Dovrò dun-
que essere in piedi e pronto un po’ prima delle otto... Perché alle dieci c’è quel-
la riunione a Milano alla quale non posso mancare”.
Aprì lo sportello e uscì dalla macchina; saliti alcuni gradini entrò nel bar,
una costruzione a un piano quasi nuova, arredata con mobili metallici leggeri.
V’indugiavano pochi avventori ritardatari che lo guardarono senza parlare; si
rivolse a una ragazzotta insonnolita la quale, seduta dietro il banco, aveva al
suo entrare sollevata la testa come per chiedergli cosa desiderasse: «Ha getto-
ni, per favore?»
Quella fece segno di sì, alzandosi in piedi e trasferendosi alla cassa.
«Prego, me ne dia dieci.» Posò una banconota da cinquecento lire sul piat-
tino della cassa.
La ragazza aprì un tiretto e gli contò dieci gettoni: «Chiudiamo all’una e
mezza, tra cinque minuti» lo avvertì.
«D’accordo» rispose lui. «Sa dirmi se potrò trovare da dormire qui in pae-
se?»
La ragazza gli fece segno di sì, accennando uno sbadiglio.
«Ne parliamo poi» disse Michele, ed entrò nella cabina telefonica traspa-
rente che stava in un angolo del locale, chiudendosi la porta alla spalle.
Alma gli rispose dopo appena un paio di trilli del telefono. «Ehi, cosa suc-
cede? Sei ancora sveglia?» fece lui, e in tono volutamente scherzoso, perché
non si allarmasse: «Brava, proprio così devi fare: devi sempre vegliare inson-
ne quando io sono fuori a zonzo.»
«A... a dove?»
«A zonzo» ripeté lui divertito; «Come ‘le vele rogge che vagano sul mare in
cerca di fortuna’» (si trattava, nientemeno, d’una frase udita con Alma dieci o
quindici anni prima da un oratore romagnolo durante l’inaugurazione d’un
monumento in una cittadina balneare - egli aveva ogni tanto di simili sortite, e
la moglie lo sapeva).
Stavolta però non si raccapezzava: «Eh? Cosa? Hai detto il mare?» chiese.
«Cioè il lago» corresse lui, e poiché quella ancora non sembrava capire:
«Insomma posso sapere perché non sei andata a dormire come ti predico
sempre?»
«Ma io stavo dormendo, cosa credi?» rispose lei. «Ho il telefono qui sul
comodino, come siamo d’accordo.»
«Ah! E hai risposto quasi al primo suono di campanello? Da quando in qua
hai i riflessi così pronti?» (stava per aggiungere «gattino di marmo?», ma si
trattenne, nel sospetto che la sua voce - perdurando il silenzio degli avventori
- si udisse fuori della cabina.)
«Insomma cosa t’è successo, dove sei?» gli chiese la moglie.
«Sono a Dervio, ancora quasi al principio del lago dalla parte della Valtelli-
na. La macchina non vuole più andare, e siccome ormai è l’una e mezza...»
«L’una e mezza?» esclamò Almina: «Oh, mamma mia. Non sarà vero?
Fammi controllare.» La sua voce s’era fatta di colpo più vivace.
Michele se l’immaginò che accendeva la luce e guardava la sveglietta posta
sul piano del comodino accanto al telefono. Sorrise scuotendo con tenerezza la
testa: Alma, che per tanti aspetti seguitava ad ammirare incondizionatamente
il marito, non si fidava di lui in queste piccole cose, perché lo sapeva distratto.
«Neanche per un numero così piccolo, uno e mezzo, mi fai credito?» prote-
stò lo scrittore.
«Sì, è davvero l’una e mezza, oh poveri noi» udì la voce della moglie: «E
adesso come si fa?»
«Si fa così» disse Michele, passando per gioco al tono che si usa coi bambi-
ni: «Qui in questo paese ci sono tanti posti per dormire, e allora lo sai cosa
faccio? lo sai cosa faccio? Chiudo per bene la macchina e me ne vado a dormi-
re. Poi domattina alle otto faccio riparare il guasto e riparto subito, perché alle
dieci ho quell’incontro a Milano. Ti ho telefonato soltanto perché tu non abbia
a preoccuparti.»
«Scherzi?» esclamò animandosi Almina: «A Milano hai l’incontro con quei
giornalisti, i direttori delle riviste cattoliche, no? C’è anche Cesare Cavalieri,
no? Quello è un incontro importante.»
«Va bene. E allora?»
«E tu vorresti andarci con la barba lunga, dato che lì non hai il rasoio? E
senza nemmeno cambiarti la camicia?»
«D’accordo. Vuol dire che prima passerò in fretta da casa a farmi la barba e
a cambiare la camicia. Va bene?»
«No che non va bene» incalzò lei, che ormai aveva preso l’abbrivo: «è anche
una questione di tempi: per andare da lì a Milano ti ci vogliono almeno due
ore, no? Ecco. E per riparare il guasto quanto credi che ti ci vorrà? Un’altra
ora? O magari di più?» A questo punto deviò dal filo principale: «Almeno que-
sta spesa te la rifonderanno quelli del comitato?»
«Dai Almina, adesso non metterti a fare la tirchia.»
«Comunque le officine non aprono prima delle otto, e forse sul lago, dove
tutti se la prendono comoda, anche dopo, e tu come farai, per le dieci devi es-
sere a Milano?»
«Beh» disse Michele «se la riparazione va per le lunghe, mi faccio portare
in macchina a Lecco e lì prendo il primo treno per Milano. Cosa vuoi che fac-
cia? Se non altro arriverò in tempo per salutarli, quei direttori, per spiegargli il
mio ritardo.»
«No. Non capisci che quello è un incontro importante per te? Che ti potrà
servire anche dopo, passato il referendum?»
«Però! Come sei pratica» rise lui.
«Certo che sono pratica» disse Almina: «una donna che ha il marito scritto-
re deve essere pratica per forza. Ci mancherebbe altro.»
«Bene, cercherò di fare del mio meglio» promise Michele. «Tu comunque
sei avvertita. Adesso ciao, qui devono chiudere, ti saluto.»
«Un momento» fece lei: «dove hai detto che ti trovi?»
«A Dervio.»
«Proprio dentro il paese? O dove precisamente?»
«Poco fuori paese, dalla parte verso Lecco. C’è uno spiazzo con un distribu-
tore della Shell: ho fermato la macchina sullo spiazzo; quindi non sulla strada,
né in un altro posto pericoloso. Ti ho resa bene la situazione? Sta tranquilla
dunque.»
«Ecco» disse la statuina di marmo: «l’ho scritto: ‘Dervio - Shell’, non è che
questi nomi di paesi e di benzine, figurati, io me li ricordi facilmente. Oh!
Adesso tu mi aspetti lì buono buono che arrivo a prenderti: il tempo di vestir-
mi e di venire lì, diciamo poco più d’un’ora.»
«No!» esclamò impaurito Michele: «Cosa ti salta in testa? Sei matta? Viag-
giare da sola di notte? E poi cosa vorresti fare, rimorchiarmi? La tua Cinque-
cento non ce la farebbe. No, senti...»
«Non discutere, ti prego.»
«Ma è troppo pericoloso. Se ti capitasse un guasto? Oppure a quest’ora po-
tresti incontrare qualche malintenzionato con la macchina più potente della
tua, e...»
«Senti, prenderò la Centoventicinque del papà, è il massimo che posso con-
cederti. Ti va bene?»
«Neanche per sogno. Alma, cerca di ragionare, seguimi per un momento...»
«Per favore Michele, non perdiamo altro tempo. Ah, la tua macchina si ca-
pisce che non la rimorchiamo: io non mi sento versata in questo genere di co-
se; vedi tu cosa puoi fare, non so, prendi il numero di telefono di qualche offi-
cina lì intorno per esempio; insomma vedi tu che sei un uomo importante.
Ciao, a fra poco.»
«No Alma, non voglio, è pericoloso.» Alzò la voce: «Io non voglio. Non vo-
glio, hai capito?»
«Fra poco sarò lì. Intanto pensa a questo: faremo la strada di ritorno insie-
me come due sposini. E un’altra cosa: è inutile che tenti di richiamare per
farmi cambiare idea, perché adesso stacco il telefono.» Fece una breve pausa.
«Ciao amore mio, amore mio dolcissimo: lo sai che riuscirti d’aiuto nella tua
lotta contro mezzo mondo mi dà gioia» disse con voce del tutto mutata, affet-
tuosa: «Se non t’aiuto nemmeno io, chi allora?» e clich staccò l’apparecchio.
Il marito tentennò la testa, intimamente toccato dalla grande tenerezza che
c’era in quelle ultime parole. Quindi sospirò e premette il pulsante di recupero
dei gettoni non utilizzati: uno solo precipitò tintinnando nell’apposita nicchia.
CAPITOLO DECIMO
Alma si vestì in fretta, uscì dalla stanza nel corridoio, indirizzò all’uscio di
una stanza vicina un fuggevole “Ciao papà, ciao mamma”, ignorando che quel-
lo era il suo ultimo saluto sulla terra ai genitori, poi scese le scale, attenta a
non fare rumore. Le ci volle un certo tempo per aprire e richiudere la porta di
casa, quindi per tirar fuori la Fiat 125 dalla rimessa (ricavata, come sappiamo,
da una costruzione ch’era stata una legnaia), infine per aprire il cancello del
giardino, trasferire la macchina di là, scenderne e richiudere il cancello.
C’era nell’aria il rombo opprimente e incessante dei forni della vetreria che
guastava ormai senza scampo le notti di Nomana (col decadimento
dell’autorità chiunque poteva ora, nel proprio interesse, arrecare al paese
qualsiasi danno impunemente); la donna, tuttora presa dalla dolcezza delle
sue ultime parole al marito, ricordò il canto degli usignoli d’una volta: “Povere
bestiole” pensò, “siamo di maggio, questo era il loro mese migliore”.
La macchina attraversò le vie del borgo vuote di persone e di veicoli e fin
eccessivamente rischiarate dai lampioni al neon dell’illuminazione pubblica.
“Chissà se non sarà anche a causa di questa luce eccessiva che gli usignoli se
ne sono andati?” Alma ricordò quel lontano giorno prima di sposarsi in cui,
per riconoscenza agli americani che aiutavano economicamente l’Italia, lei
avrebbe voluto regalare loro gli usignoli; com’era piaciuta a Michele quella sua
piccola pensata, quanti significati ci aveva trovato! Il suo Michele! Che forza
d’animo c’era in lui - quale lei, con tutto il suo entusiasmo, al principio non
aveva neppure immaginato - ma insieme anche, per certi aspetti, che bambi-
no! Esistevano campi della vita pratica in cui non sapeva proprio organizzarsi:
cose che a chiunque, anche alle persone più mediocri, non sarebbero sfuggite
(come l’utilità, per lui che scriveva, di fare domani buona impressione su quei
direttori di rivista, specialmente su Cesare Cavalieri) non le vedeva affatto, o
non riusciva a prenderle in considerazione, a farle rientrare nelle sue prospet-
tive. Fortuna che c’era lei a... cercar di provvedere. Con la speranza che poi
domani, dopo questa faticata, anziché tenerseli buoni, Michele non si mettesse
magari a questionare anche con quei direttori, i più disponibili e affini a lui fra
tutti, non li sgridasse per qualche cosa. Gli pareva di vederlo, era proprio il
tipo, sì; Alma batté per dispetto un piccolo colpo con ambe le palme sul volan-
te. Poi tentennò la testa e sorrise: si sarebbe magari messo a questionare con
quel fiocchetto a mezzo il collo del maglione... Che ridere! Gli aveva fatto, set-
timane addietro, un maglione nuovo, un pullover, e per gioco ci aveva, del tut-
to arbitrariamente, applicato a un lato del collo un fiocchetto. E Michele aveva
indossato quel pullover con naturalezza, senza rifiatare. Dio mio, che sprov-
veduto!
Una volta uscita di paese, mentre percorreva la salita verso Visate (quella
stessa che Ambrogio e Colomba avevano percorsa più volte in bicicletta, e Pi-
no e Sèp avevano disceso il giorno del loro rimpatrio dalla Svizzera), accelerò
decisa. Laggiù nella conca a sinistra, sullo sfondo appena visibile delle monta-
gne, c’era la cascina Nomanella: la cercò alla luce della luna, ma non le riuscì
d’individuarla. Chissà se la vecchia mamm Lusìa, rimasta vedova da anni,
s’era già trasferita nella cascina per passarvi l’estate, o se era ancora in paese
presso la figlia sposata? A pregare, in un caso o nell’altro, per tutti i suoi mor-
ti, povera Lucia. Alma accese con un sospiro le luci del cruscotto e controllò la
benzina: ce n’era più di quanta gliene occorresse.
I paesi cominciarono a restare indietro. La donna non provava alcuna paura
malgrado l’allarme del marito: “Lui quando si tratta di me fa sempre così, non
riesce ad essere equilibrato, diventa una sensitiva: uno che ne ha viste di cose
tremende come lui!” Sorrise: Michele l’amava immensamente, ecco perché
sragionava quando si trattava di lei. Questa, che dopo oltre vent’anni di ma-
trimonio il marito l’amasse a quel modo, era nella sua vita la cosa più impor-
tante. E a pensarci bene la più incredibile... Michele si conservava innamorato
di lei proprio come un ragazzo; non si stancava mai di corteggiarla, di lodarla
con quelle sue parole semplici e poetiche. «Non pensi che un giorno o l’altro
mi vedrai vecchia?» gli diceva a volte lei, impaurendosi un poco: «Anch’io per
forza invecchierò, e non sarò più la stessa. Cosa farai allora? Devi prepararti.»
Invece di risponderle: «Invecchierò a mia volta» o qualcosa di simile, il marito
le diceva: «No cara, affatto, per niente: tu non puoi invecchiare. Sei una sta-
tuina di marmo, dunque...» L’amava anche fisicamente con una frequenza che
a momenti la sorprendeva. «Ma fanno così anche gli altri sposati?» gli chiede-
va lei: «con questa frequenza?» «Beh, gli scrittori in certe cose sono piuttosto
dotati» scherzava lui. «Però senti, perché farci dei problemi? Il Signore ci ha
dato questo: gioiamone.» Certi giorni Alma si domandava se tutto ciò non fos-
se perfino eccessivo... Beh, basta. Tra poco l’avrebbe rivisto: si sarebbe sorbita
il suo inevitabile predicozzo, poi gli avrebbe ceduta la guida della macchina, e
nel viaggio di ritorno, rannicchiata accanto a lui (già ora ne provava il deside-
rio), avrebbe appoggiata la testa sulla sua spalla... “Spicciamoci dunque” si
sollecitò “che oltre tutto domani mattina devo essere a scuola alle otto. Però,
questo referendum è davvero piuttosto scomodo: l’avessero almeno fatto in
tempo di vacanza!...”
Sebbene si snodasse tutta tra le colline, la strada per Lecco - grazie a parec-
chi raddrizzamenti operati alcuni anni prima, e a lunghi tratti nuovi - consen-
tiva una velocità sostenuta. Giunta al piede delle montagne, cioè qualche chi-
lometro prima di Lecco - essa confluiva nella ‘superstrada’ a due canali e più
corsie proveniente da Milano. Alma entrò nella grande arteria con prudenza;
notò che qui c’era ancora un certo traffico, cosa che le riuscì gradita e la fece
insieme più attenta nella guida. Ecco il ponte sull’Adda e dall’altra parte la
città di Lecco col sobborgo di Pescarenico, davanti al quale l’Adda formava
uscendo dal lago lo specchio d’acqua della fuga di Lucia. Nel romanzo di don
Lisander quel tratto si allargava ‘liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se
non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si spec-
chiava da mezzo il cielo’. “Giusto come adesso” constatò la donna, che cono-
sceva la bella pagina a memoria (la faceva immancabilmente studiare a ogni
successiva generazione delle sue alunne): rallentò incuriosita, e mentre inve-
stigava con lo sguardo oltre la spalletta del ponte, ne ripeté mentalmente
qualche riga: ‘Addio monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo’ “Guardali
infatti, eccoli lì” ‘cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella
sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari... addio! Quan-
to è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!...’ A queste parole
Alma avvertì un improvviso groppo alla gola, come se quell’accorato addio
valesse in qualche modo anche per lei. ‘Addio casa natia...’ tentò di prosegui-
re, ma dovette interrompersi per l’emozione che s’andava facendo insostenibi-
le. «Cosa mi prende?» farfugliò turbata.
Oltre il ponte la strada aggirava Lecco tenendosi in riva al lago per poi,
sempre senza staccarsi dal lago, indirizzarsi verso nord, intagliata nel piede
roccioso della montagna. Qui tornava a essere doppia come prima del ponte,
ma non era rifinita, e in alcuni tratti uno solo dei due canali funzionava: in
apparenza a causa di piccoli smottamenti di pietre dalla montagna, ma forse,
chissà, per altre ragioni meno comprensibili. Era stata costruita negli ultimi
due o tre anni, quando le cose in Italia avevano cominciato a non funzionare,
ed era essa stessa una dimostrazione di questo fatto.
Dopo una decina di chilometri la via doppia cessava del tutto, e ricomincia-
va quella vecchia, ottocentesca, a curve e strettoie, che attraversava di conti-
nuo paesetti e gruppi di ville, e campicelli fortemente inclinati verso il lago, e
gracili uliveti; Alma controllò l’orologio del cruscotto: erano “abbondantemen-
te” passate le due. “Sarà bene che mi spicci” si disse, e aumentò alquanto la
velocità senza tuttavia mettersi a correre, certamente senza che nelle curve le
ruote della Centoventicinque stridessero sull’asfalto come quelle della mac-
china di suo marito un’ora prima. Ripresasi dall’inspiegabile emozione (“Che
scherzi fa la stanchezza!”) era di nuovo calma, e per niente preoccupata dalla
solitudine che tuttavia qui - lontana ormai dai luoghi conosciuti - non manca-
va di avvertire.
CAPITOLO UNDICESIMO
Gli unici a essere preoccupati per lei in quel momento erano i due angeli, il
suo e quello di Michele, mentre Michele adesso dormiva pacificamente dentro
l’Alfa 1300. Prima che il bar chiudesse egli aveva disposta ogni cosa per la ri-
parazione della vettura l’indomani, quindi s’era seduto in attesa al posto di
guida. Aveva ripetuta la preghiera ai due angeli custodi senza rendersi conto
di quanto in quel momento fosse tempestiva e importante, poi si era detto:
“Tra poco dovrò tenere d’occhio la strada perché Alma non passi senza avvi-
starmi”, e aveva fatta anche qualche prova, scrutando con attenzione una do-
po l’altra alcune macchine provenienti dalla parte di Lecco. Dopo di che la
molta stanchezza, ancor più psichica che fisica, e il non poco sonno arretrato,
gli avevano fatto appoggiare gli avambracci sul volante e la testa sugli avam-
bracci. “Attento però: non devo addormentarmi” si era detto: “E con le brac-
cia... devo cercare di... non premere il clacson... le braccia... il clacson... le...”
Finché un po’ alla volta s’era assopito.
Così gli unici ad essere in guardia mentre s’avvicinava il momento della
morte di Alma erano i due angeli custodi: quello gagliardo di Michele e il suo,
l’angelo cortese che Dio le aveva messo accanto prima che lei nascesse,
quand’era ancora nel grembo di sua madre, a custodirla fin da allora. Furono i
due angeli a ispirare alla donna una preghiera che essa - quasi intuendo
l’origine della sollecitazione - rivolse appunto a loro: “Angeli di Dio che siete i
nostri custodi...” Quante volte aveva pregato così in macchina e altrove, in-
sieme con Michele! Non ultimamente però... “Anche per tutta la giornata di
oggi” rifletté Alma “se escludo quei pochi minuti stamattina mentre andavo a
scuola, non ho pregato. Ormai mi succede abbastanza spesso, sì, a Dio io dedi-
co troppo poco tempo. E invece bisognerebbe essere sempre pronti, come ci
ripeteva suor Anna in collegio. Ce lo diceva anche qui a Varenna, dove per po-
co non m’ha morsicata quella vipera quand’ero bambina: ‘Dovete essere sem-
pre pronte come se ogni giorno della vostra vita fosse l’ultimo’ Povera suor
Anna... Che ridere quella volta che, giusto qui a Varenna (ormai non dovrebbe
distare più molto) la Camusso le ha detto: ‘Ma non le sembra d’essere un tan-
tino mena-gramo, suora?”’ Alma sorrise al ricordo: “E invece la suora aveva
ragione, proprio a quel modo dovremmo vivere. Beh, vediamo cos’ho fatto
oggi di cui mi devo pentire”. S’esaminò rapidamente: quell’insofferenza acuta,
a scuola, nei riguardi dell’Ivana, per il suo comportamento da bottegaia preco-
ce... A volte lei si lasciava prendere da simili insofferenze: di fronte alla volga-
rità tutto considerato innocua dell’Ivana, come di fronte alla presunzione ra-
dical-chic di altre allieve, specie della Bassetti, che le riusciva ugualmente in-
sopportabile. “E invece no, non devo: sono tenuta ad avere pazienza con tut-
te”. Ricordò una frase importante, citata più volte da Michele: dobbiamo stare
ben attenti che la nostra lotta contro il male, non si trasformi in persecuzione
per qualcuno. Sospirò. Quindi riprese a esaminarsi dal mattino giù giù fino
alla sera, individuando più d’un’azione negativa della quale si pentì. “Anche
ieri sera, quando la televisione ha citato le frasi di Michele e il suo nome, da
che sciocco senso di vanagloria mi son lasciata prendere... Michele dice che la
situazione di emarginato cui lo costringe la cultura laicista che in Italia fa or-
mai il bello e il brutto tempo, ci evita se non altro le tentazioni della vanità. E
invece guarda: m’è bastato un niente - una citazione d’ufficio - per peccare di
vanagloria come un’oca! Sono spiritualmente debole” concluse, “e davvero
lontana dall’ideale che le suore c’indicavano, della donna forte cristiana. E,
Dio mio, solo a pensarci, che abisso rispetto alla perfezione suggerita dal Van-
gelo ‘Siate perfetti come è perfetto il padre vostro che è nei cieli’ ”.
Si rese conto (una voce glielo diceva dentro) che doveva pentirsi sul serio,
cioè in modo impegnativo, non superficiale. “Certo che mi pento” si propose
“e sul serio”: d’ora in poi avrebbe cercato di non ricadere più in quelle colpe.
Ma non c’era un poi per lei; non qui sulla terra vogliamo dire, in cui avrebbe
potuto ancora commettere colpe (ma anche dare tanta gioia).
Davanti alla Fiat 125 viaggiava da qualche minuto una macchina piuttosto
sgangherata che non accennava a darle strada, e ogni tanto la costringeva a
rallentare. Alma rifuggiva per abitudine dal chiedere il passo col clacson o coi
fari; dopo un paio d’inutili tentativi di sorpasso senza segnalazioni tuttavia si
era provata a lampeggiare; il guidatore dell’altra macchina aveva risposto alla
sua richiesta in modo strano, confuso: si era con lentezza spostato verso de-
stra e v’era rimasto per pochi istanti, riportandosi poi altrettanto lentamente
nel mezzo della strada proprio mentre Alma si accingeva a iniziare il sorpasso:
era - a quanto si poteva vedere - molto giovane. La donna cominciò a innervo-
sirsi: si propose d’attendere una dirittura abbastanza lunga, e poi di chiedere
strada con più decisione; percorse in tale attesa uno o due chilometri; ecco
finalmente un tratto di strada che sembrava prestarsi al sorpasso: correva di-
ritto, tutto intagliato nella roccia, ad un’altezza di pochi metri sulla superficie
del lago. Alma lampeggiò ripetutamente e diede anche un piccolo colpo di
clacson; ancora una volta la macchina sgangherata accostò pigramente a de-
stra: sembrava farlo con non minor lentezza e indecisione della volta prece-
dente. Che storia era questa? Cosa gli prendeva a quello? Alma non si rendeva
conto che il guidatore era drogato: in tale stato - pur non essendo contrario a
darle strada - il ragazzo reagiva agli stimoli esterni come operando da lontano
e quasi per interposta persona e, più che con l’azione, con l’intenzione. Co-
munque adesso c’era uno spazio sufficiente al passaggio: dopo aver lampeg-
giato di nuovo, Alma v’immise la Centoventicinque accelerando con energia.
Aveva quasi effettuato il sorpasso quando l’altra macchina urtò blandamente
in coda la sua, appena in un angolo. Appena in un angolo, ma la Centoventi-
cinque sbandò con violenza prima verso destra, poi verso sinistra, batté con la
ruota contro il marciapiede sinistro, vi balzò sopra impetuosa: Alma tentava
con tutte le forze di dominare il volante, ma invano; fu una questione di atti-
mi: la donna udì lo stridore del metallo contro i ritti di pietra del parapetto e
urtò in pari tempo con terribile violenza il capo. Dopo di che non s’accorse più
di niente; non si accorse che la macchina, sfondato il parapetto, precipitava
nell’acqua nera. Ebbe solo una lontana, lontanissima percezione di freddo, e
fu la sua ultima percezione quaggiù.
Sulla sua anima, come due falchi, piombarono ad ali chiuse i due angeli: il
suo e quello di Michele, pronti all’ultima difesa contro eventuali insidie
all’ingresso nel mondo degli spiriti. Ma non ci furono insidie.
Mentre, rotolando lentamente sott’acqua, la macchina col corpo ormai sen-
za vita d’Almina precipitava giù giù verso il fondo del lago, la sua anima e i
due angeli affiorarono insieme nell’aldilà, nel mondo per noi inimmaginabile
perché fatto unicamente di spirito. Sorridendole senza sorridere, e parlandole
senza parlare, gli angeli - splendide creature a mezzo tra raggi di luce e soldati
- diedero il benvenuto ad Alma: «Sei qui, gattino di marmo?» la accolse all'in-
circa, con molta familiarità, il suo (e chi mai aveva avuto con quella creatura
più costante familiarità di lui, l’angelo invisibile, messole accanto da Dio ancor
prima che nascesse?) Scorgendo negli occhi non più materiali di lei la doman-
da: «E Michele? Cosa ne sarà di Michele senza di me?» l’angelo accentuò il
sorriso in modo incoraggiante.
«Verrà anche il suo momento» le rispose con piglio più soldatesco l’altro
angelo: «questione solo di poche decine d’anni, per chi sta qui lo stesso che
niente.»
In un ultimo residuo di comportamento terreno Alma sospirò.
Intanto intorno a lei cominciavano a configurarsi altre presenze spirituali:
si accorse anzi che una di queste le stava venendo incontro. Era lo spirito
d’una donna d’incomparabile bellezza: Almina spalancò i suoi occhi nuovi:
«Marietta!» esclamò: «Oh, Marietta, sei tu?»
Era proprio Marietta ‘delle spole’, che tante e tante volte aveva accompa-
gnata Alma infante in chiesa o a passeggio lungo le strade allora acciottolate di
Nomana, tenendola per mano. Non aveva più i capelli repulsivi né la faccia
gialla né le gambe storte, aveva invece ancora - se pure non più fatti di materia
- i begli occhi neri d’agnello che sulla terra sembravano così fuori posto nel
suo povero viso: ma non erano fuori posto qui, dopo che tutto il resto della sua
figura - pur senza propriamente cambiare - si era per così dire adeguato ad
essi.
«Benvenuta Almina» la salutò con gioia Marietta: «Benvenuta.»
«Nessuno, a pensarci bene, era più degno di te del paradiso» mormorò
estatica Alma.
«Oh, se è per questo siamo qui in tanti, in tanti» disse Marietta con voce
angelica (ma che ricordava ancora in qualche modo la sua voce sempre un po’
spaventata d’una volta) «perché non uno di quelli per cui Cristo è morto si
perde, Alma cara, non uno; se non vuole. Vedrai tuo cugino Manno, e Giusti-
na, e Stefano, col loro padre Ferrante, vedrai il Foresto, e suor Candida, e Ro-
mualdo, e anche il Praga d’Incastigo che - grazie alle preghiere instancabili di
don Mario - il demonio non è riuscito a tenere soggiogato sino alla fine.»
A questo punto l’angelo di Michele fece un gesto circolare di saluto: «Beh,
io devo tornar giù» disse con un mezzo sospiro, «il mio posto è ancora là», e
schiuse le ali per lanciarsi nel tragico mondo degli uomini.
FINE
INDICE
— I titoli dei tre volumi sono tratti dall’Apocalisse ai capi 6.4, 6.8, e 22.2 —