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Eugenio Corti

IL CAVALLO ROSSO

EDIZIONI ARES
ISBN 978-88-8155-235-1

Edizioni Ares
20131 Milano - Via Straduvari, 7

Il nostro indirizzo internet è:


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e-mail: info@ares.mi.it

VENTIDUESIMA EDIZIONE: dicembre 2007


PRIMO VOLUME

IL CAVALLO ROSSO
PARTE PRIMA

CAPITOLO PRIMO

Fine di maggio 1940; avanzando lenti uno a fianco dell’altro Ferrante e suo
figlio Stefano falciavano il prato. Alle loro spalle il cavallino sauro attendeva
attaccato al carro; aveva consumata per intero la bracciata d’erba messagli
davanti da Stefano all’inizio del lavoro: con avidità l’aveva mangiata, sollevan-
do e squassando di continuo la testa per respingere il collare voluminoso che
gli scivolava lungo il collo. Adesso, senza muoversi d’un passo, protendeva la
bocca per carpire le foglie del gelso nella cui ombra era stato lasciato: insieme
con le foglie strappava anche la scorza dei rami più teneri che apparivano -
dove le sue labbra erano giunte - spezzati e bianchi come ossicine.
Di tempo in tempo Ferrante si drizzava sulla schiena e, fatto eseguire al
lungo manico della falce un mezzo giro, ne poggiava il tallone a terra; la lama
veniva così a trovarsi orizzontale davanti al suo petto: era bordata al filo da
una poltiglia verde un po’ schiumosa, l’umore dell’erba. Con la cote, che traeva
da un corno di bue appeso alla cintola, il contadino liberava prima la lama dal-
la poltiglia, quindi si dava ad affilarla, alternando con ritmo il massaggio della
cote sui due lati del filo. Allora per rispetto anche il figlio cessava di falciare, e
girata la propria falce si metteva ad affilarla allo stesso modo.
“È un buon lavoratore” pensò, osservandolo mentre eseguiva questa opera-
zione, Ferrante: “Non stacca se non ne ha motivo, e mai per primo”.
“Oramai resisto più io di lui” pensò invece il figlio Stefano, e avvertì una
sensazione d’orgoglio mescolato a dispiacere. “Soltanto l’anno scorso non era
così” rifletté; sbirciò il padre: robusto, con il collo piantato come un tronco tra
le spalle, e quei baffi color pepe che gli coprivano quasi la bocca, non era certo
uomo da ispirare compatimento. “Però ha quasi cinquant’anni” si disse Stefa-
no. Accortosi che il padre aveva notato il suo sguardo, sempre seguitando a
massaggiare con la cote il filo della falce il ragazzo girò lentamente gli occhi,
fino a fermarli sulla carrareccia che dalla Nomanella, la loro cascina, saliva al
paese, a Nomana.
Ferrante intuì ciò che era passato per la mente del figlio (lo conosceva così
bene): “Bravo ragazzo” pensò, e per rompere il silenzio gli chiese, in dialetto
ovviamente: «Cos’hai? Aspetti forse qualcuno?»
«Sì padre» gli rispose Stefano: «Io non so, ma potrebbe arrivare Ambro-
gio.»
«Ambrogio quale? Il Riva?»
«Sì, lui.»
Ferrante si meravigliò un poco: «Siamo ancora in maggio» disse: «Non è
l’ultimo di maggio oggi?»
«Sì padre.»
«E lui, il tuo compagno, non torna sempre dal collegio a metà giugno?»
«Di solito sì. Anzi per via degli esami quest’anno doveva tornare più tardi, a
fine luglio o in agosto: così almeno m’ha detto a Pasqua. Però ieri Giustina ha
saputo dalle signorine della ditta che ritorna invece oggi pomeriggio.»
«Vedo» fece generico Ferrante.
«Sarà forse per la guerra, per il pericolo di guerra» opinò Stefano.
Ferrante rifletté alquanto in silenzio. «Sapeste, ragazzi, che razza di porche-
ria è la guerra» disse infine, e fece ripetutamente segno di no con la testa, me-
ditabondo. Diversi ricordi stavano affluendo in confuso alla sua mente, tra i
quali uno prevalse: il ricordo d’una sensazione indicibilmente sgradevole da
lui sperimentata più di vent’anni prima alle lugubri parole di un fante suo
compagno di trincea, mentr’erano in attesa d’uscire per uno di quegli orribili
assalti presentati sempre come risolutivi e che poi non risolvevano mai niente.
Adesso egli non ricordava più le parole: ricordava però bene quella sensazione
così straordinariamente sgradevole.
«Poveri ragazzi» concluse, incapace di esprimere appieno il proprio pensie-
ro. «Vi accorgerete che...» e fece ancora segno di no più volte, quindi riprese a
vibrare la falce con forza.
«La guerra ad ogni modo non c’è ancora» osservò Stefano, riprendendo a
sua volta a falciare: «e finché non c’è, uno può sempre sperare.»
Ferrante annuì, ma pensava: “Non c’è, no. Però sono già in guerra gli altri: i
tedeschi, i francesi, e... insomma gli altri. E nelle città, anche a Milano, ci sono
quelle carogne di studenti e il resto della marmaglia che fanno le dimostrazio-
ni per entrarci. Anche allora, nel 15, è cominciata così.”
Non riprese tuttavia il discorso, si sforzò anzi di non pensare più alla guer-
ra, di non impegolarvi oltre i pensieri.
Così, interrompendosi solo di tempo in tempo per affilare le falci, i due pro-
cedettero finché non ebbero rasato per intero il riquadro d’erba che si erano
prefissi.
Giunti al suo termine si voltarono e tornarono insieme al carro, dal cui cas-
setto Ferrante tolse la bottiglia dell’acqua che la moglie vi aveva posto, avvolta
in foglie fresche di fico; senza parlare prima il padre poi il figlio bevvero a
canna, traendo sospiri di soddisfazione. Quindi presero dal carro i rastrelli di
legno, e riunirono l’erba falciata, dal buon odore verde, dapprima in andane,
poi in mucchi, e fu lavoro abbastanza lungo; al termine del quale i due venne-
ro a trovarsi per la seconda volta in fondo al rettangolo rasato. Da qui, a un
cenno del padre, Stefano andò a prendere il cavallo che attendeva adesso con
la testa eretta e le orecchie diritte, e scattò avanti con impegno non appena il
giovane ebbe afferrato il guinzaglio.
Si procedette al carico: il giovane sul carro, a distribuire e ordinare col for-
cone il cumulo crescente dell’erba, e l’anziano sotto, ad aggiungervi sempre
nuove forcate; Ferrante serbava infatti per sé il lavoro più duro. Relativamen-
te in alto com’era Stefano lanciava ogni tanto qualche occhiata alla carrareccia
che portava a Nomana, se mai il suo compagno Ambrogio vi comparisse dav-
vero. Da qui egli avrebbe potuto vederlo percorrere la viuzza fin dall’inizio, là
dove essa si staccava dalla strada maestra all’entrata in paese.
In luogo d’Ambrogio scorse a un tratto piccoli piccoli sulla carrareccia i suoi
due fratelli Pio e Isadora, che tornavano da scuola tenendosi per mano. Di si-
curo Pio aveva infilato gli zoccoli nel cestino di fibra della colazione e cammi-
nava scalzo. “Ce l’ha per vizio” pensò Stefano sorridendo: avrebbe costretto
anche stasera la madre a lavargli i piedi, e il cestino.
Faceva da sfondo ai due bambini la recinzione del giardino di Ambrogio, o
per meglio dire del padre di Ambrogio, l’industriale tessile: uno che, prima di
diventare industriale, era stato operaio. Ne aveva fatta di strada quello! Il
giardino era come ce n’è diversi in Brianza: dal carro Stefano ne poteva vedere
alcuni altri, sia sul medesimo margine di Nomana, sia dalla parte opposta,
cioè verso nord, oltre le officine di Beolco, dove il terreno collinare - che qui
formava un’ampia conca poco profonda - risaliva sullo sfondo delle Prealpi. Si
trattava di giardini di tipo ottocentesco piantati ad alberi sempreverdi, come
tassi, lauri, abeti, agrifogli, magnolie, che crescevano serrati tra loro, in
un’unica macchia color verde cupo a pennellate verticali. I vecchi giardini non
meno delle fabbriche caratterizzavano allora il paesaggio collinoso della
Brianza.
Finalmente l’erba fu tutta sul carro: Stefano vi conficcò con forza il tridente,
e si lasciò scivolare dal colmo su una stanga, facendo sobbalzare alquanto il
cavallo; dalla stanga saltò a terra. Il padre afferrò il corto guinzaglio di canapa
e via: il cavallo trasse a passi volonterosi e concitati il carro fuori dal terreno
cedevole fino alla carrareccia di terra battuta, giusto in tempo perché alla co-
mitiva si aggiungessero Pio e Isadora, i quali subito cominciarono a piatire per
essere issati sul carico. Ferrante fermò allora il cavallo e, senza parlare, fece
con la testa segno a Stefano di accontentarli. Più che sospinti, lanciati sul col-
mo dell’erba, i due bambini vi si sistemarono felici, sedendo uno a fianco
dell’altro con le gambine orizzontali, i cappellucci premuti fin quasi sugli oc-
chi, e i cestini della colazione accanto. Il cavallo riprese a muoversi dentro il
loro chiacchiericcio gioioso e qualche grido d’incitamento da parte di Pio; die-
tro il carro camminava Stefano.
Il quale di lì a pochi minuti si voltò per un’improvvisa scampanellata: a rin-
forzare la carovana stava arrivando in bicicletta Ambrogio. Al pari del suo ex
compagno di scuola Stefano, costui aveva diciannove anni; in quel momento
appariva particolarmente euforico: «Ciao Faccia-di-tutti-i-giorni» gridò a mo’
di saluto all’ex compagno.
«Ciao Brogio.»
Ferrante, continuando a camminare a lato del cavallo senza lasciare il guin-
zaglio, si spostò lateralmente in modo da poter fare al ragazzo un cordiale
cenno di saluto: “Questo” pensava “anche se è studente, non è delle carogne
che chiedono la guerra. Anzi...”
«Buona sera, pa’ Ferando» gli gridò in risposta Ambrogio. Salutò poi anche
i due piccolini: «Ciao Isadora; ehi tu Pio, lazzarone...» e da tale particolare,
dal fatto che s’interessasse a due mocciosi come quelli, Stefano fu costretto,
come già altre volte, a notare ch’egli non si comportava alla maniera dei con-
tadini. E neanche degli operai. Del resto lo sapevano tutti ch’era studente di
liceo.
«Stefano, se Dio vuole con oggi ho finito. Col collegio basta per tutta la vita.
Ti rendi conto?» esclamò Ambrogio mentre, procedendo in bicicletta sulla
striscia mediana di terra battuta della carrareccia seguiva passo passo il carro;
a differenza dei contadini s’esprimeva in italiano.
«Ma... e quegli esami di cui m’avevi parlato?»
«Macché esami!» esclamò Ambrogio, allargando un solo braccio
nell’impossibilità di allargarli entrambi (doveva essergli successo qualcosa di
ben grosso - pensò il suo compagno - se era così espansivo): «Certo che... qua-
si quasi non riesco a crederci nemmeno io! Pensa Stefano: stavamo per co-
minciare l’ultimo ripasso, una cosa bestiale - da esaurimento nervoso, dico sul
serio, non per dire - quando ci arriva la notizia che quest’anno non si fanno gli
esami. Capisci? Scrutini subito, e poi tutti in vacanza entro il trentun maggio.
Eh? Se penso a quei disgraziati che l’anno scorso hanno dovuto sputar sangue
per superare gli esami.»
«Ma voi perché non li fate? Forse per la guerra? Voglio dire, per il pericolo
di guerra?»
«Sì» disse Ambrogio, di colpo meno euforico «almeno credo; non può esse-
re che per questo.»
«Ma cosa succede? Allora stiamo per entrare davvero in guerra?» «Questo
non si può dire» rispose Ambrogio: «Io spero sempre di no.» Assunse un at-
teggiamento riflessivo, che gli era con evidenza più congeniale: «Certo se vie-
ne la guerra» osservò, «la fortuna di oggi finiremo col pagarla cara...» Proce-
dettero per un po’ in silenzio.
«Beh» propose allora Stefano, ripetendo ciò che aveva detto in precedenza
al padre: «per adesso la guerra non c’è. E finché non c’è, uno può sempre spe-
rare.»
«Ecco, è inutile fasciarsi la testa prima d’averla rotta» convenne volontieri
l’altro. «Tanto più che noi due non possiamo farci proprio niente»; spianò di
nuovo la giovane faccia al sorriso.
«Lo sai» disse Stefano «che Igino e gli altri del primo semestre della nostra
classe, cioè Pierello, Giacomo di Contra, ‘Castagna’, insomma tutti quelli del
primo semestre, hanno ricevuto in questi giorni la cartolina, e devono presen-
tarsi al distretto domani?»
«Domani? Sì infatti, in collegio abbiamo saputo di quelle cartoline. Noi stu-
denti invece ci lasciano stare. Parte mezza classe vero?» «Sì. Hanno chiamato
il primo semestre del 21.»
«Igino e Pierello» ripete Ambrogio: «domani...»
Stefano annuì: «Pierello non lavora più in paese: da sei o sette mesi lavora
in ferriera a Sesto, lo sapevi?»
«Sì, me l’ha detto a Pasqua. Senti, sto pensando una cosa: perché al distret-
to non ce li accompagnamo noi in macchina? Vuoi venire anche tu?»
«Domani? No, domani sai che io non posso. È giorno lavorativo.»

CAPITOLO SECONDO

Il carro entrò nell’aia della Nomanella. Ch’era una piccola cascina a due
piani articolata a U, con l’apertura verso mezzogiorno, cioè verso Nomana.
Il suo braccio a tramonto era occupato dalla stalla e dal soprastante fienile,
il corpo di mezzo dall’abitazione del proprietario Ferrante, che aveva dato in
affitto il rimanente braccio a una famiglia operaia. L’aia era delimitata sul da-
vanti da un filare d’alberi fruttiferi: tre vecchi ciliegi dai tronchi smodatamen-
te robusti, e un fico più giovane e più basso, di colore diverso, che guastava
l’armonia dell’insieme. La carrareccia entrava nell’aia passando tra
l’abitazione dell’operaio e quel reprensibile fico.
Al rumore delle ruote si fecero sull’uscio di casa la nonna e la madre di Ste-
fano, entrambe vestite di nero come allora usavano le popolane, col capo co-
perto da un fazzoletto. La madre aveva gli stessi occhi grandi e marroni di Ste-
fano.
I due bambini scivolarono svelti giù dal carro e corsero da lei, che pur rice-
vendoli e carezzandoli scambiò, prima di dedicarsi a loro, qualche frase di sa-
luto con Ambrogio. Si esprimeva in dialetto, l’unica lingua di cui allora il po-
polo si servisse: «Ben tornato fra noi, Ambrogio.»
«Grazie. Ben trovata, mamm Lusìa.»
«Ti ha molto affaticato lo studio?»
La nonna - partecipe, la bocca sdentata semiaperta - si toccò la fronte con
un dito, per ricordare che anche il lavoro della mente affatica.
«No. Anzi stavolta m’è andata fin troppo bene: ci hanno fatto saltare gli
esami, lo sapete?»
«Saltare gli esami?»
«Sì, una fortuna da non credere.» Ambrogio indicò Stefano, a significare:
lui è già al corrente d’ogni cosa; Stefano annuì.
Lucia sorrise con approvazione: «Bene, sono contenta per te.»
La nonna, madre di Ferrante, fattasi avanti prese la destra del giovane nelle
proprie mani, fin troppo evidentemente compiaciuta per la sua visita. Faceva
ogni volta così: non le pareva vero che venisse da loro il figlio dell’industriale
che dava lavoro a tanta gente (si era in Brianza, dove a quel tempo non c’era
nel popolo avversione per gli industriali); la vecchietta strinse più volte la ma-
no d’Ambrogio, petulante per simpatia, lontana dai modi delicati della madre.
Intanto Ferrante, aiutandosi con la voce, stava sospingendo il cavallo
all’indietro in modo da sistemare il carro presso la porta della stalla. Staccò
quindi l’animale che, coi finimenti indosso, andò ad abbeverarsi a una tinozza
contro il muro (ogni tanto sollevava dal pelo dell’acqua il muso gocciolante
per respirare e per guardarsi intorno); una volta abbeverato, l’animale varcò la
porta della stalla e raggiunse sempre da solo la sua posta, separata da quella
delle vacche da un robusto tramezzo di legno. Ferrante e Stefano lo stavano a
osservare compiaciuti, senza muoversi.
«Allora?» disse finalmente il padre.
Era la ‘seretta’, non ancora il tramonto, l’ora della mungitura e dei lavori se-
rali nella stalla.
«Sì» rispose il figlio. E inforcato col tridente un gran carico d’erba nuova
precedette l’uomo all’interno del basso locale.
Ambrogio seguì i due; nella stalla aleggiava un lieve tanfo agreste, da tempi
andati, non sgradevole. Le due vacche dal mantello bruno avevano fatto preci-
pitosamente largo tra loro, e con i colli e le teste allungate indietro tiravano
con forza le catene, protendendosi verso l’erba in arrivo. Stefano passò tra gli
animali e scaricò l’erba nella greppia di ferro davanti a uno dei due, che subito
cominciò a mangiare voracemente, mentre l’altro allungava invano il proprio
muso per raggiungere il cibo. Il giovane tornò subito con un secondo enorme
carico d’erba sul tridente, e lo scaricò davanti all’altra vacca; seguitò poi avanti
e indietro, finché non ebbe interamente colmata la greppia. Passò quindi a
colmare la greppia - di minor capienza e sistemata più in alto - del cavallino
sauro, che Ferrante aveva nel frattempo legato alla mangiatoia e spogliato dei
finimenti, i quali apparivano ora appesi a due bracci di legno sporgenti dal
muro.
Nessuno parlava: si sentivano i tre animali mangiare, il trepestio dei due
contadini nonché, a momenti, gli strattoni e i muggiti dell’unico vitello che,
legato in un angolo, s’era alzato in piedi e chiedeva a sua volta da mangiare.
Aveva le gambe sproporzionatamente lunghe e il pelame più chiaro di quello
delle vacche (“pulito, nuovo di zecca” pensò Ambrogio), portava sul muso un
canestro di vimini che gli impediva d’inghiottire lo strame. Ambrogio sapeva
che, terminata la mungitura, Ferrante avrebbe versato per lui una misura di
latte dentro un secchio, e in assenza del poppatoio gliel’avrebbe fatto suggere
tenendogli un dito in bocca.
Dalla parete di fondo - di un colore indefinibile tant’era sporca -
sant’Antonio abate, in una vecchia oleografia che lo raffigurava seguito da un
suino (‘sant’Antonio del porcello’ lo chiamava la gente) vegliava sulla piccola
stalla.
“Com’è simpatico questo ambiente” pensò Ambrogio, e per un momento fu
tentato di fantasticare: “Ecco la vita che forse mi piacerebbe fare...”. Ma subito
si obiettò: “Il guaio è che questo lavoro non consente di vivere come si deve”.
Entrò nella stalla la nonna con due secchi: uno piccolo e scuro in cui c’era
dell’acqua per lavare la mammella delle vacche, l’altro più grande, lucente di
stagnatura, il secchio del latte. Dietro di lei s’infilò ridendo forte nel locale an-
che il piccolo Pio: correva sui piedi insaponati, certamente era fuggito dalle
mani della mamm Lusìa che lo stava lavando. Infatti ecco la madre: il bambi-
no, dopo alcuni scarti, impossibilitato a fuggire oltre, si lasciò agguantare; la
madre del resto lo prese con dolcezza. Lo rimproverò più con la severità del
viso che con la voce e se lo tolse in braccio, curando di tenere scostati da sé i
due piedini nuovamente insudiciati. Dalla porta la nonna non mancò invece di
sgridare il bambino: «Vergogna, scappare con i piedi insaponati. Bisognerà
lavarti un’altra volta... La tua povera mamma!» e: «Cosa dirà questo signore?»
Pio non si mostrò impressionato dal signore, ch’era abituato a vedere fin
dalla nascita; al punto che passandogli accanto cercò di colpirlo al petto con
un piede sporco: Ambrogio fece appena in tempo a scansarsi. Stavolta la ma-
dre affibbiò al bambino che teneva tra le braccia uno sculaccione, e disse an-
che lei: «Vergogna!» Il bambino le rispose con una risata.
«Questi figli!» sospirò la nonna. E guardando in viso prima Ambrogio poi
Stefano, che andava verso di lei per ritirare i due secchi: «Questi figli!» ripeté
con intenzione.
«C’è qualcosa che non va, nonna?» la assecondò Ambrogio.
«È per via del mio mestiere» disse Stefano, strizzando un occhio al compa-
gno: «lo sai; cerca di non darle corda.»
«Certo che è per il tuo mestiere» fece la nonna: «per il tuo mestiere e per il
tuo bene.»
«Cioè?» continuò ad assecondarla Ambrogio.
«Insiste a voler fare il contadino. Giù alle officine di Beolco adesso cercano
degli apprendisti, ma lui niente, vuol fare il contadino. Non eravamo intesi
così però, gli accordi non erano questi.»
«Lo so» disse Ambrogio. «L’intesa era che avrebbe aiutato in campagna so-
lo fino a quattordici o quindici anni, e poi sarebbe entrato in uno stabilimento.
E invece ormai ne ha diciannove di anni.» «Quasi compiuti» puntualizzò Ste-
fano.
«Il mestiere del meccanico è un mestiere fine» disse la nonna, evitando di
consegnargli i due secchi per trattenerlo un po’: «un mestiere con un avvenire.
Non è vero signor Ambrogio?»
«Sì, certo» rispose Ambrogio, e a questo riguardo era chiaro che non scher-
zava.
«Ecco, hai sentito, Stefano?» esclamò la vecchietta, trionfante perché aveva
afferrata quella convinzione: «Senti che lo dice anche il tuo amico?»
«Che il mestiere del meccanico sia fine lo san tutti» disse Stefano, e ag-
giunse buffamente: «Io non ho mica niente contro i meccanici.» Poi si rifece
serio: «Ma il discorso è un altro, e cioè che io ho la passione per la terra. Lo
sapete nonna. Su, datemi i secchi.»
«Ma è per il tuo bene che io, che noi... e tuo padre per primo ti diciamo...
Quarantatre pertiche di terra, ti sembrano molte?» La nonna, portata a indu-
giare dalla sua stessa età, anziché consegnargli i secchi guardò Ferrante in cui
sapeva di avere un alleato, il quale tuttavia, come sempre succedeva in presen-
za d’estranei, non intervenne.
A un pertugio nel muro presso l’oleografia di sant’Antonio del porcello s’era
intanto affacciato un topolino; Ambrogio ricordò d’averlo già visto in quel
punto durante la sua ultima visita. La bestiola sbirciò all’intorno, poi si ritras-
se, ma non del tutto: l’apice del suo musino rimaneva infatti visibile, quasi
avesse anch’essa deciso di restare a far parte della compagnia. La vecchietta
insisteva: «Stefano, i tempi stanno cambiando; tu lo sai che i giovani di qui,
anche i figli dei contadini, non fanno più il contadino: troppo lavoro e troppo
poco frutto. Soltanto la sera, se mai, una volta tornati dallo stabilimento, aiu-
tano i vecchi a mandare avanti quel po’ di terra. Guarda Giacomo di Contra, e
il Luigino dei Brivio per esempio. Anche tu, se proprio hai la passione della
terra, potresti fare a quel modo.» Si rivolse ad Ambrogio: «Non è vero che po-
trebbe fare a quel modo?» Ambrogio annuì compiacente, sorridendo, mentre
Stefano, per quanto rispettoso, mostrava che il discorso per lui era durato an-
che troppo. Allora la nonna, consegnatigli i due secchi, si voltò, e lamentic-
chiandosi tra sé per tanta testardaggine lasciò la stalla.
Stava per avere inizio la mungitura. Ambrogio, che fino a quel momento era
intenzionato ad assistervi, provò a un tratto il desiderio di tornare a casa.
«Beh, ciao Stefano» disse senza por tempo in mezzo: «ti ho rivisto con piace-
re, ma oggi non mi fermo. Verrò magari domani.» E al padre di lui: «Buona
sera, pa’ Ferando.»
«Come? Vai già via?» Il ragazzo contadino depose i due secchi che teneva in
mano, e fece con la testa un segno a significare: ti accompagno fuori.

All’aperto l’aria era fresca, pura. Da ovest il sole ormai basso illuminava tut-
to l’orizzonte settentrionale materializzato dal grande anfiteatro delle Prealpi.
«Guarda» osservò Ambrogio «che bel colore hanno stasera le montagne. Spe-
cialmente le Grigne e il Resegone.»
«Cosa, le montagne?» Stefano tentennò la testa: ecco un altro discorso da
studente. «Vuoi saperlo? Io nemmeno me n’accorgo che al mondo ci sono le
montagne. Non ci penso mai.»
«Perché le hai sempre davanti agli occhi» disse Ambrogio. «Se fossi invece
costretto a vivere la più parte dell’anno in un collegio di città, con intorno sol-
tanto case, muri e tramvai... Beh, con oggi ad ogni modo ho finito anch’io: col
collegio ho finito per sempre!» A questa constatazione, già fatta ripetute volte
nel corso del pomeriggio, avvertì un nuovo senso di felicità. (Che non degnò
d’attenzione: la felicità gli sembrava ovvia, quasi dovuta. Ignorava che i mo-
menti di felicità, non frequenti neppure negli anni giovanili, li avrebbe in se-
guito sperimentati sempre più di raro nella vita.) Disse all’amico: «Però, che
liberazione!»
Stefano sorrise. «Beh, io torno al lavoro, ciao.»
«Ciao.»
Mentre si dirigeva verso la propria bicicletta appoggiata al muro: «Un mo-
mento» esclamò Ambrogio, «aspetta: Igino e Pierello dicevi prima.»
«Sì, partono domani.»
«Sai a che ora?»
«No. L’ora non gliel’ho chiesta.»
«Senti, stasera io cerco Igino. Prima di mangiare... anzi meglio subito dopo
mangiato. Perché non vieni anche tu?»
«In paese? Stasera?»
«Sì. Subito dopo mangiato. Dai, ci troviamo alle otto e mezza a casa
d’Igino.»
Stefano rifletté alquanto grattandosi la testa (“Guarda, fa come suo padre e
non se ne rende conto” notava Ambrogio): «D’accordo» disse infine.
«Allora ci vediamo.»
«Va bene.»
Ambrogio raggiunse la bicicletta - un leggero veicolo sportivo, color azzurro
-, giovanilmente la sollevò con una sola mano, se la mise davanti voltata nella
direzione giusta, e la inforcò.

CAPITOLO TERZO

Pedalò lentamente sulla carrareccia verso casa. L’accompagnò da principio,


da un riquadro di grano, il canto intermittente d’una quaglia; nelle pause di
quel canto solitario il silenzio della sera era punteggiato da altre voci agresti,
in genere minime, cui il ragazzo tendeva l’orecchio: il mio paese, pensava, ec-
co il mio paese. Quante volte tra le mura opprimenti del collegio era tornato
col pensiero a questi luoghi, all’ambiente in cui era nato!
Dalla carrareccia gli venne a un tratto incontro uno scalpiccio, il rumore
inequivocabile di due zoccoli di legno; guardò incuriosito davanti a sé, ma la
viuzza - che in questo tratto era fiancheggiata da siepi piuttosto alte di gelso e
di biancospino - faceva una curva che gl’impediva la vista.
“Chi sarà?” si chiese incuriosito: “Chi può venire alla Nomanella a
quest’ora? Forse qualcuno in cerca di latte fresco. Se no chi altro? Beh, adesso
vediamo.”
Era Giustina, la sorella ventenne di Stefano, la maggiore dei quattro figli di
Ferrante e Lucia. Ambrogio se la trovò davanti a metà curva; frenò e mise un
piede a terra: «Oh, Giustina» esclamò «salve!»
«Buona sera» gli rispose Giustina guardandolo lieta, anche se incerta se
fermarsi oppure no. Indossava il grembiule nero da operaia, aveva i capelli
castani trattenuti a crocchia da un pettine sulla nuca, e gli occhi grandi di Ste-
fano e della mamm Lusìa. Calzava zoccoli alti di legno che rendevano ancor
più snella la sua figura già sottile (forse, chissà, a giudicare adesso, col senno
di poi, troppo sottile).
«Come va, Giustina?»
«Si lavora» rispose lei in dialetto, accentuando il bel sorriso.
«Vedo. Ritorni adesso.»
«Abbiamo fatto un’ora di straordinario.» La ragazza fece per riavviarsi.
«Te ne vai già?» disse con rincrescimento Ambrogio. «Cos’hai, paura che ti
mangi?»
Giustina s’imporporò fino alla radice dei capelli. «No» gli rispose, «ti cono-
sco. So che sei un ragazzo pulito non solo di fuori ma anche di dentro.»
“Questa è farina del sacco di don Mario” rilevò subito Ambrogio: “è una fra-
se sua. Però detta da Giustina devo ammettere che non suona fuori posto”.
La giovane gli sorrise di nuovo: «Buona sera» e s’avviò.
***

La carrareccia - lunga circa un chilometro - prima d’entrare in Nomana co-


steggiava come s’è detto il giardino d’Ambrogio, o meglio del padre
d’Ambrogio, l’industriale tessile. Siccome il piano del giardino era di qualche
metro più alto del piano della carrareccia, lo conteneva un vecchio muro sor-
montato nel solo tratto centrale da una balconata in arenaria, per tutto il resto
da una lunga siepe di mortella, dalla quale sporgevano qua e là, protendendosi
sulla carrareccia, grossi rami d’albero. Mentre pedalava rasente il muro Am-
brogio l’esaminò riflessivo, com’era sua abitudine: individuò alcune nuove
infiltrazioni d’acqua, forse là dove all’interno più premevano le radici degli
alberi. “A saper vedere, tutto si consuma, ogni cosa finisce” gli avvenne di
pensare “i vecchi muri come i periodi che si succedono nella vita della gente...”
La sua vita però - si disse subito - era solo all’inizio, anzi finora non era stata
che preparazione: la vera vita per lui sarebbe cominciata adesso, nel prossimo
autunno per esempio, con l’università, dove oltre tutto c’erano le ragazze...
Altro che pensare alla fine! La fine era pensabile per... per i... i vecchi, insom-
ma per gli altri, non per lui. La prospettiva della fine lo fece addirittura sorri-
dere tanto era incommensurabilmente lontana. Non indugiò comunque in tali
pensieri, perché non era portato alle fantasticherie.
Alzò invece lo sguardo a controllare se per caso qualcuno dei suoi famigliari
fosse alla balconata; non c’era nessuno. “Naturale. Mica è l’ora di venire a go-
dersi la vista delle montagne.”
I suoi fratelli (sei, tutti minori di lui) dovevano in questo momento essere in
casa intorno alla madre: quelli tornati dal collegio stavano probabilmente rac-
contando episodi della loro vita di studenti, e i due più piccoli dovevano starli
ad ascoltare con grande attenzione. Stasera, a cena, dei famigliari sarebbe
mancato soltanto Manno, il cugino orfano che da sempre viveva con loro; di
due anni più anziano d’Ambrogio e studente d’architettura, Manno si trovava
adesso a Pesaro, alla scuola ufficiali d’artiglieria: se fosse scoppiata la guerra,
Manno ci si sarebbe trovato subito dentro fino al collo.
Dopo avere costeggiato il giardino, la carrareccia s’innestava nella strada
maestra che da nord sale a Nomana: all’incontro delle due strade il muro del
giardino formava un angolo smussato nel quale era ricavata una nicchia con
un affresco della Madonna del rosario seduta col Bambino in braccio su uno
sfondo di montagne (vi si riconoscevano bene le due Grigne e il Resegone);
sormontava l’affresco una scritta ad arco: ‘Regina sacratissimi rosarii ora pro
nobis’. Ambrogio accennò un inchino in segno di saluto e prese verso sinistra
la strada maestra che proprio a questa altezza si faceva, entrando in paese, da
bianca acciottolata. Premette con più forza sui pedali, costeggiò la recinzione
ovest del giardino, quindi una parete priva di porte della sua casa, infine, dopo
un altro tratto di recinzione, giunse a uno slargo circoscritto da una breve can-
cellata a mezzaluna con l’ingresso nel giardino.
Da questo slargo egli poteva vedere interamente la sua pacifica casa, color
giallo ocra, a tre piani, vecchia di almeno cent’anni: aveva un aspetto agiato,
anzi signorile, eppure fino a cinquant’anni prima era stata una fabbrica tessile,
poi in parte fabbrica e in parte abitazione; solo da una ventina d’anni (da
quando cioè s’era sposato suo padre) era stata trasformata interamente in abi-
tazione. Da bambino Ambrogio aveva fatto in tempo a vedere gli ultimi telai a
mano in solaio: uno solo funzionava ancora, e avrebbe continuato a funziona-
re finché non si fosse ritirato l’operaio che lo manovrava, un pensionato dai
baffi a manubrio, scherzoso coi bambini e straordinariamente semplice (così -
s’immaginava allora Ambrogio - doveva essere tutta la gente una volta) il qua-
le asseriva di ricordare il tempo in cui a Nomana le donne portavano ancora in
testa la raggera d’argento.
«E gli uomini? Cosa portavano in testa gli uomini?» gli chiedevano i bam-
bini, conoscendo già la risposta.
«Gli uomini, magari, qualche pidocchio» rispondeva lui; e non si capiva se
dicesse la verità, o lo dicesse per far ridere.

CAPITOLO QUARTO

Dopo la cena Ambrogio uscì di nuovo per recarsi alla casa d’Igino; comin-
ciava ad avvertire una certa stanchezza: la sua giornata, sopratutto dal lato
emotivo, era stata abbastanza intensa.
Igino abitava a meno di cento metri sulla stessa irregolare strada acciottola-
ta, la via Alessandro Manzoni. Davanti alla sua porta c’era già Stefano in atte-
sa. “Guarda” si disse Ambrogio “Faccia-di-tutti-i-giorni è già qui, con tutto il
lavoro che ancora gli rimaneva quando l’ho lasciato: non deve aver impiegato
più di cinque minuti per cenare”. Giunto a pochi passi da lui: «Sei qui da un
pezzo, eh?» esclamò: «Questo succede a chi non ha niente da fare.»
L’altro gli rispose con una smorfia di compatimento, poi lo informò che Igi-
no non era in casa.
«Ah!» fece con disappunto Ambrogio.
«Ho mandato suo fratello a chiamarlo. Noi però, io credo, potremmo an-
darli ad aspettare in piazza.»
«Sì, certo.»
I due s’avviarono senz’altro. «Se ci mettiamo in piazza» precisò Stefano «c’è
il caso d’incontrare anche qualche altro di quelli che partono domani. Tu li
vedi volontieri, no?»
«E come» disse Ambrogio.
Non erano i soli a percorrere la strada che conduceva, con qualche curva,
alla piazza principale, dov’erano la chiesa e il municipio: c’era anzi un movi-
mento abbastanza insolito per quell’ora.
«Come mai tutta ’sta gente in giro?» chiese Ambrogio a Stefano.
«Perché è l’ora di benedizione» gli rispose costui. «Non hai sentito le cam-
pane?»
«Ah già, le campane» disse Ambrogio. «Siamo nel mese di maggio infatti.»
Stefano annuì: «Oggi è l’ultimo del mese.»
Come i due sboccarono nella piazza - ampia, e lungo i due lati di nord e di
ovest aperta a mo’ di belvedere sull’anfiteatro delle montagne - furono im-
provvisamente investiti da un formidabile scampanio. Si arrestarono e alzaro-
no lo sguardo alla sommità del campanile dove, nella cella campanaria, le
campane si dimenavano frenetiche, arrivando quasi a ruotare su sé stesse.
«Il sacrista stasera è in vena» osservò Ambrogio, ad alta voce per farsi sen-
tire.
«Cosa?» gridò di rimando Stefano. Ambrogio alzò le spalle.
«È il terzo segno» disse gridando Stefano.
«Sì, il terzo» convenne Ambrogio.
Il rito sarebbe dunque iniziato tra cinque minuti. C’era tutto il tempo per
raggiungere la chiesa con calma, ciononostante la gente ch’era per le strade e
nella stessa piazza a quell’esplosione di suoni affrettò il passo; le rondini poi
che, come ogni sera, pascolavano nell’aria volando basse basse sopra
l’acciottolato della piazza, ne trassero immediato pretesto per mettersi a sfrec-
ciare e a fare ogni sorta di virtuosismi.
Quasi tutti quelli che passavano - per la maggior parte operai - scambiavano
un saluto, in genere un cenno del capo, coi due giovani.
«Qui ci conosciamo proprio tutti» constatò a un tratto Ambrogio - senza più
bisogno di gridare, perché il frastuono delle campane era improvvisamente
cessato (nell’aria rimaneva solo un sommesso ronzio, come il ringhio in gola ai
cani gagliardi dopo che hanno fatto la loro sfuriata.)
«Sempre le stesse facce, eh?» disse Stefano, tentennando la testa con di-
sapprovazione.
«Beh, però a me...» Ambrogio non concluse la frase: avrebbe voluto dire
che a lui, specie quando - come oggi - tornava dal collegio, queste facce riusci-
vano gradite, care: che se ne accorgeva appunto a ogni ritorno; temette però di
apparire sentimentale.
Si tolse di tasca il pacchetto delle sigarette e ne offrì una al compagno. Sem-
pre altra gente intanto attraversava la piazza. Ecco laggiù in fondo la sagoma
familiare di suor Candida, loro maestra d’asilo ai tempi: un po’ curva, proce-
deva in compagnia d’una giovane conversa; dietro, come i pulcini alla chioc-
cia, veniva una manciata di bambine.
Da quest’altra parte era in arrivo Romualdo, l’ubriaco comunale, secondo
l’aveva una volta con proprietà definito la nonna di Stefano; tale era infatti per
due distinti motivi: perché era il maggior beone del comune, e perché col co-
mune aveva in qualche modo professionalmente a che fare, in quanto custodi-
va quel po’ di posteggio per le biciclette che c’era accanto al municipio. In que-
sto momento Romualdo camminava senza ondeggiamenti - segno che non era
ubriaco, o almeno non molto - e con la faccia compunta - segno che stava at-
traversando una delle sue ricorrenti fasi di pentimento.
Arrivarono frettolose due cugine studentesse, la Tea e la Isa, di poco più
giovani dei due ragazzi: la prima (bruttina e pronta al riso) frequentava le ma-
gistrali; l’altra, la Isa, ragioneria a Monza, ed era una cavallona di pelo casta-
no, molto bella, tuttavia un po’ troppo monumentale per la sua età (destinata
dunque - pensava Ambrogio ogni volta che la vedeva - a sfiorire presto, pove-
retta). Queste aggredirono i due con esclamazioni e frasi di lieta sorpresa,
commiste a notizie sulla chiusura delle loro scuole ch’era stata pure anticipata,
e insieme a rimproveri, perché i due se ne stavano a ‘ciondolare’ in piazza in-
vece d’entrare in chiesa.
I due, in particolare Ambrogio, avrebbero voluto rispondere, ma dovettero
tacere subissati, mentre Stefano scuoteva la testa con disapprovazione. Finché
quelle improvvisamente si staccarono da loro e corsero via, tirandosi l’una
l’altra per mano: «Su, su, se no facciamo tardi anche noi.» «Vieni, andiamo.»
«Che lingua!» commentò allora Ambrogio. Stefano si limitò a disapprovare
un’ultima volta con la testa.
Ecco, in crocchio, tre operai della ditta Riva: Costante, biondo stoppa, cor-
poso, con la faccia rossastra; Tarcisio, alto e diritto, ricciuto, con gli occhi e i
capelli neri (Ambrogio ricordò che nella ‘grande guerra’ questo era stato ardi-
to); e Ignazio, piccolo e un po’ gobbo, col vestito sempre liso e la testa che ten-
tennava come annuendo a ogni passo: tutt’e tre mostrarono di rendersi conto
che Ambrogio era tornato a casa anzitempo, ma non per questo si fermarono;
scambiato con lui un cenno di saluto, proseguirono spediti: andavano in chie-
sa come fossero in ritardo sul lavoro.
Dalla via Manzoni arrivò anche Marietta ‘delle spole’, lei pure operaia del
padre d’Ambrogio: sulla cinquantina, molto piccola, le gambe storte, era
l’operaia più zotica di tutta la fabbrica. Aveva capelli radi e ricciuti, repulsivi, e
una faccia incredibilmente larga e gialla, in cui chissà come erano capitati due
occhi neri d’agnello. La suprema aspirazione di costei era di non farsi notare
dagli altri: Ambrogio lo sapeva e la salutò quindi con un cenno minimo della
testa, senza propriamente guardarla. Sapeva che se le avesse rivolta la parola
quella gli avrebbe risposto in modo strampalato: inintelligibile, o parlando
troppo in fretta, e se lui per caso avesse insistito, si sarebbe spaventata.
A Marietta ‘delle spole’ si accompagnava per mano Giudittina, la sorella
minore d’Ambrogio, cinque anni d’età, occhi azzurri, capelli biondi raccolti in
due codini dietro le orecchie, che salutò il fratello gridandogli giuliva: «Ciao,
ciao, ciao» e passò oltre, sempre per mano a Marietta la quale con borbottii e
sussurri misteriosi la rimproverava per la sua esuberanza; una volta rimasti
indietro i due giovani tuttavia si rifece tranquilla: Marietta con i bambini pic-
coli era a suo agio.
Ecco poi avanzare contegnosa la vecchia signora Eleonora (dove sei, mondo
perduto, dove sei? con le parole non si possono suscitare altro che larve, ahi-
mè!) la signora Eleonora dicevamo, vestita di nero a lustrini alla maniera di
principio secolo, col cappellino sormontato da piume di struzzo e il bastoncino
da passeggio. Quanti anni aveva la vecchia signora rimasta senza più nessuno
al mondo, che usciva di casa soltanto per venire in chiesa? Da quando erano
nati, Ambrogio e Stefano l’avevano sempre vista così, identica a com’era in
questo momento.
Attraversò la piazza anche la signorina Quadri Dodini, insegnante in un
ginnasio di monache a Monza. Di mezza età e zoppa, coi capelli tagliati ‘alla
maschietto’, s’appoggiava lei pure a un bastone, e portava grossi occhiali:
“Questa” pensò Ambrogio “scommetto che è arrivata con l’ultimo treno, e vie-
ne qui dopo avere trangugiato in fretta un po’ di cena”. La raggiunsero a gran
balzi e superarono (impietosi senza volerlo) alcuni ragazzi sui tredici quattor-
dici anni, che s’infilarono in chiesa a precipizio davanti a lei.
«Ci hai fatto caso? Ne abbiamo visti due col bastone.»
«Ehi, non c’è il due senza il tre.»
«Chi sarà il terzo?»
Fu il Galbiati, impiegato della Cassa di Risparmio e mutilato del Piave: sic-
come mancava d'una gamba, camminava lui pure appoggiandosi al bastone.
Un figlio di questo Galbiati, a nome Giordano, laureando in legge, frequentava
in questo momento la scuola allievi ufficiali alpini: se fosse scoppiata la guerra
- pensò Ambrogio - anche il Giordano ci si sarebbe trovato subito dentro fino
al collo.
Passò ancora qualche ritardatario e ultimo Carlaccio. Costui, d'età indefini-
bile, era stato una volta l'uomo più forte del paese: nessun ostacolo gli resiste-
va a quel tempo nel suo lavoro, che era di carradore. Disgraziatamente duran-
te uno scavo aveva voluto cimentarsi con una pietra smisurata che non si la-
sciava ribaltare: «o tu o io» aveva proclamato, abbrancandola nell'ammirazio-
ne dei circostanti: purtroppo aveva ceduto lui, o meglio la sua colonna verte-
brale; da allora andava in giro con l'enorme schiena come rientrata in avanti e
le braccia pendenti all'indietro.
Carlaccio salutò i due col suo sorriso sempre malinconico che significava:
‘Lo vedete anche voi com'è ingiusto con me il destino?’; i due ragazzi gli rispo-
sero con simpatia.
Passato lui la piazza rimase vuota; solo le rondini seguitavano a percorrerla
volando.

CAPITOLO QUINTO

A un tratto da una via che sboccava nella piazza a pochi metri dalla via
Manzoni giunse la voce d'Igino alternata a quella di un altro coscritto, di so-
pranome Castagna. Subito Ambrogio e Stefano mossero loro incontro; eccoli
là Igino e Castagna: venivano avanti parlando forte, come non di rado fanno
gli italiani quando si trovano in pubblico, istintivamente portati a esibirsi, a
dar spettacolo; quella sera ancor più portati, quei due, perché in qualche mo-
do effettivamente protagonisti. Li scortava, precedendoli di qualche passo, il
fratello di Igino, di nove anni, che ogni poco si voltava per sollecitarli nel mo-
do che aveva visto fare alle donne quando andavano a recuperare i mariti al-
ticci all'osteria.
Ancor prima di raggiungerli Ambrogio li salutò festosamente con un: «Senti
che fiera, senti che fiera!» al che castagna si arrestò e rizzata la testa che aveva
grossa, spalancò le braccia e recitò il verso di una canzonetta da coscritti: ‘È il
ventuno che va via’; poi, quasi avesse detto chissà quale spiritosaggine, si mi-
se a ridere incontenibilmente: di professione artigiano, era biondo, roseo e
paffuto. Igino, operaio, aveva invece il viso affilato e i capelli scuri, pettinati
indietro alla istrice; sorrideva in un modo che aveva la particolarità di sembra-
re sempre forzato, anche quando, come in questo momento, non lo era.
«Ciao» disse Ambrogio quando furono a distanza di conversazione, e ten-
dendo loro la mano: «Dov’eravate? Forse all'osteria della Pasqualetta?»
«Infatti» risposero i due.
Il fratello d’Igino spiegò: «Li ho trovati là. Stavano con gli altri coscritti.»
«Con gli altri coscritti?» fece sorpreso Ambrogio «Ma allora...»
«No, mica tutti» disse Igino «Ci siamo trovati là in quattro, anzi cinque, per
caso, non è stata una cosa preparata. Beh, dai, perché non ci venite anche
voi?»
«Io son venuto qui apposta per questo» dichiarò Castagna: «per portare
anche voi due all'osteria, vivi o morti.» E rivolgendosi a Stefano, prima che
quello aprisse bocca: «Tu non dire di no.»
«Certo che dico di no» esclamò Stefano «Io stasera non c’entro: sono del
secondo semestre, lo sapete.» Pensava in realtà che l'indomani si sarebbe do-
vuto alzare presto per il lavoro. Castagna lo sapeva benissimo, tanto che lo
rimbeccò: «Macché semestre, macché semestre, tu domani mattina alle cin-
que (a cinch ur - il dialetto di Nomana è quasi identico al milanese) devi mun-
gere le vacche. Dillo che è per questo.»
«Sì» ammise allora Stefano «è per questo.»
«Brutta bestia!» lo sgridò, alzando di nuovo la voce, Castagna, come l'aves-
se sorpreso in chissà quale mancamento; dopo di che si mise a ridere anche
per quest'altra spiritosaggine.
«Vedo che avete già bevuto» si limitò a constatare Stefano
«Allora?» chiese Igino ad Ambrogio: «tu ci vieni o no dalla Pasqualetta?»
Sebbene attirato (era bello, a quell'età, ritrovarsi insieme, con la speranza e
l'attesa che ciascuno aveva dentro!) Ambrogio non poteva decentemente pian-
tare in asso Stefano dopo averlo fatto venire in paese.
«No» rispose quindi. «Oggi sono già abbastanza stanco e non me la sento di
far tardi. Io volevo soltanto chiederti una cosa: a che ora dovete presentarvi al
distretto domani?»
Invece di rispondere Igino gli chiese: «Ma tu... come mai quest'anno sei
tornato a casa in anticipo?»
Ambrogio glielo spiegò.
«Allora, se è così, la guerra non ce la leva più nessuno» mormorò preoccu-
pato l’altro.
«Figurati» fece Ambrogio. «Beh, non voglio farvi perdere tempo. Soltanto
dimmi...»
«Di tempo ne abbiamo d’avanzo» affermò Igino: «Venite, mettiamoci al-
meno seduti un momento in casa mia.»
Si avviarono passo passo.
CAPITOLO SESTO

Nella casa non c’era nessuno. La madre - in quel paese tutto di paolotti, os-
sia di cattolici praticanti - era, non occorre dirlo, alla funzione in chiesa. «Mio
padre invece è di turno giù a Beolco» spiegò Igino, mentre accendeva la luce.
«Ah, dunque adesso fanno i turni a Beolco?» s’informò Ambrogio.
«Sì, all’officina sì» gli rispose Stefano per Igino.
«Non sarà anche questo per la guerra?» congetturò a un tratto Igino, il qua-
le allo stesso modo del padre lavorava nell’officina.
«Quale guerra?» lo sgridò Castagna: «Se giù all’officina fate ingranaggi e
catene per le biciclette.»
«E le biciclette dei bersaglieri? Dove le metti quelle?» gli obiettò Igino se-
miserio; si volse agli altri due col suo sorriso tirato, e indicò con un cenno del
capo Stefano, il quale alla visita di leva era stato assegnato al corpo dei bersa-
glieri: «I bersaglieri dove li metti? Dai, va, sediamoci un momento» concluse.
Gli altri eseguirono, prendendo posto intorno al tavolo coperto da un tappe-
to di peluche sintetica a colori cangianti rossi e azzurri. Bassa sul tavolo pen-
deva una lampadina dal cappello rotondo di lamiera smaltata, con sopra una
carrucola a boccia che ne regolava l’altezza. Igino andò alla credenza, ne aprì i
battenti a vetri, prese un vassoio di latta gialla, una bottiglia di amaro Braulio
e quattro bicchierini: «Tu va fuori a giocare» disse al fratello novenne, che
seguiva l’operazione con più scoperto interesse degli altri.
Dimentico della giudiziosità dimostrata fino allora, quello cominciò a prote-
stare, per cui Igino - disapprovando con la testa - aggiunse un quinto bicchiere
sul vassoio, e portò tutto al tavolo.
Per non sembrare tirchio riempì i bicchierini fino all’orlo; Ambrogio lo no-
tò, e forse anche gli altri, ma per loro tale procedimento era scontato: se mai
sarebbe stato strano che le cose si svolgessero secondo un rituale diverso. Tut-
to del resto era scontato e ovvio là dentro: i mobili vagamente modernizzanti
ma quasi miseri, le due oleografie alle pareti con la Sacra Famiglia e un cervo
al fonte, la stufa a legna che - in assenza del tradizionale camino - serviva tan-
to per cucinare le vivande quanto per il riscaldamento: si trattava in sostanza
d’una comunissima casa operaia. Forse un po’ meno scontata c’era, sul ripiano
della credenzina, una statuetta liberty di donna discinta e malfatta che reggeva
con le braccia alzate una fruttiera.
Terminato che ebbe di versare l’amaro (al bambino metà dose) Igino levò il
proprio bicchiere: «Cin cin» propose.
«Cin cin» gli fecero eco gli altri.
«Che il pericolo di guerra si allontani» beneaugurò Ambrogio, davvero ori-
ginale. Tuttavia era appunto ciò che gli altri si aspettavano da lui. Sorseggia-
rono pensosi.
«E se invece... Se non si allontana? Se la guerra scoppia davvero?» buttò là
a un tratto Stefano.
«Allora chissà quante ne vedremo; nessuno può sapere come andrà a fini-
re» disse Ambrogio. In quei giorni aveva sentito più d’una volta ricordare che
venticinque anni prima la ‘grande guerra’ era stata dichiarata nella certezza
che si sarebbe conclusa subito, e invece.
Unico ilare era il bambino: «Vi dico la verità: io se la guerra viene, sono
contento» dichiarò; gli brillavano gli occhi.
«Tu va fuori a giocare» gli ripeté Igino.
Quello, strabuzzando un po’ il musetto, finì la sua mezza razione di amaro,
poi sgattaiolò via, perplesso in cuor suo per la pusillanimità dei grandi.
Anche Igino tuttavia non era d’accordo con Ambrogio. «Adesso non è come
l’anno scorso, che non si poteva sapere chi avrebbe vinto» gli fece osservare:
«Adesso i francesi e gli inglesi non fanno che prenderle e scappano dappertut-
to Se entriamo anche noi, la vittoria è sicura.»
«Mm.» Ambrogio fece segno di no con la testa. «In queste cose non si può
mai essere sicuri» concretò meglio la propria convinzione.
«Eh!» lo approvò cordialmente Stefano, ricordando gli ammonimenti pa-
terni.
«No» insisté Igino, e con un’inaspettata punta d’acredine: «L’Inghilterra e
la Francia stavolta qualcosa devono mollare. I nodi, cari miei, sono arrivati al
pettine. Ecco, non possono continuare a tenersi tutto per loro, e privare noi di
un minimo di... di...»
Ambrogio lo guardò sorpreso.
Se n’accorse Castagna che: «Parla o no come Alfeo alle riunioni del premili-
tare?» disse ammiccando, poi si mise a ridere compiaciuto anche per
quest’altra battuta, approvandosi col testone. (Alfeo, sottufficiale in congedo,
era uno dei pochi in paese a credere nel fascismo; per meglio dire ci credeva
con una metà della testa, l’altra metà risentendo dell’opinione dominante a
Nomana, e un po’ dovunque in Brianza, secondo la quale il fascismo era qual-
cosa di semplicemente estraneo: un fenomeno con motivazioni, sviluppi e
sbocchi altrove, fuori di qui.)
Senza far caso a Castagna, Igino seguitava a fissare gli altri due, in partico-
lare Ambrogio, quasi sfidandoli a controbattere.
«Ma Igino... vorresti metterti coi tedeschi?» fece Ambrogio piuttosto fra-
stornato. «Coi nazisti?»
«Questo non m’interessa» disse Igino. «Che m’interessa... beh, ve l’ho già
detto.»
«Ma perché non lo fanno segretario del fascio, questo qui?» continuò nel
suo scherzo Castagna.
«Dì, cos’è che ti attira?» volle sapere Ambrogio. «Dimmi la verità: è lo spiri-
to d’avventura, la voglia di metterti anche tu alla prova? Te lo chiedo perché
anch’io, in certi momenti, questo lo sento.»
Igino lo guardò perplesso. «No. L’avventura? Cosa diavolo vuoi dire?»
«Lo spirito d’avventura, il gusto del rischio insomma.»
«No, Ambrogio, macché. Semplicemente è come dico: che le nazioni ricche
stavolta devono mollare, perché è arrivato il momento.»
«Ma allearci coi nazisti...»
«Con chiunque, anche col diavolo se non c’è altro modo.»
«Questa poi!» esclamò Ambrogio, guardando gli altri due.
«Beh, ascoltate me, è inutile che discutiamo» fece con molto buon senso
Stefano: «Tanto noi non possiamo decidere proprio niente.»
Su questo Igino fu d’accordo. «Un altro po’ d’amaro?» propose.
Castagna tese il bicchiere: «Ho sete» disse.
«Allora ci vuole il vino» osservò l’ospite, alzandosi in piedi.
«No, aspetta» obiettò Ambrogio: «è meglio che voi due torniate dalla Pa-
squaletta, gli altri vi staranno aspettando. Ci siamo visti e salutati, per stasera
basta.»
«Sì, però un bicchiere lo possiamo bere» disse Igino. Andò alla credenzina,
ne tolse una bottiglia di vino già iniziata e quattro bicchieri. Riaccostò col go-
mito il battente della credenzina dietro il cui vetro era fissata una vecchia fo-
tografia: il gruppo scolastico, nientemeno, della loro seconda classe elementa-
re. Mentre tornava al tavolo Igino lo indicò con la testa agli altri: «Se invece di
un semestre chiamavano tutta la classe, oggi potevamo combinare un addio
alle coscritte.»
Gli altri convennero sorridendo; Ambrogio, alzatosi, si accostò alla fotogra-
fia che ricordava bene. Protese la testa a osservarla: «Guardale qui: Paolina
coi riccioli, Olga, la Teresa Conti. E Stellina, guarda... povera Stellina!»
«Quella è rimasta nana» mormorò Igino.
Ambrogio annuì: «Noi allora non ce ne rendevamo conto: ci sembrava sol-
tanto un po’ più piccola delle altre. Nemmeno lei allora capiva.»
«Sì» disse Stefano: «Dopo però non è più cresciuta, è rimasta com’era, o
press’a poco.»
Di fronte a questo fatto anche Castagna tentennò pensoso la grossa testa.
«Si è presa anche lei i pugni che noi maschi durante la ricreazione davamo
alle bambine, vi ricordate? per fargli vedere che eravamo più forti di loro» dis-
se Ambrogio. «Che animali eravamo. Se ci penso.»
«Beh» fece Igino mentre versava dalla bottiglia: «erano sempre pugni di
bambini di otto anni.»
«Ma a loro, alle bambine, facevano male» replicò Ambrogio; «tant’è vero
che ogni tanto qualcuna si metteva a piangere, non ti ricordi?»
«La Iole specialmente, è vero» convenne a questo proposito Igino: «Come
si ribellava quella.»
«Dov’è che non la vedo?» Alla scarsa luce della lampadina Ambrogio la cer-
cò nella fotografia finché la individuò: «Ah, eccola qui.»
Era una bimbetta in grembiulino nero e braccia conserte come le altre, ma
più bionda: l’unica d’un biondo veramente dorato; e aveva lineamenti singo-
larmente vispi, molto intelligenti.
«Che fine ha fatto, poveraccia!» mormorò Stefano.
«È ancora... via?» s’informò Ambrogio.
«Sì, certo» disse Stefano: «chissà se uscirà mai dal manicomio.»
«La stessa fine di sua sorella maggiore» osservò Igino.
Ambrogio tornò al tavolo, Igino gli spinse davanti un bicchiere pieno.
«Anche senza la guerra, quanti guai nella vita» disse Ambrogio prendendo
il bicchiere.
«E a sentire mio padre la guerra è ancora peggio, è senza confronto peggio»
disse Stefano. «Una cosa che uno non se la può nemmeno immaginare. E se lo
dice lui» aggiunse «vuol dire che è così.»
I quattro compagni si guardarono in faccia: in fondo erano acerbi a queste
cose. Di lì a un po’ Igino fece: «Beh, se noi due dobbiamo proprio tornare dal-
la Pasqualetta, sarà bene che ci decidiamo.»
Vuotati rapidamente i bicchieri, s’alzarono in piedi tutt’e quattro e
s’avviarono verso la porta.
«Voi due, se vi va bene, al distretto domani v’accompagno io con la macchi-
na» disse all’ultimo momento Ambrogio. «È appunto di questo che volevo
parlarvi. Siccome c’è posto anche per un altro, si potrebbe magari avvisare
Pierello. Sta giù dalla Pasqualetta?»
«No» rispose Igino.
«Beh, non importa: ad avvisarlo ci penso io» disse Castagna, che al pari di
Pierello abitava nella frazione Lodosa.
«D’accordo. A che ora ci troviamo qui?», chiese Ambrogio.
«Hai proprio deciso d’accompagnarci?» disse Igino mentre apriva la porta.

CAPITOLO SETTIMO

Il giorno seguente, di primo pomeriggio, dopo avere ottenuto dal proprio


padre il permesso, Ambrogio arrivò alla casa d’Igino in automobile. Secondo il
programma sarebbe poi dovuto passare con l’amico dalla frazione Lodosa a
prendere anche Castagna e Pierello, ma non ce ne fu bisogno, perché i due
erano già qui in attesa.
Castagna teneva sotto braccio un pacchetto legato con lo spago, e aveva nel
roseo faccione una sfumatura d’inquietudine; Pierello -che si era al momento
liberato, deponendolo su una sedia, del proprio pacchetto - era un ragazzo
d’aspetto solido e insieme mite, con la testa rotonda e capelli e occhi marrone
chiaro; salutò Ambrogio con un sorriso accattivante: «Se mi vuoi son qui
anch’io (se te me vöret sun chi an’mì)» dichiarò, quasi non fosse stato invita-
to, e in risposta alla cordiale pacca di lui allargò le braccia e alzò gli occhi al
cielo, precisamente come Ambrogio s’aspettava. Aveva infatti questa singolare
abitudine Pierello: di allargare per motivi minimi, e talora anche senza moti-
vo, le braccia, e alzare gli occhi al cielo, nel gesto di chi si arrende al destino.
Anche Igino era pronto: la sua valigetta di fibra attendeva presso la porta,
verticale sul pavimento. Insofferente d’indugi egli si volse addirittura alla ma-
dre per prendere congedo, ma la donna protestò: «Cos’è questa furia, Igino?»
disse. «Vi rincorre forse qualcuno? Aspetta un momento, su.» Andò alla cre-
denza, ne tolse un bicchierino per Ambrogio e lo mise sul vassoio di latta
ch’era sopra il tavolo insieme con la bottiglia dell’amaro e alcuni bicchierini
usati da poco: «Un po’ di amaro, Ambrogio? Vuoi restare servito?»
«Dai mamma, ti prego, non farci perdere tempo» brontolò Igino.
«Sì, grazie» rispose invece Ambrogio, e a Igino: «Cos’è ’sta fretta? Mica vai
a nozze. Eh!»
«Giusto a nozze...» mugugnò Castagna.
La madre versò il liquore, colmando con cura il piccolo bicchiere fino
all’orlo; quindi si tirò in disparte e sorrise con timidezza al figlio.
Ma Igino ne aveva ormai abbastanza. Sbuffando versò quanto rimaneva
dell’amaro - due mezze razioni - nei bicchierini di Castagna e di Pierello, poi
afferrò la propria valigetta e avvicinatosi alla madre: «Salutami il padre» le
disse. «E quanto a te cerca di non tormentarti senza ragione: la guerra non c’è
ancora. Hai capito? Non c’è e potrebbe non venire mai. Beh, ciao» concluse.
Poiché la madre non si risolveva a porgergli la mano, le strinse un polso, si
voltò e uscì di casa.
La donna si coprì allora il viso con le mani, e cominciò a piangere sommes-
samente. Gli altri, ingollato il loro amaro, la salutarono impacciati, tranne Ca-
stagna che nel lodevole intento di risolvere in modo spiritoso la situazione, si
mise a cantare una strofe che gli era venuta lì per lì alla bocca:
‘Piangeranno, piangeranno questi sassi,
le ragazze di questa via,
è il Ventuno che va via...’
Fu subito evidente quanto disdicevoli fossero tali parole: lo stesso Castagna
se ne rese conto, e per correggerne di qualche modo l’effetto eseguì mentre
usciva di casa una sorta di piroetta, cioè fece in definitiva il pagliaccio. Al che
Ambrogio tentennò il capo con indulgenza; Pierello, volgendosi alla donna,
agitò le dita della destra davanti alla fronte a significare che quello era un po’
matto, poi, alzati gli occhi al cielo, allargò le braccia alla sua maniera.
Nell’automobile i tre coscritti sedettero ciascuno col suo piccolo bagaglio
sulle ginocchia; la madre li aveva seguiti in strada e li guardava premendosi la
bocca. Ambrogio mise subito in moto e, tra l’emozione e l’imperizia (aveva
preso la patente appena l’anno prima), partì con una sorta di balzo.
Attraversarono il paese per il mezzo. Tremilacinquecento abitanti: non era
un gran paese; le case, in genere di due o tre piani, piuttosto disformi, erano
venute su in epoche diverse intorno e dentro un nucleo più antico e più uni-
forme. Tale nucleo - che tuttora in qualche modo caratterizzava l’insieme -
comprendeva alcune vecchie corti, o residui di corti, con portici formati da
colonne di mattoni e ballatoi di legno. Abitate attualmente da operai, e non
più come in origine da contadini, riattate in vari modi, avevano un aspetto a
mezzo tra agreste e da periferia urbana.
I partenti notarono sui muri alcune scritte in calce fresca (erano state trac-
ciate durante la notte): ‘Viva il 21 classe di ferro’ oppure ‘Se parte il 21 per il
dolore - tutte le donne si fanno suore’ e simili; le conoscevano già, e si limita-
rono a indicarsele con un mezzo sorriso.
Mentre passavano davanti alla corte più grande del paese, che unica era ri-
masta contadina, Ambrogio lanciò un’occhiata al suo interno attraverso
l’ingresso ad arco scemo sormontato dalla sigla ‘A.D. 1777’: intravide da una
parte carri agricoli colmi d’erba lasciati in posizioni diverse; dalla parte oppo-
sta c’erano invece donne sedute sulle sedie a rammendare e chiacchierare: tra
le donne e i carri correva un branchetto di bambini, e quasi alla stessa altezza,
ma assai più velocemente e sulle ali, uno sciame di rondini.
«Nella corte di Sansone» egli disse indicandola con la testa, e rompendo il
silenzio «non so se ci avete fatto caso, ma ci son sempre le rondini.»
«Anche d’inverno?» domandò Castagna, ricominciando a fare lo spiritoso.
Gli altri due che - come lui del resto - avvertivano in cuore una gran sospen-
sione nel lasciare per la prima volta il paese natale, sorrisero per compiacenza.
«Volevo dire» seguitò Ambrogio, voltandosi ilare verso Castagna «che men-
tre in tanti posti le rondini non fanno il nido, anche se magari la gente ce le
vorrebbe, qui, in questa corte, lo fanno ogni anno in buon numero.» «Beh,
sarà per via dei moscerini» cercò di spiegare Igino, interessato a mezzo: «Con
tutti quei letamai...»
«A casa mia qualche volta lo fanno sotto il portichetto della legnaia» conti-
nuò Ambrogio, «non tutti gli anni però, anzi abbastanza di rado.»
«Sfido io» disse Igino: «tuo fratello gli lega i nastri alle zampe, capirai.»
«Cosa? I nastri alle zampe delle rondini?» fece incuriosito Pierello.
Ambrogio assentì. «È stato Pino. Una volta le ha prese sul nido, genitori e
novelli, e le ha segnate, per controllare se sarebbero state le stesse a tornare
l’anno dopo: gli ha legato un paio di centimetri di nastro rosso a ciascuna.»
«E allora?» domandò Castagna, lui pure incuriosito: «Le rondini sono poi
tornate o no?»
«Macché. Per due anni non se n’è più vista una in legnaia, né di quella fa-
miglia né di altre.» Tutti sorrisero approvando.
Nel percorrere la via Santa Caterina, che usciva di paese verso sud, passa-
rono davanti a ‘I dragoni’, la villa della vecchia signora Eleonora, quella vestita
sempre di nero a lustrini, che Ambrogio e Stefano avevano vista in piazza la
sera prima. Sulla facciata ottocentesca dell’edificio stretto tra due corti non
più rurali - s’allineavano otto medaglioni d’una pietra di grana fine, simile
all’arenaria, coi profili e i nomi dei più illustri milanesi del secolo scorso; il
portone era, come sempre, chiuso.
Ambrogio trasse lo spunto da questo particolare per proseguire in qualche
modo la conversazione: «Io quel portone non l’ho mai visto aperto» disse in-
dicandolo con la testa, «mai. E voi?»
«Neanch’io» gli rispose Igino «A quel che si sente, lo aprono soltanto una
volta all’anno, per far entrare i carri della legna da ardere.»
«È vero. Però una volta non era così« disse Pierello: «Quand’ero bambino
mia nonna raccontava che ai suoi tempi le carrozze andavano e venivano per
quel portone, perché allora a ‘I dragoni’ davano un montone di feste. Povera
donna! Ci raccontava queste cose come si raccontano le panzane.» (Panzana è
voce lombarda per fiaba.)
«Boh. Ai tempi la gente» brontolò Igino con disapprovazione «faceva una
vita ancora più grama d’adesso: i padroni, se i contadini non gli ubbidivano,
erano capaci di prenderli a schiaffi.»
Queste parole distrussero il principio d’incanto prodotto da quelle di Pierel-
lo. Ambrogio osservò con la coda dell’occhio Igino che gli sedeva a fianco: ave-
va come sempre la faccia tirata e i capelli alla istrice: “È di cattivo umore per-
ché va sotto la naia” pensò; “il dono di dire cose sgradevoli però ce l’ha fin da
bambino”. Ad ogni modo era fatto così, prenderlo o lasciarlo, e lui non era di-
sposto a lasciarlo: fra gli ex compagni di scuola Igino era quello che abitava
più vicino a casa sua, quello con cui da bambino aveva forse giocato di più.
«Questi comunque» non mancò di precisargli «non erano proprietari ter-
rieri. La signora Eleonora da giovane faceva la cantante.» Si volse anche agli
altri: «Lo sapete no?»
Soltanto Pierello ne era al corrente.
«In seguito» continuò Ambrogio «una volta sposata, suo marito, che era
milanese come lei, non ha più voluto che cantasse: per via degli ammiratori,
mi capite.»
«Sì, è vero» convenne Pierello: «mia nonna raccontava anche questo. Beh,
dovevano volersi un gran bene quei due, se lei l’ha accontentato.»
«Ma così hanno rinunciato a dei bei soldi» fece notare Igino, stropicciando
tra loro l’indice e il pollice della destra: «e per cosa? per la gelosia. Mah!» Di-
sapprovò di nuovo con la testa.
«Poi» andò avanti Ambrogio «il marito è morto, e in seguito le è morto an-
che il figlio in guerra. Aveva quel figlio solo, povera diavola.»
«Era ufficiale, vero?» disse Pierello.
Ambrogio annuì: «Sì, sottotenente, mi pare di cavalleria. È morto che aveva
press’a poco vent’anni.» Fece una pausa, non tuttavia perché turbato da quella
morte. Vent’anni sarebbe stata presto la loro età, ma quell’episodio era tal-
mente lontano... Ambrogio si stava ponendo tutt’altro problema: «C’è una co-
sa che non riesco a capire» disse: «ed è dove diavolo la vecchia trovi quegli
strani vestiti che si mette. Nessuna sarta o industria fa più vestiti come quelli:
e allora dove li piglia?»
Intanto la villa gentilizia dal nome soldatesco, ‘I dragoni’, era rimasta indie-
tro; poiché la via santa Caterina, eseguita una curva a gomito, scendeva ora a
valle, guardando verso sinistra i quattro ragazzi ne avrebbero potuto vedere
l’antico giardino digradante tra i campi. Chissà se la vecchia signora, che ave-
va avuta la vita due volte spezzata, passeggiava mai in quel giardino solitario?
Non uno dei quattro si pose tuttavia la domanda. Erano tutt’e quattro molto
giovani: per loro la signora Eleonora e la sua storia di dolore costituivano una
sorta di componente del paesaggio, come fossero esistite da sempre, al pari
delle vecchie case, o addirittura delle montagne che chiudevano l’orizzonte
dall’altra parte di Nomana.

CAPITOLO OTTAVO

La strada seguitava a scendere, non più acciottolata come in paese, ma


asfaltata e liscia, così che solo a guardarla metteva addosso voglia di correre.
Ambrogio aumentò la velocità, e ancor più premette l’acceleratore quando si
ritrovò di lì a poco sulla via provinciale. La quale percorreva, con su e giù con-
tinui, un paesaggio di verdi colline intensamente coltivate e ricche d’alberi,
sopra tutto di gelsi.
Adesso la Millecento correva davvero. Peccato - pensava in confuso il ragaz-
zo — avere per meta il distretto militare; quanto meglio sarebbe stato se si fos-
se trattato d’una passeggiata senza meta, come ne aveva fatte l’estate prece-
dente per esercitarsi nella guida... Nonostante la sua buona volontà egli non
riusciva a compenetrarsi veramente dello stato d’animo degli altri; del resto -
argomentava incerto tra sé - la guerra in fin dei conti non c’era, e forse non
sarebbe venuta mai. Ad ogni modo (almeno questo speriamolo fermamente)
non nel corso della presente vacanza... Perché oggi - non va dimenticato - era
il suo primo giorno di vacanza, e di una vacanza diversa da tutte le altre, al cui
termine lo aspettava non il collegio ma l’università, cioè un’esperienza nuovis-
sima. Simili pensieri rimestava in confuso, tenendosi però con l’attenzione
sempre in superficie, pronto a intervenire sul volante o sul freno.
Molto diverso ovviamente era lo stato d’animo dei suoi tre compagni, nel
quale prevaleva un fondo di sospensione ed inquietudine, abbastanza dissi-
mulate in Igino, meno in Castagna e ancor meno nel viso mite dell’operaio di
ferriera Pierello. Il quale ultimo, per far qualcosa, s’aggiustava ogni tanto sulle
ginocchia il proprio pacchetto d’indumenti legato con lo spago. La vita milita-
re, la naia! Tutt’e tre ne avevano fin dall’infanzia sentito parlare in termini
sgradevoli, salvò che in relazione a qualche scherzo poco comprensibile (di cui
magari erano state bersaglio proprio le reclute); se poi connessa con la guerra,
la naia veniva ricordata dagli anziani come qualcosa d’indicibilmente tragico...
Va bene che adesso la guerra non c’era, quanto meno non c’era ancora (per
fortuna! questa sì era una buona cosa!) Rimaneva comunque il fatto, per cia-
scuno dei tre, che tra poco si sarebbe trovato, del tutto privo di gradi, alla
mercé di chiunque un grado ce l’avesse: e in più, per la prima volta in vita sua,
fuori del proprio ambiente natale, in un mondo sconosciuto.
La strada, lasciata sulla destra la frazione Raperio di Nomana, calò verso
una larga spaccatura del terreno fittamente ammantata di boschi, in cui scorre
il fiume Lambro; superati spaccatura e fiume su un lungo ponte in cemento
armato a due sole imponenti arcate, risalì un poco, fino ad affiorare alla pia-
nura. La quale da qui si estende, come i quattro sapevano, per chilometri e
chilometri, ben oltre Monza e Milano, fino alla catena degli Appennini, che da
Nomana è visibile solo nei giorni più limpidi tant’è lontana.

Uno dopo l’altro i paesi della pianura briantea - a cominciare da Incastigo,


ubicato subito dopo il ponte - restarono indietro con le loro case vecchie e
nuove, e i giardini verdi, e le molte piccole e medie fabbriche; li circondava la
campagna, che gli mandava contro ondate d’erba, quasi volesse arginare e co-
prire le ferite inferte al bel paesaggio.
Poco prima di Monza, dove aveva inizio il muro del parco reale (quello, per
intenderci, in cui hanno luogo le gare automobilistiche), la strada s’allargò
trasformandosi in un viale ombreggiato da due ininterrotte file di platani
enormi, costeggiò per un paio di chilometri il muro del parco, e passò infine
davanti alla grande villa dei viceré austriaci. Subito dopo ecco le vie cittadine,
percorse da piccoli autobus ariosi, diversi da quelli di Milano. Ritrovarono di lì
a poco il Lambro, che mentre sotto il grande ponte d’Incastigo scorreva limpi-
do, con lunghe alghe verde-smeraldo inclinate nel senso della corrente, qui
era d’un colore sporco e quasi plumbeo; lo seguirono fino alla palazzina del
distretto militare, situata sull’altra sponda del fiume e collegata alla loro stra-
da da una spigolosa passerella di ferro. All’altezza della quale Ambrogio fece
alt e spense il motore; scesero tutt’e quattro.
Su entrambi i marciapiedi c’erano ragazzi della loro età, riuniti in crocchi,
qualcuno percorreva la passerella, altri si intravedevano assembrati nel cortile
del distretto; tutti impugnavano una piccola valigia o avevano un pacchetto
sotto braccio.
«Che cagnara, che cagnara!» brontolò Igino, già di malumore. Dopo di che
si volse ad Ambrogio: «Beh, grazie e ciao.» Mostrava la stessa fretta che aveva
mostrata a Nomana nel congedarsi dalla madre.
«Aspetta» gli disse Ambrogio, portato anche da quella fretta a indugiare:
«qui sulla strada ho visto un bar. Siccome io non parto, son tenuto a pagarvi
da bere, no?»
«Lascia perdere» fece Igino, sorridendo infastidito.
«Sì, è meglio, lascia perdere» gli s’aggiunse Pierello, che preferiva anche lui
non indugiare oltre.
Castagna a dire il vero avrebbe desiderato accettare l’offerta, ma davanti al
diniego degli altri due non volle fare la figura dell’assetato e non interloquì.
«No, un momento, sentite...» insisteva ciononostante Ambrogio; ma
s’interruppe a causa d’un richiamo a voce alta e sgraziata che giunse improvvi-
samente dalla passerella: un graduato, e al suo fianco un soldato, la stavano
percorrendo verso la strada, il graduato s’era messo a berciare: «Avanti, venite
avanti, imbranati. Cosa fate lì coi genitali in mano? Cosa credete, che qui ab-
biamo tempo da perdere? O che il treno vi aspetti?»
«Imboscato schifoso» gli oppose a bassa voce Igino, il quale pure aveva po-
co prima deprecato il disordine delle reclute. «Certo che voi imboscati dei di-
stretti avete tempo da perdere. Cos’altro avete?»
Anche Ambrogio guardò con irritazione allo sproloquiante: “Se arrivo a di-
ventare ufficiale” pensò “a chi si permette di parlare in questa lurida maniera
gliene levo io la voglia, la pelle di dosso gli levo”. Poi si volse ai suoi compagni
e sorrise: «A quanto pare la naia è cominciata» disse.
Igino gli strinse la mano e, imbrancandosi con altri, imboccò la passerella.
Castagna rideva perché nel testone a forma di pignatta gli s’era formata
un’idea che lo divertiva; prima d’imboccare a sua volta la passerella si girò
verso la strada e gridò: «Venghino signori, venghino, che più persone entrano,
più bestie si vedono.» Le reclute circostanti sorrisero condiscendenti a tale
decrepita, risaputissima battuta. Il graduato dapprima lo squadrò arcigno, poi
ridacchiò egli pure con aria furbastra: segno che - come del resto i suoi spro-
loqui sessuali facevano presagire - era di facile contentatura. Pierello appoggiò
allora ambe le mani alla schiena di Castagna e lo spinse dentro la passerella,
mentre quello faceva gesti da pagliaccio. Girata la testa verso Ambrogio, Piero
gli lanciò un’occhiata di saluto, e levò anche per un istante gli occhi al cielo, a
commento dell’incoscienza del compagno.
I due militari rastrellarono tutte le reclute presenti e le fecero entrare nel
cortile del distretto; Ambrogio (che per un momento i due avevano cercato di
portarsi via insieme con gli altri) rimase solo sulla strada.

CAPITOLO NONO

Accese una sigaretta.


Che fare? Restar lì in attesa che i suoi tre compagni uscissero diretti al tre-
no? Ne avrebbe saputa la destinazione, e se erano stati assegnati allo stesso
reggimento oppure no. Ma probabilmente avrebbe dovuto aspettare per ore.
Il Lambro scorreva plumbeo oltre la spalletta della strada. “Com’è sporco”
pensò Ambrogio, e vi gettò il cerino spento che aveva trattenuto tra le dita: lo
vide posarsi lieve sulla superficie e subito cominciare a fluttuar via verso la
foce. “Così contribuisco anch’io a sporcare l’acqua” si disse: “poveri pesci”.
Perché, anche se l’acqua era sporca, pesci lì dentro ce n’erano, tanto che poco
più a valle, dove il fiume con una curva artificiale passava sotto il ponte della
ferrovia di Nomana, si potevano sempre vedere dei pescatori dilettanti (in ge-
nere anziani pensionati) curvi a consumare il loro tempo (quel poco che gli
restava) sulla lenza. Quasi ogni volta che passava in treno Ambrogio aveva
occasione di scorgerli.
Sospirò svogliatamente. Allora che fare?
Dal cortile del distretto vennero alcune voci di comando poi, a un tratto, un
trepestio cui s’accompagnava uno smorzato suono metallico: una trentina di
reclute, in fila abbastanza ordinata, entrò nella passerella diretta alla strada.
Guarda, avevano tutte una coperta su una spalla e la gavetta in mano: appunto
dalle gavette proveniva quel lieve tinnio metallico; seguiva il gruppo un unico
militare in divisa.
Ambrogio attese che la testa del drappello raggiungesse la strada, poi
s’affiancò a una delle prime reclute, un rosso di capelli con la faccia seria da
operaio. «Dì, dov’è che andate?» gli chiese in dialetto.
«Mantova, fanteria» gli rispose colui seguitando a camminare.
«Siete di quelli entrati nel distretto poco fa?» domandò ancora il giovane:
«Voglio dire: una decina di minuti fa?»
«No» gli rispose il rosso, e atteggiò il viso a significare: magari! «Noi siamo
pronti almeno da due ore. Adesso andiamo al treno.»
«Ciao» gli disse Ambrogio.
L’altro annuì, e rispose con le dita della mano al suo saluto; Ambrogio si ar-
restò.
Le reclute, tutte della sua classe e anzi del suo stesso semestre,
s’allontanarono verso la stazione ferroviaria con le loro piccole impedimenta,
e quel militare a mo’ di can pastore dietro, sul marciapiede che costeggiava il
Lambro. Non smise d’osservarle: col loro inquadramento approssimativo quei
ragazzi finivano col richiamargli alla mente gruppi e gruppetti similari di
compagni di collegio, diretti per esempio al torpedone per una partita di calcio
o di tennis, chi con la sacca alla spalla, chi sotto braccio, e qualche prefetto in
abito talare dietro. Questi ragazzi però - e qui stava la grande differenza - non
andavano a giocare al calcio o a tennis, ma in una caserma sconosciuta dove li
attendevano, allineate nei magazzini, le armi: fucili, mitragliatrici, mortai...
Improvvisamente il giovane ebbe la sensazione che qualcosa di davvero
nuovo, e solenne, e a lui ignoto, stesse cominciando.
In preda all’emozione gettò la sigaretta nel Lambro senza, stavolta, osser-
varne la traiettoria; poi attraversò assorto la strada, montò sulla Millecento, la
mise in moto.

CAPITOLO DECIMO

Di lì a pochi giorni l’Italia entrò in guerra.


Era il 10 giugno 1940: fin dal mattino la radio aveva comunicato - e nel cor-
so della giornata con insistenza ripetuto - che nel pomeriggio, alle ore diciotto,
il duce avrebbe parlato ‘agli italiani e al mondo’. La gente era invitata ad adu-
narsi nelle piazze, dove sarebbero stati predisposti servizi di altoparlanti. I
fascisti delle varie organizzazioni dovevano convenirvi inquadrati; anche gli
operai dovevano, per quanto possibile, trasferirsi incolonnati dalle fabbriche
ai luoghi d’ascolto.
Nel primo pomeriggio il segretario del fascio di Nomana (il signor Cereda:
un buon diavolaccio un po’ apprensivo per natura, il cui unico titolo politico
consisteva nell’essere ex combattente), aveva telefonato in ufficio a Gerardo,
l’industriale tessile padre di Ambrogio: «Allora signor Riva, senza dubbio lei
ha sentito la radio.»
«Sì, ho sentito.»
«Ecco, volevo solo assicurarmi di questo. Qui a Nomana s’intende che
l’adunata la facciamo davanti al municipio.» Mentre parlava passando, dopo
le prime parole in italiano, al dialetto, udiva distintamente attraversò il telefo-
no battere i telai della fabbrica.
«Ma cosa succede, signor Cereda?» gli aveva chiesto pure in dialetto Gerar-
do. «Non saremo per caso alla dichiarazione di guerra?» «Credo proprio di sì»
aveva risposto, con voce francamente preoccupata, il segretario politico. Sape-
va che il Riva non era fascista (nessuno o quasi - come s’è detto - a Nomana
era fascista, e non lo era neppure lui, il segretario del fascio): il Riva aveva pe-
rò fondato, quand’era ancora giovane capo-tecnico, il primo nucleo
dell’Azione Cattolica in paese, e in seguito la sezione del partito popolare: era
dunque un paolotto arrabbiato, e il segretario politico temeva appunto di sen-
tirlo arrabbiarsi al telefono.
Gerardo però non s’era arrabbiato, si era limitato a dire: «Che Iddio ce la
mandi buona!» con un tono tale che le sue parole, lungi dall’apparire un luogo
comune, erano suonate come reale invocazione a Dio.
«A che ora ha deciso di fermare la fabbrica?» gli aveva chiesto, dopo una
pausa, il segretario politico.
«A che ora? Posso fermare alle cinque e mezza, come al solito. Mezz’ora è
più che sufficiente per arrivare in piazza, no?»
«Facciamo alle cinque» aveva allora detto il segretario: «fermi alle cinque»,
e s’era congedato spiegando: «Devo telefonare anche alle altre fabbriche.»
Mentre posava il ricevitore Gerardo era corso col pensiero a Manno, il nipo-
te orfano cresciuto in casa sua come un figlio: in questo momento si trovava
alla scuola ufficiali: che ne sarebbe stato adesso di quel ragazzo? E anche il
suo maggiore, Ambrogio, era ormai in età militare... Sopra pensiero
l’industriale s’era rivolto a un impiegato:
«Faccia per favore il giro dei reparti e avverta che oggi fermiamo alle cin-
que. E che tutti, uomini e donne, una volta usciti di qui, devono portarsi inco-
lonnati davanti al municipio.»
«E quelli che fanno lo straordinario?» aveva chiesto l’impiegato, un tipo
scrupoloso: «Devo dirgli di tornare qui dopo l’adunata?»
Per un attimo Gerardo era rimasto in dubbio: si dava una tale importanza al
lavoro, lì dentro, che la domanda non gli era sembrata affatto fuori luogo.
«No» aveva infine risposto: «Dopo l’adunata avranno ben altro per la testa.
Per oggi niente lavoro straordinario.»

***
Alle cinque la sirena della fabbrica suonò dunque la cessazione del lavoro, e
a molti quel segnale fuori orario sembrò anche nel suono diverso dal solito, in
qualche modo misterioso e foriero di disgrazie.
Gerardo uscì dopo uno o due minuti dall’ufficio insieme coi suoi non molti
impiegati, dai capannoni stavano uscendo i circa trecento operai che - trattan-
dosi di un’industria tessile - erano per la maggior parte donne. Una volta fuori
del cancello s’incamminarono tutti verso la piazza, Gerardo frammisto agli
altri; gli camminava a lato il figlio Ambrogio. Il sentimento più diffuso era,
con evidenza, di preoccupazione.
«Stavolta è davvero la dichiarazione di guerra» diceva qualcuno.
«Siamo riusciti a starne fuori (restà fö di fastidi era l’espressione dialettale)
fino a oggi, ma dagli e dagli adesso ci caschiamo anche noi.»
Non uno sembrava approvare il passo irrevocabile che stava per essere
compiuto; gli uomini di mezza età - di cui un paio mutilati nella guerra prece-
dente - provavano inoltre una sorta di sconcerto all’idea che ci si dovesse met-
tere coi tedeschi. Com’era possibile, dopo che tanti dei nostri erano morti
combattendogli contro? Anche gran parte delle donne aveva avuto in famiglia
dei caduti, il ricordo dei quali era tuttora doloroso. A prendersela col fascismo
- siccome a Nomana in pratica non esisteva, a livello almeno delle cose serie -
non ci pensava nessuno.
Tranne Gerardo: “È una responsabilità pazzesca questa che i fascisti si as-
sumono, di portare l’Italia in guerra contro la volontà di tutti” pensava cam-
minando. “Perché chi non lo sa che come a Nomana anche nel resto d’Italia
nessuno, signore o poveretto, vuole la guerra? La guerra a fianco dei nazisti
poi!” Pensò al ministro degli esteri Ciano, ai suoi sforzi - incondizionatamente
approvati da tutti - per tenere la nazione fuori del conflitto: “Degli stessi fasci-
sti ce n’è che non vogliono la guerra, e ciononostante...” Gli si affacciavano alla
mente, mentre procedeva, gli anni lontani della sua militanza politica nel par-
tito popolare, le sue cocenti delusioni d’allora. “Eccoli i risultati di quelle be-
ghe senza fine, di quelle lotte immonde tra i partiti democratici, che nel 22
hanno condotta la nazione alla paralisi, e a un tale bisogno di ordine, da farla
cadere come una mela marcia nelle mani dei fascisti...” Lui e i militanti perife-
rici non avevano potuto fare proprio nulla contro quelle beghe irresponsabili
dei vertici.
Gli operai procedevano riempiendo la strada: gli uomini nei loro abiti mo-
desti, le donne quasi tutte in grembiule nero, impercettibilmente impolverato
di canapa; quelle persone lui le conosceva si può dire una per una, doti e difet-
ti; conosceva anche molte delle loro preoccupazioni nascoste, perché gliele
venivano a sottoporre esse stesse, a volte per un consiglio, a volte per un aiuto
economico. Quale sarebbe stata domani la loro sorte?
Lui non aveva certo ‘incolonnato’ gli operai come prescriveva la radio (“le
scemenze dei fascisti!”), stava semplicemente con loro, che di questo gli erano
grati: lo capiva dagli sguardi, dagli atteggiamenti. “Perché, grazie a Dio, nean-
che le scemenze degli altri, dei rossi - i quali sono stati in realtà la causa prima
d’ogni disordine, e quindi dell’affermazione del fascismo - nemmeno le sce-
menze rosse fanno presa su questa gente”. Specificò meglio: “Su di noi. Perché
io in cosa sarei diverso da tutti questi?” Non si sentiva certo diverso solo per-
ché adesso era industriale, lui che all’inizio era stato operaio, e poi per un cer-
to tempo impiegato tecnico, e quanto a titolo di studio era rimasto alla quinta
elementare, precisamente come tutti costoro. E in effetti la sua formazione
mentale - al pari di quella di quasi tutti gli altri industriali della zona - si man-
teneva popolare e cristiana, come quella della restante popolazione. (Proprio
questo fatto, che gl’industriali fossero d’estrazione popolare, aveva nei decenni
precedenti consentito alla cultura cristiana del popolo di venire a galla e af-
fermarsi in ogni ambito. Perché fino a quando erano prevalsi anche qui i pro-
prietari terrieri, d’impostazione liberale e massonica come nel resto d’Italia,
gli indirizzi culturali del popolo che risalivano a san Carlo e alla riforma catto-
lica, non avevano potuto esplicarsi che a livello subordinato. Da quando però
l’importanza dei proprietari terrieri era stata surclassata e addirittura cancel-
lata da quella degli industriali d’origine operaia, l’ambiente della Brianza si
era fatto uniformemente ‘bianco’. Di ciò l’autodidatta Gerardo - e non lui solo
- non aveva tuttavia cognizione.)
Al fianco di Gerardo suo figlio Ambrogio rimescolava pensieri affatto diver-
si: pensava a quelli che in questo momento si trovavano sotto le armi, a suo
cugino Manno anzitutto, che per lui era come un fratello, e ai suoi due compa-
gni Pierello e Igino. In che situazione si sarebbero venuti a trovare tra qualche
ora? Li avrebbero scaraventati subito nella fornace che certo si sarebbe forma-
ta al confine francese? A lui pareva infatti scontato che fin da domani, anzi da
stasera stessa, si sarebbe formato al confine con la Francia un tremendo fron-
te di combattimento, analogo a quello che c’era stato con l’Austria nella guerra
precedente.
Mentre il giovane rimescolava tali pensieri gli capitò d’incontrare lo sguar-
do d’un operaio, il meccanico Luca, di due anni più anziano di lui e perciò coe-
taneo di Manno, del quale anzi questo Luca era buon amico fin dal tempo del-
la scuola elementare: Ambrogio fece istintivamente a Luca un cenno di saluto
e di preoccupazione insieme.
Il meccanico, che camminava pochi passi più avanti, si fermò e lo attese: era
un bel ragazzo dalle spalle robuste, con un ciuffo di capelli attraverso la fronte.
«E Manno?» chiese non appena raggiunto: «Cosa diavolo gli succederà ades-
so?»
«Me lo stavo appunto domandando» rispose Ambrogio.
«Ho paura che lui si troverà subito nel bagno.»
«In questo momento è al corso ufficiali: dovrebbe finire in agosto. Vuoi che
lo mandino addirittura al fronte?»
«Mah» disse Luca «queste cose io non le so. Si trova a Pesaro, è vero?»
Ambrogio annuì: «Sì. Ma dì, e i tuoi fratelli?»
Il meccanico allargò preoccupato le braccia: «Anche loro chissà.» «Dove
sono adesso?»
«Tutt’e due sopra Bolzano.»
«Alpini vero?»
Luca fece segno di sì, poi precisò meglio: «Angiolino (’El me Angiulin’) è ar-
tigliere da montagna.»
Gerardo, che aveva seguito in silenzio lo scambio di frasi, fece a Luca un
cenno di simpatia. Sapeva quanto fosse amico di suo nipote Manno, ricordò
anzi di avere molto approvato, a suo tempo, che i suoi figli (dunque anche
Manno) seguitassero a frequentare, una volta divenuti collegiali, i loro ex
compagni di scuola operai. «Questo vi aiuterà a tenere i piedi sulla terra»
usava dire allora.
Alle finestre delle case erano affacciate un po’ di donne e di bambini che
guardavano tutta quella gente passare. Sull’uscio della farmacia c’era il farma-
cista dottor Agazzino, in camice bianco: salutò Gerardo con un cenno della
testa. L’industriale gli rispose cortesemente sollevando la falda del cappello;
ricordò che anche il farmacista - piacentino d’origine - era stato al suo paese
un attivo militante del partito popolare. “Per quello che è valso...” pensò.
Poco mancava alla piazza quando il signor Ermanno Ghezzi, magazziniere,
che camminava sull’altro lato di Gerardo, pensò bene di riferire un episodio di
guerra. «Mio padre nella grande guerra era sergente delle salmerie» cominciò:
«Sapete che uomo era mio padre, non c’era da scherzare con lui. Una volta che
un conducente di muli, per non percorrere un tratto battuto dalla mitraglia...»
si addentrò in una storia intricata. I circostanti - Ambrogio compreso - avreb-
bero preferito non essere disturbati nei loro pensieri, ma finirono col prestar-
gli attenzione.

CAPITOLO UNDICESIMO

In piazza c’era già un po’ di gente in attesa. Guardavano tutti l’elettricista e


insieme idraulico del paese che si dava un gran da fare intorno a due altopar-
lanti applicati in modo alquanto fortunoso alla facciata del municipio.
La corrente degli operai (sensibilmente diminuita perché durante il percor-
so non poche madri di famiglia se n’erano staccate per andarsene a casa) si
arrestò dietro la gente in attesa. A una finestra del municipio si affacciava ogni
tanto il segretario politico signor Cereda, il quale a un tratto chiamò, agitando
una mano, uno dei tre o quattro uomini in camicia nera ch’erano pure in atte-
sa in un crocchio a parte. Questi s’affrettò ad accorrere sotto la finestra. Il se-
gretario gli disse qualcosa e l’uomo si trattava di Alfeo, capo dell’istruzione
premilitare - si portò a passi energici di fronte alla folla: «Quelli davanti devo-
no formare una riga diritta» prescrisse. e siccome la gente, pur guardandolo,
non si decideva a ordinarsi: «Ecco: così, così, e così...» provvide egli stesso ad
allinearne alcuni, al modo che faceva coi suoi allievi; gli altri allora si allinea-
rono da sé.
Il segretario controllava dalla finestra, approvando: dietro la riga allineata
da Alfeo la gente seguitava a far macchia, ma il segretario non se ne diede
pensiero. “Sono contrari alla guerra” pensava, “lo credo bene. Chi potrebbe
essere così bestia da volere la guerra? Però una cosa è certa: che al fronte que-
sti briantei (brianzö) non faranno forse l’eroe, ma il loro dovere lo faranno
anche nelle situazioni più bestiali. a differenza magari di quegli scalzacani di
studenti che oggi gridano ‘viva la guerra’.” Avendo partecipato al conflitto pre-
cedente sapeva quel che diceva. “Cos’altro dunque” concluse “potrebbe volere
da me il partito?” si ritirò dalla finestra; Alfeo tornò al suo piccolo crocchio.
Gerardo, Ambrogio e Luca erano capitati accanto a un gruppo in cui ponti-
ficava in dialetto un tizio dall’aspetto sgradevole, che essi conoscevano solo di
vista: il signor Pollastri, impiegato della previdenza sociale a Incastigo Costui,
al fine di farsi sentire da un ascoltatore autorevole come Gerardo, aveva raf-
forzata un po’ la voce: «I tedeschi ormai la vittoria ce l’hanno in tasca» soste-
neva: «Vi rendete conto? Appena un mese fa - anzi giusto un mese fa, come
dice il giornale, cioè il dieci maggio - hanno attaccato il Belgio e l’Olanda e so-
no passati come nel burro, e anche tutta la prima linea francese ha dovuto ce-
dere. E il corpo inglese? Quel poco che s’è salvato, s’è salvato scappando come
le lepri.»
Alludeva a Dunkerque; Ambrogio sapeva che colui diceva il vero, perciò la
cosa gli riusciva ancor più insopportabile. Al pari degli altri giovani educati
nelle scuole cattoliche d’élite di Milano, egli conosceva il giudizio ripetuto dal
papa Pio XI - milanese, anzi brianteo - ai visitatori più preparati della sua ex
diocesi di Milano: essere nazisti dei veri e propri anticristi nel senso evangeli-
co del termine. Che il nazismo potesse ora impadronirsi davvero, tutt’a un
tratto, dell’Europa - come le sue attuali strepitose vittorie militari facevano
temere - era per Ambrogio e per i suoi compagni di scuola, se pur in confuso,
una prospettiva così intollerabile che essi non accettavano nemmeno di pren-
derla in considerazione.
«E quest’altro attacco dei tedeschi, che è cominciato pochi giorni fa?» con-
tinuava il Pollastri: «Non avete letto il giornale? Hanno già fatto a tocchi tutta
la nuova linea francese, e ormai stanno marciando su Parigi: nessuno li può
più fermare. È così o non è così?»
Sembrava che le cose stessero precisamente così, purtroppo. “È per questo
dunque che anche noi saltiamo addosso alla Francia?” gli oppose mentalmen-
te Ambrogio: “Come hanno fatto i russi con la Polonia l’anno scorso,
quand’era già in ginocchio? Che schifo!” Era una prospettiva talmente ignobile
che... il giovane finì col voltare le spalle al Pollastri. Da quest’altra parte un
gruppo d’operai della ditta osservava con crescente interesse i tentativi
dell’elettricista-idraulico per mettere in funzione i suoi due apparecchi:
«Guarda il Pirovano Oreste, guardalo.»
«Non se la cava mica.»
«Macché.»
«Oreste, sta attento di non cadere dalla scala.»
«Guardalo, batte con la mano sull’altoparlante perché si decida a parlare.»
«Allora Oreste? Si decide o no?»
«Forza, pestalo più forte.»
Questi frizzi dispiacevano all’elettricista della ditta, Tarcisio (quell’operaio
alto di statura e ricciuto - ardito nella precedente guerra - che Ambrogio e Ste-
fano dieci giorni prima avevano visto attraversare la piazza diretto a benedi-
zione) il quale era buon amico del Pirovano Oreste. «Sono apparecchi che
vengono usati di raro» cercava perciò di spiegare Tarcisio a chi gli stava vici-
no: «Per questo Oreste ha difficoltà a farli funzionare. Quand’è che li avranno
usati l’ultima volta? Forse al tempo delle sanzioni.»
«Oreste» gridò allora uno dei motteggiatori: «sta attento che se non riesci a
farlo funzionare, Alfeo ti mette le sanzioni.»
A questa uscita anche Luca, ch’era un ragazzo solitamente serio, scoppiò a
ridere di gusto. Dovette ridere per forza anche Tarcisio, disapprovava però con
la testa.
Intanto altra gente arrivava nella piazza e si disponeva a tergo dei presenti.
Uscirono di chiesa anche il prevosto e il coadiutore don Mario, che rimasero in
attesa nel pronao, passeggiando tra le colonne di serizzo con aria preoccupata.
Improvvisamente nell’aria esplose un tremendo boato, che si prolungò con
alti e bassi fino a quando il Pirovano Oreste non ebbe regolato il volume dei
suoi apparecchi: allora si tramutò nelle acclamazioni della folla romana in at-
tesa della parola del duce. Il segretario politico, accorso alla finestra del muni-
cipio per vedere cosa stesse succedendo, si affrettò a questo punto a scendere
in piazza e a mettersi davanti alla gente. L’annunciatore da Roma descriveva
esaltato i labari, i manipoli, la folla ‘oceanica’ (termine questo che - come
l’altro, ideologicamente opposto ma non meno disumanizzante, ‘le masse’ -
qui dava sui nervi a più d’uno); alle descrizioni si alternavano pezzi di musiche
marziali. Finalmente, acclamato da rinnovate altissime grida, si apprese che
s’era affacciato al balcone di palazzo Venezia Mussolini.
Questi, ottenuto il silenzio (certo con uno dei suoi gesti risoluti) cominciò a
parlare: «Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivolu-
zione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’impero e del regno
d’Albania, ascoltate. Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra
patria, l’ora delle decisioni irrevocabili.» Di nuovo dagli altoparlanti si riversa-
rono scrosciantissime grida ed acclamazioni, poi si rifece silenzio: «La dichia-
razione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori...» un boato
d’esultanza interruppe il discorso: «agli ambasciatori» Mussolini riprese «di
Gran Bretagna e di Francia...» Interruppero di nuovo il discorso altre urla
giubilanti, e acclamazioni, e fischi all’indirizzo di quelle nazioni.
Qui a Nomana nessuno vi si univa. Alfeo e tre o quattro dei suoi ci s’erano
bensì provati, ma come a mezza voce, e avevano smesso subito.
Il punto era un altro, ed era che ormai non esistevano dubbi, cominciava la
guerra, la più terribile delle calamità collettive nel tempo moderno. Tutti quei
popolani ricordavano le invocazioni dei loro preti che s’erano particolarmente
raffittite nelle ultime settimane: ‘A fame, a peste, a bello, libera nos Domine.
Libera nos... Libera nos’.
Il Signore non aveva accolta la preghiera, ecco. Segno che i peccati degli
uomini erano cresciuti fino al punto d’impedirglielo. Da tempo don Mario lo
spiegava così bene: «State attenti: è vero che Dio è amore, ma non può conti-
nuare a trattare gli uomini come bambini irresponsabili...» Chi li aveva com-
messi quei peccati? Dove li avevano commessi? Anche a Nomana, sì, era inuti-
le negare: «Guardate in voi stessi, non cercate lontano» diceva don Mario, e
diceva bene, appena che uno riflettesse. Così adesso non rimaneva che rim-
boccarsi le maniche e far fronte al guaio tremendo in cui ci si stava ficcando,
un guaio nel corso del quale non pochi sarebbero stati uccisi. A quanti del pae-
se sarebbe toccato, e a chi precisamente?
Il discorso continuava: «quarantacinque milioni di anime...» ma ormai la
gente di qui lo seguiva solo per inerzia; ciò che davvero interessava lo si sape-
va: il guaio aveva con certezza inizio. Mussolini concluse: «Popolo italiano
corri alle armi» («Sì, sì» gridava la folla: «Sentili i romani» mormorò a mezza
voce qualcuno con irritazione «e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore.»
Finito il discorso, il segretario politico si girò verso la gente: «Mi raccoman-
do di osservare bene le norme dell’oscuramento» disse con molto giudizio. Poi
levò all’improvviso il braccio nel saluto romano: «Camerati di Nomana, saluto
al duce.»
«A noi» gridarono Alfeo e alcuni altri.
«L’adunata è finita» disse il segretario, e rientrò in municipio; la folla co-
minciò a disperdersi.
CAPITOLO DODICESIMO

Quella sera in casa di Gerardo il rosario quotidiano venne recitato con più
impegno del solito. Le donne - cioè la madre Giulia, e le due figlie maggiori:
Francesca, di diciassette anni e Alma di tredici - erano emozionate, per cui
anche Giudittina, che di anni ne aveva solo cinque, si sforzava di pregare con
devozione, e spalancava a tal fine gli occhietti azzurri per non farseli chiudere
a tradimento dal sonno, come non di raro le succedeva durante quella pre-
ghiera.
«Oggi il rosario lo diciamo per Manno e per la nostra patria» aveva annun-
ciato all’inizio la madre. I giovani maschi non intendevano però lasciarsi sug-
gestionare: «Capito? Dunque per te no» aveva sussurrato, scherzando,
all’orecchio di Ambrogio il fratello che per età lo seguiva, il sedicenne Fortu-
nato. Accettando lo scherzo Ambrogio aveva allargate le braccia: «Vuol dire
che per me pregherete tra qualche giorno, quando sarò anch’io sotto le armi.»
Ad ogni modo, a differenza di Fortunato che a sedici anni già rivelava una
struttura mentale laica e tutta rivolta agli affari, Ambrogio si era poi dedicato
alla preghiera con impegno, come del resto faceva con qualsiasi cosa intra-
prendesse. Al pari degli altri maschi, inclusi il quindicenne Pino e il settenne
Rodolfo, egli aveva risposto al rosario camminando avanti e indietro nella sa-
la, al modo d’ogni sera; le donne invece, che d’abitudine pregavano sedute,
s’erano inginocchiate sulle loro sedie. Già un po’ sfiorita a quarantacinque an-
ni (non s’era mai curata molto del proprio aspetto) la madre poneva nella pre-
ghiera tutta l’intensità e l’ardore di cui era capace. Era profondamente creden-
te e lo spirito le corrispondeva, cosicché - al pari di certe donne del popolo
quando pregava suscitava negli astanti la sensazione che la prima e più vera
realtà per lei non fosse quella terrena e visibile, bensì l’altra, quella trascen-
dente. Francesca e Alma cercavano di seguire il suo esempio: di temperamen-
to sereno la prima, aveva capelli castani avvolti attorno alla testa e, in contra-
sto, occhi azzurri, e il viso leggermente allungato, molto espressivo; la secon-
da, Alma, (di tredici anni come s’è detto) era tutta castana e aveva lineamenti
più regolari, addirittura perfetti, in pari tempo però così insuscettibili
d’espressione, da sembrare una statuina (i fratelli la chiamavano appunto ‘la
statuina’ o, più spesso, ‘il gattino di marmo’).
Le invocazioni uguali del rosario si succedettero: nell’intendimento di Giu-
lia (e per riflesso di tutti gli altri) erano simili ciascuna a un toc, toc, all’uscio
dell’aldilà, secondo quell’invito del vangelo: bussate, non stancatevi di bussa-
re, e vi sarà aperto.
Per parte sua Ambrogio chiese con fede alla madre comune, lasciataci da
Cristo in croce, di aiutare l'Italia “che oggi s’è intruppata in modo così scervel-
lato coi nazisti: tu però non puoi abbandonarlo un popolo come il nostro che,
al di là delle scempiaggini che combina, ha sempre avuto e ha per te un amore
autentico...” La invocò inoltre per la salvezza personale di suo cugino Manno e
dei singoli conoscenti alle armi, citandoli mentalmente uno per uno; infine le
chiese di proteggere tutti quanti i soldati italiani, e qui gli parve di pregare un
po’ anche per sé stesso, che certo entro qualche giorno sarebbe stato soldato.
Come sottofondo alla preghiera comune la pendola, sul mobile più lungo
della sala (un copricalorifero in liste di rame intrecciate) scandiva monotona i
secondi: nella sera tranquilla quello pareva il rumore del tempo che passava.

II

CAPITOLO TREDICESIMO

Nei giorni seguenti non poche cartoline-precetto fioccarono qua e là in No-


mana, e anche Stefano ricevette la sua. Non lui direttamente: a riceverla dalle
mani del portalettere fu sua madre. Il portalettere Chin, ben noto per
l’insipiente emotività che lo faceva di continuo esorbitare dal suo compito e
interferire negli affari non suoi coi quali veniva per ragioni d’ufficio a contatto,
in quei giorni stava superando sé stesso: siccome sapeva che la consegna
d’una cartolina-precetto in tempo di guerra può essere il principio di una tra-
gedia, quasi ad ogni cartolina che consegnava si sentiva in dovere di fare qual-
che stranezza. A volte, se a riceverla era l’interessato, gli palpava ad esempio
un bicipite esternando ammirazione vera o simulata, per infondergli fiducia;
altre volte al contrario - specie quando, sul finire del suo giro, si ritrovava
stanco e tediato - agitava con insistenza la mano destra davanti al viso
dell’interlocutore perplesso, a significargli chissà quali guai. Se a ricevere la
cartolina erano i parenti, proclamava magari che lui col richiamo non ci aveva
che fare, che la colpa non era mica sua, o altre cose stravaganti. Col risultato
che riceveva dalla gente infastidita non pochi rimbrotti.
Alla mamm Lusìa, fattasi sulla porta al suo giungere in bicicletta nell’aia
della Nomanella, Chin - il quale poco prima era stato abbondantemente inso-
lentito da un richiamato - tese la cartolina rosa senza parlare, con un gesto che
riuscì quasi lapidario, tanto da intimidire un poco la povera donna. La quale
non allungò subito la mano a ritirare il foglietto, ma prima se l’asciugò nervo-
samente nel grembiule: l’arrivo del portalettere l’aveva sorpresa mentre sciac-
quava la verdura, e qualche minuzzo verde aderiva ancora alle sue dita.
Firmò in silenzio la ricevuta, poi ringraziò con voce che si sforzava di man-
tenere come sempre pacata: «Grazie Chin.» Il portalettere le rispose allonta-
nando prontamente da sé, col palmo della destra, il ringraziamento, a signifi-
care che si rendeva conto nella presente circostanza di non meritarlo; quindi
infilò la ricevuta nella massiccia borsa di cuoio, zeppa di corrispondenza, che
portava a tracolla, salutò alzando alla visiera le dita unite della mano destra in
modo quasi militare (era il suo abituale modo di salutare) e voltata la biciclet-
ta proseguì austero il proprio giro. Austero, ma non oltre il limite che gli con-
sentiva la sua scriteriata emotività, tanto che appena fuori dall’aia si voltò ri-
petutamente, torcendo anche il collo, per esplorare l’effetto della sua visita.
***
Ma Lucia, che era rientrata in casa, non se ne accorse; del resto non gliene
sarebbe importato niente. Sedette su una sedia accanto ai fornelli spenti, col
foglietto rosa nelle mani: vi lesse attenta, con lentezza, qualche parola qua e
là: non c’era dubbio, si trattava dell’atteso precetto militare per Stefano. La
disturbò ad un tratto la circostanza d’essere in quel momento sola in casa: ci
fosse stata qui Giustina, oppure Ferrante, o almeno la nonna... Erano talmente
abituati a dividere tutto tra loro! Comunque anche questo, d’essere sala, era in
fondo un fatto marginale, insignificante, di fronte all’altro ben maggiore, ben
più grave fatto che suo figlio, il suo Stefano, doveva partire per la guerra. Le si
sollevarono dentro - mescolandosi tra loro - innumerevoli ricordi: di Stefano
quand’era piccolo, con l’abitino a gonna (la vestinèta) che, con la mano tesa
verso di lei, provava le prime parole; e più piccolo ancora, appena di pochi
mesi, quando fradicio di sudore per quella tremenda febbre, era stato sul pun-
to di morire; e poi di forse otto anni, che fattosi vigoroso correva come un to-
rello nell’erba alta, ridendo per il vento in faccia; e ancora Stefano appena po-
chi giorni prima, giovane serio, che le toglieva di mano la fascina della legna:
l’aveva voluta spezzare lui la legna per la polenta: «Perché non m’avete data
una voce, mamma? Sapete che non voglio facciate lavori pesanti.» Il suo Ste-
fano! Mescolandosi a questi ricordi le s’aggirava per la testa anche ciò che
aveva udito raccontare da Ferrante e da altri intorno alla guerra. Il particolare
di un morto austriaco e di uno italiano che erano stati sepolti insieme nella
stessa fossa, di modo che mai e poi mai i parenti avrebbero potuto distinguere
i loro resti. E... e... tanti altri episodi confusi, grandiosi, terribili, che chissà
come si erano svolti nella realtà. E, insieme, quei nomi di macchine di morte,
la mitraglia sopratutto, che chissà com’era fatta, e non era il solo, ce n’erano
altri nomi come quello, odiosissimi per una madre. E presto suo figlio, il suo
Stefano, si sarebbe trovato mescolato a tali nefande cose.
Sarebbe diventato bersagliere, che sono soldati esposti. Certo lui non
avrebbe fatto di proposito lo spavaldo, né cercato i pericoli, neppure però - e
questo la madre lo sentiva con certezza - si sarebbe tirato indietro. “Purtroppo
è di quelli che fanno, non di quelli che parlano” pensò con inconscia polemica
popolana. E dunque in mezzo a tutte quelle occasioni di morte... A una simile
prospettiva l’angoscia la invase; la sua intima emozione divenne tale che si
sentì mancare il respiro. Cercò allora con gli occhi l’effigie della Madonna alla
parete: una stampa popolare in cui prevaleva l’azzurro, il colore del cielo sere-
no. Il volto amato della madre di Dio e anche quel colore ebbero il potere di
calmarla un poco. Cominciò allora a muovere le labbra, a pregare, rimprove-
randosi di non averlo fatto prima: da chi avere conforto se non da Colui che
potendoci chiedere qualunque cosa, ci chiede sopratutto amore, pietà e bene-
volenza per i nostri simili? Che Costui esistesse gliel’insegnava non meno della
chiesa l’esperienza di tutta la sua vita: non siamo soli, c’è realmente Qualcuno
che s’interessa a noi, e a volte, nei momenti più decisivi per noi o per i nostri
cari, lo sentiamo intervenire; è una realtà che ci capita di percepire con molta
chiarezza, anche se poi ci è difficile ridirla agli altri mediante parole. Non
sempre però interviene, soltanto a volte... Attirò i suoi occhi una cartolina infi-
lata in un angolo del quadro sacro: raffigurava un gruppo marmoreo della
Madonna col Cristo morto sulle ginocchia, la didascalia diceva che la statua si
trovava in san Pietro a Roma, e da Roma appunto Giustina aveva ricevuta
quella cartolina, inviatale da suor Candida durante un memorabile pellegri-
naggio di qualche anno prima. Quell’immagine ricordò con spavento alla ma-
dre che il mescolarsi alle cose umane del sopranaturale non esime affatto dal
dolore, che la stessa Madonna aveva avuto ucciso il proprio adorabile figlio.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Un paio di giorni dopo, nel pomeriggio del 14 giugno, Stefano partì. Ambro-
gio non lo accompagnò in macchina al distretto, perché adesso la macchina
veniva impiegata - e con molta parsimonia, essendo la benzina fortemente
razionata - soltanto per le necessità dell’industria. Del resto poiché lui, come
studente, sarebbe a quanto pareva rimasto a casa nonostante la dichiarazione
di guerra, si sarebbe vergognato un po’ ad accompagnare i partenti. Stefano
raggiunse dunque da solo la stazione di Nomana, dove trovò pochi altri co-
scritti in attesa del treno: contro ogni aspettativa infatti la mobilitazione avve-
niva in modo piuttosto diluito, e se c’erano partenze quasi tutti i giorni, non
c’erano però partenze massicce.
Essendo un po’ in anticipo il giovane si dispose ad attendere accanto agli al-
tri sull’unico marciapiede interno, mettendosi a braccia conserte, nella posa
involontariamente importante dell’uomo attivo che si ritrova a un tratto senza
niente da fare. Ai suoi piedi c’era una valigetta di fibra d’inconsueta forma pa-
rallelepipeda, che sua sorella Giustina aveva comperato coi propri risparmi in
paese la sera prima. Con diffidenza contadina Stefano controllava ogni tanto
con la coda dell’occhio che fosse sempre lì: la valigetta conteneva, insieme con
la biancheria di ricambio e i pochi oggetti per la pulizia, un dolce, una torta
‘paesana’ che la madre aveva preparato con le proprie mani. “La mamma!”
pensò il ragazzo scuotendo a un tratto commosso la testa. “Di cosa non si
preoccupano le donne! Ha voluto a ogni costo prepararmi la torta.” Gli tornò
in mente che la torta ‘paesana’ era il dolce preferito dal suo amico Ambrogio,
gliel’aveva sentita lodare più d’una volta: “E ha ragione, è vero, è proprio buo-
na” convenne. “Ambrogio in questi giorni è un po’ mortificato perché noi par-
tiamo e lui invece resta a casa... Non capisce che di ogni fortuna, anche di que-
sta, bisogna essere contenti. Beh, sono contento io per lui”.
Da un’aiuola prossima al marciapiede un cespuglio fiorito di lillà spandeva
intorno il suo buon profumo; in mancanza d’altro Stefano finì con
l’interessarsi all’arbusto e gli si accostò: notò che al suo piede cresceva una
piccola folla di viole del pensiero alte un palmo, dai colori vivaci, sgargianti; si
chinò ad esaminarle con interesse quasi professionale. A tale gesto un coscrit-
to che stava a pochi passi da lui si fece avanti: «Cosa guardi?»
«Questi fiori. Noi a coltivare un po’ di fiori non ci pensiamo mai. E sì che in
fondo non sarebbe gran fatica.»
«Qualche volta le donne di casa ci pensano.»
«Beh, ma poca roba, qualche garofano o geranio, e di solito in vaso, non co-
sì in piena terra.»
L’altro mutò espressione e lo guardò curiosamente: «Ehi, ti senti forse un
signore, siccome adesso non hai niente da fare, che pensi a seminare prose di
fiori?» Si rivolse a un terzo coscritto che attendeva nervoso, ora su un piede
ora sull’altro, guardando di qua e di là: «Dì, Giovannino. A Stefano qui, sic-
come adesso non ha niente da fare, gli pare d’essere un signore, lo sai? Parla
di seminare prose di fiori.» Aggiunse: «Io invece no. Io, toh, se avessi anche
solo pochi metri di terra in più, anche un metro soltanto, ci pianterei cipolle
invece. Guarda un po’. Eh, cosa ne dici?»
Giovannino, garzone di fornaio, col viso pallido che pareva sempre infarina-
to (lavorava di notte, e di giorno quando c’era il sole dormiva) si avvicinò:
«Voi facce di palta di villani pensate solo alla terra» disse. «Siam qui che non
sappiamo come finiremo, se stasera dormiremo al pulito o sulla paglia, e voi
pensate alle prose e alle cipolle.»
Stefano scoppiò a ridere divertito. Giovannino fermò l’attenzione sul suo
bagaglio. «Cos’hai lì, in quella specie di valigia quadrata?» domandò: «Oltre
alle calze sporche voglio dire.»
«C’è una torta ‘paesana’» gli rispose Stefano: «Per me e per gli amici.»
«Ah, ecco un discorso sensato» approvò Giovannino, che tra l’altro, come
fornaio, di torte era intenditore; ma già ricominciava a guardarsi intorno ner-
voso.
Anche Stefano finì col guardarsi intorno: delimitava la stazione, appena al
di là delle due coppie di binari, uno di quegli steccati in calcestruzzo di ele-
menti in serie che allora proteggevano quasi dovunque le linee ferroviarie
all’interno degli abitati. Subito oltre lo steccato c’era un piccolo stabilimento,
una trafileria, due volte fallito come tutti sapevano, e ora in stato di semiab-
bandono, con qualche vetro rotto e l’erba che cresceva nel cortile. Le stesse
erbacce - code di cavallo e simili - crescevano anche tra i binari: e questo fatto,
che il verde non cedesse facilmente, che la vita anche dopo respinta si rifaces-
se avanti per occupare almeno gli spazi non calpestati, incontrava l’inconscia
approvazione del ragazzo contadino. Al di là della trafileria aveva inizio la
grande conca verde che si allargava a perdita d’occhio verso nord: anche verso
casa sua dunque, e verso Beolco, e più oltre verso l’anfiteatro delle montagne.
Le quali a quest’ora - Stefano notò - erano incantevoli a vedersi, col sole che le
illuminava di traverso, e ne faceva risaltare pieghe e rilievi: “Ve’ la bella vista
di cui parlava Ambrogio” si disse.
Un campanello elettrico attaccò a trillare con insistenza, se ne aggiunse un
secondo, il giovane li cercò con gli occhi: stavano appaiati sulla facciata della
stazione, sotto una piccola tettoia di lamiera alla quale le vespe avevano appe-
so il loro nido. Disturbati dal duplice suono gli insetti svolazzavano con ira
attorno ai due campanelli: “A ciascuno i suoi fastidi” pensò il giovane. Un fer-
roviere uscì da una porta e, senza guardarle, manovrò con gesti da automa
certe leve di ferro sporgenti dal marciapiede. “Deve aver chiuso i passaggi a
livello. Ma perché tutt’e due? Son forse due i treni in arrivo?”

CAPITOLO QUINDICESIMO

Erano due: uno (quello che le reclute attendevano) con provenienza da


nord, ossia da Lecco, l’altro dalla parte opposta, da Monza: due ‘littorine’ che
si sarebbero incrociate appunto nella stazione di Nomana.
Arrivò prima scampanellando quella da sud, ne scesero sei o sette persone
in tutto, che sembravano eccitate. Una, un uomo anzianotto, dall’aspetto di
commesso viaggiatore, si fermò davanti ai paesani in attesa sul marciapiede:
«L’avete sentito, lo sapete? O non lo sapete ancora?»
«Cosa?»
«Cos’è che dovremmo sapere?»
«Ecco, non lo sanno ancora» disse con soddisfazione il tipo anzianotto agli
altri scesi con lui dal treno. E a quelli in attesa: «I tedeschi stamattina sono
entrati in Parigi. L’ha detto la radio un quarto d’ora fa.»
«In Parigi?» fece a mezza voce qualcuno: «In Parigi?»
«Sì» dichiarò quello. «È un gran passo avanti. La guerra sta per finire or-
mai.»
Un viaggiatore che lo seguiva, più giovane e piuttosto pingue, e dall’aria po-
co intelligente, si rivolse alle reclute le quali stavano lì spaesate, con i loro pac-
chetti sotto braccio: «Dov’è che andate voialtri? Al distretto eh? Cosa ci andate
a fare adesso? Non avete sentito? La guerra sta per finire.»
«Noi però al distretto ci andiamo lo stesso» gli rispose, riprendendosi rapi-
damente, la recluta Giovannino Faccia-infarinata, che a buon conto trascorse
anche alla villania: «Ci andiamo se non altro per farci calare la pancia con le
marce a piedi» precisò, pesantemente riferendosi all’adiposità
dell’interlocutore.
Al che i portatori dell’importante notizia non aggiunsero altri particolari, e
proseguirono verso l’uscita, limitandosi a parlottare tra loro.
Una recluta fece per salire sul treno attraverso lo sportello rimasto spalan-
cato. Prontamente Giovannino l’abbrancò per lo svolazzo della giacca: «Cosa
fai, Tito?» esclamò, tirando indietro giacca e recluta: «Cosa fai? Vuoi andare a
Lecco? Forse in barca sul lago? Che ti venga il cimurro. Credi che la guerra sia
davvero finita?»
Il nominato Tito si guardò intorno con aria quasi spaventata. «Non è il no-
stro treno questo?» balbettò. Prima di quel giorno il treno l’aveva preso sì e no
un paio di volte in vita sua. Gli altri si misero a ridere, e anche Tito finì col
mettersi a ridere.
«Tito, se quando porti la croce nelle processioni sbagli a questo modo» dis-
se uno «va a finire che conduci tutta la gente all’osteria della Pasqualetta inve-
ce che in chiesa.»
Tutti, e anche Tito, risero di nuovo, sebbene il crocifero nelle processioni
non fosse Tito, ma suo fratello Giacomo, più anziano di almeno dieci anni;
Tito e Giacomo abitavano in una delle cascine più periferiche del comune, ol-
tre la frazione Lodosa, erano cugini di Pierello.
Stefano seguiva la commediola senza parteciparvi più che tanto, perché la
sua attenzione era come calamitata dalla signorina Quadri Dodini che, appog-
giandosi al bastone, zoppicava in coda al gruppetto dei viaggiatori diretti
all’uscita. L’aveva vista tante volte in chiesa (anche qualche settimana prima,
la sera che con Ambrogio stava in piazza in attesa d’Igino, ve l’aveva vista en-
trare): «È una donna religiosa, non per niente insegna dalle monache a Mon-
za» pensava. «Dicono che sia anche molto brava. Se io la fermo, una donna
così non dovrebbe rispondermi malamente...»
Andò e venne più volte con gli occhi dal coscritto Tito - il quale ora cercava
motteggiando di redimersi dalla precedente goffaggine - alla Dodini che stava
ormai per uscire di stazione; finché si decise e impugnata la sua valigetta rag-
giunse con pochi balzi l’insegnante: «Signorina, scusate.»
«Cosa c’è?» la donna si fermò e alzò su di lui due occhi che parevano ancora
più imbambolati del solito dietro i grossi occhiali; non sembrava nemmeno
accorgersi che quel ragazzo con la valigetta in mano era in partenza per il ser-
vizio militare: un momento importante nella vita d’un paesano.
«Quella notizia di Parigi. È la capitale della Francia, vero? Lei sa se dopo
questo fatto... a proposito della guerra voglio dire, lei pensa che...»
s’interruppe vedendo che la donna distoglieva lo sguardo da lui per rivolgerlo
altrove: il viso le s’andava visibilmente imporporando, gli occhi addirittura le
si gonfiavano.
«Ma signorina, cos’ha?» mormorò il ragazzo: «Non... Forse non si sente
bene?»
«Non è niente, non è niente» balbettò la Quadri Dodini, e sbottò a piangere.
tolse in fretta dalla borsa e si premette sulla bocca un fazzoletto, e mentre
s’allontanava goffa: «Povera Francia, povera cultura!» mormorò con voce ac-
corata e così bassa che Stefano poté intenderla a fatica.
Il giovane rimase lì allocchito, brandendo la sua bizzarra valigia, a guardare
la professoressa delle monache che si allontanava piangendo per l’entrata dei
tedeschi in Parigi.
Finalmente si voltò; stava chiedendosi se fosse il caso di riferire lo strano
episodio agli altri per cercare fra tutti di capirci qualcosa, quando arrivò sfer-
ragliando allegramente la seconda ‘littorina’. Si affrettò allora insieme con gli
altri agli sportelli, e una volta in carrozza non pensò che a trovarsi un buon
posto.

***
Quattro ore dopo saliva nella stazione di Monza su un più lungo e più mas-
siccio treno, diretto a Milano. Era, nientemeno, ‘capo comitiva’ d’una dozzina
di reclute avviate al Terzo reggimento bersaglieri, cioè a uno dei reggimenti
più prestigiosi dell’esercito. Particolare, quest’ultimo, ch’egli ignorava, e che
del resto in quel momento non l’avrebbe interessato; in quanto lo impegnava
già a sufficienza un’altra cosa: che gli undici ragazzi i cui nomi erano iscritti
sulla ‘bassa di passaggio’ affidatagli al distretto (“perché proprio a me? Cosa
gli è passato per la testa a quel maresciallo?”) arrivassero tutti insieme e in
buon ordine alla caserma dei bersaglieri.

CAPITOLO SEDICESIMO

Per i rimasti a Nomana la vita continuò quasi senza cambiamenti. C’era la


tessera alimentare, è vero, ma con o senza tessera lì in campagna si poteva
trovare di tutto. Gli automezzi circolavano con i fari schermati e la sera biso-
gnava osservare le norme dell’oscuramento, tuttavia, essendo ormai la Francia
in ginocchio e l’Inghilterra ingolfata in un mare di guai, nessun aereo nemico
veniva a bombardare in quel di Milano
Ad Ambrogio non rimase che continuare le sue vacanze; dedicava però la
mattina a far pratica nella fabbrica paterna.
«Altro è conoscere le varie mansioni per averle viste eseguire dai dipenden-
ti, magari stando seduti in poltrona» usava dire Gerardo ai propri figli, «altro
per averle eseguite di persona.»
Per questo già dalle precedenti vacanze il ragazzo aveva adottato un proprio
sistema: s’affiancava a ciascun impiegato - cominciando in ogni ufficio da
quello che aveva le mansioni più elementari - e, sotto il suo controllo, lo sosti-
tuiva nel lavoro per quanti giorni erano necessari ad impadronirsene bene.
Finiva anche spesso col rimpiazzare gli assenti, e questo lo rendeva gradito a
tutti.
Cominciò inoltre, nel corso di quelle vacanze del tempo di guerra, ad ac-
compagnare il padre nelle visite ai clienti.
«Ecco una pratica che per impadronirtene sul serio te ne occorreranno di
anni» lo avvertì più d’una volta il padre: «Col tempo ti renderai conto che la
cosa più difficile nel nostro lavoro non è produrre, ma vendere.»
Gerardo non intendeva tuttavia che il figlio si facesse prendere oltre un cer-
to limite dagli ingranaggi dell’industria: sapeva che in tal caso avrebbe potuto
facilmente trascurare gli studi, fino a non condurli a termine. Troppi figli
d’industriali suoi conoscenti avevano concluso in quel modo, ed egli - che ave-
va avuta una fanciullezza e un’adolescenza di stenti o quasi — temeva per i
suoi figli l’interruzione degli studi sopra ogni altra cosa. Ripeteva loro: «Fino
alla laurea il vostro vero lavoro è lo studio, ricordatelo.» E anche: «La laurea,
qualunque cosa vi succeda poi nella vita, vi garantirà se non altro il pane.»
Intendeva il pane alimento quotidiano, non ne parlava affatto in senso meta-
forico; c’erano stati giorni, quando lui era ragazzo, che aveva visto negli occhi
di sua madre vedova lo spavento per la prospettiva di non poter dare ai figli il
pane.
Gli uffici amministrativi e tecnici della ditta si trovavano negli stessi edifici
in cui avevano luogo le lavorazioni: un insieme di fabbricati coi tetti ‘a shed’
frastagliati da cortili disuguali nei quali crescevano brevi filari di tigli. L’ufficio
paghe - in cui Ambrogio stava adesso facendo pratica - aveva addirittura le
finestre con le medesime strutture in ferro a piccoli riquadri dei contigui am-
bienti per il lavoro industriale. Il fragore dei telai e delle altre macchine tessili
vi entrava smorzato attraverso i muri, e accompagnava il lavoro delle impiega-
te per tutta la giornata.

***
Un mattino che a quel rumore si era accompagnato il canto delle operaie, il
ragazzo aveva alzato il capo dai prospetti paga, distraendosi ad ascoltarlo. Di
solito - come appunto quel mattino - le operaie cantavano canzoni popolari
(specialmente della montagna, ‘Quel mazzolin di fiori’ e simili), ma a volte an-
che canti sacri, in italiano o in latino, sopratutto le litanie del rosario, che sin-
golarmente s’accordavano col loro ritmo al ritmo sempre uguale dei telai.
“Chissà perché non cantano mai le canzonette in voga?” si chiese a un tratto
Ambrogio. “Beh, probabilmente perché gli riescono estranee, non le sentono
loro... Dai, cerchiamo di non distrarci”. S’era rituffato nei suoi prospetti, ma
quando dopo forse mezz’ora il canto era cessato, aveva avuta l’impressione
che gli venisse a mancare qualcosa.
Terminata la compilazione dei fogli paga si era alzato in piedi: «Vado a dare
un’occhiata in fabbrica» aveva comunicato alle due impiegate.
Spinse una porticina interna che, non appena dischiusa, riversò nell’ufficio
un’improvvisa ondata di fragore più forte; subito dopo il suo passaggio la por-
ticina si serrò vivacemente alle sue spalle sospinta da un meccanismo a molle.
Ecco davanti a lui i telai da cui veniva tutto quel rumore: erano sistemati in
righe parallele, e azionati da sovrastanti pulegge, le cui cinghie di trasmissione
in cuoio giravano veloci. Sotto l’occhio attento delle tessitrici le navette anda-
vano e venivano fulminee, al loro movimento s’alternava quello delle casse
mobili che, dopo ogni passaggio della navetta, battevano con maggiore o mi-
nor forza sulla trama una o due volte, a seconda della compattezza da dare al
tessuto.
Ambrogio cominciò il suo giro d’ispezione. In determinati punti lo schiera-
mento dei telai era interrotto da altre macchine: incannatoi, orditoi dagli in-
numerevoli fili orizzontali, binatrici, ritorcitoi, cantre. Ad alimentare tutte
queste macchine provvedevano dei facchini in tuta color cachi, che sospinge-
vano per le corsie carrelli dalle ruote cerchiate di ferro carichi di filato in roc-
che, o avvolto su grossi subbi; quasi tutti quei facchini avevano un’aria con-
centrata, seria. Procedendo lentamente il ragazzo andava con gli occhi dal tes-
suto di un telaio a quello di un altro, si soffermava per qualche istante a osser-
vare una lavorazione più interessante, salutava a momenti, con un cenno del
capo, un operaio o un’operaia ch’erano stati suoi compagni di scuola o che per
altri motivi conosceva bene.
In fondo a una doppia riga di grandi telai lavorava Giustina, la sorella di
Stefano: al pari delle altre tessitrici indossava un grembiule nero e aveva i ca-
pelli raccolti in una reticella. Prima d’arrivare alla sua altezza Ambrogio supe-
rò una sezione di piccole macchine, le spoliere, dove Marietta ‘delle spole’, con
la sua larga faccia gialla sempre un po’ spaventata, insegnava da mattina a se-
ra (pe-ren-ne-men-te, sembrava suggerire il ritmo dei telai) alle ragazzine ap-
pena assunte la prima e più elementare operazione tessile: quella appunto di
confezionare le spole; per non metterla in imbarazzo Ambrogio evitò di guar-
dare dalla sua parte. Appena scortolo infatti Marietta era, al solito, entrata in
agitazione, e senza motivo aveva cominciato a incitare con gesti e sussurri le
sue ragazzine a far meglio, ad assolvere con più precisione le loro piccole in-
combenze.
Giunto all’altezza di Giustina Ambrogio la salutò con un cenno del capo.
Anche nei rari casi in cui gli capitava di fermarsi a osservare il tessuto che in-
sensibilmente scendeva dai suoi due telai, il giovane in fabbrica evitava di ri-
volgerle la parola, dal canto suo Giustina si manteneva altrettanto impersona-
le. Stavolta appariva invece imbarazzata; come mai? Ambrogio ricordò che
anche l’ultima volta ch’era passato di qui - qualche giorno prima - aveva nota-
to nella ragazza un certo imbarazzo: “Ci sarà forse qualche difetto nel tessuto”
s’era detto allora: “tiriamo dunque avanti e non fermiamoci”. Subito dopo
aveva però visto - curvo su un ginocchio e intento a controllare il meccanismo
d’uno dei telai di Giustina - il meccanico Luca, quel coetaneo di suo cugino
Manno col quale aveva raggiunta la piazza il giorno della dichiarazione di
guerra. A Luca aveva fatto un cordiale cenno di saluto; al che l’altro s’era alza-
to in piedi: «Ambrogio, ho idea che per me la vada a pochi» gli aveva comuni-
cato.
«Ma... non hai già due fratelli alle armi?»
«Sì, però...» Luca, col ciuffo castano sulla fronte e il viso serio come sempre,
gli s’era avvicinato per farsi sentire meglio nel fragore: «Però adesso pare che
mia cognata, la moglie di mio fratello maggiore, sia incinta.» Sottolineava le
parole sventolando un cacciavite che teneva nella destra. «Aspettiamo
d’esserne del tutto sicuri e, se è così, io...» aveva fatto un gesto a significare:
dovrò partire. Poi, spiegandosi meglio: «Dovrò andar sotto al posto di mio
fratello.»
«Questo dispiacerà molto a mio padre» aveva osservato Ambrogio «lo sai.»
Luca, dopo aver annuito allargando le braccia nel gesto abituale a Pierello,
era tornato agli ingranaggi del telaio. “Ecco perché Giustina è imbarazzata”
aveva pensato Ambrogio andando oltre: “è per quell’impiccio nel funziona-
mento del telaio.”
Qualche giorno fa sta bene, ma adesso? Come mai anche stavolta la ragazza
appariva imbarazzata? Il giovane non sapeva cosa pensare, quando notò che
per un passaggio minore tra i telai stava arrivando ancora una volta Luca.
“Che sia dunque a causa di Luca? Ma perché tanti problemi?” In quel punto
Giustina - che andava con gli occhi dal principale al meccanico - scoprì che
nell’ordito d’uno dei suoi telai un filo si era spezzato: richiamata di colpo al
lavoro, fermò lo macchina con un movimento così brusco da far cadere una
cassettina di spole male appoggiata; alcune spole rotolarono sul pavimento.
Ambrogio fu in forse se aiutare la ragazza a raccoglierle, ma intuì che Giustina
non avrebbe gradito tale attenzione e andò oltre. Non così Luca, che si precipi-
tò sulle spole: dal gesto, di per sé inconsueto (visto che il materiale caduto non
era pesante), e ancor più dall’espressione del viso di lui, Ambrogio credette di
scoprire che Luca voleva bene a Giustina. “Ah, ecco” si disse: “tutto diventa
chiaro allora. Ma guarda!” E mentre proseguiva nel suo giro: “Chissà come
prenderanno la notizia Stefano e la mamm Lusìa e gli altri della Nomanella?”
Convenne che ne sarebbero stati lieti perché Luca era un ragazzo in gamba,
uno dei più in gamba del paese. Così, se adesso lui non stava prendendo un
granchio, a Nomana ci sarebbe stata presto una novità: Luca avrebbe chiesta
la mano di Giustina. “Bisogna che dica a Francesca di scriverlo a Manno.
Quando potranno sposarsi però?” C’era quel fatto che Luca avrebbe dato il
cambio a suo fratello alle armi: “Anche questa è una cosa da scrivere a Man-
no... Beh, come che sia la guerra non potrà mica durare in eterno.”

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Se al mattino faceva pratica in fabbrica, nel pomeriggio Ambrogio si godeva


liberamente le vacanze.
Dedicandosi anzitutto a lunghe ore di lettura in giardino. Sedeva di solito su
una sdraio sotto un albero di fico, cresciuto spontaneo al margine del prato:
intorno aveva l’erba coi suoi fiori incoltivati: ranuncoli gialli, margherite, ta-
rassachi e altri di cui ignorava il nome. Spesso nelle ore di gran sole in giardi-
no non c’era nessuno all’infuori di lui, se non talvolta i due fratelli più piccoli,
Rodolfo e Giudittina (gli altri erano partiti per la montagna), che indugiavano
chini sul terreno a giocare con gli stampi e la terra. Portavano - i due bambini
- berretti bianchi calati fin sulla nuca, anzi sul collo, e i loro gesti erano lenti,
assonnati: così chini pareva che il gran sole dall’alto li premesse con la sua
vampa contro il suolo.
In quelle ore non giungevano ad Ambrogio altri rumori che ronzii di insetti,
il pigolio dei passeri dal tetto di casa, crescente a volte fino a sfociare in im-
provvise baruffe subito risolte (i passeri, che tra gli uccelli sono i più vicini agli
uomini, sembrano anche fra tutti i più rissosi), e ogni tanto dagli alberi la stro-
fe ben modulata del capinero: un gorgheggio di poche note delicatamente va-
riate, che per lui finiva col costituire la voce stessa dell’estate in Brianza. Se la
strofe si ripeteva con più insistenza il giovane interrompeva magari la lettura e
si metteva in ascolto: gli capitava allora di svagare altrove col pensiero, gli oc-
chi fissi nel fogliame del fico sopra la sua testa, oppure nelle nuvole che navi-
gavano altissime nel cielo. Pensava a tante cose: per esempio alla sconosciuta
ragazza che sarebbe stata un giorno sua moglie, la quale doveva ben esistere
da qualche parte, e cercava a volte di raffigurarsela; oppure a quale sarebbe
stata la sorte della patria, trascinata senza criterio in questa guerra, che ora
sembrava, in realtà, impegnarla ben poco; e anche alla sua sorte personale
pensava, una volta che l’avessero chiamato alle armi. Tornava infine al presen-
te, e riprendeva la lettura.
Ogni po’ di tempo si alzava in piedi, buttava il libro (‘Ivanhoe’ o ‘Ilia e Al-
berto’ o ‘I fratelli Caramazov’) sulla sedia a sdraio, e si sgranchiva con quattro
passi per i viali del giardino e dell’orto. Tra gli alberi c’era anche nei giorni più
caldi una sensibile frescura; erano, gli alberi, di altezze diverse, alcuni - qual-
che abete in particolare - sorpassavano i venti metri; inframezzati ad essi cre-
scevano cespugli e arbusti di molte specie, non però nel più folto, dove attec-
chiva soltanto l’edera che copriva il terreno in modo uniforme. Là dove tra i
rami sovrastanti si apriva qualche finestra di luce, nell’edera crescevano ciuffi
di felci, e un’erba strana, misteriosa, dai fiori deformi di colore cupo; sui pen-
dii esposti a nord, all’edera si sostituiva il muschio, vegetazione, tutta questa
minore, spontanea, e non diversa da quella che cresceva nei boschi della cam-
pagna.
Tenendo le mani dietro la schiena Ambrogio vagava per i vialetti bordati
dalle criniere dell’erba convallaria: non fosse stato in montagna, qui tra gli
alberi egli avrebbe certamente incontrato suo fratello Pino, quindicenne, il
quale trascorreva si può dire le proprie vacanze, dal primo all’ultimo giorno, a
insidiare gli uccelli col Flobert. Ma ora Pino era via, e gli uccelli sugli alberi
avevano tregua.

***
Oltre che nella lettura Ambrogio spendeva i pomeriggi in passeggiate. Ma-
gari in autocarro, visto che l’automobile non la poteva ormai più usare a tale
scopo. Adesso l’autocarro della ditta faceva più spesso di prima trasporti a di-
stanza, specie a Torino, o a Genova, o nei loro dintorni, dove c’erano clienti
nuovi che lavoravano per gli arsenali (anche diversi dei vecchi avevano comin-
ciato a produrre per l’esercito e per la marina). Il giovane, che non dimentica-
va l’origine operaia della propria famiglia, non solo non trovava disdicevole
viaggiare in autocarro, ma avrebbe volentieri dato una mano all’autista nella
guida, se quello l’avesse gradita. Quello però (di nome Celeste e - sull’esempio
di Gerardo - padre di numerosa figliolanza) mentre mostrava di gradire la
compagnia e i discorsi del ragazzo, non voleva saperne di essere aiutato da lui:
«Non sono mica un vecchietto che ha bisogno d’aiuto» diceva.
«Ma così, non capisci? mi fai viaggiare come un turista» gli obiettava Am-
brogio: «né più, né meno.»
«E ti lamenti?» gli rispondeva l’autista. Sorrideva con gli occhi color azzur-
ro cielo, a motivo dei quali i suoi genitori gli avevano appunto dato il nome di
Celeste.
Assai più spesso che in autocarro Ambrogio faceva tuttavia passeggiate in
bicicletta: ai vicini laghetti della Brianza per esempio, o al lago di Como, oppu-
re alla campagna bergamasca, simpaticamente rustica, dove le case contadine,
dai singolari ballatoi di legno, erano diverse che in ogni altro luogo.
In tali minime cose trascorse, giorno dopo giorno, il resto di quel fatale me-
se di giugno, e poi il mese di luglio.

CAPITOLO DICIOTTESIMO
Il successivo mese d’agosto Ambrogio, per esplicito invito di suo padre
(«Deciditi, va a immagazzinare un po’ di sole, che non sai cosa ti riserva il fu-
turo. - Papà, magari una cura intensiva d’Africa mi riserva. - Beh, anche in
Africa si possono prendere i reumatismi») lo trascorse al mare, a Cesenatico.
Durante il viaggio in treno egli aveva avuto il tempo per riflettere sulla
preoccupazione del padre, che questa feria gliel’aveva quasi imposta: “Lui che
ferie non ne prende mai, e addirittura le trova incomprensibili. E lo strano è
che un po’ tutti in ditta finiscono col pensarla come lui...” Col bel risultato che,
su trecento dipendenti, le ferie le facevano quasi solo le impiegate dell’ufficio.
E se a volte qualche impiegato maschio decideva d’utilizzarle, anziché di farse-
le pagare lavorando, aveva l’impressione di compiere un’azione poco virile.
“Questa ad ogni modo è una vera e propria sciocchezza, anzi è una cosa ingiu-
sta” aveva risolto il giovane: “Quando ci sarò anch’io in ditta, su questo punto
le cose dovranno cambiare. Penso che almeno i giovani - Luca per esempio -
mi daranno ragione”. Tuttavia non se ne sentiva proprio sicuro, tanto quel
costume a Nomana era consolidato.
Con l’avvicinarsi della costa il cielo s’era andato facendo gradatamente più
chiaro, più luminoso, come se l’enorme specchio delle acque vi si riflettesse;
anche il paesaggio s’era fatto sensibilmente più chiaro, e questi colori e altri
particolari dell’ambiente, avevano evocato un po’ alla volta nell’animo del gio-
vane sensazioni da lungo tempo dimenticate, per le quali era passato nei lon-
tani anni dell’infanzia in occasione dei primi viaggi al mare. Non era però tipo
da indugiare in simili cose, e aveva quindi lasciato che le sensazioni si disper-
dessero (si sarebbero disperse anche suo malgrado del resto: del passato non
possiamo recuperare che qualche raro scampolo a volte, e quasi solo per il
tempo occorrente a vederlo disfarsi).
Alla stazione di Cesenatico aveva chiamato una carrozzella, vi aveva caricata
la valigia, e s’era fatto accompagnare a una, due, tre pensioni che teneva men-
talmente in nota dall’anno prima, quand’era stato qui nella colonia del suo
collegio. L’ultima delle tre, la pensione Iris, quasi nuova, pulita, circondata da
un giardinetto sabbioso che dava direttamente sulla spiaggia, gli era sembrata
la più adatta: vi aveva senza problemi trovata una camera. Questa facilità di
trovare posto al mare nel mese d’agosto, nonché la presenza di militari in mol-
te delle stazioni attraversate, erano stati gli unici fatti a ricordargli quel giorno
la guerra in corso.

***
Lavatosi e ravviatosi sveltamente, era sceso in sala da pranzo a tempo per la
cena. Veniva dalla sala un discreto cicaleccio che si attutì di colpo e quasi ces-
sò al suo apparire: gli occhi dei pensionanti seduti ai tavoli - una trentina di
persone - si appuntarono su di lui.
«Buona sera a tutti» egli disse con spigliatezza un po’ forzata, e andò a
prender posto a un tavolino libero.
Seduto che fu, il cicaleccio riprese. Adesso era il suo turno di passare in rivi-
sta gli altri; li esaminò con discrezione. “Dopo tutto” pensava con una incon-
scia punta di timidezza “questa compagnia non m’interessa. Ho qui a portata
di mano la colonia del collegio: sono venuto a Cesenatico per questo”.
La compagnia che non lo interessava era costituita in prevalenza da madri
con bambini, da alcuni padri di famiglia, da ragazzi d’età varia, e da tre o quat-
tro ragazze. A queste, com’è naturale, finì col circoscrivere la propria attenzio-
ne, finché ritenne d’averle esaminate abbastanza: “Basta” disse a sé stesso,
“può bastare”. Ma anche dopo tale risoluzione, mentre mangiava la sciapa
zuppa di verdura che gli avevano portato (ecco un’altra cosa che ricordava la
guerra) ogni tanto, suo malgrado, tornava a osservarle. A voler essere precisi
ne osservava ormai una sola, la più carina, che sedeva con la propria famiglia
a un tavolo vicino.
Era di statura media e ben proporzionata, con capelli corti biondo oro, gli
occhi grigi e una singolarità nella bocca: quando rideva i due canini appariva-
no lievemente sporgenti rispetto agli altri denti: ciò conferiva al suo viso un
che di vagamente felino, tutto sommato non spiacevole. “Una tigretta, ecco
cos’è: è una tigretta” sentenziò Ambrogio. “Carina però. Devo riconoscere che
è carina”.
La tigretta si accorse presto che il giovane di tanto in tanto l’osservava, e lo
sbirciava a sua volta, per controllare se continuasse a interessarsi a lei. Cosa
che divertì Ambrogio e nello stesso tempo lo determinò a contenere i propri
sguardi.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La mattina dopo il giovane uscì dal giardinetto della pensione sulla spiag-
gia; era in tenuta da bagno, impugnava una borsa a sacco col costume di ri-
cambio.
La spiaggia di Cesenatico - molto larga, e in quell’anno non affollata - si
stendeva verso destra a perdita d’occhio: da quella parte oltre un certo limite
non era più utilizzata dai bagnanti, e una magra vegetazione e festoni di rima-
sugli depositati dalle onde la macchiavano qua e là. Verso sinistra, cioè verso il
centro della cittadina, il vecchio porto-canale protendeva i suoi due moli nel
mare: da questa parte gli ombrelloni colorati e le sedie a sdraio erano alquanto
più fitti, e così le cabine di legno, che per qualche tratto formavano addirittura
una fila continua. Non che, con questo, non ci fosse abbondanza di spazio an-
che qui.
Ambrogio notò che seduti sulle sdraio o allungati sulla sabbia accanto agli
ombrelloni più vicini, c’erano già diversi ospiti della pensione, e tra gli altri la
‘tigretta’ che inforcava un paio d’enormi occhiali scuri da sole, e portava in
cima alla testa bionda un cappelluccio a cono. Alcuni alzarono gli occhi verso
di lui: forse avrebbero gradito che prendesse posto accanto a loro. Ma - e an-
che stavolta, adolescente com’era, fu la timidezza a determinarlo - egli risolse
che non sarebbe stato male trascorrere quella prima mattina ai bagni del col-
legio.
Per raggiungere i quali s’incamminò verso destra. Ne conosceva bene
l’ubicazione e del resto li avrebbe trovati in ogni caso, tanto inconfondibile era
la loro atmosfera ecclesiastico-ambrosiana (allegra nel senso un po’ prosaico
in cui i milanesi intendono la letizia cristiana, e sopratutto concreta, e trasu-
dante buon senso.) Li indicava anche una bandieretta blu con lo stemma del
collegio - uno stemma quasi olimpico, costituito da tre anelli intrecciati,
l’antico stemma di san Carlo Borromeo - che sventolava briosa in vetta a un
palo. Giunto all’altezza della quale il ragazzo lasciò la fresca battigia del mare,
su cui era venuto avanti a passi fiduciosi (i passi della giovinezza), e tagliando
obliquamente l’arenile puntò verso gli ombrelloni. Dovette, per giungervi, at-
traversare due contrapposte squadre di ragazzi che giocavano vociando a palla
a volo, con un impegno e un accanimento che fino a ieri erano stati anche
suoi: ne riconobbe parecchi, tutti più giovani di lui, e alcuni di questi lo saluta-
rono, ma serbandosi con evidenza più attenti al gioco che alla sua visita. Sedu-
ti sulle sdraio all’ombra o al sole trovò il vicerettore del liceo e tre o quattro
professori i quali, piacevolmente sorpresi dalla sua comparsa, lo accolsero con
esclamazioni cordiali. Erano in accappatoio o in costume da bagno anziché in
veste talare, ma non per questo perdevano d’autorità. “Dove perdono pauro-
samente, se mai” constatò il giovane “è nell’estetica”. E si ripeté un proponi-
mento già altre volte formulato: “Quanto a te ricordati: fino a trent’anni e non
oltre, non un anno di più, in giro in costume da bagno.” Sedette con loro, par-
tecipò alle loro conversazioni estive, molto diverse da quelle del tempo di
scuola, più distese sopratutto.
Fece in seguito il bagno coi collegiali allorché il bagnino - romagnolo, nero e
riccio di capelli, anche quello sua vecchia conoscenza - segnalò con un fischiet-
to ch’era arrivata l’ora: tutti i ragazzi, abbandonata ogni altra occupazione, si
precipitarono di corsa in mare, levando grida e strida di: «Bagno! Bagno!»
Ambrogio nuotò fino al largo con un gruppetto di compagni più giovani ma
non meno abili di lui nel nuoto, qualcuno anche più bravo, probabile futuro
campione, che batteva il crawl con impegno, fiero di mostrargli la propria abi-
lità. Dopo il bagno fece con gli altri dietro le cabine la fila per la doccia d’acqua
dolce, quindi si allungò come tutti sulla sabbia a farsi asciugare dal sole.
Ma durante tutte queste intraprese: la conversazione, il bagno, la doccia, la
cura del sole, una figurina gli si stagliava di continuo nella mente: la figurina
della tigretta, così come l’aveva vista accanto all’ombrellone, col cappelluccio a
cono sulla testa bionda, e un pagliaccetto a strisce bianche e blu indosso.
Lo risvegliò il vicerettore che, piccolo e nero (a motivo del suo colorito scuro
i liceali lo chiamavano ‘Clero Indigeno’), gli si stava avvicinando ingolfato den-
tro un grande accappatoio bianco: «Riva, Riva, non costringermi anche tu a
fare la chioccia» (come conosceva le inflessioni di quella voce: le aveva udite
per anni!) «sei grandino ormai.» Il vicerettore teneva in mano un barattolo di
crema contro le scottature, che gli porse: «Il criterio, dove ce l’hai il criterio? È
il primo giorno, vuoi farti piagare dal sole?»
Il giovane prese con aria poco convinta il barattolo: «Queste vaseline sono
buone per le donne, i bambini e i vicerettori» disse: «comunque va beh, per
stavolta grazie.»
«Sciagurato» urlò Clero Indigeno: «Lingua velenosa, malfattore.» Era il suo
abituale modo d’esprimersi quand’era ilare; ad Ambrogio e agli altri ragazzi
tale modo riusciva congeniale e non a caso: quel linguaggio il vicerettore - co-
me del resto altri educatori dell’ultima leva - l’aveva mutuato appunto da loro,
dai ragazzi.
Ambrogio si spalmò sommariamente spalle e braccia, indi rese con un:
«Grazie don Vaselina» il barattolo al prete, il quale se ne tornò alla propria
sdraio sciabordando piccolo e nero nel grande accappatoio bianco, con una
sfilza d’interiezioni tipo: «Branco di furfanti, giovani turchi» e altre simili; al
che il ‘Geronte’ (un fulvo-canuto monsignore, professore di greco) strinse con
disapprovazione le labbra. Quanto ad Ambrogio, fattosi un po’ di silenzio, tor-
nò a pensare alla tigretta.
La rivide a mezzogiorno, durante il pranzo, trovandola ancor più gradevole.
Dopo di che, durante la pausa per il sonno pomeridiano, col sole che batte-
va caldo sulle persiane chiuse della stanza, non gli riuscì d’addormentarsi:
quella ragazza non gli voleva uscire di mente. Finì con l’alzarsi in piedi, e pas-
seggiando avanti e indietro per la stanza si costrinse a un gagliardo esame di
coscienza.
Cosa gli stava succedendo? Gli piaceva quella ragazza e va bene. Era forse
una cosa riprovevole? No, non era una cosa riprovevole, era semplicemente
una cosa naturale: la più naturale delle cose. Fin qui d’accordo, andiamo avan-
ti. In che senso avanti? In che direzione? (mentre faceva questi ragionamenti
il giovane non scherzava affatto: all’analisi era determinato a far seguire
l’azione.) “Il fatto è che mi si sta scaldando un po’ troppo il fegato, ecco il pun-
to. L’ho vista ieri sera per la prima volta, ancora non le ho parlato, non so
nemmeno come si chiami, se sia intelligente oppure un’oca, non ho la minima
idea del suo mondo interiore. E oltre tutto devo dire che mi piace sì, ma non al
punto che la sposerei: anche perché non è il mio tipo, non lo è del tutto alme-
no...” ragionamenti mescolati a fantasie: il fatto era che, cresciuto secondo i
criteri della morale di allora separatamente dalle ragazze, dava suo malgrado a
questo incontro con una di loro un’importanza molto grande. Quanto alla pro-
spettiva di un’insulsa avventura è da dire che non rientrava in alcun modo nel-
le sue vedute.
Passeggiò per la stanza una decina di minuti, fino a concludere con natura-
lezza che “il fare anzitutto la conoscenza” di quella ragazza non gli era vietato,
e che quindi “all’occasione” l’avrebbe fatta.
Sceso più tardi sulla spiaggia, e noleggiata una piccola barca a vela, prese il
mare con quella; non la dominava bene però, e siccome s’era prefisso di visita-
re fino in fondo il porto-canale, ne dovette venir fuori con suo scorno a forza
di remi; rientrò nella pensione abbastanza tardi.

CAPITOLO VENTESIMO
Dopo la cena Ambrogio era incerto su che fare. Uscire a passeggio da solo?
O andare ad aggiungersi al branco del collegio? Con il collegio no, per oggi
basta. Passeggiava irresoluto avanti e indietro nell’atrio della pensione quan-
do, seduta in penombra in una rientranza, scorse la tigretta. Era agghindata e
pronta per uscire, con uno scialle di lana bianca indosso a mo’ di stola e la
borsetta sulle ginocchia: evidentemente attendeva che scendesse qualcuno dei
suoi, forse la madre. Accanto a lei c’era una poltrona ‘incredibilmente’ vuota:
il giovane vi si diresse con prontezza. «Buona sera signorina» disse prendendo
posto.
«Buona sera.»
«Studentessa?»
«Sì.»
«Ah, bene. Allora possiamo anche darci del tu perché sono studente
anch’io. Dov’è che studi?»
«A Rho.»
«A Rho? guarda com’è piccolo il mondo.»
«Cos’intendi dire?» la tigretta gli spalancò in faccia i suoi occhi grigi:
ch’erano proprio belli a vedersi così da vicino, sembravano striati d’oro. «Io a
Rho te non t’ho mai visto.»
«A Rho? Per forza non mi hai mai visto: ci sarò stato sì e no un paio di volte
in vita mia. Come potevi vedermi?» Il ragazzo si chiese se fosse il caso di dirle
qualcosa a proposito di quei begli occhi, ma non osò. La tigretta si mise a ride-
re: «E allora perché hai detto che il mondo è piccolo?»
«Perché? Beh, perché tu sei delle mie parti, insomma del milanese. E qui,
dopo tutto, siamo abbastanza lontani da Milano, no?»
«Sì, però molti dei villeggianti sono milanesi.»
«Già.»
La tigretta rise di nuovo; adesso anche lei osservava lui: cercava di capirlo,
così evoluto in apparenza, ed evidentemente solido, e nello stesso tempo così
maldestro.
«Come ti chiami?» le chiese Ambrogio
«Patrizia.»
«Io Ambrogio anzi, scusa, non mi sono ancora presentato.» Si alzò in piedi,
le tese la mano e pronunciò il proprio cognome: «Riva.»
«Malinverni» cinguettò la tigretta, tendendo a sua volta la mano, e rise
un’altra volta. «Caspita, che cerimonia» commentò.
«Un po’«di formalismo quando ci vuole ci vuole» sentenziò il ragazzo. Che
si sentiva ora incantato dall’impressione che gli aveva fatto la mano di Patri-
zia: un’impressione ch’egli sommariamente qualificò “d’ordine estetico”; non
avrebbe mai creduto che una mano - una semplice mano, sia pure con le un-
ghie laccate - potesse riuscire così gradevole. “Accidenti” pensò “che capolavo-
ro le donne!”
«Andiamo avanti nell’esame» proseguì: «Hai detto che sei studentessa: di
che cosa? e di che anno?»
Patrizia però, rizzatasi alquanto, guardava adesso oltre il giovane in dire-
zione delle scale; anche Ambrogio girò la testa: debitamente abbigliata per
uscire, e coi capelli raccolti a pugno sul sommo della testa, la madre di lei sta-
va scendendo le scale. Era una signora tra i quaranta e i cinquanta, assai ben
conservata, e in quel momento si muoveva con strana solennità come se tutti
la stessero guardando, mentre - notò Ambrogio - nessuno dei pochi presenti la
guardava; chissà, forse era lei a guardare mentalmente sé stessa.
«Mamma, son qui» l’avvertì la ragazza, agitando una mano. La madre si fe-
ce di colpo più spontanea, e terminato che ebbe di scendere le scale andò ver-
so i due; Ambrogio si alzò in piedi e si presentò col dovuto formalismo, per
attenerci alla sua espressione di poco prima. La signora gli strinse la mano in
modo materno: «Milanese? Studente eh? Vedo, vedo. Ma che bravo...» adesso
si comportava precisamente come, secondo il giovane, c’era da aspettarsi da
una signora proveniente da Rho.
«Noi, Tricia e io, andiamo alla gelateria: quella che si trova all’angolo della
piazza grande, sa dov’è? Mio marito e le bambine ci aspettano là. Siamo già in
ritardo, viene anche lei?»
«Sì, grazie, con piacere.» E istintivamente, per tenersi aperta un’eventuale
via d’uscita: «Dovevo giusto andare da quella parte.» Mentre camminavano
sul marciapiede di terra battuta, piantato a pini marittimi, tra la gente che via
via raffittiva, ad Ambrogio sarebbe piaciuto conversare con Patrizia, anzi Tri-
cia, come adesso la sentiva chiamare dalla madre. Senonché la signora - che
camminava in mezzo ai due (proprio lui aveva correttamente cambiato posi-
zione per farla stare nel mezzo!) - parlava senza smettere, e così non c’era
niente da fare.
Illuminava le cose l’ultima luce del giorno: si distinguevano ancora, seppure
a fatica, i colori vivaci degli indumenti balneari indosso alla gente, le fogge dei
soprabitini estivi delle donne, i loro lunghi scialli più o meno colorati; degli
uomini risaltavano stranamente le scarpe, a metà bianche e a metà scure, se-
condo la moda del tempo. Presto, pensò Ambrogio, sarebbe sceso del tutto il
buio, ma la gente non avrebbe rinunciato a passeggiare al lume delle stelle, le
quali emettono una luce molto debole però sufficiente (come tanti stavano
scoprendo in quei primi tempi d’oscuramento) per camminare di notte. Forse
sotto le stelle - fantasticò il ragazzo - il caschetto d’oro dei capelli di Tricia
avrebbe brillato quasi come una lampada...
Giunto davanti alla gelateria egli si rese conto, a un tratto, che non gli reg-
geva l’animo di sottostare anche alla cerimonia della presentazione al padre,
‘il dottore’ come lo chiamava la madre, e mettendo avanti un impegno piutto-
sto confuso, prese congedo dalle due donne. «Ci vediamo domani, eh?» gli
disse Tricia, in maniera gentile.
«Sì, domani» le rispose il giovane, «sulla spiaggia.»

CAPITOLO VENTUNESIMO
Quando l’indomani Ambrogio uscì dal giardinetto della pensione sulla
spiaggia, Tricia era già là - in costume rosso stavolta, ma sempre col cappel-
luccio a cono in testa - sdraiata presso il suo ombrellone a prendere il sole. Lo
salutò allegra, agitando una mano. Il giovane lanciò la borsa a sacco col co-
stume di ricambio sotto l’ombrellone, e sedette sulla sabbia accanto a lei.
«Ciao. Vedo che sei piuttosto mattiniera» disse.
«Beh, m’è sempre piaciuto alzarmi presto.»
«Brava figliola» fece Ambrogio imitando la voce del vicerettore Clero Indi-
geno, che tuttavia l’altra, come ovvio, non conosceva: «brava e virtuosa figlio-
la.»
Tricia sorrise: «Penso semplicemente che sia da fessi non godere il sole del
mattino. Non sei d’accordo?»
«Certo. A proposito, mi fai venire in mente che ieri sera non ho finito il mio
interrogatorio. A che punto eravamo rimasti? Ah, stavamo parlando degli stu-
di. Avanti dunque: che studi fai?»
«Per il momento il liceo. Ho finita la seconda.»
«Dove, a Rho?»
«No, a Milano. Al Berchet.»
«Ah, non a Rho per fortuna. Volevo ben dire io.»
«Perché?» chiese lei incerta: «Sei prevenuto nei riguardi di Rho?»
«Certo» rispose lui «e lo domandi? Quale animo bennato non è prevenuto
nei riguardi di Rho?»
Tricia rise. Seguitarono a conversare a quel modo; il ragazzo prendeva ogni
tanto con la destra una manciata di sabbia e la faceva scorrere con lentezza tra
le dita del pugno: “Noi come la rena” pensava, quasi fosse presago delle vicen-
de cui stava per prendere parte; in realtà non lo era, ma la compagnia della
ragazza gli faceva superare la piattezza consueta. La spiaggia intanto andava
un po’ alla volta popolandosi, altri ombrelloni venivano aperti; arrivarono an-
che le due sorelline di Tricia, sui cinque e sei anni che, dopo avere, serie serie,
salutato Ambrogio con una sorta di sgambetto che nelle loro intenzioni costi-
tuiva un inchino, si misero a giocare con impegno: portarono allo scoperto,
scavando con le loro palettine, la sabbia umida, e presero a riempirne certi
stampi di latta vivacemente colorata, sagomati a forma d'animali e di pupazzi.
“Presto” pensava il giovane “arriveranno anche il padre e la madre. Biso-
gnerebbe trovare il modo di sgombrare prima. Cosa potrei proporre? Una gita
in moscone? O con la barchetta a vela?” finché si ricordò del Rubicone.
«Senti Tricia, ho un'idea luminosa.»
«Sì?»
«Sei mai stata al Rubicone?»
«Cosa... Cosa intendi dire?» Era un po’ sorpresa: «Che metafora è
questa?»
«Cosa c'entrano le metafore?» adesso era il giovane a non capire. Poi si rese
conto: «Ah tu credi che io parli in modo figurato, per metafora? No, macché,
niente metafore: ti sto parlando in modo realistico. Diciamo più o meno nello
stile di Giovanni Verga. l'avete già studiato Giovanni Verga? o forse siete un
po’ indietro, al liceo Berchet?»
Tricia scosse la testa divertita. In effetti il parlare con una ragazza rendeva
Ambrogio abbastanza spiritoso.
«Il Rubicone» egli continuò «tanto per cominciare devi sapere che è un
fiume.»
«Grazie, fin lì ci arrivo» disse Tricia, «anche al Berchet fin lì ci arriviamo.»
«Ecco» disse Ambrogio «questo non me l'aspettavo, bravi. Dunque è un
fiume: fin qui ci siamo.» Poi si fermò, guardò diritto Tricia negli occhi: «Ehi,
siamo sicuri che non mi stai prendendo in giro?»
«Perché dovrei prenderti in giro?» si meravigliò lei.
«Non sai che il Rubicone è qui a due passi?» indicò col braccio: «Là in fon-
do, appena a qualche chilometro? O lo sai benissimo?»
«A qualche chilometro? Ah, per forza» ricordò lei «è dalle parti di Rimini
infatti, è vero. È là in fondo, dici?»
Il ragazzo si rassicurò: «Bene, vedo che non sei digiuna del tutto della mate-
ria. Ma per afferrarla meglio un po’ di ripasso non ti farebbe male. Che ne di-
resti di un sopralluogo eh? Ci andiamo?»
«Vuoi fare una passeggiata?»
«Va bene, chiamiamola così, una passeggiata, il fiume non è lontano, in
un'ora circa possiamo arrivarci.»
«E cosa c'è da vedere?»
«Per prima cosa il Rubicone, cioè un corso d'acqua, che per di più si getta in
mare, ti par poco? E uno. Poi ci sono i dadi: e due.» Si ricordò d'uno scherzo
dei tempi di collegio: «I dadi di Cesare, capisci?»
«I dadi di Cesare?»
«Sì, i dadi che ha gettato quando ha detto: ‘alea iacta est’. Si vede che anche
Cesare era un realista, non parlava mai per metafore: per questo ha gettato
realmente i dadi.»
«E sarebbero là adesso, dopo duemila anni?»
«Sì, sono là. Dico sul serio. Grandi, perché Cesare era grande: grande lui,
grandi i suoi dadi.»
«Ma va.»
«Vogliamo scommettere? Senti Tricia: se al Rubicone noi non troviamo i
dadi...»
«Ma dove i dadi, adesso?»
«Lì per terra, vicino al Rubicone, come niente fosse. Dunque se non li tro-
viamo io ti regalo un libro. Se invece li troviamo, se li troviamo...»
«Allora?»
Fermo nei suoi casti principi Ambrogio respinse l'improvvisa tentazione,
che gli era venuta, di dire ‘allora tu mi dai un bacio’: «Allora, in questo caso, ti
pago soltanto un gelato. Dai, andiamo.»
Tricia si risolse: «Ma sì. Un po’ di movimento lo faccio volentieri.» S'alzò in
piedi, spolverò dal costume rosso la sabbia, considerò meglio il costume, ci
ripensò: «Aspettami. In un momento son pronta.»
Andò in cabina e ne tornò di lì a poco con indosso, invece del costume ros-
so, il pagliaccetto a strisce bianche e blu che Ambrogio le aveva visto la matti-
na precedente.
“Com'è incantevole, accidenti” pensò il ragazzo, e senza preoccuparsi d'es-
sere monotono, si ripeté la considerazione già fatta: “che capolavoro, le don-
ne!”
«Beh, andiamo» disse tutto lieto al capolavoro.
«Sì» rispose il capolavoro; e rivolto alle due bambine: «Avvertite la mamma
che sono andata a fare una passeggiata.» Siccome quelle sembravano non pre-
starle attenzione: «Dico a voi due: m'avete sentita?»
La maggiore alzò allora la testa dal gioco: «Ti abbiamo sentita, ti abbiamo
sentita, va bene» rispose; e poi con aria improvvisamente sbarazzina: «Dob-
biamo dire che sei andata a spasso da sola, alla mamma?»
«Che sciocchezza è questa?» esclamò Tricia in tono severo: «Perché dovre-
ste dire bugie?»
«Ah birichina, birichina» insisté, pur facendosi un tantino incerta la picco-
la, e agitò con rimprovero l’indice della mano. Senza alzare la testa la minore
faceva anche lei il viso furbo.
«Ehi, voi due saltamartini» intervenne Ambrogio: «Che discorsi son questi?
Fatemi l’inchino piuttosto, che sto per andar via. Su, forza, scattate.»
Le due bambine si levarono in piedi infastidite, e ripeterono quella sorta di
sgambetto con cui l’avevano salutato arrivando, indi tornarono alle loro for-
melle.
«Allora, che dici? Camminiamo ‘del risonante mar lungo la riva’?» propose
Ambrogio; Tricia annuì, e ancora scuoteva sorridendo la testa per la sicumera
della sorellina.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

S’incamminarono dunque ‘del risonante mar lungo la riva’ dove la sabbia


era fresca e compatta, uno a fianco dell’altra, giovani, fiduciosi nella vita che
avevano intatta davanti.
Furono in breve all’altezza della colonia del collegio, indicata dalla bandie-
retta coi tre anelli quasi olimpici che sventolava allegra sul suo palo; come il
giorno avanti parecchi ragazzi erano impegnati in un’accanita gara di palla a
volo. Stavolta però, che Ambrogio non era più solo, ma con una bella ragazza,
pur seguitando a correre e a gridare ebbero tutti o quasi - a differenza del
giorno prima - occhi per lui, per loro.
Oltre i ragazzi, dalla sdraio in cui era sprofondato, vide i due giovani passa-
re uno a fianco dell’altro anche il fulvo-canuto professore di greco, e segreta-
mente se ne compiacque: “Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre sua’’ citò
mentalmente “e seguirà la donna sua’’. Non così Clero Indigeno, il giovane
vicerettore dal linguaggio pittoresco, che mugugnò: «Guardalo, quel pezzo
d’asino. Ancora non è uscito dal collegio, e già si dà alla dissipazione. Dove
son finiti tutti i nostri insegnamenti? Ma alla prima occasione dovrà fare i
conti con me, il disgraziato!»
Ad ogni modo la colonia rimase presto indietro e, abbastanza in fretta, an-
che la restante spiaggia frequentata, persone, ombrelloni, cabine; i due ragazzi
incontrarono ancora qualche comitiva, poi solo individui isolati che vagabon-
davano assorti nei loro pensieri; poi non incontrarono più nessuno.
La striscia di sabbia lambita dall’Adriatico si stendeva davanti a loro verso
sud, vergine, a perdita d’occhio; solo molto lontano sembrava terminare in
una confusa, a malapena visibile macchia biancastra: Rimini di certo. Più an-
cora del cielo determinava l’ambiente la distesa immensa del mare, diviso quel
giorno in due colori, come Tricia fece notare ad Ambrogio: verde sabbia pres-
so la costa, trasmutava via via, al largo, in un turchino sempre più intenso; era
calmo, minima quindi la sua voce, e ritmica: un fruscio e un silenzio, un fru-
scio e un silenzio, ancora, instancabilmente, un fruscio e un silenzio: quasi un
gioco, ma - non fosse che per quella straordinaria costanza - il gioco d’un gi-
gante.
In qualche tratto il gigante sembrava voler scherzare proprio con loro due:
«Guarda Tricia: sembra che il mare giochi con le impronte che lasciamo. Ve-
di?» Si arrestarono: le orme parallele dei loro piedi nudi si disegnavano fin
dove arrivava lo sguardo stampate nella sabbia umida: e il mare in un punto le
lasciava com’erano, senza toccarle; in un altro le lambiva appena, deforman-
dole un po’; in un altro le copriva con un velo d’acqua, si ritirava, le orme re-
stavano semicancellate, poi ridotte a un minimo accenno, al pari di certi lon-
tani ricordi, infine cancellate del tutto.
Ripresero a camminare. Ambrogio, da che Tricia gliene aveva fatto notare il
colore, svagava ogni tanto con gli occhi sulla superficie del mare, e ogni volta
ne riceveva un senso d’immensità, che non avrebbe saputo ridire con parole.
Ci si provò, disse un paio di volte: «Però, a guardarlo bene, com’è immenso il
mare», infine lasciò perdere. Ogni cosa del resto, mare compreso, in quel
momento costituiva per lui soltanto uno sfondo, contro il quale si muoveva
Tricia: che gli camminava accanto viva, e incantevole nel pagliaccetto a strisce
bianche e blu, col cappelluccio sulla testa bionda.
Ancor più che dal mare gli occhi d’Ambrogio erano istintivamente attirati
da lei, a questo riguardo tuttavia egli si vinceva, non glieli fermava mai addos-
so: “Sono un uomo, devo sapermi vincere” pensava. Gli insegnamenti del vice-
rettore dunque, e ancor più quelli dei genitori, avevano tuttora una salda pre-
sa su di lui. (Del resto - se anche non in modo così letterale - l’avrebbero con-
servata per tutta la sua vita.)
Tricia camminava senza problemi; aveva diciotto anni, uno meno
d’Ambrogio, ma a quell’età, essendo donna, era più adulta di lui. Anche se
ugualmente inesperta.
La foce del Rubicone si annunciò, dopo forse tre quarti d’ora di cammino,
grazie appunto ai dadi: massicci cubi in calcestruzzo di un metro di lato, am-
mucchiati lungo le due sponde a formare degli argini. Come i due ragazzi fu-
rono abbastanza vicini da poterli distinguere, Ambrogio li indicò a Tricia:
«Guarda, li vedi? Ecco là i dadi.» «I dadi?»
«Sì. I dadi di Cesare. Devi imparare da questo momento a credermi più cie-
camente.»
«Ma quelli non sono dadi... cioè magari sì, non però da giocarci. Nessuno
potrebbe muoverli.»
«Di noi, Tricia. Di noi nessuno; ma tu non sai che forza aveva Cesare.»
Tricia rise: «Ma quei... quei cosi saranno grandi almeno così» indicò con le
mani.
«Di più» disse Ambrogio: «Ti sembrano così perché siamo ancora lontani.
Ma hanno il lato di un metro esatto: son dadi di calcestruzzo di un metro cubo
ciascuno. Io e i miei compagni di collegio li abbiamo misurati: a spanne, be-
ninteso.»
«Ecco, vedi? E poi sono fatti di cemento: nessuno potrebbe lanciarli.»
«Sì, ma Cesare...» Ambrogio insisté: «Tricia, tu non hai la minima idea del-
la forza di Cesare.»
Tricia sorrise: «Beh, forse hai vinto la scommessa» convenne: «i dadi dopo
tutto ci sono. Via, puoi limitarti a pagarmi il gelato.» Mentre procedevano
Ambrogio aguzzò gli occhi: «Ehi, cosa c’è là?»
Tricia guardò incerta: «Cos’hai visto?»
«Quegli... affari. Niente di speciale, ma una volta, per quel che ricordo, non
c’erano.»
«Ma cosa?»
«Quei paletti. Li vedi quei pali?»
«Non vedo niente.»
«Là davanti ai dadi. E anche in mezzo, a quanto sembra.»
Quei paletti e pali si rivelarono di lì a un po’ di tempo, supporti d’un retico-
lato, che recingeva una parte del più vicino argine del fiume.
C’era la guerra, eh già. Ambrogio se ne ricordò a un tratto, e trovandosi in-
sieme a Tricia provò una certa vergogna per non essere anche lui sotto le armi,
per essere in vacanza a quel modo, come un ragazzino.
«Guarda guarda» disse, superando la fastidiosa sensazione: «devono averci
fatto un posto d’avvistamento, o qualcosa di simile.»
Dai blocchi recintati emergeva un piccolo tetto di cemento, forse una casa-
matta, forse soltanto un ricovero. A poca distanza dal quale, seminascosto tra i
blocchi, c’era un soldato che, coi gomiti poggiati a un blocco appunto, stava
osservando il mare attraverso un binocolo.
Quando lo scorse Ambrogio lo indicò a Tricia: «Ecco, è un posto
d’avvistamento» disse: «Di là controllano il mare, se vi compaiono sottomari-
ni oppure aerei.»
La ragazza accolse la spiegazione come provenisse da un competente di cose
militari. Tanto che il giovane s’indusse a pensare, sia pure piuttosto in confu-
so: “In fondo non ho motivo per vergognarmi: se adesso non sono soldato, lo
sarò certamente fra poco. Dunque...” Finì addirittura col provare per l’altro
soldato, quello vero, un senso di colleganza: «Tricia, mi sorprende una cosa
sola: che quello, invece del mare, non guardi te col cannocchiale».
Quasi l’avesse udito il soldato - ripetendo una manovra già fatta in prece-
denza più d’una volta senza che i due se n’accorgessero - puntò su di loro il
binocolo, e stava per riportarlo sul mare, ma stavolta tornò indietro, insisté a
guardarli; erano piuttosto vicini ormai: il soldato sembrò animarsi alquanto,
chiamare qualcuno.
«Ah» disse Ambrogio «adesso sì che ci siamo. Volevo ben dire io.»
Si affacciarono accanto al primo, altri due soldati: sebbene potessero vedere
ad occhio nudo, pure vollero guardare a turno col binocolo, certo per osserva-
re a loro agio Tricia. Ambrogio si rese conto che commentavano tra loro,
fors’anche sguaiatamente: uno diceva qualcosa agli altri, insistendo a tracciare
nell’aria col pollice, senza possibilità d’equivoco, il profilo d’un corpo di don-
na.
«Guarda» fece allora Ambrogio un po’ mortificato, per distrarre la ragazza:
«lì sul reticolato, vedi quel cartello? E anche là, ce ne sono degli altri.» Il più
vicino era leggibile, recava la scritta: ‘Zona militare - Divieto di accesso’.
«Beh, credo che ormai ci convenga tornare indietro» propose dopo un po' il
giovane, e aggiunse: «anche per non dare troppo spettacolo a quei poveri af-
famati.»
Docilmente Tricia voltò le spalle al Rubicone, e insieme con lui iniziò il
cammino in senso inverso, alla volta di Cesenatico. Non dava alcuna impor-
tanza al comportamento dei tre soldati, che del resto aveva notato a malapena.
Ambrogio era invece mortificato (perché “una cosa quando è successa nem-
meno Dio la può più togliere via”), e irritato: quando fosse venuto il momento,
avrebbe provveduto lui a raddrizzargli le gambe ai soldati che si comportava-
no così.
Poco alla volta il Rubicone coi suoi blocchi di calcestruzzo, e quel reticolato
da quattro soldi, e i soldati dello stesso valore, restarono indietro. Riassorbì i
due ragazzi la vastità dell’ambiente: la lunga spiaggia incolta, la distesa ster-
minata del mare che adesso era investita, a momenti, da refoli improvvisi di
vento, i quali ne facevano ora qua, ora là, increspare e vibrare qualche riqua-
dro. La serenità dell’ambiente, poco alla volta, si trasfuse di nuovo in Ambro-
gio.

CAPITOLO VENTITREESIMO

Terminato il suo mese di mare, la famiglia di Tricia era in partenza; manca-


vano due giorni al ferragosto.
Al mattino Tricia aveva fatto in compagnia d’Ambrogio un bagno intermi-
nabile: non si risolveva mai a uscire dall'acqua, quasi ciò comportasse per lei
l’abbandono non soltanto del mare, ma anche di tante altre, inesplicabili cose.
Durante il pranzo il ragazzo, che dal proprio tavolo aveva sottocchio i cin-
que componenti la famiglia, fu sfiorato a un tratto dall’idea che forse non li
avrebbe rivisti mai più. Certo egli non intendeva troncare l’amicizia con Tricia:
quanto a Tricia dunque sta bene; ma gli altri? Li avrebbe mai rivisti? Il dottore
per cominciare: con lui non aveva quasi scambiato parola, si può dire che non
lo conosceva neppure... Con quegli occhi sporgenti al modo di certi pesci sem-
brava - a osservarlo bene - (Ambrogio se ne accorgeva adesso per la prima vol-
ta) sempre un po’ spaventato. E la madre? La sera del primo giorno aveva di-
sceso le scale in quel modo strano, ammirandosi come una svampita, poi però
s’era dimostrata donna di buon senso: unico suo difetto la lingua,
‘l’incontinenza della parola’ (“Eh va beh!...”). E le piccoline, i due saltamarti-
ni? Abbronzate, graziose, sedevano compite ai loro posti e mangiavano con
calma: col tempo si sarebbero fatte due belle ragazze, come Tricia; non bionde
come lei però, con quei capelli castani tagliati a frangetta... Chissà se l’avrebbe
più rivista questa gente. E la stessa Tricia, chissà se avrebbe rivisto davvero
anche lei... Avevano concordato d’incontrarsi all’università quando lei pure ci
sarebbe arrivata: non quest’autunno dunque, ma il successivo. Tra più d’un
anno, e c’era la guerra! Chissà dove mai si sarebbe trovato lui, tra più di un
anno...
Dopo il pranzo assisté alla loro partenza, e anzi si diede da fare per aiutarli
a caricare i bagagli sulle due carrozzelle che li avrebbero portati alla stazione.
Era entrato in uno stato d’animo piuttosto depresso: Tricia se ne accorse, e
per qualche istante lo guardò fisso negli occhi come per sondarlo meglio, ma
qualcosa non dovette convincerla. Ci furono le solite strette di mano, gli
scambi di saluti, gli inviti a non dimenticarsi, gli auguri di buon viaggio; fi-
nalmente le due carrozzelle s’avviarono. Ambrogio rientrò solo solo nel giar-
dinetto della pensione Iris e andò a sedersi su una panchina.

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

La sera di quello stesso giorno, all’ora di cena, gli telefonò da Nomana suo
cugino Manno: «Son qui, sì sono a casa. Da ieri sera, in licenza d’attesa di
nomina. Gli esami del corso? Beh, sono andati non c’è male. Tuo padre adesso
vuole che io prenda, anzi che accumuli sole, pensa un po’.»
«Ma questa è diventata una vera fissazione del papà» non poté a meno di
osservare Ambrogio.
«Una vera che? Fissazione? Esatto» gli rispose ridendo il cugino. «Beh, ci
sono camere disponibili lì dove sei tu? Sì? Allora prenotane una, che domani
arrivo come una palla di schioppo. Che treno prendo? Dipende, van tutti bene.
Tu che treno hai preso?»
Ambrogio gli riferì. «Me lo sono annotato, andrà bene anche per me» disse
Manno. «E adesso ti passo la mamma» (così Manno chiamava Giulia) «che
vuole salutarti».

***
Il giorno dopo, vigilia di ferragosto, Manno arrivò puntualmente a Cesena-
tico; non indossava la divisa e alla stazione ferroviaria non prese la carrozzel-
la. Dal giardinetto della pensione Iris Ambrogio l0 vide arrivare a piedi, abbi-
gliato da ‘grande estate’, con la valigia issata su una spalla, sudato, a passi
energici.
“Eccolo che già comincia con le sue trovate” pensò in un impulso di simpa-
tia. Con questa trovata dovevano probabilmente avere a che fare i saltuari sar-
casmi di Gerardo sulla facilità a stancarsi dei ‘giovani d’oggi’. Uscì incontro al
cugino, gli tese la destra; Manno, che aveva la propria impegnata per tenere la
valigia in equilibrio sulla spalla, gliela strinse con la sinistra. I due si guarda-
rono in faccia lietamente: più alto d’Ambrogio, snello, azzurro d’occhi e chiaro
di capelli (color biondo tizianesco dicevano le donne di famiglia, spiegando
per soprammercato: «Sua mamma era veneta, di Vicenza»), Manno, studente
d’architettura, non somigliava al cugino neppure quanto al carattere, che ave-
va estroverso.
«E pensare» disse tentennando la testa «che la vita scomoda sarebbe quella
militare, non questa borghese.»
«Vuoi dirmi perché non hai presa una carrozza?» gli chiese Ambrogio.
«Perché davanti alle carrozze c’era ressa.»
«Eh già. Di ferragosto.»
«Avrei dovuto far la fila, aspettare il turno. Figurati, ne ho già fatte poche di
code io, per il rancio e il resto.»
«Poi me lo devi spiegare bene com’è fatta la naia.»
«D’accordo. Sentirai che incanto.»
«Dammi la valigia.»
«Ma no. Perché?»
Ambrogio gliela tolse di spalla; entrarono insieme nel giardinetto della pen-
sione. Ad onta del sudore che lo imperlava, Manno aveva, a prima vista, un
aspetto decisamente più signorile del cugino.
«Quanti giorni pensi di fermarti?» gli chiese Ambrogio.
«Una quindicina, diciamo finché rimani anche tu. Ho un mese esatto di li-
cenza, e vorrei passarne in famiglia la seconda metà, perché non ho la minima
idea di dove poi mi sbatteranno. Oltre tutto ieri don Mario mi ha fatta ’na ca-
pa tanta perché tenga qualcuna delle solite lezioni ai ragazzi dell’oratorio, e
non vorrei deluderlo, il poveromo.»
Ad Ambrogio le due espressioni non lombarde in bocca al cugino fecero una
certa impressione: «Mi stai diventando poliglotta» mormorò.

III

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

A fine agosto i due giovani fecero insieme ritorno a Nomana, dove Ambro-
gio riprese la vita di prima: impiegava la mattina a far pratica in ditta, e il po-
meriggio nella lettura e nelle gite in bicicletta.
Un giorno decise di visitare un compagno di collegio domiciliato in Brianza,
che come lui si sarebbe iscritto all’università cattolica di Milano. Si trattava
d’un tipo interessante, intenzionato fin dalle elementari a fare, nientemeno, lo
scrittore: il Michele Tintori di Nova, figlio unico d’un grande invalido della
guerra precedente.
Mentre di primo pomeriggio pedalava alla volta di Nova, Ambrogio rianda-
va tra sé l’originale personalità del suo compagno. Senza dubbio l’inclinazione
all’arte gli veniva dal padre il quale, sebbene di cultura modestissima (scalpel-
lino di mestiere, doveva sì e no aver frequentata la quinta elementare), aveva a
suo tempo scolpito dei drammatici bassorilievi, ora sparsi in varie chiese della
zona. Anche altri compagni di collegio - Ambrogio ricordava - erano intenzio-
nati a fare lo scrittore oppure il poeta, e in effetti qualche loro poesia (“Ma
perché tutte quante ermetiche? Mah!”) compariva ogni tanto sul bollettino del
collegio. Ambrogio ridacchiò: il disprezzatissimo bollettino del collegio! Solo
obtorto collo, e per assoluta mancanza di meno disdicevole palestra, i futuri
poeti si risolvevano a pubblicarvi le loro opere accanto ai fervorini del rettore
e alle cronache dell’accademia scolastica. “Comunque su nessuno degli altri io
punterei una lira, sul Michele Tintori invece...” Quello era come fatto d’una
pasta speciale. “Vero che anche lui ha pubblicato più d’una poesia sul bolletti-
no, quand’era nelle elementari però, non in ginnasio o in liceo come gli altri.”
Ambrogio ricordava bene questo particolare: il Tintori aveva cominciato a
scrivere poesie in terza o quarta elementare; ovviamente allora gli mancava
ogni nozione di metrica, e non d’autentici versi s’era trattato, ma d’infantili
composizioni rimate, così almeno gli aveva poi detto lo stesso Tintori. Il quale
a un tratto aveva intuito (“A guardar bene sta qui la sua forza: nell’intuizione”)
di non essere sulla strada giusta, e infante com’era aveva risolutamente smes-
so di scrivere le poesie che pure il bollettino (a quell’età non disprezzato) gli
stampava. Ambrogio lo ricordava poi più avanti, quando al principio del gin-
nasio era stato distribuito il testo d’Omero. Fino ad allora probabilmente il
Tintori, al pari degli altri allievi, di Omero aveva ignorata l’esistenza: appena
però s’era trovato tra le mani le sue pagine, n’era stato preso al punto che non
se ne sarebbe mai staccato. Era incredibile quanto lo attirasse quella poesia...
Ambrogio continuava a riandare tali vecchie cose mentre pedalava con energia
in mezzo ai campi di stoppie azzurrati dagli ultimi fiordalisi, tra Seregno e De-
sio. “Quante volte l’ho visto, nelle ore di ‘studio’, liberarsi in fretta dalle altre
materie per prendere in mano il libro d’Omero!” Ragazzino com’era il Tintori
percorreva quel nuovo esaltante dominio addirittura con la gioia dipinta in
faccia e - cosa inedita nel loro ambiente - si seccava quando la campana elet-
trica della ricreazione l’obbligava a staccarsi dal libro. “Poi, a metà ginnasio,
ha cominciato a scrivere romanzi...” Ambrogio sorrise: i ‘romanzi’, come li
chiamavano loro suoi compagni, erano in realtà racconti fantastici, in genere
ambientati nelle epoche oggetto delle lezioni di storia.
Durante tali lezioni, mentre il professore parlava, la fantasia del Michele
Tintori non riusciva a contenersi: ogni episodio o notizia, le figure del testo,
perfino i nomi obsoleti contenuti nelle carte dell’atlantino, costituivano per lui
spunti a vicende immaginarie, a storie che si susseguivano con fervore nella
sua mente. Aveva cominciato a mettere per iscritto quelle fantasticherie,
riempiendo poco alla volta dei quaderni. Il tempo di studio non gli bastava
più, s’era perciò messo a scrivere anche durante le ore di lezione: col risultato
che l’uno o l’altro professore finiva col prenderlo sul fatto, e col sequestrargli il
‘romanzo’. Come il professore Zaròli quella volta: «Perché non segui la lezio-
ne, Tintori? Cosa stai scrivendo? Fa vedere.» Aveva sfogliato il quaderno: «I
fenici? Che c’entrano i fenici? Se adesso stiamo studiando l’età romana? Cosa?
Una nave fenicia nell’atlantico assalita da... da piroghe indigene? Che scem-
piaggine è questa?»
Il Tintori, mortificato ma non molto, aveva cercato di sottrarsi alle spiega-
zioni: «Chiedo scusa. Mi voglia scusare.»
«Ma cos’è che stai scrivendo, si può sapere?»
«Mi sono lasciato prendere la mano da...»
«Da cosa?»
«Non lo so.»
L’intera scolaresca, che fino allora s’era contenuta, era a un tratto esplosa:
«Signor professore, è un romanzo.» «Un romanzo storico.» «Anche il profes-
sore di matematica gliene ha sequestrato uno.» «Questo è il terzo che gli tro-
vano.» «Il primo era una storia di antichi greci che esploravano il Caucaso.»
«Sì, con le armi di bronzo e una colonna di muli, come le upozughìa di Seno-
fonte, e...»
«Dunque ti piacciono i muli, eh?» aveva detto, a buon conto sarcastico, il
professor Zaròli: «Rispondi.»
Il Tintori aveva finito col non sottrarsi più: «Sì, i muli, e le navi, e... tutto
quello che esiste mi piace» aveva risposto, o press’a poco: ciò che Ambrogio
adesso ricordava era che, in quell’occasione, la parola muli, la parola navi, in
bocca al suo compagno avevano assunto una sorta di strano incanto. Dopo
averlo disapprovato con un’occhiata il più possibile severa, il professore aveva
ripresa la lezione. Al romanziere il manoscritto sarebbe stato reso solo alla
fine dell’anno scolastico, allorché venivano restituiti i temperini, i fischietti, le
palline da ping pong, egli altri corpi estranei sequestrati nel corso delle lezio-
ni.
Però! quanti ricordi pareva ad Ambrogio di avere già adesso, a diciannove
anni.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Ecco le prime avvisaglie del paese di Nova, le sue strade verdi, diritte, di
pianura (Nova è posta all’estremità meridionale della Brianza), ecco il portello
che immetteva nel cortile del suo compagno: davanti all’abitazione
dell’invalido c’era infatti uno spiazzo circondato da un muro, dal quale svetta-
va un ciuffo di bambù, Ambrogio conosceva bene il luogo per esservi venuto in
visita diverse volte; scese di bicicletta, e mentre apriva il portello avvertì un
senso d’aspettativa: avrebbe parlato con persone - padre e figlio - nei cui di-
scorsi altre volte aveva trovato importanti motivi di riflessione, punti fermi
che avevano poi costituito per lui dei riferimenti.
Trovò il piccolo cortile parzialmente inondato d’acqua saponosa: il che lo
indusse a rimontare in sella per attraversarlo senza infangarsi le scarpe.
«Ecco, bravo Riva. È stata la donna a ore a fare il lago» gli spiegò, renden-
dosi conto della manovra, il suo compagno. Che s’era alzato da una poltronci-
na all’ombra dei bambù: «Ha appena buttata via l’acqua del bucato. Cosa vuoi,
è una butta là»; teneva in mano un libro, fece qualche passo verso il visitatore:
«Dai, vieni in salvo qui sulla terra ferma.» E finalmente stringendogli la ma-
no: «Ciao. Bravo che sei venuto a trovarmi.»
«Ciao Tintori. Beh si può sapere cos’è che fai qui, tutto ‘spaparanzato’ nella
pace, mentre - per dirla con Zaròli - Annibale è alle porte?» gli rispose Am-
brogio.
L’altro corrugò la fronte: «Siamo noi alle porte degli altri, temo, siamo noi
gli Annibali» mormorò. Era alquanto più alto d’Ambrogio, nero d’occhi e di
capelli.
«Tuo padre cosa ne dice? Come l’ha presa?» chiese Ambrogio. Il Tintori
tentennò la testa: «Con lui cerca se possibile di non parlare della guerra» lo
avvertì abbassando la voce: «Glien’è occorso di tempo per mettersi calmo.»
Ambrogio strinse, come per siglare un accordo, un polso del compagno:
«Hai fatto bene ad avvertirmi.»
«Beh» disse l’altro: «Vuoi ch’entriamo in casa, o preferisci sedere qui, ‘pa-
tulàe sub tégmine bàmbui?’»
«Bàmbui?»
«È il genitivo di bambù, no?» disse il Tintori.
«Ah, ecco, ‘bàmbui’ allora» rispose Ambrogio. «Mi metto volentieri anch’io
sotto i ‘bàmbui’.» I quali risultavano piuttosto mal tenuti, al pari delle scrosta-
te poltroncine di vimini che stavano nella loro ombra, e del cortiletto, nonché
della stessa casa ch’era una sorta di propaggine di una ex casa gentilizia tra-
sformata in casone popolare. “A parte la povertà, qui si nota la mancanza
d’una donna” pensò, certo non molto originale, Ambrogio. Ricordò che la mo-
glie del grande invalido - una modesta infermiera - era morta nel dare alla lu-
ce il suo compagno Michele. «Ma aspetta, fammi prima sistemare questa.»
Seguito passo passo dal compagno, andò a mettere, come nelle visite prece-
denti, la bicicletta sotto un piccolo portico; in cui erano fissati a un muro me-
diante grosse zanche due bassorilievi di marmo: gli unici - Ambrogio sapeva -
che fossero rimasti allo scalpellino-scultore dal tempo in cui poteva produrre.
Anche stavolta - non fosse che per cortesia - il ragazzo indugiò un poco a os-
servarli: erano zeppi di drammatiche figure in forte rilievo, rappresentavano
uno il duello tra l’arcangelo Michele e Lucifero (il soggetto preferito dal singo-
lare scultore), l’altro la salita di Cristo al Calvario.
«Non mi arrischio a far commenti, però sai che mi piacciono» disse per cor-
tesia al compagno. «Come del resto piacciono a mio cugino Manno, che se
n’intende un po’ più di me. Non per niente è iscritto a architettura.»
Il compagno annuì. «Ricordo bene cos’ha detto Manno quando è venuto
qui. Quella volta, non come oggi, tu ti eri arrischiato a commentare queste
sculture.»
«Non l’avessi mai fatto» scherzò Ambrogio, «dovevo essere ben giovane.»
Il Tintori però non scherzava: «È stato un paio d’anni fa. Tu queste sculture
le avevi definite naïves, ti ricordi?»
«Se lo dici tu.»
«Manno però ti ha corretto: ‘Potresti chiamare naïves le opere dei maestri
comacini?’ ha detto: ‘No. Perché sono sì ingenue eccetera, ma sono anche, og-
gettivamente, tutt’altra cosa da quello che s’intende oggi per naif. Secondo me’
ha detto ‘queste sculture derivano in linea retta dalla stessa matrice culturale
che ha prodotto le opere comacine. Perché sono, come quelle, un prodotto
spontaneo del nostro popolo, del suo mondo interiore, senza influenze o ag-
giunte esterne.’ Questo» concluse il Tintori mentre riattraversavano il cortilet-
to «è stato per me un discorso di quelli che lasciano il segno: ecco perché lo
ricordo quasi parola per parola. Mi ha aperto in un certo senso gli occhi
sull’arte di mio padre.» (Stava per aggiungere: «E anche sulla mia» in quanto
per lui, giusto come per i comacini, era pacifico che l’arte si trasmettesse di
padre in figlio; ma lasciò perdere.)
Sedettero sulle poltroncine accanto al ciuffo dei bambù, al cui piede cresce-
va un branco di mughetti minuti, modesti come l’erba. («Li ha piantati mia
madre» aveva riferito una volta il Tintori: sebbene nessuno le curasse, le pian-
ticelle seguitavano a ricomparire anno dopo anno, tenaci - malgrado la loro
fragilità - come certi ricordi gentili che, anche se li trascuriamo, insistono a
riaffacciarsi nel nostro spirito.)
«Beh, dove si trova adesso tuo cugino?» s’informò il Tintori. «Sempre a Pe-
saro?»
«No, in questi giorni è a Nomana, in licenza d’attesa di nomina a sottote-
nente: deve tornare alle armi il 14 settembre. Sai che sono stato con lui due
settimane al mare, a Cesenatico?»
«È un ragazzo in gamba come pochi. Mi piacerebbe sentirlo in merito alla
naia.»
«Infatti è interessante: dovevi ascoltare a Cesenatico i commenti di Clero
Indigeno. Beh, adesso Manno è a casa: se credi, puoi venire da noi uno di que-
sti pomeriggi, troveresti anche i miei fratelli, che sono appena rientrati dalla
villeggiatura.»
Il Tintori era già stato più d’una volta a Nomana, conosceva più o meno tut-
ti della famiglia.
«Uno di questi pomeriggi? No, adesso sono in fase di pigrizia» rispose.
«Come detto, allora.» I due compagni si sorrisero cordiali. «Dì un po’» fece
Ambrogio: «mi chiedevo una cosa, mentre venivo qui: ne hai più scritti di ro-
manzi?»
«Quali romanzi?»
«Come: ‘quali romanzi?’ Quelli che scrivevi in collegio, non ricordi quello
che t’ha sequestrato il professor Zaròli?»
«Ah, quand’eravamo ancora in ginnasio... Cosa diavolo vai a rispulciare? No
comunque» rispose il Tintori, e citò in dialetto: «‘Zucche e meloni alle loro
stagioni’. È da allora, dal ginnasio, che non ne scrivo più.»
Ambrogio lo guardò interrogativo.
«Vuoi sapere perché?» fece il Tintori: «Dai, come si fa a scrivere, se prima
non si è sperimentata la realtà, la vita? Adesso noi abbiamo diciannove anni, è
troppo presto per scrivere.»
Ecco un’altra delle caratteristiche del Tintori, pensò Ambrogio: il senso dei
limiti dell’età giovanile, un senso appunto comacino, che pochissimi ragazzi in
collegio avevano. Ad onta dei suoi impulsi prepotenti, non aveva mai voluto
precorrere la propria età, piuttosto il contrario, se mai.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Dalla casa uscì su una poltrona a ruote il Tintori padre; spingeva il veicolo
un soldato di sanità che Ambrogio aveva già visto.
Il ragazzo si alzò in piedi in segno di rispetto; l’invalido gli sorrise e lo salutò
con un cenno della mano, quindi si fece accompagnare al ciuffo dei bambù.
Ancora una volta Ambrogio notò come muovesse la testa poco agevolmente: il
suo corpo - un po’ flaccido - dava l’impressione di far perno sul punto in cui la
colonna vertebrale era stata offesa. Il figlio gli chiese con sollecitudine: «Esci a
fare il tuo giro in paese, papà?»
«Sì. Ma prima lasciami salutare il tuo amico.» S’esprimeva in dialetto,
strinse la mano di Ambrogio: «Bravo Riva che è venuto a trovare il Michele, il
mio arcangelo Michele.» Fece una pausa, osservando compiaciuto il visitatore.
«Dell’esito dei suoi studi neanche le chiedo: so che a maggio siete stati tutti
promossi senza esami.» «Sì, però mentre allora questa mi sembrava una gran
fortuna» disse Ambrogio «adesso» e abbassò improvvisamente la voce «da
quando è scoppiata la guerra...» (“Che gaffe, mio Dio” pensò: “ho portato sen-
za perder tempo il discorso proprio là dove non avrei dovuto! ”)
«Beh, rimane sempre una fortuna» disse con naturalezza Michele: «Pensa a
quelli che l’anno scorso han dovuto sgrugnarsi gli esami, e adesso quanto alla
guerra sono nella nostra identica posizione.»
Ambrogio ridacchiò assentendo: «È vero.»
«Per me comunque» continuò Michele «la cosa più importante è un’altra, e
cioè che col nuovo anno io non peserò più su di lui» indicò il padre «con le
spese del collegio. Il nostro collegio costava caro: è uno dei più cari di Milano.
L’università verrà a costare molto ma molto meno.» Annuì ripetutamente.
Il soldato accompagnatore, un buon diavolo con gli occhiali, d’aspetto mite,
che nel frattempo aveva preso posto su una delle poltroncine, fece una mezza
risata, tanto per partecipare.
L’invalido andò con gli occhi, quasi senza muovere la testa, da lui al figlio.
«Costava caro, sì, però era anche uno dei più sicuri.» Si volse ad Ambrogio:
«Non è così?»
«Eh» convenne genericamente il giovane, incerto sul significato che l’altro
dava al termine ‘sicuri’ in dialetto. «Con professori come quelli, che scrivono -
alcuni almeno - manuali che poi vengono adottati anche in altre scuole (Nan-
geroni per esempio: si può dire che mezz’Italia studia la geografia sui suoi te-
sti, e Mazza, e Consonni) beh, con professori simili una scuola deve costar ca-
ra per forza.» L’invalido non disse né sì né no.
«Ma intanto» completò il proprio pensiero Ambrogio «tu e io abbiamo avu-
to un insegnamento che meglio non si poteva.»
Ci fu una pausa; l’invalido seguitava a tacere.
«Non è per questo» spiegò allora il Tintori figlio: «Non so se te n’ho mai
parlato, ma non è per questo che mio padre m’ha fatto studiare per dieci anni
in un collegio che gli assorbiva due terzi del suo assegno mensile. È invece
perché lo giudicava la scuola più sicura sotto l’aspetto morale.»
«Certo» confermò l’invalido, «proprio così.»
«Ehi» disse allora Ambrogio con l’aria di fare una mezza scoperta: «Volete
saperlo? Non ci ho mai pensato, ma anche nella scelta di mio padre dev’essere
entrata una considerazione simile.» Strizzò con aria d’intesa l’occhio al suo
compagno.
L’invalido notò il gesto: «Voi siete giovani» disse condiscendente, «ci scher-
zate sopra perché non vi rendete conto di cosa rappresenti per un padre il ri-
schio di perdere il proprio figlio. E che vada perduto anche per Domine Dio
quel figlio. Con tutte le idee e i pensamenti sbagliati che oggi ci sono in giro.»
«Ma papà, non son mica un bambino» protestò Michele: «avrei saputo
guardarmi, no? difendermi. Lo sai che come forma mentis io sono forse più
paolotto di te.»
«Adesso sì sei ben saldo (franch), perché ti sei formato nel modo giusto»
disse il padre «e di questo io ringrazio sempre Dio. Ma quand’eri un ragazzi-
no?»
«Con tutte quelle ragazzette che ci sono in giro» buttò là il soldato di sanità,
che aveva capito un po’ all’incirca.
«Oh, basta» sbuffò Michele.
Ci fu una pausa. «Siete due bravi ragazzi» disse l’invalido a mo’ di conclu-
sione. E al soldato: «Allora Piero? Lo vogliamo fare il nostro giretto?»
Dopo essersi nuovamente alzato in piedi, e avergli stretta la mano, Ambro-
gio l’osservò allontanarsi attraverso la fanghiglia del piccolo cortile, crocifisso
alla poltrona dalle ruote quasi di bicicletta.
«Tu lo vedi in quello stato da quando sei nato, vero?»
Il Tintori figlio annuì. «Non cambierei il mio con nessun altro padre al
mondo» disse.
«A scuola ci hanno insegnato il perché del dolore, il suo ruolo nell’economia
della salvezza di tutti, eccetera. Ma a trovarcisi dentro non so» fece Ambrogio.
Il Tintori continuò ad annuire: «A trovarcisi dentro si benedicono quelle
spiegazioni» disse. E abbassando un po’ la voce: «Non sono ragioni umane
quelle: a scuola ci hanno semplicemente trasmesso ciò che Cristo ha insegnato
prima di consegnarsi ai carnefici che lo mettessero in croce. Mio padre dà una
mano a Cristo» improvvisamente gli si gonfiarono gli occhi: «continua la pas-
sione di Cristo, ed è cosciente di farlo.»
Dopo pronunciate queste parole si placò, cambiò discorso. I due rimasero a
conversare per un’ora buona seduti all’ombra dei bambù, e già di lì a poco,
mentre formulavano i piani per la loro prossima vita universitaria, avevano
ripreso a scherzare, abbondantemente anche, com’è naturale che facciano due
ragazzi.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Nel corso delle due settimane che trascorse a Nomana prima di tornare alle
armi, Manno dedicò - come aveva promesso a don Mario - alcune serate ai
ragazzi dell’oratorio.
Riprese nel punto in cui le aveva interrotte, certe sue lezioni sull’arte.
«L’arte, se è autentica, indirizza a Dio» (Non si sorprenda il lettore
d’incontrare subito dopo il Michele Tintori, un altro giovane appassionato di
Dio: dopo tutto ci troviamo in Brianza, nella Brianza d’allora.) «Questo prima
di partire io ve l’ho detto un sacco di volte: è la convinzione che sta alla base
dei nostri incontri, lo sapete.»
I ragazzi, seduti davanti a lui sulle sedie impagliate dell’oratorio, lo segui-
vano attenti: sapevano che, a differenza dei suoi cugini Ambrogio e Fortunato,
Manno non intendeva fare l’industriale (del resto non ne aveva il tipo: dell'in-
dustriale brianteo almeno che, come s’è detto, era quasi sempre d’estrazione
popolare: Manno aveva modi diversi, più raffinati e disinvolti); doveva co-
munque avere ragioni ben importanti, pensavano i ragazzi, per rifiutare
quell’opportunità che la vita gli offriva.
«Sentiamo te Carlino» provò a interrogarli il giovane: «Perché io dico e ri-
peto che l’arte indirizza a Dio? Te lo ricordi o non lo ricordi più, e ti pare che
lo dica soltanto perché ci troviamo all’oratorio?»
L’interpellato, levatosi in piedi, si trovò in difficoltà a rispondere: «Perché
nell’arte c’è il particolare, cioè no, l’universale. Eh, non mi ricordo più bene.»
Gli altri ragazzi ridacchiarono, ma in modo contenuto: avevano tutti una
certa difficoltà a ricordare quei concetti astratti sminuzzati per loro con tanta
pazienza da Manno, studente del secondo anno d’architettura.
«L’arte» disse il giovane «è ‘l’universale nel particolare’, è questo che tu vo-
levi dire, che abbiamo detto tante volte.» (Nel ripetere l’antica definizione che
ha orientato gli artisti dei secoli in cui l’Italia è stata veramente grande in arte,
Manno non provava la minima soggezione verso le estetiche nuove, tutte più o
meno in contrasto fra loro, di cui sono oggi pieni i testi e le riviste specializza-
te.) «Ma cosa significa, a metterla in spiccioli, questa frase? Prova a spiegarla
con parole tue.»
«Vuol dire che l’arte è... è una specie di...» si sforzava di ricordare il Carlino
Valli, diciassette anni, apprendista giardiniere.
«Beh, vedo che è necessario fare un ripasso generale. Cercate di stare atten-
ti, perché queste cose potranno servire a tutti: sia a quelli di voi che faranno
l’operaio, per arricchimento della loro mente, sia soprattutto a quelli che inta-
glieranno il legno o batteranno il ferro, o faranno il disegnatore industriale,
che sono lavori ai quali noi briantei siamo molto portati. Tant’è vero che la
nostra scuoletta professionale di Nomana, con tutto ch’è solo serale, arriva
quasi ogni anno a piazzare qualche concorrente nei concorsi provinciali e an-
che nazionali. Come tuo fratello Umberto, eh Giacinto? che tre anni fa è riu-
scito campione nazionale di disegno.»
«Adesso Umberto è soldato a Udine» dichiarò compiaciuto Giacinto.
«Lo so» disse Manno.
«Giacinto, non disturbare» intervenne don Mario: «il fatto che tuo fratello
adesso si trovi a Udine piuttosto che in un altro posto, non c’entra con questo
discorso.» Il giovane prete - capelli a spazzola, faccia da bambino con occhiali
cerchiati di ferro sottile - presenziava sempre insieme coi ragazzi: «Voglio im-
parare anch’io» asseriva.

In sua assenza i ragazzi più piccoli, ai quali non era concesso d’assistere alle
lezioni di Manno, finivano col ritrovarsi incustoditi nel cortile, e qualche volta
ne approfittavano.
Per uscire ad esempio dal portone a tirare sassi contro qualche targa strada-
le, o anche soltanto palo metallico, oppure, se gli capitava a tiro, contro qual-
che povero cane randagio che nella sua ricerca di cibo capitasse vagabondan-
do nei dintorni. Gli italiani — come anche questa guerra stava per dimostrare -
non sono privi d’amore per il prossimo; sono però impietosi con gli animali, e
i nomanesi, i bambini in particolare, non facevano eccezione alla regola.
Una sera alcuni monelli che stavano sul portone dell’oratorio («Tanto oggi
c’è la conferenza per i grandi, e don Mario non se n’accorge se noi ne combi-
niamo qualcuna»), scorsero appunto un cagnetto randagio. «Guarda, ehi,
guarda» esclamò uno di loro: «C’è il cane dell’oste, quello che l’oste non vuole
più.»
«Non lo vuole più, no, perché adesso ha un cane nuovo.»
«Possiamo fargli quello che vogliamo.»
«Ehi tu, Fido» lo chiamò muovendogli incontro uno dei bambini: «Fido,
vieni qui povero Fido» e cavatosi di tasca, ben stretto in pugno, il fazzoletto,
così che la bestiola vedesse solo un po’ di bianco, glielo tendeva come fosse un
pezzo di pane: «Toh, Fido, toh, prendi.»
La bestiola, esaurita da una terribile fame, sfibrata, con una zampetta acer-
bamente offesa tanto che nel camminare non la posava per terra, si era arre-
stata: levò il povero muso cercando d’annusare; si trovava a una dozzina di
metri dai monelli.
«Toh Fido, toh, toh, prendi.»
Il cane mostrava un’evidente paura (aveva paura di tutto ormai), ma anche
quanto la fame lo spingesse verso quella finzione di pane. Era un piccolo ba-
stardo di colore confuso, cui da un giorno all’altro il padrone aveva negato ci-
bo e ricovero, serrandogli sul muso l’uscio di casa: «Va via e non farti più ve-
dere. Via di qui.» Siccome la bestiola per giorni non s’era allontanata dalla
casa, cercando di cogliere ogni occasione per rientrarvi, l’uomo, che non aveva
animo sufficiente a ucciderla, l’aveva duramente picchiata, fino a farla fuggire
urlante. «Ecco» e bestemmiava «adesso l’avrai capita finalmente.» Malgrado
questo il cane non s’era risolto ad allontanarsi davvero. Dove sarebbe potuto
andare? Da innumerevoli generazioni gli animali della sua specie hanno di-
simparato a procurarsi il cibo da sé: per volontà dell’uomo il loro sostenta-
mento lo ricevono dall’uomo stesso, cui danno in cambio compagnia, festosità
e una devozione totale. Uggiolava per la fame specie di notte, la fame lo faceva
addirittura tremare, e una notte che così tremante s’era introdotto strisciando
nel portico dove un tempo era la sua ciotola, il padrone - attirato dai ringhi del
cucciolo nuovo - gli era arrivato sopra furioso e l’aveva colpito con calci e calci,
uno dei quali gli aveva storpiata irrimediabilmente una zampa; da allora il ba-
stardo vagabondava per Nomana e dintorni, leccandosi di continuo la zampa
dolorante, e tenendosi con terrore alla larga dalla casa dell’oste; frugava negli
immondezzai, talvolta qualcuno gli gettava un pezzo di pane, se però l’animale
tentava di stabilirsi in un cortile, ne veniva cacciato: «Ancora qui? No, qui no,
via. Va via brutta bestia.» Si era letteralmente ridotto pelle e ossa; ed era in
tale stato appunto quando i discoli dell’oratorio l’avevano chiamato fingendo
di porgergli del cibo. Con gli occhi imploranti e la coda bassa si era lasciato
avvicinare e infine prendere.
«El gh’è! El gh’è! (C’è! C’è!)» aveva gridato afferrandolo per la collottola
quello ch’era andato verso di lui col fazzoletto chiuso nel pugno:
«L’ho preso, c’è.»
«Attento a non lasciarlo scappare.»
«Attento. Sì, sta bene attento.»
I bambini l’avevano circondato: «Guarda che non ti morda.»
«Cosa vuoi che morda, brutto com’è?»
Erano giubilanti: «E adesso? cosa gli facciamo?»
«Un barattolo. Dai, attacchiamogli un barattolo alla coda.»
«Sì, un barattolo.»
«Sì, sì. Dai.»
Dal dire al fare. Lo spago necessario all’impresa uno l’aveva in tasca e lo tirò
fuori. Il barattolo però bisognava andarlo a cercare, e nessuno dei discoli vole-
va allontanarsi dalla preda. «Guarda come trema.»
«Brutto fifone.»
«Là alla curva ci sono dei barattoli: dai Gino, va tu a prenderne uno.»
Gino non volle andare; finì col trasferirsi tutta la piccola congrega col ca-
gnetto al cui collo era stato girato lo spago a mo’ di guinzaglio. Per terra c’era
effettivamente qualche barattolo rugginoso, ne venne scelto uno e legato alla
coda della bestiola. Che fu poi lasciata andare, spinta via:
«Via di qui. Va via brutta bestia. Scappa.»
«Via! Va via!»
Subito il cane cercò d’allontanarsi e fuggire, al che il barattolo rimbalzò
sull’acciottolato e batté contro le sue gambe posteriori; il povero animale si
voltò per un istante, incerto sulla natura del nuovo tormento: vide i bambini
corrergli addosso gridando, si mise allora a correre a sua volta, mentre il ba-
rattolo rimbalzava e strideva e batteva sempre più spesso anche col bordo ta-
gliente del coperchio contro la zampina offesa, che ora egli era costretto ad
appoggiare a terra. La bestiola cominciò a berciare per il dolore, correva e ber-
ciava, e i bambini dietro che acclamavano: il divertimento non avrebbe potuto
essere più grande.
Lungo la via dell’oratorio veniva in senso inverso Aristide del Ghemio, un
deficiente sui cinquant’anni, di pelle rossastra, col volto e il collo caratteristi-
camente deformati dal suo male, che era molto pronunciato, tanto da consen-
tirgli - specie quand’era eccitato - di parlare solo a scatti.
Oggetto lui pure a volte - se non c’erano adulti presenti - degli scherzi e del-
la baia della ragazzaglia, il deficiente si rese conto che i monelli stavano tor-
mentando il cane, e gli andò istintivamente in soccorso allargando le braccia
per sbarrare loro la strada; in pari tempo emetteva convulse grida di rimpro-
vero. Il cane gli sgusciò accanto: svoltato che fu nella piazza, le sue grida e lo
stridio del barattolo non si udirono più.
I bambini s’erano arrestati: guardarono il deficiente da prima con paura,
poi con crescente disappunto. I più arditi, senza accostarglisi troppo, comin-
ciarono a insultarlo, in breve tutti si misero a dargli la baia.
«Aristide non è capace di acchiappare nessuno» gridò quello che aveva cat-
turato il canino, e raccolto da terra un ciottolo lo palleggiò e glielo tirò contro.
«Fifone chi scappa» gridò un altro.
Poiché c’erano contro un muro dei detriti, tutti ne presero e cominciarono a
scagliarli contro il malcapitato che - colpito a un tratto anche in viso - non
osava più venire avanti. Incapace com’era di pronunciare per intero le parole,
mugulava al suo strano modo e agitava disordinatamente le braccia, mentre i
monelli urlavano anche più di lui: avevano trovato un nuovo divertimento.
Dal portone dell’oratorio uscì di corsa don Mario, seguito da altri: «Cosa fa-
te? Vergogna!» gridò. I monelli dapprima sembravano non voler desistere dal-
la loro impresa, però i ragazzi più grandi usciti con don Mario li afferrarono
prontamente per la collottola, volò qualche scapaccione, qualcuno dei piccoli
cominciò a frignare.
«Cattivi. Vergogna» diceva don Mario: sembrava sul punto di piangere.
«Portateli tutti nella stanza del bigliardino, che poi vengo io.»
Il prete andò verso il deficiente il quale, addossato a un muro, non si calma-
va; tolto di tasca il fazzoletto lo ripulì di alcune macchie causate dai detriti, e si
diede a parlargli con accoramento e pietà. Infine, presolo prima per mano e
poi sotto braccio, lo persuase a lasciarsi accompagnare alla sua casa, ch’era in
fondo alla stessa via.
Seguì una reprimenda ai discoli nel locale del bigliardino (erano tutti più o
meno lagrimosi a causa delle gagliarde tirate d’orecchi che i ragazzi più grandi
avevano inferto loro) e poi una solenne reprimenda a tutti senza eccezione i
ragazzi dell’oratorio. Per quella sera la conferenza - interrotta al suo inizio -
non ebbe luogo: «Andate tutti a casa, e rendetevi conto della gravità di ciò che
è accaduto» disse don Mario: «O ve ne rendete conto, o l’oratorio è inutile, e
anch’io sono inutile.»
Manno credé bene d’accompagnare fino a casa il prete, che non riusciva a
darsi pace. «Hai visto cos’hanno fatto?» ripeteva: «Hai visto che cattiveria?»
«Si calmi don Mario» gli diceva Manno: «si calmi. Erano quelli piccoli, non
hanno ancora avuto il tempo d’essere educati, di essere formati.»
«Sì. Quell’età» disse il prete arrestandosi, e sbarrando in faccia al giovane i
suoi occhi infantili dietro gli occhiali «e anche quella subito precedente, sono
forse le età peggiori. È il tempo in cui scoprono la sessualità e... quanti peccati,
che sporcaccioni, tu sapessi.» «Però dopo, più avanti, lo vede anche lei che si
correggono. Cerchi di non essere troppo pessimista. È un fatto o no che la
maggior parte dei ragazzi di Nomana, per non parlare delle ragazze, arriva
vergine al matrimonio? Le pare una conquista da poco questa? Saprà anche lei
come vanno le cose altrove.»
«Sì, poi si riesce a educarli, abbastanza, quasi tutti. Ma con che fatica.
Quanto pregare davanti al tabernacolo!»
Avevano ripreso a camminare. Il prete si fermò di nuovo: «Perché sarà co-
sì? Perché da piccoli sono tanto difficili?»
«Si vede che i bambini non nascono ‘naturalmente buoni’. Ecco un altro fat-
to che ce lo fa constatare.»
«Quella è un’età» disse il prete «in cui a volte si decide la sorte
d’un’anima.»
Ripresero a camminare; del cagnolino, di cui pure avevano avuto notizia,
non parlarono affatto. (Vogliamo anticipare? Trent’anni più tardi, sotto
l’influenza laico-umanitaria della televisione e delle idee nuove, i ragazzi di
Nomana non sarebbero più stati così: avrebbero tormentato meno gli animali,
e non avrebbero più tormentato pubblicamente i deficienti, che sono due in-
dubbi passi avanti. Però avrebbero cominciato - come non era mai accaduto
nella storia del paese - a odiare determinati gruppi sociali, e inoltre nessuno di
loro, o quasi, sarebbe più arrivato vergine al matrimonio. Tanto l’essere uma-
no è limitato: se acquista da una parte, perde puntualmente da un’altra; in
questo sembra non ci sia scampo. Ci tornano in mente, al limite, le incredibili
cassette per la nidificazione degli stornelli issate, nientemeno, sulle baracche
di Auschwitz, dai carnefici di cuore tenero verso gli uccellini.)
Quando giunsero alla casa di don Mario e il prete fu per aprirne la porta, a
un tratto ricordò: «I parenti di Aristide del Ghemio! Non sono entrato da loro
a spiegare, a scusarmi. Avevo in testa soprattutto i ragazzi e... Bisogna che ci
vada subito. Ciao Manno, ci rivediamo alla tua prossima lezione, martedì.»
Manno gli strinse la mano, poi stette a osservarlo allontanarsi nel primo
buio, frettoloso e ingobbito nella veste talare che faceva sembrare il suo fisico
più fragile.
«Caro don Mario!» mormorò.

CAPITOLO VENTINOVESIMO

Di lì a qualche giorno, a metà settembre, il giovane partì per la sua nuova


destinazione, Piacenza; l’accompagnarono al treno i cugini e gli zii che gli te-
nevano luogo di genitori.
Alto e biondo, nella divisa nuova da sottotenente in cinturone e stivali,
Manno faceva, bisogna dirlo, la sua figura. Ma soprattutto si capiva che sareb-
be stato un ufficiale vero.
Durante il ritorno, passo passo, verso casa, la conversazione degli altri
s’incentrò sulla guerra, mentre i più piccoli ascoltavano attenti. A dir la verità
operazioni militari italiane in quei primi tre mesi ce n’erano state poche. I
combattimenti mortificanti con la Francia, già ridotta in ginocchio dai tede-
schi, erano durati solo un paio di settimane, e anzi erano circolate al riguardo
voci confuse, secondo le quali i nostri non erano riusciti ad avanzare che in
qualche limitato settore: l’esercito - stando a quelle voci - s’era dimostrato to-
talmente impreparato. Ad ogni modo era subito sopraggiunto l’armistizio e
non si poteva giudicare. C’erano poi stati due scambi di cannonate tra la no-
stra flotta e quella inglese nelle acque di Punta Stilo e di Capo Spada, con esito
dubbio: più che battaglie come quelle descritte nei libri di storia, dove c’è una
flotta che vince e un’altra che perde, erano sembrate assaggi, inizi di battaglie.
C’era stata una facile avanzata italiana in Africa orientale, quella sì, ma non
più che scaramucce in Libia. Ultimamente, in settembre, i nostri sembravano
essersi a un tratto decisi a prendere il canale di Suez; s’erano tuttavia arrestati
assai prima d’arrivarci, e da alcuni giorni la radio e i giornali sgridavano con
arroganza chi si chiedeva il perché di tanti indugi: una simile domanda - am-
monivano - costituiva un segno di sfiducia nelle nostre gloriose forze armate.
«Il che significa» fece notare Gerardo «che anche i giornalisti del regime si
rendono conto della stranezza della situazione.»
«Sì. Non capisco proprio perché prima di cominciare la guerra, i nostri ca-
poccia non abbiano predisposta almeno l’occupazione di Malta e del canale di
Suez, che a quanto pare erano pochissimo difesi» disse Ambrogio, «come
qualche giorno fa mi ricordava il Tintori. E magari anche l’occupazione di Gi-
bilterra, col che avrebbero messo a frutto i precedenti sforzi in Spagna. Vi
rendete conto che sarebbe bastato questo per tagliare gli inglesi fuori del Me-
diterraneo? Non ci sarebbe stato alcun bisogno di battaglie navali allora.»
«Sono domande che gli stessi fascisti si fanno, me l’ha detto il mio compagno
Mazzotti di Milano» riferì Fortunato. «Neanche suo padre, ch’è un gerarca,
riesce a spiegarsi questa inerzia. E come mai stiamo ritirando, senza averle
veramente impiegate, le forze aeree che avevamo trasferito in Belgio per bom-
bardare l’Inghilterra.»
«Per me comunque la cosa più strana è che le fabbriche seguitino a lavorare
tutte o quasi con un ritmo di poco superiore al normale» disse Gerardo. «Che
l’industria cioè non sia stata ancora sottoposta a un grande sforzo. Questo si-
gnifica che se davvero siamo entrati in guerra impreparati, continuiamo a ri-
manerlo. Nessun affare civile verrebbe mai condotto in una maniera simile.»
Così conversando perplessi avevano percorso il grande viale ombreggiato da
querce (l’unico viale del paese) che dalla stazione sale alla piazza di Nomana;
giunti alla quale Giulia propose d’entrare un momento in chiesa: «A pregare
per il nostro Manno, che il Signore lo protegga.» Giulia non aveva partecipato
alla conversazione perché dopo la partenza del nipote non volevano uscirle di
mente le lontane, semicancellate partenze dei suoi due fratelli durante la guer-
ra precedente, da cui uno - lo zio Francesco - non era tornato.
In chiesa scorsero nella penombra don Mario, inginocchiato in una panca a
pregare solo solo, con la testa tra le mani; nella grande nicchia sopra l’altar
maggiore il Crocefisso risultava scoperto e illuminato come nei giorni solenni,
senza dubbio a richiesta dei parenti di qualche soldato del paese che versava
in estremo pericolo (stavolta - spiegò Ambrogio - doveva trattarsi del Roberto
Beretta, classe 1920, imbarcato su un sommergibile che in quei giorni non era
tornato alla base). Giulia incluse allora nelle preghiere anche il Roberto.
Poi la compagnia uscì di chiesa e si divise: Gerardo e Ambrogio
s’incamminarono verso la fabbrica, gli altri verso casa.
Nelle settimane seguenti la guerra seguitò a trascinarsi allo stesso modo.
Non se ne vedevano segni o quasi: anzi si vedevano in giro molti giovani in
borghese, intenti alle loro normali occupazioni, proprio come se la guerra non
ci fosse. Bisognava rispettare l’oscuramento notturno, è vero, e i veicoli circo-
lavano tutti coi fari schermati e i parafanghi verniciati di bianco, ma in com-
penso gli aerei nemici seguitavano a non farsi vivi.
Tranne una notte in cui ne arrivò uno, affatto isolato; radio e giornali ne
parlarono come di un serio tentativo inglese di bombardare Milano. L’aereo
sganciò una sola bomba nelle vicinanze di Monza, colpendo per caso una vil-
letta in costruzione non lontano dalla grande strada che costeggia il parco rea-
le.
Ambrogio pensò bene di fare un sopralluogo in bicicletta; rimase sorpreso
dall’irrilevanza del danno: due muratori l’avrebbero, con calce e mattoni, ripa-
rato in qualche ora. Erano dunque di questa entità i danni che l’aviazione po-
teva arrecare? Il giovane tornò a casa perplesso.

CAPITOLO TRENTESIMO

Quell’atmosfera stagnate fu sconvolta a fine ottobre da una notizia davvero


inattesa e quasi paradossale, tanto da non sembrare sul principio credibile: la
notizia della nostra aggressione alla Grecia.
«La Grecia? Perché la Grecia? Cosa ce ne facciamo della Grecia?»
Provvidero ancora una volta a indirizzare le menti la radio e i giornali; il cui
tono però si fece in un breve volger di giorni da trionfale ed entusiasta piutto-
sto cauto, poi - per chi era in grado di capire - quasi preoccupato.
Le cose sul fronte greco s’erano subito messe male per noi attaccanti; chi
era insofferente del fascismo ne gioiva di nascosto, qualcuno ne parlava anche
scopertamente: «Che razza di figura.» «Che fesso quel Mussolini.» «Ha cre-
duto di ripetere la passeggiata fatta l’anno scorso in Albania, e ha attaccato
senza nemmeno predisporre le forze necessarie. Adesso fa ridere il mondo
intero. Toh, ci ho gusto!»
Restava sottinteso che le forze occorrenti sarebbero state subito inviate, e la
nostra conquista, dopo quella figuraccia iniziale, sarebbe stata rapida: non era
neppure pensabile che le cose potessero andare diversamente.
Invece andarono diversamente; dopo settimane e settimane di combatti-
menti si venne profilando per noi addirittura il pericolo di perdere l’Albania e
di essere buttati in mare. Al di là delle spiegazioni della radio e dei giornali,
che non spiegavano niente, e al di là della loro insistenza su qualche successo
locale, filtravano dal fronte inspiegabili notizie: i nostri non ce la facevano
davvero, gli unici che tenevano erano gli alpini della divisione Julia. Cominciò
a circolare la voce che sarebbero stati inviati in Albania tutti gli alpini disponi-
bili.

Si trovava in quei giorni in licenza a Nomana, presso sua madre, don Carlo
Gnocchi, cappellano della divisione Tridentina; vestiva la talare e dava una
mano in chiesa. Una mattina i Riva lo videro arrivare in divisa e con la valiget-
ta: «Mi son mosso un po’ prima per passare a salutarvi.»
«Ma, don Carlo... Lei non doveva tornare alle armi la settimana ventura?»
«Sì, infatti. Però m’è arrivato stamattina un telegramma con l’ordine di
rientro immediato.»
Lo fecero accomodare in salotto, Francesca s’affrettò a telefonare in fabbri-
ca perché venissero anche il padre e Ambrogio, che infatti comparvero di lì a
poco.
«Cosa succede, don Carlo?»
«Chi lo sa.» Sorrideva mite; aveva il viso fine e la fronte alta, da intellettua-
le.
«La mandano in Albania?»
«Può darsi, non so. Del resto se ci mandano i miei alpini...»
«Ma lei è contento di andarci?» chiese Alma, la statuina. Sedevano tutti in-
torno a lui. Rodolfo, di sette anni, non riusciva a staccare gli occhi dal cappello
alpino con la penna e i gradi d’oro, posto sul divano accanto al prete.
Rispose don Carlo: «Contento Almina? D’andare in guerra? Però dove sono
i soldati, là dev’essere anche il cappellano. Non ti sembra?»
«In un bel pasticcio ci hanno cacciato quelli in alto» osservò Fortunato.
«Possibile che siano privi di cervello fino a questo punto?»
Don Carlo allargò le mani consacrate, non disse nulla.
«Per cosa pensa l’abbiano fatto? Voglio dire: perché secondo lei hanno at-
taccato la Grecia?» domandò Ambrogio.
In tempo di pace don Carlo scriveva sul quotidiano cattolico, i suoi pareri
erano ricercati; adesso però, chiaramente, egli non aveva voglia di pronun-
ciarsi, non rispose.
«Perché vuoi che l’abbiano fatto?» rispose in sua vece Gerardo, ripetendo
davanti a don Carlo la propria opinione già altre volte espressa: «Mussolini s’è
stancato di fare l’eterno secondo rispetto a Hitler, e ha pensato di sbalordire il
mondo con un’impresa sua. Ecco tutto.»
«E l’ha sbalordito infatti» mormorò don Carlo.
Rodolfo s’era addirittura curvato sul cappello alpino per esaminarlo meglio;
il cappellano glielo mise in testa. Il bambino lanciò un grido d’esultanza e sa-
rebbe corso fuori se la madre non l’avesse afferrato per un braccio.
«È vero che gli alpini sono gli unici che tengono in Albania?» chiese Am-
brogio. «Ne sa qualcosa lei? Ha sentito di quelle due compagnie della divisio-
ne Julia che sono riuscite da sole a tenere il fronte abbandonato da una divi-
sione ordinaria?»
«Qualcosa ho sentito» disse don Carlo. «Ma chissà come sono andate real-
mente le cose. In tempo di guerra di storie se ne diffondono tante.»
«Quella ho l’impressione che non sia una storia.»
«Chissà» fece il cappellano. «È certo comunque che sugli alpini si può con-
tare. Li conosco: sono i meno bellicisti fra tutti i soldati, ma non è gente che
scappa, questo mai.»
Non gradiva ad ogni modo parlare della guerra, era anche in ciò simile ai
suoi alpini. Spostò il discorso sui tempi in cui Gerardo presiedeva l’Azione
Cattolica di Nomana: «Ero bambino allora, ma ricordo diversi episodi»; poi
parlò di Manno, per il quale aveva molta stima: «È un ragazzo che farà un
gran bene. I miei saluti glieli trasmetterete voi.»
Infine si alzò in piedi: «Non posso fermarmi di più» si scusò con Gerardo
«mi spiace davvero d’avere interrotto il suo lavoro a mezza mattina.»
«Cosa dice mai, don Carlo!»
Il cappellano si rivolse da ultimo a Giulia: «Mia madre... spero che lei le
tenga un pochino compagnia.» La guardò negli occhi: fu chiaro che questa era
la cosa cui teneva di più, il principale motivo della sua visita.
«Lei parta tranquillo» disse Giulia «A questo non ci pensi neppure. Sèmm
(siamo) al mund per vütass (aiutarci), no? e del resto sarà per me un piace-
re.»
Don Carlo annuì con gratitudine. «Grazie.»
Dopo di che Francesca si rivolse a Rodolfo: «Su, restituisci a don Carlo il
suo cappello.»
Rodolfo però non ne voleva sapere; don Carlo prese il bambino per mano:
«Accompagnami al cancello, lo terrai fin là.»
Lo accompagnarono tutti al cancello.

Di lì a circa una settimana sua madre ricevette il primo scritto del figlio
dall’Albania.
Dove gli alpini e gli altri rinforzi arrestarono l’avanzata greca. Sopraggiunse
l’inverno, paralizzando ogni movimento tra quelle impervie montagne; ci si
abitua a tutto: gli italiani si abituarono all’idea di un fronte statico con la Gre-
cia; la vita continuò come prima.

CAPITOLO TRENTUNESIMO

In novembre ebbero inizio le lezioni all’università, e Ambrogio cominciò a


frequentarle. Partiva dalla stazione di Nomana col treno delle sette per arriva-
re, dopo numerose fermate, verso le otto a Milano. Dalla babilonica (quanto a
stile architettonico e a movimento di folla) stazione centrale, raggiungeva
l’università cattolica con un’altra mezz’ora di percorso in tram. Ogni volta,
entrandovi, trovava l’università molto bella, incentrata com’era sui due grandi
chiostri del Bramante, dalle slanciate colonne di granito. Mentre l’attraversava
verso la sua facoltà di scienze economiche, si guardava sempre attorno con
interesse, da quel provinciale che era; questo complesso era sorto nel cinque-
cento come convento, in seguito era diventato caserma, e solo da una decina
d’anni i cattolici italiani l’avevano riscattato per insediarvi la loro università:
la prima loro università dopo due secoli di sconvolgimenti positivisti...
L’impresa era ancora viva nelle menti di tutti i fedeli di mezz’età, anche in
quella di Gerardo, cui tuttora capitava di accennarvi con non sopito entusia-
smo. Ad Ambrogio ogni cosa sembrava nuova, anche i due chiostri rinasci-
mentali, i quali erano talmente caratterizzanti che tutto il resto egli finiva col
notarlo a malapena, tanto che non gli restava poi in mente. “Beh, c’è poco da
dire, Gemellone ci ha saputo fare, quel dannato” si ripeteva con compiacenza.
A volte gli capitava d’incontrarlo in persona Gemellone (alias padre Gemel-
li, frate francescano, fondatore e attuale magnifico rettore dell’ateneo): il qua-
le era un uomo magnifico davvero, alto forse due metri, d’aspetto rude. Nelle
prime settimane dell’anno accademico il rettore usava infatti aggirarsi per
chiostri e corridoi con aria disgustata, le mani infilate nelle maniche del saio,
tra le nuove reclute dell’università: era docente di psicologia e psicologo famo-
so non solo in Italia, e si riteneva in grado di capire una persona a colpo
d’occhio: investigava perciò se tra i nuovi discepoli, ch’erano migliaia, ci fosse
qualcosa di buono per la chiesa o per la scienza da cavare dal branco. Ogni
tanto - ma di rado - si arrestava e domandava a qualcuno: «Tu come ti chia-
mi?» e mentre quello, un po’ emozionato, gli rispondeva, andava già oltre,
senza apparentemente più badargli. Quando l’incontrava Ambrogio, grazie
all’opinione che di quel frate aveva suo padre, non sapeva trattenersi dal di-
mostrargli simpatia mentre alzava il braccio nel saluto romano allora
d’obbligo; il rettore notava la simpatia e in risposta digrignava un poco i denti.
Finalmente il ragazzo arrivava al corridoio della sua facoltà. Non sempre
però entrava nell’aula in cui stava per iniziare la lezione del primo corso, fre-
quentata in genere da due o trecento studenti. È che dopo tanti anni di colle-
gio non gli pareva vero d’essere libero da ogni controllo, di potere per esempio
- senza che nessuno gli dicesse niente - saltare la lezione: e ogni tanto la salta-
va appunto per dimostrarsi che poteva farlo. In tali casi, dopo un’ora e mezza
di viaggio per arrivare all’università, si metteva a passeggiare insulsamente
avanti e indietro per i corridoi o i chiostri, magari in compagnia di qualche
altra matricola giunta in ritardo, dopo cioè che le porte delle aule - entrati i
professori - erano state chiuse.
La matricola che più spesso gli si accompagnava in quel girovagare (e di
norma non perché arrivata in ritardo, ma anch’essa per compiacersi della con-
seguita libertà) era il suo ex compagno di collegio Michele Tintori di Nova, la
futura grande speranza della letteratura italiana. Che si era iscritto alla facoltà
di giurisprudenza.
«Perché a giurisprudenza, si può sapere? Cos’accidente t’è saltato in testa?»
gli aveva chiesto Ambrogio, quando Michele gliel’aveva comunicato.
«Eh» gli aveva risposto evasivo l’altro: «eh.»
«No, sono curioso, spiegalo: perché ti sei iscritto a legge? Non era più logico
che ti iscrivessi a lettere?»
«Macché lettere» aveva sbuffato il Tintori. «Di lettere dopo il liceo classico
qualcosa sappiamo già, e il resto sta tutto nei testi, che uno può andare in bi-
blioteca a ‘ponzarli’ quanto gli pare. Legge invece, il diritto, è... è qualcosa di
cui io non ho la minima idea. Sebbene sia una componente essenziale della
nostra civiltà, l’apporto di Roma: perché a introdurre sul serio l’uomo nella
civiltà, insieme con la filosofia e l’arte greche (che noi abbiamo studiato per
anni), è stato appunto il diritto romano. Anche se ormai più nessuno o quasi
se ne rende conto. Beh, un giorno o l’altro potremo parlarne con cognizione di
causa.»
«Ma per studiare il diritto bisogna averci la testa predisposta, non capisci?
Ci vuole la mentalità, come la chiamano? giuridica, che so, il gusto dei cavilli,
e...»
«Dai, adesso non farli tu i cavilli, piantala» aveva tagliato corto il Tintori.
Del fatto ch’egli si fosse iscritto a giurisprudenza n’era comunque derivata
per Ambrogio una notevole facilità d’incontrarlo, essendo le aule e i seminari
di tale facoltà contigui a quelli della sua.
Nelle loro indolenti peregrinazioni i due ragazzi finivano però spesso con
l’allontanarsene; andavano di solito verso il settore di lettere e magistero, dove
c’erano molte più ragazze.

***
«Chissà se oggi Apollonio tiene lezione?» diceva a volte il Tintori quando
v’entravano. Un giorno Ambrogio gli fece osservare: «Come ‘chissà’? Te l’ho
già sentito dire altre volte. Eppure si fa in fretta a saperlo: basta dare
un’occhiata là, al quadro delle lezioni.»
«Eh già.»
«Dai, vediamo allora.» Ambrogio se lo tirò dietro fino al quadro. Il profes-
sor Apollonio quel giorno non teneva lezione: «Però ha lezione domani, anzi
due lezioni: una alle dieci e una alle undici, cerca di ricordartelo.»
«Alle dieci e alle undici, eh?» disse sopra pensiero il Tintori. «Ho letto la
settimana scorsa un suo articolo su ‘L’uomo’: non hai idea che intuizioni! For-
se non c’è in Italia un altro critico letterario paragonabile a lui. Peccato scriva
in stile ermetico, questo mi dispiace, peccato.»
«Dunque ricorda: domani alle dieci, oppure alle undici. Potresti magari
prepararti in aula, fa vedere, ecco qui: aula Salvadori, e alle undici aula
sant’Agostino. Vuoi che prendiamo un appunto?»
«Un appunto? Cosa ci vado a fare io a lezione? Sì, beh una volta, giusto una,
ci posso anche andare: tanto per vederlo, siccome non l’ho mai visto.»
«Lo sai che sei un bel tipo? Se ti interessa... Cos’altro vorresti fare, sentia-
mo, se non andare a lezione?»
«Mi piacerebbe parlare con lui liberamente. Dirgli: ‘C’è questo problema, io
vedo queste soluzioni. Lei cosa ne pensa?’ Vorrei farmi insegnare direttamen-
te da lui, mi spiego? Che oltre tutto è anche scrittore, non è soltanto un grande
critico. Sarebbe bello poter fare come facevano nel medio evo, quando le uni-
versità le avevano appena inventate.»
«Il medio evo? Ma sentilo. Oh poveri noi! Per il medio evo però tu hai una
specie di fissazione: anche a Nova, quando son venuto a trovarti, i maestri
comacini e tutta l’altra mercanzia.»
«Sì, certo, come no? Hai qualcosa contro il medio evo tu? Prova a guardarti
intorno.» Michele indicò fuori delle finestre: «Prendi gli edifici di questa uni-
versità: li hanno costruiti più o meno allora. Confrontali col resto, con le co-
struzioni venute su dopo, con quella là moderna per esempio, e dimmi se la
gente sapeva costruire meglio allora o oggi.» Sbuffò: «Non si può nemmeno
fare il confronto.» «Beh, a questo riguardo posso anche essere d’accordo»
convenne Ambrogio, «ma insomma, dal medio evo sono passati un po’ di an-
ni.»
«E con ciò? Però con Apollonio questo discorso non c’entra, dicevo solo per
spiegarmi.»
«Già. Sai una cosa?» fece Ambrogio: «Ho l’impressione che tu, prima di
andare a sentire Apollonio, se mai ci andrai, vuoi fantasticarci sopra alla tua
maniera, un po’ come facevi in ginnasio coi fenici e col resto. Questo è.»
Michele si fermò un istante e lo guardò colpito: «Ehi» disse «potresti anche
avere ragione.»
I corridoi di lettere erano il regno delle donne. In quel momento risultavano
però un regno deserto, in quanto le donne stavano tutte senza eccezione den-
tro le aule al di là delle file di porte chiuse: «A ricevere il verbo con la bocca
aperta, come tante papere» suggerì caritatevolmente il Tintori.
Loro due no; loro due, uomini liberi e spregiudicati, non passavano il tempo
nelle aule: lo passavano a camminare avanti e indietro nei corridoi, ciondo-
lando con le mani in tasca, in attesa che le aule si aprissero.
Si aprirono finalmente quando trillò un campanello: le studentesse comin-
ciarono allora a venir fuori a sciami, frammiste a pochi sparuti studenti. Pre-
sero a fiumeggiare intorno ai due che s’erano immobilizzati nel corridoio a
mo’ di scogli, e mentre fiumeggiavano commentavano le lezioni appena ter-
minate, le discutevano, approvavano, disapprovavano, magari assiepandosi in
tre, quattro, cinque attorno a qualcuno dei maschi sparuti.
«Li vedi quei disgraziati?» li indicò sempre caritatevolmente il Tintori: «Si
sono iscritti a lettere perché sono convinti in cuor loro d’essere dei poeti. Al-
trimenti non l’avrebbero fatto, con la prospettiva di quello stipendio da fame.
Ma quanti di loro sono davvero poeti? Ci pensi che amaro risveglio fra qualche
anno? Che delusione? Poveri fessi» concluse con un fondo di dispiacere since-
ro: «E non si può far niente per aprirgli gli occhi.»
Ambrogio lo sbirciò: il pensiero ch’egli potesse domani trovarsi nella stessa
situazione, non lo sfiorava nemmeno; Ambrogio finì col mettersi a ridere
scuotendo la testa.
Le ragazze portavano tutte senza eccezione il grembiule nero e il collarino
bianco, come prescriveva il regolamento; per la maggior parte erano brutte
ahimè, sciupate dalle molte ore spese sui libri, poche erano le passabili, e solo
qualcuna veramente bella. Queste ultime non sembravano tuttavia dare in
quel momento importanza alla cosa, e chiacchieravano animatamente con le
brutte e con le passabili di semantica, di filologia romanza e - come disse an-
cora nel suo linguaggio caritatevole il Tintori - d’altre analoghe fasullerie. Se
però i due studenti estranei ne seguivano abbastanza a lungo qualcuna con lo
sguardo, questa finiva col voltarsi a mezzo per sbirciarli a sua volta, e la mano
le correva magari a ravviare i capelli, o ad aggiustare il collarino, o la cintura
del grembiule. Cosa che non sfuggiva ai due ragazzi, e li divertiva.
Una tuttavia, che aveva attirato la loro attenzione, non si rassettò affatto; i
due la conoscevano da un certo tempo di vista: era bruna, con la fronte a bau-
letto, di parlata emiliana, portava appuntato sul grembiule nero il distintivo
dell’Azione Cattolica femminile («Quella dev’essere una che ai distintivi ci tie-
ne» aveva osservato qualche giorno avanti Ambrogio.)
Stavolta udirono pronunciare il suo nome da una compagna: «Nilde, ehi
Nilde, aspettami.»
«Che Nilde?» chiese, prontamente rivolgendosi alla suddetta compagna, il
Tintori: «Leonilde? O, Dio non voglia, Brunilde? O che altro?»
La compagna non gli rispose; la Nilde si girò invece a lanciargli un’occhiata
di sufficienza, e anziché rispondergli direttamente: «C’è gente» disse alla
compagna «che non si limita a perdere il proprio tempo: vorrebbe farlo perde-
re anche agli altri.»
«Ehi» disse Ambrogio al Tintori: «Abbastanza efficace direi. A quanto pare
la Nilde è una che la sa lunga.»
«La Nilde è una castigatrice di costumi» riconobbe il Tintori. Il loro tentati-
vo di approccio fu però interrotto su queste poche battute dalla comparsa di
un frate alto e bello, che a differenza degli altri studenti di lettere - tutti, anche
se ispirati, piuttosto schivi -era uscito da un’aula comportandosi in modo che
dava decisamente nell’occhio. Si trascinava dietro un gran codazzo di studen-
tesse che: «Padre Bertrando, padre Bertrando» gli dicevano: «ha scritto qual-
che altra cosa? sì? Ce la vuol leggere? È un’altra poesia patriottica?»
Nel tentativo di superarsi tra loro per arrivare al frate, le studentesse co-
strinsero i due studenti forestieri ad abbandonare la posizione di scogli e a
ritrarsi fin contro il muro.
«Poesia patriottica?» domandò Ambrogio al compagno, dopo che la torma
fu passata: «Cosa intendono dire? Mica quel frate scriverà carmi su Mussolini,
spero.»
«Temo proprio di sì» rispose l’altro, che tuttavia adesso pareva assente col
pensiero: «almeno se si tratta del frate di cui ho sentito parlare. Padre Ber-
trando, sì, dev’essere lui.»
«Ma, un frate... Gli manca per caso una rotella?»
«È semplicemente uno a cui piace esibirsi. Non hai visto?»
Lo si vedeva ancora del resto: mentre procedeva lungo il corridoio il giova-
ne frate vanesio non cessava infatti di gestire, fulminando intorno, di tanto in
tanto, occhiate da profeta.
«Poesie su Mussolini un frate! Lo sai che mi pare impossibile?»
«Eppure.»
«Che razza di bamba» concluse Ambrogio.
Mentre riprendevano a passeggiare il Tintori si levò di tasca una matita e un
foglietto già annotato e scribacchiò qualcosa.
«Cos’hai scritto? Che quella là si chiama Nilde?»
«Mm? Nilde? No, ho scritto un’altra cosa. Dì un po’: ti sei mai chiesto come
si risolverà nell’aldilà il problema delle ragazze brutte, anzi, più in generale, il
problema degli esseri umani brutti?»
«Ma sentilo!»
«Tenuto presente che nell’aldilà noi risorgeremo col nostro stesso corpo,
ecco il punto. Sta attento per favore e aiutami a risolvere. Non sto scherzan-
do.»
Ambrogio tentennò la testa: «Beh, dì.»
«Quel che è certo, è che uno non potrà rimanere brutto, e magari bruttissi-
mo, anche nell’aldilà, intendo uno che si salvi. Perché la bruttezza sarebbe per
lui un motivo di continuo disturbo, di fastidio. Per tutta l’eternità? Ma allora
quella del paradiso non sarebbe più per lui un’eternità beata. Anzi, a guardar
bene, non lo sarebbe più neanche per chi gli sta intorno.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Vediamo: quando diciamo che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di
Dio, per me è scontato che non ci riferiamo solo allo spirito dell’uomo, ma an-
che al suo corpo, per quel tanto almeno che la materia può raffigurare
l’immateriale. Sei d’accordo in questo?»
«Boh.»
Il Tintori andò avanti ugualmente: «Ciascuno di noi rispecchia Dio diciamo
da una diversa angolatura, dalla sua propria angolatura. Appunto per questo
non siamo tutti uguali, sai che noia sarebbe? Anzi precisamente da questo fat-
to, io credo, deriva l’individualità di ciascuno di noi. Voglio dire che uno è tan-
to più sé stesso quanto più pienamente rende - per esprimerci un po’
all’incirca — quella particolare sfaccettatura di Dio che si riflette in lui. Quanto
più va avanti nel renderla, è chiaro? Già. Però m’accorgo che non era questo il
discorso. Se mai in che modo uno che è brutto di qua possa diventare bello di
là, pur rimanendo lo stesso. Ecco, sono uscito di strada.»
«Beh, no» fece Ambrogio, il quale nel frattempo aveva avuta la sua piccola
illuminazione. «Posso dare anch’io il mio umile apporto, o devo stare solo ad
ascoltare il tuo cervellone che ronza?»
«Anzi, dì.»
«Sta attento: ho un cugino che vedo di raro, il quale somiglia in modo-
straordinario a sua madre, anche se a prima vista non si direbbe. Se li guardi
bene però, vedi che hanno gli stessi occhi, la stessa fronte, la bocca uguale,
eccetera. Con tutto ciò mentre lei è brutta da non credere, un vero disastro, lui
invece è un bel ragazzo. S’è verificato un po’ come stavi dicendo tu: lui è riu-
scito a... rendere sé stesso, le sue caratteristiche, è andato avanti nel renderle,
mentre lei no. Insomma quello che intendo è che, pur avendo uguali fattezze,
è possibile essere molto brutti oppure molto belli.»
«Ah, forse ci siamo!» Il Tintori si tolse nuovamente di tasca il pezzo di carta
e la matita: ‘Cugino del Riva’ scrisse. «Potremmo impostarla così» propose
euforico: «Quaggiù il fisico di uno può facilmente essere deformato dalle mi-
serie d’ogni genere che lo intralciano fin dalla nascita, anzi da prima; ma una
volta di là, dove tali miserie non sono presenti, ecco che rifletterà Dio senza
più deformazioni: in pieno lo rifletterà. Voglio dire che, per esempio, una fac-
cia scombinata di qui, nell’aldilà risorgerà secondo il proprio modello, cioè si
combinerà necessariamente nel modo giusto, pur rimanendo la stessa. Sì, for-
se ci siamo.»
«E quelli che sono già bellocci anche di qui, per quelli come la metti? Per
l’Alida Valli ad esempio, oppure che so, per l’Apollo di Leocare? Quelli, il loro
corpo intendo, di passi verso la perfezione non ne dovranno fare poi molti
suppongo, visto che sono già piuttosto avanti.»
«Non molti, non scherzare per favore. L’Alida cerca di vederla come la di-
pingerebbe, che so, il Beato Angelico: potrebbe anche com’è adesso fare da
modello per una Madonna, no? Risorgerà io credo, com’è stata nei giorni della
sua massima bellezza.»
«E la Nilde? Nell’aldilà avrà ancora la fronte così pronunciata?
- O quella le si ridurrà un po’?»
«Perché? Non credo, la fronte a bauletto mi pare vada benissimo: potrebbe
essere una specie d’istantanea di Dio-intelligenza. No, la Nilde non dovrebbe
aver bisogno di cambiare molto: sempre che si meriti il suo posticino in para-
diso naturalmente.»

CAPITOLO TRENTADUESIMO

Un giorno - mancava ormai poco a Natale - i due entrarono in un corridoio


di lettere proprio mentre dalla parte opposta, laggiù in fondo, vi entrava anche
il rettore padre Gemelli. «Ecco il magnifico» avvertì a bassa voce Ambrogio.
«Sì, è lui» disse il Tintori. «E noi gli stiamo andando proprio in bocca.»
C’era tutto il tempo per fare dietro-front e svignarsela, ma non era decoro-
so, adesso che erano liberi cittadini e non più collegiali.
«A metà corridoio, a sinistra, c’è l’ingresso della biblioteca» avanzò un
compromesso Ambrogio: «potremmo entrare là.»
Ma anche questo era poco decoroso. «In fin dei conti» disse il Tintori «cosa
vuoi che gliene freghi a Gemellone se noi due perdiamo il nostro tempo? Del
resto potremmo essere semplicemente arrivati in ritardo.»
«Non è questo» disse Ambrogio: «è che siamo nella zona di lettere.»
«E con ciò?»
«Il proclama... Non hai visto il proclama giù all’albo degli avvisi? Quello dei
‘motivi che non tornano a loro onore’?»
«Cosa dici? ‘A loro onore’? Ah, è vero!»
Il ‘proclama’ cui Ambrogio alludeva era una sorta d’intemerata per iscritto
del magnifico rettore: ‘Mi sono accorto che studenti delle facoltà di scienze
economiche e di giurisprudenza per motivi che non tornano a loro onore fre-
quentano i corridoi e le aule delle facoltà di lettere e magistero...’ Li frequen-
tavano perché le ragazze erano - come s’è detto - quasi tutte concentrate in tali
facoltà. D’ora in poi, avvertiva con rabbia il proclama, se qualcuno fosse stato
colto in flagrante, sarebbe stato espulso sui due piedi dall’università.
«Lo sai che Baget l’hanno espulso davvero?» disse, sempre più preoccupa-
to, Ambrogio. (Si trattava di un loro compagno di collegio, nipote oltre tutto di
un importante prelato della curia.)
«Sì, lo so, ieri» rispose il Tintori, e tentennò sorridendo la testa: «In queste
cose Gemellone è proprio rimasto al medio evo.»
«Il che a te dovrebbe far piacere» disse Ambrogio.
«Perché no?»
«Bella roba.»
Cresceva intanto in modo impressionante la presenza del rettore il quale,
con le mani infilate nelle ampie maniche del saio francescano, veniva avanti a
grandi passi sui grandi piedi.
«Tu credi che adesso ci ferma?» mormorò Ambrogio.
«Può darsi» rispose abbassando la voce il Tintori, anche lui suo malgrado
condizionato da quella ingombrante presenza: «Uno dei primi giorni a me ha
chiesto come mi chiamo. Ma non credo abbia capito, perché mentre glielo di-
cevo, invece d’ascoltarmi s’è voltato a sbraitare contro una povera ragazza che
aveva le labbra dipinte».
«Due villanate in una volta sola» commentò di malumore Ambrogio.
Dopo di che non parlarono più, sforzandosi di andare avanti con facce indif-
ferenti. Arrivati che furono all’altezza del rettore levarono entrambi il braccio
nel saluto romano, allora - come sappiamo - obbligatorio.
Il rettore, che li teneva sott’occhio, squadrò dall’alto in basso prima l’uno
poi l’altro: «Ciao Tintori» disse infine con voce chiara, e andò oltre.
I due si arrestarono e si guardarono in faccia sbalorditi. «Per la malora»
disse a mezza voce il Tintori, «che bulo d’uomo! È passato più d’un mese da
quando gli ho detto il mio nome, e in quel modo poi... Come fa a ricordarlo?»
Guardarono, senza muoversi, il rettore che si allontanava con aria troppo
disinvolta per non essere conscio d’aver fatta una bravata.
«E un bulo, sì» disse Ambrogio. «Beh, però a me è sempre piaciuto.» Pen-
sava anche, e stava per dire: «Se t’ha notato fino a questo punto, vuoi vedere
che tu sei davvero fuori norma? Forse da te uscirà sul serio uno scrittore im-
portante, chissà...» Ma restio all’enfasi com’era, disse invece: «Se t’ha regi-
strato a quel modo nel suo testone, vedrai che presto o tardi quello ti fa chia-
mare. Puoi contarci. Per istradarti e simili.»
Avevano ripreso a passeggiare. «Alla larga» disse il Michele Tintori, il quale
per la verità era molto solleticato dall’episodio. Si rifece però serio, quasi pen-
sieroso: «C’è un altro piuttosto che io vorrei seguire davvero, qui dentro, pro-
prio come un discepolo segue il maestro. È il...»
«professor Apollonio.»
«Già.»
«L’hai visto almeno? Sei stato a una sua lezione?»
«Non ancora. Ma tra poco...»
Trillò nel corridoio deserto il campanello che segnava il cambiamento delle
lezioni.
«Ah, ecco: tra poco, ci andrai tra poco. Volevo ben dire io.»
Il Tintori non obiettò.
«Beh, adesso cerchiamo di sfruttare questa specie di lasciapassare che Ge-
mellone ci ha dato, e di concludere in bellezza il nostro primo trimestre, alme-
no per quanto concerne le ispezioni in quel di lettere.»
«Concludere in bellezza? Già. Cosa vorresti fare?» chiese il Tintori.
«Non lo so. Tra noi due l’immaginifico dovresti essere tu.»
«Non ho mai fermato una ragazza in vita mia» confessò il futuro grande
scrittore.
Le porte delle aule andavano spalancandosi una dopo l’altra, le studentesse
cominciavano a uscire.
«Infatti ho vistò che bel successo la volta che hai tentato con quella tale,
come si chiama?»
«Quale?»
«Quell’emiliana, quella con la fronte a bauletto che la sa piuttosto lunga.»
«Ah, la Nilde. Già. Chissà se si chiama Brunilde oppure Leonilde» disse il
Tintori.
«Possiamo provare a domandarglielo adesso.»
Ma la Nilde stavolta non c’era, o almeno non riuscì loro di rintracciarla.
«E se cercassimo piuttosto di non perdere lezione?» propose a un tratto
l’immaginifico. Il fatto è che quel girovagare insulso gli andava meno del solito
dopo l’apprezzamento del rettore.
Ambrogio si dichiarò d’accordo. I due s’avviarono perciò di buon passo ver-
so il loro settore; alla fine quasi correvano.
«Tienimi informato se Gemellone ti fa chiamare» disse in fretta Ambrogio
mentre, lasciato il compagno, s’infilava nella propria aula che uno studente
stava per chiudere.
L’altro gli fece segno di sì con la testa, mettendosi al galoppo.

***

Non poterono ad ogni modo seguire molte altre lezioni. Perché subito dopo
le vacanze di Natale il GUF (cioè l’organizzazione degli universitari fascisti)
chiese per tutti gli studenti della classe 1921 il ‘privilegio’ della chiamata alle
armi in qualità di soldati semplici. Il ‘privilegio’ venne accordato.
PARTE SECONDA

CAPITOLO PRIMO

A Nomana il giorno della partenza d’Ambrogio (nebbioso, di principio feb-


braio) arrivò in men che non si dica. Sua madre si alzò da tavola prima che
fosse servito il caffè: «Ti preparo la valigia con le cinghie, Ambrogio?»
«C’è tempo mamma. Parto alle tre. Sta in pace, siediti.»
«Lasciami fare, ti prego. Va bene la valigia con le cinghie?»
Ad Ambrogio tornò in mente l’agitazione della madre d’Igino al momento
della partenza del figlio. Adesso era venuto il turno di sua madre. Anche le
sorelle, notò, si erano alzate e poste al fianco della mamma: che guardava lui,
aspettando il responso, come se avesse davvero importanza per l’esito della
sua vita militare la scelta della valigia con cui partire. Alma, la statuina, sorri-
deva allo stesso modo di sempre, senza smentirsi, ma dentro era lei pure emo-
zionata, Ambrogio lo sapeva.
Ricordò i pacchetti legati con lo spago con cui erano partiti Pierello e Casta-
gna, e la valigetta di fibra d’Igino. «No, mamma, non quella con le cinghie. È
meglio quella piccola di tela verde.»
«Non è un po’ piccola? Tu però lo sai meglio di noi. Sta bene.» E alle figlie:
«Su, andiamo.»
Salirono al piano superiore. Anche la donna di servizio, la quarantacin-
quenne Noemi, che era entrata nella sala col caffè, depose in fretta il vassoio
sul tavolo e seguì le altre donne al piano di sopra; la sorte non le aveva conces-
sa una famiglia sua, ed essa cercava di vivere, per quanto poteva, la vita di
questa.
Dopo un po’ Ambrogio la vide scendere frettolosa le scale con la valigia di
tela verde in mano; la seguiva, con le treccine saltellanti sul collo e gli occhi
azzurri pieni di lacrime, Giudittina.
«Dove andate?» chiese il giovane.
«Qui dal sellaio, a far cambiare la serratura» rispose Noemi: «perché non si
trova più la chiave.»
«Cambiare la serratura a una valigia? Ma lascia stare, non importa. La chia-
ve non occorre. Non...»
Noemi però, agitando una mano per fargli segno di non sottrarsi a quella
premura, era già andata oltre, sempre tallonata da Giudittina.
Alla solita ora il padre lasciò la sala da pranzo - in cui aleggiava un tenue
odore natalizio di calicanto - per tornare in fabbrica; anche Rodolfo uscì: «Va-
do in legnaia a governare gli uccelli di Pino, torno subito» disse. Ambrogio
rimase seduto al suo posto, e nel silenzio sottolineato dall’imperterrito tic toc
della pendola, sempre meravigliosamente uguale, si dedicò alla lettura del
giornale: le solite notizie, nulla d’illuminante sul corso della guerra. Egli ad
ogni modo si sentiva tranquillo, e se mai piacevolmente eccitato. Fosse dipeso
da lui, certo, non avrebbe chiesto di partire; ma così... a vent’anni la competi-
zione, anche una competizione tremenda come poteva riuscire questa, lo atti-
rava. Non essendo ipocrita egli non se lo nascondeva, e anche ciò che ieri sera
sua madre aveva detto di temere sopra ogni cosa, che in quella prova egli si
trovasse mescolato a delinquenti liberi da freni, dell’altra o della nostra parte -
cosa ben possibile in guerra - non lo preoccupava. «Perché mai il compito di
tenere a freno i delinquenti lo si dovrebbe sempre lasciare agli altri? Perché io
dovrei lasciarlo a persone magari meno preparate di me? O più necessarie alle
loro famiglie?»
Chiuse finalmente il giornale, che non lo interessava più, e salì nella camera
che divideva con Fortunato (il quale dai primi di gennaio si trovava in collegio
a Domodossola; anche Pino era in collegio, ma a Milano). Metodico come
sempre si applicò a preparare oggetto per oggetto la propria borsa nécessaire;
accorgendosi d’avere poche lamette da barba, incaricò Giudittina - che nel
frattempo era rientrata - di andargliele a comprare: nuova uscita a precipizio
della bambina, la quale adesso non piangeva più, anzi cominciava a divertirsi
a questo gioco.
Tornò svelta e accaldata con le lamette: «Il negoziante, signor Ravasi, dice
di farti tanti auguri, e che non c’è pericolo, perché anche suo cognato è alle
armi.»
Ogni cosa infine fu pronta, la valigia venne depositata sulla sedia più vicina
alla porta d’ingresso; anche la vecchia casa, ben riscaldata contro l’assedio del-
la nebbia esterna, sembrava adesso in attesa che Ambrogio prendesse conge-
do. Francesca, la sorella maggiore, attraversò quasi in punta di piedi il vesti-
bolo diretta al telefono. «È ora di chiamare la macchina» disse. «Chissà se Ce-
leste è in garage? Purtroppo non abbiamo pensato ad avvertirlo ieri; forse è
uscito con il camion.»
«Se Celeste è via, mi accompagnerà Massimino, non preoccuparti» le sorri-
se Ambrogio
«Massimino è magro come un’aringa» interloquì Giudittina
«Non dire sciocchezze tu» la rimproverò Alma, che si sentiva anche lei il
cuore sospeso.
Di preoccuparsi ad ogni modo non era il caso, perché proprio in quella -
strepitando compostamente sulla ghiaia bagnata - stava arrivando la Millecen-
to; ne scese davanti alla porta di casa Celeste, col berretto a visiera che usava
solo nelle occasioni.
«Ecco, ci ha già pensato il papa» mormorò Francesca, e si scostò dal telefo-
no.
«Gente, vi saluto» disse Ambrogio «Cercate di rendervi conto che non sto
andando al fronte, e che presto, se proprio non mi spediscono a Bari o a Pa-
lermo, troverò modo di fare una scappata a casa. Quindi su di giri.»
Abbracciò la madre, poi le sorelle nei cui occhi - come in quelli della madre
- s’andavano formando le lacrime; abbracciò anche la Noemi, che si trovava
nella loro casa fin da quando egli era bambino; da ultimo levò in alto sulle
braccia Giudittina, la quale doppiamente emozionata scoppiò lassù in un
pianto dirotto.
«Mi fate scappar via, mi fate proprio scappare» esclamò Ambrogio, anche
lui con una venatura di commozione nella voce. «Beh, ciao a tutti» e fatto col
braccio un gesto circolare di saluto, afferrò la valigetta di tela verde con la ser-
ratura di colore nuovo, e uscì fuori.
Sistemata la valigia sul sedile posteriore della millecento, sedette al volante;
Celeste, che appariva tutto compreso del momento, prese posto al suo fianco.
Adesso le donne stavano sul limitare, e la madre salutava il figlio sforzandosi
di sorridere; finì col premersi una mano sulla bocca, proprio come a suo tem-
po la madre operaia d’Igino.
«Salutatemelo voi Rodolfo» gridò Ambrogio, «chissà dove s’è cacciato.»
«Sarà ancora dai suoi uccelli, sai bene come fa» disse Francesca, con gli oc-
chi umidi che sembravano stelle. Alma, la bella statuina, insisteva sorridendo
compostamente ad agitare una mano in segno di saluto.
Ambrogio annuì, avviò il motore e fece con la mano un ultimo gesto mentre
la macchina partiva. Usciti dal giardino attraversarono speditamente Nomana
fino alla fabbrica, che aveva il cancello spalancato; si fermarono davanti agli
uffici, in cui Ambrogio entrò con passo rapido per congedarsi dal padre.

***

Il quale attendeva il figlio seduto al suo posto di lavoro; intanto leggeva con
attenzione un foglio dattiloscritto, altri fogli gli stavano davanti, parte dentro
cestini di fibra, parte accatastati sulla scrivania, mescolati ai fogli c’erano
campioni di tessuti e matassine di filato.
Emergeva dall’insieme un portaritratti in legno di modello antiquato, con
una fotografia della madre dell’industriale seduta tra le due nuore, ossia tra
Giulia e la defunta madre di Manno: alle gonne, inverosimilmente lunghe, del-
le due giovani donne, si tenevano attaccati i primi nipoti, cioè Manno, Ambro-
gio, e Francesca, ancora infanti. Attraverso i muri giungeva incessante il ru-
more dei telai, facendo lievemente vibrare ogni cosa, e in particolare una
stampa del Crocefisso venerato nella chiesa di Nomana, appesa a una parete.
«Papà, son venuto a salutarti.»
Il padre annuì: «Sì» disse.
I due o tre impiegati che erano nel locale, alzatisi, pronunciarono qualche
scherzosa frase di saluto, strinsero la mano del giovane, e uscirono discreti. Il
padre non parlava; a osservarlo bene risultava non meno commosso della ma-
dre poco prima. “È più emotivo di lei del resto” pensò il giovane, e aggiunse,
sempre mentalmente: “Caro papà”.
«Con questo passo tu diventi un uomo» disse finalmente Gerardo. «Adesso
non hai idea di cosa significhi, lo scoprirai un po’ alla volta. La sorte, anche
degli altri, potrà in certi momenti dipendere da te, dal tuo comportamento,
dalle tue decisioni: è una faccenda tutt’altro che allegra, vedrai.» Fece una
pausa, sembrava voler aggiungere chissà quante altre cose; Ambrogio, di fron-
te a lui, sorrideva fiducioso.
«Beh, che Dio t’aiuti» tagliò corto il padre, e tracciò con la mano destra un
segno di croce, a benedirlo.
Dopo di che padre e figlio si strinsero la mano. «Appena mi sarà possibile,
forse domani stesso, vi telefono la mia destinazione» disse il ragazzo.
«D’accordo. Che Dio ti assista» ripeté il padre.
Ambrogio uscì.
Celeste aveva nell’attesa girata la macchina, e scoperchiatone il cofano stava
esaminando il motore. Oltre che conduttore era meccanico degli automezzi
della ditta, e aveva la passione dei motori: appena poteva se li contemplava.
Accanto a lui c’era adesso anche Luca, evidentemente in attesa d’Ambrogio.
Come questi apparve Celeste richiuse con un tonfo il cofano, Luca si fece avan-
ti: «Son qui per dirti anch’io in bocca al lupo.»
«Grazie» gli rispose Ambrogio stringendogli familiarmente un gomito.
«E che sto per seguirti a ruota. Vengo sotto anch’io.»
«Ah.»
Luca annuì. «La carta m’è finalmente arrivata ieri. Devo presentarmi a Me-
rano lunedì. Così mio fratello potrà tornare a casa dalla Grecia.»
«Vai a Merano? Eh già, tu sei alpino. Sei ‘d’in somm’.»
«Sì» annuì Luca sorridendo.
‘D’in somm’ era termine dialettale scherzoso, in uso a Nomana per significa-
re ‘delle sommità’, cioè montanaro. In realtà Luca era nato e abitava a tre soli
chilometri da Nomana; però in provincia di Como, dunque in terra di reclu-
tamento alpino.
«Alpini, gavetta doppia» commentò Celeste.
«E anche fatica doppia» aggiunse Ambrogio.
Luca non disse niente, sorrideva, col suo spericolato ciuffo di capelli sulla
fronte; contraccambiò la stretta di mano d’Ambrogio, poi si tirò indietro di
qualche passo per assistere alla partenza.
La macchina uscì dal cancello e attraversò Nomana verso sud; mentre pas-
sava davanti alla corte di Sansone, fredda e parzialmente fangosa, e senza voli
di rondini, Ambrogio ricordò le parole scambiate con Igino, Pierello e Casta-
gna l’altra volta ch’era andato al distretto.
Passò anche davanti a ‘I dragoni’, la villa gentilizia dal portone sempre
chiuso. Che cuore potesse avere in questo momento la vecchia Eleonora, il cui
figlio nella guerra precedente era partito come lui oggi, per non più tornare, il
giovane non se lo chiese, alla vecchia nemmeno pensò. Stava ascoltando con
interesse Celeste, il quale nel 26 era stato l’autista addetto, nientemeno, al ge-
nerale Badoglio. Un tempo, quando Ambrogio era bambino, Celeste racconta-
va spesso quella sua esperienza, la raccontava anche a chi non voleva ascoltar-
lo; poi poco alla volta non ne aveva più parlato. Adesso il suo racconto, specie
certi particolari, riuscivano ad Ambrogio nuovi, interessanti; a Celeste non
sembrava vero di averlo ascoltatore così attento. Parlarono delle autovetture
in uso a quel tempo allo Stato Maggiore, quindi di Luca, della fortuna di suo
fratello che grazie a lui poteva rimpatriare dalla Grecia, nonché delle dimen-
sioni della gavetta alpina. Così parlando giunsero quasi senza accorgersene al
distretto di Monza.
Ambrogio smontò, prese dalla macchina la sua valigia dalla serratura nuo-
va, salutò Celeste: «Ciao Badoglio», e imboccò con decisione la passerella sul
Lambro.
Alquante ore più tardi ripercorse la passerella in senso inverso, diretto con
una ventina d’altri studenti alla stazione ferroviaria, destinazione Cremona,
arma artiglieria. Dei suoi nuovi compagni il giovane non ne conosceva neppu-
re uno. Durante le ore d’attesa lui e uno studente d’ingegneria dalla faccia fo-
runcolosa avevano però scoperto d’avere una conoscenza in comune: un
commerciante d’imballaggi di Turro, fornitore estemporaneo della ditta Riva,
del quale lo studente d’ingegneria era mezzo parente.

CAPITOLO SECONDO

Era notte alta quando il drappello di studenti sbarcò dal treno nella stazione
di Cremona. Sul piazzale antistante c’erano lunghi cumuli di neve sporca, vi-
trea: mentre con le loro valigette in mano passavano tra cumulo e cumulo,
tutti quei ragazzi - tenuti sommariamente incolonnati da un caporale del di-
stretto - provavano in cuor loro uno straordinario senso di spaesamento, tanto
che come individuarono un bar ancora miracolosamente aperto, proposero al
caporale d’entrare a bere qualcosa («Qualcosa di caldo, eh? Te l’offriamo
noi») per tentar di familiarizzare con lui che in qualche modo rappresentava
la vita militare, per rompere quel disagio. Il caporale - un poveraccio malmes-
so, di parlata difficoltosa - non se lo fece dire due volte: entrò nel bar, e con lui
si pigiarono nel modesto locale gli studenti; alcuni cominciarono a offrigli
punci e bicchierini e pacchetti di sigarette: erano di famiglie agiate, tranne
uno che era ed aveva l’aspetto di povero, e tuttavia non si lasciava vincere da-
gli altri nell’offrire, perché era più spaesato di loro. Finché fu il caporale a dire
nella sua parlata confusa che basta, non dovevano esagerare né sciupare i loro
soldi per lui che il giorno dopo se ne sarebbe tornato a Monza; al che ci fu tra i
presenti chi ridacchiò, gli offerenti tuttavia insistevano, senza darsene per in-
tesi. Finalmente uscirono di nuovo tutti nell’aria fredda.
Al fianco di Ambrogio si teneva - come durante il viaggio in treno - il paren-
te del fabbricante d’imballaggi: quel poco, quel niente di conoscenza in comu-
ne, sembrava loro già un legame. Percorsero in fila disordinata un lungo tratto
della via Campi, la principale di Cremona, deserta e interamente buia, poi al-
cune strade secondarie, acciottolate e se possibile ancora più buie, finché
giunsero davanti a una caserma. Il caporale bussò al portone.
Al di là risuonò uno scalpiccio, si aprì uno spioncino: l’interno risultava fio-
camente illuminato. Una guardia domandò chi fossero, donde venissero, il
caporale diede la risposta; la guardia, dopo essersela fatta ripetere un paio di
volte («E parla più chiaro, sacr...») richiuse lo spioncino.
Seguì un tempo d’attesa.
«Perché non apre, quello?» chiese uno degli studenti al caporale.
«Eh, calma. È andato a riferire all’ufficiale di picchetto.»
All’interno risuonarono a un tratto i passi di più persone, poi un rumore di
chiavi, e uno sportello si aprì nel portone: uscì sulla strada l’ufficiale di pic-
chetto, un bel ragazzo dal volto deciso, con la sciarpa azzurra a tracolla.
«Distretto di Monza, avete detto?»
«’Gnorsì» gli rispose il caporale, e gli tese un foglio: «ecco la ‘bassa di pas-
saggio’.»
«La bassa conservala tu. Dovete andare più in là.» Avanzò di qualche passo
sull’acciottolato: «La vedi quella strada? La prima a destra.»
«’Gnorsì.»
«Bene. Dovete percorrerla tutta fino in fondo. Capito? Fino in fondo. La
strada conduce a un portone: è là, dentro quel portone, che voi dovete anda-
re.»
«Ah, ho capito, al ‘deposito quadrupedi’.»
L’ufficiale si fece ripetere la frase pronunciata in modo poco intelligibile, e
annuì: «Sì, vedo che sei pratico. Una volta quello era infatti il deposito qua-
drupedi. Forza, non rimanete qui a prender freddo.»
Rispose, alzando la mano guantata alla bustina, al saluto del caporale, poi si
ritirò.
Il drappello s’incamminò di nuovo, imboccò la strada prescritta, anche que-
sta a ciottoli, anche questa priva d’illuminazione, e arrivò al portone di cui
l’ufficiale aveva parlato. Che non era sorvegliato da un servizio di guardia ma
da un semplice piantone, il quale accorse dopo ripetuti e sempre più violenti
colpi vibrati sul legno; intanto vociferava in dialetto lombardo: «Vengo, ven-
go, oh, san furmentu, che maniera l’è»
Li fece entrare e li guidò, attraverso un piccolo cortile, a uno stanzone arre-
dato con poche suppellettili, sul cui pavimento si scorgeva un mucchio infor-
me di gavettini ancora sporchi di fonderia, e una catasta di coperte da caser-
maggio. Qui li lasciò, per andare - come disse - a chiamare ‘el sergent magiur’.

CAPITOLO TERZO

‘El sergent magiur’ un anziano dal viso oltremodo rugoso, arrivò con la di-
visa non bene abbottonata, e sbadigliando sedette su uno sgabello a un tavolo
sproporzionatamente lungo, sopra il quale pendeva l’unica lampadina accesa.
Afferrò la bassa di passaggio che il caporale gli porgeva e lesse, storpiandolo, il
primo nome dall’elenco: «Acosio.»
«Arosio, presente» esclamò uno degli studenti. Senza parlare, perché trop-
po impegnato a sbadigliare, il sottufficiale gli fece segno di prendere dal muc-
chio un gavettino, e dalla catasta non una ma due coperte (due, due, indicava-
no l’indice e il medio della sua mano). Lo studente ritenne che quel due voles-
se dire seconda operazione: prima operazione prendi un gavettino, seconda
operazione una coperta; tenendo quindi d’occhio il laconico sergente maggio-
re, prese prima un gavettino e poi una coperta dai rispettivi mucchi. «Due co-
perte, due» bofonchiò l’altro, e commentò: «Le reclute, ah, le reclute!» Dopo
che il giovane ebbe eseguito, ne spuntò il nome sulla bassa e gli fece segno di
mettersi là, in quel punto, in attesa delle altre reclute, poi passò al nome suc-
cessivo.
Ambrogio osservava attento, cercando di prendere ogni cosa al meglio, ma
si sentiva perplesso: l’ambiente militare, a questo primo incontro, non gli fa-
ceva un’eccelsa impressione; però, obiettivo com’era, s’impose d’aspettare a
trarre conclusioni. “Voglio già giudicare, e ancora non ho visto niente... Potrò
tirare una conclusione solo dopo avere effettivamente visto qualcosa.”
E subito qualcosa vide: preceduta dal pacioso San furmentu una nuova on-
data di studenti - non meno d’una sessantina - entrò vociando nel locale. Di-
chiararono di venire - via Piacenza - dalla linea di Roma, e d’essere toscani,
napoletani, romani, umbri, e d’altri luoghi ancora. Ambrogio li osservò incu-
riosito; non ne sapeva distinguere la provenienza dalla parlata, solo la vita mi-
litare gliel'avrebbe insegnato. Gli sembravano - ed erano - in complesso meno
impacciati di lui e dei suoi compagni lombardi, e più estroversi, più espansivi:
tranne forse quei pochi raggruppati là insieme (si trattava degli umbri, ma egli
l’ignorava) che avevano un’aria placida e nobile (“Sembrano dei gattoni di
marmo”): quelli erano forse anche più impacciati dei lombardi.
Esaurito il drappello di Monza il sergente maggiore passò ai nuovi arrivati;
il primo di cui egli lesse il nome - un biondo dal cranio aguzzo - fece un passo
avanti e dichiarò: «Mi permetto far presente che stasera noi toscani non ab-
biamo mangiato. E chi viene da più lontano» indicò il gruppo «non ha man-
giato neanche a mezzogiorno.»
“Guarda” pensò Ambrogio sorpreso: “guarda! Nessuno di noi avrebbe mai
parlato duna cosa simile.” A dire il vero non gli sembrava virile lamentarsi per
un pasto saltato: lui non l’avrebbe fatto neppure a casa sua; e tuttavia, ecco,
una protesta poteva anche essere l’inizio d’una risistemazione delle cose.
II sergente maggiore guardò incredulo il ragazzo toscano, lo scrutò meglio,
poi si rivolse a San furmentu e: «Son proprio reclute!» sbuffò: «Cosa vuoi far-
ci?»
San furmentu si mise a ridere: «Non li avete visti nelle stazioni i ‘posti di ri-
storo’ per militari?» chiese al ragazzo. «C’è scritto sopra, no? Perché non siete
entrati a farvi dare il rancio? Non avete capito che sono là apposta?»
Il biondo dalla testa aguzza spiegò, rivolgendosi sopra tutto al sottufficiale:
«È stato per gli orari. Durante le soste del nostro treno non era mai ora di ran-
cio.»
«Ma tu adesso cosa vorresti?» gli chiese, tentennando la testa, il sergente
maggiore: «Svegliare i cucinieri perché vi preparino il rancio?» Si rivolse a
San furmentu: «L’avresti detto tu che ci sono ancora in giro degli impagliati
come questo?»
A tali parole il ragazzo toscano, dopo essersi guardato intorno come per sol-
lecitare appoggio, cominciò a bestemmiare, e in modo incredibilmente scurri-
le.
«Ehi tu. Nome. Com’è che ti chiami?» fece allora, duro, il sottufficiale:
«Come ti chiami, ho detto?» Fissò gli occhi sulla bassa di passaggio alla ricer-
ca del nome ch’egli stesso aveva pronunciato poco prima.
Incredibilmente per Ambrogio bastò questo perché l’altro, cessando di be-
stemmiare, mostrasse improvvisamente paura, e assumesse l’aria di un cane
che ha visto il bastone.
«Che razza di merda» lo valutò pesantemente il sergente maggiore.
Ambrogio stava passando attraverso una serie di reazioni diverse. Aveva
dapprima guardato al caporale ‘accompagnatore’ del distretto di Monza: “Per-
ché alla stazione di Milano non ci ha condotti a prendere il rancio, com’era suo
dovere? Soltanto per non darsi da fare: tanto lui il rancio l’aveva certamente
consumato prima di lasciare il distretto. Ecco perché. Una buona punizione lo
convincerebbe a fare il suo dovere...”
Poi le bestemmie mescolate a oscenità del toscano, l’avevano offeso: “In
quanti siamo, qui, che crediamo in Dio?” aveva pensato con indignazione:
“Che lo amiamo quanto nostro padre e nostra madre? Perché questa bocca di
porco lo insulta? Con che diritto? Bene, una volta fra noi, appena questo farà
tanto di bestemmiare, io insulto sua madre: vedremo se gli farà piacere.” E
minaccioso: “E vedremo anche come andrà a finire.” Quando però lo vide mu-
tato di colpo, pauroso, pronto a strisciare, lo sdegno l’abbandonò, si ritrovò
pieno di disgusto: “E magari un individuo così finirà col diventare ufficiale!”
Il sergente maggiore spuntò il nome sulla bassa, e fece segno al pauroso di
prendere il gavettino e le due coperte, poi passò alla recluta successiva: il pri-
mo non lo interessava già più. Ma che tipo era in fin dei conti - si chiese Am-
brogio - quel sergente maggiore? E per cominciare, cosa indicavano i due na-
strini che aveva sul petto? Girò la domanda a uno che gli stava accanto: «Sai
cosa vogliono dire quei due nastrini?»
«Uno mi sembra la campagna d’Africa del 36. L’altro non so.»
«Ehi, non sarà mica sotto le armi da allora, dal 36? E magari anche da pri-
ma, dal 35 o 34?»
«Mah. A guardarlo ne ha l’aria.»
“Quell’altro nastrino, cosa significherà?” Ambrogio, incuriosito, provò a
chiederlo al mezzo parente del fabbricante di Turro, poi a un monzese coi ca-
pelli a spazzola ché gli stava vicino: ma né i due, né gli altri intorno lo sapeva-
no.
«Forse» buttò là spiritoso il mezzo parente «significherà che ha partecipato
alla prima guerra punica.»
Ridacchiarono. Il sergente maggiore se ne accorse, li guardò insospettito,
poi ordinò a San furmentu di portarli via: «Via quelle scamorze del distretto
di Monza. Portali a dormire al grand hôtel.» E mentre si allontanavano: «Se
mai chiedeteglielo ai camerieri in livrea il rancio, scamorze dell’università.»

CAPITOLO QUARTO

Attraversati - al seguito di San furmentu - un paio di tenebrosi cortili, le


venti reclute entrarono nel grand hôtel, una ex scuderia (“C’era da scommet-
terlo!”) abbastanza illuminata, in cui già altre reclute dormivano allineate sul-
la paglia. Malgrado la stanchezza e le molte emozioni per cui era passato, da-
vanti a una simile sistemazione Ambrogio provò un vago senso d’avventura,
non spiacevole.
«Ecco: lì, e anche lì...» additò loro bonariamente San furmentu, indicando
sul pavimento. «La paglia» e la additò pure, accatastata in balle «è là. Ce n’è
quanta ne volete.»
Alcune delle reclute, tra cui Ambrogio, deposte senz’altro le loro impedi-
menta, cominciarono ad aprire le balle di paglia; altre, dopo una certa per-
plessità, le imitarono: ma alcune sembravano non risolversi. Una di queste
chiese al piantone: «Dormono tutti sulla paglia i soldati a Cremona?»
«No» gli rispose costui. «In caserma si dorme in branda.»
«E allora?»
«Oh, San furmentu! È che voi arrivate qui mentre nessuno vi aspettava. Co-
sì almeno ho sentito dire. Non preoccuparti però: vedrai che nel giro di qual-
che giorno avrai anche tu la tua brava branda.»
«Ah, grazie tante, nel giro di qualche giorno.»
«O ragazzo! Pensa che se non altro qui sei a tetto, e la paglia è pulita, senza
neppure un pidocchio, e poi hai anche le coperte. È già qualcosa, te lo dico io.
In Albania noi... Beh, qui almeno uno non patisce il freddo.»
Ambrogio sistemò la propria valigetta contro la parete a mo’ di cuscino, da-
vanti le dispose un consistente strato di paglia, poi si sdraiò e si stese addosso
le due coperte; al suo fianco s’allungò il mezzo parente del fabbricante
d’imballaggi di Turro. Dovettero in seguito manovrare entrambi a più riprese,
specie per farsi con la paglia un diverso surrogato di cuscino, in quanto le vali-
ge, anche con i loro soprabiti ripiegati sopra, risultavano decisamente scomo-
de.
San furmentu era uscito per andare a prendere gli altri, il caporale del di-
stretto era uscito con lui: “Quello una branda la rimedia di sicuro” pensò va-
gamente Ambrogio.
Cercò di rilassarsi ed entrò poco alla volta in un principio di torpore, ma il
sonno non veniva. S’accorse che diversi altri, anche di quelli arrivati nel corso
della giornata, non dormivano; qualcuno conversava sotto voce. D’un tratto al
suo fianco anche il mezzo parente cominciò a parlare sommesso: riferiva
quanto fosse duro lo studio d’ingegneria al Politecnico di Milano; a momenti
sembrava più che ad Ambrogio parlare a sé stesso, la fiducia ch’egli aveva di
superare quei difficili studi, cercava distenderla anche al superamento delle
presenti difficoltà.
Da fuori giunse del chiasso. Preceduti dal solito San furmentu entrarono i
sessanta e più lasciati nello stanzone-magazzino: alla vista della paglia si mi-
sero chi a ridere, chi a bestemmiare con rabbia, chi - del tutto incurante di
quelli che dormivano - a schiamazzare per il gusto di schiamazzare. Una volta
sdraiati sulla paglia i toscani presero, nella loro parlata brillante, a scambiarsi
ad alta voce lazzi osceni. Alcuni facevano a gara nell’ordinare, a ipotetiche ca-
meriere del grand hôtel, la cena ed altre prestazioni; le immagini più compiu-
tamente lubriche erano seguite da risate generali. Da ultimo si misero a canta-
re in coro una canzone goliardica che Ambrogio e i lombardi non avevano mai
sentita, e che trovarono d’un’oscenità fino a quel momento per loro impensa-
bile.
Il giovane passava attraverso nuove indignazioni. “Cosa vado farfugliando
d’ambiente militare? Molto prima di quello militare è il nostro ambiente civile
che fa schifo. Come potrebbe quello militare essere valido, se lo compone gen-
te simile? ” Si rivolse con voce dura al mezzo parente: «Adesso non mi mera-
viglio più che i greci ce le suonino. Troppi di noi è come se al posto del cervello
avessero i genitali.»
«Per fortuna in Italia non ci sono soltanto dei parla-per-niente come quelli
lì» borbottò il mezzo parente, lui pure indignato.
La recluta (uno dei sessanta) che aveva appena preso posto sull’altro lato di
Ambrogio, a questo punto interloquì: «Io nemmeno li approvo, quegli sbocca-
ti» disse, con un’intonazione meridionale mai sentita.
«Da dove arrivi tu?» gli chiese Ambrogio.
«Dall’Abruzzo.»
«Ah. Non avevo mai incontrato un abruzzese in vita mia.»
«Ora lo incontri» disse la recluta, sempre con la stessa calma: «Anche se mi
duole che a rappresentare la mia terra non ci sia qui uno più degno di me.»
Ambrogio provò per il suo dignitoso vicino un impulso di simpatia; si solle-
vò sul gomito e lo squadrò: aveva,una faccia lunga, a linee verticali, piuttosto
angolosa, e gli occhi marroni. Mentre, dopo avergli fatto col capo un cenno
cordiale, si ridistendeva, Ambrogio si chiese dove diavolo avesse già visto una
faccia così: “Perché io l’ho vista da qualche parte, non c’è dubbio.”
Gli studenti toscani non la smettevano di far chiasso: “Che schifo, che volta-
stomaco!” si ripeteva Ambrogio; ma l’interessava ormai di più la faccia del suo
vicino. “Dove diavolo l’ho visto io questo genere di facce?...” Finché ricordò:
“Ah, ecco, nel libro di storia di seconda liceo! Sì, quell’illustrazione, la testa del
guerriero di Capestrano...” Località che si trova appunto in Abruzzo; gli venne
da ridere: «Ehi, abruzzese» disse al suo vicino: «tu in conclusione saresti una
specie di sannita, eh? o un oscosabello, o qualcosa di simile.»
«No» gli rispose sempre serio e con calma il vicino: «I sanniti stanno molto
più all’interno, si trovano a mezzogiorno dei marsi. Io, poiché abito in provin-
cia di Chieti, sono piuttosto un marrucino.»
«Eh? Cosa?» Ambrogio si alzò di nuovo sul gomito per guardarlo in viso.
Non riusciva a capire se scherzasse o dicesse sul serio: non rideva ad ogni mo-
do.
“O questo scherza” pensò il lombardo “o proprio non capisco”. «Senti, ne
riparliamo domani, eh?» disse.
«A tua disposizione» gli rispose cortesemente il marrucino.
«Come ti chiami?»
«Virgilio De Lollis.»
«Io Riva.»
«Piacere» disse compito il marrucino.
«Figurati, il piacere è tutto mio» disse Ambrogio.

CAPITOLO QUINTO

Il giorno dopo altri studenti affluirono, il successivo altri ancora - tutti sici-
liani questi - e furono gli ultimi; in complesso al ‘deposito quadrupedi’ (da
molti anni senza quadrupedi, e prevalentemente adibito a magazzini) si trova-
rono riunite intorno a duecentoquaranta reclute.
Ebbe subito inizio la loro istruzione: scuola a piedi, regolamenti, servizi,
scuola sui materiali. Negli intervalli tra un’istruzione e l’altra (a volte lunghi
perché, come si seppe poi, gli ufficiali non avevano idee chiare sul futuro tipo
d’impiego di queste reclute) e nelle soste dopo il rancio, gli studenti passeg-
giavano nei cortili, oppure sedevano per terra negli spiazzi meglio riparati,
dove già cresceva la prima erba nuova. Se avesse avuta più fantasia, in tali
momenti Ambrogio si sarebbe potuto immaginare i quadrupedi che un tempo
popolavano questo ambiente: cavalli isolati o a pariglie, mute dal passo volen-
teroso, file di muli dalle sagome solide e pazienti, e il buon odore del fieno e
quello dell’avena, insomma i giorni d’una volta; ogni cosa qui li richiamava, ad
esempio le file d’anelli arrugginiti ai muri, le finestre a mezzaluna delle scude-
rie, le lunghe vasche per l’abbeverata lasciate andare in disuso. Ambrogio non
era però portato a fantasticare.
Faceva invece continue piccole acquisizioni; le sue esperienze si sussegui-
vano, aggiungendosi a quelle della prima sera, confermandole oppure gra-
dualmente modificandole. Così se l’opinione circa la sboccatezza dei toscani
rimaneva (e non l’avrebbe più abbandonato per tutta la vita), il suo proposito
d’attaccar briga col bestemmiatore dalla testa aguzza si era invece dissolto del
tutto davanti alla constatata pusillanimità e nullità mentale di quello. Il quale
lungi dal costituire l’elemento di punta del gruppo toscano, era stato dai suoi
soprannominato Geppetto e veniva anche da loro considerato un bisbetico
inconsistente. Del resto Ambrogio notò - e fu pure questa una scoperta - che i
toscani non formavano affatto gruppo a sé, così come non lo formavano gli
studenti delle altre regioni; andava piuttosto prendendo piede una sorta di
tacita emulazione tra tutti, analoga a quella allora abituale a scuola. Più tardi
sarebbe stata per Ambrogio una sorpresa constatare che anche sotto le armi ci
sono ragazzi che formano gruppo, ma sono quelli già solidali tra loro nella vita
civile, in particolare i montanari.
Quanto a lui nei momenti di libertà finiva col ritrovarsi di solito col mezzo
parente del fabbricante d’imballaggi di Turro: non tanto perché tra loro due ci
fossero interessi in comune, quanto per una sorta d’omaggio inerziale al loro
ambiente di provenienza.
Il mezzo parente era in quei giorni seccatissimo per la qualifica, che veniva
a volte affibbiata agli studenti, di volontari; non poteva proprio mandarla giù.
«Da quando in qua» egli ripeteva ad Ambrogio «uno che si trova alle armi
perché l’hanno chiamato con tanto di cartolina, è un volontario?» Ambrogio
conveniva con lui; l’altro si lamentava anche per l’incertezza del loro futuro: «I
GUF vorrebbero che noi si venga impiegati subito come soldati semplici, però
a quanto pare di soldati semplici ce ne sono fin troppi. C’è chi sostiene - li hai
sentiti anche tu - che l’autorità militare vorrebbe invece istruirci come ufficia-
li: ma anche di ufficiali sembra che i corsi normali ne sfornino più che a suffi-
cienza. Allora si può sapere perché ci hanno chiamati?»
«Beh, resta il fatto» gli obiettò una volta Ambrogio «che l’Italia è in guerra,
e tutti gli altri della nostra classe sono alle armi. Non era decente che noi ri-
manessimo a casa solo perché siamo studenti.»
«E gli studenti del 20 allora? e quelli del 19, e del 18, e del 17, e del 16? Per-
ché hanno chiamato noi del 21 e loro no? Ti par giusto questo?» Ambrogio si
limitò ad allargare le braccia.
Egli si accompagnava spesso anche col marrucino, di cui gradiva la costante
serietà e compostezza; aveva inoltre individuata in lui una nascosta religiosità
(“Come finisce col somigliare ai nostri di Brianza, questo!”). Vagamente si
chiedeva se tutti gli abruzzesi fossero fatti così.
«Nella mia terra» gli spiegò a sua domanda il marrucino «siamo sincera-
mente religiosi, lo è soprattutto il popolo, su questo non c’è dubbio. Forse la
cosa ti sorprende?» Non aggiunse altro al riguardo; del resto poiché era, al
pari d’Ambrogio, un ragazzo di poche parole, gli teneva spesso compagnia an-
che senza parlare, semplicemente passeggiando al suo fianco.

***

I materiali assegnati per l’istruzione alle due ‘batterie universitari’ in cui gli
studenti erano stati inquadrati, si riducevano a due vecchi cannoni da 75 mil-
limetri modello 1911, con le ruote cerchiate di ferro, intorno ai quali i giovani
erano costretti a disporsi in gruppi troppo numerosi. Cominciò anche la vesti-
zione, ma a spizzico: poche decine di reclute per volta erano ogni giorno ac-
compagnate da un graduato alla caserma principale, dove venivano loro con-
segnati con strana parsimonia la divisa e i capi d’equipaggiamento più indi-
spensabili. Per cui la sera, durante la libera uscita, si vedevano in giro per le
strade di Cremona, zeppe di soldati (la città contava diverse caserme), studen-
ti in divisa con le scarpe ancor gialle tant’erano nuove, imbrancati con altri in
abiti borghesi sempre più spiegazzati.
Finché un giorno il mezzo parente portò ad Ambrogio e al marrucino una
grande notizia: «Lo sapete? In alto loco ha vinto la tesi dei comandi militari,
non quella dei GUF. Ieri è arrivata in caserma una circolare che prescrive di
darci la stessa istruzione che si dà nelle scuole ufficiali. Anzi la circolare stabi-
lisce che di qui a quaranta giorni si terrà un primo esame e tutti gli idonei ver-
ranno promossi caporali.»
«Caporali?» chiese Ambrogio.
«Beh, è così. L’ho saputo da uno scritturale del comando.»
«Allora» osservò pianamente il marrucino «più che una vittoria degli alti
comandi, questo mi sembra un pateracchio.»
«Chiamalo come vuoi. L’importante è che c’istruiscono da ufficiali.»
Le due batterie di candidati caporali vennero a questo punto trasferite dal
deposito quadrupedi alla caserma principale, e alloggiate non più sulla paglia
ma in normali camerate con brande, materassi, lenzuola. Ebbe inizio, per Am-
brogio e gli altri, una vita intermedia tra quella dell’allievo ufficiale e quella
del soldato comune.

CAPITOLO SESTO

Gli altri soldati non vedevano di buon occhio gli studenti. Non li avevano
perciò accolti bene in caserma: «Ecco quelle facce di palta che gridavano viva
la guerra. - Guardali lì, i disgraziati. - Voi volontari era meglio se vi tenevano
per terra sulla paglia. - Adesso che la guerra c’è, sarete contenti, eh? - Guardali
i ‘firmaioli’.»
A tale accoglienza gli studenti erano ovviamente rimasti molto male, specie
quelli - e si trattava in fin dei conti della maggioranza - che non avevano par-
tecipato alle chiassate interventiste. Alcuni - tra i quali il mezzo parente - tro-
vavano particolarmente intollerabile quell’epiteto di ‘firmaioli’, mai sentito
prima, che nell’esercito designava chi (in genere perché disoccupato) in tempo
di pace sottoscriveva la richiesta di prolungamento della ferma.
«Firmaioli: hai sentito Riva? Firmaioli a noi» ripeteva costernato il mezzo
parente.
«Te la prendi per così poco?»
«Eh» diceva quello, «certo che me la prendo.» Si dava un gran da fare, in-
sieme con alcuni altri, per convincere i soldati del loro errore. Fra tutti quei
ragazzi all’incirca della stessa età, studenti e no, i malintesi non potevano co-
munque durare a lungo: valse a dissiparli l’insistita affermazione che gli stu-
denti si trovavano alle armi perché chiamati con cartolina precetto, al pari di
tutti.

Anziché badare a queste beghe Ambrogio cercava di rendersi conto della si-
tuazione nell’esercito.
Nella caserma - ampia e formata di costruzioni omogenee a uno o due piani,
inframezzate da grandi cortili - il reggimento non era presente. Stava combat-
tendo in Albania; in pratica era come se fosse su un altro pianeta, perché nes-
suno qui aveva la minima idea di ciò che gli stesse succedendo: non c’era, in
apparenza almeno, alcuno scambio tra il reggimento e il suo deposito, e nes-
suno dei presenti, neppure gli ufficiali, ne parlava mai, o lo ricordava come
che sia.
Era intanto in preparazione un reggimento bis, che avrebbe potuto essere
pronto da tempo se non fossero mancati i materiali necessari. Mancavano in
particolare gli autocarri e i trattori, i quali arrivavano sì, ma come assegnati
col contagocce. Tutti si erano talmente abituati a questo fatto che ci scherza-
vano sopra; era stata composta anche una canzonetta:
‘Artiglieria motorizzata
paraponzi - ponzi - po’,
i motori non li vedi
e ti tocca andare a piedi,
paraponzi - ponzi - ponzi
paraponzi - ponzi - po’...’
Anche gli studenti l’avevano adottata.
Oltre al reggimento bis c’erano in caserma forse mille reclute ordinarie, in-
quadrate in batterie d’addestramento, nonché alcuni reparti adibiti ai servizi.
Questi ultimi erano composti d’elementi anziani, in genere stanchi della vita
militare, snervati soprattutto - a loro dire - dai richiami a ripetizione che ave-
vano senza costrutto interrotto di continuo le loro occupazioni civili nei sei o
sette anni precedenti. Erano di questi San furmentu, il vecchio sergente mag-
giore che comunicava quasi solo a gesti, e gli altri pochi anziani scalcagnati
con cui Ambrogio era venuto a contatto nel deposito quadrupedi. Adesso an-
che costoro erano tornati nella caserma principale, dove cercavano accidiosa-
mente di dar tempo al tempo; capitava ogni tanto al giovane di vederne qual-
cuno ciondolare in giro, preoccupato soltanto di non finire tra i piedi dei supe-
riori.
Gli studenti facevano anche qui l’‘istruzione sui materiali’ assiepati intorno
ai due vecchi cannoni, mentre in altri cortili gli uomini del reggimento bis se-
guitavano a ripetere gli stessi esercizi in bianco attorno ai loro pezzi, e le reclu-
te delle batterie d’addestramento erano impegnate - più che in vere esercita-
zioni militari (per le quali mancava il materiale) - in interminabili giochi spor-
tivi. Correvano su e giù a non finire, in maniche di camicia, sudate, coi volti
accesi; davano a chi le vedeva un’acuta sensazione di spensieratezza, né più né
meno dei ragazzi che giocano impetuosi nei cortili degli oratori di paese. Coi
quali, non fosse stato per le bandoliere d’artiglieria, i pantaloni a sbuffo, e i
marziali gambali, le si sarebbe a momenti potute scambiare.
All’andamento della guerra nessuno sembrava pensare; Ambrogio (specie
quando trascinava a mano con gli altri i cannoni dalle ruote cerchiate di ferro,
magari cantando ‘i motori non li vedi - e ti tocca andare a piedi’) si chiedeva
se l’opinione di quelli che ritenevano l’entrata dell’Italia in guerra impostata
interamente su un bluff, non fosse fondata. Dov’erano i mezzi necessari? Co-
me mai i responsabili che da anni, anzi da sempre, esaltavano la guerra, non
avevano dedicato all’armamento un impegno quanto meno uguale a quello
che avevano dedicato alle strade e ai ponti, o agli edifici scolastici? E come mai
non si davano da fare per produrli almeno adesso i mezzi necessari? Per ra-
gazzo che fosse, una simile realtà lo preoccupava perché, si diceva, “il confron-
to con gli inglesi è un confronto con gente seria”.

Ricevette - nel corso di quei mesi - diverse cartoline e lettere militari (‘in
franchigia’, color cenere pallido) dai suoi amici alle armi, ossia da Stefano,
Igino, Pierello, da suo cugino Manno, e dal Michele Tintori di Nova.
Quest’ultimo gli aveva all’inizio comunicato di trovarsi nella vicina Mantova,
dove frequentava un corso analogo al suo, ma in fanteria (‘L’arma che meglio
d’ogni altra ti dà modo di stare a contatto col popolo’ egli asseriva, e più tar-
di, in un’altra sintetica lettera: ‘La fanteria non sarà entusiasmante, ma se la
conosci bene ti rendi conto che dire fanteria è lo stesso che dire Italia.’) Intan-
to i giorni passavano, al momento stabilito dalla circolare Ambrogio e gli altri
universitari furono promossi caporali, poi, a circa sei mesi dalla loro chiamata
alle armi - dopo un esame selettivo abbastanza duro - sergenti.

CAPITOLO SETTIMO

La campagna di Grecia era finita in aprile grazie all’intervento travolgente


dei tedeschi, che avevano in precedenza occupate senza combattere la Roma-
nia e la Bulgaria, e - con soli dodici giorni di violentissimi combattimenti - la
Jugoslavia, quest’ultima coadiuvati dagli italiani. Davanti all’Inghilterra essi
continuavano però a segnare il passo schierati lungo la Manica, tanto da sem-
brare intenzionati a prenderla per fame, mediante la guerra sottomarina.
Inaspettatamente in giugno - sempre di quell’anno 1941 - essi s’erano inve-
ce buttati col grosso delle loro forze sull’Unione Sovietica; subito Mussolini
aveva dichiarato che un corpo di spedizione italiano avrebbe partecipato a
questa nuova campagna.
Da quel momento il Michele Tintori era entrato in uno stato di grande agi-
tazione: voleva andare in Russia a ogni costo. Riferì per iscritto non una ma
due volte ad Ambrogio d’aver fatto domanda d’assegnazione a uno qualsiasi
dei reggimenti di fanteria in partenza: gli chiedeva imprudentemente se suo
padre non fosse per caso in grado d’ ‘appoggiare’ quella domanda.
Una domenica pomeriggio Ambrogio se lo vide addirittura capitare a Cre-
mona: «Son qui per la faccenda dell’assegnazione alle unità che partono per il
fronte russo.»
«Ah, bravo. Ma dì, si può sapere cosa ti ha preso? Questa specie di bellici-
smo che t’ha invasato tutto a un tratto? Cosa significa, me lo vuoi spiegare?»
L’altro era rimasto a bocca aperta. «Quale bellicismo? Ah, perché tu credi
che io... Ma se ho là in casa...» Alludeva a suo padre, inchiodato dalla prece-
dente guerra sulla sedia a ruote. «No Riva, no, ti sbagli di grosso. Sai che que-
sta è bella? Anche se, certo, una volta là non intendo fare rimboscato, si capi-
sce. Però io voglio andare in Russia per tutt’un altro motivo. È perché voglio
rendermi conto, capisci? È per vedere.»
«Per vedere?»
«Sì. Devo vedere cos’hanno effettivamente combinato i comunisti. Ecco
perché ci debbo andare subito, prima che i tedeschi cambino troppo la realtà
delle cose. Mi sono spiegato?»
«Vorresti insomma parlarne poi in un libro?» Ambrogio era sempre piutto-
sto perplesso.
«Questo non lo so ancora. Però i comunisti hanno tentato un esperimento
unico, non te ne sei mai reso conto? Hanno tentato - o se vuoi stanno tentan-
do - una redenzione dell’uomo e della società al di fuori di Cristo e del cristia-
nesimo, anzi contro Cristo. E per fare questo - questo terribile tentativo - si
sono isolati dal resto del mondo. Per noi cristiani è importantissimo renderci
conto di cos’hanno realmente combinato. Sembra che ci siano stati milioni di
vittime, lo sai, però molti dicono che non è vero, che quella è soltanto propa-
ganda fascista e capitalista. Mounier per esempio, quell’autore cattolico fran-
cese...»
«Non lo conosco.»
«Beh, quello sostiene con tutte le sue forze i comunisti russi. Pur essendo
cristiano, capisci?»
«Capisco sì» disse infine Ambrogio, e si mise a ridere. «Già. Da te mi sarei
dovuto aspettare qualcosa di simile.»
«Voglio parlare con la gente comune russa, con gli operai, i contadini, con
tutti. Questa è un’occasione straordinaria, unica.» Michele ripeté quasi a sé
stesso: «Voglio vedere ogni cosa con questi occhi, non voglio limitarmi al sen-
tito dire.»
«Bene. Però temo che mio padre non possa esserti d’alcuna utilità. Non ve-
do in che modo potrebbe aiutarti.»
Passeggiarono un’ora buona su e giù per via Campi, come nei corridoi
dell’università quando bigiavano lezione; il Tintori, che non s’era procurato il
permesso per uscire dal suo presidio, era in abito civile e doveva essere di ri-
torno in caserma all’ora della ritirata. Non ebbero il tempo di parlare delle
loro recenti esperienze: il poco tempo disponibile fu impiegato quasi intera-
mente in un’analisi realistica, da parte d’Ambrogio, delle possibilità che si of-
frivano al suo compagno di trovare raccomandazioni per il fronte russo. Erano
tutt’e due talmente sprovveduti di addentellati militari, che finirono col ripor-
re ogni speranza nel generale a riposo docente di cultura militare all’università
cattolica. Il Tintori risolse che avrebbe chiesto un apposito permesso domeni-
cale per andarlo a visitare.
Stavano camminando verso la stazione. Al pari di loro percorrevano via
Campi numerosi altri soldati, nonché qualche ufficiale che era costretto a ri-
spondere di continuo al saluto dei soldati; più d’una volta anche il Tintori fu
sul punto di portare la mano alla fronte, sebbene, come s’è detto, fosse in bor-
ghese.
«Anche a Mantova ci sono tanti militari per le strade come qui?» gli chiese
Ambrogio.
«Forse ce ne sono anche di più» rispose l’altro. «La paga è poca. Cosa vuoi
che facciamo noi soldati, se non passeggiare e bighellonare?»
«A proposito, io non t’ho offerto niente» osservò Ambrogio. «Che razza di
ospite sono?»
«E cosa vorresti offrirmi?»
Finì con l’offrirgli un bicchierino di cognac al bar della stazione, che bevve-
ro piuttosto in fretta, perché era già stato annunciato il treno.

***

Nonostante il volonteroso intervento del generale a riposo (che aveva peral-


tro onestamente avvertito: «Le mie possibilità sono molto modeste, non cre-
da») le tre divisioni del corpo di spedizione italiano partirono per la Russia
senza il caporale Michele Tintori.
Il quale dopo aver cercato invano di raggiungerle raccomandandosi a que-
sto e a quello, passò a raccomandarsi sopratutto al Signore Iddio; lo faceva
sistematicamente ogni mattina allorché balzava in piedi al suono della trom-
ba, invocandolo prima delle abituali preghiere: “Signore, non privarmi di que-
sta enorme esperienza, ti supplico. Sai che nella mia vita intendo essere tuo
strumento, e quindi... Conosci infinitamente meglio di me l’importanza - per
uno scrittore moderno - d’un’esperienza come questa. Dunque ti supplico, ti
supplico...” Mentre così pregando si affrettava ai lavatoi con l’asciugamano
sotto un braccio, l’ansia a volte lo prendeva alla gola. “Signore Iddio, per favo-
re, non farmi lo scherzo di lasciarmi fuori da questa immensa esperienza. Tu
hai detto: ‘Bussate e vi sarà aperto.’ E io, ecco, son qui che busso fino a spel-
larmi le dita. Non mi senti? ”
Col senno di poi possiamo oggi dire che Iddio lo sentiva e che era intenzio-
nato a esaudirlo; a quel tempo però non ne dava alcun segno e (sorridendo
forse per il modo) lo lasciava pregare.

CAPITOLO OTTAVO

Nominati sergenti in luglio, sia il Tintori che Ambrogio furono inviati a


normali scuole ufficiali da cui, dopo altri sei mesi d’istruzione più dura e assai
più organica, sarebbero usciti entrambi sottotenenti.
Ambrogio era da poco arrivato alla sua scuola che gli giunse per telefono
notizia prima dell’imminente, e poi dell’avvenuta partenza di suo cugino
Manno per il fronte libico. Al corso gli sarebbe anche giunta, in dicembre, la
grave notizia dell’entrata in guerra dell’America; che fu salutata da Mussolini
quasi con entusiasmo perché - com’egli dichiarò - veniva a confermare una
sua lontana previsione che questa sarebbe stata una ‘guerra di continenti’. Ta-
le uscita avrebbe lasciato gli allievi ufficiali assai perplessi.

Il Tintori apprese che alla fine del corso gli allievi col miglior punteggio
avrebbero avuto il diritto di scegliere il reggimento d’assegnazione. Subito in-
travide la possibilità di farsi assegnare al fronte russo, e si applicò con straor-
dinario impegno. Quanto a esercitazioni, studio, orari, la vita al corso era
obiettivamente molto dura: un residuo di barbarie medievale la definivano
alcuni, con rabbia del giovane il quale: «Ecco le solite coglionerie della cultura
illuminista!» immancabilmente interveniva per sostenere la maggior civiltà
del medio evo rispetto all’evo moderno. (In realtà a lui dispiaceva che si spar-
lasse di quell’epoca, soprattutto perché ad essa faceva risalire direttamente la
religiosità sua e della gente di Brianza, e l’attuale religiosità cattolica in gene-
re. Solo molto più tardi avrebbe scoperto che queste sono da ricollegare piut-
tosto alla riforma - autentica riforma, comunque la si chiami - della chiesa,
avviata ben dopo il medio evo da san Carlo e dal concilio Tridentino, e tena-
cemente portata avanti nel corso dei secoli da innumerevoli operatori, in ge-
nere poco conosciuti perché modesti come gli apostoli e i discepoli al tempo
del Signore.) Ma torniamo al corso ufficiali: pur non avendo spiccate attitudini
militari, il Tintori era intelligente e dotato d’invidiabile memoria: questo gli
consentì di riportare voti molto alti in tutte le materie teoriche, comprese
quelle - come ‘Regolamenti e disciplina’ - che gli erano più incongeniali. Alla
fine rientrò nel primo decimo della graduatoria, con diritto alla scelta del reg-
gimento cui essere assegnato; doveva a tal fine indicare, su un apposito foglio,
tre reggimenti in ordine di preferenza, indicò tre dei quattro reggimenti di
fanteria operanti sul fronte russo, e fu assegnato al deposito di uno di essi,
l’Ottantunesimo della divisione Torino, a Parma.
Ambrogio non rientrò nel primo decimo della graduatoria, anche se, pur
non essendoselo proposto, ci arrivò molto vicino: fu assegnato a un deposito
in Casale Monferrato.
Terminata la licenza ‘d’attesa di nomina’, di un mese (la loro prima licenza)
i due giovani raggiunsero i rispettivi depositi, era ormai il febbraio 1942. Ve-
stivano - come Manno a suo tempo - divise nuove di stoffa diagonale color gri-
gioverde chiaro, con cinturoni e stivali, molto eleganti; il Tintori si sforzava di
non pensare alla tremenda preoccupazione che - allontanandosi da Nova -
aveva visto negli occhi del padre, da lui sempre tenuto al corrente delle do-
mande di assegnazione al fronte russo.

CAPITOLO NONO

Le settimane tuttavia e poi i mesi, avevano ripreso a passare senza che per
lui intervenissero novità. Il fronte russo - stabilizzatosi dopo l’enorme avanza-
ta tedesca del 41 e la circoscritta ritirata davanti a Mosca nel corso
dell’inverno - era in stasi, salvo che per un’isolata gigantesca battaglia con cui i
tedeschi avevano da poco infranto un grosso ritorno offensivo del nemico nel-
la zona di Carcov; le divisioni italiane non erano state però coinvolte in questa
battaglia, e non abbisognavano quindi di complementi.
Il Tintori - che non le aveva mai sospese del tutto - finì addirittura con
l’intensificare le proprie preghiere, anche perché al deposito con lui c’erano
almeno altri venti sottotenenti che - mossi da patriottismo o da spirito
d’avventura - avevano pure chiesto di partire per il fronte russo. “Si può sape-
re perché non avete fatto invece domanda d’essere assegnati ai reggimenti di-
slocati sulla Costa Azzurra, o in Riviera?” egli pensava a volte, osservandoli
preoccupato: “Perché non siete andati a farvi dei bei bagni di mare, anziché
venire qui a creare difficoltà a me?” Sapeva di non essere molto logico; la pro-
spettiva però di venire lasciato da parte quando fosse finalmente arrivata una
richiesta di complementi per il fronte, lo innervosiva.
Ma non venne lasciato da parte. Forse il vecchio colonnello che comandava
il deposito - un posato e ironico signore — s’era accorto della sua ansia, o for-
se, chissà, fu Dio stesso a disporre così. Fatto sta che verso metà maggio egli
venne chiamato insieme con altri cinque ufficiali al comando, e avvertito di
tenersi pronto a partire.
Appena ne ebbe la possibilità, il giovane raggiunse casa sua per dare nei do-
vuti modi la notizia al padre; da Nova - rendendosi improvvisamente conto
che dal fronte sarebbe anche potuto non tornare - telefonò inoltre all’unica
altra parente che avesse, una sorella di sua madre, la quale viveva col marito a
Monza. Giacché si trovava al telefono pubblico, pensò bene di chiamare anche
Nomana, di modo che i familiari alla prima occasione informassero Ambrogio.
Venne all’apparecchio la signora Giulia: «Ambrogio sarà qui a Nomana
domenica prossima» gli comunicò: «fra tre giorni. Lei domenica è a casa?»
«Sì. Almeno spero. Stasera devo tornare al deposito, ma se non sarò di ser-
vizio, o non partirò prima, conto appunto di passare a casa la sera di sabato e
la giornata di domenica.»
«Perché allora non viene una scappata da noi? Domenica pomeriggio per
esempio. Potrebbe trascorrere qualche ora in compagnia d’Ambrogio.»
«Venire a Nomana? L’idea mi attira. Sì, potrei fare una scappata d’un paio
d’ore... Però, come le dico, non sono in grado d’impegnarmi.»
«Beh, noi a buon conto le prepariamo il gelato; io so che le piace, non dica
di no. Se potrà venire, l’accoglieremo a braccia aperte.»

CAPITOLO DECIMO

Così la domenica successiva, di mezzo maggio, attraversando la campagna


in gran rigoglio il sottotenente Michele Tintori si recò in bicicletta a Nomana;
per poter viaggiare in maniche di camicia non indossava la divisa ma un abito
civile, e mentre pedalava fantasticava sull’altro suo prossimo, grande viaggio.
Nei paesi notò come sempre una quantità di giovani per le strade. “Non c’è
quasi differenza rispetto al tempo di pace” si disse e ripete. E anche quanto al
resto che segni c’erano della guerra? “Pochi, davvero pochi. Voglio chiedere ad
Ambrogio se almeno le fabbriche, il sistema produttivo, è sotto sforzo”.
Era sotto sforzo sì, ma modico: glielo spiegò di lì a poco il signor Gerardo al
quale, com’egli l’ebbe formulata, Ambrogio aveva girata la domanda: «Per
competenza: perché è materia tua, papà.»
«Io non capisco» disse il Tintori. «Com’è che neppure adesso i fascisti, e in
generale i responsabili, si danno da fare veramente?» Erano seduti in circolo
davanti a casa, su sedie e poltroncine di ferro dentro un ombroso giro
d’alberelli di carpine: il bersò, come lo chiamavano.
Gerardo sollevò la testa e strinse le labbra: «Sento ripetere che non abbia-
mo materie prime. In effetti durante l’altra guerra ci arrivavano dall'America,
mentre adesso...»
«Intanto all’esercito il materiale lo assegnano col contagocce» disse il Tin-
tori: «Suo figlio gliel’avrà certamente detto. Speriamo che almeno al fronte le
cose vadano meglio.»
«Non è questione soltanto di quantità, è questione anche di qualità, di mo-
delli» disse Ambrogio: «in artiglieria almeno. Sapete» (si rivolse in particolare
al padre e al fratello Fortunato, mentre anche la madre ascoltava attenta) «che
ancora adesso seguitano a fabbricare sopratutto cannoni modello 1911? I
75/27 modello 1911. L’entrata in guerra è stata una sorpresa per gli stessi re-
sponsabili dell’armamento, questo mi sembra evidente.»
«Va bene» disse il Tintori «ammettiamo la sorpresa. Però com’è che non si
danno da fare ora che in guerra ci siamo?»
Da un tale ordine di considerazioni li distrasse l’improvviso vocio dei ragaz-
zi minori che proclamando: «Vogliamo stare anche noi con la compagnia»
uscivano di casa col secchio del gelato (il quale gelato - a quanto pareva - ave-
va difficoltà a formarsi): lo sistemarono su una delle sedie di ferro, e con os-
servazioni varie ricominciarono a girarne la manovella.
«È colpa di Pino se il gelato non si forma» proclamò a beneficio degli adulti
il novenne Rodolfo: «Non la smette di alzare il coperchio per vedere se si è
formato o no, e così il gelo scappa tutto via.» «Sta zitto tu» ribatté il diciasset-
tenne Pino che, con la testa bionda (ancora più bionda di quella di Giudittina)
piuttosto sudata, faceva girare in quel momento la manovella. «Sta zitto se no,
insieme al gelo, io faccio scappar via anche te.»
«Secondo me» gridò Giudittina, anni sette «il gelato non può formarsi per-
ché voi continuate a girare quel coso lì. Bisognerebbe invece lasciarlo riposare,
almeno per un po’.»
«Te le do io sul po’» disse Pino «te le do io, se non la smetti di dire scemen-
ze.»
«Volete una mano?» chiese Ambrogio.
«No, voi due militari oggi siete i festeggiati» gli rispose Pino con simpatia:
«Non dovete lavorare.»
Fortunato, anni diciotto, che sedeva con gli adulti, allungò un piede verso il
secchio: «Quell’arnese lì dev’essere dell’ottocento» disse.
«Allora andrebbe bene come materiale per l’esercito» osservò ridendo il
Tintori, «Eh Ambrogio?»
Ambrogio annuì divertito.
«Occorrono due ore di manovella per produrre sì e no un paio di chili di ge-
lato» continuò Fortunato, «è una cosa assurda, insensata.»
«Sentitelo il grande industriale che calcola i tempi» disse Rodolfo, quello
che poco prima aveva parlato di gelo che scappa via.
In effetti, giovane com’era, Fortunato aveva la tendenza a valutare un po’
tutto in termini di produzione, al punto da meravigliare talvolta perfino suo
padre.
«Mi dispiace» fece il Michele Tintori «di essere in qualche modo la causa di
tutto questo traffico.»
I circostanti reagirono prontamente, sopratutto le due ragazze maggiori
(«Ma no, cosa dici?» «Vuoi scherzare?»); in attesa del gelato esse avevano
portato fuori di casa e posato sul tavolino di ferro del bersò un vassoio con
grandi bicchieri e alcune bibite, avevano quindi iniziata la distribuzione.
«Non deve dire così» protestò anche Giulia. «I ragazzi, lei sa, scherzano, è
naturale.»
«Sì, certo; solo che io, se pur involontariamente...»
«Dai Tintori, piantala» disse Ambrogio.
Francesca, notando che l’ospite aveva già bevuta parte della sua bibita, tor-
nò da lui con la caraffa tutta appannata all’esterno, per versargliene dell’altra:
«È abbastanza fresca, vero? Anche se questa settimana il ghiaccio è arrivato in
paese con ritardo, appena ieri sera.» (Non esistevano allora i frigoriferi dome-
stici.)
L’altra sorella, la quindicenne Alma soprannominata statuina di marmo,
che seguiva Francesca portando una diversa bibita, esclamò a un tratto:
«Chissà se oggi Manno ha da bere abbastanza, là nel deserto? Anzi chissà se
oggi ci pensano al bere, o se si stanno sparando?»
Francesca le lanciò un’occhiata di rimprovero, che significava: «Cosa ti salta
in mente? Fare simili discorsi davanti alla mamma!» A impedire che la con-
versazione si arenasse intervenne prontamente Ambrogio: «A proposito Tin-
tori, sai che Manno ha scritto dall’Africa? Ordinaria amministrazione dice. La
lettera è arrivata ieri.»
«Scrive a casa tutte le settimane» specificò Gerardo.
«Sapete con esattezza dove si trova?» chiese il Tintori.
«In questo momento no» gli rispose Ambrogio. «Ma un mese fa era nella
zona di Bir Hacheim, sotto Tobruch, l’abbiamo saputo da un soldato venuto in
licenza. Potrebbe essere ancora là.»
«Le sue sono, per un motivo o per l’altro, tutte lettere interessanti» disse
Fortunato: «Manno ha un notevole spirito d’osservazione.»
«Ti credo bene. Manno è molto ma molto dotato» affermò con calore il Mi-
chele Tintori.
«È un bravo figlio, sì» disse Giulia, grata per quell’affermazione così con-
vinta, ed emise un sospiro.
«Anche Stefano» disse a quel sospiro Francesca «ha appena scritto a casa
sua, alla Nomanella: anche lui sta bene.»
«Stefano è quel mio compagno di scuola qui del paese» spiegò Ambrogio al
Tintori «che da gennaio si trova in Russia col Terzo bersaglieri.»
«Ehi, a proposito» interloquì Pino alzando la testa dal secchio del gelato:
«Chissà se in Russia tu avrai occasione d’incontrare Stefano?»
«Beh, la Russia è grande» osservò il Tintori. E volgendosi ad Ambrogio:
«Ma perché quello Stefano voi lo chiamate per nome, e me invece per cogno-
me?»
«Già, perché?» si chiese anche Ambrogio. «Beh, perché in collegio tra com-
pagni ci chiamavamo per cognome, no? mentre qui alla scuola del paese ci si è
sempre chiamati per nome.»
«Alla maniera borghese là, e a quella popolare qui» gli fece notare con un
sorriso il Tintori.
Ambrogio annuì: «È vero. Beh, forse sarebbe ora di chiamarti per nome.»
«Eh, direi proprio.»
«Ma certo» disse Giulia. «Anzi dovevate pensarci prima.»
«E se lei mi desse del tu?» le propose allora il Tintori.
«Sì, d’accordo. Che caro ragazzo!»
Intorno c’era una gran pace. Dentro un’aiola a pochi passi dal bersò fioriva-
no in garbata composizione fiori di forme e colori diversi, come verbene, fior-
dalisi, bocche di leone, petunie, miosotis e ruvide zinnie. Gli occhi del visitato-
re andavano ogni tanto a quell’aiola. Se ne accorse Alma che, siccome parteci-
pava alla coltivazione dei fiori, li considerava un po’ competenza sua: venne
accanto all’ospite. (“Guarda come s’è fatta carina questa qui” pensò lui, “che
lineamenti regolari, perfetti. E carina al punto che quasi non sembra di carne
ed ossa”.) «Quell’aiola lì» gli spiegò la ragazza, a mezza voce per non disturba-
re i discorsi degli altri, «è tutta di piante annuali. Il giardiniere le fa nascere
nei letturini, e poi le trapianta nelle aiole. Io, quando non sono in collegio, lo
aiuto.»
Il giovane assentì con un sorriso: «È una bella aiola» disse, «a guardarla
rallegra la vista.»
Almina fece segno di sì, che era d’accordo, e sembrava non intendesse ag-
giungere altro.
«Dì un po’» le chiese Michele, anch’egli a mezza voce: «me lo sono doman-
dato altre volte: cosa vuol dire annuali? Che ogni anno quando arriva l’inverno
le piante muoiono?»
«Sì» disse Alma: «durano appena un anno, povere piantine.» Tale riflessio-
ne doveva addolorarla, anche se, al solito, fuori non ne mostrava quasi segno.
«Beh, si vede che a loro un anno basta. Anche le farfalle del resto» disse il
giovane «e tante altre piccole creature durano pochissimo. Noi però non dob-
biamo darcene pena, perché loro non lo sanno, non se ne rendono conto, dun-
que non ne soffrono.»
«Eh» sospirò Almina. Non sembrava d’accordo. Il suo bel viso però seguita-
va a non lasciar trasparire i sentimenti. “Eppure dentro, sotto quel sorriso da
statuina, deve essere sensibile, forse straordinariamente sensibile” rifletté il
futuro scrittore: “Se no a quest’età non si preoccuperebbe della sorte degli al-
tri, e delle piante poi.”
Intanto il gelato non voleva saperne di formarsi, sebbene alla manovella si
alternassero un po’ tutti, con l’esclusione puntigliosa dei due militari. Finché
Giulia, persa la fiducia, inviò in gran fretta la figlia maggiore Francesca dal
vicino fornaio: «Va dagli Erba. Entra dal retro bottega e vedi se gli è rimasta
qualcuna delle torte ‘paesane’ che avevano in vetrina stamattina quando sia-
mo passati per la messa.»
Francesca tornò di lì a poco con una magnifica torta dalla crosta bruna e
screpolata. Ambrogio allora scese in cantina e ne risalì con alcune bottiglie di
vino bianco: il gelato venne in qualche modo rimpiazzato dalla torta.
«È buona» commentavano un po’ tutti mangiandola. E Pino: «Chi dice che
dagli Erba le torte le sa fare bene soltanto il garzone Giovannino, quello con la
faccia sempre infarinata? No, Giovannino adesso è soldato, eppure io non ho
mai mangiato una torta degli Erba buona come questa.»

CAPITOLO UNDICESIMO

Demolita la torta, e riportato con ignominia in cucina il secchio del gelato


(«Provate a mettere del ghiaccio anche sul coperchio» disse Gerardo «chissà
che almeno così non si rapprenda») i due figli più piccoli, di sette e nove anni,
si staccarono dal gruppo, inforcarono le loro biciclettine, e cominciarono a
girare di corsa per i vialetti del giardino.
Sotto il bersò - accesasi qualche sigaretta - la conversazione divenne più
meditativa. «Certo che stai per vederne di mondo... Chissà dove sarai domeni-
ca prossima» disse Ambrogio a Michele.
«Magari ancora qui in Italia» gli rispose l’altro.
«In questo caso» disse Pino «devi assolutamente tornare a Nomana: vedrai
che per domenica il gelato sarà pronto.»
«Certo» gli si unì un po’ mortificata Giulia. «Devi darmi modo di mantene-
re la promessa che t’avevo fatto.»
«Grazie, no. Ringrazio anche te Pino, ma non posso» sorrise Michele.
«Perché no?» lo contrastò Ambrogio: «Io non sarò a casa, ma se tu ti trovi a
Nova, puoi ben venire.»
«Tu no? E perché? Devi venire anche tu» obiettò Pino al fratello.
«Lo sapete che io non posso venire a casa quando mi pare, che ogni volta
devo chiedere il permesso. Per lui invece è diverso, perché si trova su piede di
partenza. E poi è possibile che io... Già, me n’ero mezzo dimenticato» si rivol-
se sopratutto a Michele, quasi a chiedergli un parere: «Domani, alle nove in
punto, devo presentarmi al colonnello: ha convocato me e altri tre.» (La ma-
dre si fece subito attenta). «Chissà cosa cavolo vuole, non ne ho la minima
idea. Il mese scorso ha spedito due a Firenze, a ritirare del materiale ottico:
sono rimasti fuori un’intera settimana.»
«A voi magari vorrà soltanto fare un cicchetto per qualche ragione che
neanche vi sognate» disse il Michele Tintori.
«Eh, può darsi» ammise Ambrogio
«Non sarà per... inviarvi in zona d’operazioni?» chiese Gerardo
«Dove vuoi che ci mandi, papà? Al reggimento in Grecia? No, i complemen-
ti, sia ufficiali che truppa, li hanno inviati il mese scorso: quattro gatti del re-
sto. E poi non manderebbero dei pivelli appena arrivati dal corso come noi,
con tutti gli altri ufficiali disponibili.»
Dopo un po’ anche Alma e Pino finirono con lo staccarsi dal gruppo, e sul
prato non lontano dal bersò cominciarono a lanciarsi l’un l’altro mediante
tamburelli, un piombo ornato da un ciuffo di piume.
Tam, tam, tam, facevano i tamburelli. La conversazione aveva dei ristagni.
Ambrogio pensava al suo prossimo rapporto dal colonnello, cui non era più
tornato col pensiero da quando aveva lasciato Casale.
Michele a suo padre e all’imminente partenza. Gerardo avrebbe amato riti-
rarsi, come sempre nei pomeriggi festivi, a leggere qualche pagina de ‘I pro-
messi sposi’ (non leggeva altri libri, in compenso questo lo conosceva quasi a
memoria). Giulia pensava al nipote Manno, per lei come un figlio, chissà che
giornata stava realmente vivendo? Francesca era un po’ angustiata perché il
gelato non era riuscito (“non è stata una bella figura. e pensare che l’estate
scorsa l’abbiamo fatto senza inconvenienti due volte.”) La quindicenne Alma,
mentre giocava a tamburello, si dispiaceva vagamente di non saper tenere
compagnia al soldato in partenza per il fronte: “poi, quando sarà via, lo ricor-
deremo come ricordiamo Manno; mentre adesso che è qui, guarda, io non so
neanche cosa dirgli.”
A tratti il soldato in partenza osservava lei. “Che grazia anche nel muover-
si... mentre gioca non sembra affatto una statuina, piuttosto la direi, cosa?
Beh, un’agnella, ecco, un’agnelletta che salticchia sul prato. Quindici anni!
Che creatura fuori del comune. Questa è veramente una donna tutta da con-
templare, come quelle del medio evo. Ehi...” l’idea lo colpì: si rese conto che,
stante la propria impostazione mentale, non avrebbe potuto fare alla ragazza
un elogio più grande... avvertì allora il desiderio d’osservarla meglio; ma a
troncare simili incipienti fantasticherie venne il momento dei saluti e del suo
ritorno a Nova.

***

La mattina dopo Michele trovò in caserma l’ordine di partenza: doveva quel


giorno stesso raggiungere Bologna, ch’era una sorta di capolinea delle tradotte
ordinarie da e per il fronte russo. Subito prese contatto con gli altri pochi par-
tenti, concertò con loro l’orario, quindi, dopo essersi accomiatato dai colleghi
e dai soldati della sua compagnia entrò nel circolo ufficiali, acquistò un foglio
e una busta (entrambi con lo stemma del reggimento e il motto ‘fide ac virtu-
te’), e si applicò a scrivere brevemente al padre.
Mentre, seduto a un tavolino, era intento alla scrittura, alle sue spalle squil-
lò il telefono: egli udì - sul principio senza afferrare bene - l’inserviente in
giacca bianca, che aveva sollevato il ricevitore, fare il suo nome: «Da Casale
Monferrato? Un messaggio per il signor tenente Tintori? Ma c’è qui lui in per-
sona... sì, per caso, è qui per caso. Ve lo passo?»
Michele, sorpreso, aveva voltata la testa. «Vogliono voi, signor tenente» gli
disse il soldato inserviente, tendendogli la cornetta.
All’altro capo del filo c’era Ambrogio, il quale: «Proprio non pensavo di bec-
carti» fece compiaciuto. «Intendevo lasciarti un messaggio. Beh, racconta un
po’, tu a che punto sei?»
«Devo raggiungere Bologna in giornata. Di là partirò con la prima tradotta.
Immagino domani o dopo.»
«Bene. Appena arrivato fissa un posto anche per me.»
«Appena arrivato dove?»
«In Russia.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che ci vengo anch’io.»
«Dove? Tu vieni in Russia?»
«Sì. Perché? Vorresti andarci soltanto tu?» Ambrogio si mise a ridere: «È
per questo che il colonnello mi aveva chiamato a rapporto» spiegò.
«Quando?»
«Stamattina, due ore fa. Ieri te l’ho detto, no, che stamattina ero a rappor-
to? Ne abbiamo parlato a Nomana.»
«Ah, sì, infatti.» Michele fece una pausa: «E adesso come fai a comunicarlo
ai tuoi? Così di colpo, voglio dire?»
«Me lo sto appunto chiedendo.»
PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

Principale base di partenza delle tradotte per il fronte russo era, come s’è
detto, Bologna, e qualche settimana dopo di Michele, nel giugno 1942, anche
Ambrogio partì da Bologna. La città (godereccia, laica, quindi a lui inconge-
niale - sebbene egli fosse abbastanza insensibile a queste cose) per quel poco
che ne poté vedere gli riuscì confusamente sgradevole; come sgradevole finiva
col suonargli il suo dialetto: pacioso in apparenza, in realtà duro, cosicché a
lui dava in qualche modo l’impressione d’insincero. Neppure gli piacque,
all’interno della stazione, il saluto ai partenti da parte delle ‘donne fasciste’
bolognesi, rappresentate da tre o quattro vecchiotte in divisa che - dimostran-
do nel camminare su e giù lungo la tradotta d’essere anche piuttosto male in
gamba - distribuivano miseri donativi (come due o tre sigarette legate con un
nastrino tricolore, qualche biscotto, bandierine di carta, e simili) ai militari in
partenza. I quali le guardavano perplessi: tanto che le donne, con qualche
estemporanea battuta sulla migragna del loro federale (ma poteva ridere solo
chi capiva il dialetto) si sforzavano di dissipare quell’atmosfera. Ci riuscirono
alla fine, quando fu evidente a tutti che non un apparato di saluto c’era lì in
stazione, ma delle povere diavole lasciate a sé stesse: un po’ sboccate magari,
però tutto sommato materne, le quali si trovavano in quell’impiccio sopratutto
perché non gli era riuscito di schivarlo, ma forse anche perché qualche solleci-
tudine per i soldati la provavano davvero.
Erano in partenza con quella tradotta (corta, di sei o sette carrozze e carri in
tutto) complementi di svariate specialità: una sessantina di fanti, una quaran-
tina di bersaglieri, un nucleo di genieri lanciafiamme coi loro particolari di-
stintivi, squadre di autieri e d’altre specialità, nonché una quindicina
d’ufficiali subalterni non incorporati in reparti. In complesso bella gioventù,
non entusiasta ma neppure ripugnante alla partenza; nelle frasi di qualcuno
Ambrogio credette anzi d’individuare un malcelato senso d’attesa, il gusto gio-
vanile dell’avventura.
Mentre indugiava sul marciapiede, ora appoggiandosi su una gamba, ora
sull’altra, gli tornavano all’orecchio, piuttosto importuni, i versi d’una canzone
della guerra precedente:
‘La tradotta che parte da Torino
a Milano non si ferma più,
ma la va diretta al Piave,
ma la va diretta al Piave,
cimitero de la gioventù..’
Per fortuna questa guerra - egli obiettò a sé stesso - non era (“per noi italia-
ni almeno”) micidiale come la precedente. Per fortuna!...
Si decise infine a montare in carrozza; saliti i ripidi gradini entrò nello
scompartimento di terza classe in cui, insieme alla sua cassetta d’ordinanza,
erano sistemate sui portabagagli anche quelle degli altri tre sottotenenti del
suo deposito, destinati con lui all’Ottavo reggimento artiglieria Pasubio. Se-
dette coi colleghi, scambiò qualche frase con loro, poi alzatosi di nuovo
s’affacciò al finestrino: intanto si versava da bere da un thermos appena com-
perato, che aveva preso dal portabagagli.
La grande stazione di Bologna, coi suoi molti binari liberi o occupati da lun-
ghi convogli vuoti, non sembrava accorgersi della corta tradotta, dei suoi po-
chi soldati, e delle quattro ‘donne fasciste’ pencolanti sul marciapiede davanti
ad essa. Era in arrivo un lunghissimo treno civile da Roma, strapieno di gente:
allorché il giovane si sporse per vederlo meglio, il thermos gli sfuggì di mano e
andò a infrangersi sui ciottoli bisunti che rincalzavano le traversine ferrovia-
rie, schizzando attorno un po’ di caffè fumante. Ambrogio avvertì fulminea - e
nel medesimo istante respinse - una sensazione di presagio infausto. Si ritras-
se con disappunto dal finestrino. “Mi manca il tempo per comprare un altro
thermos” rifletté, e subito concluse: “Beh, naia, ne farò a meno”. Gli rimaneva
nella mano sinistra il bicchiere di plastica filettato al bordo: “Questo può sem-
pre servire.” Ne bevve i pochi sorsi di contenuto, quindi lo sistemò sul porta-
bagagli accanto alla sua cassetta d’ordinanza, e tornò ad affacciarsi.

CAPITOLO SECONDO

Nel tardo pomeriggio di quel giorno, mentre percorreva la via Mestre-


Postumia, la tradotta sfilò a passo d’uomo davanti all’immenso ossario di Re-
dipuglia dove sono riunite, nel luogo stesso dei terribili combattimenti per
Trieste, centomila salme di caduti nella prima guerra mondiale. Tutti s’erano
ammassati ai finestrini o agli sportelli dei carri per vedere: l’ambiente carsico
retrostante, più pietroso che verde, veniva a costituire una sorta d’enorme an-
fiteatro; dalle ultime propaggini dell’Adriatico il sole, già decline, illuminava
di sbieco lo spaventoso cimitero, mettendone in rilievo ogni particolare.
“Accidenti” si diceva Ambrogio “accidenti. Che ammonimento! È accaduto,
quando? Meno di venticinque anni fa... Fortuna che la guerra adesso non è più
a quel modo, non costa più tanti morti...”
I suoi tre giovani colleghi stavano pigiati insieme con lui al finestrino: «Che
razza di macello» mormorò uno.
«Uno scherzo» borbottò un altro.
Il terzo non diceva niente; era un ragazzo veneto d’animo semplice, di ca-
rattere cordiale, osservava in silenzio, con fronte rannuvolata, il terribile spet-
tacolo.
“Cosa starà pensando?” si chiese Ambrogio: “Forse che anche di noi affac-
ciati in questo momento ai finestrini, alcuni - non sappiamo se pochi o tanti,
ma con certezza alcuni - non torneranno più? Perché senza dubbio per un cer-
to numero di noi queste sono le ultime ore di vita in Italia. Fortuna non si
sappia per chi”. Sorrise in modo incoraggiante al ragazzo veneto, quello gli
rispose a sua volta con un sorriso.
“È un tipo simpatico, devo cercare di farmelo amico” si ripromise Ambro-
gio.

***

Superata Monfalcone e i suoi fumosi cantieri navali, ai due lati della ferro-
via che si addentrava nel Carso e nella bassa boscaglia cominciarono ad appa-
rire delle tende militari, che si fecero poco alla volta più fitte. In piedi o seduti
nei pressi delle tende si scorgevano dei soldati di fanteria i quali se per caso
incontravano lo sguardo degli uomini affacciati, scambiavano magari un cen-
no di saluto.
«Cosa vorrà dire ’sta storia?» domandò il sottotenente veneto, di nome
Bonsaver: «Questa specie di schieramento che non finisce più?»
«Può significare una cosa sola» gli rispose uno degli altri: «che la zona è in-
festata dai partigiani. Evidentemente i soldati son lì per proteggere la ferro-
via.»
«Ma ci troviamo ancora in Italia.»
«Già. Però probabilmente in una zona abitata da slavi.»
«I giornali non hanno mai parlato di partigiani in questi posti; davvero io
non lo sospettavo» disse Ambrogio.

***

A Postumia, poco lontano dal confine, dove la tradotta fece una lunga sosta,
si sentiva ogni tanto sparare. Dal finestrino il giovane vide sulle strade intorno
alla stazione alcuni fascisti in divisa o in semplice camicia nera camminare
guardinghi, con le armi in mano, uno brandiva un fucile mitragliatore Breda;
li indicò agli altri sottotenenti: «Cosa diavolo staranno facendo quelli là?»
chiese.
«Boh.»
Nel recinto della stazione nessuno sembrava dare importanza alla cosa; e sì
che, a intervalli, si udivano anche raffiche di mitragliatore. Il personale civile e
militare addetto ai servizi sbadigliava; era quasi il tramonto. La tradotta ripar-
tì senza che i quattro sotto-tenenti fossero riusciti a farsi un’idea di ciò che
stava succedendo appena fuori della stazione.

***

Nel pieno della notte il treno fece nuovamente alt. Ambrogio, che dormiva
sodo, si svegliò per l’improvviso venir meno del rumore ritmico delle ruote e
delle vibrazioni della carrozza; gli ci volle qualche istante per rendersi conto
d’essere sdraiato su un sedile di legno, piuttosto duro per la verità. Sopra di
lui, nell’incavo del portabagagli, continuava a dormire Bonsaver; sull’altro se-
dile e sull’altro portabagagli dormivano gli altri due sottotenenti; i bagagli di
tutti erano stati accatastati sul pavimento nello spazio tra i due sedili. Tutto
ciò s’intravedeva appena perché le tendine tese impedivano alla luce d’entrare.
Essendo il vetro del finestrino abbassato, da fuori potevano entrare invece i
rumori. Si trattava dei soliti rumori che si odono di notte nelle stazioni ferro-
viarie: un passo solitario sul marciapiede, degli scalpiccii più lontani, qualche
voce, improvvisi brandelli di musica forse da una porta che si apre e richiude.
A farci ben caso però, non si trattava dei soliti rumori; anche semiassopito
Ambrogio finì col rendersene conto: i passi erano infatti tutti di scarpe pesan-
ti, chiodate, e quanto alle voci... già, quanto alle voci, a farci caso, neppure una
era di donna. Chissà dove si era fermata la tradotta?
Il giovane si mise seduto, coi piedi scalzi sul sedile e la schiena contro la pa-
rete del finestrino; quindi, volgendosi a metà, scostò un angolo della tenda: la
stazione era fortemente illuminata, ne poté leggere il nome su una targa che
gli stava quasi di fronte: Lubiana.
Incuriosito esplorò qua e là con lo sguardo: scorse solo militari italiani, e
neanche molti, a causa dell’ora. Qualche soldato, disceso dalla tradotta, bi-
ghellonava insonnolito e negligente, come in Italia. Ma vicino a una porta a
vetri illuminata - forse il comando tappa, forse il comando militare di stazione
- c’era una squadra in armi (di fanteria? della milizia fascista? non riuscì a di-
stinguere) insolitamente disciplinata e anche marziale: questo particolare lo
notò bene.
“Qui devono stare in gamba” rifletté: “Non possono più tirare a campare, o
prendere le cose in scherzo e alla carlona come in Italia: perché è la loro pelle
ch’è in gioco, qui”. Ricordò la disapprovazione di suo padre, e di altri, anche
sua, quando questa città non italiana era stata annessa all’Italia. Che scioc-
chezza! Adesso però non era più questione di giudizi o pareri: adesso - coi par-
tigiani che certamente pullulavano - chi si trovava qui, coinvolto in questa
realtà e non nei discorsi astratti, doveva sfangarsela come poteva, per conto
suo; fare il possibile per salvare la pelle, e anche per impedire (“di chiunque
sia la responsabilità della situazione”) che i civili si scannassero tra loro.
“Meglio il fronte che una vita simile” egli risolse.

CAPITOLO TERZO
La mattina dopo i quattro sottotenenti si svegliarono che il sole era abba-
stanza alto: la tozza tradotta stava percorrendo di buona lena le ultime vallate
slovene, tra fitti boschi. Poi, senza formalità burocratiche, entrò nella pianura
ungherese, in apparenza sterminata: “primo anticipo della pianura russa” si
disse Ambrogio; dal finestrino scorgeva lontanissime mandrie al pascolo, buoi
come puntini neri appena visibili. A volte, nelle vicinanze di qualche fiume, la
tradotta attraversava zone fortemente paludose, e faceva allora levare in volo
branchi e branchi di uccelli acquatici: anitre di molte specie, pavoncelle, bec-
caccini, folaghe ed altri che, effettuate nell’aria brevi parabole, ripiombavano
tra le canne palustri. Quindi la pianura asciutta - col suo orizzonte dilatato,
inattingibile - riprendeva. Di tanto in tanto una stazioncina, con qualche arbu-
sto di lillà carico di fiori, che richiamava puntualmente ad Ambrogio il lillà
della stazione di Nomana.

Lasciata l’Ungheria la tradotta s’inoltrò tra le montagne coperte d’abeti del-


la Slovacchia. La mattina dopo, allorché i quattro giovani si destarono, stava
percorrendo bravamente la Polonia meridionale. C’era un che d’ineluttabile,
come di fatale, nell’arrancare instancabile del tozzo convoglio; pareva che il
suo frastuono monotono non dovesse avere mai fine.
Ambrogio e Bonsaver, seduti uno di fronte all’altro al finestrino, osservava-
no la campagna polacca, i suoi campi coltivati meno intensivamente dei nostri
padani ma a questi per più aspetti somiglianti, le strade di terra battuta, bor-
date qui come in Italia di rovi; a certi incroci, in luogo delle nostre cappellette
campestri, grandi croci reggenti Cristi veristici nel supplizio.
Davanti a uno di tali Cristi, molto prossimo alla strada ferrata, Bonsaver si
fece soprappensiero il segno della croce. Nel far questo incontrò lo sguardo
d’Ambrogio: «Sta matina no go ancora dito le orazion (Stamattina non ho
ancora dette le preghiere)» spiegò, senz’ombra di rispetto umano. Anche Am-
brogio allora si fece il segno della croce: «Nemmeno io le ho ancora dette.»
«E sì che di tempo per dirle ne avevamo» sorrise Bonsaver.
Ambrogio convenne. «Vedo che sei un paolotto anche tu, eh?»
Bonsaver non capiva: «Un cosa?»
«Un paolotto. Un cattolico praticante.»
L’altro allora annuì: «Sì» disse «lo sono.» Aveva un viso rustico, sanguigno,
molto veneto, e capelli biondi a spazzola.
«Sei iscritto a ingegneria, se ho ben capito» s’informò ancora Ambrogio.
«Sì» rispose Bonsaver.
«Si vede. La faccia di palta dell’ingegnere ce l’hai.»
L’altro lo sbirciò con un mezzo sorriso. «Perché tu, di che facoltà sei?»
«Scienze economiche.»
«Che schifo.»
Così per un momento avevano parlato ancora come studenti in un incontro
goliardico. Tornarono a guardar fuori; il problema tremendo dei polacchi: cat-
tolici - dunque loro confratelli - tenuti sotto i piedi dai tedeschi nazisti.
Ecco, fermi a un passaggio a livello che il treno superò molto lentamente,
dei contadini, uomini e donne, su carri agricoli a quattro ruote; osservavano il
convoglio senza parlare.
«Se mi me imagino» mormorò Bonsaver: «che noantri stemo iutando i te-
deschi, e in che a manera chi tenemo schiavi sti poareti...» A un tratto i con-
tadini si animarono, cominciarono a far segni di saluto ai soldati del convo-
glio. «Guarda, ci hanno riconosciuto, hanno capito che siamo italiani» escla-
mò Bonsaver; si sporse con tutto il tronco dal finestrino per rispondere a quei
saluti.
«Che brava gente, i polacchi» commentò Ambrogio.
«Par lori l’Italia xe el papa, xe la cesa catolica che ghe da corajo» fece
Bonsaver: «Par ela i ne soporta e i ne perdona tuto.»
«Sì» disse Ambrogio. «Se penso che invece noi... Beh, meglio lasciar perde-
re.» Tentennò il capo. Si ritrovò a desiderare che l’Italia non fosse una nazione
così parolaia, che non avesse un peso militare così modesto; provò struggente
il desiderio giovanile che la sua patria fosse gagliarda, e che spendesse la pro-
pria forza nel bene: non solo nel proprio, ma anche degli altri popoli. La con-
cezione cavalleresca della guerra, che talvolta riaffiora nel cattolico...

***

Nel pomeriggio del giorno seguente la tradotta attraversò le ultime terre po-
lacche verso il vecchio confine con la Russia. Erano a lente ondulazioni bosco-
se, che la linea ferroviaria tagliava in genere obliquamente, e il treno percorre-
va con lentezza, in uno sforzo apparentemente inspiegabile. Si scorgevano po-
chi villaggi, e tutti di misere casette dagli intonaci vivaci, blu o rossi o d’altri
colori che istintivamente i riguardanti avvertivano sbagliati. Tra villaggio e
villaggio non c’era, sotto l’incombente cielo, movimento, se non a volte di pic-
coli branchi di corvi che si levavano da un punto per andare a posarsi in un
altro non lontano, e qui rimanevano pencolanti in vetta alle piante, simile ogni
volatile a un brandello di paramento luttuoso.
Su una stradicciola parallela alla ferrovia i quattro ufficiali videro gli ultimi
contadini polacchi, tra cui un bambino che aveva in capo la budiònnaia, il si-
nistro berretto a punta verticale della rivoluzione bolscevica. Come ormai fa-
cevano per sistema, i soldati li salutarono dal treno, e si fecero riconoscere, e
anche questi contadini non meno degli altri risposero animandosi al saluto
degli italiani; un adulto, forse il padre, disse qualcosa al bambino che pronta-
mente si tolse il copricapo e lo scaraventò a terra. I soldati acclamarono tale
gesto; il ragazzo allora raccolse il copricapo e ancora e ancora lo scaraventò a
terra, e concluse addirittura col calpestarlo, tra le crescenti acclamazioni dei
soldati.

CAPITOLO QUARTO

Infine l’ingresso nell’Unione Sovietica, annunciato da file di reticolati che si


stendevano a perdita d’occhio nella campagna, e da file altrettanto lunghe di
sbarramenti anticarro in ferro; dietro i quali si scorgevano pesanti casematte
in cemento, macchiate di nero dai lanciafiamme, e qua e là carri armati con la
stella rossa, malinconicamente abbandonati.
I quattro guardavano ogni cosa con interesse, trasferendosi a turno dal fine-
strino dello scompartimento a quelli del corridoio e viceversa: in breve volger
di tempo ebbero l’impressione d’essere entrati non già in un mondo misterio-
so o d’ecatombi, ma piuttosto in un mondo incredibilmente arretrato e quasi
pietrificato. Se infatti procedendo verso est la Polonia si era fatta sempre più
povera, dalle sue pur povere regioni a queste oltre confine il salto era sensibi-
le. Le casupole qui apparvero improvvisamente coperte di paglia, la campagna
non era più percorsa da strade o da carrarecce, ma rigata da semplici piste;
neppure nei villaggi e nelle città che la tradotta attraversava si vedeva una sola
strada asfaltata.
Questo fatto in particolare richiamò l’attenzione dei quattro giovani.
«Com’è possibile? Non conoscono l’uso dell’asfalto qui in Russia?» chiedeva
di tanto in tanto, perplesso, uno di loro, ch’era geometra.
«È molto strano, sì» convenivano gli altri.
Ecco i russi: abbastanza simili nel fisico ai polacchi, erano più trascurati nel
vestire, più cenciosi, e avevano tutti - a vederli da vicino - visi stranamente
logori, come di persone molto a lungo maltrattate. (L’aspetto dei russi sotto
Stalin, che non sarebbe più uscito dalla mente di Ambrogio.)
«Qui, mi sa, non è questione soltanto d’asfalto» finì con l’osservare una vol-
ta scese le tenebre Bonsaver: «e neanche di povertà o arretratezza soltanto.
Chi ghe xe qualcossa che no va. No lo sentio anca voaltri? Me par de sentir
qualcossa de massa sporco.»
Gli altri convennero, pur senza riuscire a concretare meglio in parole tale
sensazione. Il treno, con le luci fortemente schermate, arrancava instancabile
e abbastanza veloce nel buio. Ad Ambrogio tornavano in mente le parole del
Michele Tintori. “Sarà a questo qualcossa che alludeva Michele? Certo questa
povera gente dev’essere passata per un’esperienza tremenda. Si direbbe che
l’abbiano sottoposta a manipolazioni contro natura. Beh, quando incontro Mi-
chele lo voglio sentire meglio”.
Dal giorno seguente l’orizzonte si dilatò sempre più; ogni tanto la superficie
del terreno appariva perfettamente piana, e tale si conservava per ore, con
qualche segno, qua e là, del passaggio della guerra: un carro armato abbando-
nato, piccolo e come risibile in quell’immensità; o un trattore agricolo in rovi-
na, ancora più piccolo; o qualche aereo ridotto a un moncone, a stento ricono-
scibile nell’erba.

***

Verso il termine del viaggio, alcuni giorni dopo, nel bacino minerario e in-
dustriale del Donetz, l’insediamento umano raffittì. Ambrogio che, affacciato
al finestrino, cercava di non lasciarsi sfuggire nulla, vide enormi fabbriche
semidevastate, grige, accanto a piramidi di scorie di carbone; tra fabbrica e
fabbrica si ergeva qualche casone popolare, a volte qualche quartiere appena
abbozzato, di uno squallore deprimente; e intorno le solite casette o isbe, ma
neanche molte. “Dove vivevano, dove dormivano gli operai?” egli si chiedeva:
“In quelle case lì non poteva starcene che una piccola parte...” Finalmente no-
tò certe ricorrenti distese di uno strano ciarpame: si trattava - s’accorse -
d’innumerevoli baracche di fortuna caoticamente addossate le une alle altre.
Eccoli i quartieri operai... “Guarda dov’erano costretti a vivere i lavoratori!
Poveri disgraziati! E di sicuro erano anche obbligati a fare la faccia contenta...”
Conoscendo la mentalità operaia, egli non aveva dubbi circa la loro interiore
ribellione. “Del resto chi non si ribellerebbe a vivere in condizioni simili?”
A dare ogni volta respiro, e riposo all’occhio, veniva subito dopo l’ultima
fabbrica o l’ultima distesa di baracche di quelle fungaie industriali, la steppa.
Che s’estendeva per chilometri e chilometri con la sua erba rada e fiorita.
Ogni tanto dal treno si scorgeva sulle strade non lontane dalla ferrovia uno
strano formicolio di civili, uomini e donne, i quali - ora fitti, ora molto diluiti -
andavano e venivano con carichi sulle spalle o sospingendo rudimentali veico-
li d’ogni tipo. I militari non riuscivano a capire cosa mai facessero: si trattava
di abitanti delle città diretti in campagna per barattare i più vari oggetti, o che
ne tornavano col loro piccolo - a volte tragicamente minuscolo - carico di ce-
reali. Quelle processioni fuori norma indicavano che nelle città c’era la fame,
ma i quattro non se ne resero conto.

***

Meta della tradotta fu un agglomerato industriale nelle retrovie del fronte,


Jasinovàtaia, d’alcune decine di migliaia d’abitanti.
Al corto convoglio era stata aggiunta in Polonia una carrozza civile tedesca
solo per metà occupata da militari della Wehrmacht, i quali avevano invitato
gli italiani a disporre liberamente dell’altra metà. E il primo episodio che Am-
brogio, sbarcato dal treno, ebbe sottocchio, fu una penosa vertenza tra un uffi-
ciale italiano e un ferroviere tedesco, il quale accusava l’ufficiale italiano
d’essere un ladro, perché sopra il suo bagaglio scaricato dalla carrozza faceva
bella mostra di sé un cuscino di velluto a righe delle ferrovie tedesche.
L’ufficiale dava la responsabilità al proprio attendente il quale, per assecon-
darlo, si fingeva stupido e sosteneva di non capire ciò che il tedesco diceva.
Non c’era nessun mezzo dell’Ottavo artiglieria presente in stazione o in cit-
tà; dopo avere inutilmente cercato un modo per raggiungere il reggimento, i
quattro sottotenenti decisero di pernottare, al pari di altri neo arrivati, in un
casone popolare annesso al comando tappa; qui montarono le brandine e qui,
all’alba del giorno dopo, Ambrogio scoprì che mentre era uscito per lavarsi, i
connazionali gli avevano rubato dal bagaglio le scarpe di ricambio.

CAPITOLO QUINTO
I quattro giovani raggiunsero l’indomani il comando del loro reggimento
una ventina di chilometri più a est, mediante l’autocarro che due volte la set-
timana veniva a Jasinovàtaia per ritirare la posta. Accolti paternamente dal
colonnello comandante, furono da lui subito assegnati ai gruppi, cosicché
Ambrogio dovette separarsi da Bonsaver e dagli altri.
Dopo aver caricato il bagaglio su una logora Millecento da ricognizione che
il suo nuovo comandante di gruppo gli aveva, con signorilità, inviata dalla li-
nea, egli partì il giorno stessa per il villaggio di Caménca.
L’autista, un caporale, guidava con molta perizia la vettura sulla pista di ter-
ra dal fondo irregolare, contemporaneamente rispondeva attento, serio, alle
domande che il neo arrivato gli faceva. «Sì, questa è la vettura personale del
signor maggiore, io sono il suo autista.» «Sì, il gruppo si trova a Caménca dal
mese di novembre.» «Rifugi contraerei? No, non ne abbiamo potuti scavare,
perché il terreno allora era gelato, duro come sasso. I cannoni sono piazzati si
può dire dentro il paese, che è piuttosto sparso, adesso vedrete; noi abbiamo
passato tutto l’inverno nelle case insieme coi civili, è solo da qualche mese che
siamo sotto le tende.»
«Avranno tirato un bel respiro i civili, eh» osservò Ambrogio «quando voi
avete sgombrato?»
«No, perché?» rispose l’altro. «Qualcuno può darsi. Ma in genere erano di-
spiaciuti, le donne specialmente.» Sorrise. Poi si rifece serio: «Però anche gli
altri. I russi a noi italiani ci vogliono bene, vedrete.»
«Hanno da mangiare?»
«Non molto poveretti, almeno qui nella zona del fronte. Quando è l’ora del
rancio ce n’è sempre un certo numero - bambini specialmente, e vecchi - che
vengono con le lattine in mano, a chiedere la minestra. I cucinieri cercano di
risparmiargliene un po’, e un altro po’ gliene versiamo noi dalle nostre gavet-
te, ma... beh, non è una cosa allegra, vedrete. Qui nelle retrovie, a Jasinovàtaia
per esempio, ci devono essere ogni tanto dei morti di fame.»
Caménca era un paese di minatori; vi si scorgevano alcune nere piramidi di
scorie di carbone: «Quelle miniere c’erano già prima della rivoluzione» riferì
l’autista.
«Com’è che lo sai?»
«Lo sanno tutti. E lo si vede per esempio dal cimitero. Che, intendiamoci, è
come gli altri cimiteri russi, cioè trascuratissimo, con le croci quasi tutte di
legno, che in mezzo ci pascolano le vacche, perché i russi se ne fregano della
morte. Però ci sono anche delle vecchie tombe fatte al modo nostro, con le
scritte e i nomi in francese: sono quelle dei tecnici minerari d’una volta.»
Per le vie del villaggio s’aggirava qualche artigliere in maniche di camicia,
con i marziali gambali. Una batteria di cannoni - da 100 millimetri, di piccolo
calibro dunque - era piazzata oltre una fila di casupole: i quattro pezzi, in quel
momento muti, avevano ciascuno la sua rete mimetica stesa sopra. Dietro i
pezzi si scorgevano, defilati tra le case, alcuni autocarri, e raggruppate sotto ad
alberi o allineate negli orti in mezzo ai girasoli, diverse tende.
Le tende militari italiane! Ambrogio al vederle avvertì una strana emozione,
quasi ritrovasse un pezzetto di patria. E davvero chi mai, dopo avervi trascor-
so i giorni e le notti, le potrà dimenticare? Erano diverse da quelle di tutti gli
altri eserciti, formate da teli impermeabili quadrati, ciascuno di due metri di
lato. Ogni militare aveva in dotazione uno di detti teli, che poteva utilizzare in
più modi: come mantellina contro la pioggia se lo indossava infilandovi la te-
sta attraverso un apposito pertugio nel mezzo; o come materasso se dopo
averlo piegato in due, e allacciato, lo riempiva di paglia o d’erba; oppure come
coperta per proteggere i materiali più preziosi, sopratutto le munizioni; infine
- ed era l’uso più proprio - come elemento per comporre la tenda della squa-
dra. Avevano, quei versatili teli, una colorazione rigorosamente mimetica, ra-
zionale. E tuttavia le tende che ne risultavano (di norma a sezione triangolare
quelle dei soldati, fatte a cubo quelle degli ufficiali) erano di un disegno ina-
spettatamente antico e armonioso, al punto da trasformare il luogo in cui sor-
gevano in una sorta di quadro. Anche lo squallido ambiente di Caménca, con
la sua polvere nerastra, e le poche, basse case popolari alternate alle isbe, e le
scorie di carbone.
L’autista fermò la Millecento davanti a un’isba: «Ecco signor tenente, siamo
arrivati» disse. «Qui c’è il comando di gruppo.»
«Qui dove?»
«In questa casa.»
Come i due entrarono i pochi ufficiali presenti si fecero intorno al nuovo ar-
rivato, gli diedero il benvenuto e con parole scherzose si misero a tempestarlo
di domande sull’Italia. «Noi ne manchiamo da dieci mesi» dicevano.
L’aiutante maggiore però - un tenente semicalvo, dal viso lungo e stretto -
s’intromise. «Un momento» disse: «prima fatemelo presentare al signor mag-
giore. Vieni con me; come hai detto che ti chiami?»
«Riva.»
«Lo vedete il bancario?» osservò il tenente medico: «Per prima cosa vuol
fargli compilare il bordereau.»
«Macché bordereau» disse l’aiutante maggiore, tentennando la testa. «Dai
Riva, vieni» e lo precedette verso l’ufficio del comandante. «Tu aspetta un
momento a scaricare il bagaglio» avvertì l’autista.
Il maggiore Casasco sedeva a un tavolo da campo. Era un uomo sui qua-
rant’anni, dai capelli lunghi e grigi, di modi piuttosto raffinati: sorrise al titu-
bante ragazzo che s’era fermato sull’attenti davanti a lui; si alzò in piedi e gli
tese la mano; poi, tornato a sedere, s’informò circa le sue competenze ed even-
tuali preferenze, cercando di studiarlo.
Anche l’aiutante maggiore si sforzava di studiarlo. «È milanese come te»
disse a un tratto di lui il maggiore, e celiò: «milanese e per di più ragioniere:
pensa che disastro.» Al che l’aiutante maggiore, soprannominato per il suo
lungo viso un po’ equino ‘Cavallo Stanco’, sorrise compiaciuto. Ambrogio ven-
ne assegnato a una delle tre batterie, la terza, come ‘ufficiale alla linea pezzi’:
«Però la batteria la raggiungerai dopo avere cenato con noi, perché ci devi
prima dare notizie dell’Italia.»
In seguito anche alla batteria (organico: quattro ufficiali, sei sottufficiali,
centodieci uomini) - ubicata poco lontano e comandata da un asciutto tenente
marchigiano laureato in ingegneria - le accoglienze cordiali da parte degli uffi-
ciali si ripeterono. Per parte loro i soldati scrutavano attenti il nuovo arrivato,
e dopo che il comandante gli ebbe sommariamente mostrata la linea pezzi
(«Nel caso si debba sparare stanotte... Domani poi ti farò vedere ogni cosa con
calma») parecchi gli si fecero intorno e formarono capannello: volevano
anch’essi sapere dell’Italia, di come vi andavano attualmente le cose, ne man-
cavano - ripeterono - da dieci mesi. Erano quasi tutti in maniche di camicia,
assai meno protocollari che in caserma, alcuni con ciabatte o zoccoli ai piedi:
in complesso gli fecero tuttavia buona impressione. Non scorgeva in loro av-
versione per lui, qualche riserva sì, che - si augurava - sarebbe durata solo fin-
ché non lo avessero conosciuto meglio. “Andremo d’accordo” si propose Am-
brogio: “Tocca a me ispirargli fiducia, anche se sono un novellino. Mi arrange-
rò, si renderanno conto che potranno ragionevolmente contare su di me”. Re-
so esperto dai rapporti con gli operai egli sapeva quanto la fiducia reciproca
fosse importante.
Più tardi, nell’isba dai muri storti in cui era insediato il comando di batteria,
il tenente comandante gli diede qualche ragguaglio sulla situazione: «Il fronte
qui è addormentato da un pezzo, te l’avranno già detto al comando di gruppo
immagino. L’ultimo vero combattimento l’abbiamo sostenuto a Natale, quan-
do i russi hanno cercato di sfondare le posizioni dei bersaglieri là sulla de-
stra.» (“La battaglia di Natale, infatti” ricordò Ambrogio: “Stefano è venuto
qui in Russia giusto dopo quella battaglia, a gennaio, certo con gli effettivi che
hanno rimpiazzate le perdite. Chissà dov’è in questo momento Faccia-di-tutti-
i-giorni?”)
«Mi chiedi che perdite abbiamo avute fino a oggi? In batteria un morto, uno
solo dall’inizio della campagna. Nel resto del gruppo altri quattro o cinque:
quasi tutti nei combattimenti per passare il Dnieper in autunno. Finché le co-
se vanno bene e si avanza, l’artiglieria non ha quasi perdite. Per la fanteria
invece è diverso: i fanti qualche perdita ce l’hanno sempre, a contatto come
sono col nemico. Qualche morto ci scappa sempre... Davanti a noi c’è il Set-
tantanovesimo fanteria: è schierato più o meno a tre chilometri da qui, in trin-
cea. Vedessi certe trincee: sono, si può dire, scavate nel carbone, che affiora
tra l’erba, tanto è ricca questa zona. Come poi la gente di qui trovi modo
d’essere così miserabile, per me resta un mistero.» Ambrogio gli aveva riferito
il furto delle scarpe. «Episodi da retrovia» lo rassicurò il tenente comandante:
«In linea l’ambiente non è canagliesco. È migliore non solo di quello delle re-
trovie, che (io l’ho conosciuto bene in Albania) è dappertutto schifoso; ma è
anche migliore di quello delle caserme in Italia. Qui c’è ordine e... cosa ti devo
dire? Vedrai tu stesso, c’è interessamento dell’uno per l’altro. E poi c’è spirito
di sopportazione, e anche una certa allegria.» «In parte me ne sono già reso
conto» disse Ambrogio, intimamente sollevato.
Andò a dormire molto stanco, nella tenda ufficiali che, per fargli posto, era
stata prontamente allungata mediante l’inserimento di tre teli. Dalla circo-
stante campagna giungeva smorzato il canto notturno delle quaglie. Mentre
egli cercava di prender sonno gli tornava alla mente il viaggio durato una set-
timana e appena concluso... l’ufficiale che a Jasinovàtaia aveva tentato di ru-
bare il cuscino tedesco... la stazione di Bologna con le buffe donne fasciste... la
sua casa, sua madre... A Nomana, nella stanza in cui egli dormiva da piccolo,
c’era un tarlo che nelle ore di buio, quando tutto era silenzio, non cessava mai
di far sentire il suo zirlio: insisteva talmente che egli, bambino, finiva col chie-
dersi se quel suono non fosse per caso dentro la sua stessa testa, e a volte si
tappava le orecchie per controllare se cessasse o no; da molti anni egli non
udiva più quel suono, al punto che se n’era dimenticato: stasera però gli tor-
nava in mente, e gli pareva si fosse trasformato nel canto lontano e incessante
delle quaglie. Chissà se anche Stefano (“Faccia-di-tutti-i-giorni”) in questo
momento sentiva le quaglie? E il Michele Tintori? Ma si addormentò presto.

II

CAPITOLO SESTO

Il fronte, fermo come s’è detto dall’autunno, si mosse improvvisamente di lì


a poche settimane, al principio di luglio. Da qualche giorno i bollettini tede-
schi andavano parlando di grandi battaglie ingaggiate da forze corazzate della
Wehrmacht più a sud. «Ecco, ci siamo, vogliono tagliar fuori i russi dalle loro
fonti di petrolio» si commentava a Caménca; presto però non ci fu più tempo
per considerazioni o commenti, perché anche al corpo di spedizione italiano
era giunto l’ordine di avanzare.
Tutto il fronte sud - costituito da circa un centinaio di divisioni - si mise in
movimento verso oriente, cioè verso Stalingrado e il corso inferiore del Volga.
Le tre divisioni italiane (Pasubio, Torino e Celere, comprese nella parte setten-
trionale dell’enorme apparato) s’avviarono una dietro l’altra, con la divisione
migliore, la Celere, di bersaglieri, in avanguardia. Sotto la loro spinta il nemi-
co - ormai sopravanzato a sud dai mezzi corazzati tedeschi - dopo qualche re-
sistenza iniziale cominciò a ritirarsi, limitandosi a contrastare vivacemente
l’entrata in talune località. A tergo dei militari si misero in movimento anche i
civili degli agglomerati urbani, uomini e donne, i quali con sacchi, borse, e
trabiccoli d’ogni genere, principiarono a formicolare lungo tutte le piste alla
ricerca di viveri.

***

Coi bersaglieri di testa c’era Stefano, il contadino della Nomanella, la cui


compagnia partecipò a più d’uno scontro.
La prima volta dopo solo quattro giorni d’avanzata, in prossimità di Ivanov-
ca (una delle tante Ivanovche della sterminata terra russa). Gli autocarri che
trasportavano il battaglione avevano fatto alt in una forra boscosa, perché da-
vanti ad essi le avanguardie esploranti, montate su motociclette, erano incap-
pate in una linea di resistenza nemica. Mentre i bersaglieri scendevano svelti
dagli autocarri, giungeva loro lo sgranare dei mitragliatori dei motociclisti, e
quello diverso e più nutrito della fucileria e delle mitragliatrici pesanti nemi-
che. Si era di mezza mattina: il terreno - piuttosto mosso in questa zona - era a
grandi boschi dalle foglie lustre per un recente piovasco, intervallati da qual-
che prateria.
Portandosi sulle spalle le armi, gli uomini della compagnia erano andati
avanti nel bosco in direzione delle avanguardie lungo la pista percorsa fin lì
con gli autocarri; ogni tanto potevano vedere a destra tra gli alberi un’altra
compagnia del battaglione che avanzava allo stesso modo. Quando la sparato-
ria aveva delle pause, nel bosco si metteva a cantare solitaria una tortora.
Stefano, che prima d’allora aveva partecipato soltanto a qualche scaramuc-
cia di poco rilievo in trincea, si sentiva molto emozionato; era aiuto tiratore a
una mitragliatrice, e camminava portando sulle spalle il pesante treppiede
dell’arma. Dopo un certo tempo la compagnia fece alt: ecco là le moto di una
delle squadre esploranti, ferme appena fuori pista sui loro cavalletti. Accorse
un motociclista che si affrettò a informare della situazione il capitano, il quale
- lasciata sul posto la compagnia - andò avanti con lui verso la tuttora invisibi-
le linea delle avanguardie, da cui partivano di tanto in tanto raffiche laceranti
di mitragliatore.
Poggiato a terra il treppiede, Stefano rilassò i muscoli del dorso e delle spal-
le; ogni pochi minuti sentiva ticchettare contro i tronchi e i rami degli alberi le
pallottole nemiche, nessuno però sembrava badarci. Il capitano tornò dopo
non molto, e seguendolo in silenzio la compagnia avanzò fino a schierarsi al
margine ultimo del bosco, sulla medesima linea delle avanguardie. Gli uomini
ebbero ordine di scavare in fretta dei ripari di fortuna.
La linea russa correva a forse trecento metri in un prato, formata da fortini
di tronchi con le feritoie a livello del terreno erboso: senza dubbio i fortini
erano collegati fra loro da una trincea che però da qui non era visibile.
Mentre le avanguardie e i nemici seguitavano a scambiarsi periodiche raffi-
che, i bersaglieri appena giunti avevano l’ordine perentorio di non sparare.
«Cos’è che aspettiamo?» chiese Stefano al suo capo arma, sdraiato al pari di
lui in una buca sommaria dietro la mitragliatrice.
«Che siano pronti i nostri mortai credo, e magari anche l’artiglieria.»
Nelle pause del fuoco ricominciava a tubare solitaria la tortora. “Dev’essere
ben in amore quella là” pensò Stefano “se non la smette di cantare neanche in
un momento come questo.”
Il sottotenente comandante del plotone - un torinese di nome Acciati - per-
corse un paio di volte guardingo lo schieramento dei suoi per controllare il
piazzamento delle armi e la profondità delle buche. «Dai non battere la fiacca
tu» disse a più d’uno, «tanto cos’altro hai da fare? Divertiti almeno a scavare,
no?» Parlava sempre a quel modo tra scherzoso e serio, Stefano ormai ci era
abituato.
A mezzogiorno il rancio - galletta e scatoletta distribuite la sera prima -
venne consumato sulla posizione. Subito dopo arrivò un sottotenente
d’artiglieria con cinque o sei artiglieri carichi di cofani radio e strumenti diver-
si; scrutò attento in direzione del nemico prima da un punto poi da un altro,
scambiando qualche battuta scherzosa col comandante del plotone (erano en-
trambi studenti ventenni), infine risolse che avrebbe potuto condurre meglio il
fuoco dal luogo in cui stava il capitano. «Anche se così, a filo di terra, la vista
non è famosa neppure là. Forza» concluse rivolto ai suoi «andiamo.»
«Vedrai» mugugnò uno degli artiglieri a un altro, il quale portava su una
spalla una lunga custodia cilindrica (del goniometro): «che anche stavolta il
tenente finisce col salire su una pianta, come quella volta a Petricovca.»
«Basta che sulla pianta ci vada lui solo, e non faccia salire anche noi» gli ri-
spose l’altro.

CAPITOLO SETTIMO

Di lì a un certo tempo giunse a Stefano, un po’ indistinta, la voce di un ope-


ratore radio dell’artiglieria che trasmetteva dei dati. Subito dopo nell’aria si
dipanò il fischio di una granata, che andò a esplodere in prossimità d’un forti-
no nemico, con una fumata nerastra, grande - valutò Stefano - all’incirca
quanto un lenzuolo. Dal bosco tutti guardavano: lentamente quel poco fumo si
disperse. Altri dati e altri colpi: non molti, perché una volta ottenuta la forcella
sul fortino, il tiro venne sospeso.
Ebbe quindi luogo, con modalità abbastanza simili, l’aggiustamento dei
mortai, le cui bombe ‘a grande capacità’ esplodevano con un fracasso come di
enormi pignatte che s’infrangano, facendo vibrare fortemente il terreno. I rus-
si rispondevano sparando continue sventagliate di armi automatiche sul bo-
sco.
Finché, a un tratto, iniziò la buriana vera e propria. Levatosi in ginocchio e
raccomandata l’anima a Dio, Stefano non pensò più che a innestare caricatori
nel bocchetto della sua mitragliatrice la quale, al pari di tutte le altre dei ber-
saglieri, sparava adesso senza tregua, battendo incessantemente le feritoie dei
fortini nemici. In sintonia con le mitragliatrici sparavano tutti senza eccezione
i mitragliatori e i piccoli cannoni d’accompagnamento dei bersaglieri; i mortai
avevano ripreso a lanciare con furia le loro pignatte mortali, mentre
l’artiglieria investiva continuamente la linea nemica con salve di dodici colpi
ciascuna. La copertura di uno dei fortini russi a un tratto s’afflosciò, da un al-
tro fortino cominciò a uscire del fumo.
All’apertura generale del fuoco i russi avevano individuato il fronte dei ber-
saglieri e avevano a loro volta cominciato a batterlo con le armi automatiche,
il cui tiro però andò rapidamente riducendosi: malgrado i suoi apprestamenti
non trascurabili, la linea nemica non doveva essere presidiata da molta gente,
forse solo da poche truppe di copertura.
Infine il fuoco italiano ebbe una pausa; tutti, amici e nemici, sentivano - lo
sentivano sopratutto nel sangue e in gola - che stava per aver luogo l’assalto.
Ed ecco laggiù, tra fortino e fortino, alcuni dei nemici uscire dalla terra e fug-
gire: li si vedeva zigzagare furiosamente, buttandosi ogni tanto nell’erba per
poi riprendere a correre. Qualche mitragliatore li inseguì con le sue raffiche,
ma più d’un bersagliere ammonì: «Lasciateli andare. Non è meglio se scappa-
no?» Non ci fu comunque tempo per riflessioni: sulla destra, al di là del capi-
tano, risuonò a un tratto il grido: «Nono battaglione, fuori!» seguito da altri
comandi e urla di «Savoia! Savoia!» Gli uomini erano ormai tutti senza ecce-
zione entrati in uno stato di tremenda tensione. «Dai» urlò, dopo il capitano,
il tenente Acciati: «Fuori!» e balzò avanti: «Savoia!» gridò non appena allo
scoperto, mettendosi a correre come un pazzo verso i fortini: «Savoia! Sa-
voia!» I suoi bersaglieri correndo ancora di più si sforzarono di raggiungerlo
per non lasciarlo esposto. L’intero battaglione era uscito dal bosco e stava but-
tandosi sul nemico: ecco là a destra il capitano, che col resto della compagnia
correva curvo al pari degli altri, tra le urla e i colpi; gli uomini d’un’altra com-
pagnia - la più a destra di tutte - avevano le baionette inastate.
Stefano e il suo capo arma seguivano a passo affrettato, visto che non pote-
vano correre, il grosso, portando avanti la loro mitragliatrice. Altri, con altre
armi d’accompagnamento, procedevano allo stesso modo: si trattava di quelli
che non avevano ricevuto l’ordine di sostenere l’attacco rimanendo sulle posi-
zioni di partenza. A sinistra, dove operava un’altra compagnia, l’assalto parve
bloccato: alcuni bersaglieri scappavano indietro, ma i più, buttatisi nell’erba,
riaprirono il fuoco con i mitragliatori e le mitragliatrici; si sentivano dei feriti
urlare in modo impressionante; a Stefano però, cui le orecchie fischiavano per
la pressione del sangue, tutto ciò che non accadeva nelle sue immediate vici-
nanze quasi non interessava.
Qui davanti la resistenza nemica non pareva molto forte: egli vedeva ogni
tanto qualche russo in divisa color cachi emergere dalla terra e fuggire a gran-
di balzi, altri dovevano essere morti o feriti, altri forse attendevano accucciati
nel fondo delle trincee per darsi prigionieri. Sì, guarda, era proprio così: come
il giovane arrivò con la pesante mitragliatrice sulla linea dei fortini alcuni del-
la sua compagnia stavano appunto raggruppando i prigionieri.
Che avevano tutti il cranio rasato, facce terree e spaventate, divise di tela, e
richiamavano spaventosamente - come nessun’altra truppa al mondo - l’idea
di carne da macello.
“Povera gente, poveri diavoli” pensò per reazione il contadino della Noma-
nella: “Anche loro han madri e mogli a casa, le quali hanno bisogno di loro”.
Strizzò l’occhio a un russo dal viso butterato, davvero brutto, che guardava
con la bocca semiaperta lui, il capo arma, e la mitragliatrice che i due portava-
no. «Di cos’hai paura, bruttone?» gli chiese Stefano in dialetto: «Che vi spa-
riamo con questa? Non siamo mica bestie.» Gli sorrise anche: «Su, cerca di
farti un po’ di spirito.»
Intorno ai fortini e alla trincea che li collegava giacevano alcuni morti russi,
altri giacevano al loro interno: nella zona della compagnia - Stefano calcolò - i
morti nemici dovevano essere all’incirca una decina; poco più numerosi, sem-
pre nell’ambito della compagnia, erano i prigionieri. “Cosa vorrà dire? Che il
grosso è scappato?” si chiese il giovane. “Come mai non me ne sono accorto,
non li ho visti?” Alcuni dovevano essere fuggiti senz’armi, perché diversi fucili
giacevano nella trincea. Abbandonati erano stati anche un paio di strani mi-
tragliatori col caricatore a rotella orizzontale: il sottotenente Acciati ne aveva
tra le mani uno e lo stava esaminando. La sparatoria, da parte del nemico in
ritirata, s’era fatta intermittente.
«Riordinarsi subito e avanzare su Ivanovca» fu l’ordine fatto pervenire dal
comandante di battaglione: «Non dare tempo al nemico di riorganizzarsi.»
L’avanzata continuò a piedi su tre colonne, una per compagnia; la stanchez-
za cominciava a farsi sentire, ma Ivanovca entrò in vista quasi subito. Era uno
dei tanti disordinati agglomerati industriali del bacino del Donetz, serviti dalla
ferrovia e percorsi da strade di terra battuta bordate d’ortiche; vi si scorgeva-
no alcune piramidi di scorie, macchinari da miniera e, oltre alle solite isbe, un
caotico quartiere di baracche, in apparenza deserto, evacuato.
Insieme coi bersaglieri a piedi entrarono in paese anche le squadre motoci-
cliste, mentre dalla parte opposta se ne allontanavano le ultime retroguardie
nemiche.

CAPITOLO OTTAVO

Qualche giorno dopo, di pomeriggio, giunse in quello stesso luogo il gruppo


d’artiglieria d’Ambrogio. Fece alt proprio nel bosco da cui era partito l’attacco:
batteria per batteria autocarri, trattori e cannoni vennero parcheggiati sotto
gli alberi mentre i soldati rizzavano rapidamente le tende; alcuni si misero in
cerca dell’acqua, la scovarono dentro un borro, cominciò un andirivieni di
uomini con recipienti vari (gli autisti si servivano dei secchi di tela degli au-
tomezzi) dal borro alle batterie. Uno dei primi a tornare con l’acqua fu
l’attendente di Ambrogio, Paccoi, contadino umbro. Era sudato, la bustina
(cosa che a lui succedeva abbastanza spesso) gli s’era disposta un po’ di tra-
verso sulla testa rotonda, reggeva con entrambe le mani un bacile che si era
procurato a Caménca dai civili in cambio di pagnotte; lo collocò sopra uno
sgabello contro la ruota d’un autocarro, e annunciò soddisfatto: «L’acqua è
pronta, signor tenente.»
Ambrogio - che aveva appena terminato di sistemare tra gli alberi i rimorchi
con le munizioni, di cui aveva la responsabilità - lo ringraziò, e sfilatesi
senz’altro camicia e canottiera cominciò a lavarsi. Anche i soldati presero a
lavarsi, liberando finalmente testa, braccia e torso dalla polvere del viaggio.
Nel bosco si sentivano cantare le tortore.
Prima che i lavacri avessero termine, uno degli artiglieri andati in cerca
dell’acqua tornò con la notizia che appena fuori del bosco c’era una linea di
fortini con morti e armi abbandonate. «È là, da quella parte. Ci dev’essere sta-
ta una mezza battaglia.»
«Io i morti non ho nessuna intenzione di vederli» dichiarò un caporale cur-
vo, con la testa insaponata, sul proprio catino; altri si espressero in modo ana-
logo; alcuni decisero invece di fare un sopralluogo: appena fuori del bosco po-
tevano ancora considerarsi a portata di voce (nessuno infatti aveva facoltà,
senza permesso, d’allontanarsi più di tanto dalla batteria). Terminate le ablu-
zioni costoro presero dunque il moschetto, s’infilarono le bandoliere con le
munizioni, e s’avviarono a gruppetti, o anche soli.
«Andrei anch’io a dare un’occhiata, se non hai niente in contrario» disse
Ambrogio al tenente comandante, che si stava radendo davanti a uno spec-
chietto appeso al fianco impolverato d’un autocarro.
«Qualcosa in contrario? Figurati. Va e cerca di divertirti» disse il tenente.
Ambrogio s’avviò; mentre camminava lungo la pista gli si accompagnarono
due soldati e il sergente Facchi, capo pezzo del primo pezzo, un bresciano bo-
nario, basso e tozzo, dai capelli a spazzola. «Son proprio curioso di vedere
cos’è successo» disse il sergente ad Ambrogio, con un sorriso che insieme
esprimeva e cercava simpatia: «Saranno stati i bersaglieri, eh?»
«Direi di sì» rispose Ambrogio: «almeno stando a quello che ha detto ‘radio
scarpa’.» L’altro, sempre camminando, lo guardava interrogativo, con la bocca
socchiusa (al pari di tutti i serventi ai pezzi, dopo tanti mesi di campagna era
diventato sordastro). «L’ha detto ‘radio scarpa’» ripeté Ambrogio con voce più
alta «che qui nella zona d’Ivanovca c’è stato uno scontro.»
Delle azioni con cui i bersaglieri della divisione Celere aprivano la strada
all’intero corpo d’armata italiano, non giungevano alle truppe di seconda
schiera delle divisioni Pasubio e Torino che notizie molto vaghe.
«Non potrebbero essere stati i tedeschi?» propose uno dei due soldati. «Sa-
pete che fanno a chi arriva prima con i bersaglieri, e anzi qualche volta tra loro
si sono sparati.»
Anche questa notizia era stata diffusa da ‘radio scarpa’: all’entrata in un vil-
laggio - ma chissà quale, chissà dove - non erano stati rispettati i tempi pre-
stabiliti, e bersaglieri e tedeschi avevano aperto il fuoco gli uni sugli altri; c’era
scappato un morto o due.
«Quello comunque dovrebb’essere successo più sulla destra» opinò
l’ufficiale: «dove le zone d’operazioni nostra e dei tedeschi confinano; non do-
vrebbe essere successo qui.»
Al termine del bosco ecco il prato attraversato dalla linea dei fortini: l’erba,
grazie ai piovaschi degli ultimi giorni, era non soltanto verde ma anche fitta-
mente cosparsa di fiori, il sole in declino l’andava sfumando d’oro; dal bosco
giungeva il canto delle tortore e dai prati quello corale delle quaglie: «Però,
com’è bello il mondo anche qui in Russia, a volte!» osservò il tozzo sergente
Facchi.
L’ufficiale annuì senza parlare.
Lungo la linea abbandonata c’era già qualche artigliere in esplorazione; i
quattro s’indirizzarono al più vicino fortino. Sul terreno prospiciente le sue
feritoie (in tronchi, slabbrati e fracassati dai colpi delle armi automatiche ita-
liane) c’erano munizioni sparse e qualche fucile russo abbandonato, uno con
la lunga affilatissima baionetta inastata; anche all’interno del fortino
s’intravedeva qualche oggetto abbandonato.
«Ci fosse magari un mitragliatore... potrebbe servirci in batteria» disse spe-
ranzoso Ambrogio; ma c’erano soltanto fucili ordinari.
«Ehi, guardate qui» chiamò a un tratto uno dei soldati che s’era allontanato
lungo la trincea; indicava qualcosa nell’erba mentre con l’altra mano si turava
il naso. Il sergente Facchi lo raggiunse: «Signor tenente, c’è un russo morto»
comunicò.
Anche Ambrogio e l’altro soldato s’avvicinarono: il cadavere, in divisa di te-
la cachi, con la bustina ancora in testa (per la prima volta Ambrogio aveva oc-
casione di vedere la divisa nemica) aveva le gambe divaricate ed era orribile:
gonfio per la putrefazione in pieno corso, trasudava dalla tela tesa un colatic-
cio che in alcune cavità s’era rappreso in putredine, lo percorrevano in ogni
senso con strana, mai prima osservata violenza, dense schiere di mosche, il
lezzo che ne veniva era atroce.
“Ecco a cosa si riduce uno quando gli va male” fu all’incirca il pensiero di
tutti.
Anche d’Ambrogio che (se ne rese conto) stava facendo in questo momento
il suo primo vero incontro con la guerra. “Già, ma non devo per questo la-
sciarmi prendere dallo sgomento” si disse. “Mai calarsi le brache, né in guerra
né in pace. Se no si diventa zimbelli di chiunque abbia del fegato, si cessa di
essere uomini. Per conservarmi uomo io devo essere pronto anche a morire,
sì, anche a fare questa orribile fine.”
Del resto il russo morto (magari un poveraccio semianalfabeta) era lì a pro-
clamare, nel suo tragico orrore, che la sua parte lui l’aveva saputa fare, che
non aveva ceduto. “Davvero non è facile essere uomini” rifletté Ambrogio.
“Comunque questo l’ho sempre saputo.” Ai suoi accompagnatori si limitò a
dire: «Povero diavolo, che fine!»
«Povero diavolo!» mormorarono anche gli altri.
Si scostarono dal cadavere, procedendo lungo la linea. Un po’ a tutti stava
passando il contento per la bellezza dell’ambiente e dell’ora, e anche la voglia
di continuare nell’esplorazione. L’ufficiale volle tuttavia indagare - con scru-
polo, com’era sua abitudine - la tecnica secondo cui erano costruiti i fortini:
«Perché potrebbe capitare anche a noi d’incappare in qualcosa di simile».
Raccolse infine, e consegnò ai soldati che lo seguivano, un paio di fucili russi e
alcuni involti di munizioni. S’era reso conto che i più dei morti nemici erano
stati già sepolti nella trincea, e che solo qualcuno rimaneva insepolto qua e là;
sul momento non diede disposizioni a loro riguardo, ma una volta tornato in
batteria, dopo essersi consultato col comandante, inviò alcuni uomini con pale
e picchi, e corde a ‘perdere’, perché provvedessero alla sepoltura.

CAPITOLO NONO

L’avanzata durò settimane. L’artiglieria si muoveva in genere a sbalzi, alter-


nando le giornate di marcia con soste anche di più giorni.
Il gruppo procedeva col reparto comando e la logora Millecento del maggio-
re alla testa, e le tre batterie (autocarri non meno logori, trattori, cannoni, una
motocicletta) incolonnate dietro. Solo durante i primi giorni trovò un ostacolo
nel fango, che a causa delle piogge intermittenti andava trasformando qualche
pista in gora («Fortuna che non siamo costretti ad avanzare a ogni costo, co-
me in autunno» commentavano i soldati; certo per i bersaglieri di testa non
doveva essere neppure adesso divertente.) Cessate le piogge subentrò rapida-
mente la polvere: ogni automezzo, viaggiando sempre e solo su piste di terra
battuta (perché non esistevano altre strade), ne sollevava un lungo pennac-
chio, di modo che la colonna si muoveva in permanenza dentro una nube di
polvere; per proteggersi gli artiglieri si coprivano con un fazzoletto il viso fino
agli occhi. Oltre a lasciarsi indietro il solito formicolio di civili in cerca di vive-
ri, capitava - se pure non di frequente - che gli autocarri incolonnati raggiun-
gessero e superassero colonne di fanteria a piedi: in maniche di camicia, suda-
ti, appesantiti dagli zaini, dai mitragliatori, e dai lunghi fucili modello 91, i
fanti procedevano di solito sull’erba al margine delle piste; in quell’ambiente
sterminato sembravano non avanzare affatto. Per evitare d’impolverarli
l’autocolonna riduceva ogni volta drasticamente la velocità, e se possibile
usciva addirittura di pista, entrando nell’erba o nel grano. Non sempre però
questo era possibile, e allora gli insulti dei fanti accompagnavano regolarmen-
te il passaggio dell’artiglieria; dai loro autocarri e dai trattori gli artiglieri -
sentendosi vagamente in colpa - ridacchiavano e si provavano magari a scher-
zare coi fanti, alcuni dei quali corrispondevano allo scherzo, mentre altri
s’invelenivano ancora di più. Quanto a polvere ad ogni modo gli artiglieri sta-
vano senza dubbio peggio di loro, specie quelli seduti nei cassoni degli auto-
carri, che finivano con l’esserne addirittura ammantati: le bustine, i fazzoletti
sul viso, le sopracciglia e le ciglia coperte.
Vedendo ogni tanto qualche sottotenente di fanteria procedere alla testa del
suo plotone, Ambrogio pensava: “Chissà se anche Michele starà scarpinando a
questo modo? O se si scarrozza invece in autocarro?” Non gli capitò mai, du-
rante l'intera avanzata, d’incontrare reparti della divisione Torino cui l’amico
apparteneva.

CAPITOLO DECIMO

In realtà Michele non stava scarpinando né scarrozzandosi: dopo circa una


settimana d’avanzata infatti era stato lasciato con un pugno d’uomini di guar-
dia a una partita di materiale in uno sperduto villaggio della pianura. Quel
materiale (che la relativa scarsità d’automezzi obbligava a portare avanti a
sbalzi) era accatastato dentro una grande stalla fatta di paglia e antenne di
legno: poiché comprendeva anche esplosivi, a turno i fanti di Michele doveva-
no vigilarlo sia di giorno che di notte; l’ufficiale non aveva in pratica altro
compito che la sorveglianza di quel servizio.
Un altro al suo posto si sarebbe probabilmente fatto delle grandi dormite.
Egli invece - preoccupato com’era di non essere ancora, dal suo arrivo in Rus-
sia, riuscito a parlare in modo utile con la gente - si era con fermezza proposto
di cogliere quest’occasione per dare inizio alle sue prese di contatto.
Aveva la fortuna di disporre d’un interprete: un ragazzo russo sui quindici
anni di nome Alessandro, adottato l’anno prima dalla compagnia come aiu-
tante di cucina, che gli era stato lasciato appunto in qualità di cuciniere. Que-
sto Alessandro, che i soldati chiamavano abitualmente malénco (in russo ra-
gazzo), era uno strano tipo: a cucinare non aveva quasi imparato, ma in com-
penso aveva senza apparente fatica imparato a parlare l’italiano. Era trascura-
tissimo nel vestire, al punto che i capi di vestiario militare in discrete condi-
zioni che ogni tanto gli venivano dati, in breve li deformava fino a renderli ler-
ci, per di più non c’era verso di fargli tenere allacciate le scarpe. Siccome stan-
do in cucina non aveva problemi d’alimentazione, tutto il suo interesse sem-
brava concentrarsi sul tabacco; quando fumava assumeva non di raro - quin-
dicenne com’era - atteggiamenti teppistici. «Io sono un besprizòrno» dichia-
rava a volte, protervo e amaro insieme.
«Cosa significa besprizòrno?» s’era informato Michele nei primi giorni do-
po il suo arrivo.
«Significa senza famiglia» aveva risposto lui, «senza papà né mamma.» E
con voce atona aveva aggiunto: «I comunisti certe volte i besprizòrni li fucila-
no.»
«Li fucilano?»
«Sì, gli fanno caput.»
«I comunisti fucilano gli orfani? Ma cosa dici? Non è possibile.» Il ragazzo
aveva dolorosamente fatto segno di sì, di sì con la testa, senza fornire spiega-
zioni; invano Michele aveva insistito per farsi dire altro. (Solo molto più tardi
avrebbe saputo che i besprizòrni costituivano una particolare categoria di or-
fani, in quanto erano figli dei morti nelle ondate di violenza ricorrenti nella
società sovietica: dei morti nella guerra civile anzitutto, poi nelle diverse ‘re-
pressioni’, nelle carestie, e nelle sempre rinnovate deportazioni: dopo ogni
nuova esplosione di questi flagelli, nelle città russe venivano a formarsi nugoli
di bambini che vivevano di furto e d’espedienti. I comunisti a volte li racco-
glievano per educarli e recuperarli, ma a volte le bande dei bambini inselvati-
chiti erano troppo numerose e moleste, e c’erano state effettivamente delle
bestiali fucilazioni in serie.)
Questo comunque Michele per ora l’ignorava; a dire il vero l’unica cosa di
cui egli si fosse finora reso chiaramente conto era che di tutte le calamità del
periodo comunista quella che oggi più emozionava la gente in Ucraina (alme-
no i contadini - con altre classi non aveva avuto contatti) era la carestia segui-
ta alla collettivizzazione della terra dieci anni prima: malgrado il greve fatali-
smo russo, la ricordavano tutti con incredibile spavento. Il giovane intendeva
perciò farsi anzitutto un’idea chiara su quella carestia.
Aveva scelto per propria abitazione un’isba al margine del villaggio, dalle
cui finestre poteva controllare il deposito del materiale (artista com’era, a de-
terminarlo erano stati anche - per singolare che possa sembrare - certi orna-
menti in legno delle finestre dell’isba, che gli erano piaciuti, e i due tronchetti
rusticamente intagliati che sostenevano il frontone d’ingresso: anche se si
trattava d’elementi tutti molto logori e deformati). La sera stessa del suo arri-
vo aveva senza indugio, in compagnia dell’interprete, fatto visita alla famiglia
dei suoi ospiti involontari. Costoro stavano ancora in cucina dopo la cena: si
trattava d’un uomo di mezza età, due donne, una ragazza sui diciotto anni e
alcuni bambini.
Dalle finestre spalancate entrava nell’isba il canto spiegato delle quaglie:
proveniva dall’intero orizzonte, e pareva la voce stessa dell’immensa pianura
russa. Fatto accomodare, dopo qualche convenevolo cui gli ospiti avevano ri-
sposto piuttosto incerti, e dopo aver offerto sia al capo famiglia che al malénco
una sigaretta, il giovane era entrato decisamente in medias res.
«Sì, dicono che dieci anni fa anche qui c’è stata la carestia» gli tradusse il
ragazzo. Sedeva al suo fianco, allungando davanti a sé le gambe dai piedi mal
calzati, aspirava con evidente soddisfazione il fumo della sigaretta.
Ed era stata davvero terribile?
«Sì, per forza, è stata terribile.»
Cos’era successo in pratica?
«Dice che una volta finiti i viveri hanno mangiato i cani, poi la... come si
chiama? la pelle delle piante, insomma tutto.»
C’erano stati dei morti di fame nel villaggio?
«Certo, per forza» tradusse il malénco: «Come in tutti gli altri villaggi.» Ag-
giunse: «Loro dicono che questa è una cosa che la sa ogni persona.»
«Ma perché, secondo loro c’è stata la carestia? Che cosa, oppure chi l’ha
causata?»
A tale domanda i contadini si guardarono tra loro inquieti, quasi spaventati;
il ragazzo aggiunse di suo qualche altra parola, forse per formulare meglio la
domanda. «Questi, mi sa» disse poi al sottotenente «si stanno cacando sotto»
(usava, ovviamente, le espressioni abituali tra i soldati): «Non so se risponde-
ranno.»
La ragazza - graziosa, con capelli color biondo avena - fu sul punto di dire
qualcosa, ma l’uomo imperiosamente glielo vietò, e voltatosi verso il malénco
principiò a vociferare. «Dice che loro erano contadini ‘mezzani’» tradusse
questi imperturbabile (intendeva ‘medi’: si trattava ad ogni modo d’una cate-
goria sconosciuta a Michele) «e che lui non è mai stato iscritto al partito.»
«Digli che io non penso certo che lui abbia qualche responsabilità, che non
lo credo minimamente. Digli che sono uno studioso e desidero soltanto capire
come sono andate le cose.»
Forse dipese anche dal termine con cui il ragazzo tradusse la parola studio-
so, che a lui stesso doveva riuscire poco chiara: fatto sta che i contadini si spa-
ventarono ancora di più. «Io sono uno che lavora e basta» si diede a ripetere
l’uomo, e per quanto l’ufficiale cercasse di spiegarsi meglio, non ci fu verso di
cavargli altro.
«Va bene» tagliò allora corto Michele, allo scopo di non pregiudicarsi le
possibilità per il futuro: «digli che se non vogliono parlare della carestia non
importa. Io rimango loro amico lo stesso.»
I russi ascoltarono attenti la traduzione della frase e rimasero interdetti. La
donna più anziana - madre o suocera dell’uomo - era talmente turbata che si
voltò verso un angolo del locale dov’era appesa una povera icona della Ma-
donna in legno e cartapesta dorata, e si fece ripetutamente il segno della cro-
ce: alla maniera ortodossa, con tre dita unite e le altre due ripiegate.
“Guarda com’è spaventata, poveretta” rifletté Michele, e pensò bene di pas-
sare a domande neutre: «Chiedigli come mai ci sono tanti campi di miglio.»
«Questo ve lo posso spiegare io» gli rispose il ragazzo: «è per la cascia. Tut-
ti noi russi mangiamo la cascia.»
Michele si chiese frettolosamente di cosa diavolo potesse parlare per creare
un po’ di distensione; seguitava, da fuori, a entrare nell’isba il canto glorioso
delle quaglie. «Domandagli se tutti gli anni le quaglie sono numerose come
quest’anno.»
«Da» rispose l’uomo: «da (sì, sì)» e guardava fisso l’ufficiale italiano. Dove
mai voleva parare questo straniero, che dopo le precedenti terribili domande
si metteva a parlare delle quaglie? «Ha proprio detto quaglie?» si assicurò
dall’interprete.
“Che bel successo” concluse tra sé Michele: “Posso davvero battermi le ma-
ni”. E al ragazzo: «Digli che li ringrazio, che non voglio disturbarli di più, che
adesso vado a dormire.»
Il malénco tradusse.
«Digli che se loro hanno piacere, potremo parlare ancora domani. Se invece
non vogliono, non importa. Io rimarrò loro amico anche senza parlare.»
I contadini ascoltarono sempre incerti la traduzione; solo alla ragazza la
prospettiva di civiltà e di tolleranza che in fin dei conti le parole di Michele
evocavano, sembrò fare una qualche impressione.

CAPITOLO UNDICESIMO

Per portare avanti le proprie indagini la mattina dopo il giovane ufficiale


prese di nuovo con sé il malénco - che lo seguì in maniche di camicia, come al
solito, coi calzoni grigioverdi sformati e le scarpe legate con un po’ di spago - e
si recò in visita dallo stàrosta, o capo del villaggio. Chi avesse nominato
quell’uomo capo del villaggio - se gli italiani o i tedeschi - il sottotenente igno-
rava: sapeva solo dell’esistenza di un nuovo capo villaggio, forse provvisorio,
chissà.
Lo stàrosta abitava nel mezzo del paese, ch’era interamente di isbe coperte
di paglia e poco distanziate una dall’altra: era un vecchio di statura alquanto
superiore alla media, ossuto e col viso scavato. Lo ricevette nella cucina che
certo gli faceva anche da ufficio, sembrava fosse solo in casa.
Dopo aver preso posto sulla sedia offertagli, Michele ebbe cura d’impostare
il discorso in modo più adeguato della sera precedente. «Invece di mandarvi a
chiamare» spiegò «sono venuto io perché in questo momento ritengo che voi
abbiate da fare più di me.» Sorrise. «E anche perché» aggiunse serio «voi siete
più anziano, e io ho rispetto per l’età.»
L’altro lo ringraziò con un inchino dignitoso.
Il giovane passò quindi alla domanda che aveva avuto cura di preparare per
rendere plausibile la propria visita: nel caso gli fosse venuta a occorrere - disse
- per i suoi materiali una data stalla che si trovava nella parte opposta del vil-
laggio, l’avrebbe potuta occupare? O forse quella costruzione era riservata
all’uso dei civili?
Lo stàrosta rispose che la stalla apparteneva al colcoz, quindi poteva consi-
derarsi, al pari di quella già in mano degli italiani, a disposizione delle truppe
occupanti: «Per ora, almeno.»
«Perché per ora?»
L’altro spiegò che - a quanto si sentiva dire - tutti i colcozi sarebbero stati al
più presto rimessi in funzione da parte dei tedeschi. Stranamente la cosa sem-
brava contrariarlo, e non poco.
«Voi non la ritenete una decisione giusta?» s’informò Michele.
«Quello che penso io, anzi che pensiamo tutti noi russi, non ha importan-
za» gli rispose lo stàrosta.
Michele lo considerò interdetto. “Forse questo è uno cui i comunisti hanno
portata via la terra” si disse, “uno che non gliel’ha mai perdonata. Chissà che
non l’abbiano fatto stàrosta proprio per questo”. Buttò là: «Può darsi che i
responsabili non intendano effettuare grandi riforme mentre è in corso la
guerra. Dopo però è certo che la terra non rimarrà collettivizzata.»
Il vecchio ascoltò attento la traduzione che il malénco gli fece di tali parole.
«Speriamo» si limitò a commentare asciutto.
«La collettivizzazione della terra, qui in Ucraina, dev’essere stata una vera
tragedia» lo saggiò allora Michele, cercando di dare avvio al discorso che in
realtà gli stava a cuore.
L’altro annuì con evidente sofferenza.
«Ho sentito dire che ha provocato una grande carestia, è vero?»
L’altro annuì ancora.
«Ci sono stati molti morti?»
Ancora una volta l’altro annuì: «Da, da (sì, sì) un numero tremendo di mor-
ti» rispose a bassa voce.
L’ufficiale fu sul punto di dire: «Sareste disposto a riferirmi cos’è realmente
accaduto?» Ricordando però il cattivo esito delle sue domande la sera prima,
non si risolveva.
Qualcuno bussò alla porta d’ingresso. Lo stàrosta si alzò in piedi, chiese
permesso, attraversò la cucina e il piccolo vestibolo che - come in molte isbe
russe - separava la cucina dalla porta d’ingresso, e sulla porta scambiò qualche
parola coi nuovi visitatori: probabilmente disse loro d’attendere. Come però fu
di ritorno nella cucina trovò che l’ufficiale - e a sua imitazione il malénco in-
terprete - s’erano alzati in piedi.
«Vedo che qualcuno ha bisogno di voi» disse Michele; il vecchio annuì.
«Bene, non voglio tenervi impegnato. Mi piacerebbe però parlare con voi di
queste cose con calma. Perché non venite a trovarmi al colcoz? Oggi o domani
per esempio? Potremmo bere un bicchierino di cognac insieme.»
L’altro annuì evasivo. «Grazie. Oggi o domani non è possibile, forse più
avanti.»
“Neppure questo sembra disposto a parlare” rifletté Michele. «Va bene,
d’accordo» gli rispose facendo buon viso alla situazione: «Quando voi preferi-
te. Del resto non intendo certo obbligarvi.»
Il russo rimase perplesso per tanta disponibilità; sembrò sul punto di dire
qualcosa, si trattenne, infine, in piedi com’era, attaccò a parlare: frase per fra-
se l’interprete tradusse le sue parole. «Quando sono arrivate qui le vostre
truppe, noi le abbiamo accolte all’ingresso del villaggio col pane e col sale»
disse il russo. «Erano soldati a cavallo» (“Infatti: del Savoia Cavalleria, che
avanza con la Celere” confermò mentalmente Michele.) «L’ufficiale coman-
dante ha accettato il pane e il sale, e ci ha risposto con civiltà, da vero gospo-
din (signore). I nostri cuori si erano aperti alla speranza. Ma adesso ci arriva-
no di continuo pessime notizie da Voroscilovgrad, il nostro capoluogo: i tede-
schi stanno fucilando migliaia di nostri compatrioti. Stanno riempiendo di
gente fucilata il grande fosso anticarro scavato davanti alla città; ne siete al
corrente?»
Michele, sinceramente sbalordito, guardò in faccia lo stàrosta: «Non è pos-
sibile» mormorò.
«Non soltanto a Voroscilovgrad i tedeschi stanno uccidendo i civili» ag-
giunse lo stàrosta, che aveva notata la sua sincerità: «E noi vi avevamo accolto
col pane e col sale!» tentennò la testa, quindi precedette i due alla porta.
Colto com’era alla sprovvista: «Sentite: cercherò, per quanto possibile,
d’informarmi su cosa sta succedendo a Voroscilovgrad» disse Michele, ten-
dendo la mano al russo prima di uscire. «Vi aspetto al colcoz. Non mancate di
venire.»
Lo stàrosta gli strinse la mano e lo lasciò andare senza più aggiungere paro-
la. “Che conquistatori di merda!” pensava: “Ignorano che i rossi durante la
guerra civile hanno spopolato gli eserciti bianchi semplicemente col distribui-
re la terra ai contadini; invece di fare la stessa cosa con gli eserciti di quel cane
rognoso di Stalin, loro si mettono a fucilare chi non è scappato, chi è rimasto
qui ad aspettarli. Ho veramente sbagliato a far credito a merde simili, solo
perché combattono contro i comunisti.”
La notizia delle fucilazioni a Voroscilovgrad e altrove - che sembrava non
turbare il malénco - turbò profondamente Michele. Camminò attraverso il
villaggio rimuginandola assorto, senza far caso a quanto lo circondava: alle
galline che razzolavano in pace davanti a qualche isba, ai grandi fiori gialli dei
girasoli negli orti, a una donna intenta ad attingere sul bordo della strada pol-
verosa acqua da un pozzo a fil di terra, mediante un rozzo bilanciere di tron-
chi. E se si fosse semplicemente trattato di fandonie? Di voci fatte magari cir-
colare dalla propaganda nemica? Eppure no, qualcosa gli diceva dentro che
no: dai nazisti ci si potevano aspettare senz’altro imprese simili. Non bisogna-
va continuare nell’errore di mettere, con semplicismo, sullo stesso piano i na-
zisti e i fascisti, quasi che il nazismo fosse semplicemente un fascismo tedesco.
Gli tornavano in mente quelle voci che circolavano all’università cattolica di
Milano: il giudizio del papa Pio XI, per il quale i nazisti erano da ritenersi veri
e propri anticristi secondo la configurazione evangelica, né più né meno. E in
effetti... ‘Dai loro frutti li riconoscerete’. Forse adesso, chissà, le SS stavano
sterminando gli ebrei di Voroscilovgrad, quella città fatta sopratutto di isbe
ma estesa quanto Firenze o Bologna, ch’egli aveva attraversato pochi giorni
prima. Forse stava verificandosi proprio questo: stavano assassinando gli
ebrei... a quel tempo nessuna notizia era ancora trapelata sui campi
d’eliminazione nazisti (che del resto soltanto da poco, da qualche mese appe-
na, avevano cominciato a funzionare): ma già allora se uno si chiedeva quale
dovesse essere la sorte degli ebrei nei territori che venivano via via occupati
dai tedeschi nazisti, provava un senso di raccapriccio.
“Come che sia, si tratti a Voroscilovgrad e altrove d’ebrei o d’altri prigionie-
ri, se io voglio davvero rendermi conto dei frutti a cui l’allontanamento dal
cristianesimo sta oggi portando” abbozzò in conclusione Michele “non devo
interessarmi soltanto alle imprese dei comunisti: sarà bene che m’interessi
anche a quelle naziste. Sì, devo sforzarmi di indagare, di cercar di sapere” si
propose quasi con sofferenza.
Il malénco richiamò a un tratto la sua attenzione: «Signor tenente guardate,
Beniamino» (al modo russo egli chiamava tutti per nome, non per cognome).
Lungo la strada polverosa del villaggio veniva avanti un fante, con l’aria secca-
ta di chi sia costretto a perdere il proprio tempo per correr dietro a quegli
sfaccendati dei superiori. Come scorse l’ufficiale ‘rettificò’ un poco
l’atteggiamento, e puntò su di lui: «Signor tenente, sono arrivati quattro ca-
mion di materiale. Dove li dobbiamo scaricare?»
«Vengo subito» disse Michele, accelerando il passo.

CAPITOLO DODICESIMO

Nel pomeriggio di quella stessa giornata - molto calda - mentre sdraiato sul
letto l’ufficiale cercava di mettere ordine nelle proprie risoluzioni, udì un ina-
spettato scoppiettio di motocicletta. Andò alla finestra: il veicolo era in sosta
accanto alla sentinella.
Lo montavano due militari con le mostrine del genio, i quali stavano infor-
mandosi se quello fosse il deposito materiali dell’Ottantunesimo fanteria.
«Qui c’è un deposito provvisorio di materiali» rispose loro la sentinella.
«Adesso però, tranne io che sono di guardia, tutti dormono.»
«Ah, bene. Noi siamo del genio di corpo d’armata» spiegò il geniere che se-
deva sul sellino posteriore: «Siamo accantonati non lontano di qui, a Fedorov-
ca. Sai dov’è? A un dieci chilometri da qui.»
«E allora?» disse la sentinella.
«Allora ci occorrono con urgenza le retine a incandescenza per le lampade,
e il nostro capitano ci ha mandato da voi a vedere se ne avete.»
A questo punto la sentinella indicò Michele affacciato: «Dovete domandarlo
a lui, al tenente» disse.
Con prontezza i due del genio, voltata la moto, si trasferirono sotto la fine-
stra dell’isba, e quello che sedeva sul sellino posteriore ripeté la presentazione
e la richiesta. «Il materiale che ci occorre non è gran cosa» spiegò: «si tratta
delle retine a incandescenza per le lampade Petromax. Ne siamo rimasti senza
perché ci è saltato un camion su una mina, e sono bruciate.»
«Sono bruciate con tutto che erano a incandescenza?» disse Michele.
«Sì, con tutto che erano a incandescenza» gli rispose sorridendo il geniere,
il quale a differenza del suo compagno indossava una divisa in perfetto ordine,
con la cravatta regolamentare e tutto il resto. «Pare roba da niente, ma per chi
come noi deve lavorare di sera al tavolo da disegno, è un casino» specificò.
«Va bene» disse Michele. «Non so se abbiamo le retine, però possiamo cer-
carle.»
In maniche di camicia, dopo essersi infilati gli stivali e affibbiato il cinturo-
ne con la pistola, uscì dall’isba ed entrò insieme coi due nella grande stalla
dov’era accatastato il materiale.
«Sei studente?» chiese a quello con la divisa in ordine.
«Signorsì, di architettura.»
«Dove, a Milano per caso?» domandò, vagamente speranzoso si trattasse
d’un compagno del Manno Riva.
«No, a Roma.»
«Ah, vedo.»
La stalla in cui erano entrati era, come le altre del colcoz, formata da
un’intelaiatura d’antenne di legno appena dirozzato, sistemate a doppio spio-
vente e coperte di paglia; non aveva finestre, la luce e l’aria entravano da una
delle testate completamente aperta.
«Guarda in che razza di stalle tengono gli animali» osservò il geniere stu-
dente: «Fatte con pali e paglia. Poveracci.»
«Poveracci chi? Gli animali o quelli che ce li tengono?» chiese Michele il
quale, aiutato dall’altro geniere, stava aprendo una cassa. «La gente di qui vo-
glio dire.»
«Ah. È proprio povera gente» convenne Michele.
«Lo sapete che sono arrivati a mangiarsi tra loro?» disse il geniere studente.
L’ufficiale sollevò con vivacità la testa e lo guardò: «Cosa?»
«Sì, signor tenente: sono arrivati al cannibalismo.»
«Ma cosa dici?»
«Ve l’assicuro. In questo paese non so, ma a Fedorovca, dove siamo accan-
tonati noi, a una decina di chilometri da qui...» Si volse all’altro geniere: «Eh?
Dillo anche tu.»
L’altro che al comportamento pareva un operaio, confermò: «Sì, è vero. A
Fedorovca tutti i civili lo dicono.»
«Ma...» ripeté Michele, interrompendo le ricerche e guardando in faccia i
due: «Cosa state dicendo?»
«Nel paese, a un trenta metri dall’isba del nostro comando» continuò il ge-
niere operaio «abita una donna che ha fatto cuocere un bambino morto, per
darlo da mangiare a... sì insomma, agli altri suoi bambini.»
Michele si sentì accapponare la pelle sulle braccia e sul dorso, seguitava a
guardare interrogativo i due.
«È grossa, eh?» disse il geniere studente. «Ma intendiamoci, non è successo
di questi tempi: è stato durante la carestia di dieci anni fa, quando hanno col-
lettivizzata la terra, è allora che a Fedorovca la gente ha mangiato i morti. A
quella donna il figlio era morto di fame, e siccome ne aveva altri che stavano
per morire, lei lo ha fatto cuocere e gliel’ha dato da mangiare. In paese però
hanno sentito l’odore e sono accorsi, con l’idea che in quell’isba si cucinasse
l’arrosto: è così che hanno scoperto la cosa, mi spiego?» «Ecco» confermò
l’altro geniere.
«E adesso» chiese Michele «quella povera disgraziata... Cosa fa? Ne parla?»
«Abita vicino al comando di compagnia v’ho detto. No, è naturale che lei
non ne parli. Sono gli altri che ne parlano.»
«In principio, quando s’è diffusa la voce, pochi giorni fa» disse lo studente
«sapete come succede, tutti i soldati volevano vederla: lei allora si metteva a
piangere, e scappava a nascondersi dentro la sua isba. Anche perché certi le
dicevano delle fesserie per fare gli spiritosi, sapete come fanno. Poi però il ca-
pitano ha dato ordine tassativo: basta disturbarla.»
«Il nostro capitano è uno che non scherza» disse il geniere operaio.
«Ci sono stati altri casi di cannibalismo a Fedorovca, se ho ben capito?»
Sì, ce n’erano stati altri, così asseriva la gente. I due però non erano in gra-
do di dire neppure approssimativamente quanti.
Poterono andarsene con una scatola di retine a incandescenza. In una di-
versa occasione il sottotenente avrebbe forse provata la piccola vanagloria
d’essere stato in grado - lui della ‘scassata fanteria’ - di fornire ricambi ai si-
gnori del genio; stavolta però aveva per la testa ben altro: gli erano tornate in
mente le cronache di Giuseppe Flavio, la deprecazione fatta dai romani agli
dei durante l’assedio di Gerusalemme nel 70, quando s’era risaputo che nella
città gli ebrei mangiavano i loro morti. “Guarda: siamo tornati indietro di
duemila anni, di duemila anni” si ripeteva sbalordito il giovane.
Il geniere studente - dopo averla completata con la penna stilografica - gli
consegnò una ricevuta già munita del timbro e della firma del suo capitano.
«Capitano Carlo Cipolla» compitò Michele.
«Sì, è di Milano» affermò il geniere.
“Di Milano? Forse potrei cercarlo” pensò il sottotenente. “Da lui potrei ave-
re altri particolari... ma quando cercarlo? Io non posso allontanarmi da qui.”

Più tardi, durante il rancio della sera, sentì prepotente il bisogno di riferire
l’episodio ai suoi fanti, di parlarne con loro, non fosse che per scaricarsene
almeno in parte. Ma i commenti dei soldati furono, ovviamente, del tutto ina-
deguati.

CAPITOLO TREDICESIMO
Al giovane occorsero alcuni giorni per digerire la notizia. Ne scrisse subito
ad Ambrogio, invitandolo a raccogliere intorno al cannibalismo informazioni
dovunque gli fosse possibile. Intanto però le sue ricerche nel villaggio rimane-
vano senza esito; lo stàrosta non si era fatto vedere, sembrava avere altro per
la testa che assecondare la sua curiosità.
Una notte Michele si svegliò, e subito quei tremendi fatti - il massacro
d’inermi a Voroscilovgrad e il cannibalismo - gli piombarono addosso. “Ma
perché devo, io solo, tormentarmi per queste cose?” si chiese a un tratto; e
cercò di respingerli quasi con rabbia.
Il dovere immediato, ecco, cerchiamo di pensare a questo. Vediamo... si le-
vò a sedere: da quando era nel villaggio non aveva fatta una sola ispezione
notturna al servizio di guardia. Si vestì, staccò con lentezza dalla testata del
letto il cinturone con la pistola e se ne cinse, quindi prese da sotto il cuscino
una piccola torcia elettrica portata dall’Italia, l’accese e uscì all’aperto.
La sentinella era al suo posto, con la schiena appoggiata a una parete della
grande stalla di paglia. Di semplice cuore il fante - un contadino stava in quel
momento pensando al paese natio nell’Italia del sud, e alla ragazza alla quale
prima di partire non si era purtroppo risolto a dichiararsi; se ne rimproverava
per la centesima volta. All’arrivo dell’ufficiale tornò al presente quasi con dif-
ficoltà; scambiarono qualche parola.
Nel buio la sterminata volta del cielo incredibilmente zeppa di stelle
s’incurvava sul villaggio russo e sull’immensa pianura; l’aria pulita era corsa
per ogni dove dal rustico canto delle quaglie.
“Com’è bello il creato di Dio” pensò Michele, guardandosi intorno, e inspirò
profondamente. “Sì che è bello! Com’è possibile che noi uomini lo trasfor-
miamo puntualmente, ad ogni generazione, in una bolgia?”
Salutò sopra pensiero la sentinella: «Beh, ciao Califano», e tornò con len-
tezza sui propri passi verso l’isba.
Ma non entrò. Si diede invece a passeggiare davanti ad essa, respirando a
pieni polmoni l’aria magnifica della notte. Era e si sentiva giovane, aperto e
sensibile alla bellezza: compenetriamoci dunque della bellezza delle cose, re-
spiriamola nell’aria pura della notte. Le quaglie seguitavano interminabilmen-
te a cantare. “Cantano per amore” ricordò il giovane, “e che ardore ci mettono,
quelle piccole baccanti!”
Sentì nascere anche dentro di sé un’improvvisa voglia d’amore fisico, voglia
ch’è sempre pronta a insorgere nei giovani, anche in lui - nonostante la sua
severità morale - dotato com’era d’esuberante vitalità e di fantasia. Gli venne
in mente la ragazza dell’isba... la incontrava più volte ogni giorno.
“Ehi, un momento” s’impose subito; quella ragazza non era per lui, era de-
stinata a un altro. E lui non doveva partecipare in nessun modo al disordine:
“Perché comincia proprio da qui il guasto che si estende poi a tutto il creato e
lo trasforma in una bolgia... Proprio da qui comincia.”
Era anche una questione di correttezza verso la propria futura moglie. Già.
Chissà dov’era in questo momento - cercò di prospettarsi, sempre passeggian-
do davanti all’isba - la donna che sarebbe stata la compagna della sua vita.
Chissà che viso aveva... Con ogni probabilità doveva essere molto giovane,
quasi certamente lui non l’aveva mai vista. A meno che... Gli venne a un tratto
incontro nella fantasia la figura acerba e stranamente sorridente di Almina, la
sorella quindicenne d’Ambrogio: “Quel giorno a Nomana era come un’agnella,
mentre salticchiava sul prato...” ricordò. Che creatura fuori del comune, dav-
vero unica! Ecco, a lei avrebbe anche potuto pensare! Cominciò ad estasiarse-
ne: sarebbe, chissà, ben potuta essere lei la compagna della sua vita... “Sì, cer-
to. Come mai non me ne sono reso conto prima d’ora? È una creatura... perfet-
ta!”
Il ricordo pulito di Alma l’aiutò un po’ alla volta a sublimare i suoi pensieri e
a uscire dalla tentazione carnale. La bellezza del circostante creato seguitava
ad affluire e a far culmine in lui, non più però in senso fisico: tendeva piutto-
sto, adesso, a tramutarsi in poesia; ricordò a un tratto quei due mirabili versi,
che l’avevano sempre incantato: ‘Signor che volesti creare - per me questo
amore lontano...’ e avvertì un crescente, acuto bisogno di scrivere a sua volta
dei versi, di cantare questo suo forse nascente, bellissimo amore.
‘Canti ad Alma’ pensò, e passando subito al concreto: “Ma in che modo pos-
so scrivere? Al lume della torcia elettrica?” nella sua stanza non c’era neppure
il tavolo. Beh, si sarebbe arrangiato.
Entrò nell’isba, prese dalla cassetta d’ordinanza e depose sul cuscino un fo-
glio e una matita, quindi, spenta la torcia, si diede a passeggiare avanti e in-
dietro nel locale in cui non giungeva che qualche barlume di luce attraverso la
finestra spalancata; le parole e il ritmo del suo canto cominciarono a prendere
forma in lui, esaltandolo sempre più.
D’un tratto ebbe però la sensazione che qualcuno armeggiasse all’uscio: ciò
lo riportò quasi con violenza alla realtà. Era in guerra e... Teneva tuttora in
mano la torcia, la puntò sull’uscio e l’accese: l’uscio si stava adagio adagio
schiudendo, spinto furtivamente dalla ragazza russa, che infine entrò e lo ri-
chiuse dietro di sé. Era in camicia, a piedi nudi, coi capelli biondo-avena legati
in un’unica grossa treccia: sotto la luce scialba della torcia guardava in dire-
zione del giovane con un misto di sfrontatezza e di vergogna.
Dio, Dio, Dio, che prova! Il giovane temette proprio di non riuscire a supe-
rarla. «Mascia» mormorò faticosamente, a bassa voce: «Cosa fai qui? Cosa...
t’è saltato in mente?»
La ragazza, che non capiva le sue parole, additò lui e poi sé stessa, di nuovo
lui e sé stessa; il suo invito era fin troppo chiaro.
Michele si sentì invadere da un’emozione così violenta, che quella poetica
da cui era stato occupato fino a quel momento, e gli era sembrata tanto forte,
al confronto diveniva poca cosa; peggio, sembrava di colpo anche quella con-
fluire in questa, assommarsi a questa. Abbassò inebetito la torcia verso il pa-
vimento: “Non posso, non mi è consentito, non devo cedere! Assolutamente
non devo cedere!” «Mascia» disse con quanta più fermezza poté, parlando sia
a lei che a sé stesso: «No. Non è possibile.»
La ragazza non accennava a muoversi, seguitava a guardarlo: anche in que-
sta minima luce era indicibilmente attraente, attraente al di là d’ogni dire;
mai, nel corso della sua vita, Michele - che pure si faceva un impegno di non
guardarla - aveva sperimentata un’attrazione così forte, qualcosa che lo per-
measse fino a questo punto.
«No dobre (non è bene)» disse, usando una delle poche espressioni russe
che conosceva, e ripeté: «no dobre.»
La ragazza emise un piccolo sospiro e alzò con disappunto le spalle, pure
non si muoveva.
Il giovane andò alla porta, l’aprì curando di non far rumore: Mascia tenten-
nò la testa, sospirò di nuovo (com’era femminile in ogni suo atteggiamento!)
finalmente si voltò e uscì. Michele richiuse la porta.
Aveva respinta la tentazione come la morale gli prescriveva. Ma l’emozione
non lo lasciava per questo. “È Dio che me lo comanda” si ripeté, sforzandosi di
dominarsi del tutto: “quel Dio in cui credo, il cui insegnamento sono risoluto a
seguire”. Cercò anche di prospettarsi, in mucchio, argomenti d’ordine raziona-
le: “Questa Mascia può essere vergine, ed è comunque certo che un giorno
sposerà un povero diavolo; e io non devo, non voglio togliere a quel povero
diavolo il diritto di prima notte, non intendo privarlo di questo bene. E pro-
prio stanotte poi, la notte in cui stava... in cui sta - forse - nascendo il mio
amore per Alma: così che, oltre al resto, il ricordo di questa immonda incoe-
renza m’avrebbe seguito per tutta la vita.” Parole sante, eppure... mentre ne-
glette ormai carta e matita continuava a passeggiare per la stanza, innumere-
voli pensieri si susseguivano nella sua mente, squassandola. Egli non aveva la
fermezza del suo amico Ambrogio, la capacità che aveva Ambrogio di staccarsi
con la forza della volontà dalle cose; gli si prospettavano perciò anche non po-
chi argomenti in contrario: le insistite vanterie d’uno dei suoi soldati, per co-
minciare, che - invidiato dagli altri - asseriva d’avere già avuto rapporti intimi
con una donna del villaggio. E i racconti, uditi prima dell’avanzata, di quei
colleghi e soldati che avevano trascorso l’inverno nelle isbe insieme coi civili,
vivendo in pratica da sposati; e sì che le donne russe di campagna non erano
corrotte, anzi avevano determinati ritegni (i militari di queste cose disquisiva-
no rozzamente, con insistenza: qualcuno sembrava non saper parlare
d’altro)... ma ciò contro cui senza dubbio dovette lottare di più fu la sua stessa
fantasia la quale - intromettendosi nei suoi ragionamenti positivi o negativi -
gli prospettava di colpo, a tradimento, le immagini di quello che si sarebbe
verificato in questo momento se egli non avesse respinto la ragazza.
Dovette, per uscirne, ricorrere con impegno alla preghiera; a soccorrerlo fu
ad ogni modo sopra ogni altra cosa la pratica costante della purezza nel co-
stume, coltivata fin dall’infanzia con tante lotte e tanti ricorsi al sopranaturale.
Per calmarsi fino al punto di poter dormire gli ci vollero ore.

***

Nei giorni seguenti, con la ragazza sott’occhio che - da vera figlia d'Eva - si
comportava con disinvoltura come niente fosse accaduto, e tuttavia ogni tanto
lo guardava negli occhi, la tentazione gli ritornava più forte che mai. Buon per
lui che improvvisamente gli giunse l’ordine di sgombrare di là.
Glielo portò un ufficiale dell’autocentro, arrivato finalmente sul posto con
autocarri bastanti a caricare tutto il materiale. Costui gli diede anche impor-
tanti notizie: «Dall'Italia sono in arrivo tre divisioni di fanteria, cioè un altro
corpo d’armata, destinato a operare con noi. Non solo, ma è in arrivo anche un
corpo d’armata alpino; quello però, io credo, non verrà impiegato qui, ma in
qualche settore montagnoso, chissà, forse nel Caucaso. comunque adesso nel-
le retrovie si fa un gran parlare di questi arrivi, che son già cominciati. La no-
stra forza in Russia viene in pratica a triplicarsi; passiamo da uno a tre corpi
d’armata, diventiamo un’armata.»
«Come farà ad arrivare qui tutta quella gente? Le linee ferroviarie, dalle
vecchie posizioni in poi, hanno tutte senza eccezione i binari a pezzi: le ho vi-
ste io in molti posti.»
«Avevano, vorrai dire, avevano i binari a pezzi» affermò l’ufficiale. «E in
qualche tratto li avranno magari ancora. Ma il genio tedesco sta lavorando
dappertutto a ripristinarle.»

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

L’avanzata dell’intero fronte meridionale intanto continuava: le avanguar-


die tedesche stavano raggiungendo il Volga a Stalingrado; più a sud altre
avanguardie tedesche si approssimavano con grandi marce al Caucaso, e già
cominciavano a scalarlo con obiettivo le zone petrolifere e il confine persiano.
Il gruppo d’artiglieria di Ambrogio s’era da un pezzo lasciata indietro la re-
gione industriale del Donetz divenuta ormai solo un ricordo; aveva poi attra-
versato per lunghe, esaltanti settimane, un’immensa fascia di territorio colti-
vata a grano e girasole, con campi talmente estesi che a volte non se ne vede-
vano i confini; si era quindi addentrato in un territorio ugualmente sterminato
ma più selvatico, in cui alle coltivazioni s’alternavano spesso tratti di steppa
erbosa, incoltivata.
Non si scorgevano più processioni di civili sulle strade; gli autocarri viag-
giavano per chilometri e chilometri senza attraversare un villaggio e senza che
i soldati udissero voci e vedessero altre presenze umane che le proprie. Vede-
vano invece sempre nuovo cielo incurvarsi smisuratamente sulla terra smisu-
rata. “Dove stiamo andando?” essi si chiedevano, se lo chiedeva ogni tanto
anche Ambrogio: avevano a momenti la strana sensazione d’essere arrivati in
capo al mondo.
Dei combattimenti - rari per altro - con cui i bersaglieri aprivano più avanti
la strada, seguitava a non giungere loro alcun rumore, e solo ne avevano qual-
che notizia attraverso voci incontrollate. Poiché non li vivevano direttamente,
tendevano a sottovalutarli; scontri davvero duri del resto i bersaglieri dovette-
ro sostenerne solo al termine della lunga avanzata, quando in prossimità del
Don i russi in ripiegamento tentarono invano - anche con l’impiego di carri
armati - di conservarsi alcune teste di ponte (come quella di Serafimovic) al di
qua del grande fiume. Il quale entrò finalmente in vista delle avanguardie.
Questa regione non apparteneva più all’Ucraina, faceva parte delle terre dei
cosacchi. Le tre divisioni italiane si schierarono una di fianco all’altra sulla
sponda del Don, con fronte a nord; dall’estremità orientale del loro schiera-
mento Stalingrado distava appena centocinquanta chilometri.

III

CAPITOLO QUINDICESIMO

Di lì a qualche settimana la prima delle divisioni in corso d’arrivo dall’Italia,


che s’era schierata sul Don a destra della Pasubio, venne inaspettatamente
attaccata dai russi e abbandonò le posizioni. Si aprì in tal modo una falla larga
circa trenta chilometri, verso cui furono convogliate, con alterne vicende, le
poche riserve italiane disponibili; tra le quali si distinse in particolare il reg-
gimento Savoia cavalleria, che effettuò in quest’occasione la celebre carica
d’Isbuscenschi, cioè l’ultima carica della cavalleria italiana. A riportare il fron-
te in avanti furono però due battaglioni alpini, appena sbarcati dai treni.

Per Ambrogio si trattò di giorni di fiero trambusto; il suo gruppo aveva in-
cessanti richieste di fuoco non solo dai normali osservatori sul Don, ma anche
da alcuni osservatori imbastiti in tutta fretta a est, sul fianco destro della Pa-
subio, al margine della falla aperta dal nemico. Dentro tale falla il gruppo di
Bonsaver venne addirittura trasferito, cosicché il giovane sottotenente dovette
partecipare, come ufficiale osservatore, a una serie frenetica di condotte di
fuoco, anche a distanza ravvicinata.
Al pari degli altri militari coinvolti nei combattimenti — cui erano di sover-
chio i compiti immediati - sia Bonsaver, che Ambrogio, che lo stesso Michele
Tintori (giunto lui pure sul posto con una colonna di pronto intervento) non
pensavano a porsi le domande più importanti. Come mai, per esempio,
un’intera divisione italiana avesse abbandonate le posizioni senza opporre ve-
ra resistenza; e come mai due soli battaglioni alpini avessero poi rapidamente
risolta una situazione che una decina di battaglioni ordinari avevano difficoltà
a risolvere. Tali domande, ove essi se le fossero poste, li avrebbero indirizzati a
conoscere meglio i connazionali sotto l’aspetto militare: che è aspetto illumi-
nante per conoscere un popolo anche quanto al resto.

Ristabilita la situazione il fronte entrò nuovamente in stasi; dopo un ecces-


so di movimento, l’immobilità e la stasi; l’estate continuava.

***

I quattro cannoni della batteria d’Ambrogio erano piazzati a circa tre chi-
lometri dal Don, presso l’imbocco di una balca, o lunga scanalatura naturale
del terreno. Da quel luogo non si scorgevano altri apprestamenti militari,
neppure il comando di batteria che, con l’autocarreggio e le cucine, era siste-
mato non lontano, nell’interno boscoso della balca. A est e a sud - cioè a destra
e a tergo della linea pezzi (a sinistra si snodava la balca) - il terreno s’allargava
in una delle solite sterminate lande pianeggianti di quei luoghi. Davanti inve-
ce, dopo una corta salita esso scendeva in blandi falsipiani verso il fiume, di
cui i soldati - se si portavano sul colmo davanti ai pezzi - potevano intravedere
qualche piccolo segmento ceruleo, laggiù lontano, tra le verdi pieghe erbose.
Scorgevano allora anche, sulla sponda opposta, la cittadina cosacca di Vescen-
scaia, apparentemente deserta, tutta di tetti di paglia, nel cui mezzo emergeva
- come un pastore tra le pecore - la mole del rustico duomo col tetto a cupola.
Intorno ai quattro cannoni il terreno era senza un albero, lasciato a steppa,
ad erba incolta cioè, e rada, cosicché la tenda d’Ambrogio e quelle dei suoi cir-
ca cinquanta artiglieri, sistemate a poca distanza dai cannoni, erano dall’alba
al tramonto esposte al gran sole di fine agosto. Adesso l’unico ufficiale presen-
te era appunto l’Ambrogio Riva, perché gli altri due subalterni della batteria
erano partiti per l’Italia ‘in licenza d’esami’ (l’esercito si concedeva simili lus-
si!) e il tenente comandante non si muoveva mai dal suo posto nella balca.
Incombeva pesantemente la calura, e l’odore di terra e d’erba calpestata e di
metallo caldo entrava nelle tende mescolandosi al sentor di sudore degli uo-
mini, i quali non potevano lasciare lo schieramento né di giorno né di notte,
sebbene le richieste di fuoco giungessero dagli osservatori con sempre minor
frequenza. Il sottotenente aveva presa l’abitudine d’alzare al mattino una delle
pareti della sua tenda a cubo, fissandola in posizione orizzontale mediante due
pali obliqui: all’ombra di quell’ala o tettoia trascorreva poi la maggior parte
del giorno a leggere, o a chiacchierare con qualche soldato, o a riflettere.
A volte, specie sul far della sera, davanti alla sua tenda si formava un circolo
di quattro o cinque, o anche dieci e più artiglieri, i quali, seduti nell’erba con le
gambe incrociate, conversavano di questo e quello con lui, seduto allo stesso
modo nell’erba.
Qualcuno potrebbe oggi ritenere lo stato d’animo di quei soldati in qualche
modo influenzato dagli orientamenti prevalsi in seguito nell’opinione pubblica
italiana circa la guerra al fronte russo: influenzato ad esempio dall’idea che
una vittoria su questo fronte non avrebbe portato all’Italia alcun utile diretto,
e che anzi l’aumento della potenza tedesca si sarebbe tramutato per noi in un
danno; oppure influenzato dall’immoralità di quell’avanzare da conquistatori
in territorio altrui (non molto prima però anche i russi erano entrati allo stes-
so modo in Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia...) in realtà, co-
munque, niente di tutto questo: simili questioni non si ponevano affatto ai
soldati, al centro dei cui interessi stavano invece - oltre ai problemi del mo-
mento - la casa lontana, la ragazza (se l’avevano), la salute e il lavoro dei pa-
renti, in una parola la famiglia. Quanto al fatto che la sorte d’ogni famiglia fos-
se legata a quella della comunità nazionale, essi se ne rendevano conto solo in
confuso, e comunque con distacco. In sostanza con la comunità organizzata,
diciamo con lo stato, i soldati - settentrionali o meridionali: al di là delle con-
tinue, viete polemiche tra loro - avevano tutti un rapporto analogo a quello
che si ha con la natura: dentro la quale si nasce, e che con una certa periodici-
tà ci sottopone purtroppo a cataclismi cui bisogna per forza di cose far fronte.
C’è chi li affronta con più, e chi con minor coraggio, o decenza, o anche con
indecenza, chi - specie se è cristiano con maggiore, e chi con minor altruismo,
e molti senza alcun altruismo: tutto qui; delle battaglie e della guerra ognuno
avrebbe poi conservato un ricordo appunto come di cataclismi.
Di questo si rendeva sempre più conto il sottotenente che a volte, invece
d’attendere la loro visita, si recava lui stesso a visitare i soldati nelle loro ten-
de, distanti dalla sua un tiro di sasso. Ficcava la testa tra i teli dell’una o
dell’altra, un po’ sollevati alla base in quella stagione, così che l’interno fosse
arieggiato: «Si può?» chiedeva: «O disturbo?»
I soldati mostravano di gradire le sue visite, se ne sentivano lusingati. «Pre-
go signor tenente, accomodatevi.»
«Anche se questa non è proprio una reggia.»
«Beh, qui se non altro stiamo in compagnia» rispondeva magari l’ufficiale
entrando curvo nella tenda a sezione triangolare (che, se composta di sei teli,
ospitava sei artiglieri, se di otto ne ospitava nove, cioè l’intera squadra). Pren-
deva posto tra loro, seduti o sdraiati sui pagliericci. Si ravvivavano allora - for-
se con un po’ d’esibizionismo in più da parte di alcuni - i soliti discorsi: il pae-
se lontano, le donne, la vita senza costrizioni, e non di rado idealizzata, al pae-
se, il padre e la madre, i problemi dell’esistenza, ancora le donne. Su questo
delle donne, principe fra gli argomenti a vent’anni, ciascuno si sentiva in do-
vere di fare dello spirito; tuttavia non tutti lo facevano allo stesso modo. C’era
chi, malgrado il tono scherzoso, parlava delle donne con fiducia e senso
d’attesa; altri con incertezza, sebbene cercassero di non darlo a vedere; altri
con esibizionismo, vantando immancabilmente qualche lontana impresa ama-
toria che ormai tutti conoscevano alla nausea; altri ancora tendevano a par-
larne con linguaggio ottusamente pornografico, cioè ‘da porci’ come si usava
con realismo definirlo.
Il ventenne Moioli, bergamasco, puntatore del primo pezzo, era tra quelli
che ne parlavano con fiducia. «Che bella cosa l’amore!» concludeva a volte le
sue svagatezze, con molta ingenuità. Un giorno Ambrogio, ch’era in visita ap-
punto nella tenda del primo pezzo, gli chiese: «Ma dì un po’: tu l’amore l’hai
mai provato?»
Moioli lì per lì rimase imbarazzato. «Signornò» rispose infine «se devo es-
sere sincero.» A costo di fare cattiva figura davanti ai suoi compagni non era
disposto a mentire, bergamasco e onesto com’era. Aveva da poco compiuto
vent’anni. (È concesso allo scrittore di salutarti, Moioli? Saresti presto morto,
come molti degli altri. La tua figura di bravo ragazzo riaffiora qui solo per
qualche istante, prima d’essere nuovamente inghiottita dal tempo, che tutto
afferra e trascina via.)
«Ecco perché ne parli così» sentenziò allora il caporale Costanzo, trattorista
più che trentenne. «Adesso capisco perché non mi credi quando dico che le
donne, a conoscerle bene, sono tutte puttane. È perché tu non le conosci.»
«Beh, tutte puttane!» fece Ambrogio.
«Certo signor tenente. L’abbiamo visto anche qui in Russia quest’inverno a
Caménca, quando stavamo nelle case con i civili. Quanti erano nella batteria
che non facevano una vita da sposati? Sì e no il dieci o il venti per cento, a dir
tanto.»
«Più che altro quelli venuti su alla scuola dei preti negli oratori, come me»
spiegò pacificamente il tozzo sergente Facchi, capo pezzo, originario della
campagna bresciana.
«E loro, le donne, parlavano tutti i giorni del marito ‘na frontie’ (al fronte),
e si facevano anche il segno della croce così» continuò Costanzo, raccogliendo
le dita in punta, nel modo in cui si segnano gli ortodossi. «Poi la notte veniva-
no a dormire con noi senza neanche domandarglielo. Ecco cosa sono le donne:
tutte puttane.» Costanzo aveva lasciato a casa una moglie molto giovane, e
nessuno sapeva se a ragione o a torto ne era rabbiosamente geloso.
La maggioranza dei presenti sembrava comunque più interessata alla so-
stanza dell’affermazione di Moioli, il quale finì col farsi rosso in viso. Ambro-
gio si rese allora conto d’averlo esposto davanti agli altri; perciò disse: «Beh,
nemmeno io ho ancora provato l’amore fisico, fino a oggi.»
Alcuni si sorpresero: «Ma... cosa dite?»
«Signor tenente è... è impossibile.»
«È talmente impossibile che è vero» disse Ambrogio. «E, se Dio mi aiuta,
non intendo provarlo fino a quando mi sposo.»
«Anche voi per motivi religiosi, eh?» disse tutto contento il sergente Facchi.
«Sì.» Ambrogio fu per aggiungere: «E di lealtà» e spiegare perché, ma in
questo ambiente sarebbe riuscito un discorso troppo predicatorio; meglio li-
mitarsi a testimoniare.
«Signor tenente io non vi credo» esclamò, con un certo ritardo tant’era sta-
to preso in contropiede, il ligure Campanini, porgitore al pezzo. «È... impossi-
bile!» Era uno dei soldati che più apprezzavano Ambrogio; lo venerava addi-
rittura a motivo della sua efficienza milanese, che si era un po’ alla volta anda-
ta imponendo; questa affermazione costituiva per lui un autentico colpo.
Il sottotenente lo guardò in faccia, notò il suo sconcerto e si mise a ridere
tentennando la testa. Per qualche istante ci fu silenzio, poi il parlare riprese, il
discorso cambiò.
Attraverso incontri come questo Ambrogio si sforzava di capire sempre me-
glio ciascuno dei suoi soldati. E di farsi sempre meglio capire da loro. Non di-
menticava che la comprensione reciproca sarebbe stata molto importante se
mai fossero arrivati giorni difficili.

CAPITOLO SEDICESIMO

Un pomeriggio (dopo essersi sommariamente preannunciato per telefono:


«Guarda che in settimana conto di venirti a trovare») capitò in visita Bonsa-
ver.
Trovò Ambrogio immerso nella lettura, sotto l’ala alzata della tenda. Bonsa-
ver si fermò a qualche passo da lui (era in bustina, maniche di camicia e stivali
flosci; teneva sotto braccio un libro grosso quanto un vocabolario): «Sottote-
nente Ambrogio Riva!» esclamò con voce imperiosa.
«Eh?» Ambrogio scattò in piedi. «Ah, Bonsaver...» Sbuffò a ridere: «Che ti
prenda! Ciao, bravo che sei venuto.» Gli tese la mano: «Vieni, accomodati.»
«Ciao Riva, come steto?» disse venendo avanti Bonsaver. Si guardò intor-
no: «Qui a quanto pare viviamo in aristocratico isolamento, eh? Qui si fa la
guerra comoda, fora da la spussa dei poari cani, e fora dai piè de chi ne co-
manda.»
«Se è per questo, il comando di batteria è a neanche duecento metri, dentro
la balca» Ambrogio indicò. «E il comando di gruppo poco più in là, sempre
nella balca.»
«Lo so, li go visti pasando» disse Bonsaver.
Ambrogio gli offerse il proprio sgabello. «Dai, siediti» disse. «Non hai idea
che piacere provo a vederti.»
Quanto a lui sedette sulla brandina, che occupava quasi una metà della ten-
da a cubo di due metri di lato.
Bonsaver una volta seduto gli porse il libro: «Te go portà sto libro da lese-
re. Varda ch’el se ciama ‘Pietro torna indietro’: xe soltanto in prestio, ciar?»
Ambrogio prese il volume e ne esaminò con curiosità il titolo: «Toh» disse:
«‘Il placido Don’ di Sciolocov. Al telefono non me n’avevi parlato.»
«M’è arrivato un quindici giorni fa, per posta. Xe un libro che ghe fa pro-
paganda par i comunisti, se sa. Però anca se no lo go leto proprio tuto» disse
indicandone lo smodato spessore: «mi lo go trova bastanza bon. E seto par-
che? Parchè el parla proprio de ’sti posti che se trovemo qua noaltri: Vescen-
scaia, Jagodnoie, Mescoff, e... in soma ’sti posti.»
«Ah!» fece Ambrogio interessato. Aprì il volume a caso, lo sfogliò un poco:
«Sì, infatti, guarda qui: Vescenscaia, ecco.»
Poi scoprì che nella pagina di frontespizio c’era una dedica, vergata con cal-
ligrafia marcatamente femminile. «Ehi, ehi, cos’è ’sta roba?» La lesse con
sfacciata attenzione: «Cosa? ‘Cenzina al suo eroe lontano’? E chi sarebbe ’sto
eroe lontano? Tu, per caso? Ah sì? Ma guarda.»
«Dai» fece l’altro. «Me l’ha mandato la mia madrina di guerra: do parole
doveva pur meterghele. Le done bisogna lassarghe far.»
«Ma certo, come no? E chi sarebbe questa madrina di guerra? Una coi baffi
immagino.»
«No, ti sbagli.» Bonsaver si fece serio: «Xe quela tosa che te se anca ti, che
te go sa mensionà. Te lo go dito che se ciama Vincenza? No? Beh, la xe ela.»
«Ah» disse Ambrogio «quella che tu... che insomma cerchi di riportare
all’ovile; già, un po’ come il profeta Osea. Sì, ricordo infatti.»
«Chi sarebbe ’sto Osea?»
«È uno dell’antico testamento, un profeta che aveva sposato una sveltona.»
«No lo go mai sentito mensionar» disse Bonsaver, poco a suo agio in quel
discorso.
«Beh, io ricordo soltanto questo: che era un profeta, e che aveva sposato
una molto disinvolta: per convertirla, si capisce. Ma dì, come mai adesso è
diventata tua madrina di guerra?»
«La xe sta un’idea soa. Forse per mandarme i libri e la roba da magnar
senza obligarme. No so, la xe sta un’idea soa.»
«E tu intanto continui a farle le prediche, eh? Per lettera, adesso che non te
pol più a voce?»
Bonsaver tentennò la testa in segno di commiserazione davanti a una così
monumentale incoscienza. Stava per rispondere quando squillò il telefono,
sistemato su una cassetta presso il capezzale della brandina. «Linea pezzi»
disse Ambrogio ancor mentre si portava la cornetta all’orecchio: «Sì, subito.»
Deposto il libro afferrò il megafono poggiato a terra accanto alla cassetta, e
affacciatosi con un balzo all’esterno della tenda lo portò alla bocca: «Serventi
ai pezzi!» urlò.
Si voltò, senza abbandonare il megafono sollevò con la mano sinistra la cas-
setta col sovrapposto telefono, e trasferì il tutto all’esterno della tenda. «Sa-
ranno quattro giorni che non spariamo» disse a Bonsaver: «Ci volevi tu eroe
lontano per ridarci un po’ di vita.»
Al suo ordine i soldati erano immediatamente usciti dalle loro tende e ac-
correvano ai pezzi: li liberarono in pochi istanti delle reti mimetiche, tolsero
via le cuffie di cuoio dalle volate e dalle culatte, aprirono gli otturatori, i pun-
tatori scoprirono i cannocchiali, e ciascuno si sistemò al suo posto; i quattro
capi pezzo - a tergo del rispettivo pezzo - tratto di tasca un blocchetto e una
matita alzarono ciascuno il braccio destro, a significare d’essere pronti.
Accucciato nell’erba presso il telefono era pronto anche il telefonista della
linea pezzi, lui pure con blocchetto e matita in mano; cominciarono ad arriva-
re dall’osservatorio sul Don i dati per il tiro: «Direzione 34 e 20» li ripeté gri-
dando Ambrogio, col cornetto tenuto contro l’orecchio dalla mano sinistra, e il
megafono davanti alla bocca dalla destra: «Alzo 124, carica seconda.»
Ogni capo pezzo ripete ai propri uomini i dati, annotandoli in pari tempo,
poi: «Terzo pezzo pronto» «Primo pezzo pronto» «Quarto... Secondo pezzo
pronto» gridarono all’ufficiale, sovrapponendo quasi le loro voci.
«Pezzo base, caricate» ordinò Ambrogio. Ci fu del movimento intorno al
terzo pezzo, del caporal maggiore Zanini, il quale alzò infine il braccio, guar-
dando l’ufficiale.
«Pezzo base fuoco» gridò Ambrogio.
«Fuoco!» ordinò Zanini. Il cannone ebbe un soprassalto: mentre proiettava
in avanti una violenta fumata, la bocca da fuoco slittò indietro con forza sulla
sua culla: rintronò una deflagrazione formidabile che fece vibrare il terreno
tutt’intorno, poi la bocca da fuoco slittò di nuovo in avanti. Nel silenzio di tutti
si udì il sibilo della granata che s’allontanava fendendo l’aria verso l’obiettivo.
«Te saludo» disse Bonsaver, che stava ora in piedi accanto ad Ambrogio.
Dopo dieci o dodici secondi giunse, molto smorzata, l’eco dell’esplosione.
«Alzo più 24, direzione meno 2» urlò Ambrogio, ripetendo i dati ricevuti
dall’ufficiale osservatore, e a mezza voce a Bonsaver: «Chissà a cosa stiamo
sparando.»
«Non te l’ha detto?» chiese Bonsaver.
Ambrogio fece segno di no con la testa. «Poi glielo chiedo» disse.
Si ripeterono le stesse operazioni. Il pezzo base sparò - con altre successive
piccole variazioni di alzo in più e in meno - otto colpi in tutto. Quindi l’intera
batteria sparò, con gli ultimi dati, sei colpi: ventiquattro colpi complessiva-
mente, che partirono tambureggiando verso l’obiettivo.
Dall’osservatorio giunse l’ordine: «Sospendete il fuoco»; e di lì a qualche
minuto: «Cessate il fuoco.»
Come Ambrogio ripeté col megafono quest’ordine, gli uomini ruppero la lo-
ro disposizione intorno ai pezzi, e cominciarono a ricoprirli con le cuffie e le
reti mimetiche.
«Ehi, Bellei, dì, si può sapere a cosa ci hai fatto sparare?» chiedeva intanto
Ambrogio all’ufficiale osservatore; stette ad ascoltare, annuì, sorrideva: «Ti
saluto» concluse. E depositando la cornetta al suo posto sul telefono, a Bonsa-
ver: «Hanno visto del movimento in un bosco al di là del Don, in un punto
dove c’è una valletta. Hanno pensato che i russi stiano preparando un pattu-
glione. Niente di sicuro, però quelli della fanteria gli hanno chiesto il fuoco.
Dicono che secondo i disertori in quella valletta ci dovrebbe essere un coman-
do di compagnia.»
«Anche qui nel vostro settore ci sono molti russi che disertano?»
«Molti, sì» rispose Ambrogio. «Anche se, a quello che sento, sono meno
dell’anno scorso; neanche da confrontare a quanto ho sentito.»
Il telefonista della linea pezzi sollevò cassetta e telefono e li riportò al loro
posto dentro la tenda. Ambrogio depose loro accanto il megafono e tornò a
sedersi sulla brandina, Bonsaver tornò allo sgabello sotto l’ala alzata della
tenda.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

La conversazione riprese dov’era stata interrotta. «Dunque, eroe lontano,


stavamo parlando di quella ragazza» disse Ambrogio. «Non credere d’avere
finito di ragguagliarmi.»
«Ti te voi torme in giro» disse l’altro, «finissela.» Cominciava ad apparire
evidente che non gradiva scherzare oltre su quell’argomento.
«Intendiamoci» fece allora Ambrogio, già incerto se continuare nello scher-
zo: «Dopo tutto potresti anche arrivare a riordinargliela davvero la testa.»
Aveva ripreso in mano il libro di Sciolocov, e lo sfogliava; gli ricapitò sottoc-
chio il frontespizio con la dedica, sorrise di nuovo: «Certo che convertire una
bella ragazza è una prospettiva mica male... dal punto di vista apostolico, in-
tendiamoci. Beh, spero solo che poi tu non pretenda anche che Domine Dio ti
metta in conto questa impresa come un merito. I tuoi eccessi di zelo special-
mente.»
Bonsaver tentennò la testa. Avrebbe anche potuto parlare dell’argomento
con l’amico, certo però non a questo modo. «Le ragazze sono esseri più deboli
di noi» si limitò a dire «più fragili. Se un impostore approfitta di un momento
in cui una si trova indifesa... Dopo vorresti lasciarla continuare per la strada
sbagliata? Ma queste son cose da parlarne solo seriamente.»
Bastarono queste parole per riportare Ambrogio alla sua serietà consueta:
«Come non detto» fece, e batté col palmo della mano, quasi a suggello, sul
ginocchio dell’amico. «Senti c’è una cosa che avevo in mente di domandarti.»
«De tose?»
«No, macché tose. Tu nelle settimane scorse ti sei trovato proprio nel mezzo
della buriana.»
«Eh!» assentì Bonsaver. «Un bel casotto ha combinato la ‘Cicai’.» (‘Cicai’
era il nome con cui veniva ora designata da tutti la divisione che aveva abban-
donato il fronte: in ucraino cicai significa ‘scappa via’).
«Ecco, quello che non ho capito è come abbiate tribolato tanto per ristabili-
re la situazione. I russi intendevano veramente venire avanti in profondità?»
«Non lo so. Può darsi che al principio abbiano fatto soltanto uno dei soliti
assaggi» disse Bonsaver. «Quando però hanno trovata via libera, ci si sono
buttati in un modo...» Cominciò a riferire, a spiegare; non pochi particolari
riuscivano ad Ambrogio nuovi, specie quelli relativi al comportamento - in-
credibilmente disforme - delle varie formazioni italiane inviate a turare la fal-
la; egli faceva perciò nuove domande, voleva che l’altro gli precisasse meglio.
L’altro era però in grado di precisare debitamente solo quanto alle vicende cui
aveva partecipato di persona. Le quali ad ogni modo non erano poche, né di
scarso interesse.
Conversavano da forse mezz’ora quando Ambrogio si fece per un attimo at-
tento a qualcosa d’estraneo alla conversazione: a lato della testa di Bonsaver,
lontano, in direzione del Don, era comparsa nell’aria una manciata di piccoli
punti neri: una formazione aerea. “Non possono essere che tedeschi” si disse.
«E dì un po’: tu come te la cavavi all’osservatorio quando il fronte doveva
ripiegare? Dico con la linea telefonica. O forse in quei giorni ti servivi solo del-
la radio?»
«No. Finché potevo mi servivo del telefono» rispose Bonsaver e ricominciò
a spiegare. A lato della sua testa si scorgevano sempre quei puntini neri.
«Là in fondo, oltre il Don, ci sono degli aerei» disse a un tratto Ambrogio.
Bonsaver si girò sullo sgabello: «Dove? Ah, vedo.» Osservò attentamente,
con una mano orizzontale sopra gli occhi per ridurre la luce. «Saranno una
dozzina» disse; «dovrebbero essere tedeschi.»
«Sì» convenne Ambrogio: «Credo anch’io. Rientreranno da qualche mis-
sione. Aerei russi qui se ne vedono ben pochi, li sentiamo più che altro di not-
te.»
«La ‘motocicletta’ eh?» sorrise Bonsaver.
«Sì, quasi ogni notte gira anche sopra le nostre teste, quella rompipalle; pe-
rò non la sentiamo quasi mai sganciare.» Fece una pausa: «Quelli là» disse
«stanno venendo verso di noi.»
Si alzò in piedi e uscì dalla tenda per osservare meglio, Bonsaver gli tenne
dietro; laggiù verso il Don i punti nell’aria erano notevolmente ingranditi.
«Volano molto bassi» disse Ambrogio: «saranno a una quota di duecento,
forse cento metri, non di più.»
Alcuni artiglieri della linea pezzi, in piedi tra le tende, stavano osservando
allo stesso modo e facevano qualche commento.
Intanto gli aerei ingrandivano rapidamente: una metà circa erano bimotori,
l’altra metà monomotori, probabilmente caccia di scorta ai primi.
«Guarda i caccia, voglio dire quelli più piccoli» fece Ambrogio. «Che signifi-
cato possono avere le loro giravolte? Non ho mai visto i caccia tedeschi fare
così.»
«Sarà per la velocità» opinò Bonsaver: «Forse i caccia sono troppo veloci
per poter stare in formazione con quegli altri, con i bombardieri.»
“Se fossero russi?” si chiese a un tratto Ambrogio: “E ci attaccassero?” Lan-
ciò un’occhiata allo schieramento: i quattro cannoni, distanziati uno dall’altro
di una ventina di metri, erano ben visibili sul terreno spoglio nonostante le
loro reti mimetiche; ai lati e a tergo di ciascun pezzo c’erano delle piccole po-
stazioni a trincea, anch’esse ben distinguibili dall’alto; alquanto più indietro la
sua tenda a cubo e quelle triangolari dei soldati, sebbene a disegni mimetici,
risaltavano sull’erba. Alle due estremità del piccolo schieramento affioravano
da buche circolari nel terreno, profonde quasi quanto un uomo, le due mitra-
gliatrici in dotazione alla batteria, sistemate in difesa contraerea, cioè sul
treppiede montato ‘a candeliere’. Ambrogio cercò con gli occhi la più vicina,
Bonsaver seguì il suo sguardo: era appena a una dozzina di passi da loro.
Gli aerei, con un crescente rombo di motori, erano frattanto arrivati
all’altezza dello schieramento, però circa un chilometro più a sinistra, sopra la
balca che aveva un andamento parallelo al Don, e là improvvisamente sgan-
ciarono tutte le bombe di cui erano carichi: la terra vibrò e sussultò sotto i
piedi degli uomini come per un terremoto; soverchiando di molto il rombo dei
motori, il frastuono delle esplosioni investì ogni cosa, e corse impetuoso sulla
pianura.
Nello schieramento si levarono grida d’allarme: mentre gli artiglieri corre-
vano a precipizio dalle tende alle trincee dei pezzi, Ambrogio e Bonsaver
piombarono quasi nello stesso istante dentro la buca della mitragliatrice più
vicina. Nel contempo gli aerei stavano eseguendo una virata per far ritorno
alle loro linee: entro qualche istante sarebbero stati proprio sullo schieramen-
to.
«Conosci la Fiat 35?» chiese Ambrogio mentre febbrilmente toglieva la cuf-
fia alla mitragliatrice e ne azionava il carrello introducendo il primo colpo.
«Un po’» rispose Bonsaver.
«Fammi affluire il nastro» gli gridò Ambrogio e aprì il fuoco; sentiva il pro-
prio cuore battere tumultuosamente, malgrado la calma che si sforzava di
mantenere.
«Bon» fece l’altro, dedicandosi al compito assegnatogli.
Con un rombo incredibilmente assordante i dieci o dodici aerei passarono
sopra lo schieramento a forse cento metri d’altezza. A così breve distanza pa-
revano tutti enormi: ansimando lievemente Ambrogio sparava nelle carlinghe,
sui piloti che a momenti intravedeva, passando da un obiettivo a un altro se-
condo gli balenavano davanti. Anche gli aerei sparavano con le loro armi au-
tomatiche sullo schieramento: molti dei loro colpi urtavano il terreno intorno
alla buca della mitragliatrice, sollevando sbuffi di polvere.
«È come al cinema» gridò Bonsaver, emozionatissimo.
«Eh, cosa?» gridò Ambrogio.
«Dai, spara» gridò Bonsaver.
Ambrogio annuì: adesso aveva sotto mira un bimotore, e mentre la forma-
zione si allontanava verso il Don, seguitò a sparare su quello finché tutti gli
aerei non furono fuori tiro; allora cessò il fuoco. Guardò Bonsaver, tentennò la
testa; il cuore seguitava a battergli in gola. «Ci è andata male» disse: «Hai vi-
sto?» Era mortificato. Esaminò il caricatore a nastro: si rese conto che i colpi
sparati non erano poi molti, tutto si era infatti svolto in un giro di secondi.
«Quei colpi glieli hai magari piazzati dentro tutti» cercò di consolarlo Bon-
saver: «È che se non resta colpito il pilota, o un punto vitale del motore...»
«Sono stato un cretino» disse Ambrogio «ecco cosa sono stato: un vero cre-
tino. Non dovevo passare da un aereo all’altro a quel modo: dovevo sparare su
uno solo, sempre sullo stesso. Ecco in cosa ho sbagliato. Che bestia sono sta-
to!» Poi a un tratto si chiese: «Ma l’altra mitragliatrice?» Balzò fuori dalla bu-
ca per controllare: l’altra mitragliatrice, al lato opposto dello schieramento,
non aveva sparato affatto: portava ancora la cuffia di tela infilata sopra.
«Vassena» urlò Ambrogio: «Vassena. Dove sei?»
Il caporal maggiore Vassena, capo della squadra mitragliatrici (una piccola
squadra, che si riduceva a lui e a un altro uomo soltanto), stava uscendo in
quella da una delle trincee.
«Son qui» disse sorpreso. «Cosa c’è?»
«Perché non hai sparato?» gli gridò Ambrogio.
«Perché?» mormorò Vassena. Non sapeva che rispondere.
Gli aerei intanto avevano ripassato il Don; Ambrogio e Bonsaver, pure usci-
to dalla buca, seguitavano a seguirli con l’occhio: apparivano di nuovo ridotti a
una manciata di puntini neri nel cielo.

***

Ed ecco si verificò l’insperato: alcuni di essi: uno, due, tre, eseguirono a un


tratto una virata; tornavano indietro! Ricominciarono a ingrandire, si trattava
di tre caccia.
«Ritornano» esclamò Bonsaver «fa attenzione, ritornano.»
«Vedo» disse Ambrogio. E al caporal maggiore Vassena: «Attento, arrivano
un’altra volta. Stavolta devi sparare o... o guai a te.» Quello si mise a correre
verso la seconda mitragliatrice, seguito dal suo aiutante. Ambrogio e Bonsaver
balzarono di nuovo a piè pari nella buca, gli altri artiglieri dentro le trincee.
I tre caccia erano ancora fuori tiro che già Ambrogio con le mani
sull’impugnatura a manopola, i pollici sul grilletto, l’occhio destro in linea di
mira, traguardava attento quello di mezzo. Intanto: «Questi si credono di ve-
nire qui senza alcun rischio» diceva adagio, ansimando lievemente, col cuore
che gli pulsava di nuovo come impazzito: «di venire qui a mitragliarci noi, e i
pezzi, e l’altra mercanzia là nella balca. Senza correre rischi credono loro.» E
annuiva leggermente.
Alla sua destra, con la testa a qualche palmo di distanza, la bocca semiaper-
ta, gli occhi chiari vagamente sorridenti, le mani levate a sostenere il nastro
caricatore, Bonsaver - qualificato ‘eroe lontano’, in questo momento tuttavia
vicino in modo fin eccessivo - ammiccava.
«Venite» diceva ancora Ambrogio agli aerei: «venite, veni...» finché le sue
parole furono coperte dal frastuono della mitragliatrice di cui egli aveva pre-
muto il grilletto, e che s’era messa a sparare vibrando con violenza sopra il
treppiede verticale, tenuta però puntata sul bersaglio dalle nervose mani del
sottotenente. Anche Vassena, all’altro lato dello schieramento, aprì il fuoco; e
aprirono il fuoco anche i tre aerei russi, con tutte le loro armi. Seduto nel suo
abitacolo trasparente, il pilota del caccia di mezzo era visibile dalla testa ai
piedi: s’era reso perfettamente conto che quei due là sotto nella buca, Ambro-
gio e Bonsaver, tiravano su di lui, e a sua volta sparava su di loro trascurando
tutto il resto: picchiò addirittura sopra la postazione della mitragliatrice, men-
tre i due abbassavano alquanto la testa e istintivamente si rannicchiavano per
la tensione, senza smettere di sparare però. Il terreno tutt’intorno alla buca
era come percosso da frustate.
«Va là, che te fe tanto strepito, ma no te ghe mira» gridò al pilota Bonsa-
ver.
L’aereo cabrò, immenso a così breve distanza - e Ambrogio ancora e ancora
a sparargli contro - poi, seguito dagli altri due, l’aereo puntò nuovamente ver-
so il Don, e Ambrogio sempre a sparargli; insistette anche dopo che quello era
fuori tiro. I tre aerei rimpiccolirono, oltrepassarono in formazione ordinata il
fiume, rimpiccolirono ancora, uscirono infine di vista, senza dare la minima
impressione d’essere stati colpiti.
«Accidenti» borbottò Ambrogio «accidenti... È... è impossibile che io non
l’abbia tirato giù. Come ha fatto ad andarsene?»
Bonsaver adesso era mortificato quanto lui. «Straputtana la miseria» bron-
tolò «fossi stato io a sparare, non avrei fatto diverso da te.»
«Intanto quello se n’è andato» disse Ambrogio «Sai cosa ti dico?
Io alla mitragliatrice come arma contraerea non ci credo più. Basta.» Usci-
rono dalla buca; gli artiglieri stavano nuovamente uscendo dalle trincee:
«Qualcuno è stato colpito?» gridò Ambrogio. Nessuno era stato colpito.
«Capi pezzo, controllare i pezzi» ordinò il sottotenente: «Giù le reti e fateli
passare centimetro per centimetro.»
«Come fossero belle donne» gridò il caporale Costanzo, quello che aveva
per costume di dir sempre porcherie.
Dall’altro capo dello schieramento un artigliere gli s’aggiunse: «Allora dove-
te controllare sopratutto tra le...»
Ma Ambrogio lo interruppe: «Vicari non dire porcate.» E a Bonsaver, pro-
seguendo nel precedente discorso: «Da non credere però. Roba da non crede-
re.»
«Senti» disse Bonsaver: «in luglio, durante l’avanzata, io ho visto un aereo
russo abbattuto. Mi credi? Aveva dentro cinquanta o sessanta fori tutti ricevu-
ti in missioni precedenti, tanto che erano stati uno per uno chiusi con delle
piccole pezze rosse a mastice. Cinquanta o sessanta fori, hai capito? Se non se
ciappa el pilota, o qualcossa pi assè vitale, no i vien zo. Gheto capio?»
Mentre gli artiglieri venivano liberando dalle reti mimetiche i pezzi, nella
tenda a cubo d’Ambrogio squillò il telefono. «Cos’è che vogliono?» borbottò il
giovane, affrettandosi all’apparecchio: «Non chiederanno il fuoco proprio
adesso.»
Non si trattava d’una richiesta di fuoco: semplicemente il comandante la
batteria voleva sapere se ci fossero state perdite o danni.
«Nessuna perdita» gli rispose Ambrogio, tirando con un piede lo sgabello
presso la cassetta che faceva da supporto al telefono e sedendo. «Quanto ai
danni non so ancora, stiamo controllando. Ti chiamo appena terminata
l’ispezione dei pezzi, fra qualche minuto.»
«Chiama soltanto se scoprite qualche boiata» gli disse il tenente comandan-
te. «Se no fa pure a meno di rompermi l’anima.»
«D’accordo» assentì Ambrogio, e intanto muoveva con la punta dello stivale
qualcosa di vagamente luccicante che stava sul terreno. «Lì da voi niente dan-
ni? E al comando di gruppo?»
«Pare proprio di no» rispose il comandante; «le bombe sono finite tutte sui
rincalzi della fanteria che stanno giù nella balca. Là ci sono dei morti; quanti
di preciso non ti so dire. Beh, ciao.»
Ambrogio depose la cornetta sul telefono, poi si chinò a raccattare da terra
il piccolo oggetto luccicante: era un proietto inesploso di mitragliera, forse da
20 millimetri, ancora caldo. Lo esaminò attento, poi guardò il soffitto e le pa-
reti della tenda, se fossero stati forati; sembravano intatti. “Cosa vuol dire?” si
chiese: “Un proietto inesploso appoggiato sul terreno? Perché non s’è interra-
to?”
Bonsaver, ch’era fuori, entrò nella tenda. Ambrogio gli mostrò il proietto:
«Guarda qui» gli disse. Poi indicò il punto in cui l’aveva trovato e pose anche a
lui il quesito che si era appena posto. Bonsaver esaminò attentamente il soffit-
to e le pareti della tenda, traguardò, tracciò con gli occhi linee varie dal punto
di rinvenimento alle possibili posizioni degli aerei attaccanti («Si vede» disse
Ambrogio «che studi ingegneria, accidenti a te») finalmente risolse che il
proiettile doveva essere stato sparato da lontano, ed essere rimbalzato forse
più volte sul terreno prima di fermarsi lì.
«Proprio nella mia tenda?» Ambrogio glielo porse: «Beh, tienilo come ri-
cordo dell’avventura di oggi» disse. «Voi eroi lontani dovete avere tutti la cas-
setta d’ordinanza piena di bombe inesplose, pugnali arrugginiti e roba simile,
suppongo.»
Ma Bonsaver, dopo averlo esaminato ancora, glielo restituì: «È finito al tuo
indirizzo, significa ch’era destinato a te, che è di tua spettanza.» Ciò detto mi-
se il proietto a mo’ di soprammobile sulla cassetta del telefono: «Ve’ che
bell’effetto» disse.
Arrivarono i quattro capi pezzo, tre graduati e il sergente Facchi; riferirono
di non avere riscontrato danni: «Solo due colpi sullo scudo del mio pezzo...
Eh, come?» s’interruppe il sergente: «Cos’avete detto signor tenente?»
«Io non ho detto proprio niente» gli rispose Ambrogio, e stava per chieder-
gli: «Cosa ti piglia?» ma subito ricordò che i quattro erano tutti piuttosto sor-
di, dopo tante condotte di fuoco, e che Facchi lo era particolarmente. «Dai, va
avanti» gli disse con voce sostenuta: «Due colpi nello scudo hai detto?»
«Signorsì. Due belle bozze, ma nessun danno.»
«Meno male» mormorò Bonsaver.
«Eh?» si girò a chiedergli Facchi.
«Ha detto meno male» gli gridò Ambrogio, poi tentennò la testa sorriden-
do.
I quattro capi pezzo ridacchiarono a loro volta; con le bandoliere di cuoio
oblique sui toraci, apparivano corposi: si sarebbero detti più massicci degli
altri artiglieri, quasi che la differenza d’autorità comportasse anche una diffe-
renza di volume.
«Malattia professionale» disse Bonsaver a Facchi, toccandosi un orecchio, e
rise.
«Sì» fece il sergente «però per fortuna è una cosa che non dura. Una volta
via dalla linea pezzi in pochi mesi passa: lo dicono tutti.»
«Sì, almeno così dicono» confermò uno degli altri capi pezzo.
«Li avete esaminati bene i cilindri del freno idraulico e dei recuperatori?»
chiese Ambrogio: «Guai se dovessero perdere liquido.»
«Non dubitate signor tenente: è la prima cosa che abbiamo controllato» ri-
spose Facchi.
«Anche voi?» si assicurò l’ufficiale, rivolgendosi con uno sguardo circolare
uno per uno agli altri tre, che annuirono sorridendo.
Ambrogio provò un impulso di simpatia per quei quattro ragazzi dignitosi e
fedeli, solo di qualche anno più anziani di lui, che la responsabilità sembrava
rendere precocemente maturi.
Essi avvertirono la sua simpatia e mostrarono, col loro sorriso, di ricam-
biarla.
«Va bene» concluse Ambrogio.
«Possiamo ricoprire i pezzi?» chiese dopo un momento il caporal maggiore
Zanini, quello del pezzo base.
«Sì, tranne il pezzo di Facchi però. Voglio dare un’occhiata allo scudo.» Poi,
mentre i quattro erano sul punto d’allontanarsi, ancora a Facchi: «Tieni» dis-
se porgendogli la minuscola granata inesplosa «mostrala a chi la vuol vedere.
È finita qui nella mia tenda. Se per caso qualcuno ha raccolto roba simile, dì
che me la faccia vedere.»

CAPITOLO DICIOTTESIMO
Bonsaver rimase a cena da Ambrogio. Aveva in programma di ripartire con
gli autocarri del servizio munizioni, che nel loro giro sarebbero passati a tarda
sera prima da questo gruppo e poi dal suo.
Dalla cucina - ubicata come s’è detto nella balca - l’attendente di Ambrogio,
Paccoi, portò la cena in due gavette e in due fondine, queste ultime coperte
con piatti capovolti e riunite dentro un tovagliolo, di cui egli teneva con una
mano gli angoli; portò anche, sotto braccio, uno sgabello supplementare e ap-
parecchiò sulla cassa del telefono sistemata a mo’ di piccolo tavolo tra i due
sgabelli. Aveva in precedenza steso sulla cassa, con funzione di tovaglia, il to-
vagliolo dalle cocche raggrinzite in cui aveva portate le fondine, sentenziando
soddisfatto e un po’ impreciso che: «Quando una cosa ci vuole, ci vuole.»
Egli nascondeva una piccola sorpresa: nelle fondine, oltre alla carne del
rancio, c’erano due croccanti razioni di patate fritte: «Omaggio del caporale di
cucina» recitò Paccoi «al signor tenente ospite, per poco non rimasto ammaz-
zato dall’attacco aereo durante l’orario dell’ospitalità.»
«Nel qual caso» completò Ambrogio «io l’avrei oltre tutto dovuto pagare di
tasca mia, perché la linea pezzi non è assicurata contro i danni a terzi.»
Sempre un po’ impacciato l’attendente contadino assisté alla cena, pronto a
intervenire: cercava di comportarsi come, secondo lui, si sarebbe comportato
un cameriere da mensa ufficiali. In realtà non poté far altro che ritirare prima
le gavette e poi i piatti, ogni cosa ben ripulita: lo fece comunque col miglior
stile possibile. Nessuno l’obbligava ad agire così: semplicemente egli era ades-
so molto devoto ad Ambrogio, di cui apprezzava la serietà e il senso del dove-
re, e intendeva quindi, per quanto stava in lui, fargli fare bella figura in pre-
senza dell’ufficiale forestiero.
Dopo cena i due sottotenenti sedettero sugli sgabelli fuori della tenda, a go-
dere il fresco della sera. Il sole era al tramonto; due sentinelle, col moschetto a
‘bracciarm’, diedero inizio al servizio di guardia passeggiando avanti e indietro
lungo lo schieramento dei pezzi. Anche i soldati s’erano messi a sedere fuori
delle loro tende, in circoli sull’erba: alcuni conversavano, e l’argomento
d’obbligo era l’attacco aereo del pomeriggio, altri invece ascoltavano stridule
canzoni da piccoli grammofoni a manovella. Le loro voci e i suoni giungevano
ai due ufficiali.
«Se credi» disse Ambrogio «invece di star qui possiamo anche noi andare a
sederci sull’erba coi soldati. Hanno di sicuro molta voglia di chiacchierare con
te: capirai, qui vediamo sempre le stesse facce.»
«Tu coi soldati te l’intendi, eh?» disse Bonsaver: «Con loro ti senti a tuo
agio.»
«Sì.»
«Me ne sono accorto.»
«Conosco ormai vita morte e miracoli di ciascuno, e anche dei loro parenti.
Ho imparato da mio padre a interessarmi a loro.»
«Perché? Tuo padre fa così con gli operai?»
Ambrogio annuì. «A lui riesce spontaneo. Te l’ho detto che prima d’essere
industriale era operaio?»
«Non ricordo» disse Bonsaver levandosi in piedi: «Beh, su, andiamo in visi-
ta allora.»
Ma proprio in quella squillò il telefono. Ambrogio entrò rapido nella tenda;
ne uscì di lì a poco impugnando il megafono: «Capi pezzo» gridò attraverso lo
strumento: «a rapporto. A rapporto i capi pezzo.» Poi, rivolto alla tenda più
vicina, chiamò senza megafono: «Borghi.»
«Presente» gli gridò dalla tenda l’interpellato.
«Forza, vieni anche tu.»
«Subito.»
«Adesso» disse Ambrogio a Bonsaver «potrai controllare di persona quanto
riuscite scoccianti voi osservatori quando ci mettete in allarme all’ora
d’andare a dormire.»
Tutt’e cinque i chiamati arrivarono di corsa: non avevano più le bandoliere
come nel pomeriggio, due erano in ciabatte.
«Tu Borghi» disse Ambrogio all’artificiere della linea pezzi «accendi subito
il falso scopo. Voi» disse agli altri «dovete tenervi coi pezzi pronti a far fuoco.»
«Pronti?» chiese il caporal maggiore Zanini.
«Già. Non è certo che spareremo. Però se ce lo chiederanno dobbiamo esse-
re pronti a farlo immediatamente. Dunque giù dai pezzi le reti e le cuffie, ottu-
ratori aperti, e che gli uomini siano tutti avvertiti e pronti a scattare appena
chiamati.»
«Signorsì» dissero o mormorarono i capi pezzo. Prima d’andarsene il ser-
gente Facchi (che come s’è detto era il più sordastro dei quattro) riferì in di-
sparte ad Ambrogio: «Alla nostra tenda c’è Colombo, quello con la bella voce.
È venuto in visita dal comando di batteria.»
«Mm.»
«Finora non ha voluto cantare. Però, se glielo chiedete voi, canterà.» Indicò
di straforo Bonsaver, a significare che sarebbe stata una sciccheria offrire
all’ospite un trattenimento come quello. Ambrogio convenne con un cenno del
capo, ma disse: «Dopo però, quando avremo eseguita questa condotta di fuo-
co.» I quattro salutarono, e s’avviarono in fretta verso le loro tende.
Cento e più metri a tergo dello schieramento c’era, profondamente confic-
cata nell’erba, una palina di legno a strisce orizzontali bianche e rosse, il falso
scopo, sul quale erano puntati giorno e notte i cannocchiali panoramici dei
cannoni. Poiché di notte non sarebbe stata visibile, recava saldamente legata a
metà altezza una piccola lanterna rossa. Questa appunto l’artificiere Borghi
andò ad accendere, e la presenza nel buio di quella minuscola luce sarebbe
bastata da sola ad avvertire ogni artigliere di tenersi pronto.
Adesso Ambrogio non poteva più allontanarsi dal telefono. Sopra e intorno
allo schieramento, l’enorme cielo senza luna cominciò a screziarsi di stelle.
Poco alla volta sempre più fittamente.
«Peccato non conoscerle, le stelle» osservò il giovane: «non saperne i nomi,
e anche i nomi dei... come si chiamano? dei loro raggruppamenti.»
«Le costellazioni vuoi dire?» fece Bonsaver.
«Ecco, le costellazioni. Un tempo la gente conosceva queste cose. Più d’una
volta ho pensato che se anche noi le conoscessimo, le stelle ci terrebbero com-
pagnia quando dobbiamo vegliare.»
«È vero» disse Bonsaver «è proprio così.»
«Perché? Non vorrai dirmi, per caso, che tu conosci le stelle?» «’Na scianta
(un poco) sì. Da zoveno me piaseva studiarle: verso i desete, desdoto ani.»
«Ma guarda.» Ambrogio si animò: «Le risorse di questi eroi lontani! Beh,
allora forza, comincia subito a dirozzarmi.» Alzò gli occhi verticalmente: «Per
esempio come si chiama quel gruppetto di stelle là, quasi sopra la nostra te-
sta?»
«Quella è la Lira. Però se vuoi che ti rimanga nella mente qualcosa non devi
imparare i nomi così a rampazzo. Ci vuole un minimo di sistema. Sta attento:
devi sempre riferirti - sempre dico - alla stella polare. Quella la sai ritrovare,
no?»
«Beh, non fosse che per i controlli d’orientamento. Dai, adesso non esage-
rare.»
«Ecco. Tieni presente che tutto il cielo ruota, voglio dire che sembra ruota-
re, intorno a un asse che passa per i nostri due poli e per la stella polare...»
Andò avanti per un po’, mentre dall’osservatorio l’ordine di fuoco non arriva-
va. Sotto la sua guida Ambrogio individuò una dopo l’altra le principali costel-
lazioni che percorrono il cielo estivo, e in esse le poche stelle di prima gran-
dezza; cercò d’imprimersi bene nella memoria figure e nomi, ripetendoli più
volte.
Quella sorta di sedia o scaletta che durante la notte - gli spiegò Bonsaver -
avrebbe fatto da vicino un mezzo giro intorno alla stella polare, era Cassiopea;
chissà mai perché gli antichi le avevano dato il nome d’una principessa. Poi,
sempre nello spazio a est della polare, c’era il grande quadrato di Pegaso, il
cavallo alato. E tra Pegaso e Cassiopea la lunga, tremula coda del cavallo: due
esili file di stelle che hanno - stranamente - il nome d’un’altra principessa,
Andromeda.
Passando dalla parte est del cielo alla zona sopra le loro teste, s’individuava
sullo sfondo fosforescente della Via Lattea una croce di grandi stelle: il Cigno
dalle ali spalancate; e prossima al Cigno, ma separata e distinta, la Lira, un
mucchietto di stelle dominate dalla luminosità azzurrina della più brillante tra
loro, Vega, che - come Bonsaver fece notare - era l’astro più luminoso di tutto
il cielo estivo.
Verso sud dieci o dodici stelle di seconda grandezza formavano l’Aquila. «Io
per la verità, quella costellazione la chiamo Zambon» disse Bonsaver «perché,
come vedi, non somiglia per niente a un’aquila; somiglia piuttosto al marchin-
gegno con cui l’idraulico del mio paese, un certo Zambon (un ubriacone che
non ti dico), filetta i tubi dell’acqua.»
«Allora» osservò Ambrogio «io dovrei chiamarla Pirovano, visto che
l’idraulico di Nomana si chiama così.» Gli tornò in mente l’episodio di
quell’aquila del Pirovano Oreste che all’adunata per la dichiarazione di guerra
non riusciva a far funzionare i suoi altoparlanti applicati alla facciata del mu-
nicipio. «Va bene: costellazione Pirovano» disse.
Spostando lo sguardo da Pirovano verso ovest, si scorgeva - talmente basso
da toccare quasi l’orizzonte - Boote, cioè il guidatore di buoi, che in realtà ri-
chiamava piuttosto l’idea d’un aquilone di quelli con cui giocano i bambini:
l’attacco della sua coda svolazzante era costituito da una grossa stella rossa-
stra e quasi villana, Arturo.
Ora che aveva qualche possibilità di distinguere i convogli di stelle che len-
tamente lo percorrono, l’immenso cielo notturno sembrava già ad Ambrogio
in qualche modo più comprensibile, meno inattingibile. È vero che - come non
mancò d’avvertire Bonsaver — quei convogli sono in realtà fittizi, perché se
una delle stelle che li compongono dista da noi, poniamo, pochi anni luce, le
altre possono distare molti o moltissimi anni luce, e siccome ciascuna va per la
propria strada con inimmaginabile velocità, un po’ alla volta i loro disegni si
scomporranno e se ne formeranno altri. Rimane tuttavia che nel breve corso
di una civiltà - qualche migliaio d’anni - lo scompaginamento è appena avver-
tibile.
Dunque per noi le stelle si raggruppano in questi silenziosi cortei che - se li
guardiamo attentamente - ci affascinano, ed accendono le nostre fantasie, an-
che se talvolta uno ci scherza sopra.
«Tranne le costellazioni più vicine alla stella polare, che si vedono tutto
l’anno, le altre cambiano col cambiare delle stagioni» gli ripeté ancora una
volta Bonsaver. «Tu devi far caso là, all’orizzonte di est e sud-est: è di là che
sorgono, per poi salire nel cielo durante la notte. Quando a quest’ora vedrai
affiorare Orione, il gran cacciatore, che riempirà tutta quella parte di cielo,
allora sta bene attento» disse Bonsaver, finendo con l’autosuggestionarsi un
poco: «è segno che sta arrivando l’inverno.»
Il tremendo inverno russo! All’idea, prospettatagli a quel modo, Ambrogio
si sentì accapponare la pelle sulle braccia. «Che ti pigli un accidente» bofon-
chiò: «Cosa stai dicendo? Per sapere ch’è in arrivo l’inverno non avrò mica
bisogno di guardare le stelle.»
Nella tenda squillò il telefono. Ambrogio scattò in piedi e si mise a ridere;
anche Bonsaver ridacchiò: «Disgraziato» disse «hai rotto l’incanto. Ma vedito
che scherzi che le ne combina le stele?» Mentre sollevava la cornetta, l’altro
convenne.
Non si trattava di dare inizio al fuoco: il sergente maggiore furiere comuni-
cava ch’erano arrivati gli autocarri delle munizioni. Ambrogio lo pregò di pas-
sargli all’apparecchio il tenente comandante, e a questi ricordò che la linea
pezzi era tuttora all’erta e in attesa; il tenente ordinò che seguitasse a mante-
nersi tale. Ambrogio consultò l’orologio: dalla messa all’erta era trascorsa
un’ora e mezza. Per la durata di un’ora e mezza dunque egli aveva conversato
di stelle con Bonsaver.
Il quale, avvertito dell’arrivo degli autocarri, si alzò dallo sgabello. «Xe rivà
el momento de meterse le gambe in spala e nar» disse: «la vacanza è finita.»
Strinse cordialmente la mano di Ambrogio; quel giorno aveva segnato un in-
dubbio progresso della loro amicizia. Preceduto da un artigliere munito di tor-
cia elettrica, il visitatore s’incamminò quindi verso il comando di batteria su
una pista tracciata nell’erba.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Allo schieramento dei pezzi il tempo continuò a trascorrere con lentezza.


Più d’un soldato - dopo essersi accordato con un compagno perché lo chia-
masse in caso di fuoco - si ritirò nella propria tenda, e senza spogliarsi si stese
sul pagliericcio.
Ambrogio rimase per un’altra mezz’ora a ciondolare sul suo sgabello, poi si
fece sostituire accanto al telefono dal telefonista, e andò a sedersi sull’erba in
mezzo agli artiglieri. Al suo arrivo fu inevitabile che si riaccendessero i discor-
si intorno all’attacco aereo del pomeriggio, il quale a quest’ora - data
l’incipiente stanchezza - cominciava ad apparire a tutti piuttosto lontano, co-
me fosse avvenuto giorni prima. Qualcuno chiese poi all’ufficiale se conosces-
se il motivo dell’attuale stato di all’erta, e se avesse un’idea del possibile obiet-
tivo. Egli rispose di no; aggiunse tuttavia: «Deve trattarsi probabilmente di
qualcosa di mobile, di autocarri per esempio. Forse all’osservatorio hanno
sentito dei motori, oppure hanno visto dei fari fuori tiro: qualcosa di simile,
ecco. E intendono essere pronti a far fuoco nel caso gli autocarri o (ma spe-
riamo di no) i carri armati, arrivino in un punto per il quale ci sono già i dati
d’aggiustamento.»
«I dati d’aggiustamento?»
«Sì. Tanto per fare un esempio, che arrivino a un incrocio, oppure a un pez-
zo di strada su cui abbiamo già sparato nei giorni scorsi: per i quali abbiamo
dunque l’alzo, la direzione, eccetera.»
«Carri armati, signor tenente?» gli chiese un artigliere dopo un po’, alquan-
to preoccupato. E un altro: «Credete che ce ne siano, qui davanti a noi, di carri
armati?»
«Da quando?»
«I carri armati? Ci sono carri armati? Chi l’ha detto?» Ambrogio comprese
d’aver toccato un tasto sbagliato: va bene che l’arresto dei carri era compito
della prima linea, cioè della fanteria, ma tutti sapevano - e più ancora intima-
mente sentivano - che la fanteria italiana non era attrezzata per quel compito.
«Macché carri armati» disse quindi: «Ho fatto un’ipotesi qualsiasi, soltanto
un esempio. Non ho detto che ci sono. Anzi ho detto: speriamo che non ci sia-
no.»
Un discorso un po’ stracco e stiracchiato, lo capiva anche lui. Ma bastò per-
ché quel po’ di preoccupazione dei soldati si stemperasse. Da che si era in
Russia, in fin dei conti, non s’era fatto che avanzare: perché dunque preoccu-
parsi di questo o di quello? Tanto più in quest’ora di sonno...
Anche intorno all’ufficiale la conversazione finì col frazionarsi. Finché uno
dei soldati che disponevano del grammofono diede il via a una canzone in vo-
ga qualche anno prima; la voce del grammofono era bassa e metallica, molto
logoro il disco, tutti l’avevano sentito chissà quante volte, eppure in quell’ora
finirono tutti senza eccezione con l’azzittire ed ascoltare:
‘Se potessi avere
mille lire al mese,
senza esagerare
sarei certo di trovare
tutta la felicità!...’
Terminata in un lagno meccanico la canzone della felicità a buon mercato, e
trascorso il tempo necessario al soldato per cambiare disco e ricaricare con la
manovella lo strumento, si levò - sempre bassa e con timbro metallico - quella
del ‘violino tzigano’:
‘O tzigano dall’aria triste e appassionata,
tu che sogni la dolce terra d’Ungheria...
Forse pensi anche tu
all’amore laggiù
sotto il cielo lontano?
O violino tzigà...
O violino tzigà...
O violino tzigà...’
Si sapeva che in quel punto il disco era rovinato, ma il soldato non s’era
presa la briga d’intervenire per spostare a tempo la puntina oltre l’ostacolo;
finalmente intervenne, qualcuno pronunciò qualche frizzo, il disco poté ter-
minare.
Allora il caporale Colombo (il tenore popolano che Facchi avrebbe voluto
far sentire a Bonsaver) improvvisamente si risolse a cantare, e attaccò con la
sua voce non artefatta ma viva e umana ‘O mia bèla Madunina’, in dialetto
milanese. Era il suo dialetto, per cui la dizione risultava aderente, perfetta;
Colombo cantava davvero bene. Alla fine i soldati, Ambrogio compreso, pro-
ruppero a battergli le mani con entusiasmo.
Dopo una breve pausa egli attaccò una seconda canzone, poi una terza; l'in-
tera linea pezzi s’era andata raccogliendo in circolo, seduta sull’erba davanti a
lui. Da un certo momento in poi non gli batterono neanche più le mani, si li-
mitavano ad approvarlo con cenni calorosi, o ad ascoltare assorti: incantati
appunto dal suo bel canto. Lontano, nel gran buio che copriva la steppa, segui-
tava a brillare il lumino rosso del falso scopo; anche le due sentinelle s’erano
avvicinate, e ritte in piedi fuori del circolo ascoltavano col viso intento.
“Cosa sarà che ci tocca il cuore a questo modo?” si chiese a un tratto Am-
brogio. “Le parole delle canzoni, a recitarle invece che a cantarle, fan ridere o
quasi. Invece così cantate commuovono: è che assumono significati indefinibi-
li; ad ogni modo non fanno certamente ridere, sarebbe stupido riderne. Chissà
cos’è a provocare questa trasformazione?” Ma non era il momento d’indagare,
(“...non approfondirò neanche stavolta: le cose che sperimentiamo più spesso,
sono quelle che indaghiamo meno...”) Ricordò le critiche alle canzonette di
successo che un po’ tutti si ritengono in dovere di fare, e anche lui aveva più
volte fatto; beh, adesso preferiva ammettere quest’emozione che le canzonette
gli davano. Le canzoni della sua giovinezza - pensò in confuso - erano comun-
que queste, con tutti i loro limiti e difetti, e non altre. Come per suo padre e
per gli anziani certe canzoni antiquate (che lui aveva udito soltanto in disco:
‘sotto la gronda della torre antica - una rondine amica - allo sbocciar del
mandorlo è tornata...’) così per lui queste sarebbero rimaste legate per sem-
pre ai ricordi dei suoi anni giovani, e glieli avrebbero richiamati forse più di
qualsiasi altra cosa.
Colombo aveva intanto attaccata ‘Villa triste’, una canzone abbastanza in
voga allora. Nel fitto buio circostante, la sua magica voce andò disegnando
una villa ottocentesca, romantica, che a ciascuno dei presenti pareva d’avere
visto o intravisto chissà dove nell’Italia lontana:
‘Dietro l'ombra delle imposte
quante cose son rimaste:
le domande, le risposte,
il colore della veste,
la canzone che cantaste,
le bugie che mi diceste...
Sulle siepi di mortella
singhiozzando il vento va,
è una lacrima ogni stella
che nessuno asciugherà.
Villa triste.’
Sì ch’era toccante la canzone, sì che - a tanta distanza dalla patria - intene-
riva il cuore.
Il cantore fece una pausa; per darsi un contegno disse qualcosa di semipro-
fessionale intorno alla musica; sia lui che gli altri si sentivano però disturbati
da questa parentesi non canora; avvertì che il prossimo pezzo sarebbe stato
l’ultimo, e attaccò una vecchia canzone napoletana, ‘Signorinella’, ch’era il suo
cavallo di battaglia:
‘Signorinella pallida,
dolce dirimpettaia del quinto piano,
non c’è una notte ch’io non sogni Napoli
e son vent’anni che ne sto lontano...
Al mio paese nevica,
il campanile della chiesa è bianco,
tutta la legna è diventata cenere...’’
Era un’esperienza d’altri, non del cantante o degli ascoltatori, eppure così
riferita era tale che in essa sembrava si concretasse la nostalgia di ciascuno dei
presenti: quella che stava nel cuore del modesto cantore, e di Ambrogio, e de-
gli altri soldati, uno per uno.
Terminata la canzone Colombo si alzò in piedi con rincrescimento di tutti, e
prese congedo dall’ufficiale: il quale, sapendo di fargli piacere, lo ringraziò con
una certa solennità. Al lume delle stelle il tenore naïf s’incamminò poi solo sul
sentiero nell’erba che conduceva al carreggio della batteria.
Anche gli altri s’erano alzati.
«Cosa si fa?» chiese il sergente Facchi ad Ambrogio.
«Si va tutti a dormire» decise l’ufficiale: «pronti però a saltar su in pochi
secondi. E senza coprire i pezzi, beninteso, né spegnere il falso scopo.»
«Signorsì.»
Tutti entrarono assonnati nelle tende.
Nel corso della notte comunque non ci furono chiamate.

CAPITOLO VENTESIMO

I giorni dell’estate seguitarono a passare. Poiché dagli osservatori giunge-


vano sempre meno richieste di fuoco, i quattro pezzi rimasero muti anche per
settimane intere al riparo delle loro reti mimetiche.
Se non aveva alle mani cose di servizio, Ambrogio se ne stava seduto sotto
l’ala di tela della sua tenda a leggere il grosso volume di Sciolocov portatogli
da Bonsaver. Gli capitò più volte d’interrompere la lettura, afferrare il binoco-
lo, e trasferirsi un centinaio di metri davanti ai pezzi, sul colmo del terreno da
cui poteva scorgere la cittadina di Vescenscaia. Vari episodi del libro vi erano
ambientati: egli però non aveva da qui la possibilità di rintracciare i punti di
cui andava leggendo, e finiva ogni volta col soffermarsi sul rustico duomo nel
quale Sciolocov aveva ambientato il giuramento delle reclute cosacche. Adesso
la sua cupola mostrava alcune slabbrature da granate. “Siamo stati proprio noi
a fargliele, purtroppo. Ma là sopra pare ci sia un osservatorio russo, e dun-
que... Fortuna che si tratta di granate di piccolo calibro”.
Intorno ai suoi piedi c’era l’erba rada della steppa sparsa di fiori selvatici
variamente colorati. Osservando i quali il giovane fece un giorno una pensata:
ne raccolse alcuni, li mise in una busta, e con poche righe di saluto li spedì a
Rho, a Tricia.
“Che in queste settimane probabilmente” si disse cambiando umore appena
dopo aver imbucato il suo plico nell’apposita scatola in fureria, “non è neppu-
re a Rho, ma al mare o in montagna da qualche parte, e si lascerà magari cor-
teggiare da un altro...” Si chiese con una sorta d’irritazione: “E perché non do-
vrebbe lasciarsi corteggiare da un altro, visto che io non ho alcuna intenzione
di corteggiarla? Si può sapere perché a me la cosa dovrebbe dispiacere?” Illo-
gico e polemico con sé stesso, ancora adolescente.
Non terminò di leggere il romanzo di Sciolocov che, a parte le sue millecin-
quecento pagine, gli sembrava in molti punti contraddittorio, e gli veniva inol-
tre richiesto dal tenente comandante, a sua volta desideroso di leggerlo. A lui
non rimasero che un paio di testi universitari portati dall’Italia; li apriva però
di mala voglia: come avrebbe potuto avere il cuore allo studio?
Dalla linea pezzi non poteva tuttavia allontanarsi. A volte, per occupare il
tempo, osservava col binocolo i piccoli falchi screziati della steppa. Se la vista
dalla sua tenda era, come s’è detto, verso il fronte - cioè verso nord - parzial-
mente impedita, verso est e sudest spaziava invece su un’immensa landa, e
questa appunto i falchi scorrevano durante gran parte della giornata, unici
esseri in movimento. Volavano isolati, lenti, instancabili, i piccoli occhi duri
puntati nell’erba in cerca di preda; a momenti si sostenevano senza più avan-
zare sulle ali vibranti, pronti alla picchiata verticale: facevano allora trattenere
il fiato all’osservatore, cui il binocolo avvicinava ogni particolare.
Capitava che qualche artigliere incuriosito chiedesse al sottotenente il per-
messo d’osservarli a propria volta col binocolo. Volentieri l’ufficiale gli passa-
va lo strumento, ascoltava le osservazioni e i motti dell’altro, motteggiava a
sua volta.

***

Come si sa il momento della distribuzione della posta è, al fronte, uno dei


più attesi. In batteria la corrispondenza arrivava una o due volte la settimana,
portata dall’autocarro ‘della spesa’, e per ordine del tenente comandante veni-
va distribuita senza indugio dal sergente maggiore furiere. Costui nella distri-
buzione usava seguire un suo piccolo cerimoniale: in piedi davanti alla tenda-
fureria, dopo avere scandito una volta sola, ad alta voce, la parola «posta»,
attendeva che («Posta! Posta!») i soldati di stanza nella balca accorressero, e
distribuiva le missive loro destinate. Dopo di che, impugnando il mazzetto di
quella ancora da distribuire e serio in volto come l’importanza del compito a
suo parere richiedeva, si trasferiva a grandi passi alla linea pezzi. Di solito tro-
vava qui gli artiglieri già raggruppati ad attenderlo.
Così un pomeriggio di principio settembre. La voce del suo arrivo s’era dif-
fusa, ed egli trovò con gli artiglieri anche Ambrogio. Il sergente maggiore salu-
tò militarmente l’ufficiale, poi cominciò la distribuzione, senza sorridere a una
sola delle facezie con cui i soldati la accompagnavano; se mai - tutti lo sapeva-
no - si sarebbe concesso di sorridere dopo, a distribuzione terminata.
Era un uomo quasi calvo, dotato per natura di collo taurino, e sempre im-
pettito a causa della conformazione della colonna vertebrale; a un aspetto tan-
to imponente (“Guai a lui se lo prendono i russi!” pensava talvolta Ambrogio
osservandolo) corrispondeva nel sottufficiale un animo modestissimo: temeva
infatti in modo soverchio i superiori, mentre lo rendevano felice minime con-
quiste, come una risma di carta, o un nastro per la sua macchina da scrivere.
Di questo tuttavia i soldati non si rendevano chiaramente conto.
«Missori Aristide.»
«Presente.»
«Sergente Facchi.»
«Eccomi.»
«Giovanni Paccoi.»
«Presente.»
«Aristide Missori.»
«Ancora lui!» commentarono i soldati. «Dì, quante morose hai lasciato in
Italia, per ricevere tanta posta?»
«Maialetti Vito.»
Dopo ogni nome il furiere tendeva all’interessato (o se per caso l’interessato
non era presente, al suo capo pezzo) la missiva.
«Signor tenente Riva.»
Una seconda volta: «Signor tenente Riva.» Il furiere consegnò, dopo avere
cercata con gli occhi l’approvazione dell’ufficiale, le due lettere all'attendente
Paccoi che gli stava davanti in prima fila.
«Ehi, signor tenente: non sarà che anche voi avete a casa molte morose?»
celiò Costanzo, quello secondo cui le donne erano tutte di strada (ma che ora -
con la sua evidente attesa della posta - sembrava in un certo senso smentirsi.)
«Costanzo Alfredo.»
I soldati sghignazzarono.
«Ottone Aldo» «Reginato» «Valcarenghi Giacomo» «Gola» «Gimondi»
«Moioli» «Campanini Giuseppe» «Medici» «Dal Cero Paolo» «Ugo Meddiola-
ro» «Paoli Antonio» «Signor tenente Riva (“E tre” si disse Ambrogio: “Oggi è
proprio giorno di raccolto”)» «Caporal maggiore Giuseppini...»
Terminata la distribuzione il furiere sorrise finalmente a tutti, accennò un
inchino all’ufficiale, e dopo averlo salutato militarmente eseguì quasi un die-
tro front e se ne tornò alla balca.
Chiunque aveva ricevuto posta si tirò in disparte per leggerla. «Guardali lì»
esclamò con disappunto il caporal maggiore Zanini che non aveva ricevuto
niente: «Sembrate degli animali, né più né meno, che hanno preso coi denti il
loro pezzo di carne e si ritirano a mangiarlo in disparte.»
«Perché?» gli chiese bonario l’altro capo pezzo, Facchi: «Vuoi che facciamo
leggere anche a te cosa c’è scritto? A cosa ti servirebbe?»
Ambrogio sorrise alla battuta, trovava però il paragone di Zanini non del
tutto infondato. Prese ad ogni modo le tre lettere che Paccoi - visibilmente
contento per lui (mai tanta posta era arrivata in una sola volta all’ufficiale) -
gli porgeva, e si ritirò a leggerle sotto la tettoia di tela della sua tenda.

Mittenti erano sua sorella Alma, il Michele Tintori e Igino. L’ufficiale aprì
anzitutto la lettera di Alma. Con calligrafia molto femminile la sorella lo rag-
guagliava sugli ultimi fatterelli di casa e di Nomana; si esprimeva come sem-
pre in modo ingenuo e, senza volerlo, gustoso, in un punto però anche con
imprudenza: ‘Sabato c’è stata una grandinata che ha fatto molti danni nei
campi: non so se ve n’è arrivata notizia anche lì’ Ad Ambrogio venne da ride-
re. ‘Domenica dopo la messa’ continuava la lettera ‘il sig. prevosto e il papà
ne hanno parlato sul sagrato (ero presente anch’io) e il sig. prevosto ha detto
una specie di epigramma che ti riporto: «L’altissimo onnipotente del cielo ci
manda la tempesta, l’altissimo onnipotente della terra ci toglie quel che re-
sta, e noi tra due altissimi, restiamo poverissimi.» Cosa ne dici? Sempre
uguale il nostro sig. prevosto, vero?’ Prima di procedere nella lettura Ambro-
gio riprese in mano la busta e ne esaminò le due facciate, quindi esaminò an-
che, il foglio, se recassero il timbro della censura. No, per fortuna la censura
aveva lasciata passare la missiva senza controllarla.
“Bisognerà che nella risposta dica ad Alma d’essere più prudente. Che razza
di gattino di marmo!” Finalmente si mise a ridere per la facezia del prevosto;
gli piaceva.
Passò poi alle altre due lettere; lesse anzitutto quella di Igino, che proveniva
da una località imprecisata e probabilmente molto meridionale dei Balcani:
‘Caro Ambrogio, io sto bene e così spero di te. Ho ricevuto il tuo indirizzo da
casa mia, che gliel’ha dato tua sorella Francesca. Io mi trovo vicino a’ il no-
me della località era stato cancellato con un’impenetrabile pennellata
d’inchiostro di China dalla censura. ‘Dove siamo adesso è un posto di gran
pidocchi. La gente sta seduta tutto il giorno davanti alle case ossia catapec-
chie, e non fanno neanche lo sforzo di cacciar via le mosche dalla faccia. Solo
come partigiani si danno un po’ da fare, ma a noi ci fanno un baffo.’ E più
avanti: ‘Qui ci sono gli avvoltoi, sicché quando un animale ossia un mulo del-
le salmerie cade in un burrone e si va il giorno dopo per recuperarlo, non
dico lui ma la carne, la troviamo già mezza mangiata. Oppure a volte i quar-
ti portati via dai partigiani. Questi partigiani, se radio scarpa dice la verità,
e io credo di sì, combattono più tra loro che contro di noi perché i comunisti
vogliono comandare agli altri, e ogni tanto ne troviamo di morti, o i civili
loro parenti uccisi con stragrande barbarie. E questo in tutta’ seguiva una
seconda pennellata d’impenetrabile inchiostro censorio. Di che regione si trat-
tava? Della Macedonia? Dell’Albania? Non del Montenegro, visto quel ‘tutta’
femminile. Forse però un po’ dovunque nei Balcani stavano succedendo cose
simili. Concludeva la lettera: ‘Tra mosche pidocchi e partigiani rimpiango un
po’ Nomana, ma cerco di non pensarci, e ti saluta il tuo compagno Igino.’
Il Michele Tintori - col quale aveva in precedenza scambiato due o tre lette-
re - gli scriveva da una località del Don di cui non faceva il nome, situata pro-
babilmente un’ottantina di chilometri verso ovest. Dopo avergli riferito con
gratitudine che Fortunato e Pino erano stati simpaticamente a far visita a suo
padre a Nova, continuava: ‘Per quanto mi riguarda il tempo che il servizio mi
lascia libero (poco purtroppo) seguito a spenderlo indagando com’era la vita
in questi villaggi prima del nostro arrivo. Certo qui i padroni del vapore
(padroni assoluti, senza le limitazioni che ci sono in Italia) non si aspettava-
no che qualcuno gli entrasse in casa a questo modo, anzi erano sicuri del
contrario. A momenti mi sembra d’esplorare la faccia nascosta della luna...
Anche qui sul Don che sciocca più d’ogni altra cosa la gente è il ricordo della
grande carestia del 33, provocata dalla collettivizzazione forzata della terra,
con i morti di fame, il cannibalismo ecc. di cui ti ho già parlato nelle mie pre-
cedenti: vicenda sulla quale del resto avrai ormai raccolto notizie anche tu
(guarda che ci conto). Ho l’impressione che le più atroci cose accadute nelle
epoche passate, quelle che tanto ci impressionavano quando studiavamo la
storia, non abbiano mai raggiunto la micidialità e l’orrore di queste a noi
contemporanee. Sei d’accordo? Ma non voglio parlarti sempre e solo di que-
sto. Passiamo dunque a un altro argomento: qui nell’ambiente dei cosacchi
mi sembra in certi momenti d’individuare qualcosa che prima non immagi-
navo. Vorrei appunto sentire il tuo parere: hai avuto modo di osservarla be-
ne questa gente? I cosacchi sono diversi dagli ucraini, e insomma per dirtela
addirittura tutta, a me fanno venire in mente l’antica Grecia.’ (“Questo Scio-
locov non lo scrive, non se lo sogna nemmeno” rifletté divertito Ambrogio:
“Che strano tipo il Michele!”) ‘I cosacchi - e forse in genere i russi fino
all’avvento del comunismo - erano epigoni della Grecia? I motivi che me lo
fanno pensare non posso esporteli in questo breve scritto (non mi va d’essere
sommario), però cerca di osservarli anche tu, e quando ci vedremo confron-
teremo.’ (“A cosa diavolo alluderà?” si chiese Ambrogio. “Forse al loro caratte-
re, diciamo, eccessivo? Sì, per la verità nei cosacchi descritti da Sciolocov un
aspetto, come chiamarlo? bacchico, c’è, e la cosa potrebbe in un certo senso
richiamare i personaggi di Omero. Che alluda a questo, Michele? ”)
Continuava la lettera: ‘Anche i villaggi sono diversi da quelli visti fin qui,
ciascuno con una chiesa imponente (trasformata, al solito, in magazzino), e
vi si respira - credo sarai d’accordo - un’aria diversa. Insomma dopo aver
vista questa gente io non mi meraviglio più che nei secoli scorsi essa sia arri-
vata in Alasca, anzi più in là, fin quasi in California. Però questo non c’entra
con la sua classicità: mi accorgo che sto mescolando due discorsi completa-
mente diversi. Beh, ne parleremo in modo meno sgangherato quando ci ve-
dremo.’ La lettera concludeva con l’auspicio che l’incontro potesse avvenire
presto per - ribadiva - ‘confrontare e mettere a fuoco tutte le nostre esperien-
ze dell’ambiente.’
“Le mie esperienze? Che ne so io della gente di qui? Noi oltretutto non ab-
biamo un interprete in batteria come ha lui” pensò Ambrogio con la lettera
sempre tra le mani. “Noi la gente la vediamo più o meno come la vedono i tu-
risti, cioè in modo del tutto superficiale, ecco come stanno le cose. Lui inve-
ce... Però che tipo!” Ricordò quando Michele affermava di supplicare ogni
giorno Dio per ottenere la grazia d’essere assegnato al fronte russo. E come ci
fosse arrivato sfruttando il piazzamento nella graduatoria al corso ufficiali.
“Che razza d’elemento! Anche il rettore Gemellone se n’era accorto
all’università...” Ambrogio sorrise al ricordo: “Michele è un tipo che non de-
morde, che va per la sua strada, niente da dire. Sì, lo rivedrei proprio volentie-
ri”. Non tuttavia per fare conversazione intellettuale: questa prospettiva non
lo attirava affatto.

***

Con la posta della settimana successiva giunse ad Ambrogio anche una let-
tera di suo cugino Manno dal fronte libico, anzi - come si puntualizzava nella
lettera - dall’Egitto: ‘L’estate qui in Egitto fa sul serio, e non accenna a finire.’
Manno era attualmente osservatore d’artiglieria e: ‘sia che mi trovi
all’osservatorio’ scriveva ‘da cui, se togli sassi e sabbia, ho ben poco da osser-
vare, sia che mi trovi a riposo nella mia buca afosa, coperta da un telo tenda,
in questo periodo di stasi ho davanti ore e ore per riflettere, e rifletto infatti,
e medito continuamente.’ Non specificava su che meditasse, diceva solo: ‘Il
significato di certi particolari della vita civile in Italia, che prima non capivo,
adesso mi pare di capirlo.’
Passava poi a ricordare con strana nostalgia qualche lontano episodio dei
tempi di Nomana. La lettera - piuttosto breve - terminava con una nota di
preoccupazione esplicita: ‘Ne avremo di cose da raccontarci quando ci ve-
dremo. Se pure mi consentirà di rivederti presto la situazione che qui nel cie-
lo si sta capovolgendo.’
Cosa intendeva dire Manno con queste ultime parole? Forse che gli inglesi
stavano prendendo la supremazia aerea? Ambrogio le rilesse un paio di volte:
tali parole non potevano significare altro. “Una prospettiva davvero poco alle-
gra” si disse perplesso. Per la verità anche dall’Italia giungevano notizie sem-
pre più frequenti di bombardamenti aerei sulle città. “Ma... e con ciò? Beh,
forse Manno ha semplicemente scritto in un momento di depressione” cercò
di spiegarsi Ambrogio: “All’aviazione inglese sarà magari riuscito qualche col-
po grosso, e lui mentre scriveva era ancora sotto l’impressione: ecco cosa
dev’essere...” Tuttavia quell’enigmatica frase ogni tanto nei giorni successivi
gli tornava in mente.

***

Nella stessa settimana Ambrogio ricevette un biglietto anche da Stefano, il


suo ex compagno di scuola della Nomanella: non a mezzo posta questo, ma a
mano, recapitatogli dall’autista della ‘spesa viveri’: ‘Caro Ambrogio io sto be-
ne e così spero di te. Scusa il malscritto di zampe di gallina ma è per la fretta,
siccome un’autocarretta della mia compagnia sta per venire a Dubovi, dove
voi fate la spesa viveri, ossia se anche questa non è una balla. Per farti sape-
re che il mio battaglione siamo a riposo a Rasinaia, che di qui a Dubovi ci
sono appena 7 chilometri. Tuo caro amico Stefano Giovenzana.’ Stefano in
sostanza, trovandosi a riposo non lontano da lui, gli chiedeva d'andarlo a tro-
vare.
Ambrogio pensò subito che non avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire
l’occasione. Saggiò il comandante di batteria, il quale si dichiarò disposto a
concedergli una giornata di permesso a condizione che egli trovasse un altro
subalterno in grado di sostituirlo alla linea pezzi durante l’assenza.
La ricerca, immediatamente iniziata, si rivelò alquanto laboriosa; seguì
un’ulteriore perdita di tempo a causa d’un’indisposizione dell’ufficiale che
aveva accettato di sostituirlo; solo una decina di giorni dopo aver ricevuto il
biglietto dell’amico, Ambrogio poté partire.

IV

CAPITOLO VENTUNESIMO

Inforcò l’unica motocicletta rimasta in batteria, una vecchia Alce Guzzi che
aveva fatta la campagna d’Jugoslavia e, durante quella di Russia, la durissima
avanzata nel fango dell’autunno 1941: era una delle poche moto ancora fun-
zionanti nell’intero reggimento. Il sergente addetto agli automezzi della batte-
ria, certo Feltrin, alle cui cure e solerzia si doveva se la moto era sopravvissuta
a tante traversie, gliel’aveva nei giorni precedenti messa a punto.
Il vecchio motore funzionava ancora bene, con scoppi cadenzati, lenti, ga-
gliardi. Staccatosi dal carreggio di batteria, il sottotenente si addentrò nella
balca, o scanalatura naturale del terreno con pareti pressoché verticali di terra
nuda; di simili incisioni nette - di lunghezza molto variabile, profonde in ge-
nere pochi metri, e larghe due o tre volte tanto - ne aveva viste gran numero
nella pianura russa: le scavano, così aveva appreso, le acque del disgelo pri-
maverile, con un processo che a lui rimaneva oscuro. Questa, prima di scende-
re al Don, correva per oltre un chilometro in direzione ovest, cioè con anda-
mento parallelo al fiume, ed era a tratti boscosa, a tratti col fondo coperto dal-
la solita erba stenta della steppa.
In pochi minuti, eseguite alcune modeste curve, il giovane si ritrovò
all’altezza del comando di gruppo: una decina di tende e cinque o sei autocar-
ri, più la Millecento da ricognizione del maggiore, il tutto sistemato sotto gli
alberi in un punto in cui la balca s’allargava alquanto. Una delle tende, a se-
zione quadrata, era più lunga delle altre: doveva trattarsi del comando; gliene
stava accanto una piccola a sezione triangolare, alla quale affluivano molti fili
telefonici, certamente il centralino di gruppo. Ecco poi, poco più in là, la ten-
da-infermeria con davanti alcuni artiglieri in stanca (si trattava dei ‘marcanti
visita’ della giornata) di cui uno - della sua batteria -salutò agitando una mano
l’ufficiale che passava.
Dopo poche centinaia di metri ecco il parcheggio e il comando della secon-
da batteria, e subito dopo quelli della prima ed ultima: le linee pezzi di queste
due batterie erano schierate quasi in prosecuzione una dell’altra lungo la pare-
te nord della balca, che qui non era a picco ma - a causa d’antiche frane - for-
mava un pendio erboso molto irregolare.
La pista - ridotta a due strisce di polvere nell’erba - proseguiva per un certo
tratto a cielo aperto in direzione ovest, poi, allo stesso modo della balca, si bi-
forcava. Appena prima della biforcazione ricominciavano gli alberi e c’erano
baracche e tende della fanteria: era qui, su questo accampamento in parte allo
scoperto che - come l’ufficiale sapeva - qualche settimana avanti gli aerei russi
avevano sganciato il loro carico di bombe prima d’eseguire la virata che li
avrebbe portati sopra la sua linea pezzi. Del bombardamento rimanevano non
pochi segni: rami spezzati, una baracca in rovina, crateri e buche nerastre nel
terreno. Avvicinandosi al punto di biforcazione il sottotenente rallentò il vei-
colo fin quasi a fermarlo ed esplorò intorno con gli occhi.
Il corso principale della balca curvava verso destra per scendere in direzio-
ne del Don, e sembrava allargarsi e farsi insieme più profondo; a sinistra la
balca riceveva un - se così possiamo dire - affluente minore, che proveniva
dalla pianura di sud-ovest, alla quale egli era in linea di massima diretto. Im-
boccò dunque l’affluente e, com’era stato preavvisato dai soldati della ‘spesa
viveri’, trovò che esso diminuiva un po’ alla volta di profondità: continuava
tuttavia per qualche chilometro, ogni tanto allargandosi anche in modo consi-
derevole, per tornare a restringersi fino a pochi metri, sempre con le pareti di
terra nuda e a picco.
In uno degli ultimi slarghi s’imbatté in un accampamento di cosacchi: vec-
chi, donne, bambini, che avendo dovuto abbandonare il loro villaggio in riva al
fiume, s’erano trasferiti qui. Pur senza fermarsi il giovane cercò d’osservarli:
avevano ritagliato i loro ricoveri nelle pareti ormai poco profonde della balca,
coprendoli con frascame; gli uomini - di cui neppure uno in età militare - era-
no di statura superiore a quella degli altri russi, e portavano in genere grandi
barbe bianche e puntute, lunghe talora fino alla cintola.
Anch’essi l’osservavano passare coi loro occhi azzurri e le teste diritte, gravi:
questo particolare richiamò ad Ambrogio ciò che gli aveva scritto Michele nel-
la sua ultima lettera. “Dice che i russi sarebbero i continuatori dell’antica Gre-
cia, proprio i cosacchi gliene danno l’impressione. In effetti qualcosa di classi-
co, di fuori del comune, questi ce l’hanno. Però non credo sia soltanto per la
loro esteriorità, che Michele ha scritto a quel modo...”
Cercò d’osservarli meglio, compatibilmente con la guida della moto: “Certo
non somigliano agli altri russi, a quelli di Caménca per esempio: non sono così
abbacchiati e frustrati, così violentati... E sì che questi per il comunismo devo-
no aver sofferto anche più di quelli, e probabilmente anche adesso soffrono di
più per la nostra occupazione: non dev’essere gente, questa, che se ne infischia
al vedere la sua terra invasa. Beh” risolse “voglio sentire in proposito Miche-
le.” Poco oltre l’accampamento cosacco la balca affiorava nella campagna; la
pista continuava tra estesissimi appezzamenti di frumento, parte mietuti, par-
te no, e distese di girasoli ormai morti, rinsecchiti. Ogni tanto il giovane scor-
geva lontano qualche trattore agricolo abbandonato (i grandi trattori russi a
cingoli, con scappamenti verticali simili a fumaioli, di disegno antiquato, che
allora punteggiavano la pianura; a esaminarli da vicino risultavano tutti senza
eccezione coperti di ruggine e semidemoliti.) Non scorgeva invece intorno
anima viva; la vecchia moto, col suo scoppiettio regolare e potente, seguitava a
lasciarsi indietro pista, finché l’esaurì e sboccò su una strada. La quale differi-
va dalla pista solo per la maggior larghezza, e per il fondo assai più polveroso,
era inoltre fiancheggiata da un’interminabile fila di rustici pali del telegrafo.
Percorrendola verso sud il sottotenente giunse a un villaggio dalle isbe molto
distanziate tra loro, tutte con tetti di paglia e muri malamente a piombo; qui
ritrovò finalmente un po’ di gente, donne sopratutto, vestite al solito di nero,
con la testa coperta e bambini per mano. A metà paese c’era un incrocio, nel
cui mezzo sorgeva spaesato un palo del telegrafo coi fili spezzati e pendenti: vi
erano inchiodate a diverse altezze - fino a un palmo da terra - frecce e frecciole
di legno, recanti sigle, o numeri di reparti e - qualcuna - nomi di località. Il
giovane prese per Dubovi, dove arrivò dopo un’altra mezz’ora di viaggio, piut-
tosto impolverato per aver dovuto sorpassare una colonna d’autocarri prove-
nienti dalla linea.
In questo paese c’erano parecchi insediamenti militari, vigilati da sentinelle
o da piantoni. Ambrogio sapeva che c’era anche il RMV (reparto munizioni e
viveri) del suo gruppo: era infatti qui che due volte la settimana veniva
l’autocarro della batteria a ‘fare la spesa’ e a ritirare la posta; per quanto
esplorasse con lo sguardo, non gli riuscì però d’individuarlo. Controllò
l’orologio alzando fino al viso il polso sinistro: la lancetta era poco oltre le die-
ci; proseguì in direzione sud-ovest senza fermarsi.
Il motore batteva ch’era un incanto; l’ambiente si manteneva sempre ugua-
le, ciononostante il giovane avvertì a un tratto d’essere entrato nel settore
d’un’altra divisione. A riprova ecco sulla strada un gruppetto di bersaglieri coi
loro vivaci fez rossi in testa; poi, dentro un avvallamento boscoso, ecco dei
filari di cavalli legati all’addiaccio. Un reparto del Savoia Cavalleria forse? Del
reggimento cioè che appena un mese prima, in agosto, aveva fatto la carica
d’Isbuscenschi? O si trattava del Novara? “Beh, come che sia ho cambiato di
provincia” pensò allegro il ragazzo: “sono entrato nella provincia Celere, anche
se sulla strada non c’è a indicarlo un paracarro con la scritta, come in Italia”.
Ormai Rassipnàia, il paese in cui il battaglione di Stefano era accantonato,
non doveva più distare molto: “Mi domando se tra poco rivedrò davvero Fac-
cia-di-tutti-i-giorni” si disse con un principio d’animazione.
Non lo rivide; non subito almeno. Infatti come, entrato in paese, fermò la
moto all’altezza del primo bersagliere che incontrò, e quasi gridando per supe-
rare il motore gli chiese d’indicargli gli accantonamenti del nono battaglione,
si sentì rispondere giovialmente che ‘il battaglione del nonno’ era tornato in
linea da alcuni giorni. «Adesso al suo posto ci siamo qui noi dell’ottavo.»
Ci rimase male.
Ma i bersaglieri son ragazzi di pronte risorse; Ambrogio ne ebbe immediata
dimostrazione. «Voi volete andare al nono battaglione? Venite con me, signor
tenente» gli disse infatti quello.
«Dove mi vuoi portare?»
«Al comando della mia compagnia. È qui vicino.»
«Bene. Monta su.»
Il bersagliere salì dietro di lui sulla moto, e lo scortò fino a un piccolo slargo
tra due isbe che parevano sul punto d’essere schiacciate dal peso dei loro vo-
luminosi e sformati tetti di paglia. Tale impressione era confermata dai telai e
dai vetri delle piccole finestre che non erano verticali, ma sensibilmente incli-
nati. Mentre il bersagliere smontava Ambrogio arrestò la moto e spense il mo-
tore, poi smontò a sua volta, e sistemato il veicolo sul cavalletto, seguì la sua
guida dentro una delle isbe.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Qui alle poche suppellettili russe (qualche sedia, una stufa in muratura a ri-
piani, in un angolo le sacre icone col lumino acceso) si mescolavano alcune
suppellettili militari italiane: un tavolo da casermaggio con sopra una coperta
grigioverde, qualche sgabello, un paio di cassette o cofani chiodati, pure gri-
gioverdi. Al tavolo sedeva, in maniche di camicia, un tenente col capo scoperto
e i capelli corti: era intento a pulire la sua pistola d’ordinanza che gli stava da-
vanti smontata, i pezzi più minuti erano immersi in un po’ di benzina sporca,
contenuta in un coperchio di gavetta. Alzò gli occhi sul bersagliere che, dopo
averlo salutato militarmente, gl’indicò l’ufficiale forestiero. «Il signor tenente
cerca il nono battaglione» disse: «Credeva di trovarlo ancora qui in paese.»
L’ufficiale guardò Ambrogio: «Mi spiace» fece: «Il nono è tornato in linea
da qualche giorno. Al suo posto adesso ci siamo qui noi dell’ottavo.»
«Sì» rispose Ambrogio «ho sentito.» Avanzò di qualche passo e, ‘correg-
gendo la posizione’ come il regolamento e la cortesia gli prescrivevano, si pre-
sentò: «Permetti: sottotenente Riva, dell’Ottavo artiglieria Pasubio.»
«Galimberti» si presentò a sua volta il tenente. «Sto facendo un lavoro di
concetto, come vedi, e non posso darti la mano perché l’ho sporca. Vuol dire
che la mano ce la stringiamo in ispirito, eh?» Sorrise.
«D’accordo.» Anche Ambrogio sorrise.
«Io, se voi permettete, me ne vado» disse ad Ambrogio il bersagliere ac-
compagnatore, e al proprio ufficiale: «Volevo solo far presente che
l’autocarretta di Della Valentina non è ancora partita per la linea.» Fece l’atto
d’avviarsi.
«Aspetta» lo fermò l’ufficiale; e volgendosi ad Ambrogio: «Non per sapere i
fatti tuoi, ma per che motivo cerchi il nono battaglione?» «C’è un bersagliere
del mio paese nella seconda compagnia: un mio amico e compagno di scuola,
si chiama Giovenzana.» Galimberti non diede segno di conoscerlo. «Io vorrei
semplicemente fargli visita.»
«Dunque non ti occorrono più d’un paio d’ore... Ma sei comasco con quella
nèna (cadenza) quasi da canton Ticino?»
«No, della provincia di Milano, anche se sto al confine con Como.
Anche tu dalla parlata mi sembri milanese.»
«Infatti.» Sorrise: «Magari un po’ meno ‘arioso’ di te: sto in città, a porta
Vercellina.»
«Ehilà!» disse Ambrogio: «‘Guardass del sù e de la prina’ (guardarsi dal so-
le e dalla brina), ‘e de quii de porta Verzelina’.»
Il tenente gli fece sorridendo segno di no con la testa, e corresse: «‘e de quii
föra (fuori) de porta Verzelina’»
«Ah, ecco» convenne Ambrogio, che aveva modificato per scherzo il vecchio
detto milanese.
«Dunque sei della Brianza» disse Galimberti: «Si può sapere di che paese?»
«Di Nomana.»
«Ah, ci sono passato, bei posti.» Si volse al bersagliere: «L’autocarretta hai
detto?»
Quello confermò.
«Sentite» intervenne Ambrogio «io non voglio impicciarvi. Ho qui fuori la
moto: se mi date qualche indicazione posso andare in linea per conto mio.» E
rivolgendosi in particolare al tenente: «Se ti sembra che la cosa sia fattibile.»
«Sì» gli rispose quello «certo che lo è. Perché non dovrebbe esserlo? Del re-
sto sulla strada ti prenderebbero tutti per uno della nostra artiglieria. Però se
ci vai con l’autocarretta è meglio. Deve trattenersi in linea più o meno un paio
d’ore, il tempo che ti andrebbe bene.» E al bersagliere: «Sei sicuro che non è
ancora partita?»
«Pochi minuti fa era ferma davanti al comando di battaglione.» «Bene. Va
da Della Valentina.» (Sentì il bisogno di spiegare ad Ambrogio: «È l’autista.»)
«Digli che prima di partire per la linea ripassi di qui. Con la carretta, si capi-
sce.»
Il soldato batté i tacchi, salutò militarmente e via.
«Ehi» gli disse Ambrogio: «lascia almeno che ti ringrazi. Sei stato cortese.»
Quello girò la testa coperta dal fez, annuì lieto e uscì.
«Non sarà che qui potete contare su gente tutta così svelta?» disse Ambro-
gio.
«Beh, non ci lamentiamo» gli rispose il tenente. Poi rifletté: «Davvero, non
ci lamentiamo: al Terzo sono tutti ragazzi svegli; e che si spendono. Dunque tu
sei di Nomana, eh? Sì, ci son passato due o tre volte.»
Nella stanza attigua squillò il telefono: «Acci...» esclamò l’ufficiale alzando-
si in piedi: «Neanche in questi pochi giorni di riposo ti lasciano stare.» Intan-
to cercava intorno con gli occhi qualcosa con cui asciugarsi le mani. Anche
Ambrogio si guardò intorno: finì col prelevare da una risma sul tavolo un fo-
glio di carta bianca, glielo porse; Galimberti lo prese, e stropicciandosi le dita:
«Scusa un momento» mormorò, e si affrettò verso l’altra stanza dove il telefo-
no seguitava a chiamare.
Ambrogio si accostò a una finestra. Fuori c’era la sua moto: l’avrebbe lascia-
ta lì nelle poche ore d’assenza? O non era meglio insistesse per andare in linea
con quella, mantenendosi indipendente? Bisogna dire che l’idea di sperimen-
tare l’ospitalità dei bersaglieri lo attirava... Stava ponderando tra sé, quando
dalla porta di strada entrò una vecchia russa con la testa coperta da un panno
nero: attraversò il locale diretta a una porta interna; mentre passava davanti
alle sacre icone accennò un inchino e si fece il segno della croce.
«Dasidània zinca (buongiorno donna)» la salutò un po’ vacanziero il gio-
vane, nel russo molto approssimativo dei soldati. La vecchia si voltò e gli ri-
spose con un mezzo inchino e un «Dosvidània» appena mormorato.
“Poveretta” pensò Ambrogio quando fu sparita. “Però che disgraziati questi
contadini. Prima la rivoluzione, poi le espropriazioni dei loro campi e la gran-
de carestia, e adesso la guerra”. Guardò le sacre icone nell’angolo: erano due,
di legno dipinto, molto povere, due piccole tavole tarlate; chissà, pensò, con
quanta pena e tenacia la vecchia le aveva difese dai sarcasmi e dalle impazien-
ze dei politrùchi semianalfabeti, i quali dall’alto delle loro ‘cognizioni scientifi-
che’ certamente anche qui prendevano in giro le vecchie credenti. (Era una
delle lamentele più diffuse delle contadine: talmente diffusa che anche Am-
brogio ne era al corrente).
Non ebbe comunque molto tempo per riflettere: attraverso la finestra vide
arrivare, e con una sorta di spericolato ‘cristiania’ fermarsi davanti all’isba,
un’autocarretta dei bersaglieri; nello stesso tempo il tenente - conclusa la sua
telefonata - rientrava nel locale.
«C’è l’autocarretta» disse «andiamo.»
Accompagnò Ambrogio fuori. E al bersagliere autista, che sporgeva
dall’abitacolo la testa coperta dall’elmetto piumato: «Tutto a posto? Sei pronto
a partire?»
«Signorsì.»
«Bene.» Ad Ambrogio: «Se ti vuoi accomodare in cabina.» Ancora
all’autista: «Accompagnerai il signor tenente al comando della seconda com-
pagnia del nono battaglione. Al ritorno passi a riprenderlo e lo riporti qui.
Tutto chiaro?»
«Sissignore, chiarissimo.» E ad Ambrogio: «Prego, accomodatevi signor te-
nente.»
«Grazie» disse Ambrogio. Ebbe un attimo di perplessità: «La moto...»
«Non preoccuparti, quella te la custodisco io» disse il tenente: «Dai, non
perder tempo, ciao.»
Andò alla moto, la spinse giù dal cavalletto, poi verso casa; si vedeva subito
che ci aveva domestichezza, anche più di quanta ne avesse Ambrogio. Che in-
tanto era montato sull’autocarretta, sorprendendosi un po’ per l’angustia
dell’abitacolo.
Appena egli fu seduto, l’autista Della Valentina partì e imboccò speditamen-
te la strada di terra battuta, senza tuttavia (per riguardo all’ospite, o perché
stava sotto gli occhi del proprio ufficiale) entrarvi a cristiania come n’era usci-
to all’arrivo.

CAPITOLO VENTITREESIMO

Durante il percorso i due scambiarono un po’ di conversazione; Della Va-


lentina - capelli e baffi neri, accento emiliano, corporatura tendente al robusto
- parlava volentieri. Cominciò con l’informare Ambrogio che il tenente Galim-
berti non era il comandante ma il vicecomandante della compagnia, aggiunse
ch’era stato decorato di medaglia d’argento per i combattimenti d’agosto
nell’ansa di Serafimovic. Riferì qualcosa di quei combattimenti, vicende circo-
scritte, cui aveva partecipato. Volle quindi sapere da Ambrogio perché mai
l’artiglieria campale si trovasse tanto imbranata quando aveva a che fare coi
carri armati: lui in persona l’aveva constatato due volte. Ambrogio gli spiegò
che le granate ordinarie poco possono contro i carri, perché agiscono sulle lo-
ro corazze a mo’ di pugni, non di lame; inoltre, per la cronica necessità di ri-
sparmiare munizioni, in genere i puntatori non venivano addestrati a far fuo-
co su bersagli in movimento, cosicché soltanto in teoria sapevano come fare.
Al solito il discorso sulla difesa dai carri lasciò gli interlocutori interdetti: se
infatti i carri nemici non incappavano per caso in qualcuno dei pezzi anticarro
italiani (da 47 millimetri: simili a giocattoli, efficaci solo a distanza molto rav-
vicinata), non c’era possibilità di fermarli. Nell’esercito italiano non esistevano
armi anticarro da trincea, come lanciarazzi o lanciamine, che tutti gli altri
eserciti possedevano. (“I discendenti di Leonardo” pensò Ambrogio “che non
dispongono neppure dei mezzi tecnici più elementari...” Veramente quanto
all’armamento dell’esercito il fascismo non aveva fatto quasi altro che chiac-
chiere!)
Della Valentina finì col risolvere, in modo bersaglieresco, che si potevano
pur sempre applicare ai carri nemici delle mine con le nude mani; affermò che
i bersaglieri in Africa l’avevano fatto più d’una volta, e che in mancanza di mi-
ne avevano distrutto i carri anche con semplici bottiglie di benzina. Non da
tutte le truppe però - gli fece rilevare Ambrogio - si può pretendere una tale
difesa dai carri, e neanche dagli stessi bersaglieri la si può pretendere come
normale. Allora l’altro deviò a obiettare che, certo, anche tra i bersaglieri biso-
gnava distinguere: a quelli del suo reggimento si poteva chiedere qualunque
cosa, non così a quelli del Sesto, l’altro reggimento della divisione Celere, che
tutto considerato era composto di mezzo-imbranati. Ambrogio fu sorpreso
dall’affermazione; cercò d’appurare se si trattasse di una delle solite, biologi-
che manifestazioni dello ‘spirito di corpo’ (com’egli era portato a credere), o se
realmente i due reggimenti fossero di efficienza diseguale; fece qualche do-
manda in proposito, ma non approdò a nulla.

Stavano avvicinandosi alla linea tenuta dalla divisione Celere sul Don. Il
paesaggio era sempre lo stesso, a enormi, monotone ondulazioni coperte da
sterminati campi di grano, parte mietuti, parte no; negli avvallamenti più
marcati crescevano boschi di latifoglie che disegnavano col loro verde intenso
gli avvallamenti stessi e le relative propaggini. Attraversarono qualche villag-
gio di isbe, in cui c’erano dei comandi e dei magazzini, tutti di bersaglieri o del
Centoventesimo artiglieria. Al margine d’un villaggio scorsero in mezzo agli
orti uno schieramento di cannoni.
«Quelli là» disse Ambrogio «il problema dei rifugi invernali se lo trovano
già bell’e risolto. Non li devono costruire a forza di pala e piccone come noi,
potranno sistemarsi nelle isbe.»
In prossimità del Don imboccarono un’ampia balca boscosa che li portò a
ridosso del fiume. Dopo essersi lasciate indietro alcune diramazioni della bal-
ca e della pista, Della Valentina rallentò l’andatura e cominciò a guardarsi in-
torno tra gli alberi: «La seconda dovrebbe essere da queste parti» ripeteva,
finché fermò accanto a due bersaglieri che camminavano appaiati, il moschet-
to sulla spalla; uno reggeva con una mano un grappolo di borracce dai feltri
stillanti acqua.
«Ehi voi, per favore: il comando della seconda compagnia?»
«La seconda è la nostra» dichiarò uno dei due.
«U comando è alla linia, proprio ’la linia, dentro ’nu buncher» spiegò
l’altro in italo-siciliano.
«Ci si può arrivare con la macchina?»
«Come no? Ci si può ghire. » Il bersagliere fece con la mano libera dalle
borracce un gesto a significare: stammi attento, talia a mia (guarda a me):
«Tu vai avanti pi’ sta trazzera (strada): iannu avanti dintra u vuosco (il bo-
sco) tu avisse a truvari nu parco di macchine, ma nicu (piccolino). Mm?»
«Sì» disse della Valentina: «lo ricordo infatti.»
«Ecco. Al parco un c’è bisuogno ca ti firmi a dumannari (domandare): a
trazzera ca sta la me destra (sulla destra), e sale in salita, porta a u cumannu
compagnia.»
«A che distanza si trova dal parco macchine il comando di compagnia?»
«Avissero a essiri (essere) ’nu triciantu metri.»
Il primo bersagliere intervenne: «Beh, forse anche di più.»
«Ricevuto, vi ringrazio» fece della Valentina ripartendo; anche Ambrogio
ringraziò con un cenno cordiale i due.
Ecco il parcheggio, c’erano pochi automezzi, qualcuno col cofano scoper-
chiato e meccanici attorno al lavoro; qui la balca si biforcava e una sua pro-
paggine - percorsa da una pista minore - s’inerpicava decisamente verso de-
stra. L’autocarretta la imboccò, superò arrancando una cucina da campo si-
stemata in uno slargo (certo quella della seconda compagnia: a legna, con due
grosse pentole che i cucinieri stavano in quel momento sciacquando), e final-
mente, venuti meno gli alberi, affiorò a tergo d’un lungo colmo a prato.
Su quel colmo correva la linea italiana, ben individuabile per i fortini, le cui
cupole erbose - distanti una dall’altra una cinquantina di metri - emergevano
in fila ininterrotta dal terreno. La pista si arrestava in una conca defilata, poco
prima d’uno di quei fortini: in quella cavità c’erano alcune tende a cubo e
un’autocarretta in sosta; evidentemente doveva trattarsi del comando di com-
pagnia.
Della Valentina non ebbe dubbi: «Siamo arrivati» annunciò, e andò a fer-
mare il proprio veicolo accanto a quello in sosta.

Da una delle tende uscì un sergente maggiore, con tutta probabilità cucinie-
re. «D’ordine del tenente Galimberti ho accompagnato qui il signor tenente
dell’artiglieria» gli disse l’autista. «Passerò a riprenderlo tra circa due ore.»
«Ah, il tenente Galimberti» mormorò il sottufficiale, e fatto il saluto ad
Ambrogio, che frattanto era sceso dall’automezzo: «Accomodatevi, vi prego.
Mi spiace che il capitano non sia qui.»
«Non importa» gli rispose Ambrogio. «Non occorre che io parli con
lui.»
«È andato al terzo plotone» spiegò il sergente maggiore indicando la linea
verso destra «dove stanotte dobbiamo rinforzare i reticolati.»
Da un’altra tenda - nella quale si udiva parlottare - uscì un bersagliere con
alcuni sacchetti bozzoluti (contenevano pagnotte) sulle braccia; li buttò speri-
colatamente sull’autocarretta della compagnia, poi rientrò nella tenda, eviden-
temente a prendere dell’altro.
«Sono venuto a far visita a un mio compaesano» spiegava intanto Ambrogio
al sottufficiale: «il bersagliere Stefano Giovenzana, visto il tempo a disposizio-
ne, preferirei andare addirittura da lui.»
«Giovenzana? Fa parte del primo plotone.» Il sottufficiale indicò verso sini-
stra; sembrò riflettere: «Stiamo giusto per distribuire il rancio ai plotoni: se
volete, potete andare là con la corvè.»
«Mi sembra una buona idea.»
Della Valentina, soddisfatto, fece manovra con la sua autocarretta, e ripartì
agitando allegramente una mano, in segno di saluto.
Il bersagliere addetto al rancio uscì di nuovo dalla tenda-magazzino con al-
tri sacchetti di pane sulle braccia; lo seguiva stavolta un secondo bersagliere
con alcuni piccoli bidoni di metallo contenenti vino; a differenza del pane que-
sti vennero sistemati sull’autocarretta con una certa cura. Il completamento
del carico non richiese molti altri andirivieni.
Dopo di che il sergente maggiore fece accomodare Ambrogio in cabina; uno
dei due bersaglieri si pose al volante, l’altro si accoccolò nel cassone e
l’autocarretta s’avviò. Per non sollevare polvere procedette lenta, lungo un
tracciato che si snodava al riparo del colmo, distante dai fortini qualche decina
di metri. Ogni poco il veicolo faceva alt, in genere all’altezza d’un fortino, in un
punto in cui c’era già qualche bersagliere in attesa (se non c’era, l’autista dava
un colpetto di clacson e subito qualcuno compariva): l’uomo che stava nel cas-
sone gli porgeva alcuni contenitori pieni e ne ritirava di vuoti.
«Non è pericoloso suonare il clacson qui sulla linea?» chiese Ambrogio
all’autista.
«Infatti ci sarebbe la proibizione» gli rispose quello, ilare: «ma sapete
com’è, signor tenente: il clacson fa risparmiare tempo e fatica.»
Procedendo in tal modo a sbalzi l’autocarretta avanzò verso sinistra, sempre
mantenendosi defilata dietro il colmo, fino a tergo del primo plotone, dove il
tracciato terminava: in quel punto c’erano due bersaglieri che ricevettero sulle
braccia il rancio rimasto; Ambrogio scese a terra. Il fortino del comandante di
plotone distava un tiro di sasso; i due uomini vi guidarono l’ufficiale seguendo
un sentiero che gradualmente s’incassava fino a trasformarsi in camminamen-
to o meglio in trincea: la quale trincea giunta al fortino si biforcava, da un lato
andava verso i fortini di destra e il comando di compagnia, dall’altro verso
quelli di sinistra; era larga meno d’un metro e profonda intorno a un metro e
mezzo.
Uno dei bersaglieri coi viveri prese a sinistra, l’altro depose il suo carico a
terra e annunciò: «Rancio, è arrivato il rancio.» Subito dal fortino e dai più
vicini tratti della trincea cominciarono ad affluire soldati con le gavette in ma-
no. Ambrogio entrò nel fortino.

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Si trovò in un vano di forse tre metri per tre, scavato in piena terra: la co-
pertura era di tronchetti d’albero sormontati da uno strato di zolle erbose; dal-
la parte verso il nemico c’erano ampie feritoie delimitate anch’esse da tronchi
d’albero; a quella di mezzo - un po’ più grande delle laterali - era piazzata una
mitragliatrice Breda col caricatore innestato, pronta a far fuoco; presso la mi-
tragliatrice, su una cassetta da munizioni vuota, sedeva un sottotenente che
stava scrutando dalla feritoia col binocolo; dall’altro lato della mitragliatrice
era seduto un caporale, certo il mitragliere: anch’egli guardava attentamente
fuori. Come avvertirono la presenza d’un estraneo i due si girarono simulta-
neamente verso di lui, che: «È permesso?» domandò.
«Certo che è permesso» gli rispose il sottotenente.
«Vengo in visita. E, a dirla tutta, mi sento un tantino scocciatore a passeg-
giare così ‘en touriste’ per il fronte.»
«Scocciatore?» gli rispose il sottotenente: «Questo, fratello, non devi dirlo
neanche per scherzo. Chiunque fa visita ai naioni sul campo, fa opera di mise-
ricordia militare, non lo sai?»
Aveva uno smaccato accento piemontese e una faccia stretta e lunga, irrego-
lare; Ambrogio giudicò che doveva essere della sua stessa età, e studente al
pari di lui.
«Grazie» gli disse, e porgendo la destra si presentò: «Riva, dell’Ottavo arti-
glieria Pasubio.»
«Acciati» si presentò a sua volta l’altro, levandosi a mezzo dalla cassetta e
stringendogli lietamente la mano. «Infatti vedo che non hai le mostrine della
nostra artiglieria.»
«Noi stiamo davanti a Vescenscaia, circa quaranta chilometri da qui, verso
destra.»
«Ah, bene. Dimmi dunque fratello: qual buon vento ti porta?» Ci fosse stato
qui Manno, pensò Ambrogio, avrebbe saputo rispondergli nello stesso modo
scherzoso, magari anche con qualche citazione classica voltata in burla. “Per-
ché non io?” si chiese. Ma il solo fatto di cercare una citazione gl’impedì di
trovarla; abituato com’era alla linearità in ogni cosa, non insistette, rinunciò -
fatto che gli succedeva abbastanza spesso - ad essere brillante, e disse piatto
piatto: «Son venuto a far visita a un mio compaesano, il bersagliere Stefano
Giovenzana.»
«Giovenzana è tuo amico? ‘Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei’» sentenziò
Acciati. «Hai una buona referenza, Giovenzana è un ragazzo d’oro.» Fece una
pausa: «D’oro ti dico. Dì, eravate per caso compagni di scuola al paese? Sei
anche tu del 21, eh?»
«Sì.»
«Anch’io. Bene. Te lo faccio chiamare subito.» Ci ripensò: «O forse preferi-
sci vedere la belva nel suo ambiente?»
«Ecco, magari nel suo ambiente.»
«D’accordo.»
Acciati si girò verso l’entrata: «Polito, ehi, Polito» chiamò.
«Eccomi signor tenente» gli rispose con inflessione molto meridionale il
suo attendente Polito, entrando nel fortino con due gavette in una mano e
nell’altra due gavettini: contenevano le prime carne e brodo, e i secondi vino;
in più Polito portava, tenendole strette con le braccia contro le costole, due
pagnotte.
«Cosa fai, arrivi qui come una carovana?» gli chiese Acciati. «Ma guardate-
lo!»
«Ho fatto una pensata» disse l’attendente, che evidentemente aveva un po’
mutuato dal proprio superiore il frasario: «Mi sono detto: se gli ufficiali sono
due, tu Polito di ranci ne devi portare pure due.«
«Bene, questa è una buona pensata» convenne Acciati. «Bravo Polito che
m’hai battuto sul tempo. Così si fa.»
«Io però non ci sto» si oppose Ambrogio con una certa risolutezza: «Volete
scherzare? Con tutto il fastidio che già vi do. E poi sentite, non c’è motivo, io
ho già mangiato.»
«No» disse Acciati, scuotendogli lentamente davanti al viso l’indice della
mano destra. «No artigliere, che non la dai a intendere ai bersaglieri, no che
non ci fai fessi... come puoi aver mangiato se vieni da quaranta chilometri di
distanza?«
«Ma... ve l’assicuro... beh, ti prego.»
«No. Tu adesso accetti d’assiderti alla mensa del povero, e ti fai una bella
scorpacciata di ‘brodo e carne’. Sentirai che sciccheria.»
A quest’ultima uscita il caporale mitragliere e Polito si misero a ridere.
Ambrogio fu costretto ad accettare; lo fece con una punta d’autentico disa-
gio: altro sarebbe stato se i bersaglieri si fossero trovati a riposo, dunque for-
niti di mensa. Prese la gavetta che Polito gli tendeva e il gavettino: «La pa-
gnotta non occorre» tentò di resistere ancora; pensava che le pagnotte erano
certamente contate anche qui. Acciati se ne rese conto: «Tu invece l’accetti,
anche se il mio fedele attendente la porta qui sotto le braccia, come facevano i
tartari con la carne, che la tenevano sotto la sella del cavallo per farla frollire.«
A questa uscita il caporale mitragliere rise di nuovo, non così Polito.
Ambrogio lo liberò sorridendo delle due pagnotte, e ne porse una ad Accia-
ti: «Ti ringrazio Polito»disse, e ad Acciati: «Siete un popolo ospitale voi bersa-
glieri.«
«Sedete, signor tenente» disse il caporale mitragliere, cedendogli la propria
cassetta presso la mitragliatrice.
Ambrogio sedette senza più fare complimenti. Trovandosi davanti alla feri-
toia guardò istintivamente fuori: gli si spalancò dinanzi un ampio tratto di
fronte.
«Ah»non seppe trattenersi dall’esclamare a mezza voce: «guarda.»
Il lungo ciglione erboso su cui correva la linea italiana sovrastava il Don
quasi a picco: il grande fiume lo lambiva al piede qualche decina di metri più
in basso. In questo tratto il fiume non era molto largo. «Più o meno quanto il
Po a Cremona» valutò Ambrogio. L’opposta sponda, in mano al nemico, era
piatta e boscosa, in condizione d’evidente inferiorità rispetto a questa. Al di là
dei suoi boschi rivieraschi s’allargava verso nord la solita sterminata campa-
gna, in cui si scorgevano - inazzurrati per la distanza - due o tre villaggi dai
tetti di paglia, con le loro grandi, tristi chiese sconsacrate nel mezzo. Acciati
notò lo sguardo d’Ambrogio: «Questo paese che abbiamo quasi di fronte è... E
quell’altro laggiù, con la chiesa a cipolla... e quello là più lontano, che si vede
appena, è...»gli spiegò.
«Dove si trova di preciso la linea russa?«
«In pratica segue l’altra sponda del fiume, almeno gli avamposti. Li indivi-
duiamo quando sparano di notte.» aggiunse: «Ci sono anche dei ‘cecchini’ in
riva al fiume, in genere sulle piante. E noi ne stiamo proprio cercando uno che
ci dà fastidio.» Posò a terra la gavetta che Polito gli aveva dato, prese il bino-
colo e per un poco scrutò la linea nemica. «Stamattina mi ha pizzicato un ber-
sagliere, giusto pizzicato: gli ha portato via mezzo un orecchio.» Sbuffò, sul
punto di ridere. «Non c’è niente da ridere» si redarguì. Soffermò con atten-
zione il binocolo sulla chioma d’un albero, insistette a scrutare, poi scosse la
testa; depose il binocolo e riprese la gavetta. «Stasera. Forse stasera lo bec-
chiamo. Conto di preparare un fantoccio con l’elmetto in testa, e di farlo muo-
vere un po’«nella trincea all’ora giusta: se quello spara non ci scapperà.»
«All’ora giusta?»
«Sì. Non sei mai stato all’osservatorio tu, vero? Voglio dire sul principio del
buio, quando ci si vede ancora, ma si comincia anche a vedere la lingua di fuo-
co che esce dal fucile: la fiammata, che di giorno non si vede. Se lui non si ac-
corge del nostro trucco e per la bramosia di finire la sua giornata con una
buona azione, spara, lo localizziamo e...» posò la mano destra sulla mitraglia-
trice, come sulla groppa d’un mastino in attesa: «Saremo noi a tagliargli le
orecchie, allora.»
Ambrogio non disse niente.
«Che discorso tetro, però, a pensarci» rilevò allora lo stesso Acciati. «E dire
che questa è la nostra vita. Basta, buon appetito» e levò il gavettino a bene au-
gurare.
Si dedicarono al pasto. Nel frattempo erano entrati alcuni altri bersaglieri
che, sedutisi su casse o per terra contro le pareti, avevano pure cominciato a
mangiare. Acciati diceva ogni tanto qualche frase, per buona creanza, rispol-
verando cose del tempo in cui era borghese: risultò che era iscritto alla facoltà
di chimica a Torino. Ambrogio, rendendosi conto che toccava anche a lui, se
pure meno brillante, di sostenere la conversazione, riferì dei profughi cosacchi
visti il mattino nella balca davanti a Vescenscaia, passò poi a parlare delle loro
chiese mastodontiche di cui alcune si scorgevano appunto laggiù, nei paesi
oltre il fiume; infine di Sciolocov, lo scrittore, comunista (più tardi premio
Nobel), che secondo lui descriveva i cosacchi in modo contraddittorio.
Verso destra, cioè verso est, lontano, echeggiarono alcuni colpi isolati di fu-
cile; dalla stessa parte un mitragliatore sgranò una breve raffica; i bersaglieri
non sembravano curarsene. Ogni tanto Acciati dava d’istinto un’occhiata fuo-
ri, alla sponda di fronte; talvolta Ambrogio sospendeva la conversazione e lo
imitava. Dei nemici e delle loro postazioni non si scorgeva traccia: il fiume,
d’un colore tra verde e plumbeo, scorreva pigro nella luce del mezzogiorno; i
boschi che coprivano le trincee avversarie erano tuttora in rigoglio, fogliosi;
più oltre la pianura azzurra sembrava perfino infoschire nella calura. “Le ul-
time calure dell’anno” pensò Ambrogio. A differenza di quella russa la linea
italiana era ben visibile sia sulla destra che sulla sinistra, per i fortini che pun-
teggiavano fin dove giungeva l’occhio il profilo del ciglione.
Terminato che ebbero di mangiare, Ambrogio tirò fuori un pacchetto di si-
garette buone, ricevute da casa, e le offrì a ciascuno intorno: tutti, nessuno
escluso, accettarono una sigaretta, e si misero a fumare con gusto, senza dir
più niente.
Finalmente Acciati si risolse: «Fratello, ti abbiamo sequestrato per godere
un po’ della tua compagnia, ma capisco che non eri venuto qui precisamente
per questo. Non fare più complimenti.»
Ambrogio si alzò in piedi: «La vostra è una compagnia interessante, non ve
lo dico per cerimonia, ma convinto. Incomincio a conoscere i bersaglieri. Però
sì, è ora che me ne vada.»
L’attendente Polito si levò a sua volta sveltamente in piedi. «Ecco» gli disse
Acciati, approvandolo col capo.
I due ufficiali si strinsero la mano al di sopra della mitragliatrice: «Sta at-
tento ai cecchini» ricordò Acciati. «Parlo sul serio, non scherzo.»
Ambrogio annuì: «Prima d’andar via ripasso di qui a salutarti, e anche a
dirti grazie per il rancio.» Ciò detto uscì dal fortino preceduto da Polito, che
s’era messo sulla spalla destra un moschetto a canna in giù.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Entrarono nel camminamento-trincea di sinistra, che era a zig zag poco ac-
centuati. Per non essere visti dal nemico i due procedevano curvi, non abba-
stanza tuttavia che le loro teste e anche le spalle non ne emergessero presso-
ché di continuo. Superarono diversi ricoveri scavati nella parete a monte ri-
spetto al nemico: Ambrogio v’intravide - al di là dei teli tenda che ne costitui-
vano la facciata - dei giacigli formati con altri teli tenda sistemati a materasso,
qualche coperta, zaini, elmetti, qualche giubba appesa alla parete di terra. I
bersaglieri stavano sdraiati in quei ricoveri a fare la siesta, oppure seduti su
cassette vuote in slarghi della trincea. Uno montava di vedetta, in piedi con gli
occhi a filo del terreno, la testa riparata da ciuffi d’erba, accanto gli stava il
corto moschetto e, in una nicchia scavata nella parete, quattro o cinque bombe
a mano.
I ricoveri cessarono, mentre il camminamento-trincea continuava; ecco do-
po un po’ altri ricoveri con un altro nucleo di bersaglieri e un’altra vedetta:
appostata, questa, a una feritoia di tronchi d’albero cui era piazzato a cielo
aperto un fucile mitragliatore Breda; poco più in là c’era un fortino.
“Però’’ pensava Ambrogio, sempre camminando “com’è sottile la linea! Un
velo...” Dunque quello che aveva sentito dire, che la divisione Celere teneva
più di cinquanta chilometri di fronte, doveva corrispondere a verità. Fece un
po’ di calcolo: “Qui sulla prima linea” valutò “finirà con l’esserci sì e no un
uomo ogni dieci metri”.
Davanti a lui Polito seguitava a procedere curvo e svelto; ecco un altro for-
tino e altri ricoveri, quindi un fucile mitragliatore russo dal pesante caricatore
a rotella: era piazzato a una feritoia coperta ma incustodita. Poco più in là un
bersagliere montava di vedetta in un’apposita nicchia della trincea: in piedi,
immobile, guardava oltre il bordo erboso con occhi attenti. Al vederlo Polito
ebbe un attimo d’esitazione, poi si girò verso l’ufficiale e gli sorrise con aria
d’intesa; allora anche Ambrogio riconobbe Stefano. Sotto l’elmetto piumato il
collo del giovane sembrava più sottile di com’egli lo ricordava. “Guarda” non
poté a meno di pensare l’ufficiale: “ha lo stesso collo di sua madre e di Giusti-
na”.
Stefano girò un istante gli occhi verso i due sopravvenienti, riconobbe Poli-
to, tornò a fissare la propria attenzione fuori. Polito lo superò di qualche pas-
so, poi si arrestò in attesa. Il sottotenente stette al gioco, arrivò alle spalle
dell’amico e: «Ciao Faccia-di-tutti-i-giorni» disse posandogli una mano su una
spalla.

***

Stefano si voltò di scatto, sollevando vivacemente il moschetto di cui teneva


l’imboccatura con la destra: «Oh, Ambrogio, tu!»
«Come va, Stefano?» lo salutò questi, tra festevole ed emozionato. Il bersa-
gliere riappoggiò il moschetto alla parete e gli tese la mano; Ambrogio gliela
strinse, poi lo abbracciò.
«Dunque sei davvero venuto a trovarmi» disse Stefano. L’ufficiale annuì:
«Non hai idea di quanto ti veda volontieri.» Stefano si girò verso il prosegui-
mento della trincea: «Sergente Bellazzi, ehi, capo squadra» chiamò. In pari
tempo la sua fisionomia assunse un’espressione particolare, che Ambrogio
conosceva per averla tante volte notata negli operai di Nomana, quando gli era
capitato d’interpellarli mentr’erano impegnati in un lavoro che non poteva
essere interrotto.
Il sergente capo squadra accorse subito: «Giovenzana, che c... succede? Co-
sa c’è?»
«Mica un attacco» disse Stefano: «soltanto una visita per me.»
«Dove siamo, in caserma o in collegio per ricevere visite?» borbottò il ser-
gente, biondastro e ispido d’aspetto; poi notò i gradi d’Ambrogio e scattò nel
saluto militare.
Il sottotenente gli tese cordialmente la destra: «Sono venuto a trovare il mio
amico Giovenzana. Con l’autorizzazione del tenente Acciati»; indicò Polito.
«Sì, certo» disse il sergente Bellazzi, «do subito il cambio a Giovenzana.» Si
voltò nella direzione da cui era giunto: «Biondolillo, ehi, Biondolillo.» Attese
qualche istante, poi scuotendo la testa: «Biondolillo» chiamò ancora, e per
mera esuberanza aggiunse: «Che ti venga un accidente.»
«Eccomi» si sentì allora la voce di Biondolillo.
«Vieni qui armato.»
«Sto arrivando.»
Arrivò immediatamente infatti. Aveva capelli neri e due occhi neri e lucenti
come il carbone, in un viso meridionale ben disegnato.
«Sarai magari Lillo ma non sei certo biondo» disse il sergente, con una fa-
cezia usata chissà quante volte, e ora rispolverata a beneficio di Ambrogio; a
riderne fu però soprattutto Polito.
«Non sarò biondo ma alle donne piaccio lo stesso» gli rispose Biondolillo, e
certo anche questa non doveva essere una battuta nuova.
«Bene» fece il sergente, «siccome però qui donne non ce n’è, tu adesso dai il
cambio a Giovenzana.»
«Pronto.» Entrò nella nicchia per le vedette, e dopo aver guardato un istan-
te fuori: «Hai qualche consegna?» chiese a Stefano. Questi gli fece segno di no
con la testa.
Biondolillo tornò a guardar fuori: «C’è qualcuno disposto a scommettere tre
‘milit’ che prima della fine del turno io scopro il cecchino?»
«Eh no» disse Polito: «quello lo sistemiamo noi stasera con la ‘pesante’»;
pareva una cosa decisa. Poi si volse ad Ambrogio: «Signor tenente, se permet-
tete io me ne torno.»
Ambrogio lo congedò dopo averlo ringraziato. Quindi, preceduto da Stefano
e seguito dal sergente, proseguì dentro la trincea.

***

«Vieni avanti» gli diceva Stefano in dialetto: «c’è uno slargo dove si può
stare comodi.»
Così era infatti. In quel punto la trincea era stata sensibilmente allargata e
un po’ approfondita, e anche ricoperta con un intreccio di frasche ormai ap-
passite e secche, ma tuttora in grado di dare ombra. «Questo, nei giorni caldi,
è il posto migliore» spiegò Stefano. Il sergente Bellazzi confermò: «Questa è la
nostra hall» disse.
Su tre lati della hall correva lungo le pareti di terra una irregolare panca,
fatta con le assicelle delle casse di munizioni. Vi sedevano in quel momento
tre o quattro bersaglieri, che si alzarono in piedi per rispetto all’ufficiale.
«Vi prego, state comodi» li invitò costui.
«Vado a metter giù questi e torno subito» disse Stefano mostrando il mo-
schetto, e l’elmetto che s’era tolto di testa.
«Dove, nel tuo ricovero?»
«Sì, è qui a pochi passi.»
«Allora fammi vedere.»
«Vieni, vedrai che lusso» fece Stefano.
Poco oltre la hall c’erano nella parete della trincea alcuni ricoveri simili a
quelli già superati da Ambrogio, chiusi da teli tenda.
«Questi sono tutti lavori fatti di notte» spiegò Stefano arrestandosi; parlava
come d’abitudine in dialetto. «Non hai idea di quanto abbiamo dovuto sgob-
bare il mese scorso, sopratutto per la trincea. Beh, ormai è fatta.» Poi ci ripen-
sò: «Adesso però bisognerà trasformare ogni cosa per l’inverno. Boh.» Scostò
uno dei teli che chiudevano la facciata del ricovero, scoprendone l’interno:
c’erano alcuni pagliericci in quel momento disoccupati, degli zaini, un mo-
schetto con un elmo appeso per il sottogola alla canna, qualche tascapane,
qualche cassetta semivuota, una fotografia dell’attrice Alida Valli fissata con
un chiodo alla parete di terra e, fissata allo stesso modo con un chiodo, una
fotografia del Crocefisso di Nomana identica a quella che stava nell’ufficio di
Gerardo, ma più piccola, formato cartolina. Stefano lasciò cadere moschetto
ed elmetto sul pagliericcio sormontato dal Crocefisso.
«Vedo che hai qui il Signore di Nomana» disse Ambrogio. L’altro annuì se-
rio.
«Nessuno ti sfotte per questo?»
«In caserma ci hanno provato, ma qui no.»
Anche ad Ambrogio, più o meno, le cose erano andate allo stesso modo col
piccolo Crocefisso di legno che sua madre gli aveva messo in valigia il giorno
della partenza per la vita militare. «Vedo» concluse. Poi cambiò argomento,
considerò la copertura in lamiere, assi e terra del ricovero: «E quando piove
cosa succede?»
«È tutto a regola d’arte, non credere» disse Stefano: «Magari non sembra,
ma all’interno non entra neppure una goccia.» Ambrogio convenne. «Anche
noi con le tende abbiamo imparato a fare miracoli.»
«Sì eh? Come ve la passate voi?»
«Beh, l’artiglieria non è così vicina ai russi; siamo più riparati, abbiamo
molto più respiro.»
«La guerra è sempre guerra» affermò Stefano. «Quando sento le sventole
della loro artiglieria passare in alto» indicò con la testa il cielo sopra di sé «di-
rette verso la nostra artiglieria, beh in quei momenti io sono contento di tro-
varmi qui.»
Ambrogio negò. «No. Voi siete molto più esposti, non c’è confronto. Ma
dimmi: che notizie hai di Nomana?»
«Giustina mi scrive ogni due settimane senza mai balcare una volta» disse
Stefano: «mi tiene informato d’ogni cosa. Di salute alla cascina stanno bene,
certo mio padre ha molto lavoro, deve fare anche la mia parte, questo si capi-
sce anche se nelle lettere Giustina non lo scrive. Però non possiamo lamentar-
ci: in fin dei conti il padre è ancora in gamba, e Giustina porta a casa la sua
mesata. Dunque.» «Sì» approvò Ambrogio: «sei soltanto tu, in famiglia, a
creare fastidi.»
Stefano sorrise: «Giusto. E i tuoi?»
«Anche loro stanno bene. Beh, in questi giorni c’è Giudittina con gli orec-
chioni.»
«Lo so. Figurati se Giustina non me lo scriveva.» Stefano tacque alquanto:
«Lo sai che a Beolco, il mese scorso, hanno preso paura per Luca?»
«Per Luca? Il mese scorso? Cosa dici?»
«Sì. Lo hanno creduto disperso perché uno del Quinto alpini, però non della
sua compagnia, l’aveva scritto a casa senza informarsi bene, e in paese la voce
è subito corsa. Figurati mia sorella: diventava matta. Invece non si trattava di
lui, di Luca, ma di un altro Sambruna, uno col suo stesso cognome insomma.»
«Bel disgraziato quello di Beolco. Disperso. Disperso qui è lo stesso che dire
morto.»
«Lo credi anche tu, eh?»
«Sì» disse Ambrogio. «Almeno, ho proprio paura di sì. È una brutta faccen-
da ma è così.»
«Anche fra noi molti sono convinti che i russi accoppano tutti i prigionieri
che fanno» disse Stefano. Si chinò, introdusse una mano nel suo zaino, ne
estrasse alcuni accendini d’alluminio, parve sul punto di sceglierne uno, inve-
ce se li mise in tasca.
«Beh, ma non stiamo qui in piedi» disse. «Vieni, torniamo allo slargo. O se
no possiamo anche andare più avanti, al nostro ‘belvedere’: un posto dove an-
che stando seduti si vede il panorama.»
«Cosa? Il panorama?» disse Ambrogio.
«Sì. Vuoi dare un’occhiata?»

S’avviarono. Mentre procedevano lungo la trincea Ambrogio osservò: «I


russi, o meglio i comunisti, buttano tutto in politica, ecco il punto; e noi ci ve-
dono in sostanza come nemici del comunismo. Sai che uccidono senza remis-
sione i nemici interni quando li scoprono, e anche solo se credono di scoprirli:
figurati cosa faranno con noi.»
«Sì» disse Stefano. «Però con certezza non si può dire. In certi momenti io
ci penso. Questo fatto è come la morte, che nessuno è mai tornato indietro a
riferire cosa c’è di là. Così noi non possiamo sapere con certezza se adesso in
mano ai russi ci sono o no dei prigionieri.» Ma erano già arrivati; indicò con la
mano: «Ecco il ‘belvedere’.»

CAPITOLO VENTISEIESIMO

In quel punto il ciglione aveva termine: il terreno degradava infatti quasi a


precipizio per far luogo allo sbocco nel Don della grande balca boscosa che
Ambrogio aveva percorso con l’autocarretta di Della Valentina. Anche la trin-
cea finiva qui, dopo essersi allargata a formare una sorta di piazzola poco pro-
fonda, da cui la vista spaziava in direzione nord-ovest. Lungo la parete interna
della piazzola c’era un rozzo sedile semicircolare, fatto con stocchi di legno e
terra. Senza pensare ai cecchini, i due compaesani vi presero posto; sotto di
loro, in primo piano, avevano la distesa delle vette degli alberi che riempivano
la balca.
«Ehi» esclamò Ambrogio, «quelle cime lì mi fanno venire in mente i rivoni
(le vallette) che ci sono vicino a casa tua, dalla parte di Beolco.»
«Figurati a me» disse Stefano, e si fece a un tratto pensieroso. «Casa mia!»
«La Nomanella» disse Ambrogio con simpatia, mentre estraeva da una ta-
sca sigarette e cerini.
«Chissà se noi, voglio dire, se io...» mormorò Stefano, e s’interruppe.
«Chissà se?»
«Se la rivedrò più casa mia.»
Ambrogio gli diede una spinta abbastanza energica col gomito: «Che fesse-
ria stai dicendo?»
Stefano guardò l’amico e per un istante nei suoi occhi passò un’ombra dura,
dolorosa, che Ambrogio non vi aveva mai visto; tutta la sua fisionomia ne fu
modificata.
“Cosa può essere, un presentimento?” si chiese l’ufficiale, e diede all’amico
una seconda gomitata. «Dai, Faccia-di-tutti-i-giorni» disse. Al che Stefano si
ridistese, sorrise.
«Cosa ti succede? Forse a volte ti prende un po’ di malinconia?» chiese
Ambrogio.
L’altro fece segno di no: «Ben di raro. Anzi quasi mai.»
«Allora te l’ho portata io.»
«Beh, forse sì.» Stefano rise. «Col parlare di casa mia.»
«Ascolta quello che ti dico.» Ambrogio assunse, per l’emozione, un’aria da
profeta che assai poco gli si addiceva: «Quando saranno mature le ciliege nuo-
ve sui piantoni della Nomanella, a raccoglierle ci saremo noi due, come sem-
pre.»
«Allora a giugno dell’anno venturo.» Stefano approvò: «Certo, perché no?»
L’ufficiale gli offrì una sigaretta e ne prese una per sé.
«Aspetta» gli disse l’altro. Si tolse di tasca gli accendini che vi aveva infilato
poco prima: erano di alluminio, fatti a mano; ne scelse uno e glielo diede.
«Adopera questo, l’ho fatto io. Te lo regalo.»
«L’hai fatto tu? E da quando in qua?» Ambrogio sperimentò l’accendino
che si accese subito, al primo colpo. «E si accende, anche!»
«Certo, cosa credevi?» fece Stefano, dandogli a sua volta una gomitata. Poi
accostò la sigaretta alla fiammella; Ambrogio vi accese anche la propria; quin-
di spense il piccolo strumento e lo riaccese più volte. «Guarda, non sbaglia un
colpo. Sai cosa ti dico? Che ha ragione la tua nonnetta quando sostiene che
devi fare il meccanico. Ma guarda! Si può sapere da chi hai imparato a farli?»
«Da uno del plotone. L’alluminio lo prendiamo da un aereo, una carcassa che
c’è giù nella balca. Mentre le pietrine quello se le fa mandare da casa. Faccia-
mo gli accendini e li vendiamo.»
«Accidenti, che commercio. Allora questo bisognerà che io te lo paghi.»
«Non ho detto che te lo regalo?»
Ambrogio annuì. «Va bene. Ti ringrazio.»
Tirarono alcune boccate di fumo in silenzio, dopo di che si guardarono in
faccia e sorrisero; erano contenti di poter stare un po’ in compagnia.
«E così ci ritroviamo a una bella distanza da casa eh, Faccia-di-tutti-i-
giorni?» ripeté Ambrogio.
«Sulla panchetta, come quando andavamo a scuola» disse Stefano: «Ci ve-
desse la maestra Camatini.»
«A proposito, hai sue notizie?»
«Sì. Sta mica male. Ogni tanto mi manda i saluti da mia sorella Isadora.»
«Forza dunque, racconta tutto; tutte le cose che Giustina ti ha scritto.»
Stefano prese a riferire, mescolando, se l’argomento lo comportava, notizie
recenti e fresche ad altre più stantie. Di vari fatti Ambrogio era al corrente, di
altri no e chiedeva precisazioni che a volte l’altro era in grado, a volte non era
in grado di dargli; facevano allora congetture insieme. Il sottotenente riferì poi
a sua volta alcune notizie pervenutegli da casa; conversarono così per quasi
mezz’ora.
***

Guardando l’orologio l’ufficiale si rese conto che non gli rimaneva più molto
tempo: i due allora si alzarono, e tornati indietro andarono a sedersi nella hall
della trincea, dove il capo squadra sergente Bellazzi e una decina di bersaglieri
stavano in non confessata attesa del visitatore forestiero (speravano di poter
scambiare qualche parola con lui: con lui, come a dire con una faccia diversa
dalle solite eterne facce - sempre le stesse - che ciascuno si vedeva intorno
giorno e notte).
Cominciarono, su avvio di Ambrogio, col parlare del mitragliatore russo
preda bellica che la squadra teneva in postazione. Convennero ch’era un’arma
d’aspetto grossolano, con quel caricatore a pizza, però efficace. A domanda
d’Ambrogio il sergente, dopo aver riflettuto, rispose che secondo lui era mi-
gliore del nostro Breda 30: «Perché s’inceppa di meno.»
Ci fu un po’ di discussione sulla frequenza degli inceppamenti dell’arma ita-
liana: un caporal maggiore, cui era riconosciuta dagli altri grande abilità
nell’usarla, sosteneva che a saperci fare anche con la nostra gl’inceppamenti si
verificavano di raro, e che comunque si trattava d’un’arma delicata appunto a
causa della sua perfezione. Pressoché tutti gli altri bersaglieri, Stefano com-
preso, gli diedero contro, tirarono fuori episodi verificatisi nel corso
dell’inverno: in occasione d’un attacco russo - apprese Ambrogio - di cinque
mitragliatori piazzati su un tratto di linea uno solo era stato in grado di spara-
re senza interruzione. «Il Breda 30» concluse il sergente Bellazzi «in Russia
non spara per il freddo, in Libia non spara per la sabbia, insomma è un’arma
che per funzionare ha bisogno di trovarsi in Riviera.» Parlarono poi di altre
armi, russe specialmente, e tra esse delle ‘catiusce’, ch’erano ancora quasi una
novità. Al riguardo il sottotenente poté sfoggiare una certa conoscenza, aven-
done nel corso dell’avanzata viste parecchie abbandonate nel villaggio di Ta-
rassovca: i carri tedeschi ne avevano schiacciate a terra alcune, ma altre erano
intatte e più d’una con i sedici razzi innestati e pronti al lancio; l’ufficiale le
descrisse. Riferì anche una sua piccola scoperta personale, che cioè gli auto-
carri su cui quelle armi erano montate, non erano i soliti autocarri russi di li-
nea antiquata («Tipo Ridolini» sintetizzò efficacemente un bersagliere), bensì
di linea moderna, aerodinamica; esaminandoli bene si era reso conto ch’erano
americani, marca Dodge.
Dalle armi del nemico il discorso si spostò al nemico stesso, alle sue even-
tuali possibilità di vittoria.
Sottotenente e soldati furono concordi nel giudicarle pressoché nulle: anche
se adesso i russi non disertavano più in massa come l’anno prima, e l’avanzata
tedesca e italiana incontravano assai più resistenza, diserzioni ce n’erano tut-
tora molte, e così pure sabotaggi nel munizionamento: non di raro infatti le
loro granate non esplodevano, segno ch’erano state sabotate dagli operai che
le avevano costruite. Inoltre i russi davano l’impressione di non avere più armi
a sufficienza, visto che - secondo certi disertori - per montare di guardia si
passavano il fucile l’un l’altro.
«Del resto» disse il sergente «come potrebbero competere con noi, spe-
cialmente coi tedeschi, se sono così arretrati?» Saltarono fuori le case col tetto
di paglia e, ancora una volta, il fatto che in Russia nessuno aveva vista una
sola strada asfaltata.
«Anche quanto all’equipaggiamento» osservò un bersagliere: «hanno buo-
ne armi (rudimentali, sì, ma questo può essere un vantaggio) e hanno dei
buoni carri armati purtroppo, però non hanno automezzi adatti. Come po-
trebbero con quei camion tipo Ridolini avanzare fino a Berlino?»
«I camion glieli possono sempre dare gli americani» obiettò uno. «Sai
quanti ne occorrerebbero?» lo contrastò un altro. «Gli americani devono pri-
ma pensare al loro esercito.»
Quest’osservazione sembrò convincente. Ancora quei soldati non avevano il
sospetto delle straordinarie possibilità produttive americane, di cui in Italia
avrebbero tra non molto portato le prime notizie i reduci dalla Tunisia.
«E poi, più che di mezzi, in guerra è questione di spirito» intervenne bersa-
glierescamente un ragazzo meridionale dal viso affilato e allegro: «Loro ven-
gono quasi sempre all’attacco ubriachi, l’avete visto. Questo secondo me non è
un buon segno per loro.» Tutti convennero; Ambrogio andava rendendosi
conto che la polemica tra settentrionali e meridionali - così comune nel resto
dell'esercito - qui era pressoché assente: chissà - si chiese — se ciò dipendeva
dal fatto che tra i bersaglieri c’erano molti meridionali in gamba?
Ma l’ora dell’appuntamento con Della Valentina s’avvicinava; dopo avere
sbirciato un paio di volte l’orologio l’ufficiale si alzò in piedi, imitato da tutti, e
prese congedo.

Stefano, con l’elmetto piumato in testa e il moschetto appeso canna in giù


alla spalla destra, l’accompagnò passo passo lungo la trincea al comando di
plotone, dove i due appresero che Acciati si trovava al comando di compagnia.
Proseguirono perciò verso il comando di compagnia: a tergo del quale notaro-
no, ancora da lontano, due autocarrette in sosta. Forse c’era quella di Della
Valentina? Sì, c’era. E, seduto in attesa al posto di guida, c’era Della Valentina
in persona che: «M’è occorso un po’ meno tempo del previsto» comunicò
quando i due arrivarono a lui.
«Vedo. Mi stai aspettando da molto?»
«Oh, no» rispose il bersagliere con un gesto di noncuranza.
«Mi sa di sì, invece» disse Ambrogio. «Beh, partiamo subito.» Stefano si le-
vò di tasca uno dei suoi accendini: «Posso farti un regalo?» chiese a Della Va-
lentina.
«E perché?» rispose questi.
«Per il gusto di farlo.»
«No, lascia stare. Non ha senso.»
«Questi accendini li fabbrico io. A me non costano niente: dai, prendilo.»
Della Valentina lo guardava perplesso.
Stefano fece scattare il meccanismo, la fiammella si accese: «Vedi che fun-
ziona?» disse, e indicando con la testa Ambrogio: «Lui credeva che i miei ac-
cendini non funzionassero.»
Della Valentina sorrise, prese l’accendino: «Ma perché? Beh, visto che insi-
sti ti ringrazio.» Lo accese a sua volta: «Funziona e come.»
«Eh!» fece Stefano.
«È ora di ‘andiamo’» disse Ambrogio. «Saluto il tenente Acciati e son pron-
to.»
Di lì a pochi minuti, uscito dal fortino della compagnia dove aveva preso
congedo dall'ufficiale, Ambrogio strinse la mano a Stefano e montò
sull’autocarretta; l’autista, fatto lui pure un cordiale cenno di saluto a Stefano,
ripartì, imboccando con un moderatissimo ‘cristiania’ la pista verso la balca. Il
bersagliere di Nomana restò là, a guardare il veicolo allontanarsi; Ambrogio lo
vedeva per l’ultima volta: nei lunghi anni a venire se lo sarebbe ricordato spes-
so com’era in questo momento, ilare, con l’elmo piumato in testa, il collo sotti-
le, e il moschetto pendente canna in giù dalla spalla.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Il viaggio di ritorno fu senza problemi. A Rassipnàia Ambrogio si congedò


dal tenente Galimberti e inforcò la sua moto. Ebbe nuovamente intorno
l’immensa campagna, in cui la moto viaggiava solitaria, minuscola macchioli-
na apparentemente immobile. Le distese di girasoli morti, adesso, con
l’approssimarsi del tramonto, gl’ispiravano un opprimente senso di tristezza;
come già all’andata il sottotenente non scorgeva in giro un’anima. A un tratto
fermò il veicolo e - senza scenderne - spense il motore. Poiché non c’era trac-
cia di brezza, venne a trovarsi in un silenzio totale, incredibile: mai, prima
d’allora, egli aveva sperimentato un silenzio così completo. Né mai, rifletté,
l’avrebbe potuto sperimentare in patria, se non forse in vetta alle montagne
più alte. Avvertì il bisogno d’un rumore qualsiasi, e meglio ancora di una pre-
senza umana. Ma lo circondavano solo le schiere dei girasoli morti, esili, che
simili a piccoli scheletri dai pesanti crani curvati verso terra, parevano appog-
giarsi uno all’altro per sostenersi a vicenda prima di crollare per sempre.
Riavviò con un energico colpo di piede il motore, e ripartì.
Nella loro balca i profughi cosacchi avevano acceso tanti fuocherelli ed era-
no adesso intenti alla cena. Ciascun nucleo famigliare - Ambrogio notò - era
seduto a uno strano tavolo, formato da un riquadro di terra delle dimensioni
d’un tavolo appunto, intorno al quale era stata scavata a spigoli netti una fossa
per far spazio alle gambe dei commensali. La moto passò lentamente accanto
a un gruppo composto da un uomo molto vecchio e rattrappito (forse il bi-
snonno) assiso a capo tavola, da un altro vecchio ma gigantesco e aitante, con
la barba candida, e torno torno da alcune donne e bambini. Una delle donne
aveva appena posta sul tavolo di terra una pentola di minestra, forse di miglio:
il bisnonno dopo avere - davvero inaspettatamente per Ambrogio - alzata la
mano a tracciare sul cibo un segno di croce, ne cominciò la distribuzione ver-
sandolo nelle disformi ciotole dei commensali. I quali andavano di continuo
con gli occhi azzurri dalle loro ciotole all'ufficiale straniero che gli passava vi-
cino in moto.
Questi percorse fino al termine la lunga balca boscosa senza bisogno
d’accendere il faro; allorché giunse al comando di batteria la luce del sole non
era ancora svanita del tutto. Al rombo della moto il tenente comandante uscì
dalla tenda comando: «Non scendere» gli disse tendendo un braccio: «Va su-
bito alla linea pezzi. È in arrivo una richiesta di fuoco.»
Ambrogio voltò senz’altro la moto e descrisse una curva nel prato. Intanto
era comparso anche il sergente degli automezzi Feltrin, e guardava alla sua
vecchia Alce rammaricandosi per quel piccolo supplemento di lavoro che le
veniva richiesto.
Ambrogio arrestò di nuovo la moto e fece segno a Feltrin di salire. «Monta
su» gli disse con un sorriso «così te la riporti subito indietro.» Prontamente
quello prese posto sul sellino.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Di lì a qualche settimana fu Ambrogio a ricevere una visita: gliela fece Luca,


il meccanico della ditta col quale egli aveva partecipato nella piazza di Noma-
na all’adunata per la dichiarazione di guerra.
Nelle retrovie del fronte di Vescenscaia avevano cominciato a sfilare sulle
piste con andamento est-ovest colonne e colonne di alpini, di muli, di carriag-
gi da montagna. Era in trasferimento l’intera divisione Tridentina, che dopo
avere - come s’è detto - appena sbarcata dai treni tamponata la falla apertasi
nel fronte in agosto, era stata trattenuta in zona. Adesso si stava spostando
verso quelle che sarebbero state le sue posizioni invernali: sempre sul Don, ma
molto più a ovest, al di là della grande ansa, dove già le altre due divisioni al-
pine l’avevano preceduta.
Dalla linea pezzi di Ambrogio si scorgeva a volte qualcuna di quelle colonne
in movimento, lunghe file di puntini neri, appena percettibili nella pianura. A
vederli da vicino gli alpini apparivano più massicci degli altri soldati (‘i nostri
carri armati’ li definiva uno slogan nel gusto d’allora): camminavano metodici,
con un passo che sembrava macinare la strada, i pesanti zaini affardellati sulle
spalle e sopra, orizzontale, il lungo fucile 91. Molto spesso il cappello dal dise-
gno antico (medievale, secondo sosteneva Michele) veniva in quei giorni ancor
caldi tenuto indietro sulla nuca, di modo che la fronte potesse sudare indi-
sturbata. Procedevano in fila per uno, scambiando rade parole, in genere
qualche osservazione o qualche motto scherzoso, ma sempre con parsimonia;
frammisti agli alpini, e con un comportamento e uno stile che sembravano per
più aspetti mutuati da loro, procedevano i muli.
Ogni tanto le colonne facevano alt; gli uomini serravano allora sotto e de-
ponevano a terra i grossi zaini; se la marcia durava da molto, sedevano essi
stessi per terra, appoggiando le schiene agli zaini. Ce n’era però sempre qual-
cuno che - spinto da eccesso d’energia o da un’invincibile curiosità - se la sosta
non era un semplice alt orario, si metteva a bighellonare e a esplorare
l’esplorabile intorno.
Ne capitavano a volte anche allo schieramento presso la balca: esaminavano
i cannoni, le due mitragliatrici, le postazioni, ogni cosa. Agli artiglieri che ri-
volgevano loro la parola rispondevano volentieri, indugiando in qualche paci-
fica chiacchiera col corpo poggiato ora sull’una ora sull’altra gamba, in pose
che ricordavano la gente dei paesi di montagna nei giorni di fiera; raramente
essi attaccavano discorso per primi.
Anche Ambrogio scambiò con loro qualche parola: provò a richiederli di
come fossero andate veramente le cose in agosto, quando avevano chiusa la
falla apertasi nel fronte. Ma al pari di tutti gli altri soldati, gli alpini sapevano
riferire soltanto le vicende circoscritte cui avevano partecipato di persona.
Adesso più che altro sembravano rammaricati di non trovarsi in montagna:
«Se la ‘Cicai’ la mulao miga (non mollava)» dicevano in bresciano «nô a chel
ura che saressem sö le montagne’, cioè il Caucaso, che saresse molto meglio
di questa pianura.» Non facevano tuttavia della cosa un dramma.
Quei soldati avevano dapprima il numero 6 nello stemma sul cappello, ap-
partenevano cioè al Sesto reggimento. Poi quelli del Sesto finirono, e comin-
ciarono a passare quelli del Quinto. A ognuno di questi Ambrogio domandava
a quale battaglione appartenesse: «Sei per caso del Morbegno tu?» «No,
dell’Edolo.» «No, del Tirano.» «Il Morbegno ha le nappine bianche.»
Ultimi arrivarono quelli con le nappine bianche.
«Conoscete per caso un certo caporale Sambruna? Luca Sambruna, di Beol-
co?»
«Io lo conosco, sì, garantito che lo conosco» dichiarò finalmente uno. «È
mitragliere nella mia compagnia: caporal maggiore Sambruna Luca di Beolco.
Garantito.» S’esprimeva in dialetto comasco, con quella cadenza che a Noma-
na chiamano ‘d’in somm’ delle sommità, ma che è propria anche delle popola-
zioni più rustiche delle colline a sud del lago di Como.
««Dunque l’hanno fatto caporal maggiore. Potresti avvisarlo che qui c’è un
suo compaesano?»
«Potrei.»
«Devi dirgli il tenente Riva di Nomana.»
«Ah, siete di Nomana voi? Ma guarda. Io sono del Roncio.»
Il Roncio era una manciata di piccole cascine abitate da cento, forse due-
cento anime, su una strada secondaria e boscosa che da Nomana conduceva al
lago di Pusiano, l’Eupili di settecentesca memoria.
«Allora» disse Ambrogio «poco manca che anche noi due siamo paesani.»
«Ci saranno a far tanto un dieci chilometri dal Roncio a Nomana» valutò
l’alpino, sempre nel suo dialetto selvatico.
«Sì, più o meno.» Ambrogio annuì: «Dunque il Roncio è terra d’alpini.»
«Eh» fece l’altro tentennando con disapprovazione la testa: «è terra di ca-
pre.» Poi puntualizzò meglio: «Di capre, alpini, brovade e cavedagne.»
Aveva un fisico solido, il volto lentigginoso e baffetti falbi; portava per bra-
veria il cappello girato di centottanta gradi, cosicché lo stemma e la tesa veni-
vano a trovarsi dietro, sopra la nuca.
Ambrogio fermò l’attenzione su quel cappello e gli venne a un tratto da ri-
dere: al tempo ch’era recluta a Cremona c’era in caserma con lui una recluta
pure del Roncio, un contadino con orecchie a ventola e la testa grossa e roton-
da come una pignatta. “Per un verso o per l’altro al Roncio siete tutti elementi
fuori serie” pensò.
«A ogni modo» tirò le somme l’alpino dal cappello girato alla brava «se voi
volete vedere il Luca, non ci sono problemi (ghe n’è mia de fastidi): prima che
passi un’ora lui sarà qui, davanti a voi, garantito» e indicava sul terreno da-
vanti ad Ambrogio il punto esatto in cui Luca si sarebbe venuto a trovare.

***

Il bello è che così effettivamente accadde. Non era trascorsa un’ora che Luca
arrivò, in compagnia di un alpino sconosciuto: tutt’e due venivano avanti a
passi gagliardi sull’incerta pista che dalla piana sud conduceva ai pezzi, tutt’e
due avevano la barba. Si fermarono all’inizio dello schieramento per chiedere
informazioni al primo artigliere in cui s’imbatterono; Ambrogio però li aveva
già adocchiati e accorse. Strinse la mano a Luca, poi all’alpino che Luca gli
presentava: «...è delle nostre parti, di Monticello, si chiama Tremolada»,
quindi presi i due sotto braccio, uno a destra e l’altro a sinistra, li pilotò verso
la propria tenda.
Sedettero tutt’e tre su sgabelli e casse sotto la parete della tenda alzata a mo’
di ala. Luca e Ambrogio erano talmente lieti d’incontrarsi che la letizia gli
sprizzava dalla faccia; chi osservasse Luca - col ciuffo castano di traverso sulla
fronte dopo che s’era tolto il cappello, e la barba nuova invece rossastra, e do-
tato della particolare gravità che ora gli veniva dalla costumanza con la gente
di montagna - riceveva l’impressione d’una ferma torre; e non è che fosse mol-
to alto.
Ambrogio gli riferì senza perder tempo la sua recentissima visita a Stefano;
poi parlarono di Nomana e di Manno, il cugino d’Ambrogio coetaneo e amico
di Luca, da cui Luca aveva giusto qualche settimana prima ricevuto una lettera
dall’Africa; quindi Ambrogio s’informò circa il sottotenente Giordano Galbiati,
figlio del mutilato impiegato alla Cassa di Risparmio di Nomana («Lo vedo
piuttosto di raro» spiegò Luca «perché non è della mia compagnia, però so
che sta bene») e di don Carlo Gnocchi. «Quello almeno lo vedi?» chiese Am-
brogio.
«Certo, perché don Carlo ai battaglioni ci viene tutte le settimane, anche se
è cappellano reggimentale.»
«Ah già, voi alpini avete un cappellano per battaglione.»
«Noi abbiamo più cappellani degli altri, e la gavetta più grande» buttò là
per celia l’alpino Tremolada.
Luca, pur sorridendo, disapprovò con la testa: secondo lui non era un ar-
gomento da scherzarci. «Don Carlo è una specie di santo» disse: «da noi tutti
gli vogliono un gran bene (’n ben de l’anima).» Ma ciò che sembrava interes-
sarlo sopra ogni cosa era la visita appena fatta da Ambrogio a Stefano. Quando
se ne rese conto Ambrogio gliene fece una nuova relazione, più dettagliata. «Il
tuo futuro cognato» riferì «riceve ogni due settimane una lettera da sua sorel-
la Giustina. E tu?»
«Anch’io, se devo dire la verità» rispose Luca, abbassando la voce per istin-
tivo pudore. «A volte non sa neanche più cosa scrivere nelle lettere, póra tusa,
e mette sulla carta le parole del prete in chiesa.»
«Accidenti però, gliene date di lavoro a quella povera ragazza.» A queste
parole il Tremolada di Monticello rise come per un motto di grande arguzia.
Era un ragazzo quanto mai semplice e cordiale, anche lui tutto contento d’aver
incontrato, in Ambrogio, un quasi compaesano.

***

I due alpini rimasero a pranzo. L’attendente Paccoi, che durante la cena con
Bonsaver s’era studiato di mostrarsi impersonale, questa volta badava meno
alla forma e più alla sostanza: era perciò assai angustiato di non poter mettere
sul tavolo - o meglio sulla cassa che ne faceva le veci — un paio di bottiglie di
vino. Ciò specialmente dopo che l’alpino di Monticello, partendo da
un’affermazione d’Ambrogio («Gli alpini son gente seria...») ebbe riferito a
dimostrazione una sbronza davvero seria, omerica addirittura, per cui l’intera
compagnia era passata il giorno della partenza dall’Italia.
Luca a questo riguardo conveniva, pacato come sempre. «Bisognava veder-
li: anche dopo che uno li aveva tirati sul carro ferroviario non era mica finita,
era necessario corrergli dietro e recuperarli un’altra volta, perché loro scende-
vano dall’altra parte, magari a gattoni.» «Giusto, a gattoni» convenne con en-
tusiasmo il Tremolada.
«Per i pochi che non erano sbronzi del tutto, tenere la conta è stata una
mezza impresa» disse Luca.
«E noi qui non abbiamo vino» mormorava tra sé e sé Paccoi, premendo con
disappunto il pugno destro sul palmo della mano sinistra «non abbiamo vi-
no!»
Ambrogio si ricordò allora d’avere nella cassetta d’ordinanza due bottiglie
di cognac, giuntegli per posta dall’Italia. «Tira fuori quelle» disse a Paccoi;
cosa che l’attendente si affrettò a fare, mentre gli si dipingeva finalmente in
viso un certo sollievo.
Sul finire del rancio si avvicinarono i quattro capi pezzo e alcuni altri arti-
glieri, per fare la conoscenza dei due alpini: anche a loro naturalmente, oltre
che a Paccoi, fu offerto il cognac, così che le due bottiglie s’esaurirono in un
batter d’occhio.
Mentre il Tremolada di Monticello, che aveva bevuto più di tutti, teneva
concione all’uditorio e lo edificava con storie d’osterie, di muli incredibilmente
restii, di mangiate in patria sotto la frasca, e di piedi congelati o no in monta-
gna a seconda di com’erano messe le pezze che li avvolgevano, Ambrogio e
Luca, staccatisi dalla congrega, passeggiarono alquanto su e giù dietro i can-
noni, parlando nuovamente del paese lontano, della gente che vi avevano la-
sciato, e anche della ditta e dei suoi presumibili attuali problemi.
Infine Luca chiamò - tentennando la testa con solidale disapprovazione -
l’altro alpino, che si alzò dal suo panchetto col cappello spinto indietro perché
la fronte fosse libera di respirare. Una volta districatosi dal panchetto tuttavia
il Tremolada si fece serio e prese congedo da Ambrogio nonché, come ebbe a
dire, ‘da tutta l’artiglieria’, con buon garbo paesano. I due se ne andarono con
passo nonostante il cognac gagliardo, facendosi fretta perché il tempo di sosta
del loro reparto era prossimo a scadere: già si vedevano laggiù, lontano, le
prime appena percettibili filigrane di uomini e di muli staccarsi dalla macchia
nera del grosso in sosta, e avviarsi. Verso quale destino?

CAPITOLO VENTINOVESIMO

Venne l’autunno. Da nord-est (dalla Siberia) cominciò a soffiare a intermit-


tenza un vento sempre più freddo. Poco alla volta si fece così mordente che gli
artiglieri scavarono di propria iniziativa delle buche all’interno delle tende, in
modo da poter dormire al di sotto del suo soffio.
Intanto - al pari dei soldati di tutti gli altri corpi - avevano cominciato a co-
struirsi nel terreno dei rifugi invernali veri e propri. Sul cumulo di terra che
copriva ciascun rifugio applicarono qualche battente di finestra o almeno un
riquadro di vetro, fortunosamente recuperato di notte nei villaggi abbandonati
in riva al Don; le porte furono messe insieme col legname delle casse di muni-
zioni; le future stufe ricavate dai fusti della benzina: ogni fusto, tagliato a me-
tà, ne dava due.

***

Dalla sua trincea, alta sopra la sponda del fiume, Stefano poté vedere il bo-
sco sottostante mutare giorno dopo giorno di colore. Prima di cadere le foglie
assumevano - in una sorta di festa d’addio alla loro esistenza così breve - le
tinte più belle: l’oro o il rosso, o il giallo delicato, o il ruggine o il bruno, cia-
scuna secondo la propria specie. Per più giorni da nord-est, cioè dalla stessa
direzione del vento, giunsero anche e si susseguirono - alte nel cielo - schiere
di anitre migranti: volavano in formazione a V o in semplici righe oblique, con
strida insistenti. Il giovane le osservava col disappunto del cacciatore costretto
suo malgrado a non sparare sulla preda (erano stati subito diffusi ordini pe-
rentori al riguardo); quelle roche strida, che risuonavano improvvise di giorno
e di notte, gli giungevano però anche come un saluto: gli animali se ne anda-
vano, abbandonavano questi luoghi dall’inverno tanto inclemente...
Terminato il passo delle anitre egli assisté a un altro passo, davvero impen-
sato: quello dei ragni. Sulle sporgenze dei fortini, sui lunghi fili del telefono da
campo, su ogni stelo secco e in cima alle erbe più alte, comparvero dei fili di
ragnatela che raffittirono sempre più. Dapprima nessuno ci badava, poi di
notte una vedetta s’accorse, alzando gli occhi alla luna, che nell’aria navigava-
no innumerevoli fili. Chiamò a mezza voce un paio di compagni, che venissero
a vedere. Udendo le esclamazioni di meraviglia di costoro altri bersaglieri
uscirono dai ricoveri, uscì anche Stefano e vide: nell’aria sopra la trincea mi-
riadi di fili - lunghi da un palmo a qualche braccio - procedevano orizzontal-
mente, paralleli tra loro, trasportati dalla brezza, e su ogni filo viaggiava un
minuscolo ragno.
«Mai visto uno spettacolo simile.»
«Neanch’io.»
«Neanch’io.»
«Come no?» disse invece un bersagliere. «Questo succede anche in Italia.
Al mio paese per questo l’estate di San Martino la chiamano l’estate dei ra-
gni.»
«Ma va’.»
«Eppure.»
Non tirava vento - solo un po’ di brezza - non faceva quindi freddo; i bersa-
glieri indugiarono alquanto nella trincea illuminata dalla luna a osservare la
migrazione dei ragni.
«A proposito» esclamò uno: «ci avete fatto caso che non si sentono più can-
tare le quaglie?»
«Già, è vero. Io non me n’ero accorto, ma è così.»
«Certo che è vero, son alcune settimane ormai che non si sentono più.»
«Le quaglie? E chi ci ha mai fatto caso? Mica siamo quagliaroli noi.»
«Avranno ricevuto anche loro l’ordine di trasferimento» buttò là spiritoso
un caporale: «come quelli della divisione Pasubio.»
«Già, avete sentito? Che razza di scherzo quello!»
«Che puttanata!»
«Da un giorno all’altro hanno dovuto piantar lì i rifugi ormai pronti» disse
pensoso Biondolillo. «Purché non succeda anche a noi!»
«No, a noi no. Il tenente Acciati ne è certo» assicurò il sergente Bellazzi:
«Me l’ha ripetuto anche stasera quando è passato per il giro d’ispezione.»
«Che naia sarebbe dover rifare ogni cosa da zero, eh?»
«Ma dove vanno quelli della Pasubio?»
«Qui alla nostra sinistra, appena al di là della Torino. Rimarremo insieme
ancora come nell’inverno passato, una divisione a fianco dell'altra.»
«Meglio così. Perché dei nuovi arrivati dall’Italia io, dopo il casino ch’è suc-
cesso in agosto, mi fido poco.»
«Il guaio è» disse Bellazzi «che dalla Pasubio e dalla Torino i vecchi stanno
per smammare. Quelli che hanno fatto un inverno in Russia tornano tutti in
Italia, lo sapete: riceveranno il cambio nelle prossime settimane.»
«E noi?»
«Sapete anche questo, no? Il cambio noi lo riceveremo dopo di loro.»
«Sì, chissà quando.»
«E allora? Forse io posso farci qualcosa?» ribatté il sergente Bellazzi.
Stefano non aveva parlato. Sapeva che, essendo arrivato in Russia in gen-
naio, il cambio lui non l’avrebbe comunque ricevuto.
«Beh» disse uno «se non ci fanno lo scherzo di trasferirci, i nostri rifugi
adesso sono pronti; almeno non soffriremo il freddo.»
Preoccupazioni circa la tenuta del fronte nessuno ne aveva. Fino allora non
si era fatto che avanzare, di che preoccuparsi dunque?
In effetti quei giorni dell’autunno 1942 rappresentarono il periodo di mag-
gior espansione delle armi tedesche, e di conseguenza in qualche modo anche
di quelle italiane. Dai Pirenei al capo Nord, a Creta, l’Europa era praticamente
tutta in mano ai tedeschi. Qui all’est il loro immenso fronte partendo dal mar
Glaciale Artico scendeva per migliaia di chilometri verso sud, fino a Voronez e
al tratto superiore del fiume Don; seguiva poi il corso del fiume in direzione
est, in direzione cioè di Stalingrado. Solo là, nella punta più avanzata del fron-
te, si combatteva terribilmente, e più a sud si combatteva sugli impervi con-
trafforti del Caucaso, al di là dei quali c’erano le fonti di petrolio nemiche. Di,
tali battaglie però nel settore di Stefano, come in quelli d’Ambrogio, di Bonsa-
ver, di Luca e del Michele Tintori, giungeva solo una scarsa eco, portata da
qualche giornale invecchiato, oppure dai bollettini di guerra che la sera certi
centralinisti di reggimento si prendevano la briga di far udire ai reparti in li-
nea. Nell’ora in cui in Italia veniva trasmesso il giornale radio alcuni di loro
usavano infatti chiamare i telefonisti dei reparti, e dopo avere annunciato:
«Bollettino», sistemavano la propria cornetta telefonica davanti a un apparec-
chio radio civile, che nei comandi in genere non mancava. Allora non soltanto
gli addetti ai telefoni che ne avevano voglia, ma anche diversi altri soldati si
mettevano in ascolto, assiepandosi attorno alla cornetta che il telefonista te-
neva sollevata in aria. Spesso però lo facevano più per sentire una voce nota
proveniente dall’Italia (la quale ricordava la radio accesa in casa, e la famiglia
riunita nell’ora di cena), che per seguire le notizie. Perché in guerra che preoc-
cupa veramente il soldato è la situazione del suo settore, la quale lo assorbe al
punto da lasciarlo pressoché indifferente a tutto ciò che succede altrove.
Stando così le cose, l’inizio dei guai finì col coglierli impreparati.
PARTE QUARTA

CAPITOLO PRIMO

L’incredibile notizia che si dovevano abbandonare le posizioni sul Don rag-


giunse Ambrogio all’osservatorio. Dopo l’avvicendamento e la partenza per
l’Italia dei veterani del suo gruppo, egli infatti non stava più in batteria, ma
era divenuto ufficiale osservatore.
Avvolto nel corto cappotto foderato di pelliccia di pecora ch’era stato distri-
buito a tutti i componenti l’armata, il passamontagna che gli lasciava liberi
soltanto gli occhi, quel pomeriggio egli stava come al solito pazientemente
scrutando col binocolo la zona nemica, anche in questo settore più bassa di
quella italiana. Ogni tanto deponeva lo strumento e batteva tra loro, per ri-
scaldarle, le mani calzate da due paia di guanti di lana; fermava poi lo sguardo
sul telefono che aveva accanto, il quale da più d’un’ora non funzionava perché
la linea allo schieramento dei pezzi era stata interrotta. “Ancora non sono riu-
sciti a ripararla quei due” si diceva. “Quanto tempo c’impiegano?”
Questo si stava appunto chiedendo quando nella celletta di assi che formava
l’osservatorio, entrò il sottotenente di fanteria responsabile di quel tratto di
linea. Era un ragazzo veneto pallido di faccia, con la fronte alta, da intellettua-
le.
«Ehi, Valorzi» lo salutò Ambrogio.
«Hai già ricevuto l’ordine tu?» s’informò in fretta quello.
«Quale ordine? Di che genere?» gli rispose giovialmente Ambrogio.
«L’ordine di ritirata.»
«Di che?» esclamò Ambrogio, alzando senza volerlo la voce e girandosi tut-
to verso l’interlocutore.
«Ecco, vedo che non sei al corrente. Beh, c’è ordine di smammare: dobbia-
mo andarcene tutti.»
«Ma, ma...»
«Il mio plotone deve lasciare la posizione alle due in punto.» Indicò con un
movimento del polso l’orologio, poi controllò effettivamente l’ora e corrugò la
fronte, strinse le labbra: «Non manca molto.»
«Cosa stai dicendo? Chi te l’ha detta una... una... troiata simile?»
«Arrivo adesso dal comando di compagnia: ci hanno convocati là apposta
per darci quest’ordine.»
«Ah! E io che da più d’un’ora ho il collegamento col gruppo interrotto: i
miei telefonisti sono fuori tutt’e due, alla ricerca del guasto.»
«Bene» disse Valorzi, «ti ho avvisato» e uscì.
«Ehi, un momento» cercò di trattenerlo l’altro, che voleva essere informato
meglio; ma quello aveva già chiuso l’usciolo e non tornò indietro.
Ambrogio fissò di nuovo l’apparecchio telefonico, si chinò, provò e riprovò a
effettuare la chiamata girando la manovella: nella spia appariva sempre la far-
falla bianca, segno che la linea era ancora interrotta. «Va all’inferno» borbot-
tò. “Ma cosa diavolo starà succedendo?” si chiese mentre l’angustia gli stava
crescendo dentro.
Oggi era il 19 dicembre, riepilogò. Tre giorni prima alla sua destra alcuni
battaglioni della divisione erano stati costretti da un attacco nemico ad ab-
bandonare le posizioni: la linea però era stata subito ricostituita nella neve
qualche chilometro più indietro da riserve di ‘camicie nere’ e di tedeschi (“Po-
veri disgraziati, con questo freddo micidiale!”) In seguito sulla destra non
c’erano più state grandi sparatorie. “Il pericolo dunque non può venire di là.”
Da sinistra allora? Qualche arretramento nel fronte della Pasubio c’era stato
anche a sinistra, non tuttavia una vera rottura. Ancora più a sinistra forse?
Quelle voci diffuse da ‘radio scarpa’, di uno sfondamento nel settore della divi-
a
sione Ravenna davanti a Boguciar, aldilà dello schieramento della 298 divi-
sione tedesca... “Ma se hanno poi detto che si trattava di chiacchiere?” Eppure
per giorni e giorni là, lontano verso sinistra, la buriana era stata effettivamen-
te colossale. “Non smettevano un momento di sparare. È solo da... da quando?
Solo da ieri mattina che non sparano più.” Improvvisamente quel sopravvenu-
to silenzio si associò nella sua mente alla prospettiva di colonne e colonne
nemiche in silenziosa avanzata sulla neve alle sue spalle; ne fu turbatissimo.
“Ehi, non starà per caso succedendo qualche porcheria simile?”
Si alzò in piedi e uscì dalla celletta. Percorse nel freddo (che fuori, allo sco-
perto, era ancora più selvaggio: “Dobbiamo essere sui dodici-tredici gradi sot-
to zero”, nessuno però lo sapeva con precisione, in linea non c’erano termo-
metri) un breve tratto di trincea, e si affacciò al ricovero della pattuglia: qui,
dove la temperatura era resa sopportabile da una stufa, c’era soltanto il suo
caporale osservatore, cui egli aveva dato il cambio mezz’ora prima; dormic-
chiava al buio su un pagliericcio, avvolto nel cappotto e nelle coperte.
«Ehi» lo chiamò Ambrogio, «ehi tu, mi senti?»
«Che vuoi?» borbottò quello: «Va fà ’n...» Poi riconobbe l’ufficiale il quale,
per avere luce, teneva sollevato con la mano e l’avambraccio sinistri il telo
tenda che chiudeva l’ingresso del ricovero, facendo con ciò entrare un fiotto
d’aria gelida; si levò a sedere: «Ah, siete voi, signor tenente?» parlava con in-
flessione meridionale.
«Svelto, riprendi subito servizio all’osservatorio, che ci sono novità. Muovi-
ti. Tra pochi minuti torno là anch’io.»
«Ci sono novità? Signorsì.»
«Se nel frattempo quei due che sono fuori, Mazzoleni e Piantanida, chia-
mano col ‘provalinee’, digli di restare in collegamento permanente, di non
muoversi d’un passo senza avere prima parlato con me: è importante.»
«Sì, va bene.» La voce del caporale s’era fatta preoccupata.
«Dai, spicciati.»
L’ufficiale si scostò dal ricovero della pattuglia e fatti pochi passi entrò, cur-
vandosi sensibilmente, in un finitimo, più ampio ricovero della fanteria,
dov’era alloggiata forse una dozzina d’uomini.
I fanti si stavano già preparando. Al lume d’un unico, sparuto lumino a naf-
ta ricavato da un barattolo di sardine, molti liberavano gli zaini e i tascapane
dalle cose meno necessarie, introducendovi in cambio bombe a mano e carica-
tori per fucile; alcuni, sopra le maglie e le mutande di lana che avevano addos-
so, indossavano altre maglie e altre mutande; due o tre, toltesi scarpe e calze,
si stavano ungendo i piedi con pomata anticongelante, e se li frizionavano.
Intanto scambiavano tra loro frasi preoccupate; qualcuno bestemmiava.
«Stavolta mi sa che ci siamo proprio.»
«Chissà come va a finire stavolta.»
«Dove possiamo andare sulla neve, con venti o trenta gradi sotto zero?»
«Beh, cominciamo col non farci circondare.»
«Ma lo sai che io con questo freddo, quand’è la fine del servizio di vedetta,
ho l’impressione ogni volta di non farcela più? Mi pare che non potrei resiste-
re nemmeno per altri dieci minuti.»
«Amedeo, cosa dici che mi conviene: portare lo zaino pieno o leggero? E
pieno di cosa?»
«Adesso ci pensi? In questi giorni a cosa pensavi, alla Carolina?»
«Perché? Tu forse lo sapevi che dovevamo smammare?»
«Ascolta me» fece un altro: «Meglio pieno. Di munizioni e viveri, si capisce.
E ficcaci dentro tutta la roba di lana che hai.»
«Io almeno una coperta me la porto affardellata. Cosa dite? Perché la notte
dovremo pur dormire.»
«E i viveri? Ce li daranno o no i viveri?»
«Per forza ce li devono dare. Se no...»
«E dove?»
«Dove? Al comando di compagnia. Quando arriviamo là, vedrai che qualco-
sa ci daranno.»
«Credi che abbiano dei viveri di riserva alla compagnia?»
«Certo, come li chiamano? Le ‘scorte intangibili’. Non lo sai? Galletta e sca-
toletta: le tengono apposta per questi casini.»
«Intangibili? Allora puoi star sicuro che non le toccano. Le lasceranno agli
Ivan piuttosto.»
Entrò nel ricovero il sottotenente con la fronte da intellettuale: aveva ter-
minato il giro delle sue postazioni; adesso doveva prepararsi pure lui.
«Ecco, tu» gli disse Ambrogio: «Vorrei sapere perché... Sei in grado di dir-
mi, in sostanza, cos’è che sta succedendo? Perché dobbiamo abbandonare le
posizioni? Alla compagnia cosa ti hanno detto?» L’altro sogguardò torno torno
nella penombra i suoi fanti che s’erano fatti a loro volta attenti, poi si volse ad
Ambrogio e tentennò la testa. «Non so niente. Mi hanno detto solo che i plo-
toni devono essere là prima delle due e un quarto, perché alle due e un quarto
la compagnia, con o senza di noi, si avvierà incolonnata verso il comando di
battaglione.» Diede un’altra occhiata in giro, ai suoi: «Le altre cose che rac-
contano» aggiunse «possono anche essere tutte balle, perché nessuno ha l’aria
di sapere qualcosa di preciso.» Ambrogio avrebbe voluto insistere, ma si trat-
tenne; tuttavia non si risolveva ad andarsene. L’altro cominciò a prepararsi:
introdusse con calma in un tascapane una dozzina di bombe a mano e dei ca-
ricatori per fucile; ogni tanto soppesava il tascapane, corrugando la fronte;
infine lo passò all’attendente: «Tieni, mettici anche un po’ di roba di lana, vedi
tu. E non dimenticare il mio diario. Capito? Il diario.»
«Signorsì.»
Poi si volse ad Ambrogio: «Tu cosa fai?»
«Per il momento faccio schifo anche a me stesso» gli rispose questi: «Sono
senza collegamenti, e con due uomini fuori, lungo la linea telefonica.»
L’altro sorrise con stanchezza. Osservandolo meglio Ambrogio notò che nel
suo viso fine c’erano una pena e uno sconforto totali: quel giovane ufficiale di
fanteria non si faceva illusioni su ciò che stava per accadere; quando incontrò
nuovamente lo sguardo d’Ambrogio, annuì addirittura al proprio sconforto:
«Beh, adesso devo provvedere alla ‘pesante’» dichiarò (intendeva alla mitra-
gliatrice). «Quella dobbiamo portarla con noi a ogni costo.»
Da fuori qualcuno infilò la testa nel ricovero: «È qui il tenente
dell’artiglieria? Ah, eccolo.» Tolse la testa dai teli e si voltò: «Sì, è qui» annun-
ciò verso l’esterno.
Si affacciò allora il caporale osservatore: «Signor tenente la linea funziona.»
«Vengo» disse Ambrogio balzando su.
Di corsa i due raggiunsero la celletta osservatorio; l’ufficiale afferrò la cor-
netta del telefono e sedendosi: «Sì? Chi parla?» chiese.
«Il signor tenente Riva? Oh, finalmente. Qui è il centralino di gruppo. Pre-
go, state in linea che vi passo l’aiutante maggiore.»
Entrò in linea l’aiutante maggiore, quel tenente dal lungo viso equino - di
professione impiegato di banca - che aveva accolto Ambrogio all’arrivo in giu-
gno a Caménca; in contrasto col suo nomignolo di ‘Cavallo Stanco’ sembrava
in questo momento sprizzare energia: «Sei tu, Riva? Sbaracca subito ogni cosa
e vieni qui al gruppo.»
«Con tutto il materiale?»
«Il materiale? Lo sai o no cosa c’è di nuovo?» Tagliò corto: «Per il materiale
fa come ti pare. L’importante è che torniate qui subito tutti: entro un’ora do-
vete essere qui.»
«Un momento, senti, solo per regolarmi... per sapere cosa dobbiamo porta-
re con noi: la benzina e la nafta siete andati a prenderle, vero?»
«No» gli rispose l’aiutante maggiore.
Ambrogio avvertì uno straordinario turbamento interiore: gli parve che i
suoi intestini cominciassero a liquefarsi.
«Cos’hai detto?» mormorò.
«Non son cose da parlarne al telefono» gli ricordò l’altro. «Comunque tu
hai fatta una domanda, e la risposta è: no. Così puoi regolarti.» Aggiunse: «È
sottinteso che stavolta non manderò l’autocarro a prendervi.»
«Non è per... per l’autocarro» Ambrogio disse: «Questo è niente.»
«Infatti» convenne l’aiutante maggiore. Poi cambiò maniere: «Sai che stavo
per mandarti lì due uomini con l’ordine di rientro? Uno è il tuo attendente,
come si chiama?»
«Paccoi.»
«Ecco, Paccoi. Da mezz’ora sta girando senza pace qui intorno alla baracca
della maggiorità. Se non lo mandavo io, a salvarti, ci sarebbe venuto lui di sua
iniziativa.»
«È un po’ la mia chioccia» disse Ambrogio, cogliendo l’occasione per tentar
di superare il proprio turbamento; dovette però inghiottire altra saliva. La fe-
deltà di Paccoi, ad ogni modo, gli faceva bene.
«Beh, fortuna che siete riusciti a ristabilire il collegamento» disse l’aiutante
maggiore. «Non ho altro. Adesso spicciati, ciao» e chiuse la conversazione.
Ambrogio, sempre sforzandosi di dominare il proprio turbamento, rimase
qualche istante in silenzio senza deporre la cornetta. Poi la riaccostò alla bocca
e chiese: «Ehi tu, Piantanida, sei in linea?»
«Sì, ma sono Mazzoleni» gli rispose una voce all’apparecchio.
«Fa lo stesso» disse Ambrogio. «Hai ascoltato il discorso?»
«Sì, ma non apposta. È stato il caporale a dirmi di rimanere in linea, di non
staccare per nessun motivo il ‘provalinee’ dai fili.»
«Ecco, hai fatto bene a stare in linea. Piantanida è lì con te?»
«Sì.»
«A che distanza vi trovate da noi? Voglio dire, dall’osservatorio?»
«Saremo a quasi tre chilometri.»
«Allora siete più vicini allo schieramento dei pezzi.»
«Certo, molto più vicini.» La voce si fece di colpo brigosa: «Ecco, lo dice-
vamo io e Piantanida: toccava a loro, a quei disgraziati del centralino di grup-
po («Chi face de luder» si sentì sullo sfondo la voce di Piantanida) e non a noi
riparare questo guasto: perché è più vicino a loro.»
«Lascia perdere» disse Ambrogio «e ascolta bene quello che ti dico: adesso
voi due rientrate immediatamente al gruppo seguendo la linea telefonica. Su-
bito, mi hai capito? Al gruppo, e non qui.» «Al gruppo? Signorsì.»
«Bene, non c’è altro. Ti passo un momento il caporale: se avete qui
all’osservatorio roba che vi interessa, ditelo a lui, che ve la porterà.»
«Come: se abbiamo...?»
«Dillo anche a Piantanida.»
«Signorsì.»
Passò la cornetta al caporale. Mentre costui s’accordava, Ambrogio guardò
fuori dalle feritoie d’osservazione.
Nella sottostante terra di nessuno, tra la linea e il fiume, come pure sul
grande fiume gelato, e più in là, nell’entroterra del nemico, non si scorgeva il
minimo segno di movimento: si vedevano solo alberi spogli, rivestiti di brina,
rigidi come fossero di vetro, e sterminate distese di neve; in lontananza le di-
stese immense erano velate di nebbia morta, gelida. “Ecco in che ambiente ci
dovremo muovere, marciare...” Accanto a lui stavano scritte in matita sulla
parete di assi le temperature massime e minime degli ultimi giorni, comunica-
te per telefono dal comando di gruppo:
11 dic. -10° -24°
12 - 4° -16°
13 - 4° -15°
14 0° - 7°
15 0° - 3°
16 -15° -35°
17 -12° -32°
18 -14° -27°
Quelle di oggi non erano ancora arrivate. Si sarebbe dovuto marciare con
tali temperature! “Per quante ore, o per quanti giorni?” si chiese il sottotenen-
te. “O forse per settimane? Ma in questo caso chi potrà resistere?”
Sentì di nuovo le viscere piene di turbamento. E oltretutto, com’era la situa-
zione alle loro spalle? Erano ancora liberi, o stavano per essere, oppure erano
già, circondati, chiusi in una sacca? Per quel che ne sapeva lui mai neppure un
russo era riuscito a uscire dalle tremende sacche tedesche. “Neanche il figlio di
Stalin ce l’ha fatta, e allora era estate...’’ Respinse con energia queste conside-
razioni spaventose, angoscianti. “Cerchiamo di concentrarci piuttosto nei
compiti del momento.”
Disse al caporale: «Beh, allora?»
«Vogliono troppe cose quei due macachi» si risentì il caporale che, per
quanto meridionale, all’occasione usava con pertinenza termini settentrionali:
«Devo dire che vengano qui loro a prendersele?»
«No, non c’è tempo. Se mai ti aiuterò io a portarle. Dai, adesso basta: digli
che devi staccare.»
Il caporale non se lo fece ripetere, disse: «Mazzoleni, ho l’ordine di staccare,
ciao»; e soggiungendo: «Va fà ’n...» depose la cornetta.
«Forza» disse Ambrogio «prepariamo la roba da portar via. Poi col piccone
faremo a pezzi gli strumenti che restano qui: il goniometro e il telefono per
cominciare.»
«Il goniometro?» esclamò esterrefatto il caporale.
«Sì, perché? Vorresti lasciarglielo in regalo agli Ivan il goniometro?»
Il caporale guardò Ambrogio con occhi di colpo impauriti: cominciava a
rendersi conto di quello che stava per accadere.
«Ringraziamo il cielo di non avere qui anche i cofani radio. Dai, non per-
diamo tempo.»

***

Di lì a non molto sgombrarono la posizione accodati al plotone di fanti, ca-


richi d’impedimenta quanto loro. All’altezza del comando di compagnia -
sempre lungo la linea - c’erano già dei nuclei incolonnati e pronti a mettersi in
marcia. Qui Ambrogio e il caporale, preso congedo dal sottotenente di fanteria
e dai suoi, imboccarono una pista diretta a sud.
Superarono un reparto di mortaisti fermo; al pari di tutti gli altri soldati an-
che questi indossavano i cappotti grigioverdi foderati di pelliccia di pecora, col
collare rotondo, e sotto la bustina un passamontagna di colore grigio chiaro;
avevano con sé - per il momento deposti a terra - i loro pesanti mortai, ogni
arma divisa in due carichi da portare a spalla; avevano anche diverse casse di
bombe. “Poveri disgraziati, dover marciare con tutto quel peso!” Più avanti
incontrarono un altro reparto e nuclei sparsi di fanteria già decisamente in
marcia verso sud. E se queste presenze umane erano un conforto nella solitu-
dine di quell’ambiente dalle linee smisurate, mettevano però anche addosso ai
due un’inconfessata voglia di correre, di non rimanere indietro. Pur essendo
carichi accelerarono il passo; giunsero allo schieramento dei pezzi un’ora circa
dopo aver lasciato l’osservatorio.

CAPITOLO SECONDO

Le tre batterie del gruppo erano schierate pressoché una in prosieguo


dell’altra al margine di un bosco spoglio e candido di brina; dietro i pezzi
s’individuavano, nel buio incipiente, i ricoveri degli uomini grazie alle loro
coperture, cumuli bislunghi di terra innevata, da ciascuno dei quali sporgeva
una canna fumaria di fortuna; qua e là sotto gli alberi s’intravedeva qualche
autocarro patinato dal ghiaccio.
Ambrogio e il caporale osservatore entrarono nello schieramento in dire-
zione del comando di gruppo, situato più addentro nel bosco. Si trovarono in
mezzo a un’agitazione notevole: diversi trattori erano stati avviati, e alcuni
giravano in tondo sulla neve coi motori furiosamente imballati, tirandosi die-
tro altri trattori o autocarri i cui motori stentavano a mettersi in moto. Qual-
cuno aveva invece agganciato il suo pezzo e lo stava lentamente tirando fuori
dalla piazzola, mentre i serventi intorno cooperavano, e il capo pezzo dava gli
ordini. Alcuni ufficiali riunivano qua e là dei nuclei di uomini dalle facce livide
di freddo, e facevano loro distribuire dai magazzinieri munizioni per moschet-
to, o bombe a mano, e anche - Ambrogio notò - qualche provvista alimentare.
Un sottotenente si dava da fare con alcuni soldati per scaricare un autocarro
che pareva un monumento al gelo, certamente con l’intenzione di metterlo poi
in moto; un sergente maggiore si adoperava ad applicare dei cinturoni da cap-
potto a una mitragliatrice Fiat (d’artiglieria, perciò priva di spallacci) al fine di
renderla spalleggiabile. Diversi soldati andavano e venivano sulle brevi rampe
di terra gelata, che scendevano alle porte dei ricoveri. (Quanta fatica - ricordò
Ambrogio - era costata la costruzione di quei ricoveri! Appena iniziati i lavori
era sopraggiunto il gelo, e la terra si era fatta a un tratto dura come pietra; nel-
le mani frenetiche degli uomini - anche nelle sue, di Ambrogio -i manici di
legno dei picconi non resistevano più di qualche ora, bisognava continuamen-
te sostituirli: tanto che si era dovuta adibire una squadra alla fabbricazione dei
manici.)
La cosa che adesso riusciva più gradita a lui e al caporale era senza dubbio il
frastuono dei motori, al punto ch’egli ricominciò malgrado tutto a sperare:
“Forse Cavallo Stanco non me l’ha contata tutta. O forse il carburante è arriva-
to dopo la telefonata... Perché, se no, dovrebbero darsi tanto da fare per met-
tere in moto le macchine?” Stava passando tra i ricoveri della terza batteria,
quella che fino ad autunno inoltrato era stata la sua: i pochi soldati anziani
che incontrava, al vederlo si animavano, lo salutavano con simpatia: «Ben
tornato signor tenente.» «Com’è andata all’osservatorio?» «Cosa sta succe-
dendo?» «Cosa sta facendo in questo momento la fanteria?» «Signor tenente
come andrà a finire?»
L’ufficiale rispondeva salutando familiarmente con la mano, diceva anche
frasi come: «Sempre su di giri» o: «Cerchiamo di tenerci in gamba», ma an-
dava oltre senza fermarsi. Finché scorse, indaffaratissimo, il sergente Feltrin:
quello preposto agli automezzi, che in settembre gli aveva preparata la moto
per la visita a Stefano. A costui fece segno d’accostarsi e, arrestatosi, domandò
a mezza voce: «Come state in batteria a carburante?».
«Come stiamo?» gli rispose Feltrin sorpreso; poi fissò gli occhi sui bagagli
di cui Ambrogio e il caporale erano carichi: “Arrivano dall’osservatorio, è chia-
ro che non sono al corrente” pensò. «Purtroppo stiamo... un macello, un vero
macello, signor tenente» rispose con voce depressa. «Abbiamo nei serbatoi
quei pochi litri che ci sono rimasti dopo l’ultimo trasferimento in ottobre.
C’eravate anche voi allora. In batteria non abbiamo altro.»
«Quanti litri saranno, in media, per macchina?»
«Non so: in media tre o quattro, non credo che arriviamo a cinque litri per
macchina.»
«Cosa? Quattro litri?»
«Lo sapete bene che la benzina per i trasferimenti la danno misurata. Beh,
in qualche trattore ci saranno magari anche sette o otto litri.»
Ambrogio rimase per qualche istante muto. Poi: «Non avete pensato di riu-
nire il poco carburante che c’è?» chiese. «Di metterlo tutto quanto in una sola
macchina ad esempio, o in due?»
«Ecco, lo dite anche voi. È proprio questo che io ho proposto al capitano
nuovo: lui sembrava del parere e credo abbia telefonato apposta al comando
di gruppo; ma poi ha detto di no: ‘Lascia perdere Feltrin’ mi ha detto.»
Ambrogio non fece altre domande.
«Se la ritirata dura anche solo qualche ora» concluse il sergente «saremo
costretti ad abbandonare tutto.» Fece un segno di disapprovazione con la
chiave inglese che teneva in mano. «Del resto con questo freddo partono solo i
motori a benzina; i diesel a nafta non si riesce a metterli in moto, o ben pochi.
Così fin d’ora dovremo abbandonare gran parte del materiale.»
«Che prospettiva allegra, eh?» disse Ambrogio, poi si accomiatò: «Beh, in
gamba Feltrin.»
«Comandate!» gli rispose il sergente senz’ombra di ironia, scattando nel sa-
luto.
Ambrogio s’avviò, meglio che fiancheggiato seguito adesso dal caporale, il
quale dopo avere ascoltato parola per parola il colloquio, sembrava un cane
bastonato. Andarono avanti attraverso il bosco di vetro diretti al comando di
gruppo. “Tutto il materiale!” argomentava intanto tra sé l’ufficiale: “Abbando-
nare tutto il materiale, si fa in fretta a dirlo. Cannoni, munizioni, strumenti e...
ogni cosa, tende, viveri, coperte, tutto. È semplicemente pazzesco. È...’’ Lo in-
terruppe un urlo del caporale, il quale aveva scorto un altro caporale suo com-
paesano venire per caso loro incontro sulla pista tra gli alberi: in tal modo egli
inconsciamente rompeva, o cercava di rompere, la propria tensione nervosa.
L’altro caporale gli rispose con prontezza, gridando alcune parolacce scurri-
li e facendo dei gesti osceni; mentre la distanza tra i due diminuiva, la vocife-
razione tra loro cresceva: giunti di fronte si scambiarono gioviali insulti in un
dialetto meridionale incomprensibile all’ufficiale. Ciò costituiva per il caporale
osservatore una tal liberazione, e così confortanti reminiscenze gli sollevava
dentro quel chiasso, che certe parole arrivava addirittura a guaiolarle. I due
scoppiarono infine a ridere e ridere, senza più saper cosa dire.

Lasciandoseli alle spalle Ambrogio arrivò a una radura nel bosco ai cui bor-
di c’erano altri cumuli oblunghi di terra. Su un lato scorse una piccola baracca
nuova, di legno non verniciato, montata da poco, la vedeva per la prima volta.
Più in là c’erano, parcati tra gli alberi, i sei o sette automezzi del reparto co-
mando di gruppo, tra cui l’autolettiga, e la logora Millecento scoperta del
maggiore: su di essi il giovane fissò la propria attenzione, rendendosi rapida-
mente conto che non ne era stato messo in moto neppure uno. “Già, la Mille-
cento è troppo scassata” argomentò tra sé e sé, “e i camion e la lettiga sono a
nafta”.
In compenso intorno ai loro cofani scoperchiati si davano un gran da fare
gli autisti e uno degli ufficiali nuovi, un tipo che doveva essere competente
d’automezzi; per terra sotto i motori rosseggiavano stitici fuochi, alimentati da
stracci imbevuti di nafta. “Speriamo che riescano a scaldarli senza incendiarli”
pensò il giovane. “Del resto tant’è”.
Notò che una squadra di soldati si stava già inquadrando nella radura.
CAPITOLO TERZO

Senza fermarsi raggiunse il ricovero delle due pattuglie d’osservazione di


cui era il comandante, discese la breve rampa ghiacciata che conduceva al suo
ingresso, ne aprì con un piede la rozza porta, ed entrò tenendosi di sghembo, a
motivo dei due gonfi tascapane che gl’ingombravano i fianchi. Si ritrovò in
una lunga buca dalle pareti di terra viva, coperta da un pesante soffitto di
tronchi e tronchetti d’albero.
L’ambiente - meravigliosamente tiepido — era pressoché buio, illuminato
da un’unica finestra (un parabrezza d’autocarro incastrato nel soffitto), e dal
fuoco rossastro che ardeva nella stufa di fortuna. Non appena egli si fermò
guardandosi intorno, il più elevato in grado dei presenti, un sergente da poco
giunto dall’Italia, diede l’ordine: «Camerata at-tenti!»; e mentre i soldati - una
ventina - si alzavano dai giacigli e si mettevano sull’attenti, corse da lui e scat-
tò nel saluto: «Prima e seconda pattuglia OC di gruppo» presentò.
«Riposo» disse Ambrogio.
«Riposo» ordinò il sottufficiale; poi fece qualche altro passo avanti e aiutò
Ambrogio a liberarsi dei bagagli. L’attendente Paccoi, col volto spianato dal
sollievo («Oh, finalmente siete arrivato signor tenente!») fu svelto a ricevere
ogni cosa nelle proprie mani. Anche gli altri soldati, alcuni già con i cappotti
indosso, attorniarono l’ufficiale, il quale notò la presenza di Mazzoleni e Pian-
tanida, i due cui egli aveva dato ordine di rientrare mentr’erano fuori lungo la
linea telefonica. «La vostra roba» disse loro, indicando uno dei tascapane: «il
resto ce l’ha il caporale.» Poi rivolgendosi un po’ a tutti e al sergente in parti-
colare: «A che punto siete? Che ordini avete ricevuto?»
«Di tenerci pronti per le tre» disse il sergente «e adesso» alzò il polso con
l’orologio «mancano pochi minuti alle tre.»
«E siete pronti?»
«Sì, anzi lo siamo da mezz’ora. Per cui io, in attesa del vostro arrivo, ho or-
dinato a tutti di sdraiarsi per fare - come voi dite a volte - scorta di riposo; e
anche di caldo finché si può.»
«Una buona idea. E in che modo vi siete preparati?»
«Ho dato ordine di mettere nel tascapane tutte le munizioni da moschetto e
tutte le bombe a mano disponibili. Per il resto ciascuno faccia come crede.»
«Quanti colpi avete?» Si guardò intorno.
«Io quattro caricatori e tre bombe.» «Io sei caricatori e niente bombe.» «Io
tre e tre» dichiararono alcuni dei soldati.
«Dal magazzino non vi hanno distribuito altri caricatori?»
«Signornò.»
«E viveri?»
«Niente viveri.»
«Bene. Cioè male» si corresse il sottotenente. «Adesso vediamo subito cosa
si può avere.» Continuò a informarsi: «E gli ordini di distruzione?»
«Che distruzione?» mormorò più d’uno.
«Delle radio, per cominciare.»
«Non abbiamo ricevuto ordini» disse il sergente.
«Sta bene. Adesso vado dal maggiore a prendere gli ordini. Intanto voi di-
sponete fuori davanti al ricovero i cofani radio, il goniometro della seconda
pattuglia, i telefoni e il resto del materiale: tutto quello che vale qualcosa e che
quindi non deve finire in mano al nemico.» A queste parole il poco brusio ces-
sò, e i presenti guardarono turbati l’ufficiale.
«Beh?» fece costui: «Cosa c’è? Volete forse portarvi quella roba sulle spalle?
E allora? Dai, su di giri piuttosto.» Nel dir questo si sentiva egli stesso molto
più risoluto di quanto non fosse stato fino a quel momento, tanto il dare
esempio agli altri giovava anche a lui. «Ricordatevi che di ritirate ce ne sono
state in ogni guerra: se adesso tocca a noi, beh, è naia.» Poi si rivolse
all’attendente: «Paccoi, mentre vado dal maggiore vedi per favore di prepara-
re il mio tascapane: togli la roba inutile, e mettici l’anticongelante e... insom-
ma quello che può servire, ma senza riempirlo troppo. Poi fai un salto al ma-
gazzino e ti fai dare un moschetto e dieci caricatori per me.»
«Un moschetto?»
«E dieci caricatori.»
«Signorsì.» Paccoi appariva sconcertato. Anche gli altri soldati fissavano in
silenzio il loro comandante: da quando in qua un ufficiale d’artiglieria andava
armato di moschetto come quelli di fanteria?
“Stiamo per rimanere senza i cannoni, non vi rendete conto?” pensò Am-
brogio in risposta; ma forse era meglio scherzare: «Ah, Paccoi» disse, «dimen-
ticavo la cosa più importante: preparami anche un paio di mutandoni di lana,
che appena torno li infilo su quelli che ho già. Vuol dire che poi, se mi daranno
fastidio, potremo sempre usarli come manica a vento.»
I soldati sorrisero; nessuno però portò avanti lo scherzo come, più o meno a
proposito, sarebbe certamente avvenuto in circostanze normali.
Ambrogio fece segno al sergente: «Non dare l’attenti, che tanto torno qui
subito.» Si voltò, e seguito dallo stesso sottufficiale uscì dal ricovero.
Il freddo s’avventò subito loro addosso e li avvinghiò. Come tante altre volte
Ambrogio ebbe l’impressione di non potersi occupare d’altro finché fosse ri-
masto all’aperto - che della lotta contro il freddo. “Su, cerchiamo di pensare a
qualcosa di più allegro” s’impose, terreo. Mentre attraversava la radura diretto
alla baracca di legno (il sergente era uscito apposta per fargli presente: «Il
comando adesso è lì, in quella baracca«) lo sguardo gli corse agli automezzi
tra gli alberi. “Son sempre a quel punto” si disse: “neppure uno è partito.”
La stessa constatazione la stavano facendo i soldati già assembrati nella ra-
dura, e la stava facendo anche il maggiore comandante, in piedi davanti alla
baracca, con a lato l’anziano tenente aiutante maggiore Cavallo Stanco (che al
pari di lui non era stato ancora avvicendato), nonché il nuovo, giovanissimo
sottotenente topografo, appena giunto dall’Italia.
Questi due sorrisero ad Ambrogio, salutandolo con un cenno del capo; Am-
brogio si fermò di fronte al comandante, e gli fece il saluto regolamentare.
Il maggiore Casasco fissò su di lui due occhi assentì, sembrava riconoscerlo
appena: «Ah, Riva» disse: «E la fanteria?»
«A quest’ora dovrebbe avere tutta lasciata la linea. Quando sono venuto via
io, un’ora fa, le compagnie stavano incolonnandosi. Ho incontrato anche dei
reparti già in movimento.»
«Sì» annuì il maggiore, e tornò a guardare in direzione degli automezzi.
Conservava il suo abituale aspetto distinto; unico fra tutti, in luogo del corto
cappotto a pelliccia indossava un pastrano lungo di gabardina, da guarnigio-
ne; era però straordinariamente livido in faccia.
Ambrogio si rivolse a Cavallo Stanco il quale, come d’abitudine, per sentirlo
meglio obliquò la lunga testa e protese un orecchio verso di lui: «Per la distru-
zione del materiale che ordini ci sono?»
«Nessun ordine» gli rispose Cavallo Stanco e strabuzzò gli occhi, indicando
con la testa il maggiore a significare: “Sta attento, non ne vuol sapere”.
«Ma» disse Ambrogio «ma...» sia Cavallo Stanco che l’ufficiale topografo
accennarono ad allargare le braccia: “Cosa possiamo farci noi?” dopo un atti-
mo d’esitazione Ambrogio si rivolse direttamente al comandante: «Signor
maggiore.»
Il maggiore lo guardò con lo stesso sguardo assente di poco prima.
«Sto facendo riunire il materiale delle pattuglie: le radio, i goniometri, i te-
lefoni eccetera. Vorrei sapere se devo distruggerlo subito.»
«No» gli rispose con voce stranamente alterata il maggiore.
«Al momento di partire allora?» chiese Ambrogio perplesso, e: «Non devo
neppur dimenticare i due autocarri delle pattuglie: se non c’è benzina per bru-
ciarli, possiamo almeno sparargli nel motore.»
«Tu non farai niente di tutto questo« gli disse il maggiore aggressivamente.
Il giovane rimase a bocca aperta, il maggiore si volse con ira a Cavallo Stanco:
«Ancora questi discorsi?» chiese con bocca tremante d’eccitazione: «Forse
non mi sono spiegato in modo abbastanza chiaro, al riguardo?»
«Sì, certo» rispose Cavallo Stanco facendo il viso di circostanza: «e infatti
ho trasmesso l’ordine alle batterie, e a chiunque me l’ha chiesto ho ripetuto:
niente distruzioni. È solo che Riva era assente, stava all’osservatorio.»
Il maggiore Casasco tornò ad Ambrogio: «Se distruggiamo ogni cosa» disse
«cosa troveremo quando torneremo qui? Eh? Con che mezzi potremo tenere
la linea, in futuro?»
Ambrogio capì improvvisamente che il maggiore si rifiutava d’accettare la
realtà. Ne fu molto preoccupato: «Forse quello che ci sta succedendo» pensò,
«gli sconvolge il cervello... Sì, dev’essere così.” Ecco il perché della mimica di
Cavallo Stanco e di quell’altro. “Intanto, in una situazione come questa, ci vie-
ne a mancare il comandante!” Guardò interrogativo l’aiutante maggiore che
stavolta finse di non vedere il suo sguardo. Avvertì nuovamente il turbamento
nelle interiora, e in pari tempo provò un senso di pena, come di figlio di fronte
allo scempio del padre: allo stesso modo infatti che egli desiderava avere dai
propri subordinati oltre al rispetto umana comprensione, così la tributava
spontaneamente a ogni suo superiore che appena gliene sembrasse degno.
Dopo avere attesa - guardandolo diritto in faccia - una risposta, Casasco
s’era di nuovo come dimenticato di lui, ed era tornato a fissare gli occhi sugli
autocarri.
Dai quali si staccò, tentennando la testa, l’ufficiale competente di motori, e
mentre s’avvicinava fece alcuni grandi segni di no con la mano.
Il sottotenente topografo (napoletano, con un viso singolarmente classico in
cui il naso continuava il profilo della fronte, alla greca) si volse allora a Cavallo
Stanco: «Che facimm? (facciamo?) Non possiamo più aspettare» gli disse sot-
tovoce. Cavallo Stanco consultò il proprio orologio da polso: «Signor maggio-
re» disse «in base agli ordini il gruppo dovrebbe essere in marcia già da qual-
che minuto. Se permettete io do l’ordine d’incolonnamento.»
Il maggiore lo guardò in faccia senza parlare, poi tornò a interessarsi
all’ufficiale che veniva dagli automezzi.
«Forza» esclamò allora con voce risoluta Cavallo Stanco, rivolto al topogra-
fo e ad Ambrogio: «Voi incolonnate il reparto comando, che io telefono alle
batterie.» E volgendosi ai soldati: «Adunata!» gridò senz’altro, e ripeté urlan-
do: «Muoversi, muoversi, adunata.» Poi, dopo aver detto al maggiore: «Tele-
fono alle batterie e torno subito» entrò nella baracca comando.
Ambrogio raggiunse di corsa il ricovero delle sue pattuglie, vi entrò, ordinò
ai soldati di abbandonare il materiale dove stava, e di incolonnarsi subito. Poi
gridò a Paccoi: «Dai, passami le mutandone di lana» e cominciò a spogliarsi.
Uscì dal ricovero non molto dopo i soldati, col cappotto non ancora del tut-
to abbottonato, infilandosi ad armacollo il moschetto che l’attendente - già
bardato per la marcia - gli porgeva.
Nella radura i cinquanta uomini circa del reparto comando si stavano di-
sponendo per tre, squadra dietro squadra, secondo le prescrizioni dell’ufficiale
topografo, il quale - col giovanissimo viso classico contratto per l’impegno -
s’affacendava su e giù lungo lo spezzone di colonna. Intorno agli autocarri non
c’era più nessuno.
Ambrogio raggiunse l’aiutante maggiore che sulla porta della baracca - la
mansueta mascella equina spinta in avanti - stava adesso sorvegliando con un
occhio i preparativi di partenza.
«Ehi» fece a voce bassa.
«Sì?» gli rispose allo stesso modo Cavallo Stanco.
«So che non sarebbero domande da fare» disse Ambrogio «però, per avere
la benzina, visto che...» e indicò il maggiore «lui non sta bene, hai provato a
telefonare là dove si trovano materialmente i fusti, voglio dire al... come si
chiama? al deposito divisionale carburanti?»
L’aiutante maggiore tentennò il capo facendo segno di no: «Per parlare con
quel deposito bisogna passare per forza attraverso il centralino del comando
di divisione. Però alla divisione i telefoni suonano ma nessuno risponde. In
queste ultime due ore ho chiamato un sacco di volte, e più di noi ha chiamato
il comando di reggimento: tutto inutile. Sei soddisfatto?»
«Da...» disse Ambrogio: «Da due ore?»
«Esatto» rispose l’altro «e non chiedermi perché. Se il comando di divisione
ha già tagliata la corda o meno: io non lo so. Tutto quello che sappiamo è che
non c’è tempo da perdere, perché siamo sul punto d’essere accerchiati.»
Ambrogio restò muto.
«Ti basta?» gli chiese Cavallo Stanco; poi cambiò modi, tornò a sorridergli
con simpatia. «Guarda che su di te io faccio conto per cercar d’uscir fuori da
questo puttanaio: sempre che sia nell’ordine del possibile. Beh, tocchiamo fer-
ro.» Eseguì, sfiorando col guantone il calciolo della pistola. Si accostò quindi
al maggiore: «Posso dare l’ordine di partenza?» chiese.
Il maggiore annuì: «Sì, grazie» rispose. E a mezza voce: «Io prendo posto in
testa alla colonna.»
«Signorsì» disse l’aiutante maggiore; e alzando la voce: «Gli ufficiali in te-
sta al reparto col signor maggiore. Il sottotenente Riva chiude la colonna.
Avanti.»

CAPITOLO QUARTO

Il reparto comando s’avviò. Alla testa il maggiore Casasco con l’aiutante


maggiore e gli altri ufficiali, tre o quattro (tra cui - turbatissimo per dover ab-
bandonare insieme con l’autolettiga ogni attrezzatura chirurgica - il tenente
medico); seguivano i diversi nuclei di cui il comando si componeva, coi rispet-
tivi sottufficiali nei ranghi; ultime venivano le due pattuglie, e in coda alle pat-
tuglie il loro comandante Ambrogio. Ad eccezione del maggiore che indossava
come s’è detto il pastrano di gabardina, tutti indossavano il cappotto corto dal
collare rotondo, foderato di pelliccia di pecora; molti portavano sulle spalle
anche una coperta di lana, che contribuiva a difenderli dal freddo tormentoso.
Nel suo insieme la breve colonna risultava grigia e mediocre, mentre scarpi-
nava nel bosco in cui già annottava: in quella stagione infatti la luce diurna
durava solo otto ore, data l’ora legale dalle sette alle quindici. Ciascuno degli
uomini in movimento si chiedeva con apprensione quale sarebbe stato l’esito
di questa strana marcia senza più mezzi, e quale il suo personale destino; più
d’uno si prospettava lo strazio dei suoi familiari se... se...
Anche Ambrogio. Il quale, ricevuto l’ordine di chiudere la colonna, non ave-
va voluto accanto a sé neppure l’attendente Paccoi (che perciò si era sistemato
in coda alle pattuglie subito davanti a lui). Si accorse tuttavia dopo un po’, af-
fiorando dai suoi rimuginamenti, di avere al fianco, uno per lato, due artiglie-
ri.
«Beh, e voi?» chiese.
Si trattava di Mazzoleni e Piantanida, tutt’e due con la coperta sulle spalle,
tutt’e due con le sformate visiere delle bustine in posizione irregolarmente
orizzontale, e il risvolto posteriore non meno irregolarmente calato sulla nuca.
«Eh» sospirò Mazzoleni.
«Eh» sospirò Piantanida.
«Cosa formate? Repubblica a parte, voi due?»
«La repubblica dell’osservatorio?» propose conciliante Mazzoleni.
Ambrogio tentennò la testa; per un po’ procedettero in silenzio. La neve -
che con l’avvicinarsi della notte andava sensibilmente indurendosi - scricchio-
lava sotto le scarpe.
«Certo voi due» disse dopo un po’ l’ufficiale «partite svantaggiati, con quel-
le ore di scarpinata lungo la linea telefonica sul gobbo.»
«Eh» convenne Mazzoleni.
«Eh» disse Piantanida. «Anche voi però... Che naia eh, sciur tenent?»
In passato Ambrogio aveva in più d’una circostanza giudicato quei due sfa-
ticati ed egoisti, due ‘lavativi’; tali del resto erano considerati dai loro stessi
compagni. Ma ora vedendoli così, coinvolti in una vicenda tanto più grande di
loro, finivano con l’apparirgli sopratutto due ragazzi spaventati; e interessati
anche a lui in fin dei conti, visto che - sia pure contro gli ordini ricevuti - erano
rimasti indietro per stargli al fianco. “Siamo tutti nei guai fino al collo” realiz-
zò.
Piantanida parve intuire il suo pensiero: «L’è grisa eh, sciur tenent?» disse
con inflessione ‘bustocca’ (al pari di Mazzoleni era lombardo, e come lui della
piana dell’Olona).
L’ufficiale annuì.
«Boia d’un mund lader, boia d’un mund brutt!» mormorò Mazzoleni.

***

Allo schieramento delle batterie non rimanevano adesso che pochi cannoni
abbandonati nelle loro piazzole, tra le altre piazzole vuote. Sulla pista che
usciva dal bosco si era formata una discreta colonna di trattori con i pezzi al
traino, e di autocarri, gli uni e gli altri coi motori accesi, rumorosi; ogni mac-
china sprigionava vapore. A tergo della colonna motorizzata c’erano tre spez-
zoni di colonna a piedi, costituiti dagli uomini delle tre batterie che non ave-
vano potuto trovar posto sulle macchine in moto.
Giunto alla loro altezza il maggiore si arrestò; dietro di lui la breve colonna
del comando di gruppo fece ugualmente alt. A una chiamata dell’aiutante
maggiore: «Ufficiali a rapporto» subito riecheggiata qua e là, tutti gli ufficiali
delle batterie convennero di corsa, fermandosi in cerchio davanti al coman-
dante.
Questi tuttavia, dopo la ‘presentazione’ dei convenuti da parte del più eleva-
to in grado (il capitano della prima batteria) non prese la parola; si limitò a
fare un cenno all’aiutante maggiore che parlò in sua vece: «Vi riepilogo alla
svelta gli ordini del signor maggiore, che del resto vi ho già trasmesso per tele-
fono» disse. «Le formazioni a piedi devono seguire in buon ordine, e ciascuna
coi propri ufficiali alla testa, il reparto comando di gruppo. La colonna moto-
rizzata invece, sotto la guida» qui tentò per l’ultima volta: «del signor maggio-
re...»
«No» intervenne il maggiore, come corrucciato «io rimango con la truppa a
piedi.»
«Bene» riprese Cavallo Stanco, «la colonna motorizzata, al comando del si-
gnor capitano della prima batteria, precederà a passo d’uomo la truppa a pie-
di.» Si rivolse direttamente al capitano: «Come ho già comunicato, se per le
macchine un’andatura così lenta si dimostrerà insostenibile, o interverranno
altri motivi, la colonna motorizzata dovrà comunque raggiungere il borgo di
Mescoff.»
«È quello da cui parte la grande pista, diretta a sud» interloquì un ufficiale
della seconda batteria, che conosceva la località.
Cavallo Stanco, infastidito dall’intrusione, chiuse gli occhi e chinò la lunga
faccia verso terra; per un momento fu silenzio.
“Per essere un ragioniere di banca” pensò Ambrogio “non la fa poi male la
parte dell’organizzatore militare.”
Cavallo Stanco rialzò la testa e guardò in aria: «Le macchine» riprese «de-
vono comunque raggiungere il paese di Mescoff - sono circa sessanta chilome-
tri da qui: ricordatevi il nome, Mescoff, Mescoff - là le macchine sosteranno in
un punto adatto, al margine sud del paese, ripeto: al margine sud, in attesa di
noi che arriveremo a piedi. Per il momento è tutto. Qualche richiesta di chia-
rimenti?» Non ci furono richieste, ma una postilla sì: «Sosteranno a Mescoff
le macchine che hanno abbastanza benzina per arrivarci» puntualizzò infatti,
con sgradevole realismo, il capitano della prima batteria che avrebbe coman-
data la colonna motorizzata «cioè molto poche.» Fece una pausa: «Bene, pos-
siamo andare?»
L’aiutante maggiore guardò interrogativo il maggiore, che annuì. Il capitano
allora diede l’attenti e ‘presentò’ nuovamente gli ufficiali al comandante, che
ordinò sottovoce: «In libertà.» Pur avvertendone l’ironia, il capitano ripete
con voce chiara l’ordine: «In libertà.» Tutti gli ufficiali s’irrigidirono nel saluto
alzando la destra alla bustina, quindi tornarono di corsa ai loro posti. Lo spez-
zone di colonna del comando si trasferì davanti a quelli delle tre batterie; dopo
di che macchine e uomini si misero in marcia.

II

CAPITOLO QUINTO

Non si trattava d’una difficoltà limitata a un ristretto settore: era l’intero


fronte sud che andava a pezzi. Circa quaranta chilometri a sinistra della Pasu-
bio, la divisione di Ambrogio, il nemico aveva tre giorni prima effettivamente
sfondato il fronte della divisione Ravenna davanti a Boguciar, e stava venendo
avanti con due armate (la Prima corazzata, su tredici brigate per complessivi
settecentocinquantaquattro carri, e la Sesta di fanteria, su dieci divisioni ordi-
narie e quattro brigate motorizzate). Queste immense forze stavano ora mar-
ciando in direzione sud-est a tergo dello schieramento italiano, per congiun-
gersi con altre imponenti forze russe che venivano loro incontro da est, dopo
avere aperto grossi varchi nel fronte della Terza armata romena.
Per evitare l’accerchiamento abbandonavano perciò il Don e si dirigevano
verso l’unica grande pista ancora libera - quella appunto di Mescoff - tutte le
divisioni comprese tra le due ganasce della tenaglia russa, cioè, elencandole da
a
sinistra, la 298 divisione tedesca, la Pasubio, la Torino, la Celere di bersaglie-
ri, e infine, più a est di tutte, la divisione Sforzesca che i soldati italiani in Rus-
sia seguitavano a chiamare ‘Cicai’, cioè ‘Scappa via’, per il suo improvviso ce-
dimento nel mese d’agosto. Adesso però, a quanto pareva, anche le altre divi-
sioni sopra nominate stavano diventando tutte ‘Cicai’.
Al di là della Sforzesca, tra gli italiani e Stalingrado, rimanevano in linea
pochi resti della Terza armata romena, che seguitava a lottare nel duplice, di-
sperato tentativo di chiudere gli sfondamenti operati dal nemico nel suo fron-
te, e di opporsi verso destra e sul tergo alle sterminate masse nemiche, coraz-
zate e no, che lasciatasi indietro Stalingrado accerchiata, tentavano - contenu-
te a stento da forze corazzate tedesche - di dilagare verso occidente: dunque
anche verso la Romania. Consci dell’orrore che minacciava la loro patria, i
romeni - pur essendo male armati - combattevano con tenacia e disperazione,
e con uno straordinario valore, del quale non sarebbe rimasto poi neppure il
ricordo.

***

Particolare era la situazione della divisione Celere, schierata proprio davan-


ti al borgo di Mescoff, dov’era insediato il suo comando.
Nei giorni precedenti questa snella divisione di bersaglieri era stata molto
provata dalla pressione dell’avversario che - mentre a ovest seguitava a rove-
sciare forze attraverso il varco aperto a Boguciar - qui aveva cominciato a
premere frontalmente, con l’intento di raggiungere lui pure il nodo stradale di
Mescoff, sul quale una parte delle forze entrate da Boguciar stava, con mano-
vra aggirante, convergendo.
Sebbene fosse d’effettivi più ridotti e meno pesantemente armata delle altre
divisioni, facendo assegnamento sul suo valore alla Celere era stato affidato -
come s’è detto - un fronte di oltre cinquanta chilometri, assai più ampio cioè
di quelli già eccessivamente estesi delle altre. Su un segmento di tale fronte
tenuto da tre compagnie del Sesto reggimento e da una compagnia del Terzo
(il reggimento di Stefano), nell’alba gelidissima del 17 dicembre un’intera divi-
sione russa - preceduta e circondata da nubi chimiche di mascheramento -
aveva cominciato a premere a mo’ d’ottuso cuneo. La sproporzione tra le forze
in campo (tre reggimenti contro quattro compagnie) era grande, pure i russi
non erano riusciti, in tre giorni, a spezzare il fronte dei bersaglieri. Il Terzo
non aveva ceduta una sola trincea: la testa del cuneo nemico era pur sempre
costituita d’esseri fatti di carne, e il fuoco dei mitragliatori italiani, per quanto
radi, aveva trafitta quella carne e, sia pure molto a stento, arrestato l’enorme
mostro che cercava d’avanzare circondato dalle nubi chimiche. Un numero via
via crescente di compagnie del Sesto invece - sotto la pressione tremenda - era
dovuto ripiegare, ma almeno sul principio l’aveva fatto con lentezza e contrat-
taccando di continuo, cosicché anche qui in due giorni i russi erano venuti
avanti soltanto d’una decina di chilometri; nel pomeriggio del 19, quando ebbe
inizio la ritirata generale, Mescoff, se pure insidiata, era sempre in mani ita-
liane.
Appunto nel pomeriggio di quel giorno il comando di divisione aveva ordi-
nato al Terzo bersaglieri di arretrare - una volta sceso il buio - di una decina di
chilometri, ossia fino all’altezza del Sesto, e di prendere posizione dentro e
intorno al villaggio di Calmicov, a difesa delle strade che da nord-ovest condu-
cevano a Mescoff. Per il giorno successivo era previsto un secondo arretra-
mento di entrambi i reggimenti fin davanti al borgo, per contribuire alla difesa
del quale i lontani comandi avevano intanto inviata d’urgenza anche una for-
mazione scelta di SS, il ‘gruppo Schuldt’ subito schieratosi davanti a Mescoff.

***

Nel borgo si trovava, riunito presso il comando di divisione, l’intero auto-


parco divisionale; il carburante non mancava. Perciò, sempre il giorno 19, in
previsione dell’enorme afflusso di automezzi delle altre divisioni, il comando
della Celere aveva ordinato al suddetto autoparco di trasferirsi in una località
più a sud. Si era formata una colonna di oltre seicento macchine: autocarri,
trattori, autocarrette, mezzi speciali che, imboccata la ‘grande pista’, aveva
iniziato in buon ordine il trasferimento. Improvvisamente però, durante una
sosta nei pressi del paese di Verciacovschi, la colonna era stata sorpresa da
una grande formazione di carri russi provenienti dal varco di Boguciar. Velo-
cemente i carri avevano tagliata la pista davanti e alle spalle della colonna,
mentre il grosso le si era buttato sopra facendo fuoco con tutte le armi di bor-
do. Senza cessar di sparare i carri avevano via via rovesciato o schiacciato al
suolo gli automezzi, ch'erano apparsi sorprendentemente piccoli e fragili al
loro confronto; qua e là qualche carro insisteva con ferocia a stritolare
l’automezzo che teneva sotto i cingoli, voltandosi in modo alterno verso destra
e verso sinistra, verso destra e verso sinistra: se tra la ferraglia c’erano corpi
umani, venivano da tale movimento ridotti a poltiglia. Per difendersi gli autisti
italiani non disponevano che di pistole e moschetti: perciò più d’uno aveva
tentato di fuggire lanciando la macchina fuori pista, ma s’era impelagato nella
neve vergine con le ruote che giravano follemente a vuoto; altri, scesi a terra,
avevano tentato di fuggire a piedi, inseguiti sulla neve dalle raffiche delle mi-
tragliatrici nemiche; altri ancora, defilandosi dietro gli automezzi, avevano
ripetutamente fatto fuoco coi loro moschetti cercando d’imboccare le feritoie,
finché erano stati travolti; alcuni infine - ricordandosi d’essere bersaglieri -
s’erano buttati di corsa, a corpo perduto, contro i carri nemici impugnando
bombe a mano, con l’intento d’infilarle nelle feritoie, ed erano stati investiti
dalle vampate dei lanciafiamme, o segati dalle raffiche delle mitragliatrici, che
contro costoro in particolare avevano concentrato il fuoco.
Nel giro di sei o sette minuti la grande colonna era stata annientata: appena
una decima parte dei suoi seicento automezzi s’era potuta sottrarre alla di-
struzione, nascondendosi tra le casupole di paglia di Verciacovschi, o trovando
scampo su alcune piccole piste secondarie.
La notizia di questo disastro era - nel pomeriggio di quell’infausto giorno 19
- da poco arrivata al comando di divisione, che ve ne giunse un’altra non meno
allarmante: la spinta delle fanterie russe contro il Sesto reggimento era tal-
mente cresciuta nelle ultime ore da essere incontenibile: si erano verificate in
più punti grosse infiltrazioni.
Le due gravi notizie dovevano essere giunte anche ai militi del gruppo SS
Schuldt i quali, dopo averle soppesate, lasciarono senza nemmeno avvertire gli
italiani il fronte davanti a Mescoff e, incolonnatisi, se ne andarono. Era ormai
sceso il buio, già le colonne in ritirata delle altre divisioni stavano marciando
verso il borgo. In gara col tempo il comando della Celere fece avvertire, attra-
verso i comandi superiori, chiunque fosse ancora nella possibilità di ricevere
la comunicazione, che Mescoff veniva abbandonata e che la ‘grande pista’ era
percorsa da formazioni di carri nemici. Contemporaneamente diede ordine al
Sesto reggimento, ormai ridotto in tronconi, di rompere il contatto coi russi e
di ripiegare su Caseari, sessanta chilometri a sud di Mescoff; lo stesso ordine
tentò di dare anche al Terzo, senza però riuscirvi in quanto tutti i collegamenti
con questo reggimento si erano nel frattempo interrotti.

CAPITOLO SESTO

Così mentre le altre divisioni - e da poco anche il resto della Celere -erano in
frenetico ripiegamento, la notte tra il 19 e il 20 il Terzo reggimento se ne stava
attestato a Calmicov. Vi era giunto a tarda sera, dopo avere lasciato con calma
le sue trincee sul Don. Fidando nel proprio valore i bersaglieri avevano imba-
stito tutt’attorno a questo villaggio silenzioso, embrioni di linea e trincee di
neve, in cui avevano piazzato un certo numero di armi automatiche, cannon-
cini anticarro, e qualche mortaio. Accanto alle armi si erano nel freddo mici-
diale sistemati di vedetta o all’addiaccio gli uomini delle compagnie incaricate
di vigilare; tutti gli altri si erano stipati nelle case e nelle stalle del villaggio,
riempiendole all'inverosimile, o si erano ammassati contro i loro muri esterni
per cercar di dormire.
Insieme al Terzo bersaglieri era affluita a Calmicov anche la ‘Legione croa-
ta’, unità composta da nazionalisti ustascia in divisa fascista. A questi uomini
in realtà del fascismo niente importava: avevano a cuore soltanto la loro patria
croata, che intendevano col loro gioco d’alleanze conservare indipendente dai
serbi. Il comando del Terzo gli aveva assegnato una parte del villaggio e un
settore da difendere; le loro posizioni si potevano distinguere da quelle degli
italiani per i molti fuochi accesi nella neve.

***

Il plotone di Stefano si era per metà stipato in un’isba, insieme a soldati di


altri plotoni, e per metà sistemato all’addiaccio fuori; era inteso che dopo
quattro ore le due metà si sarebbero date il cambio.
Il sottotenente Acciati s’era sdraiato sulla neve tra gli uomini rimasti
all’aperto; in un freddo demenziale come quello egli non tentava neppure di
dormire: allungato su un telo tenda con l’elmetto in testa, il lungo viso irrego-
lare quasi del tutto coperto dal passamontagna (solo gli occhi rimanevano li-
beri), il bavero tondo del cappotto alzato contro il bordo posteriore
dell’elmetto, le mani coperte dai guantoni infilate nelle tasche, un po’ intonti-
to, lasciava vagare pigramente il pensiero. Finora alla sua compagnia era an-
data abbastanza bene. Non era stata direttamente impegnata dall’attacco rus-
so di due... no, di quanti giorni prima? Sì, di due... due giorni prima. E nean-
che dopo, quando il Terzo reggimento aveva sferrato ripetuti assalti sul fianco
destro dei russi che, come in un braccio di ferro, costringevano poco alla volta
il Sesto a ripiegare (e - egli l’ignorava - a sgretolarsi), neanche allora la sua
compagnia era stata chiamata direttamente in causa. “Fin adesso ci è andata
bene, poco da dire.” Certo chissà cos’aveva in serbo il futuro... ma non era
questo il momento di pensarci. “Tanto a cosa servirebbe? Vuol dire che quan-
do i guai arriveranno ce li sgrugneremo. Del resto è già sufficiente per ora do-
verci sgrugnare questo freddo da bestie. Fortuna che almeno una metà della
notte la passerò nella casa al caldo...” Il caldo! Era qualcosa d’attraente quanto
la vita stessa, di indicibilmente vitale. Pochi se ne rendono conto nei giorni
normali. Gli tornava alla mente il suo ricovero riscaldato in riva al Don, che
non molte ore prima aveva dovuto abbandonare. “Beh, basta. È inutile pen-
sarci. Pensa all’Italia piuttosto, ai tempi buoni che dovranno pur tornare, a
Torino.” Torino, già, come diceva quel tale? ‘La città favorevole ai piaceri’. La
sua Torino gli venne incontro, non però by night, bensì estiva, calda, coi viali
alberati pieni di sole. “Torino è la città del sole” pensò paradossalmente Accia-
ti. Del resto, se confrontata con questi posti... Anche nella facoltà di chimica
all’università - da lui frequentata solo per pochi mesi - c’era sempre il sole: un
sole, egli ricordava, a non finire, che entrava fin dentro le aule e sotto le loro
finestre inondava caldo le cime degli alberi.

***

A qualche metro da lui, oltre la parete dell’isba, Stefano dormiva sul pavi-
mento, pressato dagli altri che vi stavano stipatissimi. Dopo essersi sdraiato si
era fatto, come ogni sera prima di dormire, il segno della croce (nonostante la
difficoltà, in quella ressa, di muovere il braccio), poi, essendo molto stanco,
aveva dette le preghiere ‘corte’, ossia un requiem per i morti di quei giorni, e
un angele Dei per sé. Il fatto di pregare gli aveva automaticamente riportato
alla mente la soave figura di sua madre, quasi che tra la preghiera e sua madre
ci fosse un nesso inscindibile: e infatti c’era, in un certo senso era proprio così.
Mah! Chissà cosa stava facendo in questo momento la mamm Lusìa, là alla
Nomanella, oltre le immense pianure di neve, che ad attraversarle occorreva
un’intera settimana di treno... Beh, a quest’ora senza dubbio dormiva. Parve al
giovane di vederne gli occhi marroni aprirsi nel buio della camera nuziale, e
guardarlo con bontà e stanchezza: «Dormi anche tu Stefano: hai dette le ora-
zioni, bravo, adesso dormi; lo sai che tra poche ore devi tornare fuori.» Sua
madre! Dopo aver tentennata la testa con muta tenerezza, Stefano aveva mes-
so in pratica l’immaginato consiglio materno, addormentandosi in breve.
Tutti dentro l’isba - i bersaglieri, e anche i pochi spauriti abitatori russi - si
erano addormentati, e ora erano avvolti nel sonno come in un coltrone di
straordinaria pesantezza; l’aria era piena dei loro respiri; dallo sportello non
ben chiuso di una grande stufa in muratura si spandeva un po’ di luce rossa-
stra, ondeggiante, e un borbottio pacato.
Anche fuori, tra quelli sdraiati all’aperto nel gelo orribile, alcuni avevano fi-
nito con l’addormentarsi. Non però il sottotenente Acciati, il quale sempre
steso sul telo tenda attendeva che quelle ore tormentose trascorressero, e arri-
vasse finalmente il suo turno d’entrare in casa. Ogni tanto socchiudeva gli oc-
chi, e un paio di volte gli parve di notare laggiù lontano, in direzione di est, dei
riverberi di luce sulla neve: evidentemente i russi non dormivano, si davano
da fare. Ma che diavolo stavano facendo? Tese per un po’ l’orecchio e rimase
in ascolto, ma non gli riuscì di percepire, nel silenzio spaventosamente gelido,
alcun suono. “Del resto non è affar mio” rifletté quasi con soddisfazione, tor-
nando a rilassarsi. “Ci sono quelli di servizio, le vedette e gli altri di guardia:
vigilare tocca a loro.”
Si adoperò per riportare la mente su qualcosa di pacifico, di non stimolante:
ancora Torino e il sole, se possibile. Poco alla volta ci riuscì, la sua mente en-
trò di nuovo in una sorta di dormiveglia: tormentoso certo, a causa del freddo
che non gli concedeva requie, tuttavia non del tutto cosciente. Le ore trascor-
revano lentissime.

CAPITOLO SETTIMO

A un tratto il sottotenente si sentì scuotere una spalla. «Eh, cosa?» bofon-


chiò spalancando gli occhi. Vide la faccia del suo capitano china su di lui.
«Acciati alzati» gli disse a mezza voce il capitano.
«Sì, certo.» Il giovane si levò con energia a sedere, quindi in piedi, facendo
scricchiolare il cappotto ghiacciato in più punti; mentre si rassettava un po’
guardando interrogativo il superiore, prese a ginnasticare dentro i guantoni le
dita intirizzite; provava anche un gran bisogno di battere i piedi sulla neve.
«Peccato tu non le abbia passate nella casa queste poche ore» osservò il ca-
pitano.
«Beh» fece il sottotenente: «Il mio turno verrà poi. Anche voi del resto...»
«No, è un peccato, perché adesso tu devi uscire di pattuglia.»
«Ah.»
«Prendi subito cinque o sei dei tuoi e seguimi al comando di reggimento.»
«Signorsì.»
«Vuoi che ti aiuti?»
«No, non occorre.»
Il sottotenente si diresse alla porta dell’isba e la spinse per aprirla. Come
s’aspettava incontrò resistenza: dall’altra parte c’era gente che dormiva sul
pavimento fin contro la porta. Cominciò allora a spingere con forza, con en-
trambe le mani, puntando i piedi, e ogni tanto chiamava a mezza voce: «Bella-
zzi. Sergente Bellazzi.»
Di là finalmente Bellazzi rispose: «Sì, signor tenente?»
«Cerchiamo per prima cosa di aprire la porta.»
«Schifosa malora! È già arrivato il momento del cambio? Subito.» Dopo un
po’ Acciati fu dentro l’isba. Il sergente Bellazzi davanti a lui, coi capelli a spun-
toni e gli occhi impastati, accese un cerino e lo alzò, a illuminare l’interno:
tranne pochi vicino alla porta, che s’erano messi a sedere - e alcuni impreca-
vano ancora e bestemmiavano - tutti gli altri giacevano pressati sul pavimento
e continuavano a dormire; il cerino si spense subito.
«È già l’ora del cambio?» tornò a chiedere Bellazzi.
«No, almeno non credo. Ma non è questione. Però fammi controllare: ac-
cendi per favore un altro cerino» disse il sottotenente, e intanto scoprì il polso
sinistro quanto bastava per leggere l’ora. Bellazzi accese un secondo cerino e
gliel’accostò al polso.
«Quasi le due» disse Acciati. Guardò meglio: «Sì, quasi le due. Al cambio
manca un’ora. Senti, lascia dormire gli altri e fai alzare cinque della tua squa-
dra; dobbiamo uscire di pattuglia. Che non manchino Giovenzana e quello
sveltone coi baffi.»
«Biondolillo? Signorsì.»
«Dai, che intanto ti faccio luce io.» L’ufficiale trasse di tasca il proprio ac-
cendino e ne fece scattare il congegno: si sviluppò una fiammella gialla, che
durò una decina di secondi, sufficienti perché il sergente Bellazzi svegliasse e
facesse alzare alcuni degli uomini. Per trovare i rimanenti egli si aiutò coi suoi
cerini. Infine: «Signor tenente, ci siamo tutti» annunciò.
«Allora andiamo.» Acciati precedette all’aperto il piccolo gruppo.
Una volta fuori - mentre alcuni dei soldati che si trovavano all’esterno si
precipitavano dentro la casa a occupare il posto libero - fece allineare i pre-
scelti. Li vide rabbrividire, aggrediti dal freddo atroce; controllò con poche
occhiate l’armamento di ciascuno; gli risultò così che gli uomini usciti dall’isba
dietro a Bellazzi, non erano cinque ma sei: senza pronunciare una parola s’era
infatti aggiunto agli altri il suo attendente Polito.
«Polito» esclamò Acciati lanciandogli nel buio un’occhiata che voleva essere
di disapprovazione: «Chi t’ha chiamato? Cosa ci fai qui?»
«Chi, io?» disse Polito, e non aggiunse altro; stava lì dignitoso e pieno di
freddo, da quel contadino sempliciotto che era.
Acciati fu sfiorato dalla sensazione di trovarsi di fronte a un gesto molto
nobile. «Che ti venga la pepita, Polito!» concluse.
Terminata ch’egli ebbe la breve ispezione, il capitano s’avviò dicendo: «Su,
affrettiamoci.» La pattuglia gli tenne dietro, con Acciati alla testa e Bellazzi
ultimo.
Il comando di reggimento era in un’isba al centro del villaggio: i due ufficia-
li vi entrarono, mentre tutti gli altri rimanevano fuori in attesa.
A un tavolo sedeva l’aiutante maggiore in prima, un capitano dai capelli gri-
gio argento, che fumava meditabondo; in un angolo, allungato su un materas-
so, qualcuno dormiva al riparo d’un telo tenda che, sospeso a una funicella,
faceva in qualche modo da parete: Acciati si domandò se si trattasse del co-
lonnello comandante.
«Ecco, giusto tu» lo ricevette a bassa voce l’aiutante maggiore appena lo vi-
de; il giovane accostò istintivamente i tacchi. «Ssst» l’avvertì l’altro, facendogli
in pari tempo segno d’avvicinarsi con le dita tra cui era infilata la sigaretta:
«Vieni qui, cerchiamo di non disturbare il capo che domani avrà il suo da fa-
re.»
Acciati guardò di nuovo in direzione del dormiente: ne vedeva solo i piedi,
coperti da calzettoni grigi; “L’avrà sì il suo da fare, domani” pensò, e tornando
con gli occhi all’aiutante maggiore: “Meno male che qui ci sei anche tu, vec-
chiotto mio.” A differenza dell’aiutante maggiore infatti il colonnello coman-
dante era nuovo: era arrivato dall’Italia tre giorni prima alla guida dell’ultima
tradotta di complementi, ed era stato trattenuto provvisoriamente al fronte
perché il precedente comandante era rimasto ferito. Si diceva che anche que-
sto fosse un buon comandante, però per forza di cose era un novellino. Come
erano novellini molti dei bersaglieri degli altri battaglioni: “Non quelli del no-
no, per fortuna” rifletté Acciati. Il nono era, come sappiamo, il suo battaglio-
ne.
«Beh?» gli chiese l’aiutante maggiore: «Ti fa effetto il caldo?»
Acciati negò sorridendo.
Sul tavolo era spiegata una carta topografica. «Osserva qui» disse sempre a
bassa voce l’altro: «le vedi queste due strade a est di Calmicov?» S’interruppe:
«Calmicov è il paese in cui ci troviamo, lo sai, no?»
«Eh!» gli rispose Acciati.
«Ecco» proseguì l’aiutante maggiore: «su queste due strade a est... Osserva-
le bene: questa qui, la più vicina, è a circa quattro chilometri in linea d’aria dal
paese, vedi? e questa intorno a sei o sette. Beh pare che in questa zona ci sia
del movimento. Il quale, se realmente c’è, non potrebbe essere che nemico.»
“Quegli aloni luminosi che ho visto anch’io” pensò Acciati, senza però interfe-
rire.
L’aiutante maggiore continuava: «Le vedette, specie quelle che stanno qui,
nel settore est, ogni tanto notano delle luci: suppongo si tratti di fari
d’automezzi. Come che sia il vostro compito è d’andare a controllare. Dovete
rendervi conto di cosa realmente si tratta: se di autocarri, o di... qualcosa di
meno allegro.»
«Carri armati volete dire?»
L’aiutante maggiore dai capelli brizzolati annuì, guardò in direzione del co-
lonnello, tirò un lungo sorso dalla sigaretta e abbassò un poco il tono della
voce: «Esatto, autocarri o carri» disse mentre il fumo gli filtrava dalla bocca.
«Dobbiamo in ogni caso cercar d’avere un’idea del numero, della quantità. E
se c’è anche truppa a piedi, e se è molta. Mi sono spiegato?»
«Signorsì.»
«Vostro compito è di raggiungere la prima strada e in seguito, se ne avrete il
tempo, d’avvicinarvi alla seconda. Non dico di raggiungere anche quella, per-
ché dovete esser qui di ritorno prima della luce. Potreste però arrivare a dare
anche alla seconda strada un’occhiata da lontano. Beh, cercherai tu di fare al
meglio.»
«Signorsì.»
«Sta bene attento: in quest’altra direzione, verso sud, vedi? qui, lungo la
strada per Mescoff - che noi dovremo percorrere domani - è appena uscita una
pattuglia croata con l’incarico d’esplorarla. Voi che andate verso est non do-
vreste incontrarla: comunque è bene lo sappiate; sono anche loro sette o otto
uomini.»
Acciati annuì; s’era abbassata fin sotto il mento la parte inferiore del pas-
samontagna, scoprendo del tutto il volto ovale, irregolare e simpatico.
«La parola d’ordine» intervenne a questo punto il capitano comandante di
compagnia, con voce sul principio troppo alta, tanto che gli altri due guarda-
rono istintivamente in direzione del colonnello: «è ‘Milano’, la controparola
‘Corso Italia’.»
«Milano, corso Italia» ripeté Acciati: «l’indirizzo della nostra caserma.»
«Così lo ricorderete senza fatica» disse il capitano comandante.
«Hai la bussola?» chiese l’aiutante maggiore.
«Sì.» Acciati se la tolse addirittura di tasca e la mostrò.
«Bene» fece quello; consultò il proprio orologio: «Sono le due: avete due
ore per andare, una per curiosare, altre due per tornare: dovete essere qui
prima della luce ripeto, cioè prima delle sette.
Se no, a parte il pericolo per voi, la vostra esplorazione non servirà proprio
a niente, è chiaro? Perché il reggimento non vi aspetterà.» Fece un gesto di
congedo con la mano: «Sotto, datti da fare.» Poi fece immediatamente segno
d’aspettare ancora, si volse al comandante di compagnia: «Per quel fuoco,
quel falò di cui parlava il signor colonnello, resta inteso che provvederai tu.»
«D’accordo.»
«Allora andate, ciao.»
«Ciao.»
«Agli ordini.»
I due ufficiali uscirono nel gelo atroce. «Vi accompagno fino alla linea» dis-
se il capitano.
Acciati, che teneva ancora la bussola nel cavo della mano, e prima d’uscire -
approfittando della luce del comando - l’aveva consultata, si mise alla testa
della pattuglia e s’avviò. Il capitano s’incamminò al suo fianco.
Dovunque intorno alle case e lungo i muretti a secco coperti di neve che di-
videvano gli orti c’erano sagome scure di uomini all’addiaccio; neppure uno
alzò la testa verso di loro che passavano: chi non era riuscito ad addormentar-
si, era troppo preso dalla lotta estenuante col freddo per curarsi d’altro. Arri-
varono, oltre le ultime isbe, alle trincee di neve: qui alcuni bersaglieri vigila-
vano in piedi, altri seduti sulle cassette di munizioni o nella neve, altri ancora
raggomitolati contro qualche appoggio con le mani guantate in tasca o strette
sotto le ascelle, tutti con l’elmetto piumato e incrostato di galaverna in testa;
fu necessario scambiare un paio di volte la parola d’ordine.
«Da queste parti c’è un grosso pagliaio» ripeteva il capitano: «dovrebbe
trovarsi più o meno là, verso sinistra», finché lo individuarono, una sagoma
scura lunga forse venti metri, oltre le trincee. Il capitano si arrestò e lo indicò
a tutti. «Lo vedete quel pagliaio? Vedete bene dov’è? Beh alle sei, cioè tra
quattro ore, noi gli daremo fuoco. Per aiutarvi, se per caso ne avrete bisogno, a
ritrovare la strada che porta qui. È tutto chiaro?»
«Signorsì» risposero alcune voci.
«Alle sei ho detto. Allora in bocca al lupo e in gamba.» Il capitano strinse la
mano ad Acciati. «Ricordati» lo avvertì, parlando di proposito a voce alta da-
vanti ai soldati: «dovete a ogni costo evitare d’attaccar briga. A noi che impor-
ta è avere informazioni, non è ridurre il numero dei russi di qualche unità.»
«D’accordo» gli rispose Acciati, grato per la premura che il superiore si da-
va di fornirgli in anticipo eventuali giustificazioni alla prudenza.
Era, il capitano, un bel ragazzo di complessione atletica, sui trentanni, di
statura alquanto inferiore a quella del sottotenente, con le spalle quadrate:
trattenne un istante la destra di lui nella propria, come per trasfondergli fer-
mezza.
«Vi porteremo le informazioni, non dubitate» disse Acciati. E dopo averlo
salutato militarmente, rivolto alla squadra: «La parola d’ordine, l’avete già
sentita, è ‘Milano’, controparola ‘Corso Italia’. Capito? Milano, corso Italia:
tenetelo bene a mente. Forza, andiamo» e s’avviò.
«Parola d’ordine ‘Milano, corso Italia 56, seconda camerata’» ripeté alle sue
spalle l’attendente Polito, tutto d’un. fiato.
«Tenetelo bene a mente, perché è l’indirizzo di un casino» incalzò Biondo-
lillo il baffuto, che marciava con attorno al collo, a mo’ di sciarpa, la fascia
ventriera d’ordinanza.
Qualcuno ridacchiò.
«Squadra del fil di ferro» mugugnò invece con disapprovazione il sergente
Bellazzi, ispido in coda alla fila. A lui non piaceva che si scherzasse con
l’indirizzo del reggimento: gli sembrava una cosa fuori posto, come scherzare
con la bandiera.

Lasciatesi indietro le ultime vedette - le più avanzate - gli otto uomini pro-
gredirono lungo una pista di neve battuta che si snodava verso est. Ci fu anco-
ra qualche motteggio, infine nessuno parlò più; si udiva solo lo stridio ritmico
delle loro scarpe sulla neve ghiacciata.

CAPITOLO OTTAVO

Il terreno - che tutt’intorno a Calmicov formava una conca - andò presto fa-
cendosi accidentato; la pista attraversò alcuni boschi spogli, tenebrosi mal-
grado il bianco rivestimento di brina; qua e là negli avvallamenti
s’intravedevano banchi di nebbia immobile, morta. Nei punti più elevati l’uno
o l’altro degli uomini guardava istintivamente indietro: da principio il villaggio
era individuabile per i fuochi dei croati, i quali però ben presto impiccolirono
fino a scomparire del tutto. Poiché non si vedevano le stelle Acciati adottò il
sistema di fermarsi ogni quarto d’ora circa per controllare la direzione sulla
bussola. Polito sapeva come illuminare sveltamente il minuscolo quadrante
con un cerino schermato dalle mani; a tal fine si sfilava ogni volta i guantoni
di tela impermeabile foderati di flanella, lasciandoli pendere da uno spago che
gli girava dietro il collo (i bersaglieri avevano imparato a portare in quel modo
i guantoni dai tedeschi): istantaneamente aveva la sensazione che le mani nu-
de gli si congelassero; perciò, appena terminata la lettura della bussola infila-
va in fretta le mani nelle tasche dei calzoni, vicino al corpo, al caldo, perché vi
si ristabilisse la circolazione del sangue; solo in seguito le reinfilava nei guan-
toni.
Stefano camminava a metà pattuglia: anche a lui come a Bellazzi, se pure
non per lo stesso motivo, aveva dato fastidio la battuta di Biondolillo all’uscir
dalle linee: «Tenetelo a mente perché è l’indirizzo d’un casino.» Si era detto
che sempre, ma specialmente quando si sta affrontando la morte, è bene avere
nella bocca e nella mente soltanto ‘cose pulite’ secondo s’esprimeva don Mario
là a Nomana. Il giovane - sebbene fosse al pari degli altri terribilmente teso -
non aveva propriamente paura; questa missione certo era rischiosissima, ed
egli se ne rendeva conto: non era però, tutto considerato, più rischiosa di altre
che erano sembrate quasi impossibili e ciononostante erano state portate feli-
cemente a termine. Inoltre egli aveva fiducia in Acciati, nutriva per l’ufficiale
quella fiducia illimitata, simile per certi aspetti alla fede, che non di raro i sol-
dati dei reparti scelti hanno nel proprio comandante quando questi è un buon
comandante. Bisogna anche dire che le precedenti ore di sonno nell’isba
l’avevano ritemprato: si sentiva fisicamente bene, caldo in tutto il corpo; il
freddo tremendo che lo assaliva da ogni parte non riusciva a intaccarlo.
Malgrado non avesse dormito per tutta la notte, Acciati avanzava con passo
spedito, tirandosi dietro la pattuglia. Sul principio la sua maggior preoccupa-
zione era che il nemico avesse spinto in direzione di Calmicov qualche nucleo
esplorante, magari un pattuglione, nel quale sarebbero potuti incappare senza
accorgersi: scrutava perciò il buio davanti a sé, e tendeva l’orecchio, ma senza
fermarsi ad ascoltare meglio perché il tempo a disposizione non glielo consen-
tiva. Dopo forse tre quarti d’ora di scarpinata egli si ritrovò a un bivio che lo
lasciò interdetto; esaminò con cura la bussola: il tronco principale della pista
volgeva inspiegabilmente verso sud-est, dunque grosso modo verso Mescoff,
mentre nella precedente direzione di est proseguiva una pista minore, poco
più d’un sentiero di neve non ben calpestata, percorribile soltanto in fila in-
diana: questa sembrava dirigersi verso una dorsale informe che chiudeva
l’orizzonte.
«Mi spiace» concluse l’ufficiale, dopo avere riflettuto un poco: «ma noi
dobbiamo continuare diritti.»
«Noi tireremo diritto» disse, rifacendo il verso a Mussolini, il suo attenden-
te Polito che, spento il cerino, s’era già infilate le mani in tasca.
Acciati girò la testa: «Tu ti diverti, eh?»
«Per quanto posso» gli rispose, involontariamente a tono, Polito. Acciati si
mise a ridere: «Dai, va, procedamus» concluse, e imboccò la pista minore.
Quel procedamus era una reminiscenza di liceo, un’espressione abituale del
suo insegnante di religione; Acciati ne ricordò per un attimo il viso malinconi-
co e ridacchiò, come di solito faceva quando s’imbatteva in persone o cose
aventi rapporto con la religione. “Perché?” gli si propose ora in confuso la do-
manda. Beh, forse perché fin da ragazzo aveva visto fare così da suo padre, e
poi da tanti altri, anche nell’ambiente bersaglieresco. “Questa magari non è
una gran ragione” si rese conto, sempre in confuso. Ma lui in fin dei conti era
credente o no? Avvertì che si trattava d’una domanda con implicazioni non da
poco: il problema dell’aldilà... C’è chi ci crede e chi no, sia tra la gente abituata
a riflettere, sia tra quella che non riflette mai, tra i colti come tra gli incolti. “E
io? Mah, non lo so nemmeno io...” Fu tentato di approfondire almeno stavolta,
di non restare così in superficie. “Proprio adesso dovrei approfondire? Con
questo impegno che ho alle mani e ’sto freddo? Ci mancherebbe...” Finì col
disattendere l’ispirazione, come tante altre volte aveva fatto; ci sono persone -
anche tra le più generose nell’adempimento dei propri doveri civili - che non
riescono mai a trovare un po’ di tempo per approfondire seriamente le cose
più determinanti per il loro destino.
Arrivarono prima del previsto al piede della grande dorsale (“Ecco” pensò
Acciati “come al solito, la mancanza di luce m’ha fatto valutar male la distan-
za”); qui giunta l’esigua pista curvava improvvisamente verso sinistra, cioè
verso il Don.
«Che ti prenda...» mormorò il sottotenente, fermandosi interdetto; quindi
si girò verso Polito: «Cerino. Sta molto attento, qui, a nascondere bene la lu-
ce.» Cavò la bussola di tasca, l’esaminò con attenzione, poi spense con un ra-
pido soffio il cerino di Polito. «Non abbiamo altra scelta» mormorò; e abban-
donata la pista entrò risolutamente nella neve vergine cominciando a risalire
la dorsale. Sprofondavano tutti fin sopra la caviglia, la marcia si fece di gran
lunga più lenta e sopratutto più faticosa.
Ancor prima d’essere sulla sommità avvertirono un indistinto rombo di mo-
tori: vedevano anche, a tratti, strani riverberi di luci; Acciati, nascostamente
molto turbato, non poté impedirsi d’affrettare ad onta della fatica l’andatura,
mentre si chiedeva ancora una volta (precisamente come gli altri dietro di lui)
se si trattasse d’autocarri o di carri armati. Quando poterono gettare lo sguar-
do oltre il colmo si arrestarono: non si trattava di carri armati per fortuna, e
nondimeno si presentava loro una sconfortante visione: giù in basso, su una
larga strada di neve battuta che correva al piede della dorsale, era in movi-
mento una colonna apparentemente senza principio né fine d’uomini e di au-
tocarri.
Ai bersaglieri, che adesso erano alla sua altezza, l’ufficiale fece segno di ta-
cere, di non far rumore: curvandosi guardinghi si spostarono tutti avanti fino
a poter osservare il fiero spettacolo stando accovacciati nella neve. I russi
marciavano in silenzio, i loro autocarri procedevano coi fari schermati o, la
più parte, addirittura spenti.
A quella vista i bersaglieri si sentivano bloccare il respiro. «Non... Non po-
trebbero essere i nostri del Sesto, che si stanno ritirando?» chiese uno sotto-
voce.
Acciati negò con la testa. «Quelli lì bersaglieri non sono.»
«La fanteria, magari...?»
«Eh, magari!»
Improvvisamente un fascio di luce illuminò per pochi istanti un tratto della
colonna: un autocarro aveva per qualche motivo acceso i propri fari, eviden-
temente non schermati. «Ecco cos’erano quelle strane luci, di cosa si trattava»
mormorò Acciati. “Chi l’avrebbe immaginato? Per la miseria però, come si
sentono sicuri! ”»
Che fossero russi adesso non c’era più dubbio: gli autocarri immediatamen-
te davanti a - quello che aveva acceso i fari erano della nota linea antiquata
‘alla Ridolini’: il che, in questo momento, non riusciva in alcun modo diver-
tente. Anche le sagome degli uomini del resto erano apparse inequivocabili: si
erano visti abbastanza bene i loro berretti di pelo coi paraorecchi abbassati, e i
lunghi pastrani.
“Quelli, se ci scoprono qui a spiarli, come minimo ci castrano” fu la reazione
di Biondolillo, che osservava la colonna tesissimo, con la fascia ventriera che
gli metteva un po’ d’albore intorno al collo.
“Se gli finiamo in mano” pensò Stefano, “se anche per caso non ci ammaz-
zano, ci tolgono le pellicce, i passamontagna e il resto, per indossarli loro, e ci
mettono qui mezzo nudi sulla neve.” Provò una sensazione di sgomento, la
stessa che avvertivano sempre i combattenti italiani in Russia allorché si pro-
spettavano di finire in mano al nemico (e non a torto, come risultò poi).
Biondolillo risolse: “A me però vivo non mi prendono: l’ultima bomba a
mano è per me.” Si vide per un attimo mentre - privata la bomba delle due
sicure - se la picchiava contro la fronte: decisamente neanche questa era una
prospettiva allegra.
Stefano invece pensò: “Comunque non siamo ancora nelle loro mani: siamo
liberi, e armati, e siamo bersaglieri.”
Rimaneva che la situazione generale era molto più critica di quanto al reg-
gimento si ritenesse. Come mai quella fiumana scorreva indisturbata in dire-
zione di Mescoff? Perché non incontrava contrasto? Perché neppure là, verso
la sua testa, si udivano rumori di combattimenti?
«Gente, cercate di riposarvi un pizzico» disse Acciati sottovoce, ansando
lievemente: «Abbiamo dieci minuti di riposo con brivido gratis, poi bisognerà
sgambare di nuovo.» Aggiunse: «Sempre, s’intende, che gli Ivan ce ne diano il
modo.»

CAPITOLO NONO
Gli Ivan lo diedero. Il sottotenente aveva notato che nella colonna c’erano
ogni tanto delle soluzioni - certo tra reparto e reparto - qualcuna anche piutto-
sto ampia. Studiò, per quanto il buio glielo consentiva, l’ambiente intorno alla
strada; infine, trascorsi o quasi i dieci minuti di riposo, si alzò, arretrò in mo-
do da trovarsi defilato e, sempre seguito in silenzio dalla pattuglia, percorse
un semicerchio fino a un punto in cui aveva visto digradare dal colmo e allun-
garsi verso la strada uno smottamento pervio e boscoso.
Qui discesero tra gli alberi e gli arbusti con estrema cautela, fino ad appo-
starsi ad appena dodici o quindici metri dalla strada, in una lingua di bosco
fitta di rovi e cespugli innevati. Rimasero pressoché immobili in quel luogo
per un tempo che parve loro interminabile, con il cuore che impazziva nel pet-
to a ciascuno, alcuni di nuovo lievemente difficoltati a respirare per la tre-
menda tensione. I meno saldi di nervi erano combattuti tra due opposte, quasi
incontenibili spinte nervose: quella a sprofondarsi nella neve fino a scompa-
rirvi, e quella a balzare in piedi e a correre, correr via, scappare di là, succe-
desse quel che succedesse... Con gli occhi chiusi, tesi in ogni fibra, costoro
aspettavano che i più saldi di nervi riprendessero finalmente l’iniziativa.
Nella colonna nemica si produsse a un tratto un’interruzione. «Fuori» disse
tra i denti, balzando curvo in avanti, l’ufficiale; gli altri, in groppo con lui, at-
traversarono di corsa la strada di neve battuta, che sembrò loro - mentre vi
passavano sopra - singolarmente estranea, ostica; poi, sempre curvi, si adden-
trarono il più rapidamente possibile nel pianoro scoperto dall’altra parte. An-
cora non avevano percorso un centinaio di metri che sulla strada il flusso ine-
sorabile dei nemici s’era ristabilito.
Ridotta via via l’andatura, seguitarono a camminare in fila per uno nella
neve vergine, con spossante fatica. Poco alla volta non pensarono più al peri-
colo lasciato alle spalle: gliene rimaneva ancora l’agitazione nel sangue, ma
con la mente si rivolgevano già alla successiva strada da esplorare, preoccupa-
ti non gli capitasse di finire nel campo visivo del nemico senza accorgersene.
Finalmente Acciati ricominciò a fare alt, sia per riprendere fiato che per
controllare la bussola.
«Stanotte sì che ci farebbero comodo le tute bianche» osservò un bersaglie-
re, durante una di tali soste.
«Basterebbe poter camminare su una pista anziché nella neve a questo mo-
do» disse un altro.
Il sergente Bellazzi, dalla coda, si rivolse ad Acciati: «Signor tenente.»
«Eh? Parla adagio.»
«Io credo che nell’aprire la strada dovremmo darci il cambio.»
«Lascia perdere» gli rispose l’ufficiale, «star davanti tocca a me. A ciascuno
la sua naia.»
«No» insiste l’ispido sottufficiale «anzi voglio dirla chiara: non è soltanto
per voi, ma anche per noi che dovete risparmiarvi. Per la missione che dob-
biamo condurre a termine, e per la pelle da riportare indietro.»
Questo parve a tutti ben detto, tanto che alcuni non si peritarono di sottoli-
nearlo.
«Ah, così?» disse Acciati. «Ma guardali. Sembrate una pagina del ‘Cuore’ di
De Amicis.»
«Il cuore? Che cuore?» chiese Biondolillo.
«È un libro. Le donne non c’entrano.» disse Acciati, rimettendosi in marcia.
Dopo pochi passi Polito rese edotto l’uditorio: «Io, se devo dire la verità, di
libri in vita mia ne ho letto uno solo: Pinocchio.»
«E chi se ne frega» commentò quello che gli stava alle spalle.
«L’hai proprio letto tu?» gli chiese invece un altro.
«No, ce l’ha letto la maestra a scuola.»
«La maestra?» chiese Biondolillo.
«Guarda che aveva almeno sessant’anni» disse, ansando un poco per la fa-
tica, Acciati.
Gli altri ridacchiarono.
“Che ne sapete voi?” lo contrastò mentalmente Biondolillo.
«Tu Molisano l’hai letto Pinocchio?» chiese uno all’unica ‘recluta’ della pat-
tuglia, un ragazzo molto solido, giunto da poco dall’Italia, che Bellazzi aveva
scelto appunto per la sua solidità. Il Molisano tuttavia era tipo di poche parole
e non rispose.
«Signor tenente, allora?» insisté dal fondo Bellazzi, rivolto all’ufficiale.
«Non demordi eh? Va bene» acconsentì Acciati: «Possiamo darci il cambio
ogni quarto d’ora. Faremo testa-coda, d’accordo?»
«Sì» disse Bellazzi «signorsì. Dunque, se volete, cominciamo.»
Acciati si fermò; si fermarono tutti. La marcia riprese con le posizioni inver-
tite e Bellazzi alla testa.
Il terreno andò nuovamente corrugandosi in basse colline per lo più bosco-
se; a quasi un’ora dallo scavalcamento della strada percorsa dal nemico il trat-
to superato era molto mediocre, nemmeno d’un paio di chilometri. “Qui se
non troviamo una pista” andava ripetendosi mentalmente Acciati “non com-
biniamo più niente di buono”.
Giunti che furono, dopo una defatigante salita, ad un varco tra due colline,
il sergente Bellazzi che in quel momento era capofila s’arrestò di colpo, tutti
dietro di lui si arrestarono; intorno la neve risultava stranamente calpestata,
c’erano, frammisti alla neve, molti bossoli d’arma portatile, e non parevano
italiani.
Senza parlare Bellazzi traguardava nel buio, la testa spinta in avanti. «Giù»
disse infine a bassa voce, facendo in pari tempo segno con la mano. Tutti
s’inginocchiarono, nuovamente tesissimi, togliendosi in fretta il moschetto di
spalla; Acciati, curvo, sorpassò gli altri e raggiunse con pochi salti il sergente.
«Cosa c’è Bellazzi?» chiese a bassa voce.
«Guardate là.»

CAPITOLO DECIMO
Oltre il varco il terreno scendeva verso un angusto pianoro, attraversato da
un filare d’alberi spogli. Al piede dei quali c’era... qualcosa.
«Voi fermi qui» disse Acciati in un soffio. A Bellazzi invece fece segno di
portarsi avanti con lui; con molta cautela i due raggiunsero un punto da cui
potevano osservare meglio.
Al piede degli alberi sembrava ci fosse una lunga cresta artificiale di neve;
dietro ad essa si scorgevano dei corpi oscuri.
«Di che porca roba si tratta?» mormorò l’ufficiale. Aggiunse, dopo un po’:
«Pare una trincea di neve... Se è così direi che è nostra, dato che, vedi il terre-
no? le scende davanti verso nord, verso il Don.»
«Sì» convenne sottovoce Bellazzi, E dopo qualche istante: «È nostra, sì.
Guardate: è messa a tagliare la strada che stiamo cercando. La vedete la stra-
da? Là davanti, che sale verso la trincea?»
«È una strada quella?» mormorò Acciati. «Non si capisce bene. Così al buio
non si può dire.»
Bellazzi lo guardò in faccia, rimaneva della propria opinione e anzi la voce,
pur molto bassa, gli si fece speranzosa: «Forse le cose non vanno poi tanto
male; forse stiamo per prendere contatto con qualche reparto del Sesto» disse.
«Potremmo anche portare a casa buone notizie.»
Acciati seguitava a scrutare fissamente. «’Sta storia non mi convince» sus-
surrò. «Perché sono così fermi? Tutti quanti immobili?»
«Se stanno dormendo?»
«Disposti a quel modo? E poi, qualche vedetta almeno... Beh, non ci resta
che andare a controllare.» Si volse al sottufficiale: «Ci vai tu Bellazzi, con un
altro. State bene attenti, perché se incappate nei russi poco potremo fare per
voi. Hai sentito l’ordine del capitano? State ben attenti.»
«Signorsì» disse Bellazzi.
I due tornarono dai bersaglieri che seguitavano ad aspettare inginocchiati.
«Giovenzana» chiamò, sempre a bassa voce, il. sottufficiale: «Vuoi venire tu?»
Stefano, che non aveva la minima idea di dove si trattasse d’andare, si fece
avanti senza una parola. Ascoltò attento il piano d’avvicinamento che tenente
e sergente abbozzarono insieme, poi si avviò col sergente, mentre tutti gli altri,
senza far rumore, avanzavano alquanto, fino a prendere posizione nella neve
coi moschetti spianati.

***

Con un giro abbastanza complicato, straordinariamente guardinghi, i due


esploratori raggiunsero la trincea di neve senza farsi scorgere. Vogliamo dire
che se in quella trincea ci fosse stato qualcuno di guardia non li avrebbe visti
arrivare, tanto la loro manovra fu accorta; di guardia però non c’era nessuno.
La trincea conteneva soltanto morti. La maggior parte ancora in posa di
combattimento, sdraiati o in ginocchio, con le braccia in atto di puntare il mo-
schetto; alcuni, guarda, non avevano più l’arma, e altri giacevano addirittura
su un fianco nella neve, ancora però in quell’atteggiamento di puntare
un’arma, rigide statue di ghiaccio che il nemico, entrando dopo il combatti-
mento nella trincea, doveva aver rovesciato con uno spintone o con un’ultima
fucilata. Tutte le statue portavano l’elmetto piumato ed erano ricoperte di bri-
na.
«Sono bersaglieri, tutti bersaglieri...» ripeteva sgomento Bellazzi.
Si chinò su un elmetto per leggerne il numero; a tal fine dovette liberare
dalla brina lo stemma dipinto, sfregandolo col guantone; aiutato da Stefano,
dovette anche accendere un cerino. «Sesto» lesse infine: «Sono del Sesto... Per
la malora, guarda com’è sforacchiato quest’elmetto.»
Non solo quello, ma tutti gli elmetti erano sforacchiati, e — come i due si re-
sero conto — anche i corpi degli uomini, le loro armi, nonché gli alberi al cui
piede era stato imbastito lo schermo di neve; più d’un albero - spaccato dalle
raffiche - pencolava obliquo o si era schiantato a terra.
«Puttana la miseria. Hanno ridotto ogni cosa un colabrodo, tutto un cola-
brodo hanno ridotto!» ripeteva Bellazzi. «Che dannato macello. In quanti sa-
ranno stati a sparare addosso a questi poveri cristi?»
Stefano, costernato, non diceva niente. Sia davanti che dietro alla trincea la
neve appariva fittamente calpestata, come per il passaggio di una grande folla.
Ma adesso non c’era più nessuno, soltanto i morti.
«Vieni» disse Bellazzi con voce angustiata «cerchiamo di farci un’idea di
quanti sono, poi torniamo là dai nostri.»
Percorsero lentamente tutta la trincea, lunga un centinaio di metri:
v’individuarono tra l’altro un mortaio da 81, e all’incrocio con la pista in salita
un cannoncino anticarro con accanto i serventi morti; in questo punto, al cen-
tro della trincea, i cadaveri, l’arma e ogni altro oggetto erano, se possibile, an-
cora più fittamente sforacchiati dai colpi e dalle schegge.
Davanti a un simile massacro Bellazzi finì col caricarsi progressivamente di
furore; procedeva irsuto, ogni tanto tirando su col naso, sempre più determi-
nato - quando se ne fosse presentata l’occasione - a ripagare della stessa mo-
neta il nemico; adesso ogni pochi passi bestemmiava, oppure sputava qualche
parola rabbiosa. Stefano invece seguitava a non parlare, era come istupidito
dall’orrore.
Arrivati alla fine della trincea tornarono indietro al cannoncino, presso il
quale giaceva il capitano comandante del reparto sterminato. Aveva a tracolla
la borsa topografica di celluloide: gliela sfilarono con una certa difficoltà, per-
ché il suo lungo cinturino di cuoio era rigido come fosse di ferro, e rigide come
quelle d’una statua le membra del morto. «Questa potrà forse servirci per ri-
conoscere il reparto» disse Bellazzi, consegnando la borsa a Stefano, che senza
commenti se la mise a tracolla.
Tra i cadaveri - complessivamente più d’un’ottantina - avevano individuato
anche quelli di due ufficiali subalterni, privi però di borsa da ricognizione.
Il sergente adesso esplorava ogni tanto con gli occhi oltre lo spalto. «E i
morti russi dove sono? Possibile che li abbiano già portati via?» finì col dire.
Si chinò incerto sul cannone e ne esaminò il settore di tiro: «Quelle due ca-
taste di tronchi lì davanti dovevano dare fastidio» mormorò. «Come mai non
li hanno usati per rinforzare la difesa?»
«Aspetta un momento» fece allora Stefano. Valicato lo spalto di neve si ac-
costò, con le suole che nell’agghiacciante silenzio stridevano, alla più vicina
delle due cataste: non era fatta di tronchi ma - com’egli aveva sospettato - di
cadaveri nemici. Al pari dei bersaglieri i russi morti apparivano tutti incrostati
di brina. «Non sono tronchi, sono loro» comunicò con voce atona al sergente.
«Non li hanno portati via.»
«Ah» esclamò allora Bellazzi: «Dunque ce n’è rimasti anche di loro, eh?»
Stefano tornò lentamente alla trincea. “Che macello bestiale!” ripeteva tra sé e
sé. Si sentiva ed era presente ai compiti immediati, ma quanto a cavare un si-
gnificato, un senso da ciò che vedeva, la sua mente era come bloccata. Vaga-
mente gli tornavano all’orecchio le accorate deprecazioni di don Mario là a
Nomana, e anche quelle parole di suo padre sulla guerra: ‘Voi ragazzi non po-
tete immaginare che razza di porcheria è la guerra...’ Ma adesso non doveva
pensarci, non adesso.
Quand’ebbe raggiunto Bellazzi, questi gli fece notare che a lato della pista ce
n’erano diverse di cataste. «Anche là in basso, le vedi? L’hanno pagata cara,
quegli stramaledetti figli di cagna.»
«Già» disse Stefano.
Il sergente rimase muto per un lungo momento. «Dai» risolse infine «tor-
niamo», e s’avviò.

***

Con una certa difficoltà nell’esporre, tant’erano impressionati, i due fecero


la loro relazione ad Acciati, che sforzandosi a sua volta d’accantonare l’orrore
volle gli spiegassero meglio alcuni particolari, e domandò ripetutamente se la
strada a sbarramento della quale era stata costruita la trincea fosse importan-
te o no, e insomma se potesse essere quella che stavano cercando.
Il sergente adesso non era più del parere che lo fosse. «No, m’è sembrata
troppo secondaria. Anche se una cosa è certa: che di là è venuto su un mare di
gente.» Stefano si limitò a stringere le labbra.
Infine l’ufficiale consultò l’orologio: «Sono passate le cinque» disse «e
l’ordine è di essere a casa per le sette. Non ci resta che fare dietro front e
sgambare, anche perché per attraversare quella strada là indietro...» fece con
la mano un gesto a significare: chissà il tempo che ci occorrerà.
Guardarono tutti un’ultima volta, con angustia, verso la trincea presidiata
dai morti, quindi si rimisero in marcia.

CAPITOLO UNDICESIMO

Il ritorno, grazie alla pista da loro stessi aperta, fu da principio meno fatico-
so dell’andata. I pensieri di ciascuno andavano e venivano dall’orrenda trincea
dei morti alla strada percorsa dalle colonne nemiche, che bisognava nuova-
mente attraversare. Come ne giunsero in vista Acciati fece alt. Si scorgevano di
nuovo dei fari schermati procedere nel buio, lucciole gelide e lontane, appena
mobili.
«Avvicinarci così allo scoperto è chiaro che non possiamo, sarebbe troppo
da fessi» considerò a mezza voce l’ufficiale, il quale cercava di tenere la pattu-
glia su di giri, che non gliela inceppasse l’orrore.
«Eh!» convenne Bellazzi.
«Ragion per cui» riprese il sottotenente «gambe in spalla e avanti da questa
parte, verso sud: scarpineremo in parallelo alla strada finché non troveremo
un bosco, o una balca, o un’altra porcheria, che ci dia modo di farci sotto stan-
do al coperto. Forza.»
Macinarono neve intatta abbastanza a lungo, con tremenda fatica. Avevano
ripreso a fare testa-coda ogni decina di minuti; tutti erano affranti dalla stan-
chezza.
«C’è di buono» disse uno, durante una breve sosta «che non appena arrivati
dovremo ricominciare a sgambare di nuovo, insieme col reggimento.»
«Sì, bella prospettiva» mugugnò un altro.
«Pensa alla ghirba tu, non alla prospettiva» fece Bellazzi.
Qualcuno ridacchiò. Stefano non diceva nulla; portava a tracolla la borsa di
celluloide del capitano morto, con le carte topografiche e, chissà, forse tra esse
qualche documento utile: ogni tanto s’assicurava col guantone di non averla
perduta. Chissà di che compagnia del Sesto si trattava, di quale battaglione...
Da queste carte sarebbe forse venuta fuori qualche illuminazione sulle ultime
vicende di quei morti? Chissà prima della strage, mentre aspettavano il nemi-
co, cos’avevano detto e pensato quei ragazzi... “Probabilmente” rifletté “ragio-
navano e scherzavano come noi adesso...” Sentì un brivido lungo il filo della
schiena. “Però è impossibile che a noi succeda come a loro...” Ma una voce
gl’insinuava dentro: “Perché è impossibile? Rispondi: perché?”
Finalmente ecco una crepa nel terreno: il corso di un torrente gelato che
zigzagava verso la strada. Seguirono il torrente dapprima tenendosene fuori,
poi entrarono nel suo letto e proseguirono sul ghiaccio tra disordinati arbusti
di salice appesantiti dalla galaverna, e ontani spettrali, e ciuffi di canne palu-
stri bruciate dal gelo. Una volta in prossimità della strada Acciati fece accuc-
ciare tutti tra le canne, e andò avanti seguito dal solo Polito fino ad affiorare
cautamente con la testa dentro un intrico di rovi. La strada - che superava il
corso d’acqua su un ponticello alto un paio di metri - era a un tiro di sasso da
lui: la stavano in quel momento percorrendo soldati a piedi; erano talmente
vicini che gli pareva di sentirne l’odore. Sul ponticello un uomo fece alt per
orinare, si udì un richiamo iroso: «Davai, davai (avanti, avanti)» accompa-
gnato da una frase incomprensibile che suscitò qualche mezza risata.
“Fino a quando durerà ’sta rivista?” si chiedeva, ansimando lievemente, Ac-
ciati; e intanto cercava di rendersi conto dell’armamento dei nemici: erano
tutti piuttosto carichi, con grossi zaini sulla schiena, e le armi individuali - fu-
cili, parabellum, mitragliatori a rotella - portate in vario modo; ogni tanto ce
n’era uno che si tirava dietro su uno slittino una mitragliatrice Maxim munita
di scudo, di aspetto - caso raro per le armi russe - antiquato.
La sfilata sembrava non dovesse finire mai. “Ma forse” rifletté Acciati, sem-
pre ansimando e cercando di dominare la propria opprimente ansietà che a
momenti gl’impediva quasi di respirare, “forse è a me che pare così. Questi
minuti si sa che sono come ore.” Cominciò a temere un alt orario. “Se la co-
lonna si ferma qualcuno potrebbe scendere nel greto del torrente e... Beh, per
noi potrebbe farsi brutta”.
Per fortuna non ci furono alt orari; invece nella colonna comparvero delle
interruzioni, finalmente una lunga interruzione: «Svelto Polito» ordinò
l’ufficiale: «chiama gli altri.»
«Signorsì.» Polito s’era appena mosso che gli altri erano già lì. «Forza» or-
dinò Acciati senza lasciare il suo posto d’osservazione: «Filate sotto il ponte.
Aspettatemi al coperto un centinaio di metri più in là, capito? Via.»
Tutti eseguirono; solo Polito rimase accanto all’ufficiale.
«Forza» ripeté questi non appena vide l’ultimo degli uomini entrare nel
fornice buio. «Tocca a noi.»
Passarono anch’essi sotto il ponticello. Giunti di là se ne allontanarono a
passo veloce, tenendosi sul ghiaccio del torrente tra gli arbusti e le canne, or-
mai più preoccupati di far presto che d’essere cauti. Sembrò loro di udire
qualche voce alle spalle: senza fermarsi l’ufficiale si guardò indietro e gli parve
che sì, ci fosse qualcuno sul ponte, fermo al parapetto: i battiti del suo cuore
aumentarono fin quasi a farlo scoppiare.
Il maledetto (o benedetto?) ponticello rimase comunque indietro nel buio.
Ecco i bersaglieri accucciati tra gli arbusti. «Avanti» ordinò il sottotenente
prima ancora d’averli raggiunti: «Bellazzi, tira tu la fila.»
Aveva appena finito di parlare che dal ponte partì una vampa fulminea e il
frastuono d’una fucilata. Si sentirono anche delle grida, forse d’allarme, forse
intimazioni.
«La p... di tua madre» ansimò in risposta Polito: «la brutta p... di tua ma-
dre.»
I bersaglieri si diedero ad arrancare con celerità, come se la loro marcia
avesse inizio solo in quel momento.
Per un lasso di tempo non ci furono più fucilate. La distanza tra la pattuglia
e il ponte aumentava.
«Perché non sparano più?» chiese balbettando uno.
«Cosa fanno? Ci inseguono forse, quei figli di mignotta?» chiese un altro, e
a una tale prospettiva tutti si sentirono rizzare i capelli in testa.
«Risparmia il fiato, tu» disse con voce strozzata Bellazzi.
Ad un tratto una luce abbagliante color calce viva si spalancò nel cielo quasi
sopra le loro teste.
«Fermi» sibilò immobilizzandosi il sottotenente; per alcuni secondi il razzo
illuminò a giorno ogni cosa, poi cominciò a scendere dondolando, mentre la
sua luce scemava e infine si spegneva.
«Di corsa» ordinò Acciati: «C’è un bosco là avanti, dobbiamo arrivarci.»
Si erano appena infilati nel bosco - o a dir meglio scomposto intrico di sali-
ci, canne e rovi - che dal ponte un secondo razzo sgattaiolò verso l’alto sospin-
to da una lunga coda a spirale di scintille: giunto al vertice della traiettoria
sviluppò la sua luce bianchissima e oscillante che si mantenne per qualche
secondo, mentre l’ordigno pencolava nell’aria.
«Grazie» fece Acciati, «però adesso può bastare: la dorsale che cerchiamo è
là, l’ho vista.» Poi ordinò: «Muoviamoci, in un intrico come questo non pos-
sono vederci.»
La marcia prosegui a passo molto sostenuto. Contemporaneamente un mi-
tragliatore attaccò a sparare dalla strada; sentirono le pallottole fischiare in-
torno a loro e battere qua e là, non molte.
«Sventagliano a casaccio» fece Bellazzi «è chiaro.»
«Che fessi» disse Acciati. «Dev’essere stato un ragazzino appena arrivato
dalla scuola ufficiali a dare un ordine simile.»
Come se i russi avessero intesa la sua critica, il fuoco cessò. Intanto era cosa
buona che si potesse almeno per un po’ camminare nell’intrico, dove oltre tut-
to rimanevano tracce meno evidenti.
Arrivata al piede della dorsale la pattuglia prese a risalirla, avanzando anco-
ra una volta - con spossante fatica - nella neve vergine; raggiuntone il colmo
iniziò la discesa dell’altro versante, spostandosi via via verso destra, verso
nord, in cerca dell’esile pista aperta all’andata. Eccola finalmente: i bersaglieri
vi entrarono e la seguirono finché sboccarono sulla pista vera e propria che
conduceva a Calmicov. Da quando s’erano lasciati alle spalle la dorsale, Acciati
aveva ripreso a fermarsi con puntiglio ogni dieci-quindici minuti per control-
lare la direzione sulla bussola.
«Signor tenente, guardate là» disse a un tratto Polito: «Dev’essere il pa-
gliaio.»
Si scorgeva lontano, tra alcune pieghe del terreno, un vacillante alone ros-
sastro.
«Sì, credo proprio» convenne l’ufficiale; rallentò l’andatura, concedendo a
sé stesso e agli altri un po’ di tregua. «Gli hanno dato fuoco, ci aspettano.»
«E intanto si scaldano anche, i furbazzi» disse Biondolillo.
Giunsero alle trincee di neve davanti a Calmicov poco dopo le sette: due
portaordini del comando di reggimento li attendevano sulla pista battendo i
piedi per il freddo. «Presto» dissero: «Ci siete tutti? Gli esploratori croati sono
rientrati già da un’ora. Hanno perduto un uomo in uno scontro con un pattu-
glione russo.» Affiancatisi alla pattuglia che non ruppe la sua formazione, i
due la guidarono fino all’isba del comando: «È in corso una riunione con tutti
i comandanti di battaglione» riferirono.
Qua e là nel paese qualche reparto si stava già incolonnando nel buio; dal
settore dei croati venivano nitriti di cavalli; sulla strada principale
un’autocarretta scaldava solitaria il motore.
Gli otto reduci dalla rischiosissima missione si sentivano orgogliosi d’avere
assolto un così difficile compito per tutti. Davanti all’isba del comando fecero
alt; Acciati entrò a fare il suo rapporto.
CAPITOLO DODICESIMO

Trovò riuniti in piedi attorno al tavolo, al quale adesso sedeva il colonnello


comandante del Terzo reggimento bersaglieri, i comandanti dei tre battaglioni
e quello della legione croata.
Consegnò all’aiutante maggiore la borsa da ricognizione del capitano morto,
sulle cui carte topografiche, subito sommariamente esaminate, non vennero
trovate scritte utili all’individuazione del reparto: le carte portavano sempli-
cemente il timbro del Sesto reggimento. La relazione del sottotenente costituì
per tutti (se vogliamo esprimerci nel linguaggio sportivo, abbastanza in uso
tra i bersaglieri) un pugno al fegato, che peraltro venne incassato con pochi
commenti. L’ufficiale fu richiesto di precisare meglio certi particolari, quindi
venne congedato.
Dopo di che il colonnello si alzò in piedi meditabondo, e fece alcuni passi
avanti e indietro nel locale. «E non avere qui un solo apparecchio radio per
chiedere informazioni alla divisione!» mormorò. «È incredibile...» Rifletté
alquanto annuendo, poi tornò a sedersi al tavolo.
«In Mescoff è da supporre che ci siano tuttora i nostri» disse. «Non mi
sembra possibile che se ne siano andati senza avvertirci.» Fece una pausa. «O
forse voi, che di questo fronte avete più esperienza di me, credete possibile che
se ne siano andati? Gradirei conoscere la vostra opinione.»
«Può darsi che il paese sia ancora in mano ai nostri; che i russi non vi siano
finora entrati, ma stiano ammassandosi per investirlo» propose uno dei co-
mandanti di battaglione. «In tal caso sarebbe importante sapere se hanno già
tagliata, oppure no, la pista che conduce da qui a Mescoff, quella che dobbia-
mo percorrere noi.»
«Quanto a questo direi proprio di sì» osservò il comandante croato (parlava
abbastanza bene l’italiano) «visto che qualche ora fa la mia pattuglia si è scon-
trata appunto su quella pista con un loro pattuglione.»
Gli altri annuirono, per qualche secondo nessuno parlò.
«E se fossero già entrati anche in Mescoff?» propose il colonnello. «Dal
borgo, come sapete, parte in direzione sud l’altra pista, quella grande, ch’è sta-
ta scelta come principale asse di scorrimento delle divisioni in ritirata. E le
divisioni sono tutte in marcia per affluirvi. Se per caso i russi sono già entrati
in Mescoff dunque, e ingombrano gli accessi alla pista, noi dobbiamo trovare a
ogni costo il modo di sloggiarli.»
Gli altri convennero. Ma disponevano di forze sufficienti? Ecco il punto. Se
il Sesto reggimento bersaglieri, l’artiglieria divisionale, il gruppo Schuldt e le
altre truppe incaricate di proteggere Mescoff erano dovuti ripiegare, ciò signi-
ficava che il nemico doveva essere ben preponderante. (Quel reparto del Sesto
crivellato dai colpi, di cui aveva riferito l’ufficiale pattugliere...)
«In teoria» prospettò il colonnello «avremmo anche un’alternativa: po-
tremmo cioè cercare, spostandoci sulla destra, di prendere contatto con la di-
visione Torino, che come sapete è la più vicina a noi, per poi marciare su Me-
scoff insieme.»
«No» esclamò con impeto il maggiore del nono battaglione (cui appartene-
va Stefano), che era molto giovane e risoluto: «A parte il tempo prezioso che si
perderebbe, non c’è da illudersi. Signor colonnello io non so come vadano le
cose sugli altri fronti, ma ho esperienza di questo: non c’è da illudersi di poter
ottenere con truppe ordinarie, anche numerose, ciò che non siamo in grado
d’ottenere noi bersaglieri.»
Il colonnello girò la testa verso l’aiutante maggiore che gli stava alle spalle,
in piedi presso la sedia: «Il tuo stesso discorso» osservò. L’aiutante maggiore
dai capelli color argento si limitò ad annuire.
«Se è così» tirò le somme il colonnello «non ci rimane scelta: dobbiamo a
ogni costo arrivare a liberare gli accessi alla pista.»
Gli altri assentirono con gravità.
«Bisogna farcela» disse con voce incolore il croato «se no per noi croati si-
curamente non ci sarà scampo. I miei uomini lo sanno e sono decisi a uccider-
si piuttosto di cadere prigionieri.»
«Anche la nostra non sarebbe una sorte allegra» mormorò uno dei coman-
danti di battaglione.
«Forza allora, diamoci sotto» concluse il colonnello. «Ciascuno provveda
con la massima energia per la sua parte.» Fece ai presenti un segno di conge-
do. Tutti scattarono sull’attenti.

III

CAPITOLO TREDICESIMO

La luce consentiva ormai di vedere tutte le cose quando poco più tardi il
Terzo reggimento bersaglieri e la legione croata uscirono da Calmicov verso
sud, sulla pista per Mescoff.
Era il 20 dicembre: i banchi di smorta foschia che Acciati e i suoi avevano
intravisto qua e là nella notte, si erano alquanto estesi e ora velavano qualche
tratto di prospettiva.
All'avanguardia marciavano i croati in colonna compatta, preceduti da un
nucleo esplorante; alcuni loro reparti montavano a cavallo, e diversi puledri
seguivano intirizziti le cavalle madri, mettendosi ogni tanto improvvisamente
a caracollare: chi gli faceva caso si chiedeva se si comportassero così per ri-
scaldarsi, oppure perché impauriti da qualche cosa, o semplicemente perché
tale era la loro natura. Indosso ai cavalieri e agli uomini che dietro di loro pro-
cedevano a piedi - in genere individui pesanti, di taglio grezzo - le divise fasci-
ste, molto spesso portate in Italia da gente scattante e nervosa, sembravano
stranamente fuori posto. E lo erano: perché, come s’è detto, nessuno di questi
uomini aveva a cuore il fascismo.
Dopo i croati veniva su alcuni autocarri il comando del Terzo, quindi appe-
na staccati uno dall’altro i tre battaglioni di cui il reggimento si componeva,
tutt’e tre ben ordinati, ciascuno fornito di numerose slitte e carrette russe
trainate da cavalli che procedevano alternate agli uomini, e seguito, ciascuno,
dal proprio autocarreggio (da quella parte almeno che nei giorni precedenti
non era stata trasferita indietro presso il comando di divisione: questa ormai -
senza che qui lo si sapesse - non esisteva più.) Tutti o quasi i bersaglieri cam-
minavano o guidavano le macchine con l’elmetto piumato in capo, spicci, riso-
luti. Gli otto uomini appena rientrati dall’esplorazione scarpinavano in silen-
zio inquadrati nella loro compagnia, e non erano in alcun modo distinguibili
dagli altri.
Presso un ponticello a forse metà strada tra Calmicov e Mescoff giaceva rat-
trappito sulla pista il croato della pattuglia esplorante morto nello scontro
notturno col pattuglione russo. I suoi lo raccolsero e caricarono su una slitta.
Del nemico però - tranne il calpestio mal individuabile nella neve - non si
scorgevano adesso tracce. A molti sembrava sorprendente che esso non si fa-
cesse vivo neppure con qualche colpo di mortaio: era infatti inverosimile che
una colonna come questa potesse avanzare senza essere vista.

***

Nascosti nelle pieghe del terreno e dietro numerosi spalti costruiti frettolo-
samente con la neve, i soldati russi attendevano davanti a Mescoff l’arrivo dei
nemici. Gremivano invisibili la parte più alta di una lunga collina che nascon-
deva il borgo, nonché le sommità di alcune alture che fiancheggiavano su am-
bo i lati la pista nell’ultimo tratto prima della collina. Confidavano che gli ita-
liani sarebbero venuti a infilarsi da sé nella trappola; dietro di loro era schie-
rata negli avvallamenti, e pronta a far fuoco, tutta una minuta e sinistra popo-
lazione di mortai, con le gelide bocche rotonde puntate al cielo.
Tre di quei soldati - appartenenti al Millecentottantesimo reggimento fante-
ria - stavano in una buca proprio sul colmo della collina di fondo, tanto che,
voltandosi, potevano vedere in basso alle loro spalle l’abitato di Mescoff, piut-
tosto esteso e formato di case qua fitte là sparse, inframezzate da spianate ed
orti. Erano: il caporale Nichiténco di Voroscilovgrad, operaio; il fante Su-
corùcov, colcosiano della campagna di Vologda sul Volga; e il tenente lenin-
gradese Làricev, di professione pittore (una volta, quand’era ancora in grado
di dipingere, prima cioè non solo della guerra, ma anche di una drammatica
deportazione ai lavori forzati, avvenuta nel ‘nefando’ 1937). Stavano nella loro
buca strinati dal freddo, maleodoranti per il sudore rappreso nei panni specie
sotto le ascelle, assonnati, in apparenza ottusi.
Il tenente era l’unico che ogni tanto si girasse verso il borgo dov’erano in
frettoloso approntamento altre due linee difensive: la più prossima - sul vicino
margine di Mescoff - si prolungava anche fuori dell’abitato a destra e a sinistra
lungo il vitreo rilevato di alcune strade; l’altra era in corso d’allestimento un
paio di chilometri più indietro, lungo l’opposta sponda del fiume Ticaia che,
col suo largo greto bianco, attraversava il borgo nel mezzo. A differenza del
tenente, Nichiténco e Sucorùcov non s’interessavano in alcun modo a quanto
avveniva dietro di loro; Sucorùcov estraeva di tanto in tanto da un suo lercio
sacchetto di tela un pesciolino affumicato e se lo infilava in bocca; costretto a
soffiarsi di continuo il naso perché raffreddato, lo faceva senza ausilio di faz-
zoletto: normalmente come tanti contadini russi egli era bravissimo a proiet-
tare il muco per terra senza insudiciarsi le dita, ma adesso, col raffreddore...
“Beh, non importa (nicevò)”. Masticava i pesciolini, resche e tutto, con marca-
ta lentezza.
Anche per i russi questa immobilità a forse quindici, forse venti gradi sotto
zero, riusciva martoriante. Al tenente Làricev riportava con insistenza alla
mente gli appelli sullo spiazzo del lager siberiano in certe albe d’inverno, al-
lorché le guardie semianalfabete seguitavano a sbagliare la conta. Che incubo
quei giorni! Adesso egli era tenuto a comportarsi bene, anzi più che bene, per-
ché la sua pena era stata soltanto sospesa: la sua pena di dieci anni (la solita
‘decina’) per un delitto politico non commesso. “Che merda la nostra vita!...”
Quell’attesa allo scoperto richiamava alla sua mente anche certe compagnie
che nei giorni scorsi, in preparazione dell’attuale offensiva, erano state trasfe-
rite al di qua del Don sotto le linee italiane, messe in posizione d’attesa perfino
quarantotto ore prima dell’attacco: alcune, quando era poi venuto il momento
d’attaccare, non esistevano più, distrutte fin quasi all’ultimo uomo dal freddo
e dai nevrastenici colpi di mortaio del nemico spaventato. “Dio mio” ricordò il
tenente: “che macerazione quei colpi, per me, che pure stavo soltanto a guar-
dare dalla nostra linea...” La quasi totalità dei soldati russi aveva invece vissu-
ta la vicenda col solito innato fatalismo. Così come - pensò il tenente - da anni
e anni accettavano tutti con fatalismo le arbitrarie, incessanti deportazioni,
delle quali erano perfettamente al corrente. “Povero popolo mio, abituato a
essere maltrattato e massacrato da sempre!” Lui finiva quindi col compren-
derne - anche se certo non le approvava - le improvvise reazioni ultraselvagge,
davvero terrificanti.
Col crescere della luce gli riusciva di distinguere meglio gli uomini al lavoro
laggiù in Mescoff sulle due linee in costituzione (quelli lungo la sponda del
fiume, ovviamente, solo grazie al binocolo): li vedeva sopratutto intenti a sca-
vare la neve con le loro piccole pale... Appostati tra le più lontane isbe del pae-
se aveva inoltre individuato alcuni carri armati: quanti erano? Avrebbe voluto
saperlo. Intanto lungo la pista proveniente da nord-est, ossia dal Don (la stes-
sa che Acciati e i suoi avevano attraversata nel corso della notte) giungeva al-
tra truppa, che adesso veniva incanalata verso la linea difensiva più lontana,
quella sul fiume. “Guarda dove li mandano. Perché non li mettono qui con noi,
a nostro rinforzo? È vero che qui siamo già tanti...”

In quell’inerzia forzata (gli uomini appostati sulle colline avevano l’ordine


categorico di non uscire dai ripari per nessuna ragione) anche il caporale Ni-
chiténco andava col pensiero da cosa a cosa. Vedeva il suo vicino Sucorùcov
masticare con lentezza i pesciolini secchi, e sputarne i residui più irti di resche
sul bordo della trincea, che n’era tutto disseminato. Questo bestione di Su-
corùcov! pensava Nichiténco: anche ieri, alla distribuzione dei viveri, aveva
sostenuta una discussione col magazziniere di compagnia per un pezzetto di
pesce secco, una discussione da non credere per una coda di pesce... Come si
poteva vincere la guerra con combattenti simili? A dire la verità lui stesso, Ni-
chiténco, fino a pochi mesi prima la guerra non l’avrebbe voluta vincere. Era
un operaio, in teoria, nel paese che si proclamava degli operai, un privilegiato:
però, se pure incolto, sapeva che chi faceva il suo stesso lavoro in un qualsiasi
paese occidentale percepiva uno stipendio molto superiore al suo. Altro che il
furto, l’‘appropriazione capitalistica del plusvalore’ di cui seguitavano a parla-
re i cacciaballe nelle ore dell’indottrinamento obbligatorio. Ancor peggio dello
stipendio da fame era poi quell’incertezza permanente della propria sorte, il
pericolo continuo d’essere portati via dai cechisti, la paura programmata, una
mala bestia che da anni accompagnava ogni russo giorno e notte... Una volta,
quando lui era ancora bambino - ricordò - venivano portati via (in pratica fatti
morire: ‘repressi scientificamente’ spiegavano i propagandisti; mah!...) quasi
soltanto gli ‘ex’, cioè quelli delle classi ex sfruttatrici, come borghesi, nobili e
preti; poi erano stati tolti di mezzo i ‘piccolo borghesi’, non s’era capito bene
chi fossero, certo erano tanti; infine, dieci o dodici anni fa, c’era stata
quell’enorme deportazione dei culàchi, i contadini piccoli proprietari: la più
grande di tutte le ‘repressioni’, con chissà quanti milioni di morti. Davvero,
chissà quanti milioni! E tra essi due suoi zii, fratelli di suo padre, ammucchiati
nei carri bestiame con le loro donne e i bambini, e anche la vecchia nonna
mezzo moribonda, che nessuno in seguito aveva saputo che fine avessero fat-
to: e quelli erano - lui lo sapeva con certezza - dei poveracci, dei disgraziati,
malgrado il po’ di terra che possedevano. Ancora più poveri di suo padre
ch’era stato un gran dritto a lasciare fin dal principio il campicello - il quale,
tanto, non bastava a sfamare tutti - e a trasferirsi in città come operaio. Da
allora, dallo sterminio dei culachi in poi, finita la scorta degli ‘ex’, i comunisti
non l’avevano più piantata di portar via e uccidere la gente comune e a volte
gli stessi iscritti al partito: ne avevano portato via un fottio, addirittura
un’infinità. Nichiténco rifletté che forse non c’era neppure un russo (neanche
tra questi soldati con le facce strinate dal gelo), forse neppure uno che non
avesse avuto almeno un famigliare ucciso o deportato dai comunisti. I quali
nel frattempo non la piantavano di fare i loro bei discorsi umanitari e
(d’esaltazione del popolo. Ecco perché, quando i tedeschi avevano invaso il
paese, la maggioranza dei russi, e lui con gli altri, s’era augurata che venissero
avanti, che togliessero di mezzo una volta per tutte la peste comunista... Però i
tedeschi non avevano capito niente, porci e straporci che erano. Avevano un
alleato quale migliore non se lo potevano inventare, lo stesso popolo russo, e
fin da principio si erano messi anche loro a massacrarlo. A un punto tale che
al di qua delle linee la gente non voleva crederci. Perché mai avrebbero dovuto
fare le stragi insensate e i delitti - addirittura peggiori di quelli compiuti dai
comunisti - di cui seguitavano ad accusarli la radio e i giornali? Doveva trat-
tarsi per forza d’invenzioni della propaganda rossa... Col tempo però sempre
più gente era affluita da oltre le linee, e tutti, chi più chi meno, ci avevano par-
lato, e si erano dovuti convincere che una volta tanto la radio e i giornali dice-
vano il vero. Perché poi i tedeschi - contro il loro più elementare interesse -
commettessero simili bestialità, rimaneva per Nichiténco e per tutti un fatto
incomprensibile. Proprio come, in fin dei conti, riusciva a tutti incomprensibi-
le quell’altro fatto là che i comunisti - senza esservi costretti da nessuno - se-
guitassero a massacrare e deportare i lavoratori e la gente del popolo, iscritta
o no al partito. In che mondo schifoso si è mai costretti a vivere! Se almeno
avesse potuto parlare di queste cose col tenente Làricev che, con tutta la sua
aria tranquilla, doveva essere un intellettuale di quelli fini... Ma il caporale
Nichiténco sapeva che mai e poi mai egli avrebbe potuto parlare col tenente o
con chicchessia di tali argomenti, i quali nell’Unione Sovietica erano pericolo-
sissimi tabù.
Ad ogni modo tutto questo adesso costituiva soltanto lo sfondo. Lui da al-
cuni mesi era sopratutto preoccupato per la strage che quei porci criminali di
nazisti avevano compiuto nell’estate a Voroscilovgrad, la sua città. Glien’era
giunta notizia da due fonti diverse, entrambe sicure: un enorme fossato anti-
carro scavato a protezione della città era stato riempito coi cadaveri della gen-
te fucilata... Chi erano quei fucilati? Ecco il punto. Per cominciare gli ebrei, si
capisce; e passi (alla fucilazione degli ebrei - genìa che se l’intendeva da sem-
pre coi comunisti, e anzi forse il comunismo l’avevano inventato loro - il popo-
lo doveva essere andato ad assistere come a uno spettacolo). Però gli ebrei non
bastavano: si trattava di troppe migliaia di persone fucilate. Chi erano gli al-
tri? Ecco il vero punto. Chissà se tra loro c’era - terribile a pensarsi - l’uno o
l’altro dei suoi due figli? Forse Andruscia, il minore? Certo bisognava cancel-
larli dalla terra, spazzarli via questi invasori dementi, e arrivare di persona a
Voroscilovgrad per vedere, per rendersi conto, per...
«Abbassate la testa» avvertì a un tratto il tenente Làricev: «Arrivano i
petùchi (galletti).»
Nichiténco sobbalzò, come risvegliandosi; Sucorùcov sputò le resche che si
stava rigirando in bocca; ma poi vi infilò, sopra pensiero, un altro pesciolino
puzzolente e riprese a masticarlo.

***

In effetti laggiù in fondo, sulla pista proveniente da Calmicov, il binocolo


consentiva al tenente d’individuare un inizio di brulichio, come si vede talvolta
all’ingresso di un formicaio. Ne venne fuori, molto lentamente, un plotone a
cavallo. Come mai a cavallo? Questo significava a ogni modo che non si tratta-
va dei petùchi i quali - Làricev sapeva - non montano a cavallo.
Il plotone veniva avanti isolato, di buon passo. Alle sue spalle si vedevano,
sempre piccoli come formiche, altri soldati e cavalli, che venivano pure avanti.
E dietro a questi, altri soldati ancora, e i più lontani ecco - se il binocolo non
ingannava - dovevano essere precisamente petùchi, perché nessun altro solda-
to al mondo ha come loro un incredibile ciuffo di piume sull’elmetto. Chi era-
no allora i cavalieri d’avanguardia? Tedeschi forse? Non sembravano tedeschi.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Il nucleo esplorante croato, distanziato di tre-quattrocento metri dalla co-


lonna, arrivò al piede della collina di Mescoff e prese a risalirla.
In pari tempo, obbedendo a ordini prontamente impartiti dal colonnello
comandante, dai tre battaglioni di bersaglieri si staccarono squadre che, en-
trate nella neve vergine ai due lati della pista, andarono a prendere posizione
in punti adatti del fondo valle, dove piazzarono un certo numero di cannoncini
da 47 e di mortai da 81, nonché qualche mitragliera da 20 millimetri.
Gli ufficiali preposti a queste armi si diedero subito a esplorare coi binocoli
la collina: esaminavano attenti i bordi della pista che obliquando verso sini-
stra la risaliva fino a una selletta dov’era il valico, si soffermavano in particola-
re su certi lunghi segni artificiali nella neve alquanto prima del valico. Con
tutta probabilità si trattava di trincee. Costruite da chi? Verosimilmente dai
nostri, dai difensori italiani e tedeschi di Mescoff nei giorni precedenti.

***

Il sottotenente croato comandante l’avanguardia, che ormai distingueva


bene quelle trincee a occhio nudo, si augurava pressantemente, in cuor suo,
che fosse proprio così. Ma perché non risultavano occupate dai difensori? Si
domandò se non gli convenisse mandare avanti una squadra: risolse però su-
bito che questo avrebbe comportato una perdita di tempo per tutti, e proseguì
con coraggio.
La pista ch’egli e i suoi risalivano tagliava obliquamente una trincea di neve
alcune centinaia di metri prima del valico. Come i cavalieri di testa giunsero al
punto d’intersezione si trovarono improvvisamente in mezzo a due file di sol-
dati russi appostati, che li guardavano in silenzio da una parte e dall’altra, con
le armi brandite. Il sottotenente non fece in tempo a lanciare il convenuto raz-
zo di segnalazione, e neppure un grido: fu investito, con gli altri di testa, da
una salva così micidiale che li crivellò e li fece piombare a terra addirittura con
parti del corpo asportate dal piombo. Quelli che li seguivano cercarono di vol-
tare i cavalli, ma furono immediatamente investiti a loro volta dal piombo. Nel
giro di qualche decina di secondi in piedi non rimase che un puledrino, il qua-
le si diede a fuggire verso il basso, dove si vedevano i cavalli della legione tut-
tora in movimento; poi però si arrestò, tornò indietro scartando di continuo
fino alla cavalla madre che giaceva moribonda sulla neve, e si mise ad annu-
sarla muso contro muso, nitrendo sommessamente.
Dal fondo valle rintronò il primo colpo di cannone: con un sibilo la granata
da 47 andò a colpire la trincea nel punto in cui intersecava la strada, e vi
esplose con una piccola fumata. Uno, due, tre altri colpi di cannone partirono
ed esplosero dentro e intorno alla trincea. Poi vi arrivò, con un sibilo diverso,
la prima bomba di mortaio, del tipo ‘a grande capacità’, facendo volatilizzare
un tratto di spalto. Da parte dei russi il fuoco si generalizzò rapidamente, par-
tiva non solo dalla collina di fondo, ma anche da quelle laterali; fortunatamen-
te per gli uomini in movimento era tuttavia impreciso a causa sopra tutto della
distanza.
Non descriveremo la manovra d’accostamento alla collina, eseguita a passo
di corsa, né gli scontri con cui le due unità di testa (legione croata e settimo
battaglione bersaglieri) avanzando nella neve ai due lati della pista si aprirono
la strada fino a raggiungere il valico. Alla loro destra l’ottavo battaglione risalì
invece la collina frontalmente, verso la sommità. Il restante battaglione - il
nono, cui apparteneva Stefano - seguì a breve distanza il settimo con l’ordine
perentorio di non impegnarsi.
Perciò Stefano, Acciati, Bellazzi, Biondolillo e gli altri che avevano parteci-
pato all’esplorazione notturna, salirono il pendio senza combattere, stringen-
do i denti per la fatica (da quante ore sgambavano ormai?) ma anche esaltan-
dosi via via per il successo che s’andava delineando. Si rendevano confusa-
mente conto di ogni nuovo scontro delle truppe di testa perché, a ondate im-
provvise, giungevano fino a loro le grida italiane («Savoia! Savoia!») e nemi-
che («Urrà! Urrà!», in turco: «Uccidi! Uccidi!»), e per il raffittire degli scoppi
di bombe a mano; più volte dovettero anche fare alt, in attesa che davanti a
loro la strada venisse aperta. Nell’attraversare il teatro d’alcuni di quegli scon-
tri avevano poi visto intorno e dentro le disfatte trincee di neve parecchi morti
ancor caldi, italiani e russi: di questi ultimi non pochi nell’atteggiamento di
puntare un’arma, proprio come - Stefano ricordò - i bersaglieri del Sesto là
nella terrificante trincea che lui e il sergente avevano esplorata durante la not-
te (come pareva già lontana quella vicenda!) C’erano anche dei feriti incapaci
di camminare, attorno ai quali - anche ai nemici - s’affaccendavano i portaferi-
ti e il personale di sanità del settimo battaglione.
Nell’ultimo tratto della salita il sergente Bellazzi era stato colpito a un fian-
co: da una pallottola giunta probabilmente da lontano, da qualcuna delle col-
line di sinistra. Stefano l’aveva visto fare alcuni passi scomposti, il sottufficiale
si era però mantenuto in piedi; apertosi il cappotto e infilata una mano tra gli
abiti, l’aveva ritirata sporca di sangue: «Battezzato» aveva detto rudemente,
riprendendo a camminare in modo quasi normale: «m’hanno battezzato.»
Acciati s’era girato verso di lui: «Dove?»
«All’anca.»
«Fermati e fatti medicare» gli aveva ordinato l’ufficiale; poi volgendosi a un
bersagliere ex assistente di sanità: «Bordegato, fermati col sergente».
Bellazzi aveva però risposto facendo più volte segno di no con la mano in-
sanguinata.
Una volta conquistato il valico, il settimo battaglione e la legione croata
avevano temporaneamente fatto alt; perciò, poco più indietro, i bersaglieri del
nono battaglione avevano pure fatto alt, disponendosi a terra compagnia per
compagnia. Nonostante le perdite subite dal battaglione fratello, c’era in tutti
una straordinaria esaltazione per il successo davvero superbo ch’era stato con-
seguito sfondando la trappola nemica, e un intenso desiderio di scattare nuo-
vamente avanti. Ciascuno aveva l’impressione di potere, con compagni come
questi, arrivare in capo al mondo, riuscire in qualsiasi impresa.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Il capitano comandante la compagnia di Stefano (quello con le spalle qua-


drate, sui trent’anni, che nella notte aveva fatto uscire la pattuglia) venne di
corsa al plotone per rendersi personalmente conto della ferita di Bellazzi.
Si stese nella neve accanto al sottotenente Acciati: «Attento che tra poco ri-
cominciamo, questione forse di minuti» lo avvertì. «Appena l’ottavo batta-
glione arriva al crinale, si ricomincia. Ma dì: cos’è successo a Bellazzi? Hai po-
tuto vedere se si tratta d’una cosa seria?»
Acciati non rispose; giaceva - di punta rispetto ai suoi soldati - prono nella
neve, con la fronte su un avambraccio. Poiché nell’aria seguitavano a passare
fischiando in vario modo pallottole provenienti sopratutto dalle colline laterali
dove il nemico non era stato neppure disturbato, e ogni tanto qualcuna si con-
ficcava con uno schiocco nella neve, il capitano si allarmò. «Ehi Acciati, dico a
te. Cosa ti succede?» Lo urtò ripetutamente con una mano. Allora il sottote-
nente mosse alquanto la testa, aprì a fatica un occhio: «Eh?» bofonchiò. Per
gradi si rese conto della presenza del superiore al suo fianco. «Mi sono ad-
dormentato» borbottò, e per liberarsi dal sonno squassò la testa coperta
dall’elmetto, quindi aprì e richiuse più volte gli occhi.
«Ho fatto male a svegliarti» disse il capitano. «Volevo solo sapere come sta
Bellazzi.»
«Ah, Bellazzi...» fece Acciati. «Mm... È lì» e lo indicò con un movimento
della testa. Una quindicina di metri più indietro lo scontroso sergente - seduto
sulla neve con cappotto, giubba e pantaloni aperti malgrado il freddo tremen-
do - si stava facendo fasciare dall’ex aiutante di sanità Bordegato.
«Vedo» disse il capitano.
«S’è deciso a farsi medicare, eh?» borbottò Acciati.
«Adesso vado a dargli un’occhiata.» Imbarazzato il capitano fece una pausa.
«Mi spiace d’averti svegliato, anche solo un po’ di sonno poteva essere prezio-
so per te, che stanotte non hai dormito.»
«Non importa, signor capitano.»
«Beh, ormai è fatta. Dì, perché anche tu possa regolarti: non appena
l’ottavo battaglione sarà arrivato al crinale (dovrebbe mancargli poco ormai) il
settimo e i croati scatteranno di nuovo avanti. E noi li seguiremo, tenendoci
sempre in seconda schiera.»
«Ancora di riserva?» mormorò sorpreso il sottotenente.
«Sì; così mi ha comunicato il maggiore. Una volta entrati in paese però, ap-
pena il colonnello darà l’ordine, dovremo passare in prima schiera noi del no-
no battaglione. Allora bisognerà buttarci avanti come disperati e arrivare
d’impeto al ponte sul fiume. È lì, al ponte, che ha inizio la grande pista, pro-
prio nel mezzo del paese. Noi dobbiamo occupare il ponte e la zona circostan-
te: sarà il nostro compito.»
«Lo si può vedere, da qui in alto, il ponte?»
«Dalle posizioni del settimo lo si vede, sono stato poco fa a dare
un’occhiata. Si trova un trecento metri più in là della chiesa, che è grande e
costruita su un rilievo. Tienilo presente: la chiesa potrà servirti come riferi-
mento. Del resto basterà che mentre avanziamo tu non mi perda di vista.» As-
sentì: «Beh, ciao Acciati.»
«Agli ordini.»
Il comandante la compagnia balzò in piedi leggero, e raggiunse Bellazzi, sul
quale si chinò. Tutti lo videro dialogare con lui e in pari tempo tenergli una
mano su una spalla: in tal modo poterono constatare il gran conto ch’egli fa-
ceva del sergente; infine videro l’ufficiale congedarsi e tornare, curvo e rapido,
al suo posto di comando.
Bellazzi - specie adesso che s’era reso conto di non essere ferito in modo
grave (la pallottola, pur entrando e uscendo, non aveva toccate le anse intesti-
nali) - finiva col sentirsi nascostamente più soddisfatto per l’interessamento
del comandante che angustiato per la ferita. Lì per lì aveva risposto al superio-
re con parole qualsiasi, assicurandolo che non avrebbe lasciato il proprio po-
sto nel plotone; appena partito quello gli venne però in mente il motto del
reggimento: ‘Solo chi muore può sostar per via’ e gli dispiacque in modo
straordinario di non averlo pronunciato. “Che razza di stupido! Ecco cosa do-
vevo dire al capitano. Anzi io dovevo dire il motto e nient’altro. Che bestia so-
no stato!”

CAPITOLO SEDICESIMO

Prima che i bersaglieri scattassero di nuovo avanti, vennero inaspettata-


mente all’attacco alcune grosse formazioni russe, uscendo improvvise («Urrà!
Urrà! Urrà!») da pieghe del terreno appena al di sotto del crinale. Si trattava
di reparti freschi inviati di rinforzo sulla collina i quali - non essendo arrivati
in tempo per il combattimento - avevano bloccato i propri connazionali in riti-
rata e li sospingevano di nuovo verso il nemico. Come affiorarono davanti ai
bersaglieri, il fuoco si riaccese violento, da brevissima distanza.

Non è nostro intendimento descrivere lo scontro che ne seguì, né quello


successivo allorché i bersaglieri e i croati, inseguendo i nemici giù per il ver-
sante della collina, urtarono nella seconda, inattesa linea russa, imbastita sul
più vicino margine di Mescoff. Ci basterà dire che lo sfondamento di questa
seconda linea - per il quale venne impiegato senza risparmio anche il nono
battaglione - costò ai bersaglieri perdite crudeli, non meno crudeli di quelle da
loro inferte agli avversari; e costò tempo.
Italiani e croati riuscirono con fatica a passare, e a progredire tra le case e
gli orti. In qualche punto però, dove le case non erano di fango e paglia, ma
solide, e offrivano quindi protezione ai difensori, non riuscì loro di avanzare, o
ci riuscirono solo dopo ripetuti, terribili sforzi. Il fronte d’attacco assunse un
po’ alla volta un andamento irregolare, preoccupante. A questo punto il mag-
giore comandante il nono battaglione, dopo avere prese alla mano le proprie
truppe, si buttò avanti attraverso alcuni tratti di minor resistenza, puntando
risoluto alla conquista del ponte. Superò, grazie al valore davvero non comune
dei bersaglieri, ostacoli che sarebbero stati insuperabili anche per truppe più
numerose, non riuscì tuttavia a prendere la chiesa dalle grosse mura, situata
come s’è detto su un rilievo e trasformata dal nemico in fortilizio. Lasciatavi
contro una delle sue tre compagnie, il maggiore la aggirò sulla destra, e con le
altre due compagnie raggiunse la sponda del fiume e il lungo ponte di legno,
costruito nell’estate dal genio italiano, che tentò subito di varcare. Ma fu fer-
mato dal fuoco di sbarramento, d’incredibile intensità, della terza linea russa,
che correva lungo l’opposta sponda del fiume.
Ciò significava chiaramente la fine: pure bisognava, contro ogni logica, tro-
vare il modo di passare. Per l’impossibile assalto si dovevano riunire in riva al
fiume tutte senza eccezione le forze disponibili; ma per far questo, e inoltre
per dare poi modo anche ai carriaggi di passare, era indispensabile eliminare
il munitissimo saliente della chiesa. Il maggiore inviò indietro al colonnello
comandante uno dei suoi ufficiali con le informazioni, avvertendolo che nel
frattempo egli avrebbe cercato di prendere la chiesa. Si lanciò quindi, con
eroica abnegazione, alla testa della compagnia che vi aveva lasciato, all’attacco
della chiesa: venne gravemente ferito e non riuscì alla compagnia d’entrare
nell’edificio.
Le rimanenti ore di luce furono impiegate nel consolidamento
dell’irregolare cuneo italiano - particolarmente irregolare all’altezza della
chiesa -, nella raccolta in punti defilati dei sempre più numerosi feriti e pri-
gionieri, ma sopratutto furono impiegate, quelle poche ore di luce, in ripetuti
assalti al baluardo della chiesa, condotti volta a volta da compagnie italiane e
croate. L’edificio, difeso con straordinario accanimento dal nemico, umiliato
da come s’erano svolte finora le cose, andò parzialmente a fuoco: delle sue
massicce mura annerite, e dei suoi sotterranei, una parte rimase ai russi, il
resto ai bersaglieri.
Appena sospesi gli attacchi italiani (stavano ormai per scendere le tenebre)
il comando russo sferrò a sua volta un violentissimo attacco sul fianco destro
del nostro schieramento, mediante forze fatte affluire dalle colline, e riuscì ad
arrivare alla chiesa. Con ciò l’avanguardia italiana - composta da elementi del-
le due compagnie del nono battaglione che erano arrivate al fiume, e da nuclei
minori - rimase tagliata fuori.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Stefano si trovava in riva al fiume, appostato dietro un basso moncone


d’argine. Era terribilmente affranto al pari degli altri per la stanchezza e ancor
più per le insostenibili emozioni; a momenti - a causa anche del freddo che
con l’avanzare della sera si faceva sempre più micidiale a rimanere immobili -
non riusciva quasi a connettere. Dopo le feroci perdite subite negli scontri per
arrivare fin qui e nel vano tentativo di superare il greto, il suo battaglione era
stato sottoposto a uno spietato bombardamento di mortai e di ‘catiusce’, i cui
terrificanti razzi da 130 millimetri erano più volte esplosi uno in prosieguo
dell’altro in lunghe file, sollevando apocalittiche criniere di fumo, mentre la
terra tremava come per il terremoto. Ci s’erano poi aggiunti anche i carri ar-
mati, venuti allo scoperto in numero di tre o quattro su un’ansa sopraelevata
della grande pista al di là del paese: verificato che a quella distanza le granate
dei cannoncini italiani da 47 erano per loro inoffensive, i carri avevano spara-
to colpi su colpi, accanendosi tra l’altro contro l’argine dietro il quale era atte-
stato il plotone di Stefano. Le loro velocissime granate dalla traiettoria rettili-
nea, fulminee nel raggiungere il bersaglio, avevano prodotto in chi assisteva
dall’una e dall’altra parte la sensazione di una forza bruta assolutamente in-
contenibile. Anche i carri armati! Dove diavolo li erano andati a scovare i russi
tutti questi mezzi, loro che nell’estate parevano allo stremo?
Preparato dal bombardamento s’era poi sviluppato l’improvviso attacco
nemico sul fianco destro del battaglione; alcuni dei provatissimi plotoni schie-
rati lungo il fiume erano stati allora avviati di furia a quella volta, con
l’eccezione di qualche uomo e di qualche arma automatica. In tal modo Stefa-
no e il Molisano - che per ordine di Acciati erano, unici della loro squadra, ri-
masti sul posto - s’erano trovati divisi dallo stesso Acciati, dal suo attendente
Polito, e da tutti gli altri amici fidati, i quali chissà in questo momento
dov’erano: se col reggimento al di là dell’infiltrazione nemica, oppure cadaveri
nello spazio sommerso dai russi. (Quanto a Biondolillo giaceva senza vita ac-
canto a un pilone del ponte, con al collo la sua fascia ventriera tutta insangui-
nata; Bellazzi, ferito una seconda volta prima di mezzogiorno, era stato porta-
to via in barella, e da allora di lui non s’era più saputo niente.)
Adesso, mentre molte case ed isbe seguitavano ad ardere illuminando lugu-
bremente il borgo massacrato, i carriaggi fuori uso, e i cadaveri italiani e russi
sparsi dappertutto, gli uomini accerchiati in riva al fiume avevano un po’ di
respiro, di tempo per riflettere, e si sforzavano di farlo, pur continuando cia-
scuno a sorvegliare con dura fatica lo spazio davanti alla sua postazione. Non
lontano da Stefano un bersagliere ferito, appartenente a un’altra squadra, un
certo Laiolo, usciva di continuo in frasi come: «Rossi schifosi, facce di merda!
Il duce, vedrete, gliela farà pagare cara la morte di tanti bersaglieri... Porci
comunisti!» e simili. Essendo notoriamente fascista, Laiolo riteneva suo dove-
re parlare a quel modo, forse anche straparlava per la perdita di sangue. Non
aveva voluto essere accompagnato a un ‘posto di medicazione’ che pur esisteva
in uno scantinato là indietro, e stava come ammucchiato su sé stesso, in una
coperta messagli attorno da un amico. Gli altri si sforzavano di riflettere. Sa-
pevano d’essere tagliati fuori ma, ancora suggestionati dall’avanzata, confida-
vano in una prossima azione dei loro che avrebbe ristabilito il collegamento;
dopo di che tutti insieme... Cosa avrebbero potuto fare però, sia pure tutti in-
sieme, sfiniti com’erano? Quanti si trovavano ancora realmente in grado di
attaccare? Davanti a tale prospettiva i più consapevoli cominciavano ad avver-
tire in segreto un durissimo senso d’impossibilità, di prossimità della fine:
perché se anche il reggimento e i croati fossero riusciti ad aprirsi la strada fin
qui, era troppo evidente che poi, insieme, non sarebbe stato in alcun modo
possibile sfondare la munitissima linea sul fiume e imboccare la grande pista
che conduceva alla salvezza. A meno che... A meno che, essendo bersaglieri,
non fosse loro riuscito l’impossibile. Nello sconcerto del momento più d’uno lo
pensava davvero: non erano, dopo tutto, arrivati fino a questo punto aprendo-
si la strada attraverso ostacoli in apparenza insuperabili?

***

Diversi erano i pensieri del colonnello comandante che, nel buio, studiava
la situazione dietro uno spezzone di muro sulla nuova linea venutasi a formare
all’altezza della chiesa. Per terra accanto a lui erano appostati due bersaglieri
con un piccolo mortaio d’assalto, uno aveva la testa fasciata.
L’infiltrazione russa che aveva tagliate fuori le sue truppe di punta non era
larga. Egli avrebbe anche potuto reciderla: rimettendoci però con ogni proba-
bilità più uomini di quanti - forse nemmeno un centinaio tra bersaglieri e
croati - lo attendevano dall’altra parte. E poi? La linea nemica che stava
sull’opposta sponda del fiume era tremendamente munita, a quest’ora senza
confronto più munita delle due che, a prezzo di tante perdite, erano state su-
perate nel corso della giornata. E i suoi soldati erano adesso esausti, ubriachi
di stanchezza: nessuno se ne rendeva conto meglio di lui che era, a sua volta,
al limite della resistenza psichica. Certo se egli, dopo avere concentrato il
grosso delle forze sul greto, avesse dato l’ordine d’attaccare, i bersaglieri non
avrebbero mancato di buttarsi avanti ancora una volta. Quasi certamente però
non sarebbero riusciti a rompere la munitissima linea nemica; e quand’anche
fossero, per mera ipotesi, riusciti in qualche ristretto settore a inciderla, in
quanti sarebbero potuti arrivare ancora efficienti e in grado di combattere
dall’altra parte? Per che fare poi? A cosa sarebbero serviti domani pochi repar-
ti sulla grande pista, per di più inevitabilmente tenuti sotto controllo dai carri
armati? Non certo a proteggere il deflusso delle altre divisioni in ritirata. E il
resto del reggimento, i feriti, i carriaggi? Che vicolo cieco, mio Dio!... Basta,
vediamo di prendere una decisione. La resa al nemico era impensabile: il co-
lonnello provò a prospettarsela solo perché era una delle due alternative che
gli rimanevano. No, la resa avrebbe comportato il massacro con un colpo alla
nuca di tutti senza eccezione i combattenti croati. Anche se - forse - non degli
italiani: i quali però, una volta nelle mani d’un nemico come questo, sarebbero
comunque morti nella stragrande maggioranza in prigionia... In che propor-
zione sarebbero morti? Dell’ottanta o del novanta per cento? Che prospettiva
pazzesca! Per un istante l’ufficiale rifletté che non aveva elementi oggettivi su
cui fondare tali prospettive, le quali gli venivano semplicemente dalle suppo-
sizioni dei suoi ufficiali. Ma poteva lui, nuovo a questo fronte, trascurare
l’opinione di chi aveva maggior esperienza? (Oggi, a guerra finita, sappiamo
che si sbagliava quanto alla sorte dei croati, non quanto alla percentuale delle
perdite in prigionia: è comunque solo grazie al senno di poi che lo sappiamo.)
La resa era dunque impensabile. Non rimaneva che l’altra soluzione: ripiegare
fino a Calmicov, e subito all’indomani mettersi coi primi albori in marcia ver-
so ovest, al fine di prendere contatto con la divisione Torino, insieme alla qua-
le cercare poi di aprirsi un’altra strada.
E se a quest’ora la pista per Calmicov fosse bloccata? In tal caso - esausti o
no - bisognava riaprirla combattendo. Meglio del resto morire in combatti-
mento, che per un colpo alla nuca, con le mani legate dietro la schiena... oppu-
re di stenti in un campo di prigionia, coperti di pidocchi, dopo essere passati
per ogni sorta d’abiezioni. Dopo essersi magari ridotti, per fame, a mangiare la
carne dei propri morti, come avevano fatto in queste terre gli stessi civili russi
dieci anni prima.
Il colonnello prese con strazio la sua decisione: si sarebbe ritirato coi resti
del reggimento e della legione croata a Calmicov.

Lasciò il posto d’osservazione, e raggiunta una non lontana cantina nella


quale era adesso il suo posto di comando, diede all’aiutante maggiore gli ordi-
ni per lo sganciamento.
Appena dati gli ordini avrebbe voluto ritirarli. Le idee gli si confondevano.
In piedi nella cantina male illuminata da una lanterna appesa obliquamente al
muro (non c’erano sedie né altro su cui sedersi, ed egli non si sarebbe mai se-
duto per terra) chiuse gli occhi. La sua responsabilità era davvero atroce. Non
lo si sarebbe accusato un giorno d’aver avuta poca fede in soldati valorosi co-
me i suoi? Qual’era il suo dovere? Qual’era? Lo tentò per un istante l’idea -
visto che gli ordini ormai li aveva dati - di prendere un moschetto e uscir fuori
allo scoperto contro il nemico... Era un’idea allettante, risolutrice. Ma... e gli
altri? Aveva il diritto di dare agli altri ordini che lui per primo non era dispo-
sto a eseguire?
Riaprì gli occhi: nella luce lasca della lanterna il capitano aiutante maggiore
lo stava osservando preoccupato.
«Avete trasmesso gli ordini ai battaglioni, capitano?»
«Signorsì. Le staffette sono già partite.»
«Sta bene. Prepariamoci anche noi.»

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Il freddo seguitava ad accanirsi contro gli uomini circondati in riva al fiume.


Malgrado il mortale sfinimento, Stefano batteva ogni tanto con insistenza le
mani tra loro e i piedi sulla neve per evitare che gli si congelassero. A un tratto
fu azzittito da quelli che gli stavano vicini, perché dalla parte del reggimento
era cominciato ad arrivare un confuso rumore di motori. Molto smorzato, è
vero, ma se si tendeva bene l’orecchio, lo si sentiva; i bersaglieri appostati nel-
la neve - simili a mummie per il gonfiore dei cappotti e la lentezza dei gesti - si
guardarono in faccia l’un l’altro con un principio d’animazione: «Ci siamo,
sentite? Stanno incolonnandosi per venire qui.»
Nessuno parlò più, uno invitò a tacere Laiolo che - inconscio di quanto sta-
va accadendo - aveva ripreso a inveire; tutti si misero in ascolto tendendo
l’orecchio: il rombo dei motori era distinguibile a fatica, ma indubbio. Qual-
cuno si levò in piedi e si spostò indietro di qualche metro per udire meglio.
I rumori durarono circa una ventina di minuti; parevano però - fatto strano
- progressivamente affievolirsi. «Capisci? Cercano di non farsi sentire mentre
si preparano a dare il colpo...» «Eh già!» Infine non si udì più alcun rumore di
motori: l’attacco dei nostri doveva essere davvero imminente.
Ma il tempo seguitò a passare senza che esso avesse inizio.
Non descriveremo la desolazione di quegli uomini allorché si resero conto
d’essere stati abbandonati, il loro orgasmo mentre i nemici - lanciando di tan-
to in tanto razzi illuminanti - rastrellavano casa per casa la zona sgombrata
dal reggimento. Completatane l’occupazione essi si provarono a venir avanti
anche nella modesta isola accerchiata, suscitando con ciò una reazione furi-
bonda da parte dei bersaglieri. Allora non insistettero; presero invece - con la
lentezza che gli era abituale - a incolonnarsi per inseguire il reggimento, im-
mettendo sempre più forze - uomini e uomini, e mezzi e mezzi, coi soliti fari
schermati - sulla pista che risaliva da questa parte la collina verso Calmicov.

****

Il primo battaglione del Millecentottantesimo reggimento russo di fanteria,


di cui facevano parte il leningradese tenente Làricev, il caporale Nichiténco di
Voroscilovgrad e il fante Sucorùcov della campagna di Vologda, non aveva
partecipato che marginalmente ai combattimenti, sparando il mattino
d’infilata sui bersaglieri dell’ottavo battaglione mentre risalivano la collina.
Subito dopo, al momento del tumultuoso contrattacco russo sul crinale, al bat-
taglione era giunto l’ordine di tenersi pronto ad entrare in azione; il tenente
Làricev era allora uscito dalla sua stretta buca, e barcollando un po’ per le
gambe in cui il sangue faticava a circolare, aveva fatto il giro delle postazioni
del plotone. I più dei suoi soldati l’avevano guardato con facce attonite, le soli-
te povere facce degli esseri umani quando sono chiamati ad affrontare la mor-
te. «Teniamoci pronti» egli aveva ripetuto: «Appena arriva l’ordine ci butte-
remo sui ’galletti’.» Aveva anche aggiunto: «Lo vedete voi stessi: se anche al-
zano tanto la cresta, non sono che pochi galletti spennacchiati, troppo pochi
per passare. Quanto più presto gli tireremo il collo, tanto prima potremo an-
dare a tetto.» A tale frase il suo attendente Balandìn, contadino, gli aveva dalla
trincea sorriso con simpatia, forse per il paragone agreste, forse senza partico-
lare motivo, e nel sorridere aveva messo in mostra, al solito, la strana dentiera
di ferro stampato, simile a una minuscola ringhiera, che aveva in bocca.
“Guarda in che stato ci hanno ridotto i nostri capi” aveva come tante altre vol-
te pensato Làricev, “e poi ci chiedono di morire per il sistema!”
Comunque l’ordine d’uscire all’assalto non era venuto né allora né dopo che
i bersaglieri, respinto il contrattacco dei russi, erano scesi a investire il paese;
Làricev era rimasto a questo punto sorpreso dal valore dei ‘galletti’. “È c’è chi
afferma che i soldati italiani non valgono molto” aveva pensato: “Come fanno
a dirlo? Sono soldati formidabili, altro che storie.”
In seguito s’era aspettato che il battaglione venisse trasferito alle spalle dei
petùchi, così da prenderli tra due fuochi. Ma neppure quest’ordine era arriva-
to. Invece, dopo lunga attesa, era arrivato l’ordine di scendere in una valletta
laterale alla collina. In questo luogo, sottratto alla vista del nemico, erano stati
un po’ alla volta fatti convenire dalle colline anche altri battaglioni; qui gli
uomini erano rimasti incolonnati disordinatamente sulla neve, mentre in Me-
scoff il combattimento proseguiva furibondo. Solo nel pomeriggio gli altri bat-
taglioni - ma non quello di Làricev - erano partiti per prendere, con un com-
plesso giro, posizione a rinforzo del greto, in modo da rendere quella linea as-
solutamente insuperabile alle ormai stremate forze avversarie.
Gli uomini rimasti nella valletta avevano continuato ad attendere con
l’ordine di non accendere fuochi, per i quali del resto mancava la legna. Chiusi
in sé stessi, muti, essi avevano lasciato passare il tempo con fatalismo, lottan-
do ora per ora col freddo; avevano seguitato a macinare freddo anche dopo
calate le tenebre, anche dopo che s’era diffusa la voce del ripiegamento degli
italiani (in effetti non si sentiva quasi più sparare). Solo qualche soldato aveva
cominciato a questo punto a brontolare apatico: «Se i petùchi hanno smam-
mato, cosa aspetta il comando a farci entrare in paese, al coperto?»
Più tardi l’improvvisa buriana suscitata dal tentativo russo di rastrellare la
zona accerchiata, li aveva alquanto disorientati: «Allora non è vero che i ‘gal-
letti’ hanno smammato. Allora erano tutte balle... Però il comando cosa fa? S’è
dimenticato di noi?» Più tardi ancora s’era diffusa la voce che i reparti russi si
stavano uno dopo l’altro incolonnando e mettendo in marcia per Calmicov.
Era una prospettiva davvero spietata, dopo tante ore trascorse all’aperto con
quella temperatura. Finalmente, verso mezzanotte, era arrivato al battaglione
l’ordine di movimento: non tuttavia per Calmicov, bensì per Mescoff, dove si
sarebbe dovuto schierare a protezione delle ‘catiusce’, che dunque a quanto
pareva sarebbero esse pure rimaste. Quest’ordine venne accolto da Làricev
con autentico sollievo, perché avrebbe consentito ai soldati di trascorrere par-
te della notte al caldo nelle case - se erano rimaste case in cui ricoverarsi - se
no almeno intorno a dei fuochi. Il che avrebbe in conclusione evitato molti
congelamenti.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Stefano intanto s’era addormentato nella neve al riparo dell’argine. Stretto


contro di lui, sotto un cappotto che insieme avevano tolto a un morto, s’era
addormentato anche il suo unico compagno di squadra rimasto, la ‘recluta’
molisana, rivelatosi nel corso di quella tremenda giornata individuo coraggio-
sissimo. Erano passati entrambi dal martirizzante dormiveglia a un sonno
massiccio, proprio di ragazzi atrocemente stanchi i quali, prima di poter fare
qualsiasi altra cosa, hanno assolutamente bisogno di dormire.
Il nemico non sparava quasi più, non lanciava più razzi illuminanti; il lon-
tano bagliore dei suoi fari schermati, e il ronzio confuso dei motori non erano
tali da interrompere un sonno come quello. Col trascorrere delle ore anche
altri bersaglieri andarono allo stesso modo addormentandosi qua e là nelle
postazioni glaciali, e più d’uno parlava o gridava nel sonno, o gemeva, in preda
a incubi; qualcuno delirava pur essendo sveglio. Diversi, farneticanti o co-
scienti, finirono nel corso della notte con l’abbandonare le postazioni per met-
tersi in cerca d’un ricovero qualsiasi. Stefano e il Molisano comunque, chiusi
nel loro sonno greve, non se ne accorsero.

***

Furono destati, poco avanti l’alba, da un bersagliere sconosciuto ch’era ve-


nuto a piazzarsi alla loro destra.
«Cosa... Cosa succede?» biascicò il contadino della Nomanella, spalancando
gli occhi. Gli ci volle qualche istante per riconoscere il luogo: ricordò allora la
situazione disperata, senza via d’uscita.
«Hanno dato l’allarme, c’è l’allarme» gli rispose lo sconosciuto.
«L’allarme?» Stefano e il Molisano, respinto il cappotto tutto incrostato di
brina che avevano addosso a mo’ di coperta, si levarono in ginocchio, quindi
con pochi, difficoltati movimenti, si appostarono rabbrividendo nelle loro pre-
cedenti nicchie dietro il terrapieno, il quale in quel punto era alto meno d’un
metro. Per quanto sogguardassero verso il nemico, non videro però altro che
una distesa piatta di ghiaccio e canne palustri gelate, ancora allagate dal buio;
soltanto verso sinistra, verso est, il cielo accennava tetramente a schiarire.
Stefano - che sperimentava l’ingrata, inesplicabile sensazione d’essere sul
punto di congelare - si levò diritto sulle ginocchia e cercò d’esplorare, fin dove
giungeva il suo sguardo, anche la linea italiana. Parecchie cose dovevano esse-
re cambiate mentr’egli dormiva: sulla destra infatti i bersaglieri non parevano
gli stessi della sera precedente; a sinistra, al di là del Molisano, addirittura
non c’erano più bersaglieri ma militi croati; anche l’unico cannoncino da 47
superstite risultava spostato più vicino al terrapieno, in questo momento ave-
va i suoi serventi stretti intorno.
Si rivolse al nuovo vicino: «Dì, sai perché hanno dato l’allarme?»
«Per il rumore» gli rispose quello.
«Che rumore?» Il giovane tese l’orecchio: percepì un lontano rombo di mo-
tori. “Forse stanno tornando i nostri?” fu sul punto di chiedersi, in un improv-
viso assurdo rigurgito di speranza; ma no, oltre tutto il rumore veniva dalla
parte opposta.
«I carri stanno scaldando i motori» gli spiegò l’altro: «Così ha detto il te-
nente.»
«Il tenente?»
«Sì.» Il vicino indicò in modo impreciso verso destra: «È passato poco fa
lungo la linea.»
Stefano notò che il suo interlocutore somigliava vagamente al Giovannino
di Nomana, quel coscritto col quale due anni e mezzo prima era partito per il
distretto militare: quello pallido in faccia, che faceva il fornaio e pareva sem-
pre infarinato.
«Dì, sai perché adesso qui al terrapieno ci sono anche i croati?»
«Perché tutti quelli decisi a vendere cara la pelle, bersaglieri o croati, sono
venuti qui al terrapieno.»
«Tutti? Ma... e il resto della linea intorno alla zona accerchiata? Chi provve-
de?»
«Non c’è più una linea» gli rispose l’altro. «Siamo troppo pochi per poterla
tenere. Tu nelle ultime ore hai dormito? Non ti sei accorto di niente?»
«Ho dormito» rispose Stefano.
«Beato te.»
«Io e il mio amico» Stefano indicò il Molisano, che annuì, «abbiamo passa-
ta la notte scorsa di pattuglia a scarpinare.»
«Ah, ecco. Beh, quelli decisi a non farsi uccidere come topi, nelle ultime ore
sono venuti tutti qui al terrapieno.»
«E gli altri?»
«Si trovano nelle cantine a dormire, oppure al posto di medicazione, con
l’idea che là, se non altro, quando arrivano i russi ci sarà bandiera bianca.»
«Ah!» Che situazione tremenda, mio Dio! Che capovolgimento pazzesco! E
intervenuto nel giro di appena un giorno... Stefano cessò di parlare, e alzatosi
con decisione in piedi cominciò a battere le mani tra loro e contro il corpo, e i
piedi per terra: ne sentiva un invincibile bisogno perché seguitava ad avere la
sensazione d’essere sul punto di congelare.
In tal modo era cominciata la feroce attesa di qualcosa che in conclusione
non poteva essere che la morte.
Nessuno di quegli uomini martoriati che avevano scelto di ‘morir bene’, in
realtà accettava di morire: nessuno di loro poteva infatti fermare il proprio
pensiero sulla prospettiva che tra poco sarebbe stato un cadavere, così come
non si può tenere la mano su un ferro rovente. Certo, poiché non erano dispo-
sti a trasformarsi in miserabili esseri piagnucolanti che probabilmente sareb-
bero stati comunque uccisi, non gli rimaneva che morire combattendo; non
per questo però accettavano di morire. L’uomo, anche quando va da sé incon-
tro alla morte, non accetta mai di morire. I minuti passavano, insostenibili.
A un tratto un bersagliere incapace di resistere più a lungo in quello stato di
tensione, abbandonò inebetito il terrapieno; di lì a non molto un altro lo imitò,
poi dopo qualche minuto un altro: se ne andavano alla spicciolata, non sape-
vano neppur loro dove, comunque via dal nemico e dalla morte. Però il nemi-
co e la morte li circondavano da ogni parte... L’ufficiale unico rimasto non in-
terveniva, lasciava andare chi non ce la faceva a rimanere; tra i bersaglieri più
risoluti qualcuno invece si adirò: «Cosa sono venuti qui a fare?» diceva con
rabbia: «A portare scompiglio?» Improvvisamente due di costoro raggiunsero,
uno che stava per andarsene, e a spintoni lo riportarono all’argine; dopo di
che nessuno si mosse più.
Stefano non se ne sarebbe comunque andato: dove sarebbe potuto scappa-
re, accerchiati com’erano? E poi lui, per quanto modesto, non era mai stato di
quelli che scappano. I più resistenti si erano riuniti insieme qui al terrapieno
per combattere fino all’ultimo respiro: anche lui avrebbe dunque fatta la sua
parte, come sempre nel corso della vita. Altri, russi, e tedeschi, e italiani, e
d’ogni popolo, si erano già trovati in una situazione come questa, e avevano
fatta la loro parte senza piagnucolare o schiamazzare; adesso era la sua volta.
Sforzandosi di respingere l’orribile angoscia che a momenti pareva sul punto
di travolgerlo, cominciò a pregare tacitamente, a chiedere perdono a Dio dei
suoi peccati.

CAPITOLO VENTESIMO

Il rombo dei motori improvvisamente crebbe. I bersaglieri videro a un


tratto un carro - forse un T34 - affacciarsi cauto al greto: non proprio davanti
a loro, ma un po’ verso sinistra, dov’era il ponte per il quale tanto si era com-
battuto; il cuore cominciò a tempestare nel petto d’ognuno. Nell’aria fosca rin-
tronò il primo colpo del cannone italiano, il combattimento aveva inizio.
Mentre il frastuono si faceva furioso Stefano, inginocchiato al pari degli al-
tri dietro il terrapieno, sparava con parsimonia colpo su colpo, cercando di
non sprecarne, come un contadino che spenda del suo. Quanto gli sarebbero
durate le munizioni? Quanti minuti? Ebbe l’enorme sorpresa di vedere il carro
fare alt tra le canne del greto. Il piccolo cannone dei bersaglieri non cessava di
sparargli contro e lo colpiva di continuo: il carro rispondeva con le sue canno-
nate troppo più potenti, una delle quali centrò infine il pezzo, sbranando i ser-
venti; dopo di che però il carro attaccò a retrocedere, a retrocedere malamente
e con difficoltà, finché si arrestò di nuovo in un folto.
A tale vista ci fu chi gridò frasi insensate come: «Non ci avete ancora presi,
eh?» «Il Terzo è duro a morire» e simili. Ma più in là, sia sulla destra che sulla
sinistra, non poche ombre ostili avevano superato il greto del fiume ed erano -
al seguito d’alcuni carri - entrate tra le case della zona accerchiata. A sinistra,
dove stavano i croati, il nemico era sensibilmente più vicino che a destra; per-
ciò i croati, fatto angolo nella neve, sparavano adesso anche in quella direzio-
ne, da quegli uomini valorosi che erano. A un tratto uno di loro si alzò in piedi
incurante della sarabanda dei colpi russi; poco dopo se ne alzò un altro, poi un
altro ancora; Stefano arguì che avevano finite le munizioni. Dopo di che ac-
cadde un fatto atroce: alcuni cominciarono a chiedere pressantemente qualco-
sa a un loro sottufficiale armato di pistola, il quale dapprima negava e tergi-
versava, finché accondiscese: puntata la pistola alla tempia di un milite, fece
fuoco, abbattendolo. Subito altri si fecero avanti, chiedendo d’essere uccisi;
anche un graduato estrasse allora la propria pistola. Adesso Stefano non guar-
dava più dalla parte dei croati, distingueva però nella sparatoria generale i
colpi minuti di pistola con cui essi si davano l’un l’altro la morte. Gli giunsero
a un tratto le grida d’un loro ufficiale; tornò allora a guardare: l’ufficiale, un
sottotenente, si sforzava di farli desistere, i soldati controargomentavano con-
vulsamente. Sembrava che l’ufficiale li invitasse - perduti per perduti - a ten-
tar di fuggire, li avrebbe guidati lui stesso. Solo un paio lo seguirono: gli altri,
disperando d’ogni salvezza, ricominciarono a uccidersi tra loro. Impressiona-
to, anzi sconvolto (“Non così... Non così... Non vi rendete conto, disgraziati,
che state per presentarvi al tribunale di Dio? Siete cattolici anche voi, no?”)
Stefano distolse gli occhi da quel suicidio collettivo, imponendosi di non guar-
dare che al nemico. Ci riuscì. Troppe affezioni ormai lo incalzavano. Anche le
sue munizioni erano sul punto di finire: aveva introdotto il penultimo carica-
tore, gli rimanevano dodici colpi, e là di fronte la fanteria nemica, a giudicare
dalle vampe di partenza delle sue armi automatiche, aveva ripreso a venire
avanti. Sotto il suo fuoco tambureggiante cadde sulla destra il tenente italiano,
colpito mentre in piedi senza più riguardarsi rispondeva col moschetto. Poi
s’afflosciò con un singhiozzo anche il Molisano. Stefano si chinò spaventato su
di lui: aveva la fronte trapassata. Anche il suo ultimo compagno di squadra se
n’era andato!
Il giovane fu per mettersi a gridare, riuscì a dominarsi a stento. Il bersaglie-
re che stava alla sua destra voltò per un attimo verso di loro la faccia pallida
che ricordava quella del Giovannino di Nomana, quindi ricominciò a sparare
con impegno: doveva avere ancora munizioni.
Sforzandosi di reprimere la propria orribile agitazione, Stefano si protese
sul terrapieno per prendere di mira qualcuna di quelle invisibili ombre che
avevano ucciso il suo compagno di squadra. Ma non poté sparare: un urto,
come un pugno in pieno petto, gli tolse ogni possibilità d’agire ancora, di
compiere un qualsiasi ulteriore sforzo: si afflosciò con lentezza dietro il terra-
pieno. “M’hanno colpito al cuore” pensò. Tutt’intorno il combattimento che
l’aveva impegnato fino allora continuava, ma egli ormai non ci aveva più a che
fare: altre cose, diverse e accavallantisi, estenuavano i suoi ultimi istanti: quel-
la fitta implacabile che sembrava al cuore, il terrore, più che della morte, del
mistero che la seguiva, e il pensiero di sua madre. Ma sopratutto il dolore...
questo insopportabile dolore al petto: «Ahi... ahi...» Giovannino faccia-
infarinata si voltò verso di lui e annunciò livido: «Ho finite le munizioni»,
quindi inastò la baionetta; ma Stefano non lo udì, si lamentava adagio: «Ahi...
ahi...» Faccia-infarinata vide il guanto che il giovane si premeva al petto rosso
di sangue, udì il lamento. Stefano giaceva come ammucchiato contro lo spalto:
l’altro, deposto per un istante il moschetto, si piegò su di lui e lo tirò supino; il
dolore nel petto di Stefano diminuì un poco, cessò il suo lamento; egli tuttavia
non apriva gli occhi. Li aveva fissi su sua madre, seduta lì, nella cucina di casa,
al solito posto: la mamma dalla sedia lo guardava, lo guardava, con occhi spa-
lancati. Stefano l’invitava: “Parlate, dai, dite qualche cosa voi, che io, con que-
sta fitta al cuore, non posso parlare... e non c’è più tempo, mamma, non c’è
più tempo.” La figura della madre fluttuava, fino a divenire indistinta, si dissi-
pava: «Mamma! Mamma!» urlò Stefano.
“Anche questo” pensò Faccia-infarinata: “anche lui! All’ultimo momento
chiamano tutti la mamma!”
Si chinò nuovamente su Stefano, che stavolta aprì gli occhi e vide quella lar-
va di faccia imminente. “Il Giovannino di Nomana...” pensò, come in una neb-
bia; poi: “No, no...” si disse: “è... è la faccia della morte!” e compiendo un su-
premo sforzo alzò entrambe le braccia per respingerla.
La sua anima abbandonò il corpo. Come quando bambino, nel cortile della
Nomanella, poggiati per gioco mani e ventre su una stanga del carro Stefano
spingeva le gambe in alto e la testa in giù per vedere il mondo capovolto, così
ora intorno a lui si produsse un grande capovolgimento.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Nello stesso istante a Nomana - a tremila chilometri di distanza - un tic-


chettio su un vetro della camera da letto destò la mamm Lusìa, che lanciò un
grido: «Stefano è morto! Oh, povera me, povera me, povera me.»
Si svegliò di soprassalto Ferrante: «Come? Cosa... cosa dici?» «Il nostro
Stefano è morto, è morto.»
«Calmati Lucia.» Ferrante allungò un braccio, cercò la peretta della luce, ne
premette il pulsante. Una luce giallognola illuminò la testa scarmigliata della
misera madre levatasi a sedere nel letto, i suoi occhi pieni d’angoscia, le dita
premute spasmodicamente sulla bocca, tanto che storcevano i lineamenti del
viso; intorno c’era però la solita umile stanza e l’aspetto tranquillante delle
cose di sempre. «Calmati Lucia. Di sicuro hai sognato.»
«No, no Ferrante. Non è così stavolta. Lo sento stavolta, oh! Stefano è mor-
to» e la povera Lucia, impossibilitata a spiegarsi, cominciò a singhiozzare.
«Ascolta, se hai sognato che Stefano moriva - lo sai anche tu, no? - gli hai
allungata la vita.» Ma anche Ferrante era incerto: raramente aveva visto sua
moglie in uno stato simile.
«Il vetro della finestra» esclamò la donna, indicandolo con la mano: «L’ho
sentito battere al vetro. Forse... Forse lo ha rotto?»
«Chi? Ha rotto il vetro?» Ferrante indugiò un poco, poi mise con un sospiro
le gambe fuori del letto, infilò i piedi in due logore ciabatte, e si alzò. Nella
stanza non riscaldata faceva freddo. L’uomo andò con passi dapprima incerti
alla finestra, aprì gli scuri, esaminò alla debole luce della lampadina uno per
uno i riquadri di vetro infiorati di ghiaccio (fuori era ancora buio e le persiane
erano serrate), poi richiuse i due scuri.
«I vetri sono sani» disse, «e nessuno può averli toccati perché le persiane
sono chiuse. Forse hai sentito il ghiaccio scricchiolare. Lucia calmati: tu hai
sognato e...»
«No, ti dico. Io non lo stavo sognando Stefano; tante altre notti sì, ma non
stanotte. È stato lui a svegliarmi, passando di qui: la sua anima. La sua anima,
capisci?» parlava concitata, per poco non si metteva a gridare.
«Queste non sono cose da dire. Domani... cioè oggi, quando si sarà fatto
chiaro, potrai parlarne con don Mario, e te lo dirà anche lui. Sentirai: questo
che tu dici è, come lo chiamano? superstizione, ecco.» Guardò la moglie nei
mansueti occhi marroni, e si sforzò di sorriderle: «Una donna di fede come te,
credere alle superstizioni! Eh? Da quando in qua?»
«Oh no, non è così» disse Lucia: «non...» e ricominciò a piangere sommes-
samente. Ferrante guardò la grossa sveglia sul canterano: segnava le sette e un
quarto. Involontariamente ne prese atto: se lo spavento di sua moglie era fon-
dato, la morte del loro ragazzo doveva essere avvenuta cinque minuti, prima,
alle sette e dieci. “Ma... che razza di ragionamento sto facendo?” si rimprove-
rò: “Sto forse perdendo la testa anch’io?” «Vuoi qualcosa, Lucia?» chiese alla
moglie. «Che ti scaldi magari un po’ di caffè?»
La donna, senza smettere di piangere, fece segno di no con la testa. Poi:
«Scusami Ferrante» mormorò.
«Coraggio» le disse l’uomo «devi farti coraggio.» Lì in piedi, non sapendo
bene cosa fare, si ravviava con insistenza i baffi color pepe: «Cerca di vincerti
e... Insomma fatti coraggio. Guarda, sai che ti dico? Io mi rimetto a letto»
mentre lo diceva cominciò a eseguire «e anche tu ti rimetti sotto le coperte,
ecco, ecco, così; e adesso, al caldo, se credi diciamo insieme una decina del
rosario, perché nostro figlio torni sano e salvo a dispetto dei tuoi sogni.»
Lucia fece segno di no, di no, scuotendo la testa sul cuscino: «Non è stato
un sogno» sussurrò.
Ferrante spense la luce.

***

Sulla neve di Mescoff del giovane bersagliere non era rimasto che il corpo,
vicino al quale - in un violento parapiglia, abbastanza simile a quello in cui
nell’aldilà si agitano i dannati, e altrettanto disperato - si sviluppò un ultimo
brandello di battaglia allorché i nemici arrivarono al terrapieno. Ogni resi-
stenza venne troncata, Mescoff sommersa del tutto. Unici a fuggirne e a rag-
giungere più tardi - attraverso incredibili peripezie - la colonna del Sesto reg-
gimento bersaglieri in ritirata, furono il sottotenente croato e i suoi due legio-
nari che Stefano aveva visto allontanarsi sulla neve.
Da loro, e da loro soltanto, gli italiani ebbero notizie della battaglia di Me-
scoff; altre informazioni non ne ebbero per quasi tre anni, fino a quando cioè,
dopo la guerra, i pochi bersaglieri del Terzo sopravvissuti alla cattura in Cal-
micov, e alla spaventosa prigionia, tornarono in patria. (*)

(*) In seguito, sulla base delle testimonianze raccolte, venne fatta della battaglia di Me-
scoff una ricostruzione ufficiale. Alla quale noi avremmo voluto com’è nostro sistema atte-
nerci; ce ne siamo però dovuti parzialmente scostare perché non disposti a omettere
l’episodio degli uomini accerchiati in paese: dei quali e della cui fine non è rimasta quasi
altra testimonianza che quella portata in quei giorni dai croati. A noi l’episodio venne riferi-
to a fine gennaio (cioè poche settimane dopo che s’era verificato) da ufficiali del Sesto ber-
saglieri che avevano parlato coi tre croati, e da allora ha costituito ai nostri occhi una com-
ponente importante del quadro. L’abbiamo perciò introdotto anche se, a trentanni di di-
stanza, non siamo riusciti nonostante le nostre ricerche a documentarci ulteriormente su di
esso (pur avendone trovata una conferma nelle memorie del colonnello Carloni comandan-
te del Sesto reggimento bersaglieri: ‘Italianzy caputt’ ed. CEN, Roma 1959). Tra l’altro non
siamo riusciti a individuare a quale battaglione appartenevano gli uomini rimasti accer-
chiati in Mescoff: per questo motivo nel romanzo abbiamo dato ai battaglioni che formava-
no il reggimento di Stefano un numero diverso da quello che essi avevano nella realtà, un
numero di nostra invenzione. (Nota dell'A.)

PARTE QUINTA

CAPITOLO PRIMO

Nell’ora della morte di Stefano la colonna di cui Ambrogio faceva parte sta-
va sfilando in direzione sud appena una ventina di chilometri a ovest di Me-
scoff.
Era una colonna lunghissima, formata dalle divisioni di fanteria Pasubio e
Torino, dai resti delle due legioni di ‘camicie nere’ Montebello e Tagliamento,
a
da unità di corpo d’armata, nonché dalla 298 divisione tedesca (incompleta):
nell’insieme venti-venticiquemila italiani e cinque-seimila tedeschi. Queste
unità avevano, nel corso della notte precedente (la prima della ritirata) trovato
sbarrate dal nemico tutte le strade che da ovest portavano a Mescoff, e aveva-
no finito col confluire su un’unica pista diretta a sud, incolonnandosi una die-
tro l’altra.
Davanti marciavano i tedeschi: a sinistra gli uomini, vestiti di divise bian-
che imbottite, a destra le macchine (autocarri, trattori, cannoni, rimorchi
d’ogni genere) tutte dipinte o sporcate di bianco. Con gli uomini procedevano
molte slitte e carrette agricole trainate da piccoli cavalli russi col pelame in-
crostato di ghiaccio: ogni squadra tedesca disponeva di almeno uno di quei
grezzi veicoli, che ne trasportava le armi individuali e le munizioni, gli uomini
potevano così camminare liberi da impedimenti. Massicci nelle loro divise
mimetiche, innegabilmente marziali, impassibili nonostante la temperatura
rigidissima della notte, essi procedevano con lena.
Pattugliavano a sbalzi i fianchi della loro colonna, e della successiva italia-
na, otto o nove carri armati, superstiti - secondo si affermava -
d’un’impossibile battaglia d’arresto ingaggiata qualche giorno prima nella zo-
na di Boguciar da alcune decine di carri tedeschi contro centinaia di carri russi
(solo anni dopo si sarebbe appreso che i carri nemici entrati a Boguciar, e ora
in movimento a tergo dello schieramento italiano, erano più di settecentocin-
quanta, tutti di tipo pesante). Come gli italiani avevano già avuto modo di
constatare durante le soste, i tedeschi seguitavano - nonostante la situazione -
a mostrare un compiacimento tutto tedesco per la potenza dei propri mezzi
(sebbene fossero così scarsi confronto alla paurosa necessità!), e fiducia in sé
stessi, e altero sprezzo del nemico.
Gli italiani che marciavano dietro di loro non formavano allo stesso modo
una duplice colonna, ma una colonna unica di uomini e macchine mescolati.
Non indossavano divise bianche ma grigioverdi, cosicché nel buio la loro co-
lonna - inconfrontabilmente più lunga di quella tedesca - richiamava l’idea
d’una frenetica fiumana scura, scorrente tra i due bordi di neve della pista.
Al principio anche nella colonna italiana c’erano stati innumerevoli auto-
carri, trattori e cannoni, adesso però - sul finire della seconda notte di ritirata
- non ne rimaneva che un numero esiguo, essendo tutti gli altri rimasti lungo
la strada per mancanza di carburante.
Mentre camminava frettoloso, Ambrogio tornava col pensiero alle prime
ore di quella ritirata che nessuno ormai poteva immaginare quando si sarebbe
conclusa. Fin dal primo momento le cose tra queste truppe ordinarie erano
andate diversamente che, tra i bersaglieri: il giovane rivedeva con gli occhi
della mente i bordi della pista nelle immediate retrovie del Don, disseminati
d’innumerevoli oggetti, come capi d’equipaggiamento e di vestiario, maschere
antigas, casse e cassette di munizioni, sacchi, involti d’ogni genere, e poi tubi e
piastre di mortaio, e mitragliatrici, e mitragliatori, di cui i soldati - dopo averli
portati a spalla per un po’ di chilometri - si erano sbarazzati. A qualche ora di
marcia dalle linee questa visione di disordine impressionante era gradatamen-
te venuta meno, per dar luogo all’altra, ancora più impressionante, degli auto-
carri e dei trattori coi loro cannoni al traino, abbandonati sempre più numero-
si sulla pista. I mezzi fermi da alcune ore (appartenuti ai reparti di retrovia,
che se n’erano andati verso mezzogiorno) erano distinguibili da quelli fermati-
si da poco, per una patina di ghiaccio simile a vetro che li rivestiva interamen-
te. Dapprima sulle macchine abbandonate non c’era nessuno, poi su qualcuna
Ambrogio aveva notato con raccapriccio qualche ferito; accorgendosi del suo
interessamento questi infelici si erano messi a urlare invocando soccorso: al
pari di altri ufficiali il giovane s’era allora dato da fare per trasbordarli sulle
macchine ancora in moto. Il che per un certo tempo era stato possibile, ma in
seguito, col procedere della marcia, non più. Cosicché sia lui che gli altri uffi-
ciali avevano dovuto desistere dall’impresa: gli uomini non in grado di cam-
minare - via via più numerosi sulle macchine ferme - erano rimasti in tal mo-
do abbandonati al loro destino, che sarebbe stato probabilmente di morire
assiderati prima ancora dell’arrivo - temutissimo - del nemico.
“Chissà” si chiedeva a momenti Ambrogio “quanti dei disgraziati abbando-
nati ieri notte sono ancora in vita?” Era un quesito estenuante.
Grazie ai corrugamenti del terreno egli intravedeva ogni tanto, lontano sul
davanti, l’ultimo tratto della colonna tedesca simile a un’incerta serpentina
color bianco sporco che si perdeva nel buio: appena davanti a lui invece, e die-
tro a perdita d’occhio, fiumeggiava l’oscura colonna italiana. Il suo attendente
contadino Paccoi, che gli camminava a lato, insisteva a guardare verso un pic-
colo segmento dell’orizzonte di sinistra, cioè di est, dove un modesto alone
rosso, percorso a tratti da brividi, tingeva silenziosamente il basso cielo. Erano
gli ultimi guizzi della battaglia per Mescoff, ma qui nessuno lo sapeva. «Cosa
sarà mai?» fini col domandare Paccoi.
Il sottotenente riaffiorò dai propri pensieri. «Di cosa parli? Di quel colore
rosso?»
«Sì.»
«Cosa vuoi che sia? È un incendio.»
«Che altro potrebbe essere?» disse l’appena ventenne ufficiale topografo, il
quale aveva sul passamontagna, davanti al naso di stile greco, una mascherina
di ghiaccio al pari di tutti: «È nu fucariello. Pochi ne abbiamo visti in queste
due notti ’i sti fucanelli, Paccoi mio.»
Ambrogio ebbe una sfumatura di sorriso e si girò a dare un’occhiata ai sol-
dati: il suo gruppo (adesso egli si trovava in testa, con gli altri ufficiali del re-
parto comando) seguitava a mantenersi in discreto ordine. Gli automezzi è
vero - se per caso ce n’era ancora qualcuno in moto - non stavano più con gli
uomini a piedi, erano incapsulati chissà dove nella colonna. Gli uomini tutta-
via - che il pomeriggio precedente, durante una lunga sosta nel villaggio di
Popovca, si erano completamente scompaginati in cerca di cibo e di ricovero
nelle isbe - ora procedevano di nuovo inquadrati, batteria per batteria; allo
stesso modo procedevano gli altri due gruppi del reggimento; il colonnello e il
comando reggimentale marciavano davanti a tutti.
Da quando avevano lasciata Popovca camminavano ormai ininterrottamen-
te da otto ore, e il maggiore Casasco aveva adesso, sebbene si sforzasse con
dignità di non mostrarlo, un aspetto a tal punto sofferente da sembrare al li-
mite delle sue risorse fisiche. “Per lui il ricordo del disordine di ieri deve esse-
re ancora più penoso che per noi giovani” rifletté Ambrogio. “Ieri sera siamo
riusciti a ricomporre i reparti quasi per miracolo: soprattutto, io credo, per il
diffondersi di quella strana diceria che con poche ore di marcia avremmo rag-
giunte le linee amiche. Come se possano davvero esistere delle linee ami-
che!...” La tendenza che le unità italiane avevano mostrato a dissolversi, scon-
certava ancora il giovane. “È vero che non possiamo distribuire il rancio, e c’è
questo freddo demenziale per cui ad ogni istante si ha l’impressione di non
poter resistere oltre, e il bisogno anche durante le soste di muoversi per non
congelarsi. Però come non si rende conto, ciascuno, che il disordine è, fra tut-
te, la cosa più pericolosa? Io non capisco... Il vero guaio è che nessuno di noi
italiani fa affidamento sugli altri, superiori, inferiori, o pari grado che siano:
ecco il nostro vero guaio, non abbiamo fiducia gli uni negli altri.”
Si avvicinava, incerta, l’alba; la pista aveva preso a salire in modo costante,
cosicché Ambrogio poteva adesso vedere meglio, al di là dei connazionali di
testa, la lunga serpentina bianca della colonna tedesca che si perdeva nel buio.
Al solito con l’avvicinarsi dell’alba il freddo andava facendosi più spietato: lo
indicava l’estendersi delle maschere di ghiaccio e di brina sui passamontagna
davanti al naso. Pochissimi parlavano. La gratuita convinzione che la colonna
fosse ormai prossima a uscire dalla sacca però, anziché venir meno era andata
crescendo nel corso della marcia, e se qualcuno parlava, parlava appunto di
questo. Si andavano addirittura diffondendo, in qualche tratto della colonna,
notizie circostanziate: la linea amica era a dieci chilometri, no soltanto a cin-
que, no era al termine della lunga salita che si stava percorrendo. Là davanti
c’era (cosa ben verosimile, anche se la mancanza di luce non consentiva di ve-
derlo) un crinale: ebbene, la nuova linea correva appunto su quel crinale.
«Cosa ne dite, signor tenente?» chiese Paccoi ad Ambrogio: «Con tutto que-
sto terreno scoperto davanti, l’hanno sistemata bene, non vi pare?»
«Cosa?»
«La linea nuova.»
«Certo» gli rispose Ambrogio «se c’è davvero una linea nuova.»
«Perché non dovrebbe esserci?» mormorò Paccoi. «Lo dicono tutti che c’è.»
«Bene allora» concluse Ambrogio.
Paccoi rimase interdetto: dopo essersi cullato in quella prospettiva non gli
era facile rinunciarvi, o anche solo vederla messa in dubbio. Si girò verso uno
che camminava due righe più indietro: si trattava del caporale osservatore che
aveva lasciato l’osservatorio sul Don insieme con Ambrogio; costui stava spie-
gando a mezza voce a un suo vicino che non si trattava soltanto di una linea
ma, per essere precisi, di due linee contrapposte: una russa e una nostra.
«Ehi» gli chiese Paccoi: «la nuova linea di cui parli, sei sicuro che esiste
davvero?»
Il caporale alzò verso di lui uno sguardo risentito; gli rispose tuttavia con
calma: «Che c’è lo dicono tutti. Lo scopri solo adesso tu?»
«Scusa, ma è soltanto per assicurarmi. Tu da chi l’hai saputo?» Ecco il pun-
to. Il caporale osservatore si frugò nella memoria, preoccupato oltre tutto di
non sfigurare. «La notizia viene dai tedeschi» asserì infine, con voce distacca-
ta. «A me l’ha detto ieri sera un mio paesano della terza batteria che parla te-
desco.»
«Ah, ecco» fece Paccoi, sinceramente sollevato: «Meno male!» Anche il ca-
porale avrebbe voluto rallegrarsi allo stesso modo, ma non poteva. Stava infat-
ti obiettandosi - sia pure in un angolo riposto della mente - che quel compae-
sano (col quale la sera prima aveva effettivamente scambiata qualche parola
sulle linee amiche) forse il tedesco lo sapeva e forse no. Ad ogni modo era stu-
dente, e dunque era ben possibile che lo sapesse. Rimaneva però il fatto che
non aveva per niente detto d’avere parlato coi tedeschi... “Va fa ’n...” finì col
congedare mentalmente il problema il caporale, e spostò la mente su qualcosa
di meno affaticante.
La marcia continuava.

CAPITOLO SECONDO

La salita conduceva effettivamente a un crinale, o meglio a una sorta di lun-


ghissimo displuvio: nel punto in cui la pista lo intersecava si scorgevano ades-
so alcune casupole dal tetto di paglia. Quando vi arrivò Ambrogio si rese conto
che costituivano l’inizio di un villaggio piuttosto esteso, dalle costruzioni assai
disseminate; c’era la targa col nome: Posniacof.
Qui i tedeschi avevano fatto alt e andavano prendendo posizione ai margini
dell’abitato, come se temessero un attacco nemico e non sapessero da quale
parte. I loro mastodontici carri si piazzarono invece nel mezzo del paese, ai
principali incroci, e vi rimasero coi motori accesi.
Le truppe italiane seguitavano ad affluire; adesso tra i soldati cominciavano
a correre voci sconfortate: che non si era affatto fuori della sacca, che anzi ci si
trovava in una zona più pericolosa della precedente, perché infestata dai carri
nemici. Ambrogio lo udì affermare prima da uno, poi da due, poi da altri sol-
dati e anche dal giovanissimo ufficiale topografo napoletano. Tale voce si era
appena diffusa, che ne corse una opposta: le linee amiche erano in realtà vici-
nissime: appena fuori del villaggio, là, oltre certe pieghe del terreno. Ambro-
gio non riusciva a raccapezzarsi: chi diffondeva simili voci? O meglio, in che
modo si formavano? E su che fondamento?
Essendosi arrestati i tedeschi, la parte iniziale della colonna italiana si era
pure arrestata. Anche il reggimento d’Ambrogio, coi suoi tre gruppi uno dietro
l’altro, e il colonnello comandante in testa, appiedato al pari di tutti; come gli
altri connazionali essi si mantenevano per ora incolonnati sulla pista.
Indietro, lungo la salita che portava al crinale e al villaggio, il grosso della
colonna - decine di migliaia di uomini come s’è detto - non si era però ferma-
to: continuava a salire, la parte più vicina a sbalzi e premendo.
Ambrogio intanto si guardava attorno: il villaggio, per quel che egli ne pote-
va vedere, anche se molto esteso era misero, tutto di case col tetto di paglia. A
giudicare dalla neve calpestata tra casa e casa, doveva esservi già passata, e
probabilmente avervi fatto sosta, molta gente. “I nostri delle retrovie, forse?”
si chiese. La sua attenzione venne però attirata da una, due, guarda quante...
innumerevoli impronte di cingoli che rigavano la neve tra le isbe. Potevano
averle lasciate i carri tedeschi? No, le impronte erano troppe. “Quante sono,
accidenti! Altro che i nostri delle retrovie... Chissà quanti carri russi sono pas-
sati di qui... Certo provenivano da quella direzione, da Boguciar. Per forza do-
vevano provenire di là, da dove se no? E adesso dove saranno?”
Fuori di Posniacof - aumentando la luce - il suo occhio giungeva a spaziare
nelle direzioni di sud e di ovest fin molto lontano, e non scorgeva altro che
desolate distese di neve, in qualche punto velate di nebbia, inospitali, senza un
segno di vita.
Ogni tanto adesso sentiva gridare alle sue spalle; venivano ripetuti comandi
come: «Alt.» «Fermi.» «Alt, alt.» Evidentemente gli ufficiali si sforzavano
d’impedire ai soldati di sorpassarsi tra loro.
A due passi da Ambrogio Cavallo Stanco, tutto rattrappito nel cappotto a
pelliccia, parlottava col maggiore: «Non possiamo rimanere fermi a questo
modo» diceva. «Quelli dietro, con la fissa che hanno di uscire dalla sacca, pre-
sto nessuno li potrà più trattenere: ci arriveranno addosso e addio buon ordi-
ne.»
«E allora?» rispondeva tetro il maggiore.
«Dovremmo spostarci fuori strada. Su quello spiazzo là in fondo, per esem-
pio. Forse anche altri reparti ci imiteranno. Ad ogni modo gli altri facciano
come gli pare: noi dobbiamo conservare in ordine il gruppo, poi si vedrà.»
«Dimentichi che adesso siamo inquadrati nel reggimento?» gli obiettò il
maggiore: «Dev’essere il colonnello a dare l’ordine.»
«È vero. Ma se non lo dà...»
Di lì a poco, mentre le grida a tergo andavano crescendo: «Non c’è più tem-
po da perdere» ricominciò a perorare Cavallo Stanco, «spostiamoci fuori stra-
da. Signor maggiore, me ne assumo io la responsabilità, se credete: se sarà
necessario diremo che ho dato l’ordine di mia iniziativa, ma non perdiamo
altro tempo.»
«No. Anche questo sarebbe disordine» disse il maggiore Casasco. Intanto là
indietro la confusione aumentava.
«Fa piuttosto una cosa» risolse a un tratto il maggiore: «Va dal colonnello,
e senti se gli sembra opportuno di spostare l’intero reggimento.»
«Io? Andare dal... Lasciarvi?»
«Sì, va. Va.»
«Forse non c’è più tempo, ma provo» disse Cavallo Stanco. Una remora, un
dubbio passò nei suoi occhi. «Vado e torno subito. Subito» ripeté: «Mi... spie-
go?» Si staccò come a fatica dal maggiore, e si diresse a passi affrettati verso la
testa della colonna.
Da tergo però i soldati avanzavano ormai, se pure lentamente, come una
fiumana che dilaga. Non volevano saperne di rimanere fermi sulla pista in sa-
lita, lontano dalla protezione delle armi tedesche; né intendevano restare al di
qua delle linee amiche, se per caso tali linee esistevano davvero. Ormai
l’avanguardia della fiumana stava arrivando; alle spalle del reparto comando
di gruppo l’energico capitano della prima batteria e i suoi subalterni s’erano
messi a gridare, sforzandosi di conservare i propri uomini inquadrati; anche
Ambrogio e il sottotenente topografo uscirono allora dalle file e rivolti agli ar-
tiglieri del reparto comando cominciarono a urlare: «Alt, voi fermi. Voi non
muovetevi. Conservarsi in ordine, in ordine» precisamente come più indietro
altri ufficiali avevano senza effetto urlato prima.
E appunto allo stesso modo questi ordini risultarono in conclusione vani.
Molti dei soldati si comportavano infatti come se non li udissero, o non li ca-
pissero, e anziché stringersi attivamente nei ranghi si mantenevano inerti;
alcuni, che ciò facendo incontravano gli occhi degli ufficiali, non corrisponde-
vano al loro sguardo, si fingevano altrove col pensiero, perché non intendeva-
no assolutamente rimanere indietro. Va anche detto che a certuni l’immobilità
in quel freddo cominciava già a riuscire fisicamente insopportabile, più d’uno
era inoltre attirato dalla pur remota possibilità di trovare - una volta rotte le
righe - un po’ di cibo nelle casupole circostanti...
Così anche il tratto di colonna costituito dal gruppo, raggiunto e superato
dalla moltitudine d’uomini in arrivo, lentamente si scompaginò e ne fu in-
ghiottito.
Ambrogio, che fino all’ultimo istante s’era sforzato di mantenere l’ordine,
lasciò cadere le braccia, desolato di fronte a un simile spettacolo di sfaldamen-
to. Polemicamente non si mosse da dov’era; del resto i soldati in movimento
non lo urtavano, non lo toccavano (lungi dal ribellarsi agli ufficiali, essi erano
astrattamente grati a quelli fra loro che si davano da fare). Attraversando la
truppa venne a mettersi al suo fianco l’ufficiale topografo: «Cos’è questo casi-
no, Riva? Che possiamo fare ormai con soldati simili?» Lo raggiunse anche
l’attendente Paccoi: «Io son qua, signor tenente.»
La massa dilagante fu costretta a fermarsi una volta arrivata a tergo dello
schieramento tedesco e andava sempre più raffittendo, mentre per sottrarsi
alla calca non pochi si spostavano sui lati o anche tornavano indietro. Dalla
pista la colonna seguitava intanto ad affluire lentamente: i nuovi arrivati do-
mandavano sconcertati: «Siamo o no fuori dalla sacca? Cosa succede?» Dopo
un po’ si fermavano a loro volta, e assommandosi a quelli già dentro il villag-
gio andavano poco alla volta formando una gran folla, qua fitta, là ancora ra-
da, particolarmente fitta nelle vicinanze dei carri tedeschi.
Sopraggiungevano anche dei carriaggi italiani: autocarri stracarichi di feriti
e di congelati, qualche trattore ancora col suo cannone al traino coperto da
grappoli d’uomini, slitte e un certo numero di carrette trainate da cavalli.

Vicino ad Ambrogio fece alt un piccolo convoglio di cinque o sei uomini con
due grossi muli, il primo dei quali aveva al traino un cannoncino anticarro da
47/32, e il secondo una slitta con le relative munizioni. Si trattava, guarda un
po’, di bersaglieri: li guidava un sergente con una faccia straordinariamente
somigliante a quella del Virgilio De Lollis, il marrucino dei tempi di Cremona,
il quale con intonazione - manco dirlo - abruzzese: «Che razza di schifezza»
andava rilevando a mezza voce: «Guardate un po’ che merda.»
«Invece d’essere più disciplinati nel pericolo» osservò uno dei suoi «vedi
che casino!»
«Bell’affare per noi trovarci qui con questi, invece che coi nostri» disse un
altro.
Ad Ambrogio era subito venuto in mente il bersagliere Stefano. “Chissà co-
me se la starà passando in questo momento Faccia-di-tutti-i-giorni? Sarà ri-
masto insaccato anche lui? O la Celere avrà fatto in tempo a prendere la gran-
de pista? Ma cosa diavolo ci fanno con noi questi bersaglieri?” Ricordò, vaga-
mente, che alcune squadre di bersaglieri erano state tempo addietro assegnate
alla sua divisione con funzioni anticarro. “Ah, ecco...” Tornò col pensiero a
Stefano: “Come gli starà andando? I russi hanno tagliato le strade tra noi e
Mescoff: è un brutto affare...” Brutto, sì, ma i bersaglieri non erano come que-
sta truppa ordinaria, erano soldati forse non meno efficienti dei tedeschi.
S’immaginò l’amico che, con una sciarpa avvolta attorno al lungo collo, scar-
pinava risoluto insieme ai suoi nella neve. (A quell’ora invece — come sappia-
mo - egli stava già scarpinando nell’eternità, tagliato fuori per sempre dalle
cose di questo mondo.)
Il sergente bersagliere seguitava intanto a guardarsi attorno: scorse oltre la
folla due pezzi anticarro tedeschi piazzati, li considerò attento, poi si rivolse ai
suoi: «Dai» disse «andiamo a prendere posizione al loro fianco.» La squadra
si mosse; nel giro di qualche minuto schierato coi lunghi cannoni tedeschi di-
pinti di bianco ci fu anche il brunito pezzo italiano da 47: che al confronto ap-
pariva piccolo come un giocattolo. E tuttavia - più d’uno se ne rendeva conto -
era temibile in mano a soldati risoluti come quelli.
La folla cresceva di continuo e sempre più si rimescolava; del nemico - per
fortuna - nessun segno. Intanto i tedeschi non accennavano a muoversi e os-
servavano increduli - ogni tanto scambiandosi qualche osservazione - gli ita-
liani e il loro disordine. Di questi alcuni, in esigui gruppi dapprima, poi in
gruppi più consistenti, cominciarono a uscire dal paese, alla ricerca non sape-
vano neppur essi di cosa; altri e altri li seguirono: una volta insieme, ritrovan-
dosi in parecchi, acquistavano una sorta di strana fiducia, tanto che poco alla
volta si allontanavano sempre più, in diverse direzioni. Vedendoli così lontani,
non pochi supposero che avessero scoperto qualcosa, e a un tratto sciamarono
letteralmente al loro seguito.
«Guarda» commentava l’ufficiale topografo: «Vire (vedi) nu poco che sta
succedendo!»
«È pazzesco» mormorava tra sé e sé Ambrogio: «una cosa assolutamente da
non credere.»
«Finiranno col rompere u contatto; va a ffinì ca se perdeno.»
«Sì, finiranno col perdersi tutti. Ma perché? Non è ammissibile.» Ambrogio
scuoteva con caparbietà la testa: «No, no, no! Non è ammissibile che si arrivi a
questo punto di disorganizzazione...» Erano dunque fatti così gli italiani, il suo
popolo? Gli pareva di conoscerli soltanto adesso.
Paccoi lo guardava accorato.
«Andiamo» risolse Ambrogio: «cerchiamo il colonnello e mettiamoci a sua
disposizione: qualche ordine dovrà pur darlo.» S’avviarono nella direzione che
era stata della colonna, attraverso la folla costituita d’innumerevoli capannelli
e crocchi, parte fermi, parte vaganti; da nord intanto, dalla pista, c’era sempre
nuovo afflusso.
S’imbatterono in parecchi artiglieri del reggimento e del gruppo, soli o a
branchi, e anche in qualche ufficiale: nessuno però seppe dir loro dove si tro-
vasse il colonnello. Mazzoleni e Piantanida, che girovagavano uno a fianco
dell’altro nella folla, comunicarono di avere appena visto l’aiutante maggiore,
il quale era in cerca del signor maggiore Casasco. Che direzione aveva preso?
chiese loro Ambrogio, «Quella» indicarono i due, e avviandosi addirittura:
«Se ci affrettiamo probabilmente lo raggiungiamo: dovrebbe essere là, appena
dopo quelle case.»

CAPITOLO TERZO

Oltre quelle ed altre case il terreno si allargava in una spianata, all’inizio


della quale trovarono effettivamente Cavallo Stanco. Che stava osservando -
con la testa un po’ obliqua, come gli accadeva quand’era perplesso - un abba-
stanza bizzarro spettacolo. Su quella spianata infatti un giovane sottotenente
di fanteria si sforzava, nientemeno, di riordinare le truppe italiane. Con voce
forte e chiara gridava senza stancarsi: «Adunata! Adunata!» e ordinava: «In
fila per quattro. Mettersi tutti in fila per quattro.» Indicando sei teste di co-
lonna che si erano formate davanti a lui, prescriveva: «Il tal reggimento lì, il
tal altro là. Il tale là. Forza, svegliamoci» incalzava con voce energica: «Com-
portiamoci da uomini, non da pecore, non da bestie. Ehi voi là: adunata. Adu-
naaataa!»
Qualche ufficiale subalterno (di fanteria, del genio) collaborava con lui e si
adoperava attivamente per far eseguire i suoi ordini. La cosa più sorprendente
era che non pochi soldati convenivano e si mettevano davvero in fila.
Ambrogio era rimasto addirittura a bocca aperta: nel sottotenente che stava
facendo l’inverosimile adunata aveva infatti riconosciuto senza possibilità
d’errori il suo compagno di scuola Michele Tintori di Nova, quello con la voca-
zione di scrittore. «Ma guardalo!» mormorò tentennando la testa: «Non pote-
va essere che lui a imbarcarsi in un’impresa come questa.»
«Sono tutti talmente disorientati» disse Cavallo Stanco «che ubbidiscono al
primo fesso che dà un ordine. È chiaro.»
«Bene» risolse subito Ambrogio: «Non ci resta che aiutarlo anche noi, quel
fesso. Su, diamoci da fare.»
«Anche noi?» fece distratto Cavallo Stanco; poi tornò improvvisamente a
ciò che lo assillava: «A proposito, Riva, hai visto il maggiore?»
«No.»
«Non capisco dove può essersi cacciato» borbottò, e aggiunse: «Non mi rie-
sce di trovarlo» con un’intonazione tale, che Ambrogio si rese conto di quanto
Cavallo Stanco fosse in angustia per il superiore. Senza dubbio temeva che,
data la semiconfusione mentale in cui versava, il maggiore potesse addirittura
perdersi. Cavallo Stanco s’accorse dell’impressione suscitata in Ambrogio e
cercò di voltare la cosa in scherzo: «Siamo al punto, capisci? che i superiori
non vanno più soltanto riveriti e scodinzolati, ma anche tenuti sotto custodia,
se no si perdono, poveretti. Beh, vado a dare un’occhiata da quella parte.»
«Io cerco d’aiutare questo qui a fare ordine» disse Ambrogio. «Bon» fece
genericamente Cavallo Stanco, e s’avviò. Dopo una breve esitazione l’ufficiale
topografo lo seguì; anche Mazzoleni e Piantanida, da quei ‘lavativi’ che erano,
fecero per svignarsela, ma: «Ehi, voi due» li bloccò Ambrogio «venite con
me.» Senza tanti complimenti li sistemò, insieme a Paccoi, nella colonna
dell’Ottavo artiglieria. «Ecco, state qui.» Dopo di che cominciò a darsi da fare
per distribuire gli altri soldati che convenivano.
Abbastanza rapidamente le sei teste di colonna s’allungavano. Allorché gli
capitò d’incontrare lo sguardo di Michele, Ambrogio gli fece un cenno amiche-
vole d’intesa: non lo vedeva da maggio, dal giorno della sua visita a Nomana.
Michele al riconoscerlo, si animò tutto: «Ambrogio, tu quoque» esclamò.
«Tutto bene, eh?»
Ambrogio fece un gesto a significare: beh, va come può. «Dei cosacchi e
dell’antica Grecia parleremo poi» gridò all’amico, «e anche del resto.»
«Dei... cos’hai detto?» chiese l’altro, che pareva non avere inteso bene: «Ah!
Che ti prenda... Sì, d’accordo.» Intanto seguitava a tendere la destra verso di
lui.
Ambrogio andò di corsa a stringergliela. «Sai che durante la marcia di sta-
notte seguitava a venirmi in mente casa tua» disse Michele «com’era quel
giorno del gelato, col sole, e con tutti i tuoi che ci facevano festa?»
Ambrogio approvò con il capo.
«Dì, come stanno i tuoi? Bene, vero?»
«Sì. Ho ricevuto una lettera di Alma pochi giorni fa.»
«Alma!» fece con emozione Michele (era proprio a causa di Almina che se-
guitava a tornargli in mente quella visita a Nomana); avrebbe voluto chiedere
più dettagliate notizie di lei, ma glielo impediva la timidezza. Voltatosi verso le
sei teste di colonna ricominciò a gridare con la sua voce forte e chiara: «Forza,
adunata. Adunaaata.»
«Dì, cos’è che hai intenzione di fare?» gli chiese a mezza voce Ambrogio
prima di tornare al proprio compito.
«Arriverà bene qualche ufficiale superiore» rispose Michele. «Intanto prov-
vediamo a mettere un po’ d’ordine. Non possiamo lasciare che tutta questa
gente vada allo sbando, sei d’accordo?»
«Certo. Beh, cerchiamo poi dopo, noi due, di non perderci di vista.»
«Sì.»
Ambrogio tornò alle teste di colonna e riprese a darsi da fare. “Gli ufficiali
superiori” pensava intanto, “toccherebbe a loro fare questa adunata, e invece...
Ma è per il freddo: gli anziani resistono senza confronto meno di noi giovani,
il freddo sembra che gli blocchi il cervello e la volontà!” (Considerava anziani
quelli sopra i trent’anni.)
S’erano adunate parecchie centinaia di uomini quando Ambrogio vide arri-
vare a grandi passi il topografo napoletano dal naso greco, che cercava proprio
lui: «Ehi, Riva.»
«Sì?»
«Mi manda l’aiutante maggiore» disse frettoloso.
«Chi, Cavallo Stanco?»
L’altro annuì. «Dice di avvertire te e... quello» indicò il Tintori, promotore
dell’adunata «che qui vicino... Vedi? Subito al di là di quel dosso, c’è un gene-
rale che sta facendo lui pure l’adunata.»
«Un generale che s’è svegliato? Come si chiama?»
«Non lo so.»
«Vieni.» Andarono insieme dal Michele Tintori e gli riferirono. «Oh, final-
mente una buona notizia!» fece questi. «Però» si rivolse ad Ambrogio «ti pre-
go, fa prima tu una corsa a controllare coi tuoi occhi e riferiscimi.»
«D’accordo.»
«Grazie. Ti aspetto.»
Ambrogio tornò di lì a poco, riferì che effettivamente un generale stava fa-
cendo l’adunata al di là del dosso: gli uomini incolonnati davanti a lui erano
all’incirca numerosi quanto questi.
«Molto bene» disse il Tintori, ed alzando la voce: «Fate tutti attenzione»
gridò. «Attenti bene. Qui a poca distanza» indicò col braccio «è in corso
l’adunata generale. Adesso noi raggiungiamo in buon ordine gli altri che si
stanno inquadrando. Ma li raggiungiamo, ripeto, in buon ordine, suddivisi
come siamo per reggimento, non come pecore. È chiaro? Forza, cominciamo.»
Si accostò a quella delle sei colonne ch’era più vicina al dosso: «Reggimento
at-tenti» ordinò. I soldati si misero sull’attenti.
«Conducili tu» disse il Tintori ad Ambrogio, con un invito che era un ordi-
ne: «Noi vi veniamo dietro. Avanti march» urlò alla colonna.
Ambrogio si mise prontamente in testa e avanzò con passo deciso; la colon-
na lo seguì. Una dopo l’altra le restanti cinque colonne si accodarono. Sempre
meno ordinatamente però: gli ultimi soldati più che colonna formavano nuo-
vamente sciame; confluirono ad ogni modo tutti nelle colonne che stavano
ordinandosi davanti al generale. Il quale era un uomo di media statura, con la
greca ben visibile sulla bustina. Per qualche istante Ambrogio intravide ancora
il suo compagno di scuola, promotore della paradossale adunata, mentre or-
mai modesto e mescolato agli altri - un sottotenente qualsiasi - prendeva po-
sto nella colonna del suo reggimento. “Alla prossima tappa lo cerco?" si pro-
pose.

***

Il generale inviava di continuo ufficiali qua e là nel paese a richiamare la


truppa, che del resto affluiva ormai spontaneamente; la greca argentea sulla
sua bustina faceva ancora a tutti un certo effetto.
Dal punto in cui si trovava, Ambrogio poteva ora nuovamente spaziare con
lo sguardo nelle direzioni di sud e di ovest: notò che le masse di sbandati al-
lontanatesi dal villaggio stavano adesso tornando indietro. “Meno male" pen-
sò “che i russi non sono qui attorno: se no chissà che macello!"
In testa alla colonna del suo reggimento presero posto davanti a lui
l’anziano colonnello comandante e una quindicina d’ufficiali, tra cui cinque o
sei del suo gruppo; mancavano tuttavia sia il maggiore Casasco che Cavallo
Stanco, mancava anche il suo amico Bonsaver. Appena poche righe alle sue
spalle faceva tra i soldati capolino la faccia tonda di Paccoi, il quale s’era piaz-
zato in modo d’avere il proprio ufficiale sott’occhio. Il freddo era sempre tre-
mendo, molti battevano i piedi sulla neve e le mani una contro l’altra o sulle
braccia incrociate.
Finalmente il generale parlò: «Ascoltatemi bene: non dovete farvi alcuna il-
lusione di linee amiche» disse. «Le linee amiche chissà mai dove sono, se pure
esistono. La cosa più importante è ristabilire l’ordine» continuò «e questo sia
per non vergognarci di noi stessi, sia semplicemente per sopravvivere.» Parla-
va bene, purtroppo la sua voce - malgrado una certa dose d’energia che
n’emanava - non era abbastanza alta da arrivare a tutti. «Ripeto, dovete ren-
dervi conto, dovete tutti quanti ficcarvi nella testa, che la cosa più importante
per noi è l’ordine. Gli ufficiali non dovranno tollerare il minimo disordine.»
Diede un’occhiata all’orologio da polso: «Fra meno di un’ora riprenderemo la
marcia, sempre preceduti dai nostri alleati tedeschi. Dobbiamo attraversare
una zona molto infestata dai nemici: perciò bisogna essere pronti a combatte-
re in qualsiasi momento.» Fece una pausa, dubbioso se ricordare ai soldati i
combattimenti sostenuti e vinti in precedenza, i molti prigionieri fatti: allora
però c’era la benzina, e grazie ad essa le armi e le munizioni, nonché i viveri e,
cosa più importante di tutte, il buon ordine. Lasciò perdere. Riprese: «Usci-
remo dal paese in quella direzione» indicò, contro l’aspettativa di molti, il
sud-est, dove alcune pieghe del terreno, sormontate dalle ultime isbe del vil-
laggio, precludevano la visuale. «Inquadriamoci dunque come si deve, batta-
glione per battaglione, compagnia per compagnia, coi carriaggi che ancora ci
restano, e prepariamoci al passaggio. Forza, i singoli comandanti provveda-
no.»

CAPITOLO QUARTO

Oltre le pieghe del terreno indicate dal generale c’era un esteso pianoro, che
digradava più in là, verso sud-est, in una lunghissima vallata. Nella quale -
senza che gli italiani se ne fossero finora accorti - era già in marcia la testa del-
la colonna tedesca, simile a un esile, irrequieto serpente color bianco sporco
nella neve candida. Anche le restanti forze tedesche stavano - più indietro -
lasciando il villaggio e scendendo nella valle lungo una strada; per altri per-
corsi più stretti e più erti, stavano scendendo nella valle anche file di soldati
italiani che non avevano partecipato all’adunata generale, della quale non si
erano neppure accorti: là dove i loro percorsi confluivano in quello dei tede-
schi, gli italiani dovevano fermarsi perché i tedeschi, giustamente, non con-
sentivano loro d’entrare nelle proprie file a scompaginarle.
Sullo spiazzo dell’adunata e sul pianoro ebbero inizio le operazioni
d’inquadramento dei reparti. Quasi tutti i soldati - anche quelli che non ave-
vano udite le parole del generale - avvertivano bene la necessità di ristabilire
l’ordine; si rendevano inoltre conto che era nell’interesse di tutti lasciare ai
tedeschi il tempo di defluire ordinatamente per poi seguirli. Ciononostante
quando gli ufficiali - non tutti, quelli più dotati di buona volontà e ancora di-
sposti a spendersi - tentarono di ricostituire davvero i reparti, ben pochi di
loro collaborarono. Certo i soldati non si opponevano, rimanevano però inerti,
quasi non udissero e non vedessero, e questo anche solo per non separarsi dal
compaesano, o a volte addirittura (ed era paradossale) per tenersi il più possi-
bile vicini all’ufficiale che impartiva gli ordini, il quale - appunto perché si da-
va da fare - ispirava una certa fiducia. E non è che fra tanta gente mancassero
uomini volonterosi: ce n’erano, e parecchi, e s’erano dimostrati tali in molte
occasioni prima della ritirata; ma costoro (gli individui decisi a fare il proprio
dovere, che in tempi normali avevano determinato gli altri, e reso l’esercito
appunto un esercito - gli stessi che in Italia rendono il nostro popolo un popo-
lo) adesso non ce la facevano più a vincere un’inerzia così enorme e diffusa, e
finivano con l’esserne paralizzati.
Intanto - affatto invisibili da qui - sempre altri uomini, e anche altre slitte,
carrette, autocarri entravano in Posniacof dalla pista in salita proveniente da
nord, e attraversato a marea il villaggio giungevano un po’ alla volta al piano-
ro, cosicché la folla vi andava crescendo.

***

Lentamente, come calamitata dalla vista della colonna tedesca in movimen-


to, la massa cominciò a premere verso il basso. Gli ufficiali - resisi rapidamen-
te conto dell’impossibilità d’effettuare un vero riordino dei reparti - cercavano
d’incanalarla almeno verso una strada di neve battuta che scendeva nella val-
lata, opponendosi al suo dilagare. Gridavano, rinfacciavano ai soldati la loro
stoltezza, molti con le braccia aperte si sforzavano di trattenerli, d’impedirgli
di rovesciarsi nella vallata.
Ambrogio era tra questi ultimi. La gola gli doleva per il continuo gridare:
«Siete bestie o uomini?» si spolmonava, dando spintoni ai più vicini con le
braccia allargate: «Fermi, indietro»; ma quelli arretravano di mezzo passo, al
più d’un passo intero, poi ricominciavano a premere: non si trattava ormai
degli uomini del suo reggimento, in gran parte rimasti indietro e sorpassati.
«Alt, fermi. Dove volete andare come pecore a questo modo? Disgraziati.» Al
suo fianco Paccoi s’ingegnava d’aiutarlo, dando ogni tanto qualche robusto
spintone in pieno petto all’uno o all’altro. A sinistra, subito al di là di Paccoi,
cinque o sei carabinieri - distinguibili dagli altri soldati assai più per la loro
silenziosa disponibilità al dovere, che per i fregi sulle bustine - cercavano, te-
nendosi per mano, di formare una barriera di contenimento. Sulla destra si
dava da fare un anziano, gagliardo sergente maggiore, e più oltre alcuni sotto-
tenenti, un capitano e diversi graduati: tutti cercavano d’impedire che la mas-
sa sciamasse in disordine nella vallata. Nel fondo della quale i tedeschi segui-
tavano a sfilare con indifferenza, a passare.
«Se proprio volete farvi difendere da loro» diceva Ambrogio «almeno non
andategli addosso. Che schifo però! Che schifooo!» Un soldato, con la faccia
quasi contro la sua, gli faceva segno di sì, che conveniva: era una vergogna, un
vero schifo questo comportamento e anche questa dipendenza dai tedeschi...
Ciononostante il soldato non faceva il minimo sforzo per collaborare con
l’ufficiale nel tenere indietro gli altri; addirittura non si sforzava neppure di
tenere indietro sé stesso.
Le cose erano a questo punto quando rintronarono alcuni spari lontani.
Malgrado le grida sue e degli altri Ambrogio li avvertì bene. Chi sparava, e do-
ve? Non aveva comunque tempo per rispondersi.
I colpi lontani si ripeterono, e si udirono anche dei sibili, alcuni dei quali vi-
cinissimi purtroppo. “Dunque sono i russi!” pensò con raccapriccio il sottote-
nente. Anche la folla cominciava a rendersene conto. Più d’un soldato, puntato
il proprio fucile, rispose al fuoco del tutto a casaccio, dato che il nemico non
era visibile. “Disgraziati!” pensò Ambrogio. “Però quelli da dove ci sparano?
Dove saranno piazzati? Ad ogni modo adesso è ancora più necessario di prima
che non ci sbandiamo”. Lo gridò ai soldati, allargò nuovamente le braccia per
trattenere la massa quando questa si mise a premere più fortemente; la busti-
na gli scivolò dal capo e cadde nella neve dove fu presto travolta, superata dal-
la folla. I colpi e i sibili continuavano intermittenti, qualche sibilo passava
straordinariamente vicino si rese conto di nuovo Ambrogio: “Forse ad appena
qualche metro. Come mai nessuno rimane colpito? Oppure qualcuno viene sì
colpito, ma in questa cagnara non ce ne rendiamo conto?”
Vide uno dei carabinieri accasciarsi di schianto sulla neve; avrebbe voluto
sincerarsi se fosse stato colpito, ma non gli riuscì, perché la folla seguitava a
premere. Poi nella stessa folla si levarono non lontano da lui grida di dolore:
«Ahi, ahi...» Non c’era dunque dubbio: «A terra» urlò il sottotenente, «tutti a
terra. Prepariamoci a rispondere al fuoco.»
Nessuno gli badava. La marea lo premette anzi di più, obbligandolo ad arre-
trare ancora; finché i deboli cordoni qua e là si ruppero, e punte di folla co-
minciarono a uscire dalla massa e ad avanzare nella neve vergine verso la val-
le. «Non sono più dei soldati questi» esclamò il giovane, volgendo la testa co-
perta ormai dal solo passamontagna all’attendente: «Non sono più dei solda-
ti.» Doveva ricordare questa frase per il resto della sua vita: perché l’aveva
appena pronunciata che avvertì un urto al braccio destro, all’altezza del bicipi-
te, e in pari tempo un altro al petto, come se una mano vi avesse battuto sopra
di taglio. Senza muoversi esaminò dapprima il braccio, con calma e attenzio-
ne, quasi si trattasse di quello d’un altro; lo fece anche ruotare un poco da una
parte e dall’altra: scorse nella stoffa i due fori d’entrata e d’uscita di una pal-
lottola. «Ho il braccio destro trapassato» annunciò a Paccoi: «ma non sento
dolore. Strano.»
Fermo di fronte a lui l’attendente l’osservava angustiato; adesso erano del
tutto inglobati dalla folla, il che quanto meno li avrebbe protetti da eventuali
altre pallottole. Ambrogio si ispezionò anche il petto: lì per lì non scorse fori
nel cappotto; sentiva però sulla pelle, sotto la maglia, un caldo umore. «Pac-
coi» disse.
«Comandate» gli rispose l’attendente, teso.
«Aiutami a togliere il moschetto da tracolla: fa adagio, senza strappi.»
«Signorsì.»
A un determinato, non evitabile movimento, Ambrogio avvertì al petto un
bruciore acuto. L’operazione fu ad ogni modo condotta a termine e Paccoi si
mise sulla spalla, in aggiunta al proprio, anche il moschetto del sottotenente.
«Hai messo qualche pacchetto da meditazione nel tascapane?»
«Signorsì: uno nel vostro e uno nel mio. Nel vostro ho messo anche quei ce-
rotti e quelle bustine di polvere bianca che avevate nella cassetta
d’ordinanza.»
«Ah, il disinfettante, bravo. Adesso entriamo in una di quelle case là...»
S’interruppe: certo doveva costare non poco a Paccoi tornare indietro di alcu-
ne centinaia di metri mentre tutti si davano da fare per andarsene. «Credo di
essere stato pizzicato anche qui al petto: capisci perché te lo chiedo? Vorrei
rendermi conto, e che tu mi faccia la medicazione. Dopo di che ti lascio libero:
non sarai obbligato a restare con me.»
A queste parole Paccoi arrossì, impacciatissimo, da quel contadino semplice
che era. Forse il signor tenente aveva letto dentro la sua testa? Non del tutto
però: perché aveva sì provato, e acuto, un senso di ribellione alla prospettiva
di tornare indietro, ma aveva anche immediatamente risolto che - a qualun-
que costo - lui non avrebbe fatta la ‘carognata’ d’abbandonare il suo ufficiale
proprio adesso ch’era ferito: questo mai e poi mai.
Ambrogio lo guardava incerto, con un nascosto principio d’angustia.
«E lassate perde, sor tenente, va» fece Paccoi: «lassate perde. Dai, anna-
mo a le case, sor tenente.»

CAPITOLO QUINTO

S’avviarono. L’attendente tenendosi quasi a contatto di gomito d’Ambrogio,


pronto a sostenerlo se necessario. All’ufficiale faceva uno strano effetto essere
accompagnato a quel modo: avrebbe voluto schermirsi, ma temeva
d’offendere una seconda volta Paccoi; lo inibiva inoltre sempre più l’incertezza
sulla reale entità delle sue ferite. Quanto a camminare, comunque, constatava
di poterlo fare senza difficoltà, ed era già una grazia immensa.
La folla che avanzava molto lentamente in senso inverso non impediva loro
il passaggio. Dopo pochi passi arrivarono al carabiniere abbattuto: un muc-
chietto oblungo di stracci sulla neve. Aveva avuto, guarda, il cranio trapassato;
accanto alla testa sanguinante gli giaceva sulla neve la bustina, col fregio a
fiamma. “Pochi centimetri più in qui” pensò Ambrogio, riferendosi alla pallot-
tola che aveva colpito lui “e adesso sarei anch’io sulla neve a questo modo”.
Presso il caduto era rimasto un solo compagno d’arma, in piedi, col moschetto
a ‘bracciarm’, spaesato; sembrava gli facesse la guardia.
«È morto?» s’interessò Ambrogio, fermandosi un istante.
«Sissignore.»
Ufficiale e attendente annuirono; il carabiniere non aggiunse parola.
I due proseguirono. “E pensare che in Italia tanti sorridono dei carabinieri,
della loro abnegazione fedele” pensò l’ufficiale: “Come sbagliano!”
Intanto i colpi russi di fucileria - forse di cecchino - continuavano. Dove an-
davano a crivellare adesso?

***

Prima di raggiungere le isbe i due sentirono alle loro spalle una voce
dall’intonazione - nientemeno - finto-burocratica: «Ehi, cosa fate qui? Dico a
voi, sottotenente Riva.»
Si voltarono sorpresi: per ritrovarsi davanti la vispa figura di Bonsaver che,
seguito da sei o sette artiglieri in fila indiana, stava arrivando attraverso la fol-
la; aveva sul petto il binocolo e teneva con una mano il moschetto orizzontale
su una spalla; anche i suoi uomini erano armati. «Ah, ti se propio ti» esclamò.
«Guarda, l’ ‘eroe lontano’» lo salutò Ambrogio. «Dove diavolo vai?»
«’Ndemo fora de patuglia» rispose Bonsaver. «Però no d’osservazione sta-
volta. ’Ndemo in serca (cerca) de quei desgraxià che i ne spara adosso. Ordi-
ne del mio maggiore.»
Sembrava lieto d’avere un ordine concreto da eseguire; il suo viso rustico
era circondato dall’ovale di un passamontagna da truppa che lo rendeva
nell’insieme ancora più alla mano.
“Dunque qualcuno s’è conservato soldato e uomo” pensò Ambrogio con sol-
lievo.
L’altro si stava intanto accorgendo di un che d’inconsueto nel comporta-
mento dell’amico, e anche di Paccoi. «Ehi Riva, cosa ti succede?» domandò.
«Mi succede che un minuto fa m’hanno beccato» rispose Ambrogio.
«Beccato? Ti hanno ferito? Dove?»
«A un braccio e...» Si toccò con la sinistra il petto. «A un braccio» ripete.
«Per il resto devo ancora controllare.»
«Ostrega. Quei colpi russi, eh?»
«Sì.»
«Vuoi che ti dia un’occhiata io? Entriamo in una di queste case e...»
«No» disse Ambrogio. «Il mio aiuto ce l’ho già» indicò col mento Paccoi, «e
tu hai quell’ordine da eseguire; non puoi perdere tempo.»
«Va ben. Come te vol.» Bonsaver annuì, sorridendo incoraggiante, ma si ri-
fece subito serio. «’Scoltame Riva: non so quanto tempo impiegherò. Ma
quando torno indrio mi paso de qua, de ’ste case. Se te trovo ancora chi (qui),
la marcia la femo poi insieme. Sito d’acordo? Io non ti dico d’aspettarmi, hai
capito? Regolate ti.»
«Va bene, ti ringrazio.»
«Alora ciao.»
Ambrogio lo salutò con la mano destra, trattenendosi tuttavia dall’alzarla e
facendogli ‘ciao’ con le dita.
«Ma varda se te doveva sucedere proprio a ti» commentò l’altro. Poi si ri-
volse ai suoi, fermi in fila per uno dietro di lui: «Andemo voaltri» disse.
Seguito da loro riprese a tagliare obliquamente la folla, fino a emergerne
verso nord-est.

***

Nella neve intatta la sua pattuglia scarpinò sempre in fila per uno verso una
mediocre sporgenza del terreno, sul cui colmo fece alt. Il sottotenente portò il
binocolo agli occhi e si diede a esplorare metodicamente intorno, sofferman-
dosi su ogni apparente irregolarità e minuzia delle distese nevose: in tale ri-
cerca - il lavoro dell’osservatore - egli era divenuto molto abile, più abile forse
che in qualunque altro genere di lavoro. La sparatoria intermittente del nemi-
co non cessava; da questo punto l’ufficiale poteva rendersi conto con chiarezza
che proveniva da est. Ne chiese conferma al suo vice, un caporal maggiore dal
viso triangolare, il quale confermò; convennero che per osservare meglio in
quella direzione avrebbero dovuto spostarsi alcune centinaia di metri più in là,
su un altro corrugamento del terreno. Mentre procedevano, notarono che
qualche altra pattuglia s’andava staccando dalla massa per mettersi in esplo-
razione al loro stesso modo.
«Ah, qualcun d’altro che se sveia. Volevo ben dire mi.»

CAPITOLO SESTO

Ambrogio e l’attendente erano frattanto entrati nella più vicina isba.


V’avevano trovato parecchi soldati, non tuttavia fitti al punto da rendere diffi-
coltosa la medicazione. Come in tutte le case russe di campagna (alle cui fine-
stre venivano applicati per l’inverno secondi vetri inamovibili) anche qui si
respirava un fiero puzzo, senza dubbio incrementato dalla presenza di tanta
gente; c’era però anche il caldo, un caldo indicibilmente gradevole, sviluppato
da una grossa stufa in muratura. Presso la quale sedevano - appena in disparte
dai soldati - una donna anziana e - si sarebbe detto sui suoi piedi - una bam-
bina; la donna aveva la testa coperta da uno scialle nero e, al pari della bambi-
na, non si muoveva, parevano due sfingi.
Ambrogio dopo avere fatto - senza ricevere risposta - un cenno di saluto alla
donna (la sua buona educazione non l’abbandonava, e ciò piacque molto a
Paccoi), si diresse verso una cassa sistemata contro una parete. Si tolse anzi-
tutto con la mano sinistra - facendone passare la cinghia sopra la testa e po-
sandolo per terra contro la cassa - il tascapane. Quindi, aiutato da Paccoi che
s’era liberato dei suoi due moschetti, cominciò a spogliarsi: si levò il cinturone
con la pistola, il passamontagna, il cappotto a pelliccia, la giubba, un maglione
grigio piuttosto elegante e per niente regolamentare che aveva ricevuto in un
pacco da casa, la camicia grigioverde, infine la maglia di lana: camicia e ma-
glia erano macchiate di sangue. Vennero in luce le ferite: il bicipite destro era
stato trapassato, a metà dello spessore, da un colpo, che aveva poi scavato nei
muscoli del petto una galleria lunga forse una dozzina di centimetri. I fori al
braccio erano esigui, segnati appena da qualche goccia di sangue; così al petto
quello d’entrata; quello d’uscita si prolungava invece in un solco rossastro, da
cui colava il sangue che aveva macchiato gli indumenti.
«Ecco, guarda» constatò Ambrogio osservandosi il petto: «me lo sentivo.
Però non è una ferita profonda per fortuna.»
«No» disse Paccoi: «non è profonda.» Protendendo il viso sulla ferita fece
con una mano ruotare il torso dell’ufficiale in modo da ricevere meglio la luce
da una finestra, ed esaminò attentamente: «Al massimo, dove la carne è più
alta, sarà profonda due o tre centimetri. Il colpo non deve aver toccato le ossa,
né... altro.» Intendeva: né alcuna parte vitale.
«Sembra proprio di no» confermò Ambrogio. Sollevato poi il braccio destro
cercò con la mano sinistra la posizione dell’osso. «Neanche qui ha toccato
l’osso.» Pensò: “Vicino a quest’osso dovrebbe esserci una vena o arteria piut-
tosto importante: nemmeno quella ha toccato. Nel guaio è una fortuna.” Disse
con autentico sollievo: «Paccoi, questa è Provvidenza.»
«Sì» convenne Paccoi, convinto. Immediatamente però tanto all’uno che
all’altro si prospettò il cammino che li attendeva fuori, nel gelo mortale; videro
con gli occhi della mente le sterminate distese di neve in cui per quanto uno
camminasse aveva l’impressione di trovarsi sempre allo stesso punto; i giorni
e le notti di marcia nel clima polare, che terrorizzava anche i sani. Per quanto
padrone di sé Ambrogio passò dal senso di sollievo a un principio di sgomen-
to.
L’altro glielo vide negli occhi, tanto che disse: «Forse, chissà, signor tenente
le linee amiche sono davvero vicine.»
Bastò tale uscita a sproposito perché Ambrogio si dominasse. “Mai cedere”
si propose con durezza: “mai, finché c’è un soffio di vita”. Sotto lo sforzo della
volontà il volto gli si illividì. Alla Provvidenza, di proposito, cercò di non pen-
sare più: “Non mescoliamo Dio alle nostre porcherie e ai nostri ammazzamen-
ti” si disse.
(Invece, poiché ci ama, alle miserie degli uomini Dio si mescola di continuo.
Più tardi, molto più tardi, guardando a questa vicenda in prospettiva, Ambro-
gio si sarebbe rimproverato il presente atteggiamento: la ragione prima per
cui egli si salvò l’avrebbe infatti individuata proprio in questa ferita, che
gl’impedì durante la ritirata di partecipare ad azioni nelle quali - dato il suo
modo di spendersi - avrebbe quasi sicuramente incontrata la morte.)
I soldati sconosciuti presenti nel locale osservavano ogni tanto i gesti
dell’ufficiale e dell’attendente senza pronunciare una parola; gli si leggeva più
che altro in viso il sollievo che non fosse toccata a loro una menomazione co-
me quella. Soltanto due s’accostarono: un tipo che pareva sicuro di sé, e un
altro - in preda invece a una sorta di spavento permanente - il quale si muove-
va come a rimorchio del primo e non lo lasciava un istante.
«Per fortuna, signor tenente, non sono ferite gravi» disse il primo, con
umanità.
Il secondo mosse la bocca come per dire qualcosa d’analogo, ma non parlò.
«Grazie a Dio no, non sono gravi» convenne Ambrogio, sempre con la fac-
cia livida, e a Paccoi: «Dai, tira fuori un pacchetto da medicazione. Ma prima
il disinfettante, quelle bustine.»
«Sì, faccio subito» rispose Paccoi, e aperto uno dei tascapane estrasse ciò
che gli era stato ordinato.
A questo punto la donna russa si alzò in piedi, aprì senza una parola uno
sportello della stufa, ne trasse una pentola di cui i militari ignoravano
l’esistenza e - seguita dalla bambina che le si teneva attaccata con entrambe le
mani alle gonne - andò a posarla sulla cassa, accanto al materiale da medica-
zione e agli indumenti.
Ambrogio e Paccoi videro che il recipiente conteneva acqua calda, fumante.
La donna indicò loro l’acqua, indicò le ferite, disse alcune parole incompren-
sibili, e dopo aver risposto con uno stanco sorriso a una frase di ringraziamen-
to d’Ambrogio, tornò a sedersi al suo posto. Stavolta prese la bambina in brac-
cio; dopo di che le due riassunsero il precedente atteggiamento di sfingi.
Sembrava ridiventata di legno. “Certo ’sta poveretta” pensò fuggevolmente
Ambrogio “sta aspettando che passino tutti questi sconquassi: la nostra ritira-
ta anzitutto, e la guerra, e poi magari anche il comunismo coi suoi propagan-
disti di villaggio che deridono e importunano le anziane contadine ancora cri-
stiane e caritatevoli... Beh, bisogna dire che neanche la sua situazione è invi-
diabile.”
«Signor tenente, lavo le ferite con l’acqua?» gli chiese Paccoi.
«Eh?» Ambrogio si riscosse: «No, non credo sia sterile. Ti lavi le mani inve-
ce, che ormai da due giorni non ce le laviamo. Poi mi fai la medicazione: prima
devi spargere sulle ferite la polverina, poi... Avanti, comincia col lavarti le ma-
ni.»
Paccoi volse intorno la faccia tonda, alla ricerca del modo. Il tipo sicuro di
sé prese allora con le due mani la pentola: «Vieni» gli disse, indicando col
mento un secchio in un angolo. Seguì Paccoi il quale andò al secchio, vi tese
sopra le mani, e si diede a stropicciarle energicamente mentre l’altro le innaf-
fiava d’acqua calda. Il tipo spaventato li aveva seguiti fermandosi a qualche
passo, quel tanto che bastava per non impicciare.
Fuori dell’isba il rumore della sparatoria pareva essere improvvisamente
aumentato, e di molto. “Che i nostri abbiano scoperto il punto da cui sparano i
russi, e rispondano al fuoco? ” si chiese incerto Ambrogio. Ma non era mo-
mento da porsi altri problemi: “Una cosa alla volta”.
Paccoi sventolò, tenendole alte, le mani lavate perché si asciugassero; poi,
visto che la cosa portava via troppo tempo, infilò con precauzione due dita del-
la destra nella tasca del cappotto, ne estrasse il non esattamente pulito fazzo-
letto e con quello finì d’asciugarsi le mani. Ambrogio osservò ogni cosa senza
proferire motto; a operazione terminata: «Adesso la polverina» disse.
Paccoi lacerò in un angolo una delle bustine, e con la polvere in essa conte-
nuta cosparse abbondantemente le quattro ferite. Quindi ve la distribuì sopra
meglio mediante una garza candida, levata dal pacchetto di medicazione. Do-
po di che, come Ambrogio suggeriva, coprì ciascuno dei tre fori che non san-
guinavano, direttamente con un cerotto; alla striscia sanguinante sovrappose
invece un plico di garza sterile, fermandovelo con altri cerotti. Fasciò infine sia
il braccio, sia - come meglio gli riuscì - il torace.
La sparatoria fuori, dopo alcuni alti e bassi, sembrava diminuire e rifarsi in-
termittente.
«Ti ringrazio» disse Ambrogio a conclusione, e: «Forza. Adesso rivestiamo-
ci.»
La vestizione, se pure eseguita con cautela, non richiese molto tempo.
Quando si trattò d’infilare il tascapane, Paccoi propose: «Questo è meglio che
non lo portiate più: vi premerebbe con la cinghia proprio lì, sulla ferita al pet-
to.»
«Già» convenne Ambrogio.
Paccoi trasferì allora con calma nel proprio tascapane ciò che v’era di più
utile in quello dell’ufficiale.
«Neanche il moschetto posso più portare» osservò Ambrogio. «Aspetta.»
Raggiunta una porta interna chiamò un sergente che aveva intravisto nel loca-
le attiguo. Questi, che sedeva per terra contro il muro, tra soldati seduti o
sdraiati, si alzò in piedi di malavoglia, scuro in volto; era chiaro che non vole-
va intralci.
«Prendete» gli disse Ambrogio, porgendogli con la mano sana moschetto e
tascapane «potrebbero servire a qualcuno che ne è rimasto senza. Nel tasca-
pane ci sono delle bombe a mano.»
«Sì, va bene» rispose un po’ ambiguo il sergente, prendendo nelle proprie
mani ogni cosa.
“Butterà tutto in un angolo?” si chiese Ambrogio. Gli venne voglia di con-
trollare, ma: “Ormai non ho più energie da spendere in queste cose” si disse;
cominciava a realizzare i suoi attuali limiti.
Paccoi, dopo essersi messo a tracolla il proprio tascapane, prese il moschet-
to; era pronto a uscire. «Aspetta» gli disse l’ufficiale. Andò alla più vicina fine-
stra e guardò attentamente fuori. «È tutto come prima» disse. «Se noi restas-
simo qui ancora un po’, diciamo una decina di minuti, al caldo? Tanto fino alla
prossima sosta della colonna i nostri non li incontriamo di sicuro. Invece po-
trebbe arrivare Bonsaver, no?»
Gli sembrò di scorgere un’ombra di contrarietà negli occhi dell’attendente.
«Sei ancora deciso a rimanere con me?» gli chiese. «Guarda che non inten-
do obbligarti.»
Paccoi s’irrigidì: «Questo discorso voi non me lo dovete più fare» disse con
molta dignità. «Va bene, signor tenente? Io so qual è il mio dovere.»
«Sì, vedo» convenne l’ufficiale.
Sedettero uno di fianco all’altro sulla cassa, in silenzio. Un po’ di riposo al
caldo, finalmente... Non fosse stato per la preoccupazione della ferita e
l’estrema urgenza del momento, si sarebbero addirittura addormentati, dato
che da due notti non dormivano.
Fuori la sparatoria si manteneva intermittente. Alcuni soldati avevano nel
frattempo lasciata l’isba, altri, sempre sconosciuti, v’erano entrati; di questi
uno parlava con eccitazione di colpi di mortaio. Diceva frasi come: «E non po-
ter rispondere... Doverli subire così, senza poter fare niente...»
Ambrogio allora tese meglio l’orecchio: forse i colpi che si udivano fuori non
erano più di fucile, ma di mortaio? Di un mortaio nemico? Dopo un certo
tempo guardò Paccoi: «Ehi, Paccoi: sarà meglio controllare cosa succede fuo-
ri.»
L’altro annuì.
«Dai va, andiamo.»
Uscirono all’aperto, nel freddo spietato, che subito s’avventò su di loro e li
avvinghiò. Dopo qualche passo il sottotenente si rese conto di non avere salu-
tata la donna russa che gli aveva fornita l’acqua per la medicazione, gli di-
spiacque ma: “Ormai non possiamo tornare indietro” risolse.

CAPITOLO SETTIMO

La fucileria era completamente cessata, a sparare adesso era un mortaio


russo, uno solo: le sue bombe battevano con cadenza costante uno dei punti
d’incrocio dei rivoli umani in movimento giù nella vallata. Da qui si distingue-
vano bene le fumate nerastre delle esplosioni.
«Che spettacolo!» finì col mormorare il sottotenente. Ma Bonsaver dov’era?
Forse alla ricerca del mortaio, adesso?
No, guarda: proprio in questo momento stava arrivando la sua pattuglia.
Ma si trattava realmente della sua pattuglia? Sì, Ambrogio riconobbe l’uomo
di testa, il caporal maggiore vicecomandante dalla faccia triangolare; non ap-
pena individuò l’ufficiale e Paccoi, costui fece loro ripetuti segni con la mano.
Cosa intendeva significare?
Resosi conto d’essere stato riconosciuto, il caporal maggiore si arrestò,
scambiò qualche parola coi suoi che gli s’erano fatti intorno a capannello, in-
dicava un’isba, non quella da cui erano usciti Ambrogio e Paccoi, un’altra più
vicina alla pattuglia. Ambrogio notò che il graduato aveva adesso al collo un
binocolo; una crescente ansietà lo prese: cosa significava questo? E anzitutto
dov’era Bonsaver? Forse quel binocolo...
Con Paccoi si diresse verso il gruppetto che già si stava scomponendo; men-
tre gli altri andavano verso l’isba, il caporal maggiore e un artigliere gli venne-
ro incontro eccitati.
«Signor tenente» disse il graduato una volta giunto a pochi passi da lui;
sembrava volesse fare un importante discorso e non sapesse da che parte co-
minciarlo. «Il signor tenente Bonsaver... Era vostro amico, vero?»
«Era? Ma cosa stai dicendo?»
«È morto.»
«Sì, è morto» disse anche l’artigliere. «Lui e Verdi sono morti.» Ambrogio
aprì istintivamente la bocca per replicare, ma non pronunciò parola.
«Oh!» fece sbalordito Paccoi.
Rimasero qualche istante in silenzio tutt’e quattro.
«Sono stati i nostri, questi porci fottuti, queste facce schifose» disse il capo-
ral maggiore: «Appena ha cominciato a sparare il mortaio, è stato allora che
queste merde si sono messe a sparare su di noi. Capite?»
Ambrogio lo guardava sempre senza parlare.
«Li si può vedere anche da qui» disse il graduato «guardate»; si spostò
d’alcuni passi in modo d’avere più libera la visuale, e indicò col braccio teso:
«Le vedete quelle due piccole macchie là sulla neve, che quasi si toccano?
Uno, quello a destra, è il tenente Bonsaver.»
«Quello a sinistra è Verdi» disse l’artigliere (calzava guanti da sci color az-
zurro cielo, a disegni geometrici, e con le mani così stranamente colorate ge-
stiva): «Ve lo ricordate Verdi? Quello con le lenticchie in faccia, emiliano?»
«Uno con le lenticchie? Sì» rispose Ambrogio a bassa voce, e poi, con voce
che si sforzò di rendere più normale: «Sì, lo ricordo.» «Era mio amico» disse
il soldato: «un gran bravo ragazzo, molto bravo.»
Ambrogio pensava a Bonsaver, alle sue maniere incoraggianti appena
mezz’ora prima, quando aveva saputo che lui, Ambrogio, era stato ferito. Per
qualche istante gli tornò in mente anche l’ossario di Redipuglia, come
l’avevano visto insieme dal treno il giorno in cui avevano lasciata l’Italia, e
quella muta domanda: chi di noi ci rimarrà come costoro? “Ecco, Bonsaver
per cominciare.” Lui c’era rimasto, l’Italia non l’avrebbe più rivista per
l’eternità. L’Italia e quella ragazza che gli aveva mandato il libro di Sciolocov,
e...
Il caporal maggiore stava spiegando come s’era svolto l’atroce fatto. «Sono
stati i nostri, questi strafottuti porci» ripeteva, indicando con la mano la folla
intorno: «non dico proprio questi, quelli che c’erano qui prima, che adesso
saranno ormai tutti giù nella valle. A un certo punto hanno cominciato a spa-
rarci addosso senza nessunissimo motivo, capite?»
«Ho sentito le sparatorie mentre eravamo nell’isba» disse Ambrogio.
«Sì» confermò Paccoi.
«È stato quando ha cominciato il mortaio russo» tornò a precisare
l’artigliere dai guanti azzurri. «Anch’io ci ho fatto caso: è stato allora.»
«Hanno come persa la testa, capite? tutto d’un colpo» disse il graduato. «In
seguito ce n’è voluto perché gli passasse la mattana, maledette carogne. Cosa
c’entravamo noi col mortaio russo?»
In realtà era accaduto questo: quando erano arrivati i primi colpi di mortaio
(non giù nella vallata come adesso, ma sul pianoro in mezzo ai soldati), nella
folla s’era verificato un principio di panico. Spostandosi disordinatamente di
qua e di là, molti s’erano guardati intorno alla ricerca del nemico invisibile che
li uccideva, e più d’uno aveva sparato a casaccio qualche colpo in direzione
delle pieghe nevose circostanti. Da quei primi colpi si era sviluppata in breve
una sparatoria, che presto s’era venuta concentrando - almeno in parte - sulle
esigue pattuglie italiane uscite in esplorazione. Avevano cominciato individui
che fino allora non s’erano accorti della presenza delle pattuglie: «Eccoli là,
eccoli là...» Altri, consci che si trattava di connazionali, al vederli presi a quel
modo sotto il fuoco, avevano cominciato a dubitare: improvvisamente le pic-
cole sagome lontane erano diventate sospette anche per loro, poi nemiche, con
certezza nemiche, così che - sorpresi di non essersi resi conto prima d’avere i
nemici, i loro carnefici, a portata di mano - s’erano messi con furore a far fuo-
co e a recuperare il tempo perduto.
La gran maggioranza com’è ovvio non aveva persa la testa fino a quel punto,
e molti - non solo ufficiali e sottufficiali, ma anche semplici soldati - si erano
immediatamente dati da fare per far cessare una simile follia: in taluni casi
anche prendendo a spintoni e a calci i più restii a sospendere il fuoco. La spa-
ratoria tuttavia era finita del tutto solo dopo che il mortaio aveva trasferito i
suoi colpi sulla colonna in movimento giù nella vallata.
«Il signor tenente e Verdi sono rimasti colpiti si può dire subito, ai primi
colpi. Se non ci fosse stata lì vicino una specie di cunetta nella neve, ci resta-
vamo tutti» spiegava il caporale. «Uno, Tenconi, perfino dentro la cunetta è
stato colpito di striscio al sedere. Che bestie, che uomini di merda!»
«Sì» disse Ambrogio: «è la parola giusta: uomini di merda. Voi eravate
usciti per aiutarli, e loro vi hanno sparato addosso. Neanche di farsi aiutare
sono capaci. Più merde di così!» Fece una pausa: intanto Bonsaver era morto!
Il caporale annuì ripetutamente. Poi infilò - con una certa difficoltà, bardato
com’era - la mano tra le falde del cappotto, manovrò fino a raggiungere una
delle tasche della giubba e ne estrasse un portafogli. «Sono venuto qui da voi
anche per questo: è il suo portafogli, cioè del signor tenente. In principio ave-
vo intenzione di portarlo al comando, ma poi ho pensato: è meglio che a sua
madre glielo dia un amico, ossia voi, invece che... sì, insomma, che la burocra-
zia.»
«Sì» disse Ambrogio: «hai fatto bene.»
Prese il portafogli, lo aprì incerto con le mani ostacolate dai guantoni di te-
la, poi lo richiuse e se lo infilò in tasca.
«Il binocolo» disse il caporale ponendovi una mano sopra «lo riporto al
gruppo.»
Ambrogio annuì. Guardò ancora le due macchioline sulla neve. Dio mio,
povero Bonsaver! D’un tratto lo prese un dubbio: «Siete sicuri che sia proprio
morto? Voglio dire, che tutt’e due siano effettivamente morti? Avete controlla-
to bene in mezzo a una sparatoria come quella?»
Il graduato sorrise con aria offesa: «Cosa dovevamo controllare? Non c’era
niente da controllare. Il tenente Bonsaver ha la testa mezzo staccata dal col-
lo.» Indicò un punto sotto la propria nuca: «Uno squarcio qui che ci passa
mezza mano. Quanto a Verdi... E poi hanno ricevuto tutt’e due parecchi colpi
anche dopo morti.» Scosse la testa; anche l’artigliere dai guanti azzurri ten-
tennava la testa disapprovando. «Non dovete dubitare, signor tenente» disse
il caporal maggiore: «Non c’è il minimo dubbio che sono morti.»
«Non è che ne dubiti, era soltanto per scrupolo.» Ci fu una pausa. «Povero
Bonsaver» mormorò Ambrogio.
«Con noi è sempre stato buono» disse l’artigliere: «ci trattava sempre bene
noi soldati.»
«Eravamo usciti per cercare i russi» disse il graduato, «e questi porci ci
hanno sparato addosso. Adesso se li cerchino loro i russi. Io non mi espongo
più di sicuro, per niente al mondo, basta.»
Ambrogio s’informò ancora su qualche particolare, poi chiese e si fece ripe-
tere i cognomi dei due: «Cerca di ricordarli anche tu, Paccoi. Per i parenti di
Bonsaver; se mai vorranno parlare con i testimoni della sua morte.»
Infine i due soldati, che ora dimostravano una certa fretta di raggiungere i
compagni entrati nell’isba («Si sono fermati là per medicare Tenconi che è
ferito al sedere») presero congedo e se ne andarono.
Lanciata un’occhiata alle due macchioline sulla neve (a primavera sarebbe
rimasto là a marcire nell’erba, Bonsaver?) Ambrogio e Paccoi
s’incamminarono ed entrarono nella corrente d’uomini inframezzati a veicoli
che dal paese scendeva nella vallata.

CAPITOLO OTTAVO

Altri rigagnoli d’uomini alle loro spalle e anche davanti a loro seguitavano a
uscire da Posniacof per confluire poi nel fondo valle dentro la corrente princi-
pale.
Il mortaio russo continuava a battere con le sue bombe uno dei punti di
confluenza; la cadenza del tiro si manteneva regolare, un colpo ogni mezzo
minuto circa. “E infatti perché dovrebbero farsi fretta?” pensò con amarezza
Ambrogio: “Possono sparare a regola d’arte, senza surriscaldare l’arma”. Si
udiva - piuttosto debole - il colpo di partenza, e quasi subito il sibilo della
bomba in arrivo, cui teneva dietro l’esplosione che sollevava una fumata nera
tra gli uomini in movimento. Per coloro che ne erano investiti doveva essere
tremendo: si trattava d’un calibro sugli ottanta millimetri, dunque con un rag-
gio mortale di schegge di tre quattro metri. Parecchi uomini giacevano sul ter-
reno nel luogo battuto, ma molti di più dovevano essere quelli che prosegui-
vano con le schegge nella carne, alcuni forse con le carni dilaniate. Cionono-
stante la colonna non s’interrompeva affatto prima del punto battuto: data la
lenta cadenza dei colpi infatti subito dopo ogni esplosione si poteva passare
indenni. I più prossimi affrettavano perciò il passo; gli altri che li seguivano,
anziché deviare nella neve vergine, spasmodicamente speravano di poter pas-
sare anch’essi in tempo; così sempre nuovi uomini finivano con l’offrire il
proprio corpo allo strazio.
Ambrogio e Paccoi fecero l’intera discesa con quell’incredibile, tragico spet-
tacolo sotto gli occhi; giunti nel fondo valle da principio si mantennero
anch’essi incolonnati sulla pista, mentre Ambrogio diceva ogni tanto: «È certo
che noi non rimarremo sulla pista, sarebbe da pazzi. Questo è certo.» Intanto
si andavano progressivamente avvicinando al punto battuto, il sottotenente
lanciava continue occhiate alla neve circostante su entrambi i lati: era piutto-
sto alta, la gamba vi sarebbe sprofondata fino a metà polpaccio, camminarvi
sarebbe stato molto faticoso, perciò, ferito com’era, egli non si risolveva a de-
viare.
Fortunatamente davanti a lui alcuni uscirono con decisione dalla pista: di-
stavano dal punto bombardato sessanta o settanta metri, intendevano aggirar-
lo sulla destra. A spizzico altri tennero loro dietro, poi altri ancora, e anche
Ambrogio e Paccoi giunti al solco irregolare e malagevole pieno di neve farino-
sa da quelli aperto, vi entrarono; altri li seguirono, finché - voltandosi - il sot-
totenente constatò che l’intera colonna, veicoli compresi, stava abbandonando
il vecchio percorso ed entrando nel nuovo.
Cos’avrebbe fatto adesso il mortaio? Molti se lo chiedevano e guardavano
alle esplosioni: che seguitavano a prodursi nel medesimo luogo, aggiungendo
sulla neve della pista o appena poco fuori altri imbuti nerastri tra i quali gia-
cevano i morti, mentre tutt’intorno i feriti si sforzavano disperatamente
d’allontanarsi a raggera, chi strisciando, chi alzandosi e cadendo di continuo
nella neve, che ne rimaneva insanguinata. Un poveraccio avanzava barcollan-
do con un braccio teso verso la nuova colonna: invocava aiuto con parole af-
fannose, inintelligibili. Non uno gli andò incontro per soccorrerlo: tutti pensa-
vano soltanto a sé stessi, volevano aggirare il più in fretta possibile il luogo
battuto dalle esplosioni, e si chiedevano con angoscia se il mortaio avrebbe
trasferito prima del loro personale passaggio il tiro sul nuovo percorso, il feri-
to finì col cadere ginocchioni nella neve a qualche metro dalla colonna, e vi
rimase, con una mano puntata a terra e l’altra sempre levata verso i compagni
che sfilavano frenetici.
Aggirato il punto delle esplosioni la colonna rifluì sulla pista principale che
nel tratto battuto era percorsa ormai solo da uno smilzo rigagnolo d’uomini:
qualche minuto più tardi il mortaio trasferì e con pochi colpi aggiustò il tiro su
un diverso punto della pista, alcune centinaia di metri più indietro.
I due continuarono a udire le sue esplosioni ancora a lungo, poi ad esse -
ormai molto affievolite, appena udibili - cominciarono a mescolarsi altre e più
forti detonazioni, di cui in questo tratto della colonna nessuno sapeva darsi
spiegazione. Forse i russi stavano attaccando in forze il villaggio? Stava forse
avendo inizio un combattimento? Ma tra chi? C’era ancora fra gli italiani gente
disposta a combattere? Infine dopo alcune lente curve della vallata di cui la
pista seguitava a percorrere il fondo, ad Ambrogio e a Paccoi non giunse altro
suono che quello minuto prodotto dall’incessante trepestio delle scarpe sulla
neve.

CAPITOLO NONO

Lentamente la colonna si andò assottigliando: chi aveva più forza si portava


avanti; i più deboli, i feriti, i congelati perdevano poco alla volta terreno e ri-
manevano indietro. Tra questi anche Ambrogio e Paccoi, che seguitavano a
camminare fianco a fianco. Molti, sia isolati che in gruppetti, li sorpassavano
senza parlare, procedendo con maggior lena. Ogni tanto li sorpassava anche
qualche autocarro stracarico di gente: da uno di questi si sporse improvvisa-
mente un sottufficiale che gridò: «Là indietro a Posniacof è un macello: i russi
stanno attaccando in forze, anche con i carri.»
La pista, esauritasi la lunga vallata, eseguì ripetute salite e discese, attraver-
sò qualche misero villaggio, poi entrò in una pianura uniforme e deserta che
sembrava non dovesse finire mai. Per quanto camminassero, gli uomini in
marcia avevano l’impressione d’essere sempre nello stesso punto: la pianura
s’allargava indefinitamente ai due lati della pista, velata in lontananza dalla
nebbia, segnata appena qua e là da qualche rudere di macchina agricola ab-
bandonata.
Era candida d’un candore glaciale, solo ogni tanto marezzata da distese
d’erbe secche, a volte da steli di girasole che emergevano curvi e smozzicati
dalla neve e si agitavano appena, con un crepitio come di ossa, a qualche im-
provvisa folata della brezza polare.
Le ore cominciarono a succedersi; il pensiero fisso d’Ambrogio era: arrive-
ranno anche addosso a noi i carri armati? E comunque io per quanto tempo
potrò resistere? A camminare così senza scosse le ferite non gli davano molto
disturbo, solo un insistente bruciore quella al petto. Ma fino a quando? Di li-
nee amiche, vicine o lontane, nessuno parlava più.

Finalmente il paesaggio cambiò di nuovo: il terreno prese a incurvarsi in


blande, enormi ondulazioni, le cosiddette ‘montagne russe’, la salita e discesa
di ciascuna delle quali richiedeva non poco tempo; più avanti mutò ancora,
ma non staremo ormai a descriverlo. Mezzogiorno doveva essere passato; di
tanto in tanto capitava ad Ambrogio e a Paccoi - che procedevano lenti ma
senza fermarsi - di sorpassare qualche autocarro italiano abbandonato: erano
giunti fin lì stracarichi di feriti e congelati, parecchi dei quali dopo avere inu-
tilmente tentato di proseguire a piedi, giacevano ora qua e là sulla pista e
guardavano con disperazione i connazionali tuttora integri che passavano.
Paccoi s’andava chiedendo se ne fossero rimasti anche sulle macchine: per
sincerarsene si attaccò alla sponda posteriore di un Fiat 626, e facendo forza
sulle braccia s’innalzò fino a guardare dentro il cassone: subito i feriti giacenti
all’interno si misero a urlare supplicandolo di non abbandonarli. Uno però, tra
i più vicini a lui, non gridava, lo fissava muto, con occhi disperati: lo sconforto
che c’era in quegli occhi era inesprimibile.
«Acci... È... È molto brutto» disse, dopo essere saltato a terra, il giovane:
«Là dentro è come... Sembra una tomba, dove la gente però non è ancora mor-
ta. Che senso, mio Dio! Io non ci guarderò più .»
Ambrogio sentì la pelle accapponarglisi: chiaramente, ormai, chi non era in
grado di camminare era destinato a una fine certa e orribile. Che situazione
feroce, mio Dio!

Una lunghissima salita. Alcune slitte non ce la facevano a proseguire: i ca-


valli e i muli che, senza mai mangiare, le tiravano da giorni, non riuscivano
più ad andare avanti, e annaspavano invano, oppure - immobili - respiravano
affannosamente, alzando ed abbassando senza posa i fianchi ossuti incrostati
di ghiaccio. Tra quegli animali allo stremo i muli agonizzavano in un atteg-
giamento che pareva finalmente di difesa contro il pungolo degli uomini e le
richieste di sforzi ormai impossibili, che ancora e ancora venivano loro fatte:
tentavano perfino qualche calcio, che li lasciava barcollanti; i cavalli mostra-
vano invece un affanno diverso, una sorta di dedizione inenarrabile: anche se
a malapena in piedi, anche se più volte caduti e rialzatisi a fatica, i cavalli ten-
tavano sempre di ripartire, quasi avvertissero l’angoscia che c’era nelle voci
dei conducenti e ancor più nel muto, straziato carico che avevano al traino.
Da quel contadino che era - istintivamente curioso del comportamento
animale - Paccoi indugiò a osservarne qualcuno con una sorta d’interesse pro-
fessionale. «Dio, che bestie generose i cavalli!» commentava. Ambrogio ac-
cennava allora a tirarlo via, come fosse vergognoso della condizione in cui
quei poveri animali erano stati ridotti dagli uomini.
Sull’interminabile salita cominciarono a superare anche qualche isolata
squadra tedesca, che procedeva con lentezza. “Appartengono certo ai reparti
più provati sul Don” pensava Ambrogio: “forse a quelli che sono stati negli
ultimi giorni schierati nella neve alla nostra destra. Chissà anche loro quante
ne hanno passate”.
Paccoi diceva invece frasi come: «La stanchezza è stanchezza per tutti, eh
signor tenente?» quasi con soddisfazione, tuttavia senza cattiveria: gli andava
a genio quel po’ di ridimensionamento, ecco tutto.
Anche molti tra gli italiani non feriti cominciavano però a rallentare, così
che poco alla volta la gente sulla pista raffittì. Ogni tanto si scorgevano uomini
che, completamente sfiniti, s’erano seduti, o accasciati, o inginocchiati nella
neve.
Scendeva minacciosa la sera; senza cessar di salire la pista s’addentrò in un
enorme bosco d’alberi spogli, coperti di brina. Improvvisamente qua e là nella
colonna qualche soldato italiano, senza fermarsi a prendere la mira (perché
nel bosco non c’era nessuno, e quindi non c’erano mire da prendere) cominciò
a sparare dei colpi di fucile tra gli alberi; la sparatoria crebbe ad onta delle
grida degli ufficiali e sottufficiali ancora disposti a darsi da fare. Anche di Am-
brogio, il quale: «Ecco in che modo hanno ucciso Bonsaver» ripeteva tra i
denti a Paccoi: «Maledette carogne!"
Poco dietro di lui un ufficiale tedesco, che senza nessuno dei suoi al fianco
camminava tra gli italiani, si mise a urlare per lo sdegno: «Schweine! Schwei-
ne!» e poi, in francese: «Porcs! Porcs!» e ad Ambrogio, sempre in francese,
essendosi reso conto ch’egli capiva questa lingua: «Nel bosco non c’è nessuno:
assolutamente nessuno, nessuno (per-sonne, per-sonne): perché dunque spa-
rano? Vi sembrano soldati questi?"
Il sottotenente non rispose; cosa poteva rispondere?
«Vogliono tirarsi addosso il nemico?» continuava a sbraitare l’altro: «O for-
se sparano perché hanno troppe munizioni? Eh? Da sprecarne?»
Era duro per Ambrogio dover riconoscere che il tedesco aveva ragione. Fu
per un istante sul punto d’obiettargli: «Invece di gridare adesso, dovevate dar-
ci a suo tempo la benzina.» Però la mancanza di benzina giustificava forse
questa sparatoria scervellata? No. Polemizzare è facile, ed è la risorsa dei pu-
sillanimi; questa sparatoria non aveva alcuna giustificazione purtroppo. Il
giovane seguitò a camminare in silenzio.
Erano dunque questi i suoi connazionali? Quanto lavoro, pensava, quanti
sforzi per rendere i soldati disciplinati, farne un esercito. Anch’egli vi aveva
partecipato per la sua minima parte. «Ed ecco sono bastati tre soli, no, quan-
ti? Due soli giorni di ritirata per ridurci in questo stato. Che gente dimissiona-
ria la nostra!»
Il tedesco adesso gli s’era affiancato, e predicava alzando anche ogni tanto
una mano in modo cattedratico, con pedanteria; aveva i denti storti e un po’ di
pancia, una figura a pera, non era marziale come gli altri tedeschi, e sì ch’era
ufficiale, probabilmente capitano.
“Dev’essere un professore di scuola” si disse Ambrogio, “ne ha tutta l’aria.”
E rivolgendosi a lui mentalmente: “Beh, ancora non ti basta? No? Allora con-
tinua, sfogati.” Poi si rese conto che, con lo sgridarli, questo tedesco dimostra-
va in qualche modo considerazione per gli italiani: li riteneva quanto meno
degni di spenderci il fiato. “Mentre gli altri tedeschi, che non parlano, di sicu-
ro in questo momento ci disprezzano nel modo più totale, e ci considerano
gente irrimediabilmente inferiore. E il colmo è che noi, guarda, con ’sta spara-
toria insensata, e con la nostra incapacità di ristabilire un minimo d’ordine,
sembriamo dimostrare che hanno ragione... Però! A che punto ci siamo ridot-
ti, mio Dio!”
Una volta cessata la sparatoria anche il tedesco smise di predicare; proce-
deva in silenzio, imbronciato, proprio come un professore dopo la sfuriata.
Ciò diede al giovane modo di riflettere meglio, senza altro disturbo che la
propria estenuazione e il bruciore insistente della ferita al petto.
“È che noi siamo casinisti anche nella vita civile, ecco il punto...” Gli veni-
vano in mente il chiasso continuo e il disordine, per le strade e dovunque, la
cagnara nel salire sui treni o anche solo per acquistare il biglietto del cinema.
E, continuando, il gusto con cui gli italiani fregano le proprie autorità (“tran-
ne forse, a pensarci bene, quella famigliare, che è l’unica con cui non scherza-
no”), e anche il gusto, quasi il punto d’onore che si fanno di frodare il fisco.
“Non c’è da illudersi che, una volta messa in divisa, gente simile diventi come
per incanto disciplinata: che lo diventi sul serio, cioè nel proprio ultimo; e in-
fatti guarda...” “Ma allora” si chiese con un diverso principio di sgomento “co-
sa accadrebbe se per un qualche motivo le cose si facessero veramente difficili
anche nella vita civile? Forse anche la vita civile potrebbe in Italia ridursi a un
caos come questo?”
Non era comunque il momento per una riflessione approfondita.
Cercò di consolarsi un po’ trasferendo il pensiero su Nomana: là in fin dei
conti la gente non era disordinata, appunto nel suo intimo non lo era (“Sarà
per questo che noi non abbiamo bisogno del fascismo?”) e il senso della co-
munità ce l’aveva, e come! (“Non per niente là comincia la terra di recluta-
mento alpino...”)
Inaspettatamente un soldato sconosciuto che camminava pochi passi da-
vanti a lui - un tipo che certo non aveva capita una sola delle parole pronun-
ciate dal tedesco - si tolse il fucile di spalla, lo puntò verso il bosco e fece fuo-
co.
Il tedesco lanciò un grido: «Schwein (Porco!)» e ricominciò la sua sequela
di parole furibonde.
«Disgraziato!» gridò anche Ambrogio: «ehi, dico a te, disgraziato. Perché
hai sparato?» seguito da Paccoi si affrettò verso di lui. “Ahi” gemette in pari
tempo: “ahi... questo bruciore.”
Il soldato - che aveva già tirato indietro e riportato avanti in posizione di
sparo l’otturatore - si girò sempre camminando a guardarlo con la bocca mez-
zo aperta. Una decina di passi più indietro un altro soldato fece improvvisa-
mente fuoco, così pure un terzo molto più indietro: la sparatoria, che da poco
era cessata, ricominciava.
«Cos’hai fatto, disgraziato?» incalzò Ambrogio non appena fu a fianco del
soldato: «perché hai sparato senza motivo?»
Quello mosse le labbra ma non disse una parola. «Perché hai sparato, dì?»
gli chiese di nuovo con ira il sottotenente: «Avanti, spiegati, perché hai spara-
to?»
«I russi» mormorò il soldato.
«Dove sono i russi? Nel bosco?»
Il soldato non rispose.
«Dove li hai visti i russi, rispondi. Nel bosco?»
«No» mormorò il soldato. Si mise frettolosamente il fucile in spalla e acce-
lerò il passo, svignandosela tra coloro che lo precedevano; il sottotenente non
poté tenergli dietro.

CAPITOLO DECIMO

Col trascorrere delle ore aumentava il numero di quelli che non ce la face-
vano più: nel buio si scorgevano con sempre maggior frequenza individui ac-
casciati nella neve, incapaci di fare un altro solo passo. In genere non parlava-
no, solo qualcuno, a momenti, invocava a mezza voce l’aiuto dei compatrioti
che seguitavano a camminare.
Ambrogio era entrato in uno stato chiaramente febbrile: aveva dei brividi e
sentiva una insistente sete che la neve inghiottita non bastava a spegnere, av-
vertiva anche - e questo era peggio - una sorta di crescente ottundimento,
quasi un’estraniazione al cervello.
A un tratto si sentì bruscamente trattenuto per il cappotto. Uno degli indi-
vidui caduti sulla pista l’aveva, brancolando, afferrato con una mano a una
tasca. Il sottotenente non ebbe l’animo di dare uno strappo: si arrestò e piegò
su di lui; anche Paccoi, col quale egli adesso camminava sotto braccio, s’era
arrestato.
«Perché andate tutti via?» sussurrò l’uomo prostrato nella neve: «Date una
mano anche a me, non lasciatemi qui a morire.»
«Noi due non possiamo» gli rispose con pietà e insieme con vergogna Am-
brogio «perché io sono ferito.»
«E mia madre?» mormorò lo sconosciuto senza più forze. «Non avete una
madre voi?»
Paccoi allora si staccò dall’ufficiale; chinatosi sull’uomo sollevò senza una
parola il suo braccio sinistro, vi sottopose il proprio collo, poi circondatolo alla
vita col braccio destro, fece forza, e lo mise in piedi. Praticamente appeso a lui
l’altro tentò di muovere qualche passo, ma non era più in grado d’usare le
gambe. “Ha i piedi ormai insensibili, perduti” si resero conto con raccapriccio
i due. Paccoi lo trascinò avanti forse una ventina di metri, con improbo sforzo:
Ambrogio, che seguiva in silenzio, vide l’attendente vacillare più d’una volta;
infine Paccoi si arrestò e, chinatosi, depose di nuovo lo sconosciuto sulla neve
al margine della pista; si raddrizzò ansimando.
«Perché mi lasci?» si lamentò debolmente quello: «Le linee sono vicine, ti
supplico.»
«Sì» ansimò Paccoi: «Sono vicine. Perciò sentimi: appena arriviamo alle li-
nee io trovo una slitta, o una carretta, o qualcosa, e torno qui a prenderti.
M’hai inteso?»
«Le linee sono vicine, basta un po’ di sforzo» ripeté il soldato sconosciuto.
«Andiamo» disse Ambrogio a Paccoi, e a bassa voce: «Non possiamo far
niente per lui, vieni via.»
Col tondo viso come sempre impacciato, l’artigliere contadino ubbidì.

***

Con l’avanzare della notte il freddo andava facendosi più spietato: su tutti i
passamontagna c’erano di nuovo le maschere di brina, l’aria ch’entrava nei
polmoni sembrava infuocata tant’era gelida. Il crescente sfinimento delle
membra faceva anelare a ciascuno una sosta, anche breve; in contrasto con
questa imperiosa necessità la mente avvertiva però, in confuso, che in caso di
sosta il freddo avrebbe anche potuto avere partita vinta. La prospettiva, specie
per quelli che conoscevano i propri limiti di resistenza (o meglio credevano di
conoscerli, perché - come molti scoprirono allora - insospettate sono in realtà
le risorse del fisico umano) era tale da far rizzare i capelli. In conclusione me-
glio non pensare, non riflettere, tirare avanti fino allo stremo e basta.
Dalla lontana testa della colonna giunse a un tratto un rumore di spari: al
principio di fucile e d’armi automatiche, poi anche di cannone. “È proprio il
momento adatto per iniziare un combattimento” pensò con atonia Ambrogio.
Parecchi intorno a lui tendevano l’orecchio. I colpi sembravano sul punto di
cessare, ma ripresero, cessarono e ripresero ancora, finché divennero quasi
continui. La partecipazione dei cannone avvertiva chi era in grado di riflettere
che non si trattava d’una sparatoria immotivata come altre della giornata.
La colonna rallentò gradatamente, e andò sempre più condensandosi fino a
riempire in modo traboccante i due bordi di neve della pista. Cominciarono le
soste, il movimento a sbalzi. Il freddo si faceva sempre più selvaggiamente
sentire, ogni uomo cercava di chiudersi in sé stesso, si rannicchiava, abbassa-
va il capo come per trattenere il proprio calore.
Quanto tempo durò quel movimento a sbalzi? Forse a lungo, perché a guar-
darsi intorno il paesaggio appariva ora mutato: ad avvallamenti, c’era anche
qualche isba... un paese dunque? I colpi continuavano.
Ecco là, su un lato, alcune file di pallottole traccianti che si rincorrevano nel
buio, altre file le intersecavano: tedesche e russe, perché gli italiani non ave-
vano in distribuzione pallottole traccianti. Ecco un grande carro armato tede-
sco fermo al margine della pista, e poco più avanti eccone un altro; improvvi-
samente da quest’ultimo partì un colpo di cannone: la vampata, lunga una
decina di metri, fece a pezzi le tenebre, tutti gli occhi che l’avevano vista si
riempirono di brulicanti punti rossi.
Un interminabile alt. Cominciò a circolare qualche voce: bisognava attra-
versare un paese occupato dai russi; i russi erano anche sulle alture circostan-
ti; erano molti; no, erano pochi, si sarebbe riusciti a passare; tornare indietro
non si poteva: tornare dove? Bisognava sfondare a ogni costo, o sarebbe stata
la fine.
La colonna ormai non procedeva più; Ambrogio notò dei reparti tedeschi
inquadrati fuori strada. Più avanti c’erano, pure fuori strada, i militi italiani
dei battaglioni ‘M’, anch’essi inquadrati e, al pari dei tedeschi, tuttora con evi-
denza in grado di combattere.
“Un bello smacco per noi dell’esercito, che li abbiamo sempre snobbati e
presi in giro’’ pensò il sottotenente. Certo queste non erano ‘camicie nere’ co-
muni: se facevano parte dei battaglioni ‘M’ doveva trattarsi d’uomini scelti e
addestrati alla maniera degli arditi. Tuttavia il senso di smacco rimaneva...
Cos’è che rimaneva? Ah, sì, lo smacco... Che, lo smacco? Sì... lui però adesso
finiva col percepirlo piuttosto in confuso, perché la sua mente, ogni tanto, fati-
cava a connettere.
Tutti, colonna a macchia dentro e fuori la pista, e reparti inquadrati, sem-
bravano stagnare. Ci sarebbe stato combattimento o no? Il sottotenente cercò
di non pensare più a niente; batteva ogni tanto, con insistenza, i piedi sulla
neve compatta della strada per impedire che gli si congelassero. Paccoi si te-
neva di proposito alla sua destra, un po’ obliquo, perché non gli urtassero il
braccio ferito; stava anche lui a capo chino. A pochi metri da loro una voce
nella folla ripeteva: «Il brodo, il brodo caldo, il brodo...» e chiedeva: «Dammi
un po’ di quel brodo.»
«Quale brodo? Armando, piantala di straparlare» le si contrapponeva a
tratti un’altra voce, certo di un amico.
«Il brodo caldo...»

***

Riemergendo dal torpore Ambrogio s’accorse che l’attendente lo stava ti-


rando verso un’isba in fiamme: «Là, signor tenente, là, cerchiamo di raggiun-
gere quel fuoco che è abbastanza libero.»
Anche altre isbe bruciavano; la colonna sembrava ora essersi stemperata in
torme di soldati immobili o vagolanti nelle tenebre, tra le sparse casupole d’un
villaggio sconosciuto. I due giunsero fino al rogo, e poterono addirittura se-
dersi sopra una trave emergente dalla neve.
Il caldo finalmente! Che realtà meravigliosa, vitale sopra ogni altra! Veniva
dall’incendio il consueto puzzo delle case in fiamme (di tutti gli odori del tem-
po di pace quello che più gli somiglia è il puzzo degli stracci che ardono). “Do-
ve saranno andati i contadini di questo paese?” si chiedeva incerto Ambrogio,
mentre si esponeva al calore. “I disgraziati che abitavano questa isba, per
esempio? Le donne, i bambini... Chissà se sono scappati in tempo, o solo
all’ultimo momento? Ma dove?”
Le fiamme riscaldavano, anzi surriscaldavano, le parti del corpo ad esse
esposte, non le altre, che rimanevano crudamente gelate: bisognava perciò
voltarsi di continuo, esponendosi al riverbero pezzo per pezzo. Era questo
adesso il nuovo tormento. Intorno al fuoco s’era adunata parecchia gente, una
piccola folla, che aveva formato una sorta d’anello; ciascuno cercava di scal-
darsi, se possibile seduto, i più stando in piedi, senza parlare; soltanto le
fiamme facevano rumore: schioccavano un po’, crepitavano, a momenti qual-
che trave si abbatteva sorda nel rogo, sollevando vespai di scintille.
Improvvisamente a un tiro di sasso da lì, un mitragliatore attaccò a sparare
furibondo: chissà se era nostro o nemico? Nessuno pareva domandarselo. A
un tratto smise.
Affranto per la stanchezza tremenda e la febbre, Ambrogio teneva gli occhi
chiusi; col passare del tempo finì con l’entrare in uno stato di semi estrania-
zione in qualche modo riposante; Paccoi, seduto al suo fianco, sprofondò ad-
dirittura nel sonno. Né l’uno né l’altro s’accorse perciò di un uomo che, tena-
cemente, si accostava ai vari fuochi e ai vari capannelli di soldati, per chiedere
qualcosa; ogni tanto si metteva anche a gridare: «Maggiore Casasco... Maggio-
re Casaaasco, Casaaasco, rispondeeete!» Era l’aiutante del loro gruppo
d’artiglieria, Cavallo Stanco, il quale venne pure a questo fuoco, e anche qui
chiese del maggiore Casasco; nessuno gli rispose. Egli allora si diresse verso
un gruppo di soldati più in là, e ogni tanto urlava quel nome. Ambrogio e Pac-
coi non lo videro né udirono, non l’avrebbero incontrato mai più.

II

CAPITOLO UNDICESIMO

I due si svegliarono coi primi cenni di luce. Non stavano più accanto al rogo
- spento da diverse ore - ma sotto una tettoietta di canne addossata a un’isba,
sdraiati in mezzo a soldati sconosciuti. Subito si prospettò loro la tragica si-
tuazione in cui versavano: la sacca, le ferite di Ambrogio, lo sfacelo
dell’esercito. All’ufficiale tornò di colpo in mente anche la morte del suo amico
Bonsaver, e ne provò di nuovo acerbo dolore. Non riusciva a ricordare il mo-
mento in cui nella notte era venuto via dalle ceneri del rogo; ricordava invece
d’avere poi vagato a lungo nel buio e nel freddo tremendo al braccio
dell’illimitatamente disponibile Paccoi, e come si fermassero ogni tanto per
battere entrambi con sfinimento i piedi sulla neve.
A rimanere così immobili sotto la tettoia di canne correvano ora il rischio di
congelarsi; si levarono perciò in piedi e ricominciarono a camminare. Sebbene
la luce fosse ancora molto scarsa, si resero conto d’essere in un villaggio rusti-
co, dalle isbe piuttosto distanziate tra loro; di lì a poco ne avrebbero anche
appreso lo zotico nome: Arbusov (Anguria). Il villaggio giaceva in una vallata
ovale non molto profonda, attraversata da una strada di neve battuta (eviden-
temente la loro pista - anche se i due non la riconoscevano affatto) lungo la
quale seguitavano a giungere a gruppetti o in fila rada soldati italiani.
E i nemici dov’erano? Si rivelarono dopo non molto: occupavano le pareti di
est, sud e ovest della vallata tutt’attorno al villaggio, e forsanche, verso est,
una lontana, rarefatta propaggine del villaggio stesso. Fattasi sufficiente luce
essi cominciarono a sparare sulla colonna in sosta, concentrata soprattutto in
Arbusov e nei suoi dintorni: sparavano colpi d’arma portatile, poco efficaci per
la distanza, ma anche di mortaio e, a intermittenza, micidiali colpi di cannone.
I tedeschi, che avevano imbastito a sud e a est un embrione di linea, risponde-
vano con qualche salva di cannone, ma alla cieca, in quanto le armi pesanti
nemiche si trovavano tutte oltre i bordi della vallata, e non erano quindi indi-
viduabili. In una posizione come questa era chiaro che non si poteva rimane-
re: cosa si aspettava dunque a partire?
Cominciarono, al solito, a circolare voci: si attendeva una colonna corazzata
tedesca; no, si attendeva che gli aerei lanciassero la benzina (che la lanciassero
ai tedeschi beninteso, non a noi); no, forse si attendeva che i comandi superio-
ri indicassero via radio un percorso sufficientemente sgombro di nemici.
Nell’attesa non c’era quasi colpo delle armi pesanti russe che non facesse
vittime. Quando si udiva il sibilo delle granate o delle bombe di mortaio in
arrivo, nel settore investito tutti si buttavano a terra, per poi, ad esplosioni
avvenute, alzarsi in piedi e fuggire via; qualche corpo rimaneva però sempre
sulla neve intorno all’imbuto nerastro d’ogni esplosione.
«È una fortuna» spiegò Ambrogio a Paccoi, dopo avere osservato con atten-
zione ciò che succedeva «che i russi almeno per ora non siano molti, e comun-
que non abbiano sul posto molte armi pesanti. Beh» concluse «è veramente
tempo per noi di metterci alla ricerca del nostro gruppo.»
D’altra parte rimanere fermi era penoso a causa del freddo; i due si misero
dunque a girovagare fianco a fianco tra le sparse case del villaggio e sulla neve
calpestata dei suoi dintorni, ora mescolandosi alla folla che in maggioranza si
manteneva ferma, ora accompagnandosi a individui ugualmente vaganti alla
ricerca di chissà cosa. «Io devo ricostituire a ogni costo le pattuglie» diceva
ogni tanto l’ufficiale.
«Sì, però bisognerebbe anche cercare qualcosa da mangiare» suggeriva a
volte Paccoi, e per fare malgrado tutto un po’ di spirito ripeteva con semplicità
un bonario detto umbro che già in altre occasioni Ambrogio gli aveva sentito
pronunciare: «’Nn du (dove) se magnuca, ’l Signor ce conduca».
Vagarono senza costrutto per ore; più d’una volta tentarono d’entrare in
qualche isba, ma erano tutte stipate di tedeschi, i quali ne vietavano urlando
l’accesso agli italiani (loro che combattevano per tutti, dovevano conservarsi il
più possibile in buone condizioni, questo era giusto; così però agli italiani non
rimaneva che ridursi sempre più a branco informe). Siccome il bombarda-
mento nemico, se pure non molto nutrito, insisteva, e seguitava a fare morti, i
due si provarono al pari di altri ad allontanarsi dal paese e ad addentrarsi in
certe pieghe poco profonde del terreno, con l’intenzione di riposarvi seduti
sulla neve. Anche qualcuno degli autocarri italiani giunti fin qui - tutti invero-
similmente carichi di feriti e di congelati - entrò nell’una o nell’altra di tali val-
lecole; ma anche in queste piombarono dei colpi, per cui gli autocarri si trasfe-
rirono altrove, rischiando continuamente d’impantanarsi nella neve vergine.
«Seguitando così» commentava Paccoi «finiranno col consumare la poca ben-
zina che gli è rimasta.»
«È che gli autisti e i capi macchina non sanno più cosa fare» mormorò Am-
brogio.
Col trascorrere delle ore la sua situazione andava facendosi più difficile,
perché egli avvertiva un crescente bisogno di riposare, e non gli era possibile
all’aperto, a dieci e più gradi sotto zero. Ciononostante persisteva nel voler
rintracciare il suo gruppo d’artiglieria ; finirono con l’imbattersi in qualche
ufficiale e in un certo numero di soldati conosciuti - per lo più individui di
scarse risorse -da cui appresero che nel corso della marcia il gruppo si era dis-
solto al pari degli altri reparti. Degli uomini delle pattuglie comandate da Am-
brogio rintracciarono nel pomeriggio i due ‘lavativi’ Mazzoleni e Piantanida, i
quali si accompagnarono loro di buon grado; per quanto però si dessero poi
da fare, vagando tutti insieme nella folla alla ricerca, non riuscirono a rintrac-
ciarne altri.
Prima che venisse meno la luce i colpi nemici raffittirono per l’arrivo di
nuove armi pesanti. La massa italiana - almeno ventimila uomini - era sempre
concentrata nel ristretto spazio del villaggio e dei suoi immediati dintorni, e
tutti, in attesa di partire, seguitavano a non far niente per difendersi; in mezzo
alla folla i colpi di cannone e di mortaio russi esplodevano ora più frequenti,
falciandola come si trattasse non d’esseri umani, ma di canne o d’erba.
Ad Ambrogio e al suo gruppetto capitò di doversi buttare a terra al pari de-
gli altri quando i colpi piombavano a poca distanza da loro; un paio di volte
vennero a trovarsi dentro la rosa delle esplosioni, poterono tuttavia rialzarsi
indenni mentre intorno a loro c’era chi rimaneva immobile per sempre, o ur-
lava forsennatamente e si voltolava per avere avuta la carne straziata o tagliate
le ossa.
Dopo un po’ di tale esercizio, ufficiale e attendente finirono col ritrovarsi di
nuovo soli, senza più Mazzoleni e Piantanida. Ambrogio non insisté oltre nella
ricerca dei suoi, non se ne sentiva più fisicamente in grado, anche perché la
febbre - attivata forse da quella ginnastica - lo stava un po’ alla volta ripren-
dendo. Con crescente angustia di Paccoi, egli appariva via via sempre più
esausto, tanto che all’attendente capitava di chiedersi: “Se non dovesse più
riuscire a camminare, io cosa faccio?” e si guardava intorno tra la folla, ren-
dendosi con spavento conto che nessuno lo avrebbe aiutato. In quei momenti
gli veniva in mente una botola di legno da lui individuata il mattino fuori pae-
se, nei pressi d’un’isba bruciata. Come tutti egli era al corrente dell’esistenza
accanto a molte isbe di piccoli ripostigli sotterranei, aveva anche sentito dire
che spesso i civili russi vi si nascondevano al passaggio della guerra: chissà se
la botola da lui individuata conduceva appunto a uno di quei sotterranei? Dei
quali gli altri italiani poco si curavano, sia perché erano difficili da scoprire,
sia perché entrando in essi si sarebbero tagliati fuori dalla colonna. Egli si
chiedeva invece se non avrebbe potuto, in caso d’estrema necessità, ricoverar-
vi almeno per qualche ora l’ufficiale.
Il tempo passava, la colonna non accennava a ricostituirsi, le condizioni
d’Ambrogio peggioravano: come calamitato Paccoi finiva col tornare sempre
più spesso col pensiero alla botola.
Finché vi s’indirizzò insieme con l’ufficiale, dubbioso ora che si trattasse
davvero d’una botola; eccola là nella neve, a pochi metri dai resti dell’isba. Sul
posto non c’era quasi gente: dopo essersi guardato attorno, che nessuno
l’osservasse, Paccoi scostò con un piede la neve dal coperchio, quindi lo solle-
vò, scostò uno strato di paglia e alcune assicelle che v’erano sotto, e scoperse
l’inizio d’una scala a pioli. Mise un piede sul primo piolo e prese a discenderla.
Si ritrovò - in un lezzo che gl’impediva quasi di respirare - dentro una calda
celletta sotterranea, in cui stavano nascosti al buio dei civili russi che, mante-
nutisi in silenzio mentre egli discendeva, allorché posò i piedi tra loro comin-
ciarono a protestare tutti insieme. Venne finalmente accesa una candela e il
giovane poté vederci: i contadini - un vecchio, alcune donne, dei bambini -
stavano seduti o sdraiati su trapunte stese per terra: lo spazio - molto ristretto
- era a malapena sufficiente per loro, e tuttavia se non qui, egli non avrebbe
saputo dove ricoverare Ambrogio. Cercò di spiegare più a gesti che a parole
cosa intendeva fare, quindi tornò fuori, e ridiscese seguito dall’ufficiale, men-
tre i russi protestavano stavolta con vero furore: attenuarono le loro proteste
solo quando si resero conto che il soldato, dopo aver fatto sdraiare l’ufficiale
sul pavimento, stava per andarsene; una delle donne mise allora sotto la testa
del ferito, che si guardava intorno con occhi febbrili, un piccolo cuscino di lana
colorata.
«Da mangiare» disse Paccoi ai russi, indicando l’ufficiale: «Mangiare, cucc,
cucete» e faceva il gesto d’infilarsi qualcosa in bocca; poi alzò le spalle.
«Signor tenente» disse ad Ambrogio «io me ne sto qui fora, a fa la guardia,
che la colonna n’esse da partì senza di noi. Voi intanto ete da cercà de dormì,
anche con tutta ’sta puzza. M’ete inteso?»
Ambrogio gli fece un segno affermativo. «Grazie Paccoi» disse a bassa voce.
L’attendente risalì la scaletta.

CAPITOLO DODICESIMO
Era ormai sceso il buio, e su Arbusov - aggiungendosi ai mortai e ai cannoni
- avevano cominciato a lanciare le loro salve di razzi anche le ‘catiusce’, quan-
do Paccoi scorse il sottotenente Michele Tintori di Nova che stanchissimo e
meditativo vagava nel gran gelo in margine alla folla e ai colpi, con la testa ri-
tirata tra le spalle.
Il giorno prima Michele aveva combattuto duramente a Posniacof: come
mai fino allora aveva combattuto, ed era rimasto in vita per miracolo. Adesso
stava pensando (chi lo crederebbe?) al generale Cadorna. Per quel defunto
generale egli aveva sempre nutrito una sorta d’astio personale: attribuiva al
suo ‘arcaico’ modo di condurre la guerra con grandi scontri frontali rigida-
mente controllati (sostenuti tra l’altro dalla decimazione implacabile dei re-
parti in cui si verificavano cedimenti) il fatto che nell’altra guerra ci fossero
stati tanti morti, e suo padre fosse tornato a casa ridotto a un rudere. Ora però
si stava chiedendo se Cadorna non fosse in realtà un conoscitore incomparabi-
le del soldato italiano... Certo bisogna fare il possibile e l’impossibile, e ancora
molte volte il possibile e l’impossibile, per evitare la guerra; quando però uno
si trova comunque obbligato a farla con soldati come questi... Guarda, non
pochi s’erano ormai liberati anche del fucile!
Volgeva intorno con sofferenza i neri occhi intelligenti, e proprio dagli occhi
Paccoi lo riconobbe: ecco là il sottotenente che (“Quando è stato? Appena ieri
mattina!”) aveva tentato di fare l’adunata di tutti i reggimenti. Sapeva che si
trattava d’un compagno di scuola d’Ambrogio perché lo stesso Ambrogio
gliel’aveva riferito in seguito, nel corso della marcia. Andò istintivamente ver-
so di lui, facendogli con una mano segno di fermarsi. «Signor tenente, scusate.
Io sono l’attendente del tenente Ambrogio Riva. È vostro amico, vero?»
«Certo che è mio amico. Dove si trova adesso Riva?»
«È stato ferito.»
Gli spiegò dove e come e ogni cosa; l’altro gli chiese d’essere accompagnato
subito alla botola. Nella quale s’infilò dopo di lui che, prima d’aprirla, si era
ancora una volta guardato intorno, non ci fosse qualcuno nei pressi tentato di
seguirli. Trovarono Ambrogio pesantemente addormentato.
Eccolo qui - si disse con emozione Michele - il suo compagno di scuola, il
fratello di Alma. Era ferito e in grave rischio di perdere la vita. Nello scendere
la scaletta egli aveva per un istante fantasticato che se gli fosse riuscito di sal-
varlo, si sarebbe meritato per sempre la riconoscenza di Alma. “Che grande
occasione!...” Adesso però vedendo l’amico in quello stato, dentro quel puzzo,
col solito viso serio quasi fosse impegnato a fronteggiare i guai anche durante
il sonno, si rimproverò quel pensiero così fatuo.
«Lascialo stare, non svegliarlo» disse a Paccoi.
Il vecchio russo, spiegandosi con le mani, comunicò loro che gli avevano
fatto mangiare qualcosa: «Cartòsca... còscet... cartòsca.»
«Gli han fatto mangiare delle patate» disse Michele a Paccoi. Fece al vec-
chio un segno d’approvazione, poi, afferratagli la destra, gliela strinse. «Spas-
sìba (grazie)» disse e ripeté. E a Paccoi (ma soprattutto a sé stesso): «Però,
che tipi incredibili questi russi!»
Rimasero nella celletta sotterranea soltanto qualche minuto; Michele si
guardava attorno nella malferma luce della candela, mentre le donne e i bam-
bini guardavano lui e la pistola che aveva al cinturone. «Sono pigiati come
sardine» disse a Paccoi: «ci stanno a fatica, quasi non hanno spazio sufficiente
per distendersi tutti. Vieni, cerchiamo di scocciarli il meno possibile.»
Mentre risaliva la scaletta tornò a dirsi: “Però, che gente strana i russi.
Hanno fatto morire di fame, con incredibile spietatezza, milioni di loro com-
patrioti e, guarda, danno da mangiare a un nemico ferito.”
Una volta fuori, nel freddo feroce, chiese anzitutto a Paccoi se avesse già
stabilito dove dormire.
«No» gli rispose questi, «comunque non lontano da qui.»
«Io penso d’andare là, a quel grande pagliaio sopra il paese»,
Lo indicò: «Lo vedi? Là c’è anche un posto di medicazione. Se vuoi venirci
anche tu... Dormire all’aperto è uno scempio dappertutto, ma là uno può al-
meno mettersi un po’ di paglia addosso.»
La prospettiva della paglia tentò Paccoi; non gli andava tuttavia
d’allontanarsi da Ambrogio, e lo disse.
«Scherzi? Se si rifà la colonna, per prima cosa noi torniamo qui a prendere
il tuo tenente. Puoi dubitarne?» disse Michele, toccato dalla rara fedeltà
dell’altro. «Ma non credo che questa notte la colonna si riformerà.»
E mentre Paccoi, finalmente risolto, s’incamminava con lui verso il pagliaio:
«Il tenente Riva è stato mio compagno di collegio per molti anni, te l’ha detto?
E adesso lo è di università, ed è anche quasi mio compaesano. Ti par possibile
che io mi disinteressi di lui? Eh! Noi due domattina studieremo insieme cosa
fare.» E dopo alquanti passi: «Bisogna trovargli a ogni costo un posto su una
slitta. È quello che cercheremo di fare per prima cosa. Poi seguiremo la slitta
senza abbandonarla.»

***

Giunti al pagliaio (lungo forse un’ottantina di metri) vi trovarono alcune


centinaia di feriti sistemati in file parallele su poca paglia: stavano tutti da un
lato, perché l’altro lato era esposto in pieno a una brezza terribilmente gelida
che da qualche ora aveva cominciato ad alitare da nord; qui in alto la brezza si
faceva sentire più che in paese. Oltre ai feriti c’erano anche molti soldati con-
venuti per dormire: alcuni di questi erano saliti sul pagliaio e stavano in quel
momento buttando giù bracciate di paglia per sé e per i propri amici; non era
infatti possibile strapparla dai fianchi gelati del cumulo, dov’era troppo pres-
sata.
Del che resosi conto, Michele si arrampicò a sua volta - con gesti quasi
d’automa perché, come abbiamo detto, era stanchissimo - sul mucchio, e gettò
in basso paglia sufficiente per sé e per Paccoi. Una volta rannicchiato sotto la
paglia, prima d’addormentarsi, pregò brevemente ma con fervore: a differenza
d’Ambrogio infatti egli tendeva a coinvolgere Dio in tutte le cose. Diremo me-
glio, riteneva che tutta la storia (incluse le vicende minute cui egli stesso e i
suoi prossimi partecipavano in piena libertà) fosse storia sacra.

III

CAPITOLO TREDICESIMO

Visti dalle postazioni russe gli italiani accerchiati non davano la sensazione
di disordine che era tanto evidente stando in mezzo a loro.
Dalla parete est della vallata il tenente Làricev (da noi lasciato due giorni
prima a Mescoff) li stava osservando attentamente col binocolo. Erano pros-
sime a calare le tenebre; a qualche passo da lui, ch’era inginocchiato dietro un
rudimentale schermo di neve, stavano accucciati alcuni uomini del suo ploto-
ne, tra cui il vicecomandante - un sergente gigantesco dal pastrano sfrangiato
per l’usura - e l’attendente Balandìn soprannominato ‘Ringhierina’. In una
balca alle loro spalle il battaglione, appena arrivato qui da Mescoff al seguito
d’una batteria di ‘catiusce’, attendeva che il buio fosse completo per entrare
nella vallata principale.
Dove gli italiani - andava constatando con inquietudine Làricev - erano
molto più numerosi che a Mescoff. Mentre i russi qui, secondo almeno egli
aveva appreso, non erano affatto numerosi. Il rapporto esatto delle forze lo si
sarebbe conosciuto tra poco, quando il maggiore comandante il battaglione
fosse rientrato dal comando di settore, dove s’era recato a prendere istruzioni.
Quale che fosse, i nemici erano molti di più... Fresco dell’esperienza fatta coi
bersaglieri a Mescoff, Làricev avvertiva uno straordinario turbamento. “Come
mai i comandi non hanno spostate qui tutte le truppe che stavano là?” si chie-
deva: “Soprattutto i carri armati? Dove diavolo potrebbero utilizzarli meglio di
qui?”
I nemici si presentavano riuniti in enormi masse scure dentro e intorno al
villaggio, ogni macchia costituita da migliaia e forse decine di migliaia di uo-
mini. Stavano soprattutto là, per il resto la vallata sembrava deserta o quasi.
Fatto davvero singolare - il tenente lo notò - tra i nemici si scorgevano pochis-
sime macchine, un numero decisamente sproporzionato.
“Cosa vorrà dire questo? Forse che si preparano ad attaccare?” si chiese,
mentre osservava preoccupato col binocolo. “Ma se sono stazionari da stanot-
te, a quanto ho sentito... Dove le avranno messe le macchine? È un mistero!”
Distingueva qualche reparto incolonnato, il che gli faceva supporre che i
nemici fossero tutti incolonnati, e solo la deficienza di luce gl’impedisse di
rendersene conto. Nell’insieme, così almeno a prima vista, non davano però la
minacciosa impressione d’efficienza che davano i petùchi, i bersaglieri, a Me-
scoff. “Questa non è una gran consolazione” rifletté Làricev. “Oltretutto qui ci
sono anche dei tedeschi, eccoli là, con le divise bianche e i carri armati pur-
troppo. I carri armati! E noi sul posto non ne abbiamo neppure uno. Brutto
affare.”
D’un tratto da una conca alle sue spalle una delle quattro ‘catiusce’ che il
battaglione aveva scortato, fece partire la sua prima raffica di razzi. Làricev ne
udì il sibilo soffiante, diverso sia da quello delle granate che delle bombe, e
fissò bramosamente la massa nemica, per vederne l’effetto. I sedici razzi da
130 millimetri si aprirono fulminei uno in prosieguo dell’altro proprio nel
mezzo dei nemici, sviluppando brillanti fiammate e schianti immani, che dap-
prima si succedettero, poi si fusero tra loro in una sorta di lungo boato.
«Bene» «Prendetela nel...» «Ancora» «Dai» fu il commento borbottato dai
soldati che stavano accanto a lui.
Questa fu all’incirca anche la reazione dell’ufficiale, il quale però si guardò
subito indietro e intorno, nell’istintiva ricerca di una via di scampo: “Perché
quelli adesso ci corrono addosso alla ricerca della ‘catiuscia’. Non staranno
certo là a farsi ammazzare”. C’era oltretutto il pericolo - si disse turbatissimo
l’ufficiale - che quelli non si fermassero tanto presto e avanzassero sulla pista
fino a scoprire quei loro connazionali massacrati con un colpo alla nuca. A un
paio di chilometri di lì, infatti, il suo battaglione aveva superato un tratto di
strada con ai bordi mucchi di cadaveri - diverse centinaia - di prigionieri ita-
liani, tutti con la nuca sfondata. Che sconcio carnaio! «Perché li avranno am-
mazzati a quel modo? Probabilmente per non distaccare degli uomini di scor-
ta» s’erano detti i soldati.
Anche la seconda, la terza e la quarta ‘catiuscia’ lanciarono i loro micidiali
sciami di razzi, che piombarono come il precedente tra gli uomini fermi sulla
neve.
Cosa diavolo succedeva? Làricev vide che i nemici ondeggiavano come erba,
e dove i colpi erano caduti si sbandavano ma per coagularsi di nuovo a poca
distanza. Sui maggiori coaguli piombarono le salve successive. “Ma cosa fan-
no? Perché non reagiscono? Buon per loro” finì col pensare il tenente “che le
‘catiusce’ hanno bisogno di un certo tempo per la ricarica, se no...” Dove infat-
ti erano esplosi i razzi rimanevano sulla neve tante piccole rose scure, formate
ciascuna da tre, quattro morti: eccole là, una in prosieguo dell’altra; perché
erano senza dubbio cadaveri quelle macchioline raggruppate, a fatica distin-
guibili anche col binocolo nella luce ormai minima.
“Che macello” si diceva ora sconcertato Làricev: “Che razza di macello. Ma
come mai questi italiani sono così diversi da quelli di Mescoff?”
Una batteria tedesca rispose alle ‘catiusce’ con alcune salve scalate in gittata
le quali, essendo prive d’osservazione, andarono a infrangersi senza effetto sui
pendii violacei a tergo del battaglione.
Gli italiani rimanevano là a farsi falciare dai colpi nemici, del tutto incapaci
di fare qualcosa per difendersi; finché poco alla volta le tenebre sottrassero
alla vista dell’ufficiale l’incredibile spettacolo.

***

Come al solito, dopo sceso il buio il freddo aumentò. Giù nella balca gli uo-
mini del battaglione russo (il primo del Millecentottantesimo reggimento fan-
teria, come sappiamo) sbarcati dagli autocarri sui quali - in marcia o in sosta -
erano stati esposti al freddo per l’intera giornata, rivolgevano ogni tanto agli
ufficiali i loro volti paonazzi: però senza aspettarsi alcunché, con fatalistica
rassegnazione; gli ufficiali attendevano sempre il ritorno del maggiore.
Perdurando l’attesa, il pachidermico capitano comandante la compagnia di
Làricev diede ordine che venissero distribuiti i viveri a secco, quindi salì
anch’egli, sbuffando, a dare un’occhiata dall’improvvisato posto
d’osservazione.
«Cos’è che si vede da qui?» domandò non appena arrivato.
«Adesso più niente» gli rispose Làricev. «Se non quel fuoco di traccianti
laggiù: le vedete, Semion Grigorievic? Quelle sono tedesche. Contrapposte ci
sono le traccianti dei nostri mitragliatori, le vedete là? Si riconoscono bene.»
«Ma qui, dico qui subito davanti a noi, in queste isbe sparse, nemici ce ne
sono?»
«Non ne ho visti. Stanno tutti ammassati nella zona del paese. Però sono
tanti, veramente tanti.»
«Questo non vuol dire» osservò il capitano. «Mentre tu eri qui ho parlato
con un tenente dei nostri che si trova sul posto da ieri: i nostri hanno fatto pa-
recchi prigionieri, e con poca fatica, perché c’è una quantità di sbandati, tutti
italiani beninteso, non tedeschi. Beh, dal primo all’ultimo i prigionieri concor-
dano nel dire che i loro reparti sono sfasciati.»
«Ah!» fece Làricev. «Adesso capisco... Prima, mentre li guardavo col bino-
colo, ho visto che c’era qualcosa che non andava. Ma perché sfasciati?»
«Hanno dovuto lasciare il Don in gran fretta, senza fare il rifornimento di
benzina. Così dicono i prigionieri.»
«Che fretta, eh, Semion Grigorievic?»
Il corpacciuto capitano sorrise. «La paura di restare insaccati...» Annuì:
«Siccome si tratta di truppe motorizzate, mancandogli la benzina hanno dovu-
to abbandonare tutto l’armamento, ogni cosa.» «Dunque sono senza benzina.
Ecco perché non hanno automezzi o quasi. Questo l’ho visto bene.»
«Sì, eh? In pratica gli italiani vanno dietro ai tedeschi come pecore, per pas-
sare dove quelli aprono la strada. Perché i tedeschi la benzina ce l’hanno, e se
gli finisce, arrivano i loro aerei a buttargliela coi paracadute: gliel’hanno but-
tata anche oggi. A questo riguardo non dobbiamo farci illusioni.» Il capitano
rifletté annuendo. «Così l’hai visto anche tu, eh, che gli italiani sono senza au-
tomezzi? Ecco, questa è una conferma. Bene.»
Tentò, per qualche minuto, di studiare a sua volta la situazione scrutando in
silenzio il buio davanti a sé; a qualche passo dai due ufficiali il fante Sucorùcov
(quello dei pesci secchi) resosi conto che giù in basso, alla compagnia, si sta-
vano distribuendo i viveri, cominciò a dimenarsi. «Le razioni a secco...» tentò,
rivolto al sergente: «Fiodor Cusmic, alla compagnia stanno distribuendo le
razioni a secco.» Il sergente non gli badò.
Le ‘catiusce’ lanciarono ancora nelle tenebre qualche sciame di razzi, poi
cessarono il tiro per non correre il rischio di sprecare munizioni. Un po’ più a
lungo durò il fuoco saltuario di alcuni mortai russi che sparavano da sud, na-
scosti da quei rilievi. Mentre le esplosioni dei razzi erano dorate e luminosis-
sime, e proiettavano all’intorno innumerevoli sferette di materia incandescen-
te, le esplosioni dei mortai richiamavano piuttosto l’idea di piccole belve ros-
sastre che si contorcessero fulminee.
«Beh, io torno giù» disse il capitano. «Tu seguita a fare buona guardia. Non
appena però vedi il battaglione mettersi in marcia, raggiungici coi tuoi quattro
scagnozzi.» Guardò Sucorùcov, Ringhierina e gli altri, che stavano accucciati
nella neve a contatto di gomito.
«D’accordo, Semion Grigorievic» gli rispose con un mezzo sorriso il tenen-
te.
«Sta attento: io son convinto che finiremo tutti come sardine nelle isbe qui
sotto.» Rifletté: «Non vedo altra soluzione: una notte all’aperto, con questo
freddo, ridurrebbe troppo l’efficienza del battaglione. Del resto, inguaiati co-
me sono, gli italiani non ci daranno fastidio. Tu intanto cerca, se puoi, di ren-
derti conto se e dove - qui davanti a noi - hanno imbastita una linea, oppure se
non hanno imbastito niente: dovresti capirlo dal fuoco in partenza delle loro
armi automatiche.»
«Sì.»
«Bene, io vado.» E s’avviò.
Làricev lo vide scendere a passi pesanti il pendio: il capitano aveva una fi-
gura particolarmente inelegante, atticciata, la testa sotto il berretto a pelo si-
mile a una zucca costoluta. Non era cattivo né buono: del tutto indifferente
alla sofferenza altrui, pensò Làricev; ecco era un uomo che davanti alla soffe-
renza degli altri non provava pena né piacere. “Questo ad ogni modo” rifletté il
tenente, ricordando certe sue esperienze di lager, “che la sofferenza altrui non
gli faccia piacere, è già una buona cosa.”

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Di lì a non molto ebbe modo di sperimentarla sulla propria pelle


l’indifferenza del capitano. Il battaglione si era infine messo in marcia ed era
entrato in silenzio nella vallata principale, raggiungendo - come previsto - le
isbe che costituivano la propaggine estrema, verso est, del villaggio di Arbu-
sov: nelle quali i soldati s’erano subito insediati, stipandole.
Non però Làricev né i suoi. «Tu no» gli aveva infatti detto il capitano: «Tu
devi - senza farti notare dal nemico - avvicinarti col tuo plotone al paese, e si-
stemarti dentro una di quelle isbe che si scorgono là davanti. Dovete formare
un ‘posto d’allarme’, è chiaro? A turno almeno un quarto degli uomini dovrà
montare di guardia: questo è un ordine tassativo. Impiegane anche di più se
credi, ma non di meno.»
«Sì, compagno capitano.»
«La consegna per voi, qualunque cosa accada, è di non ripiegare senza no-
stro ordine. È il maggiore che lo esige.»
Làricev annuì muto. “Così, in caso d’attacco” pensò, “finiremo col trovarci
tra il fuoco del nemico e quello del battaglione. Una magnifica prospettiva.”
A questo punto Sucorùcov, che tenendosi alle spalle del tenente aveva ascol-
tato ogni cosa, si rivolse al sergente: «Fiodor Cusmic, avete sentito? Noi dob-
biamo andar via. E le nostre razioni di viveri? I nostri viveri?»
«Li ho già ritirati io» gli rispose il sergente.
«E la vodca? Fiodor Cusmic, ci sarà certo da spararsi: non la distribuiscono
la vodca stavolta?»
A questo il sergente non rispose.
«Ho scelto il tuo plotone» disse il capitano a Làricev «perché da là sopra voi
avete già avuto modo di farvi un’idea delle posizioni nemiche.»
«Sì, compagno capitano.»
«Bene. Il mestiere lo conosci: se vedete qualcosa che non va, per esempio
un preparativo di attacco, o incolonnamenti, o altre porcherie, me li segnali
subito inviandomi qui a quest’isba una staffetta. Anzi due staffette, intesi?
Due. Beh, mi pare che ci siamo detti tutto. Sotto, datti da fare.» Il corpulento
capitano gli girò senz’altro le spalle.
«Un momento.» Il viso di Làricev, di solito paziente, sembrava essersi fatto
acrimonioso: «Vista l’eventualità che noi si debba resistere sul posto, staccare
due staffette... Per il plotone sarebbe un indebolimento serio.»
«E allora? Cosa ci posso fare io?»
«Voglio dire che se voi mi aggiungeste due, anzi meglio quattro portaordini
della compagnia... Semion Grigorievic, è una richiesta ragionevole mi pare.»
Il capitano parve contrariato, poi ci ripensò e sorrise ambiguo (nel buio Là-
ricev non se ne rese conto): «Va bene, due. Vada per due.» Si rivolse a un sot-
tufficiale che passava di lì: «Macàrov e Calàtov subito da me: falli venire qui.»
Làricev si morse le labbra. “Maledizione! Come non ci ho pensato? I due
spioni...” Ma ormai non aveva modo di riparare.
I due ‘spioni’ furono rintracciati non già dal sergente di passaggio, presto
disinteressatosi dell’incarico, ma da quello del plotone, con una certa perdita
di tempo dato che erano entrati in due differenti isbe. Senza mugugnare né
bestemmiare - come avrebbero invece fatto dei soldati normali, non ‘spioni’ - i
due presero posto nella squadra comando del plotone, sistemandosi dietro al
caporale Nichiténco, al contadino Sucorùcov, e all’attendente Balandìn detto
Ringhierina.
Ci volle un certo tempo perché il plotone raggiungesse, procedendo con
cautela lungo la strada di fondo valle, due isbe contigue, situate qualche centi-
naio di metri davanti alla compagnia, e vi si piazzasse. Diede inizio al servizio
di guardia la squadra comando; la durata dei turni era stata fissata da Làricev
in un’ora, ma così insopportabile era, per gli uomini martirizzati dal freddo, la
prospettiva di trascorrere anche un’altra ora sola all’aperto - mentre alle spalle
avevano due isbe in cui ripararsi - che il tenente ritenne necessario mettersi di
guardia con loro.

***

Stavano le guardie russe suddivise in due nuclei davanti alle isbe: tre appo-
state insieme con l’ufficiale sul bordo della strada, dietro un cumulo di sassi
innevati, altre quattro nascoste in una sorta di pollaio. Il nemico era totalmen-
te invisibile, non era lontano però, tanto che a volte ne giungeva, seppure
smorzata, qualche voce, forse lamenti di feriti.
Ogni tanto si vedevano partire da determinati punti ai margini del paese
brevi file di pallottole traccianti tedesche; a volte traccianti russe le incrocia-
vano; nel settore sud un’isba, colpita forse da uno degli ultimi razzi, ardeva da
tempo solitaria. “Che somma incredibile di sofferenze anche solo in questa
sperduta località dal nome idiota di Arbusov (anguria)” considerò l’ex pittore
Làricev. Ma subito cercò d’interrompersi: non doveva pensare a simili “grandi
cose” che - come sapeva bene - finivano sempre con l’estenuargli la mente.
Il fatto è ch’era un artista, dunque inevitabilmente ricettivo e sensibile...
Tentennò la testa: “Artista? Non sono più un artista, con l’arte io ho chiuso
ormai. Cosa potrei dipingere del resto? Busti di Stalin? O - su ordinazione -
operai e colcosiani con la faccia ebete e felice?” Che ambiente inconciliabile
con l’arte s’era fatto il suo, la grande madre Russia! “Certo gli imbrattatele e i
pennaioli leccapiedi oggi prosperano, anzi dopo i papaveri del regime sono
loro a beccarsi gli stipendi più alti. Ma chi lavora più dei veri, degli autentici
artisti? Tutti i maggiori li hanno uccisi i comunisti, se no si sono suicidati...”
Gli si prospettò alla mente una sequela di figure e di nomi: Gorchi, Maiaco-
schi, Jesenin, Babel, Pilniach, Gumilev, Mandelstam - e poi giù giù altri meno
noti, fino ad alcuni affatto sconosciuti ch’egli aveva visto spegnersi nei lager,
incapaci di resistere alla vita tremenda che vi si conduceva. E che orge
d’ipocrisia, a pensarci, le versioni ch’erano state date di quelle morti: non delle
morti dei poveracci ovviamente, ma dei maggiori, conosciuti anche all’estero...
A Gorchi dopo averlo ucciso i comunisti avevano addirittura intitolata una
grande città. S’era mai vista sotto il cielo un’ipocrisia paragonabile? Ma per-
ché? Perché?
Sui nomi dei poveracci era invece sceso il silenzio, per sempre: nessuno
avrebbe mai più sentito parlare di loro... Ne ricordava due in particolare: la
morte di quei miseri compagni di lager era stata per lui una perdita crudele,
per lui che sempre - ma specialmente da deportato - aveva sentito vivo il biso-
gno dell’incontro con gli altri artisti: delle discussioni, critiche, consensi, dis-
sensi, insomma degli scambi d’idee con loro. Lui era fatto così, al riguardo non
aveva scampo... Ma basta. Làricev inspirò profondamente l’aria che bruciava:
era già troppo stanco, non doveva - si ripeté - estenuarsi con queste riflessioni.
“Lascia perdere, non è il momento per pensare.”
Seduto su un ceppo al suo fianco, il contadino Sucorùcov si toglieva ogni
tanto di tasca un brandello delle aringhe ricevute poco prima con la razione,
se lo ficcava in bocca e lo masticava lentamente; alla fine ne sputava come
d’abitudine i residuati sulla neve, che cominciò così a cospargersi di macchio-
line scure. Era più che mai raffreddato Sucorùcov, per cui le sue mani prive di
fazzoletto erano di continuo alle prese col naso dalle narici tagliuzzate dal ge-
lo. All’altro fianco di Làricev Ringhierina - come sempre quand’era teso - face-
va ogni poco clich con la sua dentiera di ferro stampato. “È una vergogna”
pensò l’ufficiale “che da noi non si fabbrichino dentiere anche per la gente del
popolo, che le fabbrichino solo per... Basta però, adesso davvero basta. Io non
devo più pensare. Devo semplicemente attendere che quest’ora passi, poi per
tre ore - tre ore di fila! - potrò starmene nell’isba al caldo, potrò dormire
anch’io.”
Ma si fa in fretta a dire “Non devo più pensare”; bisognerebbe esserne capa-
ci. E l’ex pittore Làricev non ne era capace. Adesso, per esempio, gli tornava in
mente l’inizio dei suoi guai, quella infinite volte rimuginata condanna a dieci
anni di lavoro forzato (la ‘decina’) che gli aveva stroncata la vita. “Ecco, se c’è
una cosa a cui non devo pensare” si avvertì “è precisamente questa”. Intanto ci
pensava. Spionaggio a favore della Francia, articolo 98, lui! Avevano imputato
di spionaggio lui! Si poteva immaginare niente di più assurdo? Sebbene sapes-
se che tutti i detenuti politici nei lager erano innocenti, Làricev non riusciva
ancor oggi a ingoiare l’indignazione per la propria vicenda personale. Le sole
prove che avevano portato contro di lui erano consistite in alcune schede
compilate di sua mano per la richiesta di libri in una biblioteca: si trattava di
libri francesi. “E con questo? Sono pittore, no? Erano dei testi di pittura, o
comunque d’arte. Cos’avrei dovuto chiedere in biblioteca io? Forse manuali
per l’estrazione del carbone?” Così, senza una ragione al mondo, gli avevano
inflitto dieci anni. Dieci anni! Gliene rimanevano da scontare ancora sei, col
rischio, oltre tutto, di finire in una di quelle zone come la Colima, da cui nes-
suno o quasi fa ritorno. Certo adesso c’era la speranza che, se si fosse compor-
tato bene in guerra...
Come si sentiva offeso e umiliato però. Quando alla fine del turno di un’ora
la squadra lasciò gli appostamenti glaciali per entrare nella più vicina isba, il
tenente Làricev non era ancora riuscito a smettere di rimuginare il proprio
duro caso.
Mangiò con avidità, allo stesso modo dei suoi uomini, una parte dei viveri a
secco; bevve il té bollente che il suo attendente Ringhierina - da lui inviato
apposta in casa con dieci minuti d’anticipo - aveva preparato per tutti, poi
s’allungò a dormire con gli altri sul pavimento di terra battuta, nello spazio
lasciato libero dalla squadra ch’era uscita per il secondo turno.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Quando di lì a tre ore giunse il suo nuovo turno di guardia, il gigantesco


sergente vicecomandante del plotone durò fatica a svegliarlo: «È ora. È il vo-
stro turno, compagno tenente.»
«Il mio... Di già?»
Làricev si levò a sedere a malincuore e si stropicciò gli occhi. Seduti sul pa-
vimento accanto a lui Ringhierina e Nichiténco stavano facendo la stessa cosa;
il sergente reggeva una lanterna dalla luce piuttosto fioca.
«Ci sono novità?» gli chiese l’ufficiale.
«Sì. Abbiamo ucciso un italiano.»
«Un... Cosa dici?»
«Un italiano. L’abbiamo ucciso una mezz’ora fa. Sono entrato subito per
dirvelo, ma siccome voi non vi eravate - come credevo - svegliato agli spari...
Beh, ho pensato ch’era meglio lasciarvi dormire.»
«Ma come diavolo l’avete ucciso? Era solo? Cos’è successo?» «È stato il ca-
porale Calàtov a sparargli.»
«Ah.» “Lo spione’’ pensò Làricev, alzandosi in piedi.
«L’italiano è arrivato qui da solo: camminava sulla strada, e parlava ad alta
voce. Purtroppo io non ero appostato sul bordo della strada: mi ero messo
dall’altra parte, al pollaio. Anche di là però abbiamo visto e seguito ogni cosa,
perché come v’ho detto quello veniva avanti parlando ad alta voce. Faceva an-
che dei gesti: secondo me, come si dice? delirava, ecco. O forse era impazzito
del tutto, non so. Comunque c’era la possibilità di catturarlo senza fatica per-
ché - non mi crederete - l’abbiamo poi trovato disarmato. Proprio così.»
«Disarmato, Fiodor Cusmic?»
«Sì. Disarmato. Quell’animale di Calàtov senza una parola gli ha sparato da
pochi metri una raffica di parabellum: l’ha fatto fuori.»
«Animale» confermò a mezza voce il tenente. «Per noi era meglio prenderlo
vivo.»
«È quello che dicevo anch’io» incalzò il sergente. «Forse potevamo farlo
parlare, no? A Calàtov io gli ho dato della bestia, ma lui si è rivoltato: come se
io volessi proteggere un fascista, capite? L’ha messa così.»
«Che imbecille» disse Làricev. «E il morto adesso dov’è? L’avete lasciato
sulla strada?»
«No, l’abbiamo trascinato dietro la casa. Se mai ne arrivassero altri, mi
spiego?»
«Avete fatto bene.»
«Questo è il suo portafogli.»
Il sergente - che se l’era levato di tasca - porse all’ufficiale un liso portafogli
di finta pelle, poco voluminoso.
Làricev lo prese; i soldati del nuovo turno di guardia - ormai tutti in piedi e
pronti a uscire - si accostarono curiosi.
L’ufficiale controllò il proprio orologio: «Voi andate avanti» ordinò ai sol-
dati. «Dite a quelli di fuori che smontino e rientrino. Io vi raggiungo subito.»
Uscirono senza entusiasmo. Subito dopo entrarono nell’isba gli uomini che
avevano ricevuto il cambio; Calàtov teneva su una spalla a mo’ di preda un
corto cappotto a pelliccia insanguinato, evidentemente tolto al morto. Làricev
li osservò mentre, scambiandosi ancora qualche parola di commento
dell’accaduto, si sistemavano sul pavimento per dormire; con rozza soddisfa-
zione Calàtov si stese addosso a mo’ di coperta il cappotto insanguinato.
L’ufficiale aprì il portafogli: «Fiodor Cusmic, accosta la lanterna» disse al
sergente.
Nel portafogli c’era un po’ di denaro: lire italiane e rubli d’occupazione te-
deschi, un’immagine sacra, che Làricev esaminò attento e poi rimise a posto,
qualche foglietto scritto, gualcito, alcune fotografie, e un unico documento.
Làricev compitò: «Carta d’identità». Tradusse con facilità, data la rassomi-
glianza (che di persona constatava per la prima volta) tra l’italiano e il france-
se: «E una specie di passaporto interno» spiegò al sergente.
«Molto più ridotto del nostro, a quanto pare.»
«Sì. Qui non c’è registrato tutto come da noi. C’è solo qualcosa, vediamo.
Ecco, per esempio la professione.» Lesse: «Professione fa-le-gna-me.» Ripeté
la parola: «Non somiglia al francese, chissà cosa vuol dire.»
Lesse anche il nome del comune di appartenenza: «Misilmeri» senza capire
di cosa si trattasse. Più sotto c’era però una parola che riconobbe: Palermo.
«Palermo» ripeté, e spiegò: «Era della città o forse del governatorato di Pa-
lermo. Della Sicilia dunque. Sai dov’è?»
Il sergente fece segno di no: «È un ragazzo di ossa sottili, con la faccia e i
capelli scuri. Somiglia a un armeno» precisò.
«In Sicilia fa caldo quanto in Armenia» disse, sopra pensiero, il tenente:
«forse anche di più. Se ricordo bene non ci nevica mai, la temperatura non
scende mai sotto lo zero. Possiamo capirlo che quel disgraziato, stando
all’aperto con questo freddo, abbia perso il lume dell’intelletto.»
«Non doveva venir qui a farci la guerra» osservò il sergente. Accusato poco
prima di proteggere un nemico, si stava ora chiedendo se per caso il tenente
non lo stesse saggiando. Al pari degli altri ignorava che l’ufficiale proveniva da
un campo di lavoro forzato; del resto anche se l’avesse saputo... Non di rado la
NKVD sceglieva le sue spie proprio tra costoro.
Làricev indovinò i pensieri del sergente. «Sì, certo» convenne con malinco-
nia.
Rimise nel portafogli la carta d’identità, e ne tolse le poche fotografie. Il
morto - identificabile perché raffigurato in tutte - vi compariva sempre in abiti
civili. In una formato tessera, piuttosto lisa, appariva ben pettinato, in giacca e
camicia aperta sul collo: sembrava poco più d’un ragazzino, con un’aria in
complesso stentata. In un’altra - una piccola istantanea - faceva parte d’un
gruppetto di persone straordinariamente dignitose, tutte in abito scuro e con
vistose cravatte, certo i suoi parenti siciliani. In una terza era con gente che
poteva essere la stessa dell’abito scuro, ma in una diversa circostanza: sedeva-
no in maniche di camicia attorno a un tavolo su cui c’erano dei fiaschi e dei
bicchieri: il ragazzo tendeva con fare esageratamente scherzoso un bicchiere
all’obiettivo. Nell’ultima fotografia stava invece serio serio al fianco d’una ra-
gazza dai capelli neri come i suoi, insignificante come lui: sembravano tutt’e
due molto compresi; sul retro di questa fotografia c’erano delle parole scritte
con grafia irregolare e una quantità di punti esclamativi. Erano ardenti dichia-
razioni d’amore di lui, che lei non avrebbe mai letto: Rocchina, amore mio!!!
Bella!!! Vita mia!!! Làricev, dopo essersi sforzato invano di decifrarle, rimise le
fotografie nel portafogli, e infilò il portafogli in una tasca del pastrano. «Fio-
dor Cusmic, andiamo a dare un’occhiata al morto» disse al sergente. Il quale
gli fece strada, schermando la lanterna con una falda del lungo pastrano.
Il ragazzo morto giaceva sulla neve calpestata dietro l’isba. Senza cappotto e
privato anche del passamontagna, appariva più minuto di quanto Làricev si
attendesse; aveva tuttavia ancora un aspetto umano, non era simile a un muc-
chio oblungo di stracci come i morti da più ore. Il sergente, dopo essersi guar-
dato intorno per assicurarsi circa il defilamento dal nemico, scostò un lembo
del lungo pastrano sfilacciato e illuminò meglio con la lanterna il suo viso. Che
appariva deformato in una tragica smorfia, al punto da lasciare Làricev dub-
bioso se si trattasse dello stesso individuo delle fotografie.
«Vieni, andiamo» disse infine l’ufficiale. Congedato il sergente fece una
puntata al posto di guardia del pollaio, dove raccomandò ai soldati, se per caso
si fosse presentato qualche altro sbandato, di non sparare, ma di prenderlo
vivo; quindi raggiunse il posto presso la strada. Anche qui ripete la raccoman-
dazione di non sparare senza necessità. Certo era poco probabile che si facesse
avanti qualche altro nemico sbandato, anzi - come si permise d’osservare Ni-
chiténco - era quasi impossibile che un caso tanto strano si ripetesse.
Quasi, non però impossibile del tutto; tant’è vero che dopo appena mezz’ora
un altro nemico si presentò: e stavolta si trattava, niente meno, del Michele
Tintori di Nova.

CAPITOLO SEDICESIMO

Al pagliaio il sottotenente Tintori s’era svegliato dopo appena un paio d’ore


di sonno. Batteva i denti come non gli era mai successo in vita sua, in una ma-
niera ch’egli non avrebbe creduto possibile, addirittura caricaturale; subito
s’era reso conto d’essere stato privato della paglia che gli faceva da coperta,
qualcuno gliel’aveva rubata. Qualcuno. Ma chi? Levatosi su un braccio s’era
guardato intorno con ira. Al suo fianco Paccoi seguitava a dormire, lui pure
senza più paglia addosso. Gli altri - confusa distesa d’ombre - giacevano allo
stesso modo avvolti nel sonno. All’ufficiale non era rimasto che alzarsi e ar-
rampicarsi di nuovo, con immensa pena, sul pagliaio gelido a prendere
dell’altra paglia che - tornato a coricarsi - aveva nuovamente steso su Paccoi e
su di sé a mo’ di coperta. Per svegliarsi di nuovo, di lì a non molto, ed accor-
gersi ch’era stato privato anche di questa. Un’ira incontenibile l’aveva allora
invaso: si era alzato in piedi furibondo; stavolta Paccoi l’aveva sentito: «Che
succede, sor tenente?» aveva farfugliato.
«Niente. Ci hanno fregata la paglia. Adesso cerco chi è stato.»
«Che volete cercà, sor tene...» aveva mormorato Paccoi, ma Michele si era
ormai scostato per... cominciare la rivista dei giacenti.
I quali erano - come s’è detto - centinaia, mentre altri militari arrivavano
ancora alla spicciolata da Arbusov sperando di trovare qui, al riparo del gran-
de pagliaio, qualche scampo dall’aria gelida che li aveva martirizzati negli
spiazzi tra le isbe del paese. Dei giacenti molti erano coperti di paglia, e molti
no; di questi ultimi alcuni si mantenevano talmente immobili, e le loro coperte
o i cappotti erano a tal punto incrostati di brina, da far supporre che fossero
morti. “Morti di freddo” aveva pensato con esagitazione l’ufficiale: “Di fred-
do!” Il che sarebbe potuto capitare anche a lui, di trasformarsi cioè durante il
sonno, da giovane uomo vivente, in un blocco giallastro di carne congelata. A
causa di quei porci che, per evitare la fatica di salire sul pagliaio, gli avevano...
Ispezionò furibondo prima una poi un’altra fila di giacenti, soffermandosi a
esaminare quelli coperti di paglia in apparenza più fresca: capiva perfettamen-
te quanto la sua impresa fosse assurda, paradossale, ma dominato com’era
dall’ira la continuava, estenuandosi nella vana ricerca di qualche indizio dei
farabutti che, oltre ad averlo privato della paglia, lo esponevano adesso anche
a questa fatica e sofferenza. A momenti gli sembrava di vaneggiare, era però
questione di attimi, subito si riprendeva. “Se uno si rende conto che vaneggia,
vuol dire che non vaneggia affatto” pensò erroneamente.
L’uomo che giaceva all’estremità della seconda fila, nascosto per intero sot-
to la propria coperta, al suo arrivo ne sollevò un lembo e scoprì la testa: «Ti
sto aspettando» disse con intonazione strana: «Ho seguito il tuo passo. Tu
cerchi me, vero?»
Michele lo considerò in silenzio: non ne poteva vedere le mostrine né i gra-
di; notò invece che aveva la faccia oltre ogni dire terrea, disfatta.
«No, tu non hai paglia sulla coperta. Non cerco te» gli rispose. L’altro igno-
rò tale risposta. «Io sto per morire» disse a bassa voce «lo so. Ho gli intestini
fuori.» Fece una pausa, poi allungò un braccio tendendogli qualcosa: «Ecco la
borraccia.»
Michele guardò senza capire la borraccia, infine la prese. «Ma... Cos’è che
stai dicendo?» domandò.
«La cosa peggiore è la sete» disse con sfinimento l’altro. «Ti auguro di non
provarla mai una sete così, mai. Ho finita tutta la neve. Ma la neve serve a po-
co... Ci vuole acqua, acqua vera.»
Il sottotenente notò che intorno al ferito, fin dove le sue mani potevano ar-
rivare, non c’era più neve.
«Da quando s’è fatto buio nessuno va più a prenderci l’acqua» disse ancora
il ferito. «È una cosa tremenda, da ridurti alla disperazione... Allora ho invo-
cato Cristo in croce: non lasciarmi morire disperato, gli ho detto, io sono in
pace con te, dammi la perseveranza finale, Cristo Signore!»
Nel ripetere la preghiera, il ferito aveva alzata la voce; nessuno dei circo-
stanti ad ogni modo gli badava, forse nessuno lo sentiva. “Questo qui vaneggia
di sicuro” pensò Michele, “non può essere cosciente di quello che dice. Però si
comporta in modo ben strano.”
«Dalla croce Cristo m’ha risposto che m’avrebbe mandato uno» disse il feri-
to. «E infatti eccoti finalmente.»
«Senti» risolse, dopo essere rimasto alquanto in silenzio, Michele: «per
amore di Cristo andrò a prenderti l’acqua. Ma tu sei davvero ferito al ventre?»
«Sì» gli rispose con voce di colpo spaventata l’altro: «Gli intestini sono...
Oh...» Stralunò il viso. «Che schifo» mormorò, o qualcosa di simile, con voce
tanto bassa che il sottotenente non intese bene.
«Vado a prenderti l’acqua» gli ripete: «ma mi occorrerà un certo tempo: ti
rendi conto?»
«Sì, vai, va, non farmi più aspettare, ti prego.»
«Mi ci vorrà il tempo necessario» disse Michele. «Tu intanto mi aspetti con
fiducia. Siamo d’accordo?»
«Sì, va.»
Così Michele s’avviò, reggendo con la sinistra la borraccia per il cinturino di
canapa; sulla spalla destra portava il moschetto col quale aveva combattuto il
giorno prima, in occasione dell’attacco nemico a Posniacof. Era per quel com-
battimento - rifletté - che adesso si sentiva così stanco. Dopo avere contribuito
a bloccare per qualche ora il nemico, era venuto via dal villaggio con gli ultimi,
cioè coi pochi della sua divisione ancora disposti a darsi da fare nonostante lo
sfacelo generale. Guai se non ci fossero stati loro a proteggere lo sganciamento
della colonna... Avevano poi dovuto percorrere chilometri e chilometri a passo
accelerato, inseguiti sul principio dai colpi nemici, sorreggendo alcuni feriti
ancora in grado d’aiutarsi. Anche dopo raggiunta la coda della colonna - ram-
mentava ora - che impresa tirarsi dietro quei feriti! Ecco la ragione per cui
adesso camminare gli costava tanta fatica, per cui si sentiva così stanco, esau-
sto addirittura. A dire il vero anziché almanaccare sulla propria stanchezza, in
questo momento egli avrebbe preferito riflettere sullo strano caso che stava
vivendo ma, appunto, era troppo stanco per farlo; chissà però se Dio gli aveva
fatta intraprendere quell’assurda (al riguardo adesso non aveva dubbi) ricerca
della paglia, al fine di portarlo a soccorrere il moribondo? Confusamente Mi-
chele propendeva a crederlo.
Mentre, avanzando sulla neve calpestata, scendeva in Arbusov, notò che su
tre lati dell’abitato: a nord, a ovest, e specialmente a sud, i mitragliatori tede-
schi scambiavano ogni tanto qualche raffica con quelli russi: vedeva le opposte
traccianti - veloci e luminose - incrociarsi e perdersi nel buio. Alla sua sinistra
invece, cioè verso est, nessuno sparava.
A un tratto cominciò a dubitare: era proprio l’est quello? E lui stava davvero
camminando verso Arbusov? Non riconosceva quasi più i luoghi: il suo pen-
siero fluttuava, come se stesse nuotando tra le volute del buio orribilmente
gelido entro cui il corpo procedeva. Finì col perdere del tutto l’orientamento,
ma non per questo cessò di camminare.
Dopo un certo tempo si riprese, tornò pienamente in sé, ricordò ciò che sta-
va facendo: allora si fermò e si guardò intorno con attenzione, riconobbe qual-
che particolare dell’abitato. “Guarda, ho finito con lo sbagliare strada" si rese
conto: “Che scherzi può fare la stanchezza!” Aveva attraversato quasi per inte-
ro il villaggio. “Quanta strada per niente...” Tornò indietro, fra distese di dor-
mienti sdraiati sulla neve specie intorno alle isbe. Chissà l’Ambrogio Riva a
quest’ora, là in quel buco coi civili russi... “Forse anche lui soffrirà la sete, feri-
to com’è? Basta, di lui ci occuperemo domani.”
Ecco finalmente il pozzo cui era diretto; ne intravide il rozzo bilanciere for-
mato da un tronco d’albero: nel buio qualcuno lo stava silenziosamente azio-
nando e cavava dell’acqua. “Meno male, così non avrò bisogno di rompere il
ghiaccio.” Lasciò che l’altro - sembrava un cappellano - travasasse l’acqua ca-
vata dentro un secchio di tela di quelli in dotazione agli autocarri, quindi azio-
nò a sua volta il bilanciere, bevve allo sgangherato recipiente di lamiera che vi
era appeso quanta più acqua poté (davvero gelida, ma corroborante), infine ne
riempì la borraccia e riprese la via del pagliaio.
Che stanchezza, mio Dio, che sfinimento! E che pena dover risalire passo
dopo passo il costone innevato. Quando giunse al pagliaio e cercò d’orientarsi
per ritrovare il ferito, la sua mente fu sul punto di confondersi di nuovo. Allora
pregò, si attaccò mentalmente alla mano di Dio: “Signore aiutami, ti supplico.
Fammi portare a compimento questo incarico”. E il Signore l’aiutò: il giovane
si ritrovò di nuovo con le idee chiare, perfino - ancora una volta - un po’ sor-
preso del proprio principio di deliquio. Orientatosi, raggiunse il ferito, che
stava nascosto sotto la sua coperta. S’inchinò a scrutare il lungo involucro,
timoroso di trovarsi già davanti a un cadavere. «Ehi» chiamò a mezza voce:
«ehi tu!» L’altro alzò allora un lembo della coperta: «Ah, sei tornato, final-
mente» disse con voce più fioca di prima, quasi da morente. Tese brancolando
un braccio.
«Tieni» gli disse Michele, mettendogli bene nella mano la borraccia.
«L’acqua» mormorò l’altro «l’acqua!» Accostò con difficoltà il recipiente al-
la bocca e succhiò a lungo dal beccuccio d’alluminio, ogni tanto interrompen-
dosi per respirare. «L’acqua» ripeté.
Il sottotenente l’osservava nel buio. «Beh» disse infine «adesso vado a
dormire anch’io perché non ce la faccio proprio più. Domattina, appena si fa
chiaro, torno qui a darti un’occhiata. Hai capito? Domani mattina.»
«Non ci sarà un domani mattina per me» disse il ferito: «io sto per morire.»
«Ma va, cosa dici?» gli s’oppose Michele, che sentì la pelle accapponarsi
sulle braccia. Senza badare alle sue parole l’altro continuò: «Quanto a te, Iddio
stanotte ti salverà.»
«Mi salverà?» fece sorpreso Michele: «E in che modo?»
«Ricordati di questo che t’ho detto» ripeté debolmente il moribondo: «Dio
stanotte ti salverà.»
“Questa poi!” pensò il sottotenente, tentennando perplesso la testa. Come
tutti gli altri egli era ancora all’oscuro, a quel tempo, del fatto che su questo
tragico fronte i moribondi acquistavano a volte il dono della profezia
(l’inesplicabile fenomeno, più volte constatato fra gli italiani, si verificò su sca-
la senza confronto maggiore tra i russi, specialmente tra i soldati morenti in
Leningrado assediata).
Il ferito strinse di nuovo il gelido beccuccio della borraccia tra le labbra,
bevve ancora a lungo, poi, rabbrividendo fortemente, si tirò la coperta sulla
testa e vi si seppellì.
“Ehi, aspetta” avrebbe voluto dirgli adesso Michele: “Dimmi almeno come ti
chiami e il tuo reparto, così domani mattina...” Ma non disse niente; rimase lì
ancora per qualche istante a guardare incerto il tragico involucro che gli stava
davanti. Poi pensò che basta, basta: adesso doveva provare il modo di dormi-
re: “Se no finisce che cado in deliquio peggio di poco fa”. Si passò il moschetto
da una spalla all’altra perché gli desse meno fastidio, e raggiunse il pagliaio.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Dov’era quella specie di varco, di scanalatura nella paglia, lungo la quale era
salito già due volte? Dove accidenti era? Non gli riusciva più di trovarla. Per-
corse inutilmente un paio di volte avanti e indietro il lato nord del pagliaio,
esposto alla brezza mortalmente gelida; il lato sud era impedito per l’intera
lunghezza dai corpi giacenti. Si provò a strappare la paglia dal fianco del cu-
mulo, era però talmente compressa e gelata che nei guantoni di tela gliene ri-
manevano solo miseri ciuffi. Si sentiva proprio sfinito: “Basta, io devo ripren-
dere fiato” risolse “devo riposare almeno... almeno una decina di minuti,
poi...” Poi cosa? Di nuovo non riusciva a connettere bene: sedette sulla neve,
con la schiena appoggiata al pagliaio. Quell’aria gelida, quasi a volute, come
uno strano vortice che non cessava di risucchiarlo...
Forse quell’aria proveniva - forse - da una porta spalancata verso l’esterno...
Chi era stato così idiota da lasciare la porta aperta, causando questa terribile
corrente? In quest’atrio d’albergo di montagna! L’aria veniva certo da fuori,
dalla montagna, ed entrava a vortici per la porta spalancata dell’albergo.
“Chiudete, disgraziati. Chiudete !” Eh, aveva un bel dire chiudete, lì nell’atrio
non c’era nessuno, nessuno lo sentiva. “Potrei provare a dormire qui sul pavi-
mento, contro la parete... Però, com’è gelido questo pavimento, sembra di
ghiaccio. La porta, disgraziati, la por...” Michele finì con l’assopirsi, seduto
contro il pagliaio sul ghiaccio e la neve sporca, dal lato esposto al vento, dove
non c’era nessuno. Fece un sonno di forse mezz’ora, tutto incubi che gli este-
nuarono ulteriore mente il cervello.

***

Quando, una volta desto, si levò in piedi, non riconobbe il luogo, né ricordò
in che modo fosse capitato lì. Del resto non gli importava; che gl’importava
era soltanto di ritrovare il suo compagno di collegio Ambrogio Riva. Era sicuro
d’averlo visto giù in paese la sera prima: certo in questo albergo di montagna
loro ci erano venuti col collegio per sciare... Macché albergo. Dov’era
l’albergo? E macché collegio. Cosa stava dicendo? Non c’erano alberghi né
compagni di collegio qui. E quanto a sciare... Beh, forse sì e forse no: a questo
riguardo le cose non erano chiare. «Niente affatto chiare» si disse ad alta voce.
«Niente affatto» gridò. L’Ambrogio Riva però, quello c’entrava, e come, in
questa storia ingarbugliata. Michele non capiva bene in che modo, ma
c’entrava: al riguardo non aveva dubbi.
«Ambrogio» si provò a chiamarlo ad alta voce. Ripeté il nome. Poi si mise a
urlare: «Ambroogioo Riiva. Ambrooogiooo Riiiva.»
Non gli rispose nessuno, nessuno si faceva vivo. Che freddo intanto, che
freddo spaventoso; da morirne. Michele si mosse, cominciò a camminare, ol-
tre tutto giù nella valle s’intravedevano delle case nella neve. Il villaggio che
stava sotto l’albergo... doveva trattarsi di Madesimo.
Forse era Madesimo, e forse no... Comunque l’Ambrogio quasi certamente
era là, in una di quelle, case. (“Al caldo s’è rintanato, al caldo quel ‘dritto’...”)
Disceso passo passo il pendio, l’ufficiale arrivò alla strada ghiacciata che
percorreva il fondo valle; anche qui non c’era un’anima: dopo essersi guardato
attorno, imboccò la strada in direzione di est, verso i russi. Era armato della
sola pistola, il suo moschetto essendo rimasto contro il pagliaio. Alla prima
casetta cui giunse si provò a chiamare di nuovo «Ambroogioo... Ambrooo-
giooo...» Qui non c’era, a quanto pareva, né Ambrogio né alcun altro, nessuno.
«Che ti pigli un accidente» mormorò all’indirizzo dell’ex compagno di scuola,
e andò oltre.
Certo era strano, e non quadrava, il fatto che quella casa di Madesimo aves-
se il tetto di paglia... Ma lui non aveva tempo né voglia per riflettere. Le case,
notò, in questa zona erano molto sparse, qualcuna piuttosto lontana dalla
strada: là davanti però ce n’erano due vicine alla strada e vicine tra loro; e là
Michele ritenne per certo - o quasi - che avrebbe trovato il suo compagno Am-
brogio. Andò dunque avanti, sogguardando le due case con occhi lucidi; giun-
to a portata di voce ricominciò a chiamare: «Ambroogioo. Ambrooogiooo. Ri-
spoondiii.»

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Con le armi puntate e il cuore che scalciava nel petto, il tenente Làricev e gli
altri russi di vedetta seguivano ogni sua mossa. «Vivo» ordinò a denti stretti
l’ufficiale: «Questo dobbiamo prenderlo vivo.» Guardò di sbieco il caporale
Nichiténco, contratto al suo fianco dietro il mucchio di sassi: «Vitia, corri da
quei quattro» indicò col mento il pollaio «e ripetigli che non devono sparare.
Digli che lo prendiamo noi. Loro stiano pronti a intervenire solo se dietro que-
sto ne arrivano altri. Va e torna qui subito.»
Il caporale sgattaiolò via; nel giro di non molti secondi era nuovamente ap-
postato dietro il mucchio di sassi innevati, ansante; dell’italiano in arrivo
adesso si sentiva, oltre la voce, anche il trepestio delle scarpe sulla neve.
Quando fu all’altezza della postazione Nichiténco, Ringhierina e Sucorùcov gli
balzarono addosso tutti insieme, mentre il tenente Làricev, scattato fuori con
loro dal riparo, gli puntava contro la pistola: «Fa silenzio. Silenzio» gl’intimò
in russo, con voce forzata. Michele non capiva: istintivamente fece per tirarsi
indietro e sottrarsi, ma fu saldamente trattenuto: «Ehi, che scherzo è questo?
Disgraziati» protestò sempre senza capire, la mente tuttora confusa.
Gli faceva un gran male quello che gli aveva afferrato il braccio sinistro, Su-
corùcov, il quale senza ragione stringeva con tutta la sua forza e tendeva a tor-
cergli il braccio: «Disgraziato» urlò Michele: «Disgra...» Fece per colpirlo con
una testata, ma il caporale Nichiténco fu pronto ad afferrargli il mento e la
bocca con una mano. Il sottotenente così preso mugolava e si divincolava con
ogni sua forza. «Silenzio» gli ordinò di nuovo Làricev in russo «fa silenzio.»
Mentre gli altri due lo tenevano, il caporale Nichiténco gli sfilò sveltamente la
sciarpa dal collo, e con quella lo imbavagliò.
«Dai, portiamolo in casa» ordinò Làricev, abbassando la propria arma. Il
prigioniero, che seguitava a divincolarsi con furore, fu portato quasi di peso
dentro l’isba. Dove venne accesa una lanterna che illuminò gli uomini sdraiati
dappertutto sul pavimento; Làricev ne urtò col piede alcuni e li fece spostare
così da avere un po’ di spazio libero intorno a un piccolo tavolo che stava con-
tro una parete. Il prigioniero fu privato del cinturone con la pistola e portato
davanti al tavolo: qui gli tolsero il bavaglio e gli lasciarono libere anche le
braccia. Ai suoi fianchi rimanevano, pronti ad afferrarlo di nuovo, Ringhierina
e Sucorùcov.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Si guardò intorno con terrore: il trauma violento l’aveva finalmente riporta-


to alla realtà: era caduto nelle mani dei russi! Gli si affollarono nella mente,
tutt’in una volta, i discorsi dei suoi colleghi e soldati intorno alla crudeltà del
nemico, quelle strane parole del moribondo: Dio stanotte ti salverà (“Invece
sono caduto in balia di queste belve...”), e - peggio d’ogni altra cosa - le notizie
da lui raccolte sugli eccidi di civili russi compiuti dai comunisti. “È la fine. Per
me è finita...” Gli sembrava d’impazzire: alla prospettiva della morte tutto il
suo essere convulsamente si ribellava.
I russi che l’avevano catturato, con i gonfi pastrani indosso e i berretti di pe-
lo in testa, per il momento non parlavano. Di quelli rimasti a giacere la più
parte continuava a dormire pesantemente e a russare, solo i pochi che
l’ufficiale aveva svegliato, seduti ora sul pavimento, lo sogguardavano; uno di
questi scaricò aria dal ventre.
Certo adesso l’avrebbero interrogato, e per costringerlo a parlare duramen-
te percosso, magari torturato. “Meglio morire, farla finita.” Ma in che modo
morire? E d’altra parte alla prospettiva della morte nonché la sua ragione,
ogni cellula del suo corpo si ribellava.
Tale interno tumulto non traspariva del tutto fuori: il giovane - illuminato
ora dalla lanterna messa sul tavolo - ansava solo lievemente, ma questo poteva
anche essere attribuito agli sforzi appena compiuti, e al bavaglio da cui era
stato appena liberato.
«È un ufficiale» fece notare soddisfatto il caporale Nichiténco, mostrando
agli altri il cinturone con la pistola, che teneva in mano.
«C’è andata bene» disse il tenente Làricev.
«Sì, bene» convenne Ringhierina, unico ad apparire un po’ emozionato tra i
russi.
Si rifece silenzio. Sucorùcov non diceva niente: per lui amici o nemici, pove-
ri o signori (questo era certamente un signore), erano tutti da mettere in un
mazzo: a fin di bene o di male non facevano altro, tutti quanti, che rompere i...
a lui; si strinse il naso con le dita e lo liberò dal muco che - stante il suo raf-
freddore - in parte fu proiettato per terra, in parte gli rimase sul mento.
«Adesso tu torni fuori» ordinò Làricev al caporale. «Chiami uno di quelli
che stanno al pollaio e con lui ricostituisci il posto di vedetta sulla strada.» E
agli altri due: «Voi invece per il momento rimanete qui di guardia al prigionie-
ro.»
Il caporale Nichiténco avvolse attorno alla pistola tolta al nemico il cinturo-
ne e posò il rotolo sul bordo interno d’una finestra; poi, dopo aver lanciata
un’occhiata ai suoi due compagni che restavano in casa al caldo, raggiunse con
disappunto la porta, e uscì.
Làricev trasse da sotto il tavolo uno sgabello e sedette; si tolse dal capo e
depose sul tavolo il berretto a pelo, scoprendo la fronte alta, pallida, «Venia-
mo a noi» disse in russo al prigioniero, che immediatamente s’irrigidì.
«Cominciamo col grado e col reparto d’appartenenza.»
Il sottotenente Tintori non capiva il russo e rimaneva tesissimo, sempre con
la bocca socchiusa.
«Questo» disse Làricev ai suoi «non capisce una sola parola di russo. Pro-
viamo col francese.» Ripeté in francese la domanda al prigioniero.
Il quale stavolta capì benissimo e guardò sbalordito l’interrogante che, in
quel luogo e in quel momento, usava una lingua legata nel suo ricordo a
tutt’altri stati d’animo, a tutt’altri momenti.
«Sono sottotenente. Dell’Ottantunesimo reggimento fanteria» dichiarò a
mezza voce.
«Ottantunesimo?» ripeté il russo, come a fissarselo bene nella mente (non
aveva davanti fogli su cui registrare).
Michele annuì.
«In quanti italiani siete qui davanti a noi?»
«Non lo so» rispose il prigioniero. Già cominciava a dominarsi un poco, e
gli si prospettava tormentoso il dubbio d’avere commesso un errore ad am-
mettere di conoscere il francese.
Il russo modificò la propria domanda: «Quanti reggimenti italiani si trova-
no qui davanti a noi?»
Il sottotenente Tintori non rispose.
Làricev ripeté la domanda, sia in russo che in francese, sempre senza otte-
nere risposta. Michele si sforzava intanto di riflettere: “Forse non ho sbagliata:
perché se questi si convincono di non poter cavare niente da me, mi ammaz-
zano subito...”
«Dovete dirmi quanti italiani e quanti tedeschi ci sono qui davanti a noi, e
cos’è che hanno in programma di fare domani.»
Ancora il prigioniero non rispose.
Làricev guardò Sucorùcov: «Sembra restio a parlare» disse, come rifletten-
do ad alta voce.
«Dobbiamo torcergli un braccio?» chiese quello. «Se in due glielo torciamo
come si deve, magari fino a romperglielo, vedrete che parla.»
«No» mormorò l’ufficiale «potrebbe non parlare più del tutto.»
Indifferente e raffreddato Sucorùcov si prese il naso tra le dita e lo liberò di
nuovo.
Làricev si rivolse al prigioniero cambiando la domanda: «A che battaglione
appartenete?»
Questa sembrò a Michele una domanda consentita dalle convenzioni inter-
nazionali (era al corrente che - purtroppo - la Russia comunista a tali conven-
zioni non aderiva): «Volete sapere qual è il mio battaglione?» domandò.
«Sì.»
«Primo battaglione dell’Ottantunesimo fanteria.»
La parola francese bataillon, detta e ripetuta, gli richiamò impensatamente
da chissà quale ripostiglio della memoria un verso di Victor Hugo studiato a
scuola, un verso che si riferiva alla battaglia di Waterloo eppure si attagliava
bene anche alla situazione presente. Così bene le si attagliava, che Michele
fece senza riflettere una cosa della cui assurdità si rese conto già mentre la
faceva (fece una di quelle cose che si fanno in certi momenti risolutivi della
vita soltanto perché Qualcuno ce le fa fare): recitò cioè a bassa voce il verso in
questione: «La pâle mort» mormorò «mêlait les sombres bataillons.»
Làricev rimase, com’è naturale, molto sorpreso, e per un certo tempo tac-
que; poi, con autentico sbalordimento del prigioniero, completò la citazione:
«Waterloo, morne plaine... dans ton cirque de bois, de coteaux, de vallons, la
pâle mort mêlait les sombres...» non arrivò alla rima, temendo l’impressione
che avrebbe potuto produrre sui soldati. «Victor Hugo, è vero? Amate voi que-
sto autore?»
Michele non rispose; l’altro tacque a sua volta.
I due giovani si scrutarono a vicenda. Non erano, in apparenza, che due
soldati mortalmente contrapposti l’uno all’altro: prima però erano due artisti,
ciascuno con la sua diversa, enorme tradizione alle spalle. Il fatto d’essere un
artista non diversificava l’italiano dal proprio popolo in un certo senso tutto
d’artisti (anche troppo, come sappiamo); diversificava invece, e profondamen-
te, il russo, faceva di lui una sorta di segnato. Mentre l’italiano non avvertiva
che saltuariamente il bisogno di comunicare con altri artisti, l’isolamento del
russo lo faceva invece stare sempre all’erta per cogliere la presenza di qualcu-
no di essi con cui comunicare. “Costui, che mi vien fuori con Hugo in un mo-
mento come questo, per forza deve essere sensibile alla poesia...”; già comin-
ciava a intravedere nell’altro una condizione - quella dell’artista appunto - che
immaginava di solitudine e straziante quanto la propria.
«Qual è la vostra professione?» chiese, sforzandosi di tornare alla prece-
dente intonazione impersonale.
Michele non rispose: a cosa mai poteva mirare questa domanda? Forse a
classificarlo per o contro il proletariato?
Làricev non si smontò davanti al suo silenzio. «Siete voi... Sareste voi per
caso un artista?» gli chiese lentamente, quasi compitando.
Michele rimase addirittura di sasso: “E che? ce l’ho dunque scritto in faccia?
Anche questo se n’è accorto, come Gemellone là all’università... Tanto vale
ammetterlo” risolse, e ancora una volta fece una cosa che, se fosse stato libero
di non fare, certamente non avrebbe fatto. «Per ora sono solo studente» rispo-
se «ma è come voi dite: sono, cioè intendo essere, scrittore.»
Nel viso intelligente del russo passò una sorta di riverbero. Il prigioniero lo
notò e ne ebbe paura: “Bestia! Che bestia sono stato! Se questi non usano te-
nere in vita i prigionieri, tanto meno ne terranno in vita uno che un giorno
potrebbe riferire le loro barbarie... Ho fatta la peggiore fra tutte le cose possi-
bili.”
Entrò di nuovo in stato d’agitazione. Cos’aveva fatto! Ormai la sua sorte era
segnata, questa era la fine, la fine. Non riusciva più a concentrarsi; non insi-
stette oltre nel tentativo d’analizzare la personalità, almeno il viso del suo in-
terlocutore: del resto se gli fosse stato possibile dominarsi quanto occorreva
per farlo, quel viso pallido, e smagrito, e come marcato da una sorta di singo-
lare bontà (proprio così: di bontà), l’avrebbe indirizzato a pensare non a un
collega in arte, ma piuttosto a un santo. E fu per un attimo vicino a pensarlo in
effetti, sotto l’influenza degli occhi dolorosi dell’altro, ma: “Un santo? Ecco, io
sto di nuovo delirando” si disse subito: “sto entrando di nuovo in delirio!”
Conscio d’essere per il momento incapace d’adottare una qualsiasi strategia
di salvezza, serrò anche materialmente la bocca e chinò la testa: risolse di non
dir più una parola.
L’ufficiale russo si rese conto del mutamento intervenuto in lui, anche se
non sapeva a cosa attribuirlo. Avrebbe voluto spiegargli: vi ho fatta la doman-
da perché anch’io sono un artista. Ma era un discorso pericoloso, tanto più
con un prigioniero sconosciuto, il quale avrebbe potuto riferirlo.
Lasciò trascorrere un certo tempo, quindi disse: «Nel vostro interesse, c’est-
à-dire nell’interesse della vostra vita, ascoltate bene le domande che adesso io
vado a farvi.» Assunse, a beneficio dei suoi, un tono più inquisitorio: «Con me
devi deciderti a vuotare il sacco, hai capito?» esclamò in russo. Poi formulò in
francese, qualcuna ripetendola anche in russo, le domande: «Quanti siete
all’incirca voi italiani accerchiati in Arbusov? E quanti i tedeschi? Che armi
pesanti avete? In particolare: quanti carri armati? E qual è il vostro program-
ma per domani? Cosa intendete fare domani?» Dopo ogni domanda rimaneva
un po’ in silenzio, come in attesa della risposta.
Il prigioniero si conservava nel suo mutismo, fissando ingobbito il pavimen-
to di terra davanti a sé.
«Ricordatevi bene: io vi ho rivolto queste domande» concluse l’ufficiale
russo: «M’avete capito?» Poi si rivolse alle due guardie: «Non vuol più saper-
ne di parlare.»
«Beh, però qualcosa ha detto» osservò, più che altro per compiacerlo, Rin-
ghierina, e sorrise mettendo in mostra lo strano aggeggio metallico che aveva
in bocca.
«Sì, qualcosa sì, e d’interessante» convenne Làricev.
“Questo disgraziato si rende conto d’avere poche possibilità di scampo”
pensava intanto; gli tornavano in mente i cadaveri al margine della pista qual-
che chilometro prima di Arbusov, tutte quelle nuche fracassate col cervello
fuori. “Non hai torto, povero artista malcapitato... Io comunque intendo fare il
possibile per salvarti.” Che cosa, ancora tuttavia non sapeva.
Disse, come ponderando tra sé, alle due guardie: «Se lo inviamo al coman-
do di compagnia mezzo vaneggiante com’è, una volta all’aperto questo è capa-
ce di far chiasso. Dobbiamo prima cercare di farlo riavere un po’.»
Guardò l’orologio, disse a Ringhierina: «Forza, quelli del nostro turno stan-
no per smontare, prepara il tè per tutti.»
«E lui? Lo lascio?» chiese il soldato, indicando il prigioniero. Làricev annuì,
toccando con una mano la fondina della propria pistola, a significare: nella
sorveglianza ti sostituisco io.
A quel gesto Michele ebbe un fremito.
Ringhierina si scostò e andò verso la stufa.
«Ascoltatemi scrittore» disse il tenente russo, dopo avere ancora una volta
considerato il prigioniero: «io intendo fare il possibile per salvarvi la vita. Ne-
gli interrogatori però voi non dovrete più dire a nessuno, a nessuno, mai, di
essere scrittore. Avete compreso?»
Senza guardarlo direttamente in faccia, Michele fece segno di sì.
«Ecco, bene. Intanto io cercherò d’escogitare qualcosa. Perché per voi
l’essenziale è d’arrivare vivo nelle retrovie. Comprendete questo? Dirò che mi
è sembrato voi abbiate delle informazioni su... su... beh, vedremo. Lo faccio
per aiutarvi, avete compreso? Avete voi compreso?»
Più che mai incerto Michele annuì una seconda volta, sempre senza guar-
darlo.
«Ecco (voilà)» disse Làricev.

CAPITOLO VENTESIMO

Entrò nell’isba uno degli uomini di guardia a destare quelli del turno suc-
cessivo. Costoro appena alzati scoprirono il prigioniero e gli si assieparono
intorno, esaminandone con bramosia il cappotto a pelliccia, le scarpe. «Scias-
sì? (l’orologio?)» chiese uno; siccome il Tintori non rispondeva, il russo lo af-
ferrò con una mano per i capelli e un orecchione cominciò a scuoterlo dura-
mente: «Dico a te, svegliati, carogna.» Làricev però intervenne e con poche
parole lo fece desistere: «È uno che ha informazioni forse importanti» disse
«non toccatelo.» Gli occhi dei soldati si volsero a lui con meraviglia. «Siamo
stati fortunati» disse l’ufficiale, e questo lo pensava davvero.
Ebbe luogo il cambio della guardia. Gli uomini smontati entrarono in grup-
po nell’isba, commentando la cattura. Làricev ordinò che nessuno
s’avvicinasse al prigioniero. Cui fece dare da Ringhierina una mezza gavetta di
tè e una trancia di pane nerastro. Michele, che digiunava da giorni, si mise a
mangiare lentamente (chissà quando avrebbe avuto occasione di mangiare
ancora...) sforzandosi di non dare a vedere la propria fame. L’ufficiale russo gli
ordinò quindi, con voce severa, di sdraiarsi per terra contro il muro.
«Ogni tanto riprende a vaneggiare» spiegò ai suoi: «Non possiamo mandar-
lo alla compagnia in questo stato: potrebbe cercare di scappare sulla neve e
costringerci a... Mentre a noi interessa vivo.»
Si rivolse anche al prigioniero: «Devi finire di vuotare il sacco, hai capito?
Devi dirmi tutto quello che sai su quelle truppe tedesche che stanno affluendo
a Millerovo, tutto.» Gli ripete queste parole in francese: «Voi m’avete detto
che forze fresche tedesche stanno affluendo a Millerovo. Capito? I tedeschi a
Millerovo. Non dimenticatelo.»
Michele non rispose. Dopo che tutti i russi, ufficiale compreso, si furono
sdraiati (salvo uno della squadra di turno che, incaricato di fargli la guardia,
s’era seduto sullo sgabello) cercò di spiegarsi ciò che gli stava succedendo.
“Cosa gli ha preso a questo qui? Fa sul serio o è tutta una finta? Perché però
dovrebbe fingere? Già, e perché dovrebbe fare sul serio? È una cosa strana,
non spiegabile... In che pasticcio mi vuole imbarcare? ” Da Millerovo lui era
passato durante l’estate, nel corso dell’avanzata: quelle enormi fabbriche me-
scolate a distese di casupole col tetto di paglia... Ma cosa c’entrava adesso Mil-
lerovo? Intanto però i nemici sembravano lasciarlo in pace, nessuno lo angu-
stiava più, poteva (per quanto tempo?) godere questo buon caldo rigeneratore.
“Ecco, per prima cosa io devo assorbire quanto più possibile caldo, disten-
dermi i nervi, riposare la mente. Soprattutto devo riposare la mente. Poi - non
subito, ma quando mi sarò un po’ ripreso - farò il punto della situazione: e de-
vo farlo bene, perché è la mia pelle che ne va di mezzo stavolta.”
La stufa, rifornita da poco, borbottava sommessa. Quel borbottio gli ricor-
dava la vecchia stufa a legna della sua casa di Nova. Nova, suo padre! No, a
suo padre adesso non doveva pensare, se no addio distensione. Alla casa, beh,
a quella poteva anche pensare, al cortiletto magari, col ciuffo dei bambù, cosi
verdi sotto il sole... Da fuori i rumori, compreso ogni tanto qualche sparo,
giungevano come ovattati, quasi provenissero da molto lontano: “Sì da molto
lontano, da molto lontano...” si ripeteva mentalmente il prigioniero, in una
sorta d’inconscio accordo col blando borbottio della stufa. Improvvisamente si
riscosse: “Signore Iddio, in che tremenda situazione mi trovo... Angelo custo-
de, aiutami tu: da che sono al mondo mai ho avuto bisogno del tuo aiuto come
in questo momento! E anche del tuo san Michele, capo degli angeli fedeli, di
cui porto il nome. Mio padre non me l’ha messo a caso il tuo nome, lo sai: ma
come potrò partecipare alla battaglia della fedeltà se adesso... muoio? Quando
quel pover’uomo di mio padre m’ha dato il tuo nome...” Suo padre! No, a suo
padre non doveva pensare. Doveva rilassarsi invece. Ecco, doveva rilassarsi, la
cosa più importante per lui era questa: rilassarsi, riposare la mente, distende-
re i nervi. I pochi rumori esterni seguitavano ad arrivargli come da molto lon-
tano, da molto lontano, da molto lont... Si trovava sdraiato al caldo, dopo tre
notti e tre giorni di marcia e strapazzi nel gelo feroce: senza rendersene conto
scivolò nel sonno.
Fu svegliato quando ebbe inizio il successivo turno di guardia del tenente
Làricev. Costui gli fece stavolta legare senza tanti complimenti le mani dietro
la schiena, e lo spedì al comando di compagnia, accompagnato da un sibillino
biglietto che lo segnalava ‘probabile detentore d’importanti informazioni rela-
tive al settore di Millerovo’. Ragion per cui il pachidermico capitano, dopo
avergli tolto l’orologio e rivolte invano alcune domande in russo e poi - tramite
un interprete davvero inadeguato - in tedesco, se ne liberò inviandolo al mag-
giore, il quale senza perderci tempo lo spedì più indietro ancora. Sempre con
l’avvertimento che fosse tenuto in vita perché probabile detentore
d’importanti informazioni relative a un altro settore del fronte. Il che rappre-
sentò in conclusione la sua salvezza.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Alcune ore più tardi, quando ormai mancava poco alla luce (in quella sta-
gione il buio notturno durava, come s’è detto, sedici ore) il tenente Làricev fu
svegliato dal sergente entrato con urgenza nell’isba: «Venite subito compagno
tenente. C’è qualcosa che non va: forse gli italiani si preparano a tagliare la
corda.»
Balzato in piedi Làricev s’infilò frettolosamente il pastrano che s’era tenuto
addosso a mo’ di coperta, e afferrata la pistola e il binocolo si precipitò fuori,
insieme col sottufficiale.
Nella luce appena incipiente, violacea, s’intravedevano in effetti, là in Arbu-
sov, i nemici adunarsi: non con molto ordine si sarebbe detto. E forse non per
mettersi in marcia, infatti non sembravano tanto incolonnarsi, quanto piutto-
sto raggrupparsi in grosse schiere. Làricev li osservò attentamente col binoco-
lo nella scarsa luce, mentre un crescente turbamento gl’invadeva le viscere.
«Fiodor Cusmic, dà l’allarme, sveglia tutti e fa subito schierare il plotone»
ordinò al sergente, «e dì a Macàrov e Calàtov...» s’interruppe: «Stanno tutt’e
due dentro quest’isba, è vero?»
«Sì, in questa.»
«Chiama per prima cosa quei due, forza: digli che vengano qui da me di
corsa.»
Il sergente si mosse, corposo nel lungo pastrano, affrettandosi a eseguire gli
ordini. I due spioni uscirono subito dall’isba: Calàtov teneva su una spalla la
pelliccia tolta all’italiano ucciso.
«Voi due» ordinò Làricev «filate al gran galoppo dal capitano. Più in fretta
che potete, s’intende senza farvi vedere dal nemico. Direte al capitano: primo
che gli italiani si stanno ammassando, e a mio giudizio intendono attaccarci.
Capito? Il nemico si sta ammassando per attaccare. Secondo dovete chiedergli
che ordini ha per il nostro plotone, e - terzo - dovete tornare qui immediata-
mente con gli ordini: immediatamente, anche questo è un ordine tassativo.»
I due sembravano fin troppo impazienti di filar via. «Un momento» li fermò
Làricev: «Vi rendete conto che la sorte del plotone, la vita di tutti, è nelle vo-
stre mani?»
«Certo, compagno tenente» rispose il caporale Macàrov.
L’ufficiale avrebbe preferito inviare qualcuno degli uomini di cui più si fida-
va, ma tant’è, non aveva scampo: “Come staffette il capitano m’ha dato questi
due maiali, che chissà se torneranno davvero indietro...” «Vi do dieci minuti
per andare e tornare» disse. «Capito? Entro dieci minuti dovete in ogni caso
essere qui di nuovo. Via.»
Calàtov fece per avviarsi. «Un momento, scusate» obiettò invece Macàrov:
«Dieci minuti se il compagno capitano ci dà subito la risposta. Ma in caso di-
verso?»
“Guarda, cerca di crearsi un alibi per non tornare” pensò Làricev. Cionono-
stante era costretto a tenerselo buono. «Di voi mi fido» disse. «So che tornere-
te qui appena possibile. Del resto in caso di ritardo ingiustificato dovrete poi
fare i conti con me, anzi con tutti noi. Sapete che non scherzo. Forza, non per-
dete altro tempo, via.»
I due non se lo fecero più ripetere, s’avviarono quasi di corsa, uno dietro
l’altro, in direzione della compagnia.
L’ufficiale tornò a puntare il binocolo sul nemico; intanto gli uomini del
plotone andavano schierandosi in gran fretta all’interno e all’esterno delle due
isbe; l’unica mitragliatrice venne piazzata a una finestra.
Quelli appostati con Làricev accanto alla strada si voltavano ogni tanto a
guardare Macàrov e Calàtov, e una volta spariti i due, a scrutare le isbe della
compagnia. Specie Ringhierina, il quale: “Speriamo che il capitano ci mandi in
tempo l’ordine di rientrare” si ripeteva con angoscia: “Se no presto qui saremo
tra due fuochi”. Làricev intuiva questo pensiero in Ringhierina e negli altri,
era anche il suo pensiero fisso, ma si dava insieme la risposta: “L’ordine di
metterci qui il capitano l’ha ricevuto dal maggiore: per toglierci dall’imbroglio
dovrebbe modificare di sua iniziativa quell’ordine, e non lo farà.”
Mentr’era in tali pensamenti le armi pesanti russe piazzate oltre i bordi del-
la vallata cominciarono a sparare, riprendendo il massacro interrotto al calar
delle tenebre. Furono subito della partita anche le ‘catiusce’. Si vedevano i loro
razzi aprirsi in paese uno in prosieguo dell’altro tra la folla nemica: facevano
gli uomini a pezzi, costringendo i circostanti a buttarsi freneticamente a terra,
per poi fuggire da ogni parte.
«Ecco, così, così» approvavano i soldati del plotone: «Ecco, molto bene,
molto bene. Che gli passi la voglia di venire all’assalto, a quei figli di vacca.»
Ciononostante le formazioni italiane da poco messe insieme cominciarono a
muoversi: lasciavano a raggera il paese e i suoi dintorni avanzando da tutte le
parti nella neve; sembravano intenzionate a impadronirsi dell’intera vallata.
Senza dubbio per sottrarsi a quella sorta di tragico tiro a segno, in cui quasi
non cadeva colpo che non facesse morti.
Làricev notò che ad attaccare non erano tutti gli italiani presenti in paese, e
forse neppure la maggioranza, almeno per ora. Quelli però che si erano mossi
erano pur sempre molti... Là verso sud essi stavano già, in un subisso di fuci-
leria, raggiungendo le prime postazioni russe nella neve: ecco, si mettevano a
correre e a gridare, attaccavano alla baionetta; nel generale frastuono giunge-
va fin qui una debole eco del loro strano grido di guerra «Savoia! Savoia!».
“Che guaio” si diceva sempre più turbato Làricev “che guaio! Tra poco tocche-
rà a noi.” Qua e là, frammisti alle formazioni italiane, il binocolo gli consentiva
d’individuare piccoli nuclei di soldati tedeschi in divisa bianca, con armi
d’accompagnamento come mitragliere o mortai. “Guarda, appoggiano
l’attacco degli italiani” pensava: “Dove c’è da uccidere i tedeschi non possono
mancare”. E intanto dalla compagnia non giungeva alcun ordine.
Ma ormai non poteva più interessarsi all’insieme della battaglia, doveva
concentrare ogni attenzione sul proprio limitato settore, perché gli italiani ve-
nivano avanti numerosi anche nel fondo valle; le loro pallottole - non molte
per ora, e come d’assaggio - fischiavano nell’aria, alcune colpirono con urti
simili a frustate le facciate delle due isbe, infransero qualche vetro. A un tratto
dalla finestra la mitragliatrice del plotone aprì strepitosamente il fuoco; i sol-
dati si diedero a sparare coi fucili; quasi nello stesso tempo, duecento metri
più indietro, aprirono il fuoco le armi della compagnia, poi quelle dell’intero
battaglione: non poche pallottole schioccavano adesso anche contro il retro
delle isbe. Intorno alle quali piombarono due, tre, quattro colpi di mortaio
tedesco, intronando la testa di tutti gli uomini appostati; gli italiani là davanti
s’erano messi a passò di corsa, alcuni cadevano - molti speriamo - ma gli altri
seguitavano a venire avanti urlando e sparando coi fucili e i moschetti. Le di-
fese coperte di neve del plotone - in realtà più parvenza di difese che difese
reali - furono in breve crivellate, molti degli uomini colpiti, la mitragliatrice
nell’isba cessò di sparare, i suoi serventi dovevano essere stati uccisi. A un
passo dall’ufficiale, Ringhierina lanciò un grido: Làricev l’udì malgrado il cla-
more assordante di un mitragliatore all’altro suo fianco, e voltò la testa: vide
l’attendente abbracciato ai sassi, con la fronte insanguinata. All’interno della
seconda isba venne colpito il gigantesco sergente dal pastrano sfrangiato; gli
uomini che stavano con lui si precipitarono allora fuori dell’edificio e si misero
a correre come pazzi verso la compagnia, ma furono investiti contempora-
neamente dal fuoco nemico e da quello della compagnia.
Dei rimasti in vita dentro e fuori le isbe più d’uno si raggomitolò contro il
terreno determinato a darsi prigioniero. Gli italiani erano ormai a pochi metri,
urlavano furibondi il loro grido: «Savoia! Savoia!», tra pochi secondi sarebbe-
ro entrati nelle difese del plotone. Nella postazione sulla strada il caporale Ni-
chiténco era adesso, con Làricev, l’unico sopravvissuto: strappò improvvisa-
mente il mitragliatore a tamburo dalle mani del mitragliere morto, e gridando:
«Compagno tenente, via, via!» si lanciò in direzione della compagnia. Inebeti-
to, terrorizzato, l’ufficiale lo seguì, senza più riuscire in alcun modo a domi-
narsi.
«Qui» urlò Nichiténco in mezzo al turbinio dei colpi «qui», ed effettuati al-
cuni grandi balzi piombò dietro l’isba più vicina, seguito dal tenente. Scorsero
per un attimo, alle loro spalle, alcuni nemici che, con le baionette inastate,
entravano urlando nelle postazioni.
Uno dei nemici però, il primo, che precedeva gli altri di qualche passo, non
urlava, rideva: Làricev lo vide solo per una frazione di secondo, ma ne fu sicu-
ro, tanto gli rimase impresso il suo viso: che era roseo, imberbe, proprio senza
traccia di barba, e con gli occhi azzurri, letteralmente una faccia da bambina:
non urlava, rideva, sembrava si divertisse. Di corporatura mingherlina il ne-
mico ridente - ma questo Làricev non fece in tempo a notarlo - aveva sulle
maniche del cappotto gradi dorati da sottufficiale.
CAPITOLO VENTIDUESIMO

I due russi non rimasero al riparo dell’isba più di qualche istante: sorpassa-
to con un salto il cadavere incrostato di brina del falegname siciliano (Làricev
ricordò fuggevolmente le fotografie trovategli indosso, quella gente
dall’aspetto dignitoso... quando le aveva esaminate quelle foto, quanto tempo
fa? era stato nel corso di quella stessa notte, incredibile! il portafogli del morto
era tuttora nella sua tasca...) i due si lanciarono in direzione della compagnia.
Passarono tra i corpi senza vita dei compagni che avevano tentata la fuga pri-
ma di loro; per evitare i colpi Nichiténco zigzagava furiosamente e Làricev si
sforzava d’imitarlo: «Uh» fece a un tratto il caporale, e: «Uh!» gridò più forte
dopo qualche passo. C’era - a pochi metri dai due e forse a trenta dall’isba -
una fossa a imbuto nel terreno innevato; più che entrarvi Nichiténco vi preci-
pitò; reggeva sempre il mitragliatore a tamburo: lo depose, con evidente diffi-
coltà, sulla neve, poi si rannicchiò in sé stesso. «Per me è finita» mormorò.
«Cosa dici?» esclamò Làricev ansando.
«M’hanno beccato qui, e...» sussurrò Nichiténco, e fece l’atto di vomitare:
dalla bocca gli uscì un po’ di sangue. Dopo una pausa: «Io a Voroscilovgrad
non ci arrivo più» sussurrò.
Làricev era fuori di sé per il terrore. «No! No!» si mise a gridare: «Vitia,
non è vero, non ti hanno colpito, nooo!» Si alzò in piedi per correre via, non
importa dove, ma i fischi delle pallottole tutt’intorno lo fecero ripiombare nel-
la buca. Nichiténco stava ora con una tempia appoggiata alla neve, un filo di
sangue che gli stillava dall’angolo della bocca era ormai l’unico movimento in
lui. Làricev si stese al suo fianco, col viso e il frontale del berretto di pelo con-
tro la neve.
Aveva fatto sempre, giorno dopo giorno, il suo dovere di soldato nonostante
l’iniqua deportazione, nonostante tutto. Ma adesso... Era troppo sensibile...
“Non sono adatto alla guerra: mi domino per un certo tempo, ma poi... Basta,
non ne posso più, io non ne posso più, basta non ce la faccio più, basta.”
Respirava affannosamente. E dovere, oltre tutto, dare la vita per difendere
la nefanda dittatura comunista! “No, non il comunismo, io sto difendendo la
Russia, non il comunismo, la Russia.” Guai se in passato tutti quelli che ce
l’avevano coi capi, si fossero rifiutati di difendere la Russia... Questo pensiero
gli occupò la mente: tante volte egli l’aveva pensato ed era stato persuaso dalla
sua evidenza, e anche adesso tale evidenza gli s’impose. “Certo questo vale
anche per gli altri, per i tedeschi, per gli italiani... disgraziati anche loro!”
Intanto gli era concesso un momento di tregua, e questa, più di quanto egli
andava rivolgendo nella mente, gli consentì di riprendersi.
“Perché quelli si sono fermati?” si chiese a un tratto. Dalla bocca di Nichi-
ténco il sangue usciva ormai solo a gocce.
«Vitia» lo chiamò di nuovo: «Vitia!» Ma il caporale, come tanti e tanti altri
in quei giorni, schiere innumerevoli, aveva intrapreso il grande viaggio, aveva
lasciate per sempre tutte queste atroci miserie. Forse pensò Làricev - il quale
credeva in una sopravvivenza ultraterrena - a Voroscilovgrad, a controllare se
suo figlio era stato fucilato, Nichiténco ci sarebbe andato in ispirito. Ma forse
adesso delle cose di questo mondo niente gl’importava più, nemmeno la sorte
di suo figlio, talmente distante da questa vita è l’eternità.
Accanto al morto c’era il mitragliatore: Làricev allungò cautamente un
braccio, afferrò l’arma e la trasferì davanti a sé, verso il bordo della buca; gli
assalitori dovevano essersi tutti ammassati a terra all’altezza delle due isbe.
“Certo stanno preparandosi al balzo verso il battaglione”. Egli sapeva che era-
no centinaia, anche se adesso poteva - sollevando la testa - vedere soltanto
qualche ritaglio d’elmetto o di bustina qua e là, qualche profilo di schiena.
Provò il congegno dell’arma: funzionava. Allora la puntò là dove affioravano
alcuni elmetti nemici e fece partire un principio di raffica: gli elmetti sprofon-
darono tra spruzzi di neve. Anche Làricev però dovette tirarsi vivacemente
indietro perché anche attorno a lui la neve fu trapassata dai colpi.

CAPITOLO VENTITREESIMO

Alla raffica sparata da Làricev, Reano, il sergente con la faccia da bambina,


aveva smesso di sorridere. Stava accucciato tra i primi, al riparo d’uno spezzo-
ne di muro a secco incappucciato di neve: «Ecco cosa succede a fermarsi»
mormorò con disappunto, e: «Mai fermarsi negli assalti» ribadì. Se la prese
mentalmente con lo sconosciuto capitano che aveva ordinata la sosta: “Dob-
biamo riordinarci? Ma intanto ecco cosa succede: quanti morti ci costerà quel
maledetto mitragliatore che è spuntato lì davanti?”
Si voltò in cerca del capitano. Doveva essere sei o sette metri alla sua sini-
stra; più indietro, lontano, si vedeva la massa degli altri rimasti in paese.
“Gente che non vale una sverza” pensò Reano. Questi però, venuti all’assalto
senza che nessuno in pratica li obbligasse, beh questi, in fin dei conti... Ma
anche questi, se fossero rimasti ad aspettare un po’, e ancora un po’, chi pote-
va garantire che non ci ripensassero, che non si facessero riprendere dalla
paura, dal timor panico? Lui da quando era cominciata la ritirata non li capiva
più i suoi connazionali. Fino ad allora li aveva creduti i migliori soldati del
mondo, e invece! “I peggiori, ecco cosa sono, i peggiori!” Ah se ci fossero stati
qui i suoi compagni del plotone esploratori di Abrossimovo... Quelli sì
ch’erano uomini! Li rivedeva uno per uno, tutta gente di fegato, a cominciare
da Mangiacavalli, il migliore del mazzo. “Mangiacavalli!” pensò Reano: era
morto prima della ritirata durante quell’azione con quell’osservatore
d’artiglieria, il sottotenente Corte o Curti (se vogliamo essere esatti Corti, fu-
turo autore - sia detto tra parentesi - del presente romanzo). Il sottotenente
s’era salvato: lui che aveva la guida dell’impresa s’era salvato, mentre Mangia-
cavalli c’era rimasto. Quanto agli altri esploratori erano morti quasi tutti il
giorno 16, primo della grande offensiva, quando i russi erano riusciti a venire
avanti fino a sommergere Abrossimovo... Beh, se i suoi compagni non c’erano
più, adesso toccava a lui sergente Reano, diciannovenne volontario, invece di
far flanella, fare qualcosa nello stile d’allora per togliere di mezzo quel male-
detto mitragliatore spuntato là davanti. Era venuto il momento di spendere la
‘sua’ bomba.
Si voltò verso i più vicini, accucciati a qualche passo da lui: «Ehi voi, mi
sentite? Ehi.»
«Sì?» gli rispose una voce.
«È lì il capitano?»
«Sì, sta qui dietro l’angolo della casa.»
«Digli che io mi butto sul mitragliatore. M’hai sentito?»
«Sì, però... Un momento.»
«Digli che stiano tutti pronti: appena io ho tolto di mezzo il mitragliatore,
fuori tutti.»
«Aspetta che glielo dico.»
«Dai, spicciati.»
Passò qualche decina di secondi; Reano — che ricominciava a divertirsi e a
sorridere - udì la voce dell’ufficiale dar l’ordine di tenersi pronti: «Tutti pronti
all’assalto.» Poi riecco la voce del soldato alle sue spalle: «Ehi tu.»
«Sì? Mi chiamo Reano.»
«Reano? Il capitano dice d’accordo: siamo pronti.»
«Allora vado.»
Sfilò dalla cintura una grossa bomba a mano russa munita di manico, tanto
più efficiente di quelle giocattolo italiane (la conservava da settimane, dal
tempo di Abrossimovo: Mangiacavalli e il tenente Corti allora ci scherzavano
sopra), la impugnò con la destra, con la sinistra raccolse il mitra, inspirò pro-
fondamente, poi balzò fuori e si mise a correre come un invasato verso il mi-
tragliatore; percorsi dieci o dodici metri scaraventò la bomba: «Savoia!» urlò;
e sempre correndo: «Dai, fuori, fuori tutti, Savoia!»
«Savoia!» urlarono gli altri balzando in piedi e buttandosi avanti come for-
sennati.
Fu una questione di attimi: mentre la bomba rotolava su sé stessa nell’aria,
il mitragliatore nemico aprì il fuoco contro Reano: uno, due, tre colpi; la bom-
ba piombò a ridosso del mitragliatore ed esplose: il mitragliere tenente Làri-
cev ebbe la testa dilaniata, la sua arma s’impennò, rimase là impennata nella
neve come un manico di scopa, mentre il sergentino Reano, col mitra nella
sinistra, cadeva sorridendo faccia in giù.
Gli altri andarono oltre di corsa: insieme con un’altra grossa formazione che
avanzava qualche centinaio di metri a sinistra, si lanciarono sparando e ur-
lando verso le isbe tenute dal battaglione, che i russi cominciavano a sgombra-
re alla spicciolata; pur ripiegando sparavano però di continuo, e molti degli
attaccanti caddero: sotto quel fuoco: i più tuttavia andarono avanti.
Nessuno, sul momento, ebbe occhi per il sergente italiano Reano e per il te-
nente russo Làricev; del resto nessuno avrebbe potuto prestar loro qualche
soccorso, la morte di entrambi essendo stata istantanea. Nessuno la poté poi
nemmeno ridire, perché il soldato cui Reano aveva comunicato il proprio no-
me, dopo esserselo ripetuto più volte con ammirazione, lo dimenticò; e quanto
a Làricev, l’unico dei suoi uomini rimasto in vita (quelli fatti prigionieri dagli
italiani vennero, non appena trasferiti in paese, sequestrati e uccisi dai tede-
schi) fu Sucorùcov, il colcosiano della campagna di Vologda; il quale se ne
stette fingendosi morto sotto i corpi di due compagni morti nella postazione
del pollaio, e non si mosse fino a sera, maledicendo in cuor suo la guerra, i
nemici, gli amici, il freddo, il comunismo che gli aveva tolto il suo pezzetto di
terra, e il raffreddore che l’obbligava a scaricare di continuo il naso. Scese fi-
nalmente le tenebre si districò con cautela: nei loro attacchi alla baionetta gli
italiani erano arrivati a occupare tutti senza eccezione i crinali della vallata di
Arbusov, e li presidiavano; non erano molti però, solo i sopravvissuti alla lotta,
perché gli altri dal paese non erano andati a rafforzarli nemmeno dopo cessati
i combattimenti. Così non fu difficile a Sucorùcov, camminando in silenzio
nella neve, di passare tra le postazioni nemiche - di cui neppure s’accorse -
fino a uscire dalla vallata. Imbattutosi più in là, lungo una pista, in un bivacco
di carriaggi russi, fu indirizzato ai resti della sua compagnia, dove per prima
cosa s’informò se fosse già stata distribuita la razione di viveri. Del tenente
Làricev non seppe dire altro che, secondo lui, doveva essere morto nel com-
battimento.

IV

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Tre giorni complessivamente la colonna sostò nell’atroce vallata di Arbusov


che in seguito, nei discorsi dei superstiti, avrebbe assunto il nome di ‘valle del-
la morte’. In realtà quando la colonna ne ripartì i corpi senza vita dei soldati
italiani disseminati sulla neve dei suoi pochi chilometri quadrati di superficie
erano migliaia: forse più di quanti erano caduti in ciascuna delle maggiori bat-
taglie della guerra: in quella del Natale 41 sullo stesso fronte russo per esem-
pio, o nella battaglia di El Alamein in Africa: qui però la gran maggioranza
non era caduta combattendo, bensì mentre fuggiva inutilmente di qua e di là
sotto i colpi nemici.
Dopo che i russi furono respinti oltre i bordi della vallata quei colpi si anda-
rono intensificando per il sopraggiungere di nuove unità di mortai e
d’artiglieria: avevano però perso parzialmente d’efficacia perché privi
d’osservazione; del resto anche lo spazio in cui gli uomini stavano accerchiati
si era ampliato.
A sostenere il peso degli attacchi per estromettere il nemico dalla vallata
erano stati i soliti ragazzi di buona volontà, sempre gli stessi, quelli che anche
prima della ritirata avevano costituito l’ossatura e il cemento dei reparti. Di
costoro un certo numero era morto nei recenti combattimenti sul Don, altri -
come Bonsaver - negli scontri all’inizio della ritirata, e tutti o quasi i rimanenti
morirono in questi attacchi. Scomparsi costoro i reparti cessarono completa-
mente di essere reparti; non rimase - come Ambrogio dovette più volte consta-
tare - che una massa incoagulabile d’individui terrorizzati, intesi solo a salvar-
si la vita, ma incapaci a tal fine d’imporsi la minima iniziativa o disciplina. Du-
rante le tremende marce successive ad Arbusov mentre faticosamente proce-
deva in colonna sotto braccio a Paccoi, il sottotenente ricordò più volte le pa-
role che stava pronunciando nel momento in cui era stato ferito: «Questi non
sono più dei soldati...» e con amarezza annuiva a sé stesso.
Dopo tre notti e due giorni di marcia pressoché continua, con temperature
la notte veramente polari, e dopo ripetuti combattimenti per aprirsi la strada
sostenuti ormai solo dai tedeschi di testa, la colonna - assai ridotta di numero
- raggiunse la cittadina di Cercovo, dove resisteva isolato nel biancore smorto
della pianura un esiguo presidio italiano costituito da scritturali, magazzinieri,
ed altro personale di retrovia, che un tenente colonnello dei bersaglieri aveva
messo in linea.

***

Cercovo si trova su una ferrovia con andamento nord-sud, che costituiva al-
lora una sorta di teorico prolungamento - tra Voronez e il mar d’Azov -
dell’immenso fronte orientale tedesco, il quale si stendeva ancora intatto dal
mar Glaciale Artico fino a Voronez. La tragica colonna ebbe perciò ordine di
trincerarsi nella cittadina, mentre altri corpi in ritirata italiani e tedeschi veni-
vano convogliati a presidiare qualche altra località sulla stessa ferrovia; intan-
to erano attese dalla Francia divisioni fresche tedesche.
I russi circondarono completamente il borgo, ed ebbero così inizio i giorni
apocalittici dell’assedio di Cercovo, che noi non ci soffermeremo a descrivere;
del resto il lettore che lo desideri può trovare la nostra descrizione altrove.
Quanto ad Ambrogio ci basterà dire che visse quei giorni in uno stato di semi-
estraniazione, anche perché la mattina stessa dell’arrivo era stato ferito una
seconda volta da una insidiosa scheggia di mortaio, che gli s’era confitta nella
schiena in prossimità di un rene.
Con la ferita al petto in suppurazione, bruciato dalla febbre, tormentato dai
pidocchi, egli trascorse la prima parte dell’assedio dentro un’ ‘infermeria’ di
fortuna, trasformatasi presto in un’orrenda bolgia nella quale sempre nuovi
feriti venivano portati, e dalla quale ogni mattina sempre nuovi cadaveri veni-
vano trascinati fuori per essere accatastati in alcune grandi buche scavate
presso la porta. Da quel luogo lo trassero gli ufficiali superstiti del suo gruppo
(tra i quali non figurava ormai più il maggiore Casasco, né l’aiutante maggiore
Cavallo Stanco, né il giovane topografo napoletano) che lo portarono nella lo-
ro isba. Dovunque l’attendente Paccoi lo seguì, prestandogli il servizio che po-
teva. Verso metà gennaio, nel corso di un bombardamento russo che non la-
sciò intatto, si può dire, un solo edificio della cittadina, anche Paccoi rimase
ferito: una scheggetta rovente di granata gli trapassò il polso sinistro, miraco-
losamente senza recidergli le vene (ché in tal caso per lui non ci sarebbe stato
scampo).
Intanto, poiché la spinta nemica verso ovest continuava, scalzando un po’
alla volta le forze raccogliticce tedesche che si sforzavano di contenerla, un
ristabilimento del fronte lungo la ferrovia venne giudicato inattuabile. I presi-
di accerchiati ebbero perciò ordine di disimpegnarsi - quelli che ne erano in
grado - e di raggiungere le precarie linee mobili tedesche, prima che queste
arretrassero ulteriormente.
La colonna uscita da Cercovo le raggiunse la notte sul 17 gennaio a Bielo-
vosch; di venti-venticinquemila italiani accerchiati sul Don la sera del 19 di-
cembre, ne rimanevano appena quattromila, in gran parte congelati o feriti; la
maggioranza degli altri era finita in mano al nemico.
Quella marcia di circa cinquanta chilometri da Cercovo a Bielovosch, Am-
brogio e Paccoi la fecero lentamente, tenendosi sotto braccio («E po, sor te-
nente, qualcuno diria che nun semo fortunati: che volemo de più, se proprio
ai bracci giusti semo stati feriti?»), perdendo via via terreno sulla colonna.
Fino a trovarsi soli nell’immensità paralizzante della pianura, a camminarvi
come due formiche, ogni tanto fermandosi a causa della spossatezza
d’Ambrogio, il quale un paio di volte ordinò a Paccoi («Te lo comando, mi ca-
pisci? Io te lo or-di-no») di andarsene, di salvarsi almeno lui, Paccoi scuoteva
con pazienza contadina la testa, lo lasciava dire, e poi domandava: «E allora?
L’ete finita sta lagna, sor tené?» e se lo riprendeva sotto braccio. Raggiunsero
la colonna solo grazie alle sue lunghe soste, provocate dai combattimenti con
cui i tedeschi e i residui dei battaglioni ‘M’ erano costretti ad aprire il passag-
gio.
Giunti a Bielovosch allo stremo delle forze, ed entrambi in preda alla feb-
bre, entrarono in un’isba a caso, e dopo alcuni giorni vi permanevano ancora,
incapaci di riprendere la strada, ormai inerti di fronte alla prospettiva di cade-
re prigionieri. Gli altri italiani erano stati trasportati con autocarri a Starobel-
sch, cinquanta chilometri più a ovest; furono i tedeschi del fronte mobile che
sbarrava al nemico l’entrata in Bielovosch a recuperarli - su segnalazione
d’una donna russa - e a portarseli via al momento dello sgombero della locali-
tà. A Starobelsch, dove funzionava ancora, miracolosamente, la ferrovia, i due
furono caricati su un ‘treno attrezzato ad ospedale’ (composto cioè di carri
merce equipaggiati con cuccette e stufe), che dopo una settimana di penoso
viaggio li scaricò a Leopoli, in Polonia.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Ambrogio e Paccoi rimasero nell’ospedale italiano di Leopoli alcune setti-


mane, usufruendo di letti dalle lenzuola finalmente pulite; furono curati e po-
terono riprendersi alquanto. Con più rapidità Paccoi, ricoverato allo stesso
piano di Ambrogio ma in una diversa corsia: dopo solo tre o quattro giorni di
degenza egli cominciò a far visita all’ufficiale; aveva il polso ferito avvolto in
garze così candide che davano conforto a vederle, portava il braccio appeso al
collo mediante una fascia pure pulitissima.
L’ospedale, ben organizzato, circondato da un giardino, era ampio e quasi
nuovo. «Sor tenente, sapete cosa dicono i piantoni del mio reparto? Che que-
sto era il manicomio della città, e che i tedeschi hanno ucciso tutti i matti, po-
relli, e l’hanno trasformato in un ospedale per loro. Poi, quando noi siamo di-
ventati un’armata, ce l’hanno assegnato come ‘ospedale di transito’.»
«Cos’hai detto, che hanno ucciso i matti?»
«Sì» rispose Paccoi: «li hanno uccisi tutti. Pora gente, eh?» Nel letto alla
sinistra di Ambrogio (dall’altra parte c’era una finestra che dava sul giardino)
giaceva da più d’un mese un capitano col viso esangue, amputato d’entrambe
le gambe; confermò quanto Paccoi riferiva: «Hanno ucciso tutti i malati di
mente, proprio così.» «Ma... scusate, da chi viene questa notizia? Posso chie-
dere a voi chi l’ha detto?»
«Anche a me per primi i piantoni. Però giù nei sotterranei ci sono ancora le
suore polacche ch’erano addette alla lavanderia del manicomio, e qualche vol-
ta salgono nei reparti a dare una mano, sebbene sia proibito. L’ho chiesto a
loro esplicitamente: da principio non volevano rispondere, ma poi me l’hanno
confermato.» Il capitano parlava con evidente sofferenza; Ambrogio non riu-
sciva a capire se per quella fisica, del suo corpo straziato, o per ciò che le sue
parole evocavano. Però, a rifletterci, che somma sterminata di dolore c’è nel
mondo! Solo ora, che si trovava tra i sofferenti, egli cominciava a rendersene
veramente conto.
Con l’attendente e con gli altri ricoverati il giovane parlava in genere
dell’Italia, dove fra poco sarebbero tornati; rievocavano però anche, inevita-
bilmente, i vari episodi della terribile ritirata, che così si delineava a tutti sem-
pre meglio. Venivano fuori di continuo nomi di amici e conoscenti dei quali
s’ignorava la sorte: chissà se quelli finiti in mano ai russi perché rimasti indie-
tro nelle marce o tagliati fuori (secondo l’opinione più diffusa doveva - come
già abbiamo detto - trattarsi della maggioranza dei dispersi) erano ancora vi-
vi?
Al riguardo nell’ospedale di Leopoli non si sapeva cosa pensare; notizie di
stragi compiute dai sovietici ne circolavano diverse. Una - non più fresca per
la verità - la portò un giorno ad Ambrogio Paccoi: «Signor tenente ne ho senti-
ta un’altra che è più grossa ancora di quella dei matti: questa però l’hanno
combinata i russi non i tedeschi.»
«Cioè? Cosa vuoi dire?»
«Che al momento di smammare da Leopoli i russi hanno ucciso tutti i bor-
ghesi polacchi che avevano chiuso in prigione; cioè i signori, comprese molte
donne, e i preti, insomma diverse migliaia. Siccome non potevano portarli via,
li hanno uccisi tutti, sparandogli nella testa, qui dietro la nuca.»
Anche di questo episodio il capitano vicino di letto era al corrente: «È suc-
cesso all’inizio della guerra: ma a quanto riferiscono i piantoni, la popolazione
in città ne parla ancora molto. Sono stati gli uomini della polizia comunista -
qui li chiamano i ‘berretti blu’ - a eseguire la carneficina.»
«Proprio, i berretti blu, così ho sentito» disse Paccoi.
«Dio mio, in che mondo schifoso viviamo! Poveri polacchi, in che mani!»
mormorò Ambrogio. «Però Giovanni (chiamava l’attendente per nome ora)
perché mi porti notizie come questa?»
Paccoi lo guardò impacciato: «Per farvi sapere. Voi volete sempre sapere le
cose.»
Ambrogio dovette convenire; era disteso nel letto, il volto gli s’era fatto an-
cora più sofferente. «Questa è una delle notizie che avrebbero interessato Mi-
chele» mormorò.
«Il signor tenente Tintori, eh? Ancora io non mi capacito di come quella
notte alla ‘valle della morte’ sia sparito. Chissà cosa gli sarà capitato» fece
Paccoi. «La sera al pagliaio si era corcheto accosto (coricato accanto) a me,
poi la notte l’ho sentito che si alzava e al mattino non c’era più, non l’ho più
trovato. Dove può essere andato?» Rimase un po’ sopra pensiero. «Chissà se
in questo momento è ancora vivo? A Cercovo, lo sapete, nessuno degli ufficiali
e dei fanti del suo battaglione ha detto di averlo visto morto.»
«Sì, però se questa notizia che m’hai portato adesso è vera...» mormorò
Ambrogio; ma s’interruppe, non andò avanti.
«Se è vera?» chiese Paccoi, invitandolo a continuare.
«Anche se è stato preso vivo dai russi, che speranza ci può essere per lui? E
per tutti gli altri?»
A poca distanza da loro si stava in quel momento dando da fare la croceros-
sina della corsia (sorella Glicerie, un’anziana signora pallida non meno dei
suoi ricoverati, ma molto attiva) la quale dopo aver lanciato ai due più
d’un’occhiata, venne verso il letto: «Tenente, sapete che non dovete affaticar-
vi.»
«E chi s’affatica?» le rispose con un mezzo sorriso Ambrogio. «Un po’ di
pazienza, via» disse la crocerossina. «Dopo tutto è questione soltanto di gior-
ni, visto che il vostro organismo, come ha detto il professore, si sta riprenden-
do.» Si rivolse a Paccoi: «A voi, ragazzo mio, non dico di non venirlo a trovare.
Però non dovete assolutamente farlo parlare. Capito? Non dovete.»
Paccoi le fece segno di sì, imbarazzato al suo solito.
«Grazie sorella» mormorò Ambrogio.
«Ecco, bravi, così.»
La donna tornò al precedente lavoro: stava facendo ordine nel comodino
d’un degente che aveva perdute per congelamento quasi tutte le dita delle ma-
ni. Coi suoi modi d’autentica signora sorella Glicerie non schifava le incom-
benze più umili.
Ambrogio e Paccoi si guardarono in faccia con un sorriso da scolari. Però,
grazie soprattutto alle crocerossine, che differenza tra questo ospedale pulito e
l’infermeria di Cercovo, dove il fumo riempiva i locali dal soffitto fino a un me-
tro da terra, e i pidocchi brulicavano su ogni cosa, e c’era quel fetore per via
del corridoio trasformato in cesso e, appena fuori della porta, quelle buche
stracolme di cadaveri congelati.

***
Di lì a una settimana anche Ambrogio si era abbastanza ripreso, e fu a sua
volta in grado di far visita a Paccoi; cominciarono in tal modo a scambiarsi le
visite. Nella corsia di Paccoi - assai più grande di quella d’Ambrogio - era rico-
verato per congelamento a un piede un altro soldato delle pattuglie: Mazzole-
ni, l’amico di Piantanida, il quale ultimo era invece rimasto per sempre a Cer-
covo, sepolto sotto un po’ di paglia e di neve: così dei due amici ‘lavativi’ uno
era stato preso e l’altro lasciato. C’era pure, nella grande corsia, quel sergente
Feltrin addetto agli automezzi della terza batteria, che la sera d’inizio della
ritirata aveva confermata ad Ambrogio la mancanza di carburante; adesso Fel-
trin soffriva di una strana forma nervosa: non poteva più dormire. Gli occhi gli
s’erano infossati in modo incredibile, egli però sperava di poter guarire, e si
attaccò anche ad un’affermazione d’Ambrogio: «Una volta in Italia, vedrai, ci
sono degli specialisti per queste forme nervose che ti sistemano senz’altro.»
«Sì, è vero? Sì. Quando potete, signor tenente, venite a trovarmi, che mi date
fiducia.»
Nella stessa corsia - di quaranta e più degenti - c’era anche un alpino della
divisione Tridentina il quale stava tutto il giorno seduto nel letto con la schie-
na contro la testata; di capelli e barba rossi, scarnito come un chiodo,
quell’alpino non aveva possibilità di sopravvivere e lo sapeva: durante
un’operazione per levargli una scheggia gli avevano scoperto - ad onta della
sua giovane età - un tumore già in stadio molto avanzato. Ambrogio si soffer-
mò più d’una volta con lui, che conosceva vagamente il cappellano don Gnoc-
chi, ma non Luca né il tenente Galbiati; della sua divisione Tridentina sapeva
solo che in quei giorni si trovava chiusa in una sacca insieme con tutto il corpo
d’armata alpino. Situazione questa - non mancava di ripetere - ch’egli volon-
tieri avrebbe scambiata con la propria: meglio il male di fuori - affermava - per
tremendo che fosse, da affrontare tutti insieme alla maniera alpina, che questo
silenzioso, atroce male interno, a cui non c’era rimedio.
La somma di dolore nel mondo era davvero sconfinata.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Una notte Ambrogio venne destato da un insistente vocio che penetrava


nella sua corsia attraverso la porta chiusa. Cosa mai la poteva causare?
L’impressione era che provenisse dalla grande corsia di Paccoi, situata in fon-
do al corridoio.
Il sottotenente cercò di riaddormentarsi ma senza riuscirvi; si accorse che
anche il capitano suo vicino di letto era sveglio. «Cosa può essere» gli chiese
allora a bassa voce «questa mezza cagnara?» «Credo sia gente che chiede la
padella, o d’esser voltata di lato» gli rispose sottovoce l’altro: «probabilmente
i piantoni sono andati tutti quanti a dormire.»
«Ah.»
«Dopo gli ultimi arrivi di feriti, quelli della sanità non riescono a farcela. Sai
che rinunciano alla libera uscita, però la notte vogliono riposare.»
«Capisco.»
«È già successo anche il mese scorso» disse il capitano: «li hanno lasciati
gridare per ore.»
«Da quanto tempo stanno chiamando a questo modo? Io mi sono svegliato
solo adesso.»
«Beh, forse da un’ora.»
«Mm.»
Ambrogio tentò ancora di riaddormentarsi, ma quelle voci al di là della por-
ta, che oltre tutto sembravano aumentare d’intensità, glielo impedivano. Si
risolse: «Vado a vedere se è possibile far qualcosa» mormorò.
Curando di non compiere movimenti bruschi (aveva tuttora la scheggia nei
pressi del rene) mise le gambe fuori del letto, infilò a tentoni le pantofole
dell’ospedale, e si alzò in piedi.
Nel corridoio il vocio era molto più avvertibile; il giovane aprì la porta della
grande corsia e, camminando lentamente, vi si addentrò alla luce delle lampa-
de notturne, azzurrine. Notò che l’alpino di pelo rosso era seduto come sem-
pre contro la spalliera del letto: gli fece un saluto con la mano, cui quello ri-
spose con un cenno del capo, pareva molto teso. Anche Feltrin era sveglio, te-
neva gli occhi aperti nella penombra. Intanto alcuni di coloro che avevano bi-
sogno d’aiuto l’avevano notato, e cominciarono a chiamarlo quasi gridando.
L’ufficiale - in pigiama, non riconoscibile dunque come tale - si avvicinò a
uno con la testa fasciata. «Calma» gli disse: «Cosa ti serve?»
«La padella. Non ne posso più. Per favore dammi la padella» bofonchiò
quello.
«Va bene, ti porto la padella. Sai dove le tengono?»
«Come faccio a sapere dove le tengono? Dammi la padella» s’infuriò il feri-
to.
«Un po’ di pazienza, lascia che prima la trovi.»
Vedendolo passare tra i letti diversi altri si misero a chiamarlo, alcuni be-
stemmiando. “Dove diavolo terranno le padelle?’’ si chiedeva il sottotenente:
“Nei gabinetti della corsia probabilmente. Che dovrebbero essere là, oppure
là. Una di quelle due porte: forse quella d’angolo, vediamo.” Il chiasso cresce-
va.
Prima ch’egli la raggiungesse, la porta d’angolo - che dava su una scala di
servizio - si aprì, e nel salone entrarono due monache. “Devono essere le suore
polacche della lavanderia’’ pensò subito Ambrogio.
Andò loro incontro: «Sapete per favore dove tengono le padelle?» chiese.
La prima monaca annuì.
«È per... loro» disse il sottotenente indicando i letti.
La suora fece un nuovo cenno d’assenso e s’avviò svelta verso un ripostiglio;
insieme con lei anche l’altra suora entrò rapidamente in azione. L’ufficiale
avrebbe voluto collaborare, ma lasciò perdere quasi subito, visto che le due
donne ci sapevano fare troppo meglio di lui: andavano da un letto all’altro,
portavano le padelle, i pappagalli, li ritiravano; là dove occorreva il loro sforzo
unito per voltare un ferito, agivano insieme. Allorché le vide in difficoltà nel
voltare un soldato di corporatura pesante, il sottotenente fece per aiutarle, ma
si trattenne ricordando che proprio questo genere di sforzi gli era interdetto a
causa della scheggia che aveva in corpo. Finì con lo stare semplicemente a
guardare - nell’azzurra luce della lampade notturne - le suore polacche che
agivano discrete e silenziose intervenendo senza confusione in tutti i punti in
cui occorreva la loro opera. “Però... Dopo tutto quello che hanno sofferto e che
stanno soffrendo, anche per colpa nostra” rifletté commosso il giovane “pen-
sano solo a farci del bene! E lo fanno nonostante i divieti del nostro coman-
do... Si sono mai viste persone vivere così... fisicamente il Vangelo?” Poco alla
volta la sua commozione si trasformò in una sorta d’incontenibile giubilo: per-
ché, guarda, esistevano creature simili sulla terra! “Eccolo il modo di rispon-
dere al male che c’è nel mondo, eccolo, l’ho qui sotto gli occhi.”
Rimase in tale stato d’animo giubilante fino a che - tranquillizzatasi l’intera
corsia - le due suore furono sul punto d’andarsene; pensò allora che bisognava
ringraziarle, che occorreva dimostrare loro d’averle comprese. Già ma in che
modo se non ne conosceva la lingua? Beh, poteva quanto meno stringergli la
mano... Lo fece con una sorta d’impacciata solennità, dispiaciuto di non saper
fare di più.
A risolvere meglio la situazione provvide l’alpino di pelo rosso che - a sua
volta emozionato - nel sopravvenuto silenzio attaccò a cantare con voce con-
tenuta quella triste canzone alpina:
‘Cara suora, cara suora, te ne prego,
dai tu un fiore alla mia mamma,
che a domani non arrivo,
che a domani non arrivo...’
Le due suore gli s’avvicinarono e rimasero ad ascoltare in silenzio: capivano
la parola suora, capivano la parola mamma, e senza dubbio facevano
l’accostamento; Ambrogio le vide annuire più volte. Se ne andarono solo dopo
che il soldato ebbe terminata la canzone.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

La mattina seguente nella corsia d’Ambrogio entrò - vispo quel tanto che
glielo consentiva il suo temperamento - l’attendente Paccoi, il quale durante la
notte aveva seguitato a dormire senza accorgersi di nulla: «Signor tenente,
sapete chi è arrivato con gli ultimi feriti? Il Trémola è arrivato. Ve lo ricorda-
te? Quell’alpino che è venuto in estate alla nostra linea pezzi insieme col vo-
stro paesano. Non ve lo ricordate? Che rimasero a mangiare con noi? Il Tré-
mola.»
«Ah, il Tremolàda vuoi dire, di Monticello.»
«Ecco, proprio lui.»
«A che piano sta? È ferito?»
«Sì, è ferito, però non in modo grave. Sta nel piano sotto il nostro, l’hanno
colpito a un braccio: forse perde il gomito, ha detto, ma forse lo salva.»
«Ti ha detto qualcosa di Luca, del mio compaesano, il caporal maggiore Lu-
ca Sambruna?»
«No. Ha detto solo che gli alpini adesso sono tutti nella sacca.»
«Questo lo sapevamo già. Beh, forza, accompagnami da lui.» L’alpino Tre-
molada fu contentissimo di vederli; aveva il braccio destro tenuto teso e fa-
sciato da garze bianchissime: una pallottola, spiegò, gli aveva trapassato
l’avambraccio per il lungo, dal polso fino al gomito. «È successo il giorno 13,
quasi due settimane fa, al caposaldo sul Don. Non c’era una vera buriana, sol-
tanto un po’ di casino per una loro pattuglia, Luca s’è messo a sparare con la
‘pesante’ e io gli stavo innestando un caricatore, quando è arrivata una sven-
tagliata, ma di pochi colpi...» Si esprimeva come sempre in dialetto: «È stato il
13, sciur tenènt, e c’è chi dice che il 13 porta fortuna!»
«Beh, se ti ha evitata la sacca, potrebbe anche darsi.»
«Ah, forzi quell!» consentì il Tremolada, con aria poco convinta.
«Certo che tu la sacca l’hai schivata proprio di misura. Guai dover marciare
ferito a questo modo. Eri perduto in partenza, ti rendi conto?»
«No, perché? Se occorreva, mi mettevano su una slitta» disse fiducioso
l’alpino. «Al Morbegno i feriti non li abbandonano di sicuro. Però dal paese
dov’era l’ospedale, cioè Podgornoie - questo nome lo ricordo - il giorno 14 so-
no partiti dei camion che avevano portate le munizioni, e li hanno riempiti
con noi feriti leggeri e anche con quelli mica tanto leggeri. Forse se la sentiva-
no la buriana che stava arrivando.»
«Hai visto don Carlo Gnocchi?»
«Sì, proprio. È venuto all’ospedale mentre ci caricavano. ‘Cosa fai tu qui?’
m’ha detto. ‘È solo perché hai voglia d’andare in licenza a Monticello, eh?’ ‘Eh,
magari!’ gli ho risposto io. Lui allora m’ha detto di salutargli Monticello, che
da bambino (de fiö) ci veniva sempre con sua mamma per la festa di
sant’Agata. Ha perfino detta quella filastrocca, la conoscete no? ‘Monticello -
piccolo e bello - se fosse in piano - sembrerebbe un pezzo di Milano’ ‘e ’nveci lè
in muntagna - e ’l par ul cù (il fondo) de la cavagna’ gh’ho respondù mi, pro-
pri ’me ’n fiö. Oh, sciur tenent! Don Carlo» continuò il Tremolada «mi ha fatto
anche bere un sorso da una bottiglietta piatta. Oh, sciur tenent, che buntà! El
pareva che gh’avess nuaa dent ul Signur (sembrava ci avesse fatto il bagno il
Signore).»
Ambrogio e Paccoi rimasero a conversare con lui più di mezz’ora: non pote-
rono, ovviamente, cavarne lumi sulla situazione di Luca né del sottotenente
Galbiati di Nomana; l’alpino appariva però fiducioso - pur senza sbrufferia -
circa l’esito della tremenda vicenda nella quale gli altri alpini erano in quel
momento coinvolti.
“Perché lui non sa cos’è una sacca, non ha idea di cosa succede quando si è
accerchiati” si diceva nelle ore successive Ambrogio, con pessimismo. E si raf-
figurava Luca in marcia sulle sterminate distese di neve, col viso tirato per la
fatica e stranito dal freddo.
La notte allorché - come ogni notte - rivisse in sogno le vicende della pro-
pria sacca, ad esse si mescolò ripetutamente anche Luca: il quale a momenti
entrava nel sogno in divisa d’alpino e con la barba rossastra, come quando era
venuto in visita alla linea pezzi sul Don, a momenti invece in tuta da meccani-
co e senza barba, come nei giorni di pace quando lavorava nello stabilimento
di Nomana.

PARTE SESTA

CAPITOLO PRIMO

In realtà Luca stava trascorrendo quella notte (la nona della ritirata del cor-
po d’armata alpino) a Nichitovca, un grosso villaggio situato a più di duecento
chilometri di marcia dal suo vecchio fronte sul Don. Il giovane caporal mag-
giore alpino era, non occorre dirlo, orrendamente stanco, più ancora che per
la marcia e i continui combattimenti, per avere - sia pure alternandosi coi
compagni di squadra - portata fin qui sulle spalle la sua mitragliatrice.
Quando la sera prima se n’era sgravato davanti all’isba in cui adesso, dor-
miva, si era sentito talmente leggero che gli era sembrato di levitare nell’aria;
tale impressione non l’aveva lasciato neppure in seguito mentre, seduto sul
pavimento di terra dell’isba, divorava avidamente il suo rancio di fortuna
(miele misto a cera), né poi mentre, al pari degli altri alpini, rispondeva con
fede a due decine del rosario, recitate da un caporale mortaista in un latino
davvero arbitrario. Il giovane si era in seguito allungato sul pavimento per
dormire, molto pigiato tra gli uomini della sua squadra, perché se è vero che le
isbe di Nichitovca erano state dal comando della Tridentina suddivise tra i
reparti alpini e gli sbandati che li seguivano, è anche vero che esse bastavano a
malapena a contenere tutti. Ciò nonostante il comando avesse fatta proseguire
la robusta avanguardia della colonna alla volta di Arnautovo, un paesino si-
tuato qualche chilometro più avanti verso ovest.
L’isba di Luca era situata nell’estremità occidentale del paese, dalla parte di
Arnautovo dunque. Da questa località un po’ prima di mezzanotte erano co-
minciati a giungere insistenti rumori e lampeggiamenti di sparatorie; siccome
però dentro l’isba tutti dormivano sotto il peso della più dura stanchezza, nes-
suno se n’era accorto. Del resto se anche se ne fossero accorti non ci avrebbero
fatto troppo caso, perché il comando della Tridentina funzionava a dovere, e
quindi se necessario avrebbe provveduto: ci avrebbe insomma pensato il ge-
nerale comandante Reverberi, che tutti gli alpini della divisione chiamavano
con fiducia ‘nostro padre’ (Nelle loro semplici menti non esisteva un termine
più appropriato per esprimere il concetto di autorità; e giustamente, se ci si
consente di manifestare qui il nostro parere, in barba a tutte le scemenze, an-
che dotte, che nei decenni a venire si sarebbero conclamate contro il ‘paterna-
lismo’. )
Nell’isba faceva caldo; a parte quegli attutiti rumori provenienti
dall’esterno, non vi si udivano che i respiri e il russare degli alpini addormen-
tati, e il balbettio volonteroso del fuoco che ricordava quello delle baite di
montagna; proprio come nelle baite, dalle fessure della stufa si spandeva un
tenue chiarore. Nel corso della notte non s’era svegliato che qualche condu-
cente (era consuetudine inveterata dei conducenti d’interrompere - stanchi o
no - periodicamente il loro sonno) il quale - curando di non calpestare i dor-
mienti - era uscito all’aperto per dare un’occhiata ai suoi muli. L’aria esterna
entrava nei polmoni abituati a quella calda della casa talmente gelata da sem-
brare piombo fuso; i muli stavano tutti con la testa bassa e la coda tra le gam-
be davanti all’isba, immobili nel freddo spietato; anche presso le altre isbe
s’intravedevano nel buio muli e slitte. Dopo essersi guardato attorno se ci fos-
se qualcuno o qualcosa di sospetto (capitava infatti che gli sbandati rubassero
a volte qualche animale per divorarlo), il conducente s’era avvicinato ai suoi
muli, ne aveva controllata la coperta ghiacciata, li aveva magari accarezzati un
po’ sul collo e sul muso incrostati di brina dicendogli anche qualche ruvida
parola nell’orecchio per confortarli: brave bestie che facevano con infinita de-
dizione il loro dovere per aiutare gli alpini. Dopo di che era rientrato nell’isba,
aveva, se del caso, introdotto qualche pezzo di legno nella stufa, e sdraiatosi al
suo posto si era riaddormentato.

CAPITOLO SECONDO

Da un conducente appunto, che senza volerlo gli aveva messo un piede ad-
dosso, Luca venne bruscamente destato. Erano circa le tre: dopo un breve
scambio d’improperi e di scuse imbarazzate, mentre già stava per riaddor-
mentarsi il giovane caporal maggiore fu suo malgrado attirato dal rumore di
sparatorie che in quel momento giungeva da fuori con particolare insistenza:
anche ai vetri della piccola finestra si scorgeva un baluginare continuo. “Sem-
bra una buriana coi fiocchi” si disse con stanchezza il giovane. “Non sarà che i
battaglioni andati avanti ieri sera faranno la fine del Morbegno?” Non toccava
a lui preoccuparsene, d’accordo; il pensiero però della fine tragica e talmente
inaspettata del Morbegno, il suo battaglione, finì col rimescolargli il sangue al
punto da destarlo del tutto. Ancora non riusciva a capacitarsene... Il disastro
era stato così improvviso! Solo per un miracolo lui e la sua squadra erano
adesso ancora qui nella colonna alpina, e non morti o prigionieri come gli altri
uomini del battaglione. Se pure n’esistevano di prigionieri... Possibile però che
tutti, proprio tutti, gli uomini del battaglione fossero morti? Non gli pareva
possibile. Luca cambiò - con una certa difficoltà, stretto com’era tra gli altri
giacenti - di fianco. Certo il Giordano Galbiati a quest’ora doveva essere mor-
to, perché la sera che il Morbegno aveva sbagliato strada si trovava già in fin di
vita su una delle slitte ambulanza. Gli era andata male qualche ora prima, du-
rante la battaglia per sfondare a Sceliachino: il sottotenente Galbiati era di
quei pochi che avevano il fegato di farsi sotto ai carri armati con una botti-
glietta di benzina in una mano e la bomba Breda nell’altra: arrivato alla di-
stanza giusta lanciava la bottiglietta contro il carro, poi sulla benzina scara-
ventava la bomba. Ma a Sceliachino gli era andata male. Che problema - pensò
ora Luca - doverlo riferire a suo padre e a sua madre là a Nomana! Sospirò.
Nomana, i suoi famigliari, Giustina... Aveva in una tasca l’ultima delle lettere
quindicinali di Giustina, della sua Giustina... Quel bel viso onesto in cui,
quando rideva, si formavano due fossette, e il collo delicato, e i capelli castani
legati sulla nuca... Scriveva puntualmente una settimana a lui e una settimana
a suo fratello Stefano. Già, Stefano! Mio Dio, chissà s’era ancora vivo a
quest’ora, dopo che i bersaglieri erano stati come inghiottiti dall’avanzata rus-
sa... E l’Ambrogio Riva? Chissà anche l’Ambrogio a che punto si trovava! Il
Giordano Galbiati, beh, era senza dubbio morto. Se almeno quella schifosa
sera in cui il Morbegno aveva sbagliato strada, lui, Luca, si fosse sincerato be-
ne delle condizioni del compaesano, raccogliendone magari un’ultima parola
da riportare ai suoi... E pensare che la slitta su cui il Giordano giaceva in fin di
vita gli era passata a pochi metri! Luca aveva presente ogni particolare: le slit-
te ambulanza venivano come al solito in coda al battaglione, custodite da un
cappellano, don Caneva. Lui, Luca, stava con la sua squadra fermo sulla pista
all’altezza di un ponte di legno, con l’ordine di proteggere il passaggio degli
sbandati dal possibile ritorno offensivo d’un nucleo di partigiani messi in fuga
dalla sua compagnia; quando era transitato don Caneva coi feriti, Luca aveva
lasciata momentaneamente la mitragliatrice e gli s’era affiancato: «Il tenente
Galbiati è ancora vivo?» gli aveva chiesto. Senza fermarsi il cappellano aveva
fatto segno di si. «Sei del suo paese, tu?» aveva domandato.
«Sì, appunto.»
«Dì ai suoi che si è confessato da buon cristiano.»
«Perché? Non ce la farà?»
Don Caneva aveva fatto segno di no con la mano. Luca, mortificato, non
aveva lì per lì saputo far altro che tornare alla mitragliatrice (“E invece avrei
dovuto chiedergli di farmelo vedere!”) Già, ma come poteva in quel momento
sapere che quelle erano le ultime ore del battaglione, immaginare che nel cor-
so di quella notte il Morbegno sarebbe stato annientato? Lui e la sua squadra
si erano salvati soltanto per quel fatto d’essere rimasti indietro al ponte: una
specie di miracolo! Luca cambiò un’altra volta di fianco; fuori, verso Arnauto-
vo, le sparatorie continuavano.
Quanti altri casi tremendi però, nel corso della ritirata! Il giovane ricordò
quel combattimento così difficile a Malacaieve, dov’erano rimaste sulla neve
delle andane di morti: i morti come l’erba... Soprattutto russi, è vero, ma an-
che di alpini quanti. E in quell’altro paese - come si chiamava? - in cui la lotta
s’era svolta con incredibile furore nella tormenta, mentre tutti erano come
ciechi? E a... Livigno? cioè in quel paese lunghissimo, formato da una sola fila
di isbe costruite lungo la strada, per cui al vederlo da lontano gli alpini aveva-
no detto: «Guarda come somiglia a Livigno», e la cosa era sembrata a tutti di
buon auspicio. Invece anche là che dura lotta per passare! Il giovane ricordò
anche quando era apparsa sulla destra quella strana colonna, che non si capi-
va chi fossero: un cannone da montagna aveva sparato un colpo, loro però non
rispondevano e agitavano le braccia e facevano dei segni, poveri cristi, e infatti
si trattava di ungheresi - alcune migliaia - rimasti senza munizioni e scampati
chissà come ai russi: s’erano poi messi al seguito della Tridentina insieme con
gli altri sbandati. E la sparatoria dei partigiani in quel paese dei mulini a ven-
to? E quel gran casino tra gli sbandati a Opit, forse il secondo giorno della riti-
rata, quando...
Noi non possiamo però continuare a seguire a questo modo i ricordi che si
accavallavano senza ordine nella mente di Luca: per darne ragione al lettore e
rendere la situazione in cui adesso egli si trovava, ci è necessario riferire con
un minimo d’ordine le vicende della sua ritirata, tanto diversa da quella dei
bersaglieri e delle truppe ordinarie. Lo faremo con la maggior brevità possibi-
le.

CAPITOLO TERZO
Quando a metà dicembre il nemico aveva sfondato davanti a Boguciar, tra-
volgendo gli altri due corpi dell’armata italiana schierati sul Don con fronte a
nord, il corpo d’armata alpino s’era trovato col fianco destro scoperto. Come
sappiamo esso era schierato sul fiume appena più a monte della sua grande
ansa, dunque con fronte a est. Gli alpini non avevano potuto far altro che to-
gliere dal centro del loro schieramento la divisione Julia, e disporla nella neve
sulla destra, dove si era venuto a formare il vuoto. Più a sud della Julia era
accorso a tamponare in qualche modo il grande vuoto il XXIV corpo corazzato
tedesco, unica riserva disponibile (malgrado il nome si trattava d’appena una
trentina di carri, nonché di due divisioni tedesche di fanteria già molto prova-
te). Appunto contro la Julia e contro questo corpo si era andato subito svilup-
pando il nuovo sforzo nemico, condotto non già - come si credeva - dalle forze
entrate a Boguciar, ma da enormi forze fresche costituite da due corpi
d’armata corazzati (circa trecentocinquanta carri), da un corpo d’armata di
fanteria, e da un corpo di cavalleria. Per un intero feroce mese la Julia - atte-
stata all’aperto nella neve — aveva resistito agli attacchi delle fanterie russe
senza arretrare; gli attacchi si erano susseguiti pressoché senza tregua: davan-
a
ti ad alcune compagnie - come la 59 del battaglione Vicenza, la cosiddetta
‘compagnia dei frati’ - si era arrivati a contare in un sol giorno più di quattro-
cento cadaveri nemici. Ciononostante in nessun punto la divisione dal grande
nome aveva ceduto il solco nella neve largo pochi metri e lungo una ventina di
chilometri che costituiva il suo nuovo fronte. Gli abruzzesi del battaglione
L’Aquila, insistentemente attaccati, non avevano ceduto nemmeno dopo aver
perso tre uomini su quattro: di tanto in tanto fin nei più lontani caposaldi al-
pini sul Don - dove regnava un’inquieta calma - giungeva qualche notizia
dell’incomparabile valore con cui i montanari abruzzesi seguitavano immuta-
bilmente a resistere.
Il XXIV corpo tedesco invece non aveva potuto contenere le forze corazzate
nemiche, troppo superiori, e nel giro di qualche settimana era stato pressoché
annientato; il suo comandante, generale Wandel, era caduto in combattimen-
to, il successore generale Jarr, quando il corpo d’armata era rimasto senza più
carri armati, si era suicidato, il successore di questi, generale Eibl, si era infine
ritirato coi massacrati resti delle sue truppe dietro il bastione costituito dalla
Julia. Non gli rimanevano che pochissime armi efficienti, tra cui quattro can-
noni semoventi blindati, o panzer jäger, (che ricordiamo perché dovevano
rivelarsi straordinariamente preziosi una volta inquadrati con gli alpini) e sei
o settemila uomini logoratissimi e - fatto inconsueto per i tedeschi - pressoché
disarmati.
Intanto, sempre nel corso di quel mese, sull’altro fianco dello schieramento
alpino, ossia a nord, il nemico aveva catapultato avanti forze ancora più im-
ponenti di quelle che operavano a sud, cioè la sua Quarantesima armata e il
XVIII corpo d’armata corazzato, travolgendo un ampio tratto del pur resisten-
te fronte ungherese. I due blocchi di forze russe, quello di nord e quello di sud,
si erano con manovra convergente saldati a tergo del corpo d’armata alpino.
Cosicché quando il 17 gennaio il comando dell’armata italiana aveva via radio
dato agli alpini l’ordine di ripiegare, li aveva anche avvertiti che i russi erano
già arrivati un centinaio di chilometri alle loro spalle ed erano tuttora in mar-
cia verso ovest.

***

Luca aveva lasciato il suo caposaldo sul Don la sera del 17 gennaio (nello
stesso giorno cioè in cui Ambrogio era uscito, più a sud, dalla propria sacca)
inquadrato nel suo battaglione, il Morbegno, che al pari degli altri della divi-
sione Tridentina era in perfetta efficienza. C’era nelle file alpine un elevato
numero di muli, quasi tutti in buono stato, che trasportavano su slitte le mu-
nizioni e gli altri materiali, tranne quelli d’immediato impiego i quali venivano
portati a spalla dagli uomini; Luca procedeva con la mitragliatrice (20 chilo-
grammi), di cui era tiratore, sulle spalle.
Nel corso di quella notte atrocemente fredda, e della giornata successiva 18
gennaio, i formidabili battaglioni della divisione Tridentina si erano andati
radunando a Podgornoie, grosso borgo di retrovia; qui il giovane aveva trovato
un concentramento inaspettato e incredibile non solo d’alpini e di slitte e mez-
zi da soma, ma anche di unità motorizzate di retrovia, nonché una massa di
sbandati che si diceva assommare a quarantamila uomini, formata da italiani
appartenenti ad altre divisioni, ungheresi, tedeschi in divisa bianca, romeni.
Qualche deposito di materiali ardeva, di altri era in corso un selvaggio sac-
cheggio: ciononostante anche delle unità non alpine qualcuna faceva tuttora il
proprio dovere, tra queste l’artiglieria antiaerea che abbatté un ricognitore
nemico (uno di quei malefici ricognitori che nei giorni successivi avrebbero
tenuto sotto controllo la colonna, sorvolandola periodicamente ad alta quota).
Finché era rimasto a Podgornoie il giovane aveva dunque avuto sotto gli occhi
uno spettacolo non dissimile da quello presentato dalle retrovie delle truppe
ordinarie al momento dell’abbandono del fronte: sopra tutto l’aveva colpito il
caos e il materiale disseminato sulla neve dappertutto. Gli alpini però non
s’erano lasciati contagiare dal disordine; dopo avere atteso con calma l’arrivo
dei loro plotoni rimasti secondo le regole in trincea come copertura, verso sera
avevano cominciato a sfilare dal borgo, ogni battaglione alternato a un tetra-
gono gruppo d’artiglieria da montagna, dando così inizio alla grande marcia
verso ovest; da quel momento il disordine era rimasto indietro.

***

Alpini e artiglieri da montagna erano anche nell’aspetto diversi sia dai ber-
saglieri che dalle truppe ordinarie. Fisicamente solidi a causa della vita dura
della montagna cui erano abituati fin da bambini, ma del tutto alieni da atteg-
giamenti arditistici, davano a chi li osservava un’impressione di forza insieme
rude e tranquilla. Sebbene non inclini all’aggressività (in Grecia questo fatto
aveva sul principio creato seri grattacapi ai comandi) essi non erano disposti a
cedere alla forza altrui, perché per un uomo, anche per il più modesto, cedere
alla forza non è dignitoso. Il loro notorio spirito di corpo - molto evidente - era
una naturale prosecuzione di quello paesano e di vallata, per il quale si senti-
vano alla fine tutti membri d’un’unica grande famiglia; aggiungendosi la spe-
rimentata fiducia che ogni alpino riponeva nei propri compagni (stava qui
senza dubbio la loro risorsa maggiore) essi tendevano in ogni circostanza a
rimanere uniti; e se per caso le vicende del combattimento ne disunivano
qualcuno, questi appena poteva provvedeva da sé a riunirsi ai suoi.
Gente dal semplice cuore, gli alpini erano inoltre tutto meno che furbi (se
almeno in questo gli altri italiani gli somigliassero un po’!) Come di norma il
montanaro, ciascuno di loro faceva molto conto dei propri modesti strumenti
(dunque anche della propria arma) pronto perfino a sacrificarsi per non per-
derli. E tuttavia non avevano affatto un culto per i mezzi (come l’hanno ad
esempio i tedeschi, che pure sono soldati indubbiamente valorosi): agli alpini
di armi ne bastava un minimo, al limite quelle individuali e di squadra, o poco
più. Perciò anche una volta rimasti, a causa della situazione, privi dei loro
mezzi più potenti, essi non si sarebbero scoraggiati. Non vogliamo idealizzarli,
ma ci sembra di poter affermare che nell’attuale civiltà della materia e delle
macchine, questa gente che - senza forse rendersene conto - si sosteneva so-
prattutto sullo spirito, costituiva una grande eccezione. Perfino quando gli
capitava d’essere sconfitti, essi in cuor loro (a motivo del dovere compiuto)
non si sentivano propriamente tali; d’altra parte sconfiggerli era molto diffici-
le.

***

La sera del 18 gennaio dunque la Tridentina (montanari lombardi) aveva


lasciata la propria zona di radunata di Podgornoie. Appena più a sud s’era
messa in marcia su un itinerario in qualche modo parallelo la Cuneense (mon-
tanari piemontesi) e più a sud ancora l’altra divisione del corpo d’armata alpi-
no, la provatissima Julia (montanari veneti e gli sparuti resti degli abruzzesi).
Le vicende di queste ultime due divisioni non rientrano nella nostra storia; ci
limiteremo perciò a dire che anch’esse, al pari della Tridentina - in una tempe-
ratura oscillante tra i 25 e i 44 gradi sotto zero (gennaio è più freddo di di-
cembre) - avrebbero per aprirsi la strada sostenuto innumerevoli combatti-
menti col nemico.
Ma circoscriviamoci alla colonna della Tridentina, in cui marciava il nostro
Luca. Già il giorno dopo la partenza da Podgornoie, ossia il 19 gennaio, essa
aveva trovato le piste ingombre di nemici, tanto che il Quinto reggimento si
era dovuto aprire combattendo la strada a Scororib e il Sesto a Repievca. In
quest’ultima località i russi - numerosi e appoggiati da carri armati - avevano
con una pericolosa manovra sul fianco tentato di fare a pezzi la colonna a ter-
go dei battaglioni attaccanti: dalla colonna gli era allora uscito incontro il bat-
taglione del genio reggimentale, che li aveva con una terribile mischia sbara-
gliati, rimettendoci però il sessanta per cento dei propri effettivi. Dopo Fazio-
ne i genieri alpini feriti erano stati caricati sulle slitte (chi ridirà la loro soffe-
renza da quel giorno, sulle slitte trabalzanti senza requie nel clima glaciale?) e
quelli ancora efficienti riuniti in un’unica compagnia, che aveva ripresa la
marcia. Questo era stato il primo sfondamento.

***

All’alba del giorno dopo, 20 gennaio, mentre convergevano su Postoiali, le


avanguardie dei due reggimenti avevano trovato un grande sbarramento russo
organizzato: i battaglioni mossi all’attacco avevano dovuto sostenere una bat-
taglia difficile, molto dura, contro nemici più numerosi. A mezzogiorno co-
munque la via era aperta, e questo era stato il secondo sfondamento. Contem-
poraneamente alla battaglia, un attacco nemico alle spalle contro l’enorme
massa degli sbandati - concentrati in quel momento dentro e intorno al borgo
di Opit - era stato respinto da un’unica compagnia alpina che il comando di
divisione aveva provvidamente disposta di retroguardia.
Da Postoiali in poi la Tridentina e gli sbandati che la seguivano avevano
proseguito su un’unica colonna. Per la sera si contava di far sosta a Novo Car-
covca: il comando aveva infatti stabilito che ogni ventiquattr’ore le truppe
combattenti - e nel limite del possibile anche gli sbandati - riposassero nelle
isbe al caldo per almeno qualche ora, e fin adesso il piano era stato rispettato.
A Novo Carcovca però, dove si giunse dopo calate le tenebre, c’erano in attesa
due battaglioni russi sostenuti - questo era l’ostacolo maggiore - da numerosi
carri armati. La battaglia era durata fino a mezzanotte, in una farandola infer-
nale di carri giostranti nel buio, contro i quali i piccoli cannoni anticarro ita-
liani e i quattro semoventi tedeschi - che ormai procedevano sempre con le
truppe di testa - sparavano a zero. Nel pieno della battaglia era arrivata da
nord una nuova colonna russa attirata forse dagli spari: prima che si saldasse
coi suoi le era andato incontro un battaglione alpino che l’aveva fermata e ri-
buttata indietro; a mezzanotte il borgo era occupato: questo fu il terzo sfon-
damento.
Vennero concesse alle truppe soltanto due ore di sonno nelle isbe di Novo
Carcovca. Partenza alle due del 21 gennaio. Dopo poche ore si sollevò una
tormenta: i cappotti, gli zaini, gli elmetti degli uomini in marcia s’incrostarono
di ghiaccio, il vento attraversava la crosta di ghiaccio e le vesti e mordeva la
carne, la neve minuta insisteva a picchiare sugli occhi come una frusta, nessu-
no - nel buio minaccioso - riusciva a vedere più in là di qualche passo, i feriti
sotto le coperte rigide come lamiere perdevano i sensi e si congelavano, i muli,
interamente rivestiti di ghiaccio, arrancavano con lo stesso forsennato impe-
gno degli uomini.
Alle prime luci apparve nel baluginare della tormenta Limarevca, villaggio
dalle isbe sparse sul dorso di una grande collina: erano zeppe di nemici, i quali
però non attendevano la colonna; per fortuna qui non c’erano carri armati.
Stringendo i denti le martoriate compagnie alpine avevano assunta la forma-
zione di combattimento e con una serie di successivi scontri quasi alla cieca
avevano scacciato i nemici, insediandosi nel villaggio al loro posto. Gli sban-
dati in questo luogo dovettero per la maggior parte rimanere all’aperto, nella
tormenta che seguitava a infuriare e durò per l’intera giornata.
Alla partenza, ch’ebbe luogo appena sceso il buio, nella colonna non c’erano
più autocarri né autocarrette: i primi erano stati abbandonati il giorno avanti
per ordine del comando e la loro benzina trasferita alle autocarrette; queste
ultime, coi serbatoi ormai vuoti, vennero lasciate qui. I feriti che non erano
morti per gli strapazzi però, e le munizioni, seguitavano a venire portati al se-
guito della divisione sulle slitte.

***

Il 22 gennaio un po’ prima dell’alba apparve Sceliachino, grosso villaggio si-


tuato in un avvallamento: in una scodella, aveva pensato Luca al vederlo. Il
suo reggimento, il Quinto (battaglioni Morbegno, Tirano ed Edolo) marciava
d’avanguardia: i nemici erano schierati in attesa dietro lunghi ripari di neve,
disponevano purtroppo di numerosi carri. Nella colonna ci si cominciava a
rendere conto che in ogni località cui giungevano arterie da nord o da sud bi-
sognava attendersi un importante sbarramento nemico. La battaglia - molto
manovrata - era durata tutto il giorno. L’aveva risolta il battaglione Edolo,
nappine verdi, con una faticosissima, perfetta manovra d’aggiramento sulla
sinistra. Questo fu il quarto sfondamento. Il paese, attraversato dalla colonna
sul far della sera, appariva disseminato di nemici morti e d’artiglierie russe
abbandonate: peccato, pensavano gli alpini, non potersi portare al seguito al-
meno quelle anticarro.
Prima che le tenebre scendessero del tutto entrò in vista una piccola colon-
na isolata sulla neve: altri nemici forse? No, guarda c’erano dei muli... Si trat-
tava d’un nucleo di superstiti della divisione Julia, che recarono una terribile
notizia: la valorosa Julia, la divisione dal grande nome, non esisteva più. Il
giorno 19 la sua colonna composta di uomini già sfibrati dal mese d’incessanti
combattimenti nella neve, aveva trovato nella zona di Novo Postialovca uno
sbarramento di fanterie e carri russi invalicabile. I battaglioni e poi i resti dei
battaglioni, appoggiati finché c’erano state munizioni dal fuoco dei piccoli obi-
ci da montagna, si erano succeduti negli assalti cercando furiosamente di
sfondare: trenta ore era durata la battaglia con l’apporto anche di forze inviate
dalla Cuneense, e alla fine delle trenta ore la Julia non esisteva più: i suoi al-
pini erano rimasti sulla neve, gli obici da montagna erano stati schiacciati dai
carri nemici insieme coi loro valorosi artiglieri e coi muli fedeli; solo alcune
unità e nuclei superstiti erano riusciti ad allontanarsi verso nord, con l’intento
di raggiungere la Cuneense o la Tridentina; non erano molti i superstiti co-
munque: un grande pianto ci sarebbe presto stato nei casolari veneti e friulani
e dell’Abruzzo gentile.
Gli alpini della Tridentina - tra i quali la ferale notizia cominciò subito a dif-
fondersi - continuarono con cuore pesante la marcia in direzione di Landomi-
rovca, dove s’intendeva far sosta.
Il battaglione Morbegno (nappine bianche, il battaglione di Luca) dopo ave-
re quel giorno preso gagliardamente parte alla battaglia di Sceliachino mar-
ciava di secondo scaglione, un po’ staccato dal reparto che lo precedeva: a un
bivio sbagliò strada, imboccò la pista di destra, in direzione di Varvarovca. In
questa località era concentrata una grande formazione russa con molti carri
armati, inviata probabilmente dal comando nemico per tagliare in due la Tri-
dentina: il Morbegno che, per quanto intontito dalla stanchezza, era tuttora in
buona efficienza, dispose le sue compagnie in formazione di combattimento e
si buttò avanti. Circondato sul retro e attraversato a ripetizione dai carri nemi-
ci seguitò ad attaccare, s’incuneò nello schieramento avversario, si batté du-
ramente su quattro fronti, conquistò a costo di perdite terribili ancora e anco-
ra metri di terreno sotto un concentramento sempre più micidiale di fuoco.
Infine, realizzato che non gli sarebbe stato possibile passare, il battaglione
tentò di riaprirsi la strada all’indietro, ma senza riuscirvi perché anche qui
ormai i nemici erano troppo superiori: ad onta degli indicibili sforzi neppure
un uomo poté passare. Così anche per gli alpini dalle nappine bianche la mar-
cia verso ovest - verso la vita, come essi nella loro semplicità la chiamavano -
si era conclusa: non ci sarebbero più state nappine bianche nella grande co-
lonna in ritirata; anche nei casolari della Valtellina occidentale e della monta-
gna comasca si sarebbe presto levato un grande pianto. La grossa formazione
nemica tuttavia, sebbene vittoriosa, aveva ricevuta una mazzata tale che rima-
se ferma sul posto, non attaccò la colonna della Tridentina.
Come abbiamo detto Luca al momento dell’attacco si trovava con la sua
squadra indietro lungo la pista, e fu così salvo per caso; raggiunse, sempre
portandosi la mitragliatrice sulle spalle, la coda della grande colonna dappri-
ma, e il giorno dopo l’altro battaglione valtellinese, il Tirano (nappine rosse),
in un reparto del quale la sua squadra venne incorporata.

***

Quella notte tra il 22 e il 23 gennaio la Tridentina - che aveva respinto an-


che un attacco di carri proveniente da sinistra (forse la ganascia meridionale
della tenaglia che avrebbe dovuto tagliarla in due?) - sostò per tre ore soltanto
a Landomirovca, i feriti non vennero neppure scaricati dalle slitte. Ripartì
prima dell’alba del 23 gennaio, da nord aveva cominciato a soffiare un terribi-
le vento che rivestì di pulviscolo ghiacciato il lato destro di ogni uomo, di ogni
mulo, d’ogni slitta. Avanti, avanti. A Covalev la strada è però sbarrata da carri
e fanteria, si forma nella burrasca il ‘telefono umano’: «In testa i pezzi!» Ac-
corrono i piccoli cannoni da 47 e gli obici da montagna dal tiro curvo e aprono
subito il fuoco: un carro è colpito, un altro, un altro ancora, non vengono per-
forati ovviamente, però se ne vanno... Sotto con le compagnie dei battaglioni
disposte a scacchiera nella neve: la lotta è dura ma breve, i russi corrono verso
i loro automezzi e abbandonano Covalev. Comincia a nevicare, poi si leva una
bufera vera e propria, la seconda bufera della ritirata; l’intento è di arrivare a
far tappa a Nicolaievca (quella che in seguito, nei discorsi degli alpini, verrà
chiamata ‘Nicolaievca piccola’, per distinguerla dall’altra, più grande, dove si
sarebbe combattuto tre giorni dopo). Ci si arriva che manca forse un’ora al
buio: Nicolaievca piccola si trova in una conca grigia coronata da alberi spogli
simili a scheletri, tra le sue isbe si ergono due mulini a vento che sembrano i
custodi degli scheletri, l’abitato è zeppo di nemici che - preavvertiti
dall’osservazione aerea - sono in attesa della Tridentina; si sviluppa un’aspra
battaglia di quelle ‘per andare a dormire’, come le chiamavano gli alpini, e ha
luogo un nuovo sfondamento, il settimo; anche stanotte si dorme al caldo.
(Quel giorno, senza che nessuno nella colonna lo sapesse, il bollettino di guer-
ra numero 973 del Comando Supremo italiano aveva annunciata la perdita di
Tripoli: le cose in Africa non andavano meglio che in Russia.)

***

24 gennaio. Si riparte da Nicolaievca piccola prima dell’alba, il freddo di


questa mattina supera ogni immaginazione, si procede sempre verso ovest;
ancora una volta passano altissimi sulla colonna aerei ricognitori nemici. Alle
dieci ecco il villaggio di Malacaieve: anche qui i russi sono in attesa, dietro le
loro fanterie c’è uno schieramento d’artiglieria che subito apre il fuoco; sulla
destra, in una grande boscaglia, c’è uno schieramento di carri armati. In testa
alla colonna alpina marcia il Sesto reggimento: con quanta più rapidità possi-
bile le compagnie del Vestone e del Val Chiese (l’altro battaglione del Sesto, il
Verona, è ormai semidistrutto) assumono la formazione di combattimento e
avanzano, i piccoli anticarro da 47/32 e gli obici da montagna piazzati al bor-
do della strada sparano sui carri e sui cannoni russi, i tre superstiti pezzi se-
moventi tedeschi, circondati dagli alpini che li tutelano come la pupilla dei
loro occhi perché - unici - sono in grado di sfondare senza problemi le corazze
dei carri, avanzano sparando: uno, con grande disappunto degli alpini, è cen-
trato da un colpo nemico e brucia, gli altri vanno avanti, anche diversi carri
russi cominciano a bruciare. Molto duro fu il combattimento di Malacaieve,
numerosi alpini caddero o rimasero feriti, nel villaggio furono contati seicento
cadaveri nemici insieme a dodici pezzi d’artiglieria e a decine di mitragliatrici
e di mortai abbandonati; gli alpini raccolgono solo i parabellum e le relative
munizioni che, nelle ultime giornate di sfondamento, saranno una delle armi
da loro più usate. Nel paese ci sono fusti pieni di benzina, una vera benedizio-
ne per i mezzi cingolati tedeschi.
Avanti subito verso Romancovo, la temperatura scende ancora, tocca i 40
sotto zero, c’è di nuovo un principio di bufera. Si arriva alla borgata nel colmo
della notte: risulta da poco abbandonata dal nemico che nella fretta
d’andarsene vi ha lasciato molti rifornimenti di viveri. C’è anche del foraggio -
vero foraggio - per i muli, i quali finora hanno dovuto sostentarsi con le erbac-
ce sporgenti dalla neve (raccolte per loro dai conducenti) e con la paglia che fa
da tetto alle isbe. I conducenti ringraziano con grande riconoscenza
sant’Antonio abate loro patrono (quello del porcello, che dunque è anche del
mulo) e gli chiedono scusa per le innumerevoli bestemmie con cui lo hanno
finora sollecitato. A Romancovo non solo i reparti combattenti, ma anche tutti
o quasi gli sbandati possono riposare nelle case al caldo.

***

Il 25 gennaio partenza da Romancovo in piena luce con meta Nichitovca, c’è


il sole, si attraversa una zona fornita di viveri, soprattutto di miele, perché
questi sono villaggi d’apicultori. Davanti a Nichitovca altro combattimento del
tipo ‘per andare a dormire’, si può entrare nel paese, ancora parzialmente in-
festato di nemici, appena prima che scendano le tenebre. È questa la località
in cui abbiamo lasciato Luca. Come s’è detto il comando della Tridentina qui
aveva dato ordine che l’avanguardia (costituita dai battaglioni Vestone e Val
a a
Chiese, dai due superstiti cannoni semoventi tedeschi, e dalla 32 e 33 batte-
ria del gruppo Bergamo) proseguisse per Arnautovo, un paesino situato qual-
che chilometro più avanti.

***

Siamo così tornati alla notte sul 26 gennaio; riportiamoci nell’isba in cui
giaceva Luca.
Dopo essere andato e riandato con la mente a vari episodi della ritirata, il
giovane si era a un tratto imposto di troncare i suoi pensamenti: “Perché pen-
sare non serve, anzi mi fa danno, visto che mi tiene sveglio: mentre io devo
dormire se voglio arrivare a Nomana, da mia madre e da Giustina... La sveglia
è alle sei, poi bisognerà attraversare quel paese dove - secondo dicono quelli
del comando che hanno la radio - dovremmo incontrare l’ultimo sbarramento
russo. Chissà se sarà davvero l’ultimo... Una cosa però è certa: che là ci sarà
buriana grossa. Probabilmente queste sparatorie che si sentono adesso ne so-
no già un segnale... Dunque io devo a ogni costo riposarmi, devo dormire”.
Finì in effetti col riaddormentarsi.

CAPITOLO QUARTO

Ma venne ridestato dopo appena un’ora da grida all’esterno dell’isba; un al-


pino del comando di compagnia batteva rumorosamente col calcio del fucile
alla porta, gli fu aperto da qualcuno, entrò e urlò: «Sveglia, muoversi, si parte.
Fuori tutti. Il Tirano va via.» Ancora mezzo addormentati gli alpini si affretta-
rono sacramentando ad infilarsi le scarpe, a prendere le armi, le munizioni, le
altre loro poche cose; cominciarono a uscire. Anche intorno alle isbe più vicine
si scorgeva movimento, il solito movimento che precedeva ogni partenza: si
caricavano i feriti sulle slitte, si attaccavano i muli, i plotoni e le compagnie
s’incolonnavano; il resto del paese sembrava però ancora avvolto nel sonno.
«Cosa succede? Come mai gli altri dormono ancora?»
«Che ora è?»
«Le quattro, sono appena le quattro.» Gli alpini dalla nappina rossa parla-
vano tutti nel dialetto della Valtellina, abbastanza simile a quello di Nomana,
dunque al milanese.
«Ma la partenza non era fissata alle sei?»
«Soltanto il Tirano va via? Perché? Cosa succede?»
«Dove boia andiamo?»
Qualche ufficiale attendeva sulla pista, senza quasi intervenire, che i reparti
s’incolonnassero da soli; altri stavano facendo il giro delle isbe per assicurarsi
che nessuno vi rimanesse addormentato. A chi li interrogò diedero la spiega-
a
zione, che subito si diffuse: «La 33 batteria del Bergamo, qui a pochi chilo-
metri da noi, ad Arnautovo, è circondata su tre lati e non ce la fa più. Dobbia-
mo andare a darle una mano.»
In effetti dalla direzione di ovest, da Arnautovo, giungeva un crepitare inin-
terrotto di colpi, il lampeggiamento nel buio era continuo.
a
«Ah, la 33 del Bergamo.»
a
«Ma non ci sono il Vestone e il Val Chiese con la 33 ?»
«Si vede di no.»
«Dove sono andati quelli?»
«Mah.»
Pur dispiaciuti di avere - stanchi com’erano - dovuto interrompere il sonno
prima degli altri, gli alpini furono presto in cuor loro tutti quanti d’accordo:
non si potevano lasciar soccombere quelle facce di palta di artiglieri bergama-
schi.
Nel giro d’una decina di minuti o poco più il comando di battaglione, due
compagnie e il reparto cannoni anticarro poterono mettersi in marcia; la ri-
manente compagnia, accantonata a metà paese, era stata avvertita e si sarebbe
a sua volta messa in marcia al più presto; ad essa si sarebbe inoltre aggiunta -
così si diceva - una batteria da montagna.

***

La pista verso Arnautovo, in leggera salita, attraversava grandi frutteti spo-


gli incrostati di brina, esilmente illuminati dal plenilunio. Luca procedeva por-
tando ancora una volta sulle spalle la mitragliatrice, il suo aiutante il treppie-
de, gli altri dieci o undici uomini della squadra (uniche nappine bianche tra le
nappine rosse del battaglione Tirano - ma nessuno faceva caso alle nappine in
quell’ora) li seguivano da vicino, ciascuno chiuso nei propri pensieri.
Dopo la salita ecco una lunga discesa, poi una nuova lunga salita, sul colmo
a
della quale doveva trovarsi la 33 batteria del gruppo Bergamo che bisognava
soccorrere, perché là intorno c’era buriana: nel buio si vedevano le pallottole
traccianti russe convergere da tre lati, ma soprattutto da sinistra, su quel col-
mo, gli artiglieri da montagna rispondevano con energia, ogni tanto la vampa-
ta di uno dei loro cannoni riempiva di luce le tenebre, il frastuono era notevo-
le. Per ordine del comandante di battaglione maggiore Maccagno - uomo di
pochissime parole - al piede della salita la compagnia di coda entrò senz’altro
nella neve verso sinistra, assumendo subito la formazione di combattimento a
scacchiera. Luca udì il suo comandante capitano Briolini dare l’ordine: «Avan-
a
ti 49 , compagnia di Dio!»
Il reparto comando di battaglione nel quale la squadra di Luca era incorpo-
rata, i pezzi anticarro da 47 e l’altra compagnia, comandata dal capitano
Grandi, un ufficiale modesto quanto risoluto, proseguirono invece con cautela
lungo la pista, nella speranza d’arrivare alla batteria senza essere notati.
Sul colmo c’era un pugno di isbe - era tutta qui Arnautovo? - tra le quali si
scorgevano slitte e muli, non pochi morti e congelati, con qualche gamba pun-
tata in aria o i bianchi denti scoperti in tragiche smorfie. I quattro cannoni
erano piazzati davanti al paesucolo, intorno ad essi c erano molti cadaveri, gli
artiglieri da montagna superstiti, in tremenda tensione, erano appostati qua e
là su tre lati nella neve: si difendevano coi moschetti e le armi automatiche, e
con l’unico cannone rimasto efficiente. Un artigliere giaceva prono su uno dei
cannoni fuori uso: un colpo nemico, dopo averlo trapassato, aveva formato
con la lana del cappotto uno strano fiore rosso sulla sua schiena.
«Siete arrivati finalmente» disse, ai primi alpini giunti fino a lui, uno dei
serventi al pezzo: «Noi è da mezzanotte che la tiriamo coi denti». Parlava in
dialetto bergamasco.
«Beh, adesso c’è qui il Tirano a darvi una mano.»
«Era ora.»
«La raspanta l’à spait ön albös (la gallina ha fatto l’uovo)» commentò dalla
sua postazione di neve un pachidermico caporale d’artiglieria, voltando appe-
na la testa.
Mentre il maggiore Maccagno e il capitano Grandi confabulavano con un
ufficiale della batteria subito accorso (si trattava dell’unico illeso), Luca, scari-
catosi della sua arma, scambiò qualche parola con un portaferiti seduto contro
il muro di un’isba.
«Un po’ ancora che aspettavate, non trovavate più nessuno vivo» gli disse
questi. I morti sulla neve tutt’intorno testimoniavano tragicamente la fonda-
tezza delle sue parole.
«Ma con voi non c’erano il Vestone e il Val Chiese?» domandò Luca, accuc-
ciandosi sui talloni accanto a lui.
«Quelli ieri sera non si sono fermati qui, tranne gli ultimi plotoni del Val
Chiese per fortuna. Tutti gli altri sono andati avanti perché qui non c’era posto
per dormire.»
«Ah, ecco, adesso capisco. Beh, vedrete che appena il Tirano si fa sotto
quelli mollano.»
«Speriamo, però non è facile, perché sono tanti ma tanti.»
A sottolineare le sue parole piombò tra le isbe una salva di colpi di mortaio.
Per vero miracolo nessuno dei nuovi arrivati - tutti fermi in attesa - rimase
colpito.
«Dov’è il vostro capitano?»
«Il tenente Capriata vuoi dire? Perché da ieri a mezzogiorno è lui che co-
manda la batteria. Cioè la comandava, in quanto adesso sta lì nell’isba infer-
meria; è rimasto ferito, purtroppo.»
«Ah.»
«È stato lui a mandare indietro quei due sciatori a chiamarvi.»
«Due sciatori? Io non li ho visti. E gli altri ufficiali?»
«Tutti colpiti, tranne Bughi. Ci rimane soltanto un pezzo, lo sai?»
Il portaferiti indicò il pezzo. Dal quale proprio in quel momento partì un
colpo, con un lampo accecante. Immediatamente i serventi lo ricaricarono,
quindi s’inginocchiarono nella neve, stretti dietro lo scudo. “Guarda, pare un
quadretto” pensò Luca per un istante, un quadretto colorato di rosso dal ri-
verbero di un’isba che ardeva. In risposta al colpo giunsero da parte dei nemi-
ci sciami di pallottole, traccianti e no.
«Mi sa che quelli presto vengono all’assalto di nuovo» disse il portaferiti.
Il maggiore, dopo essersi rapidamente reso conto della situazione, diede al
capitano Grandi gli ordini per l’azione della sua compagnia, che uscì senza
perder tempo dal paese, assumendo in gran silenzio la formazione di combat-
timento. A Luca dispiacque vedere andar via il capitano Grandi: egli non lo
conosceva che di vista, ma senza di lui si sentiva in qualche modo impoverito,
tanto quell’uomo sconosciuto gl’ispirava fiducia: un vero padre nel senso alpi-
no. Frattanto venivano piazzati i mortai e i piccoli cannoni del Tirano, mentre
i plotoni del reparto comando prendevano posizione intorno alle isbe sulla
stessa linea degli artiglieri da montagna. Luca piazzò la propria arma davanti
al paesucolo, al riparo d’un corrugamento innevato del suolo: da qui, alzando
un poco la testa, egli poteva vedere il terreno che gli digradava davanti irrego-
lare, seminato qua è là, sotto la luna, di cadaveri nemici dai lunghi pastrani.
Ma già la compagnia che avanzava in basso a sinistra (quella che, come il gio-
vane ricordava, il suo capitano aveva chiamato ‘compagnia di Dio’) stava
prendendo contatto col nemico; lo stesso fece di lì a poco la compagnia uscita
davanti al paese col capitano Grandi; i nemici risposero con un incredibile vo-
lume di fuoco: erano - lo si capiva bene da quassù - sensibilmente più nume-
rosi degli attaccanti. Ebbe in tal modo inizio la battaglia di Arnautovo.

CAPITOLO QUINTO

Sorpresi dall’attacco degli alpini fattosi subito impetuoso, i russi dapprima


arretrarono, specie sulle ali, ma poi fecero alt. Il terreno oltre Arnautovo era
per un certo tratto in discesa, quindi risaliva, formando una selletta attraver-
sata, lungo tutta la linea d’impluvio, da una balca o incisione naturale poco
profonda; era piuttosto rotto, parte incolto e boschivo, parte spoglio, con
qualche pagliaio.
Per sostenerne l’azione, il maggiore comandante inviò in appoggio al capi-
tano Grandi due dei plotoni del reparto comando, trattenendone uno solo
all’altezza delle isbe; quindi spedì indietro a Nichitovca una staffetta a solleci-
a
tare urgentemente la sua 48 compagnia, e per chiedere l’intervento di alme-
no un gruppo completo d’artiglieria. Egli intendeva non sprecare assoluta-
mente i propri uomini, che avevano fiducia in lui come in un padre, ma in pari
tempo si rendeva conto che stavolta molti ma molti di loro per aprire la strada
a sé stessi e agli altri sarebbero rimasti ‘con le scarpe al sole’; ignorava ancora
che intorno ad Arnautovo c’erano addirittura tre battaglioni russi, avvertiva
però sempre più che i nemici erano molto numerosi. Cercava di non farsi
prendere dall’angoscia: oltre tutto egli sapeva che nella grande colonna forma-
ta dalla Tridentina e dagli sbandati al suo seguito, rimanevano in tutto quattro
battaglioni ancora efficienti: di cui due - il Vestone e il Val Chiese - erano però
già avanti, oltre questo sbarramento nemico (guai non ristabilire il collega-
mento con loro! chissà quale sorte gli sarebbe toccata...) mentre alle spalle del
Tirano non ne rimaneva che uno, l’Edolo, col compito di retroguardia.
La strenua lotta ingaggiata dagli alpini nella neve a forse 30 gradi sotto zero
costò terribili perdite e fu davvero improba, a momenti sembrava addirittura
disperata soprattutto per il volume del fuoco nemico. Ciononostante il batta-
glione non abbandonò la presa: con accortezza e ferma determinazione ogni
squadra, ogni singolo uomo si adoperava per distruggere i centri di fuoco av-
versari ed andare avanti. E in effetti il fronte aveva ripreso ad avanzare, anche
a
se con tremenda lentezza. Arrivò la 48 compagnia, entrò subito nella mischia
e il suo apporto fu importante; alquanto più tardi arrivò anche lo splendido
gruppo Val Camonica: schierati di furia i suoi otto obici da 105 a tergo di Ar-
nautovo, aprì vigorosamente il fuoco, e anche il suo apporto fu importante.
Malgrado ciò la battaglia, che durava ormai da due ore, non si concludeva.
Le forze nemiche - molto provate dal combattimento (che per loro durava
da mezzanotte, in quella temperatura) - erano state dalla pressione alpina
spinte quasi tutte dentro la balca nell’impluvio della selletta, dove avevano
finito con l’attestarsi come in un trincerone. Dal quale riusciva difficilissimo
snidarle (oltre tutto si trattava di truppe ‘della guardia, cioè scelte), e fra
un’ora, alle sette, sarebbe venuta la luce, che avrebbe reso l’attacco ancora più
difficile.

Gli alpini del reparto comando rimasti alle isbe, che adesso avevano un mi-
nimo di respiro, erano forse anche più preoccupati di quelli giù nel calderone:
bisognava assolutamente fare qualcosa. Preoccupato in cuor suo era anche il
cappellano reggimentale don Carlo Gnocchi, il quale giunto qui da Nichitovca
di propria iniziativa (i cappellani godevano tra gli alpini di grande autorità e
libertà), si dava ora da fare per confortare i feriti e confessare i morenti insie-
me col cappellano del Tirano padre Crosara. (Non appena informato
dell’arrivo di don Carlo, Luca s’era fatto sostituire per qualche istante alla mi-
tragliatrice ed era corso a cercarlo tra le isbe: voleva salutarlo e chiedergli la
benedizione. L’aveva però trovato chino sui feriti fuori dell’isba infermeria, e
non aveva osato disturbarlo; per fortuna don Carlo si era accorto di lui: mo-
strando nel viso gentile dagli occhi ora stranamente infossati una certa sor-
presa, come dicesse: dunque, compaesano, sei ancora con noi!, aveva alzata la
mano e tracciato verso di lui un segno di croce; ciò era bastato perché Luca
tornasse al suo posto riconfortato.) Adesso don Carlo - al pari dei feriti tuttora
coscienti, che gli chiedevano di continuo dell’andamento della battaglia - era
preoccupato che tanto sacrificio rischiasse di non approdare a niente. Tutti
sentivano dunque che bisognava fare qualcosa, ma cosa?
Il tenente del plotone rimasto ad Arnautovo lasciò a un tratto il proprio ri-
paro nella neve e raggiunse un sergente di dimensioni gigantesche appostato
poco lontano a una mitragliatrice. Sedutosi sui calcagni si mise a parlottare
con lui: Luca, che si trovava coi suoi a una ventina di passi (stavano sempre
allo stesso posto davanti alle isbe, semicongelati per l’immobilità), lo sentiva
esprimersi in dialetto, senza però arrivare a capirlo. Gli parve che i due guar-
dassero più d’una volta verso di lui, poi vide il tenente sgattaiolare indietro
fino a raggiungere l’isba dove presumibilmente stava il maggiore; l’ufficiale ne
uscì di lì a poco, fece segno al gigantesco sergente di raggiungerlo è, inaspetta-
tamente, chiamò anche Luca: «Ti, capural magiur del Murbegn, chi ’n de mi
(qui da me).»
Il sergente e Luca - piuttosto turbato quest’ultimo - si levarono in piedi e
s’affrettarono a raggiungerlo; senza pronunciare una parola l’ufficiale li prece-
dette dietro l’isba, dove: «An va» annunciò loro. Poi spiegò a Luca il suo pia-
no, che il sergente già conosceva, e che il maggiore aveva accolto: si trattava
d’aggirare parzialmente il nemico annidato nella balca e di prenderlo d’infilata
sotto il fuoco di almeno una mitragliatrice: «Non sarà facile portare un’arma
fin là, ma se uno ce la porta, quelli dovranno sgombrare la balca per forza.»
L’ufficiale si esprimeva in dialetto, aveva una voce molto rauca che nel rumore
continuo della battaglia s’intendeva male. «Le vostre due squadre tenteranno
insieme sulla destra, mentre io con l’altra mitragliatrice e un mitragliatore
tenterò sulla sinistra. Chi arriva primo attacca subito a sparare. Tu del Morbe-
gno... A proposito, come ti chiami?»
«Sambruna. Caporal maggiore Luca Sambruna.»
«Ecco. Ho visto che sei un calmo. Hai capito ogni cosa?»
Luca fece segno di sì con la testa.
«Bene. Allora forza, partite addirittura perché abbiamo sì e no un’ora di
buio. Ad avvisare le compagnie di scattare avanti al momento giusto ci pensa
il maggiore.»
«D’accordo» disse Luca.
Senza aggiungere altro l’ufficiale si allontanò per prepararsi a uscire a sua
volta.
«Prima cosa riuniamo i nostri uomini qui, dietro questa casa» disse a Luca
il sergente, che ritto in piedi risultava ancor più gigantesco: «Io vado a pren-
dere i miei.»
Luca fece ancora una volta segno di sì. Per stabilire un po’ d’incontro uma-
no con lui, l’altro aggiunse: «Mi chiamo Pedrana, nella mia squadra siamo
quasi tutti di Bormio.»
Luca annuì sorridendo. «Questo lo so. I miei sono la più parte di Tàrtano.»
«Ah!» Pedrana fece con gravità un cenno d’apprezzamento, poi si girò e
s’avviò verso la sua postazione.
Fu di ritorno di lì a un paio di minuti con l’arma sulle spalle, lo seguiva il
suo aiutante col treppiede, e gli altri alpini della squadra, otto o nove, con una
cassetta di munizioni; Luca e i suoi arrivarono quasi contemporaneamente.
«An va» disse Pedrana.
Prima d’incamminarsi gli alpini delle due squadre si fecero tutti il segno
della croce.

***

Tornarono indietro tra le isbe del villaggio fino allo schieramento del grup-
po Val Camonica, quindi scesero, in fila per uno, il pendio di destra, davanti i
bormini di Pedrana con le nappine rosse, dietro venivano le nappine bianche
della squadra di Luca. Il terreno era su questo lato abbastanza boschivo; per
fortuna la luna stava tramontando, nell’eseguire il suo mezzo giro la pattuglia
si adoperò per farsi schermo delle siepi, degli alberi, di ogni ruga del suolo,
non disponeva però di molto tempo e venne più d’una volta investita dai colpi
nemici: «Dio, se i spara!» mormorò un bormino.
«Dai, che se ce la facciamo anche stavolta, dopo ci rimarrà da aprirci la
strada soltanto in quel paese più avanti; perché più in là gli Ivan non sono ar-
rivati, lo sapete» disse il sergente.
“Speriamo sia vero. Se no addio Giustina” pensò Luca, ormai risoluto al tut-
to per tutto.
La manovra d’aggiramento non risultò facile. Ci fu prima uno, poi un altro
scontro con nuclei nemici forse sbandaci, un alpino di Luca restò ucciso, due
di Pedrana vennero feriti seriamente e lasciati sulla neve sotto un cespuglio,
con l’intesa che a combattimento finito si sarebbe tornati a prenderli. Ma per
rendere adeguatamente la marcia di appena tre quarti d’ora che l’aggiramento
comportò ci occorrerebbero delle pagine e il nostro racconto rallenterebbe
troppo.
Quando, sudati nonostante i trenta sotto zero, ed, estenuati dalle nuove
emozioni e dalla fatica, gli alpini emersero al di là della balca, e attraverso una
lingua di bosco poterono raggiungere una posizione in qualche modo domi-
nante, si presentò loro uno spettacolo da mozzare il fiato: i nemici erano
schierati tutti dentro la balca, le loro armi d’accompagnamento stavano sul
pendio retrostante, defilate da siepi e da pagliai. Cominciava a schiarire, si
cominciava a vederci. Gli alpini montarono immediatamente le due mitraglia-
trici, mentre il sergente Pedrana studiava in silenzio la situazione. «Voi rima-
nete qui» disse infine a Luca, «noi invece andiamo là» indicò mi punto al-
quanto più in alto, a forse quaranta metri di distanza. «Prima però control-
liamo il carrello delle armi, che non sia gelato. Forza.»
«Ma se la nostra la dobbiamo smontare di nuovo...» gli obiettò il suo aiu-
tante.
«Chi te l’ha detto?» fece Pedrana, e inginocchiatosi si provò ad armare la
mitragliatrice. A onta di tutti i colpi sparati nel corso della notte il carrello
d’armamento risultò bloccato dal gelo.
«Ecco, mi pareva di saperlo» mugugnò Pedrana, e sempre in dialetto: «dai,
pisciamogli su.» La poca orina che i suoi alpini si trovavano in corpo non ba-
stò tuttavia alla bisogna. Fu necessario strofinare fortemente l’arma con una
coperta di lana (qui il lettore non pensi a un espediente letterario per rendere
la tensione del momento: questo fu, pari pari, ciò che accadde, come lo tro-
viamo nella relazione di un protagonista). Finalmente l’arma fu pronta, anche
quella di Luca era pronta.
«Sta attento che comincio io» disse Pedrana a Luca. «Tu guarda a me: ap-
pena comincio, spari anche tu. Devi sparare sempre dentro la balca, hai capi-
to? Sempre nella balca, senza smettere. A quelli che stanno più indietro cer-
cherò di provvedere io. Del resto vedrai che non appena cominciamo, arrivano
i nostri.»
Ciò detto lo smisurato sergente afferrò la sua mitragliatrice (tra arma e
treppiede quaranta chili di peso) e stringendola al petto come si porta un
bambino, s’incamminò a enormi passi nella neve - con la sua squadra dietro -
verso il punto stabilito. Probabilmente più d’un nemico li scorse, ma dovette
pensare che si trattasse di russi.
«Tu e tu» disse Luca, sistemandosi dietro la propria arma, a due dei suoi:
«pensate soltanto a tenere ben fermo il treppiede.» Poi, mentre andava di
continuo con gli occhi dalla balca piena di nemici alla squadra di Pedrana,
cominciò a recitare mentalmente una preghiera: stavolta difficilmente sarebbe
andata liscia, certo i nemici avrebbero dovuto sloggiare dalla balca, ma per
loro quattro gatti come sarebbe finita?
Vide Pedrana e i suoi accucciarsi nella neve, di lì a poco udì il ta-ta della lo-
ro mitragliatrice: immediatamente aprì a sua volta il fuoco. “Ora e nell’ora
della nostra morte” stava mentalmente dicendo in quell’istante, seguitò a dir-
lo mentre l’arma sparava “ora e nell’ora della nostra morte - ora e nell’ora
della nostra morte - ora e...” Vide che sotto l’inatteso fuoco d’infilata i nemici
si agitavano come erba e cominciavano a rimescolarsi, gli sembrò che qualcu-
no sparasse nella sua direzione, su quello concentrò il fuoco, poi andò oltre:
sempre sparando dentro la balca la percorse più volte su e giù, mentre il suo
aiutante innestava nel bocchettone un caricatore dietro l’altro: “ora e nell’ora
della nostra morte - ora e nell’ora della nostra morte - ora e...”
I nemici abbandonavano la balca, ne uscivano correndo obliquamente per
allontanarsi dalla terribile doppia falce delle due mitragliatrici; Luca spostò
infine il suo tiro sulla massa in fuga sopra la neve: nella balca rimanevano solo
i colpiti, da qui non sembravano molti: “Per fortuna!”. Per fortuna, perché a
Luca quest’orrendo gioco non piaceva affatto, ma c’era tutta quella gente da
salvare: i due feriti lasciati sotto il cespuglio anzitutto, poi quelli sulle slitte, e
le decine di migliaia di sbandati che aspettavano gli si aprisse la strada, e c’era
sua madre a casa, e Giustina; non aveva scampo: “ora e nell’ora della nostra
morte - ora e..” Gli pareva, adesso, di recitare la preghiera per quei disgraziati
là sulla neve sotto i suoi colpi.
Alla balca si affacciarono le prime squadre alpine, sui nemici in fuga adesso
sparavano anche, da Arnautovo, gli otto pezzi del gruppo Val Camonica. Luca
sospese il fuoco, di lì a poco lo sospese anche Pedrana. Delle loro squadre
nemmeno un uomo era stato colpito.

CAPITOLO SESTO

Terminata la battaglia le massacrate compagnie del battaglione Tirano con-


versero sulla pista che usciva da Arnautovo e cominciarono a incolonnarsi;
erano quasi le nove del mattino, i feriti nostri venivano in gran fretta raccolti e
caricati sulle slitte, su qualcuna addirittura ammucchiati (c’erano slitte con
dieci e più feriti), il cappellano del battaglione padre Crosara si dava un gran
da fare intorno a loro, don Carlo Gnocchi invece non si vedeva: come Luca
apprese in seguito, era sceso con due volontari nella balca a cercar di sistema-
re in qualche modo i feriti russi, se mai fosse tornato in seguito qualche loro
camion a raccoglierli (due giorni prima aveva assistito in punto di morte an-
che il tedesco generale Eibl, comandante del distrutto XXIV corpo corazzato).
Mentre s’incolonnavano, le compagnie facevano dolorosamente la conta:
mancavano all’appello più di trecento alpini, oltre la metà degli alpini con la
nappina rossa dunque, e mancava la maggior parte degli ufficiali, quegli
splendidi ufficiali alpini che guidavano i loro uomini soprattutto con
l’esempio; erano caduti tutt’e tre i comandanti di compagnia (Briolini: ‘Avanti
a
49 , compagnia di Dio!’, Grandi, che ispirava tanta fiducia a Luca, e Piatti del-
a
la 48 la compagnia entrata nella fornace un po’ dopo le altre), il costo per
aprire la strada era stato tremendo. Intanto l’enorme massa di sbandati in at-
tesa ormai da qualche ora, coi suoi feriti e i congelati che ogni tanto urlavano
dalle slitte la loro disperazione, premeva sempre più alle spalle: finì che - non
potendo attraversare il paese dove gli artiglieri da montagna sbarravano il
passo - alcuni imboccarono un tracciato minore, la massa li seguì: aggiravano
Arnautovo e la zona della battaglia lasciandoli sulla sinistra.
Finalmente anche il Tirano si mise in movimento, in buon ordine come
sempre, solo che adesso la sua colonna era lunga la metà. In testa procedeva il
maggiore Maccagno con i resti del reparto comando, al termine del quale
camminava la squadra di Luca; ancora una volta il giovane portava la mitra-
gliatrice a spalla, gli spallacci però gli tagliavano già le ascelle come coltelli,
sebbene la marcia fosse solo all’inizio. Dietro il reparto comando veniva la
compagnia ch’era stata del valoroso capitano Grandi, e dietro le altre due. A
differenza degli altri due comandanti di compagnia Grandi - col ventre squar-
ciato da una raffica - non era morto, era moribondo; perciò al momento
dell’incolonnamento gli alpini l’avevano, senza parlare, sistemato su una slitta
in testa alla compagnia, perché egli, finché era in vita, stesse davanti a loro
com’era sempre stato. Luca e i suoi - in coda al reparto comando, come s’è
detto - venivano appena prima di quella slitta, ogni tanto l’uno o l’altro si vol-
tava a lanciarle un’occhiata: il capitano aveva il cappello con la penna coperto
di brina ed era esangue, doveva essere fuori coscienza. Dietro la sua slitta gli
alpini, alquanto più fitti che nel resto della colonna, marciavano in silenzio,
qualcuno piangeva.
Il freddo era sempre tremendo, ma c’era un po’ di sole che consentiva allo
sguardo di spaziare lontano, fino al desolato orizzonte; un po’ alla volta il pas-
so si fece sostenuto. Il battaglione, seguito dal gruppo Val Camonica con gli
a
otto pezzi da 105 al traino, e dall’unico pezzo superstite della 33 batteria,
raggiunse il punto in cui, dopo avere aggirato Arnautovo, gli sbandati conflui-
vano sulla pista principale: davanti a questa formazione armata, che avrebbe
costituito una sicurezza per tutti, gli sbandati (in questo punto tedeschi, in
qualche modo più ordinati degli altri) ristettero il tempo necessario per farla
entrare in colonna; poi la marcia proseguì nel silenzio di tutti, si udiva solo il
calpestio affrettato delle scarpe sulla neve e lo stridio delle slitte. Col trascor-
rere del tempo l’ambiente tornò a farsi a grandi linee: per quanto si marciasse
di buon passo, sembrava a momenti d’essere fermi nell’immensità.
A un sobbalzo improvviso della slitta il capitano dal ventre squarciato aprì
gli occhi. Prese lentamente coscienza della propria situazione e si guardò in-
torno: incontrò lo sguardo di un alpino che gli camminava a lato: «La batta-
glia è finita?» chiese.
«Sì, è finita.»
«Ce l’abbiamo fatta, eh?»
«Sì, abbiamo aperta la strada.»
Accorse l’unico ufficiale rimasto alla compagnia, si chinò sul ferito: «Ce
l’abbiamo fatta signor capitano. Abbiamo riaperta la strada.»
«Mm. Meno male.»
«Come vi sentite signor capitano?»
«Io? Ne ho per poco.»
L’ufficiale non ribatté. «Loro erano tre battaglioni» disse invece: «Adesso lo
sappiamo con certezza. Il Tirano è ridotto alla metà, però» ripete «ha aperta la
strada alla colonna.»
«Se arrivi fuori, dillo a mia madre.»
«Signorsì, m’impegno a dirglielo.»
«Dille che ho fatto il mio dovere, e perciò muoio in pace con gli uomini e
con Dio.»
Dall’una e dall’altra parte della slitta i suoi alpini, fattisi avanti, guardavano
con facce angustiate il capitano; anche il conducente che camminava con le
redini dei due muli girate intorno alle spalle alla brava, si voltava ogni poco a
guardarlo, aveva le lacrime agli occhi.
«Cosa sono quei musi lunghi?» esclamò a un tratto il capitano Grandi:
«Sotto piuttosto, cantate con me.» E con la voce che si ritrovava, che sarebbe
stata ridicola in un momento meno tragico, attaccò la tremenda canzone alpi-
na del capitano che sta per morire e fa testamento:
‘Il capitano l’è ferito
l’è ferito e sta per morir’
Subito i circostanti gli si unirono nel canto, più d’uno fece segno a quelli che
seguivano, corse la voce, tutta la compagnia serrò sotto e si mise con grandis-
simo dolore a cantare. Nella canzone il morente prescrive che il suo corpo sia
tagliato in cinque pezzi:
‘Il primo pezzo alla montagna
che lo ricopra di rose e fior’
Che struggimento, che pena il ricordo delle native montagne in
quell’enorme pianura senza confini...
‘secondo pezzo al re d’Italia
che si ricordi del suo soldà’
Il terzo pezzo al reggimento.
Nella sterminata colonna di formiche che procedevano frenetiche, eppure
parevano ferme nella gelida immensità, c’era quel breve tratto che cantava.
E la madre compariva nel canto, e la donna amata:
‘il quarto pezzo alla mia mamma
che si ricordi del suo figliol,
il quinto pezzo alla mia bella
che si ricordi del suo primo amor’
Addio dunque anche a te primo amore, addio per sempre, ciò che abbiamo
sognato non sarà mai... Addio montagne, patria, reggimento, addio mamma e
primo amore, cantavano gli alpini. Cantavano e piangevano gli alpini valorosi,
e c’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impo-
tenza; cantarono anche quando il capitano ormai non cantava più e li accom-
pagnava solo con gli occhi; cessarono di cantare solo quando si resero conto
che il capitano Grandi era morto.

CAPITOLO SETTIMO

Alle sei di quella stessa mattina l’avanguardia che aveva pernottato nel pri-
mo villaggio oltre Arnautovo, s’era rimessa in marcia secondo gli ordini rice-
vuti. Era costituita dai battaglioni Vestone e Val Chiese, dai resti del Verona,
a
dalle due superstiti armi semoventi tedesche, e dalla 32 batteria del gruppo
Bergamo. Tutti questi uomini ignoravano il tentativo del nemico di tagliare la
colonna alle loro spalle: avevano sì udito le incessanti sparatorie, ma ‘a cia-
scuno il suo’. E del resto ogni loro pensiero era proiettato su Nicolaievca, dove
tra poco - secondo il comando della Tridentina - si sarebbe dovuto rompere
l’ultimo sbarramento nemico. La cittadina entrò in vista verso le nove: sorgeva
su una montagnola isolata nel mezzo d’un’ampia conca, davanti le correva il
terrapieno d’una ferrovia, si prestava bene alla difesa purtroppo, ed era lette-
ralmente stipata di nemici in attesa della colonna. Mentre i cannoni e i mortai
alpini, e l’unica ‘catiuscia’ tedesca, schieratisi sul bordo della conca aprivano il
fuoco, i due formidabili battaglioni bresciani scesero in formazione di combat-
timento - sotto un subisso di colpi nemici - il pendio spoglio, superarono con
un incontenibile assalto un tratto del terrapieno, e penetrarono nella città. Qui
il loro slancio si arenò perché i nemici erano troppi, le compagnie massacrate
non ce la facevano ad andare avanti.
La grande colonna e il comando della Tridentina arrivarono dopo qualche
ora, in tempo per assistere dal bordo della conca a un contrattacco russo che,
malgrado la superiorità degli attaccanti, fu stroncato dalla furibonda resisten-
za degli alpini. Verso mezzogiorno arrivò il Tirano (la metà che ne rimaneva),
il gruppo d’artiglieria Val Camonica con tutt’e otto i suoi obici da 105 efficien-
ti, una meraviglia, il gruppo Vicenza e altri reparti armati, che - sotto il fuoco
nemico - scesero di corsa ad aggiungersi agli alpini del Vestone e del Val Chie-
se asserragliati tra le isbe; anche i pochi resti della Julia tuttora armati scesero
il pendio insieme con loro. Con questi rinforzi la penetrazione alpina riprese e
progredì alquanto, ma non in modo risolutivo. Intanto la massa degli sbandati
- forse trentamila uomini a fronte di poche migliaia di combattenti - assisteva
dall’alto con crescente ansia al fiero spettacolo. In mezzo ad essa esplodevano
con frequenza i colpi dei cannoni nemici, su di essa piombarono anche alcuni
aerei russi che la mitragliarono tre volte a volo radente. E intanto là in basso la
battaglia non si risolveva... Una notte all’aperto a 30 sotto zero ed esposti ai
colpi nemici, sarebbe stata la fine per tutti: non ci sarebbe stata una partenza
all’indomani, né mai. Ciascuno in cuor suo si vedeva con invincibile repulsio-
ne cadavere sulla neve, uguale ai cadaveri che già c’erano, miseri mucchietti di
carne congelata e di stracci. Qua e là dalle slitte i feriti, specie i più debilitati
dalla fame, si mettevano ogni tanto a gridare tutti insieme, come colti da paz-
zia.
L’Edolo, occorreva l’Edolo, l’ultima risorsa! Sollecitato da staffette del co-
mando di divisione, il battaglione Edolo, nappine verdi, che era di retroguar-
dia, faticava terribilmente a venire avanti senza scompaginarsi sulla pista in-
gombra di folla. Non appena fuori del disordine iniziò la discesa; quando lo
vide prossimo al terrapieno il generale Reverberi, comandante della Tridenti-
na, montò su un cingolato tedesco, sparò ripetutamente in aria con la pistola
per richiamare l’attenzione e lanciò il suo famoso grido: «Tridentina avanti!
Tutti avanti! Tutti avanti!» Molti di coloro che gli stavano intorno, armati o
disarmati, ripeterono il grido e si buttarono avanti insieme con lui, lo sorpas-
sarono, l’enorme massa li seguì, cominciò a rovesciarsi giù per la discesa; pur
investita dal piombo nemico la congerie d’italiani, ungheresi, tedeschi, correva
tumultuosamente verso il basso, verso Nicolaievca, in prima fila correva an-
sando il capo di stato maggiore del corpo d’armata alpino generale Martinat,
lo stratega accorto e tenace che aveva diretto i combattimenti più difficili: fu
anche tra i primi a cadere stroncato.
Sotto il colpo di maglio dell’Edolo e davanti alla valanga in arrivo, i russi
cominciarono a lasciare le posizioni: non tutti, che i più infervorati nella bat-
taglia e i più valorosi resistevano, e dovettero essere snidati dalle squadre al-
pine; tutti gli altri però abbandonarono le posizioni, sciamarono verso i loro
autocarri, e inseguiti dai colpi dei cannoni da montagna si allontanarono sulle
piste oltre la cittadina. Erano quasi le tre del pomeriggio, già cominciava a far
buio.

***

Luca era ubriaco di stanchezza, e per di più era ferito: un colpo gli aveva at-
traversato il polpaccio sinistro mentre scavalcava il terrapieno (un terrapieno
fatto di terra o di morti? nel punto in cui l’aveva superato lui era letteralmente
coperto dai cadaveri con le nappine azzurre del Vestone...); la sua ferita non
era grave per fortuna, ma egli si chiedeva come l’indomani avrebbe potuto
portare ancora a spalle la mitragliatrice; due alpini della sua squadra - due
cugini di Tartano - erano morti combattendo tra le case (il secondo mentre
tentava di portar soccorso al primo), alcuni altri erano rimasti feriti. Attestati
dietro un muretto i rimasti avevano continuato a sparare con determinazione
e con parsimonia, fino a quando quelli con le nappine verdi dell’Edolo erano
giunti alla loro altezza. Luca aveva allora aiutato con la sua mitragliatrice i so-
praggiunti a distruggere un nido di fuoco nemico dentro un’isba (accanto a lui
uno dell’Edolo - in piedi contro lo spigolo d’un edificio - aveva sparato col
proprio mitragliatore appoggiato sulla spalla di un compagno); quando infine
quelli erano andati avanti, Luca si era pesantemente seduto sul muretto. Le
idee gli si confondevano, i suoi pochi compagni, del tutto esausti, sedettero
intorno a lui nella neve.
«Capural magiur, bisognerà cercare qualcosa da mangiare» borbottò uno.
Luca fece segno di sì.
«Sarà proprio vero che questo è l’ultimo sfondamento?» chiese un altro,
pure in dialetto. (Si trattava dell’undicesimo sfondamento - come venne com-
putato poi - da quando era iniziata la ritirata nove giorni prima, a circa due-
centocinquanta chilometri da qui.)
Luca alzò un poco il mento a significare: chissà.
«Dio car, se al foss vera, quandu an va a baita, an fa dir una mesa in vai
de Sac (se fosse vero, quando si arriva a casa, si fa dire una messa in vai di
Sacco)» mormorò un terzo.
Da un’isba lì accanto uscì inaspettatamente un soldato russo: era armato
soltanto di pugnale, non sembrava avere intenzioni offensive, sedette nella
neve contro il muro dell’isba e si cacciò le mani in tasca; forse si considerava
prigioniero, pareva sfinito.
Arrivarono i primi sbandati, erano ungheresi dai lunghi pastrani, parlotta-
vano tra loro, probabilmente cercavano da mangiare, andarono oltre senza
fermarsi.
Arrivò anche il cappellano del Tirano padre Crosara, francescano: «Ci sono
dei feriti nella tua squadra?» domandò.
«Eh» fece Luca, assentendo.
«Qualcuno grave, che vuole confessarsi?»
«Gravi no» disse Luca «grazie. Però domani bisognerà trovargli un posto
sulle slitte.»
Il cappellano scorse a un tratto il soldato russo e lo fissò sorpreso. Allora il
russo tolse le mani di tasca, con la destra sfilò il pugnale dal fodero, e con la
sinistra armeggiò al bavero del pastrano per scoprirsi la gola.
«No» urlò il cappellano: «Cosa fai? No, no!» Levò in alto il suo Crocefisso e
corse verso di lui: «No, non farlo, non farlo!»
Il russo lo guardò interdetto, con occhi sfiniti: il cappellano gli afferrò il pol-
so che stringeva il pugnale e agitando con l’altra mano il Crocefisso davanti al
suo viso: «Perché ti ammazzi, perché ti ammazzi?» gridava.
Finalmente il russo fermò lo sguardo sul Crocefisso, circondò con la propria
la mano del frate che lo impugnava, e si tirò il Cristo contro la bocca. Gli alpini
guardavano la scena in silenzio; il russo consegnò al frate il pugnale, che ven-
ne scagliato il più lontano possibile. «La madre di Dio ti vuol bene» ansimò
padre Crosara: «ti vuol bene, hai capito? Dio non è come noi uomini.»
Il russo, pur senza comprendere le parole, fece con spossatezza segno di sì.

***

Lo sfondamento di Nicolaievca, l’undicesimo come s’è detto dall’inizio della


marcia, fu effettivamente l’ultimo operato dalla Tridentina. Le avanguardie
russe per la verità erano già arrivate alcune decine di chilometri più a ovest,
tanto che il comando della Tridentina nella previsione di doversi nuovamente
aprire la strada, aveva riunite le forze ancora efficienti in due battaglioni di
formazione: due soli battaglioni, non era rimasto altro... Ma non ci fu bisogno
d’impiegarli: si tentò nottetempo l’aggiramento della borgata di Novi Oscol
occupata dal nemico, e la manovra riuscì, forse anche perché il nemico preferì
chiudere un occhio (aveva sperimentato quanto fosse difficile fermare gli alpi-
ni). Per arrivare fino al nuovo fronte mobile tedesco che proteggeva Carcov,
occorsero però alla colonna altri cinque duri giorni di marcia dopo Nicolaiev-
ca, marcia che Luca effettuò parte a piedi, zoppicando, parte su una slitta del
reparto comando del Tirano dov’era stata caricata la sua mitragliatrice; gli al-
pini dalle nappine rosse lo consideravano ormai un fratello.
Adesso che la via verso casa sembrava assicurata, lui e gli altri si chiedevano
quale fosse la sorte dell’altra grande colonna alpina, quella della divisione Cu-
neense. Dov’era in questo momento? Ce l’avevano fatta o no gli alpini piemon-
tesi ad arrivare fin qui?
Noi sappiamo che ce l’avevano fatta. Dopo continui combattimenti e peri-
pezie inenarrabili erano arrivati anche loro al meridiano di Nicolaievca, trenta
chilometri più a sud, dove il nemico aveva predisposto sul loro percorso, a Va-
luichi, uno sbarramento analogo a quello di Nicolaievca. Qui il 27 gennaio (il
giorno cioè successivo alla battaglia di Nicolaievca) i battaglioni piemontesi
s’erano fatti sotto e impegnati con ogni loro forza per sfondare. Ma non
c’erano riusciti; al termine della ferale giornata il generale comandante la Cu-
neense aveva accettato d’arrendersi coi suoi reparti ormai distrutti e in gran
parte già sopraffatti. Il battaglione Mondovì, arrivato sul posto il giorno dopo
perché di retroguardia, non accettò la resa e tentò di sfondare da solo; si sacri-
ficò totalmente nell’impossibile tentativo.
Innumerevoli sarebbero stati in seguito i riconoscimenti del valore alpino; a
noi basterà ricordare quello di un giudice competente come pochi altri, il ge-
nerale Guderian, capo dello stato maggiore germanico alla fine della guerra:
‘Le brigate italiane di fanteria alpina sono le sole formazioni di fanteria al
mondo che veramente entusiasmino un militare’.

Intanto l’avanzata sovietica non si era esaurita: Stalingrado cadde il 3 feb-


braio, Carcov - da poco lasciata su un lato dalla Tridentina - il 16. Quest’ultima
città sarebbe stata però riconquistata dalle divisioni tedesche provenienti dalla
Francia le quali - grazie soprattutto ai nuovi carri Tigre - sarebbero riuscite a
stabilizzare il fronte nel mese di marzo.
SECONDO VOLUME

IL CAVALLO LIVIDO
PARTE PRIMA

CAPITOLO PRIMO

La partenza da Leopoli di Ambrogio e Paccoi ebbe luogo in una nebbiosa


mattina di fine febbraio.
Non volendo essere portato alla stazione in barella, l’ufficiale indossò la sua
malconcia divisa grigioverde, che dopo essere passata per il forno di disinfe-
stazione gli era stata resa spiegazzata in modo incredibile. Quando fece per
tendere la cintura in similpelle dei pantaloni, questa si spezzò; ne saggiò con le
mani la resistenza: si ruppe di nuovo in quanto il forno l’aveva letteralmente
cotta; non gli rimase che buttarla via. Come supplire? Il giovane decise di ri-
correre a un pezzo di spago, che infilò attraverso i passanti dei pantaloni an-
nodandolo poi sul davanti.
Mentre eseguiva tale operazione, sorella Glicerie l’osservava in silenzio: a
un tratto si premette le mani sulle guance esangui: «Gli ufficiali d’Italia!»
esclamò accorata: «Dio mio, gli ufficiali d’Italia! In che condizioni!»
Ambrogio nascose istintivamente lo spago abbassando le falde della giubba.
Poi fece alla crocerossina segno di no con la testa, e le sorrise. «Calma sorella»
disse: «dobbiamo cercare di dominarci, non è vero? Fa parte anche questo dei
nostri doveri.»
L’anziana signora scostò allora le mani dal viso e corresse la propria posi-
zione, mettendosi quasi sull’attenti. Ambrogio seguitava a sorridere: «In fon-
do questa cintura fuori ordinanza significa che io sono ancora vivo. Che se mi
rimetto in sesto potrò essere ancora utile, non è così?»
Si meravigliò lui stesso della maturità delle proprie parole: “Si vede che la
guerra dopo tutto mi sta maturando” pensò. Aggiunse: «I russi, qui a est, era-
no ridotti press’a poco anche loro alla cintura di spago; solo che non hanno
ceduto.»
«Scusate tenente» mormorò a bassa voce sorella Glicerie, mortificata per la
propria debolezza.
Ambrogio le fece un cenno cordiale, e riprese ad abbigliarsi con l’aria di
‘non pensiamoci più’; l’anziana signora, dopo aver rimboccato frettolosamente
qualche coperta, lasciò la corsia.
“Povera diavola” pensò il sottotenente, “ha l’aria d’essere una nobile. La
forma per lei deve contare molto: forse un cedimento nella forma equivale per
lei a un cedimento nella sostanza. Del resto” rifletté “dopo quello che ho visto,
non sono più sicuro che chi la pensa così, i formalisti alla vecchia maniera,
abbiano tutti i torti”.

***

Sull’autobus militare che portava per gruppi i partenti alla stazione ferro-
viaria, prese posto accanto a Paccoi. Essendo giunti di notte, i due non aveva-
no finora potuto vedere la città: la trovarono - strade, case, palazzi, giardini -
sorprendentemente simile a quelle italiane. «Sembra quasi d’essere in Italia.
Da non credere, Giovanni, davvero da non credere» disse più d’una volta Am-
brogio. Sulle facciate di non pochi palazzi c’erano però dei grandi Crocefissi di
bronzo: come lungo le strade polacche di campagna, qui s’insisteva nel ri-
chiamo alla croce. “In questo i polacchi sono più esplicitamente cristiani di
noi...” A un tratto quelle croci richiamarono alla sua mente i poveri pazzi tru-
cidati dalle bestie razionali bionde e i poveri borghesi e preti trucidati dalle
bestie razionali rosse: chissà dove giacevano sepolti? Secondo i piantoni
dell’ospedale le vittime dei rossi nei luoghi stessi delle esecuzioni sommarie,
cioè al margine delle strade dirette a est. Una nascosta preoccupazione affiorò
nell’ufficiale: “E se i tedeschi non riuscissero a farcela? Se in conclusione i bol-
scevichi dovessero prevalere? Chi potrà impedire ai ‘berretti blu’ di tornare
un’altra volta qui? E d’arrivare anche in Italia magari?” Il cielo grigio di feb-
braio gli pesò addosso più cupo; a quell’epoca nessuno pensava all’America
come a un possibile argine nei confronti del comunismo.
Sotto la grande arcata in ferro della stazione li attendeva un bel treno ospe-
dale italiano: un treno ospedale vero, formato non di carri merci ma di carroz-
ze; sulle cui fiancate figurava un’enigmatica sigla: ‘SMOM’, sormontata da una
piccola croce bianca in campo rosso.
«SMOM» mormorò a mezza voce Ambrogio: «Cosa vorrà dire?» Glielo
spiegò un soldato di sanità: «Significa ‘Sovrano militare ordine di Malta’.»
«Ah, ecco» fece il sottotenente, annuendo.
«Di che si tratta?» volle sapere Paccoi.
«È un ordine che esiste fin dal medio evo. Tu che sei umbro, di queste cose
dovresti intendertene più di me.»
Paccoi lo guardava con l’onesta faccia impacciata. «A dirtelo in un orec-
chio» gli confessò allora Ambrogio «nemmeno io ne so di più.»
Venne loro nuovamente in soccorso il soldato di sanità: «È un ordine ospe-
daliero, il più antico che esista. Si chiama di Malta perché ha impedito che a
Malta sbarcassero i turchi.»
«I turchi? E quando?» chiese Paccoi.
«Verso il millecinquecento.»
«E ancora se don da fa (si danno da fare) da allora?» esclamò sorpreso
l’attendente.
«Da molto prima» disse, e non aveva affatto l’aria di scherzare, quello della
sanità.
«Com’è che tu sai tutte queste cose?»
«Perché presto servizio sul treno; a noi queste cose le hanno insegnate.»
Giacché c’era, diede dall’alto della sua cultura qualche altra notizia: «È un or-
dine di frati che prima ancora del Mille, cioè prima delle crociate, assistevano
come infermieri i pellegrini in Terrasanta; poi hanno assistito i crociati, e se
per caso c’era bisogno, combattevano anche al loro fianco: per questo erano
nel medesimo tempo frati e cavalieri.» Fece notare: «In un certo senso hanno
anticipato di mille anni la Croce Rossa di oggi. Anche se» e indicò i simboli
sulle fiancate delle carrozze «la loro croce non è rossa, ma bianca in campo
rosso. In fin dei conti la differenza non è poi molta.»
«Infatti» convenne Ambrogio; intanto pensava: “Come piacerebbe, questo
discorso, a Michele, quel patito del medio evo!” Si ripromise sorridendo: “Beh,
vuol dire che glielo riferirò io se...” Finì col sorriso che gli si raggelava sulle
labbra: “se un giorno tornerà a casa”.
Fatta la spiega il soldato s’era staccato dal due con un cordiale cenno del
capo. «Mi sa, eh?» concluse Paccoi «che quelli de ’na volta eron frati di sanità
veramente gagliardi, e non scalcinati come questi piantoni di oggi, che certe
notti manco portano le padelle. Tanto che poi l’han da portà le monache.» (Di
quest’episodio in realtà lo contrariava sopra tutto una cosa: d’aver dormito
come un ghiro mentre aveva luogo, tanto da non accorgersene nemmeno.)

CAPITOLO SECONDO

Sul treno i due non trovarono, come s’aspettavano, frati ospedalieri: appre-
sero dal cappellano che l’ordine si limitava a fornire all’esercito italiano un
certo numero di treni come questo, ma senza personale. Era in ogni caso un
convoglio attrezzato in modo perfetto, con le barelle che facevano da letti -
disposte a due piani lungo le pareti - dotate di lenzuola immacolate.
Dopo poche ore di viaggio Ambrogio fu ripreso dalla febbre, e in seguito an-
che da vaneggiamenti; così, sebbene avesse la testa all’altezza di un finestrino,
finì col non rendersi conto se non in modo frammentario dei luoghi che il tre-
no attraversava. Gli sarebbero rimaste nella mente soltanto alcune visioni di
enormi fabbriche nella neve sporca della Slesia e della Boemia, che lavoravano
certo a gran ritmo perché se ne alzavano imponenti volute di fumo nero; non
si accorse neppure dell’entrata del convoglio in Italia, al mattino presto, anco-
ra col buio.
Alcune ore più tardi riacquistò coscienza; gli occorse un certo tempo per
rendersi conto d’essere su un treno ospedale; giratosi sul fianco si vide accan-
to l’intramontabile faccia tonda di Paccoi. «Sete svejo, sor tené? Sia ringra-
ziato ’l Signore, oh. Semo in Italia, sor tené, in Italia!»
Riferì che alla fermata del Brennero alcuni erano scesi a baciare la terra:
«...tra cui dei nostri c’era il Mazzoleni: chi l’avria detto, quell’impunito?» Ri-
ferì anche che un’ora prima, a Bolzano, quaranta feriti l’eveno scarcati (ave-
vano scaricati) dal treno e portati via con autoambulanze: in tale occasione
egli aveva temuto di venire separato da lui: «Senza manco potevve (potervi)
salutà.»
«Ma al Brennero tu sei sceso o no a baciare la terra?» gli chiese con voce
difficoltata, e ciononostante cercando di scherzare, Ambrogio.
«Io, sor tené? A me ’ste cose me pargon (paiono) fregnacce. Ma loro, in-
tendiamoce, ce credevano e come. Tanto da piagnece (piangerci) quasi.»
Passò un ufficiale medico; si fermò con un: «Oh, finalmente!» a dare
un’occhiata al ferito che aveva ripreso coscienza; gli fece qualche domanda,
concluse: «Peccato non averti potuto sbarcare a Bolzano: quelli sono tutti fini-
ti al grand hôtel Emma di Merano, che è un ospedale coi fiocchi, con un pri-
mario coi fiocchi. Beh» risolse «ti sbarco tra poco a Verona, va bene? Sei con-
tento?»
«Per me...» rispose Ambrogio, a significare: un posto o l’altro fa lo stesso.
Poi indicò con la testa Paccoi: «E lui?»
«D’accordo, anche lui a Verona» disse il medico. E aggiunse: «T’ha fatto da
balia durante tutto il viaggio, come non fosse ferito la sua parte. Beh, in gam-
ba» e s’allontanò.
A Verona vennero scaricati molti feriti. La stazione appariva seriamente
danneggiata dai bombardamenti aerei: si scorgevano qua e là squarci nelle
lamiere di copertura e anche nelle nervature di ferro che le sostenevano, e bu-
chi e crepe nei muri interni, mentre sui marciapiedi c’era polvere (la polvere
delle rovine, che si riforma incessantemente).
Ambrogio però, essendo barellato, per quanto cercasse di rendersi conto
esplorando intorno con gli occhi, non poté vedere molto. Notava invece che lo
scarico e lo smistamento dei feriti si svolgevano in modo rapido e ordinato, e
che i soldati di sanità usavano ogni riguardo. Ancora sotto l’incubo della sacca,
questo buon ordine degli italiani gli riusciva quasi sorprendente. Ma non ebbe
tempo per riflettere: si ritrovò su un’autoambulanza con altri tre feriti, barel-
lati al pari di lui; dapprima in movimento attraverso la città, poi - così pareva -
in corsa attraverso la campagna, senza più rumori intorno e senza scosse alle
ruote. “Si vede che l’ospedale è fuori città” egli pensò, sempre più intontito da
tante sensazioni. «È molto lontano l’ospedale?» chiese dopo un certo tempo al
soldato di sanità vestito di bianco che sedeva in capo alla stretta corsia tra le
barelle, con le spalle appoggiate alla cabina di guida.
«Press’a poco un’ottantina di chilometri» rispose quello.
«Un’ottantina? Ma... Cosa dici?»
«Sì, è a Schio. Noi non andiamo all’ospedale militare di Verona, ma a quello
civile di Schio. È molto più piccolo, però è ben organizzato, un bel posto, ve-
drete.»
«Andiamo a Schio?» intervenne il ferito collocato sopra Ambrogio, che era
come lui passato per l’infermeria-bolgia di Cercovo. «Io da borghese ci sono
stato una volta. È una bella cittadina, sì, tra le montagne, con molte fabbri-
che.»
Ma Paccoi? si chiedeva Ambrogio: era o no tra quelli con destinazione
Schio? Ormai non l’avrebbe potuto sapere fino all’arrivo. Anche questa doveva
capitare! «Perché non me l’avete detto, prima di caricarmi sull’ambulanza?»
chiese vagamente recriminatorio al soldato in camice bianco.
Quello allargò le mani. Aveva in testa - Ambrogio notò - la bustina col com-
plicato stemma della sanità. Lo stesso stemma - ricordò il ferito con una sorta
di crescente lentezza - dei soldati in servizio all’ospedale di Leopoli. Un ghiri-
goro composto di più elementi, che uno non riusciva mai a sceverare tra loro;
nel cerchietto centrale - dove gli altri stemmi hanno il numero del reggimento
- quello di sanità aveva una croce di filo rosso, ma così esile che se la bustina
era scalcagnata - come capitava di sovente - non la si distingueva neppure.
Perché mai - si chiese Ambrogio - i soldati di sanità portavano tutti le bustine
schiacciate a quel modo? Che non sembravano neanche bustine, ma piuttosto
caschetti di tela da infermieri. Non bianchi però... Un momento, perché non
bianchi? Perché? Erano bianchi invece. Sì, guarda, guarda la bustina di que-
sto... Non era bianca forse? Era quasi luminosa... Ambrogio la guardava, la
fissava, senza accorgersi di tenere gli occhi chiusi: cercava di vedere meglio
quel... anzi dentro quel bianco, fiocamente luminoso, che gli si dilatava nella
testa, si dilatava fino al punto d’arrivare a... sommergerlo.
«Ehi Riva, ho visto i cartelli dell’autostrada!» annunciò con animazione il
ferito che stava sopra di lui: «A Vicenza chilometri... non ho fatto in tempo a
leggere. Dì, siamo sull’autostrada. Però, sull’autostrada! Se uno ce l’avesse
detto all’infermeria di Cercovo, eh? Eh, Riva?»
Ambrogio non rispose. L’infermiere si alzò dal suo sedile e attaccandosi via
via ad appigli diversi venne a chinarsi su di lui. «Il signor tenente non può ri-
spondere» disse all’altro; «ha perso coscienza.»
Ambrogio muoveva le labbra, diceva parole appena percettibili, l’infermiere
accostò l’orecchio alla sua bocca: «...quelle traccianti... arrivano, sì, attenti,
attenti che stanno per arrivare...» Era tornato nella sacca.

CAPITOLO TERZO

Riacquistata coscienza in ospedale, chiese subito di Paccoi, e gli fu detto che


non si trovava tra i ricoverati a Schio. Quelli della sanità supponevano fosse
stato ricoverato all’ospedale militare di Verona: «La maggior parte dei feriti
scaricati dal treno l’hanno portata là. Si tratta d’un ospedale grande, fin trop-
po grande, pieno di gente; meglio per voi che v’abbiano destinato qui.»
Ad Ambrogio occorse il resto della giornata per convincersi d’essere ormai
separato dall’artigliere contadino che attraverso tante peripezie gli aveva sal-
vata la vita. “Beh” risolse infine: “una volta uscito d’ospedale lo cerco. E per il
futuro saremo amici, né più né meno di come sono amico di Stefano”. Già,
Stefano! Abbastanza di raro in quei giorni s’era ricordato di lui... “Chissà se è
riuscito a sfangarla?” A Leopoli, nonostante le sue ricerche nelle corsie, non
aveva potuto rintracciare un solo bersagliere del Terzo... Ambrogio si ripromi-
se di telefonare non appena possibile a Nomana: sia per informare i genitori
del proprio ritorno (“Chissà cosa si dice in giro del disastro al fronte russo...”)
sia, anche, per sentire se in paese avevano notizie di Stefano (“Certo è impro-
babile, però non si può mai dire.”) Bisognava inoltre telefonare ai parenti di
Bonsaver, che abitavano non lontano di qui, perché venissero a ritirare il por-
tafogli del morto. “Che prospettiva, Dio mio! Beh, una cosa per volta.”
La mattina dopo si svegliò abbastanza in forze; approfittando d’una mo-
mentanea assenza della suora di reparto, indossò la malconcia divisa e scese
nell’atrio dov’era l’apparecchio telefonico; chiamò Nomana, poi sedette su una
poltroncina in attesa della comunicazione.
Di lì a mezz’ora gli rispose sua sorella Francesca: la riconobbe non appena
la sentì dire «Pronto? Qui casa Riva.»
«Francesca, sei tu?»
«Sì. Ma tu... chi sei?»
«Sono Ambrogio, sono in Italia.»
«Cosa? Ambrogio? Nooo!» Francesca era entrata in grande agitazione, non
riusciva più a parlare. «Non... è possibile» esclamò. «Stammi attenta France-
sca: mi trovo a Schio e...»
«Fortunato, Fortunato» si mise a gridare Francesca: «corri, c’è Ambrogio al
telefono.»
Arrivò subito Fortunato, Ambrogio lo sentì che diceva alla sorella: «Macché
Ambrogio. Dammi la cornetta, cretina. Pronto?»
«Fortunato, sono io. Mi trovo all’ospedale di Schio. Sono rientrato in Italia
ieri.»
«Ambrogio! All’ospedale di Schio? Sei ferito?»
«Sì, ma roba da poco, non in modo grave. È in casa la mamma?»
«No, è a Milano col papà.» (Intanto si sentiva Francesca gridare: «Almina,
Noemi, correte: c’è al telefono Ambrogio.»)
Dopo avere riferito brevemente di sé, Ambrogio domandò se alla Nomanel-
la ci fossero notizie di Stefano. «No, la sua ultima lettera è arrivata nei giorni
di Natale, press’a poco insieme alla tua ultima.» Ambrogio chiese di parlare
ancora con Francesca, poi scambiò qualche parola anche con Alma. «Dì, e i
tuoi compagni come stanno? E Michele?» gli chiese gioiosamente la statuina
di marmo.
«Quando ci vediamo ti spiegherò» le rispose Ambrogio.
«Ma Michele? Come sta? È forse ferito anche lui?»
«Non lo so» disse Ambrogio. «In queste ultime settimane non siamo stati a
contatto.»
Alma capì che qualcosa di poco allegro doveva essere accaduto, e rimase al
telefono senza più dire una parola. «Dunque Alma» concluse Ambrogio:
«guarda che in questi giorni mi devi venire a trovare anche tu, ci conto. Vorrei
provare i tuoi famosi biscotti, quelli di cui m’hai scritto nelle lettere. Siamo
d’accordo?» Dopo qualche altra frase, poiché Noemi si dichiarava troppo
emozionata per parlargli, si congedò e riappese.
Il giorno seguente suo padre e sua madre erano già a Schio. Sua madre vi
rimase alcune settimane, fino a quando - dopo l’operazione chirurgica con cui
fu liberato dalla scheggia nel dorso - egli cominciò a riprendersi. A turno ven-
nero a fargli visita e a tenergli compagnia anche i fratelli e le sorelle maggiori;
vennero pure, straziati e incapaci quasi di parlare, i genitori di Bonsaver, due
persone modeste (per tutta la notte seguente Ambrogio non riuscì a chiudere
occhio); vennero inoltre, e più d’una volta, i Cederle, parenti della madre di
Manno, che risiedevano a Vicenza, nonché qualche altro conoscente, tra cui
un professore del suo collegio, originario di Schio. Quest’ultimo gli comunicò
che alcuni suoi compagni di scuola non davano più notizie dall’Africa setten-
trionale, dove le truppe nostre e tedesche erano tuttora in ripiegamento, incal-
zate da forze nemiche troppo superiori. (Su quel fronte si era ormai giunti a
un rapporto di sette o otto uomini a uno, ma in Italia non lo si sapeva.)

CAPITOLO QUARTO

In aprile - dopo quasi due mesi di degenza a Schio - Ambrogio venne trasfe-
rito a Riccione, in una colonia fascista per ragazzi trasformata in convalescen-
ziario. La sua ferita al dorso si era rimarginata, quelle al braccio e al petto era-
no guarite.
L’edificio, arioso e molto balneare, con grandi vetrate, sorgeva sulla spiag-
gia poco fuori città lungo la via litoranea per Rimini. Sia i letti che i comodini,
come le stoviglie, e in genere gli altri oggetti d’uso quotidiano, erano nel con-
valescenziario da colonia estiva e non da ospedale, il che ai degenti riusciva
gradito; sopra ogni cosa riuscivano loro gradite le grandi finestre che davano
sulla spiaggia e sul mare.
Ambrogio prese l’abitudine di passare più ore al giorno seduto a una di
quelle finestre; alle sue spalle si srotolavano pianamente i consueti discorsi da
ospedale militare: le riprese e ricadute della carne straziata, le peripezie di
ciascuno, a volte già fruste, troppo rimasticate, le prospettive della guerra, an-
cora la guerra. Il giovane vedeva sotto di sé l’ampio cortile della colonia suddi-
viso in campi da gioco mediante basse reti metalliche dipinte a colori vivaci;
alcune correvano al piede di filari d’alberelli di tamerice dalla scorza arida,
confacente all’ambiente sabbioso, ma dalle fronde per converso verdissime e
così minute da sembrare nuvolette di vapore. Al di là del cortile scorgeva la
spiaggia che, per l’abbandono in cui era lasciata, sembrava voler tornare
all’originaria conformazione a dune; più in là si stendeva finalmente il mare:
sempre uguale a sé stesso quello; non fosse che ora, così deserto, inspirava un
senso di dilatata solitudine. La quale s’accompagnava bene ai pensieri del gio-
vane: che si vedeva camminare di quel ‘sonante mar lungo la riva’ in compa-
gnia di Tricia dal pagliaccetto a strisce bianche e blu, e dal cappelluccio a co-
no. Chissà dov’era adesso Tricia, dove portava in giro la sua zazzeretta bionda,
a cosa pensava, quali giorni stava vivendo. “Per fortuna Rho è un posto troppo
stupidotto perché gli aerei lo vadano a bombardare” si diceva a volte Ambro-
gio, continuando mentalmente l’antico parlare giocoso: gli capitava perfino di
mettersi improvvisamente a ridere da solo, gli altri degenti allora lo guardava-
no. Certo, dovunque si trovasse, Tricia non pensava a lui; e se per caso qual-
che rara volta lo ricordava, doveva al più provare un blando senso di simpatia,
come appariva evidente dai pochi biglietti ricevuti da lei nel corso di quei tre
anni di lontananza, inclusa l’ultima letterina - addirittura pedestre - con cui la
ragazza l’aveva ringraziato per i fiori del Don. (“Però: tre anni di lontananza!
Sono già passati tre anni... Da non credere! ”) Del resto anch’egli aveva sem-
pre provato per la ragazza soltanto una vaga simpatia. Eppure adesso la cerca-
va di continuo col pensiero: e non solo perché il luogo e quel mare gliela ricor-
davano ad ogni momento, ma anche perché ne sentiva un bisogno incoercibile
dopo le cose disumane tra cui era passato, e tra le quali si ritrovava ancora
ogni notte in sogni simili a incubi. La donna - cioè la possibilità, indicibilmen-
te vitale, dell’amore - costituiva per lui ch’era appena uscito dagli stagni fetidi
della morte, l’approdo più naturale e spontaneo.
Finì col chiedersi seriamente se - per caso — non stesse innamorandosi di
Tricia adesso, dopo tanto che non la vedeva. Finché un giorno si risolse a scri-
verle. Aprile era quasi terminato, egli poteva ora uscire dal convalescenziario
per brevi passeggiate; prese un biglietto postale dell’esercito (di quelli ‘in fran-
chigia’, esenti cioè da bollo, di colore bigio, ripiegabili, con tre bordi incollabili
e la stampigliatura ‘Vinceremo!’, che in quegli anni avevano riportato da tutti i
fronti alle famiglie un’infinita, sgrammaticata eco di riflessioni, fatti, tedio,
viltà ed eroismi) prese dunque uno di quei biglietti e vi espose succintamente i
suoi casi più recenti. Gli pareva di stendere una missiva spigliata, quasi scher-
zosa, alla vecchia maniera: ne uscì invece qualcosa tra il riflessivo e il dram-
matico, del che egli, rileggendola, non si rese che vagamente conto.
Indossò quindi la divisa (l’unica che gli rimanesse: quella di prima nomina,
di tessuto diagonale elegante) e come un ragazzetto che spedisca una lettera
d’amore, si recò di persona a imbucare il biglietto in Riccione centro; con suo
notevole discomodo, essendo il percorso abbastanza lungo. Fu quasi soddi-
sfatto in cuor suo di quel disagio: “Le cose importanti vanno pagate” pensava;
sul fatto che stesse dando tanta importanza al biglietto non si soffermò.

CAPITOLO QUINTO

Alquanti giorni dopo, una domenica mattina verso le dieci (già lavato e
sbarbato il giovane stava riposando - “poltrendo” si diceva - semivestito sul
letto, in attesa dell’ora della messa) salirono dall’atrio a chiamarlo per una
visita.
Afferrati giubba, cinturone e guanti, terminò di vestirsi mentre scendeva le
scale, e intanto andava chiedendosi chi mai potesse essere il visitatore. Con la
famiglia aveva parlato per telefono pochi giorni prima, e di visite non s’era
fatto cenno. Forse altri parenti? O un conoscente, oppure un collega d’armi? O
forse addirittura... possibile? forse Tricia invece di rispondergli per lettera,
avendo magari già occasione di venire da queste parti... “Ma quale occasione?
Non diciamo sciocchezze. Beh, per esempio la ricerca di un posto per la pros-
sima stagione balneare...” No, chiaramente non poteva trattarsi di Tricia; tut-
tavia egli dovette dominarsi per non scendere le scale di corsa.
Entrato nell’atrio vi trovò suo padre e sua madre in attesa, in piedi uno ac-
canto all’altra, intimiditi dall’ambiente ospedaliero. Provò un senso di delu-
sione: non si trattava di Tricia! Si trattava della mamma però. Che al suo ap-
parire s’illuminò di gioia. Il volto ancor bello della mamma non era disfatto
dal dolore come sarebbe certamente stato se egli non avesse fatto ritorno: no,
era invece “per immensa grazia di Dio” uguale a sempre, uguale per esempio a
quando la mamma lo andava a visitare in collegio. Ambrogio si sentì quasi
colpevole per avere desiderato che ad attenderlo ci fosse Tricia. Abbracciò sia
la madre che il padre, e nel far questo s’accorse che l’andava invadendo la loro
stessa timidezza. «Bravi. Che magnifica sorpresa. Vi ringrazio. Che program-
ma abbiamo?»
«Di stare insieme fino alle cinque del pomeriggio» gli, rispose sorridendo
Gerardo.
«Hai già sentita la messa, Ambrogio?» gli chiese la madre.
«No mamma, non ancora.»
«Allora, per prima cosa, potremmo andare insieme a messa.»
«Sì, d’accordo. Vuoi che usciamo addirittura? Ho con me anche i guanti,
vedi?»
L’elegante divisa diagonale dei tempi di prima nomina lo ringiovaniva. Sol-
tanto, a un occhiello della giubba, aveva adesso il ‘nastrino del ghiaccio’, un
distintivo tedesco venuto in uso anche nell’esercito italiano, attestante ch’egli
aveva combattuto durante l’inverno sul fronte russo.
La madre si rimirava il figlio. «Bravo. Ma dì: come stai veramente? Le tue
ferite non ti danno proprio più disturbo?»
«Eh, ormai.»
Il giovane prese con familiarità i due genitori sotto braccio e s’avviò con loro
alla porta.
«Un momento» esclamò il padre: «lasciami prima salutare quel bravo gio-
vanotto.» Tornato indietro di qualche passo strinse con simpatia la mano a
uno dei piantoni di servizio nell’atrio: un tipo notoriamente sfaticato, che
nell’attesa del figlio Gerardo aveva gratificato di frasi come «Anche lei è una
delle brave persone che si dedicano ai feriti, vero?»; al che lo sfaticato non
aveva mancato d’assumere la posa dell’individuo modestamente meritevole.
Adesso, con un occhio ai rimanenti piantoni e l’altro ad Ambrogio, lo sfaticato
rispose assai compiaciuto al saluto del compito signore. Conoscendo il proprio
padre il sottotenente immaginò la scenetta che doveva essersi svolta in prece-
denza, ma non disse nulla.
Presero la messa in una chiesa quasi vuota (“Già, qui siamo in partibus in-
fidelium” ricordò Ambrogio), poi si misero a passeggiare nella via principale
di Riccione in cui, per la giornata festiva, i convalescenti in divisa brulicavano.
Se ne vedevano molti anche sul lungo mare e nelle strade circostanti: italiani e
tedeschi, tutti usciti a passeggio dalle colonie marine trasformate in convale-
scenziari. Non pochi si appoggiavano a uno o due bastoni («Li vedi papà?
Quelli sono i congelati»), o a stampelle, e tutti si guardavano intorno con occhi
in cui sembrava affiorare un fondo di meraviglia: non tanto forse per essere
ancora vivi, quanto perché nel mondo - dopo tutto ciò ch’era accaduto, ed essi
avevano visto - ogni cosa continuava come prima. Ogni tanto un tedesco salu-
tava Ambrogio, irrigidendosi e battendo i tacchi in omaggio al nastrino ch’egli
portava all’occhiello.
Dopo aver passeggiato abbastanza a lungo discorrendo di molte cose (di
Manno anzitutto, che in quei giorni si trovava in Tunisia, di don Carlo Gnoc-
chi tornato dal fronte illeso nel fisico ma assai turbato nello spirito, dei sem-
pre più preoccupanti bombardamenti sulle città italiane, nonché
dell’ambiente di Schio ch’era industrializzato fin dal secolo scorso e profon-
damente cattolico, giusto come l’ambiente di Nomana: «Chi dice che la civiltà
industriale non si concilia col cristianesimo? È vero proprio il contrario, ci va
più d’accordo di quella agricola») entrarono in un ristorante dove poterono
pranzare in modo abbastanza regolare grazie alle carte annonarie portate da
Giulia.
Dopo di che si rimisero a passeggiare finché Giulia ebbe timore che una si-
mile ginnastica potesse affaticare il figlio; lo significò in modo discreto a Ge-
rardo, il quale prese perciò prontamente posto a un tavolino di bar. La conver-
sazione tornava sempre più spesso a Manno, che dopo la lunghissima, fortu-
nosa ritirata da El Alamein, si trovava ora a combattere col mare alle spalle in
Tunisia; dove le cose stavano andando molto male per italiani e tedeschi, an-
che se dalla radio e dai giornali non si riusciva a capire quale fosse esattamen-
te la situazione.
«Ve l’ho detto: ho ricevuto da lui una cartolina due giorni fa» ricordò Am-
brogio «e ve l’ho subito rispedita a Nomana in busta chiusa. È datata 30 apri-
le: meno di una settimana fa dunque.»
«A noi non scriveva ormai da tre settimane» disse Gerardo «per forza sia-
mo preoccupati.»
«Nella cartolina, lo vedrete, dice che non ha un momento di respiro: ecco
perché non scrive. Del resto la guerra di movimento è davvero così, non con-
cede soste.»
«Non sarà per caso ferito anche lui?» chiese (e non era la prima volta) Giu-
lia: «oppure malato? Come quel vostro compagno, quello della Lodosa chiaro
di capelli?»
«Ah, Castagna vuoi dire?»
«Sì. Lo sai ch’è tornato dalla Libia con l’ameba? Pensa quanti strapazzi deve
aver sofferto anche Manno da che è in Africa: più d’un anno e mezzo ormai.
Tanti che noi non possiamo nemmeno immaginarli.»
«Sì. Però dalla cartolina risulta su di giri come al solito, la leggerete» disse
Ambrogio. «E in ospedale non può essere, perché la cartolina - che è normale,
del tipo in franchigia - porta il timbro col visto della sua batteria. Su, mamma,
cerchiamo di non veder nero: Manno non ha effettivamente respiro, in ripie-
gamento com’è per quei mezzi deserti con i cannoni da 75.»
«Povero figlio, chissà che momenti sta vivendo» mormorò Giulia. «Ad ogni
modo sentite» cercò di ricapitolare Ambrogio per confortarli: «Lui non ha
contro i bolscevichi, ma gli inglesi e gli americani. Alla fine supponiamo pure
che lo prendano prigioniero: quella non è gente che uccide i prigionieri o li fa
morire di fame. Anzi, se per caso dovesse restare ferito, lo curerebbero nei lo-
ro ospedali, come noi abbiamo sempre fatto coi loro feriti.»
«Gli inglesi e gli americani sono civili, sì» convenne Gerardo «però...» e ab-
bassò sul tavolo la mano con le dita a doccia, a significare una pioggia di bom-
be. A questo, purtroppo, non c’era niente da obiettare.
Lasciato il bar, Gerardo con una scusa li guidò a un altro bar più conforte-
vole, e li fece sedere di nuovo. Poi, siccome si avvicinavano le cinque - l’ora
della partenza - vincendo la propria provinciale timidezza fece chiamare da un
cameriere una carrozza: «Perché» dichiarò «sono anni che io non vado più in
carrozzella, e a vederli in giro, questi legnetti, mi fanno venire la voglia di
scarrozzarmi.»
Era con evidenza una scusa per risparmiare al figlio la camminata fino alla
colonia-convalescenziario fuori Riccione. Giunto alla quale trattenne la car-
rozza per farsi portare alla stazione ferroviaria.
Si salutarono sulla strada, davanti alla colonia: «Contiamo di averti a casa
presto» disse il padre al figlio. «Sono convinto che l’aria di Nomana ti farà
meglio d’ogni cura.»
«Se Manno per caso dovesse scriverti ancora dall’Africa» disse la madre,
voltata a metà sul mantice «chiamaci subito al telefono, e leggi parola per pa-
rola ciò che scrive.»
«Va bene» promise Ambrogio, facendosi un po’ indietro per lasciarli parti-
re.
La madre gli fece un cenno, indicando prima la propria bocca e poi in alto.
«Cosa?» domandò sorridendo il giovane, che pure aveva capito, e fattosi di
nuovo avanti protese il viso verso quello di lei.
«Prega anche tu per lui, per tuo cugino» disse sottovoce la madre.
«D’accordo mamma.»
Il vetturino romagnolo (che aveva già trovato il modo di dimostrarsi un tipo
bislacco), seduto in serpa, guardava torcendo il collo la madre e il figlio
nell’elegante divisa da ufficiale che parlavano di preghiere.
Finalmente Gerardo gli diede il via; quello agitò le redini e la carrozza parti
al trotto un po’ sbilenco del cavalluccio ossuto.
“Ecco perché io mi sono salvato” pensò Ambrogio mentre guardava il veico-
lo allontanarsi: “ecco perché oggi sono qui e non là nell’erba a Posniacof, o in
una di quelle buche davanti all’infermeria di Cercovo. Dice il Vangelo ‘Bussate
e vi sarà aperto’, ma questo della mamma non è un semplice bussare: è addi-
rittura un aprire la porta con le unghie.”
Rientrò passo passo nella colonia, fronteggiata da una vaporosa fila
d’alberelli di tamerice. “Manno...” pensava: “Chissà oggi quanto gli hanno fi-
schiato le orecchie: tutto il giorno non abbiamo fatto che parlare di lui.”
II

CAPITOLO SESTO

Incurante dei fischi nelle orecchie, Manno in quel momento stava in una
piccola cala di Le Kram alla periferia di Tunisi, assembrato con alcuni militari
e un civile attorno a una barca. Era il pomeriggio del 6 maggio 1943: in Italia
lo si ignorava ancora, ma quel giorno i due ultimi schieramenti italo-tedeschi
in Tunisia (a protezione di Tunisi e Biserta) avevano cessato il fuoco: entro
l’indomani le due città sarebbero state occupate dagli americani e dagli ingle-
si.
Nella piccola cala sul mare, circondata da fatiscenti costruzioni adibite a
depositi minori dell’esercito, in quel momento non giungevano rumori di
guerra: soltanto la rima quieta della risacca contro la sabbia.
L’attenzione di Manno (che, promosso pochi mesi prima tenente, portava
gradi quasi nuovi ai polsi della sahariana) e degli altri era concentrata sul mo-
tore della barca: un motore d’automobile davvero spaesato in
quell’imbarcazione araba, cui era stato applicato fortunosamente.
«Non capisco il criterio con cui l’avete fissato» egli osservò (era molto stan-
co - tanto stanco, appunto, da non accorgersi che le orecchie gli fischiavano -
ma cercava di non darlo a vedere): «Cosa ci stanno a fare tutte quelle travi li
sotto?»
«Noi non avevamo un vero carpentiere» gli rispose sorridendo il suo prin-
cipale interlocutore, un maresciallo dell’autocentro: «Per l’esattezza non ave-
vamo neanche un vero falegname. Avevamo solo lui, Vernazza» lo indicò, «che
ci lasciava credere d’essere falegname, mentre invece è legnaiolo: solo al mo-
mento di cominciare il lavoro l’ha confessato.»
«Legnaiolo vuol dire tagliaboschi, capite?» precisò a Manno un fante adibi-
to ai servizi di retrovia, un tipo dalla faccia larga e cordiale.
«Chi, Vernazza? Certo. Ha fatto il tagliaboschi da quand’era grande così»
attestò l’attendente di Manno, artigliere Battistessa: «A l’è pa ver, Vernasa?»
L’interpellato Vernazza annuì ridacchioso; autiere dell’autocentro (ad ecce-
zione di Manno e del suo attendente tutti i presenti appartenevano a unità di
retrovia) era basso, un po’ panciuto, biondastro, col viso rubicondo; più che
un taglialegna pareva un bottegaio. «Sì, però come l’ho fissato io, quel motore
non lo staccano più neanche le cannonate» dichiarò a mezza voce, in dialetto
piemontese.
«Ah» convenne ilare Manno «vedo.»
«È stato il sergente Vestidello a farmelo piazzare alto: per tenere alta anche
l’elica, e correre meno il rischio delle mine. Per forza ho dovuto mettere quel
rinforzo sotto.»
«Il sergente Vestidello» spiegò il maresciallo a Manno «è quel motorista del
campo d’aviazione qui vicino, di cui v’ho già parlato: uno che il suo mestiere lo
conosce come un angelo. La parte meccanica l’ha curata lui, mentre all’assetto
di navigazione ha provveduto quel tenente triestino, Zustovic, dei servizi
dell’aeronautica, che di barche se ne intende. Dovevano venire con noi tutt’e
due - come v’ho detto - anzi in un certo senso erano loro i promotori principali
dell’impresa, e invece stamattina hanno, chissà come, trovata la maniera di
smammare in aereo.»
“La Provvidenza” pensò Manno: “è stata la Provvidenza a disporre così: per
dare anche a me e al mio attendente il modo di rimpatriare.”
«Certo che a quei due gli è andata bene» commentò Faccia-larga: «A
quest’ora sono ormai tranquilli e al sicuro in Italia.»
«Sì, se la caccia inglese non li ha fregati per strada» ammonì uno,
dall’inflessione briantea. Oltre a Manno i briantei nel piccolo gruppo erano in
realtà due: i fratelli Ulisse e Felice Viganò di Merate. Tutt’e due piccolotti, con
la testa grossa e la faccia grifagna, figli d’un imprenditore artigiano di lavori
stradali, erano stati messi anche in Africa a rappezzare strade nelle retrovie:
avevano visi color cuoio, cotti dal sole e dal catrame.
All’ammonimento del brianteo tutti i presenti, chi più chi meno, annuirono
compunti: perché il pericolo degli aerei nemici - specie della caccia, tanto
diurna che notturna - incombeva anche sulle piccole imbarcazioni, e li preoc-
cupava in cuor loro più d’ogni altro pericolo, incluso quello, pur serio, costitui-
to dalle mine.
«Beh, io la barca ve l’ho mostrata» disse il maresciallo a Manno in tono
conclusivo.
«Sì. E trovo che va benone. Vi confermo che veniamo con voi molto volon-
tieri.» Si rivolse all’attendente: «Vero Battistessa?»
«Certo signor tenente» dichiarò quello con fare convinto.
«Sono contento» disse il maresciallo. «Perché senza il tenente Zustovic... La
mancanza del motorista non mi fa problema: di motori me n’intendo anch’io,
è il mio mestiere. Ma senza il tenente... Io sono dell’autocentro, non apparten-
go ai reparti combattenti. È vero che questi son tutti ragazzi che vengono di
loro volontà, e ciascuno è responsabile di sé stesso. Ma non si sa mai, potrebbe
capitare di dover prendere una di quelle decisioni che ne va di mezzo la vita
degli altri, e io... Beh, insomma, adesso sono più tranquillo.»
«D’accordo. Però non capisco una cosa: i vostri ufficiali? Non avevate qual-
cuno di loro da invitare?»
Il maresciallo tentennò la testa con un’ombra d’ironia negli occhi. «Sapeva-
no che noi stavamo preparando la barca» spiegò. «Per più di due settimane
abbiamo lavorato lì dentro, in quella baracca» indicò una delle costruzioni in
cattivo stato che delimitavano la cala, «e quando capitavano qui al magazzino
la vedevano. Però nessuno di loro s’è mai offerto di venire. Gli aerei, capite?
Ce n’è in giro troppi. Non la smettono mai di picchiare sull’aeroporto e sul
porto - ch’è ridotto tutta un’immensa rovina, se vedeste - e sul mare, là.»
Davanti alla caletta il mare si stendeva in questo momento tranquillo, senza
aerei sopra, delimitato lontano, verso destra, dalla penisola montagnosa che
culmina nel capo Bon: risultava immenso, non certo agevole da attraversare
con un mezzo di fortuna come questo. “Eppure” pensò vagamente Manno “se
una possibilità simile ce l’avessero quelli che stanno in linea!...”
«Adesso di aerei non ce ne sono» disse il maresciallo indicando il cielo che
cominciava a colorarsi dei colori della sera: «Ma è un caso, perché li si vede
tutto il santo giorno rastrellare il golfo: non ne avete un’idea voi.»
«Oh, l’idea ce l’abbiamo sì» disse Manno scambiando un’occhiata con
l’attendente: «Anche all’interno sorvolano dalla mattina alla sera ogni strada e
pista, e mitragliano perfino gli uomini isolati. Bene. V’avverto d’una cosa: io
non m’intendo di navigazione. So però usare la bussola, e la carta topografica,
o nautica, che in fondo non sono molto differenti: questo sì, ma è tutto.»
«No. Il tenente Riva è in gambissima, ve lo dico io» intervenne su queste
parole il suo attendente Battistessa. Si rivolse al maresciallo: «Va bene proprio
per quello che dicevate voi prima: per le decisioni. Sa tirare la gente fuori dagli
inghippi: dovevate vedere dopo Alamein. È proprio per questo che oggi hanno
mandato lui e non un altro qualsiasi a portare la posta al campo d’aviazione:
siccome ci tenevano che la posta partisse a ogni costo. Sì, è così.»
Manno si schermì tentennando la testa con un sorriso. In realtà a lui guida-
re gli uomini tra le difficoltà, e in genere comandare al fronte, riusciva più
congeniale che a suo cugino Ambrogio o al Michele Tintori.
«Ecco, bene» esclamò Faccia-larga, che aveva l’entusiasmo facile: «Credo
proprio che ce la faremo ad arrivare in Italia. Che non finiremo in bocca ai pe-
sci.» Si rivolse al suo amico legnaiolo: «Eh? Che ne dici, Vernazza?»
Quello approvò, ma con minor entusiasmo. «Se vengo, vuol dire che son
convinto anch’io che non finiremo ai pesci» si limitò a osservare.
Dopo di che Manno si rivolse all’unico civile presente, il quale attendeva
con uno zaino appeso a una spalla: «Forza, venite che vi do le chiavi della mo-
to» disse.
I due si scostarono alquanto dagli altri. Manno si tolse di tasca una piccola
chiave e la consegnò al civile: «Come si avvia ve l’ho fatto vedere.»
«Sì.»
«È una Matchless 350, preda bellica: voglio dire, come v’ho già spiegato,
che non è del regio esercito, ma è mia, se questo può interessarvi. L’ho trovata
intatta durante la nostra ultima avanzata, quando gl’inglesi erano in rotta.
Perché» disse con voce a un tratto diversa «c’è stato un tempo in cui, a tremila
chilometri da qui, anche noi avanzavamo...» Tacque un istante sopra pensiero.
«Lo so, signor tenente. Beh, le cose cangiano nella vita: c’è chi scende e c’è
chi sale» cercò a suo modo di consolarlo il civile, con accento fortemente sicu-
lo.
«Sì. State attento a non farvela trovare dagli inglesi. Questo comunque è af-
far vostro.»
II civile gli consegnò lo zaino. «A non farmela fregare ci penso io» lo assicu-
rò, sempre col suo accento siculo; poi, riferendosi al contenuto dello zaino:
«Sono venti scatolette e quaranta gallette nazionali, più due gavettini nuovi.
Controllate per favore.»
«Mi fido» disse Manno. (Era tutta refurtiva militare dunque: del resto, che
altro avrebbe potuto essere? Allo stato delle cose ciò rappresentava se non al-
tro una garanzia d’igiene.)
Prima d’andarsene il civile si offerse d’aiutare a spingere la barca in mare.
Manno girò la proposta al maresciallo, il quale parve incerto, controllò
l’orologio e: «Sì, forse sarebbe meglio» disse. «Grazie. Alle otto e mezzo man-
cano ancora tre ore. Però è meglio essere pronti nel caso che... Insomma, non
si sa mai.»
Nessuno obiettò. Col civile facevano undici persone: si disposero cinque da
un lato e sei dall’altro della barca, che era rivolta al mare: ne sollevarono anzi-
tutto la prua e vi sottoposero un rullo, quindi, ad una voce, spinsero con forza
tutti insieme; la barca fece un tratto avanti. Sottomisero alla prua un secondo
rullo, ne predisposero più avanti un terzo, e spinsero nuovamente, poi, recu-
perato il primo rullo, lo sistemarono ancora più avanti sulla sabbia. In queste
operazioni si dimostravano particolarmente versati i due fratelli Viganò: si
vedeva ch’erano abituati ai lavori pesanti di squadra. Finalmente, a forza di
spinte, la prua dell’imbarcazione toccò l’acqua.
«Allora?» chiesero pressoché all’unisono i due fratelli. Ulisse, il maggiore,
teneva tra le mani un rullo appena ripescato dalla superficie sporca del mare.
Il maresciallo si volse incerto a Manno: «Col tenente Zustovic si era stabili-
to di partire alle otto e mezzo, quando il buio è completo o quasi. Forse voi
credete che...?»
«Non capisco bene» fece Manno. «C’è qualcosa che vi preoccupa in partico-
lare? Che i vostri superiori ci ripensino, magari?»
«No. Non penso ai superiori. Piuttosto ad altri, che so, agli sbandati, oppure
ai tedeschi, chissà, non si può mai sapere. Della nostra barca è al corrente più
d’uno: appunto per questo noi da stamattina siamo tutti qui sul posto armati.»
Dal mare giunse un incerto rombo di motori.
«Gli Spitfire!» esclamò Battistessa.
Tutti guardarono sul mare: individuarono lontano, basse sopra l’orizzonte,
tre o quattro sagome snelle, come di squali, che trascorrevano veloci in perlu-
strazione.
«Le p...!» mormorò Vernazza: «Non la smettono un momento di rastrellare
il mare. Non ne hanno mai abbastanza.»
Manno guardò il maresciallo: «Credo che Zustovic non avesse torto; che sia
meglio aspettare il buio per spingere la barca in mare.»
«Beh» fece allora il civile «quand’è così io vi saluto.» Strinse la mano a
Manno e al maresciallo, poi anche a un soldato che gli stava vicino, infine a
tutti i presenti indistintamente: sembrava, adesso, un po’ emozionato. «Salu-
tatemi a mia Sicilia bedda» disse.
«Ho paura che non avrete la vita facile voi civili italiani qui in Tunisia» gli
disse il maggiore dei Viganò. E aggiunse: «Io ho una sorella suora in Soma-
lia.» Guardò l’altro fratello che assentì con un cenno del capo; i due non spie-
garono meglio.
Il civile fece con la mano un ultimo gesto circolare di saluto, poi risalì passo
passo la caletta verso un varco tra gli edifici. Di cosa sarebbe vissuto, si chiese
Manno, con la guerra che probabilmente gli aveva bloccato il lavoro, e forse
stava per tagliargli ogni altra risorsa? E certo aveva una famiglia cui provvede-
re.

CAPITOLO SETTIMO

Dopo un sommario mascheramento della barca, parte dei presenti si ritirò


negli edifici; gli altri - e tra questi Manno - sedettero in attesa sulla sabbia.
Che risultava fredda a quell’ora, al di là della tela leggera dei pantaloni co-
loniali. L’ufficiale era un po’ trasognato: tutto stava svolgendosi così in fretta...
Soltanto poche ore prima (quante? tre? quattro?) allorché aveva lasciato lo
schieramento dei pezzi in quel sughereto per portare l’ultima posta al campo
d’aviazione, la possibilità di lasciare l’Africa non entrava in alcun modo nelle
sue prospettive.
Era stato il suo attendente Battistessa - che, armato di mitra, lo scortava se-
duto sul sellino posteriore della moto - a proporgli di far visita a un proprio
compaesano («È accantonato a poca distanza dal campo d’aviazione... almeno,
se non m’hanno spiegato male») compaesano il quale stava con altri dandosi
da fare per applicare un motore a una barca. «Di questa faccenda della barca
io v’ho già parlato cinque o sei giorni fa, ve ne ricordate, signor tenente?» ave-
va detto Battistessa.
«Cinque o sei giorni fa? Ah!» Manno s’era ricordato: “Quella mattina
all’osservatorio infatti, coi carri armati americani che andavano e venivano
fuori tiro tra le colline... proprio un posto adatto per parlare di barche”. «Sì,
certo» aveva perciò risposto, «però non m’hai mica spiegato bene.»
Gli spiegò bene mentre la moto percorreva di buona lena la strada: il tempo
per parlare di barche adesso c’era, perché al loro gruppo, esaurite fino
all’ultima le cariche di lancio, non rimaneva che consegnarsi al nemico, già i
cannoni erano stati inchiodati a colpi di mazza. I due non avevano fretta di
tornare a uno schieramento ridotto in quello stato. “In fin dei conti” aveva
pensato l’ufficiale mentre Battistessa lo ragguagliava, “questa storia della bar-
ca potrebbe, perché no? costituire un pretesto per gironzolare nelle retrovie...”
Pur non essendo aspirante scrittore come il Michele Tintori, il futuro architet-
to Manno Riva cercava, per quanto possibile, di vedere di persona tutto ciò
che accadeva intorno a lui. «D’accordo Battistessa» aveva perciò concluso:
«una volta consegnata la posta, ci mettiamo in cerca di quel tuo amico della
barca. Come hai detto che si chiama?»
«Vernazza.»
«Quasi Vernaccia, tutto un programma!» e s’era messo a ridere giovanil-
mente, accelerando la moto nel cui serbatoio ballonzolavano ormai solo pochi
centimetri di benzina.
All’aeroporto, massacratissimo, la posta era stata non solo accettata, ma ca-
ricata si può dire sotto i loro occhi su un apparecchio che s’era poi levato in
volo con un tal baccano di ferraglia da far accorrere gli uomini dei servizi di
soccorso, i quali credevano si trattasse d’un aereo in arrivo gravemente dan-
neggiato. Lo scanzonato coraggio dei piloti italiani era molto piaciuto a Man-
no, al corrente che il decollo di quel rottame era stato deciso al solo scopo di
portare in salvo una decina di terrorizzati ‘collaborazionisti’ francesi, destina-
ti, se fossero caduti prigionieri, a essere con certezza fucilati dai ‘gollisti’.
Dopo di che tutto s’era svolto per tempi accelerati: Vernazza, ritrovato ab-
bastanza facilmente, aveva proposto loro di partire con la barca. Abituato al
pavore delle retrovie, egli non si aspettava che i due accettassero senz’altro;
alla loro accettazione li aveva accompagnati dal maresciallo. Era seguita una
sorta d’esame da parte di costui e dei due fratelli Viganò (il particolare che
Manno fosse brianteo come loro, aveva in un primo tempo suscitato nei Viga-
nò un entusiasmo quasi esilarante), cui era seguita una perplessa confabula-
zione a parte tra i Viganò e il maresciallo. Manno aveva intuito il perché di
quella titubanza: stavano chiedendosi se, accettandolo, non si sarebbero dati
un padrone, privati insomma della loro libertà. L’idea dell’avventuroso viaggio
lo attirava ormai troppo: già la sua fantasia lavorava sbrigliata, avrebbe ripe-
tuta la vicenda d’un giovane ufficiale di marina delle sue parti, il Dabòni di
Lecco, figlio di una famiglia amica, che due anni prima dalla rada di Tobruch
aveva raggiunto con pochi compagni la Sicilia su una motozattera, sottraendo-
si alla prigionia (è vero che in seguito il Dabòni era morto in mare, colato a
picco con la nave da guerra cui era stato poi assegnato). Per scavalcare ogni
obiezione egli aveva allora dichiarato ai proprietari della barca d’essere dispo-
sto a considerarsi - fino all’arrivo alla costa italiana - semplicemente loro
‘ospite pagante’: se il denaro che aveva con sé - circa tremila lire, due mesi di
stipendio - non bastava, s’impegnava sul suo onore a versare loro il resto una
volta in patria.
Era stato più che la sostanza lo spirito di questa dichiarazione a decidere i
tre confabulanti, i quali s’erano dichiarati lieti d’accoglierlo insieme col suo
attendente. Ricusata l’offerta di denaro (da parte dei Viganò con un frasario di
buona creanza che aveva richiamato acutamente al giovane il lontano mondo
della Brianza) avevano senza por tempo di mezzo spedito Faccia-larga a cerca-
re un civile attivo nel mercato nero, perché il signor tenente potesse provve-
dersi di viveri.
Il poco tempo successivo era stato assorbito dagli ultimi preparativi, in par-
ticolare dal trasporto a più riprese della benzina da un geloso nascondiglio alla
barca. Per meglio mimetizzarlo, il liquido preziosissimo era stato travasato in
taniche del tipo usato abitualmente per l’acqua potabile.
Adesso, sdraiato in attesa della partenza sulla sabbia fredda, Manno rian-
dava tutte queste cose, mescolandovi fantasticherie: si vedeva già nella barca
che procedeva instancabile sul mare, modesta ma libera, non mai catturata,
nello sciacquio sempre uguale, con un ‘gabbiano derelitto’ che la seguiva vo-
lando lento, misuratore instancabile - anche lui come la barca - del mare
sterminato. Stanco com’era finì con l’addormentarsi. Non udì le esplosioni di
uno spezzonamento aereo provenienti dalla zona dell’aeroporto, né i lontani
rumori di un mitragliamento sul mare; sognava i suoi compagni d’armi, in-
sieme ai quali aveva vissute tante e così dure vicende, rimasti là nel sughereto
coi pezzi fuori uso: “Non posso portarvi con me, lo capite anche voi. Voi lo ca-
pite, non è vero?” Alcuni annuivano, contenti che almeno lui si sottraesse alla
prigionia; altri invece gli facevano segno di no, di no con la testa, lo disappro-
vavano perché li stava abbandonando.

CAPITOLO OTTAVO

All’ora stabilita la barca venne spinta in mare. L’avviamento del motore eb-
be luogo senza difficoltà: il suo rombo regolare - che alle orecchie dei partenti
suonava molto forte - era in realtà abbastanza attutito da un rudimentale con-
gegno di silenziamento applicato dal provvido sergente Vestidello. Nel buio il
natante prese subito ad avanzare beccheggiando in direzione nord-est. Regge-
va il timone l’unico fra i dieci partenti che avesse vera pratica di barche e di
mare, anzi proprio di quel mare, scelto a suo tempo con cura dal tenente
Zustovic: il soldato Patanè, nella vita civile pescatore in Mazara del Vallo, Sici-
lia. Sul banco alla sua destra sedevano Manno e il maresciallo; Manno aveva
fissato sul sedile accanto a sé, con asse parallelo a quello della barca, una bus-
sola tascabile fornita dai Viganò; sulle ginocchia teneva la sua frusta cartella
da ricognizione di celluloide (simile a quella recuperata cinque mesi prima dal
bersagliere Stefano nella trincea dei morti), e sopra, aperta, una carta della
Tunisia con sovrapposto un lucido graduato per misurare gli angoli, strumenti
questi apprestati dal tenente Zustovic. Il maresciallo illuminava ora la carta e
il lucido, ora la bussola, mediante una piccola torcia elettrica. «Ecco» gli fece
notare Manno: «vedete? La costa fino a capo Bon ha questo andamento. La
direzione da tenere è dunque questa, sui sessantacinque gradi est.»
«Sì» conveniva il maresciallo «sì.» Gli altri volgevano gli occhi verso la
sponda appena lasciata, lungo la quale i borghi di Le Kram, Kerredine e La
Goulette venivano disegnandosi nel buio uno in prosieguo dell’altro, fila con-
tinuata di case arabe a specchio del mare; nessuno parlava.
«In questo preciso momento» annunciò a un tratto il maresciallo -
s’interruppe, consultò con pignoleria l’orologio, poi spense la torcia: «Sì, sono
le otto e trentacinque: in questo momento il mio amico maresciallo Saltame-
renda sta telefonando a quelli della difesa costiera. Per avvertirli che non spa-
rino su di noi se per caso ci sentono in mare. Ve l’avevo già detto.»
«Speriamo bene» mugugnò preoccupato il minore dei Viganò, Felice.
Suo fratello Ulisse, che sedeva sul ponte di prua, non disse nulla; molto te-
so, impugnava con la destra una grossa torcia elettrica, pronto ad accenderla
in caso di necessità: intanto scrutava lo spazio di mare davanti alla barca la
quale, sotto la spinta del motore, tagliava ormai metodica senza quasi solleva-
re spume quella superficie nerissima. Anche gli altri - distribuiti con cura per
l’equilibrio sulle due panche lungo i fianchi dell’imbarcazione - fissavano ogni
tanto l’acqua; anche Manno, e benché non fosse un pavido, ne riportava ogni
volta un senso di sgomento. Il mare infatti, in quelle condizioni e a quell’ora,
aveva un che di chiuso, di respingente, era irriconoscibile.
Non essendovi luna non si poteva scorgere verso destra il lontano profilo
della costa in parallelo alla quale si sarebbe navigato; del resto il timoniere
Patanè sembrava non fare alcun conto di quella costa. Minuto di persona, di
pelle scura, col naso aquilino, i baffetti neri e la divisa incredibilmente trasan-
data, pareva un arabo: “A lui questo caicco indigeno deve sembrare
un’imbarcazione più o meno normale” pensò Manno. Lo vedeva cercare di
tanto in tanto con gli occhi la stella del nord e correggere quasi insensibilmen-
te - agendo al timone - l’angolo che l’asse della barca faceva con essa. Da prin-
cipio chiese più volte all’ufficiale se la direzione così ritoccata fosse giusta, e
ogni volta Manno controllò con attenzione sulla bussola, confermando, oppu-
re correggendo di poco; infine Patanè si sentì abbastanza sicuro e non chiese
più controlli.
Nella tensione segreta di ciascuno - alimentata soprattutto da lontane, pic-
cole luminarie di razzi lanciati sul mare da invisibili aerei nemici - la barca
seguitava a procedere scoppiettando, senza incontrare mine, né reti di sbar-
ramento, né altri ostacoli. Cominciavano invece a farsi sentire, sgradevolmen-
te e con forza inaspettata, il freddo e l’umidità, per cui uno degli uomini trasse
da sotto la panca la propria coperta e se ne avvolse; gli altri, preso esempio da
lui, lo imitarono. Il più anziano dei Viganò, Ulisse, lasciò a tal fine momenta-
neamente il ponte di prua, e camminando con qualche inciampo lungo
l’imbarcazione venne a prendere sotto la panca di poppa la propria coperta.
«Riesci a vedere qualche cosa davanti a te?» s’informò il maresciallo allor-
ché quello gli passò davanti.
«No, vedo soltanto buio» gli rispose il Viganò: «mare e aria sono tutto un
inchiostro.»
«Allora potresti anche fare a meno di tornare là sopra, se credi.»
Il Viganò, dopo aver cercato a tentoni e presa sotto il sedile di Patanè la sua
coperta, nel tornare indietro: «No» rispose al maresciallo, «perché non si sa
mai. Col tempo potrei anche abituare un po’ la vista, non si può mai dire. E poi
ho sempre questa.» Alzò nel buio la torcia elettrica spenta.
«Del resto» osservò Manno «che tu stia là o in un altro posto fa lo stesso.»
«Anzi, se saltiamo su una mina» disse, lugubre senza volerlo, l’Ulisse Viga-
nò «avrò probabilmente il vantaggio di trovarmi sistemato subito, e di non
restare storpiato. So quel che dico» aggiunse «e lo preferisco. Mio padre è cie-
co da dieci anni per lo scoppio di una mina da cantiere.» S’allontanò, sempre
camminando un po’ sghembo, verso prua, dove si rimise a sedere con la co-
perta stesa sulle spalle.
Trascorse, senza che nulla di pregiudizievole accadesse, una prima ora. Poi
una seconda. Il lancio di razzi da parte degli aerei nemici sembrava essersi
fatto molto saltuario, la tensione e l’ansia di ciascuno andavano un po’ alla
volta diminuendo; non si estinguevano del tutto però, in quanto ciascuno era
conscio che fino all’ultimo minuto di navigazione una sorpresa mortale era
possibile, questo tutti seguitavano ad avvertirlo.
A Manno tornava in mente il guardiamarina Dabòni di Lecco, già suo com-
pagno al Politecnico di Milano, del quale non si prospettava più - come nel
pomeriggio prima di partire - il fortunato viaggio in motozattera da Tobruch
alla Sicilia, ma piuttosto la successiva tragica fine. Era andato a fondo con la
nave cui era stato poi assegnato, una corvetta... Chissà in che condizioni era in
questo momento il suo povero corpo, se pure ne rimaneva qualcosa, là nella
tomba di metallo in fondo al mare. “Quanto dureranno senza disfarsi i corpi
chiusi negli scafi sprofondati? Vero che per noi, se quest’avventura finisce ma-
le, non ci sarà neanche quel po’ di tomba...”
Essendo fantasioso immaginò sé stesso e i suoi compagni indistinte forme
umane appiattite sul fondo del mare “magari coi pesci intorno che, con le loro
bocche schifose, ti fanno a brandelli”. Per lui ad ogni modo la cosa veramente
preoccupante non era questa, la dissoluzione fisica: per lui (e per tanti, oggi
come mille, come duemila anni fa) la cosa più preoccupante era ciò cui va in-
contro dopo la morte non il corpo ma lo spirito, era la sorte dell’anima
nell’aldilà. Eccolo ancora una volta di fronte al problema per lui massimo: che
sorte avremo nell’aldilà? Ci salveremo tutti? Nel Vangelo certe frasi di Gesù -
cioè di Dio fattosi uomo appunto per salvarci - lo fanno pensare, ma certe altre
non lo fanno pensare affatto. A Manno sembrava perciò arbitraria la placida
fiducia di certuni - di certi giovani preti per esempio - nella salvezza di tutti.
“Su cosa si fonda la loro fiducia? Quelli a essere ottimisti ci si costringono: per
carità magari, o per pietà... Forse che, per cominciare, qui sulla terra l’inferno
non esiste? Accidenti se esiste!” Gli si affacciarono alla mente certe ore ad
Alamein, e quei racconti della vita in trincea nella guerra passata (delle tanto
più recenti vicende di Russia non era ancora al corrente); pensò anche a quale
dovesse essere la condizione degli ebrei - donne, bambini, uomini - caduti in
mano ai nazisti... (“Fortuna che in Italia i fascisti non gli consentono di toccar-
li...”) “Dunque: se di qua l’inferno c’è, perché dobbiamo escludere che possa
esserci anche di là? Per quale ragione? Con la differenza fondamentale che di
là gli esseri umani non si trovano nel tempo, ma nell’eternità, dunque anche
nell’eternità dell’inferno...”
Con gli occhi chiusi, avviluppato in una coperta consegnatagli dal mare-
sciallo, un po’ chino in avanti, Manno pensava e pensava. Avvertiva intanto
sul viso l’aria umida della notte; al suo pensare si accompagnavano, instanca-
bili, il rombo del motore e lo sciacquio della chiglia. (“Che resistenza straordi-
naria, però, a volerla considerare, quella del metallo di cui sono fatti i moto-
ri...”)
‘Ma Dio è amore, lo vuoi capire?’ tornavano a contrastarlo quei preti fidu-
ciosi (anche il cappellano del suo reggimento, col quale proprio di questo ave-
va discusso in un bivacco sulla strada della Sirte, una notte che tutt’e due ca-
devano a pezzi dalla stanchezza). ‘Tu, imperfetto come sei, manderesti qual-
cuno all’inferno, cioè nei tormenti per l’eternità?’ gli obiettava anche adesso il
cappellano: ‘e vuoi che ce lo mandi Dio? Il quale oltretutto ci prescrive, sopra
ogni altra cosa, di amarci e di evitarci le sofferenze gli uni agli altri?’ Il punto
però - si diceva Manno - stava qui: nel fatto che non era mica Dio a mandarce-
li. Proprio come non era Dio a introdurre gli uomini negli inferni di questa
terra: sono loro stessi, gli uomini, che nella loro terribile libertà ci si mettono
(che partono ad esempio in guerra gli uni contro gli altri, che inventano il raz-
zismo, eccetera), e lo fanno in contrasto con Dio, andando cioè contro la sua
volontà e i suoi comandamenti... “Per poi concludere magari, i più incoscienti,
che Dio non esiste, visto che c’è tanto male sulla terra!”
C’era inoltre quel particolare del fuoco, quegli accenni qua e là nei testi sacri
al fuoco eterno. Per quegli accenni più d un credente finisce con l’attribuire
alla parola inferno un significato solo metaforico. “Molti non credenti poi, per
quegli accenni si confermano nell’opinione che la Scrittura è una mescolanza
inattendibile di miti, leggende, racconti storici e prescrizioni varie, messa in-
sieme da un popolo di seminomadi.” Per lui al contrario quei richiami al fuoco
rendevano la sgradevole prospettiva dell’inferno - anche in questo momento
lo constatava - più plausibile. “Perché se l’essere umano è davvero costruito
per formare un tutt’uno con Dio, come i tralci con la vite, allora il trovarsi de-
finitivamente separato da Dio (questo e non altro essendo l’inferno) compor-
terà - per l’essere umano immortale - una sorta di disintegrazione permanen-
te... E cos’altro sulla terra potrebbe rendere meglio del fuoco l’idea della disin-
tegrazione?” Il fatto che quei seminomadi, solo in parte coscienti di ciò che
scrivevano, e certo ignoranti del rapporto vite-tralci, avessero usata la parola
fuoco, secondo lui contribuiva dunque a indicare che avevano scritto sotto
un’ispirazione superiore... Però basta pensare a queste cose, a questi grandi
problemi, per stanotte basta.

***

Al suo fianco il maresciallo ogni tanto si rigirava; finì con l’accendere guar-
dingo la torcia elettrica e consultare l’orologio. «Sono le undici» annunciò,
rompendo il silenzio generale: «Se la stima della velocità fatta dal tenente
Zustovic - otto chilometri all’ora - non è sballata, dovremmo avere ormai per-
corsa una ventina di chilometri.»
«Certo è che abbiamo un buon motore» disse Manno, «un motore che fun-
ziona a dovere: su questo non c’è ormai dubbio.»
Vernazza, che aveva applicato il motore allo scafo, sorrise soddisfatto come
per un elogio fatto a lui personalmente. «E sì che ho dovuto piazzarlo molto
alto» disse «per tenere alta anche l’elica. Siccome Vestidello insisteva che le
mine si trovano tutte ancorate fra i tre e i quattro metri di profondità.»
«Chissà se noi siamo passati su qualche mina?» buttò là Faccialarga.
«Di sicuro su più d’una» gli rispose il maresciallo. «Perché ci sono diversi
sbarramenti nel golfo; noi però non peschiamo neppure un metro.»
«Quello che a me dà più soddisfazione» disse il secondo dei Viganò «è che
nell’acqua il motore funziona bene quanto nelle prove dentro il capannone:
quel Vestidello coi motori è davvero un bulo.»
Il timoniere Patanè, che di barche se ne intendeva, annuì. «Magari tutti i
motori di barca funzionassero come questo» disse, e insisteva nel buio ad an-
nuire.
“Chissà quante ne ha passate sulle barche questo qui” pensò Manno, e:
«Vuoi un po’ di cambio?» gli chiese con simpatia.
Ma l’altro: «Signornò» rispose pronto, e non senza una punta di prosopo-
pea meridionale: «Io resisto la notte intera senza stancarmi» aggiunse.
Corse qualche altra frase, poi si tornarono a udire soltanto lo scoppiettio re-
golare del motore e lo sciacquio della chiglia. Passò, poco alla volta, un’altra
ora, poi un’altra ancora. Gli aerei - là sul mare verso Tunisi - adesso si davano
di nuovo molto da fare coi loro bengala.
A Manno tornava in mente ogni tanto il Dabòni di Lecco. Erano stati com-
pagni al Politecnico s’è detto (dove quello frequentava ingegneria e Manno
architettura), ma si conoscevano già da prima, perché il Dabòni apparteneva a
una famiglia d’industriali paolotti come quella dello zio Gerardo, con la quale
lo zio era da anni in rapporti d’amicizia e d’affari: il giovane aveva fatto parte
d’un en plein di ben undici figli, di cui dieci ragazze e lui solo maschio. E pro-
prio lui, l’unico maschio, era morto... “Come se la caveranno in futuro i Da-
bòni? Chi porterà avanti la loro industria?” Ch’era un’industria importante nel
ramo della grande carpenteria metallica, con molti operai. Aveva costruito
alcuni dei maggiori ponti in ferro d’Italia, per esempio quello ferroviario sul
Po a Piacenza; quando - per la vicinanza della stazione - su quel ponte il treno
rallentava, si poteva leggere la scritta ‘Dabòni - Lecco’ in rilievo sulle travi
principali. “Gente in gamba i Dabòni, che non scherza né in pace né in guerra.
Però come farà il vecchio adesso che è rimasto solo? Chissà se qualcuna delle
ragazze è in grado d’aiutarlo, di affiancarglisi in qualche modo nel lavoro?
L’Adriana forse, che studia con Francesca, nello stesso collegio di monache?
Se un giorno o l’altro il vecchio dovesse mancare, vorrei proprio sapere quale
delle dieci ragazze si assumerà il compito di portare avanti l’industria...” (Oggi
noi siamo in grado di dirlo: fu appunto la compagna di classe di Francesca, la
quale - sebbene intenzionata a farsi monaca - poiché era tra le dieci sorelle la
più dotata per ingegneria, si fece prima ingegnere, portò avanti per diversi
anni, pur così giovane, l’industria paterna, e quando finalmente ci furono dei
cognati in grado di darle il cambio, entrò in un monastero, di carmelitane.)
Quante cose, ricordi, pensieri... E non solo nella testa di Manno, ma anche
degli altri, perché nessuno - data la tensione - riusciva a prendere sonno. Lo
scoppiettio del motore e lo sciacquio della chiglia continuavano incessanti,
tanto da stordire alla lunga un po’ tutti. Sopra questa e sopra ogni altra barca,
e le navi armate, ferme nei porti o in corsa sul mare, e sopra i sommergibili
che vi pencolavano in agguato, e le mine vaganti, e i lunghi filari di torpedini
ancorate quasi a fior d’acqua, si spiegava il gran cielo stellato. Manno si diede
a esaminarlo pigramente: peccato non saper distinguere le costellazioni...
Nell’estate precedente suo cugino Ambrogio gli aveva scritto dalla Russia
dell’interesse per le stelle che un amico (si trattava di Bonsaver) aveva suscita-
to in lui, e gli aveva comunicato d’aver dato incarico ad Alma d’acquistare e
spedire a ciascuno di loro due, Ambrogio e Manno, un manualetto
d’astronomia. Tale iniziativa era molto piaciuta a Manno: Alma però, e dopo
di lei Francesca, non avevano trovato manuali adatti: nelle librerie di Milano
le due ragazze avevano trovato soltanto volumoni scientifici irti di numeri e
diagrammi, che non avevano ritenuto opportuno spedire. Così lui era rimasto
ignorante di stelle. “Però: ‘ignorante di stelle’, che espressione!...”
Mentre il tempo seguitava a trascorrere, Manno si provò, come durante cer-
te veglie all’osservatorio, ad attribuire i pochi nomi di costellazioni che ricor-
dava (la Lira, lo Scorpione, il Toro, la Chioma di Berenice) ai disegni di stelle
che in qualche modo avrebbero potuto corrispondervi. Sbagliò tutte le attribu-
zioni, e sebbene non ne fosse consapevole, rimase insoddisfatto.

CAPITOLO NONO

Un’ora circa prima dell’alba (nonostante la tensione nervosa più d’uno dei
naviganti si era addormentato) il maresciallo fece accostare con decisione la
barca a destra: su quel lato la costa - che culminava nel probabilmente ormai
vicino capo Bon - era stata durante tutta la notte più che vista avvertita nel
buio. Stando al programma si doveva prima della luce tirare in secco la barca
in un luogo deserto: cosa che i naviganti fecero senza difficoltà, approdando a
una spiaggetta circondata da colline brulle e disseminata di falaschi e cannuc-
ce bruciate dal sole. Col qual materiale il mascheramento della barca («Sia dai
nemici che dagli amici» come ammonì il maresciallo) non richiese molto tem-
po. Tutti si rintanarono poi in una grotta nell’arenaria a poca distanza. Batti-
stessa, l’attendente di Manno, sedette per il primo turno di guardia
all’imbocco, col suo mitra tra le ginocchia; gli altri si allungarono con le coper-
te addosso sul fondo sabbioso, e non tardarono ad addormentarsi.

***

Manno si destò verso mezzogiorno; levatosi su un gomito controllò l’ora; in-


torno a lui tutti seguitavano a dormire, dall’esterno entrava nella grotta, in-
sieme col riverbero paglierino del sole, un gran caldo e un frinire incessante di
cicale. Si mise a sedere: al suo fianco il maresciallo faceva ogni tanto nel sonno
qualche piccola smorfia; aveva allontanata la coperta che ora gl’impacciava le
gambe, vicino alla testa gli stava, posato sulla sabbia, il binocolo. L’ufficiale
prese lo strumento e la propria cartella da ricognizione in cui erano le carte, si
alzò in piedi e, avendo cura di non far rumore, raggiunse l’imboccatura della
grotta. Dove ora sedeva di guardia Faccia-larga, che gli sorrise; Manno ricam-
biò il sorriso e lo avvertì sottovoce: «Vado su una delle colline qui attorno a
dare un’occhiata.» Intanto si assettava alla vita il cinturone con la pistola, di
cui non s’era spogliato neanche durante il sonno. «S’è visto qualcuno fino
adesso?»
Faccia-larga gli fece segno di no con la testa: «Nessuno» mormorò.
«Bene. Starò fuori una ventina di minuti.»
Uscì dalla penombra nel sole abbacinante; con una mano orizzontale sopra
gli occhi si guardò intorno alla ricerca dell’altura più adatta al suo scopo: optò
per una non molto elevata ma semicircondata dal mare, e s’incamminò; in
pochi minuti ne fu al sommo. Qui, sdraiatosi per terra tra due cespugli spino-
si, si mise a esplorare con metodo il mare.
Il quale era d’un bel colore turchino intenso, e totalmente deserto.
Fissò il binocolo su due piccole isole giallastre discoste dalla riva: da questa
pur modesta altezza ne individuava bene i rapporti di posizione reciproci. Le
osservò attento, poi trasse dalla cartella la carta nautica ed esaminò anche
quella con attenzione. “Potrebbe trattarsi di questi isolotti qui, vediamo. Se
non sto sbagliando, su questo allineamento ci dovrebbe allora essere, davanti
alla costa, quest’altro affare isolato.”
Controllò col binocolo il mare davanti alla costa: l’ ‘affare’ - un isolotto roc-
cioso - c’era effettivamente: anche se distinguibile a fatica per la distanza.
“Meno male che ho preso il binocolo del maresciallo. Forza. Adesso, per
controllo, confrontiamo le misure delle isole: questa qui, sulla carta, è di... tre
millimetri circa, che fa tanti metri. Sì, dovremmo esserci.” Anche le misure
corrispondevano. Proseguì il suo esame con calma, aveva tempo. Giunse alla
conclusione che la barca era approdata “qui, in questo preciso punto della co-
sta”. Lo segnò sulla carta con la matita.
Erano dunque effettivamente prossimi al termine della penisola che si pro-
tende dalla Tunisia verso la Sicilia, non distavano molto da capo Bon.
Concluso l’esame il giovane si levò in piedi tra i cespugli ed osservò torno
torno, attentamente, anche il panorama terrestre: che era piuttosto ridotto a
causa delle circostanti alture: risultava esso pure deserto, senza traccia di uo-
mini.
Cominciò ad avvertire uno straordinario senso d’avventura, quasi stesse vi-
vendo chissà quale leggendaria impresa. Se in quel momento gli fossero ap-
parsi i Lotofagi (abitatori, secondo la tradizione, appunto delle coste della Tu-
nisia) non se ne sarebbe meravigliato. Per quanto seguitasse a guardarsi in-
torno non vide però esseri mitologici: scoprì invece alcuni strani uccelli che
entravano e uscivano da buche scavate nel fianco a picco d’una collina. Li
esaminò attento col binocolo, sicuro che tali uccelli in Italia non sono presenti.
Data poi un’ultima occhiata di controllo al paesaggio circostante, scese passo
passo la collinetta e tornò alla grotta.
In cui gli altri seguitavano a dormire. Sedette allora accanto alla sentinella
presso l’entrata, la schiena contro la parete d’arenaria: la sentinella, staccati
momentaneamente gli occhi dal cumulo di canne che copriva la barca, seguì
ogni gesto dell’ufficiale mentre sedeva.
«Ho individuato il punto in cui ci troviamo» disse questi a mezza voce.
Faccia-larga annuì sorridendo.

***

Più tardi ci fu il rancio - ciascuno per conto proprio -, un po’ di sgranchi-


mento delle gambe, qualche altra ora di sonno nel tardo pomeriggio, e il se-
condo rancio. Diverse volte nel corso della giornata comparvero sul mare aerei
nemici: un paio di volte picchiarono sparando sopra bersagli invisibili, molto
al largo, una volta accanendosi con ripetuti passaggi.
Nel tardo pomeriggio si profilò all’orizzonte una serie di punti neri, che
crebbero di volume fino a rivelarsi navi: una formazione navale apparente-
mente diretta a Tunisi.
«Saranno nostre o nemiche, quelle navi?» si chiedevano i fuggiaschi. «For-
se la marina s’è finalmente decisa a imbarcare l’esercito? - Dai, non dire fesse-
rie: se la marina poteva fare qualcosa, l’avrebbe fatto prima, non adesso ch’è
troppo tardi. - Devono essere per forza navi inglesi. O americane. - Magari
inglesi e americane insieme. - Andranno a bombardare? Oppure a quest’ora la
città sarà già in mano dei loro?»

CAPITOLO DECIMO

Un po’ prima che scendesse il buio la barca venne spinta di nuovo in mare,
e col suo regolare tà-tà-tà riprese ad avanzare, tenendosi da principio vicina
alla costa. La residua luce consentì ai naviganti di scorgere di lì a non molto
qualche casupola araba presso la riva, e anche un piccolo insediamento milita-
re. Dal quale alcuni soldati italiani in pantaloni corti osservarono incuriositi e
perplessi l’imbarcazione trascorrere: intuivano senza dubbio che si trattava di
connazionali profughi, non li degnarono comunque di un allarme, e neanche
d’un saluto.
In tempo per il buio completo la barca era di nuovo al largo. Continuò tut-
tavia a tenere una rotta parallela alla costa, con direzione est-nord-est, fino a
superare - secondo i calcoli di Manno e del maresciallo - l’altezza di capo Bon.
Sebbene tutt’e dieci gli uomini insistessero ad aguzzare la vista, non riusciva
loro d’individuare il capo. La brezza risultava però sensibilmente cresciuta, e
anche le onde - pur conservandosi basse - s’erano fatte più larghe.
«L’impressione è d’essere ormai entrati nel mare aperto, di essere usciti dal
golfo di Tunisi» fece notare Manno: «Che ne dite?» Chiese il parere del timo-
niere: «Tu che ne dici, Patanè?»
«Non si può sapere» rispose quello, scorbutico: «io non lo so.»
Il maresciallo si volse nel buio all’ufficiale: «Cosa decidiamo, signor tenen-
te?»
«Io direi, per sicurezza, d’andare avanti così per un’altra mezz’ora: tra
mezz’ora potremo senza pericolo dirigere la prua verso sud-est.»
«Da qui a Pantelleria abbiamo novanta chilometri buoni.»
«Sì, non è uno scherzo. Ma l’idea di fare una seconda sosta sulla riva tunisi-
na al di là del capo, voi l’avete scartata in partenza. Dunque...»
«Sì, e scartata sia» disse il maresciallo.
«Basta Africa» proclamarono quasi ad una voce anche i due Viganò.
«Coraggio allora» concluse Manno. «Vuol dire che quando la barca virerà
di bordo ci metteremo di vedetta in due. Anzi io mi ci metto addirittura. Chi
vuol venire con me?»
«Io» si offrì il suo attendente Battistessa alzandosi in piedi.
«Dai, andiamo a piazzarci.»
I due percorsero la barca fino al ponte di prua, sul quale si appollaiarono,
Manno con la torcia dei Viganò nella destra.
L’imbarcazione seguitò ad avanzare senza cambiar direzione per un’altra
mezz’ora, poi, a una voce dell’ufficiale, Patanè agì al timone ed essa virò verso
destra di circa novanta gradi. Non ci soffermeremo sui particolari; circa un’ora
più tardi i due fratelli Viganò vennero a dare il cambio a Manno e a Battistes-
sa; il tenente riprese il suo vecchio posto accanto al maresciallo.
«Ormai non c’è più motivo di dubitare» disse sedendo: «sia il capo che la
costa tunisina li stiamo con certezza lasciando indietro.»
«Sì» convenne il maresciallo, «se no a quest’ora ci saremmo già finiti con-
tro.» Si voltò a cercare con gli occhi la costa; anche Manno si provò
un’ennesima volta a cercarla: non scorsero niente, soltanto buio. Come la not-
te precedente tuttavia in quella direzione le stelle non scendevano fino al pia-
no del mare, ma si fermavano un po’ più su, nascoste, le più basse,
dall’invisibile penisola montagnosa.
Il maresciallo mormorò a un tratto a mezza voce: «Ciao Africa.» Manno lo
sbirciò sorpreso; il buio non gli consentiva di vederne l’espressione.
Un soldato seduto vicino — il più giovane della piccola brigata, quasi una
recluta - che aveva percepita la frase malgrado il rombo del motore, se ne en-
tusiasmò e la ripeté a voce alta, più volte: «Ciao Africa! Ciao Africa! Basta
bombe, caldo, sete, pericoli. Basta marcio e puzza, di morti. Eh, cosa ne dite?
Finalmente!» Gli altri, chi più chi meno, assentirono riscuotendosi un po’, con
qualche commento: era per tutti una gran liberazione, e ciononostante...
«State buoni» ammonì il maggiore dei Viganò, «i pericoli per noi non sono
ancora finiti, cosa credete?»
L’entusiasmo rientrò subito.
Dopo qualche minuto: «Quanti anni avete passato in Africa, maresciallo?»
chiese a mezza voce Manno. Il suo vicino non rispose: l’ufficiale si rese allora
conto che piangeva.
“Chissà cosa gli sta passando per la mente” pensò il giovane. “Quanti e quali
ricordi...” Forse l’anziano uomo (sui quarant’anni: ormai un vecchio per quelli
che avevano l’età di Manno) aveva speso in Africa una parte notevole della sua
vita. “Gli anni migliori spesi così, senza possibilità di un seguito... A dirlo si fa
in fretta, ma dev’essere una gran brutta sensazione. Poveraccio!”
«Maresciallo, ci sono quelli che non potranno più tornare del tutto: a loro è
andata ancora peggio» suggerì di lì a un po’, sempre a mezza voce, il giovane.
Neanche stavolta il maresciallo gli rispose. In realtà egli non si sentiva
avanti con gli anni: se Manno e gli altri ragazzi presenti avessero potuto entra-
re nella sua mente, si sarebbero meravigliati di quanto poco si sentisse vec-
chio. Non era questo dunque il punto. Né lo angustiava, per ora almeno, il
pensiero che le sue possibilità economiche sarebbero in futuro ancora dimi-
nuite: era abituato alla povertà sempre nuova (malgrado qualche apparenza in
contrario) della vita che si era scelto. Ciò che non gli riusciva d’accettare era il
naufragio d’un sogno. Se gliel’avessero detto, lui stesso non ci avrebbe credu-
to, eppure era proprio così: era il naufragio del sogno che l’aveva nascosta-
mente sostenuto fin dalla giovinezza, di partecipare a un’impresa di conquista
fuori del comune, non ben chiara nella sua mente, ma reale, in corso, vissuta,
sia pure nelle retrovie. Di famiglia poverissima, egli non aveva intrapresa la
carriera militare per fare l’eroe - e infatti non era entrato in un’arma combat-
tente - però, una volta in servizio, non si era neppure chiuso nell’orizzonte del
piccolo stipendio assicurato: aveva avuto bisogno di credere allo scopo della
sua attività, che gli veniva presentata come tesa a una maggior grandezza della
patria. Così, malgrado il trito cinismo del parlare quotidiano, lui nei ‘luminosi
destini’ della patria ci aveva creduto davvero. Più che nello stipendio e nelle
possibilità materiali di vita che a lui ne derivavano; evidentemente anche i
ruspeghi marescialli d’autocentro - dai lineamenti e dalle idee non bene sboz-
zati - hanno bisogno per vivere d’un po’ d’ideale. Ora egli realizzava in modo
inequivocabile che la patria stava andando incontro a una tremenda sconfitta.
E, quel ch’era più grave, senza nemmeno lasciare un ricordo di gesta memora-
bili, al modo degli odiosi tedeschi; anche qui in Africa infatti, come in Grecia,
come in Russia, c’erano state divisioni nostre che avevano ceduto con inspie-
gabile facilità (una - secondo si asseriva - s’era dissolta nel corso d’una sola
notte: i soldati raccontavano questo episodio come si racconta una barzellet-
ta).
«Vogliamo controllare la carta?» propose a un tratto Manno, per costringe-
re il maresciallo a pensare ad altro; e postosi sulle ginocchia la sua cartella, ne
trasse la carta geografica e la illuminò con la torcia. Quindi vi posò sopra il
doppio decimetro: «Vediamo. Non si scappa: sono tanti centimetri, il che cor-
risponde a tanti chilometri... È esatto? Dico bene?»
«Sì» gli rispose finalmente il maresciallo, consentendo a lasciarsi assorbire
dal problema.
«Con quest’andatura dovremmo essere a Pantelleria più o meno verso le
dieci: dunque saremo costretti a fare cinque o sei ore di navigazione in piena
luce.»
«Che Dio ce la mandi buona» disse il maresciallo in tono scherzoso, anche
se con voce non del tutto franca.
«Ci ha aiutati finora, ci aiuterà sino alla fine, vedrete» disse Manno con fi-
ducia, e nel suo intimo pregò per qualche istante il Signore Iddio: che li aiu-
tasse nell’impresa, ma soprattutto rincuorasse il vecchio maresciallo e gli fa-
cesse superare la pena che chiaramente lo tormentava.
«La cosa più importante è non sbagliare la direzione» riprese: «L’angolo ri-
spetto al nord, se lo misuriamo col lucido graduato, è di...»

CAPITOLO UNDICESIMO

Verso le quattro cominciò a schiarire. A levante si formò nelle tenebre un


barlume verde scuro, che tracciò poco alla volta un segmento d’orizzonte, co-
me a dire un principio di separazione tra il cielo e il mare, entrambi ancora
neri. Poi la luce crebbe, si diffuse, le stelle andarono attenuandosi, mentre la
macchia verdastra si espandeva sempre più, trasmutando in rosso, in oro, in
altri colori. Sospesa nel cielo sopra il mare sterminato rimase un’unica stella,
goccia di luce tremula: era Espero, la prima che si accende la sera, l’ultima che
si spegne al mattino. Dal piano del mare emerse infine un punto straordina-
riamente luminoso, che crebbe fino a trasformarsi in un principio di disco: il
sole.
I dieci uomini, avvolti nelle loro umide coperte, osservarono quasi senza
parlare lo spettacolo, mentre la barca seguitava a correre bravamente, spinta
dal suo inestetico motore.
Come fu giorno provvidero - utilizzando a turno i pochi secchi e catini di-
sponibili - a lavarsi il viso, le braccia, e il torso con acqua di mare; qualcuno -
con notevole imbarazzo - vuotò anche l’intestino.
Mentre erano intenti alle pulizie comparvero i primi aerei: tre, a doppia fu-
soliera, inconfondibilmente americani, i Lightning, velocissimi sul mare, per
fortuna lontani.
«Si comincia presto, eh?» osservò il maresciallo. «Avanti, organizziamo
quel po’ di camuffamento.»
II camuffamento si riduceva a una rete da pesca molto fuori uso (più un ri-
cordo di rete che una rete), che venne sistemata con evidenza sulla barca,
nonché in due o tre camicie non militari, bianche, che alcuni soldati infilarono
in luogo di quelle cachi. I più degli altri - Manno compreso - sebbene l’aria
fosse ancora fresca si misero in canottiera, qualcuno con un fazzoletto anno-
dato sul capo; Patanè rimase invece com’era, la sua divisa essendo così mal-
concia che poteva essere scambiata benissimo per l’indumento di un pescato-
re.
Battistessa controllò un paio di volte che il suo mitra fosse sistemata sotto
la panca in modo da poter essere estratto immediatamente: pensava infatti,
nel caso un aereo se la fosse presa con la barca, di sparargli contro a raffica al
momento giusto, quando cioè fosse stato molto vicino. Manno seguì con
l’occhio l’armeggio dell’attendente e lo approvò con un cenno del capo: igno-
ravano entrambi l’esperienza di Ambrogio, come avesse inutilmente sparato
contro gli aerei nemici non con un semplice mitra, ma con la mitragliatrice.
Dopo nemmeno mezz’ora ecco nel cielo un’altra formazione aerea: impo-
nente, d’alcune decine di quadrimotori, anche questa nemica e lontana, diret-
ta verso nord, verso la Sicilia.
Passarono poi con direzione quasi inversa, sempre molto lontani, e non più
a destra ma a sinistra del natante, tre aerei tedeschi, in apparenza da traspor-
to. Nemmeno essi individuarono o si curarono della barca.
Infine ecco due caccia italiani: dell’ultimo tipo, i C 205, belli a vedersi e tec-
nicamente in grado (“Era ora!”) di competere con i caccia nemici. Questi, de-
viando alquanto dal loro percorso, scesero fragorosi sulla barca e la sorvolaro-
no a una ventina di metri, i fasci littori ben visibili sotto le ali: tutt’e dieci i na-
viganti agitarono le braccia gridando saluti festosi.
«Di sicuro quelli vengono da Pantelleria» disse la recluta. Faccialarga
esclamò eccitato: «Avete visto? Uno dei piloti ci ha risposto... ci ha risposto
agitando la mano.»
Gli aerei ripresero vivacemente quota, simili a cavalli di razza che
s’impennino, e divorando lo spazio scomparvero verso la Tunisia.
Per circa un’ora il cielo rimase vuoto e gli animi poco a poco si ridistesero:
mutuavano la calma dalla superficie sconfinata, di per sé pacifica, che li cir-
condava. Manno, gli occhi fissi all’orizzonte di prua, cominciò a recitare men-
talmente le preghiere del mattino. A momenti però si distraeva, e allora pen-
sava a tante cose. Per cominciare - ancora una volta - all’incredibile occasione
che gli s’era offerta di sottrarsi alla prigionia: non si trattava di un caso, egli in
questo momento lo sentiva bene. Da anni gli accadeva di sperimentare, in cer-
ti frangenti, la sensazione che la Provvidenza lo stesse tenendo in serbo per un
compito a lui sconosciuto (per qualche tempo aveva pensato alla vita missio-
naria...): adesso questo ritorno inatteso finiva con l’apparirgli sempre più in
rapporto con quell’ignoto compito. Pensava anche ai compagni d’armi (quello,
e quell’altro, e quell’altro ancora) cui tanti ricordi di guerra lo legavano, rima-
sti coi pezzi inservibili nel bosco di querce da sughero: chissà cos’avevano det-
to non vedendolo tornare, che supposizioni avevano fatto. Forse a quest’ora
erano già tutti prigionieri? Pregò per loro, che nella prigionia non marcissero,
che il cuore gli si conservasse pulito come nei giorni del pericolo. Ciao, vecchi
compagni. Pensò anche al Dabòni di Lecco, il quale dopo la brillante impresa
del ritorno in patria era morto in mare, lasciando la famiglia nel lutto. Chissà
che pianti le sue dieci sorelle: roba da tragedia greca! Roba però anche del suo
ambiente nativo, l’ambiente industriale dell’alto milanese e del comasco, in-
somma della Brianza. Il suo ambiente nativo, Nomana... Tra qualche giorno -
Dio aiutando - lui sarebbe arrivato a Nomana! Già, ma in questo momento
non stava recitando le preghiere del mattino? E allora perché si distraeva? Il
tempo seguitava a passare.

Laggiù davanti alla barca gli sembrò d’individuare una minuscola parvenza,
una macchiolina indefinita. Davanti alla barca? In quella direzione un’isola
appena visibile? Non poteva che trattarsi di Pantelleria...
«Guardate un po’ là, maresciallo» disse al suo vicino, indicando.
«Cosa?»
«Là all’orizzonte, quella piccola macchia che si vede appena appena. Do-
vrebbe essere Pisola di Pantelleria.»
«Dove? Io non vedo niente.»
Ma altri videro, convennero: «Ah, sì, sì. Ecco là. Là.» «Possibile? Di già?»
Tutti guardavano nella direzione che la mano dell’ufficiale seguitava a indi-
care, appena a destra della prua; il maresciallo trasse di sotto la panca il bino-
colo e lo puntò: «Sì» disse «è proprio un’isola. Ha una forma di montagna
piatta.» Precisò meglio: «Di montagna scapitozzata.»
Manno sorrise, gustando il termine non lombardo, espressivo, inconsueto
per lui.
Patanè, che per meglio vedere s’era alzato in piedi, e provvedeva al timone
poggiando semplicemente alla barra l’esterno della gamba destra, sentenziò:
«Allora è Pantelleria. Una montagna scapitozzata? Sissignore. E di che colore
è?» chiese «Nero o giallo?»
«Mah... Nero direi.»
«Ecco, è Pantelleria.»
«L’avete scoperta per primo» disse il maresciallo a Manno. «Si vede che sie-
te osservatore d’artiglieria.»
Manno si mise a ridere. Poi controllò l’ora all’orologio da polso: «Io non
m’intendo di distanze marine, e così a occhio non saprei giudicare. Però stan-
do all’ora dovremmo esserne a una ventina di chilometri. Eh, tu che ne dici,
Patanè?»
Il timoniere osservò nuovamente Pisola poi guardò torno torno il mare, cer-
cando di valutare la consistenza della foschia; quindi tornò a guardare Pisola:
«Stimo che siamo a una decina di miglia» disse, e sedette, tornando a posare
l’avambraccio destro sulla barra del timone.
«Dieci miglia quanti chilometri fanno? Quanti chilometri è un miglio mari-
no?»
«Questo io non lo so» disse Patanè, e borbottò: «Perché chilometri? Qui
siamo sul mare, non sulla terra.»
Lo sapeva il maresciallo: «Un miglio marino è poco più di milleottocento
metri.»
«Allora, se continuiamo così, dovremmo arrivarci in due ore, due ore e un
quarto» fece il conto Vernazza.
Anche qualche altro disse la sua.
«Attenti: adesso stiamo per entrare di nuovo in una zona calda, forse molto
calda» avvertì il maresciallo. «Speriamo che anche queste due ore passino
senza inconvenienti.»
E così fu. Gli inconvenienti se mai toccarono all’isola che - dopo essere en-
trata meglio in vista - venne sorvolata da una formazione aerea nemica del
tutto invisibile dalla barca, e bombardata: le esplosioni si inseguirono tetre sul
mare, venendo incontro ai fuggiaschi; i quali però notarono con sollievo che la
difesa contraerea qui non era allo stremo come in Tunisia: l’artiglieria non
cessò infatti per un solo istante di sparare.
Dopo circa mezz’ora nuovo bombardamento: durò meno del precedente, so-
lo pochi minuti, sufficienti però per riempire d’ansia i naviganti: «Non andrà
avanti così tutta quanta la mattina? E se gli aerei arrivano proprio mentre
stiamo approdando noi?» Invece gli aerei nemici non ricomparvero, la barca
giunse fin davanti all’isola e all’omonimo borgo costiero, situato alla sua
estremità ovest; qui si fermò alquanto prima d’una serie di gavitelli e di boe: il
motore venne spento e il natante, postosi di traverso per essere meglio in vi-
sta, rimase ad altalenare blandamente sull’acqua.
Anche questo rientrava nel piano elaborato dal tenente Zustovic col mare-
sciallo. «Ed è stato studiato bene» convenne Manno: «Siamo passati senza
dubbio su diversi sbarramenti di mine davanti a Tunisi, e probabilmente an-
che davanti a capo Bon; adesso non dobbiamo rischiare inutilmente. Là voi
eravate in qualche modo informati, ma chi ci assicura che qui non ci siano an-
che delle mine affioranti, contro i mezzi da sbarco leggeri? Da terra ci stanno
osservando di sicuro: finiranno col farsi vivi loro. Attraverso le mine è bene
che ci guidino loro.»

CAPITOLO DODICESIMO

Cominciò l’attesa - sempre più angustiosa - sulla barca dondolante. Gli uo-
mini - pressantemente augurandosi in cuor loro che non arrivassero aerei ne-
mici - tornarono a mettersi in divisa; intanto prima il maresciallo e Manno,
quindi alcuni degli altri, esaminavano col cannocchiale ciò che si poteva vede-
re del borgo e del porticciolo che gli si protendeva davanti.
L’isola non era di colore tendente al giallo come quelle tunisine, ma nereg-
giante, e fittamente coperta di vigneti anche sulle alture. Di roccia nera erano
costruite le banchine del porto e quasi tutti i muri visibili dal mare (alcuni dei
quali con evidenza dissestati dai bombardamenti nemici), nonché un bizzarro
edificio che prevaleva sugli altri: una sorta di tenebroso maniero culminante
in una torretta dipinta di rosso vivo.
«Che sarà mai quella costruzione con quella torre rossa?» borbottò il mare-
sciallo.
«Quello è il castello Barbacane» gli spiegò Patanè, ma non seppe aggiunge-
re altro.
«Sai di che epoca è, voglio dire se è antico?» chiese Manno, in cui rispunta-
va lo studente d’architettura.
«Sì, certo. Tutte le cose grandi sono antiche» gli rispose convinto il timonie-
re.
«Già.» “Qui da voi può darsi” completò mentalmente il giovane. “Il nome
comunque” pensò divertito “castello Barbacane, mi pare intonato all’edificio.”
Intanto il legnaiolo-falegname di bordo Vernazza e i due fratelli Viganò
s’erano messi a rifornire il motore.
«Vuotiamo quante più taniche possibile, perché una volta a terra non è
escluso che quelle piene ce le freghino quei barbacani» borbottava il più an-
ziano dei Viganò.
«Se dipendesse da me, io a terra non ci scenderei nemmeno» diceva e ripe-
teva il secondo.
«Tu staresti qui fuori, eh?» se la prese allora con lui, per scaricare un po’ i
propri nervi, il primo: «Fino a quando arrivano gli aerei, vero, e ci sistema-
no?»
«Eh, gli aerei... eh, ci sistemano...» mugugnò il secondo; i due
s’esprimevano in dialetto lombardo, con inflessioni che richiamavano a Man-
no l’ambiente popolare della Brianza.
Finalmente quando tutti cominciavano a entrare in uno stato di vera e pro-
pria tensione, un motoscafo uscì dal porticciolo. Venne avanti dapprima con
lentezza, seguendo un determinato percorso che Manno e Patanè, ciascuno
per proprio conto, si sforzarono d’osservare attentamente, quindi - una volta
superata la fascia minata - prese un po’ di velocità; si fermò disponendosi con
ben eseguita manovra parallelo alla barca.
Aveva a bordo alcuni marinai in divisa bianca, e un tenente d’artiglieria in
divisa cachi piuttosto lisa, con le mostrine di guardia alla frontiera; Manno e
Battistessa le riconobbero subito: quelle mostrine ricordavano loro le depri-
menti batterie di cannoni vetusti (taluni addirittura ad affusto rigido, di mo-
delli già superati nella precedente guerra 1915, figuriamoci in questa) piazzati
per lo più in caverna lungo la costa e i confini alpini.
«È della GAF, vedete signor tenente?» Battistessa avvertì sottovoce Manno.
«Sì» borbottò questi ancor più sottovoce: «Giusto quello che ci vuole per il
castello Barbacane.»
«Da dove arrivate?» chiese il tenente della GAF.
«Da Tunisi città» gli rispose Manno. «Siamo partiti l’altro ieri sera.»
«Da Tunisi?»
Improvvisamente Battistessa esplose in una risata fragorosa: l’idea che
l’ufficiale della GAF fosse in stile col castello Barbacane gli riusciva - anche se
un po’ in ritardo - a tal punto divertente, che non poté frenarsi.
Il tenente della GAF lo guardò interdetto; tutti lo guardarono. «Cos’hai da
ridere, Battistessa?» si trovò costretto a chiedergli Manno. L’artigliere smise
allora di ridere e, chinata la testa, si fece compunto: «Non è niente, chiedo
scusa» rispose.
«Un po’ di nervosismo, eh?» disse Manno, conscio d’affermare soltanto una
parte di verità, e rivolto all’altro ufficiale: «Siamo un po’ tesi, per forza di cose,
ti rendi conto. Tu ci devi scusare.»
«Di che reggimento siete?» domandò quello, e intanto sogguardava poco
persuaso Battistessa.
«Siamo di corpi e specialità diverse: autocentro, commissariato, fanteria,
artiglieria.»
«Allora?»
«A metterci insieme è stata questa barca: cioè la possibilità di non cadere
prigionieri. Alcuni di noi, appunto a questo scopo, le avevano applicato il mo-
tore.»
«Hai detto che siete partiti l’altro ieri sera da Tunisi?»
«Sì, l’altro ieri. Alle otto e mezza di sera.»
«Prima o dopo l’entrata degli ‘alleati’ in città?»
«Ah, ci sono entrati? Questo noi non lo sapevamo, lo sentiamo adesso per la
prima volta. Comunque l’altro ieri sera tanto noi italiani che i tedeschi aveva-
mo cessata la resistenza. Al mio gruppo per esempio non avevamo più una
carica di lancio.»
«Avete i documenti?»
Manno e il maresciallo annuirono: «I nostri personali.» Trassero dal porta-
fogli - imitati da qualcuno degli altri - la carta d’identità e il tesserino militare.
Il tenente della GAF però non fece accostare il motoscafo in modo da poterli
prendere, non diede seguito alla cosa. «Intendete proseguire per la Sicilia
immagino.»
«Sì» rispose il maresciallo; e Manno: «Però non con la luce. Stasera stessa
se possibile, appena si fa buio.»
«Bene. Il comando vi concede di sostare qui, ma a una condizione: che non
entriate in contatto con nessuno. Capito? Avete l’ordine di non parlare con
nessuno. Siamo intesi?»
Ci fu un momento di silenzio.
«Scusate, perché?» volle sapere il maggiore dei Viganò. «Scusate signor te-
nente, ma cosa significa?»
«Non vogliono che i loro imparino da noi a smammare» gli spiegò Manno.
«Ma noi da Tunisi siamo venuti via quando non c’era proprio più niente da
fare, quando restare là significava soltanto cadere prigionieri.»
«Certo. - Eh! - Ma guarda!» Anche altri sulla barca apparivano risentiti.
«Lasciate perdere» troncò Manno. «Cosa volete? Mettervi a discutere? Noi
abbiamo la coscienza a posto e ci basta. Mentre qui nell’isola hanno i loro pro-
blemi: presto farà molto caldo qui.»
«Proprio così» disse cupo il tenente della GAF.
«Faremo come avete stabilito» assicurò Manno.
«Non io, ma il comando» puntualizzò l’altro. «Adesso seguite il nostro mo-
toscafo da vicino, perché siamo rimasti fuori già troppo. Fate attenzione, non è
difficile: dovete rasentare, lasciandoli tutti a dritta, i gavitelli color arancione,
che sono otto; non dovete far caso a quelli di altri colori. Mi sono spiegato? In
questo momento sono i gavitelli arancione a indicare il corridoio tra le mine di
superficie.» Ripete l’istruzione, rivolgendosi direttamente al timoniere; poi
scrutò il cielo: «Spicciamoci» disse, «son dieci giorni ormai che quelli non la
smettono di bombardarci.»
Il maresciallo e Vernazza avviarono il motore e la barca si mise al seguito
del motoscafo. L’attraversamento degli sbarramenti di mine non richiese ma-
novre complicate; una volta davanti all’imboccatura del porticciolo, il tenente
fece fermare nuovamente il motoscafo e diede qualche altra istruzione: «Non
dovete entrare in porto. Andate per conto vostro là a sinistra, in quella caletta,
dove ci sono quegli scafi in secco. Li vedete? Sì, quelli. Là potete tirare o no la
barca all’asciutto, come preferite. Vedrete che sulla spiaggia ci sono delle trin-
cee: vi faranno molto comodo durante gli attacchi aerei. È tutto. E, ripeto,
nessun contatto, neanche coi civili; non costringeteci a mettere delle sentinelle
che vi sorveglino. Sarebbe antipatico.»
«Non temere» gli disse Manno. «Anzi la sentinella la mettiamo noi,
d’accordo? Ti prego di riferire che partiremo appena prima del buio. Ciao, e
scusateci, voi personalmente che ci siete venuti incontro, per il rischio che
v’abbiamo fatto correre.»
«Ti pare? In bocca al lupo» disse quello della GAF, e per la prima volta sor-
rise, poi fece un cenno di saluto con la mano; anche i suoi pochi marinai salu-
tarono; dopo di che il motoscafo si rimise in moto ed entrò nel porto, lascian-
dosi dietro una scia cristallina, leggera, ben disegnata.
La barca - molto sgraziata al confronto - spetezzò lenta alla volta della calet-
ta. Qui giunta non venne tirata in secco: gli occupanti decisero di lasciarla con
la chiglia in acqua, giudicando che così sarebbe stata meno esposta a eventuali
schegge.

***

Mentre tutti le si davano da fare intorno, per assicurarla alla riva e masche-
rarla in qualche modo, il minore dei Viganò, Felice, s’internò nella caletta per
una sua necessità fisica; arrivò con pochi passi a una trincea, sul cui bordo si
fermò, e soddisfacendo a due bisogne contemporaneamente, prese a orinarvi
dentro e a ispezionarla con lo sguardo grifagno.
In quel momento l’artiglieria contraerea aprì il fuoco, mentre si cominciava
a percepire un lontano rombo di motori. Da ovest, dalla Tunisia, era in arrivo,
altissima nel cielo, una formazione nemica; uno dei dieci e più aerei che la
componevano rifletteva il sole come uno specchio.
«Qui, venite qui, ci sono le trincee» urlò il secondo dei Viganò, seguitando a
orinare, non più però dentro la trincea.
Gli altri abbandonarono la barca, un paio si misero a correre, i rimanenti se
ne staccarono invece a passo lento; Manno veniva ultimo e intanto osservava
gli aerei: «Sembrano quadrimotori» disse a Battistessa, che gli stava vicino.
E lo erano. Effettuarono un primo sgancio sulla costa appena fuori del bor-
go: i nuovi arrivati assisterono allo spettacolo sporgendo fino a metà petto dal-
le trincee. Vedevano distintamente le bombe precipitare nell’aria oscillando
oppure rotolando su sé stesse: finché erano molto in alto pareva loro che do-
vessero piombargli addosso, tanto che più d’uno si rannicchiò con affanno
nella trincea. Ad ogni esplosione o insieme d’esplosioni, vram, vram, la terra
vibrava come una lamiera duramente percossa. Gli aerei eseguirono un giro
sul mare, poi effettuarono un secondo sgancio sempre sulla costa ma più in là,
più a nord, quindi se ne andarono.
Quella fu la prima di cinque incursioni con cui la piccola isola venne tartas-
sata durante la sosta della barca; qualche bomba cadde sulla terra in prossimi-
tà del porticciolo, alcune altre in acqua davanti alla cala, i dieci uomini tutta-
via e la loro imbarcazione non subirono danni. Assisterono alla caduta in mare
d’un aereo colpito dalla contraerea della marina, un altro ne videro uscire di
formazione e allontanarsi con una coda di fumo.

CAPITOLO TREDICESIMO

L’ultima delle cinque incursioni ebbe luogo al tramonto. Immediatamente


dopo, i dieci ripresero il mare; la barca ripercorse in senso inverso, con lentez-
za, la via segnata dai gavitelli e giunta nell’acqua libera mise la prua a nord-
est. Come sempre sedeva al timone Patanè, con la divisa ancor più malconcia,
perché sporca anche del terriccio nero della trincea; il maresciallo aumentò
poco alla volta il numero di giri del motore; ebbe inizio la terza tappa del viag-
gio, quella verso la costa siciliana.
Il sole, molto basso sul mare, illuminava con la sua luce rosso sangue Pan-
telleria: le rocce nere dell’isola coperta di vigneti restituivano quel colore e con
l’allontanarsi della barca davano sempre più l’impressione d’un braciere fumi-
gante che restasse lentamente indietro. Poi il sole si trasformò in un disco
arancione che gli occhi potevano guardare senza offesa, e cominciò a sprofon-
dare nel mare, mentre l’isola diventava affatto nera.
Alcuni delfini affiorarono a un tratto sulla destra della barca ed eseguirono
qualche evoluzione. Patanè li guardava eccitato con occhi bramosi, pronun-
ciando incomprensibili parole siciliane; agli altri sembravano piuttosto degli
amici che, in un mondo reso avverso dalla violenza, s’interessassero a loro:
guarda, li intrattenevano con i semplici giochi di cui erano capaci. Finché sce-
sero le tenebre a inghiottire quelle evoluzioni e ogni cosa.

***

L’indomani alla prima luce la Sicilia era in vista, lunga linea di montagne ir-
regolari, basse all’orizzonte. Patanè fu presto in grado d’individuare, verso
sinistra, la posizione di Mazara del Vallo, la sua città natale, e su quella mise la
prua, correggendo alquanto la rotta tenuta fino allora. Prima che le bianche
case della cittadina emergessero dal mare venne incontro ai naviganti una
sorpresa: due, tre, poi dieci, di più, venti vele, e anche qualche peschereccio a
motore senza vela: «Viditi, viditi, viditi (vedete)» diceva eccitato Patanè: «ci
sunno (sono) ancora: stannu piscannu (pescando), i viditi? Puru stanotti ieru
(andarono) a piscari. Beddi! Beddi! (belli) Biniditti! (benedetti)» Riconobbe
diverse barche, ne riferì il nome: «Chidda (Quella) è Niculicchia, e
chidd’antra Santa Rusalia... e, talia (guarda), c’è ’Ntonio Regale... E c’è puru
a Veneranda: porcu Giuda, propriu idda (essa) è. Picciò (ragazzi) supra ’nda
paranza (barca) io ci piscava quann’era nicu (piccolo).»
«Dunque ce l’abbiamo fatta» esclamò a un tratto con voce trasognata il ma-
resciallo. «Vi rendete conto, gente? Ce l’abbiamo fatta davvero. Ce l’abbiamo
fatta» ripeteva, guardando in faccia or l’uno or l’altro.
«Sì. Possiamo proprio segnarci col gomito» convenne tutto contento Man-
no (i due Viganò in particolare, che avvertivano l’espressione - tradotta dal
dialetto lombardo - molto appropriata, assentirono): «Quelle barche ci daran-
no oltre tutto il modo d’entrare nel porto senza pericolo, basterà mettersi da-
vanti alla città e accodarsi alla prima che rientra.»
Guardavano le barche, si guardavano in faccia, ridevano, guardavano anche
all’intorno la distesa immensa del mare, rifattosi con la luce amico e partecipe,
poi tornavano a fissare le barche, commossi ed eccitati.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO
L’approdo ebbe luogo - senza perdita di tempo - molto addentro nel lungo
porto canale. Patanè infatti, parlando con certi suoi vociferantissimi cono-
scenti imbarcati su un peschereccio (in dialetto, così che gli altri non capirono
una parola) era stato messo al corrente dell’esistenza di una via segnata da boe
attraverso la quale a quell’ora si poteva passare. Già due barche, egli riferì,
erano arrivate il giorno prima dalla Tunisia, entrambe con dei morti e dei feri-
ti a bordo per mitragliamenti aerei.
L’imbarcazione, che aveva fatto così bene il suo dovere, venne ormeggiata
in capo a una fila: differiva dalle altre barche più che per la forma, per lo spae-
sato motore sistemato nel settore di poppa. Gli uomini - raccolto ciascuno il
proprio zaino o fardello - salirono sul molo. Alcuni, tra cui Manno, si voltaro-
no più d’una volta indietro, a dare un’occhiata riconoscente alla barca fedele.
Sull’altro versante del molo s’estendeva un quartiere popolare di case pres-
soché arabe, molto somiglianti a quelle di Tunisi; sebbene in tali quartieri ci
sia di solito affollamento (ed è questo forse che più vi rende la vita penosa) in
quell’ora non si scorgeva molta gente, sul molo poi non c’era quasi nessuno.
Era giunto il momento dei commiati, le strade dei dieci infatti già diverge-
vano: due o tre in particolare mostravano una straordinaria fretta d’andarsene
perché temevano il sopraggiungere di ronde della marina, che li avrebbero
costretti a presentarsi subito al comando militare: essi intendevano invece
arrivare prima alle loro case, trascorrervi qualche giorno, e solo in seguito
presentarsi ai rispettivi depositi come se giungessero direttamente dalla Tuni-
sia. Era un’impresa irregolare e pericolosa (c’era il rischio d’una denuncia per
diserzione), e non era neppure facile, in divisa com’erano, e con un lungo
viaggio ferroviario davanti. Manno tese comunque loro signorilmente la ma-
no: «Non perdete il foglietto col mio indirizzo, che v’ho distribuito stamattina:
se sarà necessario potrò testimoniare come avete lasciata la Tunisia. Bene,
grazie per la compagnia e... sempre in gamba.»
Si volse quindi agli altri: «Io e Battistessa contiamo di presentarci al co-
mando tappa di stazione a mezzogiorno. Se qualche altro vuole presentarsi
con noi, l’appuntamento è alla stazione ferroviaria, davanti al comando tappa,
a mezzogiorno in punto.»
Il maresciallo e i due Viganò dichiararono che ci sarebbero stati. Prima però
dovevano risolvere il problema della barca: apparteneva a loro tre, oltre che al
tenente Zustovic e a Vestidello, e Patanè aveva accettato di affidare a un suo
‘compare’ l’incarico di venderla; intendeva però essere ‘a posto con le scartof-
fie’: voleva cioè un’autorizzazione a vendere non solo firmata dai tre proprie-
tari presenti, ma anche vistata dall’autorità (da quale autorità non sapeva be-
ne neppur lui). Della cosa s’era già discusso non poco in mattinata, e i quattro
avevano deciso di recarsi insieme alla capitaneria di porto. All’ultimo istante
Manno si offrì di accompagnarli: «Forse però Patanè desidera far prima una
puntata a casa sua. Sarebbe anche giusto.»
Patanè fece segno di no con la testa. A terra sembrava ancora più minuto di
persona: scuro e coi baffetti neri pareva proprio un arabo, né più né meno.
«È lontana da qui la tua casa?» gli chiese il maresciallo.
«No, è vicina» egli rispose.
«Vuoi allora che ci passiamo un momento insieme? Giusto il tempo per dire
ai tuoi che sei rimpatriato sano e salvo?»
«No» disse Patanè «la mia casa non è... non fa per voi.» Intendeva dire - gli
altri afferrarono - che non era presentabile, che era troppo povera.
Intorno ai militari si era frattanto raccolto un piccolo sciame di monelli.
Improvvisamente Patanè ne chiamò uno per nome: «Alessio» (“Guarda, si
conoscevano” registrò Manno “e non lo facevano capire né lui né il ragazzo”) e
gli diede alcune istruzioni in dialetto. Subito il monello partì di corsa, agitando
le braccia verso l’alto in modo glorioso, perché il soldato gli aveva affidato
l’incarico d’avvertire la famiglia del suo ritorno; alcuni altri monelli, ugual-
mente scalzi e sbrindellati, lo seguirono a balzi.
«Andiamo» disse Patanè «e cerchiamo di sbrigarci. Ho mandato a dire che
sarò a casa fra un’ora.»
Ma alla capitaneria di porto la pratica si dimostrò tutt’altro che semplice: i
cinque tornarono al molo e alla barca di lì a circa due ore, accompagnati da un
ben disposto maresciallo della capitaneria che intendeva - come affermò più
d’una volta - favorire il collega dell’autocentro; ma qui si era nel ‘profondo
sud’ d’Italia, legalitario e formalista e cavilloso, e per questo suo modo di esse-
re frustrante qualsiasi iniziativa.
Sul molo c’erano due donne in attesa: la madre di Patanè (all’apparenza una
vecchia, con la pezza nera in testa, agitata, drammatica) la quale gli corse in-
contro e più che abbracciarlo si avvinghiò a lui gridando: «Figghiu! (figlio)
Figghiu miu!» ed eruppe piangendo in una farragine d’incomprensibili parole
dialettali; e una sorella più giovane di lui. Questa era muta, perciò si esprime-
va con le mani e con le dita, e anche col viso, lacrimoso e insieme illuminato
per questo straordinario ritorno: ansimava un poco, emettendo voci spezzate.
Nella sua sciupatissima divisa Patanè ostentava virile distacco da tali effu-
sioni: «Picchì (perché) matri mia, vinisti vu ccà? Vi fici (feci) dire
d’aspittarim’a (aspettarmi a) casa: picchì non lu facisti vu?» Segretamente
però era commosso come di raro in vita sua.
La figura che più colpì Manno fu la sorella mutola: certi suoi inani tentativi
di parlare, d’esprimersi anche lei con parole, dovuti all’incontenibile emozio-
ne, lo turbarono. “Noi che chiediamo ai soldati di prestarsi, di spendersi...
Pensiamo mai che possono avere a casa familiari così, dei quali sono magari il
sostegno? Però, come può essere complicata, e in certi casi tragica, la realtà
dei singoli!”
Al comando militare - preavvisato dalla capitaneria di porto - furono accolti
bene.
Ad eccezione dei tre che se n’erano andati per conto loro, e di Patanè, per il
quale Manno era riuscito a ottenere quarantotto ore di licenza, partirono col
primo treno per Palermo, ciascuno diretto al proprio deposito: Manno e Batti-
stessa quindi (quest’ultimo sempre fieramente armato di mitra) diretti a Pia-
cenza.
III

CAPITOLO QUINDICESIMO

Pochi giorni più tardi a Riccione Ambrogio riposava semivestito sul letto (in
cuor suo rimproverandosi per la propria accidia, come la mattina della visita
dei suoi genitori) quando, precisamente come quella mattina, gli fu annuncia-
ta una visita.
S’alzò in piedi, staccò - stavolta con calma - la giubba e il cinturone dalla
gruccia, li indossò e allacciò chiedendosi chi mai potesse essere il visitatore: i
genitori con certezza no, “e non ricominciamo a pensare a Tricia” si disse,
scartando dalla mente la figurina di lei che già vi stava entrando a passo sciol-
to. Se non i genitori né Tricia, chi? Forse qualche convalescente del suo reg-
gimento (ce n’erano tre o quattro a Riccione, in altre colonie: non però il suo
attendente Paccoi purtroppo), oppure convalescenti di altri corpi, di cui aveva
fatto in quei giorni conoscenza in città. “Beh, entro qualche minuto lo saprò.
Cos’è questa curiosità da donnetta?”
L’ultima persona che si sarebbe aspettato di trovare nell’atrio era suo cugi-
no Manno, che invece stava proprio là, con la fronte quasi contro una vetrata,
lo sguardo fisso nel verde nebbia delle tamerici. Gli voltava le spalle, alto di
statura, snello e biondo, con indosso una sahariana spiegazzata in modo inde-
cente.
«Manno?» lo chiamò a mezza voce Ambrogio «Sei tu?»
Il cugino si girò con vivacità mentre il viso abbronzatissimo gli s’illuminava
nel sorriso: in quel colore di cuoio i suoi occhi parevano ancora più azzurri.
«Ambrogio!» Gli venne incontro a braccia spalancate: «Sfaticatu» disse: «Se-
guiti a farti lustrare in ospedale, eh? Dalle crocerossine, vero? Vergognati!»
«Per la miseria, tu qui! Ma... come accidenti hai fatto a... Si può sapere, in
nome del cielo, in che modo hai potuto attraversare il mare? Eh?»
«Adesso te lo racconto. Possiamo uscire? O hai complicanze di disciplina, o
di visite mediche e quant’altro?»
«Nessuna complicanza. Dai andiamo.» Uscirono dal convalescenziario e
s’incamminarono verso Riccione. «Dimmi come hai fatto a tirarti fuori dalla
pentola. Racconta.»
«Se vuoi saperlo ne sono uscito da sportsman, in barchetta.»
«In barchetta?»
«Sì. È successo che proprio l’ultimo giorno, cioè quello prima dell’entrata
degli inglesi in Tunisi... fammi fare il conto: è stato domenica l’altra (però:
appena otto giorni fa, e mi sembra chissà quando...): dunque il giorno prima
dell’arrivo degli inglesi io e il mio attendente abbiamo trovato, si può dire per
caso, una barca a motore che stava per smammare. L’avevano preparata certi
delle retrovie, gente dell’autocentro e simili, tra cui un compaesano del mio
attendente. Beh, siccome s’erano resi liberi due posti... Da non credere però:
quando siamo capitati là noi, quei due posti si erano resi liberi solo da qualche
ora.»
«E tu subito a pensare che la Provvidenza li aveva preparati su misura per
voi due. Dì la verità.»
«Sì, l’ho pensato» ammise Manno; «e se devo essere sincero lo penso anco-
ra.»
«Sei rimasto sempre lo stesso, eh?» disse Ambrogio: «Anche coi gradi da
tenente. A proposito: ti faccio i miei rallegramenti per la nomina.»
«Grazie.»
«Devi pagare da bere, non credere.»
«D’accordo, al prossimo bar. Beh, se devo dirtela tutta, il viaggio in barca
non s’è poi dimostrato molto difficile.»
«In guerra, quando le cose vanno lisce, sembra così» fece notare Ambrogio:
«Ma sembra così dopo, quando tutto ormai è andato liscio.»
«Questo è piuttosto vero» convenne Manno, «hai ragione.» «In conclusione
hai fatto anche tu come il Dabòni di Lecco» osservò Ambrogio. «Sai che m’è
venuto in mente proprio stamattina mentre pensavo a te, e mi chiedevo come
te la stavi passando dietro il filo spinato?... Perché io ti credevo prigioniero, e
invece tu stavi giusto ripetendo l’impresa del Dabòni.»
«In questi giorni anch’io ho pensato un sacco di volte a lui.» «Ma dì, sei già
stato a Nomana?»
«No, non ancora. Vengo da Piacenza, m’hanno dato dieci giorni di licenza.
A Nomana ho telefonato appena arrivato, cioè ieri mattina: gli ho detto di non
avvertirti, perché volevo farti questa sorpresa. Conto di essere a casa stasera
per la cena.» Fece una pausa: «A casa, per la cena!» ripeté a sé stesso. «Pro-
prio non mi par vero.»
«Sì» disse Ambrogio. «Se pensiamo a quanti... Beh, ma racconta un po’,
stavi parlando della barca.»
«Su qualche campo minato ci dobbiamo essere passati per forza, ma non ce
ne siamo mai accorti, perché era una barchetta indigena che pescava pochis-
simo. Quanto agli aerei ne abbiamo visti diversi, però, cosa vuoi che ti dica?
forse gli abbiamo fatto compassione o schifo, non so, fatto sta che si sono
sempre fregati di noi. Per fortuna, perché ad altre barche invece non è andata
così liscia.» Rise giovanilmente.
Procedevano sull’asfalto fianco a fianco. Più alto di statura Manno, con in-
tatta la sua aria da signore malgrado la sformata sahariana cachi e gli stivali
flosci molto logori; non altrettanto bello e nobile d’aspetto e inoltre troppo
pallido, ma più robusto e in complesso con un’aria più solida Ambrogio, che
indossava l’elegante divisa diagonale e gli stivali rigidi del tempo di prima
nomina. La litoranea verso Riccione non era a quel tempo interamente fian-
cheggiata da edifici, per cui a sinistra la prospettiva si apriva spesso sulla
spiaggia sabbiosa e sul mare.
«Il mare qui» osservò Manno «non è così colorato né... che so? insomma è
diverso da quello africano. È, come posso dire? più casalingo, ti ispira tutt’altri
sentimenti. Eh? Cosa ne dici?»
«Quanto a ispirazioni lascio fare a te, lo sai. Non è roba di mia competenza:
io faccio scienze economiche, non architettura.»
«Voglio dire che questo mare, il suo colore, e anche la spiaggia e tutto il re-
sto... insomma più che altro a me fanno tornare in mente le nostre vacanze del
tempo di pace.»
«Sì, è vero, anche a me.»
«Di un po’...» La faccia di Manno si fece di nuovo ridente: «Come si chia-
mava quella ragazza a Cesenatico che ti piaceva un mucchio? Io manco l’ho
vista, sono arrivato che lei era già partita, ma tu, nel tuo fiero dolore, me n’hai
fatta una testa così, ’na capa tanta, ti ricordi?»
Ambrogio fece con la capa segno di sì, che ricordava, ma non lo seguì nel
discorso. Solo a questo punto il cugino sembrò accorgersi del suo pallore:
«Ehi, sei sicuro d’essere abbastanza in gamba per passeggiare a questo mo-
do?»
«Sì, perché?»
«Hai già fatto colazione stamattina?»
«Hai voglia. Da più d’un’ora ormai.»
«Mi sembri giù di cera, accidenti. Sei pallido.»
Ambrogio alzò le spalle: «Sai come si dice» e recitò: ‘È stata l’aria
dell’Ortigara che mi ha cambia ’l colore’.
«Tu devi averne passate più di me» disse Manno. «Sì, ben di più. E dico
senza contare le ferite. Qualcosa di quello ch’è successo in Russia l’ho sentito,
però non ho ancora le idee ben chiare. Sei tu adesso che devi raccontare, non
io.»
«Dai, sta buono. E va avanti invece. Hai fatto più d’un anno e mezzo
d’Africa tu, eh!»
Però com’era pallido Ambrogio! Invece di raccontare Manno si diede ad
esplorare intorno con gli occhi in cerca di un bar. «È più avanti, al secondo
incrocio, sulla destra» gli disse il cugino.
«Cosa?»
«Il bar con le sedie per sederci.»
Manno si mise a ridere: «Ma guarda che elemento. Ti sei accorto che io...»
«Ti conosco.»
Rimasero insieme circa tre ore. Parlarono delle loro esperienze e vicende
personali, degli amici dispersi (Stefano, Michele), di quelli tornati (Luca, don
Carlo), della Russia e della situazione al fronte russo, della forza aerea degli
‘alleati’, dell’Africa perduta, della guerra in generale, che forse era arrivata a
una svolta senza più ritorno («Anche se non è sicuro che americani, russi, in-
glesi, e partigiani di mezz’Europa uniti insieme riescano a piegare i tedeschi...
Hai visto che soldati spettacolosi? Io non avrei mai creduto che lo fossero fino
a questo punto.» «Sì, è vero, bisogna riconoscerlo.») Manno riferì anche bre-
vemente del suo viaggio in treno attraverso l’Italia: «Si vedono dappertutto i
segni dei bombardamenti: a Catania per esempio per chilometri non c’è una
casa intatta, e anche Napoli non hai idea di com’è ridotta. Non ti dico poi il
servizio dei traghetti sullo stretto di Messina, che sfacelo. L’aria che si respira
in Italia è cambiata rispetto a quando sono partito io, lo strano però è che tutti
sembrano comportarsi come niente fosse: tutti tirano a campare come prima,
senza impegnarsi in nessun modo, in nessuna direzione. O forse sbaglio?»
«Direi di no, che non sbagli» gli rispose Ambrogio: «almeno per quel poco
che posso capire stando in ospedale.»
Ambrogio finì con l’arrivare tardi a mensa. Manno, rimessosi in treno senza
aver pranzato, fece alla stazione di Bologna una puntata al bar, dove acquistò
un cartoccio di caramelle ed altri dolciumi mal definibili, tenendosi contento
di potere con quelli rimpiazzare in qualche modo il rancio di mezzogiorno.

CAPITOLO SEDICESIMO

Nei pressi di Nomana, mentre la ‘littorina’ attraversava allegramente i


greppi coperti di robinie tra la frazione Raperio e il capoluogo, Manno
s’affacciò al finestrino; vi indugiò anche dopo che il treno s’era fermato.
Era ‘la serena’, l’ora in cui - com’egli sapeva - gli operai uscivano dalle fab-
briche e i contadini davano inizio ai lavori serali nelle stalle. Nell’aiola della
stazione il cespuglio di lillà era ancora una volta in fiore (come tre anni prima,
quando erano partiti Stefano, e Giovannino Faccia-infarinata, e gli altri co-
scritti del 21); al suo piede c’era una nuova, inconsapevole generazione di viole
del pensiero che, prive della parola, sembravano voler esprimere coi colori più
sgargianti la loro gioia d’esistere. La primavera al suo paese, com’egli la ricor-
dava, com’era sempre stata... Anziché controllare se ci fosse qualcuno sul
marciapiede ad aspettarlo, il giovane si trasferì in fretta al finestrino opposto,
e diede un’occhiata anche di là. Tra i binari sottostanti cresceva la solita erba
stenta, che però oltre lo steccato della stazione si faceva rigogliosa e
s’estendeva - alternandosi alle distese di frumento - fin lontano, oltre la No-
manella, oltre Beolco, verso il grande anfiteatro delle montagne; anche da
questa parte ogni cosa era com’egli la ricordava, tranne un particolare, una
tessera nel famigliare mosaico che gli stava davanti: quella costituita dalla tra-
fileria. Notò che i vetri della piccola fabbrica confinante con la stazione (due
volte fallita, com’egli ricordava) non erano più rotti ma integri, e il suo corti-
letto libero da erbacce; e non basta, a prolungare il vecchio edificio era in co-
struzione un nuovo capannone.
Il giovane si staccò dal finestrino, prese dal portabagagli la valigia nuova
acquistata qualche giorno prima a Messina (conteneva soltanto il rasoio e po-
chi oggetti per la pulizia personale), e raggiunse - buon ultimo dei viaggiatori
che scendevano a Nomana - lo sportello. Davanti al quale vide schierati sul
marciapiede addirittura cinque parenti in attesa: tutti quelli presenti quel
giorno in paese, e cioè zio Gerardo, la mater familias zia Giulia, il decenne
cugino Rodolfo che, rizzandosi sulle punte dei piedi, si sforzava di guardare
dentro il treno, e le due cugine Francesca e Giudittina: la prima con la grossa
treccia castana girata intorno alla testa, la seconda con le treccine bionde bal-
lonzolanti. Tutt’e cinque notarono la sua sorpresa e scoppiarono a ridere. “Di
sicuro hanno vista la mia manovra ai finestrini” pensò il giovane: “beh, mi co-
noscono...” Scese svelto dal treno ormai prossimo a rimettersi in moto, e si
affrettò ad abbracciarli uno dopo l’altro.
«Ben tornato. - Come stai? - Ehi, adesso sei tenente! - Complimenti, tanti
complimenti. - Caro Manno. - Sono contenta...» le trite parole di chi ci vuol
bene. «Benissimo tornato» gli gridò Giudittina: «Bravo, bravo, bravo.»
«Manno, racconta come hai fatto a venire via dall’Africa in barchetta» pro-
pose subito eccitato Rodolfo, mentre gli toglieva a forza la valigia di mano.
«Accidenti, com’è leggera» osservò.
«Perché è vuota» disse Manno sorridendo.
«Beh, in barchetta» protestò zia Giulia; «si sarà sempre trattato di... di un...
di una...» accennò con le mani a qualcosa di piuttosto grande. «Vero Manno?»
«No zia» rispose questi allegramente: «Rodolfo ha ragione: era proprio una
barca, lunga appena da qui a lì. Poi vi racconto.»
Mentre s’avviavano tutt’insieme verso l’uscita: «Dì, cos’è che guardavi dal
treno?» gli chiese con un sorriso la ventenne Francesca.
«Non te l’aspettavi di trovarci qui in stazione, vero?» disse zio Gerardo.
«Ma l’hai telefonato tu stesso ieri che saresti arrivato, non ricordi?»
«Sì, infatti. Però v’avevo detto che non ero sicuro di poter prendere questo
treno, in quanto dovevo prima passare da Ambrogio. Il quale ehi, a proposito,
vi saluta tutti: sta bene, l’ho lasciato poche ore fa.»
«Quelle due chiamate da Riccione nel pomeriggio...» fece zia Giulia; e a
Manno: «Non siamo riusciti a parlare; sapessi che confusione nei telefoni certi
giorni. Di sicuro Ambrogio voleva avvertirci del tuo arrivo.»
«Sì, è probabile» disse Gerardo.
«Beh, Manno, ci vuoi dire cosa stavi guardando dai finestrini?» gli chiese
nuovamente Francesca.
Tutti avrebbero voluto parlare con lui, fargli domande.
«Guardavo la trafileria» rispose Manno: «Cosa sta succedendo?
È in ordine e non ha più i vetri rotti, non solo, ma a quanto pare la stanno
addirittura ingrandendo.»
«L’ha comperata una società di Milano, una vetreria. È papà che ha fatto
concludere l’affare a quei signori di Milano» disse Rodolfo: «Siccome devono
sfollare un loro reparto.»
«Una vetreria?»
«Sì, producono fibre tessili di vetro. Tutto lavoro per Nomana, no?» disse
con un sorriso l’industriale. Manno lo guardò annuendo: ricordò che lo zio
aveva la fissazione di creare nuovi posti di lavoro, lo riteneva il suo principale
dovere. Del resto lui stesso, Manno, aveva ben visto quanto fosse penoso dire
di no a gente - non di raro capi famiglia - che venivano a volte anche in casa a
chiedere lavoro.
Lo zio osservava a sua volta il nipote, sempre distinto nei modi nonostante
la divisa malconcia: «Sono quasi venti mesi che manchi da Nomana, è vero?»
«Sì» rispose Manno: «Quasi venti mesi d’Africa, una bella cura» scherzò.
«Adesso che sei tornato» disse Giudittina «non vai più via.» Il reduce le
passò una mano sulla testa e le sorrise: i suoi occhi azzurri scintillavano nel
viso bruno.
«Magari» sospirò zia Giulia.
«Beh, intanto per dieci giorni possiamo stare insieme. Ho dieci giorni di li-
cenza, non è poco.»
«In paese, oltre alla trafileria, c’è un’altra novità» disse Francesca «e sono
gli sfollati.»
«Gli sfollati?»
«Sì, per i bombardamenti. Non hai fatto caso a quelli scesi dal treno? Guar-
da, quelli là per esempio.»
«Sì, mi sono accorto infatti.»
Parecchia più gente del solito era scesa dal treno a Nomana, e ancora for-
mava un po’ d’ingolfamento davanti al cancelletto girevole all’uscita della sta-
zione.
«Questi sono niente» proseguì Francesca, «dovresti vedere al treno della
sera, o al mattino presto, quando partono per andare al lavoro a Milano o a
Sesto: è quasi una piccola folla. Quei treni hanno dovuto allungarli con dei
carri merci. Lo sapevi che adesso la gente viaggia anche in carro merci?»
Erano arrivati all’uscita e dovevano passare uno per volta. L’ufficiale si ar-
restò per dare la precedenza agli altri. Giudittina lo prese per mano: «Lo sai
che anche a casa nostra ci sono degli sfollati?» gli disse: «Sono tre. Però non
sono sfollati veri, sono dei parenti: lo zio Ettore di Milano, e le due zie di Mon-
za.»
«Perché non sarebbero sfollati veri?» le chiese la madre: «Cosa stai dicen-
do, Giuditta?»
«Sono nostri parenti, no? Li conoscevamo anche prima, dunque non sono
sfollati veri.»
«Ma sentitela questa» disse Rodolfo, e scimmiottando quanto aveva visto
fare poco prima da Manno, anziché carezzarle la testa le tirò una treccia con la
mano libera dalla valigia. La bambina gli rispose sferrandogli un calcio, che
però andò a vuoto.
«Giuditta! Ragazzi» li richiamò il padre.
Una strada asfaltata e abbastanza larga saliva dalla piazzetta della stazione
alla piazza della chiesa: era il viale Dante Alighieri, l’arteria di rappresentanza
del paese. Aveva ai lati due marciapiedi di terra battuta, in ciascuno dei quali
cresceva un filare di querce; siccome era anche il ‘viale della rimembranza’,
davanti a ogni tronco un’asta di ferro reggeva una targhetta col nome d’un ca-
duto nella prima guerra mondiale; la strada era di costruzione abbastanza re-
cente, tanto che ai suoi lati rimaneva ancora qualche appezzamento agricolo.
La piccola comitiva s’incanalò nel marciapiede di destra, sotto i rami con le
foglie nuove, profondamente dentellate, delle querce. L’occhio di Manno sfio-
rò le targhette dei morti nella guerra precedente, ciascuna con la data e la lo-
calità del sacrificio: Podgora, Gorizia, Ortigara, Col di Lana. Quante volte da
bambino le aveva compitate mentre andava o tornava dalla scuola elementare!
Pensò che adesso si sarebbero dovute aggiungere altre targhe (ignorava che, a
causa della sconfitta, in futuro non ci sarebbe più stata ‘rimembranza’ pubbli-
ca per i caduti).
«Beh, allora? Ce lo racconti o no della barca?» gli chiese Giudittina:
«Com’era, dì, a remi?»
Gli altri si misero a ridere.
«Era a motore» disse Manno. «Un soldato le aveva applicato un motore
d’automobile.» E allo zio: «Con sotto e tutt’intorno, per tenerlo ben fermo, un
insieme di travi da ridere a vederlo.» A Giudittina: «Perché quel soldato non
era un falegname, era un taglialegna.»
Lo zio sbuffò a ridere, tentennando la testa.
«Poveri ragazzi» disse zia Giulia, con occhi timorosi adesso per allora.
«Un motore però, intendiamoci, che funzionava come si deve...» riprese
Manno, e s’ingolfò nel racconto.
Giunti in piazza l’avrebbero attraversata senza interrompere l’avvincente
storia, se zia Giulia non si fosse arrestata. «Dobbiamo entrare almeno un
momento in chiesa» disse, «a ringraziare il Signore che ti ha fatto tornare,
Manno.» Le fu subito presente anche il figlio: «Che vi ha fatto tornare tutt’e
due, vivi e senza menomazioni. Non è cosa da poco.»

***

In chiesa il reduce pregò per qualche minuto intensamente, con la fronte


nella mano destra. Quando scoprì la fronte si trovò accanto don Mario, il coa-
diutore: un po’ rosso in faccia per l’emozione, gli occhi luccicanti dietro gli oc-
chiali, il prete, che fino al giorno prima l’aveva creduto prigioniero, si congra-
tulò con lui, felice per il suo ritorno, ma a bassa voce perché si trovavano in
chiesa. (“La consuetudine con le cose sacre non ha diminuito in lui la riveren-
za” notò come già altre volte Manno, con piacere.) «Bravo, ben tornato» gli
ripeteva sotto voce don Mario. Poi, facendosi preoccupato: «Devi relazionarmi
su tutto, prometti? Devi dirmi cosa sta succedendo.»
«Volentieri, per quel poco che posso.»
«Mi pare che stiamo andando piuttosto male, vero?»
«Infatti» disse Manno: «piuttosto male. La verrò a trovare domani, parle-
remo con calma. Stasera son cotto: oltre tutto oggi ho anche fatto visita ad
Ambrogio.»
«Ambrogio!» esclamò il prete: «E come sta? Abbastanza bene adesso, ho
sentito.»
«Sì, tra poco sarà in grado di lasciare l’ospedale» confermò Manno.
«Che bravo Manno» esclamò ancora don Mario, gioioso come un bambino:
«Come sono contento che tu sia tornato. Qui abbiamo bisogno di te, si sente la
tua mancanza.»
«Questa poi» esclamò, pur compiaciuto, il giovane; e rise tentennando la
testa.
«No, è vero, è vero. Tu sei colto, sai spiegare, argomentare, e... Gli sfollati,
capisci? Povera gente, in mezzo ai disagi, bisogna compatirli. Ma in certe cose
sono un po’... non sono a posto, ecco. Bisogna pur dirlo. E i ragazzi - anche i
nostri dell’oratorio — e le ragazze del paese, osservano tutto e bevono il loro
esempio.» La faccia di don Mario si rannuvolò, lasciata libera la mano del gio-
vane, egli chinò la testa; a Manno tornò in mente la sua pena per i maltratta-
menti ad Aristide del Ghemio, durante quella licenza di alcuni anni prima.
“Guardalo, non è davvero cambiato: ‘Il Tuo zelo mi consuma’” citò mental-
mente. «Lei don Mario è proprio rimasto tale e quale» disse «e questo mi fa
un immenso piacere. Beh, adesso però la saluto. A domani.»
Una volta fuori di chiesa, mentre con la comitiva procedeva verso casa, do-
vette riprendere la narrazione della sua storia: non solo l’episodio della barca,
ma anche le vicende ormai lontane ‘del tempo in cui noi avanzavamo’ come si
espresse Rodolfo. (Sarebbe mai tornato un tempo simile?)

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Anche a tavola dovette parlare, sollecitato ora dall’uno ora dall’altro com-
mensale malgrado i ripetuti tentativi di zia Giulia: «Basta domande, lasciatelo
mangiare in pace... Pensate da quanto tempo non mangia con un minimo di
comodità. E oltretutto oggi ha saltato il pranzo, ed è stanco, non vi rendete
conto?»
«Ma no zia» egli si schermiva: «perché? Non preoccuparti.»
Se dopo quegli interventi gli altri lo lasciavano un poco in pace, qualche
domanda finiva col farla lui: «Mi pare che quanto al mangiare le cose non sia-
no troppo cambiate rispetto a venti mesi fa. Ho l’impressione che ci sia ancora
tutto. O sbaglio? Forse stasera avete preparato meglio del solito per... per col-
pa mia? Eh, Noemi?» Noemi ridacchiava e faceva un po’ la misteriosa, senza
rispondere, mentre andava e veniva con le portate, sollecita di lui non meno
dei suoi parenti.
In effetti non fosse stato per il pane (scarso e di colore verdastro, e non effi-
cacemente rimpiazzato dai biscotti fatti in casa) la cena non sarebbe stata di-
stinguibile da quelle d’anteguerra.
«Qui in campagna» gli spiegò Francesca «non manca quasi niente, anche se
gli sfollati stanno facendo aumentare un po’ i prezzi .»
«In città però non è così» lo avvertì zio Gerardo: «Trovare qualche cosa
fuori tessera in città - e anche nelle periferie industriali come Sesto e Cinisello
- sta diventando un vero problema.»
«Ma qui a Nomana» chiese Manno «gli operai come se la cavano?»
«Coltivano tutti un po’ di terra, lo sai, o hanno parenti con un po’ di terra»
rispose lo zio. «Per ora se la cavano discretamente. Per ora» sottolineò.
«Sì» aggiunse zia Giulia, «a star male sono solo le famiglie più misere, quel-
le che anche in tempo di pace hanno sempre qualche difficoltà. Adesso quelle
bisogna aiutarle sul serio, specie se hanno bambini, se no sarebbero alla fa-
me.» (Aiutarle sul serio... Una delle massime preferite di Giulia era ‘Sèmm al
mund per vütass’: Manno sapeva che non era costume della zia limitarsi agli
enunciati.)
«Gli operai si arrangiano in molti modi» disse Francesca: «Prendi Celeste
per esempio, con tutti quei figli. Macella da tre a quattro conigli la settimana,
così non gli fa mancare la carne. Ha preso in affitto un altro pezzetto d’orto,
dove coltiva solo erba e cavoli per i conigli.»
«E sono begli animali, tu li vedessi» specificò Rodolfo: «io ho fatto qualche
scambio con lui. Sono tutti ‘giganti di Fiandra’, o incroci del nostrano col gi-
gante.»
«No, tiene anche quegli altri» interferì Giudittina: «quelli di colore rossino,
com’è che si chiamano?»
«Ho capito» le disse Manno.
«Cosa?» fece piccato Rodolfo: «i ‘fulvi di Borgogna’?»
«Sì, ecco» rispose Giudittina.
«No invece. Vedi come sei ignorante? Sono almeno quattro mesi che di
quelli non ne tiene più.»
«Beh, fa lo stesso» disse Manno, mettendo pace.
Ma era soprattutto lo zio Gerardo (che appena ne aveva l’occasione non tra-
scurava di documentarsi, e appunto in quel modo s’era fatta la sua cultura
d’autodidatta) a porre nuove domande al nipote, a chiedergli precisazioni. E a
fornirgliene, intorno al lavoro per esempio, e ai bombardamenti.
Sul finir della cena scesero dalle loro camere per il caffè (si trattava di sur-
rogato) i parenti sfollati: dopo gli abbracci e i convenevoli di rito sedettero in-
torno al tavolo - praticamente intorno a Manno - che mentre sorbiva il proprio
surrogato dovette ricominciare da capo la storia della traversata in barca. Nes-
suno, una volta sparecchiato, lasciò il tavolo: tutti volevano sentirlo ancora,
incluso lo zio Ettore di Milano, ingegnere di taglio ottocentesco che, con i suoi
occhiali a pince-nez, introduceva nell’ambiente una nota un po’ eteroclita. Le
due anziane zie di Monza - in realtà prozie - sebbene non facessero domande e
si limitassero a esclamazioni del tipo: «Oh, poveri ragazzi! - Oh, poveri figli! -
Oh, poveretti!» e ad atteggiamenti di sbigottimento, finivano con l’essere for-
se, insieme con Noemi, le più emozionate di tutti. Al di là delle singole vicen-
de, le commoveva indicibilmente il fatto di sentirle riferire da uno che vi aveva
preso parte, e di parteciparvi così in qualche modo anche loro, la cui vita era
sempre stata tanto povera di vicende.
Fuori c’era la sera di maggio, profumata di fieno e percorsa a ondate dallo
stridio dei rondoni, anch’essi - come ricordò Francesca - arrivati da poco
dall’Africa. Avevano i nidi sul margine più sporgente del tetto, in certe fessure
sotto le gronde, e prima di ritirarsi per la notte giravano tutti insieme attorno
alla casa, stridendo, inseguendosi con foga, planando, cabrando, facendo alle-
gre giravolte nell’aria.

Il loro stridio era cessato da un pezzo quando Manno si ritirò nella sua
stanza; adesso, nel sopravvenuto silenzio, in giardino si sentiva cantare
l’usignolo. Senza accendere la luce il giovane aprì una finestra e s’affacciò: il
canto veniva come sempre dalla pianta di tasso isolata ‘a breva’, cioè da nord-
est, la parte di Beolco e delle montagne.
Sul letto c’era in attesa, pronto per essere indossato, uno dei suoi pigiami,
predisposto con materna sollecitudine da zia Giulia. Mentre si toglieva la logo-
ra divisa coloniale Manno rifletté che probabilmente non l’avrebbe indossata
mai più: durante la licenza avrebbe vestito abiti borghesi, poi, per ripresentar-
si al reggimento, si sarebbe messo in grigioverde. Ricordò il pianto
dell’anziano maresciallo sulla barca... Sia pure in confuso avvertì che in quei
giorni la storia della sua patria era giunta a una svolta: cosa sarebbe venuto
adesso?
«Dio mio» mormorò, passandosi una mano sulla fronte.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Il giorno dopo dovette ripetere più volte la storia della sua fuga in barca: la
prima appena uscito in giardino all’alba, al portinaio-giardiniere, l’ultima ver-
so sera sul sagrato della chiesa, ad alcuni conoscenti che gli s’erano fatti intor-
no mentre la gente affluiva per la benedizione.
Essendo il mese di maggio le campane avevano infatti convocato il popolo
al rito, sgolandosi impetuose e poi di colpo trattenendo in un denso ronzio la
loro voce: giusto come nel maggio di tre anni prima, quando Ambrogio era
tornato per l’ultima volta dal collegio. Adesso non era più un collegiale Am-
brogio, ma un soldato, anzi un veterano, che in ospedale si curava le ferite. E
Stefano, che tre anni fa stava con lui sotto il campanile, la giovane testa pari-
mente intronata dalle campane, era morto e sepolto in un luogo di cui allora
non sospettava neppure l’esistenza: a Mescoff, in una fossa comune senza cro-
ci.
Intanto la vita continuava: sotto gli occhi di Manno si ripeteva con poche
varianti la sfilata che s’era svolta allora sotto quelli di Stefano e d’Ambrogio:
passarono puntualmente, allo stesso modo di altri operai, Costante, Tarcisio e
Ignazio; passò l’Oreste Pirovano elettricista e idraulico; seguite dal loro bran-
chetto pigolante di bambine passarono suor Candida e un’altra suora
dell’asilo; poi, in coda a una piccola folla d’operaie, ma alquanto distaccata,
arrivò Marietta ‘delle spole’ con la sua larga faccia gialla, e i capelli repulsivi, e
gli sperduti occhi d’agnello: stavolta anziché Giudittina teneva per mano una
sua minuscola nipote, dal nasino cosparso di lentiggini. Non mancò Romual-
do, l‘ubriaco comunale’, il quale ahimè camminava con passo incerto e la fac-
cia per niente compunta ma trista, segno che non era in fase di pentimento ma
di disperazione, andava però ugualmente in chiesa. Passarono Carlaccio e il
postino Chin, e quattro dei sette figli di Celeste, l’autista della ditta: avevano
stature a scaletta e alcuni gli stessi occhi straordinariamente azzurri del padre,
li aveva anche il maggiore, che li guidava, ed era un ragazzino dell’età di Ro-
dolfo, dall’aria risoluta. Ecco poi la vecchia signora Eleonora, vestita fin
dall’eternità di nero a lustrini, col cappello adorno di piume di struzzo e il ba-
stoncino da passeggio. Incredibilmente stasera non era sola, camminava infat-
ti sotto braccio a una ragazza vestita di bianco, che si muoveva con lentezza
perché la vecchia signora potesse procedere impettita. “Chi sarà quella? Una
sua parente sfollata?” si chiese Manno, senza tuttavia badarle più che tanto.
Quand’egli stava per entrare in chiesa, giunse anche la signorina Quadri
Dodini, insegnante in un ginnasio di monache a Monza, quella che aveva pian-
to per l’ingresso dei nazisti in Parigi. Costei - che anni prima aveva dato al gio-
vane ripetizioni di francese, ed era portata a fare discorsi intellettuali - lo salu-
tò con simpatia, e gli chiese non già della guerra, ma se per caso in Africa
avesse visto qualche edificio arabo particolarmente interessante, sul quale
scrivere magari un bell’articolo: «Come quello che hai pubblicato tre anni fa
nel ‘Cittadino’.» (‘Il cittadino’ era - ed è - il giornale cattolico di Monza.)
«Adesso per la verità a scrivere non ci penso» le rispose il giovane. «Però»
aggiunse per non sembrare scortese «sento che sto maturando, e questo in fin
dei conti mi potrà servire in futuro anche quanto allo scrivere.»
«Bravo Manno. Così mi piace» disse condiscendente la professoressa.
«Signorina: noi stiamo tutti quanti facendo un’esperienza che ci darà mate-
ria di riflessione per un pezzo, a me forse per tutta la vita.»
La vecchia signorina fece - senza sbilanciarsi - segno di sì, con gli occhi che
le brillavano dietro le grosse lenti; infine strinse con forza un gomito del futu-
ro architetto, a significargli la fiducia che riponeva in lui, e in tal modo si con-
gedò. Manno entrò in chiesa dopo di lei.
Andò a mettersi a destra, cioè ‘dalla parte degli uomini’. La chiesa era gre-
mita, al solito: a destra, davanti agli uomini e ai giovani, c’erano i bambini,
irrequieti come sempre: lungo le loro panche stipate andava e veniva don Ma-
rio, sorvegliandoli; a sinistra, davanti alle donne, c’erano le bambine e le ra-
gazzine, placide e placidamente sorvegliate dalle suore. Sfollati ce n’erano po-
chissimi, neppure una decina: s’individuavano anche perché le loro coppie
non s’erano scisse come quelle dei paesani, ma rimanevano unite, indifferen-
temente dalla parte delle donne o da quella degli uomini.
“Non gli vanno le nostre usanze, a quanto sembra” pensò Manno. “Beh, fac-
ciano come credono.” Era per natura disposto alla tolleranza, e tanto più in
chiesa; gli tornò tuttavia in mente quella divisione che in Libia si era dissolta
nel corso di una sola notte e tentennò la testa; “Se non ci si sottomette a un
minimo di disciplina già nella vita civile, non si può valere gran che una volta
alle armi. E infatti se pensiamo ai paesi di reclutamento alpino...” A proposito:
lui non aveva ancora un quadro chiaro di quello che avevano fatto gli alpini in
Russia. A chi rivolgersi per avere notizie di prima mano? Il suo amico Luca,
dopo essere stato a casa in licenza di convalescenza (perché ferito a una gam-
ba: da Nomana gli aveva scritto in Africa, ancora chiaramente sotto
l’impressione d’essere uscito da qualcosa di eccezionale), era ormai tornato
alle armi. “Forse uno di questi giorni potrebbe capitare a Nomana don Carlo
Gnocchi...” Oggi certamente don Carlo non era in paese, visto che in questo
momento non si trovava in chiesa. In chiesa, già... Manno ricordò d’essere in
chiesa. Si rimproverò la propria distrazione, e cercò di concentrarsi nel rito.

Officiava l’anziano prevosto, che aveva sulla nuca una selva di riccioli bian-
chi, tanto da richiamare i pastori delle montagne (“in effetti proviene da un
paese di montagna, di reclutamento alpino” pensò per un istante Manno, sulla
scia delle riflessioni precedenti); in stretta coerenza con l’aspetto pastorale del
prevosto, sull’abside della chiesa erano affrescate due file di pecore (“di razza
bergamasca, come quelle dei greggi transumanti che sostano in Brianza du-
rante l’inverno”) le quali da sinistra e da destra convergevano mansuete verso
un simbolico fonte centrale. Il rito era servito da quattro chierichetti in cotta
bianca, con i sandali e le scarpine scalcagnate dei giorni feriali ai piedi, divisi
in quel momento tra l’irrequietezza invincibile della loro età, e la riverenza che
gli veniva dall’operare attorno al sacramento. Osservatore com’era, Manno
non poté impedirsi di notarlo, ma: “Pensa alla benedizione piuttosto” s’impose
per la seconda volta.
La benedizione, un rito minore, un semplice sacramentale, cioè uno di quei
mezzi con i quali la chiesa cerca d’ottenere benessere non soltanto spirituale,
ma anche materiale, fisico, da quel datore d’ogni bene che è Dio,
Le donne partecipavano al rito cantando gli antichissimi inni latini, gli stes-
si che cantavano a volte anche durante il lavoro nelle fabbriche vincendo il
fragore dei telai e traendone conforto: il ‘Veni creator Spiritus’, ‘O sacrum
convivium’ e il ‘Tantum ergo’. Qui, nella tranquillità della chiesa, coi raggi
dell’ultimo sole ch’entravano ammansiti dalle finestre colorate, quegli inni
conducevano indefinitamente indietro nel tempo: non certo ai padri del più
lontano medio evo che li avevano composti (del tutto sconosciuti a chi canta-
va), ma alle generazioni pur scomparse delle nonne e degli altri vecchi, dalla
cui voce questi inni erano stati uditi nei primi anni della vita. Erano i canti
veramente duraturi, non stagionali del popolo, gli ultimi che il nostro popolo
abbia avuto; riportavano al cuore di ciascuno, insieme a un’ondata confusa e
struggente di memorie, il senso del tempo che passa e quello dell’eternità.
A Manno riportarono a un tratto il ricordo di sua madre, morta quand’egli
aveva quattro anni: la mamma con quel buon odore di pulito (una delle po-
chissime cose ch’egli ricordasse di lei) la quale una volta, mentr’erano in chie-
sa, l’aveva un poco stretto a sé, e lui le si era a sua volta stretto contro; questa
e pochissime altre cose Manno ricordava della madre, oltre al buon odore di
pulito che emanava da lei. Reminiscenze più complesse dovevano essere piut-
tosto sue ricostruzioni successive, magari trasposizioni di gesti di zia Giulia,
che della mamma aveva poi preso il posto. Come l’immagine di sé stesso bam-
bino che, seduto sulle ginocchia della mamma, alzava gli occhi per osservarla,
e allora la mano leggera di lei indirizzava con una carezza il suo viso verso
l’altare: verso Gesù...
Lo volse all’altare anche stavolta il viso, dopo avere aperto e chiuso ripetu-
tamente gli occhi, per vincere anche questa malinconica distrazione.
Ma ce n’era già in agguato un’altra. La ragazza biancovestita, giunta in chie-
sa al braccio della vecchia signora Eleonora (con tutta probabilità una sfollata
e dunque, a rigore, inclusa nel novero della gente ch’egli aveva poco prima
giudicato di scarso valore e interesse) si trovava davanti a lui appena al di là
della corsia centrale, cosicché nel guardare all’altare egli non poteva evitare
d’averne parte della figura dentro il campo visivo.
Ed era, detta parte di figura, costituita anzitutto da una testa che - almeno
vista così di tre quarti - richiamava (forse per il tipo di pettinatura?) le teste
delle statue greche dei libri d’arte. Era inoltre costituita, detta parte di figura,
da un collo “decisamente più spirituale di quelli delle statue greche direi:
sempre che l’aggettivo spirituale si addica a un collo”, cosa di cui il giovane lì
per lì tendeva opportunamente a dubitare. Era infine costituita, detta parte di
figura, da una vita sottile, molto verginale, che rubava gli occhi. “Accidenti” si
rimproverò Manno: “mi trovo in chiesa o dove? E allora?” Provò una sorta di
sdegno verso sé stesso: “È la sera delle distrazioni questa, e dovrebbe essere
invece la sera della concentrazione, del filiale ringraziamento a Dio che m’ha
fatto tornare a casa sano e salvo.” Chiese scusa a Dio con sincerità di cuore, e
per l’ennesima volta si concentrò nella funzione. La quale stava adesso giun-
gendo al suo culmine, in cui il celebrante, alzata con ambe le mani l’ostia
nell’ostensorio, tracciò sui presenti un gran segno di croce, il segno del recu-
pero. Manno si segnò con trasporto, giovanilmente, grato in cuor suo al Signo-
re Gesù, che sulla croce si era sacrificato per lui, per gli altri di Nomana, e per
la gente del mondo intero, compresa la sfollata vestita di bianco che costituiva
un elemento di così notevole disturbo nella prospettiva davanti a lui.
Seguì l’ultimo canto rituale, l’‘O salutaris hostia’ il cui tipo di musicalità
preludeva in modo tangibile alla chiusura della funzione. Nella gente andò
diffondendosi quel senso di avuto, di ricevuto nell’ordine spirituale, che sem-
pre nei credenti si accompagna al rito della benedizione.
La sfollata che al momento del segno di croce si era, allo stesso modo della
vecchia signora, devotamente inginocchiata nella panca di famiglia, si alzò in
piedi al pari di tutti. Tra poco - pensò d’istinto Manno - se ne sarebbe andata,
e lui forse non l’avrebbe rivista più. A tale prospettiva avvertì una sorta
d’inquietudine: questo era inammissibile, non doveva accadere.
“E perché non dovrebbe accadere? In che razza di maniera sto ragionando?
Perché dovrebbe essere inammissibile?” si chiese. “Ma guarda fino a che pun-
to mi sono incretinito. Per essere stato in questi mesi lontano dall’Italia e dalla
vista delle donne, sono ridotto al punto che ne basta una appena un po’ più
carina delle altre per darmi quasi il batticuore. E mentre sono in chiesa poi.
Beh, diciamolo pure: mi faccio schifo.”

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Stabilito questo, uscì dalla sua panca, si genuflesse sino a toccare bene col
ginocchio il pavimento, poi si voltò e avviò verso l’uscita. “Più carina delle al-
tre?” pensava intanto, già che c’era: “Beh, forse sì, e forse no. Anzi probabil-
mente no: perché infatti non m’è sembrata carina mentre entrava in chiesa? È
chiaro, dev’essere di quelle che a vederle in faccia ci rimettono. Dunque guar-
da che cretino sono: tutti questi pensamenti per una ragazza che in fin dei
conti non è neanche carina.” Uscito dalla chiesa si fermò nel pronao, con le
spalle rivolte a una delle colonne di serizzo lucente che lo componevano:
avrebbe atteso a pié fermo la sfollata per vederla in faccia a suo agio, avrebbe
dimostrato a sé stesso il granchio preso, e in conclusione la propria insulsag-
gine.
La ragazza ed Eleonora comparvero di lì a poco, di nuovo sotto braccio: ve-
nivano di continuo sorpassate e intralciate dai ragazzini che - avutane licenza
da don Mario - irrompevano dalla chiesa a sciame: le due donne camminava-
no quiete, la vecchia impettita come sempre, la giovane sciolta e gentile, e vi-
sibilmente divertita dallo scatenamento dei bambini, tra i quali si vedevano
sobbalzare anche le treccine lunghe quattro dita delle figliolette di Celeste.
“Ecco” si disse Manno dandosi ragione un po’ prima del tempo: “Ecco,
guarda.” E poi subito, addirittura senza soluzione di continuità: “Ecco cosa?
Vorresti dire che non è carina? Accidenti se è carina! È... è...” Non riusciva a
trovare l’aggettivo adeguato. “Accidenti però! Come ho fatto a non accorger-
mene prima, quando è entrata in chiesa?”
La sfollata passò a pochi metri da lui, era alta e sottile di figura, giovanissi-
ma (“Non può avere più di diciotto anni”): discese - prestando affettuosamen-
te attenzione ai passi della sua compagna - i pochi gradini del pronao, quindi,
sempre al braccio dell’altra, cominciò ad allontanarsi tra la gente nella grande
piazza acciottolata.
“E io cosa faccio? Le lascio andare?” si chiese il giovane. “Posso sempre far-
gli visita giù alla loro villa, una scusa qualsiasi la metto insieme... Però, la-
sciarle andare così!”
Intanto gli s’erano fatti attorno alcuni conoscenti, ecco uscire di chiesa e
venire verso di lui anche don Mario (il giovane aveva appunto in programma
d’attenderlo per accompagnarlo a casa): cominciarono a interrogarlo, gli chie-
devano questo e quello; rispose loro col solito garbo e anche, com’era nel suo
stile, con brio, ma la sua mente era altrove. “Chissà cosa ha visto in guerra”
pensava di lui don Mario, che se n’era accorto: “Forse adesso quelle tremende
cose gli tornano alla mente”.

CAPITOLO VENTESIMO

Nel pomeriggio del giorno successivo, alle cinque - l’ora del tè - dopo aver
attraversato a piedi il paese, Manno si presentò a ‘I dragoni’, l’ottocentesca
villa della signora Eleonora, ornata sulla facciata da medaglioni in pietra coi
profili dei più illustri milanesi del secolo scorso. Il giovane aveva atteso
quell’ora con segreta impazienza, e adesso mentre - suscitando un concitato
scampanellio - apriva lo sportello ritagliato nel portone ad arco, avvertiva una
notevole sospensione di cuore. “Quasi come al fronte prima d’un assalto” con-
statò, e si disse: “Dai, non farmi ridere”.
Al di là del portone c’era un breve andito carrozzabile lastricato in serizzo, il
bel granito erratico della Brianza, che attraversava il corpo della villa fino al
cortile interno. Solo due porte davano su quell’andito: una a sinistra, dov’era il
nucleo principale dell’edificio, con battenti di legno ermeticamente chiusi;
l’altra, più piccola, a destra. Questa era munita di vetri e tendine che la face-
vano somigliare a una porta di casa operaia: doveva trattarsi dell’ingresso alla
portineria, perché vi si affacciò il vecchio portinaio.
«Buon giorno» lo salutò Manno per primo.
«Buon giorno signore» gli rispose in dialetto il portinaio, un po’ sorpreso,
uscendo del tutto nell’andito. «Vuole che... la annunci alla signora?»
«Sì, per favore.»
«S’accomodi intanto.»
Manno annuì e si dispose a seguirlo, ma fu subito chiaro che, dopo avere
guardata la porta ermeticamente chiusa, l’anziano uomo non sapeva in realtà
dove farlo accomodare. Alla villa non giungevano visitatori estranei da un tale
numero di anni, che egli non sapeva più come regolarsi con loro.
«Beh» disse il giovane «io però preferirei aspettare qui.»
«Va bene, ritorno subito» disse l’altro, e prese per il cortile, lasciandolo so-
lo.

Il giovane si mise a passeggiare avanti e indietro nell’androne, in cui giunse


a un tratto come una freccia una rondine, che con una cabrata si aggrappò al
suo nido costruito quasi contro il soffitto: diede rapidamente l’imbeccata ai
piccoli, quindi sfrecciò via di nuovo, verso il sole e l’aria aperta. Manno si por-
tò sotto il nido e l’esaminò attento, vide che il sottostante lastricato recava
tracce di sterco di rondine; ad aumentare il sapore agreste del luogo una vite
decrepita dall’enorme tronco allargava orizzontalmente davanti allo sbocco
dell’androne i suoi tralci verdi. Il giovane vi arrivò fin sotto, entrando in tal
modo nel cortile: la villa - non grande, con la pianta a U - aveva il corpo di de-
stra rustico, formato da portineria e scuderie, quello centrale e il sinistro si-
gnorili. Dal muro del rustico sporgeva una pila di sasso, sormontata da una
pompa a ruota principio secolo, certo l’abbeveratoio delle scuderie: in quel
momento Graziosa, la figlia nubile del portinaio, stava azionando la ruota per
attingere acqua; anche nella pettinatura della donna, non più giovane, c’era
qualcosa che richiamava simpaticamente i tempi andati.
Come scorse il visitatore Graziosa lo salutò, inchinando un poco la testa,
con spontanea gentilezza, senza cessar di manovrare lo strumento (la gente
diceva che, quantunque zitella, Graziosa non si tormentava, aveva il cuore in
pace). «Buon giorno» la salutò Manno con simpatia.
«Buon giorno» gli rispose Graziosa.
Ma già dal corpo principale della villa stava uscendo nel cortile il portinaio e
con lui - nientemeno - la sfollata; la quale era anche oggi vestita di bianco,
sebbene non con lo stesso abito del giorno precedente; Manno - che voleva a
ogni costo vedere in lei una figura greca - trovò subito che questo somigliava a
una tunica: “Guarda” si disse “come sa scegliere gli abiti che le si addicono”.
Portinaio e figura greca vennero insieme verso di lui, che mosse loro incon-
tro accennando un sorridente inchino alla ragazza. Dopo avere, con molto rea-
lismo, indicato il visitatore («Eccolo»), il portinaio si scostò per tornare in
portineria.
«Riva» si presentò Manno, tendendo la destra alla ragazza.
Mentre gliela stringeva la ragazza mormorò il proprio cognome, che l’altro
non afferrò, e: «La zia la prega di accomodarsi» disse.
«Sbaglio o, dalla parlata, lei non è di qui. Non è milanese insomma?» chiese
il giovane.
«Sono di Novara infatti» rispose la ragazza. Aveva occhi grigioazzurri, pro-
fondi nelle orbite, non comuni, e la testa che richiamava effettivamente quelle
dei libri d’arte.
«Ah, piemontese dunque» fece lui, che nel suo entusiasmo arrivava a trova-
re in qualche modo rilevante anche questo. «Studentessa magari?»
Di nuovo la ragazza annuì. «Sì, faccio la seconda liceo. Ma venga avanti, la
prego.»
Si diressero, nel gradevole sole del cortile, verso l’entrata principale della
villa.
«Allora» cercò di non perdere tempo lui «siccome sono studente anch’io,
mi sa che noi due potremmo anche darci del tu.»
«Mi sa» gli rifece il verso la ragazza, con un mezzo sorriso.
«E oltre al cognome... Voglio dire di nome, com’è che ti chiami?»
«Io? Colomba.»
«Colomba!» esclamò il giovane, arrestandosi un istante. Stava per dire: «Lo
sai che è un nome azzeccato, che ti si addice?» Disse invece: «Io mi chiamo
Manno.»
«Manno? Ermanno insomma.»
«No, Manno soltanto. È un nome poco usato, medievale, tanto che non ce
l’ha nessuno: significa uomo, semplicemente.»
«Mi fa l’effetto d’un nome piuttosto importante» disse Colomba.
«Beh, non è il nome, sono io che sono piuttosto importante» la corresse be-
nevolmente Manno.
La ragazza sorrise, stavolta divertita.
«Però, dì, le avete cominciate un po’ presto le vacanze voi quest’anno» con-
tinuò il giovane.
«Che vacanze? Io non sono in vacanza. È solo per pochi... per quattro giorni
ancora. Ho fatto un lungo raffreddore e papà che è medico... Ma prima di fine
settimana, venerdì, devo riprendere la scuola purtroppo.»
«Ah!»
Era davvero una bella ragazza Colomba, anche se forse non quanto lui pre-
tendeva, dopo averla pensata e idealizzata nella propria fantasia dalla sera
precedente. Oltre tutto, così alta e adolescente, aveva membra molto acerbe;
tale particolare tuttavia non disturbava il giovane che la osservava con occhio,
come si usava dire allora, platonico, scevro di malizia.
«Vieni. La zia è in veranda» disse Colomba, e attraversato un piccolo atrio
aperse una porta interna.
Entrarono nella veranda, chiusa verso il cortile da serramenti in ferro e ve-
tro di disegno ottocentesco, pavimentata in lastre di serizzo e arredata con
logori mobili di vimini. La signora Eleonora sedeva in un divanetto: accanto a
lei, su un cuscino stampato a fiori, c’era un lavoro di cucito con l’ago appunta-
to, e gli occhiali chiusi posati sopra.
Il giovane le fece un profondo inchino, quindi strinse la mano ossuta che la
vecchia - guardandolo con occhi singolarmente chiari - gli tendeva. Si doman-
dava se non avrebbe fatto meglio a baciare quella mano: ma - venuto su in una
famiglia d’industriali-popolani - egli non aveva mai eseguito un baciamano in
vita sua.
«Riva» disse.
«Degli industriali tessili?»
«Sì.»
La vecchia annuì; seguitava a guardarlo con i suoi occhi azzurri, più chiari
di quelli del giovane. Poi: «Io la conosco» dichiarò.
«In questi piccoli paesi ci si conosce un po’ tutti, vero?»
«Non a quel modo la conosco» specificò Eleonora: «non intendevo dire
questo. Io ho assistito a una sua esibizione artistica, e me la ricordo bene.»
Stavolta Manno rimase un tantino sconcertato: «Esibizione artistica io?»
La vecchia signora sorrise. «È successo un po’ di tempo fa, durante un sag-
gio dell’asilo infantile» spiegò. «Lei ha disegnato col gesso un pupazzetto sulla
lavagna, poi ha commentato in rima il suo disegno. Era alto così, indossava il
grembiulino a quadretti bianchi e celesti dei maschietti.»
«Ah, infatti» esclamò Manno: «Mi ricordo.» Si volse a Colomba, che segui-
va incuriosita il colloquio: «Il grembiulino a quadretti bianchi e celesti mi do-
nava molto: è stata la mia prima divisa.» Annuì ripetutamente: «Bei tempi
quelli, gran tempi!»
Ma la signora s’era rifatta seria. «L’ho vista anche in divisa militare» affer-
mò, sempre indagandolo attenta. Ancora non conosceva lo scopo della sua
visita.
«Come? Tu sei militare?» disse Colomba.
Il giovane annuì.
«Ufficiale forse?»
«Sì, in licenza; da due giorni.» E ad Eleonora: «Anzi sono venuto qui ap-
punto... Beh, più o meno in relazione a questo.»
«In relazione a questo?» fece perplessa la donna.
«Ecco. Sono appena arrivato dal fronte, dalla Tunisia» cominciò a recitare
la lezione che si era sommariamente preparata: «e sebbene io non sia di caval-
leria...» La vecchia a queste parole (di cavalleria era stato suo figlio) ebbe un
sussulto e sbarrò gli occhi.
Solo allora Manno avvertì la dose d’incoscienza, se non addirittura di cru-
deltà, che poteva esserci nel suo piano. La vecchia signora adesso lo guardava
fissa, con gli occhi sbarrati: per la prima volta, da quando era al mondo, Man-
no si rese conto che il dolore della sua anziana compaesana non era qualcosa
di coreografico, non era una specie di componente del paesaggio, ma piuttosto
un coltello: era qualcosa che straziava, da ricollegarsi alla ripugnante dissolu-
zione da lui più volte incontrata sul campo dopo le battaglie.
Cercò di riflettere rapidamente, fece appello a tutto il proprio acume. «Sen-
ta signora: mi rendo conto che in questo momento io posso anche fare un po’
l’effetto, diciamo, di un elefante in mezzo alla cristalleria.» S’interruppe, riflet-
té meglio, non badava neppur più alla presenza di Colomba: «Il fatto è che mi
son detto: se non la vado a trovare io, che sono appena tornato dal fronte, la
madre di un sottotenente caduto nell’altra guerra, chi mai l’andrà a trovare ?»
Cercò di correggere in meglio: «Chi mai dovrei andare a trovare?»
Gli occhi sbarrati della vecchia Eleonora cominciarono a gonfiarsi di lacri-
me, la sua testa eretta annuì ripetutamente: lo approvava.
“Chi mai l’andrà a trovare... Questo dovevo dire?” pensò Manno: “Che di-
sgraziato sono. Che disgraziato!” Provava una sconfinata vergogna per non
essersi reso conto per tempo - un soldato come lui - del dolore di questa ma-
dre. Anzi per avere, sia pure senza malizia, pensato di utilizzare una simile
situazione al fine di... abbordare una ragazza!
“Ma adesso” tagliò corto in cuor suo “adesso che mi ci trovo, io aiuterò que-
sta vecchia; la verrò a trovare per lei e per la sua solitudine, indipendentemen-
te dalla nipote; e anche in futuro, quando tornerà la pace, io...” «Beh» disse:
«sono venuto per questo.»
«Lei è in piedi, si accomodi tenente» sussurrò la signora, e intanto si adope-
rava a eliminare col fazzoletto le lacrime sgorgate. Gl’indicò una delle poltron-
cine di vimini.
Manno sedette. Per allentare la tensione si mise subito a raccontare. Riferì
anzitutto, ancora una volta, la sua traversata del Mediterraneo in barchetta
(l’argomento gli pareva d’obbligo); poi, facendosi più pensoso, raccontò qual-
che particolare della battaglia di El Alamein, l’esperienza culmine della sua
vita: «Una lotta davvero impari, quattro o cinque uomini contro uno...» Passò
quindi a parlare delle più recenti vicende di Tunisia. Erano al corrente le si-
gnore di un gustoso episodio? Là ci sono certe montagne che emergono di col-
po dalla piana desertica, i cosiddetti gebel; bene, in mancanza di regolare arti-
glieria da montagna un certo colonnello Giaccone, capo di stato maggiore del-
la Centauro, aveva provveduto all’italiana. Cos’aveva fatto? Aveva preso a nolo
(«Per un prezzo, beninteso, non esorbitante») trecento cammelli coi loro
cammellieri arabi, li aveva caricati («i cammelli, non i cammellieri») di armi
d’accompagnamento e relative munizioni, e spediti sui gebel Berda e Orbata.
Così quando una bullesca colonna corazzata americana comandata da un cer-
to generale Patton, era piombata tra quei due gebel diretta a El Guettar per
tagliare in due lo schieramento italiano, i nostri avevano potuto fermarla e
tenerla bloccata per diciotto giorni, sparando da posizioni che ai carri ameri-
cani era impossibile raggiungere. Il racconto di Manno si era fatto quasi spas-
soso: «Ero là anch’io, sul gebel Orbata, come osservatore in prestito alle trup-
pe cammellate, voglio dire improvvisate cammellate: beh, nel gran quarantot-
to era un divertimento vedere la trepidazione dei cammellieri arabi per i
cammelli di loro proprietà. Vi assicuro che era molto diversa da quella dei no-
stri conducenti per i cavalli del governo...» Il racconto del ‘giovin signore’ -
estroso e permeato di cortese senso d’avventura - finiva col riuscire avvincen-
te.
Specie per Colomba: la quale adesso era lei sorpresa di trovare, in questo
‘paese di sonno’, un ragazzo così. Oltre tutto Manno - come in genere i soldati
in licenza - aveva cura di porre sempre l’accento su altro che sugli aspetti tra-
gici delle vicende che raccontava.
Eleonora non interferiva. Per lei la guerra era tutt’altra cosa che per questo
ragazzo di ventiquattro anni; ma non su ciò fermava la mente: piuttosto sul
fatto che attraverso questi spigliati racconti le venivano inaspettatamente in-
contro altre storie, diverse eppure in qualche modo simili, udite in giorni lon-
tani dal suo ragazzo, durante quelle brevi licenze dal fronte riandate poi tante
e tante volte con la memoria. L’anziana donna cominciò ad avvertire per
Manno autentica riconoscenza, e insieme un’accorata, materna pietà.
Il giovane, ormai del tutto a suo agio, pensò a un certo punto che sarebbe
stato bene parlare anche dell’arma di cavalleria - che egli assai poco conosceva
- e cercò di spiegare le differenze tra il suo impiego nella guerra precedente e
in questa. «In Russia però, a Isbuscénschi - ne avete per caso sentito parlare?
No? - beh, in quel posto la nostra cavalleria ha combattuto alla vecchia manie-
ra: hanno fatto come ai vecchi tempi. Mio cugino Ambrogio era giusto da
quelle parti col suo gruppo d’artiglieria; adesso è all’ospedale in convalescen-
za, ma appena torna a casa, lo prendo di peso e ve lo porto qui.»
Trascorse così rapidamente, per i due ragazzi almeno, quasi un’ora. A una
pausa delle chiacchiere di Manno la signora - memore dei suoi doveri
d’ospitalità - pregò la nipote (la quale era risultata essere una pronipote, e ab-
bastanza lontana) di preparare e portare il tè. «È la mia unica debolezza, te-
nente» spiegò a Manno: «ne posseggo ancora qualche scatola sigillata: si trat-
ta di tè autentico, ottimo, vedrà.» Intanto annuiva, e ogni tanto lo fissava an-
cora coi suoi occhi chiari, fermi.
Dopo la piccola cerimonia del tè, Eleonora impresse alla visita una svolta:
«Ho quasi ottant'anni io» spiegò «e non posseggo più molta elasticità menta-
le. Ho sentito da lei cose veramente interessanti: forse adesso ho bisogno d’un
po’ di tempo per assimilarle. Perché non voglio perderle, capisce?»
Il giovane si alzò in piedi dispiaciuto, pronto a prendere congedo. «No» lo
fermò la signora: «Non le chiedo d’andarsene, anzi mi dispiacerebbe. Lei pri-
ma d’oggi non è mai venuto a ‘I dragoni’, vero? Mia nipote le farà dunque da...
cicerone. Già vedo che vi date del tu.»
«Perché siamo tutt’e due studenti» spiegò con calore Manno.
«Ecco, beata gioventù. Colomba dunque, se lei crede, le farà da guida.»
«Sì, certo, la casa, la sua villa..., m’interessa.»
La signora si rivolse alla nipote: «Potresti fargli visitare le sale d’armi per
cominciare: è ufficiale e immagino apprezzi tali cose; e poi la scuderia, e il
giardino.»
«Sì zia.»
«Sì» approvò anche Manno «certo.»
La signora gli tese la mano ossuta, rigata di vene azzurre: «Ecco. Se lei tor-
nerà a trovarci qualche altra volta, anche presto, ci procurerà autentico piace-
re. Se questo beninteso non le dà noia...» Si fece improvvisamente dolorosa:
«So bene che ogni singolo giorno, ogni ora di licenza è importante per un sol-
dato; che è molto importante.»
«Ma no, quale noia? Cosa dice?» esclamò il giovane: «Qui da lei mi piace,
anzi, se me lo consente, io ci torno domani stesso per... per continuare il no-
stro discorso.» Appena detto questo si chiese se il suo stato d’animo non risul-
tasse troppo scoperto. Ma pareva che no: “Forse a causa dell’elasticità mentale
ridotta, di cui la signora parlava poco fa ”.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Le sale d’armi - con sovraporte dipinte in oro e azzurro stinto - erano due
stanzette intercomunicanti, con panoplie di sciabole un po’ arrugginite, e fio-
retti, e maschere da scherma, alle pareti. Intercalate alle panoplie c’erano ai
muri vecchie stampe a colori, raffiguranti ciascuna un mazzo di selvaggina
appesa per le zampe; Manno individuò lepri, fagiani, beccacce, starne dalla
bella macchia a ferro di cavallo sul petto: ogni figura era d’un disegno strana-
mente spigoloso, di gusto non più attuale.
Quasi a prosecuzione d’un tale ordine d’immagini nel secondo locale
c’erano anche, accatastati sul pavimento in un angolo, gli strumenti occorrenti
all’uccellagione mediante la civetta: panioni nei loro foderi di canna dalla pun-
ta ferrata, gabbiuzze per i richiami, qualche gabbia a campana, e la gruccia per
il rapace.
«Quelle cose lì le usava una volta il povero zio Hermes» spiegò Colomba,
che non sapeva fino a che punto prendere sul serio la propria parte di guida:
«così almeno mi hanno detto.»
«Già, visto che lui è morto prima che tu nascessi.»
«Adesso le adopera il portinaio, però non in questa stagione ma d’autunno,
quando c’è il passo degli uccelli.»
«Ah, non in questa stagione, ecco, ecco, capisco.» Manno atteggiò la faccia a
compunzione, assentendo in modo caricaturale; fece anche: «Hm, hm...» co-
me avrebbe potuto fare un anziano signore in un museo, alle spiegazioni del
cicerone patentato.
«Piantala» disse Colomba mettendosi a ridere: «O non ti faccio più la spie-
ga» lo minacciò.
Il ragazzo andò all’unica finestra del locale, dai vecchi vetri che distorceva-
no un poco le immagini, legati tra loro mediante liste di piombo, e l’aprì: ap-
pena sotto il davanzale, quasi toccabile con le mani, allargava i suoi rami la
vite che ombreggiava l’ingresso dell’andito.
«Da qui, quand’è la stagione (che sarebbe poi la stessa del passo degli uccel-
li) si potrebbe senza fatica cogliere l'uva» disse.
Colomba s’affacciò al suo fianco: «Guarda, sembra un tappeto verde»
esclamò.
Sotto il tappeto verde, ma visibile attraverso alcune fenditure, saettò la ron-
dine che Manno aveva già notato al suo arrivo.
«L’hai vista?» fece Colomba, «è la rondinella che ha il nido nell’androne.
Ha quattro rondinotti, lo sai?»
Manno annuì, stavolta in modo non caricato: «Li ho visti.»
«L’altro ieri» disse Colomba «ho messo accanto al nido, distante appena
tanto così, sopra una mensola, uno scodellino con pane e
latte. Ma le rondini non se ne sono curate, se ne infischiavano. Ho finito col
levare ogni cosa.»
Manno rise, scuotendo la testa. «Gli animali neonati non si nutrono tutti di
latte, ciascuno ha il suo nutrimento appropriato» disse. Poi si mise a ridere
con più gusto, mutando impercettibilmente fisionomia, i suoi occhi preannun-
ciavano una battuta: «Certo che, se invece di rondini, si fosse trattato di ron-
doni alpini, allora il tuo scodellino poteva andar bene.»
«Perché? Bevono il latte quelli?»
«No, bevono la grappa.»
«Cosa? Ma... Cosa vuoi dire?»
«Che se tu gli metti a portata di mano, o meglio di becco, uno scodellino di
grappa, i rondoni alpini, anche se hanno appena qualche giorno di vita, se lo
scolano tutto, puoi esserne sicura.»
Colomba non capiva: non sapeva niente degli alpini, delle loro epiche bevu-
te.
Manno le dovette spiegare. “Com’è indifesa” pensava con tenerezza. Per un
attimo gli erano tornati in mente anche gli alpini: “Don Carlo...” si disse: “bi-
sogna che lo cerchi, che gli parli...” ma se lo scordò quasi subito.

Usciti dalle stanzette delle armi, passarono in corridoio davanti a una con-
sole su cui c’erano delle fotografie di Eleonora giovane che cantava: forse alla
Scala, forse al teatro Carignano di Torino; il visitatore non diede segno di no-
tarle per non doversi impegnare in commenti e complimenti. Discese le scale,
Colomba lo guidò attraverso il cortile fino alla scuderia, che aprì manovrando
il catenaccio, senza bisogno di ricorrere alla chiave. Appena entrato il giovane
comprese perché: all’interno, presso la porta, c’era un mastello con del bucato
in ammollo: «Il bucato di Graziosa» gli spiegò Colomba.
Era, quel modesto bucato, l’unica nota contemporanea là dentro.
Il locale si presentava diviso in sei poste per i cavalli: tre a destra e tre a si-
nistra di una corsia acciottolata centrale, in fondo alla quale - nella parete di
fronte all’ingresso - c’era il pozzo di caduta del fieno dal soprastante fienile. Le
poste avevano sponde di legno massiccio, lisciato dall’uso, e ciascuna la sua
greppia di ferro, di disegno quasi elegante. Sopra le greppie si scorgevano sul
muro certe macchie rettangolari, come ne restano dopo tolto un quadro che
sia rimasto appeso per molto tempo: le avevano lasciate le targhe coi nomi dei
cavalli; delle quali una sola rimaneva, col nome scritto in stampatello e ghiri-
gori.
«Nestore» compitò Manno.
«Sì» disse Colomba «era il cavallo dello zio Giulio, il figlio della zia Eleono-
ra, che è morto in guerra.»
Manno pensò al tempo, neanche molto lontano - il tempo delle carrozze - in
cui per le strade di Nomana si doveva aggirare anche qualche cavaliere. Da
non credere oggi, in questo paese operaio... “Come tutto passa” si disse incer-
to.
«Vieni, adesso ti obbligo a vedere anche le carrozze» annunciò Colomba,
che tra quelle cose morte si sentiva piuttosto a disagio, tanto da volgere ogni
poco gli occhi al mastello, come a qualcosa che la ancorasse, sia pure prosai-
camente, al presente, alla vita.
Le carrozze, due berline coperte di polvere, erano in una rimessa attigua al-
la stalla. Dove c’erano anche, appesi a bracci di legno sporgenti dal muro al-
cuni corredi di finimenti in cuoio, protetti da tele non meno impolverate.

***

Lasciata la rimessa i due giovani s’incamminarono verso il giardino. Intra-


videro - oltre i vetri della veranda - la sagoma della vecchia signora sempre
seduta sul suo solitario divanetto di vimini, ma non avevano tempo per pensa-
re a lei.
Tra il cortile, chiuso su tre lati dai corpi della villa, e l’antistante giardino,
c’era un dislivello di qualche metro: perciò su quel lato il cortile era protetto
da una ringhiera di ferro, che s’interrompeva nel mezzo per dare adito a una
breve scala di serizzo a due bracci. Le ringhiere della scala, che continuavano
il disegno ottocentesco di quella del cortile, erano sommerse da tralci fioriti di
gelsomino e di passiflora. I due scesero la scala dentro il loro profumo, e si
ritrovarono nel giardino, inclinato verso mezzogiorno, separato dalla campa-
gna circostante da un decrepito muro di cinta. (Si trattava del giardino di cui
c’è già capitato di parlare in occasione della partenza per il distretto militare di
Pierello, Igino e Castagna, tre anni prima.) Non molto grande, s’incentrava su
un prato ovale intorno al quale crescevano alberi in gruppi omogenei e nella
parte più bassa mescolati a bosco; oltre il bosco c’era un piccolo orto. Tra que-
gli alberi alcune magnolie dal fogliame color verde brillante diffondevano un
penetratile profumo, e profumo davano anche i lauri, molto numerosi, e un
profumo diverso, alpestre, gli abeti, di cui qualche esemplare svettava molto
alto. Come nel giardino di Manno e Ambrogio anche qui le stradine erano
bordate dalle lunghe criniere dell’erba convallaria.
«Io so un nido» esclamò Colomba: «me l’ha insegnato il portinaio. Lo vuoi
vedere? O forse tu ti senti troppo al disopra di queste cose?»
«Mi sento al disopra, sì, ma non fino a questo punto» le rispose Manno.
«Su, andiamo a vederlo.»
Colomba imboccò un vialetto che costeggiava il prato: «Si trova nell’orto»
spiegò «ed è molto in basso, non c’è bisogno d’arrampicarsi. È a questa altez-
za» indicò con la mano orizzontale.
«Allora sarà probabilmente di capinero.»
«No invece.»
«E di che altro uccello?»
«Io lo so, il portinaio me l’ha detto. Voglio vedere se tu, che sei tanto forte
in nidi e nidiacei, sarai capace d’indovinare.»
«Accetto la sfida» disse fiducioso il giovane: «adesso vediamo.» Intanto
non sapeva trattenersi dall’osservare la sua compagna gentile.
Com’era bella! Che incanto la testa adolescente dai capelli biondocastani, gli
occhi un po’ infossati, la linea femminile del collo, tutta la sua figura: il giova-
ne non fermava gli occhi sulle parti più ‘materiali’ di lei, il petto o le gambe ad
esempio, gli sarebbe parsa una dissacrazione, una profanazione.
Decise che la ragazza, con la pettinatura che gli richiamava più che mai uno
dei suoi testi d’arte, e il naso che “a guardarlo bene” prolungava la linea della
fronte (forse non era proprio così: perché Manno volevi vederla così? Colomba
era bella com’era...) decise dunque che la ragazza aveva assolutamente una
figura greca. “Ha una figura greca” decretò: “Guarda, è venuta al mondo
un’altra Andromaca...” Stavano passando accanto a una pianticella di lauro
dalle foglie nitide, ordinate, consistenti, coi margini ben delineati; il ragazzo si
fermò. Si fermò anche Colomba e lo guardò interrogativa.
«Vuoi sapere, fra tutte queste piante, quale ti somiglia di più?» le chiese.
«Fra le piante? Quale mi somiglia? Cosa vuoi dire?»
«Il lauro. È il lauro che ti somiglia di più. Perché anche le piante hanno un
loro stile, un loro modo di essere. Non ti pare Colomba? Come le persone.»
«Che ridere» mormorò lì per lì la ragazza. Ma non rideva, invece lo guarda-
va un po’ turbata: aveva improvvisamente avvertito la forte emozione ch’era in
lui, nel bel giovane che - cominciava a rendersi conto - forse era venuto alla
villa proprio per incontrare lei.
Il quale: «Voglio dire che tu sei una donna...» stentava, contrariamente al
suo solito, a esternare il proprio pensiero: «classica, ecco». Annuì a sé stesso.
«Ma va» disse Colomba, però seguitava a guardarlo attenta: per la prima
volta la sua femminilità, il suo essere donna, richiamava l’attenzione, suscita-
va in altri una forte emozione; un’esperienza del tutto nuova per lei, e talmen-
te dolce da essere quasi insostenibile.
Se pure a sua volta nuovo a queste cose, intelligente com’era Manno afferrò
lo stato d’animo della sua compagna. «Dai, andiamo a vedere il nido indovi-
nello» disse.
Ripresero a camminare, giunsero all’orto nel quale in quel momento c’era
anche il portinaio, con un cappello di paglia in testa, intento a raccogliere ver-
dura. Il nido - molto rozzo, di stecchi e radici grossolanamente intrecciati -
stava sulla biforcazione d’un piccolo salice: conteneva cinque, anzi sei nidia-
cei, irti di pelurie e di piume grigie, che non degnarono i due d’un’occhiata:
loro erano interessati soltanto ai vermi e agli altri insetti smozzicati che la
madre gli avrebbe presto portato; ogni forma o presenza che non richiamasse
quel cibo, non li interessava, era per loro come inesistente.
«Sono averle, è un nido d’averle» sentenziò Manno, dopo un breve esame.
«No, hai sbagliato» disse Colomba. «Il portinaio non ha detto averle: ha
detto un nome diverso, ostrogoto.» Guardò in direzione del portinaio, quasi
volesse chiedergli conferma.
«Sgalzetòn per caso?» chiese Manno.
«Sì. Oh... vedo che lo sai! È un nome poco pronunciabile, vero?»
«È il loro nome in dialetto.»
«Av... Com’è che hai detto tu?»
«Averle.»
«Averle dunque» ripeté Colomba.
Manno rilasciò con circospezione i lunghi rami flessibili del salice, che per
osservare il nido aveva allargato. «Sono uccelli tra i più rustici, anzi addirittu-
ra villani, proprio come il loro nome.» L’idea gli piacque, ridacchiò: «Ecco, lo
vedi? Anche le specie degli uccelli hanno un loro modo di essere, un loro stile,
come le piante.»

Raggiunsero il portinaio, il quale li salutò portando l’indice della destra alla


tesa del cappello di paglia.
«Così ho sentito che al tempo del passo prendete gli uccelli con la civetta»
gli disse Manno in dialetto: «Ho visto i panioni.»
«Eh, non più con la civetta ormai» rispose pure in dialetto il portinaio.
«Una volta li prendevamo con la civetta, ai tempi, quando c’era il povero si-
gnor Hermes. Ma adesso... Uccellini di montagna che ‘giocano’ con la civetta
ne passano troppo pochi ormai. Non c’è più compenso alla perdita di tempo.»
«E dire che questo giardino mi sembra un buon posto, un posto confacen-
te.»
«Ah!» fece negando con la testa il portinaio. «Ai tempi sì. Ma adesso ci sono
troppi cacciatori in giro; ci sono più cacciatori che uccelli adesso.»
«Allora non ‘tendete’ più?»
«Tendo ancora, tendo ancora. Ci ho troppa passione, capisce? Ma non con
la civetta: adesso prendo i lucherini con i richiami. Quelli non c’è bisogno di
starli a sorvegliare: gli dò solo un’occhiata ogni tanto, mentre lavoro.»
«Ah, capisco. E dove li piazzate i panioni?»
«Là, oltre quegli alberi, sul margine del prato da quella parte.»
«Mi sembra un buon posto» giudicò Manno.
«Sì. Però non se ne prendono molti: due o tre, al massimo quattro o cinque
al giorno.»
Manno annuì, e dopo aver allargate, per condolersi, le braccia, prese conge-
do dall’uomo; gli premeva tornare a passeggiare con Colomba. La visita del
giardino - che, come s’è detto, non era molto grande - non avrebbe potuto de-
centemente durare a lungo.

Passeggiarono di nuovo dunque: Colomba gli faceva adesso domande sulla


guerra, come se già la vedesse con altri occhi dopo i suoi discorsi, e ne avesse
una consapevolezza nuova. Non arrivarono comunque ai momenti d’emozione
di poco prima, quando lui l’aveva bizzarramente paragonata a una pianticella
di lauro.
Si ritrovarono infine davanti alla scala a due rampe, dalle ringhiere coperte
di passiflora: la risalirono e attraversarono il cortile. La ragazza accompagnò il
giovane fino allo sportello che dava sulla strada.
Mentre si stringevano la mano Manno disse: «Allora siamo d’accordo che
torno qui domani.»
«Sì» gli rispose con semplicità Colomba.
«Poi, in seguito, devi venire anche tu a vedere il mio giardino: forse non è
bello come questo, ma insomma. Vorrei farti conoscere i miei: mia cugina
Francesca per esempio, che è come una sorella per me; voi due potreste farvi
un po’ di compagnia dopo, più avanti, quando...» fece con la mano un gesto
rotatorio, a indicare cose che si succedono a cose; intendeva: «...quando io
sarò partito, sarò tornato alle armi.
«Ma qui a Nomana io non ci resto per molti giorni» gli ricordò Colomba:
«Te l’ho già detto, faccio il liceo, e venerdì mattina devo essere a scuola a No-
vara.»
«Sì, però in seguito tornerai ancora a Nomana, no? Nelle vacanze estive per
esempio.»
«Beh, mi piacerebbe. Ma adesso salutiamoci, ciao Manno.»
«Ciao Colombina» disse Manno.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Una volta nella strada si ritrovò sotto i medaglioni con i profili dei milanesi
illustri. Quand’era bambino aveva creduto che i dragoni da cui la villa prende-
va il nome, fossero appunto quegli otto signori lì; senza dubbio adesso altri
bambini del paese dovevano crederlo. Alzò, mentre camminava, gli occhi a
osservare qualche profilo, lesse alcuni nomi: Pietro Verri, Gian Domenico
Romagnosi (“A voi due vi pare d’essere poi tanto illustri?”), Alessandro Man-
zoni. Il Manzoni un dragone! A quest’idea gli venne da ridere: «Beh, ciao dra-
goni» li salutò infine tutti insieme.
Percorrendo le vie del paese guardava ogni cosa, le note e ben conosciute
cose del suo mondo, e adesso che l’incontro con Colomba lo stava come rinno-
vando, ogni cosa, anche la più frusta, gli pareva una scoperta, gli procurava
un’acuta gioia. Sostò brevemente in chiesa “per ringraziare Dio d’avermi tirato
fuori dai guai” si proponeva; ma la preghiera che gli venne spontanea alle lab-
bra fu il gloria: lo disse, e ridisse, e ridisse ancora, in un crescendo solenne e
quasi dirompente, come di organo, nella penombra della chiesa vuota. Non
stava ringraziando Dio per averlo salvato dalla guerra e dal mare, ma per ave-
re creata Colomba, per averla fatta com’era, per avere introdotto nel mondo
una tale creatura. Pregò con trasporto anche la madre di Dio, la benedetta tra
le donne, che si prendesse a cuore questa, e l’aiutasse a conservarsi anche in
futuro pulita e incantevole com’era adesso.

***
Superato il cancello della villa di zio Gerardo (la quale come sappiamo - a
differenza de ‘I dragoni’ - prima che una villa era stata una fabbrica, e se anche
dissimulati ne conservava diversi segni) si addentrò nel giardino con
l’intenzione di riflettere, di fare il punto.
Il sole ormai abbastanza basso lo dissuase dal mettersi tra gli alberi dove
l’aria sarebbe stata anche troppo fresca. C’era un vialetto in margine all’orto,
che conduceva alla balconata di nord, fiancheggiato su un lato da una siepe di
carpini, sull’altro da chiazze di camomilla spontanea, dal buon odore arsiccio;
lungo quello il giovane si mise a passeggiare avanti e indietro, con le mani in-
trecciate sulla schiena, riflettendo pieno d’emozione, ogni tanto allontanando
col piede qualche sassetto. “È una creatura assolutamente classica” si diceva
“non la si può definire in altro modo: una donna classica. Al giorno d’oggi, da
non credere! Potrebbe - obiettivamente - essere sorella d’Andromaca e, perché
no? sorella di Beatrice; sia per la bellezza, diciamo per l’involucro esteriore,
sia per il mondo interiore...” (Non gli passava per la mente che il mondo inte-
riore di Colomba lui non lo conosceva. Come già il mattino e il giorno prima
egli la stava idealizzando; ma non per questo noi dobbiamo sorridere: forse
anche per Andromaca e Beatrice le cose a suo tempo non sono andate più o
meno così? E son forse per questo meno mirabili le loro figure, entrambe co-
struite probabilmente in parte di realtà in parte di fantasia? Stava prendendo
forma nella mente del giovane una creatura esaltante, nuova, che tuttavia non
sarebbe potuta nascere senza la Colomba in carne e ossa - cara, attraente ra-
gazza - che abitava a ‘I dragoni’. Per questo Manno d’istinto, senza porsi tanti
problemi, s’andava esaltando alla sintesi della realtà e del sogno, come altri
ben più grandi artisti prima di lui.)
Si dava però il caso che il vialetto ch’egli percorreva passasse accanto non
già a un ‘veterrimo lauro’ come i suoi classici pensieri avrebbero comportato,
ma a un tasso: quello isolato ‘a breva’, nella zona cioè di nord-est del giardino,
su cui ogni notte cantava l’usignolo. Il quale usignolo vi stava anche in quel
momento, e avendo il nido per terra nella siepe di carpini, spiava ansioso
quell’andare e venire dell’uomo nelle immediate vicinanze di esso. Ogni volta
che Manno s’allontanava dal nido la bestiola - a lui invisibile - si rilassava e
faceva sul suo ramo qualche movimento di sollievo e gaiezza, e perfino di spa-
valderia postuma, alzando le piume del capo a mo’ di cresta come un galletto,
per tornare però di lì a poco ad abbassarle e a concentrarsi nell’osservazione
angustiata dell’intruso che - stolido come un pendolo - ecco, aveva invertito il
cammino e si riavvicinava ai suoi indifesi, fragilissimi tesori vivi, chiusi nel
piccolo cavo tra le foglie.
Finché i nervi della bestiola non ressero più: allora sbucò stridendo dal tas-
so, e svolazzando sul colmo abbastanza compatto della siepe di carpini si die-
de a inseguire Manno, serrandolo da vicino, e stridendo senza smettere un
istante con quanta voce aveva in corpo.
Al giovane quella manovra non era nuova: l’aveva già vista fare dagli usi-
gnoli nei confronti di qualche gatto in esplorazione, e anzi da bambino era più
d’una volta intervenuto in loro aiuto, lanciando ai gatti urla e sassi.
«Ho capito» disse perciò alla bestiola eccitata, arrestandosi: «Ho capito,
non mi vuoi tra i piedi. Va bene, me ne vado.» Fece dietro front e s’incamminò
verso casa. Dopo alquanti passi si voltò: vide l’usignolo ritto su uno stecco del-
la siepe che lo guardava vittorioso, col ciuffetto alzato, brontolando con iat-
tanza. Si mise a ridere: “Irresponsabile” lo sgridò mentalmente: “Non sai che
alti pensieri di poesia hai interrotto? Tu, un cantore come te?” L’uccelletto,
poiché l’uomo s’era fermato, ricominciò a dare segni d’irrequietezza e a stride-
re: «Basta, me ne vado, me ne vado» disse Manno, e proseguì verso casa senza
più fermarsi.

CAPITOLO VENTITREESIMO

Mentre apriva la porta di casa sentì squillare il telefono. Francesca - che in


quel momento stava preparando la tavola per la cena - corse all’apparecchio.
«Da Genova» annunciò a Manno, «vogliono te.» E tendendogli la cornetta:
«Attento, è la madre di uno che stava con te in Africa. Ha già chiamato nel
pomeriggio, le ho detto di richiamare verso l’ora di cena.»
«Ricordi il nome?»
«Beh, no. Ha detto qualcosa come sottotenente Massone o Marrone, in-
somma che finisce in one.»
«Da Genova? Aspetta... Mussone forse?» Con la cornetta in mano, in attesa
della comunicazione, Manno guardava interrogativo la cugina.
«Forse sì. Mi pare proprio.»
«Ah, ecco. È una vedova.»
«Vedova?»
«Mm.» Manno annuì e si portò la cornetta all’orecchio. (Che fosse vedova
l’aveva sentito dire dal figlio non una volta sola: assai estroverso, quando le
cose non volevano saperne di funzionare, Mussone talvolta sbottava: «Io sono
figlio unico di madre vedova, cosa ci sto a fare qui? Io presento le mie scartof-
fie e torno in Italia.» Non di rado - Manno sorrise - a quelle parole Mussone
faceva seguire una serie di rimbrotti per i suoi ascoltatori che non si trovavano
nella sua stessa condizione privilegiata: «Io vi pianto qui tutti, massa di dise-
redati, miserabili senza titolo al rimpatrio, bruti privi di luce negli occhi.» Era
spassoso a volte Mussone; le scartoffie ad ogni modo non le aveva presentate
mai.)
«Pronto? Pronto? Il tenente Riva? Ermanno Riva?» (“E dai” le oppose men-
talmente Manno “io non mi chiamo Ermanno...” ma non sollevò obiezioni) «È
lei ch’è appena rientrato dalla Tunisia?» la madre del suo collega parlava in
modo concitato.
«Sì signora, sono io.»
«Mio figlio non scrive più, io non ricevo più posta. Prima mi scriveva sem-
pre, si può dire ogni giorno, fosse solo una cartolina. Non gli sarà, Dio non
voglia, successo qualche... Ah, tenente, io impazzisco, impazzisco.»
Il giovane pensò, stranamente, all’affanno che doveva aver sconvolta Eleo-
nora nei giorni della perdita del proprio figlio. «Cerchi di calmarsi, signora» si
provò a dire: «Io...»
Ma l’altra non gli consentiva di parlare: «Come mai lei è tornato e mio figlio
no? Al deposito l’aiutante maggiore è stato tanto comprensivo da darmi il suo
telefono... Cos’è accaduto a mio figlio?» La voce le si ruppe d’un tratto per
l’emozione: «al... mio... tesoro?» Poi non parlò più, la si sentiva piangere.
Manno si adoperò per tranquillizzarla. «Signora ho lasciato suo figlio do-
menica 6 maggio in buona salute, stava bene» disse e ripeté. Le spiegò anche
che gl’inglesi e gli americani non fanno del male ai prigionieri: «Proprio come
non ne facevamo noi a loro quando li prendevamo, e questo loro lo sanno be-
nissimo. Dunque non ha motivo per angosciarsi.»
La donna a momenti sembrava bere le sue parole, a momenti pareva invece
non udirle neppure, e si disperava.
«Ma no, perché piange così? Non deve piangere signora Mussone.»
«Sapesse quanto ho pianto nella mia vita» mormorò lei.
Una volta appeso il ricevitore Manno si fece meditabondo: non esisteva sol-
tanto Colomba a questo mondo (“Quella cara Colombina candida” pensò: “for-
tuna che esiste, con tutti gli altri volatili che oggi le hanno fatto corona: la
rondine, le averle ostrogote, e poco fa l’usignolo...”) Però non esisteva soltanto
lei e la gran gioia che da lei veniva; non doveva scordarselo...

Nei giorni seguenti ricevette alcune altre telefonate e anche qualche lettera
con richieste di notizie: rispose adoperandosi del suo meglio per togliere
dall’angustia chi gli si rivolgeva; era così costretto a constatare che la guerra -
se anche per lui momentaneamente sospesa - non era per niente finita.
Gliene venne una sorta di maggior determinazione a frequentare Colomba
fin tanto che le circostanze glielo consentivano. (Ma erano poi state le circo-
stanze, il caso, a fargliela incontrare - egli si chiedeva a momenti - o non piut-
tosto la Provvidenza, con una scelta deliberata? Dopo tutto, ricordava, ‘non
cade neppure un passero senza il consenso di Dio’: quest’incontro con Colom-
ba non era forse qualcosa di più importante della caduta d’un passero? Così,
per inciso, Colomba finiva con l’avere a che fare, oltre che con la rondine, gli
sgalzetòn, e l’usignolo, anche col passero del Vangelo.)

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Il giovane non lasciò passare un solo pomeriggio senza far visita a ‘I drago-
ni’, e ogni volta, arrivando alla villa e venendone via, passava sotto i meda-
glioni degli otto illustri personaggi milanesi: finì con l’acquistare una sorta di
domestichezza anche con loro; esuberante come si ritrovava in quei momenti,
non di rado ci scherzava: “Ehi, don Alessandro” diceva al Manzoni che fra tutti
gli era di gran lunga il più famigliare: “ai tuoi giorni li hai presi anche tu i tuoi
svarioni, eh?” Ne osservava con occhi ridenti l’effigie: “Per esempio pensa un
po’: hai combattuto strenuamente tutta la vita contro il classicismo per l’arte
romantica, senza renderti conto che la tua era arte classica. Tanto che per noi
posteri tu sei, né più né meno, il maggior classico della tua epoca. Eh, cosa ne
dici? O forse là in cielo - dove certamente ti trovi - a queste cose non vi inte-
ressate più tanto?”
Quelli furono per il giovane giorni di straordinaria pienezza, quali egli non
aveva fino allora mai sperimentato. Sia l’anziana che la giovane donna
l’accoglievano con crescente simpatia, e gioivano in modo indubbio della sua
presenza. Ma quei giorni passarono in un soffio, ahimè: Colomba infatti do-
vette ben presto partire.
Manno non mancò, successivamente, di visitare ancora, con puntualità, la
vecchia signora, con la quale però, in assenza della ragazza, non gli riusciva
più di conversare con l’esuberante freschezza di prima. «Il Manzoni? Ma cosa
sta dicendo, tenente? Come può parlare in tono quasi di burla di quel ‘povero
grand’uomo’?» protestava Eleonora, ripetendo il titolo di un libro che il gio-
vane aveva visto anche nelle mani di zio Gerardo (il quale, come sappiamo,
leggeva soltanto ‘I promessi sposi’: per cui se gli regalavano un libro si trattava
inevitabilmente d’una nuova edizione del romanzo, o d’uno studio sul roman-
zo o il suo autore.) E una volta, a una severa uscita del giovane su un altro effi-
giato, il Porta («Chi è il Porta? Un poeta dialettale eminente solo nella volgari-
tà») Eleonora lo rimproverò perfino un poco: «Non deve esprimersi così nei
riguardi dei poeti. La poesia è, insieme con la musica, ciò che di più confortan-
te ha la vita.»
L’età la rendeva suo malgrado un po’ retorica pensò Manno. Ma retorica o
no, la vecchia signora, e la sua casa, e il suo giardino, gli ricordavano Colom-
ba: perciò egli seguitava a venir qui ‘in pellegrinaggio’ (come si diceva) addirit-
tura con trasporto.
Dieci giorni di licenza tuttavia passano in fretta: le ore e i minuti ti fuggono
via come sabbia tra le dita; anche per lui giunse il momento di partire.

IV

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Il 24 maggio - data fatidica almeno nel ricordo di quelli che avevano com-
battuta la guerra precedente - Manno lasciò Nomana per tornare al deposito
del suo reggimento a Piacenza. Indossava una divisa nuova di panno grigio-
verde, non coloniale, acquistata a Milano presso l’Unione Militare in Monte
Napoleone, (Montenapo, la via del passeggio elegante e dei ‘gagà’: anche in
quei giorni, nonostante la guerra e i prodromi dello sfacelo.)
A una stazioncina prima di Monza, dove il suo treno sostò per incrociarne
un altro, egli si sporse dal finestrino, se mai gli capitasse di vedere sull’altro
convoglio suo cugino Ambrogio, ch’era atteso a Nomana d’ora in ora.
Ambrogio non c’era, non affacciato ai finestrini da questa parte almeno;
c’era invece Pierello, il compagno di leva d’Ambrogio, quello dal viso mite e
rotondo ch’era solito allargare le braccia e alzare gli occhi al cielo in segno di
cedimento al destino; indossava una divisa logora, con le mostrine della fante-
ria. Riconobbe Manno, e poiché era il primo compaesano in cui s’imbatteva lo
salutò gioiosamente, agitando la destra, che poi, una volta attirata
l’attenzione, portò alla bustina nel saluto militare: «Manno, Manno... Signor
tenente» disse a metà famigliare e a metà rispettoso dei regolamenti: «Dieci
giorni» e li concretò accostando le dita delle due mani spalancate: «Dieci
giorni di licenza, che ormai non me li toglie più nessuno. Eh?» annuiva rag-
giante.
«Da dove vieni? Dalla Slovenia mi pare?»
«No, Croazia.»
«Beh, Slovenia o Croazia...»
«Tutta una porcheria» ammise Pierello. «Dieci giorni di licenza! Eh?»
“Te n’accorgerai come passano in fretta dieci giorni” avrebbe voluto dirgli
Manno, ma: «Son contento per te» gli disse invece.
«Sì» fece Pierello «contento!» e insisteva ad annuire; finalmente allargò le
braccia nel gesto che Manno s’attendeva, e alzò gli occhi al cielo, conforman-
dosi al destino che gli aveva concessa una così radiosa licenza.
«Bravo Pierello» disse Manno: «mi fa piacere!» Già il suo treno accennava
a muoversi: «Ma dì, hai visto per caso se lì sul tuo treno c’è Ambrogio?»
Pierello non capiva e annuì: «Dieci giorni» ripeté.
«Va bene, ma volevo sapere: lì sul tuo treno c’è per caso Ambrogio?»
«Eh? Ambrogio?» Pierello si voltò, a guardare nella sua carrozza. Il convo-
glio di Manno stava prendendo l’abbrivo, non potevano ormai più parlarsi.
«Ciao Pierello» gridò l’ufficiale. Pierello si affacciò di nuovo e rispose agitando
il braccio, poi fece il saluto regolamentare.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Ambrogio arrivò a Nomana qualche giorno dopo. Anch’egli mentre il treno


entrava in stazione notò i lavori di rinnovamento ed ampliamento della trafi-
leria: “Guarda, in tempi come questi c’è chi pensa a costruire” si disse un po’
sorpreso. “Beh, meglio così.” E poi: “Speriamo che a questo qui vada meglio
che ai precedenti, e dopo il primo e il secondo, non ci sia anche un terzo falli-
mento. Chi mai può avere voglia di costruire però, oggi come oggi? Voglio
chiederlo al papà.”
Ad attenderlo c’erano sul marciapiede i suoi fratelli Francesca e Rodolfo,
non i genitori né Giudittina, i quali per due volte gli erano venuti incontro inu-
tilmente a treni precedenti.
Scese dal convoglio proprio davanti al lillà, tuttora fiorito e sempre circon-
dato dalla piccola folla sgargiante delle viole del pensiero, ma non se ne curò.
Nella nicchia sulla facciata della stazione uno dei due campanelli appaiati
suonava con insistenza, annunciando un altro treno in arrivo, nel modo ben
noto. “Tutti quei disgraziati sono morti” pensò il giovane “e qui è come se non
fosse accaduto niente.” Usciti senza indugio dalla stazione, i tre fratelli percor-
sero insieme, sotto il fogliame nuovo delle querce, il viale Dante Alighieri;
camminavano a passo spedito, anche se ciò non riusciva agevole al reduce che
oltre tutto volle alternarsi a Rodolfo nel portare la propria valigia. Invano il
fratello minore gli chiese di raccontare qualche vicenda di guerra, come ne
aveva raccontate Manno una dozzina di giorni prima. Alle sollecitazioni del
ragazzo Ambrogio sorrideva, gli dava magari un colpetto con la mano su una
spalla, ma non aderiva: sembrava avesse una fretta straordinaria d’arrivare a
casa. Francesca - un po’ impressionata - si sforzava di conferire anche a
quest’arrivo un tono normale, parlando con calma di ciò che più poteva inte-
ressare il fratello («Lo sai che Pierello in questi giorni è in licenza? - Lo sai che
Manno s’è messo a far la corte a una ragazza?») mentre camminava lei pure a
lunghi passi giovanili.
Arrivati che furono in piazza anche Ambrogio - come Manno dodici giorni
prima - entrò in chiesa, tallonato dagli altri due. Stavolta la chiesa era vuota,
la grande nicchia sopra l’altar maggiore però era scoperta, e vi si scorgeva il
Crocefisso circondato da un tenue alone di luce. “Guarda, hanno lasciato
esposto il Signore: di sicuro per qualche soldato in grave pericolo. Chi sarà?”
Gli tornò in mente l’immaginetta con la riproduzione di quel Crocefisso ap-
puntata alla parete del ricovero di Stefano, nella trincea dei bersaglieri sul
Don; su quella stessa parete di terra c’era anche la fotografia d’un’attrice... Il
giovane tentennò impercettibilmente la testa. Francesca, che l’osservava senza
darlo a vedere, annunciò che avrebbe recitato dei requiem per i morti in guer-
ra. Ambrogio rispose docile alla preghiera, mentre i morti in guerra gli
s’affollavano nella mente: quei disgraziati sulla pista sotto Posniacof, la matti-
na in cui lui era stato ferito la prima volta, e quelli disseminati nella nefanda
vallata d’Arbusov, e quelli dentro le buche davanti all’infermeria di Cercovo:
anche fuori delle buche ne avevano accatastati... E tanti altri morti, in quel
luogo e in quell’altro, e là e là. E la macchiolina lontana ch’era il corpo del suo
amico Bonsaver... Era venuta la primavera: chissà se i contadini del colcoz
avevano sepolto quel corpo? O era rimasto là a disfarsi nell’erba? O forse era-
no passati sul marciume con l’aratro? ‘Come te vol’ aveva detto Bonsaver salu-
tandolo poco prima di morire, e ai suoi ‘Andemo voaltri’: le ultime parole udi-
te da lui; Ambrogio mosse un poco le labbra: “Andemo... Andemo dove? Non
ti rendevi conto?” Ma si riscosse, era un soldato, un ufficiale, non gli era con-
sentito di piagnucolare. Inspirò profondamente: basta, schiacciò mentalmen-
te, come premendola con un piede, ogni emozione; doveva dominarsi, era
questo il suo dovere adesso. Ci riuscì, si dominò. Bloccata la strada ai senti-
menti si ritrovò atono, un po’ istupidito, ma pronto a far fronte a “ogni even-
tualità”.
Fece a un tratto segno a Francesca che concludesse; sull’esempio di lei si
segnò e inginocchiò profondamente; anche Rodolfo si segnò e inginocchiò, poi
i tre uscirono di chiesa e s’avviarono verso casa.
Passarono a lato del campanile, quindi davanti alla porta d’Igino in via
Manzoni; il reduce scrutò attraverso i vetri, se ci fosse qualcuno, ma le tendine
impedivano di vedere all’interno. “Meglio tornare domani” risolse tra sé.
«Igino è sempre in Jugoslavia» lo avvertì Francesca.
Ambrogio annuì. «Domani vengo qui a trovare i suoi.» Dopo qualche passo
aggiunse: «Per prima cosa però domani vado alla Nomanella.» Dopo qualche
altro passo: «E uno di questi giorni bisogna che vada anche a Nova, dal padre
del Michele Tintori.» “In tre amici della stessa classe” rifletté “siamo partiti
per il fronte russo, e ritorno io solo.”
«Giustina non si dà pace» disse Francesca. «Che pena, vedessi. E la mamm
Lusìa, poveretta!»
Ambrogio annuì senza fare commenti. «Il signor prevosto» continuò Fran-
cesca «ha detto loro che bisogna aspettare la fine della guerra, che fino a quel
momento non devono perdere la speranza: Stefano potrebbe anche essere pri-
gioniero.»
«Sì» disse Ambrogio «ha detto bene.»
«Ma se è prigioniero, perché non scrive? Perché nessuno dei dispersi in
Russia scrive a casa?» domandò Francesca.
«Pensa» le s’aggiunse Rodolfo: «la guerra in Tunisia è finita da poche set-
timane, e già qualcuno di quelli ha scritto dalla prigionia.»
«È vero» convenne Ambrogio.
«Anche ieri ha scritto uno del Raperio» disse Francesca. «Dalla Russia in-
vece, dopo quanti? ormai cinque mesi, non ha scritto ancora nessuno, proprio
nessuno. Perché?»
“Forse perché non c’è più nessuno in vita che possa scrivere” le rispose
mentalmente il fratello: “forse i prigionieri li hanno massacrati tutti fino
all’ultimo.” Lui questa eventualità durante la guerra l’aveva sempre presente,
nella buona e nella cattiva fortuna, e l’attuale assoluto silenzio gli sembrava a
momenti una sinistra conferma dei suoi timori. «Sono finiti in mano a gente
incivile» disse infine «che non si preoccupa certo delle loro famiglie.»
«Povero Stefano» mormorò Francesca «e povero Michele.»
«Sì» disse Ambrogio.
Ecco il cancello del giardino.
“Sei a casa tua” disse il reduce a sé stesso: “Vedi? A casa. Ci sei arrivato. Ci
tenevi tanto quand’eri là sulla neve, adesso sei qui, sei tornato.” Non avvertiva
gioia, tornare mentre i più non ritornavano, non era una gioia. “Beh, va, tiria-
mo avanti” pensò atono.
Da una finestra di cui, con un panno, stava ripulendo i vetri, li vide entrare
in giardino Noemi, e animandosi tutta diede ripetutamente l’allarme: «C’è
Ambrogio. C’è Ambrogio. Signora Giulia è arrivato Ambrogio.»
«Neanche fosse una vedetta» disse con un mezzo sorriso il reduce.
Alle parole di Noemi la madre uscì in fretta di casa, seguita da Giudittina
colle trecce sobbalzanti; dalle loro stanze uscirono e scesero frettolose in giar-
dino anche le due zie sfollate da Monza; lo zio Ettore di Milano - coi suoi oc-
chiali a pince-nez che gli davano un’aria un po’ artefatta - uscì in giardino di-
rettamente dallo studio di Gerardo, dove stava lavorando: «Ecco» mormorava
«ecco.» Dall’orto, reggendo un annaffiatoio gocciolante che, a quanto pareva,
non aveva trovato il tempo di posare a terra, veniva a passi solleciti anche il
giardiniere-portinaio, ch’era piccolo, di mezz’età, con baffi orizzontali color
tabacco.
Giudittina si lanciò di corsa, e precedendo tutti si appese con un gran salto
al collo del fratello. «Bravo. Sei arrivato. Bravo» gridava giuliva.

***
Durante la cena, anche per far fronte al silenzio che ogni tanto rischiava di
formarsi, Francesca riferì di Colomba: «Lo sai Ambrogio? Ancora non te
l’abbiamo detto bene: Manno s’è messo a far la corte a una ragazza.»
«Mm. Quella colonna di santa romana chiesa! Si dà ai corteggiamenti dun-
que. Ma dici sul serio o...?»
«Certo, sul serio, e come.»
«Beh, non esagerare» intervenne Giulia. «Le ha fatto, diciamo, un po’ di
compagnia, ecco.» Sfuggì un sorriso anche a lei.
«Sì, compagnia tutti i giorni le faceva. Pensa Ambrogio: finché lei è rimasta
a Nomana, ogni pomeriggio lui l’ha passato a ‘I dragoni’.»
«Beh» fece notare con indulgenza Gerardo: «dopo tutto è la sua età.»
Francesca si rivolse al fratello: «Pensa che l’ha portata anche qui in casa:
anzi ha voluto che io e lei diventassimo amiche, capisci? Ce l’ha quasi ordinato
di diventare amiche. Perché io le faccia poi coraggio, poverina, quando lui sarà
di nuovo via. Capisci? Manno ha preso una cotta proprio solenne, te lo dico
io.»
«Non esagerare» ripeté la madre «su, non esagerare.»
«Ehi, qui va a finire che m’incuriosite sul serio» disse Ambrogio. «Chi sa-
rebbe questa ragazza? Che tipo è?»
«Come t’abbiamo detto è nipote della signora Eleonora. Adesso però è par-
tita, è ritornata a casa sua, a Novara.»
«E bravo il Manno.»
«Si chiama Colomba» intervenne Rodolfo. «È un... bel nome, no?» Lo disse
a mezza voce, con strana timidezza.
«Sarà bella anche lei, immagino» disse sorridendo Ambrogio. «Si, e come»
rispose sempre con timidezza Rodolfo, e si fece a un tratto rosso fino alla radi-
ce dei capelli.
Ambrogio pensò: “Guarda che è lui, è Manno, a essere innamorato, non tu”,
ma non disse niente, lo lasciò in pace.
Da fuori veniva odore di fieno e lo stridio allegro dei rondoni che giravano
in cerchio attorno alla casa prima di ritirarsi per la notte. La vita a Nomana
continuava. Tutti quei ragazzi erano morti, ma la vita continuava.

***
Il giovane si ritirò poco dopo la cena nella sua stanza, assecondando senza
farsi pregare un invito della madre: «Sei convalescente, ricordalo, non devi
strafare, specie nei primi tempi.»
«Hai ragione mamma. Infatti mi sento un po’ stanco.»
Nella stanza c’era oltre al suo il letto di Rodolfo, che però quella sera era di-
sfatto. «Abbiamo trasferito tuo fratello nella camera di Manno, almeno per
qualche giorno» gli spiegò la madre: «Se no, con la sua mania di farsi raccon-
tare le storie di guerra, è capace di tenerti sveglio chissà fino a che ora.»
«Sì.» Neanche a questo Ambrogio aveva obiettato;, si sentiva come vuoto.
Da fuori giungeva adesso, oltre al buon odore del fieno, il canto
dell’usignolo. Il giovane, toltasi la divisa, indossò il pigiama; poi spense la luce
e spalancò del tutto la finestra.
Il canto veniva da nord-est. “Canta come al solito sul tasso ‘a breva’”. Lo
stette ad ascoltare per un certo tempo: ignorava il bisticcio intercorso pochi
giorni prima tra la bestiola e Manno. Nelle pause del canto sentiva un altro
usignolo cantare più lontano, laggiù verso la Nomanella, come una eco.
Alzò gli occhi al cielo stellato: c’era sopra di lui il gruppetto di stelle della Li-
ra, accanto alla grande croce del Cigno; appena più in là scorse quella costella-
zione mal sagomata e stramba, l’Aquila, alias Oreste Pirovano... Gli venne da
ridere: adesso che si trovava a Nomana, e l’idraulico Pirovano stava a due pas-
si, col negozietto pieno di lavabi e grappoli di rubinetti appesi alle pareti, c’era
effettivamente da ridere: la costellazione Pirovano! Per mesi in Russia egli
l’aveva chiamata così: dalla sera in cui Bonsaver gli aveva insegnato a ricono-
scerla. Aveva detto che lui la chiamava col nome dell’idraulico del suo paese -
un nome veneto - perché il disegno delle stelle dell’Aquila non raffigura il vo-
latile, ma un attrezzo da idraulico, il giratubi. Bonsaver! Bonsaver e gli altri...
Ambrogio chiuse le persiane. Il sorriso gli s’andava trasformando in smorfia.
Il canto dei due usignoli, fuori, continuava.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

La mattina seguente, domenica, il giovane si recò dopo la messa in visita al-


la Nomanella.
C’era già Luca, che stava conversando con la sua fidanzata Giustina, tutt’e
due in piedi davanti alla porta di casa, uno di fronte all’altro, tutt’e due con
l’abito della festa. Luca aveva tuttora la barba rossastra, e anche in borghese
l’aria d’alpino, all’occhiello portava il distintivo azzurro d’una decorazione al
valore; Giustina, alta all’incirca quanto lui, era molto più esile; presi
com’erano dal loro sentimento, non si accorsero del sopraggiungere
d’Ambrogio.
“Non sapevo che Luca fosse ancora in licenza” pensò costui. “Guardali però
quei due, fanno davvero un bel vedere! Ma che modo scomodo di conversare!”
Sapeva che si comportavano cosi per attenersi alla consuetudine popolare, la
quale prescriveva che quand’era col fidanzato la fidanzata non si allontanasse
dall’occhio della propria madre. (I due stavano ‘parlandosi’, e ‘si parlano’ è
appunto l’espressione con cui il dialetto lombardo designa il fidanzamento.)
S’accorsero di Ambrogio quand’egli era ormai a pochi passi.
«Guardali i due piccioncini, guardali» disse lui in dialetto, e andò verso Lu-
ca tendendogli emozionatissimo la mano, poi lo abbracciò. «Luca! Anche tu ci
sei passato, eh?» Intendeva: per gli orrori della ritirata e per la ferita.
«Sì. Ma la mia è stata una cosa da poco» gli rispose l’altro, alludendo alla
propria ferita; indicò la gamba sinistra. «E poi è successo a Nicolaievca, quan-
do stavamo ormai per venirne fuori.»
«Va là, so cos’è successo a Nicolaievca. E so anche cos’hai fatto prima. Vedo
che ti hanno data la medaglia d’argento... l’avevo sentito infatti. Ti faccio tutti i
miei complimenti. Giustina, sai cosa vuol dire questo distintivo? che il tuo è
un ragazzo davvero in gamba.» Annuì alquanto, a sottolineare le proprie paro-
le, poi rivolgendosi di nuovo a Luca: «Però dì, non sapevo ch’eri ancora in li-
cenza di convalescenza.»
«Oh no, quella è finita purtroppo; adesso son sotto di nuovo. Solo che ieri
sera siamo arrivati per servizio a Milano con dei camion, e mi hanno lasciato
venire a casa per qualche ora.»
Ci fu una pausa.
«Noi due siamo riusciti a ‘sfangarla’.»
«Possiamo ringraziare tutt’e due Quello là» disse Luca, facendosi serio in
volto (intendeva il Signore Iddio).
A queste parole il bel viso sorridente di Giustina si contrasse in una smorfia.
“Stefano non l’ha sfangata” pensò Ambrogio: “ho toccato un tasto falso”. Si
rivolse allora alla ragazza, e le strinse con molta cordialità la mano: «E la no-
stra Giustina?»
«Bentornato» disse lei a mezza voce, un po’ vergognosa.
«La postina dei soldati!» esclamò Ambrogio. «Sia questo» indicò Luca «che
tuo fratello te n’hanno dato di lavoro, eh?»
«Eh!» ammise Giustina.
«Quando ci siamo visti in Russia m’hanno detto che tu scrivevi ogni setti-
mana che Dio manda: una volta all’uno e una volta all’altro.»
Giustina annuì ancora: «Sì» e sorrise con timidezza. Poi si capì che avrebbe
voluto passare al discorso più serio, ma trovava difficoltà a esordire: finché:
«Ambrogio: tu credi che lui, mio fratello...» Si fermò, come se ci avesse ripen-
sato: «C’è la mamma in cucina. Adesso te la chiamo.»
«No, fermati» disse il giovane. «Sono venuto apposta per lei, per lei e per
tuo padre. Non chiamarli, vado io da loro» e s’avviò; gli altri due lo seguirono.

Lucia sedeva in cucina, con una mano poggiata sul piano del tavolo e l’altra
in grembo. Aveva sentito poco prima la voce d’Ambrogio ed era accorsa alla
porta, ma poi era tornata indietro e si era seduta: la prospettiva di avere, come
che sia, un’altra conferma alla tragica situazione del figlio, la paralizzava.
«Mamm Lusìa» esclamò Ambrogio entrando «cara mamm Lusìa» Prese la
destra della contadina nelle proprie mani, gliela strinse e gliela baciò. «Cara
mamm Lusìa!» ripete.
La donna, che s’era levata in piedi, lo guardava di sotto in su, con gli occhi
marroni pieni di lacrime.
Ambrogio la fece nuovamente sedere e, presa una sedia, sedette di fronte a
lei dallo stesso lato del tavolo, il quale era coperto dalla cerata a disegni con-
sunti ch’egli ricordava bene; Lucia si tolse dalla tasca del grembiule il fazzolet-
to, e mentre s’asciugava i miti occhi: «Ieri sera suo padre e io volevamo venire
da te» disse «non appena abbiamo sentito ch’eri arrivato a Nomana. Ma poi
abbiamo pensato: chissà com’è stanco...» Fece una pausa: «Ti hanno anche
ferito, povero Ambrogio.»
«Anch’io ieri sera avrei voluto venire qui da voi: non sono venuto giusto
perché ero cotto. Sarà che a forza di stare in ospedale ho imparato a fare il pol-
trone, eh?»
Lucia fece segno di no con la testa.
«Io non vi porto notizie di Stefano, purtroppo» disse il giovane, con voce il
più possibile distesa: «voi lo sapete, mamm Lusìa. Il poco, anzi il niente che
sapevo, ve l’ho scritto.»
«Sì, due volte ci hai scritto dall’ospedale, povero Ambrogio. Ti ringrazio.»
Esplose in contenuti singhiozzi: «Tanto» disse balbettando «è tutto inutile.
Ogni cosa è inutile, perché Stefano è morto.»
«Questo voi non potete dirlo» protestò il giovane. «Nessuno l’ha visto mor-
to, dunque non si può dire.»
«Ecco» gli s’aggiunse Giustina. Anche Luca sottolineò tali parole con ripe-
tuti cenni del capo.
«Non ci sono notizie di lui, né di tutto il suo reggimento» disse Ambrogio.
«Come vi ho scritto, nessuno sa cosa sia successo al Terzo bersaglieri.» Dietro
la donna scorgeva, attaccato alla sbarra, il secchio di ferro stagnato per l’acqua
del pozzo, col mestolo appeso all’orlo. Com’erano inconciliabili con questo
ambiente di pace tutti quei ricordi di morte... «Mamm Lusìa» disse il giovane
«lo sa Dio se vorrei darvi qualche buona notizia. Ma non ne ho purtroppo. È
incredibile, ma del Terzo non sa niente nessuno.»
Intervenne Luca: «Gliel’ho spiegato anch’io. In ospedale ho cercato
d’informarmi, però i bersaglieri ricoverati erano tutti del Sesto: pare impossi-
bile, ma nessuno di loro sapeva niente di quelli del Terzo.»
«È perché il Terzo doveva passare, al principio della ritirata, da un paese
che si chiama Mescoff.» Ambrogio tracciò con l’unghia, nell’intento di riuscire
più chiaro alla mamm Lusìa, qualche inutile riga sulla cerata del tavolo. «Ma
là, nel paese di Mescoff, prima dei bersaglieri erano arrivati i russi, e proba-
bilmente erano anche tanti: per questo i bersaglieri non sono poi riusciti a
passare.»
«Oh, povera me» mormorò Lucia «povera me» e cercava di raffigurarsi ciò
ch’era accaduto, e non riuscendole, prese a dondolare avanti e indietro la testa
con struggimento: «Erano tanti, vero? Tanti! Chissà cosa è successo.»
«Ma il fatto ch’erano tanti» tentò di correre ai ripari il giovane «potrebbe
anche... forse... essere stato un bene. Intendiamoci, io non lo so» aggiunse
perché in realtà non credeva a ciò che stava dicendo: «nessuno lo sa: però, per
via della sproporzione, i bersaglieri potrebbero anche essersi arresi. Se è anda-
ta così, chissà adesso quanti di loro si trovano in prigionia.»
«Ma se è prigioniero perché non scrive? Io sono sicura che Stefano farebbe
l’impossibile per scrivere, e una maniera la troverebbe, perché lo sa bene che
altrimenti noi qui... io... in queste condizioni io muoio.»
Tutti avvertivano che non si trattava d’un modo di dire: era l’atroce realtà di
questa, e d’innumerevoli altre madri. “Com’è bestiale” tornò a pensare Am-
brogio “che dalla prigionia in Russia non possa scrivere nessuno! Forse li
hanno davvero ammazzati tutti!...”
Quasi intuendo ciò che passava per la sua mente, la donna scoppiò in pianto
dirotto.
«Calmatevi mamm Lusìa» esclamò il giovane con un improvviso groppo al-
la gola: «Calmatevi. Non dovete disperarvi perché... Dio vede e Dio provve-
de...» Non sapeva più neppur lui cosa diceva.
«Dobbiamo cercare d’aver fede, mamma» fece allora Giustina: «dire rosari,
pregare senza stancarci mai, strappare al Signore la grazia.» Le tremava il
mento mentre diceva questo; il suo fidanzato Luca distolse gli occhi da lei.
«Ma se è morto, è tutto inutile, non capisci?» si ribellò Lucia. Si volse ad
Ambrogio: «Se è prigioniero perché non scrive?» ripeté. «Dimmelo. In Africa
è finita solo da pochi giorni, eppure qualcuno di quelli rimasti prigionieri ha
già scritto a casa: uno del Raperio per esempio, e qui a Nomana il Carletto
Astori che fa l’imbianchino.» Abbassò la voce: «Ve lo dico io: soltanto chi è
morto non scrive.»
Ambrogio tentennò la testa; non se la sentiva d’argomentare di nuovo, di
mettere avanti ragioni in cui poco credeva.
«Mamma, non potete pensare che i dispersi in Russia siano morti tutti» in-
tervenne allora pacatamente Luca. «Sono forse centomila, lo sapete?» Guardò
Ambrogio: «Eh?»
«Sì. Centomila dispersi, così si dice» confermò questi «e neppure uno di lo-
ro fino a oggi ha scritto a casa.»
«Se fossero morti tutti?» disse Lucia.
«Centomila persone? Come potete pensarlo, mamma?» fece costernata
Giustina.
«Io non lo credo» dichiarò con calma Luca. «Non lo credo perché sei o sette
del mio battaglione, dopo una settimana ch’erano prigionieri noi li abbiamo
liberati a Nicolaievca. Li ho visti io, con questi occhi, ci ho anche parlato. Non
li avevano uccisi, anzi i russi gli avevano dato qualcosa da mangiare.»
«Sei un bravo ragazzo tu Luca» disse Lucia: «questo fatto me l’hai già detto,
e io ci ho pensato molto.»
«Sì» ribadì Luca «è successo proprio in quel modo.»
«Ci penso di continuo» affermò Lucia: «Però sei o sette su tanti... Cosa sono
sei o sette?»
«Questo è il poco che sappiamo noi» le fece notare Luca: «ma intanto è una
cosa che fa sperare.»
Lucia rifletté. Da un che di appena percettibile che cominciò a pervadere la
sua fisionomia, Ambrogio ebbe l’impressione che dalla disperazione stesse
passando a un principio di speranza. “Dio mio!” pensò: “quante volte - ogni
giorno magari - passerà per questa altalena?” Lucia lo fissò in viso, voleva il
suo parere; egli si rese conto che non poteva tergiversare.
«Sentite mamm Lusìa: un fatto come quello che ha detto Luca è successo
anche nella nostra sacca. Un autiere i russi l’avevano incorporato nel loro
esercito, dandogli da guidare un camion, perché hanno molto bisogno di spe-
cialisti. Gli avevano detto che a guerra finita l’avrebbero rimandato a casa. In-
vece di lì a qualche giorno, a un incrocio, il suo camion è finito in bocca a noi:
c’è stata una sparatoria, lui s’è salvato ed è tornato in colonna con noi.» Ebbe
un attimo d’esitazione: gli era venuto in mente anche quel soldato di Varese,
del Trentesimo artiglieria, che ripeteva d’essere stato lui pure in mano ai russi:
quello asseriva d’essere l’unico superstite d’una colonna di prigionieri italiani
massacrati dai russi a colpi di parabellum poco fuori Arbusov. Forse però,
chissà, vaneggiava, oppure era impazzito del tutto... «Dunque» concluse Am-
brogio «di vivi ce ne sono, anche se adesso non possono scrivere. Per sapere se
sono tanti o pochi bisogna per forza aspettare la fine della guerra.»
Si fece silenzio; Lucia lo guardò sgomenta: la fine della guerra! Quanto
tempo, quanti anni si sarebbe dovuto aspettare? «Anche il signor prevosto
m’ha detto così» mormorò. Guardò Giustina, che annuì.
Dopo un po’ di silenzio Ambrogio domandò: «Come mai il pà Ferrante, e
anche la nonna e i due bambini non sono qui?»
«I bambini li ha portati la nonna a messa a Monticello» gli rispose Lucia:
«perché oggi in paese è festa e nella piazza ci sono le banchine col torrone.
Ferrante invece... pover’uomo...» La passione la costrinse a interrompersi.
«Il papà è nella stalla» spiegò Giustina.
«Vado a trovarlo, a salutarlo» disse Ambrogio alzandosi in piedi, «poi torno
qui»; e uscì.

***
Ferrante era effettivamente nella stalla, ma non lavorava. Anch’egli come
Lucia s’era accorto dell’arrivo d’Ambrogio, e non s’era risolto ad andargli in-
contro: adesso, per pudore, fingeva di lavorare: il giovane lo trovò che, col tri-
dente, insisteva nel riordinare la lettiera delle vacche, la quale era già in ordi-
ne e non aveva alcun bisogno di sistemazione.
«Grazie che sei venuto a trovarci» disse Ferrante.
«Avrei voluto arrivare con qualche buona notizia» gli rispose Ambrogio.
«Eh!...» fece Ferrante, e parve concentrarsi ancor più nel lavoro.
«L’ho visto l’ultima volta in settembre.» Dentro la sua posta il cavallino
sauro raddrizzò le orecchie e guardò il visitatore: sembrava essersi fatto atten-
to anche lui.
«Sì» annuì Ferrante, «ce l’ha scritto infatti: ha scritto che la tua è stata una
bella improvvisata. La lettera l’abbiamo ancora là nel cassetto.»
«È stato contento, sì; e anch’io.»
«Sì, ti credo.» Ferrante seguitava a manovrare il tridente, senza guardare in
viso l’interlocutore.
«Ve l’ha scritto che ho mangiato il rancio dei bersaglieri al suo plotone?
Erano tutti, dal primo all’ultimo, ragazzi in gamba e affiatati. Sono sicuro che
al bisogno si saranno aiutati uno con l’altro. Non c’è dubbio; e lo faranno an-
che adesso in prigionia.»
«Eh!» approvò genericamente Ferrante.
Ci fu una pausa piuttosto lunga. L’oleografia con sant’Antonio del porcello
era sempre là, appesa al suo posto: avrebbe dovuto irradiare pace, ma in que-
sto momento non ce la faceva. Le lacrime premevano adesso negli occhi del
contadino, che riuscì però a trattenerle.
Ambrogio si sentiva molto a disagio, aveva una gran voglia d’andarsene, di
scappare, e se ne vergognava. “La perdita d’un figlio in guerra” constatò “non
ha niente di poetico, proprio niente. Se mai fa lo stesso effetto che facevano i
corpi in decomposizione nell’erba dopo i combattimenti...” La constatazione
per cui era passato anche Manno durante la sua prima visita a Eleonora.
Il giovane si trattenne nella stalla senza quasi più dir niente. Come per in-
dagare il nuovo silenzio, a un buco nella parete presso l’effigie di sant’Antonio
s’affacciò un topolino: chissà se era lo stesso di qualche anno prima? Ambro-
gio al vederlo provò uno straordinario senso di struggimento; attese ancora un
po’, poi risolse di tornare con gli altri. «Quando sono arrivato in linea da Ste-
fano» disse a mo’ di congedo «lui montava di vedetta. Anche voi avete fatta la
guerra, sapete cosa vuol dire, cos’è un camminamento e com’è fatta una trin-
cea.» Ferrante annuì, suo malgrado interessato. «Uno di questi giorni» prose-
guì il giovane «vengo qui con più calma, e vi racconto com’era sistemato Ste-
fano là sul Don; ogni particolare insomma. Così, tanto per farvi sapere.»
«Sì» approvò Ferrante: «sì, grazie.»
Ambrogio afferrò all’altezza del gomito il braccio villoso del contadino, e lo
strinse. Poi tornò in cucina da Lucia, con la quale, e coi due fidanzati, rimase
un’altra mezz’ora. Durante questo tempo alla conversazione partecipò anche
la donna, su argomenti non in rapporto con la sorte di Stefano. Finalmente il
visitatore strinse con pietà la mano ossuta della contadina, salutò i due fidan-
zati, e venne via.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Ripercorse con animo oppresso la carrareccia erbosa, incisa da due solchi


paralleli, a tratti fiancheggiata da siepi ora basse ora alte di biancospino o di
gelso. Alle sue spalle, verso nord, chiudeva la visuale il grande anfiteatro delle
Prealpi, illuminato a quest’ora frontalmente dal sole. (Le montagne... Il giova-
ne ricordò ciò che Stefano aveva detto a proposito di quelle montagne tre anni
prima: «Per me è come se neanche esistessero» e fu per obiettare come allora,
ma l’amico non era più lì.) Ai lati della carrareccia c’erano bei campi di grano
verde, nel fior del rigoglio, e alternati ad essi prati falciati di fresco, coi loro
filari di gelsi o di viti.
“Hanno già tagliato i maggenghi. Chissà se anche Ferrante ha completato il
taglio dei suoi, adesso ch’è senza aiuto?” Pareva di sì, visto che la piccola ‘pia-
na’ col filare di gelsi nella quale - se il lettore ricorda - al principio di questa
storia noi abbiamo fatto conoscenza con Ferrante e Stefano e il loro cavallino
sauro, risultava accuratamente rasata. Ambrogio ricordò quel giorno: “Giusto
tre anni fa: era maggio anche allora; a quel tempo eravamo ancora due ragaz-
zini...”
Quanti ricordi! Anche assai più lontani, come quello, lontanissimo, ridotto a
poche immagini sbiadite, di quando scortato da Marietta ‘delle spole’ era an-
dato alla Nomanella insieme col cugino Manno per far visita all’allora suo
compagno d’asilo Stefano. Lui Ambrogio - meno interessato di Manno alle
fiabe di Marietta - correva avanti lungo la carrareccia, ed ecco dalla parte op-
posta era arrivato di carriera un cavallo senza finimenti e col petto sporco di
schiuma (anche adesso il giovane ricordava questo particolare): era giunto al
galoppo su di lui che, paralizzato dallo spavento, si ritrovava incapace d’uscire
dal sentiero: ecco, il cavallo gli era ormai addosso, l’avrebbe travolto, invece
all’ultimo istante aveva spiccato un salto e, come una gran macchia scura era
passato sopra di lui senza toccarlo... «L’angelo custode, è stato il tuo angelo
custode!» avevano gridato all’unisono Marietta ‘delle spole’ e Manno. Doveva
essere accaduto in quel punto, dove le siepi laterali si facevano un po’ più alte.
“Non sono stato preso, sono stato lasciato... Allora, come quest’inverno al
fronte... Perché?”
Prima di terminare, la carrareccia costeggiava il muro del suo giardino,
sormontato da una lunga siepe di mortella, salvo nel tratto centrale dov’era la
balconata con la vista verso le montagne. “A quest’ora la balconata è certa-
mente deserta” pensò il giovane, e alzò gli occhi per controllare. Invece c’era
Giudittina che, zitta zitta, lo stava osservando con occhi furbi. Come incontrò i
suoi occhi: «Ti ho scoperto» gli gridò «ti ho scoperto che finalmente arrivi...»
Al suo fianco si affacciò anche Francesca, con la treccia girata attorno alla bel-
la testa, e sorrideva pure lei.
Ambrogio salutò le due sorelle con la mano. “Non devono essere qui a caso”
pensò, “Francesca dev’essere preoccupata per me”.
La sorella sembrò indovinare in qualche modo i suoi pensieri, perché mise
avanti una giustificazione: «Ambrogio, tu hai dimenticato, scommetto, che
abbiamo a pranzo gli zii sfollati. Dì la verità.»
«Vedi» le obiettò il giovane arrestandosi per un attimo «che sono puntua-
le.» Salutò di nuovo le due ragazze con la mano. All’angolo del giardino c’era
l’edicola con l’affresco della Madonna del rosario; il giovane lesse la lunga
scritta ad arco sopra le figure: ‘Regina sacratissimi rosarii ora pro nobis’;
chinò la testa in segno di saluto e, senza fermarsi, ripeté più volte la preghiera
della scritta, sostituendo l’‘ora pro nobis’ con un ‘ora pro eo, pro eo, pro eo’.

CAPITOLO VENTINOVESIMO

A tavola lo zio Ettore, ingegnere, che da giovane aveva studiato due anni in
Germania, senza rendersi affatto conto dello stato d’animo del nipote insisté
fin da principio nel fargli domande sulla situazione strategica venutasi a crea-
re al fronte russo.
«Dopo che sei venuto via tu i russi hanno, diciamo, terminato di prendere
Stalingrado, no?»
«Sì, in febbraio.»
«E poi sono venuti parecchio avanti.»
Anche questi erano discorsi che bisognava fare. Ambrogio avrebbe voluto
avvertire che tali notizie lui le aveva apprese dai giornali e dalla radio come
tutti; ma temeva di riuscire poco cortese verso lo zio. Riepilogò dunque la si-
tuazione strategica, anche se a parlarne direttamente a quel modo, quasi per
cognizione diretta, aveva la sensazione di bluffare un po’.
I russi dunque non avevano solo ‘terminato di occupare’ Stalingrado, ma sul
fronte sud erano venuti davvero ‘parecchio avanti’, creando un grosso saliente
intorno a Carcov. I tedeschi però, con le divisioni fresche fatte affluire in gran
fretta dalla Francia, avevano - con la consueta violenza e, si sarebbe detto, per
questa volta ancora con facilità - annientato quel saliente, ripresa Carcov, e
ristabilito un fronte in qualche modo rettilineo da capo Nord fino a Rostov sul
mar Nero, press’a poco come al termine del primo inverno di guerra. I due
enormi eserciti - di centinaia di divisioni ciascuno - in questo momento si
fronteggiavano, preparandosi a buttarsi di nuovo uno sull’altro.
«È una situazione molto pericolosa» commentava lo zio Ettore fissando sul
nipote gli occhi chiari, un po’ imbambolati dietro le lenti a pince-nez: «Se tra i
due eserciti dovesse definitivamente prevalere quello russo, cosa succederà?
In teoria potrebbe non fermarsi neppure dopo avere occupata la Germania,
potrebbe arrivare fino all’Atlantico.»
«Come andranno a finire le cose non possiamo davvero indovinarlo» gli ri-
spose Ambrogio, cercando di prendere in considerazione tale prospettiva:
«Però i tedeschi sono, uomo per uomo, o se preferisci reparto per reparto,
molto più efficienti dei russi. È vero che la sproporzione del numero è grande,
e se si tien conto che i tedeschi hanno anche tutti gli altri nemici da fronteg-
giare, è veramente enorme.»
«Gli americani, è vero?» disse Rodolfo.
«Si, e gli inglesi, e i partigiani che stanno formandosi un po’ dappertutto:
insomma hanno ormai contro mezzo mondo. Ad ogni modo se i russi dovesse-
ro spuntarla e venire sempre più avanti - cosa di cui io non sono affatto sicuro
- ogni loro progresso lo pagherebbero certamente caro.»
«Vuoi dire che arriverebbero in Germania stremati, dissanguati?»
«Sì. Credo proprio.»
«Non è detto però che si fermino per questo, una volta che non abbiano più
davanti veri oppositori.»
«Non è detto, no» ammise cupamente Ambrogio.
«O forse Stalin e gli altri responsabili potrebbero a un certo punto preoccu-
parsi per il dissanguamento del loro popolo? Il comunismo è nato umanitario,
non dimentichiamolo» disse lo zio Ettore, che essendo di formazione mentale
laica era l’unico fra i commensali disposto a fare qualche credito a
quell’ideologia dichiaratamente atea.
«No zio, cosa dici? Umanitari quelli? No, in questo ti sbagli!»
«Dico che lo erano in partenza, al loro inizio, quanto meno come program-
ma.»
«Al loro inizio io non so, lo saranno stati. Ma oggi!» Ambrogio riferì qualco-
sa dei massacri, vere e proprie ecatombi, che avevano fatto per costringere i
loro contadini a entrare nelle fattorie collettive. Poi si soffermò sulle proprie
esperienze dirette del modo disumano con cui i comandi sovietici impiegava-
no i loro uomini.
«Hai capito!» mormorava ogni tanto interessato lo zio Ettore: «Hai capito!
Nemmeno Cadorna nell’altra guerra faceva un simile spreco di soldati.»
«Povera gente» osservò invece Gerardo, che essendo d’estrazione popolare
era autenticamente sensibile alle sofferenze del popolo: «Pensate, alla fine
sono ragazzi come i nostri, o padri di famiglia come noi. Povera gente.»
«E anche questo solo fatto, che adesso non consentono ai prigionieri di
scrivere a casa?» fece osservare Ambrogio allo zio: «Non è un indice sufficien-
te del loro livello umanitario?»
Intervenne la madre Giulia: «Come potevi pensare» rimproverò il cognato
«che dei senza Dio siano umanitari? Non ti rendi conto che è un controsen-
so?»
Le due anziane zie di Monza approvavano con la testa. Lo zio Ettore - ap-
punto perché tendenzialmente laico - si mise invece a sorridere dietro i suoi
occhiali alla Trotschi. (Forse anche altri sorrideranno, al leggerle, delle parole
di Giulia: senza rendersi conto che i fatti, gli invincibili fatti, davano ragione -
e clamorosamente ragione - al suo buon senso cristiano.)
Noemi frattanto andava e veniva tra sala e cucina con le portate; ogni tanto
Francesca e la stessa Giulia si alzavano per darle una mano. Tentava d’alzarsi
anche Giudittina: per aiutare asseriva, ma era regolarmente bloccata dalla
madre che: «No, sta seduta, oggi non ce n’è bisogno» le diceva. Rodolfo allora:
«Aiutare tu? A far cosa? Confusione?»
Giudittina - gli replicava facendogli le boccacce, correva qualche epiteto.
Per cui interveniva l’una o l’altra delle due zie di Monza: «Al tuo fratellino?
Questi dispetti? Su da brava...» e sorrideva benevola, invitando i due ragazzi
alla conciliazione. Per il resto le zie - intimamente spaventate da quelle pro-
spettive di così spietata violenza - non prendevano parte alla conversazione se
non costrette da apposite domande di Giulia e di Francesca. Preferivano ascol-
tare senza perdere una sola parola ciò che gli altri, e in particolare Ambrogio,
dicevano: era il loro modo riflesso di partecipare alle cose tremende che sta-
vano succedendo nel mondo, quelle cose che, da un certo tempo in qua, si fa-
cevano sentire anche nella loro vita incolore e priva d’avvenimenti. (La loro
vita senza novità! Era una sorta d’interminabile attesa: ma di cosa ormai? Una
volta, tanti anni fa, quand’erano giovani ragazze, avevano atteso l’amore che le
completasse... Ma l’amore per loro non era venuto, ed esse avevano seguitato
ad attendere: non avrebbero cessato d’attendere fino al giorno della loro mor-
te. Era da sperare che non se ne rendessero conto. Forse però se ne rendevano
conto, e non ne facevano parola per non appenare gli altri, per ‘non disturba-
re’ - la loro preoccupazione d’ogni momento - gli altri.)
Il discorso tornò sui tedeschi, perché Gerardo voleva essere informato me-
glio circa la loro efficienza: l’argomento lo interessava, visto che in passato se
li era trovati di fronte come concorrenti in più d’una esportazione, e ragione-
volmente s’aspettava, una volta finita la guerra, di trovarseli ancora di fronte.
«Non capisco» osservò al figlio: «Se tra i tedeschi e i russi c’è la sproporzio-
ne d’efficienza che tu dici, come mai a Stalingrado le cose sono andate come
sono andate?»
«Questo non me lo spiego nemmeno io» ammise Ambrogio: «Devo dirti che
quella resa non me l’aspettavo. Va bene che a Stalingrado si trattava
d’un’armata contro cinque o sei, e rifornita dall’aviazione, cioè rifornita solo a
metà: ma in base alla mia esperienza ero convinto che i tedeschi, una volta
resisi conto di non poter tenere la città, avrebbero rotto l’accerchiamento e
sarebbero venuti via. Come hanno fatto a Cercovo, per intenderci. Se ci si met-
tevano, le linee russe le avrebbero sfondate, di questo rimango convinto: per-
ché dunque non si sono mossi? Questo non lo capisco.»
Ignorava che a vietare caparbiamente alla Sesta armata di ritirarsi era stato
Hitler in persona, contro il parere di tutti i militari; ignorava - e sino alla fine
della guerra le avrebbe ignorate - le pressanti richieste del comandante tede-
sco accerchiato perché in dicembre gli fosse concesso di lasciare la città, e di
raggiungere i duecento carri armati del generale Hoth che da sud, dopo essersi
fatti strada distruggendo successivamente circa mille carri russi, erano arrivati
a una cinquantina di chilometri da Stalingrado.
«Resta il fatto che, per quanto lurchi, i tedeschi sono soldati tremendamen-
te efficienti» disse Ambrogio: «e non soltanto per la loro organizzazione, che è
perfetta, ma anche perché sono, uno per uno, uomini valorosi nel senso che
questa parola ha sempre avuto. Voglio dire che nessun altro soldato è disposto
a dare la vita in combattimento come loro.»
Tutti ascoltavano senza commentare.
«Questo gli va riconosciuto» disse il giovane: «a ciascuno il suo. Bisogna
però anche dire che in certe cose i tedeschi sono ciechi in maniera incredibi-
le.»
«In quali cose?» chiese lo zio Ettore.
«Basta dire questo: che avrebbero potuto prendere la Russia con molte me-
no divisioni di quelle che hanno messo in campo.»
«Ma... cosa stai dicendo?»
«Sì, perché al principio pochi tra i russi gli si opponevano con impegno.
Non lo sai? Questa non è propaganda, è realtà. I russi speravano che i tedeschi
li liberassero dal comunismo: all’entrata in tanti paesi - parlo del principio
della guerra - la gente veniva incontro alle truppe, anche a quelle italiane, col
pane e col sale, e partigiani non ce n’erano. I tedeschi dovevano fare i conti
forse più con lo spazio e la mancanza di strade che con l’esercito russo, che
pure, all’inizio, era armatissimo; ecco perché sono arrivati in pochi mesi fino a
Mosca, e se non li avesse bloccati il fango, probabilmente nell’autunno del 41
l’avrebbero anche presa. Ma in che modo hanno corrisposto alle aspettative
dei russi? Da quei disgraziati che sono, cioè considerandoli sotto-uomini, mal-
trattandoli in tutti i modi, e ammazzandone un’infinità: è una cosa di cui qui
in Italia non si ha neanche l’idea. E coi disertori? Erano un mare al principio:
beh, soltanto perché il comando russo ce ne mescolava qualcuno col compito
di fare poi il partigiano, i tedeschi hanno deciso di trattarli tutti quanti come
possibili partigiani, cioè in modo barbaro. Il risultato è che tutti i russi hanno
cominciato a opporsi con ogni loro forza, e nelle zone occupate a darsi alla
macchia. Capisci zio? Ecco cos’hanno ottenuto i tedeschi con la loro cecità.»
Ambrogio tacque per un po’, annuendo come chi avrebbe ancora non poche
cose da aggiungere.
«È incredibile» commentava il padre «incredibile!»
«Beh, è la loro... come dire?» s’ingegnò di spiegare a Gerardo e agli altri lo
zio Ettore che conosceva la Germania: «il loro... schematismo mentale, dei
tedeschi, che... Ecco, è questo.»
«Adesso basta» intervenne la madre Giulia, preoccupata che il figlio si stan-
casse: «Lo sai che non devi affaticarti; adesso lascia che parlino un po’ gli al-
tri.»
Ambrogio tentò lì per lì di schermirsi, ma poi seguì passivamente il consi-
glio materno. La conversazione - che proseguiva, e alla quale egli prendeva
parte solo con qualche frase - poco alla volta finì con l’interessarlo sempre
meno. Tornava invece a pungerlo il ricordo della mamm Lusìa, incontrata
qualche ora prima alla Nomanella. Nello stesso stato d’animo avrebbe potuto
trovarsi in questo momento sua madre... E a penare come Lucia era la grande
maggioranza delle madri dei militari italiani da lui incontrati o visti nel corso
dell’inverno al fronte russo...
Ogni tanto il giovane si versava sopra pensiero e quasi automaticamente del
vino da una limpida caraffa di cristallo che aveva davanti, finì contro le sue
abitudini col vuotarla. Allora Noemi la tolse e la riportò piena; e di nuovo Am-
brogio prese a versarsi da bere. Si alzò da tavola un po’ stordito.

CAPITOLO TRENTESIMO

Indugiò in tinello con gli altri che - prima d’uscire in giardino - vi presero in
piedi un surrogato di caffè. Stava per chiedere il permesso di ritirarsi in came-
ra sua (“Le ferite mi giustificano anche del sonno dovuto al vino” pensava,
“anzi lo nobilitano: quando tornerò a vergognarmi di me stesso?”) allorché
tramite ‘telefonino’ (il citofono d’allora) la portineria annunciò che c’era: «Il
Pierello della frazione Lodosa, con una certa Savina, madre d’un soldato di-
sperso in Russia.» «Dì che li facciano passare» disse Ambrogio a Francesca,
che aveva risposto all’apparecchio; quindi uscì in giardino incontro ai due.
I quali già venivano verso la casa, accompagnati dal portinaio-giardiniere.
La madre del disperso era a colpo d’occhio un’operaia: in abito festivo, teneva
in mano una fotografia, ed essendo nuova del luogo procedeva guardandosi
intorno con timidezza. Pierello al vedere Ambrogio si arrestò e spalancò le
braccia; anche Ambrogio lo salutò agitando vivamente una mano, dopo di che
i due si affrettarono uno incontro all’altro e si strinsero con effusione la mano.
«Piero, lo sapevo che eri in licenza» disse Ambrogio in dialetto.
«Eh» rispose Piero, «siamo qui. Tu piuttosto... Hai visto la strega, eh?»
«Proprio» convenne Ambrogio. «Ma dì, quanto tempo è che non
c’incontriamo noi due?»
L’altro ritrasse la testa tra le spalle come di fronte a uno sproposito: «È da
quel giorno, lo ricordi, no? che m’hai portato al distretto.»
«Ecco, infatti.»
«Quante cose ci sarebbero da raccontare!» disse Piero. «Beh, basta.» Passò
a presentargli la donna, che sembrava prendere come un buon auspicio quelle
espressioni amicali: «Questa è la Savina, la mamma del Dino, il Dino Riga-
monti della Lodosa. Siccome abita vicino a casa mia, ho pensato di portartela
qui: ‘Chissà che Ambrogio una mezza strada per avere qualche notizia non la
trovi’, ho pensato.»
Ambrogio strinse con pietà la mano della donna: «Non scrive più a casa dai
giorni di Natale, è vero?»
«Sì» rispose la poveretta, guardandolo con occhi improvvisamente timoro-
si.
“Anche questa come la mamm Lusìa” pensò il giovane: “vorrebbe più d’ogni
cosa al mondo avere notizie, e nello stesso tempo le teme.” «In che reggimento
era il vostro ragazzo?» le chiese, sempre in dialetto.
«Si chiama Rigamonti Davide, è questo.» La donna gli porse la fotografia
che teneva nella sinistra.
Raffigurava, a mezzo busto, un giovanotto paesano vestito da soldato.
«Ah, me lo ricordo» disse Ambrogio: «sì, lo conosco di vista. Della Lodosa
infatti.» Si volse a Pierello: «Ha qualche anno più di noi, vero? Dunque era in
Russia anche lui. Lo sai in quale divisione, in che reggimento?»
Pierello tentennò la testa: «Neanche se m’ammazzi (a damm la mort) po-
trei risponderti» disse. «So appena ch’è di fanteria. Voi però mamm Savina i
dati ce li dovreste avere.»
«È della classe del 18» disse la donna, andando con gli occhi dall’uno
all’altro.
«Del 18, sì. Ma di che reggimento?» le chiese di nuovo Ambrogio. «Ha scrit-
to l’ultima volta il 14 dicembre: una di quelle carte postali.»
«L’avete qui?»
«No» rispose la mamm Savina. «Con me doveva venire anche mio marito,
forse lui lo sa, ma poi all’ultimo momento... Non ha più spirito il mio uomo.»
A queste parole il portinaio, che aveva seguito ogni frase con grande atten-
zione, fece segno di no con la testa, a significare che secondo lui non era affat-
to questione di pochezza d’animo del marito; poi si scostò dagli altri e tornò
alla portineria.
Ambrogio diede un’occhiata al retro della fotografia: «Ah, guarda» disse,
«l’indirizzo è qui.» Lesse: «Rigamonti Davide, classe 1918, 37° fanteria, 2°
a
battaglione, 2 compagnia, Posta Militare 53. Era... voglio dire, è della divi-
sione Ravenna.»
«Rav...» mormorò la donna. «Ma allora lei sa qualche cosa! L’ha forse vi-
sto? L’ha incontrato?»
Ambrogio fece segno di no con la testa. «Mi spiace» rispose sempre in dia-
letto: «non l’ho visto né incontrato; in Russia non ho visto nessuno di questa
divisione. Non stavano vicino a noi. Purtroppo non posso darvi nessuna noti-
zia.»
«Oh» mormorò la donna «oh, povera me! Oh, povera Savina!» Le lacrime
cominciarono a sgorgarle dagli occhi; però non si lasciava andare, tentava
d’inghiottirle.
«Venite» disse Ambrogio ai due visitatori: «Non stiamo qui in piedi. En-
triamo in casa.»
«No, no, è inutile» rispose la donna. «Ho già disturbato anche troppo. Se lei
non sa niente del mio Dino, è inutile.»
«Venite in casa mamm Savina» insisté Ambrogio, prendendola anche per
un braccio: «Vediamo se si può trovare una strada per arrivare ad avere qual-
che notizia. Su, venite.»
«Oh, sapesse, caro il mio signore» si lamentò la povera madre mentre cede-
va alla sua amorevole insistenza «in quanti posti siamo già state io e sua sorel-
la. A Milano, alla stazione Centrale quando in marzo arrivavano quei treni...
Con la fotografia, a tenerla alta così per farla vedere ai soldati: ma niente, è
stato sempre per niente. Quante donne c’erano con le fotografie, se lei avesse
visto! Oh, poverette, poverette! Mia figlia è andata anche all’ospedale di Bag-
gio, e in altri posti, ma sempre...» Tentennò la testa: «Tanto che adesso non
vuole più andare da nessuna parte: ‘Basta, dice, basta. Mamma, non serve a
niente, non vedete? Non sa mai niente nessuno.’ S’è persa di spirito, capite? E
pensare che ne aveva tanto al principio, a quel tempo faceva coraggio anche a
me.»
Ambrogio fece entrare i due nello studio e li fece accomodare; poi sedette a
sua volta con un notes e una matita in mano. Ma l’unico piano che aveva preso
forma nella sua mente: di cercare il deposito del Trentasettesimo fanteria per
svolgervi indagini tra i superstiti del fronte, si mostrò immediatamente supe-
rato: la sorella del disperso infatti a quel deposito in Alessandria c’era già stata
due volte.
«Ma ha parlato di persona con i compagni di suo figlio? Voglio dire con
quelli della sua compagnia, che erano con lui nella ritirata?» «Sì, è stato il
cappellano a farli chiamare. Sì, mia figlia ci ha parlato, ma nessuno ha saputo
dirle niente di preciso, nessuno. A meno che... A meno che tutti, e specialmen-
te mia figlia, mi nascondano la verità.»
«Ma no, mamm Savina. Cosa dite? Perché dovrebbero farlo?» obiettò Pie-
ro.
«Ecco: perché dovrebbero farlo? Io a stare così nell’incertezza divento mat-
ta, matta divento, e lei, mia figlia, lo vede. Qualunque cosa - tenga bene a
mente - qualunque cosa per una mamma sarebbe meglio di questa incertezza.
Come posso avere un momento di pace con questa raspa nel cuore? Non smet-
to di domandarmi se è vivo o se è morto. E a momenti mi persuado che è vivo,
e a momenti che è morto. Per me è una... è come... Voglio dire... Io non so
spiegarmi.»
Ambrogio la guardava con un nodo alla gola; anche Pierello taceva, tenten-
nando la testa.
«Qualunque cosa sarebbe meglio di questa incertezza: anche sapere che lui,
il mio Dino, è... è... No. No, questo no. Non devo dirlo, non devo neanche pen-
sarlo, altrimenti il Signore mi castiga e me lo fa perdere davvero.»
Guardò i due impaurita di ciò che, per liberarsi dal tormento, aveva osato
pensare.
«Di cosa volete che vi castighi il Signore?» disse Ambrogio. «Castigare voi?
Ma voi siete in croce tal quale come lui, non capite? Proprio come lui: senza
colpa, allo stesso modo.»
«Sì, è così, oh, è proprio così... Come ha detto giusto! Io sono in croce, in
croce.»
Entrò Francesca con una bottiglia e dei bicchierini su un vassoio. Al vedere
la donna in quello stato si turbò, ma lì per lì non seppe intervenire; posò il
vassoio sulla scrivania, e mentre versava il liquore nei bicchierini, ogni tanto
la guardava.
«No, perché?» le si rivolse la donna tra i singhiozzi: «Non si disturbi signo-
rina. E poi liquori io non ne prendo mai, non ci sono abituata. Oh che vergo-
gna, oh quanti fastidi che do.»
Pierello, dolente, seguiva ogni sua parola negando con la testa. «Non parli
di fastidi» le disse con dolcezza Francesca, «non deve dire così.»
«Sentite mamm Savina: supponete che fossi rimasto... via io» esemplificò
Ambrogio: «e oggi mia madre fosse venuta a casa vostra a chiedere notizie; voi
questo l’avreste chiamato un fastidio, un disturbo? No di sicuro. Ci sono mo-
menti che queste cose non si pensano nemmeno. Non è così?»
La donna annuì dolorosamente.
«Ecco, dunque basta, non lo pensate nemmeno di disturbare.»
«Ma il liquore non posso... Non ci sono abituata.»
«Va bene» disse allora Ambrogio «un caffè dunque. Sì, è meglio. Ma vi av-
verto» e cercava sorridendo d’allentare un po’ la tensione «che è solo surroga-
to: noi lo abbiamo appena bevuto.»
«No» spiegò allora Francesca, che stava porgendo il bicchierino a Pierello:
«Tu non lo sai, ma un po’ di caffè vero c’è ancora. Poco, ma c’è. Adesso ve lo
preparo.»
«Ecco, brava» approvò Ambrogio.
Al vedersi oggetto di tante gentilezze, la povera madre passò attraverso una
nuova crisi di pianto.
Ambrogio - che aveva levato un istante il proprio bicchierino accennando a
un brindisi con Pierello - lasciò che Savina si calmasse un po’, quindi le ripeté,
sforzandosi d’essere convincente, gli argomenti di speranza che insieme con
Luca aveva elencati a Lucia poche ore prima: i dispersi erano forse centomila
(«Vi ripeto: centomila uomini...») e non potevano essersi tutti volatilizzati.
Molti dovevano essere ‘per forza’ prigionieri, e a guerra finita i prigionieri tor-
nano a casa. Ma perché - chiedeva la donna - se era così, non scrivevano? E la
solita, ripetuta domanda: perché quelli fatti prigionieri in Africa scrivevano, e
perfino dall’America arrivavano notizie, mentre dalla Russia non scriveva nes-
suno?
Ambrogio buttò là qualche frase sulla trascuratezza che c’è nell’ambiente
sovietico in ordine alla sorte dei singoli, senza però insistere troppo, per non
spaventarla ancora di più.
Tornò Francesca con due tazzine di caffè buono, profumato. Ne offrì una al-
la donna e l’altra prese a sorbirla lei, con quieta grazia; intanto la intratteneva
con parole distensive. Dopo di che, insieme col fratello, la accompagnò fino
alla strada.
Pierello rimase con Ambrogio ancora un po’, ma ormai era troppo frastor-
nato, tanto che - contro l’aspettativa dell’amico - non allargò neppure una vol-
ta le braccia in segno di cedimento al destino. Se ne andò con un pretesto,
promettendo di tornare il giorno seguente «quando tutt’e due saremo più di
buona voglia».
Ambrogio si ritirò nella sua camera con animo affranto; s’era fatto promet-
tere dalla mamm Savina che all’indomani gli avrebbe inviato, tramite la figlia,
tutti i ragguagli disponibili, in base ai quali egli avrebbe poi studiato il da farsi.
Ma sapeva già che non gli sarebbe stato possibile approdare ad alcunché di
concreto. “È davvero incredibile però” pensava “che di tutti quei ragazzi non si
abbia una pur minima notizia. Cosa ne sarà in questo momento di quel pove-
raccio? E di Stefano? E di tutti gli altri? Del Michele Tintori? Cosa dirò io al
padre di Michele?... Non so che darei per sapere se in questo momento ci sono
dei prigionieri vivi in mano ai russi oppure no.”
PARTE SECONDA
‘Est locus extremis Scythiae glacialis in oris, triste
solum... Frigus iners illic habitant Pallorque Tremor-
que et jejuna Fames.’ (’C’è un luogo nelle remote lande
della Russia glaciale, triste posto... là abitano il Fred-
do inerte e il Pallore e il Tremore e la Fame struggibu-
della.’ - La sede della Fame, in Ovidio, Metamorfosi
VIII)

CAPITOLO PRIMO

Anche se spaventosamente pochi, in realtà di vivi ce n’erano; e - tra questi


uno era appunto il Michele Tintori. Perché nell’inverno 1942-43 i russi non
avevano uccisi tutti gli italiani finiti nelle loro mani. In quel periodo essi usa-
vano uccidere sistematicamente soltanto i tedeschi, facendone accurata ricer-
ca anche tra i grigi branchi dei prigionieri italiani. Se ne individuavano qual-
cuno («niemiez! niemiez!») lo spingevano a calci e pugni fuori del gruppo, e lo
abbattevano con una raffica di mitra o un colpo di pistola alla testa. Degli ita-
liani (come dei romeni e degli ungheresi) avevano di norma eliminato soltanto
i feriti incapaci di camminare, a volte sparandogli subito (del battaglione Val
Cismon della Julia ne avevano dopo la sua resa uccisi in tal modo quattrocen-
to in pochi minuti), in altri casi raggruppandoli dentro edifici in rovina oppure
all’aperto, e lasciandoveli - sotto scorta o no - senza dargli da mangiare né
prestargli assistenza: il che, con quelle temperature, aveva comportato la mor-
te di tutti o quasi quei feriti nel giro di pochi giorni.
Gli altri, i sani e i feriti in grado di camminare, li avevano avviati a piedi
verso zone di radunata al di là del Don. Erano state, queste, le terribili marce
del davai, dal grido «davai! davai! (avanti! avanti!)» con cui le guardie incal-
zavano di continuo gli uomini esausti, inebetiti dalla fame, dalla stanchezza e
dal freddo. Neanche a questi prigionieri era stato in genere distribuito da
mangiare, se non per iniziativa di qualche comandante di colonna più umano
degli altri; di norma le guardie avevano anzi proibito alle contadine dei villag-
gi via via attraversati - ancora cristiane e pietose - di distribuire ai prigionieri
del pane o qualche patata cotta, cosa che ogni tanto esse tentavano di fare. Chi
non resisteva e s’accasciava sulla pista privo di forze, veniva ucciso con un
colpo alla testa (più di raro il moribondo veniva abbandonato alla morte bian-
ca per assideramento) : e questi colpi, che rintronavano con frequenza in coda
alle colonne, aveano costituito per i prigionieri un pungolo ancora più acuto
del grido incessante «davai, davai».
Tali spaventose marce erano durate da pochi giorni ad alcune settimane, a
secondo della distanza che separava le zone di cattura da quelle di radunata
oltre il Don, e ad esse avevano spesso fatto seguito bivacchi di giorni e giorni
all’addiaccio - sempre o quasi senza distribuzione di viveri - in attesa dei treni
che avrebbero trasportato i prigionieri nei lager. Durante le marce del davai e
nelle attese all’addiaccio, secondo valutazioni fatte in seguito dai prigionieri
stessi, era morto intorno al quaranta per cento degli italiani autosufficienti.
Michele aveva avuta l’enorme fortuna di non partecipare a queste marce,
grazie all’enigmatico biglietto scritto dal tenente russo che l’aveva catturato ad
Arbusov, in cui egli veniva segnalato come probabile detentore d’informazioni
relative alla difesa tedesca di Millerovo. La polizia dell’esercito non aveva avu-
to molto tempo da dedicargli, anzi quasi niente tempo. Dopo alcuni inconclu-
denti interrogatori, se l’era semplicemente portato dietro nei propri sposta-
menti, e anche dopo che Millerovo era stata occupata dai russi, aveva seguita-
to a portarselo dietro per inerzia: dandogli abbastanza regolarmente da man-
giare e - fatto per lui d’importanza altrettanto primaria - tenendolo al chiuso
dentro le isbe occupate dalla stessa polizia, insieme coi russi, militari e civili,
arrestati. Così abbastanza in fretta il sottotenente aveva potuto riprendersi, e
perfino rifarsi un po’ le forze.
Nella seconda metà di febbraio - a circa due mesi dalla cattura - egli era sta-
to portato davanti a un commissario politico italiano - un ‘fuoruscito’ comuni-
sta - col quale si era subito reso conto di non poter confondere le carte. Del
resto non lo desiderava affatto: aveva visto coi propri occhi il terrore che la
polizia incuteva nei detenuti russi, e si sentiva molto inquieto circa la conclu-
sione della propria strana avventura. Oltre ciò aveva - con enorme sollievo -
sentito dire e ripetere dai detenuti russi che esistevano campi per prigionieri
di guerra: a tale riguardo nessuno sembrava nutrire dubbi. Era dunque là che
egli aspirava ad andare.
Perciò al commissario italiano aveva espressa la sua meraviglia per ‘tutta
quella storia di Millerovo’, che egli non riusciva a spiegarsi. «Negli interroga-
tori» riferì «i russi hanno seguitato a chiedermi se io sono stato a Millerovo: e
io ho sempre risposto di sì, perché effettivamente ci sono passato nel mese di
luglio, durante l’avanzata del mio reggimento verso il Don. Come poi si siano
messi in testa che io abbia delle informazioni sulle forze tedesche della città,
questo non riesco assolutamente a capirlo: a Millerovo io ci sono stato in tutto
un paio d’ore quest’estate, mentre l’attraversavamo, e basta.»
Il commissario - nero di capelli, d’accento emiliano - seduto a un tavolo con
accanto un poliziotto russo, calzava - nonostante il caldo che veniva da una
vicina stufa - guanti di lana; alla spalliera della sedia era appeso il suo giacco-
ne di cuoio nero. Da lui Michele aveva finalmente udite, dopo due mesi, le
prime parole italiane; l’istintivo sollievo che glien’era venuto però non era du-
rato a lungo, a causa del modo scostante con cui l’altro lo indagava.
«Che incarico ricoprivi al reggimento?» gli aveva chiesto.
«Comandavo un plotone.»
«Di che tipo? Faceva forse parte del comando di reggimento?» «No, un
normale plotone di fucilieri, in una delle compagnie. La seconda del primo
battaglione.»
«Qual è la tua professione da civile?»
«Sono matricola di giurisprudenza. Studente insomma.»
«In che città?»
«A Milano.»
«Professione del padre?»
«Scalpellino in pensione.»
«Dove studente a Milano? All’università statale o alla cattolica?»
«Alla cattolica.»
Il commissario s’era fermato e l’aveva guardato in faccia; aveva poi scam-
biata qualche parola in russo col poliziotto.
«Dunque sei studente?»
«Sì.»
«Di sentimenti fascisti? Di quelli che gridavano viva la guerra, eh?»
«No» aveva risposto con sincerità Michele. «Non sono mai stato di senti-
menti fascisti.»
«Ma cattolici sì.»
A tali parole il giovane aveva avvertito un impulso di paura; non era però, in
quest’ordine di cose, disposto a cedere: «Sì, sono di sentimenti cattolici» ave-
va risposto con voce dimessa ma ferma. «È la mia religione e ci credo.»
Contro ogni aspettativa il commissario s’era messo a ridere, sia pure nel suo
modo scostante: «Che ragionamento da bestia» aveva commentato.
Il prigioniero era rimasto in silenzio.
«Ti par d’essere coraggioso, eh?» aveva incalzato l’altro: «E invece no, disil-
luditi. Con questa dichiarazione tu non rischi niente: perché noi teniamo in
vita tutti, anche i preti, non solo i mezzi preti come te. Tu dimostri d’essere
soltanto...» e passando di colpo al dialetto emiliano: «ti ’tsi von ed chi (sei uno
di quei) disgrassiè ca va drè a coll farabut dal Pacelli, maledet lu e so medra
(lui e sua madre).»
Michele s’era conservato in silenzio, che altro poteva fare?
Il commissario non aveva tuttavia insistito negli insulti. Levatosi di tasca un
foglietto l’aveva stirato col taglio della mano guantata e consultato, quindi -
dopo aver scambiata qualche altra parola col poliziotto russo - era tornato al
discorso di Millerovo. Senza più inveire, gli aveva rivolto diverse domande -
con gli interrogatori ci sapeva obiettivamente fare - comportandosi in conclu-
sione, tutto considerato, in modo quasi modesto. È che sapeva e sentiva
d’essere il padrone assoluto della vita e della morte del prigioniero, cioè
dell’uomo, che gli stava davanti: una simile potenza lo placava, lo determinava
a essere, appunto, modesto. Tale atteggiamento dopo la sfuriata di poco prima
aveva un po’ alla volta finito col fuorviare Michele. “Guarda che verme” s’era
detto mentre seguitava a rispondere guardingo alle sue domande: “Deve aver
abbandonata l’Italia perché odiava il fascismo, e va bene. Una volta in Russia
però, dopo avere scoperto che il comunismo è senza confronto peggiore - non
foss’altro perché è infinitamente più sanguinario di quella mezza buffonata
che è il fascismo - invece di smammare coerentemente anche da qui, guardalo:
ha preferito ridursi a fare l’inquisitore dei suoi compatrioti per conto dei co-
munisti”. Non lo sfiorò l’idea che il commissario - nonostante gli aspetti san-
guinari del comunismo — potesse essere tuttora comunista convinto, e che
ritenesse perciò, come in realtà riteneva, di agire per motivi ideali. In seguito a
queste considerazioni nei modi di Michele s’era andata insinuando - lui incon-
scio - una sfumatura di sufficienza.
Che l’altro aveva subito afferrata. “Che schifo mi fanno queste merde bor-
ghesi, senza ideali e piene di prosopopea” aveva pensato. Si era guardato i
guanti che gli coprivano le mani: “Se sapesse, questo ‘bamba’, che a me i com-
pagni hanno strappato le unghie, e con le loro accuse ingiuste e le torture
m’avevano reso quasi pazzo. Eppure io sono ancora qui” (provò un senso
d’orgoglio) “io sono sempre qui a lottare per la realizzazione del comunismo, e
lotterò fino al mio ultimo respiro. Questo animale non potrà mai capire la for-
za che viene da un ideale umanitario fondato scientificamente come il no-
stro...” Così, assuefatto a procedere per schemi, non aveva a sua volta capita la
personalità del prigioniero, il che aveva senza dubbio giocato in favore di
quest’ultimo. Il commissario - e per conseguenza il poliziotto russo (un pro-
fessionista del terrore, poco interessato ai prigionieri di guerra, materiale
normalmente non di sua competenza) - avevano finito col convincersi che al
fronte c’era stata confusione. «Al fronte devono aver fatto il solito casino.
Questo sottotenente è un fesso qualsiasi, che di Millerovo non sa proprio nien-
te» aveva affermato il commissario. «Sentite, io mi trovo in questa zona per-
ché, come sapete, ho l’incarico d’ispezionare il lager di prigionieri di guerra di
Crinovaia.» Gli era a questo punto passato un freddo scintillio negli occhi: «Se
vi va bene, lo porto addirittura là.»
Con la stessa indifferenza con cui se l’era tirato dietro per due mesi, la poli-
zia russa s’era in quel modo liberata del prigioniero di guerra italiano Michele
Tintori.

CAPITOLO SECONDO
L’automobile fornita dalla polizia militare al commissario (una modernis-
sima vettura americana carrozzata a furgone) era giunta al lager in piena not-
te.
Su richiesta dello stesso commissario, il prigioniero era stato subito asse-
gnato a un reparto. «Non avete per caso una squadra comandata da un pre-
te?» aveva detto per scherno il commissario, dapprima in italiano e poi in rus-
so, al comandante, un colonnello: «Assegnatelo a quella, che gli farete un
grosso piacere.»
A quanto pareva una squadra comandata da un prete c’era davvero perché:
«Da, da (Sì, sì)» aveva risposto il comandante russo. Palesemente alticcio e
inquieto per l’inattesa visita di quell’inviato da Mosca, costui aveva dato con
poche parole a uno dei soldati del corpo di guardia le necessarie istruzioni.
Camminando di malavoglia la guardia precedette Michele attraverso un
largo piazzale buio, coperto di ghiaccio e neve calpestata e incredibilmente
sporca. Il prigioniero si guardava intorno addirittura con avidità: essendo sce-
so dal furgone davanti alla porta del comando, poco egli aveva finora potuto
vedere della sua destinazione; aveva l’impressione di trovarsi nel cortile d’una
grande scuderia, forse, chissà, dell’epoca zarista... Come che sia tra poco
avrebbe incontrato i suoi connazionali, la cosa lo emozionava: questione solo
di qualche minuto ormai. Per evitar d’inciampare, la guardia s’illuminava ogni
tanto il percorso davanti ai piedi con una torcia elettrica, il cui cono di luce
investì improvvisamente la testa di un cadavere nudo, dalla bocca spalancata.
A tale visione Michele sbarrò gli occhi, li richiuse, li riaprì: non si sbagliava.
«Acci...» esclamò inorridito: «Questo cos’è?» e s’arrestò.
La guardia, voltatasi a mezzo, gli disse qualche parola incomprensibile, e
perché non rimanesse lì fermo: «Davai, davai» lo sollecitò.
Il giovane riprese a camminare, e ogni tanto si voltava a guardare in dire-
zione del cadavere; il suo animo era entrato in gran subbuglio: in che razza di
posto era capitato? Cercò d’esplorare intorno con gli occhi, se per caso ci fos-
sero altri cadaveri, ma il buio, e la neve sempre più sordida e perciò priva di
riflessi, gl’impedivano di darsi una risposta. Attraversato che ebbero per inte-
ro il cortile verso una porta che aveva, anch’essa, l’aspetto d’una porta di scu-
deria, la guardia illuminò per lui, a poca distanza da quella, un mucchio di og-
getti strani e biancastri di forma irregolare,, che si rivelarono cadaveri nudi.
Disse anche qualcosa, muovendo avanti e indietro il cono di luce su quelle
forme sbilenche, che fino a qualche giorno prima erano state giovani corpi
umani.
“Signore Iddio!” non poté trattenersi dall’invocare mentalmente Michele,
fissando con sgomento quel groviglio terrificante.
Dietro il quale emersero di colpo due soldati italiani dall’inconfondibile
cappotto a pelliccia, che balzati su da terra - dove evidentemente stavano ac-
cucciati - fuggirono via con strepito sulla neve gelata. La guardia lanciò un ur-
lo, e indicandoli con la torcia disse al sottotenente prigioniero alcune concitate
parole; poi si calmò, scrollò le spalle: «Nicevò (non importa)» concluse. Rag-
giunta la porta l’aprì con un piede, e facendo luce all’interno della costruzione:
«Davai» ordinò al prigioniero.
Questi entrò. Non era assolutamente in grado di spiegarsi la strana appari-
zione e la fuga dei due soldati. Cosa diavolo potevano fare nascosti dietro i ca-
daveri? Ma non indugiò a chiederselo; chiamò invece a raccolta tutto il pro-
prio coraggio: “In fin dei conti” si disse “anche in questo posto il peggio che
può succedermi è di morire. Ho affrontata la morte tante volte, su, andiamo
avanti.”
All’interno la costruzione si rivelò definitivamente una scuderia militare,
vecchia e molto malandata; il soffitto era in più punti sconnesso e rotto, le fi-
nestre - tutte a forma di mezzaluna - erano prive di vetri, e sui muri luccicava-
no qua e là patine di ghiaccio. C’erano tuttora i box per i cavalli, e gremiti
all’interno dei box, ma anche disseminati nel corridoio, più che vedersi
s’indovinavano innumerevoli corpi umani; dai quali si levava un russare con-
fuso e pesante, mescolato a qualche voce spezzata e a gemiti; l’aria era am-
morbata da un urtante tanfo di sterco umano.
La guardia puntò la torcia su uno dei box più vicini, facendovi oscillare la
luce sopra: «Pop» disse, e ripete: «pop.»
Il sottotenente raggiunse il box, chiuso al pari degli altri da una cancellata
di legno: dentro, per terra, intravide uno strato di corpi stipati. «Qui?» chiese
alla guardia.
«Da, da (Sì, sì)» rispose quella, e scostato dal box il cono di luce, fece dietro
front e se ne andò.

***
Michele si ritrovò nel buio più completo. Rimase per qualche tempo immo-
bile, poi tastò adagio con le mani la cancellata di legno e coi piedi il pavimento
davanti ad essa, quindi, vincendo il ribrezzo (quei cadaveri fuori gli facevano
ora supporre d’essere capitato in un ambiente infettato da qualche epidemia)
piegò con lentezza le ginocchia e sedette per terra, appoggiando la schiena alla
cancellata.
Allora il corpo che giaceva immediatamente al di là delle sbarre
«Chi sei?» si sentì chiedere a bassa voce.
«Sottotenente Tintori, dell’Ottantunesimo Torino. E tu?»
«Don Turla, cappellano del battaglione Saluzzo.»
«Sei tu il pop capo squadra?»
«Sì, il naciàlnich. Sono io. Perché?»
«Mi hanno assegnato alla tua squadra.» Pausa. «Battaglione Saluzzo hai
detto? Ci sono altri alpini qui dentro?»
«Hai voglia, un mucchio.»
«Da come parli mi sembri bergamasco o bresciano.»
«Sono bergamasco.»
«Io della provincia di Milano.»
«Come hai detto che ti chiami?»
«Tintori. Michele Tintori. C’è qualcuno dell’Ottantunesimo fanteria Torino
qui dentro?»
«Credo di no. Forse, chissà, ce ne saranno nelle scuderie dei soldati. Qui in
questa siamo tutti ufficiali.»
“Acc...” si disse mentalmente il Tintori: “Tutti ufficiali! Quanti ne devono
aver presi! Forse anche gli alpini sono rimasti accerchiati come noi?” Stava
per domandarlo, ma: «Tu non sei di questo lager» gli disse l’altro: «Da dove
arrivi?»
«Mi hanno portato qui adesso.»
«T’hanno appena preso?»
«No, mi hanno preso ad Arbusov, poco prima di Natale. Hai sentito parlare
di Arbusov?»
«No.»
«Un gran brutto posto.»
«Quanto a brutti posti, in guerra non c’è che da scegliere» affermò con
buon senso bergamasco don Turla. Poi: «Prima di Natale, hai detto?»
«Sì. I russi che m’hanno preso s’erano messi in testa che avessi chissà quali
informazioni militari. Una storia complicata, te la racconterò. Soltanto oggi la
polizia mi ha lasciato andare, cioè mi ha portato qui.»
«Da prima di Natale? Sei stato due mesi con la polizia?»
«Sì. Ma... Cosa vuoi dire? In mano alla polizia come prigioniero. Cosa stai
pensando?»
Il cappellano, dall’altra parte delle sbarre, pareva perplesso.
«Cosa stai pensando?» ripeté il sottotenente. «Beh, senti, adesso pensa
quello che vuoi. Poi mi conoscerai e ti ricrederai.» Fece una pausa: «Come si
chiama questo campo?»
«Crinovaia, è il lager di Crinovaia.»
«Dimmi una cosa: ho visto un... una specie di mucchio di morti poco fuori
della porta. Cosa significa? Che c’è un’epidemia? Forse di tifo petecchiale?»
«Nessuna epidemia» disse don Turla. «Siamo immersi nei pidocchi fino al
collo, ma niente epidemie per adesso. Grazie a Dio.»
«E quel mucchio di morti?»
«Sono morti di fame. In cortile non ce n’è un mucchio solo, ma molti muc-
chi, domani li vedrai. Davvero non sai niente? Qui stiamo morendo tutti di
fame: questa è la situazione.»
Stavolta fu Michele ad ammutolire. Si sentì invadere da un turbamento tale
da aver difficoltà a respirare: una morte orrenda quella di fame nel chiuso
d’una prigione; gli ci vollero alcuni interminabili secondi per riprendersi.
«Una fine allegra» disse appena poté, con voce dura e che avrebbe voluto es-
sere spavalda.
Gli venne a un tratto in mente il conte Ugolino: ricordò il raccapriccio - un
raccapriccio straordinario, durato molto a lungo - che da ragazzo aveva prova-
to nel leggere la prima volta quella tragedia di tanti secoli fa; a tale ricordo Io
sgomento fu per sopraffarlo una seconda volta. Per la seconda volta faticosa-
mente si dominò.
«Allora è per questo che qui non ci sono prigionieri della Torino, cioè pri-
gionieri fatti prima di Natale? Vuol dire che quelli sono ormai morti tutti?»
chiese.
«Vedo che sei davvero poco informato» disse il cappellano. «Questo è un
lager di smistamento nei pressi del vecchio fronte, anche se da qui finora non
hanno mai smistato nessuno o quasi. Chissà però quanti altri lager di smi-
stamento e di prigionia ci saranno.»
Il sottotenente non parlava più.
«Noi abbiamo sempre la speranza» gli disse il cappellano «che queste be-
stie incoscienti si decidano a darci da mangiare. Se Dio vorrà. Ce l’hanno pro-
messo tante volte.»
«Ah, ve l’hanno promesso...!» A tale notizia Michele provò dentro di sé un
impulso di gioia irragionevole, quasi d’esultanza: «Dunque non è che fanno
morire i prigionieri per sistema, per programma.»
«Questo io non saprei dirlo» rispose il cappellano. «Non hai idea di quante
supposizioni abbiamo fatto noialtri. Ma ne parleremo.
Hai detto che ti hanno assegnato alla mia squadra?»
«Sì.»
«Allora sarà bene che entri nel box.»
«Con questo buio? E poi c’è posto lì dentro?»
«Due settimane fa, appena arrivati, qui dentro eravamo ammucchiati in
ventisette. Adesso siamo in quindici, anzi quattordici: dunque il posto si tro-
va.»
«Ma... Forse io non ho visto bene: m’è sembrato lo spazio per un cavallo.»
«Infatti: saranno un quattro metri per quattro.»
«In ventisette?»
«Sì. Adesso accendiamo, così ci vedi, e ti facciamo posto.» Il cappellano si
levò a sedere.
«Aspetta» disse il sottotenente: «non stanotte. Ci verrò domani lì dentro.»
E aggiunse con malumore: «Quando vi sarete resi conto che non sono una
spia.»
«Che non sei una spia l’ho capito» mormorò il cappellano. «Senti: se t’ho
offeso ti chiedo scusa. Qui si diffida di tutto e di tutti, ti rendi conto? Poverac-
cio però: chissà cosa stai provando a essere capitato in questa bolgia. E io...»
«Non parliamone più» disse Michele.
«Nel nome di Cristo e davanti a lui ti chiedo scusa.»
«Ti ringrazio» esclamò commosso Michele: «Non hai idea del bene che mi
fa sentire il nome di Cristo in un posto come questo.» Ci fu una pausa. «Ades-
so facciamo un po’ di luce» ripeté poi il cappellano. E chiamò a mezza voce:
«Ghiglione, ehi, Ghiglione. Mi senti?»
«No, aspetta» si oppose ancora il sottotenente: «lascia stare. Per stanotte
dormo qui fuori: l’unica differenza è che lì dentro avrete un po’ di paglia.»
«Non è l’unica differenza» disse don Turla: «c’è la dissenteria, e non tutti ce
la fanno a uscire all’aperto. Prima di domani mattina il corridoio dove sei tu
sarà tutto un cesso di sangue diarroico.»
«Ma... Ci sono già altri che dormono nel corridoio.»
«No» disse don Turla «ti sbagli, quelli non dormono. Senti, lascia fare a
me.» S’era intanto messo in ginocchio; protendendosi oltre il proprio vicino
scrollò più volte l’ufficiale che stava al di là di quello: «Ehi, Ghiglione.»
«Cosa vuoi?» bofonchiò il sottotenente alpino Ghiglione; che infine si levò
su un braccio: «Cosa succede?»
«C’è un nuovo arrivato. Fa lume per favore.»
«Uno nuovo? Va bene.»
L’ufficiale armeggiò alquanto; finalmente accese un cerino e l’accostò a uno
straccio che teneva in una mano, il quale cominciò a bruciare con una scialba
fiammella bluastra.
«Dai, entra» disse allora don Turla. Sempre levato sulle ginocchia esplorò
con gli occhi tra i corpi giacenti: «Lì» indicò al nuovo arrivato «mettiti lì, tra
Ghiglione e quell’altro. Forza voi due: cercate di liberare il posto dove stava
don Caneva.»
Ci fu un certo movimento tra i giacenti, più d’una testa si sollevò. In quella
luce da tomba Michele rivide, dopo più di due mesi, dei visi italiani: visi inca-
vati, coperti di pelo incolto, con gli occhi febbricitanti, però inconfondibilmen-
te italiani: simili a quelli che aveva avuto intorno durante le lunghe notti di
veglia in linea. Gliene venne un’assurda sensazione di ritorno a casa.
«Vieni dal fronte?» gli domandò Ghiglione.
«Sì» rispose Michele mentre prendeva posto tra lui e il suo vicino: «Però mi
hanno preso prima di Natale. Sono della divisione Torino.»
«Sai come vanno adesso le cose al fronte?»
«No.»
«Sai se la Tridentina ce l’ha fatta a uscire dalla sacca?» gli chiese il vicino
dall’altra parte: «Se almeno quella è riuscita a sfondare?»
«La Tridentina in una sacca? Non ne so niente. Da quanto tempo vi trovate
chiusi qui dentro voi?»
«Noi della Cuneense da due settimane. Ci hanno fatto marciare fin qui da
Valuichi, quasi senza darci da mangiare.»
«Hai sentito parlare di Valuichi?» chiese Ghiglione.
«No.»
«Si trova ad almeno duecentocinquanta chilometri dal Don. È là che era ar-
rivata la nostra colonna.»
«Dì, dove stavi prima tu» s’informò un altro «c’era qualcuno del Secondo
alpini?»
«Qualcuno» chiese una voce «della vai Varaita?»
«E di val Maira?» chiese un’altra voce. Parevano tutti parlare stranamente
al rallentatore.
«No.»
«Nessuno della Cuneense allora?»
«No. Qui siete tutti alpini, vero?»
«In questo box sì, la più parte della Cuneense.»
Un’altra voce domandò: «Nel vostro lager vi davano da mangiare?»
«Non ero in un lager. Mi hanno tenuto isolato fino a oggi. È per questo che
non so niente degli altri e del fronte. Domani vi spiegherò.»
«Ma ti hanno dato da mangiare?»
«Sì.»
«A sufficienza?»
«Beh, certi giorni sì.»
«Sentite questa!»
«Da non credere!»
«È... pazzesco!»
«Cosa? Ti hanno dato da mangiare? Beato te!»
Michele si era intanto sistemato sulla poca paglia incredibilmente trita e
lercia che copriva il fondo del box; la fiammella, consumato lo straccetto che
Ghiglione aveva tenuto fino all’ultimo sospeso in aria, s’era spenta, si era rifat-
to buio.
«Dì» egli chiese con voce più bassa a Ghiglione: «quel cappellano, don...
che occupava questo posto dove sto io adesso...» «Don Caneva, anche lui alpi-
no.»
«Di che male è morto?»
«Non è morto. Ieri si è trasferito nel box dove ci sono quelli del Morbegno,
presi con lui a Varvarovca. Siccome là s’era venuto a formare un po’ di spa-
zio.»
«Ah.»
«Sentite» intervenne don Turla, che a sua volta si era rimesso a giacere
«parlerete domani. Adesso lasciamolo dormire.»
Ma per l’intera notte Michele non poté dormire. Pressato tra i corpi dei suoi
due vicini parlottò dapprima con loro, poi anche con gli altri, tutti inebetiti
dalla fame. Apprese che per arrivare qui da Valuichi quei ragazzi avevano do-
vuto marciare per diciassette giorni: diciassette giorni pressoché senza man-
giare; di tremila, già sfibrati dalla stanchezza, che formavano la loro colonna
alla partenza, erano arrivati in poco più di cinquecento: tutti gli altri erano
morti lungo la strada. Cominciò a rendersi conto della sorte tremenda toccata
ai prigionieri su questo fronte, e ad afferrare la vitale importanza, per lui, del
singolare foglietto scritto dallo strano tenente russo di Arbusov con la faccia
da santo. Giunse l’alba ch’era ancora sveglio e terribilmente teso, nervoso.

CAPITOLO TERZO

Quando la mattina uscì all’aperto era ormai al corrente della situazione nel
lager, e il problema alimentare costituiva già per lui, come per tutti gli altri,
un’ossessione. Fino allora i russi avevano distribuito ogni due o tre giorni agli
ufficiali una razione di cento grammi di pane a testa; distribuivano inoltre
ogni giorno - ma secondo orari molto irregolari, a volte quand’era già sceso il
buio - un mestolo d’acqua bollente e salata, senza grassi, con bucce di patata e
pochi grani di miglio in sospensione. I soldati erano trattati decisamente peg-
gio degli ufficiali: nel corso di due settimane i russi avevano loro distribuito
due sole volte (in due settimane!) cinquanta grammi di pane a testa, oltre alla
broda: questa tuttavia, ai soldati, non tutti i giorni. In conseguenza del qual
trattamento i soldati (che, al pari degli ufficiali, non erano soltanto italiani, ma
anche ungheresi e romeni, giunti essi pure al lager esauriti dalle terribili mar-
ce) a quest’ora sarebbero tutti senza eccezione morti di fame, se non si fossero
risolti a mangiare carne umana. In genere - aveva spiegato un sottotenente a
Michele - veniva mangiato il fegato e il cuore dei morti, meno spesso il cervel-
lo o un pezzo di polpa. Così il giovane poteva ora spiegarsi l’episodio della sera
prima, quei due soldati fuggiti via dalla catasta dei cadaveri: si trattava di due
antropofagi venutisi a fornire di cibo tra i corpi degli ufficiali morti, suppo-
nendoli forse meno denutriti.
Di fronte a una tale situazione cos’avrebbe potuto fare lui, Michele? Strap-
parsi i capelli, mettersi a urlare, voltolarsi nella neve per l’orrore? A cosa sa-
rebbe servito? “Son capitato bene” egli si limitava a ripetere come un automa,
camminando con le mani in tasca avanti e indietro nel vasto cortile giallo
d’orina e disseminato d’escrementi umani e di cadaveri nudi, “ah, son capitato
proprio bene!”
Camminò a lungo struggendosi d’angoscia; finalmente si riprese alquanto e
decise di visitare anche il settore dei soldati per esplorare - finché era compos
sui - quanto più possibile di questa orrenda realtà. S’avviò, uscì a lenti passi
dal cortile della scuderia riservata agli ufficiali, ed entrò nella zona dei soldati,
i quali alloggiavano in altre grandi scuderie costruite in serie con la prima,
nonché in un gruppo di baracche sconquassate, un tempo esse pure adibite a
ricovero per i cavalli; tutt’intorno agli edifici del lager si stendeva un immenso
bosco candido di brina.
Nei cortili dei soldati i cadaveri erano più numerosi, se ne scorgevano cen-
tinaia, tutti senza indumenti indosso, isolati o ammucchiati qua e là tra i detri-
ti e le deiezioni. Le tracce del cannibalismo si facevano più evidenti: di quei
corpi scheletriti e lividi molti risultavano aperti, sventrati, sul ghiaccio intorno
ad essi c’erano brani di visceri; se ne vedeva anche qualcuno decapitato.
Michele non poté evitarsi d’immaginare i soldati che - in banchetti di due o
tre - si portavano via una testa per andarla a rompere in disparte con una pie-
tra onde estrarne il cervello. Chiuse gli occhi sotto l’urto dello sbigottimento e
del raccapriccio: immaginò la propria testa portata via a quel modo, la vedeva
anche sobbalzare sotto i colpi di pietra, finché si sfondava e ne colava il cervel-
lo. Gliene venne un impulso di vomito; lo prese inoltre una sconvolgente vo-
glia di tornare indietro, di fuggire a rintanarsi nel suo ricovero, tra creature
ancora umane. Ma anche là nelle baracche cui era diretto c’erano creature
umane: forse, chissà, vi stava rannicchiato qualcuno dei soldati con cui egli
aveva condivisa la vita al fronte. “Che bei tempi quelli, Dio mio, che bei tempi
erano!” Da loro intendeva fuggire? No, doveva andare avanti. Riuscì ad andare
avanti; intanto masticava adagio tra i denti, a mo’ di febbricitante, dei re-
quiem per quei miserrimi morti.
Nella zona delle baracche, retrostante quella delle scuderie, s’aggiravano
all’aperto pochi soldati: qualche ungherese dal lungo, malandato pastrano co-
lor pepe, romeni coi berrettoni di pelo di cavallo in testa, e italiani dal corto
cappotto a pelliccia.
Uno di questi - piccolo di statura, un po’ ingobbito, baffetti scuri e barba
ispida alle gote - veniva, tenendo le mani dietro la schiena, in direzione di Mi-
chele sullo stesso sentiero. Come gli fu di fronte si arrestò e lo guardò in fac-
cia; il sottotenente notò che aveva il naso un poco storto, il viso mite.
«Io credo che tra poco distribuiscono la sbobba, eh signor tenente?» disse il
piccolo soldato. Sembrava volere una conferma, per un istante la sua fisiono-
mia si fece quasi supplice. Sotto la bustina con lo stemma del genio i suoi ca-
pelli erano neri, ricci.
«Beh» gli rispose con pietà l’ufficiale «non possiamo esserne sicuri, però lo
credo anch’io.»
«Ecco» fece il soldato (balbettava lievemente) : «apposta io sono uscito con
questo.» Portò le mani davanti al petto: nella destra teneva un barattolo di
latta.
Ci fu una pausa, Michele gli sorrise con simpatia: «Allora? Qui la va grigia,
eh?» disse.
«Se la va grigia!» sospirò il soldato, mentre i suoi occhi s’arrossavano di
colpo.
«Di dove sei?» gli chiese, sempre mostrandosi affabile, l’ufficiale.
Quello si passò lentamente una mano sul viso, poi tentennando la testa no-
minò una località: «..., distretto di Pavia; a casa lavoro sotto un fittavolo.» E
dopo una breve pausa: «Genio zappatori sotto la naia, eh? E zappatore senza
genio a casa.» Doveva trattarsi di una battuta chissà quante volte ripetuta in
giorni diversi da questi. «E voi di dove siete?» volle sapere.
«Sono di Nova, distretto di Monza.»
«Allora siamo quasi paesani, lombardi là.»
«Sì» convenne l’ufficiale «quasi paesani.»
Ci fu un’altra pausa.
«Chissà cosa starà succedendo adesso a casa nostra, eh signor tenente?»
«Veramente è di quello che succede qui, non di quello che succede là, che
dobbiamo preoccuparci» gli rispose in dialetto Michele, indicando intorno
senza particolare intenzione.
Il soldato guardò nella direzione in cui, prima di ricadere, la mano
dell’ufficiale coperta dal guanto di tela s’era per un istante soffermata: ivi, a
pochi metri dai due, c’era - visione orribile - un cadavere nudo, col torace
aperto fino all’ombelico.
«Io l’ho fatto soltanto due volte» esclamò, pure in dialetto, il soldato: «Sulla
testa del mio bambino vi giuro che l’ho fatto soltanto due volte, quando pro-
prio ero come matto per la fame. Se non lo facevo» farfugliò, «a quest’ora ero
già morto.»
«Ma di cosa parli? Io non parlavo di... di quello» mormorò imbarazzato Mi-
chele.
«Se ci dessero almeno un poco da mangiare!» gemette il soldato. «Non si
può stare senza mangiare, non si può. Ma, signor tenente» adesso balbettava
molto più di prima: «io non l’ho mai fatto a un vivo, ossia quando sta per mo-
rire, come fanno certi, perché dopo è troppa fatica aprire col temperino la car-
ne gelata. Io mai a un vivo, e neanche a quelli appena morti. Il sangue fresco
non l’ho mai bevuto. Mai!» quasi gridava.
«Calmati» gli disse il sottotenente «cerca di calmarti. Io non parlavo di
questo, e non te ne faccio una colpa. Che diritto avrei? Su, coraggio.»
Ma il piccolo soldato, sempre col barattolo nella destra, s’era portato en-
trambe le mani alla fronte e, tutto ingobbito, seguitava a smaniare in preda a
un’incontenibile agitazione.

***
Michele non sapeva più cosa dire o fare per calmarlo; a trarlo d’imbarazzo
si levarono confuse grida che lo fecero voltare: stavano per entrare nel settore
delle baracche alcuni carri scortati da guardie armate; trasportavano dei bido-
ni metallici da cui s’alzava un denso vapore.
«Ehi, c’è la sbobba» avvertì il soldato: «su, fatti coraggio, arriva la sbobba.»
Quello rizzò la testa come elettrizzato.
«Vedi? L’avevi detto e hai proprio indovinato» disse Michele tornando
all’italiano: «arriva la zuppa.»
L’altro neppure l’udiva più. Fissò ripetutamente gli occhi arrossati sui carri,
poi sulle baracche da cui sarebbero a momenti usciti gli altri prigionieri; alzò il
suo barattolo verso il cielo, fece alcuni passi affrettati verso i carri, si fermò,
tornò indietro, si fermò ancora a guardare con folle bramosia i bidoni in arri-
vo, poi quasi di corsa si diresse verso la propria baracca da cui cominciavano a
uscire vociando altri soldati; si arrestò a una certa distanza dalla baracca, e si
girò verso i carri, col barattolo nuovamente levato in alto. Gli altri si precipita-
rono a far la fila dietro di lui, erano per lo più italiani, ma anche romeni e un-
gheresi, ugualmente lerci.
Altre disordinate file cominciavano a formarsi davanti ad altre baracche o
gruppi di baracche. Udendo il grido «la sbobba, la sbobba» i prigionieri che
giacevano inerti e intorpiditi sulla paglia e sui cenci affioravano dal letargo,
spalancavano gli occhi, e con gavette, barattoli, gavettini, coperchi di gavette,
abbandonavano i covi e si precipitavano fuori verso il cibo. Una piccola parte -
non degli ungheresi, ma dei romeni e soprattutto degli italiani - anziché risol-
versi a fare la fila correva verso i carri, dai quali li respingevano le guardie ar-
mate, puntandogli al petto le lunghe, taglienti baionette inastate sui fucili. In-
tanto dai ricoveri seguitavano a uscire prigionieri, qualcuno trascinandosi
carponi sul ghiaccio. Tuttavia ce n’erano d’incapaci di camminare che veniva-
no verso le file sorretti da qualche compagno il quale portava anche il loro ba-
rattolo: in qualche caso dunque - sia pure molto raro - l’antica solidarietà non
era sparita, al contrario si era fatta più eroica.
Michele - dopo essersi certificato, con egoistico disappunto, che nessun car-
ro si sarebbe diretto alla scuderia degli ufficiali - decise di cogliere l’occasione
per osservare dà vicino i soldati. Erano molto smagriti, taluni simili a spettri,
tutti avevano perduto decine di chili di peso; le gavette e i coperchi che essi
tenevano in mano erano in genere anneriti dal fuoco: ecco dunque dove veni-
vano cotti gli orrendi brodi (Michele ricordò d’aver visto anche nel ricovero
ufficiali parecchie gavette annerite). Le file s’andavano facendo più simili a
ingorghi che a file, specie dopo che i bidoni (si trattava di fusti per la benzina
tagliati a metà) furono tirati giù dai carri, uno di fronte a ogni fila. I cucinieri e
i prigionieri loro aiutanti urlavano che si facesse ordine, picchiavano i più in-
vadenti coi pesanti mestoli di ferro, glieli puntavano contro il petto e anche
contro la faccia per tenerli indietro.
Il sottotenente s’era fermato vicino alla fila del piccolo soldato di Pavia il
quale, sempre col barattolo brandito nella destra, i calcagni puntati nella neve,
si sforzava di tenere indietro con le spalle gli altri che lo premevano. Un grup-
petto di quelli ch’erano stati respinti dai carri tentò d’intrufolarsi a forza nella
sua fila poco dietro di lui: tutta la fila urlava, vociava, spingeva, finché accadde
una cosa tremenda: Michele vide distintamente il piccolo soldato piombare
sotto una spinta più forte nel bidone, a capofitto dentro la broda bollente; non
distinse le sue urla, confuse con quelle degli altri: vide le sue gambe agitarsi in
aria per qualche istante, poi afflosciarsi.
Si precipitò verso di lui: insieme con i più vicini lo strappò fuori, tirandolo
per le gambe e per il cappotto. Il soldato gli rimase tra le braccia, con la testa
reclinata: il suo barattolo giaceva per terra nella brodaglia traboccata e fuman-
te; brodo e vapore uscivano anche dalle sue vesti e dai capelli neri, slavati, non
più ricci. «Maledetti disgraziati!» urlò il sottotenente ai circostanti; «Maledet-
te bestie feroci!» urlò anche, come impazzito, ai cucinieri romeni. I quali ‘via,
via’ gli fecero segno con i mestoli: loro dovevano provvedere alla distribuzio-
ne. Del resto solo i primi della fila s’erano veramente accorti dell’accaduto ed
erano ammutoliti, gli altri seguitavano a premere e a gridare. L’ufficiale si
dominò: sostenendo il piccolo soldato dalla testa reclinata si tirò indietro
d’alcuni passi.
«Chi mi aiuta a portarlo nella baracca?» chiese con voce mutata: «Eh, chi
mi aiuta?»
«Io» gli rispose uno alle sue spalle.
Michele si voltò: si trattava d’un cappellano, con la barba e il cappello alpi-
no. Che aveva un aspetto affranto, doveva essere uscito allora allora dalla ba-
racca, insieme con gli ultimi.
«Credi di farcela?»
«Sì.»
«Forza allora» disse Michele, «sollevalo per i piedi.»
«Sì» sospirò l’altro.
Portarono di peso l’uomo svenuto - che non pesava molto, e dalle cui vesti
seguitavano a colare fili e gocce di brodaglia - dentro la baracca.
«Qui» disse con affanno il cappellano, indicando col mento un covile: «il
suo posto dev’essere questo. È uno di Pavia, vero?»
«Sì, della provincia di Pavia.»
Dopo ch’ebbero adagiato l’uomo tra gli stracci: «Te non t’ho mai visto» an-
simò il cappellano.
«Sono arrivato stanotte. Tu come ti chiami?»
«Padre Norberto Fiora, cappuccino.»
Era scheletrico e sciupato al pari di tutti; in viso aveva un innaturale colore
rosa, a motivo dello sforzo.
Michele disse il proprio nome poi, indicando il soldato svenuto: «Credi che
ce la farà?» chiese.
«No» gli rispose il cappellano chiudendo per un istante gli occhi. «No. È
troppo ustionato.»
«Te n’intendi di queste cose?»
L’altro fece segno di sì: «Ero nella sezione sanità della Julia.»
«Allora cosa possiamo fare?» chiese il sottotenente.
«Cosa possiamo fare?» ripeté il cappellano. «Io aspetterò che rinvenga per
assolverlo. Certo una volta sveglio griderà dal dolore finché avrà fiato. Ho vi-
sto gli ustionati dai lanciafiamme: ci vorrebbe qui della morfina, ma...»
Sedette sui cenci accanto all’uomo svenuto, si tolse il cappello alpino e se lo
pose sulle ginocchia, poi guardò il sottotenente: forse s’aspettava che anch’egli
sedesse in attesa.
Ma questi non se la sentì. «Non giudicarmi un vigliacco» disse. «Io ritorno
nel capannone ufficiali. Sono arrivato stanotte e...» tentennò la testa senza
aggiungere altro.
Il cappellano convenne: «Sì, certo, ti devi abituare. Poi, in forze come sei,
vedrai che potrai aiutare molti.»
«Io? Chissà. Beh, dai, benedicimi» disse il giovane. «Anzi, meglio, assolvi
anche me.» S’inginocchiò e si tolse la bustina.
Senza alzarsi dagli stracci il cappuccino levò la destra, e mormorando le pa-
role latine tracciò su di lui il segno della croce. Michele notò che aveva il collo
esile, i capelli corti e disposti a corona intorno alla testa, la barba rada e gli
occhi chiari, infantili; gli vennero in mente i cappuccini che curavano gli appe-
stati nel lazzaretto manzoniano.
«Dì, lo sai che sembri il ritratto di san Francesco?» osservò dopo essersi
rialzato. «Come hai detto che ti chiami?»
«Padre Fiora.»
«Ciao padre Fiora.» Calzata la bustina Michele lo salutò anche militarmen-
te; quindi si voltò e uscì dalla baracca.
Fuori, davanti alla marmitta, l’orrore continuava: c’erano perfino individui
che, proni a terra tra i piedi degli altri, succhiavano la broda versata, impasta-
ta col fango. Senza fermarsi il sottotenente s’indirizzò verso il proprio ricove-
ro.
Intravide lontano, nel cortile d’una delle scuderie, il commissario italiano
che l’aveva accompagnato in quell’orribile luogo. “Quello avrà appena fatta la
sua brava colazione...” Con la giacca di cuoio nero indosso il commissario
camminava severo, accompagnato da due ufficiali russi, ai quali indicava
qualcosa con la mano guantata. “Guardalo là il recuperatore della civiltà con-
tro il fascismo.” Chissà mai di cosa stava parlando con quegli altri due cam-
pioni.
CAPITOLO QUARTO

Una volta entrato nella sua scuderia allontanò definitivamente l’idea - che
covava dal mattino - d’esplorarne il lungo corridoio interno disseminato di
cadaveri e deiezioni, e s’infilò nel box della squadra, dove tutti gli altri per non
consumare energie erano rimasti a giacere sul tritume di paglia.
Riprese il suo posto tra i sottotenenti Ghiglione e Dal Toso, rispose ad alcu-
ne domande cercando di partecipare alla conversazione lenta e frammentaria
ch’era in corso; ma dopo un certo tempo non gli riuscì più di parlare: le cose
che aveva visto gli si rivoltavano dentro, urlavano in lui, al punto che non riu-
sciva quasi ad afferrare ciò che gli altri dicevano.
«Non ci sono nel lager ufficiali medici?» chiese a un tratto, angosciato dal
pensiero del piccolo soldato ustionato. (“Chissà se adesso avrà ripreso co-
scienza, se in questo momento starà gridando per il dolore? ‘Io lavoro sotto un
fittavolo: genio zappatori sotto la naia, e zappatore senza genio a casa... eh,
signor tenente?’ Oh, povero Cristo!”)
«Sicuro che ci sono ufficiali medici» gli rispose Ghiglione «e certuni si dan-
no da fare, per esempio qui, due box dopo il nostro, Giannetto di Messina. Ma
vedi anche tu qual è la situazione.»
«I medici hanno calcolato che se si va avanti così, noi della Cuneense ab-
biamo ancora, in media, quindici giorni di vita» disse Dal Toso: «Dicono che
alcuni, i meno denutriti, potranno forse arrivare a un mese.»
«Quanti sono i prigionieri in tutto il lager?»
«Nessuno lo sa: chi dice venti, chi trentamila, ma è una cosa incerta. Ne ar-
rivano ogni tanto di nuovi, adesso quasi solo ungheresi.»
«I morti sono sui cinquecento al giorno: questo lo sappiamo, perché fino a
tre giorni fa li portavamo ogni mattina con una slitta e coi carri fuori del cam-
po, e li buttavamo dentro una grande balca.»
«Senza seppellirli?»
«Si capisce. Come fai a muovere la terra ghiacciata? Buttarli nella balca era
già una grossa fatica; perché dovresti vederla quella balca: è piena rasa di
morti, chissà quante migliaia sono.»
«Adesso però non abbiamo più la forza materiale di fare il carico dei carri.
Il comando russo da principio ha insistito, poi ha lasciato perdere; tanto loro
se ne fregano.»
«Ma se non li portiamo fuori» fece notare inorridito Michele «questo lager
a un certo punto diventerà una gran fossa di morti e vivi mescolati insieme.
Sarà una cosa spaventosa.»
«Non lo è già?»
«Sentite» disse il sottotenente levandosi a sedere; non riusciva, per
l’eccitazione, a dominare i movimenti della bocca. «Perché, visto che non ab-
biamo scampo, non chiediamo d’essere fucilati tutti?»
«Chi ti dice che non l’abbiamo già chiesto? Se vuoi saperlo abbiamo, tutti
insieme, delegato il colonnello Scrimin, che è il comandante del Secondo alpi-
ni, mica l’ultimo venuto, a fare la richiesta. Il comandante russo - che è colon-
nello anche lui - lo ha ricevuto, e sai cosa gli ha risposto? Semplicemente che a
fucilarci non è autorizzato. Scrimin allora gli ha chiesto di lasciarci raccogliere
le patate che si trovano nei campi al di là della balca dei morti: là i contadini,
col disordine che c’è in Russia, o forse per la vicinanza del fronte, non so, non
hanno fatto il raccolto: è tutta roba che col disgelo andrà comunque in malora.
Vuoi sapere il comandante russo? S’è messo a ridere: ha detto a Scrimin che
questa sarebbe un’iniziativa individuale che in Russia non è concepibile, più o
meno così. Poi gli ha detto di non cacciarsela, che i viveri arriveranno.»
«Sì, i russi lo dicono sempre» sospirò uno. «Non perché siano dei sadici: lo-
ro ci lasciano morire più che altro per non dare agli altri russi l’impressione
d’essere favorevoli al nemico.»
«Non è solo questo: sono anche menefreghisti e infingardi per natura.»
«E poi c’è il fatto che la loro vita è talmente schifosa che non ne fanno alcun
conto. Figurati che conto possono fare della nostra.» Interruppe quei lugubri
discorsi il ritorno del naciàlnich o capo squadra don Turla, il quale era stato
chiamato in un altro box della scuderia per i conforti religiosi a un morente.
«Dai» disse aprendo la porta «è ora di portar via i morti e spazzare il corri-
doio.» Guardò Michele: «Tu ci sarai di vero aiuto, in forze come sei.» Poi si
rivolse ad altri tre: «Massobrio, Francescone, Torsegno, oggi tocca a voi, su.»
Gli interpellati si levarono prima a sedere o in ginocchio, poi in piedi: erano
in condizioni pietose.
«Forza» disse don Turla «prendiamo le cinghie.»
Andò egli stesso a staccare da un chiodo alcune cinghie da pantaloni (chissà
a chi erano appartenute...), ed uscì con i quattro dal box. Diedero inizio
all’ingrato lavoro: giravano le cinghie attorno alle caviglie dei cadaveri (i più
già spinti fuori dai box nel corridoio, qualcuno però rimasto nei box) e, due o
tre uomini per cadavere, li trascinavano lentamente sul pavimento cosparso di
feci, orina, e sangue diarroico, fino all’aperto. Visto il loro esempio qualche
altra squadra - non molte - e singoli individui uscirono da qualche altro box, e
si misero allo stesso modo al lavoro.

***
Nel pomeriggio si fecero sentire i benefici effetti della visita del commissa-
rio italiano: non già che venisse distribuito del cibo, questo no, vennero però
convocati i naciàlnichi e fu loro ordinato di costituire subito delle squadre anti
cannibalismo, alla cui testa, come coordinatore, veniva posto l’energico capi-
tano Fortunato Amico della divisione Cuneense.
Le squadre - fu spiegato - avrebbero dovuto svolgere la loro sorveglianza a
turno, armate di spranghe di ferro o di bastoni: «Perché solo le sprangate,
purché date senza misericordia, bloccano il cannibalismo» spiegò il commis-
sario; sembrava competente in materia. Don Turla, che l’ascoltava insieme
con gli altri naciàlnichi, rimase turbato: cosa poteva significare questo? Forse
anche negli altri lager si verificavano gli stessi orrori di qui? Cercò di tranquil-
lizzarsi pensando che no, non era possibile. Forse, chissà, il fuoruscito aveva
partecipato alla lotta per costringere i contadini alla collettivizzazione: tutti
sapevano che in quella circostanza - dieci anni prima - in molti villaggi ucraini
la fame aveva provocato casi d’antropofagia.
«I cannibali presi sul fatto» intervenne di suo il colonnello comandante
russo «dovranno essere consegnati alle guardie, che li fucileranno immedia-
tamente.» Tarchiato, ben pasciuto, parlava di fucilazione con disinvoltura:
non immaginava che presto, molto presto - secondo la prassi comunista di
quel tempo - d’essere fucilato sarebbe toccato a lui.
I capi squadra proposero e ottennero che venisse ripresa l’evacuazione dei
cadaveri dal campo ad opera dei prigionieri appena arrivati, non ancora to-
talmente stremati dalla fame. L’evacuazione riprese quel giorno stesso, sui
carri che servivano anche al trasporto dei bidoni con la zuppa.

CAPITOLO QUINTO

Nel secondo giorno dal suo arrivo Michele - molto abbattuto (dopo avere
prestato aiuto ai colleghi del box nel trascinar fuori i cadaveri, aveva provve-
duto quasi da solo alle pulizie, e infine accompagnato e sostenuto alcuni dei
più sfiniti mentre defecavano) - giaceva immobile al pari degli altri sulla pa-
glia, gli occhi chiusi. In quei due giorni aveva ricevuto solo cento grammi di
pane nero. Nessuno parlava; malgrado il freddo ancora tremendo, don Turla
s’era tolto il cappotto, e sfilatasi a metà la giubba si soffregava lentamente, con
un cencio di lana, un braccio che lo faceva soffrire per postumi di congelamen-
to.
Improvvisamente la porta della scuderia si spalancò e, simile a un forsenna-
to, irruppe nel corridoio un alpino: «Padre! Dov’è padre Turla?» vociferava.
«Eccomi» gli rispose il cappellano «sono qui.»
Il soldato corse al box e si afferrò alle sbarre, appariva emaciatissimo: «Ve-
nite padre» urlò: «venite subito. Vogliono mangiare mio cugino.»
Il cappellano lo guardò un istante in silenzio, poi si affrettò a reinfilarsi gli
abiti: «Vengo» disse.
«Ti accompagno» fece Michele al prete, alzandosi a sua volta.
Seguirono in gran fretta l’alpino. «È la vista del sangue che gli fa perdere la
testa, sono come impazziti» riferiva quello in dialetto bresciano: «È stata una
guardia a sparargli a mio cugino, maledetta»; raccontava a pezzi e bocconi:
«Mentre rientravamo dal trasporto dei morti lui ha visto della porcheria
sull’altro lato della strada: ‘Le patate’ ha detto ‘ci sono dei pezzi di patata...’
sono giorni che vede patate dappertutto; io non ho fatto in tempo a trattener-
lo, appena è uscito dalla fila la guardia gli ha sparato, la troia, gli ha quasi
stroncata una gamba. L’abbiamo riportato sopra il carro. Ma con tutto quel
sangue... Oh, padre!»
«Dove si trova adesso?»
«È al chiuso dentro la stalla. Lo difendono due paesani della vai Camoni-
ca.»
«E quanti sono quelli che lo vogliono... mangiare?»
«Quattro, sono in quattro.»
Entrarono nella più vicina scuderia, suddivisa non in box ma in stalle chiu-
se: nel corridoio una striscia di sangue fresco guidava a quella do vera il ferito.
Di fronte alla cui porta sgangherata quattro soldati si davano da fare con ac-
canimento: cercavano d’aprirla usando un legno appuntito come leva.
«Eccoli, li vedete?» sbraitò l’alpino.
Quelli non badarono ai nuovi arrivati; sembravano non vedere, non sentire,
non pensare che a una cosa: al sangue rosso e alla carne e ai visceri freschi
disponibili al di là della porta.
Correndo verso di loro il sottotenente gridò: «Ehi voi, cosa fate? Siete di-
ventati matti? Fermi, fermi.»
«Fermatevi» ripeté anche don Turla, accorrendo a sua volta.
I due che, dall’altra parte della porta, si davano da fare per impedirne
l’apertura, sembravano, alle voci, a loro volta mezzo invasati.
«Ragazzi, ascoltatemi» disse il prete rivolgendosi ai quattro con gravità: «Vi
rendete conto di quello che volete fare? Vorreste uccidere un uomo, un disgra-
ziato come voi, per bergli il sangue. È una cosa mostruosa, cercate di riflette-
re.»
«Se io ammazzassi uno di voi, eh?» gridò l’alpino: «e vi giuro che se voi...
io...» Il prete lo fermò con un gesto. «Calma» gli disse.
«Sì, calma» ripeté Michele.
L’alpino emaciato abbassò le mani che aveva alzato a mo’ d’artigli.
Sui quattro invasati ad ogni modo niente sembrava far presa. Continuavano
ad accanirsi quasi con metodo. «Dai» si dicevano l’un l’altro stronfiando:
«Dai, spingi di punta. - Qui, il legno qui. - Dai. Forza.»
Padre Turla, rannicchiatosi, si cacciò in mezzo a loro e gli emerse di fronte,
con la schiena contro la porta. Michele mise la destra sul bastone che quelli
manovravano, pronto a stringere: per lo meno non gli avrebbe permesso
d’usarlo come arma. «Cerchiamo di ragionare un po’» disse con voce fatico-
samente calma il cappellano.
I quattro a questo punto si ritrovarono impediti. Uno aveva la faccia quasi
contro quella del prete: sembrò stesse per azzannarlo in viso: «Aaah, cosa vuoi
tu?» barbugliò, fissandolo con occhi offuscati.
«Voglio parlare con te» gli rispose don Turla: «sono un cappellano e sono
venuto qui per parlare con te.»
«Un cappellano?» L’altro aprì e chiuse più volte gli occhi: «Un co... cooo-
sa?» Sembrava non afferrare, intanto oscillava percettibilmente, indebolito
com’era dalla fame.
«Sì, un cappellano» ripeté padre Turla. «Non volete parlare col cappellano,
ragazzi?»
Non gli risposero, però adesso lo fissavano tutt’e quattro coi loro occhi stra-
niti.
«La vostra casa in Italia» disse il prete. «Vostra madre. Non ci pensate?» Si
rivolse a quello che gli stava di faccia: «Tua madre. Dove sarà tua madre in
questo momento? Cosa starà facendo? Eh, dì? Tua madre. Tua madre.»
Quello, che seguitava a guardarlo col ceffo proteso, si ritrasse un poco, aprì
di nuovo e chiuse ripetutamente gli occhi; cominciò a respirare con affanno:
«Mia madre...» bofonchiò.
Anche negli altri pareva molto lentamente accendersi un barlume di rifles-
sione.
I due che al di là della porta la tenevano bloccata, ogni tanto la scuotevano
ancora, seguitando a parlare tra loro con furore, non capivano ciò che stava
succedendo di qua.
Il cappellano guardava or l’uno or l’altro dei quattro, chiedendosi se stesse-
ro tornando realmente all’uso della ragione: gli stavano ancora tutt’e quattro
davanti, ma non più aggressivi.
Riprese a parlare, rivolgendosi sempre direttamente ora all’uno ora
all’altro: gli parlava del suo paese, della casa lontana, di sua madre. Poi parlò
di Dio, dell’empietà - davanti a lui - di ciò che essi, travolti dall’orribile fame,
erano stati sul punto di fare. Si sentiva sfinito (egli pure dalla fame, nonché
dal dolore reumatico al braccio, e ora anche da questo sforzo emotivo); uno
dei quattro, forse meno incolto degli altri, finì col rendersene conto, gli prese a
un tratto la destra, s’inginocchiò, e gliela baciò.
Il cappellano si chinò ad abbracciarlo; gli altri tre fecero un passo o un mez-
zo passo indietro. «Alzati» disse il prete all’uomo inginocchiato «alzati»; e si
passò una mano sul viso rigato di lacrime.
A questo punto l’alpino batté con forza sulla porta, chiamando per nome
quelli che stavano dall’altra parte: «Aprite, è finita» diceva nel dialetto della
val Camonica: «non c’è più pericolo. Aprite che c’è qui il cappellano.» Gli ci
volle un certo tempo per fargliela capire.
Finalmente la porta si schiuse: preceduti dall’alpino, padre Turla e Michele
poterono entrare; gli altri quattro rimasero, intontiti e ancora mezzo straluna-
ti, sul limitare.
Nella stalla c’erano forse venti soldati: solo due in piedi presso la porta ed
agitati, tutti gli altri all’apparenza indifferenti. Esausti, sfiniti, giacevano sul
pavimento e dentro le mangiatoie nella gelida penombra; facevano pensare a
un branco di spettri che, accasciati e inerti, ruminassero una loro disumana
angoscia, non trasferibile in parole.
Il ferito - accanto al quale il cugino era subito accorso - risultava cosciente:
aveva dunque seguito, si può immaginare con che terrore, gli sforzi dei suoi
due compaesani per impedire l’entrata dei bevitori di sangue. Don Turla si
chinò su di lui e cercò di confortarlo ripetendogli che adesso non c’era più pe-
ricolo: quello gli chiese d’essere confessato; era debolissimo, non gli rimaneva,
chiaramente, che qualche ora di vita. Il cugino si scostò alquanto, il prete con-
fessò e assolse il morente.
Poi, rizzatosi, si girò verso gli altri, e con voce rattristata li rimproverò per la
loro precedente indifferenza. Gli spettri lo guardavano attoniti. Con termini
forse un po’ impropri - da quel prete montanaro che era - ma anche con
l’autorità altissima che gli veniva dall’essere portavoce di Dio, don Turla ri-
cordò loro il destino dell’uomo, la sua incomparabile dignità. Dopo di che li
invitò a recitare insieme con lui l’atto di pentimento: li avrebbe, disse, assolti
collettivamente, con l’assoluzione in articulo mortis che si dà sul campo di
battaglia. Qualcuno degli spettri si mise in ginocchio; a un invito di don Turla
anche i quattro disgraziati che stavano sulla porta entrarono e, urtandosi al-
quanto tra loro nel poco spazio, s’inginocchiarono per terra. Incerte voci ac-
compagnarono parola per parola la voce del cappellano nella recita dell’atto di
pentimento.

CAPITOLO SESTO

Alcuni giorni più tardi, vincendo con immensa fatica la propria ripugnanza,
Michele si decise a riprendere l’esplorazione del lager. Uscito dalla zona degli
ufficiali s’avviò a capo chino verso un settore nel quale, secondo gli era stato
comunicato dai colleghi del box, i russi non avevano mai, o quasi mai, effet-
tuate distribuzioni di viveri: «E là c’è gente arrivata anche dieci o quindici
giorni prima di noi». Se le cose stavano davvero così, si chiedeva il sottotenen-
te, come potevano quegli sventurati essere ancora in vita?
Entrò a caso in una delle scuderie di quel settore, esternamente uguale alle
altre: l’interno, semibuio, non era com’egli s’aspettava suddiviso in box o stal-
le, ma formava un unico lunghissimo stanzone. Nel quale, con sua sorpresa, i
prigionieri (da tre a cinquecento, secondo una valutazione molto incerta da lui
fatta in seguito) stavano tutti seduti per terra, in file quasi ordinate. Una pri-
ma fila sedeva contro una delle pareti maggiori; davanti a questa ne sedeva
una seconda con le schiene in qualche modo appoggiate alla prima; venivano
poi altre file, ciascuna appoggiata a quella che le stava a tergo.. Tra la distesa
dei soldati - tutti italiani - e la parete di fronte, rimaneva un passaggio, in cui il
sottotenente si addentrò, fendendo un odore di putrefazione addirittura de-
menziale.
Fin dai primi passi ebbe l’impressione che, nel relativo silenzio
dell’ambiente, tutti o quasi i soldati davanti ai quali egli passava, lo guardasse-
ro. Mentre procedeva, via via più incerto, cominciò a sua volta a esplorare con
gli occhi quelle file di visi stremati, se ce ne fosse qualcuno a lui noto; come
calamitati molti di quei ragazzi accompagnavano il suo passaggio col lento
movimento delle loro teste. Chissà cosa stavano farneticando! Non tutti però -
egli si accorse - lo guardavano realmente: infatti, sebbene avessero gli occhi
aperti, non pochi di loro erano morti; c’erano anche dei morti con gli occhi
chiusi, e più d’uno con la bocca spalancata. Quanti erano i morti? L’ufficiale
cercò di darsi una risposta: forse addirittura un terzo dei seduti sul pavimento
erano cadaveri. Quando se ne rese conto con chiarezza si arrestò: avrebbe vo-
luto parlare, ma la lingua gli s’era come paralizzata.
Da contro la parete libera si alzò allora a fatica in ginocchio e poi in piedi, e
venne a passi strascicati verso di lui, uno senza copricapo, con alle braccia
gradi da sergente: teneva gli occhi chiusi, li apriva solo impercettibilmente
ogni tanto. «Sta per arrivare il pane, eh?» disse quando fu davanti all’ufficiale.
«Il... Cosa?» balbettò Michele.
«Il pane. Lo stiamo aspettando, perché sappiamo che deve arrivare.»
Anziché rispondergli l’ufficiale lo squadrò per qualche istante: «Tu... chi
sei?» gli domandò, parlando a fatica.
«Sergente B., del Quinto alpini. Sono il capo camerata.»
«Come mai nella tua camerata... stanno tutti seduti in fila, a questo modo?»
«Per fare ordine. È stato il commissario italiano, ieri, a dirci che se la smet-
tiamo col cannibalismo e facciamo ordine, i russi ci daranno da mangiare. E io
li ho persuasi tutti, vedete? Abbiamo portato fuori i morti, e quelli...» fece con
le due mani il gesto di aprirsi il petto «li abbiamo fatti sparire».
«Fatti sparire?»
L’altro annuì, ammiccando con un povero ghigno, poi indicò con la testa
dagli occhi chiusi una sorta di fenditura nel soffitto, da cui penzolavano quat-
tro gambe stecchite.
«Avete nascosto là sopra quelli aperti?»
Il sergente fece segno di sì: «Così adesso loro devono darci da mangiare.»
«Il commissario italiano non è stato qui ieri, ma tre giorni fa» mormorò,
tuttora stranito, l’ufficiale.
«Cosa?» chiese l’altro, che non aveva capito.
L’ufficiale non ripete la frase, rendendosi a un tratto conto che avrebbe an-
che potuto precipitare quei disgraziati nella disperazione.
«Erano tutti vivi quando li hai fatti sedere a questo modo?»
Il sergente dagli occhi semichiusi fece segno di sì.
“Dunque in appena tre giorni ne è morta una terza parte” valutò il sottote-
nente. Si sentì invadere da un incontenibile terrore: “Qui non si salva più nes-
suno... Moriamo tutti” si disse: “Per forza. Tutti, tutti!” Non gli riusciva di
pensare ad altro. Fece un cenno che voleva essere di saluto al sergente e, senza
più tentare una parola, tornò indietro verso la porta; mentre camminava nel
fetore mozza-respiro ricominciarono a seguirlo i muti sguardi dei soldati se-
duti sul pavimento.
Una volta all’aperto l’ufficiale raggiunse con affanno la sua scuderia, e andò
ad accucciarsi in silenzio nel box tra gli altri della squadra.

***
Da quel giorno non uscì più in esplorazione, e si applicò invece con punti-
glio a risparmiarsi in ogni modo, a evitare di spendere energie, a durare. Pro-
vava a momenti vergogna per questa scelta e per la capacità d’egoismo incre-
dibilmente spietato che andava scoprendo in sé stesso: ma il terrore di ridursi
in uno stato subumano, e comunque di morire per fame com’erano ormai
morti alcuni di quelli con cui aveva parlato la notte dell’arrivo, era troppo più
forte del suo senso del dovere e della dignità.
Rimase a Crinovaia ancora pochi giorni, durante i quali ricevette, al pari
degli altri ufficiali, soltanto un etto) di pane nerastro. Che mangiò lentissima-
mente, evitando di pensare ai soldati nello stanzone, i quali certo erano ancora
là, i vivi e i morti, seduti tutti insieme ad aspettare il loro pane.

CAPITOLO SETTIMO

Il 4 marzo 1943 gli italiani sopravvissuti furono da Crinovaia avviati in fer-


rovia verso i lager dell’interno: i soldati con destinazione Siberia, gli ufficiali -
in numero di quattrocentotrentotto - con destinazione la zona del Volga.
Nel corso del viaggio durato otto giorni (otto giorni d’infamia - per superare
meno di mille chilometri) gli ufficiali ricevettero giornalmente una forma sot-
tile di pane a testa e anche qualche pesce secco, ma in genere mai - neppure
una volta in certi carri - acqua da bere.
«Eppure nelle stazioni l’acqua c’è» seguitavano a dirsi tra loro, e anche cia-
scuno a sé stesso: «Perché ci danno il pane, e anche il pesce, e non l’acqua?»
Era la solita storia: le guardie del treno (che non erano le stesse del lager) vo-
levano dimostrare alle molte spie nascoste tra loro di non essere tenere verso i
nemici del comunismo; questa era per ogni guardiano russo una necessità im-
prescindibile, e tanto più volontieri assecondata quanto più - come in questo
caso - l’assecondarla comportava un notevole risparmio di fatica; tra loro le
guardie si scambiavano a volte battute del tipo: «Mangiano il nostro pesce
secco, lo paghino almeno con un po’ di sete.»
La tortura della sete è ancora più tormentosa di quella della fame: i prigio-
nieri cominciarono a leccare la brina che si formava sulle pareti interne dei
carri, in particolare sui bulloni di ferro. Durante le interminabili soste grida-
vano e gridavano tutti insieme per ore, perché si consentisse loro di scendere a
raccogliere la neve, ma ogni volta senza risultato. Morivano sempre più nume-
rosi: al mattino, allorché per la distribuzione del pane e del pesce si aprivano i
carri, i cadaveri ammucchiati presso gli sportelli potevano essere spinti fuori;
a nessuno dei vivi però era concesso di scendere.
Rannicchiato in mezzo agli altri, Michele era sempre più pieno di orrore: gli
era sembrata inuguagliabile per atrocità l’esperienza dei pochi giorni di sacca,
poi c’era stata quella senza confronto più atroce di Crinovaia, e adesso c’era
quest’altra, della morte per sete, chiusi dentro i carri glaciali. Da quanti secoli,
egli si chiedeva, gli italiani non facevano più esperienze così barbare? Per ri-
trovarne di simili bisognava riportarsi molto indietro, chissà, forse al tempo
delle lotte coi turchi, e forse non sarebbe bastato... bisognava, in ogni caso,
riportarsi agli scontri con popoli non cristiani. Beh, lui non l’aveva forse cerca-
ta l’esperienza di questo ambiente scristianizzato? Non s’era forse adoperato
in tutti i modi per venir qui, senza curarsi, tra l’altro, della sofferenza. che ciò
avrebbe causato a suo padre? Ecco, adesso era qui, adesso la stava facendo
l’esperienza.
Ogni carro aveva, in un angolo, un lurido foro raggrumato di sterco che ser-
viva da cesso. Attraverso quel pertugio i prigionieri si sforzavano di calare dei
barattoli per raccogliere la neve sottostante, e in effetti, lordandosi ogni volta,
riuscivano a raccoglierne un po’: nel carro di Michele fu quella l’unica bevanda
di cui poterono disporre durante l’intero viaggio durato, come s’è detto, otto
giorni.
Il 12 marzo alla stazione d’arrivo i loro carcerieri li contarono: di quattro-
centotrentotto erano rimasti in vita centonovantacinque: dunque più della
metà erano morti.
Furono incolonnati e fatti proseguire a piedi - impresa non da poco per gen-
te così stremata - verso il lager 74 di Oranchi, distante otto chilometri dalla
stazione, nel quale si trovavano già alcune centinaia d’ufficiali italiani. Il lager
- notò Michele all’entrarvi - era un ex convento di monaci; al pari delle scude-
rie zariste di Crinovaia, anche questo convento prima che per i prigionieri di
guerra aveva funzionato come reclusorio per i deportati civili russi.

A fine aprile vi giunsero ultimi da Crinovaia il tenente medico De Ponti e


l’interprete di russo sergente Malerbi. I due riferirono che col disgelo dalla
balca in cui erano stati ammucchiati i cadaveri (ventisettemila all’incirca, se-
condo le valutazioni del comando russo) sera andato diffondendo un fetore
tale da ammorbare l’aria per chilometri e chilometri all’intorno, rendendola
irrespirabile anche ai civili del borgo di Crinovaia. Da principio i russi aveva-
no, mediante autocarri militari, trasportata inutilmente terra alla balca; in
seguito avevano sgombrato il lager-carnaio e chiusi i suoi ingressi con filo
spinato; su tutte le vie d’accesso, e su quelle che portavano alla buca dei venti-
settemila cadaveri, erano state messe delle sentinelle per impedire a chiunque
d’avvicinarsi.

CAPITOLO OTTAVO

Assai più tardi, dopo avere parlato con prigionieri passati attraverso le
esperienze più diverse, Michele ed altri furono - come s’è già detto - in grado
di valutare che, in media, le perdite subite dai connazionali durante le feroci
marce del davai seguite alla cattura, dovevano essere state all’incirca di quat-
tro uomini ogni dieci. Dei superstiti ancora intorno a quattro ogni dieci (pari
dunque al venticinque per cento circa dei catturati) dovevano essere poi morti
nei carri ferroviari che li trasportavano ai lager. Infine di quelli arrivati ai la-
ger di nuovo all’incirca quattro su dieci (il quindici per cento dei catturati)
erano morti entro il mese di aprile: non più soltanto di fame e di stenti, ma
anche per epidemie di tifo petecchiale scoppiate un po’ dovunque. A fine apri-
le 1943 rimaneva perciò in vita solo il venti per cento degli italiani catturati, e
anche le possibilità di sopravvivenza di questi si presentavano minime, perché
- seppure bloccate le epidemie (grazie soprattutto agli sforzi dei medici prigio-
nieri) - la mortalità si manteneva elevatissima, a causa dell’alimentazione
sempre inadeguata.(*)
[(*) A quella data - fine aprile 1943 - i prigionieri di guerra italiani chiusi nei lager so-
vietici erano intorno a diecimilacinquecento (come si poté ricostruire più tardi rappor-
tandosi al numero dei rimpatriati che fu di 10.030). Dal che - stando ai computi riportati
sopra - si può dedurre che gli italiani catturati dai russi (senza contare i feriti incapaci di
camminare, uccisi o lasciati morire sulla neve al momento della cattura) devono essere
stati complessivamente da cinquanta a sessantamila, e non oltre centomila, come gene-
ralmente si riteneva allora nei lager e in Italia, sulla base delle notizie trionfalistiche dif-
fuse da radio Mosca. Il numero di cinquantacinquemila catturati circa (di cui 10.030
rimpatriati e quarantacinquemila morti in prigionia) si accorda in effetti col dato rias-
suntivo pubblicato parecchi anni dopo dal ministero della difesa (74.800 morti comples-
sivamente in battaglia e in prigionia). (Nota dell’A.)

Così stavano le cose quando a fine aprile si verificò un fatto inatteso: una
ordinanza dell’N.K.V.D. - l’onnipotente polizia politica da cui dipendevano i
lager d’ogni tipo - aveva da un giorno all’altro prescritto che i prigionieri di
guerra venissero alimentati a sufficienza. La mortalità era diminuita di colpo;
gradatamente gli uomini, ormai tutti ridotti a larve, avevano cominciato a ri-
vivere.
Molto s’era congetturato nel lager di Oranchi intorno a questa miracolosa
ordinanza: lo Stalin pricàs (ordine di Stalin), come veniva chiamata. Secondo
alcuni essa era dovuta a una immaginaria minaccia di Hitler di far morire per
ritorsione di fame tutti i prigionieri russi, inglesi e americani in sue mani;
questa congettura veniva però facilmente smontata da chi osservava come a
Hitler non importasse niente dei propri soldati finiti prigionieri: egli addirit-
tura non ammetteva che ce ne fossero. Quanto a Stalin, allo stesso modo, non
gl’importava niente dei prigionieri russi: tutti ricordavano ancora che quelli da
noi impiegati durante la guerra nei lavori campali, avevano molta paura di
venire liberati dall’armata rossa perché - per il solo fatto d’essere caduti pri-
gionieri - si trovavano equiparati ai disertori. (In effetti dopo la guerra i pri-
gionieri russi rimpatriati - inclusi di norma quelli che avevano combattuto coi
partigiani contro i nazisti - vennero deportati dalla N.K.V.D.)
Altra dunque doveva essere la causa dello Stalin pricàs: quale? Solo pochi
tra i prigionieri la individuarono, con fondamento, nelle necessità della pro-
paganda comunista. Con la primavera del 43 - essi argomentavano - si pro-
spettava per i bolscevichi la possibilità di vincere la guerra; si rifaceva perciò
attuale il loro vecchio programma d’estendere il comunismo all’Europa intera.
E il mancato ritorno a casa di tutti senza eccezione i prigionieri di guerra,
avrebbe rappresentato un grosso ostacolo nell’ordine della propaganda.
La maggioranza dei sopravvissuti seguitava tuttavia a ritenere impossibile
che i russi - tanto arretrati in tutto - potessero vincere la guerra. Quanto a un
allargamento del comunismo essi, dopo averne sperimentata la barbarie, rifiu-
tavano addirittura di prenderlo in considerazione. Le discussioni durarono
mesi; servì a rinfocolarle la notizia - comunicata con discrezione da un com-
missario ungherese ai prigionieri suoi compatrioti - che il comandante russo
del lager di Crinovaia era stato ‘debitamente fucilato’ per le sue ‘negligenze’ in
ordine al cannibalismo.
A quelle discussioni partecipò anche Michele il quale, dopo essere passato
per il tifo petecchiale, ed essere giunto in punto di morte, stava ora lentamente
riprendendosi.
Poiché l’alimentazione, seppure scarsa, si manteneva entro il limite di sus-
sistenza, in maggio egli aveva al pari degli altri timidamente cominciato a spe-
rare di poter sopravvivere. Tanto più che nell’alimentazione rientrava adesso
un piccolo apporto proteico quotidiano - di valore inestimabile come spiega-
vano i medici prigionieri - costituito da soia inviata in Russia dagli americani
apposta per i prigionieri di guerra.
Questo particolare della soia riusciva a Michele straordinariamente confor-
tante. “Dunque gli americani pensano a noi!” egli si diceva a volte, con istupi-
dita commozione. Cercava di spiegarsi il perché. Perché mai degli stranieri,
oltretutto nemici, potevano interessarsi a resti d’uomini come lui e i suoi
compagni, se non per civiltà e spirito d’umanità? “Dunque gli americani, al-
meno loro, si sono conservati civili” argomentava. “La civiltà che il cristiane-
simo ha elaborato nel corso dei secoli, loro l’hanno conservata: non l’hanno
perduta come gli altri popoli oggi all’avanguardia della modernità, i tedeschi e
i russi. Che siano mille volte benedetti!” (Non meravigli il fatto che il giovane
interpretasse le sue attuali enormi esperienze sulla base dei ragionamenti di
un tempo: proprio in seguito a quanto aveva sperimentato del mondo nazista
e di quello comunista, la sua visione cristiana della storia si era infatti gagliar-
damente confermata in sé stessa, e gli appariva, rispetto a prima, ancora più
fondata e convincente.)

***
Con l’arrivo della bella stagione il sottotenente era passato attraverso altre
esperienze. Sugli infelici prigionieri infatti - non più incapaci di recepire per
l’inedia - s’erano messi al lavoro i commissari comunisti, adoperandosi con
molto impegno per plagiarli e cambiarne il modo di pensare. Agli occhi di Mi-
chele, che non aveva il minimo timore d’essere convertito, ciò costituiva
un’esperienza aberrante e interessante insieme: e proprio con l’intendimento
di servirsene - se mai fosse rimpatriato - per aiutare i propri connazionali a
difendersi dal comunismo, egli non ne rifuggiva. Ne rifuggivano invece in
stragrande maggioranza gli altri: i quali, costretti fisicamente a presenziare
alle cosiddette ‘lezioni d’antifascismo’, non vi prestavano mai, neppure per
sbaglio, orecchio o attenzione.
I prigionieri comunque non dovevano sottostare soltanto al martellamento
sistematico della propaganda: dovevano anche quotidianamente recarsi in
squadre al lavoro fuori del campo; scoprirono così - in un crescendo
d’emozioni - che nell’immensa plaga boscosa d’Oranchi non c’era soltanto il
loro lager 74 per prigionieri di guerra, ma di lager ce n’erano a decine, tutti
gremiti di deportati civili russi. Alla squadra di Michele capitò più volte di
passare accanto ad alcuni di tali lager, specie al più prossimo, riservato per
intero (così si affermava) a intellettuali, cioè professori, maestri di scuola,
giornalisti, artisti, scrittori, e operai specializzati. Nonostante il severo divieto,
i militari italiani riuscirono a scambiare qualche principio di conversazione
con essi: furono i primi incontri di Michele con l’universo concentrazionario
comunista, della cui estensione sterminata egli non riusciva ancora, a quel
tempo, a rendersi chiaramente conto. Al di là dello spontaneo senso di com-
passione per quei deportati cenciosi e famelici (le sofferenze davvero senza
limiti del popolo russo!) il giovane avvertiva, sia pure in confuso, che questa
realtà non poteva non essere correlata con l’ideologia comunista, quella stessa
che gli istruttori si adoperavano a ficcare nella testa dei prigionieri: anzi, che
ne doveva essere un prodotto. Il che l’aveva, poco alla volta, reso ancor più
bramoso d’afferrare il vero, il tremendo meccanismo di tale ideologia.
I mesi intanto passavano, ed egli era ancora vivo; la guerra continuava, ed
egli non era morto.
E come Ambrogio ogni tanto pensava a lui, così lui - specie al termine delle
sue lunghe giornate senza premio, disteso sul tavolaccio - pensava talvolta ad
Ambrogio. Chissà se ce l’aveva fatta a uscire da Arbusov e poi dalla sacca, feri-
to a quel modo? E adesso cosa faceva? Chissà cosa stava succedendo a Noma-
na, dove viveva quella strana, attraente creatura, Almina la inespressa? Da un
pezzo ormai di tutte le ragazze che Michele aveva incontrato nella vita (non
molte per la verità) quella che gli tornava in mente con più frequenza era ap-
punto Almina, la seconda sorella d’Ambrogio. Ne rivedeva con
l’immaginazione, che gli era tornata fervida, la figura acerba, il bel viso in ap-
parenza non partecipe, dai nitidi occhi e capelli castani, quel gestire che sem-
brava solo abbozzato (“anche l’ultima volta a Nomana, mentre correva nel gio-
co...”) Tra Almina e la realtà circostante sembrava ci fosse una sorta di stacco,
di cesura; come la chiamavano i suoi fratelli? Statuina di marmo. “Ecco, è
proprio così.” Che creatura interessante... “Almina però era così quando io
sono partito” si diceva a volte, rigirandosi sul duro tavolaccio, il giovane. “Ma
oggi?” Quand’egli l’aveva vista l’ultima volta, Alma aveva quindici anni: forse
adesso non era già più la stessa, era completamente cambiata.
Del resto chissà quante cose erano cambiate in Italia. Suo padre mutilato
chissà in che condizioni era? Suo padre! Crocifisso dal tempo dell’altra guerra,
con la spina dorsale spezzata... Michele pensava spesso a lui: avrebbe resistito
alla totale mancanza di notizie del figlio, come a dire dell’unico bene e interes-
se che gli era rimasto?
PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

In quel tempo a Piacenza Manno si ritrovava senza gran che da fare. La se-
ra, sforzandosi di non pensare sempre e soltanto a Colomba, passeggiava per
le vie in cui, prima di partire per la Libia, aveva rimuginato tante cose, era
passato per sensazioni allora nuove, si era posti molti interrogativi. Le vie non
avevano mutato aspetto, pressoché uguale era il movimento dei soldati in libe-
ra uscita: il giovane sapeva però che la situazione militare era adesso radical-
mente cambiata.
Perdute l’Africa orientale e la Libia, andata distrutta e non potuta sostituire
l’armata italiana in Russia, le zone d’occupazione nei Balcani infestate dalla
guerriglia («È tutta una porcheria» aveva significativamente detto Pierello),
sempre più numerosi e quasi incontrastati i bombardamenti aerei sulle stesse
città italiane... Gli occorreva riflettere: una tale realtà comportava grosse im-
plicazioni ch’egli avrebbe voluto prospettarsi e analizzare. Ma le vie di Piacen-
za - e specialmente il ‘Faxal’, la strada alberata che corre sull’antico bastione
meridionale della città, da lui tante volte percorsa coi soldati e i colleghi ora
prigionieri in Africa - finivano regolarmente con lo sviarlo, con l’indurlo a
tutt’altri pensieri. Si fermava sul marciapiede del ‘Faxal’ in vista d’un riquadro
d’erba spelacchiata su cui aveva tante volte fatta l’esercitazione di servizio al
pezzo coi suoi ‘vecchi’ (la caserma non era lontana, la si scorgeva dall’altra
parte del bastione). Qui, proprio sotto questo platano, aveva fatta una tre-
menda ‘cazziata’ al povero Sciulli, il caporalino abruzzese che poi ad Alamein
gli era morto accanto nell’osservatorio, con un braccio e l’intera spalla aspor-
tati da uno scheggione: attraverso l’orribile squarcio lui aveva per un certo
tempo visto il cuore e i polmoni di Sciulli funzionare ancora. A quel tremendo
cicchetto (provocato dalla recidività del caporale nel dare il ‘goniometro pron-
to’ prima d’averlo livellato) Manno non aveva in seguito pensato più, adesso
però gli tornava in mente: vedeva il viso contrito, certo di circostanza, del ca-
porale sull’attenti davanti a lui, e sé stesso alzare con rabbia il volume della
voce. Che faccia di palta era stato, anzi più propriamente di merda, a sgridare
a quel modo Sciulli che, essendo inferiore, non poteva ribattere! E sì che le
sfuriate non rientravano nel suo stile. Beh, il caporale non se l’era presa, aveva
dimenticato subito, e in seguito durante la guerra si era dimostrato sempre
disponibile, a quella sua maniera così simpatica, abruzzese appunto, cioè fede-
le e modesta: anzi proprio per la sua disponibilità lui l’aveva trattenuto nei
giorni dell’atroce buriana di Alamein all’osservatorio là nella pietraia. Signore
Iddio, che malinconia...
Gli tornavano in mente anche gli altri ‘vecchi’, i quali scherzavano sempre
prima di partire per l’Africa, per esempio mentre trascinavano a mano i can-
noni fino a questo prato (‘Artiglieria motorizzata - i motori non li vedi - e ti
tocca andare a piedi’: le solite tiritere; i motori erano poi arrivati.) Anche in
guerra scherzavano di continuo; chissà se scherzavano anche adesso ch’erano
dietro il filo spinato? Probabilmente sì. Se pure li avevano lasciati insieme...
Qui a Piacenza faceva spesso le spese dei loro motti l’artigliere Corneo, un tipo
d’intelligenza non inferiore alla media, solo un po’ più lento degli altri
nell’afferrare, e col corpo già curvo nonostante la giovane età e la bocca sem-
pre un po’ aperta, un contadino. A volte, per darsi anche lui le sue arie, Corneo
diceva qualche frase sporca. “Offendeva anche lui Domine Dio a credito” pen-
sò Manno con disapprovazione. “Adesso chissà come se la caverà in prigionia.
Non si troverà più degli altri le guardie del campo addosso? Chissà, se io fossi
rimasto con loro, e non li avessi piantati, forse oggi potrei...” No. Gli ufficiali
erano stati con certezza separati dai soldati, e lui non avrebbe potuto fare
niente. Proprio niente avrebbe potuto fare. Del resto laggiù erano rimasti gli
altri ufficiali, per più d’uno dei quali egli nutriva profonda stima. Rivedeva (in
modo assai impreciso, come si può con l’immaginazione) le fattezze e il gestire
immancabilmente pacato di uno, i modi prudenti, a volte una sfumatura ap-
prensivi di un altro, il quale in realtà era sì apprensivo, ma alla prova se la ca-
vava sempre molto bene; rivedeva anche lo stile scanzonato di Mussone, la cui
madre gli aveva telefonato a Nomana. Cari vecchi compagni d’armi! Ragazzi
tra i venti e i venticinque anni, maturati dalla responsabilità precoce e da
esperienze tremende, quali a volte un uomo non fa nel corso dell’intera vita.
Quella dura necessità di prendere - subito e sui due piedi - decisioni da cui
può dipendere la vita o la morte... E quell’obbligo di essere in ogni momento
d’esempio ai soldati (se no - Manno l’aveva sperimentato - addio disciplina,
come a dire addio alla vita per molti). Non fosse stato per il riaffacciarsi insi-
stente della testolina di Colomba, il giovane avrebbe faticato, stando a Piacen-
za dove ogni cosa glieli ricordava, a staccare la mente dai suoi vecchi compa-
gni d’armi.
Dopo una ventina di giorni dal suo arrivo però, ebbe inaspettatamente un
nuovo e più urgente motivo di riflessione: gli comunicarono d’averlo incluso
in uno scaglione di complementi con destinazione Grecia, doveva essere pron-
to a partire nel giro d’una settimana.
Tale assegnazione lo sorprese: vegetavano inutilizzati al deposito molti altri
ufficiali subalterni, forse una sessantina, di cui la più parte non era mai stata
in zona d’operazioni: perché dunque inviavano in Grecia lui ch’era appena
tornato dal fronte? L’aiutante maggiore, cui a mensa Manno si provò a chie-
derlo in modo scherzoso, gli rispose serio serio ch’egli dava affidamento ap-
punto per la sua esperienza: per lo stesso motivo, disse, era stato scelto anche
l’anziano tenente Pigliapoco, pure proveniente dalla Tunisia.
Costui - una sorta di mulo molto ligio al dovere, rimpatriato qualche mese
prima per ferite - diede a Manno una sua più esistenziale spiegazione: «Credi
a me» gli disse: «qui non bisogna pensare a raccomandazioni, o intrallazzi, o
roba del genere: qui ci troviamo, né più né meno, davanti al fatto che in guerra
sono sempre gli stessi, ma proprio sempre gli stessi, a ballare. Insomma è una
questione di destino e nient’altro.»
Dopo avere per alcuni giorni ponderata tra sé e sé la novità, passando per
differenti stati d’animo, Manno finì col dirsi che anche questa sarebbe stata
per lui un’utile esperienza, probabilmente un nuovo passo avanti nella sua
preparazione allo sconosciuto compito cui si sentiva predestinato dalla Prov-
videnza. S’affrettò a completare il proprio equipaggiamento, mentre il suo spi-
rito andava rapidamente rasserenandosi. Tanto che una sera a mensa Piglia-
poco brontolò: «Cosa ti prende? T’è passata la malinconia, non solo, ma stai
diventandomi addirittura allegro. Che motivo hai di essere allegro, si può sa-
pere?»
«Francescana letizia» propose un altro ufficiale, che aveva in simpatia
Manno per la totale mancanza di rispetto umano con cui ogni volta sedendo a
mensa si faceva il segno della croce.
«No, giovanile incoscienza, temo» mugugnò Pigliapoco.

La partenza dei complementi per la Grecia (dei quali, su richiesta di Manno,


non faceva parte l’attendente Battistessa) venne rimandata più volte; l’estate
andava avanti incerta e piena d’inerzie. A Piacenza, come a Nomana, come nel
resto d’Italia, gli animi di tutti, militari e civili, anche di quelli che sembravano
badare solo alle proprie faccende quotidiane, erano in sospeso. Cosa sarebbe
accaduto adesso?
Non bastavano a modificare quel senso d’attesa neppure i fatti che pure si
succedevano. Ad esempio la caduta di Pantelleria, data ormai per scontata da
tutti dopo la perdita della Tunisia. (A mensa i commensali più vicini a Manno
seguirono ridacchiando la sua descrizione del castello Barbacane e
dell’ufficiale della GAF che vi fungeva da guardiano, e fu tutto.) Neppure lo
sbarco degli angloamericani in Sicilia la notte sul 10 luglio - ch’era un fatto
rilevantissimo - spostò la gente da quel senso di attesa. I giornali avevano po-
chi giorni prima pubblicato un discorso di Mussolini (quello detto poi ‘del ba-
gnasciuga’) in cui tale sbarco era stato in qualche modo preannunciato: insie-
me se ne prediceva però anche l’insuccesso, e la gente stava semplicemente a
vedere. Altrettanto inerte che la gente sembrava tuttavia lo stesso Mussolini il
quale, comandante supremo, non aveva provveduto e non provvedeva a tra-
sferire in Sicilia le forze valide di cui tuttora disponeva.

CAPITOLO SECONDO

A Nomana Ambrogio discuteva a volte la situazione col padre e con lo zio


Ettore. «Che roba! Qui va a finire che la guerra risalirà un po’ alla volta tutta
quanta la penisola. Ogni nostra risorsa potrebbe andare distrutta, senza parla-
re delle perdite in vite umane... E noi stiamo a guardarci in faccia. Perché
Mussolini non organizza la difesa della Sicilia?»
«Perché evidentemente non ha più forze valide da contrapporre» propone-
va lo zio Ettore.
«No. Avete sentito don Carlo: le divisioni alpine, se non altro, sono state ri-
costituite tutt’e tre, e con quelle si potrebbe fare barriera contro chiunque. E
che barriera! Perché non le impiegano?» (Don Carlo Gnocchi - da poco nomi-
nato cappellano-capo della Tridentina - aveva in quei giorni fatto visita ai Ri-
va. Dalla sua voce pacata Ambrogio aveva avuto non più le solite notizie
frammentarie, ma una sintesi completa della ritirata degli alpini in Russia. Da
don Carlo i Riva avevano anche appreso che le divisioni alpine, ricostituite in
fretta con le nuove leve montanare, erano adesso nuovamente pronte
all’impiego nei loro acquartieramenti sulle Alpi.)
«Avrà qualche significato questo fatto, che tengono le divisioni migliori al
confine con la Germania?» chiese perplesso Gerardo. «Mi domando se per
caso durante l’incontro dell’altro giorno di Mussolini con Hitler a Feltre... In-
somma, che adesso l’intenzione di Mussolini sia d’arrivare a uno sganciamen-
to dalla Germania?»
«Potrebbe, al contrario, aver chiesto a Hitler maggiori aiuti per resistere in
Sicilia, armi soprattutto.»
«È strano che noi non produciamo armi a sufficienza per le nostre poche
divisioni, mentre la Germania ne produce perfino d’avanzo.»
«In tempo di pace il rapporto tra la produzione industriale italiana e quella
tedesca poteva essere - che so - di uno a tre, uno a quattro, al massimo di uno
a cinque: ma adesso sembra diventato di uno a cento.»

Nel corso di quelle un po’ irreali giornate Ambrogio si provò ripetutamente


ad applicarsi al lavoro nell’azienda paterna, ma con suo disappunto conclude-
va poco. “Non combino niente” constatava, “è come se non avessi più resisten-
za. Strano.” Nonché di lavorare, non gli riusciva di stare a lungo con la mente
concentrata su qualcosa, si sentiva subito spossato: “Aria, aria, movimento...”
gli suggeriva una voce interiore, finché egli si alzava e usciva sbuffando
dall’ufficio nel cortile della fabbrica: «A prendere una boccata d’aria» diceva.
Il padre l’osservava senza darlo a vedere: provava l’impressione che il gio-
vane non riuscisse a riprendersi, e che la sua salute andasse anzi peggiorando.
Un pomeriggio (si era ormai nell’ultima settimana di luglio e faceva molto cal-
do): «Perché non vai un po’ al mare?» gli propose. «È domani, no, che devi
fare la visita di controllo a Baggio, all’ospedale militare? Ecco, avevo appunto
in mente di dirtelo: appena passata la visita - dopodomani per esempio - po-
tresti partire per Cesenatico.»
All’idea che la sua fiacchezza fosse tanto evidente Ambrogio s’imporporò in
volto e fissò il padre; che finse di non accorgersi del suo sguardo: «Ne hai
messo insieme di freddo ’st’inverno» osservò vagamente Gerardo «mi pare
ragionevole che tu vada a prendere un po’ di sole.»
«I miei compagni» (intendeva Stefano, Michele e tutti gli altri: chissà se
erano ancora vivi...) «al mare non ci vanno» disse Ambrogio quasi aggressivo.
«Credi che ti biasimerebbero, che ti sgriderebbero, se tu ci andassi? Io pen-
so di no.»
«Infatti no» convenne Ambrogio «loro non mi sgriderebbero. Sono io che
mi sgriderei, che non intendo andarci.»
«Va bene, come ti pare» concluse il padre.
Quel pomeriggio Ambrogio s’impuntò sul lavoro, senza per questo arrivare
a far meglio dei giorni precedenti. La sera si staccò dal tavolo dell’ufficio molto
nervoso: aveva notato che l’anziana impiegata seduta al tavolo di fronte al suo
lo guardava ogni tanto con preoccupazione. Prima d’andar sene l’apostrofò
con un: «In alto i cuori, signorina Tilde» rivolto tanto a lei quanto a sé stesso.
Meno male che l’attendeva la cena nella sua casa, ancora più tranquilla da
che i fratelli e le sorelle erano tutti via, al mare (i maschi appunto a Cesenatico
col collegio).
Cenò in compagnia del padre e della madre nella sala che per l’assenza di
tanti pareva vuota; serviva la madre, anche Noemi trovandosi al mare con
Francesca, Alma e Giuditta, a riposarsi pure lei. Ogni tanto il pensiero di Giu-
lia andava appunto ai figli e alle figlie lontane: «Chissà cosa staranno dicendo
adesso, cosa staranno facendo...» ripeteva.
«Cosa vuoi che facciano?» osservò Gerardo: «A quest’ora staranno man-
giando, proprio come noi.»
«Sì, certo, questo me l’immagino.»
«La mamma pena a non avere tutti i suoi pulcini sotto l’ala» disse sorriden-
do Ambrogio. E rivolgendosi a lei: «I tre che sono col collegio adesso magari
staranno combinando qualcuno dei soliti scherzi scemi che fanno i ragazzi al
mare. Pino specialmente, figurati.»
«Oh. Il mio Pinetto!»
Si formavano a momenti dei ristagni di silenzio; allora dalle finestre non
entrava più come in primavera il canto dell’usignolo: giungeva invece, sensi-
bilmente accresciuto, lo stridio improvviso dei rondoni, i cui nuovi nati vola-
vano e torneavano nel cielo intruppati con gli adulti, ormai indistinguibili da
loro.
Su quelle ricorrenti strida finì col fermare l’attenzione Ambrogio, che a un
tratto chiese: «Che giorno è oggi? Non è il 25 luglio? Ehi, oggi è l’ultimo gior-
no dei rondoni.» Spiegò ai genitori: «Sentite quanti ce ne sono là fuori? Beh,
domani non dovrebbe essercene più neppure uno.»
«Cosa vorresti dire?» chiese il padre.
«Che i rondoni migrano ogni anno la notte del 25 luglio, con assoluta preci-
sione, come se avessero il calendario. Peccato non sia qui Manno, che di que-
ste cose s’intende più di me. L’ha trovata lui questa data in un libro
d’ornitologia: l’abbiamo controllata insieme due volte, beh, succede proprio
così. Domani lo vedrete anche voi.»
«E se per caso l’anno è bisestile? Come fanno i rondoni a saperlo?» scherzò
Gerardo.
«Papà, sei libero di non credermi, ma è come ti dico: abbiamo controllato
che, da Nomana almeno, partono effettivamente il 25 luglio, senza sbagliare.
Le altre specie d’uccelli non sono così metodiche, neanche se lo sognano; e poi
gli altri non partono mai tutti insieme come i rondoni; almeno, io non credo.
Comunque domani controlleremo.» Tacque alquanto; in quel momento la
schiera dei rondoni non stava passando sopra le finestre: nel silenzio si senti-
va solo la vecchia pendola che dal mobile copri-calorifero scandiva impertur-
babile il tempo; il quale seguitava a trascorrere non solo per i rondoni, ma per
tutti, anche per gli uomini e la loro storia.
«È il nostro Manno vero, che ti ha dette queste cose?» osservò la madre.
«Caro figlio! Pensare che dopo venti mesi di guerra in Africa, e tanti pericoli,
adesso deve partire per la Grecia.»
Di nuovo si fece silenzio, di nuovo si udì soltanto la pendola, che seguitava
tranquilla a scandire il tempo.
«Anche questo di cui hai parlato, la migrazione degli uccelli, è un segno che
l’estate sta per finire» tentò il padre, ch’era tenace nelle sue intraprese: «Non
ci restano che poche settimane di vero caldo.» Si girò verso la moglie (ma
Ambrogio capiva bene ch’era una manovra d’aggiramento avente lui per og-
getto): «Giulia perché non ti decidi una buona volta a raggiungere le tue figlie
al mare? Magari insieme con lui?» e indicò il giovane.
Che non seppe trattenersi dal ridere: «Papà, posso dirti che sei costante?»
«Certo sarebbe bene che Ambrogio andasse un po’ al mare» convenne Giu-
lia: «Gliel’ho detto e ripetuto anch’io. Quanto a me, lo sai che non posso: chi
accudirebbe a te? E la partenza imminente di Manno? E poi, se ricominciasse-
ro a bombardare Milano come nell’ottobre scorso, io, a essere lontana... In-
somma devo rimanere qui.»
«Per far cosa? Per provvedere alla difesa contraerea di Milano?» le chiese il
figlio.
«Oh, non scherzare» lo pregò Giulia.
Disse Gerardo: «È difficile, a questo punto, stabilire chi...» e batté con le
nocche della destra sul piano del tavolo, a significare: ha la testa più dura;
completò: «se la madre o il figlio.»
Ambrogio si sentì sulla punta della lingua la domanda: «Perché escludi il
padre?» Ma pensò che tutto considerato c’era piuttosto da ridere: eccoli qui
tutt’e tre a tentar di fare ciascuno ‘strategicamente’ il bene dell’altro.

CAPITOLO TERZO

Terminata la cena e bevuto il surrogato di caffè, padre e figlio rimasero al


tavolo a leggere il giornale (un foglio ciascuno) mentre la madre provvedeva a
sparecchiare e a rigovernare in cucina; ogni tanto tornava in sala per riporre
nel buffè qualche stoviglia netta e brillante; allora esternava magari a voce i
propri pensieri, interrompendo per poco la lettura degli altri due.
«Manno non telefona da tre giorni. Che gli abbiano di nuovo spostata la
partenza? Ha promesso di trascorrere un giorno a casa con noi prima di parti-
re, lo sapete.»
«Chissà. È possibile che in Grecia non lo mandino neppure più» fece Ge-
rardo. «Capirai... con gli americani e gli inglesi in Sicilia.»
«E presto in Calabria, se tutto va avanti così» aggiunse Ambrogio.
«Già, appunto.»
«Ma proprio la stanno occupando tutta la Sicilia, gli americani?» s’informò
Giulia.
«Sì» le rispose Ambrogio, alzando gli occhi dal giornale. «È triste, ma è co-
sì. In mare non li ributtiamo più.» Guardò il padre: «Una volta pensavo che in
un caso come questo, anche se ferito io sarei corso là a combattere di mia ini-
ziativa. Invece... Se ci andassi farei ridere. In che situazione ci troviamo però,
mio Dio!»
Gerardo convenne stringendo le labbra, Giulia lasciò con un sospiro la sala.
«Vorrei almeno arrivare a capire se i nostri resistono sul serio» disse Am-
brogio, «o se gli unici che combattono sono i tedeschi.»
«Certo che... Anch’io mi sarei aspettato che sopra tutto i siciliani e i calabre-
si, non fosse che per difendere le case e le donne... Invece hai sentito cos’ha
detto Manno: a Piacenza ce n’è che hanno disertato per scappare a casa e farla
finita con la guerra.»
«Beh, alcuni può anche darsi che combattano. Ma quanti? Però, che razza
di situazione!»
Dopo che la madre ebbe ultimato di fare ordine, ci fu come ogni sera la reci-
ta del rosario. Al termine della quale Gerardo diede un’occhiata alla pendola,
mancava poco al giornale radio: si alzò e con gesto abituale accese
l’apparecchio; poiché era in corso una trasmissione priva d’interesse padre e
figlio si reimmersero nella lettura. Quando ebbe inizio il giornale radio sia
l’uno che l’altro non se ne resero conto, fu Giulia a chiamarli con voce stupe-
fatta: «Ehi, ehi, Gerardo, Ambrogio, sentite? Sentite cosa dice?»
La radio stava annunciando che sua maestà il re aveva accettate le dimis-
sioni del capo del governo ‘cavaliere’ Benito Mussolini e che l’aveva sostituito
col maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.
«Se Mussolini è caduto... è la fine del fascismo» osservò Ambrogio. «Vi
rendete conto?»
Il padre gli fece segno di non parlare: stava con l’orecchio teso per non per-
dere una sola delle parole della radio. La quale tuttavia sull’argomento non
aggiunse altro, e dopo lo sbalorditivo annuncio passò a un programma di mu-
sica che costituiva chiaramente un riempitivo.
«È caduto il fascismo, sì» disse allora gravemente Gerardo, guardando in
viso gli altri due. «Era ora!» Mentre il pensiero di Giulia correva a Manno
(forse, grazie a questo fatto, non sarebbe più partito per la Grecia?) il pensiero
dei due uomini andò ai tedeschi: in che modo avrebbero reagito?
Dei fascisti convennero che non era il caso di preoccuparsi: avevano portata
l’Italia alla sconfitta militare, si erano dimostrati incapaci di un qualsiasi serio
tentativo per evitarla. Adesso non erano loro che potevano dare preoccupazio-
ni, ma i tedeschi. «Quelli» osservò Ambrogio «non scherzano mai. Bisognerà
vedere come reagiranno.»
Gerardo annuì. La musichetta della radio continuava, i tre attesero ancora a
lungo, con impazienza, che venissero diffusi ulteriori particolari; infine Gerar-
do si alzò di nuovo in piedi, andò all’apparecchio e tolse la corrente. «‘Sic
transit gloria mundi’» disse quasi con solennità, lui che non sapeva il latino;
poi, in modo più confacente alla sua modesta cultura, espresse lo stesso con-
cetto mediante un proverbio popolare: «Visto? ‘La superbia uscì in carrozza,
ed a piedi ritornò’»
A quest’uscita Ambrogio fu sul punto di sorridere, ma non lo fece: ricordò
che il padre in gioventù, quando ancora non era industriale, aveva fondato a
Nomana sia la sezione dell’Azione Cattolica che quella del partito popolare;
non era uomo che s’esprimesse con le parole, ma con i fatti.
«Adesso che il fascismo non c’è più» chiese il giovane alzandosi a sua volta
in piedi «e a parte quello che faranno i tedeschi, come credete che ci organiz-
zeremo?» Ricordava, con perplessità, alcuni episodi del tempo pre-fascista, di
cui aveva più volte sentito raccontare: certe frasi pronunciate da arruffapopoli
paesani sulle piazze prima della sua nascita, così demagogiche e idiote che se
ne rideva ancora dopo tanto tempo; e, peggio, non in Brianza ma nel resto
d’Italia, casi di prepotenza rossa per niente inferiore a quella nera: insulti ai
preti e agli ufficiali, disordini, treni fermati e non lasciati ripartire solo perché
c’era un prete sopra.
«Beh, non appena possibile si ricostituiranno senza dubbio i vari partiti» gli
rispose Gerardo: «ci organizzeremo di nuovo in modo democratico, vedrai.»
Sembrava fiducioso in una normale ripresa politica; al pari di lui sembrava
fiduciosa Giulia, né l’uno né l’altra si prospettavano gli eccessi cui era corsa la
mente del giovane.
“Come che sia” concluse questi tra sé “i guai politici per il momento sono
niente, confronto al pericolo rappresentato dai tedeschi”.
Dopo diversi altri commenti (la notizia era veramente grossa), padre, ma-
dre e figlio salirono meditabondi le scale; giunti al primo piano si diedero la
buona notte e si separarono, avviandosi il padre e la madre verso la camera
nuziale, il figlio verso la propria.
Prima di coricarsi questi caricò la sveglia e ne puntò la suoneria sulle sei: la
mattina dopo - come s’è detto - avrebbe dovuto recarsi a Milano per una visita
medica di controllo, la prima da che era in licenza.

CAPITOLO QUARTO

L’indomani indossò la divisa e nel fresco stimolante del mattino


s’incamminò di buon passo verso la stazione; lungo il ‘viale della rimembran-
za’ fu però costretto a rallentare, a causa d’un principio di capogiro. “Cosa dia-
volo mi succede? Sto peggio adesso di quando sono arrivato...”
Sul treno la gente commentava il grande evento, s’esprimevano tutti in dia-
letto ovviamente: «Chissà dove si troverà adesso Mussolini? La radio non l’ha
detto. Volete che se ne stia tranquillo a casa sua?»
«No, questo è impossibile.»
«Perché è impossibile?»
«Che si trovi a casa sua può anche darsi. Tranquillo però no, dopo che ci ha
portati in guerra e ha sulla coscienza tutti quei morti.»
«E poi tranquillo, dopo avere perduto da un momento all’altro il potere?
Lui? Con la sua prepotenza?»
«Già... Chissà che rabbia deve avere in corpo.»
«Sì, chissà che rabbia.»
«Per prepotente è prepotente, però avete visto, s’è lasciato metter da parte
come un agnello. Almeno per quanto ne sappiamo noi.»
«Ecco: per quanto ne sappiamo noi. Perché chissà cosa diavolo è successo
realmente.»
La ‘littorina’ aveva all’interno poche suddivisioni, di modo che parecchie
persone potevano vedersi tra loro e parlarsi.
«Secondo me la vera colpa del duce» affermò un tipo anziano «è stata
d’aver trascinata l’Italia in guerra contro la volontà di tutti.»
«Non proprio di tutti: vi ricordate gli studenti?» fece presente una donna:
«‘Viva la guerra. Vogliamo la guerra.’ Chi di noi non li ha visti quei cortei a
Milano?»
«Gli studenti non contano» disse l’anziano «sono dei senza criterio, oggi su
un pero e domani su un melo: per loro che conta è soltanto far chiasso, come
per gli oconi» (s’intenda: per i maschi dell’oca).
«Intanto però fanno il loro danno» puntualizzò la donna.
«Sì, certo, fanno il loro danno» convenne l’anziano; «ma quando io dico che
il duce ha portata l’Italia in guerra contro il parere di tutti, non parlo della ra-
gazzaglia: parlo degli altri, della gente che ragiona. Vi ricordate, no? Perfino
certi fascisti - questo bisogna dirlo - non volevano la guerra. Dico bene o no?»
«Era anche per via dei tedeschi» lo appoggiò almeno parzialmente uno:
«Noi gli avevamo sempre combattuto contro, inclusa la guerra del 15, e quasi
in ogni famiglia c’erano stati dei morti.» Si rivolse al suo vicino: «Anche tu
Guglielmo, no? Voi in famiglia ne avevate due di...» Il citato Guglielmo, che
sedeva ingobbito con le mani in tasca, annuì ma non intervenne; lui non
spendeva mai una parola in simili discorsi: li chiamava le fesserie della politi-
ca.
«Così adesso siamo in una bella palta» disse un altro, di aspetto impiegati-
zio: «Si sono levati dai piedi Mussolini, ma la guerra? Come faranno a tirarsi
fuori da quella? Con i tedeschi» abbassò involontariamente la voce «qui in
casa? Ecco, se Domine Dio non ci mette una mano, io non vedo proprio come
potranno fare.»
Ci fu una pausa: in pratica tutti i presenti - escluso Guglielmo - convenivano
che il grande problema adesso era questo.
«Quel disgraziato!» esclamò uno: «Quando è entrato in guerra credeva di
vincere in pochi mesi, senza fare nessuna fatica.»
«Quel bastardo, quella faccia di m...» buttò là con irruenza uno piuttosto
giovane (poteva avere una trentina d’anni) che fino allora non aveva parlato:
«che porca carogna!»
Gli altri assaporarono un po’ sorpresi questa nuova possibilità, d’insultare
in pubblico un uomo fino a ieri in pubblico soltanto esaltato: ma in complesso
non la trovarono congeniale, tanto che nessuno seguì il trentenne sulla via de-
gli insulti.
Un ragazzo che gli sedeva vicino, gli chiese: «Voi avete forse avuto qualcuno
morto in guerra?»
«Io? No, perché?»
«Ma allora...»
«Tutti ne abbiamo avuti di morti» disse generico il trentenne. Si rendeva
tuttavia conto che un tale discorso con questa gente - la sua gente - non ingra-
nava, sbuffò e non aggiunse altro. Ma dal suo atteggiamento anche successivo
era chiaro ch’egli si riprometteva di rifarsi una volta a Milano, cioè in un am-
biente dove non ci fossero delle teste dure (lui veramente pensò “d’ignoranti”)
come queste. “Guardale” si diceva “queste facce di palta di briantei. Prima
nessuno di loro era fascista, e adesso, guarda, pare quasi che gli dispiaccia!”
Cercò di andargli incontro un suo conoscente, il quale: «Io vorrò vedere i ge-
rarchi» buttò là «quando a calci in culo dovranno risputare tutto quello che
hanno mangiato, quei bastardi.»
«Se hanno mangiato e digerito» intervenne un anziano operaio con la faccia
bianca da paolotto, tipo allora non infrequente in Brianza: «cosa vorresti fargli
risputare?» Era chiaro che gli insulti e anche questo nuovo genere di prepo-
tenza - la prepotenza antifascista - lo urtavano. E come lui, bisogna dire, urta-
vano la maggioranza dei presenti, compreso Ambrogio, il quale comunque,
essendo in divisa, s’era proposto di non intervenire.
La conversazione finì con l’incentrarsi sulla guerra che - come la radio ave-
va detto - sarebbe continuata. Tutti si può dire i presenti, sempre escluso Gu-
glielmo, erano del parere che i nuovi responsabili (il re, Badoglio) stessero in
realtà studiando il modo per uscirne. Ma cosa diavolo potevano escogitare?
Ecco il difficile problema.
«Intanto l’aviazione di quegli altri cosa farà? Continuerà o no i bombarda-
menti?»
Di che incredibile potenza s’era dimostrata!
«E dire che quel disgraziato, quando è entrato in guerra, alla forza
dell’America non ci pensava neppure, non se ne rendeva nemmeno conto.»

***
Nella stazione di Villasanta, appena prima di Monza, salì sulla ‘littorina’ un
tizio di forse quarant’anni con la ‘cimice’ (ossia il distintivo del partito nazio-
nale fascista, diffusissimo fino al giorno prima) ancora all’occhiello. Qualcuno
se ne accorse e sorrise: evidentemente questo qui doveva ignorare la grande
notizia. Il tizio sedette quasi di fronte ad Ambrogio, accanto alla donna che
aveva ricordate le manifestazioni degli studenti in favore della guerra; ficcò
entrambe le mani nelle tasche laterali della giacca, poggiò la testa all’indietro e
chiuse gli occhi. La donna consultò con uno sguardo i più vicini, se fosse il ca-
so d’avvertirlo. Essendo determinato a non intervenire, per tutta risposta Am-
brogio guardò fuori del finestrino, anche gli altri vicini finsero di non capire.
Vogliosa ciononostante di far qualcosa, la donna pensò allora di parlare con
un’altra donna sua conoscente del modo in cui la radio aveva data la notizia
del licenziamento di Mussolini: «Il cavalier Benito Mussolini» ripeté un paio
di volte. Il tizio con la ‘cimice’ non diede alcun segno d’avere inteso. “Eppure
m’ha sentito, mi ha sentito per forza” pensava la donna: “dunque adesso sa...
Beh, faccia un po’ come gli pare. Se va in giro con quel distintivo però...”
Guardò ancora i vicini, alcuni dei quali finirono col sorridere imbarazzati: al-
lora la donna si decise, e toccò con la punta delle dita un braccio dell’uomo, il
quale aprì gli occhi.
«Quel distintivo» disse la donna a mezza voce. Il tizio osservò, torcendo un
poco il collo, il proprio distintivo, poi tornò a guardare la donna. «Mussolini è
stato licenziato dal re, lo sapete? L’ha detto la radio ieri sera. Beh, non sono
affari miei, lo dico solo nel vostro interesse, perché se quel distintivo ve lo ve-
de qualche scalmanato...» Non aggiunse altro.
L’uomo la guardò ancora un poco, poi chiuse nuovamente gli occhi.
La donna alzò il mento e strinse le labbra, come a dire: «Io quello che pote-
vo fare l’ho fatto, adesso s’arrangi».
Ecco Monza e il Lambro, verdastro e sporco, non limpido come in Brianza;
il treno procedette quasi a passo d’uomo su un ponte di ferro che scavalcava
obliquamente il fiume; Ambrogio guardò fuori, se anche dopo la gran notizia
della caduta del fascismo ci fossero alle solite poste i soliti anziani pescatori.
Sì, c’erano, sebbene ancora radi per l’ora mattinale: certo tra poco si sarebbero
infittiti, come sempre.
Dopo la sosta a Monza la ‘littorina’ riprese a correre verso Milano. La donna
guardava ogni tanto il tizio dagli occhi chiusi. “Che sia un fascista di quelli du-
ri, uno che non vuol saperne di piegarsi?” si chiedeva. “Chissà cos’ha nella te-
sta in questo momento...”
Nella testa dell’uomo c’era un formidabile guazzabuglio: “Guarda un po’ co-
sa mi sta capitando” egli pensava: “Mussolini liquidato dal re... Incredibile.
Non che a me della cosa importi un fico secco, intendiamoci, io al partito mi ci
son dovuto iscrivere per forza, per lavorare, anche se questi non lo sanno.
Come potevo se no vendere la mia cancelleria ai comuni? E anche ai privati
del resto, dato che la tessera è... era obbligatoria. Fortuna che così ci siamo
dentro tutti quanti allo stesso modo. Ma non è questo il punto. Mussolini è
caduto... Certo non può trattarsi d’uno scherzo, nessuno si arrischierebbe a
scherzare su una cosa simile. Il punto però è un altro: è che ’sta bisbetica (za-
bèta) con le sue chiacchiere.. Che figura ci farei io, se adesso... Di sicuro son
tutti lì che aspettano solo di vedermi togliere il distintivo (maledetto distinti-
vo!) per mettersi a sghignazzare. Ma io questa soddisfazione non gliela do:
succeda ciò che vuole, mai e poi mai io me lo tolgo davanti a loro. Una volta a
Milano, quando nessuno mi guarderà, allora...”
In tali e simili considerazioni e propositi trascorse i dieci-dodici minuti di
viaggio tra Monza e Milano. I discorsi, almeno quelli ad alta voce, intorno alla
caduta di Mussolini erano cessati, le ruote di ferro della ‘littorina’ schioccava-
no sempre più spesso passando sopra gli scambi delle rotaie le quali aumenta-
vano via via di numero, quattro, cinque, sei coppie, molte di più, poco alla vol-
ta tutta una pianura di binari, e in mezzo qua e là le garitte di servizio, qualche
edificio in muratura con leve ed altre apparecchiature all’interno e all’esterno,
monconi di treni in sosta, locomotive, rari ferrovieri vaganti. La stazione Cen-
trale di Milano si approssimava; nell’ultimo tratto la distesa dei binari correva
su un enorme terrapieno, ai due lati del quale - separate da strade profonde
come canali, che dal treno s’indovinavano appena - si allineavano in lunga fila
case e casoni disformi, sormontati da sporchi telai per la pubblicità luminosa
da tempo non più funzionante. La ‘littorina’ ridusse poco alla volta la velocità,
fino ad entrare a passo d’uomo sotto le grandi arcate in ferro della stazione,
insolitamente buie perché, a causa dei bombardamenti, parecchie delle lastre
di vetro che davano luce dall’alto, erano state sostituite con lastre di fibroce-
mento; s’arrestò infine con un ultimo sussulto; i viaggiatori si accalcarono agli
sportelli.

CAPITOLO QUINTO

Ambrogio ebbe l’impressione che sui marciapiedi ci fosse più gente del soli-
to. E verso l’interno della stazione sembrava raffittire; ogni tanto si sentivano
lontani, improvvisi clamori. “Cosa diavolo può essere?” egli si chiese.
«Che starà succedendo? Cosa fanno?» si domandava anche qualche altro
degli arrivati dalla Brianza mentre procedeva verso l’uscita.
Passavano parlando con animazione gruppi di persone, la gente non sem-
brava comportarsi nel solito modo, molti individui apparivano eccitati. A un
tratto, mentre uno di quei gruppi intersecava la diluita corrente di viaggiatori
provenienti dal treno: «Eccone uno, eccone uno» si sentì gridare; esplosero
molte voci, alcuni ragazzoni e uomini dapprima, poi tutto il gruppo circondò
qualcuno non lontano da Ambrogio. Guarda, avevano scoperto il tizio con la
‘cimice’, di cui il giovane si era completamente dimenticato.
«Un fascista!»
«Ha il distintivo: ve’, ha ancora il distintivo ’sto porco, guardate» vociferava
strepitando un ragazzotto.
«La carogna.»
Molti accorrevano da più lontano, vociando e anche ridendo.
Ambrogio cercò, in divisa com’era, di farsi avanti, ma il raffittimento della
gente glielo impediva. Vide che un individuo scamiciato tratteneva per il ri-
svolto della giacca, su cui ancora s’intravedeva la ‘cimice’, il tizio sceso dal tre-
no di Nomana, terreo in volto.
«Lasciatemi stare» protestava costui «lasciatemi stare. Sono fascista come
lo eravate tutti voi, né più né meno.»
«A noi fascisti? A noi? Ah disgraziato!»
«Che merda!»
«Maledetto porco. Figlio di puttana.»
L’individuo scamiciato dava strattoni sempre più violenti al risvolto, tanto
che finì con lo strapparlo dalla giacca: dopo di che - tra le acclamazioni degli
altri - lo alzò in aria come un trofeo, giubilando.
«La polizia» gridò a questo punto una voce di donna: «arriva la polizia.»
L’allarme ebbe un certo effetto, tutti si guardarono intorno, il capannello
che stringeva il tizio si aprì un poco; non si vedeva però la polizia.
L’individuo col risvolto in mano scorse invece Ambrogio: «Non è la polizia»
gridò «è l’esercito.» Levò nuovamente in alto il brandello di stoffa: «Viva
l’esercito» gridò, «viva l’esercito che ha liquidato questi cagoni...» Poi, non
ricevendo corrispondenza dall’esercito, si avviò, seguito dagli altri. Il tizio con
la giacca lacerata rimase fermo sul posto: «Non possono farlo, non possono»
ripeteva.
Ambrogio lo raggiunse; la gente ch’era arrivata col treno si stava riavviando
tra fitti commenti. «Andiamo» disse Ambrogio all’uomo «venite via prima che
a quelli salti in mente di tornare qui.»
Alle spalle dei due camminava, con altri, la donna che in treno aveva sugge-
rito all’uomo di togliersi la ‘cimice’. «Gliel’avevo detto» ripeteva eccitata: «io
gliel’avevo detto.» Ambrogio le diede un’occhiata di traverso, quella allora ab-
bassò un poco la voce, ma non smise di ripetere: «In treno io l’avevo avvisato,
gliel’avevo detto.»
Ecco là un pattuglione di polizia, fermo presso la rampa delle scale centrali,
e laggiù eccone un altro.
«Se volete, potete rivolgervi alla polizia» disse Ambrogio al tizio.
«La polizia? Sì, certo» rispose questi, ancora sbalordito.
«Più che altro se a quelli venisse in mente di tornare a cercarvi...» disse
Ambrogio, e lo lasciò.
All’uscita della stazione c’erano alcuni che, con scale e martelli, stavano
puntigliosamente demolendo i simboli fascisti incorporati nei muri; intorno
piccole folle acclamavano, ma soprattutto ridevano.

CAPITOLO SESTO

Senza indugiare Ambrogio prese il tram per Baggio: un tragitto piuttosto


lungo, attraverso notevole parte della città. Ogni tanto scorgeva nelle strade
capannelli o sciami di persone, e anche pattuglie di polizia e più spesso
dell’esercito, ferme o in movimento. «Viva l’esercito» gridava qua e là la gente,
e batteva le mani ai soldati.
“Fino a quando dureranno questi battimani all’esercito?” si chiese scettico il
sottotenente. Malgrado la brutta avventura occorsa al tizio con la ’cimice’, egli
aveva tuttavia l’impressione che le manifestazioni nell’insieme non fossero
violente. Probabilmente non ci sarebbero stati spargimenti di sangue.
Il tram lo sbarcò al capolinea, in una grande piazza non rifinita, alla perife-
ria ovest della città, tra edifici di caserme e ospedali militari: «Baggio» aveva
annunciato il bigliettaio.
Il giovane, dopo aver chiesta qualche informazione a uno dei passeggeri
scesi con lui, imboccò una larga strada semideserta, dai marciapiedi qua e là
erbosi. Camminava piuttosto lentamente, con una difficoltà che non riusciva a
spiegarsi; davanti a lui c’era però uno che avanzava ancor più lentamente; in-
fine Ambrogio lo raggiunse e sorpassò: era un anziano sottufficiale della mili-
zia, col fascio regolamentare sulla bustina sformata. Era anziano davvero, e
sembrava anche sofferente nel fisico, mal vestito, con una sciarpa non regola-
mentare al collo e una frusta sbarretta di ferita su una manica. I due si guar-
darono: Ambrogio fece all’altro un piccolo cenno d’incoraggiamento; l’altro
non gli rispose, né lo salutò come sarebbe stato suo dovere; teneva nella mano
che avrebbe dovuto alzare nel saluto romano una povera valigia di fibra.
Nel grande ospedale, al reparto indicato sulla cartolina ricevuta a Nomana,
il sottotenente trovò la sua pratica pronta; fu visitato di lì a poco da un prima-
rio medico coadiuvato da due assistenti, tutti in camice bianco e senza gradi:
dalla deferenza con cui gli assistenti trattavano il primario, Ambrogio ebbe
l’impressione d’avere a che fare con qualche luminare della scienza medica,
forse un docente universitario: sapeva che fin dall’inizio della guerra non po-
chi medici di fama si alternavano, anche se non tenuti, in turni negli ospedali
militari.
«Beh, e dunque? e dunque?» gli chiedeva con staccata simpatia professio-
nale il primario, senza poi prestare o quasi attenzione alle sue risposte.
«Sono trascorsi sette mesi da che mi hanno ferito» ricapitolò infine Ambro-
gio: «Adesso dovrei ormai essere guarito. E siccome...» la sua voce si fece ti-
mida, quasi egli temesse di sembrare sbruffone «sì, quelli ci sono sbarcati in
casa... Beh, mi sembra sia ora per me di tornare alle armi.»
Il primario si fermò, lo guardò: «Tu sogni ragazzo mio» gli disse «tu stai
sognando.»
«Ma...»
«Ho paura che non potrò nemmeno rimandarti a casa. Altro che!»
«Ma cosa dite? Io qui in ospedale non ci posso restare. Non posso perché...
Io...»
«Calma» fece il primario «calma. Adesso noi finiamo la nostra visita, poi
facciamo le dovute analisi, poi alla fine... In seguito decideremo. Va bene?»
«Signorsì.»
Si sottopose, dopo la visita, alle prescritte analisi; in attesa del responso non
rimase però a mangiare in ospedale, preferì pranzare fuori, quasi che il tratte-
nersi alla mensa dell’ospedale potesse costituire un precedente.
Entrò in un modesto ristorante nella piazza dov’era il capolinea del tram;
sua madre al mattino («Prendi, portale con te, non si sa mai, e attento a non
perderle») gli aveva infilato in una tasca le tessere annonarie, che ora si dimo-
strarono utili. Il cameriere infatti gliele chiese: erano foglietti scialbi, minuta-
mente suddivisi in quadratini fitti di stampigliature: il cameriere staccò con la
forbice alcuni quadratini, e in cambio gli portò un misero panino bigio, una
zuppa di verdura («Questa fuori tessera» specificò), un piatto con tre fette tra-
sparenti di salame, un cucchiaio di purè, e una mela d’aspetto non attraente.
Cosa poteva mai avergli trovato il primario? «I reni... Qui ci sono complica-
zioni renali» aveva detto. Che stesse lì la causa dei suoi capogiri e delle sue
lentezze? “Beh, fra qualche ora lo saprò. Adesso non devo farmi prendere
dall’inquietudine come una donnicciola.” Finì col trasferire il proprio crescen-
te malumore sul pasto: “Avrei fatto meglio a saltarlo addirittura questo pasto”
si diceva mentre spolverava ogni cosa con voracità, (la costante voracità che si
ritrovava da quando era rimpatriato: come se, ancora dopo mesi, non avesse
potuto compensare la fame sofferta nella sacca); “Meglio avrei fatto a non por-
tar via questa razione ai civili. Cos’è per un soldato saltare un pasto? Non è
niente, proprio niente.” Il suo pensiero andò ai compagni d’armi che non era-
no usciti dalle sacche: “Chissà che fame staranno soffrendo quelli, se sono an-
cora vivi”. Il pensarci comunque non li aiutava, non serviva proprio a nulla.

***
Tornò in ospedale ad aspettare. Nel tardo pomeriggio fu chiamato in un uf-
ficio da uno dei due assistenti, che adesso non era più in camice, indossava la
divisa da sottotenente medico. «Senti, non è urgentissimo, ma bisogna che ti
ricoveriamo» disse subito costui: «mi dispiace.»
«Ma...»
«No. Qui non c’è da scherzare; attento che coi reni non si scherza.» Gli
espose, senza dilungarsi, il suo quadro clinico.
Poi gli tese un primo foglio: «Qui c’è il rinnovo della tua licenza per due set-
timane: il professore ti viene incontro, come vedi.»
«Ma... Non è che io gli chiedessi un prolungamento della licenza.»
S’interruppe, pensò a Manno: questo supplemento di licenza gli avrebbe se
non altro consentito di rivederlo.
«Beh» disse il giovane medico «ormai è andata così.» Aggiunse: «Quel che
è certo, è che al reggimento tu non puoi tornare.»
Gli tese poi gli altri due fogli: «La prescrizione delle medicine che devi co-
minciare a prendere subito - subito hai inteso? - con la dieta. E questo è il fo-
glio di ricovero, al termine delle due settimane, direttamente nell’ospedale
militare dell’isola Bella, sul lago Maggiore. Le conosci, no, quelle isolette da-
vanti a Stresa? Un bel posto, vedrai. E soprattutto (per te è la cosa più impor-
tante) c’è un direttore, Braga, ch’è un padreterno quanto ai reni. Appunto per
questo ti mandiamo là.»
«In fondo non è neanche molto lontano da casa mia» mormorò Ambrogio.
«Ecco, bravo. E poi, fra noi, con la situazione in cui siamo... Se dovessero
ricominciare i bombardamenti, non credo che gli aerei verranno a gettar
bombe proprio su quelle isolette in mezzo al lago.»
«Sono d’accordo.»
«Tieni presente quello che ti ho detto» concluse il medico congedandolo:
«Non hai motivo per spaventarti, ma per allarmarti sì. Tu ti rimetti davvero in
sesto soltanto se ricominci a curarti in modo serio. Ascolta me: cerca di non
perdere tempo.»

CAPITOLO SETTIMO

Invece tempo Ambrogio ne perse. E fu Manno, del tutto involontariamente,


a farglielo perdere. Anzitutto col telefonare da Piacenza che sarebbe venuto in
visita a Nomana il 12 agosto; Ambrogio - che avrebbe dovuto presentarsi a
Stresa il 10 - decise di aspettarlo. Il giorno 12 tuttavia trascorse senza che
l’altro arrivasse; la sera Manno telefonò di nuovo: la partenza per la Grecia era
stata ancora una volta rimandata di qualche giorno, e lui sarebbe in conse-
guenza venuto a Nomana verso il 15 o 16. Nonostante il parere contrario del
padre e soprattutto della madre, Ambrogio decise di attenderlo: provava un
oscuro presentimento che dopo quest’incontro egli non avrebbe più rivisto il
cugino per molto, molto tempo.
Nella casa di Nomana quelli furono giorni penosi: per lo stato di salute
d’Ambrogio e per la situazione generale.
Le manifestazioni popolari erano cessate presto e senza particolari violenze;
rimaneva un gran senso d’attesa. Sarebbe riuscito il nuovo governo a portare
la nazione fuori della guerra? Adesso tutti sapevano che Mussolini era stato
arrestato, oltre che deposto; ciononostante i fascisti non reagivano in alcun
modo (“Ne hanno abbastanza anche loro” diceva la gente); la milizia fascista
aveva senza ribellarsi accettato di sostituire i propri distintivi - i fasci di com-
battimento - con le stellette dell’esercito.
«Ma ce la faranno il re e Badoglio a portare l’Italia fuori della guerra?» se-
guitavano a chiedersi un po’ tutti: «E in che modo?» Nessuno che si ponesse il
problema con obiettività, riusciva a intravedere una possibile via d’uscita.
I tedeschi dei reparti dislocati qua e là mostravano la faccia scura, ma nep-
pure loro per il momento reagivano.
I giornali cominciarono a svelare qualche retroscena del passato regime; il
modo della sua caduta anzitutto: si apprese così ch’erano stati gli stessi capi
fascisti, nell’ultima seduta del Gran Consiglio, a liquidare il fascismo. Ciò nella
speranza che gli italiani si stringessero tutti quanti attorno al re e si oppones-
sero compatti all’invasione straniera. I capi fascisti avevano in sostanza ante-
posto al partito e all’ideologia qualcosa d’altro (l’interesse nazionale), dimo-
strando così di non essere veramente totalitari, come invece erano nazisti e
comunisti, i quali mai e poi mai si sarebbero autoliquidati nell’interesse della
Germania o della Russia. (Negli anni a venire anche altri fascismi - ad esem-
pio quello salazariano, quello dei colonnelli greci, il franchismo - si sarebbero
autoliquidati allo stesso modo del fascismo italiano.) Non su tale imprevisto
fenomeno tuttavia si fermava l’attenzione della gente, bensì sul fatto che il du-
ce avesse un’amante stabile, cosa che ai più riusciva nuova; il fratello
dell’amante, dicevano i giornali - in questo sbizzarrendosi - era un poco di
buono, un profittatore. Anche tra gli alti gerarchi c’erano stati dei profittatori:
del che però non si sorprendeva nessuno, anzi la gente aveva sempre creduto
il fenomeno di proporzioni maggiori di quanto ora sembrava essere stato. Il
nuovo governo aveva comunque emanata una legge per togliere ai colpevoli il
mal accumulato.
Sì, ma cos’avrebbero fatto i tedeschi se questa situazione precaria si fosse
trascinata? Correvano voci incerte circa un afflusso di loro truppe dal Brenne-
ro e dalla Francia, forse anche dai Balcani. Ad Ambrogio portò qualche notizia
circostanziata Luca, attualmente di stanza in val d’Adige; giunse a casa Riva
un pomeriggio in bicicletta, inalberava gradi nuovi da sergente. Dopo i com-
plimenti di Ambrogio per la promozione: «Siamo venuti una corsa giù a Mila-
no con due camion» spiegò «per ritirare del materiale, e io devo essere di ri-
torno ai camion prima delle cinque.»
«Ma cosa succede? Stai diventando quello dei camion tu?»
«Sì, finché dura.» (Parlava come al solito in dialetto.) «Quando il mio bat-
taglione deve fornire un camion per qualche servizio fuori zona, io vengo di
solito comandato capo macchina, siccome m’arrangio un po’ come meccanico.
Beh, non m’è sembrato giusto di lasciare Nomana senza passare a salutarti.»
Malgrado fosse tutto in sudore, perfino nell’acerba barba rossastra, aveva il
consueto aspetto pacato; stavolta teneva anche lui il cappello alpino spinto
molto indietro, per lasciar libera la fronte. «La situazione in alto Adige? Cosa
vuoi che ti dica... Io benedico il fatto di non essere di stanza giù in valle, per-
ché dal Brennero continuano a scendere colonne tedesche, è un vero casino. A
Bolzano c’è un posto di blocco dei bersaglieri sul ponte dell’Isarco, con due
mitragliatori piazzati: hanno ordine di lasciar passare i tedeschi delle divisioni
che si trovano già in Italia, ma non quelli delle altre. Però come si fa? Non
possono mica dirgli: a voi non vi spariamo e a voialtri invece sì. Così finisce
che li lasciano passare tutti, è un casino ti dico. Anche al mio battaglione han-
no dato due volte l’allarme, sembrava che si dovesse scendere a prendere po-
sizione in valle, poi dopo un po’ hanno dato il cessato allarme, nessuno riesce
a capirci niente. Sai cosa credo? Che noi alpini non ci portano in valle perché
se no coi tedeschi ci prendiamo a botte anche senza ordini. Succedono cose,
giù in valle, che fanno una rabbia... Ai tedeschi la gente dei paesi gli corre in-
contro e gli batte le mani: son tutti ‘crucchi’ in quei paesi, lo sai. Se sono molte
le divisioni che passano? Ho paura di sì, e tutte motorizzate; hanno i camion
mimetizzati in giallo, non come in Russia; piuttosto, io credo, come in Africa.»
Accettò un bicchiere di vino; anche Ambrogio bevve con lui.
«È buono, dai beviamone un altro, facciamo fuori la bottiglia» propose
Ambrogio.
«No, la bottiglia no. Solo un altro bicchiere e basta, perché te l’ho detto: de-
vo essere a Milano prima delle cinque.»
Se era stato alla Nomanella? Sì, certo, c’era andato giusto in tempo per
l’intervallo di mezzogiorno. «Così ho visto Giustina. E la mamm Lusìa e il pa’
Ferando, figurati, hanno voluto che restassi a mangiare con loro, e abbiamo
bevuta una bottiglia. Insomma s’è fatta un po’ di festa, anche se loro hanno
sempre in testa quell’altro. Beh, adesso devo proprio andare.» Ricordò a un
tratto un incarico: «Ah, un momento, ho per te e per Manno i saluti del cap-
pellano, lo sai, don Carlo Gnocchi. Guarda un po’, di questo mi dimenticavo.»
«Grazie. Lo vedi spesso don Carlo?»
«Sì. Di sede lui sta giù al comando a Merano, però è sempre in giro. Anche
domenica è venuto a dir messa al nostro battaglione, a parlarci. Adesso ha la
mania di dire che quando si trovano al fronte i soldati sono come Cristo in
croce.»
«Sì, lo so. E ha ragione.»
«Certo che ha ragione.»
«Beh, quando lo vedi ricambiagli di cuore i saluti. E digli che Manno sta per
andare in Grecia.»
«Alla Nomanella me l’hanno detto infatti. Che zuppa anche per lui, eh?
Comunque lo riferirò.»

CAPITOLO OTTAVO

Partito Luca, Ambrogio uscì in giardino e si mise svogliatamente a sedere


sulla sdraio sotto il fico. Non andava più in ufficio: “Tanto non riesco a combi-
nare niente”. S’era provato a studiare per l’università, ma neanche in questo
aveva insistito, perché non ce la faceva a concentrarsi.
Si pose le mani sotto la nuca e allungò le gambe. Era, quella, una giornata
molto calda; ogni tanto dal folto degli alberi gli giungeva la strofe del capinero,
la breve cascatella di note che in Brianza pare la voce stessa dell’estate. Là in
alto, oltre i rami radi del fico, il cielo azzurro pallido era percorso da alcuni
branchi di nuvole; svagò con gli occhi fra le nuvole. Come mai non vi scorgeva
contro le crocette nere dei rondoni? Ah già, i rondoni se n’erano andati... Sta-
volta erano partiti senza che né lui né altri controllasse la data della loro par-
tenza.
A un tratto gli giunse una debole eco di colpi; venivano da sud, dalla parte
di Milano. “Ehi, non sarà la contraerea?” si chiese: “E Luca che sta scendendo
in città!” Da qui comunque non aveva la possibilità di spaziare con gli occhi in
direzione sud. I colpi, lontani e fiochi, a malapena udibili, seguitavano senza
smettere; frammisto ai colpi cominciò ad arrivare anche un incerto fragore
d’esplosioni più sorde: “Queste potrebbero essere le bombe... Ehi, cosa succe-
de? A quanto pare stanno bombardando Milano...” Si alzò in piedi, entrò in
casa, prese in fretta da un cassetto della sala il binocolo di suo padre, un vec-
chio e logoro binocolo da escursione che non reggeva il confronto con quelli
militari cui egli era abituato.
Nella sala c’era in quel momento sua madre intenta a rammendare: era se-
duta in un angolo, con gli occhiali inforcati, aveva accanto, su una sedia, un
mucchietto di calze dei ragazzi; non s’era accorta di nulla. «Cosa succede?»
domandò notando il binocolo: «Dove vai Ambrogio?»
«Ho l’impressione che stiano bombardando Milano» rispose lui.
«Cosa?»
«Credo che sia in corso un bombardamento su Milano. Voglio vedere se mi
riesce di distinguere qualcosa dal Ronchetto.»
«Misericordia!» fece Giulia. «Bombardano Milano hai detto? Povera gente!
Oh, povera gente!»
«Non ne sono sicuro, mamma. Vorrei appunto accertarmi.»
«Fa’ sentire.» La madre, deposto il lavoro, si alzò e andò alla porta di casa,
seguita dal figlio il quale, per conformarsi al proprio cliscé di reduce, non vo-
leva dare l’impressione d’essere emozionato: il rombo lontano dei colpi e delle
esplosioni continuava.
«Gesù e Maria» disse con agitazione Giulia: «aiutate voi quei poveretti, ab-
biate pietà di loro.»
A coprire le sue parole si levò nell’aria il sibilo meccanico d’una sirena, cui
subito s’aggiunse quello d’un’altra e d’un’altra: tutt’e tre le sirene delle fabbri-
che di Nomana davano l’allarme. «Fanno sempre così» s’informò Ambrogio,
«quando c’è allarme a Milano?»
La madre annuì senza parlare, intanto muoveva con intensità le labbra, sta-
va pregando.
Allorché le sirene tacquero, si tornò a udire il rumore lontano e debole delle
esplosioni; Giulia seguitava a pregare in silenzio.
«Lo senti?» le disse il figlio: «Questo è, più o meno, il rumore che si sente
anche al fronte quando è in corso un combattimento in un settore diverso dal
tuo. Arriva un rumore press’a poco come questo.»
«Gesù e Maria» ripeté la madre «aiutateli, abbiate pietà di quei poveretti.
Chissà quanta gente in questo momento sta morendo.»
«Sì, ho paura di sì», convenne Ambrogio «che Dio li aiuti. Mi sembra un
bombardamento non da poco. Sentivate un rumore di questa forza l’anno
scorso in ottobre? O più forte?»
«Questo mi sembra più forte» disse incerta la madre. «Povera gente!»
«Beh, vado a vedere, a tentar di vedere» concluse il figlio.
Ma allorché fu sul Ronchetto (un poggio erboso con poche piante da frutto,
situato non lontano da casa sua, da cui la vista dava sui sottostanti tetti di
Nomana, e più oltre, in isquarcio, sulla pianura verso Milano) constatò che
sopra la pianura c’era foschia. Dalla quale sembrava - ma non si poteva esser-
ne certi - si alzasse del fumo. “Potrebbe essere il fumo degli incendi” pensò il
giovane. Il binocolo paterno, che egli portò ripetutamente agli occhi, non gli
era d’aiuto; cessò di servirsene.
Gli tornò in mente la scarsa efficacia delle primissime bombe cadute sul mi-
lanese nel 40, all’inizio della guerra: a quel tempo lui si era recato in bicicletta
a esaminare l’effetto di una ch’era esplosa nei pressi di Monza con danni insi-
gnificanti. Ne aveva fatto di cammino, rifletté, la tecnica dei bombardamenti
da allora. Certe città, in Inghilterra e in Germania, erano state quasi rase al
suolo.
Sul poggio non c’era anima viva; il giovane s’era fermato al suo colmo, nei
pressi d’un ‘casotto’ rustico in muratura, una di quelle piccole costruzioni che
servono come ripostiglio nelle campagne. Davanti ad essa razzolava pigolando
nell’erba un branco di pollastrini di vario colore; mentre lontano il bombar-
damento continuava, Ambrogio si accostò alle bestiole: una stava dissetandosi
a un bevirolo di pietra nell’ombra ristretta d’una vite, le altre sbeccuzzavano
nel trifoglio. La scena aveva un sapore talmente pacifico da toccare il cuore.
“Quando la faremo finita con la guerra?” si chiese il giovane davanti a
quell’umile quadro di pace. “Eh, chissà quando!”
I colpi non accennavano a smettere; gli parve d’udire a un tratto anche un
rombo di motori. “Gli aerei?... Cominciano forse a rientrare? Che passino di
qui?”
II rombo s’evidenziò e crebbe rapidamente fino a riempire stentoreo il cie-
lo: “Sono gli. aerei da bombardamento, non c’è dubbio!” Ecco il primo, un
quadrimotore, volava incredibilmente basso... “Sarà una ‘fortezza volante’?
Ma cosa succede? Guarda, è colpita, è colpita! Brucia!” L’aereo aveva un’elica
ferma, inchiodata, righe di fumo gli uscivano distintamente da un fianco; si
scorgeva bene la sua insegna, i cerchi concentrici inglesi.
“Dunque i vecchioni della contraerea qualcosa riescono a combinare” si dis-
se concitatamente Ambrogio: “Questo se non altro l’hanno beccato ”.
L’aereo passò a poca distanza da lui, col suo ingente fragore (che gli ricor-
dava il fragore di quegli altri aerei coi quali egli aveva invano duellato sul fron-
te del Don l’anno prima) e s’allontanò verso nord. Non ne seguirono altri.
“Forse gli aviatori” argomentò febbrilmente Ambrogio “tentano di raggiungere
la Svizzera prima di buttarsi col paracadute. Ma ce la faranno a riprendere
quota per buttarsi? Così son troppo bassi...” In questo momento dovevano
stringere l’anima coi denti, poveracci, come lui in certi momenti al fronte: finì
col sentirsi diviso tra un istintivo senso di partecipazione alla lotta per la vita
di quei ragazzi, e una greve soddisfazione perché essi, che erano venuti a sfra-
cellare case e persone, avevano ricevuta adeguata risposta. “Ad ogni modo la
contraerea a Milano è insufficiente, lo dicono tutti: ha troppo pochi pezzi, e
manca di... tutto il resto; non può fare molto.”
Finalmente, dopo un’ora circa, non si udirono più esplosioni; di lì a un po’
le tre sirene di Nomana diedero il cessato allarme. Gli operai, che s erano ri-
versati dalle fabbriche nella campagna circostante, dovevano ora rientrare per
riprendere il lavoro. “Fino a quando durerà ’sta storia?”

CAPITOLO NONO

Gli aerei - tutti inglesi - tornarono molto più numerosi nel corso della notte,
e guidati dagli incendi accesi nel pomeriggio eseguirono una terribile distru-
zione. Il giorno dopo - 14 agosto - la città ebbe tregua; ma nelle due notti suc-
cessive le divisioni aeree tornarono in formazioni ancora più massicce, ed ope-
rarono distruzioni quali per estensione non s’erano fino allora viste in nessuna
città italiana. Più tardi, al censimento, risultò che dei novecento trentamila
vani che formavano Milano, ben cinquecentosessantamila erano stati distrutti
o danneggiati.
Innumerevoli case erano crollate, ingombrando anche le strade già per loro
conto interrotte da voragini e crateri; in moltissime strade non si poteva quin-
di più circolare, e questo rendeva difficile portare aiuto alla gente rimasta in-
trappolata nei rifugi e nelle cantine; sopra la città stagnava una tetra nube di
fumo, perché gli incendi durarono giorni.
I treni che portavano via da Milano gli sfollati (più esatto ormai sarebbe di-
re i profughi) non potendo partire dalle stazioni cittadine - tutte inagibili - fa-
cevano capo, sulle diverse linee, alle prime interruzioni. Per fortuna la popola-
zione a quel tempo era già in notevole parte sfollata, e quella che lavorava an-
cora in città, ogni sera se ne allontanava sistematicamente con tutti i mezzi
(bisogna dire che almeno in questo lo spirito d’iniziativa dei milanesi si espli-
cava ancora in pieno): così i morti furono in tutto poco più d’un migliaio, cioè
incredibilmente pochi confronto all’enormità delle distruzioni. Un morto ogni
cinquecento e più vani distrutti o danneggiati: la gente si sarebbe rifiutata a
lungo di crederci, molti si rifiutano ancora oggi. Anche perché tanti avevano
udito i racconti degli scampati, fuggiti coi soli abiti che avevano indosso (don-
ne specialmente, scese a caso dai treni nell’una o nell’altra stazione della pro-
vincia - n’erano arrivate anche a Nomana): racconti che facevano pensare a
chissà quali stragi.
Il 16 agosto, al colmo dei bombardamenti, giunse a Nomana la brutta noti-
zia della morte del padre del Michele Tintori, l’ex scultore paralizzato: secon-
do il referto medico il decesso era da attribuire a collasso cardiaco.
Diede la notizia per telefono ai Riva una parente del Tintori residente a
Monza, avvertendo che il funerale avrebbe avuto luogo l’indomani: Gerardo -
che l’aveva ricevuta personalmente - la comunicò di proposito ad Ambrogio
con un giorno di ritardo, così da non consentirgli di presenziare.
“Collasso cardiaco vuol dire, probabilmente, che è morto di crepacuore per
la mancanza di notizie del figlio” argomentò tra sé e sé il giovane, “e io, duran-
te tutta la licenza, sono stato a trovarlo una volta sola, al principio...” Quando
Michele fosse tornato non avrebbe trovato più nessuno dei suoi ad attenderlo,
forse non avrebbe trovata nemmeno la sua casa. Questi pensieri turbarono
Ambrogio per giorni, toccandolo nell’intimo non meno del fatto dei bombar-
damenti.
Intanto con le linee telefoniche verso la pianura dissestate, le comunicazio-
ni con Piacenza si erano fatte difficoltose: Manno riuscì a gran fatica a far sa-
pere che la sua partenza stava per essere un’altra volta rimandata. Ambrogio
si lasciò allora convincere a partire per l’ospedale. Ve lo accompagnarono in
automobile il padre e l’autista Celeste, quello che a suo tempo era stato autista
di Badoglio (attualmente nuovo capo del governo: «Il che» disse Ambrogio a
Celeste nel corso del viaggio «ti fa crescere di statura almeno dieci centimetri,
eh? Tutt’in una volta».)

II

CAPITOLO DECIMO

Manno effettuò la tanto attesa visita a Nomana circa una settimana più tar-
di, il 23 agosto.
Il suo treno - sulla grande linea ferrata proveniente da Roma - non poté
giungere alla stazione Centrale di Milano e dovette fermarsi all’inizio della
città, alla stazione di smistamento di Lambrate.
«Soltanto da ieri i treni arrivano qui» gli comunicò un ferroviere: «Fino
all’altro ieri dovevano fermarsi qualche chilometro più indietro, dove ci sono
quei crateri con tutti quegli operai al lavoro.» «Operai e crateri, per la verità,
ne ho visti diversi.»
«Dove gli operai sono più numerosi; dove c’è quel cratere strano, con le ro-
taie puntate verso il cielo.»
«Ah, sì, lo ricordo.»
Il giovane era dunque sceso alla stazione di Lambrate, piuttosto malconcia,
con la tettoia qua e là sforacchiata, angoli di muro asportati e grezze slabbra-
ture nel cemento della scalea che scendeva dal piano della ferrovia a quello
della città. Non gli era mai capitato di fermarsi in questa stazione allora di pe-
riferia, che pure aveva attraversato tante volte, e si guardava perciò attorno
con curiosità: come succede in simili casi la trovava più complessa di quanto
s’attendesse.
Giunto sul piazzale antistante notò che le strade che ne partivano erano tut-
te senza eccezione invase da frane di macerie, tanto da sembrare a prima vista
impercorribili.
“Son capitato bene!” pensò, e cominciò a preoccuparsi; a Nomana oltre ai
parenti sperava di rivedere Colomba, e non aveva molte ore a disposizione.
C’erano, in sosta davanti alla stazione, due camion a cassone ribaltabile,
molto scalcinati, e un motocarro dell’ ‘Unpa’, il servizio di protezione antiae-
rea; il conducente del motocarro, un giovanotto in sommaria divisa color caf-
fè, forse da pompiere, notò la sua perplessità. «Signor tenente» lo chiamò,
senza allontanarsi dal veicolo Manno lo raggiunse. «Non so dove siate diret-
to» disse il conducente; «io sto aspettando il ‘capo’ per tornare in centro, ab-
biamo caricato adesso dei picchi e badili: se volete approfittare... Questione
solo di minuti.»
«Va bene» gli rispose Manno «grazie.»
Di lì a non molto uscì dal sotterraneo della stazione il ‘capo’, un geometra
anziano con cartella sotto braccio; strinse la mano dell’ufficiale e lo fece acco-
modare sul sedile a panca del veicolo alla destra del conducente, mentr’egli
prendeva posto alla sinistra: «Stiamo un po’ stretti, eh?» commentò ridac-
chiando, ma aveva la mente altrove, al suo non facile lavoro.
I pochi viaggiatori scesi con Manno che ancora indugiavano nel piazzale -
due o tre - alla vista del veicolo in partenza accorsero. Dopo averli avvertiti:
«Noi andiamo in centro» il geometra consentì loro di montare nel cassone.
II motocarro s’avviò imboccando la più larga delle strade: arrivato alla pri-
ma frana di macerie, che dal piazzale sembrava ostruire completamente il pas-
saggio, si avventurò a passo d’uomo, sobbalzando e inclinandosi fortemente,
sul suo margine più basso, ch’era stato spianato in modo sommario.
La medesima manovra si ripete alle frane successive, in un’altalena conti-
nua.
Milano - l’ufficiale si rese conto - era stata ben più duramente colpita di
quanto le notizie diffuse dalla radio facessero supporre. Egli aveva addirittura
l’impressione che neppure una casa fosse rimasta indenne. Molte, anzi moltis-
sime, risultavano rase al suolo in cumuli informi di macerie; ancor più nume-
rose erano quelle demolite solo in parte: sull’interno dei muri diroccati di que-
ste si disegnavano a riquadri di diversi colori le pareti dei locali scomparsi, su
qualcuna c’era ancora un quadretto o un mazzo di fiori artificiali appeso di
sghembo; si vedevano anche lembi di pavimento che sostenevano a mo’ di
mensola qualche mobile, per esempio una sedia, un attaccapanni, oppure un
letto di ferro a metà pencolante nel vuoto.
Le strade - anche le poche ch’erano già state in qualche modo ripulite - ri-
sultavano tutte senza eccezione cosparse di minuti frammenti di vetro, perché
non un vetro pareva fosse rimasto integro; in qualche telaio di finestra se ne
scorgevano degli avanzi con incollate sopra strisce di carta, secondo il sugge-
rimento dato dalle autorità competenti. “Il nostro modo di fare la guerra” pen-
sò amaramente il giovane, “la nostra risposta ai quadrimotori!” Rifletté tutta-
via, con equanimità, che anche lassù nelle città inglesi da cui gli aerei erano
partiti, dovevano esserci dei vetri rotti con le loro brave strisce di carta incolla-
te sopra... Non provava per il nemico alcuna animosità: “È il modo di fare la
guerra degli anglosassoni, inglesi e americani.” Lui li aveva conosciuti in Afri-
ca: “Non potrebbero mai battere i tedeschi sul campo, però hanno senza con-
fronto più macchine, specialmente aerei con cui possono distruggere le città e
le retrovie avversarie, e le distruggono. Diversamente vincere non potrebbero,
e alla lunga finirebbero con l’essere vinti.”
Ma radere al suolo le città italiane proprio mentre il nuovo governo stava
sforzandosi in tutti i modi d’uscire dalla guerra...
“Si vede che non si fidano del nuovo governo, che non ci credono. Così di
noi italiani non si fidano loro, e non si fidano - a ragione - i tedeschi. In con-
clusione povera Italia!”
Strada dopo strada, sempre attraverso quell’uguale spettacolo di desolazio-
ne, in cui tuttavia si scorgevano parecchie squadre d’operai al lavoro, il moto-
carro arrivò in centro. Fece alt nell’impolveratissima piazza della Scala,
dov’erano parcheggiati altri mezzi similari e un certo numero d’autocarri a
cassone ribaltabile.
«Vedete che situazione anche qui?» disse, dopo essere sceso a terra, il geo-
metra al tenente, indicando tutt’intorno.
La copertura a cupola del grande teatro, orgoglio della città, non esisteva
più, era sprofondata, scomparsa. Della cinquecentesca mole di palazzo Mari-
no, sede del comune, che fronteggia il teatro, rimanevano soltanto le mura
annerite: tutto l’interno era franato, divorato dal fuoco. Quanto alla Galleria
(‘il salotto di Milano’ come ricordò Manno) che collega piazza della Scala alla
vicina piazza del duomo, era totalmente ostruita dalle sue grandi volte in ferro
e vetro, cadute o pencolanti fino al pavimento.
«Che bel servizio!» mormorò il giovane, nel linguaggio con cui i soldati, non
potendo sfuggirla, ricevevano ogni tempesta, fosse d’acqua o di fuoco.
«Eh» sospirò l’uomo anziano, «eh!» Poi sembrò riscuotersi: «Se volete arri-
vare a un treno per Monza, vi consiglio di rivolgervi ai conducenti di quei
mezzi là in fondo. Chissà che l’uno o l’altro non debba partire con destinazione
Sesto, o press’a poco...» Tese la destra al giovane, che gliela strinse e lo ringra-
ziò.
In effetti un mezzo sarebbe ‘molto probabilmente’ partito per Sesto entro
un’ora; si trattava d’un altro triciclo, anche più sgangherato del precedente e
appena requisito: l’insegna del suo ex proprietario, un lattoniere, era ancora
visibile sotto una frettolosa mano di vernice.
“La Provvidenza” pensò subito il giovane: “guarda, la Provvidenza mi viene
incontro”. Non mancò tuttavia di chiedersi se, in così enorme sfacelo, fosse
pensabile che la Provvidenza stesse davvero prendendosi cura d’un essere mi-
nuscolo come lui, e anzi del suo problema in fondo neppure vitale, di andare
in licenza per un giorno... Ricordò quella frase del Vangelo: anche i capelli che
ciascuno di voi ha sul capo sono contati, e si rispose con convinzione che la
Provvidenza stava, né più né meno, prendendosi cura del problema d’un esse-
re minuscolo come lui. Ma dei problemi di tutti gli altri allora, di quelli che
erano morti schiacciati, o soffocati nelle cantine, o avevano persa la casa e i
beni?
Nell’attesa che quest’altro veicolo si risolvesse a partire, il giovane cominciò
a passeggiare su e giù lungo uno dei marciapiedi di piazza della Scala, quello
davanti all’imponente sede della Banca Commerciale. Già, e tutti gli altri? Gli
tornò in mente una seconda frase del Vangelo: cosa conta un passero? eppure
neanche un passero può cadere senza il permesso di Dio. Doveva dunque ri-
spondersi che, quanto agli altri, la Provvidenza - la quale stava adesso pren-
dendosi cura della sua licenza - aveva invece con indifferenza consentito che
fossero uccisi? “Vediamo, cerchiamo di capire.”
Bisognava prendere la rincorsa un po’ da lontano per dare la scalata a un
ostacolo come questo. C’era - lui n’era convinto - una Provvidenza (un’azione
conservatrice e promotrice di Dio) che presiede alle vicende degli astri e delle
galassie (cos’era questo pulviscolo del nostro pianeta terra, se confrontato coi
miliardi di miliardi di astri dell’universo?) e presiede anche, sulla terra, alla
crescita del singolo filo d’erba e alla sua evoluzione nel corso dei millenni. Sol-
tanto un essere privo d’intelletto potrebbe infatti credere che un organismo
così straordinariamente complicato come un filo d’erba (“pensa anche solo
alle ‘memorie’ che dentro un minuscolo seme d’erba determinano il suo ordi-
nato sviluppo individuale, e nei millenni l’evoluzione della specie in accordo
con l’evoluzione di tutto il creato...”) solo un essere privo d’intelletto potrebbe
credere che tutto ciò sia frutto del caos, e non opera di una Intelligenza. E che
Intelligenza! Venendo poi agli uomini...
Prima d’andare oltre l’ufficiale si chiese se fosse davvero il caso di fare tante
riflessioni esistenziali nel mezzo d’una catastrofe come questa, e si rispose che
sì: “Forse quando la vicenda che stiamo vivendo è più grande del consueto, o è
particolarmente tragica, proprio allora dovremmo rinunciare a riflettere?”
Era dunque arrivato agli uomini. I quali sono gli unici, fra tutti gli esseri
creati, che hanno la possibilità d’andare contro l’ordine posto da Dio nel crea-
to: gli uomini sono cioè gli unici esseri veramente liberi, appunto perché sono
liberi nei confronti di Dio. Questo stesso disordine, questo enorme disastro
che gli stava sotto gli occhi, ne era una dimostrazione. Perché certamente Dio
non aveva voluto questo male: bastava pensare alle parole di Cristo e anche
solo del papa, contro la violenza e la guerra. Dio aveva dovuto tollerare, ecco,
aveva dovuto permettere questo male, e tutte le altre cattiverie e carognate che
gli uomini fanno: e ciò per non andare contro la loro libertà. Il gran problema
del male nel mondo... Appunto per non impedire la libertà dell’uomo (il che
equivarrebbe in conclusione a snaturare l’uomo) Dio è costretto a tollerare il
male.
Ricominciamo: c’era la Provvidenza, cioè un’azione conservatrice e promo-
trice di Dio, nell’esercizio della quale egli si compiace di partecipare con amo-
re anche ai casi delle sue creature più piccole (ai problemi del filo d’erba e al
problema della licenza di Manno per esempio - come il giovane avvertiva così
bene). E c’era la libertà umana che - unica - può andare contro l’ordine di Dio.
Così stando le cose è grazia che al male si connetta la sofferenza, la quale trat-
tiene in qualche modo gli uomini nello scempio ch’essi possono fare del creato
e di sé stessi.
Rimaneva il fatto che a Milano e altrove non pochi, del tutto innocenti, era-
no periti. A un tratto Dio non li aveva più protetti né aiutati, non aveva più
potuto... Per non opporsi alla libertà dell’uomo, tutto ciò che Dio aveva potuto
fare era stato di morire - in Cristo - con loro, innocente con gli innocenti, in
modo da accomunare al proprio il loro sacrificio, sublimando quest’ultimo:
Cristo e tutti gli innocenti con lui, compensavano il male compiuto dagli altri
esseri liberi, in particolare da quelli che non accetterebbero mai di emendar-
si...
“Può venire per ciascuno l’ora del sacrificio: gli innocenti però non muoiono
inutilmente, ecco il punto”; ciò ridava senso alle cose.
Il giovane ufficiale decise - se mai un giorno fosse stato a sua volta chiamato
al sacrificio - di rispondere fin d’ora «presente!» Non immaginava che quel
giorno si stava avvicinando con tragica rapidità.

CAPITOLO UNDICESIMO

Di lì ad alcune ore, a metà pomeriggio, era sulla ‘littorina’ di Nomana.


Nel suo scomparto la gente non parlava che dei bombardamenti, e anche
stavolta la conversazione aveva luogo fra tutti o quasi i presenti, di cui molti
non si conoscevano tra loro.
«Io sono scesa a Milano stamattina, per cercare, tra le macerie della mia ca-
sa» riferiva una donna sfollata, «ma avrei fatto meglio a risparmiarmi il viag-
gio e il magone.»
«Non avete idea» disse un’altra sfollata «che pena è trovarsi senza più nien-
te, con i soli vestiti che uno ha indosso. È una bruttissima sensazione, sembra
quasi di non avere più la terra sotto i piedi.»
«Eh, ci credo.»
«Che disastro! Gente, che disastro! Soltanto adesso cominciamo a render-
cene veramente conto.»
«È vero. Mai s’era visto un disastro simile. Mai.»
«Secondo me la rovina più grossa l’hanno fatta le bombe incendiarie. Il fuo-
co.»
«Sì» disse la donna ch’era andata a rovistare inutilmente tra le macerie del-
la sua casa: «il fuoco. Questo l’ha detto anche uno dell‘Unpa’. Ha detto: il
danno maggiore l’ha fatto il fuoco.»
«Fuoco o bombe, il fatto è - vogliamo rendercene conto? - che Milano non
esiste più. Io sono stato per conto della mia ditta in tre posti, e volete saperlo?
li ho trovati tutt’e tre distrutti. In uno, un ufficio a pianterreno, sono entrato e
si vedeva il cielo... Un altro poi, siccome è venuta giù tutta la fila delle case,
non sono riuscito a capire dove si trovava; parola mia: non sono riuscito.» Ag-
giunse: «Milano ormai è tutto un mucchio di rovine, e le case rimaste in piedi
ma colpite, sono peggio delle altre, perché bisognerà demolirle, e ci vorrà la-
voro e fatica.»
Un uomo di mezz’età, dall’aria molto seria: «È vero» convenne con gravità.
«Anzi sapete cosa vi dico?» Ripeté questa frase più volte, fino a ottenere
l’attenzione di tutti: «Sapete cosa vi dico? Che Milano non conviene più rico-
struirla dov’era. Conviene spostarsi al pulito, in mezzo ai prati, e rifarla di
nuovo. Non scherzo» (si capiva che effettivamente non scherzava) «parlo se-
condo logica: così si evita il lavoro di demolizione e di trasporto delle macerie,
che sarebbe immenso, pazzesco.»
Gli altri lo guardarono attoniti. «Sì» convenne uno. «Cos’è rimasto di buo-
no? Praticamente niente. Sì, forse sarebbe meglio ricostruire la città in un al-
tro posto.»
Ci fu qualche istante di silenzio: ciò che più colpiva Manno era che a lui
stesso una proposta così folle apparisse in quel momento perfettamente sen-
sata. “Certo non è sensata, non può essere. Ad ogni modo questo discorso io lo
devo ricordare in futuro: perché dà un’idea dello stato in cui è ridotta Milano.”
La pianura rimase indietro, cominciarono le prime avvisaglie delle colline,
poi le colline.
Alle complesse emozioni provocate dallo sfacelo di Milano, stava aggiun-
gendosi nell’animo del giovane un’altra emozione a lui ben più nota:
l’emozione del ritorno al suo paese, che sperimentava ogni volta nel rincasare
dopo una prolungata assenza; anche stavolta gli dava, guarda, un principio di
batticuore, un po’ come quando, bambino, tornava in vacanza dal collegio. Né
basta: stavolta a Nomana avrebbe rivista Colomba. A dispetto della guerra e
dei bombardamenti e della sua prossima partenza per la Grecia, e d’ogni altra
‘carnata’, egli tra poco avrebbe rivista la ragazza. La prospettiva di
quest’incontro meraviglioso andava gradualmente sormontando in lui ogni
altra cosa: «Colomba, Colomba» cominciarono a ripetergli le ruote del treno e
le verdi colline, «Colombina, Colombina». Da quando era partita per Novara,
tre mesi prima, egli non aveva propriamente scritto alla ragazza: soltanto due
o tre cartoline scherzose; si era bensì provato a scriverle sul serio, ma ogni vol-
ta senza venirne a capo, perché gli erano uscite dalla penna frasi ch’egli stesso
aveva giudicato eccessive.
Varcato il Lambro, la linea ferrata cominciò a salire tra i boschi di robinie, i
campi coltivati a terrazzo, le ‘piane’, il paesaggio natio. “Eccoci dunque al
‘Monte di Brianza’ si disse, ormai euforico, il giovane. “Ma quale monte? Dov’è
il monte? Questa è un’accozzaglia di colline, non un monte. Come facevano gli
antichi a chiamarlo monte? Dove avevano la testa?” Manno rideva perfino,
sempre meno propenso a tener conto della presenza del prossimo.
Vide, qualche chilometro prima di Nomana, il campaniletto del Raperio col
suo terrazzino di serizzo sopra, ed ecco, rasente la ferrovia, il piccolo cimitero
della frazione: l’avevano costruito a poca distanza da un altro molto più anti-
co, ora semisommerso dai castagni, in cui venivano sepolti ormai soltanto i
rari vagabondi che morivano all’ospedale. Là presso, tra le robinie e i castagni,
si scorgeva il grande masso erratico del Raperio, delle dimensioni d’una caset-
ta, portato qui dai ghiacciai quaternari. Subito dopo ecco le prime avvisaglie
del suo paese.

***
Ambrogio e Colomba non si trovavano a Nomana: glielo comunicò, non ap-
pena egli mise piede in casa, zia Giulia, la quale aveva un aspetto per niente
disteso.
«Ma... Non mi avevate detto al telefono, una settimana fa, che a ‘I dragoni’
aspettavano Colomba da un momento all’altro?»
«Sì, infatti è... era così. Poi però non è arrivata. Può darsi per
i bombardamenti.»
«E Ambrogio?»
«Da cinque giorni si trova nell’ospedale militare sul lago Maggiore. Non sta
troppo bene, lo sai?» Negli occhi di zia Giulia cominciò a formarsi un velo di
lacrime.
Che delusione! Ma: «Zia, su, non preoccuparti così. Ambrogio ha portata la
pelle fuori dall’inferno, cosa vuoi che sia per lui un po’ di... di ricaduta?»
«Sì, Manno mio, sì.»
Zio Gerardo, avvertito per telefono, lasciò immediatamente l’ufficio e venne
a casa: «Quante ore hai a disposizione?»
«Devo essere in caserma domani alle quattro, perché il nostro treno parte
alle sei e mezza.»
«Senti, la serata la passi insieme con noi; poi se domattina vuoi fare una
corsa a Stresa... O preferisci passare anche quelle poche ore qui in casa, in pa-
ce?»
«No zio. Mi daresti per caso... la macchina?»
«Sì. Sto appunto pensando a questo. Ti mando da un nostro cliente a Ome-
gna: figurativamente, si capisce, se mai qualcuno ti fermasse per strada; non
occorre che tu arrivi davvero a Omegna.»
«Ottimo» disse Manno, «mi va bene così.» Rifletté: «Al ritorno potrei ma-
gari passare da Novara. O no?»
Lo zio capì a volo: «Certo. Fammi pensare un poco, aspetta.» Considerò per
qualche istante la cosa. «D’accordo, lascia fare a me. Adesso torno in ufficio
e... Sarà meglio che predisponga subito tutto.»
Rincasò dopo parecchio tempo con due plichi: uno della ditta per il cliente
d’Omegna, e l’altro delle officine Argati di Beolco per l’arsenale militare di
Piacenza. «Il commendator Argati è mio buon amico, lo sai, una cara persona,
fa parte come me del consiglio dell’ospedale. Beh, lui t’incarica - sempre pro
forma, si capisce - di fare questo sopralluogo a Piacenza. Così ci potrai andare
in macchina, e Novara si trova precisamente sulla strada tra Omegna e Pia-
cenza.» Tolse dal plico una lettera intestata, lesse: ‘Il presente dottor Manno
Riva è da noi incaricato di un sopralluogo presso cotesto spettabile arsenale,
in relazione alla nostra fornitura di...’ S’interruppe, celiò: «Ti chiama dottore,
senti?»
«Beh, è giusto» disse zia Giulia: «dottore, perché ti laureerai presto.»
«Io? Se ho dato appena la metà degli esami?» rise Manno. «E poi, oltre tut-
to, cosa c’entra dottore? Visto che faccio architettura non sarò mai dottore.»
«Questo non vuol dire» insisté la zia: «qui sta per laureato.»
«Ah, ecco» fece Manno ridendo.
Lo zio completò la lettura del foglio. «Bene» disse, «non occorre che tu vada
effettivamente all’arsenale: questi sono, diciamo, dei salvacondotti. Me li ri-
manderai indietro da Celeste una volta arrivato a Piacenza. A Celeste spieghe-
rò io come deve comportarsi se per caso lo fermano. Così» concluse «avrai
qualche ora in più. Se no, con le linee ferrate tutte per aria...»
Manno guardò lo zio negli occhi: malgrado l’aria ilare che ostentava non
doveva essergli facile ricorrere a simili sotterfugi, egli lo sapeva bene. «Mi aiu-
ti come farebbe mio padre se fosse vivo» disse.
«Sì» rispose Gerardo, toccato da tali parole: «precisamente. Per quello che
posso.»
Manno si mise i due plichi in tasca. Così, oltre ad Ambrogio, avrebbe rivista
Colomba! “La c’è la Provvidenza” pensò, parafrasando Renzo Tramaglino: “al-
tro che se la c’è!” e malgrado tutto quel putiferio di rovine attraversa cui era
passato, avrebbe voluto mettersi a cantare dalla gioia...

CAPITOLO DODICESIMO

La mattina dopo incontrò il cugino sul lungo lago di Stresa. Preavvisato per
telefono Ambrogio gli era voluto venire incontro: l’attendeva seduto al tavoli-
no di un bar, sotto un tiglio scapitozzato greve di foglie; era in divisa diagona-
le, al suo fianco sedeva una giovane crocerossina. Non si alzò in piedi, lo rice-
vette con un: «Alla faccia tua! Bravo che sei venuto a trovarmi, ci tenevo
anch’io a vederti.» E dopo avergli vigorosamente stretta la mano: «Ti presento
qui sorella Mayer.»
Esauriti i convenevoli anche Manno e l’autista Celeste presero posto intorno
al tavolino.
«Racconta un po’» gli disse subito Ambrogio: «son proprio curioso: a No-
mana hai incontrata Colomba?»
Manno notò che il cugino era straordinariamente mal ridotto, come non
l’aveva forse visto mai, ancora più mal ridotto di quando stava al convalescen-
ziario di Riccione. «Colomba?» rispose: «Ehi, si può sapere come fai a cono-
scere questa storia molto riservata? Ah, capisco, Francesca... Chissà quanto
avrà chiacchierato quella stupidella.»
«Rispondi Manno» gli disse Ambrogio, «non divagare.»
«Beh, se proprio vuoi saperlo, non l’ho ancora vista, perché non è a Noma-
na, ma a Novara.»
«A Novara? A Novara dici? Oh, mi dispiace.» Gli dispiaceva davvero. «Ma
allora» esclamò «cosa fai qui, fermo immobile? Dai, fila via, corri subito a No-
vara.»
«Ma sentitelo» disse Manno alla crocerossina e a Celeste. «Io ho fatto un
viaggio faticoso per venire a trovare il mio povero cugino infermo, e lui ecco
come mi accoglie: mi caccia via.»
La crocerossina scoppiò a ridere di gusto, aveva modi vispi, non formali
come Manno s’immaginava avessero tutte le crocerossine; il giovane la osser-
vò un poco senza darlo a vedere: era incredibilmente giovane e aggraziata, e
aveva gli occhi d’un gradevole, strano colore chiaro.
Ambrogio notò il suo interesse. «Lo sai chi è costei?» gli chiese senza peri-
frasi.
Manno rizzò un poco la testa e cercò di destreggiarsi, non potendo sapere
dove il cugino volesse arrivare: «Non ho capito bene il nome alla presentazio-
ne: sorella Jucker, mi pare tu abbia detto.»
«Mayer» corresse lei: «Epifània Mayer.»
«Hai sentito? Epifània. Pazzesco, da non credere!» continuò Ambrogio:
«L’avevi mai sentito tu un nome simile?» Trovandosi in presenza d’una ragaz-
za, anche se giù di corda egli non poteva trattenersi dal fare dello spirito.
«Non fategli caso, sorella» disse Manno, scuotendo la testa con accentuata
disapprovazione (Celeste finì con l’imitarlo, scuotendo a sua volta la testa): «È
fatto così, ma non è propriamente un malvagio; anche se sembra.»
Per la seconda volta la crocerossina uscì in un’allegra risata. «Sembra, sì,
questo è vero» convenne.
«Costei, questa sorella Epifània, quand’è in borghese si chiama Fanny, e al-
la Cattolica noi matricole di scienze economiche la chiamavamo Fanny D.O.V.,
che vuol dire: Dagli Occhi Verdi» continuò Ambrogio.
«Ah, siete compagni d’università! Che caso formidabile.»
«Sì, sono iscritta anch’io a scienze economiche» disse Fanny D.O.V.
«Forse qualche volta me l’avrai sentita nominare.»
«Ah, infatti» fece Manno «adesso ricordo.» Ricordava davvero, anche se
vagamente: Ambrogio gliene aveva parlato in occasione d’una licenza: ‘dagli-
occhi-verdi’, sì: una delle poche compagne decenti del suo corso, aveva detto,
o qualcosa di simile. «Guarda che combinazione!» commentò. E rivolgendosi
a Fanny, che aveva effettivamente gli occhi verdi: «E così, sorella, non soltanto
a scuola, ma anche sotto le armi voi dovete sorbirvi la sua opprimente presen-
za.»
«Eh» convenne lei, stando al gioco «eh! Poveretta me!»
«Io, al vostro posto, chiederei il trasferimento» disse Manno. «Ci sta infatti
pensando» gli spiegò Ambrogio: «Lei ci sta pensando, ma non le conviene. Ha
la villa qui a Pallanza, e le fa troppo comodo prestare servizio a Stresa. Per lei
in pratica è come fare il servizio militare in villeggiatura.»
Per tutto il tempo della visita - una bell’ora abbondante - non si mossero dal
tavolino sotto il tiglio scapitozzato. Sulla strada del lungo lago - la via naziona-
le del Sempione - non c’era molto traffico, e ogni cosa aveva l’aspetto di sem-
pre, ma la gravità della situazione era nell’aria e sulle facce della gente. Si ri-
fletteva del resto anche in loro, che pure avevano cura di non darlo a vedere.
In aggiunta al resto Manno si sentiva nascostamente preoccupato per la sa-
lute del cugino, che in vita sua - si ripeteva - non aveva mai visto così malri-
dotto. L’altro finì col rendersene conto, e a lui che lo sbirciava: «Non preoccu-
parti per me» esclamò a un tratto: «come vedi» indicò col mento la croceros-
sina «io ricevo ogni possibile cura. Se mai» gli sfuggì «è agli altri che do-
vremmo pensare, a quelli che sono caduti prigionieri in condizioni peggiori
delle mie.» Svagò per un istante con gli occhi sulla pacifica distesa del lago:
«Se pure ne hanno presi di prigionieri» mormorò.
Gli altri tre lo guardarono in silenzio. «Perché, tu credi che non ne abbiano
presi?» chiese con spavento Celeste.
«Non dico questo. Io non lo so, nessuno lo può dire.»
«Beh, sentite, perché non parliamo di cose più allegre?» fece Manno, e
provvide a riportare la conversazione su toni distesi.
Mentre l’osservava scherzare di nuovo, facendo ridere sempre più spesso
Fanny, Ambrogio ebbe come già nei giorni precedenti a Nomana un improvvi-
so presentimento: che non avrebbe più rivisto il cugino per molto, moltissimo
tempo. “Per tutto il tempo della vita, magari?” si chiese beffardo, quasi a
schernire sé stesso. “Forse sì” gli rispose una voce dentro: “probabilmente sì”.
“Ma va, son tutte scemenze dovute al fatto che sono giù di corda” tentò di li-
quidare il problema.
«In Grecia» disse tuttavia, cogliendo a volo lo spunto da una battuta di
Manno «cerca di non fare troppo il bulo, magari per poi, una volta tornato,
raccontare a Colomba le tue imprese. Ti conosco io.»
«Il bulo?» esclamò l’altro con occhi ancora ridenti: «Ti figuri che razza di
bulo potrei essere, in un momento in cui tutti si preparano a smammare?» A
questo punto intuì la segreta preoccupazione del cugino. «Ehi, un momento:
ho l’impressione che noi due facciamo a chi si preoccupa di più per l’altro,
come due balie. Non è da ridere?» Rise, Fanny e Celestino sorrisero.
Ambrogio lo disapprovò con la testa, pur senza obiettare.
«Dai Ambrogio» disse allora Manno: «Sai bene come io vedo le cose, no? Se
la Provvidenza mi spedisce in Grecia, vuol dire che per me va bene andare in
Grecia, che questo mi servirà al compito per il quale Domine Dio mi sta te-
nendo in caldo, quale esso sia.» Fece con le mani un gesto, come a indicare un
piatto tenuto coperto: «E fino ad allora, fino a quando cioè non avrò assolto
per benino il mio compito, non mi potrà succedere niente, mi spiego? Anche
se mi buttassi nel fuoco non mi succederebbe niente.»
«Lo sentite? Parla come uno che con Domine Dio ha la linea telefonica di-
retta» disse Ambrogio agli altri due. E a Fanny: «Non mi crederai, ma riguar-
do a questa storia d’una sua predestinazione, non scherza mica: l’ha già tirata
fuori seriamente diverse volte.» Fanny sgranò sorridendo gli O.V. (occhi ver-
di).

CAPITOLO TREDICESIMO

Circa un’ora dopo aver lasciata Stresa Manno era a Novara davanti alla casa
di Colomba, lungo uno di quei baluardi - o larghe vie silenziose, ombreggiate
da file di grossi ippocastani - che circoscrivono in parte il nucleo più antico
della città.
Nel suonare il campanello avverti lo stesso batticuore di quando a Nomana
s’era presentato la prima volta a ‘I dragoni’. “Neanche stessi per entrare in
combattimento” pensò anche stavolta, e anche stavolta si prese in giro: “Cerca
per favore di non farmi ridere.” Venne ad aprirgli Colomba in persona: «Oh,
Manno» gridò gioiosa: «Manno, tu! Che sorpresa, che gioia!»
Invece di parlare il giovane la contemplò per alcuni istanti: «Come sei bella
Colomba» disse pieno d’emozione: «sei un incanto!» Colomba avrebbe voluto
rispondere in modo scherzoso, ma un gran turbamento la prese, non riuscì più
a dire una parola.
«Beh, come va Colombina?» le chiese allora, con voce ridivenuta terrestre,
il giovane. «Come stai?»
«Manno, ti sei ricordato di me!» mormorò Colomba.
«Certo, cosa credevi? Ma che succede? Non mi fai entrare?» Sempre emo-
zionatissima la ragazza gli lasciò libero il passaggio. Ritrovò la parola
quand’egli, nell’anticamera, si arrestò in attesa d’essere indirizzato. «Mamma,
mamma» gridò «vieni, c’è Manno. Vieni mamma.»
S’affacciò a una porta interna una vecchia cameriera coi capelli bianchi:
«Cleofe, chiama la mamma per favore. C’è... c’è qui... Chiamala, su.»
Seguirono le presentazioni alla genitrice (il padre, gli spiegarono, era fuori,
al lavoro) e i primi impacciati scambi di convenevoli in salotto: «Manno è uffi-
ciale, lo sai?»
«Sì Colomba, me l’hai detto.»
«Perché non sei venuto in divisa, Manno?»
Manno - che del resto era bello anche cosi - spiegò perché non era in divisa,
riferì degli incarichi-pretesto: «Insomma devi mettere che io stia facendo una
specie di giro d’affari in qualità di tecnico, o forse di piazzista, non lo so nem-
meno io.»
Colomba rise scuotendo la giovane testa; stava riprendendo la padronanza
di sé. «Adesso mi cambio, va bene Manno? Faccio in un attimo.»
Tornò di lì a poco, nell’abito già indossato più d’una volta a ‘I dragoni’:
quello che Manno aveva trovato simile a un peplo greco. Quanto ai capelli li
aveva legati a crocchia con frettolosa impazienza davanti allo specchio della
sua cameretta: una pettinatura provata e riprovata in segreto per sembrare
più donna, e possibilmente anche più greca, e comunque meno bambina.
«Per amor del cielo!» esclamò la madre al vederla, ma non aggiunse altro.
Quanto a Manno a sorprendersi o a ridere non ci pensava neppure. Rimase
di nuovo a bocca aperta: era al punto che gli si fosse anche presentata accon-
ciata da pagliaccio, l’avrebbe ammirata ugualmente: “Che bella creatura! Gra-
zie, Signore Iddio, grazie!” pensava.
Avvertendo lo sconcerto della madre e temendone qualche intervento cor-
rettivo, Colomba propose subito al giovane: «Usciamo a fare due passi? Che
ne dici?»
«Sì, certo» colse la palla al balzo lui.
La madre arrischiò: «Uscire così...» e stava per dire: «pettinata?», ma girò
la frase: «così, a quest’ora?»
«Sì, mamma, perché no?»
«Perché no?» le fece eco Manno.
«Come volete ragazzi.»
I due ragazzi uscirono, e si misero a passeggiare sotto gli ippocastani del ba-
luardo, conversando tra loro sempre più spontaneamente. A un certo punto
Colomba con la volubilità dei suoi diciotto anni si lasciò intimamente sugge-
stionare dalle ragioni della madre e levò le forcine che trattenevano i capelli a
crocchia: i capelli ricaddero, senza assumere però la loro piega normale. Così
la ragazza risultava sempre pettinata in modo eccentrico, bizzarro: «Per tener-
li a crocchia li ho un po’ corti, non ti pare?» si giustificò.
«No. Perché?» le disse Manno: «Ti stava molto bene quella pettinatura» e
con voce più bassa «quasi greca.»
Colomba negò scuotendo la testolina, poi si mise a ridere con naturalezza.
«Beh, non importa» fece Manno: «ti sta bene anche questa; tu sei bella co-
munque, sei sempre bella.»
L’intero tempo che Manno poté rimanere, quasi due ore, lo trascorsero pas-
seggiando su e giù lungo quel viale e i circostanti. Parlarono di tante cose, ma
avrebbero anche potuto non parlare affatto: erano due ragazzi che facevano
un’esperienza nuovissima, la nascita in loro dell’amore, questo dono sbalordi-
tivo di Dio.
Alla fine - ligio alle istruzioni ricevute - ecco arrivare Celeste in Millecento.
Come li scorse andò a fermarsi accanto al marciapiede a una certa distanza;
senza scendere di macchina si tolse di tasca e spiegò, addirittura con ostenta-
zione, un giornale.
La sua presenza indicava ad ogni modo ch’era venuto il momento
dell’addio; Colomba si fece inquieta: «Tu vai in guerra» esclamò a un tratto,
interrompendo il discorso che stavano facendo.
«Beh, in guerra un po’ per modo di dire» rispose sorridendo Manno: «Vado
in Grecia, cioè in zona d’occupazione. Là non si fa più la guerra da un pezzo.
Ma ne abbiamo già parlato, no?»
«La guerra è dappertutto» disse Colomba,
«Sì, se vogliamo metterla così. Dunque anch’io devo fare la mia particina.
Non sono ufficiale più o meno per questo?» Seguitava a sorriderle.
Colomba intuì con chiarezza che il ragazzo che le parlava non era di quelli
che davanti al dovere si tirano indietro. «Non ridere» esclamò impaurita:
«Con la guerra non si scherza: è una cosa spaventosa, bruttissima.» E aggiun-
se: «Adesso lo capisco anch’io.»
Non era più una bambina, ma una donna che parlava, e in questo momento
più adulta di lui: Manno se ne rese conto con sorpresa.
«Oh, Manno, Manno mio» disse accorata Colomba.
«Colombina, cosa ti prende? Su allegra.» Il giovane rise di nuovo in modo
noncurante, per rassicurarla; intanto la guardava coi suoi occhi azzurri da
‘giovin signore’ che volevano essere canzonatori. «Senti Colomba: dall’Africa
sono tornato in barchetta, dalla Grecia, per tornare da te, se sarà necessario
verrò addirittura a nuoto, d’accordo? Te lo prometto.»
Colomba non rideva. «Che cosa atroce!» disse, seguendo il filo della propria
ansia.
«Cosa dovrei fare? Tu non puoi desiderare che io lasci gli altri ‘nel bagno’ e
me ne stia in disparte. Che uomo sarei? Tu stessa mi disprezzeresti.»
«Sì, ma... Oh che cose, che cose accadono nella vita» esclamò Colomba «e la
nostra vita sta incominciando adesso.» Gli pose una mano sulla spalla: aveva
gli occhi - Manno s’accorse - pieni di lacrime.
Che piacere il contatto di quella mano! Il giovane gliela prese con delicatez-
za e la baciò commosso: «Abbi fiducia, vedrai che tornerò. Anzi, vuoi sapere di
più? Io devo» sottolineò la parola «devo tornare. Non scherzo. Spiegartelo
adesso seriamente non sarebbe possibile in poche parole. Mio cugino Ambro-
gio però lo sa, ne ho parlato con lui anche stamattina; all’occorrenza te lo farai
spiegare da lui, va bene?»
«Ambrogio? Spiegare?»
«Sì, Colombina: come e qualmente io tornerò.»
La ragazza lo guardava coi giovani occhi grigio-azzurri traboccanti di lacri-
me: ancora Manno insisteva a scherzare?
Sembrava che no: «È così, Colombina; è precisamente così. Beh, adesso ti
riaccompagno a casa.»

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

A Piacenza Manno e Celeste pranzarono al ristorante Roma: erano passate


le tre del pomeriggio, ma le proprietarie conoscevano l’ufficiale e misero in-
sieme qualcosa senza difficoltà. Poi Manno si fece accompagnare in macchina
al suo alloggio in una casetta della periferia, indossò la divisa, e uscito fuori
consegnò a Celeste una valigia in cui erano l’abito borghese e altre poche cose
da riportare a casa. Gli consegnò anche, a parte, le ‘credenziali’ industriali:
«Tieni questi fogli, Badoglio. Se qualcuno ti ferma lo sai come devi comportar-
ti. Quante bugie, eh?»
«Le bugie di questo tipo non sono bugie» rispose solidale Celeste. «Sono
stato soldato anch’io, e so cosa vuol dire avere poche ore di licenza.»
«Ti ringrazio.» Manno fece una pausa, sentì il bisogno di sdrammatizzare
un po’: «L’hai sempre in tasca la castagna contro i reumatismi?»
Questo era un motivo d’antiche battute. Celeste si fece rosso. «Sì, certo.
Voialtri ci scherzate, ma è vero: io ne ho fatta l’esperienza.»
«Tienti da conto, con quei sette figli che hai in casa» disse Manno, rifacen-
dosi serio, «e a Nomana salutami tutti: i miei zii, le cugine, don Mario, quelli
dell’oratorio... insomma tutti quanti.»
«Sì, certo.» L’autista assunse un’aria più grave: «Io vi conosco, te e Ambro-
gio, dal giorno che siete nati. Manno stai attento, questi sono brutti tempi:
cerca di guardarti dai pericoli. Te lo dico... di cuore.»
«Sì, va bene.»
«A Nomana fra qualche anno sarete necessari tutt’e due, te e Ambrogio. Per
aumentare il lavoro voglio dire, quando saranno cresciuti i ragazzi d’adesso.»
Pensava con evidenza anche ai propri figli.
“Per loro c’è comunque la Provvidenza” pensò Manno, mentre gli stringeva
con amicizia la destra. «Va bene, vuol dire che in Grecia cercherò di fare giu-
dizio. Beh, ti saluto Celestino. E tante grazie per avermi scarrozzato fin qui.»
«Buon giorno Manno.» Celeste si toccò con la destra il berretto.
Fu il congedo di Manno dal suo mondo.

PARTE QUARTA

CAPITOLO PRIMO

Lo scaglione dei complementi per la Grecia partì senza ulteriori ritardi


quella sera, in treno.
A Brindisi dovette però sostare diversi giorni, in attesa che salpasse per
l’Albania una determinata nave. In quegli stessi giorni gli americani e gli in-
glesi, completata l’occupazione della Sicilia, erano passati in Calabria. «Forse»
dicevano i soldati «in Grecia non si va più. Forse ci mandano in Calabria.»
«Non siamo che dei complementi disorganici, i nostri pezzi si trovano col
reggimento in Grecia, cosa volete che ci mandino a fare in Calabria?» obietta-
va il tenente Pigliapoco, comandante dello scaglione; era tuttavia incerto an-
che lui.
La sera del 4 settembre lo scaglione fu comunque caricato e, insieme con al-
tri nuclei di complementi, trasferito nottetempo in Albania. Sbarcarono tutti
la mattina dopo, coi loro bravi zaini affardellati sulle spalle, nel porticciolo di
Santi Quaranta, ribattezzato in onore della figlia del duce Porto Edda.
Sulla banchina non c’era nessuno ad attenderli, perché gli automezzi inviati
dai rispettivi reggimenti attendevano a Valona. Giunsero a Porto Edda nel
corso della giornata, ma ahimè per lo scaglione di Pigliapoco c’era un solo au-
tocarro, insufficiente a trasportare tutti. «Scarseggia la benzina» spiegò il ma-
resciallo capo macchina: «Pensate che da più d’un mese il reggimento è in at-
tesa di trasferirsi dal Peloponneso nella zona d’Atene, ma non può per man-
canza di carburante.»
Il tenente Pigliapoco dopo avere inveito con rabbia contro i comandi e la lo-
ro logica, nonché contro tutta la naia nel suo insieme, decise di partire con
quanti uomini l’autocarro poteva trasportare. Lasciò a Porto Edda Manno e
venti artiglieri, i quali per disposizione del locale comando di presidio vennero
‘presi in forza’ per il rancio da una batteria contraerea schierata a difesa del
porto.

***
Si trattava d’una batteria di mitragliere da 20 millimetri, piazzata su una
piccola altura in riva al mare. Il suo comandante tenente Cioffi - un tipo di
mezza età, incredibilmente trasandato - indicò un po’ all’incirca a Manno un
posto tra gli ulivi dove i suoi avrebbero potuto rizzare le tende. «Se credi, tu
puoi venire a dormire con noi nella nostra reggia» disse: «siamo in tre e non
in quattro, perché il sottocomandante è giù all’ospedale con la malaria, dun-
que il posto nella tenda ufficiali ci sarebbe. Se però preferisci dormire in pae-
se...»
«No, è meglio che stia qui allo schieramento, con i miei.»
«Figurati. Voi, per i pochi giorni che rimarrete qui, potete considerarvi in
villeggiatura. Bella villeggiatura, vedrai. Ah, che bella villeggiatura!»
Il neo arrivato era perplesso.
Davanti a tale perplessità Cioffi si mise a ridere. «Va bene» disse, «prendi
uno dei tuoi, o magari due, o anche tre, come attendenti, e fatti preparare con
dei picchetti un lettino nella tenda ufficiali.» «Ho la brandina.»
«Oh, bravo. Allora fatti preparare la brandina.»
Manno diede ai suoi artiglieri gli ordini per l’impianto delle loro tende, e ne
seguì di persona l’esecuzione. Fece inoltre scavare una latrina supplementare
in una macchia di canne polverose: «Perché dobbiamo scocciare il meno pos-
sibile questi della batteria, che mi sembrano già abbastanza scocciati per con-
to proprio.» Arrivata l’ora del rancio vespertino lo consumò - come già quello
di mezzogiorno - a secco coi suoi artiglieri: «Da domani la batteria preleverà i
viveri anche per noi, così potremo mangiare in modo regolare.»
I soldati vecchi del posto, trasandati quanto e più del loro comandante, im-
pigriti, avevano seguito motteggiando il po’ di lavoro dei nuovi venuti. Dopo il
rancio vecchi e nuovi si frammischiarono, parte scendendo in libera uscita nel
paese, parte sedendo in circoli sotto gli ulivi e i carrubi. Pur avvicinandosi il
tramonto le cicale non cessavano un istante di frinire, faceva molto caldo, e
c’era abbondanza di mosche e di polvere; tuttavia l’ambiente - per chi si pren-
desse la pena d’osservarlo - era in sé molto bello, col mare azzurro a poca di-
stanza, e l’isola montuosa e verde di Corfù che ne emergeva là di fronte.
Manno raggiunse la tenda davanti alla quale i tre ufficiali della batteria se-
devano a un rustico tavolo su panchetti scalcagnati; il comandante Cioffi s’era
slacciato il cinturone e se ne batteva di tanto in tanto il lembo più lungo sulla
pancia; avevano appena finito di consumare il loro rancio, sul tavolo, con le
briciole, era rimasta una bottiglia di vino semivuota e qualche bicchiere. Fece-
ro accomodare il nuovo venuto, scambiarono con lui qualche convenevolo, poi
lo interrogarono sul suo viaggio per nave (aveva incontrato qualche sommer-
gibile? no? strano) e sull’Italia, su come la gente vedesse ora la situazione; ma
non sembravano far veramente caso alle sue risposte, quasi si trattasse d’una
realtà che tutto considerato non li riguardava.
Ogni tanto Manno lanciava qualche occhiata alle otto piccole mitragliere
della batteria, piazzate a poca distanza tra i cespugli.
«Guardi i nostri schizzetti?» chiese il tenente comandante: «Beh, da quan-
do siamo qui - e sono due anni ormai; due anni, forse a te sembra niente, ma...
- beh, non hanno ancora avuto occasione di sparare un colpo.»
«Non un colpo?»
«Non uno. Perché a bombardare questo porto non ci viene mai nessuno. E
perché dovrebbero venirci? Di questo porto le nostre navi non si servono che
di raro: solo quando è segnalato qualche sottomarino inglese davanti a Valo-
na. Anche stanotte dev’essere andata così.»
«Finisce che v’annoiate un po’, eh?»
«Un po’?» disse Cioffi, e rivolto ai suoi due sottotenenti: «Avete sentito? Un
po’.»
I due sorrisero depressi. Uno, molto giovane, con la faccia da pacioccone,
disse: «Io sono arrivato dopo gli altri, sei mesi dopo, son qui soltanto da un
anno e mezzo. Al principio a sentire che qui non veniva mai nessuno a bom-
bardare, ero entusiasta: ‘Ecco il posto ideale per passarci il resto della guerra’
pensavo. Perché prima facevo servizio sulle navi di spola tra la Puglia e
l’Albania, e... beh, quella era una brutta vita. Insomma questo posto al princi-
pio m’è sembrato l’ideale. Per parecchi mesi l’ho pensato, e anche i soldati ar-
rivati qui con me seguitavano a dirlo, ma poi...»
«Già, poi» disse Cioffi con una sorta di mestizia.
“Questo è decisamente un reparto d’ ‘insabbiati’” andava realizzando Man-
no: “Anche in Libia, in certi posti dell’interno, i soldati erano così prima che
arrivasse la guerra a pungergli il sedere...” «Vi capisco» disse. «Adesso però,
al punto in cui siamo, ogni cosa si sta per rimettere in movimento.»
«In movimento?» fece Cioffi con assai scarsa convinzione; tentennò la te-
sta. «Mm» fece «Mm...» ripete.
«Per forza» disse Manno. A lui pareva talmente ovvio; cercò
d’esemplificare: «Qui, immagino, saranno quanto prima i partigiani a...»
«Quali partigiani?» esclamò Cioffi. «Qui a Porto Edda di partigiani non ce
ne sono. Stanno sulle montagne dell’interno» indicò vagamente con la mano:
«E a quel che si sente sono, per fortuna, occupati soprattutto a combattersi tra
loro. Perché qui in Albania ci sono tre varietà di partigiani; sei al corrente di
questo?»
«Tre varietà?»
«Sì: i nazionalisti, i comunisti e i ballisti; tutti nemici giurati tra loro.» Sba-
digliò.
Manno dubitò che l’altro lo stesse prendendo in giro; o aveva capito male?
«Come hai detto?» chiese sconcertato: «Partigiani nazionalisti, comunisti
e...?»
Cioffi notò la sua sorpresa e si mise a ridere. «Ballisti. Proprio così. Dì la ve-
rità, dovevi venire in Albania, eh, per scoprire che esistono anche i partigiani
ballisti?»
«Di che tendenza politica sarebbero?»
«Lo sai tu? Non lo sa nessuno. Ho solo sentito dire che, fra tutti, sono i più
svelti nel fregare le capre ai contadini. Di loro non sappiamo quasi altro.»
Anche Manno fu obbligato a ridere. «Comunque» insisté «questi sono gior-
ni cruciali, e...»
«Ma chi te l’ha detto?» fece Cioffi, per un istante vagamente speranzoso suo
malgrado. Poi fece segno di no: «Macché, stavolta non mi lascio illudere» dis-
se, «non mi lascio fregare come dopo il 25 luglio. Questi sono semplicemente
giorni d’inedia, precisi a tutti gli altri.»
«Ma non avete una radio qui?» gli chiese Manno. «Non siete al corrente
delle notizie?»
«No» rispose Cioffi: «non abbiamo una radio. L’avevamo, me l’ero portata
io dall’Italia, ma poi l’ha fatta cadere il mio attendente, quand’è stato? un sei o
sette mesi fa, e pace all’anima sua, della radio intendo: s’è scassata.» Aggiun-
se: «Forse meglio così.»
«Tanto» disse il sottotenente dalla faccia pacifica «le belle cose che succe-
dono nel mondo le sappiamo lo stesso dal giornaletto dell’armata, che ci arriva
ogni due settimane. E poi riceviamo anche qualche altro giornale.»
«Ogni due settimane?» ripete Manno.
«Dai» disse Cioffi, smettendo di battersi il cinturone sulla pancia: «perché
non ti versi da bere?» Indicò col mento la bottiglia: «Non ha l’etichetta però è
vino greco, mica male. Non hai il bicchiere, eh?» Fu tentato d’alzarsi ma pensò
che davanti al forestiero era meglio dimostrarsi organizzati. Si voltò verso le
tende della truppa: «Carapelle» gridò, e ripeté: «Carapelle.»
Comparve il suo attendente Carapelle, non si capiva bene se era in calzonci-
ni o in mutande, aveva i piedi infilati in due zoccoli di autoproduzione, i capel-
li arruffati e l’aria interrogativa. «Porta un bicchiere» gli ordinò Cioffi.
Carapelle controllò con un’occhiata il numero dei bicchieri sul tavolo: «È
rimasto solo il gavettino» mormorò.
Entrò nella tenda degli ufficiali, vi armeggiò alquanto, quindi tornò al tavo-
lo con un gavettino d’alluminio; sotto gli occhi dell’ospite passò con calma un
dito sull’orlo del gavettino per toglierne ogni eventuale sudiciume. Manno no-
tò il gesto e: “Non preoccuparti” si disse: “hai appena rifatte le vaccinazioni
polivalenti”. Poi si versò da bere; «Buono» dovette convenire, e: «Accidenti,
com’è forte.»
«Oh, finalmente qualcosa che ti piace» disse Cioffi. Si rivolse a Carapelle:
«Dai, stura un’altra bottiglia.»
Carapelle eseguì. S’avvicinava ormai il tramonto e lungo una viuzza sassosa
cominciavano a passare a lato dello schieramento i contadini che rientravano
in paese dai campi; parecchi erano a dorso d’asino, li seguivano a piedi le loro
donne velate in faccia, con i calzoni legati alle caviglie e logore babbucce a
punta.
«Sono tutti musulmani qui, vero?» s’informò Manno.
«Non tutti ma la maggior parte.»
«Ho visto in paese un piccolo minareto.»
«Non parlarmi di quel minareto; per favore non parlarmene» esclamò Ciof-
fi.
«Perché? Cos’intendi dire?»
«Lo so io cosa intendo dire.»
«È per un fatto successo quest’estate» spiegò ridacchiando il sottotenente
pacioccone: «I soldati avevano presa una specie d’abitudine d’adunarsi ogni
sera sotto il minareto a rifare il verso al muezzin. Fra gli artiglieri che stavano
in basso, e lui che stava in alto, facevano a chi gridava di più, immaginati che
cagnara. Ma poi a certuni non gli è sembrato abbastanza, e una sera due o tre
disgraziati hanno sparato a un tratto in aria coi moschetti: non per colpire il
muezzin, intendiamoci, soltanto per aumentare la cagnara.»
«Quelle teste di c... dei soldati» esclamò l’altro sottotenente: «Capisci? Que-
sta sarebbe la nostra mentalità imperiale!» Guardò in faccia Manno: «Ti rendi
conto?» Era la prima volta che interveniva nella conversazione, le sue prime
parole dopo i convenevoli all’inizio. Manno annuì: non gli riusciva di capire se
fosse fascista o al contrario antifascista; era molto stempiato, aveva una faccia
da intellettuale inasprito.
«Il fatto è» concluse il pacioccone «che il muezzin a quei colpi s’è spaventa-
to da non dire: è venuto giù a razzo dal minareto, e per giorni non ha più volu-
to saperne di salirci. Per cui la popolazione musulmana era entrata in un mez-
zo subbuglio.»
Cioffi ogni tanto annuiva. «Sì» sbuffò «è stata una scocciatura coi fiocchi,
perché poi quegli stronzi del comando di presidio se la sono presa con me, ca-
pisci?»
Quando, esaurito l’inconsueto argomento, la conversazione si riportò
sull’attualità, Manno cercò di rendere i suoi interlocutori partecipi del senso di
attesa che regnava in Italia. Ma ancora una volta con scarso successo: si sa-
rebbe detto che quelli rifuggissero d’istinto dall’aprirsi a uno stato d’animo
che avrebbe potuto turbare la loro vita vegetativa; quanto al sottotenente con
la faccia d’intellettuale s’era richiuso nel suo silenzio.
«Io spero solo questo» finì col concludere Manno tra sé e sé: «che le cose
non stiamo così anche nel reggimento al quale siamo destinati noi».
CAPITOLO SECONDO

Il giorno dopo trascorse anche per lui e i suoi nell’inerzia. Ma all’alba di


quello successivo, subito dopo la distribuzione del surrogato di caffè egli si
presentò al comandante Cioffi: «Noi resteremo qui ancora chissà quanti gior-
ni. Vorrei quindi sapere in caso d’attacco nemico qual è il nostro compito.»
«Il vostro compito?»
«Sì. Bisognerà bene che ci prepariamo.»
«A un attacco nemico?»
«Sì.»
«Che attacco? Aereo oppure navale?»
«Ti prego di non scherzare» disse Manno: «Siamo alle tue dipendenze, e...»
«Soltanto per il rancio» puntualizzò Cioffi.
«Io vorrei essere orientato nel caso succedesse qualcosa.»
«Succedere qualcosa? Ah, ma è una vera mania.»
«Supponi che gli ‘alleati’ si presentino qui davanti alla costa e tentino di
sbarcare.»
Cioffi lo guardò interdetto: «Che si presentino qui gli ‘alleati’?» Fece una
pausa: «Beh, anzitutto tocchiamo ferro» eseguì, togliendosi di tasca una chia-
ve e conservandola a ogni buon conto in mano: «Poi chi di noi resterà vivo
dopo il fuoco di preparazione delle artiglierie navali, si difenderà nel modo che
potrà.»
«Sta bene» fece Manno, visto che non avrebbe potuto cavarne di più.
«D’accordo allora. Cercherò di preparare i miei a questo.»
«Bravo» disse l’altro, lieto di farla finita con le domande importune.
L’ultima cosa che si sarebbe aspettato era che il giovane chiamasse subito a
raccolta i suoi e, suddivisili in due squadre al comando di due graduati, desse
inizio a un vero e proprio addestramento anti sbarco. “Se non altro” pensava
Manno “in questo modo non li lascio ‘insabbiare’. Cos’altro potremmo fare del
resto? Stare tutto il giorno seduti davanti alle tende a grattarci la pancia?”
Fece eseguire fino all’ora del rancio prese di posizione, rientri alle tende,
nuove e meglio organizzate prese di posizione dietro a certe rocce situate dalla
parte del mare. Il pomeriggio fu impiegato per intero in lavori di scavo tra
quelle rocce, e di sistemazione delle difese così ottenute. Il giorno dopo - 8
settembre - in nuove prese di posizione, e nello scavo di una trincea a zig zag
presso le tende: questa, come l’esperienza insegnava a Manno, sarebbe stata
assai utile in caso d’un improvviso attacco aereo.
I suoi soldati - ridacchiando a momenti per le facce incredule degli ‘insab-
biati’ - eseguivano senza discutere; i migliori tra loro erano anzi segretamente
lieti d’essere comandati da un ufficiale che stava dimostrando d’avere iniziati-
va: intuivano che questo sarebbe stato molto importante in caso di necessità.
Solo alcuni mugugnavano di nascosto: guarda, erano capitati con un fanatico
che non ne aveva abbastanza della guerra fatta in Africa: era rientrato in Italia
su una barca apposta per rompere i c... a loro. «Ma perché quella barca non è
andata a fondo?» si dicevano l’un l’altro sottovoce: «Perché?»

***
La sera di quel giorno, 8 settembre, Manno - come già la sera precedente —
scese dopo il rancio a fare quattro passi in paese; non aveva molto da vedere
oltre al minareto del famoso muezzin con l’attigua piccola moschea, le misere
casupole degli albanesi e quelle, scrupolosamente intonacate di bianco ma
sempre poverissime, dei pochi abitanti greci. Concluse, come la sera prece-
dente, con l’imboccare la via litoranea, stavolta in direzione nord. Intanto ri-
fletteva sulla difficile situazione della patria, fantasticava di Colomba. Quando
fosse finita questa maledetta guerra, e loro due fossero sposati (certo lui dove-
va prima laurearsi... gli ci volevano anni!) sarebbero potuti tornare qui insie-
me: senza dubbio nell’isola di Corfù, che a non molta distanza emergeva così
bella dal piano turchino del mare, c’erano degli alberghi. Prima d’ogni cosa
però bisognava uscire dalla tragica situazione presente, non si poteva preven-
tivare niente, se non se ne usciva.
La litoranea s’inerpicava sempre più, un passo dopo l’altro il giovane finì
con l’allontanarsi parecchio dal paese; tutto immerso nelle sue fantasticherie
giunse sopra una piccola cala singolarmente solitaria, di cui una targa indica-
va il nome: Porto Limione. Dalla strada - in questo punto a picco sul mare - il
suo sguardo spaziava lontano sopra lo Jonio in direzione ovest, verso la patria;
c’era un fiero silenzio, sottolineato dal canto smorzato delle cicale, e un forte
odore di erbe aromatiche.
D’un tratto gli giunse lo scoppiettio d’un motore: immediatamente si rese
conto d’essere solo e armato della sola pistola: se si fosse trattato, Dio non vo-
glia, d’una macchina di partigiani? Cioffi gli aveva detto che non se n’erano
mai visti a Porto Edda, il giovane sapeva però - essendosi successivamente
meglio informato - che non ne distavano molto, e attaccavano spesso i presìdi
vicini, come quello di Delvino che in linea d’aria era a una quindicina di chi-
lometri verso l’interno.
Fortunatamente il mezzo in arrivo non era di partigiani, era una motociclet-
ta del regio esercito, con due militari a bordo. Giunta alla sua altezza fece alt:
il pilota, un sergente, sembrava molto eccitato, si alzò gli occhialoni sulla fron-
te: «Signor tenente» disse «la sapete qui a Porto Edda la gran notizia? Che c’è
l’armistizio?»
«Che c’è...? Cosa dici?»
«L’armistizio. L’Italia ha fatto l’armistizio con gli inglesi e gli americani.
Radio Roma non smette di ripeterlo: l’abbiamo sentita mezz’ora fa a Porto
Palermo. Giusto il tempo d’arrivare qui.» Il sergente si volse al suo compagno:
«Non è vero? Dì tu.»
«Sì, è vero» confermò l’altro, un caporale: «la guerra è finita, ordine di Ba-
doglio.»
«Beh, noi dobbiamo proseguire» disse il sergente; e senza dar tempo a
Manno di fargli domande, accennò un saluto e ripartì quasi a strappo.
CAPITOLO TERZO

Manno fece subito dietro front e tornò a gran passi verso il paese. Adesso
era eccitato a sua volta, al punto che per poco non si metteva a parlare da solo
per commentare il grande avvenimento. Avvertiva un’acuta necessità
d’ulteriori ragguagli, faceva e scartava congetture, a momenti se la prendeva
con i due della "moto: “Macachi. Almeno m’avessero detto tutto quello che
hanno sentito dalla radio, tutto il poco che sanno... Se i tedeschi per esempio
sono d’accordo (questo non è possibile!) Se...” Gli si prospettarono via via in-
terrogativi uno più preoccupante dell’altro: “Ce la farà la marina a sgombrare
l’armata dai Balcani? Se non altro le truppe che stanno vicino alla costa? Ci si
proverà almeno?” Egli ignorava che la marina aveva da qualche ora ricevuto
l’ordine di consegnarsi a Malta agli ‘alleati’, e che già le navi (le grandi navi
potentemente armate, che nei giorni a venire sarebbero state tanto necessarie
qui) erano tutte in rotta verso sud. E ancora: i tedeschi fino a qualche ora pri-
ma alleati - uomini in fin dei conti fatti di carne e d’ossa al pari degli altri -
come se la sarebbero cavata nei Balcani da soli, dopo la defezione degli italia-
ni? “In mezzo a questo pullulare di partigiani? Dopo tutto loro sono venuti qui
per causa nostra. Da sé, senza gli stupidi colpi di testa di Mussolini, non ci sa-
rebbero venuti.”
Arrivò in breve a Porto Edda, dove trovò che i soldati del comando presidio,
quelli dell’ospedale, e un certo numero di quelli della batteria contraerea face-
vano capannelli, si spostavano dall’uno all’altro per raccogliere informazioni,
ogni tanto gridavano in preda all’entusiasmo.
S’affrettò a raggiungere lo schieramento delle mitragliere; il tenente Cioffi
aveva spedito i suoi due sottotenenti al comando di presidio: «Là hanno la
radio. Voglio sapere se c’è qualcosa di vero in tutta questa storia.»
«Perché? Dubiti che si tratti d’una ‘balla’?» gli chiese Manno.
«Non lo so. Io non lo so. Può darsi che avessi ragione tu quando dicevi che
questi sono giorni, com’è che dicevi? risolutivi. Beh, staremo a vedere.»
«Sì» convenne Manno «staremo a vedere.»
I due sottotenenti tornarono di lì a forse mezz’ora, quello con la faccia da
intellettuale teneva un foglietto in mano; mentre camminava ne discuteva il
contenuto con l’altro. Giunto alla tenda ufficiali consegnò il foglietto al tenente
comandante, mentre i soldati presenti in batteria si assiepavano intorno festo-
si. «Abbiamo scritto, più o meno, le parole del proclama d’armistizio» disse il
sottotenente, «la radio non dà altre notizie. Ogni tanto ripete il proclama, e
per il resto trasmette musica.»
«Dunque c’è l’armistizio! L’armistizio!» esclamarono i soldati. «C’è davve-
ro. È arrivata la pace!» Alcuni cominciarono a gridare entusiasti: «A casa. Tut-
ti a casa. Evviva. È finita, è finita...»
Cioffi lesse attentamente il foglietto, poi ordinò silenzio: «Piantatela di far
bordello.» Rilesse per tutti ad alta voce il proclama; prima ch’egli terminasse i
soldati avevano ripreso ad acclamare, battevano le mani, si davano pacche
sulle spalle, spiccavano salti di gioia: «È finita, è veramente finita. A casa.
Torniamo tutti a casa!» L’ufficiale strinse le labbra perplesso, poi si girò ed
entrò con gli altri ufficiali nella tenda. «Voi cosa ne dite?» chiese guardando
interrogativo Manno.
«C’è quella frase» osservò costui: «che dobbiamo difenderci non più dagli
inglesi e dagli americani, ma da tutti gli altri se ci attaccano.»
«Stai pensando ai tedeschi, eh?»
«Sì, precisamente. Anche ai partigiani però. Quelli come minimo vorranno
le nostre armi.»
«E allora? Ai partigiani gliele possiamo ben dare, almeno serviranno a
qualcosa» esclamò aggressivo l’intellettuale. «Ai tedeschi no, mai. Mai» ripe-
te.
Manno lo guardò in faccia: «Quando avrai consegnato le armi ai partigiani,
e non le avrai più» disse con durezza «come la metterai coi tedeschi? O a quel-
li conti di dargli il sedere?»
«Ma...» gli s’aggiunse, molto sorpreso, il sottotenente pacioccone: «Tu fino
a poco fa non eri... Non sei sempre stato fascista? Cosa stai dicendo adesso?»
L’intellettuale non rispose. Ci fu qualche istante di silenzio.
Cioffi alzò gli occhi al cielo: «Chissà che bordello nei prossimi giorni» bia-
scicò.
«È probabile che dall’interno molti battaglioni si riversino qui sulla costa»
avanzò Manno, lasciando perdere l’intellettuale.
«Sì» convenne il pacioccone: «questo ce lo dobbiamo aspettare.»
«Noi però qui ci siamo già» esclamò Cioffi, quasi volesse fissare un diritto
di precedenza. «Da due anni siamo qui, e appena arriva una nave tocca a noi
imbarcarci.»
I suoi sottotenenti, intellettuale compreso, a questa frase assentirono con
fervore; sembravano tuttavia non nascondersi le difficoltà.
«Fammi leggere ancora il proclama» disse Manno, «lasciamelo esaminare
bene.»
II comandante gli tese il foglietto; l’avrebbero riletto tutt’e quattro parec-
chie volte nei giorni seguenti, sempre alla ricerca d’una illuminazione, d’una
più precisa direttiva, che non c’era.
Fuori i soldati seguitavano ad acclamare. Anche quelli che, nel loro intimo,
cominciavano ad avvertire le stesse preoccupazioni degli ufficiali. Non inten-
devano però rinunciare alla presente festa; e del resto, nella vita, una cosa per
volta.

CAPITOLO QUARTO

Il temuto bordello non si verificò immediatamente. Gli ci volle, per verifi-


carsi, più tempo di quanto gli uomini coinvolti s’attendessero.
Il giorno dopo e i successivi arrivarono dall’interno soltanto piccoli reparti e
qualche branco di soldati sbandati (anche questi in genere con le loro armi,
tranne pochi che n’erano stati privati dai partigiani), e andarono ad accam-
parsi sulla banchina del porto, in attesa delle navi.
Nove, dieci, undici settembre: di navi dall’Italia però neppure l’ombra.
Vennero invece dalla vicina Corfù alcuni motovelieri addetti al servizio loca-
le, che caricarono e trasferirono sull’isola (considerata più sicura appunto per-
ché isola, e perché difesa da un reggimento organico di fanteria) quei piccoli
reparti e gli sbandati in genere, nonché una parte dello stesso presidio di Por-
to Edda. I motovelieri sarebbero tornati a prendersi gli sbandati anche nei
giorni successivi.
Dodici, tredici settembre. Altra truppa giungeva dall’interno. A mezzogior-
no del tredici passarono sulla strada litoranea un’autoblindo e due autocarri
tedeschi in direzione di Valona: i soldati della batteria accorsero alle mitra-
gliere e li stettero a guardare a distanza, molto tesi: i tedeschi guardarono allo
stesso modo gli italiani, e andarono oltre senza fermarsi.
Quattordici, quindici, sedici settembre; vennero di nuovo i motovelieri, che
trasferirono a Corfù anche la truppa organica nel frattempo affluita
dall’interno e dalle più vicine postazioni costiere.
Intanto giungevano sempre nuovi soldati, adesso in prevalenza alla spiccio-
lata.
Due fanti capitati per caso allo schieramento contraereo, riferirono che il
più prossimo battaglione di fanteria, di stanza a Delvino, si era messo in mar-
cia qualche giorno prima, ma anziché dirigersi verso la costa, aveva presa la
strada di Argirocastro, dov’era il resto del reggimento.
«E voi come mai non l’avete seguito?» chiese Manno ai due.
«Noi abbiamo perso il contatto. Era notte.»
«Non venivano qui al mare, andavano dalla parte opposta, capite?» precisò
meglio uno.
«Ah, ecco, adesso capisco.»
«Il battaglione lo comanda il tenente colonnello Cirino, un duro che non
scherza.»
«Altro che! Ha fatto portare via sulle spalle tutte quante le, armi e le muni-
zioni, erano carichi peggio di bestie, perché non c’è abbastanza benzina.»
«E voi come mai non avete seguito gli altri?» tornò a chiedere Manno.
«Noi? Ma... signor tenente, noi ci siamo perduti. Era notte vi dico.»
«Eravamo rimasti un poco indietro e abbiamo trovata la strada tagliata dai
partigiani.»
«Sì, tagliata dai partigiani.»
«E non vi hanno preso?»
«Non siamo così fessi da farci prendere, noi.»
«Però, signor tenente, v’assicuro che non è stata una festa: abbiamo impie-
gato cinque giorni per arrivare qui, camminando solo di notte e sempre col
cuore in gola.»
Se la svignarono appena poterono per andare a confondersi con gli altri
sbandati giù al porto.
Diciassette, diciotto, diciannove settembre. Adesso ogni giorno passava su
Porto Edda un aereo ricognitore tedesco, che evidentemente teneva sotto con-
trollo la costa.
«Guardalo: il bersaglio per i tuoi schizzetti adesso ce l’avresti, eh?» diceva
Manno a Cioffi. Quello allargava le braccia: il proclama d’armistizio prescrive-
va di sparare solo se aggrediti. Cioffi ad ogni modo si era visibilmente sveltito;
a imitazione di Manno aveva fatto fare ai suoi diverse prese di posizione con le
mitragliere, sia a cavallo della strada costiera, sia con piazzamento antisbarco,
verso il mare.
Il diciannove capitò alle postazioni contraeree un branchetto di dieci uomi-
ni, i quali annunciarono d’essere portatori di gravi notizie; furono perciò ac-
compagnati alla tenda ufficiali.
«Veniamo da Argirocastro.»
«Eravamo prigionieri dei comunisti: ci hanno liberati apposta perché venis-
simo qui a riferire.»
«Ad Argirocastro c’è stata una battaglia. È successo il giorno quattordici»
spiegò il più elevato in grado, un sergente con la faccia piena di ecchimosi:
«Sulle montagne che circondano il campo italiano s’era raccolto un fottio di
partigiani, almeno trentamila, divisi in due gruppi opposti: ballisti da una par-
te e comunisti dall’altra. Ogni tanto si sparavano tra loro. E mandavano di
continuo, sia gli uni che gli altri, delegazioni a chiedere la consegna delle no-
stre armi; volevano soprattutto i cannoni perché sanno benissimo che noi non
abbiamo benzina. Beh, il quattordici tutt’a un tratto i ballisti sono scesi in
massa dalla loro montagna e si son fatti sotto, completamente allo scoperto: i
nostri da principio gli gridavano di tornare indietro, poi quando sono arrivati
a pochi metri hanno aperto il fuoco, è stato un macello, ne hanno ammazzati
un’infinità. Io il giorno prima ero stato preso dai comunisti, fino allora non
avevano fatto che darmi pugni e calci, ma in quel momento ci hanno portato
in gran fretta, noi prigionieri, a vedere la battaglia, o meglio il resto della bat-
taglia, da una specie d’osservatorio molto vicino: abbiamo visto tutti i morti e i
feriti per terra, e i nostri venire avanti e snidare i partigiani ballisti che s’erano
nascosti nel fossato del Drinos, facendoli fuori a bombe a mano. Poi i comuni-
sti ci hanno lasciati liberi tutt’e dieci perché venissimo qui a darvi la notizia.
Loro sono felici come pasque per la distruzione dei ballisti: ‘Andate dai vostri
giù alla costa’ ci hanno detto e ripetuto ‘e raccontategli cos’è successo: non
occorre altro. Spiegategli che i vostri i ballisti li hanno ammazzati, e le armi
non gliele hanno consegnate. Ditegli che ai ballisti le armi non le deve conse-
gnare nessun italiano’; questo hanno insistito a ripeterci.»
Manno, dopo avere ascoltato con Cioffi e gli altri ufficiali quella relazione,
accompagnò molto preoccupato i dieci al comando territoriale. Che razza di
situazione, pensava: oltre tutto non soltanto i militari erano nelle peste; cosa
ne sarebbe stato dei civili, divisi e inferociti gli uni contro gli altri a quel mo-
do? Mentre camminava, faceva ai soldati - che erano la più parte ridotti per le
lividure, gli abiti a brandelli, e la fame, in uno stato da far pietà - domande su
domande; ma i dieci ignoravano del tutto i successivi sviluppi della situazione
ad Argirocastro.
Dove era accaduto questo: il giorno dopo la battaglia, cioè il 15 settembre, i
partigiani comunisti avevano mandata una loro delegazione, proponendo che
gli italiani consegnassero il settantacinque per cento delle armi pesanti: «Vi
chiediamo solamente quelle che, per mancanza di benzina, non potreste co-
munque portar via, in particolare i cannoni. Dopo di che, se volete, vi scorte-
remo noi stessi fino al mare.»
Comandante degli italiani in Argirocastro era un generale: parlamentò, fece
domande, poi si tirò in disparte a considerare la difficile situazione dei suoi.
Avevano ormai contro i tedeschi, contro, e fino alla morte, i partigiani ballisti,
solo questi altri partigiani, i comunisti, offrivano una sorta di tregua, che
avrebbe forse consentito d’arrivare al mare senza combattimenti tra quelle
montagne terribilmente impervie... Dopo aver riflettuto per ore, il generale
finì con l’accettare la proposta dei comunisti. I cui parlamentari lasciarono il
campo raggianti.
Non appena però i comandanti di battaglione furono informati dell’accordo,
lo respinsero con energia, e inviarono subito ai comunisti un messaggio per
avvertirli che era annullato. Al generale fecero presente - con fermezza, specie
il tenente colonnello Cirino - che disponendo dei cannoni quelli avrebbero po-
tuto bloccare loro la via al mare e ogni altra via: non bisognava mettersi a quel
modo nelle loro mani, né nelle mani di chiunque altro. Il generale dapprima
controargomentò, infine riconobbe che i suoi comandanti di battaglione ave-
vano ragione.
I soldati presenti nel campo - tra fanti e artiglieri circa diecimila uomini - i
quali dal giorno dell’armistizio (una settimana ormai) erano in attesa di met-
tersi in marcia verso la costa, ebbero sentore sia dell’accordo, sia del suo an-
nullamento, e chiesero di saperne di più; resisi conto che ormai a decidere non
era uno solo, decisero per parte loro d’incolonnarsi subito, e lo fecero
tutt’insieme senza aspettare ordini, predisponendosi a marciare verso Porto
Edda.
L’abbandono di Argirocastro avrebbe comportato la perdita di parecchie
armi e di tonnellate di munizioni; in pratica una riduzione sensibile delle pos-
sibilità di fuoco. I comandanti, essendo in contatto radio col comando italiano
di Brindisi, avrebbero perciò preferito non muoversi finché non ci fossero sta-
te sulla costa navi pronte a caricare la truppa. Davanti tuttavia al pericolo d’un
caos totale risolsero di partire non appena sceso il buio: in seguito a tale deci-
sione i soldati tornarono a sottomettersi alla disciplina, sciolsero le colonne
che s’andavano formando e ripresero i posti di combattimento.
Avvertita Brindisi della decisione di mettersi in marcia, i comandanti ordi-
narono la distruzione delle apparecchiature radio, delle armi e munizioni in-
trasportabili, in breve di tutto ciò che non si poteva portar via, che venne dato
alle fiamme. Poi il comando coi battaglioni di fanteria e un gruppo d’artiglieria
al completo, nonché i servizi e tutti gli sbandati affluiti in precedenza al cam-
po, s’incolonnarono di nuovo e lasciarono in buon ordine il luogo. Erano le tre
di notte; sulle montagne ai fianchi della colonna venivano via via inviati - ri-
spettando le norme di sicurezza - reparti di fucilieri e mitraglieri a occupare
per tempo i punti strategici.
I partigiani comunisti (comandati probabilmente da Enver Hoxha, il futuro
spietato dittatore dell’Albania, nativo appunto di Argirocastro) non osarono
attaccare quella formazione agguerrita; si limitarono a seguirla in massa e a
disturbarla con scaramucce mentre, per mantenere le misure di sicurezza, es-
sa procedeva a sbalzi successivi. Il terzo giorno i comunisti inviarono addirit-
tura alla colonna un carico di viveri - si trattava di pane - facendo presente
che, alla fine, le armi dovevano essere consegnate a loro e non ai partigiani
loro avversari.
Il 21 settembre sulla colonna in sosta a Delvino (la località in precedenza
presidiata dal battaglione del tenente colonnello Cirino, quanti ricordi!) vola-
rono bassissimi due aerei italiani inviati da Brindisi, e lanciarono un messag-
gio con l’avvertimento che due navi da trasporto (affatto insufficienti, ma non
s’era potuto metterne insieme di più) erano in viaggio da Brindisi per Porto
Edda.
Il pomeriggio del giorno dopo Manno e gli altri di stanza a Porto Edda assi-
stettero all’arrivo della colonna.
I battaglioni si schierarono subito a ferro di cavallo intorno al paese, il
gruppo d’artiglieria - comandato dal maggiore Costadura - prese posizione nel
mezzo sopra alcune alture, piazzandosi in modo da poter aprire il fuoco sia
verso l’interno, contro i partigiani, che sulla via litoranea e sul mare, in caso
d’attacchi tedeschi. Non lontano dall’oliveto dov’era la contraerea cominciò a
scavare le trincee il battaglione di Cirino.

CAPITOLO QUINTO

Senza por tempo di mezzo Manno s’andò a presentare a questo comandan-


te. Lo trovò indaffarato a organizzare la linea; dovette attendere quasi
mezz’ora prima di potergli parlare. Finalmente Cirino lo ricevette: stava in
piedi su un sentiero, aveva - il tenente notò -un viso non più giovane ma riso-
luto, sporco di polvere e sudore. “Ecco uno che non s’è lasciato insabbiare, che
non s’insabbierà mai” avvertì subito.
«Chi sei? Cosa vuoi?» gli chiese sbrigativo il tenente colonnello.
Manno si mise sull’attenti e spiegò la propria situazione: era giunto pochi
giorni prima dell’armistizio dall’Italia con venti artiglieri, e si trovava provvi-
soriamente in forza per i viveri - ma solo per i viveri, precisò - al comando ter-
ritoriale di Porto Edda. I suoi uomini erano disciplinati, egli li aveva bene alla
mano: «Se volete, possiamo costituire un plotone di più ai vostri ordini» disse.
«Vorremmo comunque servire a qualche cosa, non essere semplicemente un
peso per quelli che si danno da fare.»
Invece di rispondergli Cirino s’informò sulla situazione esistente a Porto
Edda e sulle forze efficienti in luogo, mostrandosi sorpreso dalla loro esiguità;
chiese anche quanti fossero i malati degenti all’ospedale, quanti gli sbandati
affluiti dall’interno (erano già di nuovo parecchie centinaia). Rifletté alquanto,
infine soppesò Manno. «Lascia i tuoi artiglieri dove sono, visto che là se non
altro hanno da mangiare; in seguito vedremo. Tu invece, se credi, puoi trasfe-
rirti qui presso di me: potresti essermi utile come elemento di collegamento
tra il battaglione e il presidio locale. E, tanto per cominciare, va subito ad av-
vertire il comandante di presidio che insieme con noi è arrivato un generale:
digli che, se non l’ha già fatto, si presenti immediatamente a lui, e gli faccia la
relazione di come stanno le cose qui a Porto Edda. Ci sarebbe utile esserne
messi al corrente prima che ci riuniamo a rapporto. Va.» Si voltò e tornò a oc-
cuparsi del suo schieramento.

Manno eseguì l’ordine e gli ci volle un certo tempo; avvertì anche Cioffi, cui
ora dispiaceva separarsi da lui; quindi tornò in fretta da Cirino. «Con me al
rapporto ci vieni tu» gli disse spiccio costui. «Mi farai tu da aiutante. Perché
durante la mia assenza è bene che il mio aiutante maggiore rimanga qui.»
Il tenente lo seguì di buon grado in paese, dove ebbe nuovamente modo di
notare che al seguito della colonna erano arrivati anche parecchi sbandati e
molta gente dei servizi, non utilizzabile per una difesa.
Il rapporto degli ufficiali superiori era da poco iniziato nella casa del co-
mando territoriale, quando lontano sul mare apparvero due navi: Manno e gli
altri aiutanti, riuniti nel vestibolo, ne furono avvertiti dalle grida di giubilo che
si alzavano in tutto il paese: «Le navi! Le navi! Arrivano le navi!» Temettero
da principio che si trattasse di navi tedesche, ma dal locale dov’era in corso il
rapporto uscì un comandante di battaglione che si rivolse al proprio aiutante
maggiore: «Per favore fa una scappata al porto e assicurati che ci sia la ban-
diera issata.» Quelle navi erano dunque attese.
Stava per imbrunire. Gli sbandati e molti uomini dei servizi si erano messi a
correre da ogni parte verso la banchina del porto. Udendone lo scalpitio Man-
no uscì all’aperto per osservarli: vestivano nelle fogge più disparate, parecchi
erano laceri, avevano la barba lunga, erano sporchi, senza più bagaglio. Molti
vociavano eccitati, ma altri, al contrario, camminavano lungo le straducole col
volto torvo e chiuso, e gli occhi stranamente fissi; il giovane si rese conto che
nessuna forza al mondo avrebbe potuto trattenerli: per salire sulle navi erano
pronti anche al delitto, di più, sarebbero passati addirittura sul corpo dei loro
cari, di quegli stessi famigliari che intendevano a ogni costo raggiungere. Mai,
neppure in Africa, egli era stato testimone d’uno stato d’animo simile. “È un
invasamento, una specie di pazzia collettiva...” si diceva. Notò tra gli sbandati
anche il sottotenente della batteria contraerea con la faccia da intellettuale, e
alcuni artiglieri, finse di non vederli.
Di lì a poco un altro degli ufficiali presenti nel vestibolo, un capitano col
monocolo all’occhio, fu inviato al porto con l’incarico di accompagnare qui gli
ufficiali delle navi non appena queste avessero attraccato. Tornò dopo un’ora
circa seguito da due ufficiali di marina, e da uno sconosciuto sottotenente di
fanteria in maniche di camicia, i quali furono subito fatti entrare nel locale del
rapporto.
Appena chiusa la porta alle loro spalle, gli altri aiutanti circondarono il ca-
pitano col monocolo, che appariva preoccupato. «Le cose vanno male» riferì
costui. «I tedeschi sono padroni di Scutari, di Valona e di tutti gli altri porti
albanesi, tranne Porto Palermo, il porticciolo che sta qui vicino a noi. In nes-
suna parte dei Balcani sembra che i nostri stiano facendo una vera difesa,
tranne a Cefalonia, dove hanno combattuto sul serio, ma...» e tentennò la te-
sta.
«Nell’isola di Cefalonia? Cos’è successo? Ci è andata male?» chiese uno dei
presenti.
Il capitano si guardò attorno per assicurarsi che non ci fossero nel vestibolo
soldati che potessero diffondere la notizia fuori. «Sì, molto male» disse asse-
standosi nervosamente il monocolo: «un vero disastro, un... macello.»
«Ma... Cos’è successo?»
«A Cefalonia sapete che c’è la divisione Acqui. Hanno disarmato parte dei
tedeschi che stavano sull’isola, ma poi non sono riusciti a impedire che altri
tedeschi sbarcassero. N’è venuta fuori una battaglia campale che è durata sette
giorni: è finita ieri.»
«Sette giorni di battaglia?»
«Sì. In qualche settore, come ad Argostoli, ch’è il capoluogo dell’isola, i no-
stri l’avevano spuntata catturando tra l’altro più di cinquecento tedeschi. Ma
non è servito a niente, perché alla fine hanno vinto loro.»
Il capitano contrasse un poco l’occhio protetto dal monocolo, abbassò la vo-
ce: «E hanno fucilato tutti senza eccezione gli ufficiali italiani. Tutti gli ufficiali
della divisione Acqui hanno fucilato, e migliaia, dico migliaia, di soldati, quelli
dei settori dove la battaglia è stata più accanita. Probabilmente ne stanno fuci-
lando ancora adesso, mentre noi siamo qui a parlarne.»
«Come fanno quelli della marina» chiese Manno «a sapere tutte queste co-
se?»
«Le sanno: primo, perché, il comando di Brindisi è stato sempre in colle-
gamento radio con la Acqui, anzi - anche se può sembrare strano - lo era anco-
ra ieri sera a battaglia finita, quando queste due navi sono uscite dal porto. E,
secondo, perché le navi hanno incontrato in alto mare un motoscafo tedesco
in mano ai nostri, proveniente da Cefalonia. Avete visto il sottotenente di fan-
teria arrivato qui con me? Quello che adesso sta dentro a rapporto? Beh, quel
motoscafo lo conduceva lui con alcuni uomini del suo plotone: se ne sono im-
padroniti stamattina con un colpo di mano, senza sparare, usando le baionette
come pugnali - un’impresa da disperati - e hanno lasciato Cefalonia senza che
i tedeschi se ne accorgessero. Avevano con loro cinque prigionieri legati come
salami, che adesso sono nella stiva d’una delle navi giù al porto, tra i quali c’è
un tenente austriaco che ha confermato ogni cosa delle fucilazioni; ha detto
che questo è l’ordine di Hitler, e che lui lo trova giusto.»
«Allora» disse uno «adesso quel porco troverà giusto che noi fuciliamo lui.»
«Noi fucilare? E quando mai?» ribatté un altro: «Figurati.»
«Beh» disse il capitano «intanto questo è l’ordine che i tedeschi hanno.»
«Di fucilare tutti gli ufficiali?»
Il capitano annuì: «Tutti senza eccezione gli ufficiali dei reparti che fanno
resistenza, e anche i soldati: ma per questi pare che ogni comandante tedesco
decida a capocchia.»
Seguì uno sgradevole silenzio.
«È una bella prospettiva» commentò infine uno.
«E tutti quegli idioti! Dicevano che per noi la guerra è finita.» Una lanterna
posta sul tavolo illuminava quella piccola accolta di uomini che in vario modo
già tanto avevano dato e sofferto, e ora si trovavano improvvisamente precipi-
tati in questa nuova, minacciosa congiuntura.
«Beh, io v’ho riferito tutto quello che so» concluse il capitano dal monocolo.
L’unica altra notizia di rilievo che i presenti poterono cavare da lui fu che
l’isola di Corfù - là nel mare davanti a Porto Edda - era tuttora in mani italia-
ne. A detta degli ufficiali di marina anzi, proprio la sua radio aveva costante-
mente fatto da ponte tra Cefalonia e Brindisi.

Di lì a un’ora circa il rapporto ebbe termine. Uscirono dal locale gli ufficiali
di marina e il temerario sottotenente di fanteria, e s’avviarono verso il porto.
Uscirono gli ufficiali superiori che, con i rispettivi aiutanti al seguito,
s’incamminarono in fretta ciascuno verso il proprio battaglione. Siccome il
tenente colonnello Cirino tardava invece a uscire, Manno s’affacciò al locale
del rapporto. Intravide il generale, seduto al tavolo: aveva un aspetto sedenta-
rio e bonaccione, in quel momento molto angustiato; davanti a lui stavano
Cirino e un maggiore d’artiglieria dall’aria energica: con tutta probabilità -
pensò il giovane - il maggiore Costadura, comandante del gruppo schierato
sulle alture sopra il paese.
«Giusto tu» gli disse Cirino scorgendolo, e venne verso di lui, quindi uscì
con lui nel vestibolo: «Va dal comandante la batteria contraerea. Questi sono
gli ordini per lui: che trasferisca addirittura le sue mitragliere, col relativo per-
sonale e tutte le munizioni disponibili, sui due piroscafi: quattro su un piro-
scafo e quattro sull’altro. Le deve - senza attendere altri ordini - piazzare in
coperta, a rinforzo di quel po’ di contraerea che c’è già sulle navi: mi sono
spiegato?»
«Signorsì.»
«Quanto alle munizioni per i moschetti che ha in batteria, e se ha qual-
cos’altro di utile per i battaglioni che rimangono qui - ma soprattutto le muni-
zioni da moschetto - digli che le porti giù alla banchina, accanto alle munizioni
che in questo momento si stanno scaricando dalle navi. Tutto chiaro?»
«Signorsì.»
«Bene, non c’è altro. Esegui per favore.»
Manno ebbe un attimo d’esitazione: «Signor colonnello...»
«Cosa c’è?» gli chiese Cirino. «Ah, i tuoi quattro gatti. Seguono la batteria
contraerea naturalmente. Come pure la segui tu. Ti lascio libero fin da questo
momento: si è deciso che quanti erano qui a Porto Edda al nostro arrivo, si
imbarchino. Ringraziate la vostra buona stella.» Fece per voltarsi.
«Signor colonnello» ripeté Manno.
«Beh, cos’altro vuoi?»
«Vado di corsa a trasmettere gli ordini, e curerò che vengano eseguiti. Io
però resto con voi: m’avete nominato vostro aiutante, e non intendo...» voleva
aggiungere altro, precisare meglio il suo pensiero, ma gli sembrava di portar
via troppo tempo.
«Hai saputo di Cefalonia?» gli chiese Cirino.
«Signorsì.»
«E ciononostante... Però!» Fece una pausa e sorrise: «Bene. Se davvero
vuoi stare con me, a maggior ragione devi prepararti a partire: vengo anch’io a
Brindisi.»
«Voi scherzate» non seppe trattenersi dal mormorare Manno.
Il tenente colonnello si mise a ridere. «Non scherzo, no, vedrai. Vengo a
Brindisi per... Beh, questi non sono affari tuoi. Va, esegui, e poi aspettami di-
ciamo... sul più grande dei due piroscafi.» Si voltò, il colloquio era finito.

CAPITOLO SESTO

Molto perplesso Manno uscì dal comando territoriale (intorno non si vede-
va un solo civile: stavano tutti rinserrati nelle loro casupole, in chissà quale
stato d’animo) e raggiunse in fretta le postazioni contraeree. Qui Cioffi con la
maggior parte dei soldati e il sottotenente pacioccone erano sulle spine in at-
tesa d’istruzioni; s’aspettavano che le portasse il sottotenente con la faccia da
intellettuale, recatosi in paese diverse ore prima.
Manno trasmise gli ordini di Cirino in presenza dei soldati, che si misero a
urlare di gioia. Li completò poi di propria iniziativa, secondo aveva risolto tra
sé: «Ho l’incarico di effettuare personalmente giù al porto la consegna delle
munizioni, dei moschetti, e di tutto quanto il materiale della batteria, eccet-
tuati i pezzi e le munizioni per i pezzi. Se una qualsiasi cosa mancherà, il re-
sponsabile di quella qualsiasi cosa rimane qui e non parte. Vi avverto che non
scherzo.»
I soldati ammutolirono. Nel buio rischiarato dalle prime stelle e dai deboli
riflessi di qualche lanterna appesa nelle tende, ascoltavano attenti.
«È dunque nel vostro interesse smontare le tende, il magazzino, la cucina,
insomma ogni cosa, e portare tutto - con quanti viaggi sarà necessario - giù al
porto. Non solo, ma al momento del carico delle mitragliere sulle navi, ciascu-
na dev’essere in grado di funzionare perfettamente, quindi coi suoi serventi al
completo. Se no rimane a terra il capo pezzo.»
Alcuni dei capi pezzo si misero a vociferare: «Quella testa di c... di Mancini
è scappato.» «Anche quel maiale di Liberatore non è tornato dalla corvè
dell’acqua. In questo cosa c’entriamo noi?» «Bene» urlò Manno, con impeto
tale che tutti fecero di colpo silenzio: «non possono essere andati lontano.
Adesso il signor tenente Cioffi vi darà gli ordini per trasferire ordinatamente
ogni cosa al porto. Dove ci sarò io a riceverla. Prima di salire coi pezzi sulle
navi cercherete i vostri sbandati, ogni squadra i suoi, gli darete i calci nel sede-
re che si meritano, anche per il lavoro che adesso siete costretti a fare al loro
posto, e poi ve li porterete dietro inquadrati. Si capisce che, non appena in Ita-
lia, verranno denunciati per diserzione.» Ciò detto lasciò la parola a Cioffi.
«Adunata per squadra, subito» ordinò costui, di malumore per l’evidente
scavalcamento, ma insieme con una certa risolutezza. «Facciamo anzitutto il
controllo di chi manca.»
Risultò mancare una ventina d’uomini su poco più di cento; anche del
gruppo giunto dall’Italia con Manno qualcuno mancava; era inoltre sempre
assente il sottotenente con la faccia da intellettuale.
I soldati si misero con impegno a smontare le tende, mentre alcuni davano
subito inizio al trasporto dei materiali al porto, impresa che si rivelò faticosa
soprattutto a causa del buio, e che richiese alcune ore. Noi non ci soffermere-
mo a descriverla. Ci basterà dire che mentr’era in corso non pochi sbandati
ripresero spontaneamente contatto con le loro squadre, rientrando nei ranghi
alla chetichella. Anzi nei ranghi s’infilarono perfino sbandati sconosciuti, i
quali se ne andarono solo dopo essersi resi conto che nel porto alcuni ufficiali
stavano, con l’aiuto dei carabinieri, organizzando la totalità degli sbandati in
compagnie di formazione per un imbarco ordinato.

Caricati i degenti dell’ospedale, gli artiglieri contraerei coi loro pezzi, la


massa degli sbandati, tutti gli altri uomini presenti a Porto Edda prima
dell’arrivo della grande colonna, nonché pochi altri reparti minori, i due piro-
scafi - gremiti d’uomini in modo inverosimile - levarono le ancore; mancava
poco all’alba.

CAPITOLO SETTIMO

Dopo essersi assicurato che Cirino fosse a bordo, Manno s’era imbarcato sul
piroscafo più grande. Non appena la nave fu fuori del porto egli si mise - pro-
cedendo con difficoltà nella calca - alla ricerca del tenente colonnello. La nave
avanzava via via sempre più veloce sul mare buio, il suo motore pulsava pro-
mettente facendo fremere ogni struttura: improvvisamente, all’idea d’essere in
viaggio verso la propria casa e verso Colomba, il giovane si sentì invadere da
un enorme senso di liberazione, una gioia incontenibile lo prese, travolgendo
ogni ragionamento in contrario. Il ricordo anzi di quelli rimasti a terra, dei
battaglioni schierati nel buio della notte intorno a Porto Edda, gli suscitò den-
tro una sorta di fastidio, quasi di ribellione: come se quegli uomini pazienti
che, anziché sbandarsi, facevano di necessità virtù, adesso rappresentassero
per lui un ostacolo, un odioso inciampo al piede. Interruppe la ricerca del co-
lonnello e si affacciò a una murata: in basso l’acqua scorreva nerissima, a ma-
lapena visibile, lungo il fianco della nave. “Cosa c’entro io con quelli là?” prese
ad argomentare: “I miei guai, e grossi, io li ho già passati in Africa. Qui son
capitato all’ultimo momento per caso. Con questi qui io non ho niente da spar-
tire...” Gli attraversò la mente quella frase di suo cugino Ambrogio: «Cerca,
una volta in Grecia, di non fare il bulo: ti conosco io.» Quanto aveva ragione
Ambrogio! Ecco, con la sua mania di dare - non richiesto - una mano a Cirino,
lui stava precisamente facendo il bulo. Beh, per fortuna non c’era niente di
pregiudicato: se adesso non si fosse presentato al tenente colonnello, quello
non l’avrebbe cercato di sicuro, e in conclusione di tutta questa storia nessuno
avrebbe saputo niente, e meno degli altri ne avrebbero saputo qualcosa i fanti
schierati là nel buio intorno a Porto Edda. Fu quest’ultima considerazione a
farlo un po’ alla volta rinsavire: anche quelli là, che non gli chiedevano niente,
e dai quali egli voleva ora separare la propria sorte, avevano uno per uno le
loro famiglie, chissà quanti avevano una loro Colomba alla quale desideravano
con tutta l’anima di tornare... Si riscosse: “Che razza d’ufficiale sarei se...”
Chiuse gli occhi e com’era suo sistema nei momenti critici si mise a pregare.
Finì col prospettargli l’immagine del Signore Gesù nell’orto degli ulivi: anche
il Signore aveva desiderato d’allontanare da sé l’amaro calice. Questo ricordo
gli diede conforto: dunque, dopo tutto, lui non era un rettile se per qualche
minuto aveva ceduto alla tentazione... L’importante era non lasciarsi vincere.
Trovò Cirino che si stava apparecchiando, con un materasso fattogli portare
dal comandante della nave, un giaciglio in un angolo della plancia di coman-
do. Si mise sull’attenti: «Ho eseguito al meglio l’ordine ricevuto» gli comuni-
cò.
«Sì» fece Cirino «ho visto i pezzi contraerei piazzati in coperta.»
«Avete altri ordini?»
«Che tu dorma quanto più ti riesce. A Brindisi avremo il nostro da fare.»
«Cercherò di dormire» disse sorridendo il giovane, lieto ma in pari tempo
di nuovo angustiato, per un ultimo colpo di coda della sua tentazione, che
l’altro non lo congedasse definitivamente.
«Venga con me, tenente» l’invitò con simpatia il comandante della nave
(essendo di marina - notò Manno - usava, nonostante le prescrizioni, il lei an-
ziché il voi): «un posto per dormire glielo trovo io.»
Glielo trovò infatti e gli fece anche portare una coperta. Sdraiatosi nello
stambugio che gli era stato indicato, Manno si fece il segno della croce e
s’addormentò quasi immediatamente, determinato ormai a compiere quello
che la coscienza gli prospettava come suo ‘marcio dovere’.

***
Dormì sodo e a lungo. Quando si destò la cosa che più lo disturbava era la
sete. Il motore della nave continuava a pulsare profondo e promettente facen-
do fremere ogni struttura metallica; il giovane si ravviò in qualche modo i ca-
pelli con le mani, poi scese in coperta, dove apprese che era quasi mezzogior-
no e Brindisi distava soltanto un paio d’ore. Lontano era vagamente visibile la
costa pugliese, i soldati la scrutavano aguzzando la vista, indicandosela ogni
tanto. Gli artiglieri della contraerea, muniti d’elmetto e raggruppati intorno ai
loro pezzi, lo salutarono con gratitudine quasi fosse dipeso anche da lui, dalla
sua energia, questo loro felice rimpatrio.
C’era anche il comandante Cioffi, pure con tanto d’elmetto in testa, il quale
gli strinse allegramente la mano: «Dove sei stato fino a questo momento?»
«A dormire. Mi sveglio soltanto adesso.»
«Lo si vede dalla faccia.»
«Appena sbarchiamo dovrò fare da tirapiedi a Cirino in giro per i comandi
di Brindisi.»
«Ah.»
«Io non ho pezzi contraerei, per cui mi rendo utile come posso.»
Cioffi sorrise, il suo malumore della sera precedente era del tutto scompar-
so. «È stata la marina, lo sai? a chiedere il nostro schieramento sul ponte delle
navi. Contro eventuali attacchi degli Stukas tedeschi.»
Manno annuì interessato.
«I tuoi venti sono giù nella stiva» continuò l’altro «pigiati come sardine ma
felici come pasque. Sono sceso poco fa a dargli un’occhiata.»
«Stanotte io li ho trascurati del tutto» disse Manno.
«Beh, ci siamo qui noi, no?»
«Anche a Brindisi temo proprio che dovrai pensare tu al loro rancio.»
«E ci penserò, no? Vi ho fatto mai mancare il ‘sostentamento’?» Cioffi era
lieto di riuscire utile. Staccò dal sedile della più vicina mitragliera una borrac-
cia dal feltro madido, su cui Manno aveva fermato più volte gli occhi; gliela
porse: «Avrai sete, immagino.»
«Sì, certo. Molta.»
Manno bevve alcuni lunghissimi sorsi, l’acqua era buona e abbastanza fre-
sca, e non sapeva di nafta.
«Beh, adesso sarà meglio che scenda dai miei» disse restituendo la borrac-
cia. Diede un’ultima occhiata intorno: fin dove giungeva la vista il mare si
stendeva pacifico, indolente. L’altro piroscafo seguiva a non molta distanza;
Manno notò che più in là c’erano alcuni puntini: tre o quattro altre navi. «So-
no inglesi» gli spiegò Cioffi: «stanotte ne abbiamo incontrate parecchie.»
Con soddisfazione di tutti il tragico mondo balcanico era rimasto indietro;
ai civili - uomini, donne, bambini - e all’atroce situazione in cui li aveva ridotti
la velleitaria occupazione italiana, non pensava nessuno.

CAPITOLO OTTAVO

Il porto di Brindisi risultava molto diverso da come Manno l’aveva lasciato


quindici giorni prima: sormontato adesso da argentei palloni frenati, era assai
più affollato di navi e senza confronto più brulicante d’autocarri sulle banchi-
ne; dovunque, inoltre, si scorgevano cataste di materiali di un colore cachi
chiaro che Manno conosceva bene per averlo più volte visto in Africa: il colore
degli ‘alleati’.
Il tenente sbarcò tra i primi insieme con Cirino; in quel momento si rese
conto che questi aveva al seguito anche un altro aiutante, un anziano mare-
sciallo. «Credo che m’abbia ordinato di seguirlo per lasciarmi qui» trovò il
modo di dirgli costui: «forse perché ho cinque figli a casa; altrimenti non mi
saprei spiegare.» L’anziano uomo appariva frastornato: «Non è facile lasciare
il signor colonnello» asserì: «È un comandante... raro.»
I molti comandi in cui Manno s’aspettava d’accompagnare Cirino si ridus-
sero a uno solo: il Comando Marina, un complesso d’edifici vetusti situati in
posizione dominante sopra il porto, che in quei giorni ospitavano anche il
‘Comando Supremo’ delle forze armate italiane, ossia il generale capo di stato
maggiore e gli altri pochi ufficiali superiori giunti qui avventurosamente da
Roma, al seguito del re e del governo.
Cirino e i suoi aiutanti vi furono portati da un’automobile della marina:
sembrava loro che quella su cui viaggiavano fosse l’unica macchina italiana
circolante a Brindisi, tanto enorme era la sproporzione tra lo sparuto traffico
italiano e quello ‘alleato’. Fecero alt davanti all’edificio riservato al ‘Comando
Supremo’, alla cui porta montavano la guardia due compassati carabinieri in
uniforme da campo, con le lanterne grigio-verdi in testa. Mentre Cirino, subi-
to ricevuto da un generale del comando, veniva accompagnato al piano supe-
riore, Manno e il maresciallo furono fatti accomodare in un corridoio a pian-
terreno, trasformato - mediante ossuti divanetti e sedie dello stesso stile - in
anticamera di fortuna.
Ogni tanto tra i divanetti e le sedie del corridoio passava qualche scritturale
o qualche ufficiale; dopo un’ora circa passò un ufficiale con le mostrine
d’artiglieria che a Manno parve di conoscere: dove diavolo mai l’aveva incon-
trato? A sua volta quello - un piccolo tenente dal viso serio, con un fascio di
fogli dattiloscritti in una mano - fu preso dal dubbio, tanto che si fermò e vol-
tò: «Noi due, per caso, non ci siamo già visti?»
All’udirne la voce Manno lo riconobbe del tutto. Si alzò in piedi e gli tese
sorridendo la mano: «Sì, ad Alamein, al Ventunesimo artiglieria. Ti ricordi?
Non sei rimasto molto tempo con noi: ti hanno ferito poco dopo il tuo arrivo,
il primo o il secondo giorno della battaglia.»
«Sì, infatti, ad Alamein. Ti chiami Riva, è vero?» gli disse l’altro mentre gli
stringeva la mano.
«Sì» rispose Manno «e tu, se ben ricordo, Gambacorta.»
«Gambacurta.»
I due rimanevano lì, con le destre strette. «Ventunesimo» ripeté Gambacur-
ta, annuendo: «Che tempi quelli.» Aveva su una manica la sbarretta distintivo
della ferita riportata allora. «Ma dì, come mai ti trovi qui? Da dove vieni di
bello?»
«Dall’Albania. Sono sbarcato circa un’ora fa.»
«Un’ora fa? Ma no. Dai, siediti, racconta.»
Lo fece accomodare di nuovo sul divanetto, prese posto accanto a lui: «Co-
me sei riuscito a venir via dall’Albania, col casotto che c’è in corso?»
Manno gli riferì in poche parole; l’altro lo ascoltava attento, partecipe; ave-
va occhi marroni, la testa un po’ calva nonostante l’età giovanile, e un’aria mi-
te e insieme ferma; i suoi modi erano quelli della persona colta: in effetti -
Manno ricordò - era più colto della media.
«Anche tu però mi devi raccontare» gli disse al termine del proprio sinteti-
co resoconto: «E non solo di te. In sostanza vorrei sapere cos’è successo qui in
Italia all’armistizio. Perché ti devo confessare che non ho un’idea chiara di
come siano andate le cose: finora ho raccolto solo notizie a pezzi e bocconi, più
che altro oggi sulla nave, da quelli di marina. E cosa sta succedendo adesso?
Dì.»
«Le cose sono andate nel più miserando dei modi» gli rispose afflitto Gam-
bacurta. «Sai che l’8 settembre, quindici giorni fa, dopo aver annunciato
l’armistizio il re, il principe e Badoglio con alcuni ministri, e il capo di stato
maggiore Ambrosio» indicò con la destra i piani superiori «hanno lasciata
Roma e, via Pescara, sono arrivati qui per mare? Di questo sei al corrente?»
«Sì.»
«C’è chi la considera una fuga. Che però ci consente oggi d’avere al di qua
delle linee, fuori del territorio controllato dai tedeschi, il re e il governo, in-
somma le autorità legittime. Questo in fin dei conti è qualcosa. Anzi per l’Italia
è una cosa importante.»
«Sì, ma come mai sono venuti proprio a Brindisi?»
«Perché all’armistizio gli ‘alleati’ hanno effettuato due sbarchi simultanei:
uno a Salerno e l’altro a Taranto. Lo sapevi?»
«Di Taranto no.»
«Ecco. Da Taranto si sono subito irradiati per la Puglia, da cui i tedeschi -
che erano solo quattro gatti - si sono ritirati in gran fretta, senza aspettarli.
Solo più tardi i tedeschi hanno formato un fronte continuo, che adesso taglia
l’Italia in due, da Salerno a Foggia. Gli ‘alleati’ cercano di spingerli verso nord,
ma progrediscono molto lentamente, tanto che non sono ancora riusciti a
prendere Napoli. Beh, a Brindisi, smammati quei pochi tedeschi, rimanevamo
noi dell’esercito e soprattutto rimaneva - piuttosto in forze - la marina: ecco
perché il re e il governo sono sbarcati qui.»
«E nel resto d’Italia? Cos’è successo?»
«Il caos è successo. Nessuno dei comandanti sapeva cosa fare, tutti i soldati
pensavano a una cosa sola: a tornarsene a casa. In pratica nel giro d’alcuni
giorni l’esercito si è dissolto, disintegrato addirittura. Qualche reparto ha
combattuto, a Roma per esempio, ma poca roba. Un vero disastro, ti dico, una
cosa miseranda.» Il piccolo tenente scuoteva ogni tanto appenato la testa.
«Puoi renderti conto» fece: «visto che la guerra era perduta, nessuno voleva
più saperne di morire. E poi perché sacrificarsi contro un nemico, quando era
chiaro ch’era stato inutile sacrificarsi fino a quel giorno contro un altro?» Ri-
peté: «Tutti pensavano solo a tornarsene a casa. Già prima del resto la guerra
era poco sentita, lo sai. Insomma è bastato che si presentassero anche pochi
tedeschi a chiedere la resa, perché i nostri reggimenti, più che arrendersi si
disintegrassero.» Gambacurta annuì ancora con la testa un po’ calva: «Ho
parlato con gente venuta dal nord, come dal centro e dalla zona di Roma:
dappertutto lo stesso spettacolo, in quei giorni non c’era si può dire strada
d’Italia che non formicolasse di sbandati: in divisa, in borghese, metà e metà,
uno strazio. Ce ne devono essere in giro ancora adesso.»
«E i tedeschi li lasciavano andare?»
«In Italia di solito sì, almeno al centro e qui al sud. Hanno però preso molti
ufficiali, non ti saprei dire quante migliaia. Oltre confine - cioè nei Balcani,
dove i reparti in genere non si sono sfaldati perché tagliati fuori da casa - sa-
prai meglio di me che hanno preso tutti, ufficiali e soldati, e li stanno traspor-
tando in Germania. Chissà che fine gli faranno poi fare, specie agli ufficiali. Io
ho paura che... I tedeschi non perdonano, questo è certo.»
«No, non perdonano.»
«Alcuni reparti sulla costa qui davanti alla Puglia» il piccolo tenente fece
segno con la mano «resistono, con la speranza che noi li si vada a prendere.
Certuni si sono dati alla montagna, dove i partigiani a volte li accolgono, a vol-
te li ammazzano; ma tutto questo tu lo sai certamente meglio di me. Dovresti
però sentire che messaggi radio ci arrivano: roba da piangere.»
«Ma voi del comando ne siete andati a prendere molti, non è vero?»
«No, non molti, un po’ di migliaia. Ci prodighiamo, questo sì; ma siamo
quasi senza mezzi, senza navi. Questo è il nostro ostacolo maggiore.»
Ci fu una pausa d’incertezza.
«Una bella prospettiva per noi, tutto considerato» commentò infine Man-
no, che si sentiva sempre più invadere il cuore dall’angoscia.
«Per quelli che sono rimasti là, vero?» precisò Gambacurta.
«Sì, e anche per me» fece Manno «che sto per tornare in Albania insieme
col colonnello Cirino.»
«Ma...» disse Gambacurta: «ma...»
Da che s’erano messi a parlare delle truppe rimaste nei Balcani l’anziano
maresciallo seguiva, protendendo inquieto la testa, il discorso dei due ufficiali,
senza tuttavia interferire.
«Gli ‘alleati’ però...» osservò Manno: «Quelli di navi ne hanno tante e...»
«Niente» disse Gambacurta «da loro non dobbiamo aspettarci niente. I sol-
dati - specie gli americani a quel che ho sentito - fraternizzano, abbastanza coi
nostri, anche se non capiscono come mai noi ci dimostriamo tanto loro amici.
I comandi invece... No, niente» ripeté «per ora almeno, da loro non possiamo
aspettarci proprio niente.»
Un piantone sceso dal piano superiore venne avanti nel corridoio-
anticamera: «Il signor tenente d’artiglieria arrivato qui col signor colonnello
Cirino?»
«Eccomi» rispose Manno alzandosi in piedi. “Guarda” pensò, “Cirino non
ricorda ancora il mio nome”.
«Signor tenente, il signor colonnello vi vuole. Devo accompagnarvi da lui.»
«Beh, ci vediamo» disse Manno a Gambacurta.
«Ci vediamo» gli rispose costui, alzandosi pure in piedi; teneva sempre nel-
la sinistra i suoi fogli dattiloscritti.
«Voi potreste aspettarmi qui» suggerì Manno al maresciallo, e seguì il pian-
tone.

CAPITOLO NONO
Al piano superiore Cirino, affacciatosi per pochi istanti a una porta, gli die-
de un incarico abbastanza stravagante: che gli procurasse due fogli da lettera e
due buste: «Possibilmente decenti, voglio dire con la colla che attacca davve-
ro. Se non li trovi qui, va per favore fuori e comprali.»
Li procurò Gambacurta, ch’era rimasto in attesa da basso. Manno li portò al
colonnello.
«Bene» gli disse costui, asciutto come al solito «ti ringrazio. È sempre giù il
maresciallo?»
«Signorsì.»
«Avvertilo che mi ci vorrà ancora un po’ di tempo. Aspettatemi giù tutt’e
due.»
Gli ci vollero in realtà diverse ore. Scese le scale verso sera, accompagnato
da un altro ufficiale superiore.
Si avvicinò ai due in attesa: «Io torno al porto» comunicò. «Da questo mo-
mento non ho più bisogno di voi, siete liberi.»
«Eh no» disse Manno.
Il tenente colonnello lo guardò, quindi tese la destra al maresciallo: «Voi
raggiungerete quelli dei servizi reggimentali che oggi sono arrivati a Brindisi
con noi. Ditegli che... sì, che qui abbiamo organizzato le cose bene, per cui en-
tro qualche giorno conto di raggiungerli anch’io, insieme con tutti gli altri.»
Fece una pausa. «In ogni caso vi ringrazio per la vostra lunga, molto lunga
collaborazione. Li sappiamo solo noi i momenti che abbiamo passato, eh?»
L’anziano sottufficiale fece segno di sì: avrebbe voluto rispondergli adegua-
tamente, ma l’emozione e l’interno contrasto dei sentimenti gl’impedivano di
parlare. Tentò d’augurargli almeno l’ ‘in bocca al lupo’ di prammatica, che a
lui pareva un augurio importante: «In... In... boc... In bocca...» cincischiò,
senza concludere la frase.
«Grazie» gli rispose Cirino.
Tese poi la destra a Manno, il quale anziché stringerla esclamò con emozio-
ne aggressiva: «Voi siete in errore, signor colonnello» non sapeva neppure lui
cosa diceva: «perché io qui non ci resto. Io vengo con voi, e voi non potete im-
pedirmelo perché... m’avete data la vostra parola.»
«Quale parola? Quando mai?» disse Cirino. Si volse all’ufficiale superiore,
sorrise: «Me l’aspettavo che questo m’avrebbe fatto delle storie.» Tornò a
Manno: «Allora ti rifiuti di darmi la mano?»
«Voi praticamente me l’avete promesso» insiste questi: «era... implicito.»
«Non vuoi darmi la mano?» il colonnello ritirò la propria. Manno stringeva
i denti «Io non ho moglie, né padre, né madre» disse. «Signor colonnello: so-
no adatto più di chiunque altro per tornare là.»
Cirino era a sua volta intimamente emozionato, ma non lo diede a vedere.
«Ah, un momento» fece, «per la verità ho ancora un servizio da chiederti.»
Trasse da una tasca della giubba le due buste che il giovane gli aveva procu-
rato: erano sigillate e fornite d’indirizzo. «Non sto scherzando: queste le affido
a te, sono per la mia famiglia. Dall’indirizzo potrai vedere che si trova al di là
del fronte che s’è venuto a formare, nel territorio oggi occupato dai tedeschi.
Se io torno troverai il modo di restituirmele; in caso... contrario le spedirai tu
quando sarà il momento giusto, in modo che arrivino con certezza.» Gli tese le
lettere: «Allora?»
Manno le prese. E subito si fece paonazzo in viso: avvampava di vergogna
soprattutto per il senso di sollievo, di liberazione, che malgrado la sua volontà
di partire gli si stava allargando fortissimo dentro. Avrebbe voluto sputarsi in
faccia, prendersi a schiaffi.
«Tu sei un vero ufficiale» gli disse Cirino. «Sono contento d’averti incontra-
to. Qua la mano» ripeté.
Manno gliela tese, e intanto faceva segno di no, di no con la testa. «Ricorda
quello che ti dico» soggiunse Cirino dopo avergli stretta la mano: «neanche
qui nel territorio libero son rose e fiori, tutt’altro. C’è bisogno anche qui di veri
soldati; se vorrai, tu potrai essere più utile qui che in Albania.»
Quindi si volse all’altro ufficiale superiore: «Andiamo.»
Manno e il maresciallo seguirono i due fin sulla strada, dove attendeva
un’automobile e dove, ma guarda, sull’opposto marciapiede passeggiava
Gambacurta. Il marinaio autista aprì una delle portiere della macchina, il ma-
resciallo si precipitò ad aprire l’altra, i due ufficiali superiori presero posto.
Mentre la macchina s’allontanava Cirino agitò una mano al di là del cristallo
posteriore per salutare i due rimasti. Manno doveva in seguito ricordare molte
volte quel gesto che il colonnello gli aveva fatto mentre andava a morire.
Per il momento sia lui che il maresciallo rimasero lì frastornati, senza nep-
pure porsi il problema di cosa fare. Li raggiunse subito Gambacurta: «Dun-
que?» chiese.
«Non mi ha voluto con lui» mormorò Manno, pieno di vergogna; poco
mancava gli tremasse il mento come a un bambino.
Gambacurta se lo prese sotto braccio: «Chissà da quante ore non mangiate
voi due» disse. «Forza, venite a mensa con me.»
E mentre se li tirava dietro, sollecitandoli con l’espressione del viso e la voce
rattenuta a rendersi conto di ciò che avevano evitato: «Un’ora fa, appena pri-
ma che io smontassi, è arrivato un ‘radio’ da Corfù: i tedeschi hanno ormai
dato inizio allo sbarco. Se s’impadroniscono dell’isola, nessuna nostra nave
potrà più entrare nella rada di Porto Edda.»

CAPITOLO DECIMO

La sera del giorno dopo, 24 settembre, entrò tuttavia nella rada il convoglio
del colonnello Cirino: tre navi da carico scortate da due piccole unità da guer-
ra. Una terza piccola unità - la torpediniera Stocco - aveva qualche ora prima
lasciato il convoglio perché dirottata via radio in direzione sud-est.
Al suo sbarco il tenente colonnello trovò che i militari italiani erano gran-
demente cresciuti di numero a causa di massicci arrivi di sbandati
dall’interno, ed erano molto inquieti per aver assistito durante l’intera giorna-
ta ad azioni di aerei tedeschi su Corfù; ignoravano che il nemico era anche
sbarcato nell’isola.
Le tre navi ripartirono nel corso della notte, stracariche di soldati: ancora
una volta fu data la precedenza ai malati e agli inefficienti. Durante la traver-
sata il convoglio venne attaccato da aerei tedeschi in picchiata: malgrado la
reazione delle piccole unità da guerra, una nave fu gravemente colpita e si ca-
povolse: era per fortuna in vista di Otranto, sicché molti dei naufraghi potero-
no essere salvati.
Il 25 la battaglia per Corfù raggiunse il suo culmine: i nostri che il 13 e il 14
settembre avevano disarmato il presidio tedesco dell’isola con un duro com-
battimento in cui erano morti più di duecento tedeschi, e ne avevano inviato
quattrocentocinquanta prigionieri a Brindisi mediante i soliti motovelieri,
erano convinti di fare in caso di sconfitta la fine dei difensori di Cefalonia.
Combattevano perciò con tutte le loro forze.
Per far fronte all’aviazione tedesca i pochi aerei italiani presenti negli aero-
porti della Puglia furono gettati nella mischia: i piloti avvertivano l’angoscia
dei fanti, laggiù a terra, e si prodigarono con straordinaria temerità; diversi di
loro vennero abbattuti, ma furono abbattuti anche vari aerei tedeschi perché
alcuni dei nostri cacciabombardieri erano del modello recentissimo Re 2002,
in grado finalmente di competere coi modelli avversari.
La marina partecipò come poté alla battaglia con le sue piccole unità: la
torpediniera Stocco, dirottata appunto verso Corfù dal convoglio giunto con
Cirino, venne mentr’era ancora in mare aperto avvistata da una formazione di
dodici Stukas, e fatta letteralmente a pezzi; quasi nessuno dei suoi marinai si
salvò.
La sera del 25 i tedeschi erano padroni dell’isola; contro l’aspettativa gene-
rale essi si limitarono a fucilare il colonnello comandante italiano e soltanto
sedici dei suoi ufficiali.

***
Il 26 settembre i tedeschi tentarono di passare da Corfù a Porto Edda, ma le
loro zattere a motore vennero facilmente respinte dalle batterie del maggiore
Costadura. Alcuni loro uomini, che all’inizio erano sbarcati da grossi motosca-
fi venuti avanti con bandiera bianca, furono impegnati e annientati sulla
spiaggia dal battaglione di Cirino.
La sera uno dei pochi aerei italiani che ancora volavano si abbassò sul borgo
e lanciò un messaggio con l’informazione che Corfù era in mano tedesca, e
perciò l’unico porto albanese raggiungibile dalle navi italiane era adesso Porto
Palermo, una quarantina di chilometri più a nord.
Il generale convocò gli ufficiali superiori a rapporto: venne presa la decisio-
ne di trasferirsi a Porto Palermo.
Si formò una colonna che non poté però mettersi in moto: i partigiani co-
munisti infatti, ormai numerosi come mosche, s’erano arroccati sulla via lito-
ranea e sulle ripide alture che la dominavano, e vietavano il passaggio. Si co-
minciò a parlamentare: i comunisti volevano le armi, tutte le armi. Respinsero
un patto proposto dal generale, in base al quale le armi sarebbero state loro
consegnate a Porto Palermo al momento dell’imbarco dei reparti; proposero
invece, in cambio delle armi, di provvedere essi stessi alla difesa degli italiani
dai tedeschi fino ad imbarco avvenuto. Tra i comandanti italiani alcuni erano
dell’idea di dare battaglia; altri, in vista dei non pochi morti, e ancor più della
perdita di tempo - forse alcuni giorni - che quel difficile combattimento tra le
montagne costiere avrebbe comportato, erano incerti; la truppa era impazien-
te di partire e qua e là rumoreggiava, le ore della notte passavano. Finalmente
il generale decise di consegnare le armi.
La colonna totalmente disarmata ma coi battaglioni ancora inquadrati,
giunse in vista di Porto Palermo la sera del giorno dopo: trovò la rada deserta,
anche se sul principio una roccia emergente dal mare fu scambiata da molti
per una nave e, in uno strano fenomeno di suggestione collettiva, salutata con
lunghe acclamazioni e grida.
Passarono alcuni giorni; i battaglioni - piantati in asso dai partigiani all’atto
stesso della consegna delle armi (e fu già una grazia) - cercavano di nascon-
dersi nei boschi alla ricognizione aerea tedesca: si mantenevano inquadrati
per difendersi almeno coi bastoni dai partigiani isolati e dai ladri comuni che
spogliavano i soldati se li trovavano soli o in piccoli gruppi. Navi intanto non
ne giungevano; giunsero infine i tedeschi.
Avviarono tutti coloro che si diedero prigionieri a Porto Edda, qui separa-
rono gli ufficiali dai soldati e fucilarono a piccoli gruppi gli ufficiali: scelsero
per il massacro la curva della via litoranea sopra la cala solitaria di Porto Li-
mione, il luogo cioè dove Manno aveva, una ventina di giorni prima, appresa
la notizia dell’armistizio. I corpi degli uccisi - più di centoventi, incluso quello
del generale - precipitarono dall’alto nel mare, e il mare per giorni e settimane
li prese e respinse distribuendoli sulla costa, se li riprese e li ridistribuì, finché
poco alla volta li dissolse.

***
Cirino col suo battaglione, Costadura col suo gruppo, e alcuni altri reparti,
non s’erano consegnati ai tedeschi. Si misero in marcia verso l’interno, inse-
guiti da loro. Cercavano affannosamente di procurarsi delle armi, e in parte vi
riuscirono; il 5 ottobre, trovato chiuso il cammino da una parete a strapiombo,
tentarono d’aprirsi la strada all’indietro tra i tedeschi inseguitori sparando
finché ebbero munizioni, poi attaccando alla baionetta; furono catturati uno
sull’altro in numero di circa ottocento. Anche qui gli ufficiali vennero separati
dai soldati e fucilati. Prima d’ucciderli, i tedeschi obbligarono con sadismo
Cirino e un altro ufficiale superiore a percorrere di corsa una lunga salita: li
fecero correre fino a fargli perdere i sensi, tornati che furono in sé li obbliga-
rono a correre ancora; infine li uccisero.
Costadura, che coi suoi artiglieri si era separato qualche giorno prima dai
fanti, morì poco più tardi, fucilato dai partigiani nazionalisti di Memo Meto, ai
quali era andato a offrire la propria collaborazione.
II

CAPITOLO UNDICESIMO

Alcune settimane dopo che aveva avuto luogo, Manno ebbe notizia della
strage dei centoventi ufficiali a Porto Limione; gliela comunicò Gambacurta,
affermando erroneamente che si trattava di tutti senza eccezione gli ufficiali
rimasti a Porto Edda, a cominciare dal generale comandante.
Perciò Manno ritenne che tra loro si trovasse anche Cirino. Gliene venne
una pesante malinconia; aveva presso di sé le due lettere che il tenente colon-
nello gli aveva affidato prima di tornare in Albania: decise che non le avrebbe
spedite, ma appena possibile consegnate personalmente ai famigliari.
Si trovava adesso in un piccolo paese della Puglia, Murgiano, presso una
scuola allievi ufficiali di complemento cui era stato assegnato per iniziativa di
Gambacurta. («Lì ti troverai meglio che altrove» gli aveva detto il piccolo te-
nente dagli occhi mesti: «se non altro avrai a che fare con ragazzi d’una certa
cultura.» Riteneva le preferenze altrui affini alle proprie, non sospettava che
Manno avrebbe preferito avere a che fare con soldati semplici, contadini e
operai, anziché con studenti. Manno ad ogni modo non aveva sollevato obie-
zioni.)
Più tardi anzi aveva avuto modo d’apprezzare la premura di Gambacurta:
recatosi infatti in un ‘campo di riordinamento’ a far visita ai venti artiglieri
rimpatriati con lui dall’Albania, li aveva trovati in condizioni ben peggiori del-
le sue. In quei campi - istituiti nelle provincie di Brindisi e Lecce, per lo più in
edifici scolastici requisiti - erano convogliati non solo i militari affluiti dalla
Balcania, ma anche quelli che - giunti dal settentrione dopo aver attraversate
le contrapposte linee tedesca e ‘alleata’ verso casa - venivano fermati da appo-
site squadre di carabinieri sulle strade e nelle stazioni ferroviarie. La discipli-
na vi era lasca, le diserzioni quotidiane; nell’accampamento visitato da Manno
le sentinelle, per mancanza di divise, erano addirittura in abiti civili, con le
bandoliere di traverso sulla giacca. I suoi artiglieri si erano comunque lamen-
tati soprattutto della scarsità di cibo: «Signor tenente, certi giorni ci danno
appena due gallette: una asciutta, che serve da pane, e l’altra cotta nell’acqua,
come zuppa.»
Gli ufficiali del campo gli avevano spiegato: «Ormai la sussistenza ha i ma-
gazzini vuoti. Se gli ‘alleati’ non si decidono a rifornirci, tra poco non sarà più
possibile tenere insieme questa parodia di reparti.»
Gli ‘alleati’ però, come non avevano data una mano in Albania - dove sareb-
bero bastate poche navi e qualche deciso intervento aereo per risolvere impor-
tanti situazioni - così non venivano incontro nemmeno qui.
Nel ‘regno del sud’ vegetavano oltre ai soldati raccolti nei ‘campi di riordi-
namento’ anche sei o sette divisioni regolari, per la maggior parte dislocate in
Sardegna. Gli ‘alleati’ diffidavano anche di quelle. Come spiegava Gambacurta,
i più di loro avrebbero preferito non trovarsi tra i piedi quel residuo d’esercito
italiano, e si auguravano semplicemente che si dissolvesse del tutto.
A Manno tornavano con frequenza in mente le parole del colonnello Cirino:
«Neanche qui son rose e fiori... Se vorrai, potrai essere più utile qui che in Al-
bania.» Ma come? In che modo avrebbe potuto, in questa dissoluzione, riusci-
re utile lui, un semplice tenente?

Murgiano era un villaggio come tanti altri in Puglia di casette d’aspetto ara-
bo, coi tetti a terrazzo o emisferici. Il corso ufficiali era insediato - da prima
dell’armistizio - nell’edificio delle scuole elementari, il più vasto del paese; qui
Manno ricevette, in sostituzione di un ufficiale malato, l’incarico d’insegnare
in via provvisoria ‘addestramento al combattimento’, una materia di cui aveva
buona esperienza personale. Si dedicò all’insegnamento con molto impegno.
Gli allievi (che da principio, come accade negli ambienti in cui gli equilibri so-
no già assestati, avevano visto di malocchio il suo arrivo) presero nel giro di
qualche giorno a seguirlo con una certa curiosità. Alcuni - specie studenti
d’ingegneria (scientificamente più preparati di lui che proveniva da architettu-
ra) - si provarono a metterlo in imbarazzo con domande teoriche, per esempio
di trigonometria. Egli ammise con dignità i propri limiti in campo teorico, ma
in pari tempo promise che avrebbe cercato d’ovviarvi. Si recò a Brindisi da
Gambacurta e tanto fece che il piccolo tenente riuscì a scovargli, nel giro di un
pomeriggio, i testi sui quali addestramento al combattimento veniva prima
dell’armistizio studiato all’accademia militare. Tornato a Murgiano il giovane
passò diverse sere a impadronirsi delle fondamenta scientifiche di ciò che a
suo tempo aveva appreso in versione solo applicata; poi dedicò un’apposita
lezione a rispondere alle domande imbarazzanti che gli erano state poste. Gli
allievi finirono col rimanere colpiti dalla sua tetragona buona volontà, in un
tempo di disimpegno così generale.
Da allora ogni lezione egli la preparò studiando la sera, e talvolta anche la
notte; non mancava però di mettere in rilievo la prevalenza - in una materia
come quella - della pratica sulla teoria, ed esemplificava utilizzando le proprie
esperienze dirette, impastate di carne e sangue, e di vita vissuta.
Poiché gli altri ufficiali della scuola non avevano in genere partecipato alle
grandi campagne di guerra, non pochi allievi cominciarono a ricercare la sua
compagnia come quella di un maestro, anche fuori delle ore di lezione. A lui
pareva di rivivere - per poco appropriato che ciò possa sembrare - la vicenda
dell’oratorio di Nomana: parlava loro continuamente (in un modo che voleva
essere scherzoso, ma non di raro era malinconico) del dovere; dei soldati mor-
ti - com’egli diceva - pagando per tutti, anche per i commilitoni che badavano
soltanto a salvare la pelle; di Cirino che, per non venir meno al suo dovere, al
momento del maggior sfacelo dell’esercito era tornato a morire in Albania:
ripeteva spesso quelle sue parole «anche nel territorio libero dai tedeschi c’è
bisogno di veri soldati» ponendole come un riferimento per tutti.
«Vedete in che situazione di sfascio è oggi l’Italia» prospettava: «cercate di
rendervi conto di come ci ridurremo in futuro se ci lasceremo andare ancora
di più. Guai se ciascuno di noi, uno per uno, non si rimbocca le maniche e non
fa qualcosa per uscire dalla palude.»
«Ma alla fine di questo corso» gli obiettava con amarezza qualche allievo
«noi non sappiamo neppure se riceveremo la nomina a sottotenente o no. Di
ufficiali qui al sud ce n’è già troppi, e sempre altri ne arrivano da oltre le linee.
Signor tenente: noi a volte ci chiediamo se il nostro studiare non sia sempli-
cemente inutile.»
«No» rispondeva Manno. «Non fosse perché, rifiutando di studiare, favori-
reste per quanto vi riguarda questo tremendo caos in cui stiamo sempre più
sprofondando. Ci sono dei momenti, a volte periodi di pochi mesi, in cui si
gioca il futuro di un popolo per molto tempo. E noi ci troviamo in uno di tali
momenti, come non ve ne rendete conto?»
Le poche ore della sera che riservava a sé stesso il ‘giovin signore’ le spen-
deva passeggiando in solitudine per le vie polverose di Murgiano, immerso in
riflessioni e meditazioni; qualche volta si chiudeva nella sua stanza a scrivere
lettere che non avrebbe potuto per il momento spedire. Scriveva a Colomba,
talvolta ad Ambrogio, che era rimasto il suo amico più caro; quelle lettere co-
stituivano per lui, più che un conforto, una sorta di ricarica. Non era possibile
- egli finiva col dirsi - che un popolo, una patria che esprimeva creature come
Colomba (la quale - egli n’era convinto - non aveva oggettivamente l’uguale
sulla terra) non era possibile che una tale patria fosse destinata
all’invilimento.
Riponeva via via quelle lettere nello stesso cassetto in cui conservava le due
di Cirino.

CAPITOLO DODICESIMO

Il 20 ottobre - quaranta giorni circa dopo l’armistizio - il governo legittimo


italiano dichiarò guerra alla Germania.
Il fronte ‘alleato’ si era nel frattempo stabilizzato in Campania ed Abruzzo, e
solo il suo margine ovest - dov’erano gli americani - si muoveva ancora, ma
con molta lentezza, verso Cassino. Le speranze d’una rapida riunificazione
dell’Italia s’andavano affievolendo: era ormai chiaro che gli ‘alleati’ non inten-
devano esercitare nel Mediterraneo il loro sforzo principale (al comando su-
premo italiano risultava addirittura che essi stavano dirottando forze altrove).
Fu a questo punto che gli americani decisero d’accettare - a titolo di prova - la
collaborazione d’un contingente militare italiano, e lo fissarono in cinquemila
uomini.
Manno ebbe la notizia da Gambacurta, il quale gli specificò che il contin-
gente sarebbe stato composto almeno in parte di volontari: «Perché le truppe
presenti in Puglia» disse Gambacurta «si sono andate molto impigrendo, e
non siamo sicuri che risponderebbero bene.»
Dopo tale notizia l’ufficiale rientrò a Murgiano con l’animo in tumulto: gli
tornavano con ossessione in mente le ultime parole di Cirino: “Eccola, eccola
finalmente l’occasione di riuscire utile!” Si ricordava di Colomba (“Potrò fare
una buona volta qualcosa di degno di lei!”) nonché di Celeste e delle sue paro-
le di commiato a Piacenza; pensava a tutti gli operai di Nomana, alla mutola di
Mazara, alla gente umile e laboriosa che vive dovunque: “Se in Italia ogni cosa
va in malora si troveranno a non avere più possibilità di quante ne abbiano,
che so? gli arabi e l’altra gente delle nazioni misere, tra cui pure esistono tanti
individui di buona volontà. Me ne sono reso conto in Libia e in Tunisia: lavo-
rerebbero anche loro e farebbero bene la loro parte se potessero, ma sempli-
cemente non possono... Non possono far altro che vegetare miseramente”.
Bisognava darsi a ogni costo da fare anche per gli operai e per tutta la gente
umile.
A Murgiano il giovane si presentò infiammato al comandante la scuola, il
quale dopo un breve periodo di riflessione finì con l’accettare la sua proposta
di formare un corpo di volontari; i giorni e le settimane seguenti videro nella
piccola borgata un succedersi di iniziative.

CAPITOLO TREDICESIMO

Il 7 dicembre il ‘Primo raggruppamento motorizzato’ italiano entrò in linea


nel settore della Quinta armata americana: ne facevano parte anche Manno ed
altri istruttori della scuola con una cinquantina d’allievi ufficiali volontari, in-
corporati in un battaglione di bersaglieri. L’unità italiana aveva davanti,
d’infilata, Montelungo, uno degli avamposti di Montecassino: si trattava di
una stretta montagna rocciosa che, emergendo dalla piatta valle di Cassino, la
scompone per un certo tratto in due valli parallele. Il suo irregolare displuvio
culminava in tre punte successive: quota 343, quota ‘senza nome’, e quota 351.
Alle prime luci del giorno 8, dopo un’esorbitante preparazione alla cieca
dell’artiglieria americana, i soldati italiani scattarono all’attacco su due diret-
trici: una risaliva direttamente il displuvio verso quota 343, l’altra mirava
all’aggiramento della quota sul lato sinistro; contemporaneamente un reggi-
mento di fanteria americano effettuava un attacco sull’opposto versante della
valle, contro un’altra montagna.
L’ampia vallata e, fino a buona altezza, le pendici di tutti quei monti
d’aspetto carsico, erano sommerse dalla nebbia. E dentro la nebbia appunto il
battaglione nel quale Manno e i suoi erano incorporati incappò nelle prime
postazioni tedesche.
Rintronò qualche sparo nemico, le solite grida d’allarme, bersaglieri e allie-
vi affrettarono la salita col cuore in gola (ancora una volta!); davanti, e addirit-
tura in mezzo a loro, cominciarono a sparare gli spandau tedeschi, o MG 34,
che avevano una celerità di tiro doppia di quella d’ogni altra arma automatica.
Strisciando protetti dalla nebbia bersaglieri e allievi si fecero sotto alle posta-
zioni nemiche; qualcuno venne colpito e si mise a gridare, qualche altro, steso
al riparo d’un roccione o di una pietra, rispose al fuoco degli spandau col fuo-
co furente del proprio mitragliatore; la lotta si frazionò subito in molti episodi,
come sempre; ricominciava la solita ripugnante storia.
Gli assalitori erano, su questa direttrice, truppe scelte, ma i tedeschi son
tutti truppe scelte, e stavano annidati tra le rocce. Per superare quei primi,
pochi nidi di difesa, occorse un certo tempo e perdite di vite umane. Poi
l’avanzata proseguì verso l’alto, fino a una seconda e forse più regolare fascia
di postazioni, da cui il nemico proseguiva il suo serrato fuoco di sbarramento.
Anche queste postazioni però non erano numerose, e il battaglione riuscì gra-
datamente a incunearvisi. Intanto, mentre il sole saliva nel cielo, il mare di
nebbia cominciava nei suoi strati più alti a fluttuare e a contrarsi; intorno agli
attaccanti principiava a schiarire, le cose andavano poco alla volta assumendo
incerti profili. Manno che, in testa al proprio plotone si era, in un punto disa-
gevole, afferrato con entrambe le mani a una cuspide di roccia per scavalcarla,
fu a un tratto intronato dal duro schianto di un ordigno - forse una bomba a
mano tedesca - esploso sull’altro versante della cuspide: le sue mani persero di
colpo la presa ed egli scivolò indietro. Si guardò sbigottito le dita: erano minu-
tamente crivellate e colavano sangue. Più che dolore gli davano una strana
sensazione di bruciore. «Mi hanno colpito» mormorò.
«Qui, prendete signor tenente» disse l’allievo che si trovava alla sua sinistra
(un milanese, dunque un compaesano), e stando rannicchiato dietro la roccia
si levò svelto di tasca un pacchetto da medicazione e glielo porse; s’accorse che
l’ufficiale non era in grado d’afferrarlo. «Acci... Aspettate, faccio io.» Lacerò
l’involucro di carta, e si applicò a fasciargli la mano destra, ch’era quella che
sanguinava di più.
«Lega molto stretto intorno al polso» gli disse Manno con calma; era come
trasognato.
«Molto stretto. Signorsì.»
Gli allievi più vicini si erano parimente arrestati, mentre il resto del plotone
continuava il suo movimento strisciando in avanti.
«Ehi tu» disse il milanese all’allievo che stava dall’altra parte dell’ufficiale:
«Cos’è che aspetti? Fasciagli l’altra mano.»
«Io? Io? Sì.»
Ma era assai maldestro, e inoltre incredibilmente nervoso. Per cui il primo
allievo, dopo aver completata la fasciatura della destra, lo sostituì nell’eseguire
anche la fasciatura della sinistra, all’apparenza meno dilaniata. Aveva appena
finito, che un secondo ordigno esplose sull’altro versante della cuspide roccio-
sa: tutti si schiacciarono contro terra.
«Non possiamo rimanere qui» disse concitato, voltando a metà la testa co-
perta dall’elmetto, l’allievo nervoso che non era riuscito a eseguire la fasciatu-
ra. «Via, andiamo via, dobbiamo spostarci.»
«Sì» convenne l’altro «sì.» E a Manno: «Signor tenente, voi adesso tornate
indietro. Ormai con quelle mani non potete più...»
«No» esclamò l’allievo nervoso: «No. Come facciamo senza di lui?»
«Ma non vedi che non ha più le mani?» sbottò il milanese.
«No, no, no» insisté l’altro.
Manno stava tornando adagio adagio alla realtà. «Volete scherzare?» disse
infine: «Cosa vi prende? Tornare indietro io?» Parlava e nello stesso tempo si
sentiva parlare, era come sdoppiato; tutto il suo essere convergeva nelle mani:
le avrebbe perdute? La ragione però, il senso del dovere, non
l’abbandonavano; si dominava ancora.
Rizzata alquanto la testa coperta dall’elmetto si guardò intorno, e cercò nel-
la nebbia d’inquadrare la situazione. «Attenti» disse ai pochi allievi che gli
s’erano fermati accanto: «Tutti di corsa con me, prima a sinistra e poi avanti.»
Balzò in piedi ed eseguì, curvo e a passi affrettati, ricominciando a salire; gli
altri dietro.
Il resto del plotone s’era arrestato poco più oltre e l’attendeva; correva il ri-
schio di perdere il contatto con la compagnia. Non lontano sulla destra si sen-
tirono alcuni bersaglieri invisibili urlare in mezzo alla buriana dei colpi: «Sa-
voia! Savoia!». Stavano senza dubbio entrando in qualche postazione nemica,
perché dall’altra parte rispondevano furibonde grida tedesche.
«Forza, avanti!» ordinò Manno ai suoi, e procedette per primo; il plotone
ricominciò a salire, inglobandolo; ma fu ben presto costretto ad arrestarsi di
nuovo a causa d’insistenti raffiche nemiche.
In complesso l’avanzata nei margini superiori della nebbia richiese tempo,
aspri sforzi e perdite, infine la fascia di postazioni tedesche, su questa direttri-
ce almeno, venne superata.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Ma c’era un’altra linea poco più sopra, e mentre gli attaccanti procedevano,
la nebbia si ritirò, lasciandoli in pieno sole. Per fortuna il pendio era fittamen-
te disseminato di macigni e cespugli, che consentivano un certo defilamento;
non si poteva ad ogni modo più andare avanti.
Guidate per radio da un sottotenente osservatore, le artigliere italiane apri-
rono il fuoco dal fondo valle, dandosi da fare per neutralizzare le postazioni
nemiche; vi si aggiunsero, come al principio dell’attacco, le artiglierie ameri-
cane, le quali però non avevano osservatori sul posto: le loro granate - molto
fitte - esplodevano tutte troppo lunghe, oltre la vicina quota 343, verso quota
‘senza nome’ e quota 351.
Manno stava rannicchiato in uno svaso della roccia con un paio dei suoi;
non aveva occhi per le irregolari creste di montagne che tutt’intorno sporge-
vano come lunghe isole dal mare di nebbia: a sinistra monte Maggiore, a de-
stra monte Sammucro sulle cui pendici era in corso l’attacco americano, die-
tro, alle sue spalle, monte Cesima, tutt’e tre illuminati dal sole giallo di dicem-
bre. Davanti, a forse quindici chilometri, c’era in vetta a un altro monte che
sbarrava la valle principale, una strana costruzione quadrata: certo l’abbazia
di Montecassino. Mentre l’attesa si prolungava e continuavano sia la sparato-
ria delle armi portatili che i sibili e le esplosioni dei proietti d’artiglieria, il gio-
vane aveva bene o male un momento per riflettere.
Cosa gli stava succedendo? Come mai queste ferite? Ferito lui che finora era
stato invulnerabile, perché destinato da Dio a quell’ignoto compito... In che
modo avrebbe potuto assolverlo quel compito se gli fossero venute a mancare
le mani? Se addirittura... Ma cos’è che gli stava realmente succedendo? Non
riusciva a comprendere.
La voce del suo ferimento era corsa fra gli allievi che con l’esempio e le pa-
role appassionate egli aveva trascinato fin qui: «Dobbiamo togliere l’Italia dal-
la palude...» tutti quei discorsi. Li aveva convinti, adesso i più vicini lo guar-
davano con apprensione, l’ufficiale se n’era accorto. “Non vi abbandono, cosa
temete?” pensava a momenti in risposta. Per nulla al mondo li avrebbe ab-
bandonati nella congiuntura più difficile che doveva ancora venire; «Se ci re-
steremo, ci resteremo tutti insieme» aveva detto e ripetuto allora, e così sa-
rebbe stato. Sarebbe stato così, al di là d’ogni tentazione di sottrarsi a questa
selvaggia realtà.
A sprazzi gli si affacciava alla mente il suo mondo lontano: i parenti, gli
amici, Luca e gli altri, i ragazzi dell’oratorio («L’arte è l’universale nel partico-
lare...»!), gli operai cui bisognava dar modo di continuare a vivere civilmente.
Visti da qui, in prospettiva, parenti, ragazzi e operai formavano una sorta
d’unico insieme. Non però Colomba. Quella si staccava da tutti. «Per amor del
cielo!» aveva detto sua madre a Novara, vedendola pettinata a quel modo.
Manno abbozzò una sfumatura di sorriso. Chissà cosa stava facendo in questo
momento Colomba? Forse s’era appena svegliata e pensava a lui? Si chiese chi
avrebbe avvertito Colomba e gli altri, se oggi gli fosse capitato di...
Senza dubbio Luca, il suo coetaneo di Nomana, sergente degli alpini, che al-
cune settimane prima egli aveva - davvero inopinatamente - incontrato in una
stazioncina delle Puglie. Che festa era stata! Luca l’aveva riconosciuto per
primo: «Signor tenente... cioè, Manno, sei proprio tu? Manno! Son qui
anch’io, vedi? Roba da non credere!» Aveva poi spiegato: «L’8 settembre mi
trovavo a Brindisi, con un carico di congegni per la divisione Taurinense che
sta, cioè stava, in Montenegro. E così... Ma guarda che caso, incontrarci noi
due!» Luca s’era subito offerto di venire con lui ai ‘reparti combattenti’, Man-
no però l’aveva sconsigliato: «No, meglio no, lascia perdere.» Perché l’aveva
sconsigliato? Chissà perché; era stata una di quelle scelte istintive, non ragio-
nate. “Beh, ecco, ci penserà Luca ad avvisare gli altri nel caso che io...” Ma ba-
sta con questi pensieri, non doveva correre il rischio d’infrollirsi.
L’artiglieria italiana seguitava a picchiare sulla fascia delle postazioni tede-
sche. Finché arrivò, fatto passare d’uomo in uomo, l’ordine di tenersi pronti a
scattare di nuovo avanti. L’allievo che glielo trasmise (il milanese, il quale dal
momento in cui l’ufficiale era rimasto ferito, non l’abbandonava) lo completò,
sospirando, con un molto convenzionale: «E speriamo che questa sia la volta
buona!»
«Su di giri» l’incoraggiò Manno; e volgendosi anche agli altri a portata di
voce: «Non possiamo lasciare le cose a mezzo. Dobbiamo dare la prova che
siamo decisi a riscattarci, a uscire dalla palude, non dimenticatelo.»
A tali parole l’allievo, emozionato, mormorò qualcosa.
«Cos’hai detto?» gli chiese Manno.
«Ho detto» rispose quello «che voi per noi siete come una bandiera.»
«Ma va» disse Manno.
S’udì l’ordine di ‘fuori!’. Il tenente lo ripeté con forza e si buttò avanti, con le
mani fasciate protese come quelle di un pugile; tutti gli altri dietro, mentre
intorno e in mezzo a loro ricominciava il finimondo.
Presero a correre su per la salita rocciosa come pazzi, come invasati:
dov’erano quelle maledette postazioni tedesche? Dov’erano? Uno, due ragazzi
caddero. Altri, pur indenni, si buttarono a terra terrorizzati, uno batteva lette-
ralmente i denti per la paura. «Avanti, cosa fai lì? Su in piedi. Avanti. Avanti.»
Gli allievi correvano sparando disordinatamente coi mitra, gridavano: «Sa-
voia! Savoia!»; Manno correva tra i primi, protendendo le mani fasciate: «Ita-
lia» urlava con quanta voce aveva in corpo: «Italia! Italia!» Cadde improvvi-
samente in avanti, urtò col frontale dell’elmetto contro il suolo roccioso, quelli
che gli erano più vicini udirono distintamente il cozzo del metallo, ma in
quell’inferno non si fermarono.
Aveva perso coscienza. La riprese dopo poco: sentiva un gran male tra collo
e clavicola, e anche al ventre, specie al bacino; la colonna vertebrale, incredibi-
le, non gli faceva più da supporto, perciò, per quanto egli si provasse, non gli
riusciva di rigirarsi. Andava perdendo rapidamente sangue, se lo sentiva per
tutto il corpo. “Una raffica” realizzò “è stata una raffica. Dio! Dio!” Per lui era
finita, non aveva più scampo... Che cosa orrenda, inammissibile! Ma
dov’erano adesso i suoi? La buriana tremenda continuava, gli parve di sentirli
gridare poco più avanti... Però a lui cosa importava ormai? Per lui era venuto
il momento di morire, di morire! Qui, col viso contro la roccia, non gli restava
altro, nient’altro sulla terra che morire! Come ne fu veramente conscio provò
un indicibile senso di ribellione. No. No. No. Gli ci volle un grande sforzo per
dominarsi, per sottrarsi a una tale rivolta inconsulta. Ansimava. Ciao vita, ciao
Colomba, ciao a ogni cosa... No, no, no, non può accadere a me! Non a me! A
me no! Sì invece, gli stava accadendo proprio questo. Tanti e tanti altri soldati
erano morti, e adesso toccava a lui. Ma allora come avrebbe potuto assolvere il
suo compito? Quale compito? Malgrado l’affanno del momento ebbe a un trat-
to un’illuminazione, anche se, sul principio, molto confusa: la Provvidenza
forse l’aveva tenuto in serbo proprio per... per questo? L’aveva destinato a...
collaborare all’inizio della risalita, al recupero dell’Italia dalla palude? Nooo...
Eppure... Se era così, non gli rimaneva che suggellare la sua opera di trascina-
tore col sacrificio della giovane vita. Per grazia di Dio lo percepì improvvisa-
mente in modo chiaro, perfetto. Ecco dunque il perché di quella barca pronta
per lui in Africa, e poi l’invio in Albania, e... Ma allora già da tempo Dio stava
predisponendo il recupero dell’Italia! Quanta pena si dava Dio per le cose de-
gli uomini! «Grazie, Signore Iddio» mormorò Manno col suo ultimo fiato
«grazie.»
Sentì, non con l’orecchio della carne ormai, ma coi sensi dello spirito, un
principio di fruscio: gli tornarono in mente, come da molto lontano, le parole
dell’allievo: “La bandiera! ” Spalancò gli occhi dello spirito per vederla: ma
non era la bandiera che frusciava, erano le ali del suo angelo: lo vide in faccia
per la prima volta e gli sorrise, mentre intorno a lui si produceva il grande ca-
povolgimento.

Quel giorno non riuscì agli italiani di raggiungere gli obiettivi prestabiliti ;
alla sera essi vennero ritirati sulle posizioni di partenza: avevano avuto 47
morti e 102 feriti. Otto giorno dopo, il 16 dicembre, l’attacco fu ripetuto, e sta-
volta con successo. L’azione di Montelungo costituì oggettivamente l’inizio
della ripresa dell’Italia, della sua risalita dalla palude: dopo l’esperienza di
Montelungo infatti gli ‘alleati’ consentirono che il piccolo ‘raggruppamento
motorizzato’ venisse ampliato fino alla forza di due divisioni, che presero il
nome di ‘Corpo italiano di liberazione’. Alla fine della guerra le divisioni rego-
lari italiane in linea contro i tedeschi sarebbero state sei.

PARTE QUINTA

CAPITOLO PRIMO

Nell’ospedale militare sul lago Maggiore intanto Ambrogio lottava da tempo


con la morte. La giovane crocerossina Epifania Mayer, alias Fanny, spaventata
dal peggioramento, l’assisteva con un impegno e un’abnegazione che non le
erano abituali, tuttavia poco poteva fare per lui. Da quando le condizioni del
giovane s’erano aggravate anche sua madre s’era trasferita a Stresa, in un pic-
colo albergo, e di là ogni pomeriggio lo andava ad assistere, col cuore attana-
gliato dall’angoscia.
Mediante un’imbarcazione - quasi sempre la stessa - attraversava subito
dopo pranzo il braccio d’acqua tra la cittadina e l’isola dov’era l’ospedale. In-
tanto pregava, e non aveva occhi per lo splendido ambiente circostante: per il
lago in quei giorni freddi di primo inverno molto terso, per le alte montagne
all’intorno, per gli ottocenteschi giardini - ancora più verdi di quelli della
Brianza - che ne coprivano le sponde. Pregava e vedeva il volto spossato del
figlio che tra poco l’avrebbe accolta sorridendo incoraggiante, per poi rifarsi
subito serio. La guerra! Che realtà ripugnante, inammissibile! E lei - si rende-
va conto - con tutta la sua pena non era che una delle tantissime madri dolen-
ti, numerose quanto i ragazzi alle armi, anzi di più, perché c’erano anche le
madri dei ragazzi morti (ed erano, nelle diverse nazioni, milioni ormai) rima-
ste sulla terra a piangere e a straziarsi... E le madri dei dispersi? Quella povera
Lucia, là a Nomana! Ma anche lei, Giulia, in un certo senso, dato che il suo
Manno... “No, Manno no.” Non era disperso: anche Ambrogio lo diceva che
non era disperso. Manno tardava semplicemente a dare notizie. “Vergine col
Cristo morto sulle ginocchia: fa tu che sia davvero così.”
Al termine della breve traversata l’anziano barcaiolo scendeva a terra e le
porgeva il polso della mano destra piegato all’ingiù, in un gesto professionale
di sapore ottocentesco, perché lei potesse appoggiarsi nello sbarcare. Giulia
s’affrettava poi, attraversando l’antico giardino ad aiole e terrazze bordate di
mortella, verso l’atrio dell’albergo trasformato in ospedale; qui giunta si ritro-
vava di colpo nell’ambiente militare. Per il quale avvertiva ogni volta un senso
di repulsione e insieme di perplessa familiarità: repulsione perché i piantoni
in divisa (trasandati, coi gladi ai risvolti della giubba invece delle stellette) che
sedevano sugli scranni dei portieri d’un tempo, impersonavano ai suoi occhi la
dura realtà della guerra; familiarità perché di quell’ambiente - volere o no -
faceva parte anche suo figlio.
I piantoni non l’accompagnavano ormai più alla camera d’Ambrogio, situa-
ta al primo piano; la donna saliva le scale da sola, ogni volta un poco intimidi-
ta dal sempre più percettibile odore di medicamenti; percorreva un tratto di
corridoio ed entrava nella stanzetta che il figlio divideva con un altro ferito.
Dopo l’accoglienza, e i saluti, e qualche scambio di frasi, e dopo una breve
contemplazione della sua creatura, Giulia sentiva - come sempre nella sua vita
- il bisogno di darsi da fare. Si metteva perciò a riordinare, anche se in realtà,
grazie a Fanny, non ce n’era bisogno: sprimacciava qualche cuscino, sistemava
meglio gli scuri della finestra, sboccava o rimboccava qualche coperta; a volte,
contro l’odore dei medicamenti, metteva in un vaso un rametto di calicanto
che aveva appositamente acquistato in città. Spesso, tolto dalla borsetta un
pacchetto di caramelle, andava a deporlo con un sorriso materno sul comodi-
no dell’altro ufficiale ferito; non di Ambrogio, che allora non poteva mangiar-
ne.
«No, cosa fa?» diceva allora l’altro ufficiale. «Perché signora? Non doveva.
Le pare, disturbarsi così?» e simili frasi. Quell’ufficiale - un tenente non più
giovane a nome Decio, originario dell’Italia centrale, dai modi molto distinti
(più di quanto fossero i modi d’Ambrogio e di sua madre, che al suo confronto
si sentivano un po’ goffi) - era di continuo distratto da un segreto dilemma: se
gli fosse moralmente lecito farsi curare dalla repubblica fascista, mentre in
cuor suo era determinato, non appena guarito, ad attraversare le linee per
presentarsi all’esercito regolare nel sud.
Giulia prendeva infine posto su una sedia e raccontava con una sua vivacità
quieta tante piccole cose relative a Nomana, all’albergo, alla città di Stresa,
alla messa udita il mattino, avviando coi due feriti una conversazione interval-
lata talora da pause anche lunghe.
I due (lo stesso Ambrogio, malgrado le condizioni di salute) desideravano
essere tenuti al corrente di quel che accadeva in Italia e nel mondo: perciò la
donna, per potere in qualche modo riferire, aveva presa l’abitudine
d’acquistare ogni mattina il giornale e, con un certo sforzo di volontà, di leg-
gerselo prima di venire in ospedale dove, per consiglio di Fanny, non lo porta-
va. Le notizie non erano mai risolutive. Il fronte tedesco-alleato era fermo tra
Napoli e Roma, davanti a Cassino; nella repubblica fascista - costituitasi per
volere dei tedeschi al di qua delle linee - continuavano i bombardamenti aerei,
ma solo su obiettivi d’interesse bellico, e non più a tappeto sulle città, come
prima dell’armistizio. L’enorme fronte tedesco dell’est era tuttora in lenta riti-
rata e si avvicinava all’Europa centrale; quest’ultimo fatto preoccupava segre-
tamente Ambrogio, tanto che Giulia, resasene conto, non ne parlava se non
richiesta da lui.
«Come si riuscirà a fermarli quelli?» diceva a volte il giovane, riferendosi ai
bolscevichi.
«Qui ci sono gli americani, non devi preoccuparti» gli rispondeva la madre.
«Certo» la appoggiava Decio. «Siamo in zona d’influenza americana. Di che
ti preoccupi?» Stava appunto allora diffondendosi in Italia la consapevolezza
del potenziale bellico americano: Ambrogio però, data la sua esperienza
dell’est, non si sentiva affatto sicuro.
Chiedeva anche della gente, cosa dicesse, come vivesse la gente comune, co-
sa facessero i fascisti. «Parla liberamente» diceva alla madre, e indicando De-
cio: «lui la pensa come noi, lo sai.»
Decio a tali parole sorrideva con aria vagamente complice.
I fascisti alla madre ispiravano a quel tempo soprattutto pena. «Non so se
altrove - a Roma o nelle altre grandi città per esempio - le cose vadano diver-
samente. Ma da noi nel milanese, e del resto anche qui a Stresa, è solo perché
costretti che i fascisti si ripresentano. Preferirebbero starsene a casa, si ren-
dono benissimo conto che la guerra è perduta, figurati.» Citava qualche esem-
pio (riferitole dal marito, oppure da conoscenti d’albergo: le sue limitate fonti
d’informazione) di fascisti che per non farsi trovare erano ricorsi ad espedien-
ti.
«Sì. Gli stessi gerarchi e perfino Mussolini» conveniva il tenente Decio «so-
no tornati sulla scena malvolontieri, proprio perché tiratici per i capelli dai
tedeschi. Questa è anche la mia impressione.»
«Per i capelli Mussolini?» non mancò, malgrado tutto, di scherzare Ambro-
gio: «Perché? Gli sono ricresciuti?»
«Beh, né lui né gli altri sono tornati in scena volontieri. Tranne i soliti
estremisti, si capisce, i vari Farinacci e compagnia, ma quanti sono?»
«Mi fanno pena» diceva la madre: «mi fanno tutti pena, sia quelli impor-
tanti che i piccoli. Chi di loro ha accettato d’aderire alla repubblica chiama poi
anche gli altri e gli dice: ‘Quando le cose andavano bene tu eri iscritto, eri fa-
scista. Adesso che le cose vanno male vorresti nasconderti?’ Io ho perfino
l’impressione che siano i più galantuomini ad accettare di darsi da fare ancora.
Non sicuramente gli opportunisti.»
«Questo però era vero soprattutto al principio» le faceva osservare Decio:
«in principio accadeva così. Ma da quando, in novembre, sono usciti quei
bandi di chiamata alle armi che hanno fatto fuggire tanti giovani in montagna,
gli animi stanno invelenendosi: sono cominciate le vendette a catena tra i fa-
scisti e i partigiani, ecco il guaio.
Io non so proprio cosa succederà in futuro se gli ‘alleati’ non si spicciano a
venire avanti.»
«C’è stata per caso qualche vendetta anche a Nomana?» volle sapere Am-
brogio dalla madre.
«A Nomana no, figurati. Da parte di chi poi? Quel sottufficiale che una volta
vi faceva l’istruzione premilitare, come si chiama? Alfeo, all’armistizio è scap-
pato a casa come tutti gli altri, e da allora se ne sta nel suo brodo.»
«Poveraccio. Quello all’armistizio deve avere avuto l’impressione che il
mondo gli cadesse intorno.»
«Credo proprio. Sai un particolare? L’ha raccontato lui stesso al papà.
Mentr’era sul treno che lo riportava a casa, ha sentito dire che alla stazione di
Bologna i tedeschi catturavano tutti i militari italiani. Sai per sincerarsene a
chi ha pensato di rivolgersi? A un ufficiale tedesco che stava sul treno! Si è ri-
volto a quello domandandogli se fosse vero...»
«Povero Alfeo» mormorò Ambrogio tentennando la testa. «E com’è finita?»
«Forse l’ufficiale s’è commosso» disse Giulia «non so, fatto sta che gli ha
detto che effettivamente esisteva quel pericolo, e l’ha consigliato di scendere
alla stazione prima di Bologna, e di aggirare la città a piedi.»
«Quello non doveva essere un ufficiale delle SS» osservò Decio ridendo.

***
A volte erano i partigiani a costituire argomento di conversazione. Doveva-
no essercene anche sui monti intorno al lago Maggiore, almeno a quel che
Giulia aveva sentito affermare in albergo. «Però non so se crederci. C’è chi di-
ce che si tratta solo di delinquenti comuni, che rubano e basta. Qualcuno inve-
ce dice il contrario, che si tratta di partigiani badogliani, comandati da veri
ufficiali, insomma di gente corretta che di rubare tra l’altro non ha bisogno,
perché ogni cosa gliela buttano gli americani coi paracadute. Ditemi voi a chi
posso credere.»
«Beh, coi paracadute non si può gettare tutto l’occorrente a una banda par-
tigiana» le spiegò più d’una volta il figlio: «Per forza dovranno ricorrere anche
alle risorse locali.»
A Decio interessava sapere chi le avesse detto che si trattava di ‘badogliani’:
«Signora, gliel’ha detto gente che dà affidamento?» Malgrado la fiducia in De-
cio, Giulia temeva per il suo principale informatore, l’attempato e un po’
chiacchierone portiere dell’albergo. «No» finiva sempre col rispondere «o me-
glio non saprei. L’ho sentito da persone che non conosco.»
Decio intuiva i suoi scrupoli e non insisteva.
Per misurare la febbre ai feriti o per altre simili incombenze entrava Fanny:
salutava con gentilezza la visitatrice e - incantevolmente giovane - le sorrideva
incoraggiante con gli strani occhi verdi. Ogni volta la ragazza si meravigliava
della semplicità e quasi castigatezza dell’altra: che non usava rossetto, né bi-
stro, né si laccava le unghie (“Però le ha sempre in ordine, attenta!”), e che le
aveva confessato di non avere mai giocato a carte in vita sua. La confrontava
con la propria madre, la quale andava in giro coi capelli tinti in blu, branden-
do un originale bastone da passeggio non più lungo di due palmi (‘il bastone
del comando’ lo definiva il padre): il contrasto tra le due madri la divertiva.
Nelle ore d’assenza della madre e della crocerossina, specie se anche Decio
lasciava la stanza per scendere con i convalescenti nella hall a pianterreno,
Ambrogio - che di giorno non riusciva mai ad assopirsi - lucidamente, per la
febbre, fantasticava.
Gli tornava spesso in mente il suo attendente Paccoi, al quale doveva la vita:
lo sapeva dall’armistizio tornato a casa in Umbria, chissà come se la sarebbe
cavata adesso coi bandi? Suo padre Gerardo circa un paio di mesi dopo il rim-
patrio aveva senza informare il figlio inviato all’attendente un bell’orologio
d’oro accompagnato da un biglietto: ‘...non certo per sdebitarci con lei, che
sdebitarci non potremo mai, ma per dimostrarle gratitudine e amicizia...’
Quando Ambrogio aveva risaputa la cosa, aveva debolmente protestato: «Pa-
pà, non capisci che potrebbe aversene a male? Quello che ha fatto a rischio
della sua vita, appartiene a tutto un altro ordine.» Invece Paccoi, da
quell’anima semplice che era, aveva ringraziato molto contento: ‘Vedo che vi
siete ricordati del sottoscritto artigliere Giovanni Paccoi...’
Sulla scia di Paccoi entravano talvolta a giostrare nella mente d’Ambrogio
anche gli altri: Stefano anzitutto, e il Michele di Nova, il cui padre mutilato
non aveva resistito alla terribile mancanza di notizie, e quel povero maggiore
Casasco che non ce l’aveva fatta fin dai primi giorni della ritirata, e Cavallo
Stanco, e quei due sfaticati, Mazzoleni è Piantanida (Piantanida poveraccio
era rimasto sotto un po’ di paglia e neve a Cercovo), e il caporale Colombo che
cantava la sera sull’erba (quello per sua fortuna a novembre aveva avuto
l’avvicendamento), e Feltrin, che a Leopoli non riusciva più a dormire, chissà
adesso? e quello e quell’altro... Chissà qual’era stata la sorte dei prigionieri,
specie dei feriti? Ma anche gli altri, i sani, erano ancora vivi? Se sì, come
avrebbero affrontato questo nuovo inverno? Con indosso le logore divise
dell’anno precedente, dopo averci senza dubbio dormito fino a oggi? I russi
glieli avevano lasciati oppure no i cappotti a pelliccia? Da settimane la tempe-
ratura lassù doveva essere scesa nuovamente sotto zero; l’anno avanti il gelo
era cominciato quasi di colpo a principio novembre: nel giro di pochi giorni i
rami degli alberi lungo il Don si erano interamente rivestiti di brina, li aveva
ancora qui, negli occhi della lucida mente. Anche in questo momento il pae-
saggio in Russia doveva essere a quel modo... Ma ce n’erano o no di prigionieri
vivi? L’eterna domanda. Neppure uno, finora, aveva scritto a casa. Pensare a
loro - constatava a volte Ambrogio - era come pensare alle anime che sono
nell’aldilà: non ne giungeva una pur minima voce, un segno qualsiasi, niente.
E chi del resto pensava più a loro oggi, dopo tutto quello ch’era successo in
Italia? Soltanto i parenti, con strazio, e gli amici: giusto come accade per i
morti.

II

CAPITOLO SECONDO

La brina rendeva effettivamente candido il bosco intorno al lager 74 di


Oranchi in cui Michele, padre Turla e gli altri si trovavano tuttora rinchiusi.
Tagliati fuori completamente dall’Italia e da ciò che vi accadeva, lontani come
fossero sull’altra faccia della luna.
Durante buona parte dell’estate Michele aveva lavorato in una cava
all’estrazione di minerale di calce: lavoro improbo per individui ancora spos-
sati come lui e i suoi compagni, perché eseguito interamente a colpi di picco-
ne. Per recarsi alla cava - situata addentro nei boschi - e per tornarne, le squa-
dre dei prigionieri passavano ogni giorno davanti a un lager straordinaria-
mente esteso, formato da innumerevoli baracche di tronchi, e vigilato, sopra
alte torrette, da sentinelle armate di mitragliatrici; questo lager - forse il più
esteso dei molti disseminati nella plaga boscosa di Oranchi - segregava soltan-
to donne: una folla incalcolabile di donne russe.
Erano tutte vestite di stracci, parecchie con bambini macilenti in braccio o
per mano, mestissime. A differenza dei deportati maschi non sembravano
aver voglia di parlare, e poco anche si muovevano: immobili dietro la barriera
spinata, esse guardavano in silenzio i prigionieri stranieri passare. La loro vita
era stata con evidenza spezzata. A Michele, quando le scorgeva da lontano,
piuttosto che donne sembravano raccapriccianti marionette fatte di stracci, di
cui il burattinaio in quel momento lasciasse in pace i fili.
«Sono quasi tutte mogli di deportati. Dopo i mariti hanno deportato anche
loro, perché in Russia si usa così» dicevano i prigionieri.
«Lo sai che tutte le guardie, anche quelle del nostro lager, vorrebbero far
servizio in questo?»
«Sì, l’ho sentito dire.»
«Perché qui possono c... giorno e notte quanto gli pare. Si scelgono le donne
più belle al momento del bagno. Una, anche se è per bene e vorrebbe conser-
varsi fedele a suo marito incarcerato, deve lasciarsi fottere, perché se no loro
la fanno crepare di lavoro in poco tempo.»
«Maledette bestie» osservò con sdegno il naciàlnich, che adesso non era più
padre Turla ma un capitano della divisione territoriale Vicenza. E aggiunse:
«Ci pensate però i russi che gente disgraziata? Noi abbiamo se non altro la
speranza di tornare un giorno liberi, dico liberi sul serio. Ma loro?»
Le sofferenze senza limiti del popolo russo! Ancora una volta Michele vi si
trovava di fronte. “Quanti saranno” egli si domandava “i lager in Russia? ”
Secondo qualcuno erano addirittura migliaia, sparsi dovunque. Ma era poi
vero? “Ecco una cosa di cui devo parlare coi deportati. Appena mi si presenta
l’occasione non me la lascio sfuggire, un’occasione dovrà pur presentarsi.”
Intanto lo spettacolo delle donne detenute (le cucle come avevano preso a
chiamarle i prigionieri, cioè bambole di stracci) faceva una tal pena agli italia-
ni, che più d’uno di loro risparmiava ogni tanto una parte del proprio scarso
pane, oppure una patata, e senza farsi scorgere dalle guardie la gettava a quel-
le poverette. Che a un tale dono parevano riscuotersi un poco: lo raccoglieva-
no fameliche e ringraziavano i donatori con ripetuti inchini; non di rado, pri-
ma d’addentare, si facevano il segno della croce: tristemente, con le punte del-
le dita riunite, alla loro maniera ortodossa.
“Devono avere più fame di noi. Per loro non dev’esserci stato nessun Stalin
pricàs” rifletteva Michele “a regolare le razioni. Perché loro non servono alla
propaganda comunista in occidente.”

***
A offrirgli inaspettatamente l’occasione di parlare con le cucle era stata una
grossa frana verificatasi nella cava del minerale di calce, in seguito alla quale
la sua e un’altra squadra erano state adibite al carico e al trasporto dal circo-
stante bosco di una partita di tronchi per le riparazioni.
A tagliare e dirozzare i tronchi provvedevano le donne (era il loro lavoro
abituale): i prigionieri italiani si limitavano a caricarli su carri a mano e a tra-
sportarli alla cava. La sorveglianza di questo lavoro non era regolare: le poche
guardie seguivano di solito i carri che andavano e venivano, mentre quelli fra i
prigionieri che di volta in volta non partecipavano al trasporto, rimanevano
provvisoriamente sotto la sorveglianza dei guardiani delle donne. Le quali ri-
sultavano tutte cenciose allo stesso modo, vestite d’indumenti la più parte ma-
schili, strappati e sfilacciati, (tutte ugualmente ‘umiliate e offese’ pensava Mi-
chele, che ora capiva davvero il significato di tali parole). Non uguali si dimo-
stravano però nella resistenza al lavoro: ce n’era qualcuna talmente sfinita che
sollevava la propria scure con difficoltà, e la vibrava traballando, a volte senza
neppure colpire dentro il taglio iniziato. Per quanto tempo ancora queste di-
sgraziate sarebbero riuscite a tirare avanti?
Angustiato il giovane approfittò d’un momento in cui non c’erano guardiani
nelle vicinanze per chiederlo a una prigioniera diversa dalle altre, che si trova-
va a pochi passi da lui e ogni tanto lo scrutava. Si rivolse a lei appunto perché
era diversa, in apparenza meno fatalista delle altre russe; la donna, appoggiata
a terra la testa della sua scure, lo stette ad ascoltare con le mani e la bocca del-
lo stomaco premute sulla punta del manico. Dopo avere, con scarso successo,
tentato d’esprimersi in russo, il sottotenente provò a chiederle in francese:
«Chi sono quelle? Dico quelle due là, che lavorano a quel tronco. Perché han-
no così poca forza?»
«Perché sono a mezza razione» gli rispose in francese la prigioniera: «Per-
ché da giorni non raggiungono la ‘norma’, e quindi sono a mezza razione.» Ciò
detto torse la bocca e stralunò gli occhi verso l’alto, mostrandone il bianco.
Quindi riprese: «Non mangiano abbastanza, avete capito? Ormai a quelle due
non gli resta che morire: caputt.»
«Caputt?» ripeté come una eco il giovane.
La strana prigioniera annuì. «Sì» disse «ed è bene. Perché sono due cagne
comuniste, tutt’e due moglie di papaveri (personnages). C’est bien: è bene»
ripeté con odio. E dopo aver deglutito: «Ce ne sono anche altre di comuniste
nel nostro lager» spiegò «anche altre. C’è anche un’italiana, sì, la moglie di un
comunista, venuta qui con lui dall’Italia.» Annuì: «Il marito gliel’hanno fucila-
to nel 37. Très bien.»
Michele squadrò la sua interlocutrice: aveva la pelle del viso simile a una
calza, eccessiva, e i capelli in qualche modo tagliati a frangia, alla maniera del-
le femministe di vent’anni prima; soprattutto però erano impressionanti i suoi
denti, con le radici scure fuoriuscenti dagli alveoli, così da far sembrare mar-
cia tutta la sua fisionomia quando apriva la bocca.
Le compagne di squadra della prigioniera andavano una dopo l’altra so-
spendendo a loro volta il lavoro: non sembravano comprendere la conversa-
zione, si limitavano a guardare in silenzio l’ufficiale.
«Voi, se ho ben capito, non siete comunista» disse questi alla donna.
«No, bien sûr, no; io sono social-rivoluzionaria-di-sinistra» compitò, sem-
pre in francese, con un’aria spossata di sfida al mondo intero. Nuovamente
torse la bocca e stralunò gli occhi verso l’alto.
Michele conosceva - grazie alla bibliotechina politicizzata del lager - la sto-
ria di quel partito estremista: sapeva che dopo avere con entusiasmo aiutato i
comunisti nella rivoluzione, si era loro ribellato, ed era stato distrutto.
«Conosco la storia del vostro partito» dichiarò.
«Voi conoscete?» disse la donna, visibilmente lusingata.
«La conosco» ripete il giovane, annuendo. Ma tornò all’argomento che gli
stava più a cuore: «Davvero voi dite che a quelle donne non rimane altro che
morire?»
L’altra lo guardò meravigliata: «Bien sûr.» («In che mondo vivi?» parevano
chiedere i suoi occhi.) «Ormai per salvarsi» spiegò «dovrebbero diventare
amanti di un cuciniere o di un guardiano. Ma come fanno in quello stato?»
«E nessuna di voi le aiuta?»
«Io no certamente» rispose con durezza la forzata: «io vorrei che tutte le
cagne comuniste crepassero.» Vedendo lo sconcerto del sottotenente fece una
pausa e tentennò la testa, a significare: tu non puoi capire. Poi indicò una
squadra femminile a una trentina di metri: «Qualche volta le aiutano quelle
là» disse. Si trattava di poche donne che seguitavano a lavorare metodiche,
senza distrarsi: Michele le aveva già notate per il loro contegno stranamente
composto; gli erano anche sembrate più anziane delle altre (ma era difficile
dare un’età a donne in quello stato: ce n’erano di calve e di canute che forse
erano giovanissime). «Quelle» disse la deportata mutando l’inflessione della
voce, come stesse parlando di povere idiote «certe volte, quando la loro squa-
dra ha finita la ‘norma’, aiutano le altre lavoratrici in difficoltà.»
«Sono comuniste quelle?» chiese Michele.
«Comuniste? Nooo» esclamò la deportata. «Sono suore. Suore, capite?» e
rise con scherno, mostrando gli orribili denti.
«Suore?» mormorò emozionato Michele: «Monache volete dire?»
«Sì» confermò l’altra. «Così. (Comme ça.) Nel lager sono quelle deportate
da più tempo: resistono ancora soltanto perché sono contadine. Le altre suore
deportate insieme con loro, da un pezzo ormai» bestemmiò senza rendersene
conto «hanno raggiunto il loro Dio sotto terra.» Stralunò di nuovo gli occhi
fino a farne apparire il bianco. «Vedete quella più a destra? È Natascia, c’est-
à-dire Natalie: è deportata da più di ventanni. Eh? Incredibile, no? E pensare
che tante non resistono neppure un anno, muoiono subito. La durata media
della vita nei lager è di sei o sette anni, lo sapete. Lei invece...»
«Da più di ventanni!» mormorò il sottotenente.
«Certo l’ha aiutata il fatto d’aver lavorato per lunghi periodi nelle inferme-
rie, a portar fuori la merda.» La donna rise.
«E voi?» s’interessò, superando il proprio disgusto, Michele.
«Eh bien» (c’era, a momenti, una pretesa di disinvoltura nel suo francese)
«anch’io sono una veterana. Ho fatto dentro quattordici anni anch’io, capite?
Quattordici anni! Non tutti di fila però, non come Natascia.»
«Non tutti di fila? Quattordici anni?» ripeté il giovane. Poi, indicando col
mento la suora: «Sapete se per caso parla francese?»
«No di certo» rispose la socialrivoluzionaria: «credete che sia la Natascia di
Tolstoi?» rise. «Questa è una contadinaccia v’ho detto. Spaccava legna con la
scure già prima che i comunisti la fottessero.»
«Cosa intendete dire?» chiese Michele, dubbioso se la donna parlasse in
senso traslato o...
A questo punto l’interlocutrice fu colta, con notevole ritardo, da un sospet-
to: «Io ho fatta la rivoluzione» dichiarò con un orgoglio che al sottotenente
riusciva davvero incomprensibile: «Voi non sareste per caso fascista?»
«No, per niente.»
La socialrivoluzionaria annuì approvando: «Socialista allora?»
«No, sono cristiano.»
«Cristiano? Cosa significa?»
S’avvicinavano tra gli alberi, a passi affrettati, due guardie; come se ne ac-
corsero le altre deportate si passarono la voce e ripresero il lavoro; anche la
socialrivoluzionaria smise di parlare e sollevata la propria scure ricominciò a
vibrarla. Il che non impedì a una delle guardie di arrivarle quasi addosso e di
rivolgerle un duro sproloquio, nel quale Michele distinse più volte la parola
puttana.
La donna sopportò senza far motto, seguitando a lavorare, con la sua orribi-
le bocca semiaperta per l’impegno.
“Quattordici anni” diceva intanto tra sé sgomento il sottotenente: “quattor-
dici anni in cui ha tirato avanti nutrendosi d’odio. Che vita!”
Le due guardie - con la solita divisa cachi, il solito berretto con la stella ros-
sa nel frontale, i soliti fucili a ‘bracciarm’, insopportabilmente pasciute rispet-
to ai prigionieri - rimasero sul posto. Il sottotenente riferì sotto voce ad alcuni
compagni di squadra - che sotto voce gliel’avevano chiesto - ciò che aveva ap-
preso dalla donna. Ma non rispose a tutte le loro domande, né fece caso ai loro
commenti; lanciava ogni tanto, senza darlo a vedere, un’occhiata in direzione
delle poche suore, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare per loro: che gesto
compiere, o quale frase di solidarietà mettere insieme, nel suo russo inadegua-
to.
Le ore trascorsero senza ch’egli approdasse ad alcunché. Verso sera poté
vedere le suore, completata la propria ‘norma’ (ossia la cubatura di legname
prescritta), interrompere il lavoro e chinare la fronte: probabilmente pregava-
no, forse rendevano grazie a Dio d’avercela fatta anche quel giorno. Dopo di
che, scambiatosi un cenno, si diressero verso le due comuniste sfinite, che
adesso erano particolarmente in difficoltà: non ce la facevano proprio più, sol-
levavano le scuri ad intervalli sempre più lunghi, e le calavano con gesti da
ubriache, senza quasi riuscire a indirizzarle; una delle due piangeva perché un
guardiano, dopo averla sgridata più volte, l’aveva sollecitata urtandole ripetu-
tamente la schiena con la bocca del fucile fino a farla urlare di dolore. Quasi
non bastasse anche le loro compagne di squadra per tema d’andare di mezzo
si mostravano esacerbate. Le suore si avvicinarono dunque con passo pesante,
come di boscaioli, alle comuniste, e presero ad aiutarle in silenzio. Anche suor
Natalia, deportata da più di vent’anni: si mise con stanchezza all’opera per
aiutare chi le aveva, con le sue scelte, deliberatamente distrutta la vita. Uno
spettacolo, pensò emozionato Michele, che Cristo in questo momento doveva
guardarsi con le lacrime agli occhi dal cielo.

CAPITOLO TERZO

Stava per imbrunire, l’aria aveva un buon odore di legno tagliato, il sole
basso sui boschi sembrava salutare gli uomini ed esortarli ad un po’ di pace
almeno alla fine della giornata. Lungo una pista era in arrivo una colonna di
deportate: veniva avanti lenta, sorvegliata da pochi guardiani, di cui alcuni
tenevano dei cani al guinzaglio; fece alt fra i tronchi abbattuti perché anche
queste donne s’incolonnassero. Ma i guardiani di queste - che dovevano prov-
visoriamente sorvegliare i prigionieri di guerra - si avvicinarono ai loro com-
pagni appena giunti per far presente il problema; cominciarono a confabulare.
Del fatto che si erano scostati alquanto approfittò la socialrivoluzionaria, la
quale: «Attenzione» avvertì in francese Michele: «Fate bene attenzione:
l’italiana, la vostra connazionale, è là in testa alla colonna, la vedete? Nella
seconda fila, quella coi capelli neri. La vedete? La vedete?»
Il giovane esplorò con gli occhi, ma ce n’erano parecchie coi capelli neri. Lo
disse: «Il y en a plusieures avec les cheveux noirs...»
«Quella nella seconda fila» insisté la forzata. «È la moglie del comunista
italiano che hanno fucilato. È comunista anche lei.»
«Ma perché lo hanno fucilato? Cos’aveva fatto?» non seppe trattenersi dal
chiedere Michele, mentre inutilmente seguitava a cercare d individuarla.
«Cos’aveva fatto? Siete pazzo? Niente aveva fatto. Non sapete che si man-
giano tra loro questi lupi?»
Dei prigionieri italiani - i quali in attesa di tornare al lager si venivano as-
sembrando - alcuni comprendevano le frasi della donna, altri no, e questi
chiesero a Michele cosa stesse dicendo. Egli lo riferì loro in poche parole.
«Un’italiana? Una donna italiana? - Là, in testa alla colonna?» cominciaro-
no a commentare: «Moglie d’un comunista fucilato? - Anche lei comunista? -
Beh, sarà stata comunista.» «No» spiegò Michele: «questa mi dice che è anco-
ra comunista.» «Storie. - Come potrebbe esserlo ancora? - Non è possibile.»
«Ragazzi» propose uno «bisognerebbe chiamarla. Ci facciamo dire il nome e
l’indirizzo.» «Sì, certo» gli s’aggiunse un altro: «è un’idea...» «Dov’è? In testa
alla colonna hai detto?»
Un sottotenente tozzo e scuro, con la barba affiorante dura come filo di fer-
ro, si girò verso la testa della colonna che distava forse una trentina di passi, e
facendo megafono con le mani: «Ehi» gridò con voce di basso: «C’è un’italiana
lì tra voi? Una donna italiana? Se c’è, dica il suo nome e il cognome, e
l’indirizzo in Italia, che al ritorno in patria noi avviseremo i famigliari. Capito?
Capito?» Dalla testa della colonna nessuno rispose, la socialrivoluzionaria
s’era intanto prontamente scostata e confusa tra le sue compagne di squadra;
le guardie russe - che non avevano capita una sola parola - guardavano sor-
prese in direzione degli italiani.
«Se c’è lì una deportata italiana» ripete il sottotenente dalla voce profonda
«gridi subito il suo nome e l’indirizzo, che noi lo faremo sapere in Italia. Se»
aggiunse a mezza voce, per i soli compagni di squadra «in Italia ci tornere-
mo.» Dopo di che azzittì perché un guardiano s’era messo a correre verso di
lui sfilandosi dalla spalla il parabellum. Istintivamente gli altri prigionieri si
mossero in modo da inglobare il sottotenente; alla guardia andò incontro il
capitano capo squadra, cercando d’attirarne l’attenzione su di sé: «Naciàl-
nich» si presentò: «Naciàlnich.» Debitamente la guardia cominciò allora a
sbraitare con lui, indicando furibonda col braccio nel mucchio degli italiani.
“Ecco, maiale, così. Va bene così, maiale” gli rispondeva mentalmente il ca-
pitano.
La donna ad ogni modo non s’era fatta viva, non aveva risposto. “Mi sa che
quella è rimasta davvero comunista” opinò Michele. “Beh, contenta lei...”
Una volta conclusa la strapazzata al capitano, i guardiani diedero alle donne
ancora sparse nel bosco il segnale d’adunata. Caricandosi gli arnesi sulle spal-
le, esse convennero con stanchezza nel luogo indicato; tutte quante: le povere
suore ortodosse dimenticate dall’intera cristianità, la rivoluzionaria che viveva
sostentandosi d’odio, le due disgraziate vicine a morire per sfinimento, tutte:
si trasformarono in una corta colonna di pupattole straccione, che a un altro
ordine si mosse per accodarsi alla colonna principale. A vigilare i prigionieri di
guerra sarebbero, a quanto pareva, rimasti alcuni guardiani. Il sole basso sui
boschi sembrava ancora salutare gli uomini ed esortarli a un po’ di pace,
nell’aria c’era quel buon odore di legno tagliato.
Improvvisamente dalla testa della colonna si levò un urlo femminile: «Bo-
logna... sono di Bologna, di Bologna...»
Alcuni cani cominciarono a latrare, altri ad abbaiare e a tirare il guinzaglio.
«Bologna, Bologna...» I militari prigionieri cercavano d’individuare la donna
che gridava, s’alzavano perfino - assurdamente - in punta di piedi, ma non
riuscivano a distinguerla, non capivano da quale delle pupattole venisse la vo-
ce. Nell’ululo presto generalizzatosi dei cani finirono col non distinguere più
nemmeno le parole della donna: solo, ogni tanto «Bologna» e «Togliatti, To-
gliatti» e bestemmie.
Un guardiano si buttò dentro la testa della colonna, impugnava una verga di
bosco con la quale prese a frustare selvaggiamente una delle deportate, che
così tutti poterono individuare. La donna non si moveva dal suo posto: china
sotto i colpi seguitava a gridare e a bestemmiare.
«Se questo non è l’inferno...» mormorava, tesissimo, Michele.
I cani s’erano fatti simili a demoni, le guardie faticavano a trattenerli; anche
i prigionieri di guerra entrarono in agitazione: «Una donna. Una delle nostre
donne...» dicevano. Ma ricordò loro, pur eccitato, il capitano naciàlnich: «È
venuta qui di sua volontà. State calmi.» Le poche guardie destinate agli italia-
ni brandirono i fucili e i mitra; una fece improvvisamente partire una raffica
verso l’alto. Agli spari la donna ammutolì. Seguitava a conservarsi immobile al
suo posto, rannicchiata su sé stessa, il guardiano cessò di frustarla, la testa di
colonna le si ricompose intorno.
«Davai» risuonò infine un ordine, che venne ripetuto qua e là, «Davai, da-
vai». La colonna s’avviò lentamente, solo qualche cane ringhiava e guaiolava
ancora, con sommessa ferocia.

CAPITOLO QUARTO

Successivamente Michele non aveva più avuto modo per mesi di parlare coi
deportati russi. L’occasione gli si era ripresentata in settembre - sempre di
quell’anno 1943, una settimana circa dopo l’armistizio in Italia - mentre la sua
squadra era impegnata nei raccolti agricoli, i quali in Russia, da che
l’agricoltura è stata collettivizzata, si concludono cronicamente in ritardo. La
zona di lavoro trovandosi lontana dal lager, i prigionieri vi rimanevano anche
di notte, accantonati nei rustici di un colcoz. Dentro rustici finitimi era accan-
tonata una compagnia di forzati russi provenienti dal cosiddetto ‘lager degli
intellettuali’, cui abbiamo fatto cenno a suo tempo. In teoria la separazione tra
i due gruppi di lavoratori coatti avrebbe dovuto essere rigorosa, in pratica le
squadre italiane e quelle russe si trovavano non di raro a lavorare perfino me-
scolate.
Specie durante la mietitura d’uno sterminato campo di grano. Gli uomini lo
mietevano manualmente, procedendo con lentezza in schieramenti segmenta-
ti e irregolari, perché quel grano - che avrebbe dovuto essere tagliato già da
mesi - fattosi per le intemperie d’un colore grigio sporco, era non solo infra-
mezzato da ogni sorta d’erbacce, ma in molti punti allettato sul terreno.
Michele aveva trovato modo di piazzarsi accanto a una squadra di forzati
russi: qualche passo alla sua destra lavorava un tipo anziano dal viso ossuto e
stretto, con capelli a spazzola e occhi color nocciola, che indossava una vecchia
giacca dalle maniche risibilmente corte (anche le divise degli italiani però era-
no ormai indecenti). Pur sapendo che non di tutti i deportati ci si poteva fidare
(tra loro c’erano senza dubbio dei delatori, come se n’erano ultimamente for-
mati tra gli stessi prigionieri di guerra) appena gli era sembrato di poterlo fare
di nascosto dalle guardie, Michele aveva rivolta al suo vicino la parola in un
russo quanto mai approssimativo. L’altro, dopo essersi guardato intorno con
circospezione, gli aveva risposto senza smettere di lavorare. Dapprima aveva
pronunciato alcune frasi in tedesco, poi, visto che il giovane non le capiva, era
passato al francese, lingua che sembrava padroneggiare un po’ meno bene. Si
era, con dignità, qualificato professore di scuola. «E voi, quelle est votre pro-
fession?»
«Studente in legge a Milano. Monsieur le professeur posso chiedervi dove
abitate?»
«A Rostov sul Don. È là che insegnavo.»
Stavolta Michele era intenzionato ad arrivare subito a ciò che più gli preme-
va: le dimensioni e le caratteristiche del fenomeno concentrazionario: «Posso
chiedervi, monsieur le professeur, perché vi hanno deportato?»
«Articolo 58. Conoscete? No? Propaganda controrivoluzionaria. Come qua-
si tutti gli arrestati negli anni fra il 36 e il 39. Naturalmente io sono innocente,
justement come tutti gli altri. Le sapete queste cose voi italiani?»
«No. Prima d’essere fatti prigionieri, noi non avevamo quasi notizia
dell’esistenza dei lager.»
«Comprendo.»
«Anche adesso per noi è molto difficile parlare con i deportati civili. Io ame-
rei che voi mi faceste, se lo credete, un quadro della situazione dei lager.»
Il professore s’era guardato un’altra volta intorno se ci fossero nelle vici-
nanze dei secsoti (deportati spioni) o qualche guardia: «È precisamente ciò
che desidero fare» gli rispose. «Statemi attento, e le cose che vi dirò riferitele
anche ai vostri compatrioti di cui vi potete fidare. Poi, una volta in Italia, do-
vete far conoscere il più possibile la nostra situazione a tutti.»
Michele promise, con contenuta emozione; si chiedeva se costui non si fosse
alla sua stessa maniera adoperato per capitare vicino agli stranieri, al fine di
comunicare con loro. Gli chiese: «Tutti i deportati sono innocenti, avete detto?
Volete per favore chiarirmi questo?»
L’altro annuì appena. «Li vedete questi miei compagni di sorte?» disse,
sempre parlando a mezza voce e sempre senza guardare il suo interlocutore:
«Io ne conosco parecchi: ce n’è d’ogni tipo, brava gente e carogne (des va-
ches), ma non c’è un solo colpevole; non uno, voglio dire, che abbia commesso
le délit (il reato) per cui è stato condannato. Avete capito? Non uno. E così tut-
ti gli altri milioni di deportati.»
Michele sussultò: «Milioni avete detto? Milioni?»
«Certamente. Ho detto milioni di deportati. E tutti innocenti. In Russia
chiunque sa che noi deportati siamo innocenti: i giudici, le guardie, la gente,
ogni persona lo sa. Però tutti fingono (font semblant) di non saperlo. Anzi di
più: fingono di non sapere nemmeno che milioni di loro concittadini sono rin-
chiusi nei lager. Perché ciascuno ha paura, se ne parla, di fare la stessa fine.
Capite?»
Michele si sentiva sempre più emozionato: aveva la sensazione d’aver trova-
to finalmente chi gli desse le informazioni in cerca delle quali era venuto in
Russia. «Ma come fate voi - vogliate scusarmi monsieur le professeur - a par-
lare di milioni? Com’è che siete in grado di saperlo?»
«Lo sappiamo attraverso... tutte le fonti. In Russia ci sono lager dappertut-
to, e gli ‘zech’ - c’est-à-dire les déportés - vengono di continuo trasferiti
dall’uno all’altro. Così si fanno dei calcoli. E poi, per farvi un esempio, nel no-
stro lager sono arrivati in marzo due che lavoravano negli uffici centrali di
statistica - tutt’e due condannati a dieci anni, alla ‘decina’, come me - bene,
secondo loro i deportati dovrebbero essere intorno a nove milioni. M’avete
inteso? Intorno a nove milioni.» Tenendo nella sinistra un mannello di grano
e nella destra il falcetto, il professore si fermò un istante nel suo lavoro e strin-
se le labbra, a sottolineare come poteva l’enormità della cosa.
«È... È una... realtà difficile da comprendere» mormorò il giovane.
«Sì. Anche per noi è difficile da comprendere, ve l’assicuro. Ma questa è,
appunto, la realtà.» Si drizzò di nuovo sulle reni, controllò - senza darlo e ve-
dere - i deportati più prossimi: la sua testa ossuta e lunga richiamava alla
mente di Michele quella di un insetto, la cavalletta dei prati; chissà per quante
sofferenze era passata quella povera testa. E non erano finite! Vide l’uomo
piegarsi di nuovo sul grano, rimettersi a mietere in modo maldestro: “Povero
cristo!” pensò.
«Questo che io v’ho detto» riprese il professore «voi prigionieri lo dovete ri-
ferire in Italia: dovete farlo sapere a tutti. Anche se... non so bene che vantag-
gio noi ne potremmo avere ormai» disse a un tratto con voce mutata: «I co-
munisti stanno vincendo la guerra, e nessuno potrà più aiutarci. Perché» chie-
se improvvisamente «voi siete stati così ciechi?» Adesso, pur seguitando in
qualche modo a lavorare, guardava ogni tanto direttamente Michele: «Non
avete visto che al principio i nostri non combattevano o quasi, che la gente dei
villaggi vi accoglieva come liberatori? Perché voi avete fatto tanti horreurs?
Perché siete stati così pazzi?»
“Lo stesso discorso dello stàrosta in quel paesino dell’Ucraina! ” pensò Mi-
chele. «Ascoltatemi, vi prego» gli rispose: «sono stati i tedeschi, non noi ita-
liani, a fare cela. I nazisti sono stati, che hanno la testa sbagliata justement
come i comunisti, anche se in tutt’un’altra maniera.»
L’altro però proseguì (questo era, con evidenza, un discorso che gli stava a
cuore: chissà da quanto tempo si riprometteva di farlo ai prigionieri di guerra)
«Come non avete compreso che Stalin, appena la guerra è cominciata, l’ha
data per perduta? Ha lasciato andare tutto, non ha impartito un ordine per la
difesa, non ha nemmeno parlato alla radio, non... Ah, mon Dieu! Stalin capiva
che un popolo di cui i comunisti hanno massacrato tanti milioni, e che ha nove
milioni di deportati - ciò significa altrettanti milioni di famiglie nello strazio,
vi rendete conto? - non avrebbe combattuto in difesa del comunismo. E infatti
era proprio così: nessuno o quasi del popolo avrebbe voluto difenderlo. Siete
stati voi a...»
«Non noi italiani, vi dico: i tedeschi, anzi i nazisti.»
«Che differenza fa? Va bene, i nazisti, a costringere il nostro popolo a difen-
dere il comunismo. Avete obbligato tutti i russi a fare corpo con
l’organizzazione comunista, la quale era l’unica esistente.» Da lontano una
guardia gridò qualcosa ai due che sempre più scopertamente conversavano; e
poiché Michele, emozionato, non pareva darsene per inteso, si mise a impre-
care con rabbia.
«Fate attenzione» sussurrò allora a mezza bocca il professore: «mi spiace-
rebbe non poter continuare questo discorso con voi: noi dobbiamo riprender-
lo. Adesso m’allontano.» Afferrati due covoni se li mise sotto braccio e andò a
deporli alquanto più indietro, su una bica; quando tornò alla linea dei mietito-
ri anziché riprendere posto accanto a Michele, si piazzò in uno spazio vuoto
tra due deportati russi.

***
Michele provvide a ricapitolare mentalmente, con intensa emozione, ciò che
l’altro gli aveva detto, a fissarsi ogni particolare nella memoria; intanto conti-
nuava lento e con evidente imperizia, e con fatica, a mietere. Ancora una volta
gli si prospettava anzitutto l’incredibile somma di sofferenze a cui da anni, e
forse, in un certo senso, da secoli, era sottoposto il popolo russo. Quello che
non riusciva tuttavia a spiegarsi era perché i comunisti, al potere ormai da un
quarto di secolo, seguitassero a uccidere e a deportare la gente su una simile
scala di milioni. Gli veniva spontaneo il confronto col comportamento dei fa-
scisti: la cosiddetta rivoluzione fascista - anche ad includervi tutte le vittime
dei disordini che l’avevano preceduta, e delle spedizioni punitive che l’avevano
seguita - era costata soltanto poche centinaia di morti; quanto ai confinati
(versione italiana dei deportati russi) non dovevano essere molti di più. Ciò
indicava che per conservare il potere non ne occorrevano di più. Perché dun-
que i comunisti seguitavano a uccidere e a deportare (perfino a deportare i
loro stessi compagni) su così incredibile scala? A cosa mai gli serviva?
Che gente disgraziata, ad ogni modo, i russi! Da una parte il comunismo,
dall’altra un esercito agguerrito come quello tedesco che - se anche ormai si
stava ritirando - faceva loro pagare ogni passo avanti con un numero terribil-
mente elevato di morti. Vero che i russi sembravano in complesso accettare
ogni cosa con fatalismo. Specie i contadini erano dotati di una capacità di
sopportazione assolutamente incredibile (gli tornò in mente suor Natalia...)
Ma erano pur sempre esseri umani, fatti di carne e nervi: la somma delle loro
sofferenze era tale che al giovane riusciva quasi impossibile prospettarsela.

Adesso alla sua destra - dove prima c’era il professore - lavorava un uomo
tozzo, con una grossa testa in cui erano incastrati due occhi chiari quasi come
l’acqua, il quale al pari del professore e di Michele manovrava con evidente
imperizia il falcetto. Il giovane - che non sapeva quando avrebbe avuto ancora
la possibilità di parlare coi deportati - al fine di stabilire un contatto con lui gli
fece a un tratto notare appunto questo: dopo avere, in qualche modo, sottoli-
neata la propria imperizia, indicò col mento lo strumento del russo che veniva
parimente mal usato. L’uomo - il quale prima, mentre il professore si espri-
meva in francese, non aveva mosso un muscolo del volto - spiò in direzione
della guardia e la vide non più attenta; diede un’occhiata anche ai suoi compa-
gni più vicini, quindi mostrò lui stesso per un istante a Michele il proprio fal-
cetto: «Questo, insieme col martello, è il simbolo del comunismo» compitò in
un francese molto stentato, appena intelligibile: «e anche questo campo, che
viene mietuto a mano, e con mesi di ritardo, è un simbolo del comunismo. E
simbolo del comunismo sono anch’io: un ingegnere meccanico impiegato per
mietere a mano il frumento. Ricordatevi di dire anche queste cose, quando
sarete in Italia.» Non aggiunse altro; dopo avere controllata di nuovo la guar-
dia con i suoi incredibili occhi chiari, riprese, tozzo come un massello, a taglia-
re maldestramente, il grano.

CAPITOLO QUINTO

Quella sera dopo il rancio Michele poté inaspettatamente conversare, e ab-


bastanza a lungo, sdraiato sull’aia sotto il cielo affollatissimo di stelle, con il
professore dalla testa di cavalletta, con l’ingegnere dagli occhi chiari, e con un
terzo deportato più giovane, rivelatosi subito assai colto. Al gruppetto si ag-
giunse a un certo punto anche padre Turla. Purché non parlassero ad alta voce
le guardie di questo turno - a tal punto contraddittori sono i russi - non bada-
vano loro affatto. I deportati, il professore in particolare, risposero ai quesiti
dei due italiani, dando ogni possibile informazione sulla realtà sovietica: la
quale venne a configurarsi di una tragicità davvero senza limiti. Alternativa-
mente anche Michele e don Turla risposero ai quesiti dei russi che - soprattut-
to il giovane - erano a loro volta straordinariamente bramosi d’aggiornarsi
sulla realtà dell’occidente.
Incontri come quello si ripeterono per diverse sere di seguito, fino a quando
cioè non furono cambiate le guardie. Siccome Michele aveva, con circospezio-
ne, rivelato al professore il proprio intendimento di scrivere di queste cose se
mai fosse tornato in patria, il professore - dopo essersi fatto ripetere ed avere
individuato bene i suoi punti di maggior interesse - lo mise in contatto, sepa-
ratamente, anche con un paio di altri forzati competenti in tali campi.
Furono, quegli incontri, di un’importanza davvero enorme per Michele: dei
loro frutti - egli si rendeva conto - avrebbe potuto giovarsi per tutta la vita.
Componendo via via ciò che apprendeva con ciò che aveva studiato, arrivò fi-
nalmente ad afferrare il perché delle stragi comuniste, che dalla rivoluzione
del 17 si susseguivano pressoché in continuità. Si rese conto che non avevano
affatto lo scopo di conservare il potere ai comunisti (non sarebbero state ne-
cessarie, appunto come non occorrevano ai fascisti): quelle stragi facevano
parte - in parallelo con l’incremento della produzione materiale - del meccani-
smo che secondo Marx e Lenin avrebbe dovuto produrre una ‘società di uomi-
ni nuovi’. Tale meccanismo presupponeva tra l’altro la ‘violenza come levatrice
della società nuova’, mediante la ‘repressione’ delle classi ex sfruttatrici, in
teoria più per trasformarle e recuperarle che per tenerle in soggezione. In pra-
tica - stritolate ormai da anni le classi borghesi e ‘piccolo borghesi’ senza che
la società nuova fosse comparsa - venivano adesso da Stalin fatti passare a
turno, implacabilmente, attraverso la ‘repressione’ tutti senza eccezione gli
strati della società sovietica, inclusi quelli comunisti alti e bassi. Si mirava con
ciò a spogliare ogni membro della società dalla corruzione che vietava la pre-
conizzata convivenza da paradiso terrestre, si voleva, in pratica, far cambiare a
ogni uomo la sua coscienza e la sua natura. Senza tenere nel minimo conto i
risultati obiettivi conseguiti, che consistevano soltanto in montagne e monta-
gne di cadaveri, i comunisti insistevano su questa strada perché il fermarsi
avrebbe comportato la rinuncia all’utopica società nuova - libera dai mali di
tutte le società precedenti - per costruire la quale essi avevano ormai fatto un
così sterminato numero di morti. Quanti? Certamente molti ma molti milioni.
Quando, al termine di quegli emozionanti e tragici discorsi sull’aia, il sotto-
tenente si ritirava per dormire nella baracca della sua squadra, gli tornavano
in mente le proprie preghiere mentr’era recluta a Mantova e più tardi durante
il corso ufficiali, perché Dio non lo privasse dell’esperienza del mondo comu-
nista, di quest’enorme laboratorio chiuso in cui i tedeschi erano entrati a for-
za. “Non ho sbagliato a pregare” si diceva adesso, “ho fatto bene.” Certo era
dovuto passare anche attraverso il fronte, e Crinovaia e il resto: “Ma che scrit-
tore potrei essere io se questa, che è l’esperienza senza confronto maggiore del
nostro tempo, anzi l’esperienza culmine di alcuni secoli di storia, l’avessi co-
nosciuta solo per sentito dire?”
C’era anche dell’altro: la conoscenza sempre più chiara della smisurata vi-
cenda comunista gli consentiva un po’ alla volta di afferrare bene la parentela
con essa delle altre due imponenti vicende storiche che s’erano sviluppate nel
suo solco: quella fascista e quella nazista. E di distinguere finalmente con
chiarezza tra queste ultime due: di semplice reazione com’era la prima, di
concorrenza col comunismo la seconda. Avrebbe però dovuto, a tale riguardo,
documentarsi ancora.
Tutto ciò, come s’è detto, aveva avuto luogo in autunno. Con la cattiva sta-
gione i prigionieri di guerra erano stati riportati nel lager d’Oranchi, dov’era
ricominciata la loro frusta vita di prima, fatta di lavoro e indottrinamenti
dall’alba al tramonto. La squadra di Michele era stata trasferita dall’estrazione
del minerale di calce al taglio dei boschi: ogni mattina essa usciva dal lager col
buio, e raggiungeva a cinque o sei chilometri di distanza il suo posto di lavoro
tra gli alberi innevati; non passava più davanti allo straziante lager delle cucle.
Poiché s’avvicinava il Natale padre Turla stava progettando di costruire «in
barba alle guardie e a tutta quanta l’NKVD» un presepio, e ne confabulava
talvolta con Michele e con gli altri suoi amici.

III

CAPITOLO SESTO

Qualche giorno prima di Natale - essendo migliorate le condizioni


d’Ambrogio - Giulia lasciò provvisoriamente Stresa per Nomana. Venne a dar-
le il cambio il figlio terzogenito Pino, da poco iscritto alla facoltà di medicina,
e perciò ritenuto più idoneo del secondogenito Fortunato ad assistere il fratel-
lo. (Del resto Fortunato, avendo raggiunta l’età di leva, era in esonero perché
‘indispensabile’ all’industria in cui prestava la sua opera, ch’era poi quella pa-
terna: non poteva quindi allontanarsi da Nomana).
Crescendo in età Pino veniva a somigliare sempre meno al fratello Ambro-
gio (sebbene, come tutti i figli di Giulia e Gerardo, avesse anche lui nella fisio-
nomia e nel comportamento qualcosa - il ‘marchio di fabbrica’ diceva il padre
- che raccomunava agli altri). Di lineamenti irregolari - in particolare col naso
un po’ storto - le ossa leggere e angolose, il cranio piatto sul retro, aveva capel-
li color biondo slavato, non dorati come quelli di Giudittina. Da Ambrogio più
ancora che per l’aspetto si distaccava per il carattere, niente affatto solido, e
inoltre eccessivamente sensibile: non però d’una sensibilità armonica, com’era
stata quella del cugino Manno, bensì sbilanciata. A scuola, unico tra i figli di
Gerardo, Pino non riportava bei voti; la sua mentalità induttiva inoltre lo por-
tava ogni tanto a stravaganze (era stato lui anni prima a legare un nastro alle
zampine delle rondini, per controllarne sperimentalmente il ritorno al nido), e
lo determinava a intrupparsi con le più disparate compagnie, senza pregiudizi
ma anche senza discernimento. Così - unico tra i fratelli, e in contrasto in que-
sto anche con l’ambiente di Nomana in cui i maschi d’ogni condizione arriva-
vano di norma vergini al matrimonio - Pino a diciotto anni aveva già speri-
mentato il rapporto carnale; con conseguenti pentimenti, e crisi, e ricadute,
che solo don Mario, suo confessore, conosceva.
Portò nell’ospedale una piccola ventata di novità, costituita in prevalenza di
notizie spicciole: «La mamma doveva per forza tornare a casa in treno, perché
di benzina non ne danno più. E poi i copertoni della nostra Millecento sono
lisci come una palla da biliardo. Il brutto è che non mancano soltanto queste
cose: manca tutto. Vi ricordate quando hanno tolto le cancellate dai giardini e
le campane dai campanili per fonderle? Beh, ormai hanno consumata ogni
cosa: dice il papà che presto lavorare diventerà impossibile.»
Fanny, che quando ne aveva il modo s’intratteneva lei pure a conversare,
confermava: «Ragazzi, dovreste vedere mia madre alle prese coi bottegai. Sta
diventando una cosa terrific.»
«E perché mai?» s’informava divertito Decio.
«Perché loro il poco che c’è vorrebbero venderglielo sottobanco, a prezzo
maggiorato. Almeno così sostiene lei.»
Pino, dopo avere genericamente approvata la madre di Fanny, andava avan-
ti: «Sapete quanti sono a Nomana i ragazzi in età militare che abbiamo iscritto
in ditta come operai, facendogli il certificato? Beh, il numero preciso non lo so
neanch’io, però sono un mucchio: praticamente tutti quelli che glielo chiedo-
no, il papà li imbosca. Dice che, siccome c’è la possibilità, è nostro dovere evi-
targli di finire in Germania.»
«Di cosa nostro padre non si farebbe un dovere» commentò a mezza voce
Ambrogio.
«Fortunato però» continuò Pino (qui aprì una parentesi a beneficio di Fan-
ny e Decio: «Fortunato» spiegò «è nostro fratello, il secondo: viene dopo
d’Ambrogio e prima di me»; tornò al filo principale del discorso): «beh, quello
in ditta si sta dimostrando utile sul serio, specie nel settore commerciale.»
Concluse: «Eh, Fortunato non è un poveretto come me!» (La frase ‘un pove-
retto come me’ ricorreva ogni tanto nei discorsi di Pino.)
Il quale riferì ancora: «A Nomana nessuno vuol saperne del fascismo, tutti
la pensano più o meno come noi in casa nostra. Lo sai, Ambrogio, che perfino
il signor Cereda, il segretario politico, ha date le dimissioni? Poi tutti, a co-
minciare dal prevosto, hanno insistito per fargliele ritirare: ‘Rimanga signor
Cereda, se no ci mandano qui qualche scriteriato. Resti al suo posto, e tutti noi
a guerra finita testimonieremo, diremo che l’ha fatto per volontà della popola-
zione.’ Lui ha finito col ritirare le dimissioni: speriamo che poi, a guerra finita,
riescano a giustificarlo davvero, povero signor Cereda.» «Ah beh» disse Fanny
«certo che io non vorrei mica trovarmi nei suoi panni.»
Ambrogio convenne grave. Poi chiese a Pino: «C’è stato qualcuno a Nomana
che abbia avuto guai seri con la repubblica sociale? O finora nessuno?»
«A Nomana nessuno. Ma a Incastigo sì.»
«Brr» esclamò Fanny, mostrandosi impressionata ancor prima del tempo:
«Brr. In che posto hai detto?»
«A Incastigo, un paese a pochi chilometri da Nomana, sulla provinciale per
Monza.»
«Che strano nome.»
«È la contrazione di ‘Signor-in-castigo’, pensa un po’» spiegò Ambrogio
«ch’era l’antico nome del paese. Perché - almeno così dicono - nell’antichità il
tabernacolo in chiesa non stava al posto d’onore, ma relegato da una parte.»
«Che stranezza» osservò Decio.
«Beh, là» proseguì Pino «è successo un fattaccio grosso, purtroppo. I fasci-
sti hanno portato via il ragionier Mambretti, il direttore della Banca Artigia-
na.» E rivolgendosi ad Ambrogio: «Te lo ricordi?»
Ambrogio protese la testa: «Il Mambretti hai detto? Si capisce che lo ricor-
do: con la Banca Artigiana noi lavoriamo. Ma cosa gli è successo? Dove
l’hanno portato?»
«In Germania. L’hanno deportato in Germania.»
«Il Mambretti?»
«È andata cosi» (Pino era contento d’aver trovato un argomento che inte-
ressasse a tal punto il fratello): «Hai presente quel tizio, anche lui d’Incastigo,
impiegato del Consorzio Agrario, anzi no, delle assicurazioni, beh, qualcosa di
simile, che è sottufficiale della GIL? Uno che si chiama Praga, o Braga...»
«Ah, sì, quel tracagnotto con la testa rotonda, il Praga, sì. Non è delle nostre
parti.»
«Ecco, è stato lui a deportare il Mambretti.»
«Che razza di... Ma come ha fatto? Se è uno che non conta niente? Però a
pensarci, sì, è sempre stato un arrivista: solo che gli altri del partito lo teneva-
no in riga.» Spiegò a Decio: «Nei nostri paesi il fascismo non lo sente nessuno,
per cui le cariche le occupa tutta gente fascista soltanto di nome, dato che
qualcuno deve pur occuparle.»
Pino lo corresse: «Prima. Prima era così. Ma adesso nessuno vuole più inca-
richi, tutti cercano solo di togliersi dal giro; anche il signor Cereda come t’ho
detto: è vero che poi è rimasto segretario politico, ma anche lui aveva date le
dimissioni.»
«Già. Adesso è il momento dei tipi come il Praga. Però come ha fatto, un
sottufficiale della GIL, a far deportare il Mambretti? Lo ha denunciato?»
«No. Tutto quello che si sa, è che il Praga è andato una sera a casa del
Mambretti insieme con un altro fascista, uno che chiamano Panzone, mentre è
magro come un chiodo: dev’essere un mezzo cretino, io non so, lo conosci tu?
Da allora, a quel che dicono, questo Panzone continua a sbronzarsi, e ogni
tanto piange in pubblico perché ha paura di quello che ha fatto.»
«Panzone?»
«Sì. Lo conosci?»
«Mi pare... Uno col ventre incavato... Sì, mi pare.»
«Beh, non si sa come, questi due hanno fatto fesso il Mambretti: si sono fat-
ti passare per inviati di non so chi, insomma lui - che pure li conosceva tutt’e
due - c’è cascato, e non si sa cos’ha detto, e che prove si è lasciato sfuggire, di
aver consegnato dei soldi a dei partigiani per conto della sua banca. Perché
questa è l’accusa.»
«Mambretti dei soldi ai partigiani?» valutò Ambrogio: «Sì, in fondo potreb-
be essere il tipo. Però, con quei figli ancora piccoli... Povero diavolo. Mambret-
ti è, cioè era, il capo dell’Azione Cattolica d’Incastigo: adesso anche quella sarà
nei guai.»
«Sì» disse Pino «qualcosa ho sentito dire. Beh, insomma, quei due l’hanno
preso in mezzo e l’hanno portato via subito, quella sera stessa. Venite con noi
gli ha detto il Praga, e l’hanno condotto via sotto gli occhi della moglie e dei
figli, capisci? Pensa che carogne.» Ci fu una pausa.
«Oh, ragazzi, che senso mi fa» mormorò Fanny. «Mi fa venire in mente un
fatto ch’è successo a Pallanza.»
«E sì che Mambretti non è un fesso» considerò Ambrogio: «A suo tempo
era, mi pare, capitano degli alpini: non capisco come ha fatto a cascarci. È an-
che direttore di banca, dunque...» Tentennò la testa: «Noi in Brianza in politi-
ca siamo tutti degli sprovveduti.»
«Non è questione» disse Fanny: «Anche a Pallanza, io non ve l’avevo detto
per non impressionarvi, ma le guardie nere la settimana scorsa hanno portato
via un avvocato perché aiutava i partigiani. È uno di Milano che ha la villa non
lontana dalla nostra: uno sveltone a quel che dicono, eppure l’hanno preso.»
Spalancò gli occhi verdi e annuì più volte. Poi, a cortese richiesta
d’Ambrogio e di Decio, aggiunse i particolari. «In che tempi viviamo, gente, in
che tempi!» concluse.
Il discorso venne da Pino riportato appena possibile a Nomana; il ragazzo
proseguì con le sue notizie: «Prima volevi sapere se in paese c’è la fame. No.
La vera fame non c’è, ma una gran cinghia sì: manca di tutto. Però l’invio dei
pacchi ai prigionieri in Germania continua lo stesso: è il papà che l’ha organiz-
zato, e si vede. Come, non ne sai niente? Non sai che a ogni soldato di Nomana
prigioniero in Germania - sono circa settanta - viene spedito ogni quindici
giorni un pacco di viveri? Certo, e senza mai sgarrare. Tutto il paese si presta:
c’è chi dà i soldi, chi la roba, e chi lavora a preparare i pacchi; il responsabile
della confezione è il nostro magazziniere, il Ghezzi. Anche Francesca e Alma
vanno sempre a dare una mano. Dove ci procuriamo la roba? Al mercato nero,
per forza. Dove se no?» Pino fece una pausa e tentennò un poco la testa bion-
da, piatta dietro: «A Manno soltanto, poveraccio, non possiamo mai mandare
niente, perché non abbiamo l’indirizzo. Chissà dove l’hanno portato i tedeschi.
C’è chi dice nelle retrovie del fronte russo, chissà.»
«Non potrebbe trovarsi invece al sud, con l’esercito regolare?» chiese il te-
nente Decio, il quale da tempo era al corrente della storia di Manno: «Se fosse
passato dalla Grecia in Puglia o in Calabria? È ben possibile, no?»
«Anche noi a volte ce lo diciamo, ma... mi sembra difficile.»
«È pur passato dalla Tunisia in Sicilia» osservò Decio, che era al corrente
anche di questo: «E quella era senza dubbio un’impresa più difficile.»
«Mah, speriamo.»

***
Del tenente Decio Pino ammirava i modi signorili. Lo stava in certi momen-
ti a osservare attento: «Voi avete uno stile da signore che mi fa venire in men-
te mio cugino Manno» gli disse una volta. «Mi piacerebbe avere anch’io dei
modi come i vostri.» Non ebbe però molto a che fare con lui perché l’ufficiale,
ormai convalescente, venne dimesso dall’ospedale in tempo per trascorrere a
casa il Natale.
Quando, già col cappotto di gabardina indosso, salutò Ambrogio, questi -
che sedeva in poltrona accanto alla finestra - si tolse di tasca un foglietto e
glielo porse. Un po’ sorpreso Decio lo lesse: conteneva solo l’ultimo indirizzo
militare di Manno, scritto in stampatello. Il tenente guardò interrogativo Am-
brogio.
«Chissà. Ho pensato che, siccome tu abiti nell’Italia centrale, potresti un
giorno trovarti al di là delle linee» spiegò questi. «In tal caso, se non ti sarà di
troppo disturbo, potresti cercarlo e se lo trovi dargli nostre notizie.»
Decio annuì: dunque Ambrogio s’era reso conto della sua intenzione di pas-
sare le linee... «D’accordo Riva, te lo prometto» disse.
«E cercate, fra tutt’e due, di farci avere notizie vostre. Un qualche modo ci
dovrà pur essere.»
«Sì» rispose Decio.
Pino volle accompagnarlo e portargli la valigia alla stazione.

CAPITOLO SETTIMO

Il posto di Decio venne occupato nel giro di qualche giorno da un tenente


della ‘guardia nazionale repubblicana’ di nome Tittoni, ferito in uno scontro
coi partigiani non lontano da Stresa.
Questo Tittoni era un giovane nerboruto, dal viso angoloso, pallido per co-
stituzione. Parlava poco. Una volta tuttavia - in assenza di Pino - si diede a
ragguagliare Ambrogio sulla situazione militare della provincia (disse proprio
così: la situazione militare della provincia). «In montagna i partigiani attec-
chiscono un po’ dappertutto, peggio della gramigna. Se non arriviamo a estir-
parli in tempo, ci andrà a finire male: ci uccideranno tutti quanti come topi.»
Ambrogio lo vide chiudere per qualche istante gli occhi. «Estirparli però
non è facile. Non credere a quello che dicono i giornali e la radio. Noi siamo
male equipaggiati e peggio organizzati: lo sai che a ogni richiamato che si pre-
senta con la coperta paghiamo trecento lire? E a chi arriva con la bustina ven-
ti? Ma quel che è peggio non ci possiamo fidare né dei comandi, né dei soldati,
se non di pochi. E neanche del popolo, il quale non vuol credere alle armi se-
grete che la Germania sta preparando, e che rovesceranno le sorti della guer-
ra.»
Ambrogio seguitava a guardarlo senza parlare. «Neanche tu ci credi» disse
Tittoni.
Ambrogio non obiettò.
«Non importa» disse cupamente l’altro: «Ti hanno ferito i rossi sul fronte
dell’est, sei stato per mesi tra la vita e la morte.» Fece una lunga pausa: «Con
qualcuno devo pur parlare anch’io» mormorò.
«Parla liberamente se ti è d’aiuto» gli disse allora Ambrogio: «Non sono
una carogna, so rispettare i sentimenti degli altri.»
Tittoni, che se n’era già reso conto, annuì. Riprese: «Mia madre non fa che
piangere. Ma per me viene avanti tutto l’onore, capisci? La patria, la mia pa-
tria, non può comportarsi come una puttana: non può tradire i suoi alleati per
mettersi da un giorno all’altro con i nemici. I quali l’hanno bastonata, bom-
bardata, bruciata. Darsi al nemico come una puttana e, per ingraziarselo, spa-
rare nella schiena agli alleati d’ieri. No. Per quanto riguarda me questo non
deve accadere. Voglio dire: non nel piccolo spazio attorno a me.» Tracciò con
l’indice un cerchio sulla coperta.
Ambrogio, pur riconoscendo la nobiltà presente negli argomenti dell’altro,
si sentiva affluire alla lingua non poche obiezioni: “Il popolo, la gente, è stata
trascinata a quell’alleanza contro la sua volontà, da un governo che le era stato
imposto. È stata inoltre portata in guerra totalmente impreparata. E ad ogni
modo adesso la guerra è perduta: a che scopo dunque farsi ancora uccidere,
farsi distruggere beni e città? A cosa giova ormai? È per questo che la gente vi
odia: vi sente come un cadavere abbracciato al suo collo che vuole trascinarla
nella tomba con lui. È inevitabile che cerchi di liberarsi dal vostro abbraccio,
non lo capisci?” Queste erano ragioni ancora più valide di quelle dell’altro.
Ambrogio avvertiva tuttavia il tormento del suo vicino di letto: “Certo che, se
appena si riflette... Povera Italia e poveri noi, a che punto siamo!”
«Se vuoi saperlo» continuò Tittoni «alle armi segrete non ci credo nemme-
no io. E so bene che noi, che stiamo lottando per l’onore, finiremo tutti uccisi,
che sarà questa la conclusione. Ma non finiremo come pecore. Prima ne deve
scorrere di sangue... Sangue di chi ci spara a tradimento nella schiena, e anche
di quelli che stanno nelle nostre file pronti a squagliarsela, di certi capi che
tengono i piedi in due, anzi in dieci scarpe, e così non organizzano le cose co-
me dovrebbero.» Si era levato a sedere sul letto, pallidissimo, batteva ad ogni
frase l’indice sulla coperta bianca.
Proprio in quel momento entrò nella stanza Pino: «Ehi, Ambrogio» escla-
mò: «Ho saputo da un piantone che c’è un posto qui nell’isola, dalla parte ver-
so Pallanza, dove i pesci...» Accortosi dell’atmosfera insolita che regnava nel
locale s’interruppe: «Forse non dovrei parlare?» fece.
Tittoni, col volto teso, non lo guardava.
«Non preoccuparti» gli rispose Ambrogio. «Però adesso è meglio che tu
torni a Stresa in albergo. So che hai da studiare.»
«Non posso tornare a Stresa» disse Pino, «ho promesso all’analista che oggi
l’avrei aiutato. Dunque...»
«Ecco, vallo ad aiutare. Ti ringrazio.»
«Ah, va bene. Ciao allora.»
«Ciao.»
Pino si rivolse anche a Tittoni per salutarlo, ma finì col non spiccicare paro-
la. Tornò indietro verso la porta posando a terra i piedi con precauzione, a si-
gnificare che intendeva non recare disturbo, ma muovendosi così in modo ca-
ricaturale.
«È solo un ragazzo» lo giustificò il fratello.
Tittoni non disse nulla. Non parlò più, si era di nuovo chiuso nel suo muti-
smo.

***

Di lui Fanny aveva paura, tanto che qualche giorno più tardi, approfittando
d’un momento in cui quello s’era assopito, Ambrogio la rimproverò un poco:
«Dovresti averne compassione invece. E fascista, d’accordo, ma prima di tutto
è un essere umano, un poveraccio convinto di non avere alcuna alternativa
alla morte.»
«Proprio per questo mi fa senso, non capisci?»
Ambrogio disapprovò con la testa.
«Non giudicarmi male» gli sussurrò Fanny: «anche tu sei una specie di
guerriero, ma lo sei in un modo che non mi spaventa; anzi con te io mi trovo
bene.» Fece il visetto sbarazzino: «Lo sai che vicino a te io mi sento protetta?»
«Sono una specie di guerriero, eh?» scherzò allora Ambrogio: «Ah, andia-
mo bene!»
«Certo.» Fanny annuiva, guardandolo negli occhi. Poi gli sorrise e improv-
visamente lo accarezzò con lievità su una guancia: era la prima volta che lo
faceva. «Tu sei il mio guerriero» disse sottovoce, avvicinando un po’ il viso al
suo. La voce quasi le tremava, anche Ambrogio si sentì pervadere da una
grande emozione.
I due giovani si guardarono negli occhi in silenzio.
Fanny accarezzò una seconda volta Ambrogio sulla guancia: «Stasera vado
in licenza, lo sai: dunque posso finalmente farti una carezza. E non dire, ti
prego, qualcuna delle tue frasi puritane.»
Ambrogio prese la destra della ragazza, che gli sembrò commoventemente
piccola e fragile (non era originale nelle sue sensazioni), e la portò in silenzio
alle labbra. Si rendeva conto d’agire, in una cosa tanto importante, d’istinto e
senza riflettere, pure si sentiva risoluto ad agire così.
Qualcuno bussò alla porta in modo professionale, una voce femminile chie-
se: «Permesso?»
Era la solita infermiera con l’iniezione. «Di già» esclamò Fanny ritraendosi,
e si riassettò la cuffia anche se non ce n’era alcun bisogno. Tittoni emise un
sospiro nel sonno. L’incanto era durato meno d’un minuto.
La ragazza partì effettivamente per la licenza la sera di quel giorno: avrebbe
dovuto andarci settimane prima, ma allora Ambrogio era in pericolo e, per
non abbandonarlo, essa senza dir niente aveva scambiato il proprio turno con
quello d’una collega.

CAPITOLO OTTAVO

Con Tittoni Pino non riuscì proprio a ingranare. Le sue battute fanciulle-
sche disturbavano l’altro, che lo prese in considerazione soltanto una volta per
domandargli brusco come mai non si presentasse volontario, visto che aveva
diciotto anni. Alla sua risposta insincera («Mi presenterò quando mi arriverà
la cartolina») diede in uno sbuffo d’insofferenza. Pino finì col detestarlo, tanto
più che, lui presente nella stanza, non poteva più conversare in libertà col fra-
tello. Ciò veniva a costituire un inciampo continuo e alla lunga irritante.
Una sera, per rivalsa, il ragazzo s’intrattenne a parlare dei partigiani col
portiere del suo albergo. Costui, che non sapeva come far passare le lunghe
ore serali, fu ben lieto d’avere una volta tanto un uditore così disponibile. Do-
po aver affermato e anche ripetuto - in modo peraltro un po’ vago - che su tut-
te le montagne della zona c’erano dei partigiani, aveva insinuato che forse cer-
ti non andavano messi nel conto «perché più che altro son ladri di polli.» Al-
meno due bande però, anzi «se vogliamo essere esatti» tre bande, erano una
cosa seria, un avversario reale per la repubblica: «Qui, sulle montagne da que-
sta parte del lago, c’è la banda del capitano Beltrami, che è un signore di Mila-
no con la villa a Omegna. Questi sono partigiani seri, comandati da veri uffi-
ciali; portano i fazzoletti azzurri: di questi so di sicuro che sono monarchici,
insomma vogliono il re.»
«Come fa lei a saperlo di sicuro?»
«Beh, se mi permette, non è una domanda da fare in tempi così pericolosi.
Però le dico che lo so: i partigiani di Beltrami vogliono il re. Sulle montagne
dall’altra parte del lago c’è invece la banda dei due fratelli Di Dio. Quella ban-
da, secondo alcuni, farebbe ancora parte della banda Beltrami, è una cosa che
non si capisce bene. Dicono che abbia i fazzoletti verdi, non azzurri, ecco il
punto. Forse chissà» fantasticò il portiere «i fratelli Di Dio erano ufficiali degli
alpini, e per questo hanno conservato il colore verde... Intendiamoci però, che
fossero ufficiali degli alpini io non lo so, dico così per deduzione logica. Beh,
c’è poi l’altra banda importante, quella della Valsesia. Là sono comunisti, coi
fazzoletti rossi, gente» qui enfatizzò un tantino «che dove arriva fa scorrere il
sangue come acqua. Ecco» concluse «queste sono le tre bande che contano
veramente.»
«E vanno d’accordo tra loro, oppure si sparano, i monarchici con i comuni-
sti?»
«Io credo che... Mah! Non lo so. È una cosa un po’ diplomatica, dunque dif-
ficile da sapere. Però, siccome sono tutti partigiani, penso che andranno
d’accordo.»
«A me sembra difficile» opinò Pino. «Comunque all’ospedale c’è un ufficia-
le fascista, un certo Tittoni, che è stato ferito ad Anzola, e ogni tanto tira fuori
Anzola, anche se è un tipo che parla di raro. Sapete quali partigiani possono
essere stati a ferirlo?»
«Anzola? Senz’altro quelli di Beltrami. Là c’è un posto di blocco permanen-
te dei partigiani di Beltrami. E poi tutte le azioni importanti contro i fascisti da
questa parte del lago le fanno loro, quelli della brigata Beltrami. Su questo lei
ci può scommettere.»
«Un posto di blocco permanente ha detto? Ad Anzola? Cosa significa?»
«Cosa significa? È chiaro, no? Però si trova sulla strada piccola che porta in
paese, non sulla strada nazionale.»
«Ma sono i partigiani a tenere un posto di blocco, e per di più permanen-
te?»
«Certo, i partigiani.»
Pino ne fu molto sorpreso. «A che distanza si trova Anzola da qui?» chiese.
«Saranno, diciamo un venticinque chilometri. Se uno percorre la strada na-
zionale del Sempione fino a Ornavasso, e appena dopo Ornavasso prende la
strada minore che costeggia il piede delle montagne sul lato sinistro della val-
le, arriva per forza ad Anzola. Non può sbagliare. Del resto ci sono i cartelli.»
Il ragazzo rimuginò a lungo la notizia, e nei giorni successivi tornò a chiede-
re qualche particolare al portiere, che sarebbe stato lieto di dargliene se non
gliene avesse già dati più di quanti ne possedeva. Pino avrebbe voluto parlare
del posto di blocco partigiano anche con suo fratello Ambrogio, il quale pro-
prio in quei giorni cominciava a lasciare per qualche ora la stanza e a scendere
a pianterreno; nel timore però che il fratello lo invitasse in modo perentorio a
non impicciarsi di simili cose, finì col non dirgli nulla.
Un bel mattino di metà gennaio si risolse: prese a nolo una bicicletta in una
botteguccia da ciclista (nella quale era già entrato a informarsi giorni prima) e
partì per Anzola.
Risalì la riva del lago - luminosa e soleggiata nel gran freddo - fino a Bave-
no. Qui se ne staccò, e sempre tenendosi sulla via nazionale entrò nella val
d’Ossola, tra pareti di montagne quasi a strapiombo: la valle - in questo primo
tratto piuttosto stretta - è uniformemente piana; dopo aver superato il paese
di Ornavasso, tutto di case con tetti di pietra grigia, imboccò verso sinistra una
strada minore che costeggiava il piede della montagna. A una curva si trovò in
un blocco di militi fascisti, attraverso il quale tuttavia passò senza che nessuno
gli dicesse niente. Dopo alcuni chilometri vide una targa stradale col nome di
Anzola; il paese era appena più in là, formato da poche case e ortaglie e qual-
che giardinetto abbarbicati al piede della montagna.
Un’antenna orizzontale, come di passaggio a livello ferroviario, ma in legno
grezzo, sbarrava la strada. Seduto su un’estremità dell’antenna, col mitra tra le
gambe e un binocolo al collo, c’era un partigiano. Indossava una giacca a ven-
to color oliva, in testa aveva uno zucchetto da sciatore a cerchi colorati, e ai
piedi scarpe da sci. Lasciò, senza muoversi che Pino venisse avanti.
Il ragazzo fermò la bicicletta a pochi passi da lui e mise un piede a terra:
«Salve» disse.
«Salve» gli rispose il partigiano; aveva - notò Pino - all’incirca la sua età;
non sembrava uno studente.
«Dunque è vero: qui ad Anzola c’è proprio un posto di blocco.»
«Mm» annuì il partigiano.
«Vedo» disse Pino.
«Da dove vieni, tu?» gli chiese in dialetto l’altro. Strano, non parlava il dia-
letto del posto, non il piemontese, bensì un dialetto lombardo.
«Da Stresa» rispose Pino.
«E cosa vieni a fare qui?»
«A vedervi, a fare la vostra conoscenza.» Anche Pino era passato provviso-
riamente al dialetto; per conoscenza usò il termine ‘cugnuscanza’ vetusto, che
a Nomana si usava ormai solo per celia.
Il partigiano lo guardò incerto. Alla porta di una vicina casupola s’affacciò
un secondo partigiano alquanto più anziano, forse il capo posto. A differenza
del primo sembrava piuttosto diffidente; aveva in testa un vecchio cappello
alpino e gettato sulle spalle un impermeabile tedesco. «Con chi parli?» chiese
in dialetto piemontese al partigiano di guardia.
«Ehi Tom» gli disse la guardia per tutta risposta, «c’è qui uno che viene a
vederci per turismo.»
«Cosa?» fece il capo posto. «Gli hai chiesto i documenti?»
«No. Cioè, non ancora.»
«E cosa aspetti?»
«Volete vedere la mia carta d’identità?» disse Pino: «Pronto, eccola.» Si tol-
se di tasca il portafogli, ne levò la carta e, ad abundantiam, un secondo docu-
mento: «Questo è il mio tesserino dell’università, facoltà di medicina.»
Il capo posto, venuto avanti, prese entrambi i documenti e li esaminò: «E
anlora?» Poi passò all’italiano: «Cosa l’è che vuoi?» Neppure lui era studente.
«Niente» rispose Pino. «A Stresa si parla di voi, e io ho voluto vedervi.»
«Ma sent-lo» fece il capo posto.
La guardia si mise a ridere fragorosamente. Neppure per un momento a Pi-
no passò per la testa che poteva anche essersi ficcato nei guai, che la sua cu-
riosità poteva riuscire sospetta.
Il capo posto lo considerò: «Tu sei uno studente, hai detto?»
«Sì, hai nelle mani il mio tesserino.»
L’altro, dopo averli sfiorati nuovamente con gli occhi, chiuse tesserino e
carta d’identità e glieli restituì: «Bene, ci hai visti. Così puoi ritornare a Stresa
contento.»
«Di già?» disse Pino. «Ma io ho fatto venticinque chilometri di strada, con
questo freddo, per venire qui.»
«E allora? Cos’è che vuoi? Che ti portiamo a visitare gli accantonamenti e il
comando, e magara» aggiunse «ch’i fasso ’n po’ de sciopatà (che facciamo un
po’ di schioppettate), per fete vedde come ch’as fa? (per farti vedere come si
fa?)»
La guardia si mise a ridere di nuovo.
Il capo posto invece era serio: «Lo saprai, spero, che se uno non è conosciu-
to, o non ha il lasciapassare, non può entrare in questo paese.»
«Il lasciapassare? Già... Avrei dovuto portare almeno un fiasco di vino» dis-
se allora il ragazzo: «l’avremmo bevuto insieme.»
«Lo puoi portare la prossima volta» fece, sempre ridendo, la guardia.
Il capo posto si manteneva serio. Aveva un viso magro e piuttosto stanco,
anche se giovanile; il vecchio cappello alpino, da sottufficiale, sebbene proba-
bilmente non suo, gli s’adattava bene: «In sostanza tu ti diverti all’idea della
guerra, eh? Ti sembra una festa o press’a poco. No invece, la guerra è una gran
porcata. Non c’è merda più merda della guerra.»
«Lo so. Io sono a Stresa per assistere mio fratello che è tornato ferito dal
fronte russo» disse Pino: «Figurati che allegria. Si trova all’ospedale
sull’isola.»
«Fronte russo...» mormorò il capo posto, suo malgrado interessato: «In che
divisione era?»
«Nella Pasubio.»
«Allora non con gli alpini.»
«No, lui è d’artiglieria.»
«Ma non d’artiglieria alpina.»
«No. Perché lo domandi? Forse anche tu eri al fronte russo?» Il capo posto
fece segno di no con la testa.
«Non lui, suo fratello» spiegò la guardia «e anche un suo cugino: erano nel-
la Cuneense. Sono dispersi. Li hanno dati dispersi tutt’e due.»
Ci fu una pausa.
«È al corrente tuo fratello, là in ospedale, che tu venivi qui?» chiese dopo
un po’ il capo posto.
«No. Non gliel’ho detto.»
L’altro lo considerò nuovamente: «Ti credo» fece.
«Sentite, non potreste farmi vedere almeno il... lì, come si chiama? il posto
di guardia?» propose Pino.
«Va a fa ’n...» disse il capo posto, «e va bene, entra. Vedrai quanto ti si lu-
stra la vista.»
Pino non se lo fece ripetere: con un paio di pedalate raggiunse la casupola
da cui era uscito il capo posto, appoggiò la bicicletta al muro, ed entrò.
L’interno si componeva di due locali: nel primo c’era un camino col fuoco
acceso e, appeso alla catena, un paiolo con dell’acqua in ebollizione; sul tavolo
stava una ciotola di legno tornito, colma di farina di granturco d’un attraente
colore giallo dorato. Appesi ai muri si vedevano alcuni moschetti e mitra, e
giberne da mitra gonfie di caricatori, nonché qualche indumento invernale e
un paio di fazzoletti azzurri piuttosto sporchi; tre paia di scarponi da monta-
gna erano sul pavimento davanti al camino. Il secondo locale, molto piccolo,
era quasi per intero occupato da materassi stesi sul pavimento: su tre stavano
sdraiati altrettanti partigiani che dormivano, o semplicemente si riposavano,
sotto coperte di lana. L’insieme dava più l’impressione di baita che di caserma.
Il ragazzo notò anche due immaginette di santi appiccicate al muro in capo
a due dei materassi, al modo dei quadri sacri sopra i letti dei contadini. Le ar-
mi, appese senza particolare ordine né formalità ai muri del primo locale, ri-
chiamavano alla sua mente le armi da caccia, brunite al pari di queste, ecci-
tanti la fantasia d’un ragazzo come lui a immaginare boschi e prati e lunghe
camminate, e avventure di cani e di animali selvatici.
«Beh» gli uscì detto, «in fondo è piuttosto bello qui da voi.»
«Che Dio ti strafulmini» esclamò il capo posto, il quale gli stava alle spalle:
«si può sapere cosa ci trovi di bello?»
«Mah, non lo so nemmeno io» ammise Pino: «però non mi dispiace.»
«Proprio ti sembra che siamo qui a giocare, eh? O press’a poco.»
«No, lo so che la vostra vita non è un gioco. Ma...»
L’idea d’essere soldato al modo d’Ambrogio o di Manno non l’aveva mai at-
tirato: la disciplina, quell’essere tenuti a dominare le situazioni e a dare
l’esempio, era una prospettiva che non gli era mai piaciuta; aveva sempre pen-
sato che ‘un poveretto come lui’ non ce l’avrebbe fatta. Una guerra a questo
modo invece, alla buona, e tra ragazzi... «Senti» disse senza rendersi ben con-
to di ciò che diceva: «e se io vi chiedessi di prendermi con voi, di diventare
uno dei vostri?»
«Ah» fece il partigiano, guardandolo con altri occhi: «era a questo dunque
che miravi? Caspita, tu vieni fuori a rate con le tue richieste.»
«Come combattente credo di valere poco» disse Pino. «Ma come studente
di medicina» (non precisò di che anno, non disse che i testi di medicina finora
li aveva aperti quasi solo per vedere com’eran fatti) «potrei anche esservi utile.
Potrei curare i feriti e... e roba del genere.»
«Mm» fece il capo posto. Divenne pensieroso: «Hai con te la presentazio-
ne?»
«No. La... cosa? Presentazione? E da parte di chi?»
«Non importa. Vediamo. Studente di medicina... Sì, potresti anche farci
comodo. Sai scarpinare in montagna?»
«Questo sì. Certo.»
«Vediamo» ripeté l’altro: «Di che paese sei?»
«Di Nomana, provincia di Milano, in Brianza: c’è sulla carta d’identità.»
«Facciamo così, io me lo segno: Nomana, col tuo nome e il resto. Ridammi
un momento la carta. Dieci giorni ci basteranno per avere le informazioni...
Perché, se anche dalla faccia si capisce che non sei un gerarca, noi le nostre
precauzioni le dobbiamo prendere. Poi se tra dieci, anzi facciamo una dozzina
di giorni, sarai ancora della stessa idea di oggi, potrai ripresentarti qui, al po-
sto di blocco.» Gli guardò le scarpe: «Con le scarpe da montagna, si capisce, e
qualche maglione di scorta, e un po’ di cambio. Ecco, basterà.»
Gli occhi del ragazzo s’illuminarono.
«Sta attento ai fascisti se davvero ritorni qui. Nell’ultimo tratto di strada
soprattutto. Potresti fare la fine del pollastro. Non saresti il primo.»

CAPITOLO NONO

Mentre pedalava con energia alla volta di Stresa, Pino era straordinaria-
mente emozionato. Pensieri diversi gli si accavallavano nella mente: avrebbe
partecipato anche lui alla guerra, anche lui - un poveretto come lui - avrebbe
fatta la sua parte e - questo era scontato - non indegnamente. Così un giorno
gli altri, specie le ragazze, Fanny tanto per fare un esempio, guardandolo
avrebbero pensato: “Quello lì non sembra, ma è un tipo che non scherza, è
stato partigiano. Ha partecipato alla tale azione, alla talaltra...” Si vedeva addi-
rittura nell’azione, col suo bravo fazzoletto azzurro al collo: c’era un prato in
salita, battuto dai colpi nemici, le raffiche sollevavano le zolle tutte in fila, co-
me al cinema, un vero finimondo, ma lui ci passava in mezzo indenne, e rag-
giungeva un ferito. «Grazie Pino che sei venuto!» «Tu non parlare, metti piut-
tosto il braccio attorno al mio collo, fa così.» Lo sollevava, lo trascinava fin
dietro un... un qualche cosa, in salvo. (Ma sarebbe riuscito a sollevare davvero
uno non in grado di muoversi? “Lasciamo perdere, queste sono quisquilie,
non sta qui la questione...”) Dopo salvato quello, ne salvava subito un altro:
«Sì» dicevano gli altri partigiani, approvando: «Sì, ci sa fare Pino. Ci sa fare
veramente, quel dannato.»
Anche suo padre e i suoi fratelli maggiori - non subito, non adesso, si capi-
sce, anzi adesso guai, l’avrebbero acerbamente sgridato - però in seguito, fini-
ta la guerra, sarebbero stati orgogliosi di lui. Il problema se mai era la mam-
ma, la prospettiva del suo struggimento durante la lontananza: con un figlio
già all’ospedale, e Manno che non dava notizie... ‘Il problema è la mamma’ si
disse Pino, come se stesse argomentando col capo posto Tom. E subito si ri-
spose in luogo di Tom: ‘Non solo per te.’ Gli parve una risposta centrata, sag-
gia, da vero partigiano come ormai quasi si considerava.
Quando fu nei pressi del blocco fascista però, il cuore prese a battergli fino a
scoppiare. E se stavolta l’avessero fermato? Gli pareva che quelli dovessero
leggergli in faccia il suo proposito di diventare partigiano. “Risponderò che
sono andato a fare una passeggiata, un po’ di moto in bicicletta, come avrei
risposto al venire. Che cos’ho di diverso, del resto, rispetto a prima?” “La tua
nuova decisione, la grande decisione che hai preso” si rispondeva. Ma l’aveva
davvero presa? E in che modo, poi? Non aveva minimamente riflettuto... “È
forse così, senza riflettere, che uno prende le sue decisioni più importanti?”
Riteneva che certamente no; non sospettava che invece spesso, molto spesso,
è proprio così: che avrebbe dovuto rispondersi in modo affermativo.

Dodici giorni dopo, il primo febbraio, arrivò a Stresa la mamma per dargli il
cambio: stavolta aveva in programma di non fermarsi a lungo perché Ambro-
gio era, a detta dei medici, felicemente uscito dallo stato di pericolo, e stava -
sia pure con lentezza - avviandosi alla convalescenza.
Quel giorno, dopo essersi congedato da lei e dal fratello, Pino in luogo di
prendere il treno per Milano partì in bicicletta per Anzola. In albergo aveva -
con imprudenza - lasciato sul comodino della camera materna un biglietto in
cui annunciava la sua ‘decisione irrevocabile’ di raggiungere i partigiani della
brigata Beltrami. ‘Vi prego di non venirmi a cercare’ avvertiva ‘cosa che del
resto non servirebbe a niente’. E prometteva: ‘Vi farò avere mie notizie nella
seconda metà del corrente febbraio.’

IV

CAPITOLO DECIMO

Appena oltre Anzola, sempre contro il piede della montagna, c’è la località
di Megolo: allora poche case e una chiesetta all’inizio di un’erta mulattiera; il
maggior ornamento del paesino era costituito da una fontana di sasso, alla
quale due volte al giorno venivano cogitabonde ad abbeverarsi le vacche; sic-
come uscivano da stalle calde, si vedeva il loro pelame fumigare nell’aria in-
vernale.
Il comando partigiano era insediato dentro un alberghetto; qui il coman-
dante Beltrami ricevette con signorile affabilità Pino il giorno stesso del suo
arrivo. Era, questo Beltrami, un uomo alto quasi due metri, milanese, di pro-
fessione architetto, di grado nell’esercito capitano (e tutti appunto lo chiama-
vano così: il capitano); sulla sua testa pendeva da novembre una taglia di cen-
tomila lire.
La maggior parte dei partigiani - un’ottantina - non era però accantonata in
paese, ma in alcune baite qualche centinaio di metri più in alto sulla monta-
gna. Nei primi giorni dopo il suo arrivo Pino si meravigliò che nessuno lo im-
portunasse con servizi, addestramenti o altro. Gli era stato consegnato un mo-
schetto, ch’egli aveva più volte ripulito e oliato da capo a fondo con la stessa
meticolosità e la stessa quieta eccitazione di fantasia con cui, a casa, il fucile
da caccia alla vigilia del giorno d’apertura.
«Una volta avresti dovuto fare la coda per averlo, quel moschetto» gli disse
Tom, il capo squadra dal cappello alpino che due settimane prima stava al
blocco di Anzola. «Adesso invece di armi ne abbiamo più del necessario, pur-
troppo.»
«Perché più del necessario? Le armi non bastano mai» affermò Pino. Sede-
vano nella baita della loro squadra, Pino sul bordo d’una mangiatoia di legno
consunta dall’uso; mentre parlava soffregava il suo moschetto con una pez-
zuola.
«Eh, perché!»
«No, dillo, perché?»
«Perché qualche giorno fa non pochi dei nostri se ne sono andati, hanno
smammato. Per questo adesso abbiamo delle armi disponibili.»
«Oh là! E in quanti hanno smammato?»
«Beh, lasciamo stare.»
«No, dì, in quanti?»
«Una cinquantina.»
«Cavolo!» Pino ci ripensò: «Ma non capisco bene: smammato dove? Cos’è
che vuoi dire?»
«A casa se ne sono andati, quei puzzoni. Hanno detto basta alla vita parti-
giana.»
«E voialtri, il capitano e... li avete lasciati andare? Quelli sanno tutto di voi,
cioè di noi: il numero voglio dire, le posizioni, l’armamento, insomma tutto.»
«Sì, certo. Fossero stati coi comunisti non avrebbero potuto farla così co-
moda. Ma il capitano è un signore, e quando ha visto che mugugnavano: ’Chi
non vuol rimanere con noi si accomodi’ ha detto. Capisci? Ha perfino cercato
di non fargli fare troppo brutta figura a quei puzzoni: ‘Chi si è accorto di non
avere il fisico adatto vada pure...’ Così ha detto.» Tom tentennò la testa, di-
sapprovando. «Però vedrai, c’è anche soddisfazione ad avere un comandante
come questo, uno che non è una carogna ma il contrario. Solo chi è stato come
me sotto la naia può rendersene conto... Senza dire del fegato che ha, e... Beh,
vedrai anche tu.»
«Però come mai, per quale ragione voglio dire, quelli - addirittura cinquan-
ta - se ne sono andati?»
«L’inverno. È il risultato dell’inverno, questo dover stare per settimane e
mesi chiusi ad ammuffire nelle baite, mentre la guerra non finisce mai. Certo
che cinquanta... a pensarci bene è un bel risultato, non c’è che dire.»
Tom sedeva su uno sgabello basso da mungitore; mentre parlava si dondo-
lava avanti e indietro, costringendo il povero sgabello su due soli piedi; a un
metro da lui una stufa, introdotta nel locale dai partigiani, sfrigolava sommes-
sa.
In quel momento nella baita c’erano soltanto loro due, gli altri uomini della
squadra essendo scesi in paese a berne un bicchiere all’osteria della Mariuccia.
(«A pagamento, intendiamoci» aveva spiegato uno di loro a Pino: «perché noi
non siamo mica come i ladri di polli; a questo riguardo il capitano non scher-
za.» Pino non li aveva seguiti, a lui il vino non piaceva, da quand’era bambino
gli faceva anzi un po’ schifo.)
«Però!» concluse ora: «Che situazione!»
«Cos’hai? Ti vien voglia di smammare anche tu?» gli chiese Tom. «No,
macché, non ci penso davvero. Ma dimmi una cosa: allora quello che si dice a
Stresa, che su queste montagne ci sono almeno diecimila partigiani, è una bal-
la?»
«Precisamente, una gran balla. La nostra brigata è la più forte. Qui a Mego-
lo, intendiamoci, ce n’è solo una metà: gli altri - l’avrai sentito - sono
all’interno dell’Ossola, suddivisi in diversi gruppi, per dare l’impressione che
siamo tanti.»
«Ma come avete fatto, così in pochi, a mettere in piedi un posto di blocco? E
a conservarlo soprattutto?»
«Ah beh, al blocco noi abbiamo diritto.»
«Diritto? Abbiamo diritto? Cosa significa?»
«È stata una pensata del capitano, verso... fammi fare il conto: verso i primi
di dicembre. Avevamo combinato coi comunisti della Valsesia di occupare in-
sieme per qualche ora Omegna, che è una località grossa, una cittadina. Sic-
come però noi siamo arrivati in anticipo abbiamo fatto praticamente tutto da
soli, i comunisti sono arrivati dopo. Spartita la roba (più di duecento quintali,
ci credi? tra armi, munizioni, viveri, benzina, coperte, un ben di Dio: ci sono
voluti due camion e tre rimorchi per portarla via) erano rimasti i prigionieri
che avevamo preso, tra cui il fratello del comandante le squadre d’azione di
Novara, Zurlo, capitato fresco fresco in paese col tram di Verbania. Cosa dove-
vamo farne? Se appena è possibile noi i prigionieri non li accoppiamo, li la-
sciamo andare; ma quella volta, coi comunisti presenti, non era mica igienico
per loro lasciarli andare, specie per il gerarca Zurlo, che poi, in fin dei conti, il
gerarca non era lui, ma suo fratello. Beh, in conclusione il capitano li ha porta-
ti qui a Megolo, con l’idea di liberarli dopo. Una volta arrivati qui però ha fatto
la pensata: ‘Perché non li scambiamo con qualche cosa?’ dice. Detto fatto s’è
attaccato al telefono dell’albergo, ha chiamato il federale di Novara, Dongo, ha
parlamentato, insomma per farla breve ha combinato lo scambio dei prigio-
nieri con una zona neutra, cioè una ‘terra di nessuno’ tra noi e i fascisti, da
Gravellona a Cesara. E anche le SS tedesche della provincia, che come forza
militare contano più dei fascisti, la rispettano. Abbastanza almeno. Capisci
perché al posto di blocco di Anzola noi abbiamo diritto?» «Ma quanti eravate
in quel momento? Di quanti uomini era composta la brigata al momento di
quel colpo di mano?»
«Diciamo trecento.»
«E adesso, se ho ben capito, dovremmo essere sotto i duecento: è un bel ca-
lo.»
«Sì purtroppo. Tanto più se ci aggiungi quelli della brigata Di Dio, che allo-
ra stavano per conto loro, mentre adesso sono con noi. Lo sai che una volta
per sbaglio, a Buccione, ci siamo sparati addosso a vicenda, noi e loro? Si sono
fusi con noi soltanto dopo, verso Natale.»
«Verso Natale?»
«Sì. Per l’inverno. Per cercar di far fronte insieme a questa demoralizzazio-
ne dell’inverno. Senonché Alfredo Di Dio, che era il loro capo, poco dopo
l’hanno preso i fascisti mentre era in missione a Milano... Anzi questa è stata,
fra tutte, la causa di demoralizzazione più grossa: era diventato il nostro vice
comandante, un drago come pochi, tu l’avessi visto.»
Tom si levò in piedi con un mezzo sospiro: «Comunque» concluse
«l’importante è che non ci demoralizziamo noi rimasti. Perché la bella stagio-
ne dovrà pur venire, e allora vedrai che ogni cosa si rimette a funzionare..»

CAPITOLO UNDICESIMO

La sera di quello stesso giorno - era il terzo dall’arrivo di Pino - giunse una
cattiva nuova, recata da una donna in bicicletta: i fascisti avevano preso a
Druogno un amico personale del capitano, un certo avvocato Ferraris, che fa-
ceva da tramite fra la brigata e il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale)
di Torino; l’avevano portato nel carcere di Domodossola.
Era quasi buio; i capi partigiani tennero subito consiglio e decisero d’agire
immediatamente, perché l’indomani sarebbe stato già tardi. Fecero uscire da
certi nascondigli tra le casupole un’automobile e due autocarri: sulla prima
presero posto il capitano e alcuni ufficiali, sui secondi una quarantina
d’uomini, tra cui la squadra di Pino (al quale Tom aveva offerto di non parte-
cipare: «Se va bene tu non hai mai sparato col moschetto.» «Cosa vuol dire?
Col fucile da caccia so sparare, e dunque...») I tre automezzi procedettero len-
tamente fino ad Anzola, da qui raggiunsero, sempre a fari spenti, la via nazio-
nale del Sempione; una volta su questa accesero i fari schermati e comincia-
rono a correre.
Pino sedeva nel cassone del primo autocarro, contro una delle sponde late-
rali, col moschetto tra le ginocchia e una borsa da medicazione a tracolla,
premuto dai due partigiani che gli sedevano ai fianchi. Pioveva e faceva fred-
do, il lembo posteriore del telone - lasciato di proposito lasco perché gli uomi-
ni potessero in caso di necessità balzare a terra - fiottava incessantemente. Il
che consentiva d’intravedere, nella luce dei fari dell’autocarro successivo,
qualche tronco d’albero bagnato al margine della strada, qualche sprazzo di
muretto campestre; nell’attraversamento dei paesi ritagli improvvisi di case
dalle finestre serrate, chiuse sulla paura della gente. Siccome vigeva il copri-
fuoco, non c’era un’anima in giro.
«Cosa succede? Li tolgono di notte i loro posti di blocco i fascisti?» doman-
dò Pino a uno dei suoi vicini.
«Dipende. A volte sì e a volte no» gli rispose quello.
«A volte succede che i militi ci sono, ma fanno finta di non vedere» disse un
altro.
«Del resto davanti c’è il capitano» disse ancora il primo, con la tranquilla
irresponsabilità del soldato che ha piena fede nel proprio comandante. «A
queste cose ci pensa lui, noi non c’è bisogno che ci preoccupiamo.»
«Lo so, ma...» Era il primo fatto d’armi cui il ragazzo partecipava: si sentiva
diviso tra un acuto entusiasmo per l’azione - quel passare baldanzoso attraver-
so il territorio nemico - e il timore di qualche ostacolo improvviso, che incep-
passe a un tratto irrimediabilmente ogni cosa. I più degli altri, sebbene non
nuovi a queste esperienze, erano in uno stato d’animo analogo al suo; soltanto
qualcuno avvertiva unicamente il lato euforico della vicenda e, anche se non lo
diceva, avrebbe voluto che quella corsa notturna non finisse mai.
Finì entro mezz’ora. I tre automezzi fecero alt in un viale alberato
all’ingresso di Domodossola, nel buio più fitto, tanto che le circostanti immi-
nenti montagne non si vedevano. Tutti scesero a terra in silenzio, e secondo le
disposizioni ricevute si ordinarono in tre nuclei, di cui due s’avviarono subito.
A Pino fecero particolarmente impressione gli uomini - due per nucleo - che
portavano il fucile mitragliatore tenendolo orizzontale su una spalla.
Al nucleo rimasto era preposto il tenente Antonio Di Dio, fratello d’Alfredo:
«Vi avverto che quelli tra poco cominciano a sparare» disse ai suoi. «Finge-
ranno d’attaccare il presidio fascista del Calvario per attirare tutta l’attenzione
da quella parte. La vera azione però tocca a noi. Chiaro? Forza, seguiamo il
capitano.»
Il capitano, in giacca a vento e zucchetto da sciatore, s’incamminò verso il
centro della cittadina dov’era il carcere, tutti gli altri dietro; a causa
dell’oscuramento ogni luce stradale era spenta, il buio pressoché totale, la
pioggia insisteva a cadere minuta, fastidiosa. In un piccolo slargo fiancheggia-
to da muri privi di finestre, il capitano fece alt; gli altri serrarono sotto e si
fermarono alle sue spalle senza una parola, i due che portavano i mitragliatori
poggiarono le armi a terra verticalmente, tenendole per il coprifiamma. Fi-
nalmente dalla parte del Calvario rintronarono i primi colpi, che in breve si
trasformarono in una sparatoria; cominciarono a distinguersi anche le raffi-
che delle mitragliatrici Breda, diverse da quelle dei mitragliatori, segno che
anche i nemici sparavano.
Il capitano attese ancora un poco, poi: «È il momento» disse calmo, «an-
diamo.» La piccola colonna si rimise in moto.
“Chissà quanti fascisti e tedeschi ci saranno in Domodossola?” si chiedeva
Pino: “E cosa staranno facendo in questo momento?” L’aveva preso un impor-
tuno, fortissimo batticuore: meno male, davvero, che c’era il capitano a pensa-
re a tutto!
Mentre passavano davanti a un portone (quello della caserma dei carabinie-
ri, Pino però non lo sapeva) il capitano si arrestò un istante e, giratosi, scam-
biò qualche parola col tenente Antonio, quindi - sempre seguito da tutti - de-
viò verso il portone, mise la mano sul battente, guardò nel buio gli altri, che
impugnassero ciascuno la propria arma, quindi toch, toch, toch azionò il bat-
tente.
Nel portone si aprì uno spiòlo, dal quale uscì un po’ di luce e una voce: «Chi
è?»
«Sono il capitano Beltrami. Apri.»
«Signorsì» rispose la voce. Con un rumore di chiavi e catenacci si spalancò
un portello: tutti vi s’infilarono rapidi, il tenente Antonio per ultimo e richiuse
il portello dietro di sé.
Il carabiniere che aveva aperto stava adesso sull’attenti, molto pallido, da-
vanti al capitano, il quale impugnava la propria pistola: «C’è il maresciallo?»
chiese.
«Signorsì» rispose il carabiniere: «c’è.»
Pino - che non era meno emozionato - si accorse che al carabiniere
sull’attenti tremava un ginocchio.
«Chiamalo senza muoverti di qui.»
Proprio in quella però il maresciallo comandante la stazione si affacciò alla
scala interna: aveva sentito le sparatorie fuori, aprire la porta, le voci e il tre-
pestio, e voleva ‘appurare’ chi fosse arrivato: certo non s’aspettava i partigiani,
tant’è vero che al vederli si piegò istintivamente indietro, come per evitare un
colpo; tuttavia non scappò, si ricompose subito e discese i gradini. «Signor
capitano.» Aveva riconosciuto Beltrami.
«Vedo che siete proprio voi» disse il capitano: «Dunque sono bene informa-
to.»
«Signorsì.»
Il maresciallo, una volta scesi i gradini, si mise sull’attenti: «Comandate si-
gnor capitano.»
«State comodo» ordinò Beltrami, e rimise la pistola nella fondina; si volse
anche al carabiniere: «Stai comodo.» Tornò nuovamente al sottufficiale che
aveva smessa la posizione d’attenti; lo fissò negli occhi con severità (dentro di
sé però avvertiva un senso di malinconia: questi anziani servitori dello stato,
che si erano visti crollare il mondo intorno... Chissà che guazzabuglio doveva
esserci adesso nella testa di costui) : «Noi ci siamo già incontrati a Omegna:
qualche mese fa voi comandavate quella stazione.»
«Signorsì.»
«Allora ho avuto l’impressione che in cuor vostro siate rimasto fedele al
giuramento prestato a sua maestà il re.»
«Signorsì. Proprio così. E non lo dico perché adesso... perché ora mi trovo...
No, è così: fedele.»
«Sì» fece grave Beltrami. «Ricordatevi che appunto su questo si deciderà la
vostra sorte a guerra finita.»
Un paio di partigiani mossero significativamente il mitra, il maresciallo li
guardò con la coda dell’occhio.
«Bene» disse Beltrami «ho bisogno di un’informazione e in fretta, sempre
che siate in grado di darmela. Dove si trova l’avvocato Ferraris?»
«Non sta più a Domodossola» rispose il maresciallo. «Di questo sono al
corrente. Quelli della ‘guardia nazionale’ l’hanno dapprima portato nel carcere
in centro e interrogato. Poi l’hanno portato via di là e nascosto in casa di uno
di loro, di un milite, perché temevano un vostro colpo di mano. Però neanche
lì l’hanno lasciato: due ore fa l’hanno caricato su un’automobile e portato via
di nuovo, certo a Novara. È stato all’incirca due ore fa. Sono sicuro di quello
che dico.»
A richiesta del capitano spiegò perché fosse sicuro, diede dei particolari.
Beltrami si convinse che diceva la verità. «Mi date la vostra parola d’onore? Se
mentite, ricordatevi che presto o tardi si verrà a sapere: sarete portato davanti
a un tribunale e pagherete con la vita.»
«Non mento. Vi do la mia parola d’onore.»
«Va bene, vi credo.» Si volse ai suoi: «Purtroppo non ci resta che tornare a
casa» disse.
Il carabiniere che aveva aperta la caserma (altri due n’erano frattanto com-
parsi) fece un passo avanti: «Un, momento, sentite... io vengo con voi.»
«Spicciati» gli disse il tenente Antonio: «prendi il tuo mitra e il pastrano,
muoviti.»
Quello s’allontanò di corsa, tornò con due mitra, il pastrano, e un tascapane
in cui aveva ficcato alla rinfusa la propria roba.
Il capitano si volse nuovamente al maresciallo: «Volete che facciamo un po’
di sparatoria contro la facciata della caserma? Che scardiniamo magari la por-
ta?»
«No» disse sommessamente il maresciallo «me la caverò lo stesso, lasciate
stare.»
«Va bene.»
Il gruppo, col ‘caramba’ (così i partigiani chiamavano i carabinieri) incorpo-
rato, uscì nella strada. Lontano la sparatoria continuava, pareva anzi essersi
fatta più intensa.
«Il razzo rosso» disse il capitano al tenente Antonio «dai, sparalo.»
Il tenente trasse da una fondina che portava al cinturone una tozza pistola
lanciarazzi Very, v’introdusse un razzo, e puntata l’arma verso il cielo lo fece
partire. Il razzo sgattaiolò veloce verso l’alto lasciandosi dietro una lunga scia
di scintille color carminio luminoso.
«Andiamo» sospirò il capitano. La pattuglia si diede a ripercorrere in senso
inverso la strada verso gli autocarri.
Pino in cuor suo era felice per la piega presa dagli avvenimenti. Ormai non
ci sarebbe stato combattimento, così erano entrati nel cuore di Domodossola,
avevano incorporata una nuova recluta, e ne uscivano senza perdite, una bel-
lissima storia da raccontare. All’avvocato Ferraris non pensava: non lo cono-
sceva, non l’aveva mai visto né sentito nominare, in fondo ce n’era tanta di
gente prigioniera dei fascisti.
Pensavano invece a Ferraris gli altri, specialmente il capitano che: “Non se
la caverà” si ripeteva con amarezza in cuor suo. “Se lo tengono stretto a quel
modo vuol dire che hanno delle prove contro di lui. Non se la caverà. Ci siamo
fatti battere sul tempo, impagliati che non siamo altro... Per due sole ore! Or-
mai è un uomo morto, povero. Paolo...” Non sapeva di dire il vero: anche se
l’avvocato Ferraris, di prigione in prigione, da Novara a Fossoli, a Mauthau-
sen, a Gusen - luoghi, questi ultimi due, spaventosi al modo di Crinovaia e di
Oranchi - sarebbe morto soltanto di lì a un anno; cioè molto dopo di lui, capi-
tano Beltrami, che in questo momento lo compiangeva.
La sparatoria intorno al Calvario stava già scemando: i partigiani visto il
razzo rosso dovevano avere iniziato lo sganciamento. Giunsero agli automezzi
venti minuti circa dopo il gruppo del capitano.
Il viaggio di ritorno fu senza inconvenienti come quello d’andata; verso
mezzanotte i partigiani, col ‘caramba’ al seguito, entravano nei loro ricoveri
sopra Megolo.

CAPITOLO DODICESIMO

Nei giorni seguenti Beltrami fece effettuare diversi altri colpi di mano: in
genere le squadre partivano da Anzola in autocarro col primo buio, raggiunge-
vano la via nazionale, assalivano di sorpresa qualche posto di blocco fascista, o
un piccolo presidio o un deposito di materiali. Non si trattò comunque di vi-
cende in grado di risollevare il morale, il quale anzi dopo la precedente diser-
zione, sia pure autorizzata, di cinquanta partigiani, e la mancata liberazione di
Ferraris, seguitava a calare. Pino tuttavia - non disponendo di termini di con-
fronto - non se ne rendeva conto o quasi.
Una mattina, mentre si trovava all’osteria della Mariuccia a bere una malin-
conica gazosa (nel negozio non vendevano aranciate) il ragazzo ebbe una gros-
sa sorpresa: vide, attraverso una finestra, una camionetta tedesca fermarsi
nella stradicciola del paese. A bordo c’era un ufficiale germanico d’aspetto im-
ponente, con qualche altro tedesco e alcuni partigiani. Pensando a un colpo di
mano ben riuscito, il giovane corse fuori: ma non si trattava di prigionieri,
erano - qualcuno gli spiegò - nientemeno il capitano delle SS di Omegna, Si-
mon, e il suo interprete, venuti a parlamentare col capitano Beltrami dopo
avere debitamente lasciate le armi al blocco di Anzola.
Sotto gli occhi di Pino i due capitani col tenente Antonio, un paio d’altri
comandanti partigiani, e l’interprete tedesco, entrarono nell’asilo infantile di
Megolo, dove le monache avevano appositamente preparata una saletta.
Fuori cominciarono a far capannello partigiani e paesani. «Hai visto Simon
che bestione?» disse a Pino uno della squadra: «è più alto di due metri: di si-
curo pesa più d’un quintale.»
«Sì, è più alto anche del nostro capitano» convenne il ragazzo.
«Beltrami però, anche se è in borghese, ha l’aria più in gamba. Non c’è con-
fronto» affermò un partigiano di un’altra squadra.
«Sì. E ci avete fatto caso? Ha il vestito in ordine e senza patacche. Chissà chi
gliel’avrà sistemato?»
(Gliel’avevano sistemato la sera prima le monache dell’asilo. Quando i par-
tigiani erano andati a chieder loro la saletta per quell’incontro, non solo
l’avevano subito messa a disposizione, ma s’erano anche preoccupate che il
capitano italiano si presentasse in ordine. Avevano suggerito che mandasse
loro l’abito, e fatta una pulizia a fondo sia dell’abito, che della saletta, perfino
dei quattro canarini imbalsamati sotto una campana di vetro che ne costitui-
vano l’ornamento principale. Di queste cose tuttavia nessuno dei presenti era
al corrente.)
«Il capitano Simon? Quello che comanda le SS? Ecco l’ostaggio adatto per
fare il cambio con Alfredo Di Dio. Non dobbiamo lasciarcelo scappare.»
«Cosa dici?» s’irritò uno, si trattava di Tom: «Se è venuto qui, vuol dire che
Beltrami gli ha data la sua parola. E col-lì, ma gnanca s’it lo fass a toch e fette
a manca pa ’d parola (quello neanche se tu lo fai a pezzi e fette manca alla sua
parola).»
Mentre il colloquio era in corso uscì dall’asilo il tenente Antonio Di Dio, e
invitò i presenti ad allontanarsi un po’, cosa che essi fecero a malincuore.
Più tardi, partiti i tedeschi, il capitano riunì i partigiani e li informò punto
per punto di quanto era intercorso: il nemico, al corrente delle recenti diser-
zioni partigiane, era venuto qui per trattare se possibile lo scioglimento della
brigata, se no almeno una tregua; nel primo caso si offriva di scortare i parti-
giani - liberi e armati - alla frontiera svizzera. Accettando, essi si sarebbero, a
suo dire, sottratti a un’imminente offensiva con cui il comando tedesco inten-
deva ripulire la valle una volta per tutte.
Beltrami comunicò d’avere respinta sia la proposta dello scioglimento che
quella d’una tregua, grazie alla quale i nemici avrebbero potuto disporre di
tutte le loro forze per colpire altrove. Al termine del colloquio il tedesco s’era
alzato in piedi: «Sapevo d’avere a che fare con gentiluomini» aveva affermato
«ora però ne ho l’assoluta certezza.» Facendo leva su tale atteggiamento, Bel-
trami gli aveva chiesto di liberare certi parenti dei partigiani ch’erano tenuti in
ostaggio a Omegna e in vai Strona; il capitano tedesco aveva promesso.
«Chissà se manterrà la parola?» si commentava dopo la riunione. «Forse
sono soltanto chiacchiere Non è possibile che un SS si comporti così da signo-
re.»
Prima di sera giunse per telefono la comunicazione che tutti gli ostaggi era-
no stati effettivamente rilasciati.
Questa era una buona notizia. Ma nei giorni successivi ne giunsero di catti-
ve: che s’erano verificate diserzioni nei nuclei della brigata operanti all’interno
dell’Ossola, che alcuni di tali nuclei si erano addirittura dissolti. Inaspettata-
mente una notte due partigiani disertarono anche da Megolo. Il capitano allo-
ra ordinò mediante staffette a tutti i distaccamenti di convenire a Megolo, av-
vertendo che presto ci sarebbe stata battaglia; era necessario dare una batta-
glia e vincerla per risollevare il morale della brigata: questa stava diventando
la sua idea fissa.
Pino assistette curioso all’arrivo dei singoli nuclei: lo impressionarono gli
uomini del suo quasi compaesano tenente Bettini, cinquanta circa, pesante-
mente armati, e molto solidali tra loro; avevano l’aspetto di un vero e proprio
reparto alpino, ed erano in effetti quasi tutti ex alpini. Gli altri reparti erano
senza confronto più esigui, un comandante arrivò addirittura senza neppure
un uomo.

***
Un pomeriggio il ragazzo venne convocato al comando. Scese con animo so-
speso all’alberghetto in paese: si chiedeva cosa mai potesse volere da lui il ca-
pitano, in cosa aveva sbagliato?
Nel locale del comando, rivestito d’abete, c’era un’aria stantia e piena di
fumo; Pino si mise sull’attenti: aveva i capelli biondi schiacciati contro il retro
del capo, che appariva ancora più piatto del solito.
«M’ha fatto chiamare, signor capitano?»
Beltrami, seduto all’unico tavolo, gli sorrise; poi allungando una mano
spinse verso di lui un libro che stava sul tavolo: «Prendi questo e studialo.»
Pino prese il volume e l’esaminò: era un trattato universitario di patologia
chirurgica. «Ah» disse «un testo di medicina.»
«Precisamente. Guarda che l’ho avuto in prestito da un medico e lo devo re-
stituire. Tu sei matricola, vero?»
«Sì.»
«Suppongo quindi che non sappia poi molto intorno al trattamento delle fe-
rite.»
«Ho fatto un po’ d’assistenza nell’ospedale del mio paese; certo roba da po-
co» ammise Pino. «Anche in queste cose io sono un poveretto. Però ho la pas-
sione per la medicina e...»
«Studia il trattamento delle ferite più in fretta che puoi, ma anche meglio
che puoi. Sono certo che in seguito farai la tua parte.»
«Sì.»
«Dopo che avrai fatta la tua parte, il tuo dovere, non sarai più un poveretto,
tienilo presente.»
«Signorsì» disse Pino, irrigidendosi; del che si sorprese lui stesso, che aveva
sempre avuto a fastidio la solennità.
«Bene, va, non perdere tempo. E ricordati di questo che t’ho detto.»
Pino uscì dal locale molto sorpreso: dunque il capitano sapeva leggere nel
suo intimo, intuiva le sue deficienze e preoccupazioni... E dire che fino allora
non aveva quasi dato segno d’accorgersi di lui. “Chissà se fa lo stesso anche
con gli altri partigiani? Certo è un capo, un vero capo!”

CAPITOLO TREDICESIMO

La prima azione in programma era un attacco a un treno blindato che scor-


tava gli altri treni lungo la linea del Sempione: passava più volte al giorno da-
vanti a Megolo, a un paio di chilometri di distanza. Si doveva farlo saltare e
cercar di catturare la sua scorta, annientandola nel caso non accettasse di ar-
rendersi. Poiché era prevedibile una pronta ritorsione dei nazifascisti contro
Megolo, i partigiani furono anzitutto messi al lavoro per migliorare le posta-
zioni difensive scavate da tempo attorno al paesino, e più in alto sulla monta-
gna, prima delle baite.
Tali lavori non erano del tutto terminati, che le SS tedesche all’alba del 13
febbraio sorpresero il posto di blocco d’Anzola e vennero avanti senza sparare
un colpo. Furono avvistate appena in tempo dagli uomini di guardia a Megolo:
alle grida d’allarme di costoro, i partigiani uscirono di corsa da case e da baite
e si precipitarono nelle postazioni, ogni squadra nelle proprie; a Bettini e ai
suoi alpini era riservata la difesa del lato destro dello schieramento che, per
più motivi, si presentava abbastanza difficile.
Rintronarono i primi colpi; i partigiani avrebbero potuto ancora sganciarsi
e inerpicarsi sulla montagna alle loro spalle, che faceva parte dell’impervio
gruppo del Rosa, tra i più alti delle Alpi, ma i loro comandanti non vollero:
erano del parere che uno sbandamento, in questo momento, avrebbe portato
alla dissoluzione della brigata.
Pino, con la sua borsa da medicazione a tracolla, il moschetto nella mano
sinistra, e il cuore indicibilmente in tumulto, accorse al posto di medicazione
stabilito dal capitano: una baita a tergo dello schieramento, defilata da una
gibbosità del terreno. Qui, non sapendo cosa fare, sedette per terra contro una
parete, aprì il suo trattato, ne lesse qualche riga, lo richiuse. Tendeva
l’orecchio: aveva udito entrare in azione tutte le armi partigiane, incluse le
mitragliatrici; dall’altra parte si rispondeva con altre armi automatiche e col
fuoco dei mortai e di alcuni piccoli cannoni d’assalto. Il ragazzo non poté resi-
stere a lungo in quell’inerzia: a forse una ventina di metri da lui, appena sotto
la gibbosità che defilava la baita, c’era una trincea, dalla quale - oltre agli spari
- gli giungevano ogni tanto brandelli di voci dialettali; finì con l’uscire dalla
baita e col raggiungere a gran salti la trincea, i cui difensori non apparteneva-
no alla sua squadra.
Da quel luogo Pino cercò d’individuare il nemico: ma scorgeva solo, alquan-
to più sotto di lui, un’altra postazione partigiana scavata a lato della mulattie-
ra che saliva da Megolo, e molto più sotto, al margine sinistro del paesino, al-
cuni spezzoni di trincea, anch’essi difesi dai partigiani; vedeva inoltre del fu-
mo qua e là, l’aria era piena di spari e di scoppi, il cuore gli batteva fino a
rompersi.
Dopo forse una lunga decina di minuti egli sentì pronunciare il suo nome
«Pino, Pino» dai difensori della postazione più sotto: «È lì da voi
l’infermiere?»
«Cosa volete?» egli urlò di rimando.
«C’è un ferito. Vieni giù.»
«Vai» gli disse il capo squadra.
Il ragazzo balzò sulla mulattiera e senza cercar di ripararsi scese a rotta di
collo fino alla postazione. Il ferito non era uno dei difensori di questa: era sta-
to portato fin qui in alto dal paese, giaceva incosciente su una barella. I porta-
tori della quale stavano, ancora ansanti per lo sforzo sostenuto, accucciati a
capo chino accanto a lui: «Ce l’ha ordinato il capitano di portarlo su. Tutti i
feriti non in grado di camminare dobbiamo portarli su da te, ha detto.»
«Forza, portiamolo nella baita, venite» disse Pino, mettendosi addirittura
alle stanghe; s’avviarono, il ferito pesava maledettamente, fortuna che la mu-
lattiera era fiancheggiata da piante e cespugli non del tutto spogli. Non abitua-
to a questo genere di sforzi Pino arrivò alla baita ansimante: «Cosa succede
giù?» chiese, ancor mentre deponeva la barella, ai due portaferiti. Quello che
aveva seguito libero dal peso gli riferì: «Al centro, dove sta il capitano, va tutto
bene. Sulla destra sembra che i tedeschi stiano facendo una specie di manovra
per arrivare qui in alto dove sono le postazioni di Bettini: beh, quando arrive-
ranno se ne accorgeranno.»
«Dai che dobbiamo tornar giù» lo sollecitò l’altro, e a Pino: «Ciao.»
«Ciao.» Si allontanarono curvi, uno con la barella vuota sotto braccio.
Il ferito - al collo e al torace, gravissimo - era stato deposto su un paglieric-
cio. Con le mani che gli tremavano Pino cominciò a scoprirne le ferite, poi
usando il materiale contenuto nella borsa da medicazione, si diede a ripulirle e
a disinfettarle.
Il paziente - il primo paziente interamente affidato alle sue cure, un valli-
giano di nemmeno vent’anni - ripresa coscienza lo guardò spaventatissimo:
«Non abbandonarmi» disse, «non abbandonarmi» si mise a gridare.
«Abbandonarti? Non ci penso nemmeno» gli rispose Pino, e sorrideva tra
ilare e spaventato, sforzandosi d’ispirargli fiducia. «È il mio lavoro questo, sta
tranquillo. Dai, non gridare.»
Provava un’indicibile pietà per la sofferenza fisica e psichica dell’altro la
stessa pietà che l’aveva determinato a scegliere la professione medica: solo per
questo infatti, per lenire l’umana sofferenza, egli aveva scelto di fare il medico,
e non l’industriale come i suoi.
La medicazione gli portò via un certo tempo. Arrivò perfino, avendo l’altro
nuovamente perso coscienza, a tirar fuori dalla borsa il trattato di patologia
chirurgica per rileggerne certe righe che aveva lette qualche giorno prima e gli
pareva ora potessero servirgli. Terminate le fasciature sedette per terra e ri-
mase a tener compagnia al ferito, che dopo essersi risvegliato gli aveva afferra-
ta una mano e non gliela lasciava.
Fuori la piccola battaglia - che ai due sembrava tremenda - continuava.
“Chissà” si chiedeva ogni tanto Pino “a che punto saranno adesso le cose?”
Glielo comunicò finalmente uno dei due portaferiti, risalito con un altro fe-
rito: non grave questo, tanto che l’ultimo tratto del percorso l’aveva fatto
camminando, sia pure aiutato. «Lo sai Pino? Ci sta andando bene. Bene ci sta
andando. Quelli di Bettini, sulla destra, hanno ributtato nella valle i tedeschi.
Che gente, gli alpini, che gente! Ma anche giù in paese, davanti a noi, i tede-
schi e i fascisti - perché ci sono anche diversi fascisti - hanno fatta marcia in-
dietro. Sono tornati alle posizioni di partenza, tanto che il capitano ha deciso
di contrattaccare. Hai capito? Adesso, mentre ti parlo, i nostri stanno scen-
dendo tutti giù in paese dalle trincee qui in alto, con le armi pesanti e il resto.
Hai capito?» ripeté con entusiasmo. «Beh, adesso scendo anch’io, devo rag-
giungere Nando che è rimasto sul sentiero con la barella.»
«Va pure, va, sia ringraziato Dio» esclamò Pino. «Però di, cosa sono questi
colpi più forti che si sentono da un po’ di tempo in qua?» «È il treno blindato
che spara dalla strada ferrata; non lo si vede perché sta nel bosco lungo il fiu-
me. Ma a noi ‘ci fa un baffo’, perché non può sparare su Megolo: è obbligato a
tirare più in alto. Qui intorno, dove arrivano i colpi, qualche pianta ha preso
fuoco.»
«Sta attento» fece Pino, «ascolta, io dicevo questo.» Nell’aria passò distin-
tamente un sibilo che si concluse con alcune forti esplosioni quasi contempo-
ranee: «Ecco, è questo che dicevo.»
«Sì, appunto, è il treno blindato. I colpi scoppiano tutti nei boschi qui sopra
Megolo.»
Prima d’andarsene il portaferiti lanciò un’occhiata al ferito grave, che ades-
so giaceva sul suo pagliericcio con gli occhi chiusi, poi guardò Pino con aria
interrogativa. Questi strinse le labbra e alzò mestamente gli occhi al cielo.
«Beh, vado, ciao» disse l’altro in fretta, e uscì dalla baita dal tetto di pietra.
La medicazione - o meglio il rinnovo della medicazione - del secondo ferito
non; richiese molto tempo. Dopo di che Pino tornò a occuparsi del ferito più
grave: gli riferì del buon andamento della battaglia, ma a quello della battaglia
non importava più niente, parlava di sua madre, era, sopra ogni altra cosa,
angosciato per lei; a giudicare dal vestito doveva essere molto povero, chissà
quali erano le condizioni di sua madre, in qualche casuccia della valle.
Il tempo seguitava a passare; il frastuono delle armi automatiche, ch’era
sembrato affievolirsi, si era gradatamente rifatto forte. Pino però non ci bada-
va, sicuro com’era dopo le buone notizie ricevute dal portaferiti. Provava piut-
tosto un crescente desiderio d’osservare coi suoi occhi in che modo si svolge
una battaglia: “Se no va a finire che stasera dovrò domandarlo agli altri, senza
avere visto quasi niente”.
Si risolse: «Torno subito» disse al ferito leggero: «Do un’occhiata al com-
battimento e ritorno.»
«Sì» approvò quello. «Guarda bene: mi sembra che una delle nostre mitra-
gliatrici spari appena qui sotto di noi.»
Pino fece un gesto noncurante, a significare: «Di cosa ti preoccupi?» e uscì.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Raggiunse di corsa la vicina trincea e vi balzò dentro: era vuota, come del
resto egli s’attendeva. Da quella sporse cauto la testa e guardò giù nella valle;
da principio non capì: nella postazione a lato della mulattiera, poco sotto di
lui, c’erano due soli uomini con una mitragliatrice che sparava incessanti raf-
fiche furiose verso il basso; appena più in alto, ma sempre sotto di lui, c’erano
altri partigiani ammucchiati dietro una roccia: stavano inchiodati contro il
terreno, non si capiva cosa diavolo facessero.
Giù in basso Pino intravide, nel bosco ai lati della scoscesa salita, alcune di-
vise mimetizzate, con certezza tedesche. Le SS! Ancora più in basso, nei prati
intorno a Megolo, c’erano alcuni cadaveri di partigiani. Il cuore del ragazzo
cominciò a martellare con furia: non potevano esserci dubbi, il nemico stava
avendo il sopravvento.
Come mai? Cos’era successo? Per quale ragione le sorti della battaglia
s’erano capovolte? E - problema più urgente d’ogni altro - cosa sarebbe acca-
duto adesso?
Osservando attento con la bocca semi aperta, Pino si rese conto che i parti-
giani inchiodati dietro la roccia avrebbero voluto raggiungere la trincea dove
stava lui, ma n’erano impediti dal tiro di un’arma automatica nemica: come
infatti uno di loro faceva per lasciare il riparo, le raffiche nemiche investivano
la mulattiera accanto al riparo stesso, facendone saltare per aria ciottoli e pez-
zi di ciottoli. “Signore, che situazione, che razza di situazione!”
A un tratto il mitragliere partigiano che insisteva a sparare verso il basso ur-
lò: «L’ho fottuto, l’ho fottuto. Fuori, fuori.» Gli uomini ammucchiati dietro la
roccia balzarono allora in piedi, e si lanciarono lungo la mulattiera verso la
soprastante trincea dov’era Pino, nella quale piombarono: erano una decina.
Uno portava un fucile mitragliatore che piazzò febbrilmente: «Là» gl’indicò
un altro che pareva il comandante: «e subito dopo là.» Il mitragliere aprì il
fuoco sui due punti indicati, e cominciò a passare dall’uno all’altro, a spola.
«Dai» gridò allora il comandante ai due uomini rimasti con la mitragliatrice
nella postazione sottostante: «Su di corsa, mentre noi vi copriamo.» Nel giro
di qualche minuto anche i due furono nella trincea (uno - Pino se ne accorse
solo adesso - era il ‘caramba’ aggregatosi ai partigiani durante il colpo di mano
a Domodossola); i due piazzarono di nuovo la loro arma: «Le munizioni» dis-
se uno dei due al comandante: «N’è rimaste poche. Ci occorrono le munizio-
ni.»
«E io dove le piglio?» rispose il comandante.
Pino lo fissò spaventato: si trattava di Tide, un sottotenente con la faccia
angolosa, utilizzato da Beltrami soprattutto per i servizi di sussistenza; il ra-
gazzo si trasferì accanto a lui: «Dov’è il capitano?» gli chiese.
Tide lo squadrò senza rispondere: «Da dove spunti tu?» fece; poi ricostruì:
«Ah, sei l’infermiere.»
«Sì. Dov’è il capitano?» tornò a chiedere Pino.
La faccia quadrata di Tide si contrasse in una sorta di smorfia: «Il capitano
è morto» disse «e anche il tenente Antonio.»
Pino rimase con la bocca mezzo aperta.
«Quanti feriti hai?» gli chiese l’ufficiale.
«Eh? Io? Due.»
«In grado di camminare?»
«Uno sì, se aiutato.»
«Aiutalo tu. Dovete venir via con noi.»
«L’altro è moribondo» disse Pino.
Ma Tide non gli badava più; il ragazzo si rese conto che poiché non era in
grado di camminare, l’altro ferito sarebbe stato comunque abbandonato (lo
stesso Beltrami - egli avrebbe appreso in seguito - era stato abbandonato in
quel modo).
«Attenzione!» Tide richiamò l’attenzione di tutti, anche i mitraglieri, sospe-
so il fuoco, lo guardavano sudati, coi loro fazzoletti azzurri appiccicati al collo:
«Il sentiero qui sopra è abbastanza mascherato dalle siepi, nasconde alla vista
per un certo tratto. Mentre voi filate, restiamo qui soltanto io e Giuse col mi-
tragliatore, poi fra quattro-cinque minuti ci sganciamo anche noi. Voi ci aspet-
tate su, al sasso con la croce. Capito? Al sasso con la croce: saremo là un cin-
que minuti dopo di voi. Via.»
Gli uomini uscirono a balzi dalla trincea; il mitragliatore attaccò a sparare
verso il basso. «E io?» domandò Pino a Tide: «e il ferito? Come facciamo a
star dietro agli altri?»
«Sei ancora qui? Muoviti » gli gridò l’ufficiale.
Il ragazzo si mise improvvisamente a correre verso la baita-infermeria, vi
entrò, ne uscì al più presto, col moschetto e la borsa da medicazione a tracolla,
e il ferito meno grave che, terrorizzato, camminava tenendo un braccio attor-
no al suo collo. Presero a salire lenti la mulattiera. Due dei partigiani che li
precedevano si arrestarono, li attesero, li lasciarono passare, e tennero loro
dietro senza dire una parola. Pino e il ferito però capivano che sarebbero stati
da loro aiutati in caso di necessità: il cameratismo ricominciava a funzionare.
Pino provò per i due un senso di riconoscenza quale rare volte in vita sua.

***
In alto, prima di svettare attraverso il passo di Sola dalla montagna al cui
piede stava Megolo, la pattuglia dei fuggiaschi incontrò gli alpini di Bettini che
per un’altra via ripiegavano ordinati, in fila per uno sulla neve, carichi delle
loro armi: avevano avuto - dissero - due morti in tutto.
«Adesso il comandante sei tu» disse Tide a Bettini, dopo avergli riferita la
fine del capitano e di Antonio.
Mentre i due parlavano Pino - pur trafelato, e con la testa bionda sudata
nonostante il freddo - si mise a medicare uno degli uomini di Bettini ch’era
stato colpito a un avambraccio. Tutti gli altri, fermi sulla neve, guardavano le
SS che in basso, piccole come formiche per la distanza, stavano bruciando coi
lanciafiamme le baite partigiane.

***
Più della metà degli uomini della brigata si era dispersa; le scorte di viveri e
di munizioni erano andate totalmente perdute; Bettini e i pochi ufficiali so-
pravvissuti decisero pertanto d’inviare ‘in licenza’ chiunque fosse disposto ad
andarci. I restanti avrebbero raggiunta, con alcune giornate di cammino attra-
verso le montagne, la Valsesia, e chiesta ospitalità ai partigiani comunisti di
Moscatelli. «Noi li abbiamo ospitati una volta ch’erano ridotti come noi oggi»
ricordò Tide: «adesso tocca a loro aiutare noi.»
A Pino la prospettiva d’affidarsi, anche per poco, ai comunisti, non piacque:
vero che verso di loro lo spingeva la sua innata curiosità; ma il fatto che essi
avessero per programma finale di togliere di mezzo - probabilmente uccidere -
persone come suo padre, bastava - per ora - a trattenerlo. Del resto lui a casa
ci poteva tornare meglio di chiunque, dato che la sua assenza da Nomana do-
veva essere rimasta inosservata; optò quindi per la ‘licenza’. Il tenente Bettini
gliela diede: verbalmente, si capisce, dopo essersi annotato il suo indirizzo, e
con l’accordo che l’avrebbe richiamato mediante una semplice cartolina di sa-
luti a firma ‘Margherita’, quando la brigata fosse per tornare in azione.
Così Pino arrivò a Nomana di lì a qualche giorno, il 17 febbraio, davvero
inaspettato. Era stato alla macchia in tutto due settimane: le notizie di sé stes-
so, che aveva promesso d’inviare alla madre nella seconda metà di febbraio, le
portò di persona.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Ricevuta dai genitori l’attesa lavata di capo - che fu colossale - Pino si pro-
pose d’utilizzare la licenza per portare un po’ avanti gli studi universitari. Ma
ogni cosa che non fosse l’azione lo annoiava, e lo studio in particolare: anche
lo studio del manuale di patologia chirurgica che si era portato dalla monta-
gna.
Poiché si sentiva quasi un delegato del mondo partigiano nel proprio am-
biente e nei suoi dintorni, pensò bene di fare un giorno una puntata in bici-
cletta a Incastigo, per aggiornarsi sulle imprese del Praga, il fascista che aveva
a suo tempo fatto deportare il ragionier Mambretti direttore della locale Banca
Artigiana. Venne a sapere che il Praga non abitava più lì: adesso era a Milano,
nella polizia, e secondo certuni dirigeva addirittura una squadra di tortura,
specializzata nello strappare confessioni ai partigiani. Questa voce - dopo che
egli ebbe al riguardo esaurite senza costrutto le sue due uniche fonti di infor-
mazione (un ex compagno di scuola, e un ex operaio della ditta di suo padre),
e dopo che ebbe inutilmente interrogato all’osteria gente che non conosceva -
gli fu confermata in un breve colloquio da un giovane seminarista non meno
imprudente di lui. Nell’atrio dell’oratorio, dove il seminarista - che si definì
‘candidato prete da corsa’ - lo ricevette rosso in viso, trafelato, e con i lembi
della veste alzati e infilati nella cintura perché stava giocando al pallone coi
ragazzi.
«Comunque» gli ricordò per scrupolo di coscienza il seminarista «tieni pre-
sente che di questi tempi fanno presto a circolare voci simili. Di sicuro si sa
soltanto che da più d’un mese il Praga è andato a stare a Milano.»
«Questo colloquio» disse alla fine Pino, preso da uno scrupolo tardivo
«dobbiamo considerarlo come fatto in confessione. D’accordo ?»
«D’accordo» gli rispose, impegnandosi anche con una stretta di mano, il
candidato prete da corsa.
«Un momento» volle a questo punto fare un supplemento d’indagine Pino:
«E Panzone? È andato via anche lui?» (Si trattava del fascistello locale - chia-
mato così per beffa, in realtà senza pancia e magrissimo - che aveva a suo
tempo fatto da compare al Praga nell’insidia al ragionier Mambretti.)
«No» gli rispose il seminarista «quello sta ancora qui, ma non è più fasci-
sta, non è più niente: fa soltanto compassione a tutti, seguita a sbronzarsi per
il rimorso.»
Pino approvò con gravità, in un certo senso impegnando ad averne compas-
sione anche coloro che stavano alle sue spalle.
Il candidato prete da corsa lo ringraziò con un sorriso, e uscito senza indu-
giare oltre in cortile, riprese a correre coi ragazzi.

***
Al ritorno a casa Pino s’imbatté sul cancello nel padre, che lo scrutò attento,
subodorando qualche sua sciocchezza; gli chiese dove fosse stato.
«A Incastigo.»
«A che fare?»
«Per... servizio.»
«Per cosa?»
«Beh, per assumere informazioni.»
«Su chi?»
«Oh, su un tale che tu non conosci.»
Poi, siccome il padre mostrava di averne abbastanza d’un dialogo così reti-
cente, gli spiegò chi era il ‘tale’, e spiattellò punto per punto tutto ciò che aveva
fatto, senza escludere l’interrogatorio alla gente in osteria.
Gerardo rimase assai turbato; si trovavano in giardino, davanti alla casa: fe-
ce entrare, indicandogli in silenzio l’ingresso con la mano, il figlio nel proprio
studio, e lo seguì; nei pochi passi dal giardino allo studio s’era andato carican-
do d’ira: «Ti rendi conto d’avere a che fare con un pericoloso, anzi un perico-
losissimo delinquente?» cominciò: «Avresti potuto comportarti in modo più
incosciente, anzi, lasciamelo dire, più stupido di così?» e andò avanti di que-
sto passo, tra turbato e iroso, prospettando al figlio le possibili conseguenze
della sua azione, che avrebbero potuto coinvolgere, disse, anche gli altri di ca-
sa: «...magari tua madre e le tue sorelle. Te ne rendi conto, stupidone?»
A Pino sembrava che facesse parte dei suoi doveri di partigiano in licenza
non lasciarsi suggestionare da timori di questo tipo; e se per rispetto al padre
cercava di non darlo a vedere, pure il suo atteggiamento finiva col non essere
quale il genitore avrebbe voluto; il che comportò dei supplementi di filippica.
Per risolverla il ragazzo propose: «Senti papà: me ne vado di casa, così la
famiglia resta fuori da ogni possibile rappresaglia. Io non sono ancora in età
militare, dunque nessuno può dir niente se vado via.»
«Tu resti qui» gli disse ancor più preoccupato Gerardo: «Tu resti a casa tua.
Dove vorresti andare? E a che fare poi? A combinare altre sciocchezze? Adesso
quello che più importa è che tu eviti ogni iniziativa partigiana.» Ebbe
un’ispirazione: «Pino, cerca di riflettere: credi che i tuoi ufficiali e i tuoi com-
pagni facciano il partigiano anche quando si trovano a casa loro?»
Pino dovette riconoscere che probabilmente no, e anche se, non lo disse,
che questo fatto ‘tagliava la testa al toro’.
Uscito però dallo studio paterno (poiché almeno un po’ di ragione ciascuno
se la vuol pur dare) si ripeteva che gli era capitato un genitore decisamente
troppo suggestionabile. Forse quel Praga, di cui suo padre si preoccupava tan-
to, non era altro, giusto come Panzone, che un fesso integrale.
In questo il ragazzo si sbagliava di grosso: se avesse conosciuto l’uomo che
con tanta svagatezza pretendeva di controllare, se ne sarebbe spaventato.

CAPITOLO SEDICESIMO

In quello stesso momento il Praga, seduto nel proprio ufficio a Milano, era a
sua volta in vena di ricapitolazioni.
La possibilità di lasciare Incastigo gliel’aveva offerta un’opportuna circolare
del partito che invitava ad arruolarsi nella polizia (da cui in quei giorni chi ap-
pena poteva usciva). Aveva, in quell’occasione, riflettuto bene: certo la nuova
vita non sarebbe stata senza inconvenienti; custodire e (a lui sembrava impli-
cito) ‘far cantare’ i prigionieri, avrebbe comportato grossi rischi; però arruo-
landosi si sarebbe finalmente sottratto all’autorità limitatrice dei capi fascisti
locali, nonché all’ambiente di Brianza, a lui da sempre odioso; inoltre avrebbe
avuto nelle sue mani degli esseri umani totalmente indifesi... Era stata sopra
tutto quest’ultima per lui fascinosa prospettiva a risolverlo. E come chi, presa
una decisione a fin di bene, indipendentemente dall’utile che gliene potrà poi
derivare, si sente in pace con la propria coscienza, così egli s’era sentito ap-
provare non già dalla coscienza, ma da una presenza indefinibile - una sorta di
contro-coscienza - che, in genere schernitrice e beffarda, si annidava in lui.
Una volta arruolato e trasferito a Milano però, s’era reso conto che le cose
non andavano affatto com’egli supponeva, e che anzi la polizia ordinaria
adempiva tuttora alla sua funzione di far rispettare la legge, anche nel tratta-
mento dei carcerati. Che razza di cantonata, che svarione s’era accorto d’aver
preso!
Per fortuna, mentr’era nel rovello per la delusione, gli era capitato di sentir
decantare da un collega malcontento come lui un reparto o formazione poli-
ziesca minore (uno dei tanti organismi semi indipendenti, che pullulavano in
quei giorni d’anarchia) nel quale i poliziotti erano «come dei», e non «i soliti
poveri fessi come noi». In breve, preso contatto con quel reparto insediato in
una ex pensione del centro, aveva avvertito che vi tirava un’aria a lui più con-
geniale, e vi s’era trasferito senz’altro, lasciando ai nuovi superiori il compito
di regolarizzare la sua posizione matricolare. (Anche questo, il passare di pro-
pria iniziativa da un corpo a un altro, era fenomeno frequente in quei tempi,
tra le forze armate fasciste come tra quelle partigiane).
Nella ex pensione - situata in una traversa di via Broletto, e fornita di diver-
si piani di scantinato silenziosi come tombe - il lavoro gli s’era subito rivelato
interessante. Per di più il luogo era molto ben protetto, com’egli aveva potuto
constatare allorché un agente suo collega era stato inseguito fin là dentro da
due partigiani, prontamente bloccati dal servizio di guardia.
Proprio quei due sprovveduti partigiani - che il comandante del reparto
aveva affidato alle sue cure di novellino - erano poi stati al principio della sua
‘entratura’ nel nuovo ambiente. Da alcuni minimi particolari egli aveva infatti
fiutata in loro l’appartenenza alla ripugnante genia dei frequentatori di sacre-
stie, come dire - secondo la scultorea definizione mussoliniana - alla genia dei
‘vilissimi guelfi’, di cui aveva fatta fin troppa esperienza in Brianza. Conoscen-
do la loro mentalità pretesca, egli s’era detto, a ragione, che i due (e uno in
particolare, un ragazzo insufficiente, brufoloso, pieno di buoni propositi ma
mezzo morto di paura ancor prima d’essere torturato) dovevano essersi messi
in quell’impresa disperata non già per uccidere l’agente, o per un altro fine
negativo, ma per un fine a parer loro positivo. Quale? Qui stava il punto. Vole-
vano prendere vivo l’agente, e va bene, non però per uno scambio: sarebbe
stato per loro troppo più conveniente e più facile prendere un qualsiasi gerar-
ca. Perché dunque s’erano messi alle calcagna di quell’agente, che non era
nemmeno graduato?
Grazie a un ‘trattamento’ separato dei due (eseguito sotto i suoi occhi da
torturatori abituali in un modo decisamente grossolano, cioè mediante per-
cosse e scottature di sigarette) il Praga era riuscito a ricostruire il movente
dell’azione: l’agente inseguito aveva qualche tempo prima tolto di circolazione
un prete che dava fastidio. I suoi due inseguitori non erano partigiani abituali:
erano semplicemente ragazzi frequentatori dell’oratorio di quel prete, e pro-
prio per avere notizie di lui - di cui l’autorità dichiarava di non sapere - nulla -
avevano tentata la cattura dell’agente. Un episodio di scarso interesse polizie-
sco, addirittura banale: non fosse che, prima di considerarlo chiuso, il Praga si
era voluto accertare se la responsabilità di quel determinato agente fosse co-
nosciuta fuori dell’ambiente della sezione, e gli era risultato che no, non
avrebbe dovuto. Interrogati, sempre separatamente, i due ragazzi su chi
l’avesse rivelata loro, il più debole (che nel prete scomparso aveva avuto un
appoggio, e lo ricercava appunto perché ne sentiva bisogno) dopo una congrua
aggiunta di ‘trattamento’, tutto insanguinato, con la faccia irriconoscibile per
le ecchimosi, l’aveva confessato piangendo; la confessione dell’altro era stata
più laboriosa, ma aveva costituito alla fine una conferma; la polizia speciale
era così arrivata a mettere le mani sul responsabile: uno dei propri uomini
che, per una modesta somma, aveva parlato.
Dopo questa prima, ancora recente indagine, al Praga n’erano state affidate
altre, anche se in questa prima c’era stato un neo, un particolare per i suoi su-
periori e colleghi poco chiaro: i due ragazzi a indagine terminata erano stati
infatti entrambi da lui uccisi nei sotterranei della prigione, durante un ‘tenta-
tivo di fuga’ assolutamente inverosimile. Non erano state fatte indagini,
d’accordo, il Praga però non mancava d’avvertire il rischio corso; e anche
adesso, seduto alla sua malferma scrivania nell’ufficio che gli era stato da poco
destinato (un localino della pensione, con un quadretto di barche ancora ap-
peso a una parete) ci ripensava. “È così, io devo ancora imparare” finì col dir-
si: “mi spiace, ma devo ancora imparare”. Prima d’allora del resto cos’aveva
fatto? quali erano state le sue imprese? Lo smascheramento e la deportazione
in Germania (“ad Auschwitz, un campo dal quale per fortuna non si torna”)
del ragionier Mambretti, e più tardi la deportazione di un altro incastighese,
un capetto fascista che s’era opposto con tenacia alle sue iniziative... Un ba-
stardo piuttosto coraggioso, a ripensarci: mentre gli altri fascisti infatti, anche
i più importanti, avevano con l’allentarsi della disciplina cominciato a temere
il Praga, e si auguravano che se n’andasse, quello: «No» si era permesso di
dire in una riunione (e lui l’aveva risaputo): «noi non dobbiamo lasciarlo an-
dare: dobbiamo tenerlo qui sotto di noi, per impedirgli di combinar porche-
rie.» Il bastardo! Bene, l’aveva poi sistemato, e mentre col Mambretti - pun-
tualizzò ora con disappunto - si era comportato da idiota, con questo aveva
avuto l’accortezza di non esporsi. Tutte qui finora, ad ogni modo, le sue im-
prese, perché le successive erano soltanto agli inizi. Tutte qui, poche davvero!
A meno di voler aggiungere... No, cosa c’entrava? Eppure da quando s’era
messo in queste riflessioni, gli tornavano alla mente anche le sconclusionate
accuse di sua moglie due anni prima (chissà dov’era adesso quella carogna?
“Lontana da qui purtroppo, se no questo sarebbe il momento per saldare il
conto anche con lei!”): beh, quella carogna l’aveva quasi pubblicamente accu-
sato d’essere il responsabile della morte della loro unica bambina. Figuriamo-
ci. Solo per quegli spaventi che certe sere lui si divertiva a farle prendere... La
bambina aveva una straordinaria paura del buio, e lui: «Da brava Alida, scen-
di a prendermi le ciabatte» e dietro la piccola scendeva lui pure senza farsi
sentire. Giunta a pianterreno la stupidina era regolarmente incapace - tale
terrore le incuteva il buio - di trovare l’interruttore della luce: lui allora faceva
dei versacci cavernosi, quella si metteva a urlare e urlare, ed era incredibile
l’agitazione e il batter di denti che la prendevano, e che continuavano per un
certo tempo anche dopo accesa la luce. Sebbene la bambina ubbidisse con
scrupolo al suo ordine di non parlarne mai, una sera sua moglie rincasando in
anticipo dal lavoro l’aveva colto sul fatto e s’era ribellata: malgrado la paura
che abitualmente aveva di lui, quella volta gli aveva mostrato le unghie, la
schifosa! Al ricordo il Praga torceva anche adesso la bocca con rabbia, come
allora... Prendendo a pretesto la cattiva salute della piccola (in effetti era ma-
lata di leucemia: ma in questo gli spaventi non c’entravano) la carogna se l’era
portata al suo paese, e lui era stato costretto a lasciarle andare, perché quella
l’aveva minacciato, se no, di spiattellare ogni cosa al fascio: «Anche se poi tu
demonio mi ammazzerai». Comunque di lì a poco la bambina era morta, e
questo era tutto.
Beh, ma cosa c’entrava ora quest’acqua passata? C’entrava, c’entrava - si
disse vagamente il Praga - movendo le natiche sulla sedia. Era un individuo
tozzo, con la testa rotonda come una palla, e gli occhi sfumati in paglierino:
quei ricordi finivano col suggestionarlo. In realtà a suggestionarlo era soprat-
tutto la bocca esagitata della sua bambina, quel visino che sembrava disfarsi
per il terrore. Disfare, ecco, il disfare, era questo che lo attirava sopra ogni co-
sa al mondo: a questo appunto tendeva la presenza indefinibile, quell’alterità
insediata in lui, che sembrava fare tutt’uno con lui. Non avendo purtroppo la
possibilità di disfare gli individui su grande scala - lui era solo un sottufficiale
- avrebbe voluto almeno disfare punto per punto i pochi in suo potere. Con i
due ‘vilissimi guelfi’ questo intendimento gli aveva tuttavia preso la mano in
modo troppo scoperto. Da non credere però... pareva impossibile che anche
qui, nei sotterranei di un carcere in cui si praticavano le torture, ci fossero dei
limiti, delle regole da rispettare! In conclusione lui doveva stare più accorto.
Non agire come con quei due che, in seguito al brillante successo conseguito,
aveva creduto di potersi concedere come premio, mettendosi a sperimentare
su di loro un complesso sistema di tortura che covava da tempo nella fantasia.
Da quanto tempo? Mah... A pensarci bene da queste cose lui si sentiva attratto
- implicitamente almeno - da parecchi anni. Quella continua tentazione, già da
ragazzo, di bruciare vivi, a fuoco lento, i piccoli animali, che così di raro aveva
potuto soddisfare! Beh, sebbene imperfetto (“Per forza, in queste cose io sono
ancora un principiante!”) il suo vagheggiato sistema di tortura si era alla pro-
va dimostrato obiettivamente efficace, forse più efficace di quelli tradizionali:
l’agitazione convulsa dei due prigionieri legati e imbavagliati, il loro mugliare
spasmodico, addirittura folle, gli avevano dimostrato di essere sulla strada
giusta. Per lui era stata un’orgia di piacere: anche se, tutto considerato, era
durata troppo poco. È vero che adesso, se non altro, il ricordo degli scuoti-
menti di quelle due bocche imbavagliate - un po’ come della bocca senza re-
spiro della sua bambina - lo faceva godere ancora... I due n’erano usciti però
così mal ridotti, che non potendoli rimandare in cella egli aveva dovuto ucci-
derli con un colpo di pistola, di questa buona pistola che adesso teneva davan-
ti a sé sulla scrivania. (Anche l’arma lo incantava: beninteso non era una mi-
tragliatrice che moltiplica prodigiosamente la morte, ma anche questa uccide-
va la sua parte, altro che se uccideva! “Sfonda la carne, le ossa, e...”)
Tale era dunque l’uomo (possiamo noi chiamarlo uomo? Senza dubbio, anzi
non possiamo chiamarlo in altro modo, perché le bestie feroci non sono affat-
to così) che il ragazzo Pino avrebbe voluto tenere sotto controllo. Queste le sue
riflessioni quel giorno.

VI

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

La cartolina del comando partigiano a firma ‘Margherita’ arrivò a Nomana


qualche settimana dopo Pasqua, nella seconda metà dell’aprile 1944. Lasciato
un breve biglietto di spiegazione per i genitori sul comodino della propria ca-
mera, Pino partì in bicicletta per Megolo; stavolta non era solo, lo accompa-
gnava un suo coetaneo e compagno di scuola a nome Sèp (Giuseppe: suo
omonimo dunque).
Arrivati - dopo una sgambata di centoventi chilometri, e senza che nessuno
li disturbasse - nella piazzetta di Megolo, i due si resero conto con stupore che
nel paese non c’era traccia di partigiani.
«Questa è bella» mormorò Pino «questa sì che è bella. Adesso voglio pro-
prio sapere dove andremo a sbattere la testa.»
Sèp lo guardava fiducioso, con l’incoscienza dei diciotto anni.
Intanto il ritrovarsi nel teatro delle sue precedenti gesta vagamente emo-
zionava Pino. Che, un piede poggiato a terra e l’altro su un pedale, cercò con
gli occhi sopra il paese la trincea da cui aveva viste le SS salire terrificanti, e le
baite partigiane, delle quali non rimanevano che monconi carbonizzati; e più
sopra ancora - alta sull’altissima parete della montagna - la sella attraverso la
quale lui e gli altri avevano travalicato, ponendosi in salvo. Vicini, per così dire
toccabili con mano, aveva l’alberghetto dov’era insediato una volta il comando
di Beltrami, e l’osteria della Mariuccia e, da quest’altra parte, la fontana a cui
senza dubbio venivano ancora col loro passo meditabondo ad abbeverarsi le
vacche: la modesta fontana di sasso che costituiva il maggior ornamento del
paese.
“Che giorni quelli!” pensò emozionato il ragazzo “che tempi! Tempi così non
ne verranno più!” Si sentiva come un veterano tornato sui luoghi d’una grande
battaglia. «Sèp, tu non hai idea di quanti sono morti per difendere queste
quattro case» disse.
L’altro Giuseppe fece segno di sì, compiacente.
«Bene» sospirò il veterano, dopo avere ripetutamente annuito «è ora di ti-
rarci fuori da ’sto imbroglio.»
Per studiare con calma il da fare e anche riposarsi un poco i due entrarono
nell’osteria della Mariuccia. S’erano appena seduti che furono avvicinati da un
valligiano (Pino lo riconobbe, era il fratello maggiore, non partigiano, di un
giovanissimo partigiano della brigata) il quale: «T’è arrivata la cartolina, ve-
ro?» disse a mezza voce, in dialetto.
«Sì, precisamente. E adesso non so dove andare» gli rispose Pino.
«Te lo dico io, per conto di Tide.»
«Ah, meno male.»
«Devi andare a Ornavasso, e presentarti in via tale al numero tale.»
«Ma da Ornavasso noi ci siamo appena passati.»
«Vedo.»
«Va bene» disse Pino: «via tale numero tale hai detto?» L’altro annuì.
«Guarda di tenerlo bene in mente.»
«Non dubitare. Ti ringrazio.»
L’uomo sorrise a mo’ di conclusione.
«Un momento. E tuo fratello?» gli chiese il ragazzo.
L’altro fece un gesto a significare: sta su in montagna.
«Dunque anche lui s’è salvato il giorno della battaglia.»
Il valligiano annuì, e sorrise di nuovo.
«Tu lo sai quanti sono stati i morti?»
«Il giorno della battaglia?»
«Sì.»
«Dieci. Ne abbiamo raccolti dieci.»
«Solo dieci?»
L’altro lo guardò un po’ sorpreso: «Quanti credevi che fossero?» Pino non
rispose: «Compresi il capitano e il tenente Antonio?» chiese.
L’uomo annuì: «E altri due ufficiali.» Un simile rapporto di perdite tra capi
e truppa era di per sé indicativo, ma nessuno dei tre se ne rendeva conto: «I
corpi del capitano e di Antonio i tedeschi li hanno riconsegnati alle famiglie»
disse: «gli hanno permesso di fare i funerali. Lo sapevi?»
Pino fece segno di no. Poi chiese: «E adesso chi comanda la brigata? Betti-
ni?»
L’altro tentennò la testa negativamente, e accennava ad andarsene: le do-
mande stavano diventando troppe.
«Un momento, chi è? Dimmelo» insisté Pino.
«Te lo diranno a Ornavasso.»
«No, dai, mi conosci.»
«È Alfredo il comandante» sussurrò l’altro, e fatto con la mano un cenno di
saluto si allontanò.
«Toh» fece Pino, «guarda. Non è più in prigione Alfredo?»

Uscito quello, venne al tavolo l’ostessa, la Mariuccia, a prendere


l’ordinazione: salutò Pino con un movimento appena percettibile del capo,
mostrando così d’averlo riconosciuto; dopo di che si comportava però come se
non lo conoscesse affatto. Il ragazzo non capiva se la sua presenza fosse gradi-
ta o no, e - proclive com’era in quel momento alle rievocazioni - ci rimase piut-
tosto male; si rese conto che per i civili le azioni partigiane non avevano rap-
presentato un divertimento.
Sorbì una gazosa come d’abitudine (purtroppo mancavano ancora le aran-
ciate), mentre il suo compagno beveva un bicchiere di vino: l’ambiente (le pa-
reti rivestite di legno fino a metà, le sedie angolose, uno scoiattolo impagliato
sopra la portina d’ingresso, uno specchio senza cornice con la réclame del Fer-
ro China Bisleri) era in tutto e per tutto come una volta, ai giorni gloriosi; sol-
tanto la disposizione dei tavoli adesso era diversa, frazionata, perché non
c’erano più gli avventori partigiani che usavano sedersi in gruppi. Pino segui-
tava a guardarsi intorno, e ogni tanto scuoteva la testa bionda, piatta sulla nu-
ca; l’emozione non lo lasciava.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

A Ornavasso non fu difficile ai due trovare il recapito. C’erano già, nascosti


in un fienile, due giovani arrivati prima di loro, un altro giunse verso sera: si
trattava di gente sconosciuta, nuova, spaesata. Nel corso della notte un conta-
dino del luogo condusse tutti - con un’arrampicata di alcune ore - a un avam-
posto partigiano in montagna. Del quale Pino scoprì con gioia che il responsa-
bile era Tom. Portava ancora in testa il cappello alpino di suo fratello, con
l’aquila tutta consumata: «Pino, tu! Ma cos’è diventata, un’abitudine? Tocca
sempre a me riceverti!» lo accolse Tom, stringendogli cordialmente la mano:
«E bravo. Sei tornato.»
«Credo bene» disse Pino, sintetico come si addice a un uomo d’azione, ma
in cuor suo felice al pari d’un bambino: felice per il compagno ritrovato, con-
tento anche perché le parole di quello lo qualificavano veterano agli occhi dei
novizi giunti con lui.
«Lo sai che i ‘vecchi’ ci sono quasi tutti?» disse Tom, «e c’è un mucchio di
nuovi, un fottio, vedrai, tanto che non so come faremo ad armarli tutti.»
«Dì, ho sentito che adesso il capo è Alfredo Di Dio.»
«Marco, lo chiamiamo Marco, ricordatelo. Sì, il capo è lui.»
«Allora, voglio dire ai nostri tempi, era in prigione. Come ha fatto? È scap-
pato? O l’avete liberato voi?»
«No. L’hanno lasciato andare i fascisti, pensa un po’. E c’è Bettini, Tide, e...
insomma vedrai.»
Accompagnò i nuovi arrivati a una stalletta coi muri di pietra viva, attrezza-
ta a ricovero: «Adesso vi convien dormire» disse «perché appena si fa chiaro
ne avrete di strada da macinare.»
«Dove ci mandi di bello?» chiese Pino.
«Al Pan Perdu, una malga sul monte Massone. Qui nella zona di Ornavasso
siamo già troppi. Al Pan Perdu troverai diversi dei vecchi, vedrai.»
Tenne accesa una torcia elettrica, proiettandone la luce smorta qua e là sul
fieno finché ciascuno ebbe preso posto, quindi salutò tutti con un: «Beh, buo-
na notte per quel che ne resta» e spenta la torcia li lasciò.

***
La marcia fino al Pan Perdu si prese quasi l’intera giornata successiva. E
non fu l’unica marcia, ché nei giorni seguenti le reclute partigiane, e anche gli
anziani, dovettero sottoporsi a una serie di dure marce d’addestramento al-
ternate a frequenti esercitazioni di ‘scuola sui gomiti’ (propria della fanteria),
scuola sui materiali, e tiri col moschetto e col mitragliatore. Lo scenario in cui
si muovevano - a volte cantando una canzone dei tempi di Beltrami: ‘Marciar,
marciar, - marciar ci batte il cuore...’ - era incomparabile: una colorata pro-
spettiva di dorsi e vette di montagne fuoriuscenti dai limiti della vegetazione,
dominati dalla superba vetta del Rosa che, coi suoi 4600 metri, è la seconda
per altezza delle Alpi.
L’ufficiale comandante del campo - il ‘vecchio’ sottotenente Tide - era molto
esigente, e si sincerava di persona della preparazione d’ogni singolo uomo,
specie nell’uso delle armi. L’attuazione sistematica dei suoi programmi veniva
però seriamente ostacolata dal continuo afflusso di nuove reclute, che risali-
vano la montagna sospinte dai bandi della repubblica.
Un paio di volte giunse in visita il comandante Marco, alias Alfredo Di Dio,
il quale parlò agli uomini riuniti, cercando d’infondere in loro un retto senso
dei comuni compiti e doveri. Era meno autorevole (anche per la più giovane
età, aveva solo ventiquattro anni) dell’indimenticabile comandante Beltrami,
ma si avvertiva in lui un fuoco interiore che nell’altro - più distaccato - non
c’era. Marco parlava con slancio di patria, di civiltà, di Dio. Parlava continua-
mente di Dio, che era la sua passione: il compito di loro tutti non era soltanto
la liberazione della patria dall’oppressione tedesca, era anche il recupero del
popolo alla sua civiltà più autentica, che è quella cristiana. Del resto - egli as-
seriva - da Cristo in poi non ci può essere vera civiltà in opposizione ai principi
del cristianesimo, e ricordava che l’Italia era stata grande solo quando era sta-
ta anche realmente cristiana.
A Pino sembrava quasi di sentire il Tintori di Nova e, per un altro verso, suo
cugino Manno, che chissà dov’erano in questo momento, se pure erano ancora
vivi: Marco gli appariva fatto della stessa pasta, anche se aveva modi decisa-
mente più militari di loro. «Io non riesco a capire se il nostro comandante è
un soldato oppure un asceta» disse a Pino, al termine d’uno di quei discorsi,
un partigiano adulto arrivato da poco, centrando esattamente anche il pensie-
ro del ragazzo.
«E se fosse l’uno e l’altro insieme?» propose Pino.
«Sì, forse è proprio così. Ci hai fatto caso? I ‘nazi’ gli hanno ammazzato il
fratello, e ciononostante lui non parla mai di vendetta; non fa parte della sua
mentalità.»
Forse appunto per questo, pensavano alcuni, i fascisti in un momento di lu-
cidità l’avevano lasciato andare: in tempi in cui non pochi partigiani assaliva-
no gli avversari nelle strade e nelle case, e li uccidevano anche se inermi, un
comandante come questo avrebbe potuto costituire una sorta di garanzia (al-
meno per le donne e i figli, i quali vivevano nel terrore di ciò che sarebbe ac-
caduto alla fine della guerra, ormai chiaramente perduta). Un uomo civile co-
me questo si sarebbe certo opposto, forse anche con la forza, alla carneficina
generalizzata.
Dal punto di vista militare già nelle settimane seguenti Marco, ch’era uffi-
ciale effettivo dell’esercito, cominciò a dimostrarsi molto abile: gli attacchi
delle sue formazioni - mai a caso e mai slegati - diedero addirittura inizio a un
principio di capovolgimento del rapporto di forze nella zona: si cominciò ad
avere la sensazione che la prevalenza sarebbe ora potuta passare ai partigiani.
L’afflusso di reclute nei mesi di maggio, giugno, luglio e seguenti, divenne
teoricamente illimitato: ormai i bandi di chiamata del governo fascista anziché
fornire uomini alla repubblica li fornivano alla guerriglia d’ogni colore e impo-
stazione ideologica: «Piuttosto che in Germania anche all’inferno» dichiara-
vano le reclute presentandosi agli avamposti partigiani.
Marco non poté accoglierne oltre un certo numero: aveva già moltiplicato le
sue brigate, e mantenerle armate ed efficienti comportava uno sforzo logistico
enorme; nel sostenere il quale gli era di valido aiuto un nuovo collaboratore,
giovane ufficiale effettivo come lui, Eugenio Cefis, che aveva assunto lo pseu-
donimo di Alberto. Costui andava, per parte sua, rivelandosi un organizzatore
di primo piano: riusciva a procurarsi mezzi da molte parti, incluso denaro
tramite centri di raccolta istituiti a Milano, e armi dagli ‘alleati’, che ogni tanto
adesso effettuavano lanci alla cosiddetta ‘casa dell’eremita’, dove funzionava
anche una stazione radio collegata col governo del sud.
I tedeschi e i fascisti, esasperati dai continui colpi di mano, reagivano come
potevano con rastrellamenti, sempre però poco fruttuosi perché Marco - am-
maestrato dall’esperienza dello scontro di Megolo - puntigliosamente non ac-
cettava il combattimento campale. Nella seconda metà di giugno tedeschi e
fascisti fecero - con l’aiuto di rinforzi imponenti fatti affluire da altre provincie
- un tentativo di ‘bonifica’ integrale della zona: la val d’Ossola e le sue affluenti
val Vigezzo, val Grande, val Cannobina, furono rastrellate fino al confine sviz-
zero da forti colonne armate; le artiglierie e i mortai batterono dal basso i bo-
schi sollevando incendi qua e là; reparti salirono per ogni dove, bruciarono i
ricoveri, ma non riuscirono ad agganciare che marginalmente i partigiani delle
varie formazioni. I quali rispondevano soltanto con puntate ritardatrici o con
scaramucce diversive sui fianchi del nemico, spostando di continuo da un luo-
go all’altro il grosso delle loro forze. Perdettero, complessivamente, è vero, tra
morti, feriti, e dispersi, alcune centinaia di uomini - più di quanti cioè ne ave-
va persi la brigata Beltrami nel corso di tutta la sua storia - ma non furono
perdite tali da compromettere nessuna delle formazioni principali.
Anche Pino marciò freneticamente con gli altri, sempre con la sua borsa da
medicazione a tracolla, ed ebbe modo di vedere da lontano l’incendio di qual-
che bosco, soprattutto di udire le esplosioni che si susseguivano giorno e not-
te; vide più volte dall’alto la strada del lago - così pacifica un tempo - ingom-
bra di colonne armate.
Una formazione partigiana minore - non inquadrata nelle brigate di Marco
- venne sorpresa sopra Intra e catturata al completo. I prigionieri, quaranta-
due uomini e una donna, furono portati a Fondotoce, fatti girare incolonnati
per le vie del paese con un cartello che li qualificava ‘banditi’ (la donna cam-
minava in prima fila, spaurita, con le scarpe basse ai piedi e la borsetta al
braccio) e infine fucilati tutti.
I partigiani allora fucilarono i prigionieri in loro mani e altri che nel corso di
ripetuti agguati riuscirono a fare, incluso il capo della Feldgendarmerie della
provincia, catturato dagli uomini di Marco proprio mentre tornava dalla stra-
ge di Fondotoce.
I tedeschi, in risposta, presero ventun civili di Baveno, per lo più uomini
anziani, e li fucilarono sul lungolago della cittadina.
I partigiani risposero con altre fucilazioni. Essi - non solo quelli di Marco,
ma anche di altre formazioni non estremiste in cui permaneva il rispetto per la
vita umana - avevano da tempo costituito dei nascondigli in montagna deno-
minati ‘campi di concentramento’, nei quali riunivano i loro prigionieri per lo
scambio. Da quei giorni però sempre meno prigionieri vennero avviati ai
‘campi’, perché un elemento nuovo, deteriore, lo spirito di vendetta, s’andava
insinuando nel cuore di molti. Marco - che pure, per non farsi scavalcare, ave-
va aderito e anche ordinato alcune fucilazioni - lo avvertiva chiaramente come
un elemento demoniaco. Per fargli in qualche modo fronte, chiese ed ottenne
dal vescovo di Novara due cappellani che si adoperassero per riportare gli
animi inaspriti alla carità eroica cristiana.
Intanto insisteva con rigore perché nelle sue bande l’addestramento milita-
re proseguisse. Già le truppe nemiche giunte da fuori per il grande rastrella-
mento erano tornate alle loro basi; il controllo nazifascista s’andava di nuovo
circoscrivendo agli abitati e alle maggiori vie di comunicazione; i colpi di ma-
no partigiani - cui anche Pino e Sèp parteciparono più d’una volta - erano in
crescendo: ciononostante l’addestramento veniva portato avanti senza tregua.
Marco si era infatti messo in testa di compiere una grande impresa, qualcosa
d’esemplare, che arrivasse a scuotere l’opinione pubblica dell’Italia intera: a
tal fine gli occorreva uno strumento bellico adeguato.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Al principio di settembre giunse in montagna notizia che centinaia di militi


fascisti (Marco valutò intorno a trecento) erano stati sottratti ai presidi delle
valli e inviati in altre provincie dov’erano in corso offensive partigiane. Un di-
sertore - presentatosi a un posto di blocco della compagnia di Pino e Sèp - ri-
ferì in particolare la consistenza residua (cinquanta italiani e trenta tedeschi)
del presidio di Piedimulera, paese a otto o nove chilometri da Megolo, sullo
stesso lato della valle: si trattava - precisò il disertore - di uomini demoralizza-
ti e in crisi.
La compagnia - assente Pino, che si era recato alla ‘casa dell’eremita’ per ri-
tirare del materiale sanitario - venne fatta scendere nottetempo nella valle:
secondo un piano studiato personalmente da Marco avrebbe dovuto, all’alba,
attaccare di sorpresa quel presidio in collaborazione con un’altra brigata par-
tigiana, la Valdossola del maggiore Superti (fazzoletti verdi), che operava nella
zona. Non riferiremo i particolari: ci basterà dire che la sorpresa venne a man-
care e l’attacco fu respinto.
Un partigiano azzurro, gravemente ferito, era caduto prigioniero: con la fe-
rocia che può nascere dall’esasperazione, i militi (appartenenti alla ‘brigata
nera’ di Carrara) dopo averlo legato per i piedi a un carro, lo trascinarono nel-
la polvere lungo le strade del paese fino a scempiarne il misero corpo. Del che
i partigiani furono subito avvertiti dai civili; indignatissimi attaccarono di
nuovo, e per la seconda volta furono respinti.
L’azione su Piedimulera sembrava fallita, quando il presidio tedesco abban-
donò inaspettatamente il paese su alcuni autocarri, dirigendosi a gran velocità
verso Domodossola.
I partigiani verdi lasciarono allora le proprie posizioni, e si trasferirono più
indietro, su un ponte a cavallo della strada per Domodossola, attestandovisi
con le mitragliatrici in modo da sbarrarla. «Chiudiamo la stalla dopo che sono
scappati i buoi» mugugnava più d’uno di loro. Pareva infatti inverosimile che
anche i fascisti avessero a tentare d’andarsene, adesso che non potevano più
farlo di sorpresa; invece un paio d’ore più tardi il presidio fascista di Piedimu-
lera si presentò improvvisamente sulla strada al completo, a bordo di quattro
autocarri. Le mitragliatrici partigiane attesero d’averlo bene a tiro, poi apriro-
no il fuoco investendo tutt’e quattro le macchine che, ripetutamente colpite, si
arrestarono. I militi balzarono a terra tra le urla dei loro feriti, e facendosi co-
me potevano schermo delle macchine stesse, o stesi nell’erba ai lati della stra-
da, cercarono disperatamente di difendersi; la sproporzione delle forze era
però grande, infelicissima la posizione allo scoperto.
II frastuono degli spari giunse agli azzurri, che immediatamente accorsero
frenetici: resisi conto di ciò che accadeva, presero senza essere visti posizione
nei campi ai due lati della strada, piazzarono le loro armi e aprirono anch’essi
il fuoco. I fascisti tentarono di far fronte anche a questi altri nemici, ma su di
loro battevano da tre parti, incrociandosi, le raffiche delle mitragliatrici, dei
mitragliatori, dei mitra: li falciarono, crivellarono gli autocarri, gli uomini ri-
spondevano sempre più debolmente finché, cessato quasi ogni movimento
intorno ai camion, una donna, un’ausiliaria, alzò da una cabina uno straccio
bianco. Subito i partigiani accorsero da ogni parte con le armi in pugno, in
preda a un entusiasmo indescrivibile, Sèp insieme con gli altri. Si rese conto
che i fascisti non erano cinquanta, ma assai meno, forse una trentina: giace-
vano riversi nelle macchine, sulla strada, nei campi intorno alla strada; alcuni
erano ancora vivi, e i partigiani - anche i partigiani cristiani di Marco - li fini-
rono, sparando loro nella nuca; la donna giaceva piegata su sé stessa nella ca-
bina del secondo autocarro, un filo di sangue le usciva dalla bocca. Alzò a fati-
ca verso i nemici il viso terreo, che teneva chinato: «Per favore» disse piano
«sparatemi nella testa». E un cristiano di Marco le sparò nella testa.
I vincitori dopo avere contato i cadaveri, si diedero ad allinearli su un prato,
ma smisero presto: cominciavano ad avvertire disgusto e rimorso per ciò che
avevano fatto. Le due formazioni si divisero frettolosamente le armi dei vinti e
sgombrarono il luogo.

***
La notizia di questa strage feroce diffuse il terrore negli esigui nuclei fascisti
e tedeschi rimasti a presidiare le valli, i quali sapevano d’essere ormai troppo
inferiori per numero ai partigiani: anzi l’ignoranza circa la consistenza reale
dei nemici, moltiplicava nella mente di ciascuno la sproporzione delle forze.
Il comando tedesco e fascista della zona sollecitò - tramite l’arciprete di
Domodossola - un incontro urgente col comando partigiano: Marco intravide
così a un tratto la possibilità di realizzare il suo agognato programma. Alla
richiesta d’una tregua d’armi chiese in cambio - di concerto col maggiore Su-
per ti - lo sgombero dell’intera zona, dal lago al confine svizzero (si trattava
d’una metà della provincia di Novara): i tedeschi se ne sarebbero potuti anda-
re con le armi, i fascisti con le sole armi personali degli ufficiali. La richiesta
venne, con meraviglia dei capi partigiani, accolta senza discussione, e lo
sgombero fissato di lì a qualche ora. Marco dovette affrettarsi a inviare a Do-
modossola i pochi autocarri e uomini che aveva sotto mano per la presa in
consegna delle armi e dei materiali che sarebbero stati abbandonati.
Tutto ciò nella notte sul 10 settembre. La mattina del 10 all’alba trecento
uomini delle brigate partigiane Valtoce di Marco (fazzoletti azzurri) e Valdos-
sola di Superti (fazzoletti verdi) entrarono marciando a ranghi serrati nella
cittadina.

CAPITOLO VENTESIMO

Stavolta Pino era presente. Entrò fieramente inquadrato nella sua compa-
gnia, aveva il moschetto a ‘spallarm’ e la borsa da medicazione a tracolla. Agli
ordini di Marco che dava il tempo, i partigiani avanzarono a passo cadenzato,
fieri del loro grande successo; a un tratto sbottarono a cantare la loro canzone:
‘Marciar, marciar, - marciar ci batte il cuore...’ Erano la maggior parte in
calzoni corti color cachi o grigioverde, parecchi con i capelli incolti per neces-
sità o civetteria, un certo numero aveva la barba a imitazione degli alpini che -
non molti ormai - erano nei ranghi e che (qui come altrove, in tutte le maggio-
ri formazioni partigiane italiane) ne costituivano il nerbo reale. I più di loro
erano giovanissimi, non avevano dunque imparato a marciare sotto le armi
ma nelle organizzazioni giovanili fasciste.
Tutt’intorno rumoreggiava la folla, davvero imponente, sebbene fossero le
sette del mattino: donne, uomini, bambini, migliaia di persone, c’era tutta
Domodossola, perché nessuno aveva voluto restare a casa in un’ora simile.
Tutti gridavano, battevano le mani, taluni anche i piedi, lanciavano con entu-
siasmo fiori raccolti frettolosamente nei giardinetti e nei campi. Le campane
d’una chiesa attaccarono a un tratto a suonare la marcia del Piave.
“Un’apoteosi” si diceva Pino, sforzandosi di mantenere il passo (impresa in
cui non era molto abile): “è un’apoteosi, un trionfo. Grazie gente, grazie...”; gli
pareva, a momenti, che tutti acclamassero lui.
Giunta la colonna nella piazza principale, Marco diede l’alt: tutt’intorno e
nelle vie adiacenti si assiepava la folla che aveva seguito in massa i partigiani.
Qui Marco parlò: nominò ripetutamente l’Italia, con un’emozione in lui sem-
pre nuova - ne parlava come d’una ragazza di cui fosse innamorato -, ricordò
l’esempio di patriottismo e civiltà che i partigiani erano tenuti a dare al popo-
lo: a quello di qui, e all’intero popolo italiano: se la barbarie connaturata alla
guerra - disse - poteva in qualche caso averli trascinati (non la nominò, ma si
capiva che alludeva alla selvaggia strage di Piedimulera) essi dovevano ora
dominarsi e ricominciare a dare esempio di civiltà; parlò insistentemente di
Dio. Concluse ordinando che ogni reparto raggiungesse il proprio acquartie-
ramento in città, e subito dopo - lasciatevi solo poche sentinelle - tornasse qui
per una messa di ringraziamento a Dio. Così fu: la messa solenne, cui parti-
giani e folla mescolati assistettero esultanti qualche ora più tardi, venne a co-
stituire, com’era nelle intenzioni del comandante, la cerimonia culmine di
quel giorno.

***
La zona liberata - una mezza provincia come s’è detto, con sessanta comuni
e forse ottantamila abitanti - era di forma grosso modo triangolare: i due lati
verso settentrione confinavano con la Svizzera, soltanto quello meridionale
con la repubblica fascista. Quest’ultimo confine, lungo circa ottanta chilome-
tri, correva per metà sull’inattraversabile catena di montagne che culmina nel
Rosa, e per l’altra metà sulla sponda settentrionale del lago Maggiore,
anch’essa abbastanza impervia. Solo al punto d’incontro tra la catena del Rosa
e le montagne del lago c’era un esiguo tratto pianeggiante: lo sbocco della vai
d’Ossola, largo appena qualche chilometro. Di qui passavano l’unica strada e
l’unica ferrovia che immettevano nel territorio liberato: era dunque qui, in
questo punto - dove sorgeva il paese d’Ornavasso - che ci si doveva attendere il
futuro sforzo nemico. Almeno quello principale, ché nella zona del lago esiste-
va anche un ingresso minore - la vai Cannobina - percorsa da un’esigua strada
che dal ridente paese rivierasco di Cannobio saliva tortuosa verso l’interno: e a
Cannobio il giorno stesso dello sgombro i fascisti della Decima Mas erano ac-
corsi a impiantare una testa di ponte; male alimentabile tuttavia attraverso la
piatta distesa del lago.
Pino trascorse alcuni giorni a Domodossola dove assistette, e se appena il
servizio glielo consentiva partecipò, allo spontaneo guazzabuglio di manifesta-
zioni festose che tennero dietro alla librazione. Andava a zonzo a tutte le ore
per le strade acciottolate della cittadina, di solito in compagnia di Sèp. Si ripe-
teva svagatamente che avrebbe dovuto visitare il collegio in cui avevano stu-
diato suo fratello Fortunato e suo cugino Manno, senza però mai risolversi.
La gente non cessava di acclamare i partigiani, e all’incontrarli stringeva lo-
ro la mano, gli dava pacche sulla schiena, li ringraziava con calore sincero; sui
muri i manifesti minacciosi della repubblica fascista furono ricoperti da altri
con un asciutto proclama dei comandanti Marco e Superti che annunciavano
l’assunzione dei poteri, e da quelli esultanti e inevitabilmente retorici della
giunta di governo da loro subito insediata: ‘Per virtù sola di petti italiani...
l’orifiamma della redenzione della patria sventola sulle cime e nelle valli
dell’Ossola’. Cominciarono a scendere dalle montagne e dalle valli interne an-
che partigiani di altre bande, gente d’ogni colore: comunisti, monarchici, so-
cialisti, ma soprattutto senza partito, in genere ragazzi del luogo che si erano
dati alla macchia per sottrarsi alla leva; erano vestiti nei modi più inverosimi-
li, alcuni addirittura da tedeschi, e - tranne i comunisti - erano palesemente
meno disciplinati di quelli già non molto disciplinati di Marco.
Pino e Sèp ne saggiarono alcuni per rendersi conto di come la pensassero,
ma i partigiani rispondevano loro quasi solo con spiritosaggini, alle quali Sèp
rideva ogni volta divertito: non sembravano in complesso avere programmi
molto chiari per il futuro. Sempre ad eccezione dei comunisti (i ‘garibaldini’,
come si facevano chiamare): questi tuttavia, anziché esporre i loro program-
mi, ripetevano d’essere determinati a rispettare l’attuale alleanza con gli altri
partigiani: nel che a Pino sembravano sinceri. Soprattutto però i comunisti
insistevano a parlare di un loro successo in val Formazza (una delle valli che
salgono da quella principale al confine svizzero) da cui affermavano di avere,
nei giorni precedenti, anch’essi scacciato i fascisti; c’era in loro una spiegabile
invidia per il successo tanto maggiore ottenuto da Marco.
Nel giro di qualche giorno, esaurito il materiale fascista su cui porre le ma-
ni, molti dei partigiani ultimi arrivati cominciarono a dare la caccia alle ‘spie
fasciste’ cioè, in realtà, a chiunque non gli garbasse. Ne furono prontamente
dissuasi dal furore di Marco; d’altra parte la giunta di governo, cui compete-
vano le epurazioni, era composta di elementi di tutti i partiti (con recrimina-
zioni al principio da parte di certuni che avrebbero voluto maggiormente rap-
presentata la propria parte: poi - essendo da tutti avvertita la provvisorietà di
quell’avventura - prevalse in ciascuno il desiderio di viverla comunque).
Dalla Svizzera principiarono ad affluire rifugiati politici e internati militari,
e - ancor più graditi - funzionari svizzeri delle vicine amministrazioni cantona-
li, intenzionati a studiare il modo di portare aiuto: le popolazioni montanare
d’oltre confine erano infatti molto sensibili alla sorte di questa dell’Ossola, per
tanti versi simile a loro, e intendevano sostenerla.
I comunisti intanto seguitavano a misurare il successo propagandistico ot-
tenuto dai partigiani cristiani (la stampa e la radio di tutto il mondo parlavano
della ‘repubblica dell’Ossola’), e se anche esteriormente continuavano a dimo-
strarsi esultanti al pari degli altri, sempre meno lo sopportavano. Finché deci-
sero d’effettuare un colpo di mano e sovrapporvi un successo proprio: si tra-
sferirono tutti all’imbocco della vai d’Ossola, oltre la linea Ornavasso-
Mergozzo stabilita da Marco e Superti negli accordi di tregua, e il 13 settem-
bre, insieme con altre forze comuniste fatte affluire da fuori, si lanciarono
avanti per occupare Gravellona. Se il colpo fosse loro riuscito avrebbero poi
costituito l’avanguardia armata dell’intera repubblica partigiana. Ma a Gravel-
lona c’erano i tedeschi che non solo li respinsero con dure perdite, ma contrat-
taccarono. Per potersi sganciare e ritirare dentro la linea di tregua, i comunisti
furono costretti a chiedere l’aiuto di Marco. Il quale lo diede a denti stretti, poi
- temendo che i tedeschi venissero avanti anche nell’Ossola - si diede a fortifi-
care febbrilmente l’imbocco della valle tra Ornavasso e Mergozzo.
Per questo lavoro fu impiegata, con altre, anche la compagnia di Pino e Sèp,
che dovettero lasciare perciò gli ozi di Domodossola per Ornavasso.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Comandava la compagnia quel sottotenente Tide, di poche parole, al segui-


to del quale Pino era sfuggito ai nazisti a Megolo. Costui aveva l’abitudine di
lavorare insieme coi propri uomini: furono anzitutto da loro abbattuti parec-
chi grossi alberi che crescevano lungo la strada nazionale. Pino partecipò con
gli altri - in maniera piuttosto maldestra, e suscitando lazzi vari - al lavoro di
scure; con gli altri si attaccò alle funi legate alle cime per guidare gli alberi nel-
la loro caduta in modo che finissero di traverso sulla strada a sbarrarla; al pari
degli altri salutò acclamando lo schianto dei giganti verdi e lo scroscio dei loro
rami che s’infrangevano pesantemente al suolo: la fine d’ogni albero aveva un
che di simile alla fine d’un mondo, e i piccoli uomini esultavano a tali ripetute
dimostrazioni del loro potere. Poi, sempre con Tide, che partecipava di perso-
na al lavoro di piccone, i partigiani introdussero cariche esplosive nel pavi-
mento di alcuni ponti e li fecero saltare: e anche di questo: della distruzione
delle opere umane, gioivano come d’una manifestazione del proprio potere
sulle cose. Passarono quindi a scavare una lunga trincea attraverso tutta la
valle, rinforzandola con qualche fortino interrato. Impiegarono nei lavori pa-
recchi giorni senza che i tedeschi si facessero vivi. Diedero alfine inizio, sulle
opere compiute, a regolari turni di guardia, monotoni e noiosi dopo tanto mo-
vimento.
Molti giovani dell’Ossola chiedevano ora d’unirsi ai partigiani, tanto che
Marco fu costretto a riorganizzare le proprie truppe, cresciute di numero: le
ripartì in due divisioni, di tre brigate ciascuna.
«Due divisioni, nientemeno! Siamo diventati due divisioni» commentava
qualcuno con compiacenza durante i turni di guardia.
Tide, refrattario a ogni retorica, finì col seccarsi: «Se uno guarda alle do-
mande d’arruolamento, il nome di divisione non è mica fuori posto, cosa cre-
di?»
«Certo. Ne sono più che convinto. Fuori posto? Chi parlava di fuori posto?
Perché dite così?»
«Perché invece come armamento facciamo schifo: altro che divisioni. E co-
me addestramento, come efficienza, facciamo più schifo» ancora. Il fatto è che
non c’è verso di addestrarvi sul serio.»
«Tide ha la mania dell’addestramento» commentava qualcuno «tale quale
Marco. La fissazione hanno!»
«Disgraziati» diceva Tide: «Senza addestramento un esercito cos’è? Non è
un esercito, non è niente. Lo sapete cosa vuol dire la parola esercito? Vuol dire
esercitato, addestrato. Guardate i tedeschi: hanno contro l’America, la Russia,
l’Inghilterra, i partigiani di tutt’Europa. Sono uno a dieci come numero, e
hanno anche tutti i torti del mondo: però tengono, resistono, perché sono or-
ganizzati e addestrati sul serio.»
«Ma anche perché sono... come dire? valorosi. Oppure no?»
«Sì» rispose Tide «sono valorosi, questa è una realtà, purtroppo.»
«Però non è vero che noi siamo disarmati» osservò uno degli ultimi arriva-
ti: «a parte i lanci americani abbiamo le armi abbandonate dai fascisti.»
«Ecco» lo appoggiò Sèp, e si diede ad elencare: «Tre cannoni, due mortai da
81, e poi mitragliatrici, mitragliatori, fucili.»
«E questo sarebbe l’armamento di due divisioni?»
«Abbiamo anche il treno blindato che sta alla stazione di Domo.»
«Il treno blindato!» mormorò Tide: «Buono per farci la birra quello, senza
le munizioni.» Tentennò la testa e non disse altro.

***
Le giornate si susseguivano: erano belle giornate di principio autunno, tie-
pide, col sole che - non più bruciante come in estate - ravvivava le praterie del
fondo valle dall’erba magra, montanina, costellata di fiori. Nel mezzo della
valle scorreva borbottando il fiume Toce, ombreggiato da alberi coi tronchi
rivestiti di lichene; parallela al fiume si allungava la ferrovia del Sempione la
quale, non più percorsa da convogli, sembrava lentamente perdere il suo
aspetto artificiale e trasmutarsi anch’essa in qualcosa di naturale, con l’erba
che spuntava tra i sassi della massicciata. Ai due lati della valle le montagne si
alzavano quasi a perpendicolo, pareti altissime accastellate le une sopra le al-
tre, con rari alberi di castagno sulle rughe qua e là, e in alto in alto qualche
abete, diritto e nero contro il cielo.
Durante i turni di guardia Pino, seduto nella trincea col suo fazzoletto az-
zurro al collo, staccava ogni tanto gli occhi dal libro di patologia chirurgica
consegnatogli dal capitano Beltrami («Guarda quel disgraziato in che modo fa
la guardia!» aveva un paio di volte inutilmente imprecato Tide) e fantasticava:
chissà se a Nomana si rendevano conto che lui era qui, partecipe di questa
grande avventura? Certo in questo momento non potevano immaginare che
stesse ‘vegliando in armi’ sul confine di questo lembo dell’Italia liberata. “Ve-
gliando in armi”: si ripeteva la frase, udita in qualche discorso, “vegliando in
armi”, e se ne beava. Tanto può in certi momenti la poesia, anche retorica, an-
che in spiriti impoetici com’era il suo.
Ogni pochi giorni Marco, oppure Alberto l’organizzatore, nominato ulti-
mamente suo vice comandante, venivano a dare un’occhiata alla linea difensi-
va. Dietro la quale, ad alcuni chilometri, ne stavano facendo approntare una
seconda, e più indietro ancora una terza.
Furono stabiliti dei turni di riposo per i reparti; la compagnia di Tide - Pino
e Sèp ovviamente compresi - poté così tornare a Domodossola.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Qui l’entusiasmo dei primi giorni non era ancora venuto meno. Pino stavol-
ta si risolse a visitare il collegio dei suoi fratelli, tanto più dopo avere appreso
che uno degli insegnanti di scienze faceva parte, quale commissario
all’istruzione, della giunta di governo. Non poté parlare col commissario, ma
con altri del collegio sì, tra cui un prefetto - un chierico di poco più anziano di
lui, dalla faccia foruncolosa - ch’era stato compagno di classe di Fortunato.
«Tuo fratello» affermò costui dopo i primi convenevoli «non c’è dubbio che
diventerà un vero industriale. Il Fortunato Riva! È dotato d’un senso degli af-
fari quale io non ho mai visto l’uguale.»
«È vero. Però che affari poteva combinare mentr’era qui in collegio?»
«Qui non ne poteva combinare, si capisce. Ma io parlo della sua forma
mentis, mi spiego? Vuoi che ti dica una cosa? Quando sento parlare
d’industriali milanesi, io non penso, che so, ai Pirelli o ai Donegani: no, mi
viene in mente tuo fratello Fortunato.»
«Sì» lo approvò con modestia Pino. Poi spiegò meglio: «Voglio dire che dei
lati di nostro padre, lui ha ripreso soprattutto l’abilità negli affari.»
«Il Manno Riva invece non era così» continuò, sempre un po’ apodittico, il
prefetto: «E, da come parli, neanche tu, ho idea.»
«Oh, io no di sicuro» disse Pino. Stavolta però non disse: io sono un pove-
retto; non lo diceva più da quando il capitano Beltrami, consegnandogli il ma-
nuale di patologia chirurgica aveva dichiarato: «Dopo che avrai fatto il tuo
dovere non sarai più un poveretto, tienilo a mente.» Anche in questo momen-
to si ricordò di Beltrami: “Come mi ha aiutato, povero capitano, che bene mi
ha fatto” pensò con tacita gratitudine.
Col giovane prefetto Pino s’intrattenne a chiacchierare a lungo. In seguito
ritornò a trovarlo, e uscì anche a passeggio con lui per le vie di Domodossola.
«Chi ti vede con me» osservò il chierico alludendo al proprio abito talare
«penserà che hanno ragione a chiamarvi ‘opera pia’.»
«Opera pia? Ah sì, ho sentito.»
«Gli altri partigiani vi chiamano così per invidia, perché voi col fazzoletto
azzurro siete i più in gamba, e siete stati i veri liberatori dell’Ossola. Anche la
gente però adesso comincia a chiamarvi così: perché non vi vergognate
d’essere cristiani, io credo.»
«Cristiani noi? Magari! Sapessi cos’è successo a... (pensava a Piedimulera.)
Beh, lasciamo andare.» Pino cambiò discorso: «Piuttosto dimmi, appunto, la
gente: cosa pensa adesso la gente in generale? Ho sentito che è costretta a
stringere la cinghia più che sotto il fascio.»
«Sì. Ma non si lamentano. Sperano tutti negli aiuti della Svizzera, e infatti
qualcosa è già arrivato, patate soprattutto. Comunque meglio la fame ma libe-
ri: praticamente tutti quelli che conosco io la pensano così: tutti ti dico. Il
guaio se mai sono quei commissari di governo che...»
«Ecco. Dì. Cos’è che succede di preciso? Tu dovresti essere informato, con
quel vostro professore che fa parte del governo.»
«Oh, se fosse per lui...» Il chierico tentennò la testa: «Quello non critica mai
gli altri della giunta; non è da lui che si viene a sapere. Anche lui però noi lo
vediamo con la faccia tirata, quando gli altri esagerano.»
«Quali altri? Tutti gli altri?»
«No, non tutti, sei matto? Staremmo freschi allora. Insomma succede que-
sto: che mentre alcuni dei commissari si danno da fare per risolvere i proble-
mi, quello alimentare prima di tutto, e poi quello dei trasporti: sai che stanno
ripristinando la linea del Sempione per poter ricevere gli aiuti dalla Svizzera;
stanno anche costruendo quella pista d’atterraggio per gli aerei americani...»
S’interruppe: «Chissà poi se gli aerei americani scenderanno davvero.»
«Speriamolo. Se no, t’accorgi che gas.»
«Beh, insomma» continuò il prefetto «alcuni commissari lavorano sodo,
senza risparmiarsi. Ma altri... Vedi, in genere sono quelli arrivati dopo, che
hanno preso il posto di alcuni già insediati. Adesso vogliono fare quello che
non gli spetta, promulgano leggi strane, ma soprattutto litigano tra loro come
Caini, e in pratica finiscono col far diventare matti quelli che lavorano. Non
sono di qui, vengono tutti da fuori, e sembrerebbero anche persone importan-
ti, io non so... Insomma che persone siano io di preciso non arrivo a capirlo.»
Erano in realtà degli intellettuali utopisti - non tutti con l’incarico di com-
missario, per la verità - i quali reputavano di possedere la chiave per la solu-
zione d’ogni problema nazionale, anzi umano; erano piombati nell’Ossola (e
ancora ne seguitavano ad arrivare, come mosche attirate dal miele) sia dalla
Svizzera, dove s’erano rifugiati all’armistizio, che da Milano e da Torino attra-
verso le montagne. Alcuni di loro, con l’appoggio dei compagni di fede politica
presenti nella giunta, erano riusciti a scalzare qualche modesto commissario
già insediato, e adesso si adoperavano tutti insieme - commissari e no - per
scalzarne altri: intanto, in interminabili riunioni tra loro, specie all’hôtel Ter-
minus, discutevano il rinnovamento della cultura e della natura umana, e pre-
tendevano di emanare decreti che lo favorissero. I commissari che lavoravano
sul serio avevano dapprima guardato a questi utopisti quasi con spasso, ma
ora se ne preoccupavano perché la confusione stava facendosi molesta.
«Non c’è il tempo per fare le elezioni, ecco il punto. Te lo dico io: quando
potremo fare elezioni regolari» affermò con ottimismo il giovane prefetto «si
vedrà che questa gente non ha alcun seguito. Sarà quello il modo per toglierla
di mezzo.»
«Sì. Può darsi. Che strano però» commentò Pino: «in conclusione da una
parte c’è chi lavora sodo, e dall’altra... Beh, secondo me dovremmo tutti cerca-
re di dare una mano a quelli che lavorano; insomma bisognerebbe, nei limiti
delle nostre possibilità, lavorare anche noi. Io per esempio... sai che ogni tanto
ci penso? Che ne dici se mi presentassi all’ospedale? Se mi offro di lavorare
gratis nelle ore libere, vuoi che non mi prendano?»
«Se non ti fai pagare, sta sicuro che ti prendono» gli disse l’altro. Rifletté un
po’: «Certo che... In fin dei conti, all’ospedale, è un lavoro che potrei fare
anch’io; specie ora che stanno trasformando in ospedale un’ala del collegio.
Fare il partigiano, col pericolo d’uccidere qualcuno, no; ma lavorare
all’ospedale... Sai che non mi sembra una cattiva idea?»
«Allora cosa facciamo?» chiese Pino: «Potrei parlare oggi stesso col mio
comandante.»
Tide però non gli diede il permesso. «Stiamo per tornare in linea, lascia
perdere. Tanto non avresti neanche il tempo di cominciare.» Così il chierico
dalla faccia foruncolosa finì col presentarsi da solo all’ospedale, venne accetta-
to, e non ebbe più il tempo per andare a zonzo con Pino.
Incontrò l’amico per caso qualche giorno più tardi, che attraversava la città
con la sua compagnia incolonnata, diretta a Ornavasso. L’autocarro di Pino
s’era fermato a un incrocio, e il chierico accorse festoso: «Mi hanno accettato,
dico all’ospedale» annunciò. «Ho già cominciato a lavorare. Hai avuta un’idea
magnifica.»
«Bene» gli gridò Pino dal cassone, e approvò cordiale: «Sono contento.»
«Sai cosa ti dico?» gridò l’altro: «Si vede che sei fratello di Fortunato; sei un
realizzatore anche tu. Eh, questi industriali milanesi!»
Pino, a causa del motore salito a un tratto di giri, non aveva capite le ultime
parole: «Cos’hai detto?» gridò sporgendosi.
«Ho detto: questi industriali milanesi!» urlò il chierico salutandolo festo-
samente con la mano mentre l’autocarro - molto malconcio, con una coperta
stesa davanti a rimpiazzare in qualche modo il parabrezza mancante - si allon-
tanava col promettente industriale milanese, il suo amico Sèp, il sottotenente
Tide e gli altri partigiani a bordo.

CAPITOLO VENTITREESIMO

Ricominciarono i giorni d’attesa allo sbocco della valle, sulla trincea costrui-
ta dalla compagnia. I viveri, e ogni tanto un po’ di materiale bellico, arrivava-
no per camion da Domodossola; arrivò anche un numero del giornaletto della
divisione, il ‘Valtoce’ (poco più d’un volantino, però a stampa) il cui editoriale
stavolta prendeva in considerazione l’appellativo di ‘opera pia’ con cui le for-
mazioni di Marco venivano designate. ‘Se quei signori con opera pia intendo-
no alludere alla dirittura morale del nostro Comando, oppure all’assidua
protezione e all’interessamento che sempre abbiamo spiegato verso la popo-
lazione civile, allora noi rispondiamo che siamo fieri di essere dell’opera pia.’
I partigiani della squadra, riuniti per il rancio, commentarono la cosa tra
divertiti e seccati. «Adesso lo scrivono anche a stampa che siamo dell’ ‘opera
pia’»
«Fossero capaci gli altri di far cantare la mitraglia come noi.»
«Sono i comunisti che hanno cominciato a chiamarci così, però avete visto:
hanno chiesto uno dei nostri cappellani e lo tengono da conto. I comunisti che
tutte le domeniche sentono la messa come noi... Non è da ridere?»
«Certo che è da ridere.»
«Se non altro significa che gli abbiamo insegnato qualcosa.» Pino approva-
va compiaciuto. Non così Sèp, cui il nomignolo - Pino si accorse - dava un gran
fastidio: «Dai, non storcere il naso per così poco» gli disse.
«Dovremmo dargli dei buoni pugni in faccia a chi ci chiama così» fece Sèp
con rabbia, «allora vedresti che smetterebbero.» Il fazzoletto azzurro, intorno
al suo collo, s’era raggricciato come i fazzoletti intorno al collo dei contadini di
Nomana.
«Quando tornerai a casa nessuno saprà che qui ci chiamavano ‘opera pia’»
gli disse Pino. Ma l’altro seguitava a mostrarsi scontento.

***
Ben più gravi problemi però incombevano. Molti sintomi facevano ritenere
imminente l’attacco nemico. Per due volte un aereo ricognitore tedesco sorvo-
lò lentamente le tre linee difensive imbastite allo sbocco della valle; segnala-
zioni scritte o verbali (portate in genere da donne o ragazzi-staffetta) circa un
crescente ammassamento di truppe, giungevano ormai di continuo dalla fini-
tima zona occupata; i comandanti Marco e Superti schierarono perciò sulla
prima delle tre linee difensive le loro forze in grado di combattere. Le quali, al
momento conclusivo, si rivelarono inspiegabilmente scarse: appena duecento
uomini coi fazzoletti azzurri a destra del fiume Toce e altrettanti coi fazzoletti
verdi a sinistra. Gli altri partigiani, di vario colore e impostazione ideologica -
raggruppati in tre formazioni - proteggevano la sponda del lago, in particolare
la seconda stretta via di penetrazione nell’Ossola attraverso la val Cannobina.
Sulla quale in posizione arretrata Marco, che scarsa fiducia aveva in questi
alleati, sistemò di riserva un altro centinaio dei suoi azzurri. Come ‘massa di
manovra’ gli rimaneva soltanto la sua compagnia comando, che trattenne
presso di sé a Domodossola: non erano nemmeno cento uomini, però i miglio-
ri di cui disponesse.
All’alba dell’11 ottobre i fascisti, appoggiati da alcuni reparti tedeschi, ven-
nero avanti: era trascorso un mese dalla loro fuga; attaccarono contempora-
neamente in val Toce e in val Cannobina.

***
Un improvviso fuoco di mortai avvertì Pino e gli altri che il ballo comincia-
va: i partigiani, rannicchiati nella prima trincea e nei suoi rari fortini, rispose-
ro col fuoco dei loro mitragliatori. Anche il nemico prese a sparare con le sue
armi automatiche: strano, lì davanti non dava l’impressione d’essere numero-
so, forse un pattuglione. Ci furono, dall’una e dall’altra parte, alcune lunghe
raffiche di mitragliatrice, che sono come la voce della morte. Inginocchiato
nella trincea Pino sparava col suo moschetto assolutamente a casaccio nel
verde, bruciando un colpo dopo l’altro; al suo fianco Sèp sparava con accani-
mento anche maggiore. «Piantatela» gridò loro un partigiano più anziano:
«volete consumare tutte le munizioni per niente?»
Pino e Sèp, mortificati, smisero di sparare. Anche gli altri azzurri modera-
rono poco alla volta il fuoco. Peccato non fosse qui il sottotenente Tide! Alle
prime luci, non sospettando l’imminenza dell’attacco, aveva approfittato d’un
autocarro che tornava a Domodossola, per andare a ritirare del materiale. Lui
assente, dopo un certo tempo di sparatoria non intensa alcuni partigiani - i
più arditi - decisero d’uscire dalla trincea e d’avvicinarsi al nemico al fine, così
dissero, di poterlo vedere. Col risultato che gli altri, per non colpirli, cessarono
quasi del tutto il fuoco.
Il fuoco avversario sembrava invece aumentare, sempre tuttavia senza farsi
molto nutrito; poi nell’aria - fatto del tutto nuovo - si aprirono con dure esplo-
sioni alcune nuvolette di fumo rossastro. «Gli 88 tedeschi!» «È l’artiglieria
tedesca che spara ‘a tempo’.» Alcuni degli ultimi arrivati, impressionatissimi,
si buttarono nel fondo della trincea, e quando i colpi nemici esplodevano
nell’aria sulla verticale della trincea stessa si schiacciavano contro la terra e
cercavano di sprofondarvi. «Cosa fate? i sommergibilisti?» gridò uno dei vec-
chi.
«Buona questa» commentò un altro: «i sommergibilisti.»
La battuta piacque, venne ripetuta, ma i sommergibilisti non si diedero per
intesi; a un tratto anzi uno, due, tre di loro balzarono fuori dalla trincea e si
portarono di corsa più indietro; diversi altri li imitarono, di star lì fermi nella
trincea in mezzo a quella baraonda non se la sentivano, le idee cominciavano
già a confondergli. Quel movimento all’indietro era arbitrario e contro ogni
regola, precisamente come lo era stato quello in avanti. Presi da rabbia per
tanto disordine e codardia, alcuni dei più combattivi uscirono allora fuori e si
portarono con ostentazione avanti; i rimasti nella trincea si sentirono inutili, e
uno dopo l’altro cominciarono a uscirne, per andare avanti, chi indietro. “Tan-
to” pensavano questi ultimi, procedendo con armi e bagagli sulle spalle, “ci
sono altre due linee da cui fare resistenza”.
Arrivati nel paese di Ornavasso (porte e finestre sbarrate, i civili tutti serrati
nelle case dai tetti di pietra) costoro s’imbatterono nel sottotenente Tide che
arrivava di corsa e li aggredì come una belva: «Disgraziati, bestie, perché vi
ritirate? Chi ha dato l’ordine? E sareste dei combattenti voi?» Si fermarono
spaventati.
«Forza, dietro front, e tutti di nuovo in trincea con me.»
Si voltarono tutti, e tornarono mortificati in linea. Dove, di lì a poco, giunse
uno di quelli che erano invece andati avanti: «Al casello ferroviario ci sono i
fascisti» annunciò trafelato, «noi prima li abbiamo snidati con le bombe a
mano, ma poi loro sono tornati più numerosi e hanno ripreso il casello. Ci oc-
corrono rinforzi.»
«Te li do io i rinforzi» urlò in risposta Tide «a calci nel sedere te li do. Chi vi
ha ordinato d’uscire dalla trincea? Come facciamo a sparare da qui, se voi vi
trovate là davanti?»
Il partigiano - un ragazzo vispo e coraggioso - atteggiò la faccia a contrizio-
ne. «Forza» gli gridò Tide «torna dagli altri e digli di rientrare tutti in trincea,
subito. Subito, hai capito? Tutti. È un ordine.»
Quello eseguì; gli spavaldi tornarono indietro, sacramentando contro la pu-
sillanimità dei comandi (i quali qui si riducevano in pratica al tenente Tide); la
linea si ricostituì.
In questo settore; ma non in quelli laterali, e cioè più a destra, al piede della
montagna, e anche verso sinistra in riva al fiume, dove si erano verificati ana-
loghi disordini. Più a sinistra ancora, al di là del fiume, si sentivano le mitra-
gliatrici e i mitragliatori dei verdi di Superti sparare raffiche su raffiche: chissà
cosa stava succedendo là, collegamenti non ce n’erano.
Davanti a un simile confuso ripiegamento delle ali, il responsabile dello
schieramento azzurro nella zona del Toce, un capitano, ordinò dapprima che
nessuno si ritirasse oltre Ornavasso, e fece per ammonimento aprire da alcune
sue squadre fidate il fuoco in direzione di quelli che non si fermavano
all’altezza del paese: per il che tutti gli sbandati si arrestarono e disposero a
terra, costituendo di fatto una sorta di linea allo scoperto, nei prati ai due lati
del paese. Conscio tuttavia che al minimo urto questa linea si sarebbe sfascia-
ta, il capitano dopo avere attentamente ponderata la situazione, senza consul-
tarsi con Tide né con gli altri ufficiali subalterni, diede ordine ai reparti che gli
uomini fossero lasciati liberi di agganciare come meglio credevano il nemico.
«È l’unico modo in cui i partigiani sanno combattere: è inutile tentare, con
uomini così, di sostenere una battaglia campale. Meglio una lotta disorganica,
a colpi di mano e a scaramucce, che nessuna lotta.»
La sua decisione si rivelò realistica: grazie a una serie di minute iniziative
individuali si svilupparono qua e là molti piccoli combattimenti isolati, che
finirono in pratica col dar luogo a una battaglia d’arresto, almeno provvisorio.

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Al comando azzurro di Domodossola le notizie del fronte del Toce - che


Marco riceveva da staffette motocicliste in spola pressoché continua tra fronte
e città - costituivano tuttavia la minore delle preoccupazioni. Era chiaro infatti
che lo sforzo principale il nemico lo stava effettuando in val Cannobina, dove
la linea di partigiani di vario colore era stata travolta appena attaccata. A qual-
che ora dall’inizio dell’offensiva i fascisti e i tedeschi, risalita parzialmente la
valle, erano entrati in contatto con la seconda linea, presidiata dagli uomini di
Marco, i quali soprattutto grazie al terreno molto favorevole li avevano per il
momento arrestati; era però chiaro che neppur questi avrebbero potuto tenere
a lungo.
I membri del governo venivano di continuo al comando per avere notizie e
apparivano preoccupati. I commissari utopisti più che preoccupati erano offe-
si e insofferenti, perché il loro bel gioco stava per finire: per cosa poi? per ra-
gioni volgarmente pratiche. Incredibile! Se la prendevano in cuor loro con
questi inetti che erano incapaci di fermare pochi battaglioni di nazifascisti: e sì
che loro, gli utopisti, avevano dimostrato tante volte - tra l’altro all’ hôtel Ter-
minus, con argomentazioni assolutamente inconfutabili - che i fascisti e i na-
zisti anche dal punto di vista militare non possono valere niente...
Interpellato dagli altri capi civili - da quelli seri - Marco non si oppose
all’organizzazione di convogli ferroviari per trasferire in Svizzera chiunque
temesse rappresaglie: avvertì però ripetutamente che i partigiani - i suoi al-
meno - avrebbero resistito, e che non sarebbero fuggiti sulle montagne. Intan-
to in città cominciava ad arrivare il brontolio deprimente del cannone, e la
gente si aggirava per le strade sgomenta.
Prima di sera quel brontolio si fece - dalla parte di est - sensibilmente più
forte; di là cominciarono a giungere anche dei profughi civili, e in un lampo si
diffuse la notizia: il nemico aveva risalita tutta quanta la val Cannobina e s’era
affacciato alla val Vigezzo: lo contrastavano ormai soltanto poche squadre di
partigiani azzurri. Nella stazione ferroviaria di Domodossola si formò un pri-
mo convoglio, con le stesse vetture che pochi giorni avanti avevano trasporta-
to in Svizzera centinaia di bambini affamati dell’Ossola. La gente accorreva da
ogni parte carica di valigie, pacchi, zaini, borse: erano migliaia di persone, tut-
ti quelli che avevano lavorato per i partigiani o si erano in un modo o nell’altro
compromessi. Anche chi non si era compromesso però, e intendeva rimanere,
appariva costernato, sinceramente addolorato per l’andamento delle cose.

Marco a tarda sera di quel primo giorno visitò il fronte del Toce, che ora
correva sulla seconda linea difensiva, e conferì con i comandanti. A chi gli di-
ceva che stava sbagliando, che commetteva lo stesso errore del capitano Bel-
trami, che i partigiani non erano adatti a combattere una battaglia campale,
espose con foga e con autorità insieme, le ragioni della sua scelta: dobbiamo
dimostrare che i depositari dello spirito e del coraggio non sono i fascisti ma
noi, se loro danno prova di saper combattere una guerra che è priva di speran-
za, tanto più siamo tenuti a saper combattere noi; tutti gli italiani ci guardano,
dobbiamo ridare loro la fiducia in sé stessi, indurli al risveglio; e dobbiamo
combattere anche per questa gente montanara dell’Ossola, la quale deve ren-
dersi conto che non ha riposta male la sua fiducia, che noi non siamo buratti-
ni, ma uomini su cui si può contare, come appunto essa ci considera. Chi
spenderà la sua vita qui, non l’avrà sprecata, ma spesa bene.
Così disse all’incirca, e gli altri comandanti partigiani - Tide compreso, Tide
nemico d’ogni retorica - si sentirono dopo le sue parole intimamente determi-
nati a resistere, a tentar l’impossibile. Sebbene giovane, Marco si dimostrava
un capo autentico.
Ripartì subito, avvertendo che nel corso della notte avrebbe raggiunta con
la compagnia comando la val Vigezzo, dove avrebbe ricostituita una linea di-
fensiva all’altezza di Finero. Gli uomini della compagnia comando - ricordò -
erano in buona parte alpini: per pochi che fossero, a nessuno, neanche ai te-
mibili marinai della Decima Mas, sarebbe stato facile, in montagna, sfondare
la loro linea. «Qui in pianura il nemico esercita uno sforzo minore. Almeno
fino a quando resisteremo noi, siete tenuti a resistere anche voi: questo è il
vostro compito, e questa è la mia consegna.»
Raggiunta Domodossola conferì per l’ultima volta in municipio coi commis-
sari della giunta di governo: quelli che avevano sempre lavorato, beninteso, e
che anche adesso si adoperavano attivamente affinché lo sgombero dei civili
compromessi si effettuasse in buon ordine. Tornò poi al suo comando dove,
insieme al cappellano e agli altri ufficiali che nel corso della notte sarebbero
partiti con lui, dormì un paio d’ore su coperte stese per terra.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Il giorno dopo i partigiani del Toce difesero la loro seconda linea nello stes-
so disordinato modo in cui avevano difesa la prima. Tide seguitava a mugu-
gnare: «La mancanza d’addestramento: ecco i risultati della mancanza
d’addestramento! Questa non è una battaglia, è un casino...» Comunque il
fronte tenne, grazie agli improvvisati e coraggiosi colpi di mano con cui veni-
vano fortunosamente rintuzzate le infiltrazioni nemiche. I fascisti però, là da-
vanti, andavano con evidenza facendosi sempre più fiduciosi di spuntarla, più
baldanzosi.
Anche in val Vigezzo la compagnia comando aveva ricostituito un fronte,
tanto che in Domodossola la giunta fece affiggere ai muri il seguente procla-
ma:
‘Giunta provvisoria di Governo
Cittadini,
non vi è ragione di allarme. Il principio di panico verificatosi ieri è sorto
da notizie inesatte. Le formazioni patriote combattono, resistono e tengono
su ogni punto. Siate calmi, riprendete il vostro lavoro, conservatevi fiduciosi
e sereni come sempre.
Domodossola 12 ottobre 1944’
Alberto, il vice comandante delle formazioni azzurre, che ora stava in per-
manenza nell’ufficio di Marco, era però preoccupato fino all’angoscia. Perché
aveva avuto notizia che Marco, spintosi in automobile fuori della nuova linea
per studiare uno spostamento, in avanti del fronte, non accennava a tornare;
invece avevano ripreso ad avanzare i nemici. A sera il comandante Marco non
era rientrato, e bisognava considerarlo disperso.

***
Il giorno successivo, terzo della battaglia, sul fronte del Toce si ripeterono
all’incirca le vicende dei due giorni precedenti: il nemico venne inesorabil-
mente avanti per un altro tratto, mentre ai partigiani cominciavano adesso a
scarseggiare le munizioni. Tutte e tre le linee difensive erano state abbandona-
te, la terza in gran fretta, sotto il fuoco d’un pattuglione di SS italiane che
l’aveva aggirata attraverso l’impervia montagna: le squadre inviategli contro
per fermarlo col solito sistema dei colpi di mano, si erano tutte disperse, e
quasi solo i comandanti erano ridiscesi nella valle.
A sera Alberto spedì in linea una colonna formata da non molti autocarri e
ordinò un ripiegamento per scaglioni di tutte le truppe del Toce, sia azzurre
che verdi, su Domodossola.
Dalla città partivano ora in continuazione convogli ferroviari per la Svizze-
ra: scaricavano i profughi nella prima stazione oltre la galleria del Sempione, e
tornavano indietro a caricarne altri. Adesso se ne andavano intere famiglie,
quelle i cui figli si erano aggiunti ai partigiani: le partenze si susseguivano in
buon ordine, dato che il comando di Alberto e la giunta di governo seguitava-
no a funzionare; quest’ultima anzi non aveva forse mai funzionato così bene,
perché gli utopisti - membri del governo e no - non la intralciavano più: erano
già tutti in Svizzera, a spiegare con malinconia, a chi aveva voglia d’ascoltarli,
come e perché si era perduto, e soprattutto cosa si sarebbe dovuto fare per
non perdere.

***
Pino e Sèp ripercorsero la strada di Domodossola sullo stesso autocarro
malconcio che li aveva a suo tempo portati in linea. Pioveva dal mattino, e la
coperta che rimpiazzava il parabrezza non evitava all’autista e al tenente Tide,
che sedevano in cabina, d’infradiciarsi allo stesso modo degli altri, pigiati nel
cassone scoperto Vedendo il proprio comandante in quello stato, Pino con una
certa improprietà pensava: “Guardalo, è ridotto come san Quintino alla batta-
glia di Rocroi!” e tentennava la testa. Sulla via nazionale l’autocolonna supe-
rava di continuo nuclei di profughi civili, uomini e donne, e alternati o mesco-
lati ad essi partigiani d’ogni colore, provenienti dalla riva del lago, tutti diretti
a piedi verso il capoluogo e la sua stazione ferroviaria. Gli autocarri partigiani
ne accolsero sui predellini e sui parafanghi quanti poterono starcene. “È un
miracolo se non saltano le balestre” rifletteva Pino; portava sempre la sua bor-
sa da medicazione a tracolla: l’aveva usata più volte nel corso della battaglia, e
cominciava ad avere una certa fiducia in sé stesso come infermiere. Al suo
fianco Sèp parlottava con tre partigiani rossi che s’erano infilati nel cassone
tra gli azzurri: si faceva spiegare i loro casi. «Loro sono stati più liberi di noi di
fare come gli pareva» riferiva ogni tanto a Pino: «gli ufficiali a loro non gli
rompono le scatole come fa Tide.»
«Già ma cos’hanno fatto in conclusione?» gli rispose infine seccato Pino:
«Lo sanno tutti chi è che ha veramente combattuto.» «È perché voi dell’ ‘ope-
ra pia’ siete molto più armati» ribatté punto sul vivo uno dei rossi: «più nu-
merosi e più armati. Non c’è confronto. A Domodossola avete perfino un treno
blindato.»
“Un treno, sì, ma le munizioni?” fu tentato di controbattere Pino; si limitò
tuttavia a sbuffare con compatimento: meglio non dargli corda, tanto a cosa
sarebbe servito?
«E poi loro avevano le mani più libere contro i fascisti e contro i traditori»
insisté Sèp. «Mica come noi che non possiamo mai toccare nessuno.»
«Beh Sèp, cerca di piantarla» fece Pino.
Mentre gli autocarri procedevano nel buio che raffittiva, alla luce dei loro
fari schermati s’intravedevano i tronchi fradici degli alberi ai lati della strada e
qualche spezzone di muro campestre battuto dalla pioggia. Precisamente co-
me quando Pino aveva percorsa questa stessa strada in febbraio, durante la
sua prima avventura partigiana, la notte in cui Beltrami e Antonio Di Dio ave-
vano inutilmente tentato di liberare l’avvocato Ferraris. Quante cose erano
cambiate da allora... Beltrami e Antonio erano morti, e dell’avvocato Ferraris
non s’era più saputo niente, anche il ‘caramba’ che s’era intruppato coi parti-
giani a Domo, e poi a Megolo aveva operato alla mitragliatrice, non era più
nelle formazioni, chissà dov’era finito. Vicende tutte quante ormai lontane, la
situazione a quel tempo era completamente diversa... Sì, ma cosa si sarebbe
fatto adesso? Il pensiero di Pino andava ogni tanto anche ai feriti da lui medi-
cati in quei giorni: sei o sette (morti e feriti ce n’erano stati pochi per fortuna,
e un’autoambulanza li aveva portati tutti man mano dal fronte all’ospedale di
Domo). Quale sarebbe stata la loro sorte? Avrebbe provveduto il comando —
se non l’aveva già fatto - a trasferirli in Svizzera? Sì, c’era d’aver fiducia in Al-
berto, nella sua capacità d’organizzare le cose. Se Marco era della stoffa di
Manno e del Michele Tintori, Alberto era piuttosto della stoffa dei suoi fratelli
Ambrogio e Fortunato, anzi era anche più abile di loro nell’organizzare. Am-
brogio, Fortunato, la casa... Chissà cosa pensavano di lui adesso là a Nomana,
chissà se erano al corrente di questo disastro.
Mentre rimuginava tali cose gli autocarri arrivarono alle prime case di Do-
modossola; fecero alt all’imbocco della strada del Sempione, davanti a un por-
tico.
Sotto il quale era in attesa un sottotenente del comando, che venne avanti
nella scarsa luce dei fari rigata da fili di pioggia; aveva in testa uno zucchetto
da sciatore, secondo lo stile che era stato del capitano Beltrami: «Ordine di
Alberto: aspettare tutti qui, coi reparti inquadrati. Presto arriveranno gli au-
tobus e i camion che stanno facendo la spola con... con la nuova destinazio-
ne.»
Scesi dagli autocarri - che immediatamente ripartirono per la zona del Toce
- i partigiani azzurri si raggrupparono sotto il portico; tutta l’altra gente arri-
vata con loro invece, civili e partigiani sbandati, s’incamminò verso la stazione
o il centro della città, sotto l’acqua.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Quelli degli azzurri che abitavano a Domodossola chiesero il permesso di


passare da casa per salutare i parenti e prendere un po’ di biancheria; dopo
qualche tergiversazione i comandanti concessero loro mezz’ora: «Diteglielo ai
vostri parenti» ammonì inaspettatamente Tide ad alta voce: «la guerra non è
finita, e quelli che adesso cantano vittoria, non vinceranno. Ditegli che riderà
bene soltanto chi riderà ultimo.»
Su questa frase l’ufficiale con lo zucchetto, che per fare un po’ di luce aveva,
dopo la partenza degli autocarri, accesa una torcia, la spense. «Non ho pile di
ricambio» spiegò. Così tutti si ritrovarono al buio e al freddo, fradici fino alle
ossa, a meditare a capo chino che brutta cosa fosse la guerra; questa guerra
che non voleva finire mai, mai.
“E sì che gli ‘alleati’ sono a Rimini” pensava Pino (erano cioè ormai sboccati
nella pianura padana): “Possibile che con le loro masse corazzate non siano in
grado d’irradiarsi una buona volta per la pianura? In Francia sono sbarcati
appena quattro mesi fa, in giugno, eppure la Francia l’hanno già occupata tut-
ta. Cosa aspettano a muoversi anche qui in Italia? E gli stessi tedeschi, alla fin
fine, con gli ‘alleati’ ormai sul Reno, e i russi al confine est della Germania,
perché continuano a farsi ammazzare senza costrutto? C’è una logica in tutto
questo?” I soliti pensieri di quei giorni, gli insistiti perché; la realtà intanto era
questa che lui e i suoi fradici compagni stavano vivendo: era la morte, e
l’incessante disagio, e la stanchezza, e il cuore pieno di sconforto.
Si voltò in cerca di Sèp per scambiare qualche parola, ma Sèp non stava ac-
canto a lui; lo chiamò due o tre volte inutilmente. Allora anche il comandante
Tide lo chiamò ad alta voce, ma nemmeno lui ottenne risposta. Si resero conto
che Sèp non si trovava sotto il portico. Dov’era andato? Con chi?
«Forse con Albino, o con Morandi, o con qualche altro di quelli che hanno
fatta una scappata a casa» prospettò uno. «Se è così tornerà subito.»
Pino però non era convinto: “I partigiani rossi... Vuoi vedere che è andato
con loro quel disgraziato, quella faccia di palta?”
In effetti Albino, e Morandi, e gli altri che s’erano recati a salutare i parenti
tornarono uno ad uno, mentre Sèp non si faceva vivo.
Arrivò da ovest l’attesa colonna d’automezzi per il secondo trasferimento;
comprendeva anche alcuni autobus, ma Pino e i suoi compagni di squadra do-
vettero ancora una volta prendere posto su un autocarro scoperto; la pioggia
che seguitava a cadere ricominciò a infradiciarli.
Per fortuna la colonna ripartì subito; costeggiò dapprima la ferrovia del
Sempione, sulla quale i partigiani videro passare un convoglio con molte fine-
stre non oscurate, stracarico di gente diretta in Svizzera. «Quanti saranno, alla
fine, gli ossolani che passano il confine?» domandò uno. (A questa domanda
nessuno era allora in grado di rispondere: sarebbero stati più di dodicimila.)
«L’importante è che anche in un momento così, Alberto e la giunta conti-
nuano a fare la loro parte» osservò un altro. Tale constatazione dava reale
conforto.
Di lì a poco, a un bivio, gli automezzi presero per nord: chi conosceva i luo-
ghi si rese allora conto che loro meta sarebbe stata la val Formazza, cioè
l’angolo più settentrionale del grande triangolo dell’Ossola.
A Crodo, una quindicina di chilometri da Domodossola, la colonna venne
fermata da un ufficiale del comando che agitava orizzontalmente una torcia
elettrica in mezzo alla strada, davanti a un grande ristorante. «Scendere!» gri-
dò costui con voce quasi esultante: «Scendere tutti, si mangia.» Fu davvero
una grossa sorpresa: il ristorante era stato requisito dall’intendenza partigia-
na, la quale aveva provveduto a cucinarvi un rancio. Nessuno voleva credere a
ciò che vedeva. «Bisogna riconoscere che, quanto a organizzazione, il coman-
dante Alberto è addirittura un padreterno» mormorò Tide.
Il rancio - ai tavolini del ristorante con tanto di tovaglie e di stoviglie civili
(che intimidivano un po’ i più poveri, i quali al ristorante non c’erano mai stati
in vita loro) - fu abbondante, e abbastanza abbondante anche la distribuzione
di vino. Quando risalirono in macchina gli uomini erano tutti lievemente eb-
bri. Uno, un giovane operaio di Busto Arsizio, sedette accanto a Pino al posto
ch’era stato di Sèp. «E allora?» gli chiese ad alta voce in dialetto: «Sei giù di
corda perché il tuo amico ha smammato, eh?»
Pino tentennò la testa piatta, coi capelli riuniti a spuntoni: «Secondo me è
andato con quei tre dal fazzoletto rosso. Li hai visti?»
«Quei ladri di polli? Certo che li ho visti. E allora?» fece l’altro quasi gri-
dando: «Vuol dire che è un ladro di polli anche lui. E allora?» Poi scoppiò
sbuffando a ridere, e dopo aver aperta un paio di volte la bocca come per pro-
va, attaccò a cantare:
‘Me regordi di temp indree,
quand che ’ndavi a spazza i pulee,
spazzà i pulee, robà i gainn,
per la mamm grandaaa...’
«Per chi?» chiese Pino, che non aveva capito le ultime due parole.
«Per la mamm granda, per la nonna» esclamò quello, e riattaccò a cantare.
Nessuno tuttavia - nonostante il vino bevuto - aveva voglia di far coro, sotto
la pioggia che insisteva a cadere.
L’operaio finì con l’interrompersi: «Perché non canti anche tu?» chiese a
Pino: «Sei così ‘smorfiato’?»
«Macché ‘smorfiato’, è per il vino» rispose questi. «Non ci sono abituato,
e...» Effettivamente gli girava un po’ la testa e cominciava a provare un senso
di nausea.
«Sentite questo» gridò l’altro: «Sentitelo: gli fa male il vino. Ma se il vino è
una medicina? È vero o no, patrioti, che il vino è una gran medicina?»
«Eh!» convenne uno.
«Dai, piantala» disse invece un altro.
«No» fece l’operaio ebbro «non la pianto perché è la verità, il vino è una
medicina.» Tornò a importunare Pino: «Dillo tu, che sei un mezzo dottore.»
Pino non rispose.
«Allora? È così, o non è così?»
«Lasciami in pace» disse Pino.
«In pace? Cosa vuoi ‘paciare’? Eh, cosa vuoi ‘paciare’?» e giocando sul dop-
pio significato del termine: «Non hai già ‘paciato’ abbastanza in del ristoran-
te?»
Dopo la qual uscita batté compiaciuto una gran manata sul ginocchio di Pi-
no, e scoppiò in una risata, implicitamente invitandolo a fare altrettanto.
Finalmente, sotto l’azione della pioggia che non cessava di cadere e
d’entrargli nel collo, anch’egli finì con l’azzittire e con l’ingobbirsi al modo de-
gli altri.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Il ballo non era ancora terminato. L’indomani i partigiani azzurri presero


posizione a sbarramento della valle molto erta al cui imbocco erano stati tra-
sferiti, la Formazza appunto, dalle pareti che salivano frastagliate e coperte di
boschi verso il cielo. Loro compito era di resistere il tempo necessario allo
sgombero della giunta di governo e dei feriti portati qui da Domodossola,
nonché di numerosi civili fuggiaschi.
I fascisti (ch’erano entrati nel capoluogo poco prima dell’alba mentre il co-
mandante Alberto ne sgusciava con gli ultimi suoi) arrivarono quasi subito, e
attaccarono, costringendo lo schieramento a indietreggiare; se lo ritrovarono
però nuovamente di fronte appena più su, e poi ancora più su.
L’ultimo scontro ebbe luogo di lì a qualche giorno, nell’alta valle, dove i par-
tigiani s’erano piazzati sopra un pendio scosceso, lungo la strada che a
quest’altezza s’incassava di continuo in trincee di roccia; tutt’intorno il terreno
era già innevato.
La posizione si prestava bene alla difesa, ma gli attaccanti - si trattava di pa-
racadutisti della Folgore, soldati non meno temibili degli stessi tedeschi - non
sembravano darsene pensiero. Vennero avanti alla loro maniera scanzonata,
quasi senza defilarsi; pensavano che battere ancora una volta le reclute parti-
giane non sarebbe stato per loro difficile. In una cosa tuttavia sbagliavano:
non tutti i partigiani erano reclute; rimaneva tra essi un certo numero d’alpini,
gli ultimi. I quali, vedendo dalle postazioni i paracadutisti salire così spavaldi,
avvertivano un acuto senso d’affronto al loro antico spirito di corpo. Si scam-
biarono qualche occhiata, confabularono brevemente, quindi uno di loro rag-
giunse il comandante Alberto, cui espose in poche parole un piano, che il co-
mandante accettò. In conclusione dopo aver lasciata venire avanti
l’avanguardia nemica, le armi automatiche e i mortai partigiani aprirono im-
provvisamente il fuoco sul terreno alle sue spalle, così da impedirle di ritirarsi.
Dopo di che gli alpini uscirono dalle postazioni e utilizzando sapientemente
alcuni profondi solchi nella roccia, si portarono senza farsi scorgere a destra e
a sinistra dell’avanguardia; non descriveremo la loro azione nei particolari,
diremo solo che dopo un certo tempo essi risalirono alle postazioni spingen-
dosi davanti allo scoperto ben ventiquattro prigionieri, tra cui un’ausiliaria,
una bella ragazza bionda. Per non colpire i suoi il nemico aveva nel frattempo
sospeso il fuoco.
Pino si trovava nel luogo in cui il drappello rientrò nelle linee coi prigionie-
ri: la strada qui correva incassata nella roccia lasciandone verso valle una lun-
ga cresta alta pochi metri: all’interno di tale gola erano sistemati il comando
partigiano, due mortai e il posto di medicazione. I paracadutisti vennero alli-
neati dagli alpini - che portavano quasi tutti il cappello girato alla brava - con-
tro la parete interna del ciglione; adesso era evidente che temevano d’essere
fucilati, un alpino si mise a perquisirli. Fuori la sparatoria nemica era frattan-
to riesplosa con grande intensità.
Un paracadutista che mal si reggeva in piedi s’appoggiò con la schiena alla
parete di roccia, poi lentamente si lasciò scivolare a terra, il basco grigioverde
gli restò di traverso dietro la nuca, come un’aureola mal sistemata: i suoi ca-
merati guardavano ora lui, ora i partigiani, incerti se soccorrerlo. A tale vista
Pino si portò svelto con la sua borsa da medicazione accanto all’uomo,
s’inginocchiò, depose la borsa a terra, poi cominciò ad aprire con modi marca-
ta-mente professionali la giubba macchiata di sangue del ferito. Non l’avrebbe
confessato a nessuno, neanche a sé stesso: ma ciò che più gl’importava, in un
momento tanto tragico, era di far bella figura -la figura d’un medico in gamba
- agli occhi della ragazza prigioniera.
Alberto disse qualcosa a Tide che si fece avanti, e postosi di fronte ai para-
cadutisti domandò se avessero partecipato il giorno 12 (dell’uccisione di Mar-
co) ai combattimenti in val Cannobina. Gli rispose per tutti un graduato an-
ziano, dal viso incavato, virile: erano entrati nell’Ossola attraverso la val Can-
nobina, dichiarò, ma non avevano partecipato a quei combattimenti.
Scambiata un’occhiata con Alberto, Tide passò a fare alcune domande sulla
consistenza dei reparti fascisti presenti nella valle: il graduato gli rispose che
non si trattava di reparti fascisti ma italiani, quanto alla loro consistenza non
era nello stile dei paracadutisti - affermò - dare informazioni che potessero
nuocere ai loro camerati. Parlava senza sbruffare, ma con coraggio: dal modo
in cui s’esprimeva si capiva che, sebbene incolto, era un uomo in gamba.
Il suo atteggiamento diede sui nervi a uno studente partigiano addetto ai
mortai, il quale intervenne perciò con acredine: «Come osate definirvi italiani,
voi fascisti schifosi?» esplose: «Non siete altro che i servi dei tedeschi, ecco
cosa siete. Il popolo è tutto contro di voi, lo sapete benissimo, tant’è vero che
per mantenervi al potere siete costretti a fucilare e massacrare e deportare.»
«Noi non siamo servi dei tedeschi» gli rispose il paracadutista: «e io, e di-
versi altri qui» indicò i suoi «non siamo neanche fascisti. L’Italia è entrata in
guerra al fianco della Germania: noi continuiamo semplicemente a combatte-
re al suo fianco anche adesso che la guerra è perduta.»
«Ah, lo sapete anche voi d’avere perduta la guerra» gridò con astiosità lo
studente, senza curarsi di Tide il quale gli faceva segno di smetterla.
«Certo» rispose il paracadutista, «non siamo mica ciechi.» Fece una pausa:
«Ma questa non ci sembra una ragione buona per passare al servizio dei vinci-
tori, per collaborare con loro.»
«Noi non siamo al servizio di nessuno» urlò lo studente. «Siamo gli unici
italiani veramente liberi, noi, e siamo qui a combattere per la libertà d’Italia.»
«Piantala» gli disse il sottotenente Tide. Finì tuttavia col subentrargli:
«Quello che lui ha detto è tanto vero» fece osservare al paracadutista, ritenen-
do con ciò di chiudere la disputa «che anche la maggior parte di voi, proprio di
voi della Folgore, all’armistizio ha scelto di rimanere col re, e adesso quei pa-
racadutisti sono in linea contro i tedeschi e contro di voi. Lo sapete benissi-
mo.»
«Sì» rispose l’altro «lo sappiamo. Ho partecipato anch’io, in Sardegna, alle
discussioni nei giorni dopo l’armistizio. Purtroppo loro hanno scelto di rispet-
tare il giuramento al re, anche se il re non rispettava i suoi giuramenti.»
Tide non ritenne opportuno ribattere oltre.
«Allora l’onore non è tutto dalla vostra parte» intervenne però di nuovo lo
studente: «Il rispetto del giuramento è il primo dovere del soldato, altrimenti
il soldato diventa un bandito. Questo io lo so, anche se non ho combattuto a El
Alamein, come magari hai fatto tu.»
«Non magari» osservò a questo punto quietamente l’ausiliaria bionda: «Lui
ha combattuto a El Alamein.»
«Cosa c’entra?» interloquì allora un altro partigiano. «Perché noi non ab-
biamo combattuto? Uno, lui, era a Nicolaievca per esempio. Ma sentite quella
lì!»
«Basta» tagliò corto Tide: «questi son tutti discorsi inutili.» Si rivolse di
nuovo al graduato paracadutista; tutt’intorno la sparatoria tra italiani e italia-
ni proseguiva furibonda: «Tu rifiuti di dare informazioni sulle forze che ab-
biamo di fronte, è tutto.» Annuì. «Vi avverto che la vostra sorte dipenderà da
quella dei nostri uomini presi da voi: se i nostri verranno fucilati, verrete fuci-
lati anche voi.» Guardò nuovamente Alberto, che alzò le spalle. «Bene, non c’è
altro da dire.»
Gli si avvicinò l’alpino che aveva effettuato la perquisizione dei prigionieri;
gli mostrò due bombe a mano e un anello d’oro: «Ecco cosa gli ho trovato ad-
dosso» disse.
Tide prese l’anello: «A chi l’hai tolto questo?»
L’alpino indicò l’ausiliaria: «A lei.»
L’ufficiale si avvicinò alla ragazza: «Riprendete il vostro anello» disse por-
gendoglielo.
«Tenetelo per mio ricordo» rispose la ragazza. «Voi finirete col fucilarci,
anche se adesso fate finta di curare i nostri feriti: ogni volta che lo vedrete,
questo anello vi ricorderà la mia fucilazione.»
«Riprendete il vostro anello.»
«Tenetelo per mio ricordo.»
Tide cacciò l’anello in una tasca della giubba della ragazza. «Noi non siamo
come voi» esclamò: «noi non...» stava per dire non fuciliamo le donne, ma si
ricordò improvvisamente di quell’altra ausiliaria, uccisa con un colpo nella
testa a Piedimulera. “Mio Dio, povera Italia! A che punto siamo ridotti tutti
quanti, a che punto! ” pensò.
La ragazza lo guardava esaltata, con aria di sfida.
«Si può sapere perché sei venuta qui a fare la guerra, a rischiare a vanvera
la pelle?» non seppe trattenersi dal chiederle l’ufficiale. «Chi te l’ha fatto fa-
re?»
«È nobile combattere per una causa perduta» rispose la ragazza, «ecco per-
ché sono qui.»
“Fino a questo punto sei invasata...” pensò Tide. Però era talmente giovane,
e talmente bella, con quel viso senza pecca, incorniciato dai capelli biondi!
«Se invece di venire qui, tu fossi rimasta a casa a far la calza...» mormorò
l’ufficiale.
Poi si tirò indietro, l’interrogatorio era finito.
Ma erano quasi finite anche le’ munizioni dei mortai, e stavano per finire
quelle delle mitragliatrici; non si sarebbe potuta tenere nemmeno questa li-
nea.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

L’esile strada che portava al passo San Giacomo e alla Svizzera era coperta
di neve e seminterrotta da slavine; gli ultimi feriti partigiani e fascisti dovette-
ro essere espatriati su slitte. Le poche armi pesanti erano state sepolte; diversi
partigiani, tra cui il sottotenente Tide, si erano nottetempo messi in marcia
per tornare indietro con un lungo giro attraverso le montagne, nella zona delle
prime azioni, sopra Megolo, così che rimanesse nell’Ossola almeno un nucleo
di partigiani azzurri intorno al quale ricostituire le future formazioni.
Pino e gli altri camminavano verso il confine in fila per uno. Malgrado i
duemila e passa metri d’altitudine l’aria non era cruda, c’era un gran silenzio,
le pareti della valle s’erano fatte d’altezza modesta. Pino non pensava più alla
bella ragazza, pensava al comandante Marco che era morto, la notizia era cer-
ta, l’aveva portata Alberto quando aveva raggiunto i suoi: era morto dissan-
guato (“anche lui come Beltrami!”) nella terra di nessuno. Il giorno preceden-
te, domenica, molti partigiani lasciate per mezz’ora le postazioni a lato d’un
paesino, s’erano inquadrati davanti alla chiesa per sentire la messa; l’avevano
fatto di propria iniziativa, non sollecitati da alcuno, perché ricordavano
l’importanza che Marco dava alla messa: era stato un modo d’onorarne la
memoria. Che differenza però confronto alla messa solenne d’un mese prima a
Domodossola, nel culmine del successo!
Pino sospirò: chissà dopo la guerra quanto sarebbe stato utile all’Italia un
uomo come Marco... Invece era morto!
Gli tornava in mente ogni tanto anche il suo amico Sèp, che aveva disertato.
Chissà dov’era adesso, e che fesserie avrebbe combinato quell’imbecille. E se
fosse finito in mano ai fascisti? Se, in conclusione, ci avesse rimesse le penne?
Con che faccia lui, Pino, avrebbe risposto alle domande angosciate dei genitori
di Sèp una volta tornato a casa? “Non me lo perdonerebbero per tutta la vita
d’averlo portato via da Nomana. Senza di me, infatti, lui non avrebbe mai la-
sciato il paese.”
Trasse un nuovo sospiro e fece segno di no, di no, con la testa piatta. Sèp
non avrebbe dovuto disertare come aveva fatto. «Non avrebbe dovuto» mor-
morò Pino.
«Con chi ce l’hai?» gli chiese il partigiano che scarpinava alle sue spalle:
«Chi è che non avrebbe dovuto?»
«Niente, stavo riflettendo tra me» disse Pino a mezza voce, senza spiegare.
L’altro lasciò perdere.
Appena più indietro camminava però il giovane operaio di Busto Arsizio, in
quel momento eccitato dalla prospettiva d’andare all’estero (durante una sosta
aveva tolto dallo zaino un fazzoletto azzurro nuovo e se l’era messo al collo in
luogo di quello vecchio e bisunto: «Per entrare in Svizzera un po’ meno da
barbone» aveva spiegato): «Te lo dico io» proclamò ad alta voce «a cosa pensa
Pino: pensa ancora al suo amico Sèp, che se n’è andato con quei ladri di polli.
È vero o no, Pino? Dì la verità.»
«Piantala» fece Pino.
«Sì, piantala» disse anche l’altro partigiano.
L’operaio invece si mise a cantare:
‘Me regordi di temp indree,
quand che ’ndavi a spazzà i pulee,
spazzà i pulee, robà i gainn,
per la mamm grandaaa...’
Tre o quattro nella fila ridacchiarono; anche Pino tentennò la testa sorri-
dendo.
«Non preoccuparti» gli disse l’operaio: «il tuo amico tornerà al paese con
un mestiere nuovo, vedrai: il mestiere del ladro di polli.» Celiò ancora per un
poco, infine s’acquietò.
La lenta marcia proseguì nel silenzio: era un giorno di tristezza, quello, la
fine dell’epopea dell’Ossola, che pur con tutti i suoi limiti sarebbe rimasta la
più celebre delle imprese partigiane in Italia.
Non diciamo la più importante: per utilità oggettiva l’avrebbe infatti di gran
lunga superata quell’altra lotta - assai meno conosciuta ancor oggi - in cui i
partigiani alpini ‘verdi’ delle brigate Osoppo erano da tempo sanguinosamente
impegnati nel goriziano contro tre distinti nemici: i nazisti, gli iugoslavi di Ti-
to e, ogni tanto, i locali partigiani comunisti italiani, militarmente dipendenti
dai titini. Alla fine della guerra la linea irregolare tenuta dai ‘verdi’ delle briga-
te Osoppo avrebbe costituito il confine est d’Italia.

PARTE SESTA

CAPITOLO PRIMO
Il giorno dell’espatrio di Pino fu a Milano per il Praga di gran ‘lavoro’: la
guerra civile si era infatti incrementata anche nelle città. Dove però essa man-
cava della componente romantica che in qualche modo aveva in montagna:
nelle città si riduceva a un’atroce successione di assassini e contro-assassini.
Da una parte agguati a fascisti e tedeschi, o a loro collaboratori, o presunti tali,
che venivano spesso freddati a bruciapelo nelle strade; a queste uccisioni si
rispondeva, soprattutto da parte tedesca, con fucilazioni non meno spietate di
prigionieri ed ostaggi. Appunto a ciò miravano gli autori degli agguati, i quali
volevano che i fucilatori diventassero sempre più odiosi alla popolazione. Le
torture da parte delle ‘polizie speciali’ - che i fascisti più responsabili, bisogna
pur dirlo, e il ministero della giustizia di Salò in particolare, non avrebbero
voluto - s’inserivano in tale scellerato contesto, e venivano messe avanti dai
partigiani a ulteriore giustificazione del proprio modo d’agire.
La sezione del Praga era tuttora acquartierata nel silenzioso edificio al cen-
tro della città, e conservava la sua autonomia dopo un’inconcludente trattativa
per entrare a far parte della famigerata polizia speciale di Koch. Quest’ultima -
pure poco numerosa - era approdata a Milano dopo l’abbandono di Roma, e
s’era insediata in una villa di via Paolo Uccello, nel quartiere allora periferico
di San Siro. Le trattative per la fusione dei due reparti non si erano potute
concludere a causa d’una improvvisa levata di testa del cardinale di Milano il
quale, al diffondersi delle voci di torture, s’era messo a tempestare di proteste
l’autorità: le definiva nelle sue lettere ‘orrori tali da degradare tutto il nostro
secolo’, e minacciava di lanciare scomuniche dal pulpito. Finché - incredibil-
mente per il Praga - a metà settembre, su ordine del prefetto di Milano la poli-
zia ordinaria aveva circondato la ‘villa triste’ di via Paolo Uccello, e arrestati
Koch e i componenti la sua banda, cinquantatre persone in tutto. La forma-
zione insediata al centro invece, come meno importante e pressoché scono-
sciuta, non era stata toccata.
Durante le trattative per la fusione, il Praga aveva avuto modo di visitare le
segrete di Koch e di assistere alle torture che vi si praticavano (celebri quelle
di quattro inquirenti picchiatori, denominati ‘i quattro santi’), rimanendo sor-
preso per la loro grossolanità e scarsa professionalità. A ‘villa triste’ si picchia-
va, sì, si spezzavano le ossa, certo, e a non pochi prigionieri ciò bastava per
confessare: ma quelle orge di botte sferrate da uomini drogati, non di rado
urlanti, eccitatissimi alla vista del sangue, non erano sembrate al Praga tortu-
re vere e proprie. Che differenza rispetto ai metodi della Gestapo tedesca! Che
abisso!
Sulla base delle ormai notevoli esperienze acquisite, egli usava adesso, in
contrasto con altri aguzzini, affermare - e ne aveva discusso accademicamente
anche con uno dei ‘quattro santi’ - che nessun prigioniero può resistere oltre
un certo limite a una tortura ben condotta: il problema stava tutto nel saper
dosare la tortura. «Se alcuni, perché cantino, non occorre neppure toccarli in
quanto gli basta vedere i ferri, altri invece resistono in modo incredibile ai
trattamenti: in questo siamo d’accordo. Però resistono fino alla morte, soltan-
to se voi siete così stupidi da dargliela la morte. Ecco il punto: dovete sapervi
fermare a tempo, e poi ricominciare al momento giusto (voglio dire non trop-
po presto né troppo tardi), fermandovi di nuovo a tempo quante volte occorre.
Vi accorgerete» sosteneva con competenza il Praga «che uno può resistere an-
che a lungo, ma a un tratto non ce la fa più. Questo» egli concludeva «è certo,
come è certo che un uomo è fatto di carne.» (In fondo la sua non era una
grande scoperta: anche i soldati che abbiano affrontata la morte un numero
sufficiente di volte, finiscono col farla: a un certo punto anche i più forti spiri-
tualmente non riescono ad affrontarla una volta ancora, non ce la fanno più.)
Come che sia quella scoperta, in certo qual modo teorizzata, aveva contribuito
alla fama del Praga all’interno della sua sezione: la quale fama, anche se di-
scussa (qualcuno affermava ch’egli parlava così soltanto per poter continuare
a torturare i suoi prigionieri anche quando non ce nera più bisogno), pure fa-
ceva sì che adesso con sempre maggior frequenza gli venissero affidati dei casi
difficili. Bisogna anche dire che il suo impegno personale non era col passar
del tempo diminuito: al contrario, dopo i giorni di forzata stasi - una vera sof-
ferenza per lui - succeduti alla chiusura della ‘villa triste’, egli aveva poco alla
volta prolungato spontaneamente il proprio orario di lavoro, al punto che
adesso riusciva a malapena a portarne il peso. Ciononostante se gli fosse stato
possibile l’avrebbe ancora prolungato, perché la guerra purtroppo era agli
sgoccioli, e presto gli sarebbe stato precluso l’indicibile piacere di disfare poco
alla volta un nemico (ossia un uomo: in quanto ormai tutti gli uomini erano
nemici per lui, giusto come per l’entità diversa da lui, che s’annidava nel suo
intimo).
Quel giorno in cui s’era conclusa la battaglia per l’Ossola, il Praga aveva ‘la-
vorato’ senza sosta a casi comuni. Quando nel tardo pomeriggio - letteralmen-
te esausto - era stato sul punto di staccare, gli avevano senza preannuncio por-
tato un prigioniero che davvero comune non era: un partigiano comunista so-
spetto torturatore, che chissà quanti fascisti, o presunti tali, e chissà con che
efferatezza, aveva ‘fatto cantare’. Si trattava d’un tipo con la fronte alta, secca,
e le tempie tirate, da cui - come le guardie avvertirono - in due giorni di carce-
re non si era potuto, con gli interrogatori normali, ricavare assolutamente nul-
la.
Malgrado la stanchezza il Praga se l’era studiato, e ne aveva ricevuto
un’impressione straordinaria: un caino come questo nei luoghi di tortura par-
tigiana doveva contare almeno quanto i ‘quattro santi’ messi insieme. Anche
l’altro aveva subito afferrato che il nuovo esaminatore non era uno qualsiasi, e
sebbene impedito, s’era sforzato di studiarlo a sua volta: si erano fiutati a vi-
cenda, al pari di due cani prima d’azzannarsi (usiamo il paragone anche se
improprio, perché mai i cani, o le iene, o le altre bestie feroci farebbero le ne-
fandezze che gli uomini fanno). Al termine dell’esame il Praga aveva deciso di
riservargli l’intera notte.
Adesso si rilassava al buffet in attesa della cena, un po’ trasognato. Quel
prigioniero ai comunisti doveva premere molto. Che successo riuscire a farlo
parlare! E che colpo per i rossi... “Perché loro, i rossi, non sono castroni come i
nostri gerarchi, non chiedono diplomi o lauree per portare avanti uno: se uno
ci sa fare, lo promuovono a qualsiasi incarico.” Questo doveva essere senza
dubbio molto ben piazzato.
Il corridoio dov’era sistemato il buffet - nel sotterraneo della ‘sezione spe-
ciale’ - era un ambiente squallido, arredato con mobili scompagnati: le sedie
erano per la maggior parte d’ufficio, il banco, pieno di graffi, proveniva da un
esercizio bombardato, c’erano alcuni tavolini da marciapiede vivacemente di-
pinti, nonché poche altre attrezzature, tra cui una macchina per il caffè
espresso, frutto d’un sequestro arbitrario; in un angolo stavano quattro pol-
tronacce larghe e sdruscite accanto a un apparecchio radio che trasmetteva
musica in sordina. In una delle poltrone appunto s’era sistemato il Praga, nel-
le altre avevano via via preso posto due suoi colleghi pure sottufficiali, al pari
di lui in abito borghese, e un terzo in divisa. Fumavano tutt’e quattro quasi
senza parlare, facendo ogni tanto cadere la cenere in uno spaesato contenitore
con la scritta ‘Grand Hôtel et de Milan’ sistemato per terra in mezzo a loro.
«Ancora non la pianta di pisciare musica» disse a un tratto, indicando col
mento la radio, uno dei quattro, piccolo, non più giovane, biondiccio, faccia
smorta, mani singolarmente smorte.
«Perché?» gli chiese il figuro che sedeva alla sua destra, un orso con dita
corte, grosse, pelose, faccia oscurata da punte di barba e un orecchio privo del
lobo: «Hai ancora la fissa del giornale radio straordinario?»
«Eh no?» rispose lo Smorto: «Coi risultati complessivi là dell’Ossola: le ar-
mi catturate, il numero dei prigionieri, e che so; è da ieri che io me l’aspetto
un giornale radio straordinario. Sarebbero dei fessi a non farlo.»
«Cosa credi? Che quei prigionieri li porteranno poi qui a te?» chiese sarca-
stico Orecchio Tagliato, e ridacchiando sinistramente sbirciò il Praga, come in
attesa della sua approvazione.
Il Praga però non disse niente.
«Eh, lo credo bene che non li porteranno qui» esclamò, senza avere mini-
mamente capito il senso della battuta, il quarto del gruppetto, quello in divisa,
ch’era un individuo d’aspetto comune, coi capelli brillantinati e un forte ac-
cento meridionale. «Ci mancherebbe! Con tutto il lavoro che già teniamo...»
Dei quattro questo meridionale era l’unico che non avesse un’aria trista: face-
va parte della ‘sezione speciale’ solo da qualche giorno, con semplici mansioni
di custodia. Abbozzò ridacchiando una strizzata d’occhio, aspettandosi il con-
senso generale.
Gli altri seguitarono invece a fumare in silenzio.
«Non ho detto bene, aiutante capo?» chiese allora incerto il meridionale, ri-
volgendosi al più alto in grado, ch’era il Praga.
Gli altri due sbirciarono di sottecchi il Praga, aspettandosi una sua uscita
pesante o bestemmia; ma l’aiutante capo Praga non batté ciglio, come nean-
che avesse udito.
«In conclusione vorresti anche tu ridimensionare il nostro lavoro, eh?» os-
servò allora ironico Orecchio Tagliato.
«Certo, come no?» rispose il meridionale. «Non vi pare che ne abbiamo an-
che troppi di detenuti qui dentro, voglio dire se rapportati al nostro numero?
Dove stavo io prima...»
«Lo sentite? Troppi detenuti...» ghignò Orecchio Tagliato. «Parla anche lui
come quel tale, quell’ispettore del ministero.»
Il Praga a queste parole lo fissò per un istante. “No, questa merda non in-
tende offendermi” si limitò a registrare, e scostò lo sguardo.
«Non capisco» mormorò il meridionale: «Di quale ministero stai parlan-
do?»
Orecchio Tagliato non avrebbe voluto sprecar fiato con questo fesso. «Mini-
stero degli interni» spiegò di malagrazia. «Una settimana fa è venuto qui da
noi uno sfintere d’ispettore che...» Nuovamente il Praga guardò Orecchio Ta-
gliato: questi allora ricordò di colpo quanto quell’ispezione fosse stata mortifi-
cante per il Praga, e cercò quasi con paura di cambiare discorso: «Beh, ma
queste sono tutte coglionate. Com’è però che tu ‘ferribòt’ non capisci? Se noi
dovessimo mettere questi figli di troia in mano alla polizia ordinaria, per loro
sarebbe troppo comodo, no?»
«Troppo comodo?»
«Uff, che testa di minchia» sbuffò Orecchio Tagliato.
«Ma...» protestò il meridionale.
L’altro, chiaramente, non avrebbe più voluto dargli corda. «Senti» disse al
solo scopo di liquidare l’argomento, «un piano in grado di risolvere la situa-
zione l’aveva proposto lui, l’aiutante capo Praga. Però siccome la nostra dire-
zione ragiona coi coglioni e non con la testa... È chiaro?» Concluse con un vol-
gare schiocco della bocca, in segno di sprezzo per la direzione che non aveva
compresa l’utilità di quel piano.
Si fece silenzio.
«Quello sì ch’era un piano» non seppe però impedirsi d’osservare di lì a po-
co l’altro, lo Smorto. «Ci pensate? Nel nostro piccolo avremmo finalmente po-
tuto operare anche noi al modo della Gestapo e dell’Enchevedé, e invece...»
Seguì un nuovo silenzio; per alcuni lunghi secondi non si udì che la musica
della radio, la solita musica sconclusionata, il riempitivo del nostro tempo:
assurdo che una musica simile facesse da accompagnamento anche alle atroci
cose che si succedevano in quei giorni.
Il piano del Praga, cui i due alludevano, era incentrato sulla proposta di tra-
sformare il corridoio più basso della ‘sezione speciale’ in locale per le elimina-
zioni. Quel corridoio (già ora dotato d’un grosso montacarichi che sembrava
fatto apposta per l’allontanamento dei cadaveri) si trovava tre piani sotto il
livello stradale: i colpi d’arma da fuoco sparati laggiù non si sarebbero potuti
sentire all’esterno.
«Scusa» tornò a un certo punto poco intelligentemente alla carica il meri-
dionale, nel tentativo d’uscire una buona volta da quei discorsi allusivi e con-
tinuamente troncati: «Come hai detto? L’Enche... Cosa?»
Lo Smorto lo considerò per un istante in silenzio. «L’En-che-ve-dé» sillabò
poi, come si fa coi bambini: «la polizia russa. Mm?»
«Ah.»
«Quest’estate due ex agenti russi, che adesso lavorano nella Gestapo, sono
stati a Milano» andò avanti lo Smorto. «E noi» indicò il Praga a precisare: io e
lui «abbiamo avuto modo di parlarci. Mm?»
«E che v’hanno detto?»
«Eh!» fece lo Smorto «sarebbe lunga. È solo perché ti renda conto che noi
dell’Enchevedé non parliamo a vanvera» specificò con losca albagia. «Uno dei
due, oltre tutto, aveva operato a Catin, mi spiego?»
«A dove?»
«A Catin.»
«E cos’è?»
«Neanche questo sai? È il posto dove i servizi di sicurezza russi hanno li-
quidato gli ufficiali polacchi prigionieri. Era sui giornali.» «Ah, sì, questo lo
ricordo: tutti con... un colpo alla nuca.»
«Ecco, bravo: lavoro in serie. È stato precisamente quel tale, quello con cui
abbiamo parlato noi due, a condurre i tedeschi sul posto; dopo, s’intende, che
l’avevano incorporato nella Gestapo.
L’altro cechista invece, più elevato in grado... Che grado aveva l’altro
nell’Enchevedé?» chiese lo Smorto al Praga.
Il quale neanche stavolta rispose.
«Prima della guerra quell’altro prestava servizio alla Butirca, che è la più
gutt - a sentir lui - delle prigioni di Mosca. Là in certi anni, nel 37 per esem-
pio, hanno fucilato in media mille persone al giorno. Mi spiego? Portavano
fuori dai sotterranei i morti a camionate, a volte i camion non ce la facevano a
portarli via tutti. E sì che non c’era la guerra allora...» Ciò dicendo lo Smorto
annuiva a sé stesso, come preso da una tale visione; infine tentennò la testa:
«La nostra direzione invece continua a respingere gente da ‘trattamento spe-
ciale’ soltanto perché ci manca lo spazio... E tu ‘ferribòt’» concluse passando
grossolanamente alla celia «vorresti quasi mandar via anche i pochi che ab-
biamo qui.»
«Io dicevo così solo per... per scherzo» farfugliò il meridionale. “Accidenti
però” pensava intanto, “accidenti, in che razza di posto son capitato! Che ci
fosse del marcio l’avevo capito, ma fino a questo punto! E per cosa poi mi son
fatto trasferire qui? Soltanto per quella miseria di stipendio in più!” Cominciò
a ripulire nervosamente, con gesto quasi di lavacro, una manica su cui gli era
caduta della cenere.
Lo Smorto notò il suo disagio e sorrise.
S’era fatto ancora una volta silenzio, non si udiva che la musichetta della
radio. Il Praga adesso non poteva più distogliere la mente dall’ispettore del
ministero. Il fatto è che questi discorsi da bestie gli avevano riaperta dentro la
ferita. Il comandante la sezione speciale, pur senza accogliere il suo piano, gli
aveva risposto con ogni riguardo, sapendo con chi aveva a che fare. L’ispettore
del ministero invece, cui il pro memoria col piano era capitato in mano per
caso, era addirittura uscito dai gangheri e aveva voluto parlare con lui, l’autore
del progetto. Subito alle sue prime parole d’argomentazione si era messo a
gridare: «Noi non siamo dei barbari, non siamo come loro» aveva affermato
con voce alterata (alludeva, il porco, non solo ai russi, ma anche ai camerati
tedeschi) : «La volete capire? Qui dentro gli arbitri devono cessare, e anche le
torture vanno contenute nel minimo indispensabile, solo il minimo e basta.
Perché la tortura non rientra nello stile fascista, è chiaro?» Più o meno così
aveva detto; l’aveva in sostanza chiamato barbaro, umiliato. Da tempo non
succedeva al Praga d’essere umiliato. Tanto più l’affronto gli bruciava... Sul
momento era stato per prenderlo alla gola: alla prospettiva però di dover poi
rinunciare per sempre a ciò che ora stava facendo, s’era dominato. Ne con-
venne di nuovo anche adesso: qualunque umiliazione, qualunque affronto,
qualunque cosa, ma non rinunciare a... questo. Poterlo però avere tra le mani
quel bastardo, disfarlo anche lui pezzetto per pezzetto. E non lui solo, ma an-
che il direttore della sezione che lasciava i progetti in giro, e... tutti. Sì, poterle
disfare tutte quante, a mazzi, a caterve, queste sporche bestie che appena pos-
sono ti offendono: la gente. Tutta quanta senza eccezione.
La conversazione degli altri (il meridionale adesso avrebbe voluto togliersi
dal gruppo, ma non osava) procedeva sempre più lasca, con lunghi ristagni. Il
Praga si rese a un certo punto conto che i suoi interlocutori gli stavano facen-
do una domanda; egli però li ascoltava solo in superficie, quel tanto che gli
bastava per guardarsi, al caso, da loro.
Finalmente cessarono anch’essi di parlare, “di vomitare merda” come rea-
lizzò il Praga; si limitavano a fumare una sigaretta dopo l’altra. Ogni tanto
l’aiutante capo guardava le mani esangui dello Smorto: allora, per strana asso-
ciazione, gli tornavano in mente le parole dell’ex cechista, quei camion che
uscivano dalla Butirca carichi di morti, che quasi non ce la facevano a portar
via i cadaveri: quel lavoro in grande, alla moderna. Ecco, i bolscevichi erano
gente seria, precisamente come i nazisti. Non erano dei buffoni come noi fa-
scisti, che consentiamo a qualsiasi cane di funzionario d’insolentire i nostri
servizi di sicurezza; noi che sospendiamo il lavoro per riguardo ai cardinali
che... (espressione irriferibile) i loro rimproveri dal pulpito. Quelli ai loro car-
dinali gli avevano infilato del buon piombo nel cranio. Ecco, erano gente seria;
per questo adesso stavano vincendo la guerra.
Giunse l’ora di cena senza che la radio trasmettesse alcun giornale straordi-
nario.

CAPITOLO SECONDO

Dopo la cena il Praga entrò nel locale in cui, legato strettamente su una se-
dia metallica, il ‘suo’ nuovo prigioniero lo attendeva.
La luce di un riflettore investiva spietatamente il viso dell’uomo, che strin-
geva il più possibile gli occhi, anche se ciò a poco gli serviva; una guardia
camminava avanti e indietro nel piccolo locale, tenendosi fuori del fascio di
luce cruda. Il Praga le fece col mento un cenno di congedo. «Non s’è quasi
mosso» riferì la guardia, ed eseguito un saluto sommario sgombrò volontieri.
L’aguzzino prese uno scranno, lo sistemò di fronte alla vittima e, teso pro-
fessionalmente un braccio, ruotò alquanto il riflettore, così da scostare dal suo
viso il fascio di luce. Il prigioniero aprì verso di lui gli occhi momentaneamen-
te ciechi.
«Sei nelle mie mani» gli disse l’aguzzino. «Non sei stupido, quindi sai che
non hai scampo. Tu non hai assolutamente scampo.»
L’altro cercò di scostare da lui lo sguardo degli occhi che non vedevano.
“Accecarlo col ferro” si disse il Praga: “Prima di ucciderlo ricordarsi di acce-
carlo”. Prima ancora però avrebbe dovuto farlo cantare, e questa non si pro-
spettava impresa facile. “Uno così potrebbe trovare il modo di farmi fesso, di
morirmi tra le mani senza parlare” rifletté con un’ombra d’angustia
l’aguzzino.. A tale prospettiva un gorgo d’odio per la vittima prese a formargli-
si dentro. “Attento, cerca di dominarti” s’impose.
Contemporaneamente l’altro, che malgrado la sofferenza agli occhi e al cer-
vello si rendeva conto di come le cose stessero mettendosi per lui (aveva effet-
tivamente torturate molte persone, e stavolta sarebbe toccato al suo corpo di
subire le cose nefande ch’egli aveva con sadismo inflitto ad altri corpi) lottava
fino allo spasimo per non farsi fuorviare dal panico.
Quand’era stato introdotto in questo locale egli ne aveva afferrato il caratte-
re per così dire di ‘privatezza’, e nello stato di tetra impotenza in cui versava
s’era infiltrato, malgrado tutto, un incerto, oscuro senso di possibilità: “Se
adesso avrò a che fare con uno solo, posso anche riuscire a corromperlo... sì,
forse...” Uscito il Praga - finché non era stato assorbito per intero dalla lotta
fisica contro la luce accesagli in viso - si era dato da fare per imbastire un pia-
no: “Devo puntare sul fatto che loro sanno d’essere alla fine. In cambio della
mia vita io gli posso offrire la sua e l’impunità (se non è un? bestia, è impossi-
bile che non pensi al dopo...) Ma riuscirò credibile? Ecco il punto. E non devo
trascurare i soldi, un mucchio di soldi: questi porci borghesi vogliono i soldi.
Una prima rata, e consistente, bisognerebbe fargliela avere subito, come ca-
parra... La cosa più importante è però quello scambio: la mia vita, contro la
sua vita e l’impunità.” Ma sempre più disturbato dalla luce, non era arrivato a
concretare un vero piano; doveva dunque farlo adesso,, e senza perdere tem-
po.
«Ti avverto una volta per tutte» gli disse lentamente il Praga: «appena ti
deciderai a parlare, la tortura cesserà. Non solo, ma ti toglieremo subito il do-
lore con la morfina. Se no...» Volle assicurarsi che quello avesse capito: «Hai
capito quello che ho detto?»
Per un istante l’altro non pensò al proprio piano: girò di nuovo su di lui gli
occhi semiciechi: «So che tu mi torturerai lo stesso, che non cesserai di tortu-
rarmi finché io avrò un filo di vita.» L’aguzzino si mise a ridere. «Capisco:
questo è quello che faresti tu» (avvertiva di non sbagliare); «ma io? Certo po-
trei fare anch’io la stessa cosa. Però» (e qui mentì, e godeva acutamente anche
di questo, di mentire, il bel gioco era ormai cominciato) «non lo farò. Ti giuro
che se parlerai cesseremo del tutto di torturarti, e ti ripeto e ti giuro che ti to-
glierò immediatamente il dolore con la morfina.» Fece una pausa, rise di nuo-
vo: «Tu non hai scelta, ti rendi conto? Se costretto a correre il rischio di cre-
dermi.»
L'altro non rispose; avvertiva che doveva concentrare tutto il proprio acume
nella ricerca d'una via d'uscita, senza più perdere un istante.
«Adesso a noi» proseguì l’aguzzino. «C’è rischio che una volta nei tormenti
tu non capisca più niente, e creda la morte vicina. Disilluditi: con uno come te
io doserò i trattamenti non per giorni, ma per settimane. Mi hai capito? Setti-
mane di trattamento. Hai afferrato bene? E ogni minuto sarà per te come
un’eternità. Ti disferò punto per punto, punto per punto.» Detto questo azzit-
tì, cercando con avidità le possibili reazioni d’angoscia dell’altro.
«C’è una cosa» gli oppose allora il prigioniero con voce alterata: «che tutto
questo i miei lo sapranno. Ci sono alcuni qui dentro - più di uno - che glielo
riferiranno. E per voi ormai la va a pochi: qualche mese al massimo, poi toc-
cherà a te.»
«Ah sì? Ma bene. Allora senti: io per prima cosa ti...»
Il lettore ci esimerà dal riferire la minuta elencazione, e quasi descrizione
dei nefandi tormenti cui il Praga intendeva sottoporre la sua vittima. Un filo di
saliva cominciava a colargli dalla bocca, il suo parlare si faceva a momenti da
lento incalzante: malgrado la stanchezza che l’opprimeva, gli tardava
d’iniziare il ‘trattamento’, riusciva sempre meno a sopportare l’indugio.
L’altro se ne rendeva conto essendo passato a suo tempo per stati d’animo
analoghi: doveva, dunque portare avanti al più presto il proprio tentativo:
“Perché sta già per essere troppo tardi”. Ma in che modo entrare in argomento
con reale efficacia, e senza sbagliare?
Lo indirizzò, lui pressoché inconscio, la presenza demoniaca che albergava
in lui allo stesso modo che nel Praga: lo fece esplodere anzitutto in una filza di
bestemmie straordinariamente triviali. Dopo le quali tacque, come estenuato.
«Cos’hai?» fece il Praga: «Non dirmi che cominci già a piagnucolare.»
«Chi, io?»
«Allora?»
«Non riesco proprio a capire come...» (e qui una sconcia bestemmia) «tu ti
trovi dalla parte sbagliata.»
«Va avanti.» (“La lingua: ricordarsi di trattargli la lingua col ferro.”)
«Secondo me il tuo posto non è con questi porci che sono ormai fottuti, ma
con noi» e lo guardò fisso in faccia; cominciava a vederci adesso.
«Mi deludi» sussurrò con occhi ridenti il Praga. «Non dirmi che cerchi di
convertirmi.»
“Ormai non posso fermarmi, devo continuare” s’impose il prigioniero, an-
che se i suoi sforzi cominciavano ad apparire a lui stesso vani, risibili; la pre-
senza ‘altra’ che era in lui però non gli consentiva d’interromperli, lo sospin-
geva: «Ti propongo uno scambio... I miei capi a me tengono molto. Di questo
ti rendi conto?»
«Sì» rispose convinto il Praga. Era proprio curioso di vedere dove, nel ten-
tativo di salvarsi, quello avrebbe parato.
«Se uno mi restituisse loro, qualunque cosa abbia fatto in precedenza... fos-
se anche il capo della polizia... sistemerebbe la sua posizione.»
«Cosa vuoi dire? Che mi darebbe dei soldi?»
«Se è questo che vuoi. Ma dipende da te.» Improvvisamente il prigioniero
ebbe un’illuminazione’: «Potrebbero darti invece un posto nella nostra poli-
zia... e se per caso hai da aggiustare i conti con qualcuno, saresti dalla parte
vincente stavolta.» Aggiunse, come parlando tra sé: «Qui non avete la più pal-
lida idea delle possibilità che abbiamo nella polizia comunista.»
“Chi ti dice che non ne ho l’idea?” pensò il Praga, cui erano subito tornati in
mente i discorsi dei due ex cechisti sul massacro di Catin e sulle fucilazioni
sistematiche che a Mosca si succedevano anche in tempo di pace. Anche in
tempo di pace! “Io ne so forse più di te.”
«Va avanti» si limitò a dire, sempre con l’aria di divertirsi, di non credergli.
«Prova per un momento a vedere le cose dalla nostra parte: se un partigia-
no di qualsiasi colore accoppa uno, non importa chi, tutta la gente lo ringrazia
e basta. E dopo, a guerra finita e vinta, ti ringrazieranno ancora di più tutti
quanti, anche i non comunisti, per quello che avrai fatto. Ti rendi conto?»
“Troppo tardi per me” pensò a questo punto con una sfumatura di reale
rammarico il Praga. Egli non si sentiva fascista: per lui il fascismo non era mai
stato altro che un mezzo (precisamente come, né più né meno, le nebulose
teorie comuniste per il suo prigioniero). Però aveva per troppi anni fatta vita
comune coi fascisti. Gli venne in mente il direttore della Banca Artigiana
d’Incastigo: quello un intero paese sapeva che lui l’aveva deportato in Germa-
nia.
«Non cerco d’ingannarti per salvarmi» continuò l’altro, che cominciava ad
avere un’incerta percezione d’entratura. «Noi non abbiamo bisogno
d’ingannarti: perché per noi uno come te sarebbe obiettivamente utile, ed è
solo questo che a noi importa.» Parlava con sincerità: molti dei suoi compagni
comunisti - egli lo sapeva -non avrebbero voluto nelle loro file un individuo
abietto come lui: ciononostante erano dalla dottrina costretti ad accettarlo e a
fargli anche molto spazio. Per la morale comunista infatti un delinquente non
è più un delinquente ma un eroe, se lavora (se delinque) per la rivoluzione.
Non doveva però portare il discorso troppo sull’astratto... «Senti, per dimo-
strarti che in questo momento non sto parlando a vanvera, voglio darti una
prova: dimmi dove vuoi che io faccia depositare una somma per te; non devi
fare altro che dirmelo e concedermi quarantotto ore di tempo. Fissa tu la ci-
fra.»
«Una prova? E voi» rispose - senza rendersi conto se parlasse per scherno
oppure no - il Praga «provvedereste nel giro di quarantotto ore?»
«Sì» disse l’altro sempre più attento, nonostante la testa gli dolesse da
spaccarsi. «Guarda» aggiunse «mi espongo del tutto: basterà che nel frattem-
po tu mi faccia sorvegliare nella stessa cella dalle stesse guardie che mi hanno
sorvegliato finora.»
Il Praga, lasciato il suo scranno, fece qualche passo avanti e indietro nel pic-
colo locale, sforzandosi di riflettere. «Come prova non voglio soldi» disse a un
tratto «ma un’altra cosa: che facciate fuori uno che dico io. E non in quaran-
totto ore, ma entro domani sera.»
«Uno dei nostri o dei vostri?»
«Dei miei, un fascista. Puoi?»
«Sì, credo di sì.»
«Non dovrebbe essere difficile. Si tratta d’un funzionario del ministero degli
interni» disse il Praga: «Vedi che mi sto esponendo anch’io? Ti riferirò certi
particolari delle sue abitudini, così non perderete tempo.» “Cominciamo col
far fuori quel bastardo” aveva deciso: “Questa può essere un’occasione unica.”
Non che, poi, fosse intenzionato a mettersi davvero coi partigiani. Non ci pen-
sava neppure. Per ora almeno.

Gli agenti di servizio non mostrarono meraviglia quando, poco più tardi, il
Praga ordinò loro di riportare il prigioniero intatto nella sua cella: «Perché
stasera sono proprio cotto»; e aggressivamente: «Va bene? Non vorrei comin-
ciare male un lavoro importante come questo.» Gli sorrisero e non si meravi-
gliarono, quella sera.
Si meravigliarono invece, e si spaventarono, e fecero un notevole chiasso la
notte successiva, quando constatarono che l’aiutante capo Praga era sparito
insieme con l’importante prigioniero.

II

CAPITOLO TERZO

A Nomana la notizia dello sconfinamento di Pino in Svizzera giunse alcune


settimane più tardi, in novembre.
A portarla alla famiglia non fu lo scriteriato portalettere Chin, ma l’ufficiale
postale signor Benfatti in persona. Costui (cremonese, pizzo grigio, cravatta
nera alla Lavallière, mezze maniche) era uno dei pochi ‘laici’ dichiarati del
paese, nonché - a onta del suo pubblico ufficio - socialista, o meglio socialde-
mocratico. Poiché era al corrente delle preoccupazioni dei famigliari circa la
sorte del ragazzo, notata tra la posta in arrivo un’ambigua cartolina dalla Sviz-
zera (diretta a Francesca e firmata ‘la tua amica Pina’, ma stilata con calligra-
fia maschile) egli se l’era messa in tasca e, lasciato in fretta l’ufficio postale,
era venuto alla villa. «Io non so, né voglio sapere» aveva dichiarato ilare, «ma
ho pensato bene di portare questa cartolina direttamente, senza farla passare
per le mani del nostro portalettere.»
L’aveva ricevuto Ambrogio, il quale si trovava a Nomana da mesi ormai:
trascorreva la sua non facile convalescenza per lo più seduto accanto al termo-
sifone dello studio, sforzandosi di preparare gli esami per l’università. La car-
tolina - scritta da Pino con l’abituale imprudenza - diceva: ‘Cara Francesca, dal
18 ottobre mi trovo qui in questo nuovo posto, e sto bene, non trovandomi più
nei pericoli’.
Dopo averla scorsa con un’occhiata: «Le siamo molto grati, signor Benfatti»
aveva detto Ambrogio, annuendo in modo significativo, e senza più parlare
della missiva aveva fatto accomodare l’ufficiale postale, gli aveva versato un
bicchierino di liquore e, dominando la propria impazienza, s’era intrattenuto
con lui sulla situazione generale nonché sulle difficoltà che incontrava la spe-
dizione dei pacchi ai prigionieri in Germania. Una volta uscito il Benfatti, Am-
brogio aveva salite a balzi le scale di casa e porgendo la cartolina alla madre,
che al piano superiore stava rifacendo i letti con Noemi: «Quel disgraziato di
Pino si trova sano e salvo in Svizzera» aveva detto: «Guarda, la sua calligrafia.
Ma se anche avesse scritto a macchina, dall’incoscienza si capirebbe ugual-
mente che è lui.»
«In Svizzera? Pino? Signore, che tu sia ringraziato!» aveva esclamato con
agitazione la madre, e mentre leggeva quelle poche righe non era riuscita a
trattenere le lacrime. «Bisogna avvertire subito il papà. Ambrogio, telefonagli
per favore.» Anche Noemi piangeva.
«È a Milano il papà» aveva ricordato Ambrogio, e dopo avere riferito il poco
che sapeva sulla situazione degli internati in Svizzera, era ridisceso al piano
terreno accanto al termosifone dello studio.
Fuori della finestra piovigginava, il tempo era invernale, tetro; gli elementi
del termosifone emanavano un calore ridotto, perché in mancanza di carbone
la caldaia veniva alimentata a legna. Quel po’ di calore bastava tuttavia a su-
scitare nel giovane un certo rimorso: gli ricordava che gli operai di suo padre
dovevano lavorare in ambienti non riscaldati; anche i suoi fratelli e sorelle del
resto, in collegio, non avevano alcun riscaldamento in questo che era ormai il
quinto inverno di guerra. Ma operai e studenti, non stava neppur lì la soffe-
renza maggiore: ben altro dovevano sopportare i soldati nelle trincee dei vari
fronti, e più ancora i milioni di deportati, d’impediti d’ogni genere, gli ebrei
per esempio. Gli ebrei! Chissà qual’era la sorte di quelli italiani, adesso che, a
differenza di prima, i fascisti erano costretti a lasciarli portar via dai nazisti.
Veniva la pelle d’oca solo a pensarci. E tutti gli altri prigionieri? In Russia, in
Germania, nei Balcani... Se pure in Russia e nei Balcani ce n’erano di prigio-
nieri. Stefano, Michele, tutti i soldati e i colleghi rimasti indietro nella ritira-
ta... E Manno? Povero Manno! Da alcuni ufficiali che per aver aderito alla re-
pubblica fascista erano stati rimpatriati dalla Germania, Ambrogio aveva con
certezza saputo che il cugino non era mai arrivato al reggimento in Grecia.
Chissà cosa gli era successo... Dopo le adesioni alla repubblica, di militari ita-
liani catturati all’armistizio ne rimanevano ora in Germania oltre seicentomi-
la, di Nomanesi sempre una settantina. Perché io invece - finiva col chiedersi
Ambrogio - sto neghittosamente qui, accanto al termosifone? Ah, poter essere
con l’esercito - quello legittimo beninteso, il poco che n’era rimasto - il quale
come radio Londra e radio Bari riferivano, si trovava adesso schierato con gli
‘alleati’ sulla linea gotica...
Radio Bari - ascoltata quasi ogni sera - parlava con frequenza dell’esercito.
Radio Roma invece no, quella dell’esercito italiano non parlava quasi mai.
Perché? Cosa accadeva realmente al di là del fronte che tagliava l’Italia setten-
trionale dalla centrale e dal sud? Capo del governo legittimo non era più il ma-
resciallo Badoglio, ma un politico sconosciuto, un certo Bonomi: un
brav’uomo a giudicare dai brani dei suoi discorsi, ma chiaramente non
un’aquila. Chissà sulla base di quali compromessi gli avevano affidata quella
carica... Perché però radio Roma era tanto restia a parlare dell’esercito? Parla-
va invece di continuo dei partigiani, e ancor più spesso dei nuovi partiti politi-
ci: dei loro incontri, scontri, litigi, beghe e accanite preclusioni reciproche,
presentandole come manifestazioni di democrazia. Forse - pensava Ambrogio
- democrazia erano, ma quanto deprimente attuata a quel modo.

***
Per le vacanze di Natale tornarono a casa i più giovani, e raccontarono del
freddo sopportato: erano costretti a studiare col cappotto addosso e una co-
perta intorno alle gambe, la quale coperta - spiegavano - se era utile alle gam-
be, poco giovava ai piedi.
Li aveva riportati a Nomana l’autista Celeste, con la Millecento che adesso
funzionava a gasogeno. Sulla linea ferroviaria infatti il pericolo dei mitraglia-
menti aerei s’era fatto continuo: l’aviazione alleata cessati i bombardamenti in
grande stile, stava ora perseguendo con tenacia obiettivi minori, tra cui la di-
struzione delle locomotive ferroviarie, e due delle quattro ‘littorine’ in eserci-
zio sulla linea di Nomana erano state messe fuori uso. Quasi in compenso ave-
va però ripreso a funzionare un discreto numero d’automobili civili: a gasoge-
no appunto, cioè a carbone di legna o addirittura a legna; diversi ingegnosi
artigiani - copiandosi l’un l’altro - costruivano gli apparecchi necessari (in ge-
nere di forma cilindrica, vagamente somiglianti a scaldabagni) che applicati
posteriormente alle vetture consentivano loro di viaggiare a modesta velocità.
Anche le forze armate della repubblica andavano applicandoli ad automobili e
autocarri, e perfino i tedeschi che - sebbene fossero molto inferiori per mezzi
bellici agli ‘alleati’ - sembravano tuttavia disporre ancora di benzina a suffi-
cienza.

Giusto durante le vacanze di Natale essi lanciarono nelle Ardenne, al confi-


ne tra Francia e Belgio, un’inattesa controffensiva con imponenti forze coraz-
zate, che sfondò e mise in crisi il fronte americano-anglo-francese. Questa ri-
presa, indubbiamente seria, riusciva inspiegabile ad Ambrogio e a suo padre, i
quali ne parlarono più d’una volta: «Come li avranno potuti mettere insieme
tutti quei carri armati?»
«E perché li usano all’ovest e non all’est, dove la situazione è per loro senza
confronto più preoccupante?»
«Forse vogliono impedire l’occupazione della Ruhr? Che vi abbiano davvero
in preparazione armi nuove, con cui rovesciare le sorti della guerra?»
Rimanevano perplessi.

CAPITOLO QUARTO

Il pranzo di Natale di quell’anno 1944 - cui parteciparono anche gli zii sfol-
lati - fu davvero modesto: riuscì festivo quasi soltanto a causa dei rametti
d’agrifoglio che Francesca e Alma avevamo colto in giardino e disposto sulla
tovaglia: «Chi ha messo qui questi impicci?» aveva chiesto Fortunato allonta-
nandone un paio dopo essersi seduto a tavola.
«È Natale, e bisogna ricordarlo» gli aveva spiegato Alma.
«Evviva» aveva gridato Giudittina, battendo solitaria le mani.
Quando tutti ebbero preso posto, la madre Giulia avviò l’abituale preghiera:
‘Benedici o Signore questo cibo,’ ‘e fa che serva a tua gloria, e a nostra salute
e salvezza’ risposero i figli, con la consueta sfumatura di cantilena.
Siccome era Natale Giulia volle fare un’aggiunta: ‘Fa o Signore che, come
noi, anche quei nostri due figli lontani, Manno e Pino, possano... in questo
santo giorno possano...’ Era stata sorridente fino a quel momento, ma in quel
momento scoppiò a piangere. «Oh, Manno, Manno mio!» esclamò alzandosi
in piedi e lasciando il locale.
Francesca scattò a sua volta in piedi, lei pure con le lacrime agli occhi; ma si
alzò anche Gerardo, e fatto segno a Francesca di rimettersi a sedere, seguì la
moglie; i due coniugi tornarono di lì a poco in sala, Giulia sforzandosi peno-
samente di sorridere.
Gli altri si diedero allora a parlare di Pino, che in Svizzera era al sicuro e
fuori d’ogni pericolo. «Con certezza al sicuro» sottolineavano i due figli mag-
giori, avendo cura di farsi sentire dalla madre: sul suo conto si poteva stare del
tutto tranquilli. E le zie di Monza ai ragazzi più giovani: «Ricordatevi, eh, guai
a voi se dite che Pino è in Svizzera, se lo fate sapere in giro. Guai a voi.» Di
Manno però nessuno se la sentiva di parlare, perché questo era già il secondo
Natale senza sue notizie. Anziché di lui Ambrogio parlò di Colomba, alla quale
qualche giorno prima aveva telefonato per gli auguri. «Ha detto che
quest’estate verrà a Nomana.» Gli altri lo sapevano già, ma s’interessarono
ugualmente della cosa, insistendovi finché la tensione un po’ alla volta si ri-
dusse e la conversazione stabilì.
Gli uomini finirono col portarla sull’incredibile capacità produttiva
dell’industria tedesca, della quale presero a occuparsi in modo quasi profes-
sionale: «Producono abbastanza da alimentare la guerra su tutti i fronti» ri-
cordò il padre: «tanto che se mai sono gli uomini che in conclusione gli man-
cano, non le armi o i materiali. Eppure la Germania è sotto i bombardamenti
aerei si può dire giorno e notte. Come fa a produrre ancora a quel modo?»
«Certo» osservò lo zio Ettore, con la sua aria un po’ artificiale a causa degli
occhiali a pince-nez: «non può essere soltanto questione di volontà, o di forza
di carattere. Ci dev’essere qualcosa di nuovo, nei metodi o non so, che a noi
sfugge.»
«Che abbiano messe le industrie in bunker, in caverna?» propose Fortuna-
to. «Ma no» si rispose subito egli stesso: «per quanto estesi, i bunker non pos-
sono coprire che una piccola parte delle fabbriche. I tedeschi non possono
aver risolto il problema dei bombardamenti blindando le industrie.»
«No di certo» convenne il padre, «e non credo nemmeno che sia questione
di un prolungamento d’orari, o di un maggior impiego di mano d’opera, per
esempio di prigionieri, o femminile: da anni le loro fabbriche lavorano sia di
giorno che di notte.»
«Come faranno allora?»
«Bisogna dire che qui a Milano» fece presente lo zio Ettore «tutto sembrava
distrutto, avete visto. Eppure nel giro di pochi mesi la vita è ripresa, e adesso
la città produce.»
«D’accordo» disse Ambrogio: «ma a Milano hanno distrutto soprattutto le
case, non le fabbriche: le zone industriali vere e proprie, come quella di Sesto,
non le hanno si può dire toccate. Proprio per questo la città s’è ripresa. In
Germania invece insieme con le case bombardano di continuo anche le indu-
strie.»
«Non solo» osservò Fortunato che, sebbene ventenne, era d’un realismo
stringente: «C’è da dire che se Milano dopo l’agosto dell’anno scorso fosse sta-
ta bombardata ancora altre volte a quel modo, adesso non produrrebbe di si-
curo.»
«E allora? Di fabbriche gliene distruggono ogni giorno, questo è fuori di-
scussione. Dobbiamo pensare che i tedeschi non solo le ricostruiscano in mo-
do sistematico, ma che con quelle in funzione abbiano trovato il modo di pro-
durre di più, molto di più degli altri? È possibile?»
Era possibile e s’era proprio verificato. Grazie al sistema dell’ ‘autorespon-
sabilità dell’industria’ introdotto dal ministro per gli armamenti Albert Speer,
insieme a un’estrema specializzazione delle produzioni: ciascuna fabbrica do-
veva limitarsi a produrre un’unica arma o meglio ancora parte di arma, però
in quantità il più possibile elevata; per superare di continuo la quale ogni in-
dustriale era lasciato libero di fare ciò che meglio credeva: non aveva problemi
di collocamento - ecco il punto essenziale - perché il ministero acquistava tut-
to il prodotto. Seguendo tali criteri la produzione bellica tedesca si era - nono-
stante le immense distruzioni - triplicata in tre anni, senza che la mano
d’opera in essa occupata avesse avuto, o quasi, bisogno d’essere aumentata.
Questo però lo si sarebbe appreso solo a guerra finita.
(Considerazioni molteplici si potrebbero fare sul sistema introdotto da Al-
bert Speer. Un razzista vi potrebbe scorgere una conferma della superiorità
germanica. Al contrario - poiché più tardi lo stesso Speer spiegò che il sistema
era stato ideato, anche se non potuto introdurre, da Walther Rathenau, l’ebreo
preposto all’economia bellica tedesca durante la prima guerra mondiale - un
filosemita vi potrebbe scorgere una conferma della superiorità
dell’intelligenza ebraica. A un livello decisamente più pratico i quattro indu-
striali lombardi riuniti a Nomana intorno al tavolo natalizio avrebbero potuto
trovarvi una conferma alla loro radicata convinzione: che se l’industriale capa-
ce non avesse intralci commerciali, potrebbe - coi soli mezzi di cui dispone, e
senza bisogno di altri - moltiplicare la propria produzione. Quanto a noi, se ci
si consente di dire la nostra, ci limiteremo a notare che grazie a tale sistema la
guerra poteva, nonostante le immense distruzioni che causava, seguitare ad
alimentarsi: poteva cioè continuare, e con la guerra potevano continuare le
sofferenze ad essa connesse; in altre parole la geniale trovata di Speer-
Rathenau si configura ai nostri occhi soprattutto come un impensato, effica-
cissimo strumento dell’autopunizione dell’uomo in quel periodo.)
Dalle inspiegabili capacità produttive tedesche il discorso si spostò ad ar-
gomenti più terra terra, come la spedizione dei pacchi di generi alimentari ai
soldati nomanesi prigionieri in Germania, che proseguiva pur tra feroci diffi-
coltà.
«A proposito: Pierello seguita a non scrivere?» chiese Ambrogio alle sorelle.
(Pierello era quel suo coscritto che aveva per abitudine di allargare le braccia e
alzare gli occhi al cielo: chissà se il lettore lo ricorda ancora. Rientrato in
Croazia dopo la licenza durante la quale aveva accompagnato in visita da Am-
brogio quella povera mamm Savina, era stato all’armistizio deportato dai te-
deschi, e adesso si trovava in una delle zone di maggior tragedia, nel settore
nord-orientale della Germania, vicino al vecchio confine con la Polonia.)
«Purtroppo non ha scritto ancora» rispose Francesca. «Anche stamattina
dopo la messa io e Alma abbiamo parlato con sua madre. È ormai da ottobre
che non riceve posta: è preoccupatissima, povera donna.»
«In quella famiglia» ricordò Almina «hanno già un disperso in Russia, un
cugino che abita al Casaretto: Tito, fratello di quel Giacomo che porta la croce
grande nelle processioni. L’avete presente?»
«Giacomo? Sì, certo» disse Gerardo.
«Comunque finora nessun pacco indirizzato a Pierello è tornato indietro,
vero?» chiese Ambrogio. «Questo potrebbe anche, chissà, essere un buon se-
gno. L’avete detto a sua madre, come si chiama quella povera donna, a Erme-
linda?»
«Sì» rispose Francesca «gliel’ho appunto detto. Però mi capisci, non è un
argomento che possa rassicurarla.»
«D’accordo.»
La figura della madre angosciata di Pierello si fissò nella mente
d’Ambrogio; ad essa finì con l’associarsi un’altra immagine ancora più dolen-
te, quella di Lucia, la madre di Stefano che - da due anni ormai - era inchioda-
ta alla stessa terribile croce.

CAPITOLO QUINTO

Terminato il pranzo, il giovane annunciò che avrebbe fatta ‘una scappata’


alla Nomanella. Dopo aver indossato - sotto gli occhi vigili di Giulia - il pa-
strano, la sciarpa e il berretto, uscì di casa e s’avviò.
Alla cascina trovò i due vecchi - Ferrante e Lucia - in angustie per un nuovo
guaio: si era improvvisamente ammalata la loro figlia Giustina, l’avevano ac-
compagnata all’ospedale di Nomana quel mattino stesso.
«Che Natale per voi questo di oggi!» commentò il giovane.
«È la passione per la lontananza di quei due, Stefano e Luca» asserì pian-
gendo la mamm Lusìa: «ecco cosa la fa ammalare.»
Stava in cucina, in piedi accanto alla stufa accesa. Gli altri, Ambrogio com-
preso, sedevano intorno al tavolo sulle sedie impagliate; anche i due bambini,
Pio e Isadora, sedevano composti sulle loro sedie.
«Giustina non ha motivo di preoccuparsi per Luca» le s’oppose Ferrante.
«L’hanno visto in bass’Italia, lo sai: dunque, anche se non scrive, è vivo e sta
bene.»
«Giusto» convenne Ambrogio, annuendo.
«Ma perché, se è vivo, non scrive ai suoi?» disse la donna: «Se tanti scrivo-
no perfino dall’America? Solo chi è morto non scrive.»
Ferrante la disapprovò tentennando la testa: queste cose Lucia proprio non
riusciva a intenderle.
«Ma ditemi di Giustina» fece Ambrogio: «Lo sapete cos’ha?»
«Non sta bene, non sta bene» affermò con struggimento la madre. «Da me-
si stava male, e non diceva niente neanche a me che sono sua madre. Tornava
a casa dal lavoro con la faccia bianca come uno straccio, io le chiedevo:
‘Cos’hai?’ ‘Niente mamma.’ Nelle ultime settimane non ce l’ha fatta più ed è
andata dal dottore della mutua: due volte c’è andata, ma quello non l’ha voluta
riconoscere malata, e l’ultima volta, la settimana scorsa, l’ha anche sgridata
come si sgrida un cane, povera figlia. Non ce la faceva più a stare in piedi per
tutta la giornata, capisci? Così ieri sera mentre trafficava a preparare le casta-
gne per tenerci un po’ allegri, ha avuto uno sbocco di sangue. E stamattina
mentre si alzava un altro sbocco.»
«Uno sbocco di sangue Giustina?»
La madre si coprì le guance con le mani, e fece segno di sì.
«Ma perché non ha mai detto niente? Se l’avesse detto in stabilimento che
non si sentiva bene... Ha fatto male a non dirlo. Diamine, non è una bambi-
na.»
«Tu lo sai com’è fatta Giustina» gli spiegò il padre. «Non è mai stata una
‘piaga’, al contrario, anche se pare così delicata. Siccome poi è l’unica che di
questi tempi porta a casa un mensile... tu capisci.»
«Ha fatto male. E l’avete accompagnata all’ospedale stamattina?»
«Sì, a Nomana, poco dopo alzata.»
«Che Natale questo per voi!» ripeté il giovane.
«Il dottor Cazzaniga dice che devono farle le prove, perché tutto quel san-
gue dalla bocca, tu capisci.»
«Sì. Povera Giustina!» mormorò Ambrogio.
La madre lo guardò spaventata, anche la piccola Isadora lo guardò con spa-
vento (già stava imparando cos’è la sofferenza.)
«No, io volevo dire» cercò di correggersi Ambrogio: «del sangue dalla boc-
ca... Finché non hanno fatte le analisi non si può giudicare.»
«Sì, proprio così ha detto il dottor Cazzaniga» sospirò la madre, seguitando
però a scrutarlo in volto.

***
Il giovane tornò a casa pieno di tristezza. Mentre camminava sulla carrarec-
cia gelata gli tornarono in mente i suoi pensieri fiduciosi di qualche anno pri-
ma, alla vigilia della guerra, quando gli sembrava che la morte non avesse
niente, ma proprio niente da spartire con lui e con quelli della sua età. Invece
quanti se n’erano già andati! E chissà se anche Stefano... Basta. Giustina piut-
tosto. Due sbocchi di sangue... Se si trattava - come probabilmente si trattava -
di tisi, la situazione era preoccupante. “E quel povero Luca...! Tagliato fuori da
casa, con la prospettiva in fondo a ogni pensiero di rivedere la sua ragazza, e
invece chissà se la ritroverà! ”
Da un prato chiazzato di neve si levò improvvisamente a pochi passi da lui
un bell’uccello invernale color ruggine, una viscarda, che dopo alcuni risoluti
colpi d’ala andò planando a posarsi più in là, sulla cima d’uno dei biancospini
che fiancheggiavano la carrareccia. Dalla cima spoglia l’uccello osservò - di-
menando il collo - il giovane venire avanti, poi spiccò nuovamente il volo: sta-
volta non si fermò, seguitò a volare verso tramonto fino a scomparire nella
foschia. Ambrogio fece alt sotto il biancospino: proprio in questo punto aveva
incontrata Giustina alla vigilia della guerra la sera che le aveva detto: «Hai
paura che ti mangi?» e lei arrossendo aveva risposto: «No. So che sei un ra-
gazzo pulito di fuori e di dentro.» “Per fortuna non sono superstizioso” si disse
riprendendo a camminare: “Se no chissà che significato darei a quell’uccello
che, giusto da qui, s’è allontanato fino a scomparire nel fosco.” Gli venne in
mente suo cugino Manno: “Ci fosse qui lui, forse un significato lo vedrebbe in
questa storia, convinto com’è che tutto, anche le cose, partecipano alla sorte
degli esseri umani...” Poi si rimproverò di lasciarsi suggestionare a questo
modo, e da cosa in fin dei conti? dal volo d’un uccello. “Come non fosse nor-
male incontrare viscarde d’inverno”.

CAPITOLO SESTO

L’indomani, festività di santo Stefano, Giulia e Francesca si recarono a visi-


tare Giustina in ospedale.
Era, l’ospedale di Nomana, una villa ottocentesca pervenuta per eredità ai
malati del comune, più volte modificata e ampliata, e interamente verniciata
all’interno con una vernice lavabile color giallo pallido. Dal mattino preceden-
te Giustina stava in uno dei locali delle donne, spaventatissima nel suo letto:
prima d’allora non aveva mai - nemmeno per una notte - dormito fuori di ca-
sa, e tutto in questo luogo le riusciva estraneo. Ma sopra ogni cosa le riusciva
estraneo il male sconosciuto che la minava dentro e le aveva fatto vomitare
tutto quel sangue. “Avrò i polmoni bucati?” s’era chiesta chissà quante volte:
“Cosa mi starà succedendo? Oh, poveretta me.” Nel pomeriggio di Natale don
Mario - che all’ospedale era come di casa - le aveva dato un po’ di conforto.
Aveva trascorso l’intero pomeriggio festivo intrattenendosi coi malati singo-
larmente o per gruppi, coi meno gravi soffermandosi a scherzare. Arrivato alla
sua corsia: «Tu? Cosa ci fai qui?» le aveva chiesto sorpreso. E venutole vicino,
dopo le spiegazioni di lei date tra le lacrime: «Non devi essere così preoccupa-
ta» le aveva detto con la sua voce convincente. Le aveva spiegato che dalla tisi
(sempre che di tisi si fosse trattato) si può guarire: «Non sai quante persone
sono passate per la tisi, e sono guarite! Chissà quante ne hai viste anche tu,
con quante hai parlato, e non te ne sei nemmeno accorta. Coraggio dunque,
non essere così preoccupata.»
Che conforto le sue parole buone, la sua benefica autorità! Ma partito lui,
mentre con tristezza calava la sera, lo spavento aveva un po’ alla volta ripreso
Giustina. Che ci aveva a che fare lei con tutte queste cose estranee che le sta-
vano intorno? Quelle due strane, rabberciate colonne che in mezzo alla sala
sostenevano il soffitto; i letti asettici, smaltati di bianco; perfino le altre de-
genti, quasi tutte anziane, alcune paghe - come la sua vicina di destra - che le
loro vecchie ossa là dentro fossero al riparo dal freddo; soprattutto sgradevole
le riusciva quella vernice giallina alle pareti, vagamente luccicante, applicata
apposta - lei lo capiva - per essere di continuo lavata e liberata dai germi che
forse tutti i malati emettono. Cercò di pregare, con la corona del rosario sotto
le lenzuola, ma le riusciva molto difficile: era talmente abituata a dire il rosa-
rio per i suoi due soldati - suo fratello e Luca - che le loro immagini, i loro vol-
ti, venivano più che mai a mescolarsi alla preghiera, ricordandole che nuovo
guaio, con la sua malattia, li avesse colpiti tutt’e due. Specie Luca che contava
certo di ritrovarla sana al suo ritorno, e invece l’avrebbe trovata tisica: la sua
fidanzata tisica! Oh, povero Luca! In che modo avrebbe potuto sposarlo ormai,
si diceva esagerando, come accade spesso in simili casi; le pareva di vederlo,
col volto simpatico e caro che le faceva sempre battere il cuore, e quel ciuffo
ardito sopra la fronte; lui le diceva: ‘Coraggio Giustina, fatti coraggio, io ti vo-
glio bene in ogni modo, ti voglio lo stesso per moglie, ti vorrò sempre.’ ‘Ma
sono io’ gli rispondeva Giustina, e si metteva desolatamente a piangere: ‘Sono
io che ormai non posso più sposarti, non capisci?’
Durante la notte aveva dormito pochissimo, d’un sonno tutto in superficie e
di continuo interrotto. Anche la suora del turno di notte (dello stesso ordine di
quelle dell’asilo, però vestita di bianco anziché di nero, certo contro i microbi)
finiva col riuscirle estranea. Era venuta da lei più d’una volta, e s’era sforzata
di confortarla a mezza voce: «Non devi avere così paura. Non sai nemmeno se
è tisi. Forse non lo è, forse è una cosa da niente, la tua. Del resto, se anche fos-
se tisi, guarda me: anch’io ci sono passata dieci anni fa; beh, cosa credi? un po’
di mesi di sanatorio» (qui non diceva propriamente il vero: non s’era trattato
di pochi mesi, coi mezzi di cura d’allora) «e sei bell’e guarita. Adesso posso
fare qualsiasi lavoro, anche pesante» (in questo era veritiera.) «E sapessi
quante altre ho visto guarire: appunto per questo ci sono i sanatori, no?» Giu-
stina non rispondeva, si struggeva dalla pena senza parlare; la suora aveva
avuto pietà del suo viso bagnato di lacrime: «Vuoi che proviamo a pregare la
Madonna insieme?»
Avevano pregato per un po’ rivolte alla nicchia nel muro - chiusa da un ve-
tro pulito e lucido anche quello - in cui stava una Maria bambina agghindata
in modo fantasioso dalle suore: un bambolotto biondo col visino bianco dai
pomelli rossi, e una corona d’oro in testa. Finché: «Quella vernice» aveva bi-
sbigliato Giustina: «La vernice... oh, soffocherà la Madonnina.»
«Quale vernice?» aveva mormorato la suora, rendendosi conto che la ragaz-
za straparlava. Smessa la preghiera in comune si era limitata a proseguirla da
sola, tenendo d’occhio la malata finché non l’aveva vista assopirsi.

***
Quando la mattina dopo Giulia e Francesca erano entrate nella corsia, Giu-
stina era passata per un nuovo spavento: era dunque così grave che le signore
si disturbavano per venirla a trovare? Le aveva osservate avvicinarsi al letto
coi suoi occhi marroni, grandi come quelli di Stefano, sbarrati, e il collo, lungo
e gentile, rigido, come paralizzato. La signora Giulia s’era affrettata a rompere
quel malefico incantesimo baciandola sulle gote, così come avrebbe baciata
una delle proprie figlie.
“Non ha paura dei microbi” constatò con indicibile sollievo la malata “non
ha paura della malattia! Allora, forse, non sono così grave”.
Le due donne erano rimaste più di un’ora con lei, sedute accanto al letto, e
poco alla volta erano riuscite a farla parlare, a farla conversare. Francesca so-
prattutto, col suo chiacchiericcio piano che la riportava a giorni e a ore mera-
vigliosamente diversi. Giustina finì col rilassarsi alquanto, anche se la serenità
dei momenti che Francesca rievocava, confrontata con la presente pena, le era
motivo di nuova sofferenza. Madre e figlia se ne andarono dopo essersi fatte
promettere che, in attesa dell’esito delle analisi, Giustina si sarebbe applicata
con impegno ad alimentarsi - se necessario anche contro volontà - e a riposare
il più possibile.
«Guarda che l’hai promesso, non dimenticare che ce l’hai promesso, eh!»
l’ammonì Francesca nell’accomiatarsi: «Ti preparerò anch’io ogni giorno
qualche cosa di buono, e io o la mamma oppure Alma verremo a trovarti e te
lo porteremo. Tu però devi mangiare.»
«E riposare: anche quello è importante» le ricordò Giulia: «devi cacciare via
tutti i pensieri, e sforzarti di riposare il più possibile.»
Le visitatrici non poterono tuttavia venirla a trovare molte volte, perché il
responso delle analisi fu disastroso: «Tisi galoppante» come riferì il dottor
Cazzaniga, direttore dell’ospedale, al signor Gerardo, che dell’ospedale era il
presidente: «e a uno stadio molto avanzato purtroppo. Temo che non ci sia
alcuna possibilità di salvarla.» Decisero di avanzare subito richiesta per
l’inoltro della ragazza in un sanatorio: «Per scrupolo di coscienza» specificò il
medico «soltanto per questo. Non perché io nutra qualche fiducia. Vorrei sba-
gliarmi, si capisce, ma...» e tentennò la testa.
Era un medico giovane, freddo, molto abile. Gerardo sapeva che difficil-
mente sbagliava una diagnosi: alle sue orecchie questa suonò pertanto come
una sentenza di morte.
Il giorno dopo l’Epifania Giustina fu caricata in barella sull’autolettiga
dell’ospedale e portata in sanatorio. L’autolettiga (una Millecento carrozzata
in legno, con due croci rosse dipinte sui fianchi, e i vetri smerigliati) non aveva
un autista fisso: la guidavano Celeste oppure Massimino, cioè gli autisti della
ditta del presidente dell’ospedale; e toccò a Celeste di portare via Giustina da
Nomana per sempre.

CAPITOLO SETTIMO

Nel corso di quello stesso gennaio l’ufficio postale restituì al comitato per gli
aiuti ai prigionieri un pacco tornato dalla Germania con la motivazione (in
tedesco ovviamente): ‘Destinatario deceduto per cause belliche’. Ciò diede
luogo, nello scantinato ove si confezionavano i pacchi, a commenti diversi.
«Povero Giovannino, anche lui è morto. Così svelto che era!» «Chissà come
sarà successo?»
«E i suoi che non lo sospettano nemmeno.»
«Ma chi è questo Giovannino?» domandò il signor Ermanno Ghezzi, ma-
gazziniere nella ditta di Gerardo, preposto alla confezione dei pacchi: «Forse
quel ragazzo della Lodosa, il figlio d’Ermelinda, che non scrive da mesi?»
«No signor Ermanno: quello non si chiama Giovanni, ma Piero.»
«Ah, infatti, Pierello. Quello non c’entra.»
Uno disse: «Fa un po’ vedere il pacco. ‘Giovanni Morganti’. Sì, questo face-
va il garzone dagli Erba. Non lo ricorda, signor Ermanno?»
«Ah, il garzone del fornaio. Sì, adesso lo ricordo.»
Altri commentarono: «Aveva la faccia che pareva sempre infarinata, povero
Giovannino.»
«Giovannino Faccia-infarinata, infatti.»
«Proprio così, Faccia-infarinata lo chiamavano. A casa sua non sanno anco-
ra niente.»
«Sì, lo ricordo anch’io: è uno che andava sempre in giro in canottiera.»
«Era del 21, la stessa classe del Pierello Valli, e dell’Ambrogio Riva, e di quel
contadino della Nomanella disperso in Russia, come si chiama? Stefano.»
«Giovenzana Stefano.»
Nessuno dei presenti sapeva che Stefano, prima di morire, aveva creduto di
scorgere nel viso del bersagliere sconosciuto che s’era chinato su di lui, il viso
di questo suo coscritto Giovannino Faccia-infarinata. Nessuno l’avrebbe mai
saputo.
«E adesso? Come facciamo ad avvisare i suoi?»
«Non tocca mica a noi.»
«A chi tocca?» chiese una ragazza.
«Mah.»
«A me no» intervenne lo scriteriato portalettere Chin, che dopo aver conse-
gnato il pacco si era trattenuto per sentire i commenti: «A me no, sia chiaro.
Non tocca a me.»
«E chi dice che tocca a te?» lo rimbrottò l’ex sergente Mario Alfieri, che
aveva lasciato mezzo piede in Albania.
«Né a me, né al mio ufficiale postale» insisté Chin, allargando, giacché
c’era, la difesa anche al suo superiore.
«Il tuo ufficiale postale? Che discorso è?» lo scherni la Isa, studentessa:
«Chi ti dice che l’ufficiale postale sia tuo o di chiunque altro?»
Tutti tentennarono la testa con compatimento.
«È il mio capo.»
«Piantala Chin» lo ammonì il signor Ghezzi Ermanno: «Cerca di farla fini-
ta.»
«Ma a chi tocca avvisarli, i famigliari?» chiese la ragazza che già aveva for-
mulata la domanda.
«Facciamo così: io adesso stacco dal pacco l’indirizzo e la scritta in tedesco»
disse il signor Ghezzi «e li porto al podestà. Deciderà lui.»

***
Passarono altri giorni e Pierello seguitava a non dare notizie. Ogni domeni-
ca dopo la messa Francesca e Alma aspettavano sul sagrato sua madre per in-
formarsi, e per dirle qualche parola di conforto; anche l’ultima domenica di
gennaio la risposta della povera donna era stata negativa: non soltanto il figlio
non aveva scritto, ma una lettera con richiesta d’informazioni inviata dal po-
destà a chissà quale ufficio per prigionieri, seguitava a rimanere senza rispo-
sta.
Francesca e Alma avevano accompagnato per un certo tratto la madre che -
diretta alla frazione Lodosa dove abitava - si stringeva nel suo scialle nero, e
rabbrividiva per il freddo e il disagio. Ma ancor più avrebbe rabbrividito se
avesse conosciuta la reale situazione del figlio.

III

CAPITOLO OTTAVO

Pierello in quel momento si trovava infatti in trincea coi soldati tedeschi,


coinvolto nei combattimenti terrificanti e senza luce con cui i resti di due ar-
mate della Wehrmacht, incaricate della difesa della Prussia Orientale, tenta-
vano invano di arginare l’avanzata sovietica. La lotta - iniziata lungo il confine
prussiano il 12 gennaio - era davvero impari: il rapporto delle forze forse di
uno a dieci in favore dei sovietici. Fin dal primo giorno il fronte germanico,
investito da un bombardamento d’artiglieria effettuato con un incredibile nu-
mero di bocche da fuoco (una ogni metro lineare: come e più che nella prece-
dente guerra mondiale durante la famosa battaglia della Somme) era andato
letteralmente in pezzi. Dopo il bombardamento erano venuti avanti i carri ar-
mati, e nella scia dei carri, in massa, le fanterie, penetrando, gli uni e le altre,
in profondità nonostante le dure perdite loro inflitte dai soldati tedeschi su-
perstiti, i quali - è giusto dirlo - seguitavano a lottare senza farsi vincere dal
panico e con immutato valore. Gli spezzoni d’esercito tedesco ancora in grado
di combattere, stavano ora arretrando il più lentamente possibile sulla pianu-
ra coperta di neve e di nebbia, e davanti a ogni città e quasi ad ogni villaggio
rinnovavano la lotta utilizzando le trincee fatte scavare un po’ dappertutto nei
mesi precedenti dal partito nazista. All’esercito s’aggiungevano, drammatica-
mente fedeli alla consegna, i sessantenni del Volkssturm e i ragazzini dai 13 ai
16 anni della Hitlerjugend, male armati e male equipaggiati, neppure tutti in
divisa. Al riparo di tale fronte spezzettato l’intera popolazione della regione
fuggiva pungolata dal terrore, benché si trattasse di prussiani, gente dura, non
facile a spaventarsi.
Pierello, che indossava sulla ormai consunta divisa italiana un cappotto del-
la Wehrmacht - tanto che a prima vista lo si sarebbe potuto scambiare per un
soldato tedesco - si stava ritirando di propria volontà con una compagnia della
Quarta armata, o per meglio dire con quanto ne rimaneva. Quel mattino di
domenica (egli ignorava però che fosse domenica, aveva perso il computo dei
giorni) si trovava davanti a un paesino di poche case non lontano da Barten-
stein, con la funzione di aiuto mitragliere a uno spandau al suo fianco il taci-
turno capo arma tedesco, con in testa l’elmetto sporco di bianco, scrutava di
tanto in tanto il terreno davanti alla trincea in attesa dei nemici.
Mentre il tempo trascorreva con lentezza Piero rifletteva. In un bel pasticcio
s’era cacciato! “Ma che altro avrei potuto fare?” Durante l’estate sì che gli era
andata bene... Aveva trascorso cinque mesi nel podere Hufenbach, a forse cin-
quanta chilometri da qui, cinque mesi sani, come lavorante agricolo, lui ope-
raio di ferriera. In quel podere lavorava anche il prigioniero polacco Tadeusz
Klocek (che in questo momento era pure qui in trincea: “Guardalo là Tadeusz,
quel buon diavolaccio, con tutto il suo nome ostrogoto”) col quale egli aveva
poco alla volta fatto amicizia. La vedova Hufenbach - ricordava Piero, in vena
di ripensamenti - era una padrona severa ma giusta, non dura coi ‘suoi due
prigionieri come altri proprietari prussiani: anzi siccome la loro razione era
scarsa, gli aveva fin da principio fatto capire che potevano mangiare a discre-
zione dei frutti più disponibili nel podere. Tanto che lui, in quei cinque mesi,
s’era rifatto della lunga fame sofferta nei lager: quante patate aveva mangiato,
e quanto buon latte bevuto nel podere Hufenbach! L’avessero visto a quel
tempo gli amici di Nomana, chissà come l’avrebbero preso in giro, special-
mente Giovannino Faccia-infarinata: «Ehi, guardate Pierello che beve il latte
invece del vino. Come i bambini! Dì Pierello, vuoi che ti regaliamo un bibero-
ne?» Intanto però quel magnifico latte, e le patate, senza contare i pacchi rice-
vuti da Nomana, gli avevano rifatte le forze. Inoltre al podere c’era Joachim di
dodici anni, il maggiore dei due figli della vedova (l’altro, di dieci anni, era
troppo tedesco, pareva di legno, era di scarsa compagnia), Joachim invece
aveva un buon carattere, lo seguiva come fosse la sua ombra nel lavoro in
campagna, si faceva spiegare questo e quello. Aveva imparato alcune parole
d’italiano e perfino di dialetto nomanese e, in più, l’abituale gesto di Pierello
d’allargare le braccia come arrendendosi al destino, e lo faceva ogni tanto an-
che lui, al punto che Pierello, vedendosi scimmiottato a quel modo, aveva fini-
to col non farlo più. C’era proprio da ridere a ripensarci! Sì, Joachim era un
ragazzino simpatico, e Pierello gli s’era affezionato.
Peccato aver dovuto, in settembre, abbandonare la fattoria! In settembre
infatti, terminato il grosso dei lavori agricoli, loro due prigionieri - lui e Ta-
deusz - erano stati presi in forza dall’organizzazione del partito e portati da-
vanti a Goldap a scavare trincee. In quella zona c’erano già dei civili, special-
mente donne, e parecchi prigionieri francesi, impegnati negli scavi. Lui - con-
tinuava a ricordare - s’era provato a fraternizzare coi francesi, che se raffron-
tati ai tedeschi hanno le maniere e anche le facce così somiglianti alle nostre,
ma quelli l’avevano tenuto alla larga, e uno gli aveva anche detto un paio di
volte sale italien: sporco italiano, perché al principio della guerra l’Italia aveva
dato quel colpo nella schiena alla Francia. Come se il colpo gliel’avesse dato
lui, Piero Valli di Nomana, frazione Lodosa. Per fortuna gli era rimasto Ta-
deusz il quale, oltre tutto, capiva abbastanza il tedesco e s’arrangiava a fargli
un po’ da interprete. A quel tempo il fronte correva lungo il vecchio confine
con la Polonia, e i civili tedeschi erano tutti senza eccezione convinti che mai e
poi mai i russi sarebbero riusciti a venire avanti; glielo garantiva la loro pro-
paganda, e loro ci credevano ciecamente, ne erano sicuri in modo impressio-
nante, e non solo i bambini e le donne, ma anche gli uomini. Pierello, dappri-
ma perplesso, aveva finito col crederlo anche lui: “Ma perché allora ci fanno
scavare tutte queste trincee nelle retrovie? A cosa servono?” Dei civili nessuno
sembrava porsi la domanda. D’altra parte i vecchi di qui, e anche i non troppo
vecchi, ricordavano bene i russi che avevano invase queste terre nel 1914: gen-
te rozza, dicevano, e ignorante, ma non feroce, non assassina: quel ricordo
rimaneva in qualche modo sullo sfondo, a tranquillizzare di fatto un po’ tutti.
Alla fine d’ottobre i russi - questi nuovi, non quelli dello zar - avevano im-
provvisamente attaccato ed erano venuti subito avanti, tanto che loro prigio-
nieri di guerra erano stati sgombrati appena in tempo.
I russi avevano sommersa la zona dei lavori e occupata la cittadina di Gol-
dap, dove erano stati bloccati dai rinforzi tedeschi affluiti di furia; i quali dopo
un paio di settimane di strenua lotta avevano riconquistata Goldap e riportato
il fronte dov’era prima, cioè lungo il vecchio confine. Quando le squadre di
prigionieri erano tornate sul posto per seppellire i morti e riparare le distru-
zioni, Pierello aveva visto cose che non si sarebbe più dimenticato per tutta la
vita; anche ora, a ripensarci, ne rimaneva turbato: dovunque civili assassinati,
persone bruciate dentro le case, vecchi con evidenza torturati finché erano
morti. Tutte le donne rimaste, dalle bambine alle vecchie, erano state violenta-
te un’infinità di volte, qualcuna anche da decine e decine di soldati di seguito;
nella località di Nemmerdorf - dove la sua squadra aveva sostato per una set-
timana - parecchie donne erano state inchiodate vive alle porte dei cascinali.
«Soltanto perché rifiutavano di farsi fottere» avevano spiegato piangendo cer-
te inservienti polacche a Tadeusz: «soltanto perché si opponevano.» .«Con
cosa si opponevano?» «Con le mani, con le unghie. E con che altro?» Era que-
sta dunque la sorte che attendeva l’intera Germania, se i bolscevichi fossero
venuti avanti?
Perché però, si chiedeva anche adesso il giovane, ripensandoci per
l’ennesima volta, i russi si comportavano così? A vederli prigionieri sembra-
vano uomini come tutti gli altri. Perché dunque quand’erano inquadrati nel
loro esercito agivano da assassini a quel modo? Egli non riusciva a spiegarse-
lo. Non aveva che un’idea confusa della somma di crimini orrendi perpetrati
dai tedeschi in Russia (anche i tedeschi non erano più quelli del Kaiser), e
ignorava inoltre del tutto la martellante propaganda d’odio con cui la testa
d’ogni singolo soldato russo veniva imbottita giorno per giorno. Si trattava
d’una dolentissima umanità costretta da sempre alla miseria, negli ultimi de-
cenni bastonata e massacrata dai suoi padroni comunisti, da ultimo ancor più
duramente massacrata dagli invasori nazisti, la quale adesso non solo poteva
sfogarsi, ma veniva di proposito stimolata a sfogarsi sulla popolazione nemica.
Così le persone normali e anche bonarie, che fra i russi costituiscono la mag-
gioranza, non potevano trattenere le minoranze invasate.
(Indemoniate, appunto: perché è in situazioni come queste che il nemico
dell’uomo - il quale s’annida dentro l’uomo - ha più che mai possibilità
d’azione. Il fatto era, semplicemente, che c’erano a disposizione esseri umani
non protetti dalla legge, persone indifese, che potevano essere uccise e tortu-
rate a piacere. Noi tendiamo a dimenticarlo, ma per questo solo fatto: perché
cioè erano indifese, negli ultimi secoli sono state pressoché sterminate dalle
nostre minoranze indemoniate le popolazioni indigene di ben tre continenti.
Con ciò non stiamo affermando che a uccidere siano soltanto gli indemoniati:
ci sono anche tanti altri purtroppo. Ma a uccidere appena ne hanno facoltà, a
non smettere d’uccidere, a sterminare, sono appunto gli indemoniati: i quali
uccidono per il piacere - forse non tanto loro quanto del demonio che è in loro
- di uccidere. Costoro sono presenti in ogni popolo: guai a dargli via libera.)
A Nemmerdorf la squadra di Pierello aveva dovuto seppellire anche una
quarantina di prigionieri francesi non sgombrati in tempo, rinvenuti massa-
crati uno sull’altro davanti al loro ricovero. Questa strage aveva sopra ogni
altra impressionato il giovane: dopo essersi fatto spiegare - tramite Tadeusz -
in che modo fosse avvenuta, e aver appreso che i russi, tutti ubriachi, non ave-
vano fatto alcun conto delle dichiarazioni di quei soldati d’essere francesi e
dunque nemici della Germania, aveva fermamente deciso che mai e poi mai
lui si sarebbe lasciato ‘liberare’ dai bolscevichi. Gli succedeva anche, da allora,
di pensare con più rammarico di prima a suo cugino Tito, il quale, se per caso
era ancora vivo, si trovava in mano a dei disgraziati simili.
Passata la bufera i civili tedeschi sopravvissuti erano tornati un po’ alla vol-
ta a convincersi che il nemico non sarebbe riuscito a venire avanti di nuovo.
“Noi prigionieri però il partito ci ha subito rimessi a scavare trincee...”
Comunque tutto ciò adesso era storia passata: col grande attacco del 12
gennaio (quello di metà ottobre doveva essere stato una specie di prova) i bol-
scevichi erano venuti avanti di nuovo, e stavano dilagando in modo inconteni-
bile nell’intera Prussia.
“Quello che è certo” concluse ancora una volta i suoi rimuginamenti Pierel-
lo, appoggiando con un mezzo sospiro la schiena alla parete della trincea, “è
che io, comunque si mettano le cose, non intendo cadere nelle loro mani: non
voglio fare la fine dei francesi di Nemmerdorf. Meglio morire in combattimen-
to piuttosto.” Che situazione estenuante però, dopo tanta prigionia, essere
tornati al rischio quotidiano di morire in combattimento!
CAPITOLO NONO

Sull’unica strada là davanti, proveniente da sud-est cioè dalla parte da cui si


attendeva il nemico, comparvero a un tratto dei puntini che crebbero di nu-
mero fino a formare una riga frammentata: su questa si tenevano puntati i
binocoli dei militari tedeschi. «Profughi» affermò a mezza voce uno di loro,
«sono dei profughi.» Altri confermarono.
Pierello, che non aveva capito bene, fece con preoccupazione un segno in-
terrogativo a Tadeusz, il quale lasciò il proprio posto e gli venne accanto: «So-
no zivili, zivili doic (tedeschi)» spiegò nel suo italiano sommario.
«Ancora altri. Poveracci» disse Pierello.
«Sì, poveri genti» convenne Tadeusz. Non alto di statura, di mezza età, ave-
va una faccia per così dire concava, a causa d’uno schiacciamento alla radice
del naso che ne improntava la fisionomia: sorrise all’amico in un suo modo
abituale, bonario.
I profughi impiegarono un certo tempo a percorrere la strada fino alla trin-
cea; infine i primi di loro attraversarono lo schieramento, quindi, senza fer-
marsi, anche il retrostante paesino, diretti a nord-ovest. Viaggiavano in mag-
gioranza su carri agricoli a quattro ruote, d’un tipo usato anche, oltre confine,
dai contadini polacchi e russi: Pierello aveva sperimentato quei carri trovan-
doli molto adatti ai lavori nei campi, non però robusti come i familiari carri a
due sole ruote della campagna lombarda. Trainava ogni carro una coppia di
cavalli; conducente era di solito una donna o un uomo anziano, a volte un pri-
gioniero, magari russo, dal lungo pastrano; i carri erano per lo più centinati e
coperti da una tenda, solo pochi scoperti, e su questi si vedevano meglio gli
occupanti: bambini e ancora bambini coi visi strinati dal freddo, e donne, vec-
chi, malati, forse anche qualche morto; e le loro cose: fagotti raffazzonati, bal-
le di fieno, vestiario sciolto, pentolame, e qualche spaesato soprammobile. Nel
passare i profughi guardavano con implicito sollievo lo schieramento dei sol-
dati che veniva a frapporsi tra loro e il temuto nemico, ma - con qualche scon-
certo di Pierello - all’esterno non ne davano praticamente segno.
Un canuto conducente arrestò il proprio carro all’altezza della trincea: «Sa-
pete a che distanza sono i russi?» chiese a un caporale appostato accanto alla
strada.
Quello gli fece segno di no, e disse qualche parola che Tadeusz non riuscì ad
afferrare.
«Sapete se i ‘ponti di ghiaccio’ sulla laguna di Koenigsberg funzionano an-
cora?»
«Sì» rispose il caporale: «Sì, funzionano.»
«Siamo diretti ai ponti» disse l'uomo, e ripartì, per non ostacolare i carri
che seguivano il suo.

***
Uno dei quali, tra gli ultimi, era guidato da un ragazzo forse quattordicenne,
parzialmente in divisa militare, che teneva accanto a sé sulla paglia due grossi
razzi da panzerfaust.
Al vederlo il comandante d’una piccola formazione del Volkssturm schiera-
ta coi soldati - un uomo anziano, dal petto incavato, con spessi occhiali - uscì
dalla trincea e accorse alla strada facendogli segno di fermarsi. Gli occhi del
ragazzo si riempirono di paura mentre - tirando a sé le redini - arrestava il
carro. Il comandante del Volkssturm lo interrogò, gli altri non poterono udire
che parzialmente il dialogo.
«Eri inquadrato nel Volkssturm?»
«Sissignore.»
«Perché hai lasciato il tuo posto e scappi? Non sai che il tuo compito è di
combattere fino alla morte?»
«La difesa dov’ero io, a..., non esisteva più. Siamo rimasti vivi solo in po-
chissimi.»
«E tu allora sei filato a casa tua?»
«Sono tornato a casa. Ma non subito: solo dopo che i panzer russi se
n’erano andati e non esisteva più una linea nostra. La mia casa era lì vicino.»
Si udì una voce dall’interno del carro: «Il ragazzo non scappa. È riuscito a
recuperare due panzerfaust: noi contiamo sulla sua difesa se ci attaccano i
carri.»
Il capo del Volkssturm avanzò di qualche passo e, protendendosi, guardò
sotto la tenda: aveva parlato un uomo dal viso tumefatto, che giaceva disteso
sulla paglia con le braccia piegate in modo innaturale; accanto a lui giaceva
una donna, certo la moglie, forse addormentata, forse svenuta.
«Lei è il padre?»
«Sissignore.»
«Perché il carro non lo conduce lei?»
«Ho le braccia spezzate.» Ci fu una pausa. L’uomo era, con evidenza, rilut-
tante a dare ulteriori spiegazioni.
«Cos’è accaduto?» chiese a mezza voce il comandante del Volkssturm.
L’uomo non rispose.
«Mi dispiace» disse allora il comandante al ragazzo «ma tu scendi e rimani
qui con noi.» S’irrigidì: «Forza, trova qualcuno nella colonna che ti sostituisca
alla guida.»
Il ragazzo non si mosse. Intanto si era fatta avanti la donna che conduceva il
carro successivo, una vecchia; come tutte le donne aveva un fazzoletto sul ca-
po e la figura ingrossata dal cappotto impolverato di neve. «Signor comandan-
te» disse «le spiego io.» E abbassando la voce, e cercando invano di tirare il
comandante un po’ in disparte: «I bolscevichi hanno obbligato il signor Len-
sens a tenere il lume mentre gli violentavano la moglie. Erano un’infinità, sia
dentro che fuori la casa. Lui dopo un certo tempo si è rifiutato di tenere la lan-
terna, e allora loro gli hanno spezzato il braccio, e poi pretendevano che tenes-
se la lanterna con l’altra mano; ma per il dolore lui non poteva e allora gli
hanno spezzato anche l’altro braccio. Ecco cos’è successo.»
Mentre la donna parlava il ragazzo seduto al posto di guida guardava fisso
davanti a sé: ogni tanto le sue labbra avevano dei fremiti, dagli occhi azzurri
cominciarono a colare le lacrime.
L’ufficiale comandante la compagnia, un veterano dal viso asciutto, aveva
intanto a sua volta raggiunta la strada e il carro. Si fece ripetere sommaria-
mente ogni cosa, poi: «Va pure» disse al ragazzo.
«Ma signor tenente...» protestò quello del Volkssturm: «Per regolamento e
sotto la mia responsabilità...»
«Ogni responsabilità qui fa capo a me» disse il tenente, e aggiunse: «pur-
troppo.» Poi ripeté al ragazzo: «Spicciati, su, cercate di non restare indietro
dagli altri.»
Il ragazzo lo guardò coi suoi occhi gonfi di lacrime: «Questi due razzi» bal-
bettò infantilmente, con incontenibile emozione «le giuro che non andranno
sprecati, quelle bestie me la pagheranno.» Agì alle redini, e il carro ripartì
scricchiolando sul ghiaccio, col suo carico di strazio.

La voce dell’accaduto si diffuse tra gli uomini schierati, e Pierello l’apprese


da Tadeusz. «Che situazione!» commentò, e: «Io spero una cosa sola: che la
vedova Hufenbach, e i bambini, e anche le loro lavoranti, siano riuscite a
scappare in tempo. Tu cosa ne dici?»
«Beh, hanno due discrete pariglie di cavalli» considerò, in un italiano meno
appropriato di questo con cui noi riferiamo, Tadeusz «e sia la vedova che le
lavoranti Birgitte ed Edvige sono in grado di attaccarle e di condurle.» (Edvige
era una deportata polacca, compatriota dunque di Tadeusz.)
«Sì. Il pericolo è solo che la vedova abbia creduto alle fesserie della radio»
disse Piero: «che cioè i russi non possono venire avanti, e, Dininguarda (Dio
ce ne guardi), abbia finito col non muoversi in tempo. Certo i tedeschi io non li
capisco: bevono tutto quello che la loro propaganda gli dice, ci credono a occhi
chiusi.»
«Sì, è vero.»
«Son due anni che stanno ritirandosi davanti ai russi, e adesso, chissà per-
ché, erano sicurissimi che non si sarebbero ritirati più. È incredibile!»
«Sai cosa dicono i nostri preti? Che Dio accieca quelli che vuol perdere» gli
fece notare, molto a proposito, Tadeusz.

CAPITOLO DECIMO

Era trascorsa forse un’ora dal passaggio dei profughi, che da nord-ovest,
dalla zona cioè in cui essi si trovavano attualmente, giunse un improvviso fra-
stuono di cannonate e, assai più debole, di armi automatiche: la solita, tragica
musica dei combattimenti, che una volta ai tedeschi piaceva tanto. Nel silenzio
della trincea - fattosi totale perché ciascuno s’era messo in ascolto - quel deso-
lante rumore giungeva come a ondate, e andava oltre, perdendosi sulla pianu-
ra nevosa.
Forse una formazione di carri russi era capitata addosso alla colonna dei
profughi? Pierello guardò in direzione del tenente comandante, se per caso
decidesse d’accorrere in loro aiuto. Ma l’ufficiale - l’unico che la compagnia
contava - seduto adesso sul bordo posteriore della trincea, non accennava a
muoversi. Puntò anzi, quasi in risposta a quello sguardo, il binocolo nella di-
rezione opposta, verso sud-est, da dove si attendeva l’arrivo del nemico.
Non che l’ufficiale fosse insensibile a quanto stava accadendo: sapeva però
che da un milione e mezzo a due milioni di civili, soprattutto donne e bambini,
erano in quel momento in cammino alle sue spalle verso il Frisches Haff, la
laguna di Koenigsberg, per attraversarla sui precari ‘ponti di ghiaccio’, e inter-
porla tra sé e il nemico. Compito del suo e degli altri reparti armati era, in
questa zona, di mantenere un embrione di linea, sia pure discontinua, che
proteggesse la laguna se non da tutti, almeno dal grosso dei nemici: date le
forze disponibili non si poteva fare altro.
Il suo binocolo individuò a un tratto laggiù, lontano, dove la strada tagliava
una fila d’alberi spogli, un principio di movimento. “Forse ci siamo” pensò
l’ufficiale, e senza staccare gli occhi dallo strumento chiese a uno che gli stava
accanto conferma di ciò che aveva individuato. Diversi binocoli
s’appuntarono; risultò che non di nemici si trattava, bensì ancora di profughi,
i quali arrivarono infatti dopo un certo tempo in lunga fila.
Un’altra colonna sopravvenne più tardi.
I nemici comparvero a mezzo pomeriggio, preannunciati da sinistre colon-
ne di fumo che s’alzarono una dopo l’altra da alcuni villaggi annidati nella
pianura al di là degli alberi. Poco prima di loro arrivarono altri profughi, gli
ultimi: non più sui carri, ma a piedi, e in fuga affannosa; c’erano vecchi ancora
impettiti che arrancavano appoggiandosi al bastone, bambini, donne ansanti
che magari si tiravano dietro per mano un figlio piccolo, il quale a volte cadeva
e veniva trascinato per un certo tratto sul ghiaccio.
Pierello si mosse d’istinto per correre incontro a una di queste donne, ma
un ordine secco di un sottufficiale lo bloccò. Dovette attendere accucciato di
nuovo con gli altri nella trincea, invisibile ai nemici.
Tadeusz, ch’era tornato al proprio posto, pensava con malinconia: “Guarda:
gli innocenti pagano sempre allo stesso modo dei colpevoli, la solita storia!”
Quella fuga spasmodica gli riattizzava dentro una domanda che in quei giorni
lo angustiava molto: cos’era accaduto e cosa stava accadendo nella sua patria,
la Polonia? Tra loro prigionieri circolavano al riguardo voci contrastanti: se-
condo alcune c’erano enormi masse di civili polacchi in fuga verso la Germa-
nia.
Le avanguardie russe che seguivano a non molta distanza i profughi in pic-
coli nuclei a piedi e sopra mezza dozzina di slittoni - macchie grigio-brune sul-
la neve - furono lasciate avanzare, inconsce di ciò che le attendeva, fin sotto la
trincea; solo al momento più redditizio, a un ordine del suo comandante la
compagnia tedesca aprì il fuoco.
Risparmieremo al lettore la descrizione della carneficina operata soprattut-
to dagli spandau, le mitragliatrici-falcianti: non solo gli uomini, ma anche i
cavalli e le slitte, tutto venne crivellato.
Dopo essersi precipitosamente ritirati, i superstiti attesero i compagni che li
seguivano più da vicino e vennero all’assalto, ma furono respinti. Sferrarono
un altro più pericoloso assalto appena scese le tenebre, che avevano consenti-
to loro di portarsi fin sotto la trincea malgrado i razzi illuminanti lanciati dai
tedeschi.
I quali stavolta furono costretti a un difficile corpo a corpo che costò loro
sensibili perdite. Inseguendo il nemico arrivarono fino agli slittoni bloccati nel
primo scontro, e vi scorsero sopra cinque o sei donne tedesche seminude e
legate, uccise insieme ai nemici dal fuoco degli spandau. Allora alcuni dei sol-
dati si buttarono come impazziti sui pochi prigionieri fatti, li stesero a terra a
forza, e mentre quelli urlavano per il terrore strapparono loro gli abiti al fine
di castrarli. Il tenente comandante intervenne appena in tempo: un russo però
era ormai mutilato, e si voltolava ansimando nella neve plumbea, cospargen-
dola di sangue. Il suo corpo sarebbe rimasto là a rinfocolare fino al calor bian-
co l’odio del nemico non appena fosse sopraggiunto, in una spirale sempre più
spaventosa, che ormai era impossibile spezzare.
Qualche ora più tardi la compagnia, ricevutone l’ordine tramite una staffet-
ta in side-car, sgombrò il luogo per trasferirsi alquanti chilometri più indietro,
a difesa d’un altro paese. Rimase sul posto il Volkssturm, coi suoi pochi anzia-
ni e ragazzi male armati, al comando del caparbio vecchio con gli occhiali. Il
quale, mentre gli autocarri della compagnia scaldavano i motori, fece le sue
rimostranze al tenente comandante: «Io ho sentito pochi minuti fa la radio.»
«L’ho sentita anch’io» disse l’ufficiale parlando con lentezza e come masti-
cando le parole, tant’era in tensione per i combattimenti sostenuti (ma quan-
do mai i soldati tedeschi non erano in tensione, in quei giorni?)
«Allora lei saprà, signor tenente, che l’ordine rimane per tutti di non cedere
nemmeno un metro di terreno.»
«Sì, infatti. È un ordine che conosco bene: lo sento da quand’ero in vista di
Mosca.»
Il vecchio batté con ira un piede sulla neve: «Lei non ha diritto di andarse-
ne. Lei è tenuto, come chiunque, a eseguire gli ordini.»
«Proprio così. Eseguo gli ordini del mio comando: ha visto anche lei la staf-
fetta che me li ha portati.» L’ufficiale annuì meditabondo, sempre nervosa-
mente accennando a masticare a vuoto: «Però le dico di più: siccome questa
posizione sarà tra poco indifendibile, anche senza un ordine io l’avrei sgom-
brata. Vuol sapere con certezza cosa, in questo momento, sta facendo il nemi-
co? Ivan è quanto mai monotono, lei non ne ha l’idea: in questo momento sta
aggirandoci sui due lati per stringere in una morsa il paese. Domani con le
prime luci si farà sotto da ogni parte, e nessuno potrà più uscire vivo di qui.»
Il vecchio alzò la voce: «Anche così il suo dovere è di restare.»
«Il mio dovere è di difendere il nostro popolo, in pratica le donne e i bam-
bini, finché è nelle mie possibilità» gli rispose con amarezza l’ufficiale: «dargli
il modo di mettersi in salvo al di là della laguna prima, poi della Vistola, poi
dell’Oder, poi...» S’interruppe: «Io non so se compiangerla o invidiarla» disse:
«per lei tra qualche ora questa storia bestiale sarà finita.»
Così la compagnia - ciò che n’era rimasto - era partita, e poco fuori paese
era stata salutata sulla destra da alcune lontane raffiche di ‘parabellum’: a di-
mostrazione che le previsioni del suo comandante si stavano già realizzando.

***
Nella nuova zona di schieramento, sei o sette chilometri più indietro, le
pervennero dalle retrovie - nonostante il marasma che sconvolgeva l’intera
regione - munizioni e rifornimenti. Gli uomini poterono qui, nel corso di quel-
la notte, dormire a turno nelle case per la maggior parte abbandonate dagli
abitanti. Sopra ogni altra cosa i soldati avevano bisogno di riposo.
La mattina seguente arrivò con grande strepito da tergo, cioè da nord, una
formazione di carri armati tedeschi, perché i comandi - in base alla loro pur
malridotta osservazione aerea - prevedevano in questo punto un attacco di
carri russi. Che comparvero infatti: vennero avanti di corsa sulla pianura, tra-
scinandosi dietro brevi criniere di neve polverizzata. Con enorme sollievo i
carristi tedeschi constatarono che erano in numero appena doppio dei loro
carri: poterono quindi uscirgli incontro e respingerli senza perdite eccessive.
Dopo di che la formazione di carri tedeschi venne trasferita d’urgenza altro-
ve, e la compagnia lasciata sola a difendere la località. Fu impegnata da fante-
rie e da qualche carro, e nel giro d’alcuni giorni dovette sgombrare anche di là.
Si schierò di nuovo lungo un fiumiciattolo gelato, alquanti chilometri più
indietro. Qui ricevette, oltre alle munizioni e ai rifornimenti, anche una venti-
na d’uomini di rincalzo, ch’erano quanto rimaneva di un’altra compagnia del
reggimento cui essa apparteneva. In questa posizione fu impegnata in un mas-
siccio scontro, in seguito al quale dovette ritirarsi dopo avere subito sensibili
perdite.
Tra i nuovi assegnati alla compagnia c’era un prete cattolico, non cappella-
no ma semplice soldato: prima di lasciare la posizione il tenente comandante
lo incaricò di raccogliere, con l’aiuto di Pierello, i piastrini di riconoscimento
dei caduti e i loro portafogli e documenti.
I due - con meticolosità (il prete era pur sempre un tedesco) - sfilarono dal
collo dei singoli caduti i piastrini a medaglia, e vuotarono loro le tasche, que-
ste non senza ripugnanza, perché a volte erano sporche di sangue e in qualche
caso anche di brandelli di interiora. Ne vennero fuori - insieme agli umili og-
getti della vita del soldato, come temperini, pipe, fiammiferi, spago - da alcune
anche immagini pornografiche, da altre corone del rosario.
Il prete passava via via con gesto meccanico ogni cosa a Pierello, il quale ri-
poneva tutto in un sacco. Al giovane le immagini pornografiche (cui non era
abituato) riuscivano sconcertanti, ma gli riusciva anche sorprendente la rela-
tiva frequenza di corone del rosario: si rese conto, meglio che in altre occasio-
ni, delle profonde differenze esistenti nel mondo interiore dei soldati tedeschi,
in apparenza tutti così uguali. A un certo punto le foto pornografiche (quei
discorsi di don Mario là a Nomana...) finirono con l’apparirgli in qualche mo-
do legate, come causa ed effetto, ai brandelli d’intestini, per cui anziché riporle
nel sacco cominciò a buttarle via. Il prete, dopò un istante di sorpresa, lo ap-
provò con la testa e non gliele porse più, ma senza pronunciare una parola. Il
suo atteggiamento pareva se mai suggerire che tanto, al di là delle piccole scel-
te che ancora si potevano fare, la morte era ormai il destino di tutti in Germa-
nia. Dio aveva distolto il suo sguardo dagli uomini: non rimaneva che la mor-
te.

CAPITOLO UNDICESIMO

Di lì a qualche giorno Pierello e Tadeusz ebbero inaspettatamente occasione


di fare una puntata nelle retrovie. A bordo d’un trattore cingolato, entrambi a
disposizione di un risoluto maresciallo che aveva l’ordine di prelevare a ogni
costo della benzina.
La scelta del mezzo cingolato s’era rivelata opportuna, perché quanto più ci
si allontanava dal fronte tanto più le strade risultavano intasate dai profughi. I
quali si spostavano su carri o a piedi, e questi ultimi con zaini, valigie, sacchi
legati alle spalle o accatastati nei fragili trabiccoli a due ruote che si usavano
allora per la spesa; altri sospingevano carrozzette per bambini in cui, magari
insieme ai bambini, c’erano viveri ed oggetti; parecchi si tiravano dietro picco-
le slitte, e qualcuno una semplice tavola, che sobbalzava stridendo sul ghiaccio
col suo piccolo carico legato sopra. Veicoli, cavalli e persone riempivano le vie
fino ai bordi, e il trattore poteva progredire spedito solo grazie ai cingoli che
gli consentivano di muoversi fuori strada.
Dal suo posto Pierello osservava ogni cosa. Notò che in vari luoghi si stava-
no febbrilmente scavando trincee, in altri già vigilavano sugli scavi vecchi e
nuovi i reparti del Volkssturm, formati da anziani e ragazzini con bracciali o
divise sommarie. “A questo modo” si disse “non soltanto i soldati finiranno col
venire uccisi tutti, ma anche i ragazzini e i vecchi. E di queste donne e bambini
che scappano, quanti ne sopravviveranno se la fuga durerà a lungo?” Ogni
tanto scorgeva qualche cadavere al margine della strada: non doveva essere lì
da molto, perché i tedeschi - col loro bisogno d’ordine, evidentissimo per lui
italiano in circostanze come questa - senza dubbio li rimuovevano di continuo.
All’entrata nella città di Braunsberg (i depositi di carburante si trovavano
appena oltre la città, verso la sponda della laguna gelata), lo riempì di racca-
priccio la vista di tre soldati della Wehrmacht impiccati uno in prosieguo
dell’altro a dei lampioni. Portavano ciascuno un cartello con una breve scritta,
che Tadeusz decifrò: erano sbandati, disse, individui che avevano abbandona-
to il loro reparto. «Guarda là, vedi chi fatto caput» egli indicò a Piero. Il gio-
vane notò allora un nucleo di ‘cani da guardia’ che sapeva molto temuti dai
soldati dell’esercito: si trattava di agenti della polizia militare, con placche me-
talliche sorrette sul petto da catenelle, le quali ultime, insieme all’aspetto di
duri mastini che, uno per uno, quegli uomini avevano, spiegavano bene il loro
soprannome. Più avanti una, poi un’altra di tali squadre - che si muovevano
compatte come un solo uomo - fermarono il trattore, chiedendo imperiosa-
mente di vedere il suo ‘foglio di viaggio’. A Pierello non sfuggì la preoccupa-
zione con cui il maresciallo lo esibiva ogni volta: e si trattava d’un veterano
capace di trarsi sempre d’impaccio, che appunto per questo era stato scelto dal
comandante di compagnia per quella missione. La sua inquietudine si dimo-
strò fondata quando, appena più in là, nel percorrere una strada di circonval-
lazione, il trattore passò addirittura tra due file di soldati tedeschi penzolanti
come lugubri spaventapasseri dagli alberi che la fiancheggiavano.
“Ma a questo modo finiranno con l’ammazzarsi proprio tutti!” si ripeté il
giovane; e il cielo color piombo sotto il quale, senza voci né imprecazioni, in
un ordine sempre rinnovato, si svolgeva la smisurata tragedia, gli sembrò an-
cora più lontano dagli uomini.
Pensò che per lui era davvero ora di riesaminare la propria situazione. Non
cadere in mano ai russi stava bene, non però per finire ucciso in combattimen-
to, o peggio ancora in un modo così ignobile da questi altri. Lo invase un acu-
tissimo senso di ribellione: che ci aveva a che fare lui con questa guerra di
sterminio tra popoli privi di carità, privi di Dio? Gli uni e gli altri avevano re-
spinto Dio - come s’esprimeva don Mario là a Nomana - ed eccone qui i frutti:
eccoli, sì, lui li aveva precisamente sotto gli occhi. Doveva decidersi una buona
volta a piantare questa gente, gli uni e gli altri, e questi posti. Qui sembrava
non esserci, per i tedeschi sconfitti come per i russi vincitori, che la morte:
una morte che si riorganizzava continuamente da sé stessa, con un’efficienza
diabolica. Il giovane trasse la sua conclusione: doveva assolutamente, e senza
perdere tempo, trovare il modo di smammare. Già, ma come? Ecco il punto.
«Hai visto se c’erano anche dei prigionieri come noi tra gli impiccati?»
chiese sotto voce a Tadeusz.
«No, non visto» gli rispose quello allo stesso modo. «Ma forse in altre
strassen ci sono. Perché?»
«Ne parliamo poi» disse, sempre a bassa voce, Pierello.
Il maresciallo tedesco non si curava di loro. Se mai era Pierello a osservare
ogni tanto di sottecchi lui: che vedeva assorbito da una nuova pressante cura:
il motore dell’automezzo dopo avere prima di Braunsberg perso qualche col-
po, cominciava a balbettare di nuovo, imprimendo al veicolo anche degli scos-
soni. A un certo punto il trattorista finì con lo spegnerlo, scese a terra, aprì il
cofano, manovrò all’interno, quindi risalì, avviò di nuovo, ridiscese e risalì; i
due prigionieri lo udirono parlottare col maresciallo: c’era un guasto
nell’impianto elettrico, bisognava sostituire un pezzo troppo logoro, Pierello
credette di capire che si trattava delle spazzole del magnete.
Poiché la meta era ormai vicina, i due tedeschi decisero di proseguire: la
macchina la raggiunse a fatica, perdendo sempre più colpi. Da questa parte
della città i profughi risultavano raffittiti: c’erano sulla strada percorsa dal
trattore non più due, ma tre file parallele di carri senza contare la gente a pie-
di. Là in fondo, livido sotto il cielo desolato, si stendeva fino a perdersi nella
foschia il Frisches Haff, la laguna gelata.

***
Davanti ad alcuni capannoni nei quali era sistemato il deposito di carburan-
ti, erano in sosta autocarri dell’esercito, da cui venivano scaricati fusti vuoti
che squadre di prigionieri francesi e russi provvedevano a sostituire con fusti
pieni. Si scorgevano qua e là carcasse d’automezzi bruciati, certo ad opera
dell’aviazione russa, ma il deposito funzionava regolarmente. Il maresciallo
entrò anzitutto nell’ufficio per telefonare a un altro deposito, di pezzi di ri-
cambio, situato, a quanto si apprese, a non molta distanza. Ne uscì dopo circa
un’ora, mentre il trattore stava facendo il carico di fusti. Comunicò che il pez-
zo occorrente non si trovava nel vicino deposito, ma in un altro, nel settore
opposto della città; approfittando d’uno degli autocarri in partenza - disse -
egli avrebbe anzitutto raggiunto il comando della polizia per farsi autorizzare,
poi si sarebbe - sempre con mezzi di fortuna - recato al deposito, e infine sa-
rebbe tornato qui al più presto col ricambio. Sperava d’essere di ritorno prima
del buio: in ogni caso i suoi compagni di viaggio l’attendessero senza allonta-
narsi dal trattore.

***
Cominciò l’attesa. Chiuso nel suo cappottone tedesco, con le mani in tasca,
Pierello si mise un po’ in disparte a osservare la fiumana dei profughi che
scorreva molto lentamente sulla strada non lontana, oltre un filare d’alberi
spogli. Tornava a chiedersi se la vedova Hufenbach, Joachim e le lavoranti
della fattoria fossero anche loro per strada a quel modo.
A interrompere i suoi pensieri arrivarono fulminei e bassi - e per contrasto
colorati contro il cielo plumbeo - tre aerei bimotori, che dopo aver investito
con alcune raffiche gli autocarri e i capannoni, si allontanarono sparando in-
cessantemente sulla colonna dei profughi in direzione della laguna caliginosa;
sopra la quale, ormai fuori vista, sganciarono a più riprese il loro carico di
bombe. L’eco delle esplosioni suscitò in Piero - che alzatosi da terra dove s’era
buttato, stava spolverandosi la neve dal cappotto - immagini di voragini aper-
te nel ghiaccio, e di misere donne e bambini e cavalli annaspanti come topi
nell’acqua gelida; gliene venne quasi un senso di nausea.
Ma tutto passa. Passò anche il senso di nausea, passarono alcune lentissime
ore. Andava facendosi buio. La colonna di profughi, dopo essersi ripetutamen-
te fermata, s’era arrestata del tutto: segno, secondo Tadeusz, che i ‘ponti di
ghiaccio’ erano stati interrotti.
A rimanere così all’aperto il freddo si faceva sempre più sentire; perciò il
trattorista tedesco - che tendeva a considerare i suoi due compagni piuttosto
volontari che prigionieri - propose loro di dare inizio a un turno di guardia:
mentre uno dei tre sarebbe rimasto sull’automezzo carico, gli altri due si sa-
rebbero riposati all’interno d’uno degli edifici. Procedettero senz’altro.
I profughi intanto cominciavano a rifluire dalla laguna: i più tornavano in
città, ma molti s’accampavano sotto il primo riparo che gli capitava; l’anziano
sottufficiale tedesco comandante il deposito fece aprire per loro due capanno-
ni vuoti, ed essi vi si stiparono in breve all’inverosimile, mentre non pochi altri
s’accampavano all’esterno, nei carri. Molti raccolsero sterpi e pezzi di legno e
accesero piccoli fuochi, su cui cominciarono a cuocere gli alimenti, adoperan-
dosi anche perché i bambini vi si scaldassero intorno.
Che situazione, pensava Pierello osservandoli dal trattore: in che stato
s’erano ridotti, loro che pure erano gente così in gamba! D’altra parte il castigo
i tedeschi se l’erano voluto, al riguardo non esistevano dubbi. Perché poi gente
che per tanti aspetti era in gamba come nessun’altra, avesse scelto di fare tan-
te prepotenze e mascalzonate, era una cosa che lui - per quanto ci pensasse -
non riusciva a spiegarsela. Mah!
(Noi non troviamo gratuita la sua perplessità. Se è vero che non esistono
popoli superiori, né inferiori, agli altri, è anche vero che ogni popolo ha un
proprio momento di particolare efficacia, in cui è chiamato a costruire con
grandezza non solo per sé ma per tutti, e secondo ogni verosimiglianza il no-
stro avrebbe dovuto essere il secolo dei tedeschi. Li abbiamo visti al culmine
delle possibilità realizzatrici, come devono essere stati gli elleni nel loro tempo
più felice, quando diedero alla civiltà quell’incommensurabile apporto, come i
romani alcuni secoli più tardi, e gli italiani nel medio evo, e gli spagnoli nel
cinquecento, quando furono tali da arrestare nel vecchio mondo la minaccia
dell’Islam e in pari tempo da colonizzare il nuovo. Come i francesi nel sette-
cento, come infine nell’ottocento gli inglesi, quando con la macchina e
l’industria moderna hanno creato nuove, impensate possibilità di vita per
l’umanità intera. Disgraziatamente il loro grande momento i tedeschi l’hanno
sciupato al seguito di falsi maestri, in un’impresa del tutto contro Dio, esclu-
dendosi con ciò dalla possibilità di costruire alcunché. E non basta: lo sperpe-
ro delle loro immense energie - di cui gli ultimi brandelli avrebbero portato
l’uomo sulla luna - e la perdita d’un numero così spaventoso di loro, uomini
dotati di fermezza oggi introvabile altrove, avrebbero negli anni a venire rap-
presentato per l’umanità intera un impoverimento forse irreparabile.)

CAPITOLO DODICESIMO

Al termine del turno di guardia di Pierello, subentratogli il trattorista, Ta-


deusz prese in disparte l’amico e con fare guardingo (sebbene non ce ne fosse
bisogno) gli comunicò d’avere fatta una scoperta sensazionale: in uno dei ca-
pannoni c’era, nientemeno, l’Edvige, la deportata polacca del podere Hufen-
bach. Da lei Tadeusz aveva appreso che le donne e i bambini avevano lasciato
il podere in tempo - anche se trotschi (appena) in tempo - che avevano percor-
sa non poca strada sui due carri, e a quest’ora sarebbero stati tutti al sicuro al
di là della laguna, se due giorni prima certi uomini non avessero rubato loro
carri e cavalli. Sembrava che la vedova Hufenbach avesse inseguito con insi-
stenza i ladri, invocando inutilmente l’aiuto degli altri profughi, finché era sta-
ta dai ladri percossa sulle gambe in modo tale da non poter più camminare.
Dopo di che le inservienti e i figli l’avevano faticosamente trascinata fin quasi
alla laguna sullo slittino di Joachim: adesso - s’egli aveva ben capito - doveva
trovarsi poco lontano da qui.
Mentre Tadeusz riferiva, Pierello s’animava e cominciò a chiedergli dei par-
ticolari; finì che senza por tempo di mezzo l’amico lo accompagnò
dall’inserviente polacca.
La quale sedeva per terra nel capannone, in circolo con tre donne tedesche
più anziane e non meno infagottate di lei; stavano tutt’e quattro attorno a un
fuoco bluastro, su cui sfrigolava una padella con del lardo. L’ambiente era
pieno di fumo e la gente vi era stipata; ma senza chiasso, e il diffuso odore del
lardo e dello strutto riusciva in qualche modo confortante.
«Ciao, Edvige, ciao, come va?» la salutò festoso Pierello.
La donna gli rispose con un mesto sorriso; s’era tolta dal capo il fazzoletto, e
i capelli, riuniti in un’unica treccia biondastra, le pendevano lungo una gota:
appariva stanchissima, sfibrata. Strinse, sorridendo appena, la mano che il
giovane insisteva a tenderle.
«Se c’eravate voi due, quelli non ci avrebbero rubato 1 cavalli» mormorò in
polacco, «e a quest’ora saremmo dall’altra parte della laguna.» Tadeusz tra-
dusse.
«Ma dì, com’è andata?» chiese Pierello: «racconta.» Però si corresse subito:
«Non voglio stancarti: vorrei solo sapere come mai la vedova Hufenbach e i
bambini non sono qui anche loro.»
La donna lo fissò quasi con paura. «Non è per colpa mia» disse; «la slitta
era piccola ma troppo pesante per noi, e io, Birgitte e Joachim l’abbiamo tra-
scinata per quasi due giorni con la vedova e il lardo sopra... poi non ce
l’abbiamo fatta più, non riuscivamo proprio più.»
Tadeusz, dopo essersi adoperato a calmarla, tradusse per Pierello. «È stata
Birgitte ad andarsene per prima. Voleva che la vedova rimanesse qui a Braun-
sberg: ‘In città distribuiscono ai profughi da mangiare’ le ripeteva ‘si fermi.
Tanti altri si fermano. Si fermi anche lei il tempo occorrente perché le gambe
la reggano, poi si rimetterà in marcia.’ ‘No’ diceva la vedova ‘no. Devo portare
i bambini oltre la laguna, al di là della laguna. Là mi lascerete anche sulla
strada, all’aperto, non importa, ma fuori del pericolo.’ Oggi pomeriggio, dopo
l’attacco di quegli aerei» seguitò Edvige «Birgitte non se l’è sentita più: quan-
do s’è alzata da terra non ha più ripreso la corda dello slittino, capite? Se n’è
andata per conto suo. Cosa potevo fare io? Ho anch’io i miei bambini a casa, e
non voglio essere fottuta da quelle bestie.»
«Ti capisco» le disse Pierello con pietà: «Credi forse che ti rimproveri?
Scherziamo? Io, se va bene, non ho mai rimproverato nessuno in vita mia.
Cercavo solo di sapere se... Insomma se adesso si può fare qualcosa. Hai idea
di dove siano in questo momento la vedova e i bambini?»
Con sua sorpresa la donna accennò di sì. «Io e Joachim abbiamo tirata la
slitta in quel boschetto d’abeti che sta a fianco della strada: ‘Al riparo degli
aerei’ io dicevo, ma in realtà era perché avessero un po’ di riparo per la notte.
Poi le ho detto: ‘Vado a cercare aiuto’. I bambini piangevano, capivano che
non sarei più tornata. Anche la vedova ha capito: ‘Prendi un po’ di lardo, Ed-
vige’ mi ha detto: ‘Gliel’hai strappato tu dal carro, prendine un po’. Se no po-
tresti morire di fame.’» Nel riferire queste parole Edvige lacrimava.
«Non piangere» le disse Tadeusz «tu hai fatto tutto quello che hai potuto.
La guerra non l’abbiamo mica voluta noi.»
«Non piangere» le ripeté Pierello, una volta edotto dell’accaduto: «Però
quale boschetto? Di che boschetto si tratta?»
«D’abeti o pini, non so» rispose Edvige, inghiottendo le lacrime «gli unici
alberi ancora con le foglie: l’unico boschetto verde che c’è a lato della strada.»
«A quanti chilometri da qui?»
«Forse tre, forse quattro, o cinque, non saprei dire, là sulla destra della
strada che porta alla laguna.»
«Bene» concluse Pierello; e senza un attimo d’esitazione: «Mi sa che io va-
do a cercarli.» (Tadeusz da prima lo guardò meravigliato, rifletté alcuni se-
condi, quindi tradusse in polacco per la sua connazionale: «Noi andremo a
cercarli.») «Tu» continuò Pierello rivolto a Edvige: «cosa intendi fare?»
Guardò le tre donne tedesche che, sedute intorno al fuoco, cercavano invano
di seguire quel discorso in italiano e in polacco fatto dai due uomini in som-
maria divisa tedesca: «Ti sei messa con loro, adesso?»
«Sì» rispose Edvige. «Sono state loro a chiamarmi. Hanno un carro, ma una
sola, lei, è in grado di condurlo, e non ce la fa più. Ormai io sono con loro. È la
Vergine di Czestochowa che me le ha fatte incontrare, perché io possa tornare
dai miei bambini.» Guardò la meno anziana delle sue tre compagne e le sorri-
se; quella le rispose con un contenuto sorriso, annuendo col capo. «Appena
finito di mangiare noi due andiamo a metterci sul carro» disse stancamente
Edvige, «che non ci rubino anche questo.»
Tadeusz si cacciò una mano in tasca e la ritrasse piena di carta moneta: «I
tedeschi m’hanno appena data la paga» disse «ma a me non serve. Servirà
meglio a te.» Ciò detto ficcò quasi con impeto il denaro tra i risvolti del cap-
potto della sua compatriota, la quale cercava di respingerlo: «No, e tu? e tu?»
Pierello, che pur senza conoscere il polacco aveva capito, afferrò la destra
della donna, gliela trattenne, e gliela strinse con trasporto: «Non preoccuparti
per lui» le disse, «non preoccuparti. Dividerò io la mia paga con Tadeusz.
Ciao, Edvige, ciao.»
I due uscirono dal capannone.

***
Stesi un po’ in disparte nel locale semiriscaldato in cui - su coperte disposte
per terra - giacevano diversi soldati, presero ad architettare il loro piano.
«Sei proprio deciso a venire anche tu?» chiese anzitutto sottovoce Pierello
all’altro.
«Adesso me lo domandi? Dopo che hai deciso alles (ogni cosa), lo doman-
di?»
«Tu sei libero» sentenziò sempre sottovoce Pierello «puoi scappare con me
se vuoi, oppure restare. Sei libero.»
«Libero io, o prigioniero? Dai, Piero, dinn pù de vacàd (non dire più scioc-
chezze)» puntualizzò Tadeusz in dialetto nomanese. «Dai dichiamo invece
cosa fare.» In realtà non sembrava scontento della decisione presa dall’altro
anche per lui.
«Basta col rischiare la vita» gli fece osservare Pierello. «Se continuiamo a
stare in linea coi tedeschi finiremo per forza con l’essere uccisi; anzi è già un
miracolo che c’è andata bene fino a oggi.» «Ja» convenne Tadeusz «ja. Penso
anch’io sempre. Dai Piero, dichiamo cosa fare.»
Convennero che smammare immediatamente non sarebbe stata la scelta
migliore: come ritrovare la vedova nel buio? Meglio aspettare il successivo
turno di guardia del trattorista (i turni erano di tre ore ciascuno); nel frattem-
po avrebbero potuto dormire un po’ al caldo: avevano parecchio sonno in ar-
retrato tutt’e due.
Ma addormentarsi non era facile dopo una decisione così grave e improvvi-
sa e non abbastanza meditata. Tadeusz tuttavia ci riuscì, non Pierello, la cui
mente seguitava a lavorare e lavorare, passando senza requie da cosa a cosa,
da prospettiva a prospettiva; e se a momenti un pensiero quieto la avviava alla
stasi e al sonno, subito dopo un altro preoccupante la riscuoteva ed eccitava. Il
giovane allora si voltava e rivoltava su sé stesso.
Da alcuni segni si accorse, dopo un certo tempo, che anche uno dei tedeschi
sconosciuti sdraiati nel locale - quasi tutti conducenti d’automezzi o loro aiu-
tanti - non riusciva ad addormentarsi: lo sentiva muoversi, e ogni tanto emet-
tere una sorta di contenuto sospiro. Sospettoso com’era a causa della decisio-
ne presa, Piero si domandò più volte se questo fatto avrebbe costituito un
ostacolo per lui e per Tadeusz; col passare delle ore lo prese anche una certa
curiosità di conoscere il motivo per cui l’altro non poteva dormire; avrebbe
voluto scambiare qualche parola con lui, ma come? l’ostacolo della lingua era
insuperabile.

Rientrò il trattorista tedesco e accese la sua torcia elettrica. Pierello, levatosi


a sedere, allungò una mano per svegliare Tadeusz, cui sarebbe toccato il nuovo
turno; ma il tedesco gli fece segno di no: venutogli vicino gli fece capire più
con i gesti che con le parole che non occorreva, che alla sorveglianza del trat-
tore avrebbero d’ora in poi provveduto altri, forse le sentinelle del deposito,
con cui egli probabilmente si era accordato. Sorrise, aspettandosi un gesto di
gratitudine, che Pierello riuscì ad abbozzare a fatica; poi, dopo aver esplorato
intorno con la sua torcia elettrica, andò a sdraiarsi nell’area circostante la stu-
fa.
Questo mutamento di situazione mise in un nuovo stato d’ansia Pierello,
che tuttavia poco alla volta si calmò: il trattorista non sospettava di niente,
stanco com’era (tutti quanti i soldati tedeschi erano in permanente tensione:
non lo sottolineeremo mai abbastanza) si sarebbe certo addormentato, non
occorreva dunque modificare il piano. Così, più o meno al momento previsto -
un’ora circa prima della luce - lui e Tadeusz sarebbero scivolati fuori secondo
avevano concertato; soltanto che adesso egli doveva badare bene a non ad-
dormentarsi. Di lì a non molto sentì il trattorista russare, e poco alla volta la
sua mente tornò ai pensieri precedenti; ma si ripeteva di continuo che doveva
stare attento, molto attento a non addormentarsi. Trascorsero ore.
Il tedesco sconosciuto - che all’entrata del trattorista si era finto addormen-
tato - seguitava a rimanere sveglio. Pierello se ne rendeva conto, e di nuovo
avrebbe voluto sapere perché. Quale, fra le tante possibili cause d’angoscia, lo
tormentava, povero disgraziato anche lui?

Da lontano, probabilmente da est, giunse un improvviso brontolio come di


tuono, che si stabilizzò e andò avanti senza cessare; ogni tanto i vetri del locale
ne vibravano un poco. “L’artiglieria russa” realizzò il giovane. “Dunque prepa-
rano un attacco, appena spunta l’alba attaccheranno.” Pensò ai soldati che
stavano nelle trincee sotto quei colpi: veterani coraggiosi e duri, ma pur sem-
pre esseri umani, e ragazzini con le facce tirate, e quei vecchioni del Volks-
sturm. Non sarebbe finita mai questa maledetta guerra? Lo prese a un tratto il
dubbio che in realtà fossero trascorse più ore di quante egli supponeva: i russi
attaccano sempre all’alba, forse l’alba era vicina? Aprì gli occhi: il buio, nel
locale e fuori, oltre i vetri, era tuttora profondo. Richiuse gli occhi.
Il brontolio lontano continuava senza smettere.

CAPITOLO TREDICESIMO

Durava ancora, sempre uguale a sé stesso, quando Pierello prima, e alcuni


minuti dopo di lui Tadeusz, uscirono dal locale. Fingendo, anche se nessuno li
osservava, una necessità corporale, si portarono come avevano stabilito di
fianco al capannone così da defilarsi alla sentinella del deposito; del resto la
sentinella in quel momento non era in vista. Nelle tenebre che ancora non ac-
cennavano a schiarire essi scorgevano all’intorno un’irregolare distesa di carri;
vi si addentrarono con circospezione.
Sopra i carri e anche sotto, per terra, c’era gente coricata; qualche bambino
piangeva sommesso; i cavalli, tutti in piedi e come rattrappiti, parevano statue
di sofferenza.
Per i due era vitale raggiungere anzitutto, senza destare allarmi, la strada
che portava alla laguna: la indicava in qualche modo, nello sporco riverbero
della neve, il filare d’alberi spogli che la fiancheggiava. Mentre procedevano in
quella direzione, si sforzavano di farsi schermo dei carri tra cui camminavano;
entrambi s’erano inoltre coperti le spalle e la testa con la propria coperta, au-
gurandosi che ciò servisse a confonderli coi civili.
Nessuno ad ogni modo badava a loro; soltanto, da sotto un carro, sbucò un
cagnetto bastardo che, dopo averne fiutato i calcagni, si accodò a Pierello.
«Cosa vuoi tu?» sussurrò questi dopo alquanti passi: «Non vedi che ingran-
disci la carovana? Passa via» e lo minacciò con un piede. La bestiola si fermò
un attimo, quindi riprese a seguirlo guardinga, tenendosi un po’ più a distan-
za.
Giunti sulla strada si diedero a percorrerla, superando man mano un gran
numero di carri in sosta. Adesso il problema era d’individuare il boschetto
d’abeti o pini di cui aveva parlato Edvige: aveva detto che si trovava sulla de-
stra forse a tre, forse a cinque chilometri, un’indicazione piuttosto vaga. Le
parole della donna tuttavia rendevano Pierello incline a credere che
l’avrebbero trovato, non solo, ma che nel boschetto avrebbero trovato la vedo-
va e i bambini. Non aveva forse detto l’Edvige ch’era stata la Madonna a indi-
rizzarla al nuovo carro da cui le sarebbe venuta la salvezza? Nella sua sempli-
cità di cuore Pierello se n'era persuaso senz’altro. La Madonna però - egli ri-
fletteva adesso - non poteva nello stesso tempo, volere anche ‘una cattiva
azione’, ossia la morte per abbandono della vedova inferma e dei suoi bambi-
ni: dunque non soltanto aveva indirizzata l’Edvige al nuovo carro, ma le aveva
anche fatto incontrare Tadeusz, e adesso a Tadeusz e a lui avrebbe fatto incon-
trare quei poveracci abbandonati.
Più che d’un ragionamento si trattava d’una percezione: in sostanza Pierello
avvertiva d’avere a che fare con uno di quegli interventi del Trascendente che
si verificano a volte nei casi degli uomini allorché è in gioco la loro sorte ulti-
ma. (Anche in Germania dunque se ne verificavano ancora!) Gliene venne un
senso di conforto che l’aiutava tra l’altro - in un frangente per il resto così buio
- a dominare la propria impazienza e tensione.
Le quali certo non mancavano; tanto che un paio di volte il giovane cercò di
scaricarle sul malcapitato cagnetto: «Passa via. Cosa ci segui a fare? Va dal tuo
padrone, che noi non abbiamo da mangiare.» La bestiola sostava per un atti-
mo, poi però riprendeva a seguirlo, quasi fosse lei pure dominata dalla smania
d’andare avanti.
Il lontano rombo, come di tuono, dell’artiglieria russa intanto continuava,
sull’orizzonte di est si scorgeva un lampeggiamento incessante.
Dopo forse mezz’ora che i due erano in cammino, sempre là verso est il cielo
principiò lentamente a schiarire. Dov’era mai ficcato quel bosco di pini? Forse
l’Edvige non aveva valutata bene la distanza? Forse si trovava in realtà vicino
al deposito, ed essi nel buio non l’avevano visto? Ogni tanto adesso notavano
sintomi di risveglio tra i carri fermi al margine della strada: qui una donna coi
capelli scomposti stava accendendo un fuocherello, là un prigioniero francese
dal cappotto mal messo ripuliva con un pugno di paglia un cavallo dalla brina.
Più avanti alcuni carri stavano già rimettendosi in viaggio; qualche altro rag-
giungeva la strada da piccoli bivacchi nei campi ai suoi lati: erano ancora ben
lontani dal riempirla, però i due fuggiaschi camminavano ormai con carri sia
davanti che alle spalle.
Finalmente scorsero, dentro un avvallamento poco profondo, il bosco di
conifere: non verde a quell’ora, ma tutto imbiancato dalla galaverna. Notaro-
no, nell’avvicinarsi, ch’era zeppo di profughi, parte ancora in stasi, parte già in
movimento; qualche carro ne stava uscendo e dopo aver risalita una breve
scarpata entrava nella strada. Pierello e Tadeusz faticarono a non mettersi a
correre; nel bosco trovarono la neve fittamente calpestata e cosparsa di rifiuti
che il cagnetto annusava, si scorgevano tra i carri in sosta resti di fuochi, og-
getti buttati via, sterco equino ed umano. Subito Tadeusz cominciò a doman-
dare a destra e a manca - nel suo pessimo tedesco - se qualcuno avesse visto
una donna con due ragazzini così e così: c’era chi non gli badava o non lo capi-
va, alcuni gli risposero di no, che non l’avevano vista, altri lo guardavano dub-
biosi. Un prigioniero polacco, che stava dando da mangiare ramoscelli d’abete
a due cavalli scheletrici, gli rispose che sì, aveva visto una donna e due bambi-
ni con uno slittino, accovacciati a dormire sotto un albero là, quasi all’opposto
margine del bosco. Ma affrettatisi a quel punto i due non vi trovarono nessu-
no. Possibile che gli Hufenbach fossero ripartiti da soli? O forse qualcuno ave-
va dato loro ospitalità? E si trattava proprio degli Hufenbach o di altri? Stava-
no per tornare sui loro passi, quando finalmente Pierello li scorse: erano im-
mobili su una pista minore che uscendo dal bosco risaliva obliquamente la
scarpata verso la strada.
«Eccoli là» disse eccitato a Tadeusz: «guardali Tadeusz, sono loro.»
«Sì» rispose Tadeusz «sì.»
«È la Madonna» esclamò Pierello «che ce li fa ritrovare!» Si affrettò insie-
me con l’altro verso il gruppetto, esultante come se avesse visto qualcuno di
casa sua; il cagnetto li seguiva esultante pure lui.
Davanti ai due prigionieri avanzava sulla ristretta pista un carro, che sor-
passò lo slittino deviando solo dello stretto necessario per non urtarlo. Sopra
lo slittino era seduta la vedova, molto infagottata, davanti - alla fune - stavano
Joachim e il fratellino di dieci anni. Joachim tese con gesto supplichevole la
mano libera alla gente del carro, invocando inutilmente il suo aiuto: i due
bambini, era chiaro, non ce la facevano a superare la piccola salita.
Come i due prigionieri gli furono vicini, Joachim senza riconoscerli tese an-
che ad essi la mano supplice: «Soldaten» invocò con voce piangente «Solda-
ten diese ist meine Mutter (questa è mia madre).»
«Joachim» urlò allora Pierello balzando avanti e afferrando con ambe le
mani il viso del bambino: «Non mi riconosci, Joachim?»
Il bambino lanciò un grido, anche l’altro lasciò cadere la fune e si mise a
gridare.
«Dunque siete proprio voi, eh» diceva eccitato Pierello in dialetto nomane-
se: «e così vi abbiamo trovati, porca miseria!»
Joachim lo abbracciò, si strinse a lui convulsamente; il più piccolo seguitava
a tendere un braccio verso i due soldati, senza più parlare; Tadeusz si chinò su
di lui, gli pose la destra sul berretto di pelo e glielo spinse più volte avanti e
indietro, scarruffandolo: «Coraggio» ripeteva nel suo pessimo tedesco: «fatevi
coraggio, adesso siamo qui noi. Non siete più soli.»
Sempre tenendo Joachim, Pierello si rivolse alla vedova che li guardava ri-
gida e incredula: «E la Madonna che ci manda» dichiarò, senza riflettere che
quella era protestante: «la Madonna.»
L’anziana donna annuì; lacrime cominciarono a scorrerle sul volto dai li-
neamenti arcigni e sfatti, male incorniciato da uno scialle scuro. «Die Got-
tesmutter sei gelobtl (sia ringraziata la madre di Dio!)» disse infine.
Occorse un po’ di tempo a tutt’e cinque per calmarsi; poi cominciarono le
domande, le informazioni, le spiegazioni reciproche. Quindi Pierello e Ta-
deusz esaminarono lo slittino lungo poco più d’un metro, e lo trovarono trop-
po piccolo e fragile: in effetti si trattava d’un giocattolo; risolsero che appena
possibile l’avrebbero sostituito con un veicolo più adatto: «Ma non subito.
Adesso, per prima cosa, dobbiamo attraversare la laguna e non pensare ad
altro. Poi provvederemo.»
«Sì» approvarono i tre tedeschi «la laguna. Prima passiamo la laguna.»
Quella era con evidenza la loro fissazione, come di tutti gli altri fuggiaschi.
I due prigionieri stavano per afferrare il pezzo di legno cui era attaccata la
fune dello slittino, quando la vedova Hufenbach fece loro notare che con quei
cappotti militari indosso avrebbero incontrato serie difficoltà ai posti di bloc-
co. I due se ne rendevano conto, e segretamente temevano molto tali difficol-
tà, ma che fare? Per Pierello si provvide mediante un pastrano del defunto si-
gnor Hufenbach, assai spiegazzato, su cui la vedova stava seduta; anche Ta-
deusz - dopo qualche tergiversazione (lui era più disposto a rischiare, più fata-
lista) - sostituì in via provvisoria il proprio cappotto con una coperta di lana
color tabacco, nella quale praticò un taglio per infilare la testa; se la strinse poi
alla vita con uno spago. I due cappotti della Wehrmacht, opportunamente ri-
piegati, e le due coperte militari, finirono sullo slittino: della divisa tedesca
addosso ai due prigionieri rimasero soltanto le grige bustine a visiera.
Dopo di che la piccola carovana si mosse, col cagnetto bastardo in retro-
guardia; la breve naia tedesca di Pierello - durata poche settimane durante le
quali egli aveva forse corso più rischi mortali che durante la pluriennale naia
italiana - era finita.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Sulla sponda della laguna dovettero attendere per ore, mescolati a innume-
revoli altri; senza darlo a vedere i due prigionieri - in particolare Pierello - si
guardavano ogni tanto intorno, segretamente preoccupati che qualcuno so-
praggiungesse a cercarli. Uno scarno e tuttavia efficiente servizio d’ordine di
soldati non consentiva ai carri di scendere a caso la breve scarpata, ma li ob-
bligava a scendere uno alla volta, e a imboccare, distanziati tra loro d’una de-
cina di metri, il ‘ponte di ghiaccio’. Che almeno nel primo tratto, dove sulla
laguna c’erano pozze d’acqua e poltiglia, era formato di tavole di legno grezzo
collegate tra loro e sprofondate per oltre la metà dello spessore nel ghiaccio
verdastro.
Dalla sponda su cui sempre più numerosi carri e profughi a piedi si anda-
vano ammassando, si scorgeva la lunghissima fila di quelli in movimento per-
dersi lontano sopra la laguna infida. Cupo era il cielo, di nuvolaglia mista a
nebbia, l’ambiente desolato al di là d’ogni immaginazione. Certe pariglie di
cavalli si rifiutavano d’imboccare il ‘ponte di ghiaccio’, sbuffavano, puntavano
i piedi: allora il conducente (che spesso era una donna) da una parte, e un sol-
dato dall’altra, le costringevano; appena sulle tavole tali pariglie affrettavano
magari il passo spaventate, e il conducente e il soldato le trattenevano con
sforzo, finché non avevano assunta l’andatura giusta; dopo di che il soldato
tornava indietro, per ripetere l’operazione.
Venne anche la volta dei nostri profughi, i quali non si erano nel frattempo
accorti d’aver perduto il cagnetto, a tal punto immedesimatosi dell’impazienza
degli uomini, da andarsene di soppiatto dietro uno dei carri scesi prima del
loro sul ghiaccio.
Sopra le tavole di legno lo slittino era duro a tirarsi; ogni tanto Pierello e
Tadeusz si voltavano a dargli un’occhiata, temendo che si sfasciasse. Final-
mente le tavole cessarono, la pista continuava sul solo ghiaccio dove, mentre il
pericolo d’uno sfasciamento del veicolo era minore, tirare costava anche meno
fatica. I due prigionieri tenevano il passo con la colonna, attenti a conservare
le distanze; non si trattava d’un passo molto spedito per fortuna, determinato
com’era da un gran numero di cavalli sfiniti, alcuni appena in grado di trasci-
narsi. “È l’andatura che ci vuole per noi” pensava Piero, nel quale cominciava
a stemperarsi l’ansia segreta che fino allora l’aveva occupato, di veder capitare
qualcuno alla loro ricerca.
Poco alla volta la riva alle spalle venne cancellata dalla foschia fino a scom-
parire; adesso i fuggiaschi non scorgevano che la colonna in movimento da-
vanti e dietro di loro: sapevano di dover percorrere a quel modo circa nove
chilometri. Nonostante il freddo Pierello cominciò a sudare: la marcia andava
malgrado tutto rivelandosi faticosa, ed egli era stanco della stanchezza del
fronte che si assomma e stratifica nelle ossa, aveva inoltre parecchio sonno in
arretrato, nella notte precedente non aveva dormito un solo minuto... La co-
lonna che procedeva in silenzio, e sembrava non avere né principio né fine,
cominciò a dargli una strana sensazione d’irrealtà. Gli accadde, col trascorrere
del tempo, di chiedersi dove mai stessero andando tutti in fila a quel modo, in
quell’aria smorta che non sembrava affatto di questo mondo. E cos’era quel
lontano incessante accompagnamento come di tuono, che ormai gli era entra-
to nel cranio, e non s’interrompeva mai, mai? Cercò di prendersi in giro, quin-
di d’argomentare con sé stesso: finì, senza rendersene conto, con
l’argomentare a mezza voce. Lo risvegliò Joachim, che l’aveva afferrato per
una mano e gliela scuoteva, chiedendo di dargli il cambio. «No, no, Joachim»
esclamò Pierello in dialetto «cosa ti salta in mente? Macché cambio. Ci man-
cherebbe altro.» Inspirò profondamente un paio di volte e sorrise con aria
d’intesa al bambino. Però, Signore Iddio, una faccia di bambino, che conforto!
Richiamava la casa, i giorni di pace... Pierello, un po’ vergognoso per quanto
gli era successo, decise di ‘tenersi in mano’ (secondo s’esprimevano i tedeschi,
cioè di dominarsi) con più energia. Fece a Joachim il muso del coniglio per
farlo ridere, e ogni pochi passi glielo ripeteva, con movimenti buffi del naso e
della bocca, finché il bambino, rinfrancato, si provò sorridendo a imitarlo,
senza più pensare ad altro.
Ecco i segni del bombardamento del giorno prima. No, non poteva trattarsi
di quello del giorno prima, perché il ghiaccio negli squarci era già troppo con-
solidato. La pista deviava e procedeva a grandi zig zag tra pali con frecce di
legno che indicavano il percorso; dal ghiaccio nuovo affioravano timoni e
sponde di carri, e panni e, guarda, in quel punto una mezza testa di cavallo.
Oh, che brutta vista! Meno male che oggi c’era quella nuvolaglia bassa, così
forse gli aerei non sarebbero venuti. Forse. Sul ghiaccio a lato della pista si
scorgevano oggetti e involti, buttati certo dai carri per alleggerirli; poi ecco
uno, due, più carri abbandonati, qualcuno con le ruote spezzate, qualche altro
semi impennato e parzialmente assorbito dal ghiaccio. Per un certo tratto in
questo luogo erano state sistemate sulla pista delle tavole di legno come
all’inizio del ‘ponte’, e le ruote dei carri vi passavano sopra sobbalzando.
Eccolo là, dopo circa un altro chilometro di strada, il luogo del bombarda-
mento di ieri: una zona abbastanza vasta. Vi si scorgevano dei soldati - non
molti - in piedi sul ghiaccio, che tenevano lontana dai punti pericolosi la co-
lonna e indicavano il percorso, il quale a volte passava tra squarci abbastanza
vicini tra loro.
«Dove sono quelli del partito?» chiese a un tratto la vedova (e sottintende-
va: «loro che ci hanno messo in questa situazione?»): «Tutto ai soldati tocca
fare?»
Qui nei cerchi d’acqua sporca, appena coperta da un velo di ghiaccio, affio-
ravano non solo carri e cavalli e oggetti, ma anche corpi umani. «Povera gen-
te» mormorò Pierello, e a Joachim, che seguitava a camminargli al fianco: «Tu
non guardare, Joachim, guarda dall’altra parte.»
Lui e Tadeusz però guardavano, e proprio in una di quelle tragiche gore Ta-
deusz scoperse qualcosa che avrebbe potuto fare al caso loro: lo indicò a Pie-
rello, si scambiarono qualche frase, poi, concordemente, tirarono lo slittino
fuori pista e fecero alt.
«Voi aspettatemi qui» disse Pierello agli altri «che io vado a dare
un’occhiata»; e mentre il polacco spiegava alla vedova la ragione della sosta, si
avvicinò guardingo allo squarcio; negli ultimi metri lo favorì il fatto che sul
labbro della spaccatura un grande lastrone si era sovrapposto al pavimento di
ghiaccio, raddoppiandone lo spessore. Nell’acqua brunastra affiorava un car-
retto capovolto, lungo forse un paio di metri e con le ruote in apparenza sane.
Un soldato tedesco di vedetta poco lontano gridò qualcosa, poi, vedendo
che il prigioniero non si scostava, venne irritato verso di lui. Fu tuttavia pro-
prio col suo aiuto, e con un rampone (che il soldato, piuttosto anziano, dopo
avere severamente predicato, era andato a prendere al suo posto di staziona-
mento) che Pierello e Tadeusz poterono trarre dall’acqua il piccolo carro. Il
quale risultò del tipo da fieno, leggero, con le pareti a rastrelliera e il timone a
mano: aveva effettivamente tutt’e quattro le ruote in buono stato.
Il trasferimento della vedova (molto sofferente quando si alzava in piedi) e
delle sue poche cose sul carretto non richiese gran tempo; tra le braccia della
donna venne da Pierello - tuttora un po’ vergognoso della debolezza dimostra-
ta in precedenza - sistemato il bambino più piccolo.
Dopo un’altra ora di marcia, e tre complessive trascorse sulla laguna, la pic-
cola comitiva chiusa da Joachim, che a ogni buon conto si tirava dietro il suo
slittino vuoto, raggiunse finalmente la sponda opposta. Solo qui Joachim si
decise ad abbandonare lo slittino: lo lasciò giudiziosamente bene in vista, se
mai qualcuno ne avesse bisogno. Malgrado il suo atteggiamento serio e risolu-
to, da piccolo tedesco, che faceva sorridere Pierello, egli in realtà era sfinito,
stanco da morire.
I cinque si trovavano da poco sulla terra ferma che alle loro spalle schiattò
un violentissimo frastuono d’esplosioni, mescolato a scariche di mitragliatrici
e a rombi di motori; immediatamente arrivarono anche gli aerei nemici, quat-
tro, bassissimi, impetuosi, i cui colori risaltavano vivaci per contrasto contro il
cielo grigio. Giunti alla sponda essi curvarono con un assordante boato, e
s’allontanarono sopra la terra ferma sparando incessantemente con le mitra-
gliatrici sulla colonna dei profughi; scomparvero in un attimo verso ovest.
«Anche stavolta ci è andata bene» commentò Pierello, levandosi con uno
stanco sorriso dalla neve nella quale si era prontamente buttato. A loro era
andata bene, sì, ma agli altri, specie a quelli in cammino sul ghiaccio? E
com’era andata al soldato predicatorio, che li aveva aiutati a recuperare il car-
ro? Che n’era in questo momento di lui? Ma non bisognava pensarci: uno non
può contenere in sé i guai di tutti.

CAPITOLO QUINDICESIMO

La Frische Nehrung, l’esigua striscia di sabbia lunga forse sessanta chilome-


tri, che separa la laguna di Koenigsberg dalle fredde acque del mar Baltico,
brulicava di profughi e di carri, tutti in movimento verso ovest. Essa emergeva
di qualche decina di metri dal piano delle acque (ghiacciate, come s’è detto,
quelle interne, agitate invece e fittamente increspate di spuma bianco-sporco
quelle del mare) e pareva allungarsi senza fine in entrambi i sensi.
II bombardamento dell’artiglieria, laggiù verso est, era di colpo cessato: for-
se si trattava d’una pausa, o forse i temuti nemici stavano facendosi sotto, e
chissà come venivano avanti vociando, preceduti da una valanga di piombo,
ubriachi d’alcol, misera, inferocita carne da macello anche loro... Qui sulla
Nehrung ad ogni modo c’era un tangibile silenzio, reso più evidente dal docile
scricchiolio delle ruote dei carri, dallo stridore dei pattini di qualche slitta,
nonché, a intervalli, dal sibilo del vento gelato che veniva dal mare.
Quant’erano le persone che cercavano di salvarsi sulla modesta strada
dell’istmo, usata un tempo soltanto dai pescatori? Pierello - in sosta con gli
altri per riprendere fiato e rifocillarsi un po’ - pensò che oltre ai ‘ponti di
ghiaccio’ doveva esistere un servizio davvero nutrito di traghetti al suo inizio,
là verso Koenigsberg, se i profughi a piedi d’aspetto cittadino erano tanto nu-
merosi. Notò con sorpresa che oltre ai profughi c’era anche qualche soldato:
dei soldati tedeschi privi di armi, isolati o in esigui gruppetti! Vide perfino due
giovanissime SS, appena più che ragazzi, dall’aria inebetita; provò pena per
quel suo prossimo: era inverosimile che non ci fossero più avanti degli sbar-
ramenti di ‘cani da guardia’: quale sarebbe stata la sorte di questi disgraziati?
Dopo il breve alt e lo spuntino la piccola comitiva si rimise in marcia, ma fu
di lì a poco costretta a uscire di strada per far luogo a un convoglio d’autocarri
militari che veniva in senso inverso, diretto a est: era un convoglio temibile,
come tutti quelli tedeschi, però a Pierello questo sembrava in qualche modo
raccogliticcio, forse anche male armato: comunque, egli si disse, era pur sem-
pre una forza che andava a frapporsi tra loro e il nemico. Joachim salutò quei
soldati agitando una mano, altri profughi domandarono loro gridando: «La
Seconda armata tiene? La strada per Danzica è sempre aperta?» I soldati ri-
sposero di sì, che era aperta, qualcuno cercò anche con gesti di rassicurare la
gente. Tuttavia a Pierello e a Tadeusz cominciava a essere chiara una cosa: che
l’aver superata la laguna non era ancora la salvezza, che il pericolo e
l’incertezza continuavano.
Dopo qualche ora dovettero lasciar libero il passaggio ad altri autocarri con
rimorchi - procedenti in senso inverso ai primi questi - stracarichi di soldati e
marinai feriti, alcuni malamente fasciati con strisce di carta igienica. Un pro-
fugo dai modi distinti che si trovava in quel momento accanto al carretto spie-
gò, non richiesto, che Koenigsberg e il porto di Pillau, allo stesso modo di tutte
le città di qualche importanza del territorio invaso, avevano l’ordine di tra-
sformarsi in ‘fortezze’, di resistere cioè fino all’ultimo uomo anche dopo cir-
condate, utilizzando ogni casa come bunker. Appunto per questo motivo -
spiegò il profugo distinto - i comandi cercavano di sgombrare in tempo i feriti
più gravi, non utilizzabili nella difesa.
La marcia sulla striscia sabbiosa della Nehrung durò alcuni giorni: i profu-
ghi nell’ultimo tratto erano così numerosi che quasi non ci stavano più, e molti
carri erano costretti a procedere sul ghiaccio della laguna in prossimità della
sponda, altri, ancor più faticosamente, sulla battigia del mare. Si calcolò poi
che ben due milioni di persone s’erano sottratte al nemico attraverso questa
via. Le soste obbligate dei carri e dei pedoni s’andavano facendo più frequenti.
C’era mancanza di tutto, ma sopra ogni cosa di acqua da bere, e scarseggiava
la legna per sciogliere la neve. Non pochi cavalli finirono col bere l’acqua sal-
mastra della laguna ed ebbero violente coliche, non furono più in grado di
proseguire. Intanto anche la temperatura s’abbassava, raggiunse i dieci, i
quindici gradi sotto zero. La gente e i cavalli cominciarono a morire.
Il carretto trascinato a mano da Pierello e Tadeusz arrivò alla Vistola il 2 o il
3 febbraio. Il movimento delle chiatte per il passaggio del cupo fiume, che
aveva visto nel corso dell’estate l’orrendo massacro dei partigiani polacchi in-
sorti a Varsavia, era continuo, incessante. Al di là, in Danzica-Oliva, c’era fi-
nalmente un servizio per l’assistenza ai profughi imponente e ben organizzato.
La piccola comitiva poté sostare qualche giorno: si constatò che entrambi i
piedi della vedova, e un braccio e il naso del bambino minore s’erano congela-
ti.
Ciononostante al pari degli altri profughi vennero fatti proseguire ancora a
piedi verso la Pomerania. Contemporaneamente all’offensiva russa infatti, e in
appoggio ad essa, aveva avuto inizio sulla rete ferroviaria tedesca un’altra of-
fensiva ad opera di migliaia e migliaia d’aerei anglo-americani, che la stavano
sistematicamente scardinando.
PARTE SETTIMA
CAPITOLO PRIMO

A Nomana l’intero mese di febbraio trascorse senza che giungessero nuove


di Pierello. Della grande offensiva russa si avevano notizie frequenti, anche da
parte della stampa e della radio fasciste; la gente però, qui come nel resto
d’Italia, s’interessava di più alla contemporanea offensiva aerea degli ‘alleati’,
molto propagandata da radio Londra. Sulla quale tuttavia non si avevano idee
ben chiare. Non ci si rese conto, tra l’altro, di cosa fosse realmente accaduto a
Dresda, in occasione del grande bombardamento del 14 febbraio: forse gli
stessi ‘alleati’ che l’effettuarono non se ne resero in un primo tempo conto. La
città, che costituiva il maggior nodo di smistamento verso il fronte orientale,
non disponeva più di difesa contraerea (le sue batterie essendo state tutte tra-
sferite al fronte con impiego anticarro), ed era intasata di convogli militari e
da un numero incalcolabile di profughi. La notte sul 14 febbraio essa venne
investita da una tale quantità di bombe inglesi, che si trasformò a un tratto in
un’unica, immensa fornace. Occorreva ossigeno per alimentare le fiamme e
perciò - come in una fornace ben costruita - si svilupparono nei canali delle
strade violente correnti d’aria che sollevarono cose e corpi umani trasportan-
doli di peso verso il centro della città anche per tratti di cento e più metri, e
buttandoli poi impetuosamente in alto. La mattina dopo il carnaio in fiamme
venne tempestato di bombe dai quadrimotori americani. Furono contati, nei
giorni seguenti, cinquantamila morti, ma era un computo incerto, fatto in al-
cuni quartieri solo sulla base delle teste umane carbonizzate che s’erano potu-
te ritrovare (dopo la guerra il computo sarebbe salito, gradualmente, fino a
centotrentacinquemila morti!)
Ciononostante i soldati tedeschi riuscirono a fermare i russi sull’Oder. Que-
sti fecero serrare sotto le proprie masse sterminate, e si ributtarono avanti; si
sviluppò così la seconda grande offensiva su suolo tedesco, che culminò nella
battaglia d’arresto della Neisse Occidentale. Bloccati di nuovo, i russi serraro-
no sotto un’altra volta, e frantumando letteralmente ogni cosa col ferro e
l’esplosivo (impressionanti sono le testimonianze fotografiche rimaste) diede-
ro inizio all’ultima grande offensiva, che li portò a Berlino.
Da occidente intanto gli eserciti americano e inglese, nonché quello france-
se, venivano avanti incontrando via via minor resistenza perché i comandi mi-
litari tedeschi - in contrasto con gli esasperati ordini di Hitler - andavano tra-
sferendo all’est quante più forze potevano, per difendere la popolazione dalle
violenze e dallo sterminio. Le divisioni tedesche sul fronte est passarono così,
tra gennaio e aprile, da 135 a 193: ma si trattava spesso di divisioni soltanto di
nome, ridotte, alcune, alla, forza di un battaglione e anche meno. Che però
seguitavano a combattere con immutabile tenacia tanto sulla linea del fronte
che nelle varie città rimaste indietro accerchiate, le cosiddette ‘fortezze’. A
fianco dei soldati resistevano con drammatico impegno i vecchi e i ragazzini
del Volkssturm, e anche i riformati della ‘organizzazione del lavoro’ (questi
ultimi armati a volte soltanto di panzerfaust): Koenigsberg ad esempio - sulle
cui difese Pierello aveva sentito l’artiglieria russa far fuoco in gennaio al mo-
mento della sua fuga - cadde soltanto il 10 aprile, dopo che alcuni dei difensori
superstiti, in preda a una sorta di disperata follia, ebbero sparato perfino sui
propri parlamentari che, con bandiera bianca, si recavano per ordine del ge-
nerale comandante a chiedere la resa.
Giusto in quel tempo - cioè nella prima metà di aprile - in Italia si risvegliò
il fronte appenninico, fermo da mesi alla ‘linea gotica’; cominciò allora a dif-
fondersi la sensazione che la guerra, stavolta, era sul punto di finire davvero.
Anche a Nomana Ambrogio l’avvertiva. Purtroppo col cambiamento di sta-
gione i postumi del suo male si facevano sentire nuovamente, e certi giorni lo
prostravano al punto da non consentirgli alcuna attività. Indugiava talora, la
sera, a parlare col padre della situazione: «Stavolta siamo proprio alla fine.
Tante altre volte l’abbiamo pensato e ci siam dovuti ricredere, ma stavolta non
succederà: i tedeschi sono allo stremo, non hanno nemmeno più il terreno su
cui tenere i piedi.»
«Sì, credo anch’io che stavolta sia la fine.»
«Così tra poco potremo finalmente sapere se sono vivi Manno e gli altri:
Stefano, e Michele, e Luca, e i miei soldati rimasti nella sacca. Ci pensi? Finirà
questa dannata incertezza, una volta per tutte.»
«E potremo anche riprendere il lavoro costruttivo, cioè non più per la guer-
ra, non più per la distruzione, che è davvero ora. Tu forse di questo non puoi
renderti ben conto, ma è una necessità urgente, più che urgente. Si è continua-
to a distruggere per anni, e adesso molta gente non ha quasi di che vivere: è
davvero tempo di ricominciare a produrre in positivo.»
«Sì, lo capisco.»
«Quello che mi preoccupa» avanzò più d’una volta il timore Gerardo «è che
qui da noi la guerra non si concluda con un tremendo massacro, un gran ba-
gno di sangue di questi disgraziati.» Alludeva ai fascisti. «Certo ne hanno
combinate d’ogni colore, ed è giusto che i veri responsabili paghino, che siano
puniti. Ma che finiscano massacrati tutti... beh, no. È un’idea che proprio non
mi va.»
«Tu pensi che ci si possa anche in Italia ridurre al livello dei russi e dei te-
deschi? Noi non siamo così.»
«Ma se i partigiani comunisti dovessero avere mano libera anche solo per
qualche settimana prima dell’arrivo degli americani, cosa succederebbe?»
«Ci sono anche gli altri partigiani, e c’è il governo legittimo da cui bene o
male - almeno in teoria - tutti i partigiani dipendono. E poi per quale motivo
gli americani dovrebbero tardare? Dall'Appennino alle Alpi non è un gran
passo.»
«Beh, speriamo.»
La preoccupazione per la sorte dei fascisti non era comunque molto diffusa
tra gli altri: all’insostenibile angoscia che in quei giorni doveva attanagliare
loro e i loro famigliari (si trattava di centinaia e centinaia di migliaia d’esseri
umani) neppure Gerardo e Ambrogio del resto pensavano sovente. Quanto al
popolo semplificava al solito le cose, anche a Nomana: i fascisti erano colpevo-
li, dunque dovevano pagare; certo non si preconizzava una strage, ad ogni
modo tanto peggio per loro.
Le notizie degli attacchi ‘alleati’ sul fronte appenninico andarono via via in-
tensificandosi alla radio e nei giornali, che riferivano della particolare violenza
di quelli in corso nelle valli del Senio e del Santerno presso Bologna. Senza
specificare, ovviamente, che là ad attaccare erano divisioni regolari italiane.
Le quali - in numero di sei ormai, armate ed equipaggiate dagli inglesi - ave-
vano assunto un peso rilevante nel complesso delle forze ‘alleate’ in Italia.
I tedeschi contrastarono con energia la spinta ‘alleata’ anche dopo che s’era
estesa all’intero fronte. Finché a un tratto furono, dall’enorme sproporzione,
costretti a ripiegare verso il Po. Li attaccava dall’alto l’aviazione, spaventosa-
mente potente, e tutt’intorno nugoli di partigiani: quelli tali da tempo, e i par-
tigiani dell’ultima ora, ancora più numerosi, che andavano formandosi e spun-
tando dappertutto.

CAPITOLO SECONDO

Di questi ultimi se n’erano formati anche a Nomana, dopo l’arrivo in paese


d’un forestiero sui trent’anni, sedicente sfollato, che aveva trovato lavoro in un
laboratorio artigiano.
Poiché in paese si risapeva tutto, si riseppe ben presto che costui andava
prendendo contatto coi giovani che avevano fama di indipendenti dalla comu-
nità e di ‘laici’ (magari per avere poco frequentato l’oratorio), o di discoli, o
meglio ancora di elementi poco raccomandabili: a costoro egli proponeva se-
gretamente d’entrare in una squadra di partigiani comunisti che - asseriva -
aveva avuto l’incarico di costituire a Nomana.
Nessuno, nemmeno il segretario del fascio, pensò di denunciarlo alla ‘guar-
dia nazionale repubblicana’, insediata da mesi nella casermetta un tempo dei
carabinieri. Fu invece chiaro a tutti che - in attesa del rientro della gioventù
più valida dalla prigionia - occorreva organizzare qualcosa da contrapporgli,
un minimo di forza che evitasse al paese di restare in balia dei comunisti nei
venturi difficili giorni della transizione dei poteri.
Quello fu il momento d’oro del farmacista dottor Agazzino, il quale - avuto
sentore che Ambrogio stava cominciando a prendere qualche contatto - andò a
trovarlo una sera in gran segreto, e con modi da cospiratore lo pregò di «non
danneggiare la comunità, tagliandogli la strada e creando inutili doppioni».
Non sarebbe stato meglio mettersi d’accordo e dividersi i compiti? Ambrogio
fu ben lieto di lasciargli addirittura campo libero: al che notò una malcelata
soddisfazione negli occhi dell’altro; rimasero comunque d’accordo che egli
sarebbe stato sempre disponibile per un’eventuale consulenza ‘d’ordine mili-
tare’.
Piccolo di statura, rosso in viso, calvo, sofferente d’asma, il dottor Agazzino
era vissuto fino allora in segreta frustrazione politica dentro la sua farmacia,
che dava su uno spiazzo acciottolato non lontano dalla chiesa; stava l’intero
giorno dietro il bancone, con uno sfondo di vasi di ceramica ornati d’arabeschi
e nomi latini di medicamenti, nell’acuto odore delle farmacie d’allora. Non era
originario di Nomana, ma del piacentino, dove in gioventù aveva fatto parte
della sinistra cattolica di Miglioli, al tempo favoloso in cui i fascisti distribui-
vano ai membri delle leghe bianche bastonate e olio di ricino. Due bicchieri di
quell’olio, da lui ingurgitati sotto minaccia, costituivano il punto culminante
del suo passato politico: essi gli avevano dato modo per vent’anni di compia-
cersi con sé stesso (e qualche rara volta anche con altri) della propria superio-
rità civica su questi poveri nomanesi che non avevano mai veramente cono-
sciuto il fascismo, né le lotte sociali, né avevano mai formato leghe bianche o
d’altro colore.
Nella vita, bisogna pur dirlo, la tragedia, la commedia e la farsa
s’intrecciano di continuo: ciò era particolarmente vero in quei giorni. Agazzino
dunque, percepita la preoccupazione generale (che non era solo delle persone
più autorevoli, ma anche, e non minore, di molti capi famiglia operai) aveva
sentito ch’era tornato il suo momento d’agire. Si era pertanto precipitato a
Milano in cerca dei vecchi amici delle leghe bianche, attraverso uno dei quali
gli era stata senza perdita di tempo conferita l’investitura a presidente del
C.L.N. (o Comitato di Liberazione Nazionale) di Nomana. E insieme l’incarico
di prendere subito contatto col forestiero comunista, nonché coi responsabili
dei partiti socialista, liberale e d’azione; quanto alla democrazia cristiana era
inteso che il responsabile in via provvisoria sarebbe stato lui stesso, Agazzino.
I responsabili del partito socialista, liberale e d’azione a Nomana però non esi-
stevano, così il farmacista fu suo malgrado costretto a crearli. Che se fu impre-
sa abbastanza facile per il partito socialista (data la presenza in paese
dell’ufficiale postale signor Benfatti il quale, già s’è detto, era conosciuto da
tutti come vecchio socialista), non lo fu altrettanto per i partiti liberale e
d’azione. Finalmente quanto ai liberali, dopo una solenne sfuriata del farmaci-
sta, aveva accettato di rappresentarli uno sfollato suo amico, estemporaneo
compositore di frizzi e poesie in dialetto, il quale sebbene un tempo vagamen-
te profascista, aveva non di meno - per l’inveterata mania di raccontare in tre-
no barzellette sul conto dei gerarchi - passato due giorni in carcere: in tal mo-
do il C.L.N. di Nomana contava la sua brava vittima del regime. Per il partito
d’azione, che non si sapeva bene cosa fosse, fu giocoforza prendere l’anziano
signor Pollastri, di professione impiegato, smanioso ora come sempre di met-
tersi in vista; costui aveva per la verità chiesto ad Agazzino di fargli piuttosto
rappresentare il partito socialista, e appreso che tale partito non era più di-
sponibile, aveva chiesto almeno di rappresentare il partito monarchico; reso
edotto che un partito monarchico in C.L.N. non esisteva, si era adattato a
quello d’azione.
Il dottor Agazzino non era affatto uno sciocco, e si rendeva conto di quanto
tutto ciò fosse paradossale, anche se era lontano dall’immaginare i guai che in
futuro sarebbero derivati alla comunità nazionale da una simile impostazione
politica semicoatta. Egli aveva a malapena letto qualche foglio clandestino, e
ignorava quindi quasi tutto ciò che stava a monte di questa realtà: in partico-
lare non ne afferrava l’idea - presupposto, che cioè l’Italia fosse una sorta di
‘corpo vile’, a disposizione del fascismo prima e dell’antifascismo poi. Non
aveva neppur sentito nominare il famoso ‘dibattito delle cinque lettere’, attra-
verso il quale nel novembre precedente i cinque partiti del C.L.N. - avvertendo
vicina la loro presa del potere nonostante l’incaglio costituito dall’odioso go-
verno legittimo di Roma - avevano tentata un’unione stabile che gli consentis-
se poi di proseguire indefinitamente la ‘politica ciellenista’ anche in tempo di
pace. In novembre era stato proprio il partito di Agazzino, ossia la democrazia
cristiana, a opporsi a un siffatto monopolio del potere in nome della democra-
zia. Non aveva però, quel partito, potuto impedire l’impianto sistematico dei
C.L.N. in ogni comune che si sarebbe venuto man mano a trovare al di qua
delle linee ‘alleate’.
Ad ogni modo il farmacista era soprattutto un pratico, e si adattava alla
realtà qual era: «Questa situazione non l’ho creata io» diceva a volte a mo’ di
scusante a qualche amico; e anche: «Se l’incarico a Nomana non me lo fossi
preso io, se lo sarebbe preso di sicuro qualcun altro, dunque tanto vale.» Non
spiegava, ovviamente, ch’egli s’era preso l’incarico mosso da ambizione perso-
nale, e un tantino anche per spirito d’avventura, malgrado l’asma.
Oltre ai rappresentanti dei partiti egli aveva dovuto cercare anche dei gio-
vani da armare; poiché non intendeva dipendere per questo da Ambrogio (cui
l’opinione pubblica avrebbe, secondo lui, finito poi con l’attribuire il merito
d’ogni cosa) s’era rivolto al prevosto, pregandolo che gli desse i nomi dei più
adatti fra i ragazzi dell’oratorio. Dovette a tal fine spiegare per filo e per segno
all’anziano prete l’organizzazione del C.L.N., e si sentì rispondere dal vecchio
indignato che l’oratorio era «una cosa troppo seria per essere mescolata a una
faccenda come questa». Protestò, insisté, fece valere le proprie ragioni: «Voi,
anzi noi cattolici, preferiremmo starcene in pace all’ombra dei campanili, lo so
bene. E invece no. Non possiamo più, i tempi non ce lo consentono...» Il vec-
chio severo, dai capelli ricciuti che lo facevano somigliare a un pastore di
montagna, dovette convenire; non gli dette tuttavia alcun nome: «I nostri ra-
gazzi potrebbero arrivare a spararsi con quegli scriteriati in camicia nera che
stanno giù alla caserma, magari ucciderne qualcuno. E lei vuole che sia io a
metterli in condizione d’uccidere il loro prossimo?»
Il farmacista era stato perciò costretto a supplire in qualche modo con ra-
gazzi che conosceva personalmente, o di cui conosceva le famiglie, in genere
d’età non militare, i quali quanto più erano giovani, con tanto maggior entu-
siasmo accettavano di ‘fare il partigiano’. Aveva finito col metterne insieme
una dozzina: pochi meno di quanti (anche quelli in genere sotto i vent’anni) ne
aveva messi insieme il forestiero comunista. Così la sera del 25 aprile quando -
portata dai pendolari e dagli sfollati - giunse la notizia che a Milano era in cor-
so ‘una specie d’insurrezione’, anche Nomana poteva disporre d’una propria
forza insurrezionale.
CAPITOLO TERZO

La notizia delle ancora indefinibili novità di Milano Agazzino la ricevette, la


sera del 25 aprile, da Matteo, un operaio suo vicino di casa che lavorava in cit-
tà, il quale gli si presentò non appena sbarcato dal treno. Costui - senza che il
farmacista lo sospettasse - era al corrente dell’impresa in cui il farmacista
s’era messo, e ritenendola a difesa della religione e della chiesa, in cuor suo
molto la approvava.
«Signor dottore, lo sa o no quello che sta succedendo a Milano?» chiese in
dialetto, venendo avanti nella bottega.
«A Milano? Cos’è che succede?» gli rispose pure in dialetto Agazzino, sor-
preso e un po’ inquieto.
«Ecco, vedo che qui in paese non siete al corrente delle cose»; Matteo rigirò
tra le mani il vecchio berretto di similpelle a visiera, con cui da anni si recava
al lavoro: «Ecco, lo dicevo io.»
«Ma di cosa parli? Cos’è che sta succedendo?»
«Sta succedendo il ribaltone, o... press’a poco» disse Matteo.
«Il...? Il...?» fece il farmacista, e sebbene nella bottega non ci fossero che lo-
ro due, dopo aver guardato oltre la portina a vetri nella strada, fece segno
all’operaio di seguirlo nel retrobottega.
“Possibile” pensava intanto “che quelli del C.L.N. non mi abbiano preavver-
tito? Disgraziati! Diamine, con questo po’ di forza armata (beh, non ancora
armata, ma pronta per esserlo) che mi hanno fatto mettere insieme! È... peri-
coloso! E poi, che figura ci faccio? Che brutti disgraziati!” «Allora?» chiese,
una volta nel retrobottega, a mezza voce a Matteo: «Dì su.»
«Una ribellione vera, cioè le sparatorie, per la verità non ci sono state; al-
meno io non ne ho sentite» disse l’operaio; «però quasi nessuna fabbrica a
Milano oggi ha lavorato. Anche sul treno lo dicevano tutti: in certi posti al
mattino avevano cominciato a lavorare, ma nel corso della giornata hanno
smesso tutti.»
«E i tram? Circolavano o no i tram?» Non a caso il farmacista faceva questa
domanda: i suoi corrispondenti di partito gli avevano detto e ripetuto: «Si
comincerà bloccando i mezzi di trasporto pubblico.»
«I tram stamattina, quando io sono arrivato a Milano, circolavano. Nel po-
meriggio invece no; quando siamo usciti di fabbrica non circolavano più, tanto
che ho dovuto farmi a piedi la strada fino alla stazione. Tutta a piedi, capisce?
E sì che la mia fabbrica, la Formenti, è lontana.»
«Ma cos’è che avete fatto in fabbrica tutto il giorno, se c’era sciopero?»
«Siamo stati ad ascoltare i partigiani: perché sono saltati fuori dei partigia-
ni - chi della fabbrica, e chi no - e si sono messi a parlare: ‘Vedete che i fascisti
non vi fanno più niente?’ dicevano: ‘Voi scioperate e loro non vi fanno niente.
Vedete? Non è più come i giorni passati, che guai a scioperare. Adesso sono
alla fine, non hanno più la forza di far niente i fascisti.’ Infatti era proprio co-
sì.»
«Perché? C’erano anche i fascisti nelle fabbriche?»
«Dentro no, quelli stavano fuori, nelle strade. Forse erano meno del solito,
ma un po’ ce n’erano. Li vedevamo anche dai nostri finestroni: andavano in
giro con i mitra, però non sapevano più cosa fare, non sparavano a chi sciope-
rava, a nessuno sparavano.»
«Beh, anche nei giorni scorsi a Milano c’è stato qualche mezzo sciopero, e i
fascisti non sono intervenuti.»
«Sì, ma oggi... Insomma oggi lo dicono tutti che era diverso. Neanche par-
larne, non c’era confronto le dico. I fascisti a entrare nelle fabbriche non si
arrischiavano neppure: stavano nelle strade, però per tutta la giornata io non
ho sentito sparare un solo colpo. Anche i tedeschi giravano nelle strade, più
che altro sui loro camion: quelli, secondo me, stanno magari tagliando la cor-
da.»
«Ma insomma il ribaltone c’è stato o non c’è stato?»
«Beh, io direi che c’è stato» propese l’operaio. «Anche perché in fabbrica
sono poi venuti certi altri, i fiduciari dei partiti, a dirci anche loro che ormai
per i fascisti è finita. Signor dottore: sono venuti i comunisti e i socialisti, ma
anche i nostri sono venuti, per fortuna; voglio dire: i cristiani, cioè i democri-
stiani, insomma i nostri. Gente con la faccia da Azione Cattolica, mi spiego?
Lo si vedeva bene.» Annuì gravemente e ripeté: «Per fortuna.»
«Ma sei sicuro che ci sono ancora dei fascisti che girano armati?»
«Certo. Per esempio davanti alla stazione Centrale poco più d’un’ora fa
c’erano. Beh» concluse Matteo «quel poco che dovevo dire, ve l’ho detto. Fate
un po’ voi, adesso io vado a mangiare.» Strinse la mano che il farmacista con
riconoscenza gli tendeva («Grazie Matteo: si vede che sei un... democratico»)
calzò il vecchio berretto di similpelle a visiera, e attraversata la bottega uscì
nella strada. Dietro di lui la portina a vetri della farmacia, ornata con disegni a
smeriglio di serpenti rampanti intorno a coppe, si chiuse con un triplice
scampanellio, che tutti a Nomana conoscevano.
Rimasto solo, il farmacista si diede - assai preoccupato - a riflettere e a
ponderare. Cosa stava succedendo in realtà? Diamine, lasciare all’oscuro lui, il
presidente del C.L.N.! Che ordini doveva dare ai suoi ‘partigiani’? E se qualcu-
no adesso - qualche maggiorente del paese magari - si fosse rivolto a lui per
notizie? Che pasticcio! E se poi - peggio ancora, peggio di tutto - quella specie
di strana insurrezione fosse rientrata, magari dopo che lui avesse speso parole
a destra e a manca, o presa addirittura qualche iniziativa?
“Ah no, eh! Ah no! Non potete lasciarmi così!” mormorò camminando
avanti e indietro, come un animale in gabbia, tra il bancone e le scansie su cui
stavano in file ordinate i vasi di ceramica muniti d’arabeschi e di nomi latini a
svolazzo: “Dovete parlare, dovete dirmi quello che sta succedendo...” Improv-
visamente andò al telefono, e sebbene il suo amico delle leghe bianche si fosse
straraccomandato di non chiamarlo mai con quel mezzo, chiese al centralino
d’esser messo in comunicazione con lui. Dopo di che, ogni poco, sollecitava la
comunicazione. Finalmente la centralinista lo avvertì che il numero chiamato
non rispondeva. Agazzino chiese allora il numero d’un altro suo conoscente di
Milano, che pure sapeva con le mani in politica, e apprese che anche questo
numero non rispondeva. Al che si emozionò talmente che finì col domandare
alla centralinista se per caso sapesse cosa stava succedendo a Milano. La cen-
tralinista (la quale non si trovava a Milano bensì in Brianza, nel borgo di Sere-
gno) qualcosa aveva in confuso sentito dire, e ci stava appunto pensando su,
ma temette d’avere a che fare con un provocatore, e gli rispose perciò in modo
quanto mai impersonale; che al farmacista parve strano. Anche questa faceva
la misteriosa! Cosa stava succedendo intorno a lui, senza ch’egli riuscisse a
capacitarsene? La realtà, quella che conta, gli passava dunque vicina come un
treno ch’egli non poteva vedere, sul quale non riusciva a salire? Fu lì lì per
perdere la testa. A questo punto si ricordò d’Ambrogio, di come il giovane gli
avesse detto d’essere a sua disposizione in caso di necessità. “Quello non è uno
che perde facilmente il treno” rifletté, e fece per attaccarsi di nuovo al telefo-
no, ma ci ripensò, e si precipitò invece alla porta; l’aprì, provocando il noto,
familiare scampanellio, percorse una quindicina di metri e si affacciò alla por-
tina d’una abitazione, al di là della quale una famigliola sedeva a tavola intor-
no alla cena.
«Scusate, scusate» disse a tutti gli altri, e rivolgendosi a un ragazzo sui sedi-
ci-diciassette anni, che faceva parte della sua organizzazione: «Presto Giaco-
mino, corri dai Riva. Dì al signor Ambrogio - lo sai, il tenente in congedo - di
venire, cioè se per favore può venire subito da me, che ho bisogno di parlargli.
Dai, corri che è urgente.»
L’interpellato Giacomino fiutò immediatamente aria di battaglia e balzò su
come un puledro, pronto a lanciarsi nell’uragano.
«Levati almeno il tovagliolo dal collo» gli gridò la madre. Lui si sfilò il tova-
gliolo con un gesto che voleva significare disprezzo per un oggetto così prosai-
co, e mentre correva verso la porta, lo scaraventò indietro sulla sedia vuota.
«E allora?» fece, dopo qualche momento d’imbarazzo reciproco, il capo fa-
miglia al farmacista: «E allora? Ci sono novità, eh?»
Il farmacista alzò le mani verso l’alto, le agitò ripetutamente in un gesto in-
definito che poteva significare: «Son cose di cui è meglio non parlare» o an-
che: «Ora ho troppo da fare, non posso fermarmi...»; poi con un: «Beh, vi sa-
luto tutti» si voltò e rientrò in fretta nella farmacia.

CAPITOLO QUARTO

Dove poco dopo lo raggiunse Ambrogio, tallonato da Giacomino. «Tu torna


a casa» disse il farmacista al ragazzo, che parve deluso: «Attento però: non
devi muoverti da casa tua. Devi tenerti a disposizione. Intesi?»
«Sì, certo» rispose il ragazzo, colpito e soddisfatto da quella parola ‘a dispo-
sizione’ che aveva - gli sembrò - un che di militare.
«Cosa c’è dottore?» chiese Ambrogio al farmacista una volta rimasto solo
con lui; notava lo stato d’eccitazione dell’uomo: «È per le notizie di Milano?»
«Sì, appunto» rispose quello: «Forse lei sa qualcosa di preciso?»
«Di preciso non molto» disse Ambrogio.
«Venga» fece Agazzino, e presolo per un braccio lo pilotò nel retrobottega:
«Si sieda, ecco.» Sedette di fronte a lui: «E adesso mi dica quello che sa.»
Mentre il giovane parlava, il farmacista - più piccolo di statura - lo guardava
sorridendo nervosamente, rosso in volto come rare volte, col rossore che
gl’invadeva tutta la calvizie. Risultò che le notizie di Ambrogio coincidevano
con quelle del farmacista: del resto provenivano da un impiegato giunto con lo
stesso treno con cui era giunto l’operaio Matteo.
«E allora?» disse il farmacista alzandosi in piedi agitato: «Il ribaltone c’è
stato o non c’è stato? Accidenti» esclamò allargando le braccia con disappun-
to: «questa è grossa, che uno non possa capirlo.» Si diede a camminare su e
giù nonostante lo spazio ristretto.
Ambrogio sorrise: «C’è stato, senza dubbio c’è stato» lo rassicurò. Ed elencò
le ragioni a sostegno (il suo interlocutore era tornato a sedere davanti a lui):
anzitutto le notizie date ultimamente dagli stessi giornali e dalla radio sotto
controllo fascista relative al fronte italiano: «Ieri il ‘Corriere’ riportava il bol-
lettino tedesco di due giorni fa, con la notizia dello sgombero di Bologna, no?
Oggi, sempre il ‘Corriere’, parla addirittura di combattimenti intorno a Mode-
na: c’è il titolo abbastanza in grande, l’ha visto? Ha letto?»
«Sì. Ho letto, e come.»
«Dunque gli ‘alleati’ stanno venendo avanti a tutta birra nella pianura pa-
dana. Quello che mi chiedo - lo dico tra parentesi - è che parte nell’avanzata
abbiano i nostri, voglio dire le divisioni del nostro esercito.»
«Lei crede?» fece distrattamente il farmacista: «Sì, ogni tanto radio Londra
infatti...»
Ambrogio annuì: «Quindici giorni fa, quando il fronte sull'Appennino ha
cominciato a svegliarsi, la radio e il ‘Corriere’ seguitavano a parlare di val Se-
nio e val Santerno, ricorda? Beh, radio Londra ha precisato che là ci sono, o
meglio c’erano allora schierate la Folgore e la Legnano, e ch’erano proprio i
nostri ad attaccare. Anzi una volta ha parlato anche della Friuli, e io mi chiedo
se... Beh, lasciamo stare, adesso questo non c’entra. Dunque in Italia la situa-
zione è questa: gli ‘alleati’ stanno avanzando nella pianura verso Milano, e
chissà a quest’ora dove sono già arrivati: e uno.» Ambrogio concretò visiva-
mente, stringendo a pugno le dita della mano sinistra e levando il solo pollice.
«Secondo» e stese l’indice: «In Germania? Noi siamo abituati a sentir parlare
di ritirate tedesche, tanto che ci sembra possano continuare in eterno. In real-
tà adesso, a forza di ritirate, ai tedeschi non gli resta più neppure il terreno su
cui poggiare i piedi. Avrà letto anche lei sul ‘Corriere’ di due, no, forse di tre
giorni fa, degli americani che stanno combattendo nei Sudeti. Ora, i monti
Sudeti si trovano in Cecoslovacchia. Gli americani in Cecoslovacchia, si rende
conto lei di cosa significa questo? E poi - terzo - tutte quelle notizie a proposi-
to di Berlino: che è in un cerchio di ferro e di fuoco, che le donne tedesche lot-
tano a fianco dei loro uomini contro l’armata rossa (povere diavole!), eccetera.
Sono almeno tre giorni che la radio e il giornale lo ripetono. Che ribaltone
dobbiamo ancora aspettare dunque?» concluse Ambrogio: «A cosa possono
più attaccarsi i fascisti e i tedeschi, poveri disgraziati?»
«Poveri disgraziati sì, però se la sono meritata» esclamò il farmacista con
voce che andava già facendosi esultante (lui non aveva mai considerate le cose
sotto la prospettiva militare, come ora Ambrogio) «disgraziati sì, però l’hanno
voluta.»
«D’accordo, se la sono voluta e meritata. Certo. Ciò non toglie che a me fac-
ciano pena.»
«Bene» disse il farmacista cercando di tirare le somme (il quadro prospetta-
togli da Ambrogio gli riusciva sempre più persuasivo, ineccepibile): «Bene. Ma
noi a Nomana cosa dobbiamo fare in pratica? Perché di fascisti e tedeschi in
giro ce ne sono ancora, questo è il punto.» Si levò nuovamente in piedi: «E se
a prendere una decisione aspettassimo domani? Vedere prima cosa succederà
stanotte a Milano?»
«Faccia come crede. Però c’è il pericolo che nel frattempo i comunisti locali
si muovano.» Ambrogio fece una pausa: «Voi qui non avete ancora ricevuto le
armi, vero?»
«No, non ancora.»
«E i comunisti?»
«Neanche loro, credo.»
«Dunque le uniche armi in paese sono quelle delle Guardie Nere. Vogliamo
correre il rischio che se ne impadroniscano i soli comunisti?» Rifletté: «C’è
anche un’altra cosa che dipende dal suo saper fare, dottore: ed è la vita di quei
poveri disgraziati di militi, i quali in fondo in paese non hanno mai dato ve-
ramente fastidio.»
«Tranne quelle due volte che si sono ubriacati e hanno sparacchiato per le
strade e... Lei la prima volta era ancora in ospedale, ma...»
«Anche allora in fin dei conti non hanno ucciso nessuno. Vediamo un po’,
sto pensando... Se facessimo intervenire don Mario? Potrebbe spiegare ai mili-
ti cosa sta succedendo a Milano, se per caso non lo sanno già, e convincerli a
tagliar la corda immediatamente, mentre sono in tempo. Dopo averci conse-
gnate le armi in cambio, diciamo, di abiti civili. E magari, perché no? anche di
qualche bicicletta scassata.»
«Questa è un’ottima idea» esclamò il farmacista, cominciando a esaltarsi.
«È un’idea davvero... Come dire? Sarebbero due piccioni presi con una fava.
Perché anch’io, si capisce, preferisco che ai militi non succeda niente di male:
sono ragazzi che han padre e madre anche loro.» Gli spiacque di non averla
fatta lui quella gran pensata; fu persino tentato di appropriarsene: «Sa,
anch’io avevo pensato a qualcosa di simile. Soltanto che non sapevo, e non lo
so ancora del resto» (a questo punto cambiò nuovamente faccia) «se è venuto
il momento di agire oppure no.»
«Beh, un poco bisogna pur rischiare» disse Ambrogio con un sorriso, le-
vandosi in piedi. «Senta dottore: adesso vado a cena, che a casa mia quando
ne sono uscito era già in tavola. Poi passo addirittura da don Mario: gli chiedo
se è disposto - una volta che lei gli dia il via - a parlamentare coi militi, e torno
qui con la sua risposta; diciamo entro mezz’ora, al massimo quaranta minuti,
sono qui. Intanto lei ha tempo per decidere se parlamentare coi militi o no.
Prima, magari, potrebbe di nuovo telefonare a Milano. E magari (non so, è
affar suo, queste sono idee che mi vengono così, da vagliare) lei potrebbe an-
che convocare gli altri del C.L.N., per deciderlo insieme se agire o no.»
«Cosa dice? Perché il paese si riempia subito di chiacchiere? Cosa le salta in
mente? E poi dovrei convocare anche il comunista.»
«Già. Questo è vero.»
«No. Tocca a me decidere. La responsabilità l’ho io. Già, vada, vada pure a
mangiare lei. Ah, che razza di pasticcio!»
«Beh dottore, ha scelto l’azione, no? Il rischio, questo ha scelto, e dun-
que...» Sorridendo Ambrogio strinse la mano al suo interlocutore, e uscì, ac-
compagnato dal solito scampanellio.

***
Una volta rimasto solo il dottor Agazzino si trovò intrigato almeno quanto
prima: certo la situazione stava per risolversi da sola - aveva detto bene Am-
brogio - con la Germania ormai quasi totalmente occupata e il fronte italiano
in movimento. Forse gli ‘alleati’ erano addirittura a pochi chilometri da Mila-
no... Ma appunto per questo qualcosa bisognava fare. La proposta
d’Ambrogio, anche quella, non era male: oltre tutto esponeva il solo don Ma-
rio... A cui, intendiamoci, difficilmente i militi avrebbero dato noie, visto che
andava a parlargli nel loro interesse. Perché era fuori dubbio che don Mario ci
sarebbe andato, e senza pensarci su nemmeno un istante. Figuriamoci! L’idea
di poter evitare uno spargimento di sangue... Come a nozze ci sarebbe andato.
E chi sarebbe più riuscito a trattenerlo? Anzi (questo, attenti, creava una pro-
spettiva nuova) non appena al corrente della situazione don Mario si sarebbe
mosso anche di propria iniziativa, senza aspettare il via del C.L.N. Sì, ecco co-
sa sarebbe successo. E allora lui che figura ci avrebbe fatto? Lui, il presidente
del C.L.N., ossia del Comitato di Liberazione Nazionale? (Parole che in realtà
facevano una certa impressione.) Beh, dopo tutto forse meglio così: se poi le
cose si fossero girate (se la ribellione fosse cioè rientrata, e all’indomani fosse
arrivato in paese qualche castigamatti) nessuno avrebbe potuto imputare a lui,
Agazzino, e ai suoi, l’impresa compiuta di testa propria da don Mario. Dun-
que, alla fine, meglio così... Meglio o peggio? A chi infatti sarebbe andato quel
po’ di gloria? Eh, a chi? E a che scopo, allora, tutto il suo lavoro fino a oggi?
Quei viaggi cospirativi a Milano, i pericolosi contatti (sia pure pochi) col mon-
do esaltante della ribellione, le confabulazioni e le ingrate trattative locali, tut-
ti i... pericoli corsi? A che scopo? Quel lavoro di preparazione sarebbe andato
interamente in fumo, e una grande occasione come questa non si sarebbe pre-
sentata mai più; nella sua vita non sarebbe rimasto, di eroico, che quel lonta-
no ricordo dei due bicchieri d’olio di ricino... Ah no, questo no. Non era più
possibile, dopo ch’egli aveva mentalmente assaporato il gusto di ben altra - e
oltretutto meno ambigua - gloria. Improvvisamente si risolse. Calzò sulla cal-
vizie il basco, aprì la scampanellante portina e la richiuse con la chiave, che
sfilò e si mise in tasca.
CAPITOLO QUINTO

Poco lontano c’era, in attesa contro lo stipite della porta di casa, il candidato
partigiano Giacomino: il farmacista gli fece un cenno con la mano. Quello si
staccò in silenzio dallo stipite e lo raggiunse.
«Vieni con me» gli sussurrò il dottor Agazzino avviandosi.
Stavano scendendo le tenebre; la gente era tutta nelle case raccolta intorno
alle mense modeste, l’ora sarebbe stata propizia al rilassamento, a pensieri di
pace. “E invece io... Ma chi me lo fa fare, in fin dei conti?” pensava il farmaci-
sta percorrendo una via dopo l’altra, sempre con Giacomino alle calcagna. Im-
boccarono finalmente il viale ‘della rimembranza’ che scendeva alla stazione.
Nelle tenebre incipienti i rami delle querce protesi sopra le loro teste, ancora
una volta rivestiti di foglie nuove fittamente dentellate, sembravano suggerire
qualcosa di non esprimibile, d’inafferrabile, che introdusse entrambi in uno
stato di sospensione. Ma: “Sia come sia” risolse Agazzino “ormai non posso
più fermarmi. Del resto non è solo questione di... gloria o simili, è un’impresa
utile alla comunità questa in cui mi sono messo, il punto è tutto qui. Dovesse
anche, Dio non voglia, capitarmi qualcosa, io ormai non mi tiro più indietro.”
Raggiunsero il piazzaletto della stazione, affatto deserto, su cui dava la ca-
serma un tempo dei carabinieri, ora della ‘guardia nazionale repubblicana’. Si
trattava d’una villa non grande, dipinta in rosso, circondata da un giardinetto
con siepi di lauro ceraso e una fontanella di cemento al posto d’onore; dentro
la villa non si scorgeva alcuna luce. I due si fermarono.»
«Adesso tu rimani qui» disse, ansando un po’, il, farmacista al ragazzo: «qui
contro quest’angolo, e cerca di non dare nell’occhio. Io entro nella caserma.
Tu sta bene attento: se vedi o senti qualcosa di strano, o se dopo quindici, anzi
facciamo venti minuti, io...»
«Non ho mica l’orologio» sussurrò Giacomino.
«Non importa, farai tu il conto, sei un ragazzo sveglio. Se dunque dopo cir-
ca quindici o venti minuti io non sarò ancora uscito, o anche prima se vedi o
senti qualcosa di strano, tu fili come una saetta dal signor Ambrogio e lo av-
verti. Chiaro?»
«Sì» mormorò il ragazzo. «Ma lei, posso sapere cosa ci va a fare lì dentro?»
«A farmi consegnare le armi» disse sempre ansimando, e sperimentando
mescolata alla paura un’acuta sensazione d’orgoglio, il farmacista, mentre il
viso gli s’imporporava.
Si avviò, e arrivato al cancelletto di ferro del giardino premette il pulsante
del campanello; udì distintamente il suono all’interno della villa. Rimase in
attesa con la testa china e il cuore in gran tumulto: “Ah, la mia asma, la mia
asma...” Trascorsero diversi secondi; come mai nessuno rispondeva? Forse i
militi dopo i fatti di Milano diffidavano d’ogni visitatore e non intendevano
rispondere se non con le armi? Forse, Dio non voglia, in questo momento al di
là delle finestre buie i loro mitra erano puntati su di lui? O forse, più sempli-
cemente, i militi se n’erano andati? Suonò una seconda volta, più a lungo.
Sentiva nelle orecchie il rombo del proprio sangue e insieme, distintamente, il
suono che faceva il campanello all’interno della villa. Nessuno rispose neppure
stavolta. Dopo un po’ suonò ancora, poi ancora; finalmente si rese conto che la
caserma era abbandonata.
Abbandonata ma chiusa, com’egli poté accertare agendo alla maniglia del
cancelletto. Giacomino, che s’era fatto avanti, scavalcò per suo ordine il can-
celletto e controllò se fosse chiuso anche il portoncino dell’edificio. Era chiuso.
Provò allora a bussare e chiamò anche ripetutamente, ma invano.
«Presto» gli disse il farmacista «torna fuori e... Dai, prima vieni fuori.» Gia-
comino scavalcò di nuovo, bravamente, il cancelletto verso l’esterno.
«Adesso» gli disse il farmacista «mentre io rimango qui di guardia e non mi
muovo, tu vai dal Farirö» (che significa Piccolo Fabbro): «Digli che venga qui
subito, ma subito, con gli arnesi necessari per forzare queste due serrature.
Digli che ti mando io, il presidente del C.L.N.»
«Del... cosa?»
«C.L.N. Comitato di... Non importa: digli il farmacista. Va, spicciati. E non
appena hai avvisato il Farirö, passa ad avvertire uno per uno i partigiani no-
stri: ma attento, soltanto i nostri, non i comunisti. Inteso? E non farti sentire
da nessun borghese, e neanche dai parenti dei nostri partigiani, ma solo da
loro: digli che corrano qui subito.»
«E il signor Ambrogio?» chiese Giacomino.
«Sì, anche lui. Anzi no, quello no, adesso non è necessario. Lo chiameremo
più tardi. Quello no, hai capito? Su va, spicciati.» Giacomino partì come una
saetta.

***
Era però talmente eccitato che - aggiungendosi l’affanno della corsa - non
gli riuscì di agire con la debita segretezza. Tanto è vero ch’erano appena giunti
il fabbro e i primi due o tre partigiani democristiani, che arrivò anche, scuris-
simo in volto, il comunista forestiero. Calzava per l’occasione un inedito ber-
retto di pelo con copriorecchie e una stella rossa sul risvolto frontale, alla bol-
scevica.
«Perché non mi ha fatto chiamare?» chiese in modo villano al farmacista, e
bestemmiò.
«E perché avrei dovuto farla chiamare?» gli rispose quello.
«Come: perché?» e bestemmiò di nuovo: «Per la spartizione delle armi.
Non siamo d’accordo che le armi vanno spartite?»
«Certo. Prima però dobbiamo vedere se di armi ce ne sono o no.»
«Ci sono per forza.»
«Adesso vedremo.»
«Si fa metà per uno. Metà per i miei e metà per i suoi uomini.»
«D’accordo: metà per uno.»
Questo, rifletté il farmacista, costituiva pur sempre un punto a favore: non
era infatti chiaro, fino allora, se le armi avrebbero dovuto essere suddivise tra i
partigiani comunisti e quelli democristiani a metà, oppure in proporzione al
rispettivo numero: nel quale caso ne sarebbe toccata una piccola frazione in
più ai comunisti.
Il forestiero afferrò a un tratto ciò che passava per la mente del farmacista,
e fu sul punto di rimettere in questione l’accordo appena concluso, ma si limi-
tò a bestemmiare un’altra volta. Poi rifletté che se fosse capitato a lui
d’impadronirsi delle armi, accordi o no, non ne avrebbe certamente fatto parte
ai democristiani, e quelli lo sapevano. Ciò valse a calmarlo alquanto.
Intanto il Farirö aveva quieto quieto tagliato il chiavistello e aperto il can-
celletto. Si applicò quindi alla serratura del portoncino: «Qui non taglio» spie-
gò: «qui dobbiamo cercar d’aprire senza scassare, perché è un peccato rovina-
re la porta.»
Stavano sopraggiungendo altri partigiani, tutti democristiani. Il comunista
si agitò: «Dai» gridò al piccolo fabbro: «muoviti, se no provvedo io con que-
sta.» E tolta di tasca una pistola militare fece l’atto di puntarla contro la serra-
tura. Era un gesto chiaramente intimidatorio nei confronti di tutti i presenti.
Ma il fabbro non si lasciò intimidire: piccolo di statura e curvo com’era (non
più giovane, aveva pochi capelli grigi, la faccia tutta rughe, il naso aquilino con
la pelle tirata, mancava di parecchi denti) non si lasciò intimidire. «Avanti»
disse ritraendosi «su, provaci. Prova con quell’arnese (udesèll) lì: spara, vedrai
se la porta si apre.»
Il comunista sbuffò e reintascò la pistola: «Dai, muovetevi» disse.
«Ricordati che io potrei esser tuo padre» gl’intimò il piccolo fabbro con se-
verità, quindi riprese il suo lavoro riguardoso. Gli ci volle un certo tempo per
aprire la serratura senza romperla; finalmente il branchetto dei presenti, co-
stituito ormai da una decina di persone, poté entrare dietro di lui nella villa.
Lo stesso fabbro fece scattare inutilmente l’interruttore della luce, dopo di
che accese - uno dopo l’altro, strofinandoli com’era sua abitudine contro il
fondo dei pantaloni - due o tre fiammiferi, trovò l’interruttore generale e agì
su quello: la caserma s’illuminò.

***
I presenti si precipitarono a ispezionare i vari locali. «Le armi. Venite, ecco
le armi» chiamò uno. C’erano, in un armadio a muro, alcuni moschetti, due
fucili mitragliatori Breda e un mitra. Il presidente del C.L.N. suddivise subito
le armi in parti uguali tra i ragazzi democristiani e il forestiero comunista; la
stessa cosa fece con i pacchetti delle munizioni. Aveva appena terminata la
suddivisione che arrivò tutto trafelato don Mario.

CAPITOLO SESTO

La mattina dopo, 26 aprile, Nomana si svegliò alle concitate raffiche dei due
fucili mitragliatori, nonché ai colpi delle altre armi che i neo-partigiani speri-
mentavano in un prato vicino al paese.
Nell’esaltazione del momento sparavano mescolati tra loro democristiani e
comunisti (questi ultimi col fazzoletto rosso al collo, mentre i primi erano sen-
za distintivi.) Del resto quei ragazzi che avevano frequentato insieme l’asilo
infantile delle monache, poi la scuola elementare, e almeno per qualche anno
l’oratorio, non si sentivano ancora divisi tra loro. Da istruttore fungeva il figlio
della levatrice, il Carletto Mangiagalli, apolitico e con fama più che altro di
scapestrato (ma ancora troppo giovane per esserlo veramente) il quale aveva
disertato dai bersaglieri qualche mese prima. Si era aggiunto ai partigiani
quella mattina, chiamato con urgenza da loro che s’erano resi conto di non
sapere affatto usare le armi.
Quale spasso, stando distesi nell’erba, sparare e sparare contro il pendio
d’un ronchetto, senza staccare mai il dito dal congegno, col mitragliatore che
sobbalzava come avesse la tarantola, e la canna che diventava qua e là violacea
per il surriscaldamento!
«Che ‘goduria’, eh?» diceva, interrompendosi ogni tanto e staccando per un
istante la guancia dal calcio, il Carletto Mangiagalli; e gli altri - più giovani di
lui - approvavano entusiasti, e sparavano anche loro con l’altro mitragliatore,
e col mitra («Ve’ che raffica!») e i moschetti, sempre nel fianco della collina.
Finché, a farla finita, intervenne il dottor Agazzino, il quale si portò via le
munizioni residue: «Se no voi scervellati me le consumate tutte.»
Dopo di che i partigiani, con le armi brandite o tenute orizzontali su una
spalla (peccato fossero così poche, non bastanti per tutti) si diedero a girova-
gare per il paese tutti insieme, e ogni tanto cantavano ‘bandiera rossa’, ch’era
l’unica canzone antifascista che sapessero (non la sapevano neppur tutta del
resto), la cantavano anche i democristiani, con l’idea di fare gli spiritosi. La
gente li guardava con un misto di familiarità, di sollievo (perché questa fiera
significava che la guerra era finita), ma anche di timore, che non cominciasse-
ro a fare soperchierie.
Nelle case intanto ‘radio Milano libera’ - cioè occupata dai partigiani duran-
te la notte - diffondeva freneticamente proclami, notizie, comunicati. Più d’un
nomanese stava ad ascoltarla come calamitato, senza potersene staccare. Tra
gli altri, per un certo tempo, il farmacista, che solo a metà mattina riuscì ad
avere la comunicazione telefonica col suo corrispondente del C.L.N. di Milano.
Il quale gli comunicò che il ribaltone aveva avuto luogo senza ombra di dub-
bio: lo disse con voce non meno trionfalistica di quella della radio.
«Ma se fino a ieri sera non ci sono state sparatorie?» gli obiettò il farmaci-
sta.
«Fino a ieri sera infatti» convenne l’altro. «Però ieri in mattinata il grosso
dei fascisti ha lasciato Milano insieme con Mussolini. E quelli rimasti erano
col morale completamente a terra, tanto che noi, una volta arrivato il buio, gli
siamo saltati addosso. Altro che sparatorie stanotte a Milano, bisognava esser
qui a sentire! E ancora di più questa mattina all’alba: lo sa che abbiamo presa
la prefettura e la radio? E la questura centrale, e i commissariati di polizia, e
ogni cosa insomma? E che nessuno ha reagito, e adesso li stiamo andando a
prelevare dove si son nascosti, casa per casa, come topi?»
Il paragone non piacque al farmacista, che in fin dei conti era una persona
civile: «Ma loro, voglio dire, se non fanno resistenza... Insomma, voi cos’è che
gli fate quando li prendete?»
«A sentirli adesso sono tutti innocenti» eluse la domanda l’altro. «Più nes-
suno è fascista adesso.»
«Ma io volevo sapere se...» Il farmacista tentennò la testa e cambiò argo-
mento: «Beh, le armi ormai non vi mancheranno, ne avrete in abbondanza.»
«Sì» la voce dell’altro si raffreddò sensibilmente «certo.»
«Quand’è allora che posso venire a ritirare le mie, quelle che m’avete pro-
messo?»
Il milanese fu piuttosto vago: «Ma ormai... Comunque quando lei vuole.»
«Anche oggi stesso?»
«Quando lei vuole» ripete l’altro elusivo.
Dopo di che il farmacista non perse tempo: si rivolse per telefono ad Am-
brogio chiedendogli il furgoncino Millecento a gasogeno della ditta, e nel po-
meriggio di quello stesso 26 aprile scese a Milano; guidava l’automezzo Cele-
ste, al suo fianco sedeva in cabina il dottor Agazzino, e dietro, all’interno del
furgone, il forestiero comunista con un paio di partigiani.
Tornarono la sera a Nomana senza nemmeno un’arma: vi ritrovarono lo
stesso ambiente di festa paesana che avevano lasciato; i partigiani erano anco-
ra in giro a fare i bulli per le strade.

CAPITOLO SETTIMO

Veramente nella vita la commedia e la tragedia s’intrecciano e alternano di


continuo.
All’alba del giorno dopo, 27 aprile, un autocarro pavesato di rosso e col ra-
diatore sormontato da un grande emblema di falce e martello in lamiera, en-
trò nella piazzetta di Raperio, frazione del comune di Nomana. Ne scesero
dieci o dodici partigiani chiaramente non dell’ultima ora, risoluti e sbrigativi,
che al comando del Praga accerchiarono e invasero una casetta a due piani,
con una botteguccia di mercerie a pianterreno.
I paesani che stavano affluendo per la messa si fermarono a guardare tra
spaventati e perplessi: uno suggerì che no, non bisognava preoccuparsi, cer-
tamente si trattava d’un errore, di un malinteso, perché la gente che abitava la
casetta - tutti loro la conoscevano bene - non si era mai occupata di politica.
II parroco (magro, con capelli grigi a spazzola) uscì sul sagrato: dopo qual-
che istante di perplessità inviò un giovane a telefonare urgentemente al dottor
Agazzino: che venisse qui subito, che non perdesse un solo minuto. Poi si ac-
costò alla botteguccia circondata dai partigiani.
Uno di questi, quello che gli era più vicino, gli puntò contro la sua arma:
«Indietro» intimò, e aggiunse del tutto gratuitamente: «Indietro, sacco di
m...» Il parroco rimase a bocca aperta e guardò gli altri partigiani: erano duri,
freddi, senza gioia. Parevano - questo era strano - impegnati in una sorta di
lavoro di routine; indossavano tutti la camicia rossa sotto giacche civili di-
sformi, ed erano armati di Sten inglesi, piccole armi automatiche rudimentali,
raccapriccianti nelle loro mani; non somigliavano davvero ai partigiani im-
provvisati di Nomana, che il giorno prima erano venuti anche qui a, farsi am-
mirare dalla gente.
«Ma» protestò con un certo ritardo il prete: «ma...»
«Ho detto indietro» ripeté il partigiano, e poiché quello non accennava a
muoversi, lo urtò sullo stomaco con la bocca dell’arma, costringendolo ad ar-
retrare. «Ecco, così, così» e tirò una bestemmia.
«Sia lodato Gesù Cristo» mormorò, quasi automaticamente, il prete in ripa-
razione.
Alcuni dei suoi parrocchiani gli vennero accanto, pieni d’ansia. Il partigiano
avvertì la solidarietà di quel gesto e biascicò qualcosa, che i paesani non com-
presero; gli altri partigiani risero.
Dentro la casetta si levarono improvvisamente grida e lamenti, poi si svi-
luppò un trambusto che sfociò in passi pesanti giù per le scale, finché dalla
porta spalancata irruppero nella piazza i partigiani che v’erano entrati, tra cui
il Praga, e in mezzo a loro, malamente sospinta, una donna. «È la Fantò
d’Incastigo» «La moglie del Fantò» mormorarono alcuni paesani. «Ma guar-
da... Come mai si trova qui?»
La poveretta, sui quarantanni, vestita d’un grembiule scuro a fiorellini, coi
capelli a crocchia disfatti e una calza ballonzolante a fisarmonica, appariva
inebetita dal terrore; non fermava gli occhi sui paesani, sembrava vedere solo i
suoi persecutori, o forse neppur quelli vedeva: vedeva soltanto la morte che le
stava sopra implacabile. «Mm» faceva con la bocca chiusa e come vibrante:
«mm, mm...»
«Andiamo» le ordinò il Praga afferrandola da tergo per la collottola e so-
spingendola verso l’autocarro; poi s’arrestò per qualche istante scostandola da
sé, ma senza lasciare la presa. «La troia!» disse rivolto agli altri: «guardate» e
rise sinistramente. Lungo le gambe un po’ allargate della donna s’era messa a
scorrere l’orina: formò una piccola pozza per terra sotto di lei.
«Hai finito?» disse il Praga dandole uno scossone: «Avanti allora» e sempre
tenendola per la collottola la sospinse, seguito dagli altri, verso l’autocarro, sul
cui cassone più che farla salire, la buttarono di peso; dopo di lei salirono i par-
tigiani, impugnando i loro piccoli Sten bruniti, feroci, il Praga montò davanti,
in cabina; l’autocarro, sormontato dal rozzo emblema di falce e martello,
s’avviò.
«Ma quello non è il Praga? - È il Praga, sì... - Il Praga è, il Praga
d’Incastigo» diceva sorpresa la gente: «Allora davvero è diventato partigiano.»
«E noi che non ci credevamo!»

CAPITOLO OTTAVO

L’autocarro, lasciata la piazza, raggiunse la via provinciale e s’allontanò.


Dentro la botteguccia rimasta aperta adesso qualcuno piangeva forte e si di-
sperava, si trattava della merciaia; il parroco e un paio di paesani entrarono,
gli altri restarono fuori presso la porta.
Seduta su una sedia la merciaia - col viso tra le mani - si contorceva per lo
strazio; il marito le si dava attorno cercando di calmarla. «È sua sorella» spie-
gò al parroco: «quella che hanno portato via è sua sorella.» Il parroco annuì.
«L’uccideranno» strideva la donna sempre coprendosi il volto con le mani,
e ansimava: «L’uccideranno di certo. Quel Praga è un tale assassino, un tal
boia... Oh... Oh...»
«Ieri sera da Incastigo hanno portato via suo marito» disse l’uomo al parro-
co: «il Fantò, lo conosce? il Fantò d’Incastigo, quello magro, che chiamano
Panzone? Stava alle dipendenze del Praga quando, un anno fa, hanno insie-
me... prelevato il ragionier Mambretti, che è poi finito in Germania. Si ricor-
da? Più di un anno fa. Adesso il Praga vuol togliere di mezzo tutti i testimoni:
ecco cos’è.»
«Ma la moglie? Cosa c’entra la moglie del Fantò?» azzardò il parroco.
«Perché è al corrente delle cose, perché sa tutto: nient’altro che per questo»
disse l’uomo. «Soprattutto sa - e lo diceva sempre in giro - che suo marito ha
sì accompagnato il Praga dal Mambretti, ma da ignorante, senza avere idea di
come la faccenda sarebbe finita. A far tutto è stato il Praga: questo anche il
Fantò, mio cognato, me l’ha detto un mucchio di volte. E si disperava - non so
se lei è al corrente - si sbronzava quasi ogni giorno, e non era più fascista da
un pezzo, non era più niente ormai.»
«Sì, ho sentito» mormorò il parroco.
«Stanotte quel disgraziato l’hanno torturato di sicuro» fece la moglie, col
viso a metà coperto dalle mani: «se no non sarebbero mai arrivati qui. Perché
soltanto lui sapeva che mia sorella, in caso di pericolo, sarebbe venuta a na-
scondersi da noi.»
«Ehi, un momento... Dobbiamo avvisare la signora Mambretti!» esclamò a
un tratto il marito: «Sì, certo, la ved... la moglie del ragioniere: perché anche
lei è informata di come sono andate le cose! Bisogna avvertirla subito, che
scappi, se no quel delinquente ci gioco che va a prendere anche lei.»
«Per fortuna quella non abita più a Incastigo» disse il parroco. La piccola
folla fuori della porta era intanto cresciuta; anche se spaventata la gente era
tuttora perplessa, incapace di tirare una conclusione. Cosa mai poteva avere
fatto contro i partigiani la Fantò?
Ma se non aveva fatto niente, se era innocente, perché era venuta a nascon-
dersi qui al Raperio da sua sorella? Basta. E pensare che poco prima, sve-
gliandosi, tutti avevano provato un gran sollievo all’idea che la guerra e ogni
guaio fossero finiti.

CAPITOLO NONO

L’ora d’inizio della messa passò senza che il parroco uscisse dalla merceria,
la cui porta era stata accostata; un battente aveva i vetri rotti. Il sacerdote
s’affacciò solo quando - su una macchina a gasogeno munita di una grande
bandiera tricolore (ma in molti c’era ormai la sensazione che la commedia si
fosse capovolta in tragedia) - arrivò il dottor Agazzino con tre dei suoi parti-
giani. Scambiata qualche parola col parroco, il presidente del C.L.N. entrò con
apprensione nella merceria, la cui porta venne nuovamente accostata. Fuori
rimasero i tre partigiani, che non sapevano bene quale atteggiamento tenere;
portavano al collo fazzoletti tricolori nuovissimi e sorridevano incerti ai pre-
senti. Alcuni dei quali cominciarono a prendersela con loro per l’accaduto: gli
rinfacciavano d’essere incapaci di difendere la popolazione, uno addirittura li
insolentì; era tuttavia un atteggiamento ancora incerto, non definitivo. Dopo
circa dieci minuti ecco arrivare un’altra automobile, con tanto di bandiera ros-
sa, che andò ad arrestarsi accanto alla precedente. Ne scesero il Forestiero e
quattro dei suoi ragazzi comunisti. Al che Agazzino - prontamente avvertito -
s’affacciò alla merceria e, sebbene sorpreso da questo arrivo, fece più volte
segno al Forestiero (o Foresto, come con voce dialettale lo chiamava la gente)
che lo raggiungesse. Cosa che quello fece attraversando la piazzetta a passi
lenti e gravi, aveva in capo il berretto di pelo con la stella rossa sul frontale, e
alla vita un cinturone con fondina e pistola. La gente non poté a meno di col-
legare lui e i suoi partigiani rossi con gli altri che s’erano portati via la donna,
e ammutolì. Quelli che avevano sgridato i partigiani col fazzoletto tricolore,
non sgridarono questi, rimasti a loro volta in attesa sulla piazzetta: li guarda-
vano invece fissamente, qualcuno con durezza. I ragazzi neo arrivati avverti-
vano l’ostilità della gente: la conoscevano quella gente, non se n’erano mai
sentiti divisi, adesso cominciavano ad accorgersi che qualcosa li stava divi-
dendo in modo forse definitivo. Non dissero quasi parola finché dalla merce-
ria uscirono il presidente del C.L.N., il Foresto col suo truce berretto bolscevi-
co in capo, e il parroco. Presidente e Foresto fecero ciascuno segno ai propri
partigiani di seguirli, e raggiunsero le rispettive automobili nel silenzio di tutti
i presenti.
Solo dopo che le automobili si furono avviate: «Vanno a Incastigo» spiegò il
parroco alla gente: «per tentar di riavere quella povera donna. Se non la tro-
vano là, andranno a Milano al Ci-elle-enne, che sarebbe il comando, e se sarà
necessario anche alle carceri. Che Dio li aiuti.»
Questo all’incirca ripete di lì a poco dall’altare, con indosso i paramenti sa-
cri: «La messa di oggi la offriamo per la nostra sorella che in questo momento
è in pericolo di morte. Dobbiamo pregare tutti per lei, cercar di strappare a
Dio la grazia.»

***
Le due auto, rimandate da un luogo all’altro, girovagarono per ore inutil-
mente; furono di ritorno a Nomana nel primo pomeriggio. Gli occupanti ne
scesero in diverso modo abbacchiati. Per darsi un tono il Foresto ostentava un
atteggiamento polemico nei confronti del presidente del C.L.N, che, com’egli
ripeté ai suoi, ‘voleva saperla troppo lunga’; i ragazzi in tricolore erano addirit-
tura traumatizzati non solo dalla vicenda della donna, ma anche dalla consta-
tazione - particolarmente evidente davanti al carcere di san Vittore - che la
‘liberazione’ non era affatto una festa, ma piuttosto un orrido scatenamento di
violenza su chi - colpevole o no - non era comunque in grado di difendersi. Il
dottor Agazzino era molto turbato per l’impotenza propria e della propria par-
te: nella zona rossa sopra Milano - a quanto egli aveva appreso - erano in cor-
so stragi: a Nova, per esempio, sul margine nord di tale zona, sempre nuovi
cadaveri venivano a incagliarsi contro il ponte del canale Villoresi (ne sareb-
bero stati in effetti raccolti, e sepolti a spese dell’amministrazione comunale,
più di centoventi). “Speriamo che arrivino presto gli americani” s’augurava
perciò pressantemente il farmacista, “speriamo che non ritardino.” Quanto ai
ragazzi in fazzoletto rosso li irritava la disapprovazione d’Agazzino e dei ra-
gazzi col tricolore: si erano resi conto che altrove i partigiani - vecchi o
dell’ultima ora che fossero - erano padroni incontrastati d’ogni cosa: perché
non doveva essere così anche a Nomana? Perché quei musi lunghi?
Della donna non si ebbero notizie per mesi, fino a quando si diffuse a Inca-
stigo, e di là rimbalzò al Raperio e a Nomana, la voce che la poveretta era stata
dopo la cattura portata in una fabbrica di Sesto dove già si trovava suo marito,
e che prima di mezzogiorno dei due ‘non era rimasto più niente’. In che modo
di due coniugi non fosse rimasto più niente la voce non specificava; al tempo
in cui si diffuse però tutti sapevano che a Sesto nei giorni della liberazione pa-
recchi corpi umani erano stati gettati negli altiforni.
TERZO VOLUME

L’ALBERO DELLA VITA

PARTE PRIMA
I

CAPITOLO PRIMO

Anche a Nomana cominciarono i rientri. Pino e Sèp - che s’erano entrambi


rifugiati in Svizzera - s’incontrarono per caso alla dogana di Ponte Chiasso al
momento del rimpatrio, provenienti da due campi diversi: erano senza notizie
uno dell’altro dalla sera in cui Sèp aveva disertate le formazioni azzurre per
mettersi coi ‘garibaldini’, e poco mancò che - riconosciutisi, avendo Pino co-
minciato a rimbrottarlo, e l’altro a ribattere villanamente - non si prendessero
a pugni come al tempo in cui ragazzini frequentavano la scuola elementare.
Non erano più ragazzini però, e se ne accorsero alla durezza delle rispettive
frasi. «Volevate sfruttarmi anche da partigiano, eh, tu e i tuoi ufficiali?» disse
e ripeté Sèp con occhi cattivi: «Come ci sfrutta tuo padre a Nomana, eh?»
«Vomitati addosso, invece di vomitare sugli altri» inveì Pino. «Ma guarda-
lo. Sei tutto di m... dalla testa ai piedi!» Andarono avanti per un po’ con frasi
simili. Malgrado a Pino tremassero le labbra per lo sdegno, non si risolse -
stante il carattere accomodante che si ritrovava - a rompere del tutto. «Se
penso che siamo venuti via dal paese insieme...» osservò perfino. «Ad ogni
modo fa come vuoi. Crepa.»
Percorsero a piedi, con altri che al pari di loro rimpatriavano, la verde stra-
da che sale a monte Olimpino; Pino camminava una trentina di passi avanti.
Da poco aveva superato il colmo e iniziata la discesa verso Como (a tratti scor-
geva laggiù tra gli alberi l’azzurro del lago) quando accanto a lui s’arrestò un
grosso furgone color bianco avorio, pure proveniente dal confine. «Riva, sei
tu? Sei o no il Riva di Nomana?» gli gridò uno dalla cabina: «Dai allora, mon-
ta su.»
A interpellarlo era uno dei ragazzi della famiglia Marsavi, industriali in Vi-
sate a pochi chilometri da Nomana, da Pino incontrato più d’una volta in Sviz-
zera. Evidentemente il Marsavi aveva preavvertito del proprio rimpatrio i suoi
che, da gente pratica, in luogo d’una normale vettura gli avevano inviato quel
capace furgone. Sui fianchi del quale spiccava una scritta: ‘Salumificio Marsa-
vi Spa’, e sotto il motto che Pino ricordava ‘Labor non clamor’ e il marchio,
raffigurante un’ape al lavoro.
«Allora? Sali o no?» ripeté l’Andrea Marsavi, e balzò a terra: «Dai che ti
apro.»
Andò ad aprire il portello posteriore del furgone; indossava una stinta divi-
sa da sottotenente del genio. «Grazie, ti ringrazio» gli disse Pino: «Ma... Senti,
ci sarebbe anche un altro di Nomana.»
«Dov’è?» chiese Andrea. «Fallo salire, forza. Non perdiamo tempo.»
Nel furgone c’erano già parecchie persone, sedute sul pavimento con la
schiena addossata alle pareti. Pino si rivolse a Sèp, che s’era fermato con altri
a qualche passo a osservare: «Vuoi salire?»
Anche Sèp conosceva i furgoni del salumificio Marsavi, anche a lui il vistoso
color avorio e le scritte di questo anticipavano in qualche modo l’aria di casa;
annuì, si fece avanti e montò nel furgone, Pino salì dietro di lui. Diversi altri
sarebbero voluti salire. «Dov’è che siete diretti? In Brianza?» s’informò il
Marsavi, trattenendo con la destra la maniglia: «Perché se no è inutile.»
Ne accolse due della zona di Lecco, sebbene alquanto eccentrica rispetto al-
la destinazione Visate, e richiuse il portello alle loro spalle.
Durante l’ora circa di tragitto - al semibuio - Sèp e Pino non si scambiarono
una sola parola. Quando l’autocarro si fermò sulla strada provinciale Lecco-
Monza, al bivio di Visate, fu di nuovo il Marsavi in persona, con la sua stinta
divisa da sottotenente indosso, ad aprire il portellone. Senza dubbio - pensò
Pino — quel modo d’agire così alla mano doveva averlo preso dai suoi maggio-
ri: si sapeva che il nonno, il padre e lo zio di questo Marsavi, sebbene avessero
alle loro dipendenze cinque o seicento operai, usavano girare per la fabbrica
con indosso il grembiule bianco al pari di tutti, e non disdegnavano
all’occasione di dare una mano dove occorresse.
Pino e Sèp smontarono con un salto. Pino ringraziò l’Andrea Marsavi, il
quale in risposta gli diede un colpetto su un braccio: adesso ch’era così vicino
a casa dimostrava ancora più fretta, il suo naso affilato (distintivo di tutti sen-
za eccezione i Marsavi) si raggrinzì per complimento: «Ciao partigiano» disse.
«Spero che avremo occasione di rivederci presto.» Dopo di che chiuse
d’impeto il portello e tornò al suo posto in cabina; l’autocarro ripartì.
Pino e Sèp si ritrovarono soli nel gran sole sulla strada asfaltata. A nord
chiudeva l’orizzonte la nota cerchia delle montagne, col Resegone, le due Gri-
gne e il San Primo che ne emergevano; davanti a loro la strada scendeva verso
i tetti di Nomana tra campi ubertosi e fioriti; in basso a destra era riconoscibi-
le la cascina Nomanella, giallina nel verde, a forma di rettangolo aperto, con i
suoi tre grossi ciliegi davanti e, più piccolo, il fico disforme. Pino guardò
l’altro: «Se penso al giorno che siamo venuti via» mormorò.
Sèp non gli rispose.
«Chissà a quest’ora le nostre due biciclette in mano a chi saranno» disse Pi-
no e s’avviò.
«Chissà» disse Sèp, incamminandosi a sua volta.
Per l’intero percorso non si scambiarono altre parole; avvertivano entrambi
l’emozione del momento, anche Sèp l’avvertiva, ma era determinato a non
esternarla. Anzi per reagire meglio avrebbe voluto offendere di nuovo Pino
(questa carogna che magari a Nomana avrebbe parlato di lui come di un diser-
tore, perché aveva lasciato gli azzurri e il comandante Marco... Vero che Pino
non era uno che sparlasse del prossimo: però i signori - come infinite volte gli
aveva ripetuto il commissario espatriato in Svizzera - coi lavoratori sono per
forza carogne: anche se non vogliono, anche se cercano di non essere carogne:
lo sono per un motivo scientifico.) Pino avvertiva l’ostilità dell’ex compagno
d’armi e vagamente avrebbe voluto dissiparla, tornare alla buona armonia
d’un tempo, ma non ne vedeva il modo. Finì col mettersi a canticchiare la
marcetta in voga tra i partigiani di Marco (‘Marciar, marciar - marciar, ci
batte il cuore...’); le scarpe chiodate d’entrambi parevano con la loro cadenza
volerli mettere in sintonia, fare in qualche modo musica con loro; i due però
non le secondarono.
Arrivarono alle prime case: Pino indossava una giacca a vento e aveva la sua
eterna borsa da medicazione a tracolla (adesso gli serviva per la biancheria di
ricambio), e il vecchio, sbiadito fazzoletto azzurro dei tempi eroici al collo; Sèp
di partigianesco aveva solo gli scarponi da montagna, l’abito strappato, e l’aria
brava; i primi paesani in cui s’imbatterono li salutarono con festa, sì, ma an-
che - i due non mancarono d’avvertire - con una sorta di riserva. Siccome
ignoravano l’episodio accaduto pochi giorni prima al Raperio, entrambi si me-
ravigliarono un po’ di questa accoglienza piuttosto fredda, ma senza commen-
tare; al primo incrocio, dopo essersi salutati a malapena con un cenno, si se-
pararono. Pino prese a destra, verso la propria casa.

***
Di lì a un paio di giorni arrivò a Nomana una piccola colonna di jeeps, auto-
carri, trattori, cannoni, forte di circa centocinquanta uomini, che rizzarono le
loro tende in un giardino.
Dopo alcune ore quei soldati cominciarono a bighellonare per il paese e le
osterie; indossavano sformate camicie color cachi chiaro su calzoni dello stes-
so colore, ed erano in genere taciturni. La gente li chiamava ‘gli americani’
sebbene si trattasse di sudafricani dell’Ottava armata inglese, soldati che,
quanto alle divise almeno, agli americani non somigliavano affatto. La loro
presenza - in sé umiliante - fu accolta da quasi tutti i nomanesi come il minor
male: la considerarono una garanzia contro il ripetersi di episodi tipo quello
del Raperio. Con reazione inversa i partigiani comunisti vedevano ‘gli ameri-
cani’ di mal occhio: «Non presidiano Incastigo, ch’è un paese più grosso e im-
portante» dicevano, «proprio Nomana dovevano venire a impestare?» Appa-
riva ad ogni modo sempre più chiaro che i rossi erano in paese minoranza,
anche se adesso coi partigiani cominciavano a intrupparsi e a riunirsi in una
data osteria elementi più anziani. I quali si definivano abbastanza in confuso
comunisti e socialisti; da costoro Sèp - accolto dapprima con indifferenza - fu
presto considerato gloria e lustro cittadino.

CAPITOLO SECONDO

Quasi contemporaneamente ai pochi rifugiati in Svizzera, cominciarono a


riapparire i soldati che l’armistizio aveva bloccato nell’Italia meridionale. Pri-
mi arrivarono quelli che avevano partecipato ai combattimenti sulla linea go-
tica: li depositarono davanti alle loro case, e dopo alcune ore, al massimo un
giorno, tornarono a recuperarli gli autocarri dei reparti (identici agli autocarri
in dotazione ai sudafricani, tutti di costruzione inglese, dalla linea stranamen-
te antiquata ma dotati di buoni motori e di gomme massicce). Poi ecco giun-
gere alla spicciolata, e con mezzi di fortuna, quanti non avevano fatto parte dei
reparti combattenti: costoro provenivano in genere dai porti del sud, dove
avevano prestato servizio come scaricatori o in altro modo lavoratori alle di-
pendenze degli ‘alleati’; solo pochi di questi indossavano divise inglesi al mo-
do dei combattenti, i più vestivano tuttora la vecchia divisa del regio esercito,
si può immaginare in che stato ridotta, oppure una strana uniforme per pri-
gionieri di panno grossolano color caffè; avevano licenze di parecchi giorni, e
qualcuno era scappato a casa senza licenza.

Insieme ai combattenti giunse Luca il quale, come sappiamo, non abitava a


Nomana ma nel vicino paese di Beolco. I Riva furono informati del suo arrivo
da un ragazzotto inviato dallo stesso Luca ad avvertire Ambrogio che nel corso
di quel giorno, a una data ora, sarebbe venuto «a parlargli». Il ragazzotto, va-
gamente somigliante a Luca del quale era cugino, fu ricevuto da Ambrogio in
ufficio.
Al sentire che Luca era tornato, Ambrogio balzò in piedi, poi, sedutosi di
nuovo, ascoltò la breve ambasciata; consultò l’orologio, segnava le undici. «Dì,
dove si trova in questo momento Luca?» chiese al ragazzo: «A casa?»
«Sì, è a casa.»
«Quando è arrivato?»
«Stamattina prima delle otto, mentre io mi stavo alzando. A casa è arrivato
a piedi, siccome il camion della naia li ha lasciati nella piazza loro due, cioè lui
e un alpino che abita alla frazione Brugarolo.»
«Gliel’avete già detto di Giustina?»
«Sì.» La vispa faccia del ragazzo si fece per qualche attimo mesta: «È stato
lui, Luca, che ha voluto sapere subito ogni cosa. Sembrava diventato matto:
noi gliel’abbiamo dovuto dire per forza.»
«Povero Luca» commentò Ambrogio. «Poveraccio!»
Nell’ufficio entrava smorzato il rumore sempre uguale dei telai, facendo lie-
vemente vibrare ogni cosa, Ambrogio non si muoveva: «Povero cristo» disse
ancora.
Consultò di nuovo meccanicamente l’orologio: «Deve ripartire presto, vero?
Sai quando?»
«Stasera. Con quello del Brugarolo è d’accordo di trovarsi giù in piazza alle
sei.»
«Luca non v’ha detto niente di Manno? Di mio cugino Manno?» non poté a
meno di chiedere Ambrogio.
Il ragazzo fece segno di no con la testa, ma sembrava incerto.
«Sei sicuro?» gli chiese il giovane, guardandolo fisso.
«Io sono un ragazzo, a me non dicono mai niente.»
Ambrogio l’osservava in silenzio.
«Stamattina Luca è andato per prima cosa alla Nomanella» aggiunse di suo
il ragazzo: «Di là contava di venire poi qui da lei, l’aveva lasciato detto in casa.
Invece dopo un po’ è tornato indietro con un magone così.»
Ambrogio annuì: gli dispiaceva disturbare Luca in un momento di dolore
come questo, mentr’era sotto trauma per avere appresa la morte della fidanza-
ta. Non poteva però trattenersi, si alzò in piedi: «Vieni» disse al ragazzo. Usci-
rono nel cortile acciottolato della fabbrica, dove i tigli dai tronchi scuri ogni
pochi anni scapitozzati, stavano volonterosamente coprendosi di nuovi ger-
mogli; il rumore dei telai qui era meno forte che nell’ufficio, rimbombava di
meno.
«Senti» disse Ambrogio al ragazzo: «ti ringrazio per l’ambasciata. Dì a Luca
che m’hai parlato e mi hai riferito. Digli anche, però, che io adesso vado subito
da lui a Beolco, a casa sua.»
«La casa di Luca è anche casa mia» spiegò il ragazzo.
«Va bene. Se per un qualsiasi motivo non lo trovo, rimaniamo d’accordo
che lo aspetterò qui nel pomeriggio, all’ora che tu hai detto. È chiaro? Hai ca-
pito?»
«Sì.»
«Bravo. Prendi, questo è per te, per il tuo disturbo.» Gli infilò nella tasca
superiore del giubbetto una mancia.
Il ragazzo ringraziò con un cenno lieto del capo; poi andò a prendere la bici-
cletta che aveva lasciata contro un tiglio, e montato in sella si diresse verso il
cancello.
Ambrogio raggiunse in ufficio il padre per avvertirlo dell’arrivo di Luca e
per comunicargli che si sarebbe recato subito da lui; padre e figlio si guarda-
rono negli occhi: se Manno era passato dall’Albania nell’Italia meridionale,
sapevano che adesso avrebbero avuto sue notizie.
«Se Luca non ci ha mandato a dire niente dal ragazzo, le notizie non posso-
no essere buone» osservò il padre.
Ambrogio annuì; poi però, cercando di conservare spazio alla speranza: «In
questo momento Luca è sotto la mazzata per la morte di Giustina» rilevò a
mezza voce: «Ne ha avuta notizia soltanto qualche ora fa. Uno, in simili circo-
stanze, non può pensare ad altro.»
«Va» gli disse il padre, «va subito.»

***
Poiché la caldaia della Millecento a gasogeno non era in pressione, il giova-
ne si portò in fretta a casa, prese la sua bicicletta da liceale (quella sportiva,
color azzurro, con cui cinque anni prima, appena tornato dal collegio, aveva
fatto visita a Stefano) e la inforcò.
«Dove vai?» gli gridò Almina che, col fazzoletto attorno al capo, stava spor-
gendo un tappeto dal davanzale di una finestra.
«Torno subito» eluse la domanda Ambrogio.
Pedalò sulla ghiaia del viale poi, una volta uscito dal cancello, rasente la ca-
sa e il muro del giardino; all’angolo con la carrareccia della Nomanella salutò
l’affresco della Madonna del rosario, e proseguì lungo la strada maestra in di-
scesa, verso Beolco. Per un istante supplicò la Madonna: che suo cugino non
fosse morto, che fosse vivo e il lungo incubo ora finalmente si dissolvesse.
Chissà, forse Luca aveva addirittura incontrato Manno, e tra poco avrebbe fat-
te le sue meraviglie al sentire che nessuna notizia di lui era arrivata a Nomana.
Forse...
Da una curva Ambrogio notò laggiù verso sinistra - a lato della stazione fer-
roviaria - i fabbricati nuovi della vetreria. Più in qui il verde dei prati di fondo
valle era ritagliato in lunghi riquadri paralleli da siepi di salice color verde-
grigio, oppure di ontano dalle foglie quasi rotonde. Il giovane provava una
sorta di difficoltà a staccare gli occhi da simili particolari.
Poco più avanti ecco, sull’altro lato della strada, il sentiero che portava alla
cappelletta dei ‘privilegiati morti di Crea’, nella quale erano raccolti - dentro
una sorta di greppia a una parete - i teschi dei morti in una pestilenza di vari
secoli prima (la peste del Manzoni, diceva la gente, ma chissà se si trattava di
quella o di un’altra: nella cappelletta non si leggevano date, c’era soltanto
un’iscrizione su un muro con l’invito a lucrare per quei morti un’indulgenza
‘privilegiata’, concessa loro da un antico, ormai del tutto dimenticato arcive-
scovo di Milano).
Più avanti ancora, sempre dalla stessa parte, c’era un valloncello boscoso e
fresco che portava al ‘fontanin del soldato’; chissà di quale soldato si trattava,
di quanti anni prima. Ambrogio ricordò che Manno da ragazzo - fantasioso
com’era - asseriva doversi trattare d’un lanzichenecco. Certo lo diceva perché
lì presso c’erano le ossa dei morti nella peste... Intorno a quel rustico fontani-
no - che non distava molto dalla Nomanella - Stefano da ragazzetto usava di-
sporre le panie col vischio, per catturare gli uccelli quando d’estate scendeva-
no ad abbeverarsi.
Al termine del verdeggiante fondo valle ecco Beolco, un arioso paese attra-
versato dalla strada, ed ecco la piazza in cui il camion della naia aveva scarica-
to i due alpini. Superato il paese, dopo essersi lasciati indietro uno stabilimen-
to industriale (le officine Argati) e alcuni vecchi giardini, la strada attaccava a
salire verso la Catafame, la cascina in cui coi genitori e gli zii abitava Luca.
Era la Catafame una costruzione singolare, a mezzo tra la casa e la fortezza:
di forma grossolanamente quadrata, a due piani, con mura spesse un metro,
aveva poche finestre, e le grondaie alte e sporgenti cariche di tegole; nel quar-
to verso Beolco - ch’era un po’ in rilievo sul restante corpo, così da suggerire
l’idea d’un torrione - si scorgevano sotto le grondaie alcune file di fori, quasi
minute feritoie che immettevano - Ambrogio sapeva - nel ‘solaio delle passe-
re’. Proprio da quel solaio era originata l’amicizia tra Manno e Luca al tempo
della scuola elementare: da un invito a Manno perché partecipasse alla cattura
dei nidiacei, che si effettuava una volta all’anno. Ambrogio se ne sovvenne
mentre - senza scendere di bicicletta - attraversava un umido passaggio a volta
che immetteva nell’esigua corte della cascina. Qui erano raggruppati alcuni
parenti di Luca, qualche altro stava affacciato a un ballatoio di legno che spor-
geva torno tornò al primo piano su tre lati della profonda corte: c’era dunque
un po’ d’animazione per l’arrivo del congiunto dopo così lunga assenza.
Ambrogio scese di bicicletta e appoggiò il veicolo al muro. «Dov’è Luca?»
chiese con voce il più possibile festosa, quasi a stornare i cattivi presagi.
Gli risposero con una premura eccessiva, che non gli piacque; intanto tutti
lo fissavano. «È qui» lo chiamò il ragazzo che gli aveva appena fatto visita a
Nomana, uscendo da una portina a pianterreno: «Venga signor Ambrogio.»
Tenne la porta aperta mentre il giovane entrava, e la richiuse dietro di lui sen-
za seguirlo.
Luca - con gli occhi molto arrossati - sedeva su un divanetto: aveva sempre
la barba fuori serie, e il distintivo azzurro della medaglia, e le mostrine alpine,
le quali però apparivano spaesate sulla divisa inglese di colore cachi chiaro.
Non appena il visitatore entrò nel locale egli si levò in piedi e gli andò incon-
tro, spalancando le braccia.
Stretto ad Ambrogio, con la testa china, rimase alquanto senza parlare,
straordinariamente commosso. «Povero Luca» disse Ambrogio: «Che ritorno
t’è toccato, che ritorno!»
Il reduce fece ripetutamente segno di no con la testa, con struggimento, a
significare che un simile ritorno non era giusto; poi, appena poté parlare:
«Non avete saputo di Manno?» chiese con voce incerta, in dialetto.
«No» rispose Ambrogio, e avvertì un brivido lungo la schiena. «Di lui non
sappiamo niente dai giorni dell’armistizio, dal settembre 43». Si staccò
dall’amico: «Tu cosa sai?»
Luca lo guardò negli occhi senza rispondere.
«Cos’è che sai? Sai qualche cosa?» tornò a chiedere Ambrogio.
L’altro fece segno di sì.
«Perché non parli?»
«Di Montelungo, della battaglia che c’è stata, non sapete niente?»
«No» sussurrò Ambrogio, e senza aggiungere parola lo fissò, tesissimo.
Luca volse altrove lo sguardo: «È morto a Montelungo, ancora al principio,
nel dicembre del 43» disse con voce atona. Adesso - lo si vedeva - gli veniva da
piangere anche per questo, ma buttò fuori: «Nella prima battaglia che c’è stata
contro i tedeschi. Manno ci è andato volontario, gli hanno data la medaglia
d’oro.»
«Dunque è morto!» mormorò Ambrogio. Ebbe l’impressione di non potersi
reggere sulle gambe, che gli tremavano come non gli era mai accaduto in vita
sua; allungò una mano, prese una sedia, sedette.
«È morto» ripeté.
Luca lo guardò, annuendo senza parlare.
Nel locale - una modesta cucina da operai - c’erano anche i genitori di Luca
e una sua parente, forse una zia, d’età indefinibile: mentre le due donne si
scambiavano occhiate di costernazione, il padre - lo si vedeva - avrebbe voluto
riuscire d’aiuto, dire almeno qualcosa: «La... la medaglia» finì con lo spiccica-
re a fatica, e: «Povero signor Manno!»
Ambrogio ebbe per un istante la percezione di quella che doveva essere sta-
ta l’angoscia del cugino nei giorni tremendi della dissoluzione succeduta
all’armistizio, la disperata energia con cui doveva essersi impegnato anima e
corpo nella risalita.
«Noi lo vorremmo qui lui, non la medaglia, eh?» disse Luca ad Ambrogio, e
tirò un sospiro. Poi, nell’accasciato silenzio degli altri, continuò: «Io e Manno
eravamo amici fin da bambini, lo sai, amici per la pelle, come tu lo sei di Ste-
fano e d’Igino...» S’interruppe: «Anche Stefano, por fiö» Di nuovo la pena gli
mozzò la parola.
Il padre allora, e anche la madre, cercarono di subentrargli, di dire loro, con
umanità, qualche parola al visitatore; ma per confortarlo non seppero che
pronunciare le solite ritrite frasi di convenienza.
Superato il magone Luca tornò a sedersi sul divano e tirò fuori tutte le noti-
zie di cui disponeva: riferì il suo incontro con Manno in quella stazioncina fer-
roviaria in Puglia («È stata l’ultima volta che l’ho visto»), e di una cartolina
ricevuta da lui poco dopo, con l’indirizzo d’un certo tenente Gambacurta quale
recapito. Riepilogò ciò che aveva sentito della battaglia di Montelungo,
dell’opera trascinatrice di Manno, e della sua morte. Non aveva mancato
d’informarsi in merito alla sepoltura, e ne aveva anche scritto a Gambacurta,
segnalandogli il luogo. Gambacurta però era già al corrente d’ogni cosa, e nella
risposta gli aveva comunicato d’avere certe lettere sentite da Manno per i pa-
renti. «Dopo, quando hanno organizzato il CIL, cioè il Corpo Italiano di Libe-
razione, io e il tenente Gambacurta ci siamo finiti dentro tutt’e due: lui asse-
gnato al comando e io al battaglione alpino. Però l’ho visto soltanto ieri matti-
na, che sono andato appositamente da lui a Verona, al comando della divisio-
ne Legnano, per farmi consegnare quelle lettere, siccome venivo in licenza. Ma
lui non le ha mica volute mollare, e ha detto d’avvisarvi che verrà in persona a
portarvele non appena possibile, perché si tratta d’una specie di promessa che
ha fatto a Manno.»
«Quando sarà, secondo te, questo ‘non appena possibile’?» chiese Ambro-
gio, pur stranito com’era: «Ne hai un’idea?»
«No. E neanche lui, credo. Sai bene come vanno le cose sotto la naia.»
Ambrogio non mancò d’annotarsi nome e indirizzo di Gambacurta, poi fece
a Luca alcune domande per rendersi meglio conto dell’accaduto. Intanto non
dimenticava - e dal proprio per la perdita del congiunto misurava - lo strazio
che doveva esserci nell’altro per la perdita della fidanzata. Non rimase dunque
a lungo; alzatosi in piedi strinse la mano all’amico. «Devi ripartire stasera, eh?
Non sei solo, siete in due, ho sentito.»
«Sì, c’è con me uno qui del Brugarolo, un certo Picozzi.»
«Sai dove vi manderanno adesso?»
Luca fece con la testa segno di no: «In questo momento siamo accampati
vicino a Villafranca.»
«Beh, ti lascio ai tuoi» disse Ambrogio, «che siete stati tanto tempo senza
vedervi.» Annuì: «Sono contento che tu sia qui tutt’intero, dopo averne passa-
te tante.»
«Sì.»
I due giovani si strinsero di nuovo la mano e Ambrogio uscì.
Attraversando la piccola corte si rese conto che i presenti erano già al cor-
rente della morte di Manno: Luca evidentemente doveva averne parlato prima
del suo arrivo. Prese la bicicletta, la inforcò, e uscì attraverso l’umido passag-
gio a volta sulla strada; che poi si diede a percorrere con lentezza verso Beolco.
Da una curva si voltò a guardare la Catafame, la sua sagoma bizzarra: l’occhio
gli corse alle file di fori che immettevano nel ‘solaio delle passere’. “Altro che
passere, ormai” pensò; ben diverse memorie gli avrebbe d’ora in poi richiama-
to la Catafame.

CAPITOLO TERZO

L’amico di Manno tenente Gambacurta, di cui Luca aveva preannunciata la


visita, arrivò di lì a circa una settimana. In jeep: il portinaio - resosi conto che
si trattava dell’ufficiale con le notizie di Manno - gli aprì sollecito il cancello, e
la strana automobile, antiestetica e diversa da tutte le altre, andò ad arrestarsi
presso la porta di casa. Alla quale, preavvertite dal ‘telefonino’ interno,
s’affacciarono insieme Francesca e Alma, la prima col bel viso espressivo pie-
no d’ansia, la seconda senza che i lineamenti di statuina le si modificassero:
anche a lei però il cuore tumultuava da spezzarsi. Fecero accomodare in salot-
to l’ufficiale che non indossava, ahimè, la bella divisa grigioverde italiana, ma
- come Luca - la divisa color cachi dei vincitori; unico segno della sua apparte-
nenza all’esercito italiano era una minuscola bandiera tricolore cucita su una
manica.
Una volta seduto egli s’informò se le signorine fossero parenti del tenente
Manno Riva; avutane conferma trasse da una cartella un mazzetto di buste
chiuse: «Sono lettere scritte da Manno» dichiarò, «dal mio amico Manno» e
lesse sulla prima il nome del destinatario: «‘Ambrogio Riva’. Abita qui, è ve-
ro?»
«Sì, è nostro fratello. In questo momento si trova in ufficio.»
«Potrei parlargli? Desidero consegnare le lettere a lui personalmente.»
«Sì, certo» rispose Francesca. E rivolta ad Alma: «Per favore chiamalo subi-
to, e fai venire anche il papà; io intanto avverto la mamma.» Le due ragazze si
alzarono in piedi.
«Un momento» le trattenne il piccolo tenente; lesse l’intestazione di
un’altra lettera: «‘Colomba Alberti, baluardo Lamarmora 14, Novara’. Per caso
in questi giorni si trova a Nomana? So che ogni tanto ci viene.»
«In questo momento è a casa sua, a Novara» disse Francesca: «almeno cre-
do. Perché? Ci sono delle lettere anche per lei?» L’ufficiale annuì, separò le
lettere in due gruppi e mostrò quello più grosso: «La maggior parte delle lette-
re è per lei.»
Improvvisamente gli occhi di Francesca si riempirono di lacrime: «Povero
Manno» mormorò, «e povera Colomba!»
«Io chiamo Ambrogio» risolse Almina, e si diresse all’apparecchio telefoni-
co. Dal vestibolo giunse la sua voce gentile, in apparenza imperturbata come il
suo aspetto; la si udì avvertire Ambrogio dell’arrivo di Gambacurta con le let-
tere di Manno. Dal piano superiore, dov’era intenta a rigovernare con Noemi,
udì le sue parole la madre Giulia e scese precipitosamente le scale, seguita dal-
la domestica. Entrò difilato in salotto, mentre la domestica rimaneva fuori, ad
aggirarsi in pena nei locali più vicini, tendendo l’orecchio verso il salotto.
Gambacurta si levò con prontezza in piedi, baciò cerimonioso la mano della
padrona di casa, e prima di sedersi di nuovo attese il suo invito. «Grazie infi-
nite tenente, noi l’aspettavamo, sa?» gli disse Giulia mentre gli faceva segno
d’accomodarsi: «La sua visita ci è stata preannunciata da un giovane di qui,
amico dei miei figli, che si trova alle armi con lei.» Sedette a sua volta.
Gambacurta annuì: «Sì infatti: il sergente maggiore Sambruna.»
«Luca Sambruna, sì.»
Gambacurta annuì di nuovo. «Intendiamoci» fece presente, «la mia non è
una visita ufficiale. Vengo solo come amico di Manno.»
«Eravate amici, vero?» disse Giulia, anch’essa ormai come Francesca con le
lacrime agli occhi.
«Sì. In Libia stavamo nello stesso reggimento, col quale però io non sono
rimasto a lungo. Ci siamo incontrati poi di nuovo a Brindisi, il giorno in cui
Manno è rimpatriato dall’Albania.»
«Che giorno è stato?» non seppe trattenersi dal chiedere tra le lacrime
Francesca, e spiegò: «Noi qui seguitavamo a domandarci dove fosse Manno.»
«Vediamo, è stato poco dopo l’armistizio dell’8 settembre» rispose
l’ufficiale, fermando per un istante sul bel volto della ragazza i mansueti occhi
marroni: «alcune settimane dopo, mi faccia ricostruire... È stato precisamente
il giorno dello sbarco dei tedeschi a Corfù: dunque, signorina, verso il 20-25
settembre. Del 43, si capisce.» Rivolgendosi di nuovo principalmente a Giulia
proseguì: «Da allora Manno e io ci siamo tenuti in contatto, siamo diventati
davvero amici.» Si animò un poco: «Era un giovane fuori del comune: non
soltanto brillante, ma all’occorrenza anche un trascinatore, è stato un autenti-
co trascinatore. Era...» S’interruppe, mutò tono: «Può sembrare scontato che
io lo elogi, visto che è morto, ma...» fece segno di no con la testa, che le sue
parole non andavano interpretate a quel modo. Le tre donne s’accorsero che
anche a lui gli occhi si andavano arrossando.
«Lei gli voleva davvero bene» mormorò Almina.
Gambacurta fece segno di sì. «Apposta vengo da Verona per parlarvi di lui»
disse. Fece una pausa, spalancò e chiuse due o tre volte gli occhi, poi con voce
rifattasi come paziente: «Appena prima di partire per il fronte Manno è venu-
to a trovarmi a Brindisi e mi ha affidato queste lettere» mostrò i due mazzetti;
«le aveva scritte di sera, giorno per giorno, dopo il servizio. A quel tempo era
di sede a Murgiano, una piccola località della Puglia; ce ne sono tre indirizzate
ad Ambrogio, e otto a Colomba.» Gambacurta annuì. Aggiunse: «Insieme con
queste mi diede anche due lettere non scritte da lui, ma da un tenente colon-
nello che i tedeschi hanno fucilato in Albania, una vicenda molto dolorosa.
Quel colonnello le aveva affidate a Manno perché le consegnasse ai suoi fami-
gliari, si chiamava Cirino, la sua famiglia risiede a Roma; è stato un grande
conforto per i suoi famigliari ricevere dalle mie mani quelle lettere, e appren-
dere da me i particolari delle ultime ore trascorse in Italia dal loro congiunto.
È anche per questo che oggi sono venuto qui.» Si guardò intorno, cercò di
spiegare meglio: «Perché dopo l’armistizio Cirino era venuto dall’Albania al
Comando Supremo di Brindisi, dove io prestavo servizio, a sollecitare navi con
cui rimpatriare le sue truppe; Manno lo seguiva come ufficiale d’ordinanza,
pur non appartenendo allo stesso reggimento: si era semplicemente messo a
disposizione di quel colonnello per rendersi utile in un momento così grave.
Ma, io credo, anche per affinità, voglio dire perché erano individui d’elezione,
uomini in gamba tutt’e due, mi capite?»
«Oh, e come!» fece Giulia.
«Il giorno stesso della venuta in Italia quel colonnello è tornato in Albania:
Manno voleva seguirlo a ogni costo, avreste dovuto vederlo, ma Cirino non
l’ha consentito. È un fatto questo che poi, se ci sarà tempo, vi riferirò con più
calma: capirete meglio che ragazzo era Manno, di che generosità. Non per
niente oggi è medaglia d’oro. Voi l’avete saputo della medaglia d’oro?»
«Sì» disse Giulia «ce l’ha detto Luca, l’alpino.»
«Già. Ho portata la motivazione.» Il piccolo ufficiale cercò un foglio nella
cartella, ed estraendolo: «Il valore di Manno però non era solo militare, ma
anche, come potrei dire? civile. Nel momento di più grande crisi Manno è sta-
to un vero trascinatore vi ripeto. Poi vi riferirò meglio.» Tese il foglio a Giulia,
che lo prese con trepidazione e cominciò a leggerlo. Leggeva ad alta voce ma
in modo sbagliato, cioè sforzandosi di caricare di sentimento ogni parola: non
le era mai capitato di leggere motivazioni di medaglie in vita sua. Finì con
l’interrompersi, guardò le figlie: poiché Francesca era tuttora impedita dalle
lacrime, tese il foglio ad Almina: «Leggilo tu, Alma.» Alma, che neppure ora
esternava la propria emozione (non l’esternava mai, e appunto per questo gli
altri e anche Manno quand’era vivo la chiamavano ‘statuina di marmo’) lesse
quelle poche righe di prosa militaresca con voce priva d’inflessioni: in tal mo-
do l’inevitabile retorica non veniva a galla, e s’evidenziavano invece i fatti spo-
gli e crudi, i particolari della morte di quel bravo soldato ch’era stato Manno.
Arrivarono Ambrogio e Gerardo, li tallonava emozionato Pino con la testa,
piatta dietro, coperta dai corti capelli biondi: tutti e tre entrarono subito in
salotto, seguiti fin sulla porta da Noemi, che stranamente protendeva il collo
per vedere il messaggero della cattiva nuova, venuto a portare la conferma per
sempre della morte di Manno. Gerardo, sebbene assai emozionato a sua volta,
notò la singolare agitazione della donna e la invitò a entrare: «Entra anche tu
Noemi, vieni. Gli eri affezionata quanto noi della famiglia, su, entra.» Ma
Noemi all’invito esplicito s’emozionò ancora di più e facendo segno di no, di
no con entrambe le mani, scappò in cucina. Dopo i convenevoli Gambacurta
consegnò ad Ambrogio le tre lettere a lui destinate: notò che il giovane - anco-
ra chiaramente sotto il peso delle proprie passate traversie - le riceveva con
una sorta di tristezza greve; questo particolare colpì Gambacurta e sembrò far
scattare in lui un nascosto meccanismo: divenne tutt’a un tratto frettoloso,
chiese quanti chilometri distasse Novara, doveva, dichiarò, consegnare di per-
sona anche le altre lettere: «E bisogna che lo faccia oggi stesso, perché non so
quando avrò di nuovo la jeep a disposizione. Tengano presente che io devo
essere di ritorno a Verona in nottata.»
Si era di pomeriggio: gli altri a queste sue parole rimasero male, le donne
addirittura costernate; Gerardo - sempre pratico - propose che si telefonasse
immediatamente a Novara: se Colomba era in casa, il tenente avrebbe potuto
recarsi subito là ed essere qui di ritorno per l’ora di cena. «Anche per riposare
poi un po’, e con lei il soldato suo autista, che ho visto fuori. Novara» spiegò
Gerardo «dista forse sessanta chilometri, non è lontana.»
«Si fa in fretta se si hanno gomme buone» fece Pino «che non obbligano a
soste impreviste.»
Gambacurta, dopo un inizio di tergiversazione, accondiscese; egli s’era reso
conto che venire nella casa di Manno per portare i particolari della sua morte,
era cosa ben diversa che venirci lui vivo: appunto questa sensazione gli era
divenuta a un tratto insopportabile. D’altra parte avvertiva pure che la sua vi-
sita non poteva concludersi con una mezza fuga; inoltre non mancava
d’attirarlo la presenza, sempre gradevole per un giovane, e tanto più per un
soldato, di due belle ragazze quali erano la ventiduenne Francesca e la diciot-
tenne Alma. In particolare a lui riusciva gradevole la presenza di Francesca.
Dopo aver ripetuto con qualche particolare in più a Gerardo e ai suoi figli
ciò che aveva già esposto alle donne, e riferito in breve della battaglia di Mon-
telungo, e descritto il luogo della sepoltura di Manno, Gambacurta studiò in-
sieme con Ambrogio sulla propria carta geografica il percorso per Novara;
quindi - giunta per telefono la notizia che Colomba era in casa e l’attendeva -
si alzò in piedi e salutò tutti, ma specialmente le signore, nel modo cerimonio-
so che gli era proprio.
Uscì all’aperto seguito da tutti, e rimontando sulla jeep: «Via di corsa» disse
al soldato autista «che dobbiamo essere qui di ritorno al più presto.» Quello,
ch’era rimasto ad attenderlo seduto al volante, fece balzare la jeep all’indietro,
e poi in avanti verso il cancello.
Gli altri non tornarono alle loro occupazioni: rimasero in casa tra sala e sa-
lotto, a leggere e rileggere attenti e commossi le tre lettere di Manno (pareva
loro di sentirne quasi la voce), e la severa motivazione della sua medaglia
d’oro. Parlarono anche di lui, ma senza indulgere a rievocazioni che li avreb-
bero fatti piangere. Avevano però tutti, chi più chi meno, gli occhi gonfi.

CAPITOLO QUARTO

Gambacurta fu di ritorno per l’ora di cena.


Riferì il suo incontro con Colomba: «Non me l’avevate detto» si lamentò
«che ancora non era del tutto convinta della morte di Manno.» Notando la
sorpresa dei presenti: «Forse voi non vi siete accorti, ma la notizia che - certo
con circospezione e delicatezza, per farle il minor male possibile - le avete data
giorni fa al telefono, non l’aveva persuasa del tutto.»
Quando la ragazza s’era trovata di fronte alla dura certezza «erano stati
guai», come s’espresse il piccolo tenente dal modesto e colto eloquio: Colom-
ba, prese le lettere, era corsa a chiudersi nella propria stanzia; Gambacurta
non l’aveva più rivista. «È davvero una bella creatura» affermò pensoso, «de-
gna dell’amore di Manno.» Egli aveva lasciato i genitori della ragazza assai
imbarazzati; il padre avrebbe addirittura preferito che quelle lettere non ve-
nissero consegnate subito alla figlia: «È ancora quasi bambina, non ha neppu-
re vent’anni, mi capisce?» aveva affermato. Gambacurta capiva e si rendeva
conto, sì, ma avrebbe potuto agire diversamente?
«No» riconobbe Giulia con molta semplicità; e con spirito materno aggiun-
se: «Per lei tenente quest’opera di misericordia che oggi sta facendo dev’essere
chissà quanto penosa. Che Dio la ricompensi.»
«Manno al mio posto avrebbe fatto la stessa cosa per me» le rispose con
gratitudine Gambacurta.
Lo fecero accomodare a tavola. Gradì i cibi e un poco vi si dedicò. Ma sopra
tutto conversò: riferì si può dire tutto ciò che ricordava di Manno, ricostruì -
coadiuvato anche da Ambrogio, che gli fece al riguardo più d una domanda - il
clima esistente al sud dopo l’armistizio, la frustrazione generale, il grande ti-
more per le sorti d’Italia, cioè il clima da cui era nata la decisione di Manno
d’agire a rischio della vita, in pratica d’offrirsi in sacrificio. Fece notare
l’importanza determinante che l’accoglimento degli italiani in qualità di cobel-
ligeranti degli ‘alleati’ - originato appunto dall’episodio di Montelungo - stava
oggi avendo sulle sorti d’Italia.
«A me torna in mente una cosa» rilevò a un tratto Ambrogio: «la fissazione
che Manno aveva d’essere riservato da Dio a un determinato compito. Vi ri-
cordate?» E rivolto a Gambacurta, il quale già annuiva per conto proprio:
«Manno era convinto d’essere predestinato, tenuto in serbo per un compito
provvidenziale, anche se non sapeva quale.»
«È vero» confermò Giulia: «è così. Tanto che per un certo tempo ha pensa-
to di farsi missionario: ve ne ricordate? Si chiedeva se fosse quella la strada su
cui il Signore lo chiamava. Poi ha capito che no, non era quella. E infatti... Po-
vero figlio!»
«Anche l’ultima volta che l’ho visto, il giorno ch’è venuto a trovarmi a Stresa
- cioè il giorno della sua partenza per l’Albania - ha tirato fuori questo discorso
del compito che Dio gli riservava. Potrebbero testimoniarlo Fanny e Celeste.»
«Ne ha parlato anche a me, e più d’una volta» disse Gambacurta.
«Ecco. Beh» fece notare Ambrogio: «adesso ci rendiamo conto che si tratta-
va d’un’intuizione giusta: tu stesso dici che l’impresa di Montelungo è stata
utile all’Italia.»
«Sì. Molto utile, indubbiamente.»
Quanti sedevano a tavola - l’ospite Gambacurta, Gerardo, Giulia, i loro sei
figli (mancava soltanto Fortunato), le due anziane zie dì Monza - tutti furono
per qualche istante compresi di questa insolita vicenda.
Intanto però la vita continuava, andava oltre inesorabile perfino nel breve
spazio d’una cena. A mezzogiorno la radio aveva diffuse certe notizie inedite
sui lager di sterminio tedeschi, ancora poco conosciuti dall’opinione pubblica
dell’Italia settentrionale, e Pino - nel conversare - si era un paio di volte ri-
chiamato a quelle notizie. Gambacurta, che trovandosi in viaggio non aveva
potuto sentire il giornale radio, finì col tornare sull’argomento per chiedere a
Pino che gli riferisse meglio. Alcuni dei presenti diedero particolari non in tut-
to concordanti, egli ascoltò ogni cosa con attenzione, fece delle domande, poi
riferì a sua volta - richiesto - ciò che conosceva di quella realtà: in genere noti-
zie di prima mano, diffuse dagli ‘alleati’ nei giorni stessi della scoperta dei sin-
goli lager durante l’avanzata in Germania. Certo si trattava di fatti
d’un’importanza enorme, degni della massima attenzione, e non prestarcela
sarebbe stato sommamente ingiusto; però non si trattava più della storia di
Manno: i suoi stessi famigliari lo stavano già in qualche modo lasciando da
parte per parlare d’altro.
La conversazione si prolungò (con Gambacurta che riusciva sempre meno a
nascondere il proprio intontimento) fin dopo la mezzanotte; solo ogni tanto si
tornava a parlare di Manno. In tinello il soldato autista s’era addormentato al
tavolino a cui aveva consumata la sua cena: a tratti, con divertimento dei più
piccoli, giungevano in sala le punte più sonore del suo russare: la vita conti-
nuava anche in questo modo.
Nelle pause della conversazione veniva da fuori la voce dell’usignolo, che
s’era messo a cantare in giardino dal solito albero ‘a breva’. Chissà se si tratta-
va della stessa bestiola che due anni prima aveva sostenuto con Manno il buffo
bisticcio da noi riferito? Nessuno dei presenti, ad ogni modo, conosceva quella
minuscola storia, nessuno l’avrebbe mai conosciuta.

CAPITOLO QUINTO

Ebbe inizio anche il rientro dei prigionieri dalla Germania. In principio po-
chi e alla spicciolata, trasportati da autocarri dell’esercito americano che, es-
sendo la ferrovia interrotta, scendevano dall’Austria lungo la strada del Bren-
nero. Agli autocarri americani si aggiunsero un po’ alla volta anche autocarri
civili italiani, organizzati dalla Pontificia Commissione di Assistenza.
«Ho sentito che i Marsavi di Visate hanno messo a disposizione per il tra-
sporto dei prigionieri due camion» riferì una sera Ambrogio durante la cena.
«Li hanno mandati ieri mattina a Verona, da dove andranno - anzi a quest’ora
dovrebbero essere già andati - in Germania. Papà, in queste settimane il no-
stro camion ha poco da fare: che ne diresti se...? Eh?»
Gerardo rifletté alquanto e annuì. «Sì, potremmo» disse. «Potremmo» ripe-
té: «Sai a chi ci si deve rivolgere? Ti sei già informato?»
«In Germania posso andarci benissimo io» s’intromise Pino. «Che bisogno
abbiamo di rivolgerci a qualcuno? Io mi saprei arrangiare: là sarà più o meno
come nella Svizzera tedesca. Anzi io potrei ogni tanto anche dare il cambio
all’autista.»
«Vorresti andarci magari con quella tua dannata borsa da medicazione a
tracolla, eh?» lo motteggiò Fortunato, che stavolta era presente.
Tutti si misero a ridere.
«L’organizzazione della Commissione Pontificia è indispensabile» fece os-
servare il padre a Pino: «Per i documenti e le pratiche alla frontiera, per il ri-
fornimento della benzina, per i viveri. Per tutto è indispensabile.»
«Bene. Allora posso andarci con quella» propose Pino.
«Vedremo» disse il padre. Si volse di nuovo ad Ambrogio da cui attendeva
risposta.
«Io non so a chi ci si deve rivolgere» gli rispose questi «ma basterà telefo-
nare in curia a Milano. Vuoi che me ne incarichi?»
«Perché in curia a Milano?» obiettò Pino. «Facciamo più in fretta a telefo-
nare ai Marsavi, all’Andrea Marsavi che stava in Svizzera con me. Anzi, sapete
cosa vi dico? Lo chiamo addirittura al telefono.» Si alzò e, non trattenuto da
nessuno, andò nel vestibolo a effettuare la chiamata.
«La Commissione Pontificia?» chiedeva intanto la madre, compiaciuta per
quest’altra iniziativa benefica della chiesa.
«Sì. È la stessa organizzazione che faceva arrivare i messaggi dei prigionie-
ri» le spiegò Ambrogio: «quei foglietti standard. Ti ricordi i due arrivati
dall’Italia meridionale, in cui si parlava di Luca? Te li ho fatti vedere.»
«Sì ricordo.»
«Adesso la Commissione sta distribuendo viveri e soccorsi d’ogni genere
nelle zone devastate: tutta roba che riceve dai cattolici americani. Ha fatto e
sta facendo un grosso lavoro.»
«Sì» ammise quasi suo malgrado Fortunato, l’abile in affari, ch’era il più
‘laico’ dei figli di Gerardo. «Se non ci fossero i preti in Italia, mi dite voi cosa
saremmo capaci di combinare? Sono i soli sempre all’altezza della situazione.
Anche adesso, guarda un po’, sono loro che organizzano il va e vieni degli au-
tocarri con la Germania. Una cosa da non credere, a pensarci.»
«A chi altri vuoi che uno affidi il suo autocarro, se non a loro?» gli chiese il
fratello Ambrogio: «Ai C.L.N. magari?»
«Per amor del cielo!» convenne Fortunato.
La comunicazione con Visate arrivò nel giro di pochi minuti, cosa che sor-
prese, perché se Visate era a tre chilometri, si trovava tuttavia in provincia di
Como, il che comportava di solito una più lunga attesa.
L’Andrea Marsavi raccomandò tramite Pino ai Riva di ‘non muoversi’, che
sarebbe venuto di persona l’indomani a mezzogiorno ‘per combinare ogni co-
sa’.
«A mezzogiorno, capite?» sottolineò Pino nel riferire agli altri. «Quello vie-
ne qui durante l’intervallo di mezzogiorno, perché non gli reggerebbe il cuore
di rubare una mezz’ora al lavoro; gli sembrerebbe un sacrilegio.»
Come al solito l’ironia nei riguardi del lavoro - poco frequente del resto in
quella casa - incontrò la disapprovazione del padre Gerardo, che anche stavol-
ta, anziché sorridere, si fece scuro in viso: «Invece di scherzare, dovresti impa-
rare da lui» disse, scandendo le parole, a Pino.

***
L’indomani l’Andrea Marsavi arrivò in motocicletta alle dodici e un quarto
(«Un quarto d’ora, visto? Il tempo necessario per venire in moto da Visate a
qui dopo lo stacco dal lavoro» fece notare alle donne di casa lo sfaccendato
Pino.) Il quale osservò, da una finestra della sala, il giovane dal naso affilato
scendere dalla moto e - non senza giovanile compiacenza perché si trattava
d’un mezzo molto potente - issarla sul cavalletto. Ciò fatto venne verso la por-
ta di casa e Pino gli usci incontro.
Gerardo, Ambrogio e Fortunato non erano ancora tornati dalla fabbrica, co-
sì Pino e il Marsavi sedettero in attesa in un angolo della sala, e qui - a benefi-
cio sopra tutto di Francesca e di Alma che stavano apparecchiando - rievoca-
rono un loro favoloso incontro in Svizzera, in occasione d’una distribuzione
extra di biancheria, che Andrea aveva contribuito a organizzare. Passarono
quindi a parlare di quell’altro favoloso episodio del ritorno di Pino a Nomana
chiuso dentro il furgone dei salami. Mentre - bonariamente motteggiando -
conversava, il Marsavi fermava con sempre maggior frequenza lo sguardo su
Francesca che - sempre bella - in quei giorni lo era particolarmente: era tutta
in fiore, come lo è un ramo di pesco a primavera. Con la testa circondata dalla
grossa treccia castana, andava e veniva tra sala e cucina portando stoviglie e
posate: si muoveva con spigliatezza e insieme con garbo sulle lunghe gambe,
volgendo ogni tanto all’ospite il viso sorridente dagli occhi azzurri. Gli stessi
occhi di Gerardo, di Pino e di Giudittina e, quand’era vivo, di Manno: ma che
questi occhi somigliassero a quelli di altri, Andrea non lo sapeva, e se mai
gliel’avessero fatto notare, la cosa l’avrebbe disturbato. “Che occhi unici” pen-
sava infatti: “Guarda che luce! Ma come, vive da queste parti una ragazza così,
e io non me n’ero nemmeno accorto?”
Cominciò a seccargli un tantino di fare la figura dell’‘internato in Svizzera’
davanti a questa straordinaria ragazza che aveva avuto un fratello ferito in
guerra, è un cugino caduto e medaglia d’oro. Si diede a frugare nella propria
memoria in cerca di episodi anteriori all’espatrio in Svizzera: ma poiché non
era mai stato al fronte, si rese conto con mortificazione che quanto di glorioso
avrebbe potuto mettere insieme si riduceva a un paio di scaramucce con i te-
deschi nei giorni dell’armistizio. Non poté tuttavia tirar fuori neppure quelle
perché, prima che Pino gliene desse il modo, entrarono in casa Gerardo e i due
figli maggiori, corposi come tre operai. Al che Andrea si mise il cuore in pace:
del resto cosa andava cercando? Quando mai lui aveva pensato che gli uomini
si dovessero misurare in base al loro valore militare? “Siamo forse nati per
fare la guerra?” Lo stesso signor Gerardo probabilmente militare non era mai
stato. E se questa meravigliosa ragazza era intelligente (“Lo è!” una voce in-
terna nell’entusiasmo del momento gli suggeriva: “Lo è senza dubbio”) avreb-
be saputo apprezzare anche altre doti: la laboriosità, per esempio, e
l’abnegazione civile: e a tale riguardo lui si sentiva modestamente a posto.
Gerardo strinse con grande cordialità la mano del giovane. «Come va il la-
voro a Visate?» s’informò per prima cosa, e gli chiese come stessero il padre e
lo zio che, disse, stimava ambedue molto, anzi moltissimo (in casi come que-
sto Gerardo si lasciava un po’ prendere dall’enfasi: erano le rare occasioni in
cui gli accadeva.) Si fece quindi precedere dal giovane nel proprio studio, dove
entrò seguito da Ambrogio e da Pino.
Il problema dell’autocarro non portò via molto tempo: Andrea era venuto a
Nomana per chiedere che gli consentissero di ‘metterlo in forza’ con una sem-
plice telefonata al gruppo autocarri della Commissione Pontificia di Como:
«Perché» spiegò «ho promesso a un prelato comasco... (Don Curioni: Pino, te
lo ricordi? No?) Beh, signor Riva, era uno che si dava molto da fare per noi
espatriati in Svizzera, e domenica scorsa mi ha letteralmente obbligato a pro-
mettergli che gli avrei trovato qualche altro autocarro oltre ai due della mia
ditta.» Mentre il giovane parlava, Gerardo annuiva con simpatia: l’autocarro
fu senz’altro messo a disposizione; il Marsavi si annotò targa, portata e qual-
che altro dato.
Venne invece contrastato il desiderio, nuovamente espresso da Pino, di
viaggiare come secondo autista: «Hai la patente per autocarri? No? Allora ho
paura che non ci sia niente da fare» ci si mise da principio anche il Marsavi:
«Mi dispiace per te. In queste cose quelli della Commissione Pontificia sono
intransigenti.»
«E hanno ragione» approvò il padre: «Supponi che un autocarro carico di
gente gli finisca in un fosso, che so, oppure...»
«Proprio mentre guido io?» disse Pino.
Gli altri tentennarono la testa sorridendo.
«Senti, facciamo così» propose allora Andrea: «I miei camionisti rientrano
venerdì, io li confesso bene e venerdì sera vengo qui a dirti come stanno le co-
se: se per te c’è o non c’è possibilità. D’accordo?» «Sì, ma non devi disturbarti,
vengo io a Visate» gli rispose Pino. «No» replicò Andrea «perché? Vengo qui
volontieri.»
Era davvero gentile: gli altri attribuirono la sua gentilezza al fatto ch’era sta-
to compagno d’internamento di Pino; non pensavano a Francesca.
«Beh» concluse nel suo modo spiccio lui, protendendo il polso con
l’orologio: «s’è fatta quasi l’una e il vostro pranzo si sta raffreddando. È tempo
che io tolga il disturbo. A venerdì sera dunque.»
Tornò venerdì, poi - sempre sulla sua potente moto, e sempre tagliando
l’aria col suo naso affilato - tornò anche domenica, e altri giorni ancora.

CAPITOLO SESTO

Nei mesi successivi i prigionieri militari (seicentomila) e i deportati politici


(trentamila circa) rientrarono dalla Germania al ritmo di parecchie migliaia al
giorno; permanendo interrotta la ferrovia del Brennero, seguitavano a tra-
sportarli le autocolonne. Sia quelle americane, uniformi, composte d’autocarri
militari tutti dello stesso tipo (i famosi ‘tre assi’, perfettamente distanziati tra
loro, veloci, guidati in genere da soldati negri che nella vita civile facevano i
camionisti sulle grandi strade del loro ovest), sia autocolonne civili italiane,
disformi, d’autocarri delle portate più varie, uniformati soltanto in qualche
modo dalla bandierina bianca e gialla della Commissione Pontificia
d’Assistenza; poco alla volta gli autocarri italiani andarono tuttavia facendosi
più numerosi di quelli americani.
Intanto rientravano anche, via mare, i prigionieri degli ‘alleati’: provenivano
dalla zona dei Laghi Amari in Egitto, dall’India, dall’Inghilterra, dalla lontana
America. Quelli provenienti dall’America erano senza confronto i meglio equi-
paggiati: indossavano l’elegante divisa estiva dell’esercito americano, e porta-
vano su una spalla il lungo sacco d’ordinanza pieno d’ogni ben di Dio; non po-
chi di loro sembravano aver mutuato anche l’allegria e il modo di fare scanzo-
nato propri dei soldati americani.
Tutti trovavano un’Italia terribilmente devastata: con le principali città feri-
te o largamente rase al suolo, solcata all’altezza di Cassino e della linea gotica -
dove il fronte s’era fermato nei due ultimi inverni - da due larghe fasce tra-
sversali arate dall’esplosivo, senza più un muro in piedi, e tuttora fittamente
minate. Alcune ferrovie seguitavano a essere interrotte, mentre nel terzo circa
di paese compreso tra Cassino e la gotica, tutti senza eccezione i ponti stradali
apparivano ridotti in macerie: sulle quali - ma non dovunque - erano stati get-
tati dei ponti militari Bailey, che consentivano un traffico alternato dei veicoli.
Certi passi di montagna (come ad esempio quello del Bracco, sulla statale nu-
mero uno Aurelia) erano intransitabili perché saldamente in mano ai banditi.
Più che mai prive di materie prime, le industrie lavoravano a ritmo ridotto:
ed era forse questo - fra tutti - il fenomeno che più preoccupava i reduci, spe-
cie quelli delle zone industriali; anche le campagne - da anni prive di fertiliz-
zanti - non apparivano in complesso rigogliose quali l’occhio avrebbe voluto
vederle. Le razioni alimentari si mantenevano da fame come in tempo di guer-
ra: affievolito il rispetto della legge, andava perciò incrementandosi a dismisu-
ra il mercato nero, generatore di corruzione anche morale.
Tuttavia le campagne esistevano ancora, ed esistevano le industrie: e nei
reduci e in moltissimi altri, giovani e anziani, c’era una gran voglia di non ce-
dere alla dissoluzione, di darsi da fare, di uscire fuori da così enorme rovina a
salvamento. Possibile che non si potesse - puntando i piedi tutt’insieme - av-
viare finalmente un movimento all’indietro, di recupero, di ricostruzione?
L’autorità - o quella che avrebbe dovuto essere l’autorità - era per il momento
paralizzata da un incredibile intrico di beghe fra i partiti politici i quali, men-
tre stavano insieme al governo e nelle amministrazioni, erano in realtà in ac-
canito contrasto sull’assetto da dare sia alluno che alle altre. “Eppure dobbia-
mo vivere” si diceva dappertutto la gente.

***
Una sera, proveniente dalla Germania, arrivò a Nomana anche Igino. Am-
brogio se lo trovò davanti per caso che risaliva solo solo il viale dalla stazione
verso la piazza: aveva indosso la vecchia divisa grigioverde usuratissima, e in
mano, per tutto bagaglio, un pacchetto legato con lo spago. Ambrogio lo ab-
bracciò eccitato, e rinunciando all’incombenza per cui era uscito, tornò indie-
tro al suo fianco.
Con la faccia come sempre pallida, anzi ancora più pallida, e i capelli tirati
alla istrice, Igino - dopo aver dato all’amico, in risposta alle sue domande,
qualche sommaria notizia sul proprio viaggio - gli chiese quale fosse la situa-
zione del lavoro: in particolare se alle officine di Beolco (dov’egli lavorava
prima della guerra) adesso riassumevano i reduci oppure no.
L’altro gli rispose che a quanto gli constava ne avevano già riassunti alcuni.
«Oggi come oggi nel lavoro c’è fiacca» avvertì: «però non devi preoccuparti: le
industrie i loro operai, anche quelli che avevano prima della guerra, se li ten-
gono da conto. Perché il lavoro dovrà riprendere per forza.»
Al sentirsi confermare che c’era poco lavoro Igino fece una smorfia. Ambro-
gio finì con l’essere coinvolto dalla sua ansia: “Papà ha ragione da vendere”
pensò “nel porsi come dovere fondamentale la creazione di sempre nuovi posti
di lavoro. È veramente questo il nostro compito, la missione di noi industria-
li”. «Senti» disse a Igino: «se per caso a Beolco ti fanno storie, non preoccu-
parti: mi fai un fischio e un posto te lo faccio saltar fuori io in ditta. Siamo in-
tesi?»
L’altro sorrise a fatica e lo ringraziò con un cenno del capo, senza dir niente.
Ambrogio ebbe l’impressione che ci fosse in lui una riserva. “Ma in fondo Igi-
no è sempre stato così” pensò, “sempre un tantino sgradevole”.
Gli diede alcune notizie: che Manno era morto, e che erano morti Giovanni-
no Faccia-infarinata e un altro loro coscritto; che di Stefano mancavano sem-
pre notizie.
Quando furono davanti alla portina a vetri della casa del reduce, Ambrogio
si fermò, lui pure emozionato; Igino mise una mano sulla maniglia, rimase
qualche istante così, poi l’azionò di colpo ed entrò, con la testa a istrice un po’
china. Fu accolto da un grido. La madre, che sedeva con gli altri a tavola, si
alzò in piedi e rimase con le braccia spalancate; il padre operaio invece (in gi-
lè, con le maniche della camicia rimboccate), e il fratello, ora sui quattordici
anni, gli si precipitarono incontro: il fratello gli saltò al collo, mentre il padre -
impedito dal ragazzo d’abbracciarlo - gli prese con ambe le mani una mano, e
si mise a scuotergliela, incapace di parlare.
Ambrogio, affacciatosi: «Ve lo lascio tutto per voi» disse senza entrare. E a
Igino: «Noi ci vediamo domani, ciao» e richiuse la porta.
In un incontenibile bisogno di coinvolgere tutti nella propria allegrezza:
«Ce l’ha portato lei» gli gridò la madre: «Grazie, grazie!»
I quattro della famiglia operaia si ritrovarono insieme. Non appena lasciato
libero dal fratello Igino raggiunse la madre che scoppiò a piangere e, abbrac-
ciatolo, non voleva lasciarlo, lo teneva stretto a sé.
«Cosa fai? La vedete? Piange» diceva a fatica il padre, e tentennava la testa:
«È ritornato, e lei piange!»
Dopo un po’ la madre, notando un incipiente imbarazzo nel figlio, si staccò
da lui, e asciugandosi con le dita gli occhi lo invitò a sedere: «Su, mettiti qui,
siediti. Bravo Igino! Vedi? Sei tornato in tempo per la cena. Siediti, ecco, così.
Il mio Igino! (Chissà che appetito hai.»
«L’appetito non manca di sicuro» fece lui «dopo la fame boia che ci han fat-
to fare.» E sorrise con aria d’intesa al padre, che gli sembrava quello meglio in
grado di comprendere tali cose.
II padre assentì, come a significare: «Eh, non c’è bisogno che tu lo dica».
«E il lavoro?» gli chiese subito Igino.
«Niente paura, ho parlato giù in officina: ti riprendono subito. Anche se di
lavoro ce n’è poco. Il ‘comenda’ però è in giro tutto il giorno a cercarne: quello,
per procurarselo, si caccia anche tra le gambe del diavolo, lo sai; finirà col por-
tarne a casa di sicuro.»
«Ma come mai non c’è lavoro?» disse Igino. «Io non capisco. Se ogni cosa è
da rifare, da ricostruire?»
«Eppure!» Il padre spalancò le mani: «Mah! Però tutti dicono ch’è soltanto
questione di tempo, che il lavoro presto ci sarà.»
«Saran quelli che hanno fatto i soldi mentre noi eravamo via» avanzò con
durezza Igino: «saranno loro che adesso non vogliono tirarli fuori per far lavo-
rare la gente.»
«Mah!» ripete il padre, aprendo di nuovo le palme: «Io non so. Tu ad ogni
modo sei a posto: giù all’officina ti riprendono, te l’ho detto. Dunque...»
Igino annuì, senza sembrare rasserenato.
«Non pensarci» fece la madre che seguitava a contemplarselo, «pensa che
adesso sei a casa tua, che sei finalmente qui con noi.»
«Sì» convenne lui.
«Devi raccontarmi tutto» gli disse il fratello: «Hai capito Igino? Tutto.»
«Tutto cosa?»
«Della guerra, e i combattimenti, e i morti... Insomma tutto.»
«A proposito» Igino si rivolse alla madre: «m’avete scritto in quella lettera
che è morta la zia Agata. Com’è successo di preciso?»
«Due mesi fa» gli rispose la madre, rabbuiandosi: «Quasi di sicuro aveva un
tumore, così ha detto il medico: era diventata magra da far compassione; non
c’è stato niente da fare: s’è messa a letto e in poche settimane è andata.»
«Un tumore? Povera diavola!»
«Allora mi racconti o no?» insiste il fratello.
«Ma se non è ancora arrivato» protestò la madre. «Non disturbarlo, su, la-
scialo in pace almeno stasera.»
«Eh, raccontare!» Igino si rivolse al ragazzo: «Cosa vuoi raccontare?... Cosa
si può dire con le parole?» Intendeva: in che modo si potrebbe rendere con
parole un’esperienza come quella che ho fatto? Rifletté e si rese conto che, ef-
fettivamente, non gli sarebbe mai stato possibile. Notò in pari tempo la delu-
sione sul volto del ragazzo: «Beh, domani» promise, «domani ti racconto.»
«Ecco, e adesso lascialo in pace» intervenne anche il padre «E così sei qui a
casa» mormorò la madre, ancora estasiata.
«Sono a casa» disse Igino, annuendo. «Certo non mi par vero. Se penso a
cosa ho dovuto fare in certi momenti per mettere insieme qualche buccia di
patata.»
«Eh, la guerra!» mormorò il padre.
«Ho di là un bel pezzo di lardo» fece la madre, accattivante «e una filagna
di salamini che abbiamo tenuti via apposta per te.»
«Come?» esclamò il giovane, sorpreso: «C’è ancora di questa roba, in Ita-
lia?»
«Li abbiamo avuti da Ferrante» spiegò la madre «quest’inverno, che ha
ammazzato il maiale, e a buon prezzo, senza tessera né storie. Se hai pazienza
un momento, mentre tuo padre e tuo fratello finiscono di mangiare, io ti pre-
paro un bel minestrone col lardo, e un piatto intero di salame. Eh? Ti va?»
«Son quasi due anni che non lo mangio, il salame» disse Igino. «Non crede-
re, anche qui è stata dura» fece il padre «anche se il fatto d’essere in campa-
gna aiuta sempre.»
«I signori, quelli, della scarsità neanche se ne saranno accorti, eh? Quelli
pieni di soldi, intendo.»
«Eh» lo assecondò un poco il padre. «Il peggio tocca sempre a noi poveret-
ti.»
«I Riva, per esempio, non se ne saranno accorti» volle sapere il giovane.
Il padre non gli rispose, ci fu una pausa.
«Beh, i Riva hanno avuto anche loro un figlio morto» ricordò la madre. «E
poi hanno organizzato quel servizio dei pacchi per voi prigionieri: in paese
davano una mano un po’ tutti, ma la cosa la tenevano in piedi loro. A proposi-
to: ti è arrivata sempre in ordine e godibile la roba? Era mangiabile?»
«Sì, ve l’ho scritto» rispose Igino. Rifletté, poi chiese: «Che Manno è morto
me l’ha detto poco fa Ambrogio, ma non ho capito bene: chi l’ha fatto fuori?
Gli inglesi o i tedeschi?»
«I tedeschi.»
«Gli hanno data la medaglia d’oro, lo sai?» disse il fratello minore.
«La medaglia d’oro, eh?» ripeté Igino; fu sul punto di dire: «Già, solo agli
ufficiali danno la medaglia d’oro» ma si trattenne. Il fatto che Manno non sa-
rebbe tornato più, che non avrebbe mai avuta la consolazione che lui, Igino,
stava pur avendo in questo momento, gli apparve a un tratto nella sua tragici-
tà. «Però, povero Manno!» mormorò.
«Signori e poveretti» disse la madre «la guerra è stata una gran brutta be-
stia per tutti.»

CAPITOLO SETTIMO

Pierello arrivò qualche giorno più tardi, approfittando d’un autocarro che
dopo aver prestato servizio per la Commissione Pontificia fra Verona e
l’Austria, rientrava alla propria base d’Incastigo.
Indossava un’accozzaglia d’indumenti scompagnati, parte militari parte ci-
vili, completati da un cappelluccio tirolese, e sedeva nel cassone scoperto. Al
suo fianco, con la schiena pure appoggiata alla cabina, sedeva un sergente
d’Incastigo, da Pierello incontrato qualche settimana prima a Praga in Ceco-
slovacchia, poi perso di vista, poi la sera avanti incontrato di nuovo casual-
mente a Verona: costui appunto gli aveva procurato il posto sull’autocarro.
A più riprese, durante il viaggio, i due avevano parlato dei recentissimi fatti
di Praga, e in particolare della sollevazione contro i tedeschi cui avevano en-
trambi separatamente assistito. «Sembravano buoni, gente così pacifica i ce-
chi» osservò Pierello «e invece hai visto che roba? Quando si sono scatenati
son diventati come belve.»
«Non devi dire ‘sembravano’: sono veramente di pasta buona i cechi» aveva
obiettato il sergente. «Lascialo dire a me, che ci ho passato in mezzo più d’un
anno. Sono stati i tedeschi a tirarsi addosso il disastro. Lo sai o no com’è co-
minciata?»
«Di quando parli?»
«Del 5 o il 6 di questo mese di maggio, quand’è corsa quella voce che stava-
no per arrivare gli americani. Tu eri ancora a Praga, hai detto.»
«Sì, certo.»
«L’avrai vista anche tu allora la gente nelle strade, che faceva come due
spalliere di popolo, ‘Arrivano gli americani, arrivano gli americani, hanno già
occupato l’aeroporto’ dicevano tutti, e gli lasciavano nelle strade lo spazio ap-
posta per passare, agli americani; tanto che anch’io m’aspettavo di vederli ar-
rivare da un momento all’altro.»
«Sì, questo fatto l’ho visto. Chissà chi è stato a mettere in giro una simile
panzana.»
«Ai tedeschi comunque fino allora non gli avevano fatto niente. Anzi gli di-
cevano ‘Andate a casa, che la guerra ormai è finita’, li ho sentiti io. E anche:
‘V’è andata bene anche a voi, che invece dei russi arrivano qui gli americani’.
«Sì, al principio ho visto ch’era così. Però io intendo dopo» obiettò Pierello
e, con gli avambracci appoggiati sulle ginocchia, spalancò entrambe le mani,
per esprimere la sua costernazione.
«La colpa è stata dei tedeschi, che per liberare le strade han cominciato a
sparare addosso alla gente» disse il sergente: «è stato questo a provocare tutta
quella rivolta. Anzi più ancora di questo è stato il sapere che non gli americani
stavano per arrivare a Praga, ma i russi. La gente è diventata come matta per-
ché, tranne quei pochi comunisti scalcinati con le bandiere rosse, i cechi i rus-
si non li vogliono: li hanno sullo stomaco. Lo sai questo, o no?»
«Eh, l’ho ben visto.»
«Dicevano: ‘Guai a noi. Per colpa di questi porci tedeschi adesso finiamo
per chissà quanti anni sotto ai russi. Per voi prigionieri i dolori stanno per fi-
nire, ma per noi incomincia tutto da capo’. Capisci perché se la son presa così
a morte coi tedeschi?»
«Sì, però ammazzare a sassate anche le donne e i bambini, e farli correre
tutti a quel modo per le strade sotto le sassate, e schiacciarli perfino con i pie-
di... Non può essere brava gente quella che fa così.»
«Io li conosco bene i cechi» ripeté il sergente: «son brava gente, e come.
Prova a metterti tu nei loro panni. Su, prova.»
«Però, a pensarci, quante cose schifose abbiamo visto!» fece Pierello. «Tu
eri ancora là quando sono arrivati quei reggimenti con la croce di traverso sul-
le bandiere? Quei russi passati ai tedeschi, in divisa tedesca?»
«Ah, vuoi dire i cosacchi con la croce di sant’Andrea? No, ne ho soltanto
sentito parlare» rispose il sergente, «perché una volta rimasti senza guardie,
noi siamo scappati via da Praga.»
«Poveri disgraziati quelli. Avresti dovuto vederli» disse Piero. «Non sape-
vano proprio cosa fare: certi si son messi a sparare contro le SS che resisteva-
no ancora, certi invece contro i partigiani comunisti. Che casino, accidenti!»
«Che casino sì» convenne il sergente.
«Io comunque se adesso sono qui lo devo a loro, a quei cosacchi» dichiarò
Pierello. «Perché quando si sono messi in marcia per andare incontro agli
americani (loro sapevano dov’erano), io e un certo Tadeusz, un polacco che
stava con me da più d’un anno, li abbiamo seguiti passo passo, non siamo cer-
to rimasti là ad aspettare i russi. È stato scarpinando dietro i cosacchi che
siamo entrati finalmente nella linea americana: a Suchomast.»
Suchomast il sergente non l’aveva mai neppure sentita nominare. “Povero
Tadeusz” pensò Pierello: “Chissà cosa starà combinando in questo momento!
Chissà se anche lui ce la farà ad arrivare a casa sua...”
A tratti, durante il viaggio, i due avevano parlato anche d’altro: delle condi-
zioni d’Italia per esempio, come le avevano viste a Verona, e come se le vede-
vano intorno dal cassone del camion; erano tuttavia tornati di nuovo agli epi-
sodi orrendi cui ciascuno di loro aveva assistito a Praga, ai quali - per il solo
fatto di trovarsi insieme - le loro menti si sentivano di continuo richiamate.
Finché - superato l’Adda sul ponte di Brivio - erano entrati in Brianza. Ver-
so nord l’anfiteatro dei monti andava gradualmente assumendo la fisionomia
che Pierello conosceva così bene; nell’ultimo tratto prima di Nomana gli erano
infine venuti incontro paesi e luoghi noti. Ecco laggiù, dopo il bivio di Visate,
la cascina Nomanella, con la forma di rettangolo aperto: aveva sempre davan-
ti, allineate, le tre grosse piante di ciliegio e il fico più piccolo. Chissà se in
questo momento ci stava quella bella ragazza quieta, Giustina? E di Stefano
avevano o no avuto finalmente notizie? Quei poveri Ferrante e Lucia... Al
margine nord di Nomana si scorgevano gli alberi del giardino dei Riva: Man-
no... chissà se Manno era tornato?
A Verona l’autista aveva promesso a Pierello che l’avrebbe portato fino alla
sua frazione, la Lodosa, attraversarono perciò Nomana senza fermarsi. Sem-
pre seduto nel cassone con la schiena contro la cabina e il cappelluccio tirolese
in testa, emozionato, il reduce si guardava intorno con avidità: riconobbe uno
dopo l’altro tutti quelli che camminavano per strada, e ne salutò diversi con la
mano e con la voce, tra gli altri Carlaccio che, con gli occhi mesti e le braccia
pendenti, seguitava guerra o no a portare immutabilmente in giro il suo gran
corpo dalla colonna vertebrale offesa. Al pari degli altri Carlaccio impiegò un
certo tempo per riconoscere Pierello, e rispose al suo saluto ch’era ormai fuori
portata di voce. Solo Chin, il portalettere strampalato, che pedalava sulla sua
bicicletta con la grossa borsa di cuoio legata al manubrio, lo riconobbe istan-
tanea-mente e: «Piero, Piero!» gli gridò animandosi: «Bravo il Piero...» per
rimanere però subito indietro anche lui. Il ponte che scavalcava la ferrovia
sembrò a Piero inverosimilmente piccolo; dopo di che, superato il modesto
campo sportivo del paese e certi boschi di robinie, gli venne incontro la cam-
pagna che scendeva alla sua Lodosa. Era coltivata parte a grano, già con la
spiga, d’un bel verde che rubava gli occhi, parte a prato, qua e là percorsa da
filari di gelsi; in basso lungo la bevera i salici e i pioppi s’erano molto infoltiti,
al punto d’impedirgli di vedere l’esigua corrente pulita nella quale tante volte,
da bambino, lui aveva pescato col fazzoletto i ghiozzi, quei pesciolini che sem-
brano insetti. Li pescava insieme con ‘Castagna’ e gli altri bambini della sua
età; per valorizzare la loro pesca infantile Castagna usava affermare: «A me
basta mangiare otto o dieci di questi ghiozzi per sentirmi satollo (sagòll).»
Chissà se adesso Castagna era a casa?
Ecco la Lodosa: non più d’una dozzina tra case e casette, su tre strade ad
angoli retti davanti a una secolare cascina a corte che dava il nome alla locali-
tà; di ciascuno di quegli edifici egli conosceva ogni più minuto particolare. Il
cuore gli batteva forte mentre, levatosi in piedi e tenendosi con le mani alla
ringhiera che sovrastava la cabina, esplorava ogni cosa, se ci fossero cambia-
menti; no, non c’erano cambiamenti, soltanto ogni cosa gli risultava molto più
piccola di come la ricordava.
Era ormai la seretta, l’ora gentile che in campagna precede le ultime fatiche
della giornata; il camion avanzava a piccola velocità, l’aiuto autista sporse a
un tratto ridente la testa dal finestrino, e volgendola verso l’alto: «Dove sta la
tua casa?»
«È là in fondo, una delle ultime. Ma fermatevi qui: avete fatto fin troppo,
fermate, dai, fermate.»
«Quali ultime?»
«Non si vede, è là, dietro quell’edificio.»
«Okay» fece l’aiuto autista, e ritirò la testa in cabina.
Superato l’edificio la casetta entrò in vista; l’autocarro si fermò alquanto
prima sulla strada - anzi stradetta ormai - che fendeva i campi compatti di
grano, all’incrocio con una carrareccia: nella quale entrò in parte a retro mar-
cia per poi, manovrando, disporsi sulla strada in senso inverso, col muso ri-
volto a Nomana; non venne spento il motore, autista e aiuto non scesero di
cabina.
«Piero, sei arrivato» disse il sergente.
«Sì» fece Pierello «sì.» Adesso era quasi spaventato. Prese il sacchetto che
gli faceva da valigia, si premette sulla testa rotonda il cappello tirolese, e sca-
valcata la sponda dell’autocarro saltò a terra; vi giunse un po’ pesantemente,
perché aveva le gambe intorpidite.
La sua casa era a qualche decina di metri, lungo la strada: piccola e piutto-
sto misera (ora se ne rendeva conto), col balconcino bordato da una smilza
ringhiera di ferro tubolare e, a pianterreno, un esiguo vano a mo’ di portico.
All’esterno non c’era nessuno.
Pierello si fece sotto la cabina, col suo sacchetto in mano: «Perché non
scendete a berne un bicchiere?» invitò i due autisti.
Dall’interno della cabina i due gli fecero segno di no, sorridendo, e che ave-
vano fretta; poi lo salutarono, sempre più a gesti che con la voce, e l’autocarro
ripartì. «Ehi... allora vi ringrazio, grazie tante» gridò il giovane.
«Ciao Piero» gli gridò il sergente dal cassone.
«Ciao» rispose Pierello. Così la naia per lui era proprio finita, finita per
sempre. S’avviò verso casa sulle gambe intorpidite.

CAPITOLO OTTAVO

A lato della casetta c’era, intagliato nel grano, un piccolo riquadro di terra
battuta, circondato torno torno da una siepe di ligustro che a memoria del
giovane non s’era mai decisa a crescere bene: forse perché la madre, senza
pensarci, dopo fatto il bucato rovesciava spesso al suo piede l’acqua insapona-
ta del mastello.
Piero attraversò il riquadro e il portico delle dimensioni d’un locale, su un
muro del quale era dipinta a secco una Madonnina ch’egli salutò con un ri-
spettoso cenno del capo; quindi premette con trepidazione il saliscendi della
porta d’ingresso, credendo d’aprirla. Ma la porta non si aprì: era, egli consta-
tò, chiusa a chiave.
Un po’ preoccupato il giovane si accostò all’unica finestra che dava sul por-
tichetto (quella della cucina) e, poggiate le mani sul davanzale, esplorò
l’interno attraverso i vetri per quanto glielo consentivano le tendine. Vide, ac-
ciambellato al solito posto su una sedia, il gatto, che lo esaminò a sua volta
pigramente, con un occhio solo (“Guarda, c’è ancora la gattina nera” approvò
lui); sulla stufa si vedeva una pentola in lenta ebollizione, ne usciva, tra bordo
e coperchio, una lieve traccia di vapore; torcendo il collo e premendo la fronte
contro il vetro, il giovane poté vedere anche, appesa a un muro, la gabbietta
col canarino, il quale all’incontrare il suo sguardo si animò tutto, e cominciò a
dimenarsi e a saltellare. “Ogni cosa è al suo posto, c’è anche il canarino, non ci
sono problemi” respirò il giovane. “Certo la mamma è uscita con Martina per
qualche incombenza, ma non può tardare se ha lasciato la pentola sul fuoco. E
anche il pa’ vedrai, sarà qui a momenti, di ritorno dal lavoro. Non preoccupar-
ti.” A suo maggior conforto notò sopra la credenza la vecchia sveglia rettango-
lare d’ottone: stava coricata su un fianco, Pierello sorrise perché sapeva che il
suo logoro meccanismo funzionava solo se la si teneva adagiata a quel modo.
“Tutto è a posto. Dio ti ringrazio!” mormorò con profonda riconoscenza, ri-
traendosi dalla finestra. “Beh” concluse “posso anche aspettare”.
Era davvero fortunato lui - pensò guardandosi intorno - a ritrovare la sua
casa tal quale. Gli tornavano in mente le città tedesche ridotte a selve di rude-
ri, e le interminabili colonne di profughi che fuggivano dopo avere abbando-
nato tutto, il loro impressionante silenzio mentre andavano e andavano senza
sosta in quel colore di caligine. Chissà cosa n’era a quest’ora della vedova Hu-
fenbach, di Joachim e dell’altro bambino... «Povera gente!» mormorò il gio-
vane. E poveri disgraziati anche quei russi in divisa tedesca, i cosacchi, ch’egli
pochi giorni prima aveva seguito fino a Suchomast. Che incredibile inerzia li
aveva presi tutti quando gli americani avevano loro ordinato di deporre le ar-
mi! «Per noi è finita, ormai siamo uomini morti» si dicevano l’un l’altro con
fatalismo: «Ci mettono in mano a Stalin, non abbiamo scampo.» (Parlavano
russo, ma Tadeusz aveva tradotto per lui.) Chissà poi come gli era veramente
andata... Possibile che gli americani li avessero messi davvero in mano a Sta-
lin? No. Consegnare a freddo migliaia, anzi decine di migliaia di uomini alla
morte, gli americani? Secondo lui era impossibile. E anche secondo Tadeusz
del resto. Già, Tadeusz! Chissà a quello come gli sarebbe andata a finire... “Po-
vero Tadeusz! Non ho mai avuto sulla terra un amico più amico di lui” si disse,
e non era la prima volta, Piero. Che sporca faccenda però questa, che uno non
possa vivere in pace neanche dopo finita la guerra! Erano soltanto i nazisti è i
comunisti che avevano questa schifosa mania, di non lasciare la gente in pace
nemmeno quando si trova a casa sua. Maledetti caini! “Ma perché non fanno
anche loro come questi altri, gli americani e gli inglesi, che in Italia non si sa
nemmeno d’averceli?” Anzi a quel che aveva sentito a Verona, questi aiutava-
no chi era nei guai... Mentre Piero rifletteva, dall’interno della casa gli giunge-
va la voce del canarino che, emozionatosi sempre più, lo stupidello, si era
messo a cantare a squarciagola.
Sulla strada intanto non compariva nessuno. Il giovane si chiese se non gli
convenisse fare una corsa fino alle case più vicine - a quella di Castagna per
esempio - in cerca di notizie; ma risolse che no: l’avrebbero trattenuto senza
dubbio oltre il necessario, avrebbe poi faticato a districarsi.
S’andò a mettere davanti al dipinto della Madonnina: anche il dipinto sem-
brava diventato più piccolo, era alto forse un metro e largo poco più e aveva
sopra una scritta ‘B.V. di Caravaggio’ in caratteri a stampa assai irregolari. La
Madonna era raffigurata in piedi, dentro un’aureola: di fronte a lei stava una
donna in ginocchio con le braccia spalancate per il gran miracolo
dell’apparizione; tra la Vergine e la donna scorreva, in direzione di chi guar-
dava, una roggia. La roggia tuttavia era stata dipinta con una tale ignoranza
delle leggi della prospettiva, che i riguardanti faticavano molto - nonostante il
suo accentuato colore azzurro - a capire che si trattava d’una roggia; ragion
per cui Pierello, da ragazzo, vi aveva graffiato sopra con un chiodo alcune sa-
gome di pesci: non disposti però secondo il verso della corrente, ma di profilo.
Si scorgevano anche adesso: “Guarda, si vedono ancora. Mentre io ero là, a
tirare il carretto sulla Frische Nehrung, questi pesci stavano qui, e adesso li
ritrovo.” Dal tempo in cui il nonno aveva fatto eseguire da un imbianchino il
dipinto per compiacere la nonna (la stessa nonna che raccontava a Piero bam-
bino tutte quelle storie dei vecchi tempi, e dei signori che andavano e venivano
in carrozza attraverso il portone de ‘I dragoni’), da allora le figure erano state
rinfrescate più volte, perché i colori a secco stingono presto; ad ogni ritocco il
bordo intorno alla rappresentazione, di tinta rosso carico, s’era un po’ allarga-
to, e ora appariva decisamente troppo largo. Quanto pregare, ad ogni modo,
davanti a questa sacra immagine! Era qui che ogni sera, anche dopo morta la
nonna, la famiglia usava recitare il rosario e le altre divozioni: le guidava la
mamma, mentre le voci dei piccoli - Pierello se ne ricordava bene - si facevano
lente per il sonno. Rivide il viso invocante di sua madre (“Quante orazioni hai
detto, povera mamma!”) ed ebbe, improvvisa, la cognizione che il suo ritorno
di oggi fosse legato appunto a quel pregare instancabile, che ne fosse stato de-
terminato. «Grazie Madonna» mormorò con commossa semplicità, chinando
la testa: “Ti ringrazio e ti raccomando Tadeusz, che possa anche lui arrivare a
casa sua, e che lo lascino in pace, povero diavolo”.
Ciù-ciu-ciù martellava dall’interno il canarino, dandogli come poteva il ben-
tornato. Che pace c’era qui! Ecco com’era fatta la pace... Il senso di ricono-
scenza verso la Madonna e Dio che gli avevano concesso il ritorno, si assom-
mava nel giovane a questa pace, rendendola perfetta. Ciù-ciù-ciù seguitava a
martellare il canarino; Pierello sorrise.
A un tratto si voltò perché aveva avvertito che qualcuno lo stava osservan-
do. Toh, era Martina, la sua sorella di sei anni, che visibilmente sconcertata,
un dito in bocca, lo guardava dal cortiletto senza osare metter piede dentro il
portico. Aveva - più in piccolo - lo stesso viso tondo del fratello, gli stessi ca-
pelli e occhi color marrone chiaro, la stessa aria modesta; aveva anche un po’
di moccio al naso.
«Martina» esclamò il giovane: «cosa fai? Non mi saluti?» S’avvicinò tutto
emozionato alla bambina: «Ma come, mi vedi qui, che sono tornato, e neanche
mi saluti?» ripeté. «Dov’è la mamma?»
La bambina guardava ora fisso il cappelluccio del fratello. «È andata a dar
da mangiare ai conigli» disse finalmente. Pierello l’afferrò sotto le ascelle e la
sollevò fino a portarne il viso all’altezza del proprio: «E allora? Proprio non mi
saluti?»
«Ciao» fece pianamente Martina, e allungò un dito verso il cappelluccio ti-
rolese.
«Ah, ti interessa il cappello?» il giovane strinse a sé ridendo e baciò la sorel-
lina; poi, depostala a terra: «Dai, accompagnami subito dalla mamma. Dov’è
che li tiene i conigli?»
«Sotto il portico dei Terenghi» rispose la bambina, indicando col dito. E già
fiduciosa, posta la piccola mano in quella del fratello, si avviò con lui.

***
Così, uno dopo l’altro quelli rimasti in vita facevano ritorno da ogni parte,
tranne che dalla Russia. A Nomana gli arrivi si susseguirono per mesi, a mo-
menti fitti - anche due o tre al giorno - a momenti radi, uno alla settimana e
meno.
Molti trovavano a casa penuria d’ogni cosa, qualcuno non aveva neppure un
vestito decente da mettersi indosso, per cui - stimolato dal padre Gerardo -
Ambrogio propose che i consiglieri della vecchia Associazione Combattenti si
mobilitassero per raccogliere fondi al fine di distribuire un taglio d’abito a cia-
scun reduce dalla prigionia. S’impegnò personalmente, visitando in coppia col
presidente dell’associazione, ch’era un ufficiale della guerra precedente, tutti i
possibili oblatori di Nomana e delle frazioni. Abbastanza in fretta - anche se
non con facilità - la somma necessaria fu raggiunta, e a metà estate si poté
procedere - nel salone dell’oratorio pavesato di bandiere tricolori - alla distri-
buzione dei tagli d’abito. L’effettuarono le ragazze del paese, e grazie alla loro
festosità sincera la cerimonia riuscì gradevole e autentica.
II

CAPITOLO NONO

Tagliato fuori da tutto ciò che succedeva in Italia e nel mondo, lontano co-
me se fosse sull’altra faccia della luna, Michele continuava in Russia la trita
vita del prigioniero. Le sue condizioni avrebbero dovuto da un certo tempo in
qua essere migliori, perché le autorità sovietiche - che non avevano sottoscrit-
te le convenzioni di Ginevra - s’erano improvvisamente risolte, per ragioni di
propaganda, a trattare i prigionieri di guerra appunto secondo tali convenzio-
ni. Con esclusione tuttavia d’alcuni importanti diritti, tra cui fondamentale
quello alla corrispondenza. In pratica le cose finivano con l’andare su per giù
come prima, tranne quanto al lavoro, divenuto per gli ufficiali facoltativo, per i
soldati meno duro.
Da Oranchi - dove l’abbiamo lasciato - alla fine del 1943 il giovane era stato,
con tutti gli altri ufficiali italiani superstiti nei diversi lager, trasferito a Su-
sdal, uno dei luoghi santi dell’ortodossia, situato tra Mosca e il Volga. Il borgo
contava diversi conventi, tutti trasformati in lager, e ben cinquanta chiese, di
cui neppure una in funzione; nel maggiore dei conventi, circondato da una
muraglia seicentesca in rovina, era sistemato il lager per prigionieri di guerra:
sugli spalti parzialmente franati della muraglia le guardie bolsceviche avevano
costruito le loro garitte, e vigilavano armate di mitragliatrici i laceri branchi di
militari non solo italiani, ma anche tedeschi, romeni, ungheresi.
Dai muri interni degli edifici li guardavano invece tante piccole schiere di
santi ieratici, dipinti al modo bizantino: tutti con gli occhi ugualmente spalan-
cati, i visi smunti e severi, le membra e le vesti rigide. “Religio depopulata” si
diceva con sgomento Michele incontrando quei muti sguardi: e ogni volta —
affinché le immagini adempissero, malgrado tutto, alla funzione per cui erano
state dipinte - recitava mentalmente una preghiera. Si chiedeva talora che fine
avessero fatto i monaci di Susdal: chissà se qualcuno vegetava ancora in qual-
che luogo della sterminata Russia, come quella povera suor Natalia e le altre
poche suore contadine recluse nel lager per donne di Oranchi? Durante il la-
voro s’era provato a interrogare al riguardo alcuni civili, dai quali aveva avuto
conferma che in tutti i conventi della città santa s’erano succedute e continua-
vano a succedersi ondate di deportati civili, e che un numero incalcolabile di
loro vi era morto; dei monaci che li popolavano un tempo tuttavia nessuno
aveva saputo dargli notizie.
Gli ufficiali sovietici del lager e gli stessi commissari italiani fuorusciti (gen-
te ben più smaliziata dei russi) non riuscivano ancora a capire il suo compor-
tamento. Lo vedevano amico degli elementi che avevano fama di ‘irriducibili’
perché puntualmente si opponevano con tenacia alle iniziative servili dei po-
chi ‘antifascisti’, i quali cercavano di spingere la massa a compiacere i guar-
diani. Notavano inoltre che coi suddetti ‘antifascisti’ egli non legava affatto.
Ma d’altra parte constatavano pure che nessuno s’impegnava quanto lui nello
studio dei testi marxisti, leninisti e stalinisti, sia di teoria che di storia, assimi-
lando lentamente un grosso volume dopo l’altro, al punto d’arrivare a domi-
narne la materia meglio degli stessi istruttori e conferenzieri; questo fatto fi-
niva anzi col destare in molti prigionieri qualche riserva nei suoi riguardi.
Richiesto direttamente da più d’un istruttore se ciò che veniva studiando lo
convincesse, aveva ogni volta risposto di non avere finora studiato abbastanza,
e che prima di pronunciarsi gli occorreva studiare ancora.
«Beh, si convincerà per forza» affermavano essi, con un’ottusità che a Mi-
chele pareva quella propria dei bruti, buoi e simili animali: era infatti per loro
inconcepibile che, anche in quell’inferno reale, uno potesse venire a contatto
con la radiosa dottrina marxista del futuro paradiso in terra, senza esserne
conquistato.

***
Nella seconda metà dell’anno 1944, penetrate le truppe russe in Polonia,
c’erano state le prime scoperte dei lager di sterminio nazisti. I giornali e la
radio le avevano da principio diffuse in Russia con qualche reticenza, comuni-
cando certi particolari e tacendone altri: dimostravano un’ovvia difficoltà a
richiamare l’attenzione generale sull’ambiente concentrazionario, sia pure
nemico. Non così i commissari fuorusciti italiani, i quali ritennero d’avere
l’argomento definitivo per tirare dalla propria parte la massa dei prigionieri:
nei loro cervelli di poca luce infatti antinazista (antifascista, com’essi usavano
dire, confondendo di proposito) equivaleva a procomunista.
Dopo una di tali scoperte avvenuta a Maidanek presso Lublino il loro capo
Paolo Robotti - cognato del segretario del partito comunista italiano Togliatti -
era venuto di persona a Susdal, e nel corso d’una tesa conferenza aveva con
gravità elencato i ritrovamenti: camere a gas, forni crematori, circa un milione
di scarpe appartenute a uomini, donne, miseri bambini, quintali di capelli
femminili suddivisi per colore, parte imballati e parte no. «L’indagine ha ac-
certato» disse e ripeté «che i corpi umani inceneriti nei forni sono stati intor-
no a seicentomila.» Terminata la sua funerea conferenza aveva distribuito
all’uditorio, incupito e tetro, un certo numero di giornali russi con la notizia; si
era quindi trattenuto qualche giorno nel lager a commentarla, anche passeg-
giando nei cortili con piccoli gruppi di ufficiali.
«È raggiante, lo vedete? È felice di un’enormità simile, solo perché fa il suo
gioco» commentavano alcuni, incerti tra ira e sgomento.
Altri dicevano: «Questo a lui pare che riscatti i crimini comunisti.»
Quanto a Michele si limitava a commentare coi suoi pochi amici: «Che fes-
so, vedete? Non si domanda nemmeno perché queste atrocità si verifichino
oggi, cioè contemporaneamente a quelle comuniste, dopo che da secoli
l’umanità civile credeva d’essersi lasciati indietro per sempre simili orrori.»
Studiando i sacri testi del marxismo egli aveva ormai afferrato con chiarezza
alcune realtà fondamentali: e in primo luogo che le idee più importanti in essi
contenute procedevano dalle medesime fonti anticristiane da cui procedevano
anche i comportamenti nazisti. A dirla in breve quelle idee e quei comporta-
menti procedevano dall’idealismo tedesco, e più su dall’illuminismo sei e set-
tecentesco, e più su ancora dalla ribellione di Lutero, e più su
dall’antropocentrismo rinascimentale; procedevano inoltre da alcune linee di
pensiero anticristiano derivate da quelle stesse fonti, come per esempio il dar-
vinismo voltato in filosofia atea. In sostanza Michele s’era reso conto che mar-
xismo e nazismo avevano un numero straordinariamente elevato d’antenati in
comune, erano cioè dello stesso sangue. E infatti entrambi - in un’antitesi or-
mai quasi perfetta col cristianesimo, che è amore - si esplicavano attraverso
analoghi meccanismi d’odio: soltanto mentre nel marxismo c’era una classe
redentrice (il proletariato) chiamata a rovesciare e ‘reprimere’ le altre classi,
nel nazismo c’era invece una razza eletta, chiamata a dominare e ad asservire
le altre razze. Vero che il nazismo - più moderno - faceva rispetto al marxismo
un passo avanti, in quanto non prevedeva affatto il recupero teorico alla sua
società nuova (millenaria, al pari di quella comunista) dei rovesciati e repres-
si, ma emancipatosi dalle utopie umanitarie laiche ottocentesche ancora pre-
senti nel marxismo, proclamava di voler dominare, stradominare e basta. In
compenso tuttavia, essendo - a guardar bene - più propriamente un rovescia-
mento dell’ebraismo che del cristianesimo, il nazismo finiva con l’essere di
gran lunga meno universale del marxismo, e in conclusione - Michele pensava
— meno pericoloso per l’umanità.
La notizia dei ritrovamenti di Maidanek aveva prodotto nel lager molta
sensazione, non solo tra i prigionieri italiani ma anche tra quelli delle altre
nazionalità, soprattutto fra i tedeschi, i quali ne furono particolarmente scossi;
non pochi di loro - in particolare ufficiali e soldati delle truppe di linea - si ri-
fiutavano di crederla vera, perché gli sembrava impossibile che tanta loro di-
sponibilità e spirito di sacrificio fossero stati traditi dai capi a quel modo. Una
cosa era infatti la durezza e sia pure la brutalità nel condurre la guerra - en-
trambe congeniali da sempre alla loro nazione - e un’altra cosa questa elimi-
nazione massaie d’inermi, di gente indifesa, che per la stessa Germania era
una terribile novità.
«Ad ogni modo non potete dubitarne, è una cosa troppo in linea col fanati-
smo dei nazisti» dicevano loro gli italiani.
La cui reazione non fu comunque quella sperata da Robotti: tranne i soliti
pochi ‘antifascisti’ dichiarati, i prigionieri non mostrarono in alcun modo di
propendere per il comunismo «che stava prostrando la belva nazista». Una
volta partito il commissario (il quale avvertì che sarebbe tornato non appena
fatto il giro degli altri lager con prigionieri italiani) s’erano però ritrovati con
la tremenda notizia tra le mani. Dunque non bastavano tutti gli indicibili orro-
ri e le innominabili bestialità compiute dai rossi: alla resa dei conti risultava
che i nazisti ne avevano compiuti d’analoghi e fors’anche di peggiori (per
quanto non fosse facile pensare a qualcosa di peggiore di Crinovaia, per chi
c’era passato).
«Come possono i tedeschi avere anche loro persa la testa fino a questo pun-
to?» si chiedevano sgomenti molti prigionieri.
«Almeno adesso vi rendete conto che non è questione di arretratezza?» Mi-
chele faceva osservare a padre Turla e agli altri suoi compagni di squadra:
«Che è sbagliato imputare simili fatti all’arretratezza russa? O forse dovremo
parlare anche di arretratezza tedesca?»
Padre Turla, di nuovo ammalazzato e ridotto a pesare cinquanta chili, non
era più da un pezzo, come sappiamo, il naciàlnich della squadra. Passava mol-
to del suo tempo nella cella (còmnata) del convento-lager che divideva con
Michele e altri otto prigionieri, seduto al suo posto, sotto una straziante croce-
fissione bizantina col Cristo magrissimo circondato da soldati romani in vesti
lunghe fino ai piedi: ancora più lunghe dei cappottoni dei soldati russi moder-
ni.
«Queste cose» finì un giorno con raffrontare decisamente l’argomento Mi-
chele «noi ce le dobbiamo spiegare, se l’intelletto non ce l’abbiamo per scher-
zo. Dobbiamo individuare da cosa deriva questa incredibile marcia indietro
del mondo verso la barbarie, verso le caverne. E se sia possibile arrestarla op-
pure no.»
«Ho capito. È la tua idea fissa della scristianizzazione, vero?» gli disse, vol-
gendo verso di lui la faccia smunta padre Turla.
«Già. Prendiamo per esempio gli argomenti di quel disgraziato ch’è venuto
a tenerci la conferenza il mese scorso...»
«Quale disgraziato? Qui i disgraziati che vengono a tenere conferenze si
sprecano.»
«Quello dell’università di Mosca.»
«Ah, il professore... Ma cosa vai a rivangare? Io le sue boiate non le ho
nemmeno ascoltate.»
Anche gli altri presenti nella cella, tutti seduti sui pagliericci ripiegati contro
il muro, tentennarono la testa: i soliti discorsi astratti del Tintori, la sua eterna
mania.
«Beh, se tu, se voialtri, quel giorno foste stati attenti come vi consigliavo io,
se invece di sbuffare adesso, aveste allora seguita la conferenza, vi sareste se
non altro resi conto che senza la filosofia sviluppatasi nell’ambiente e nelle
università protestanti, e in particolare senza Hegel e Feuerbach, le teorie di
Marx e di Lenin non sarebbero mai potute nascere, sarebbero oggi semplice-
mente inconcepibili. Proprio come - ricordiamolo - senza i discorsi di Nietsche
sul ‘superuomo’ e sulla ‘volontà di potenza’, sarebbe inconcepibile Hitler.»
Gli altri alzarono le spalle e non ribatterono; padre Turla, oltre tutto, era
troppo sfinito per farlo. Michele concluse, come altre volte, col ritrovarsi a ri-
muginare da solo; c’era abituato del resto. Seduto sul suo pagliericcio prese a
riflettere in silenzio. Non erano astrazioni gratuite le sue, non si trattava d’un
gioco: si trattava dell’obiettivo perché dei maggiori massacri della storia.
L’eresia protestante... eccoli qui i suoi frutti! Gli tornò in mente la paura, il
terror panico addirittura, che nel medio evo - nel ‘suo’ medio evo - si aveva
dell’eresia. Gli eretici allora erano considerati nocivi quanto la peste... E in
effetti ecco cos’era derivato dall’affermarsi dell’eresia: le decine e decine di
milioni di morti prodotti dal comunismo e dal nazismo. “E non è detto che sia
finita: anzi, se non si riuscirà a rovesciare l’andamento delle cose, forse non
siamo che al principio. Chissà cosa ci riserva il futuro!” Davanti a tale prospet-
tiva, emozionato com’era, gli veniva quasi voglia di giustificare l’inquisizione...
Nella bibliotechina del lager c’erano i libri di Llorente in edizione francese, e
lui se li era coscienziosamente letti: nell’epoca culminante, quella di Torque-
mada, le vittime dell’inquisizione erano computate in 10.220: un dato che
aveva l’aria d’essere gonfiato; ad ogni modo era evidente che in tutta la sua
storia plurisecolare l’inquisizione aveva fatto molte meno vittime di quante ne
facessero ora nel corso d un solo anno Stalin o Hitler. “In fin dei conti, se con
quelle poche migliaia di morti fossero davvero riusciti a evitare tutti i milioni
di oggi, quasi quasi...” Lo sguardo gli si fermò sul crocefisso: il Cristo dal viso
straziato - egli si rese conto - era adesso lì a subire dolorosamente anche que-
sto ragionamento col quale si pretendeva d’approvare che nel suo amorevole
nome tanti esseri umani fossero stati uccisi, bruciati vivi... “Ehi, Michele, cosa
ti prende? Approvare che si possa ammazzare il prossimo in nome di Cristo?
Stai perdendo l’intelletto anche tu?” Il giovane tentennò la testa e tirò un so-
spiro. Risolse che, certo, l’inquisizione andava condannata e senza scampo,
ma a una precisa condizione: che a condannarla fossero i cristiani, non gli al-
tri.

CAPITOLO DECIMO

Prima che il commissario Robotti fosse di ritorno a Susdal, vi giunse uno


sparuto branchetto di soldati italiani provenienti dalla città di Cazan sul Vol-
ga.
Un sottotenente della squadra di Michele - un tipo nervoso, sempre alla ri-
cerca di notizie - dopo avere parlato con alcuni di loro si ritirò terreo in volto
nella cella. Era l’ora del rancio: senza una parola il giovane ufficiale si sdraiò al
suo posto e si coprì per intero con la coperta.
«Cos’hai? Cosa ti prende?» gli chiese meravigliato il suo vicino di posto.
Quello non rispose.
«Ehi» insiste l’altro, seduto contro la parete al suo fianco con un barattolo
in una mano e un rozzo cucchiaio di legno nell’altra (il rancio veniva tuttora
ritirato in recipienti di fortuna): «Cos’hai? Forza, sputa fuori.»
Non ottenendo risposta infilò il cucchiaio nel barattolo, e con la mano libera
alzò la coperta fino a scoprire il viso del giacente: «T’ho chiesto cos’hai.»
«Ho» sbuffò quello «che la merda non finirà più», e si tirò di nuovo la co-
perta sulla testa.
Si era fatto silenzio: tutti nel piccolo locale guardavano alla sagoma sotto la
coperta.
«Cosa t’è successo, dì?» domandò nel silenzio don Turla: «Cerca per favore
di non tenerci in sospeso.»
Il sottotenente non rispondeva.
«Allora?»
Finalmente quello scoprì il viso, era con evidenza esasperato: «Non potreste
lasciarmi in pace quanti siete, eh?»
Nessuno pronunciò verbo: coi loro barattoli e gavette in mano attendevano
che si spiegasse.
«Parlate con quelli arrivati stamattina da Cazan» disse il sottotenente. «Io
ho parlato con due del Cinquantaduesimo artiglieria che... Ma va»
s’interruppe.
«Come ‘ma va’» esclamò don Turla: «Continua, spiegati.»
«Cazan non è lontana da qui» fece notare con preoccupazione uno dei pre-
senti. E volgendosi al sottotenente: «Vuoi andare avanti?»
«Là arrivano ogni giorno treni dalla Romania» disse finalmente quello
«e...» s’interruppe di nuovo.
«La Romania i russi la stanno ‘liberando’ adesso, così diceva Robotti» ri-
cordò uno dei presenti. «Beh, cosa c’è su quei treni? Donne e bambini?»
«Sì, certo» rispose il sottotenente: «civili e militari ammucchiati nei carri,
come al solito, ma non è questo...» Sembrò passare a un altro filo di pensieri:
«Verrà un giorno in cui anche dall’Italia arriveranno qui treni simili. Ormai
non possiamo più far niente per impedirlo. Non c’è più niente da fare.»
«Allora vuoi andare avanti?» chiese con impazienza don Turla.
«Quei treni sono pieni di cadaveri: li fanno viaggiare con una tale lentezza
che in certi carri non rimane in vita nessuno. E i morti sono quasi tutti aperti,
senza più il fegato o... o... Beh, lo sapete. Un treno dopo l’altro, tutti a quel
modo. In certi carri ci sono dei poveracci ancora vivi, ma ridotti come pazzi,
o...»
Tutti tacevano, estenuati da quest’altra orrenda notizia.
«Quelli del Cinquantaduesimo da chi l’hanno saputo?» chiese un tenente
anziano, che quando parlava usava coprirsi la bocca con una mano perché
aveva perso molti denti.
«Erano ricoverati all’ospedale di Cazan, ma quasi ogni giorno li buttavano
giù dai letti e li portavano alla stazione ad aiutare le squadre di servizio tede-
sche, che non ce la fanno a scaricare tutti quei morti.»
«Ma... e lo Stalin pricàs. Allora per i romeni non vale lo Stalin pricàs?»
domandò costernato uno, guardando in faccia gli altri.
«In Romania i comunisti non hanno più bisogno di farsi propaganda» spie-
gò con durezza Michele: «Là comandano loro.»
«Adesso siete contenti?» esclamò con rabbia il sottotenente, e sbuffò: «An-
date tutti all’inferno.» Si tirò ancora una volta la coperta sulla testa, stavolta
definitivamente.
S’era fatto silenzio.
«E il tuo Dio permette tutte queste cose?» chiese con amarezza e insieme
acidità l’ufficiale senza denti al cappellano.
«Non bestemmiare, tu» mormorò padre Turla. Levò in silenzio gli occhi al
dipinto che gli stava sopra la testa: da lì sotto non poteva vederlo che di scor-
cio, ciononostante gli parve che gli occhi fissi del Cristo ricambiassero doloro-
samente il suo sguardo. Dio aveva fatto gli uomini liberi, ecco il punto. Tutto
lo scandalo stava qui. Adesso non poteva andare contro la loro libertà, non
poteva impedirgli di fare ciò che volevano. Non gli era rimasto che morire in-
sieme con quanti venivano uccisi, crocifisso con loro... Padre Turla non disse
una parola.

CAPITOLO UNDICESIMO

“Del Cinquantaduesimo artiglieria ha detto, soldati del Cinquantaduesimo”


si ripeté più volte Michele nelle ore successive, dedicate all’indottrinamento.
“Bisogna che li cerchi e ci parli anch’io.”
Riuscì a scovarne uno il giorno dopo; era un meridionale che gli confermò i
fatti riferiti dal sottotenente e - sollecitato dalle sue domande - aggiunse mal-
volentieri dei particolari. Quelli arrivati con lui da Cazan - precisò - erano
adesso tutti ricoverati nell’infermeria del lager: «Perché noi a Cazan stavamo
all’ospedale. Io ad ogni modo sono contento che ci abbiano trasferiti qui, dove
ci siete anche voi ufficiali, perché dove ci stanno gli ufficiali italiani le guardie
a noi soldati ci picchiano meno.»
Michele annuì, questo fatto gli era noto: sapeva anche che della cosa biso-
gnava essere grati non agli ‘antifascisti’, ma ai cosiddetti ‘irriducibili’, che da
tempo si opponevano alle prepotenze dei guardiani tempestando di jalobi,
ossia di proteste scritte, con incessanti richiami al diritto internazionale, le più
alte autorità sovietiche. Ovviamente nessuna di quelle jalobi veniva inoltrata:
ma solo a leggere i nomi dei destinatari, ai responsabili del lager doveva veni-
re il cardiopalma.
«È vero» s’informò il soldato «che qui ci sta un cappellano della Julia il
quale durante un interrogatorio ha dato un calcio in petto a un maggiore della
polizia?»
«Sì» Michele sorrise. «Padre Brevi. Però da qualche mese non si trova più
qui: l’hanno trasferito in un lager di punizione, insieme con altri ‘irriducibili’,
come Boletti, Italo Stagno, i capitani Iovino e Magnani, insomma con alcuni
altri.»
«Giustamente» esclamò il soldato: «il capitano Iovino. Voi lo conoscete? È
di Resina, quasi mio compaesano; perché io sono di Pompei che con Resina
forma ormai una città sola. Ne ho inteso parlare, sì. Iovino, un uomo eccezio-
nale, è vero? È mio paesano.»
«È un tipo molto in gamba» disse Michele in tono convinto.
Il soldato lo guardò con simpatia: «Siete milanese voi?» domandò. L’altro
annuì: «Beh, della provincia.»
«Della provincia di Milano? Di quale paese? Un certo Valli Tito, pure lui del
Cinquantaduesimo, che stava con me a Cazan, e prima al lager 171, è anche
della provincia di Milano.»
«Sai per caso di che paese?»
«Non mi raccapezzo bene, ma come diceva? Di Brianza, ecco, è di Brianza.»
«La Brianza non è un paese, ma una zona, come sarebbe da voi in Campa-
nia, che so, l’Irpinia per esempio» spiegò, molto interessato, Michele: «E il
mio paese, Nova - gliel’hai per caso sentito nominare? - si trova appunto in
Brianza. Di dov’è quel Valli? Cerca di ricordare.»
«Nova avete detto? No. Non l’ho mai inteso parlare di Nova. Mai. Il suo
paese tiene un altro nome... Proprio non rammento. Beh, adesso è ricoverato
all’infermeria, ma appena esce lo avverto che ci siete qui voi. Come vi chiama-
te?»
«Tintori. Ricordalo per favore: Tintori.»
«Ecco, signor tenente Tintori. Tito ne sarà contento.»
«Lui si chiama Valli, hai detto? Valli Tito?»
«Sì, classe 1921, del Cinquantaduesimo artiglieria.»
«Sai per che malattia è ricoverato?»
«Tubercolosi.»
«Ah.»
«Una cosa seria, sì.»

CAPITOLO DODICESIMO

Una dozzina di giorni più tardi, mentr’era volontariamente al lavoro fuori


Susdal in un colcoz soprannominato ‘della colonia spagnola’, Michele
s’imbatté di nuovo nel soldato di Resina. Fu il soldato - che con la sua squadra
stava riparando una strada disastrata - a riconoscerlo: «Signor tenente» lo
chiamò, e facendogli ripetutamente segno d’arrestarsi (l’ufficiale veniva lungo
la strada al seguito d’un carro agricolo): «C’è qui il paesano vostro, Tito, Valli
Tito». Indicò un altro soldato che a qualche passo da lui se ne stava immobile,
col badile in mano e la testa china.
«Cosa dici?»
«Valli Tito, il paesano vostro. È qui.»
«Ah!» Michele invitò gli altri accompagnatori del carro ad andare avanti e
si accostò ai due soldati.
Il Tito Valli, cervelloticamente dimesso dall’infermeria del lager, risultava
davvero mal ridotto: non solo doveva pesare meno di cinquanta chili, ma ave-
va la faccia e il corpo gonfi e d’un brutto colore giallognolo. Per lui, a differen-
za che per gli ufficiali, il lavoro - come s’è detto - era tuttora obbligatorio, e
doveva pesargli molto.
«Sono di Nova» gli disse Michele, porgendogli la destra, con tanta più cor-
dialità al vederlo in quello stato. «Ho sentito che sei brianteo anche tu. È ve-
ro?»
«Sì, sono di Nomana, distretto di Monza.»
«Di Nomana?» esclamò emozionato il sottotenente: «Ma... Cosa dici? Di
Nomana hai detto?»
L’altro annuì: «Sì, perché?»
Questo Tito, cugino di Pierello, se il lettore ricorda, noi l’abbiamo già incon-
trato anni prima alla stazione del suo paese, il giorno della partenza delle re-
clute: era quel ragazzo inesperto che, nella confusione, aveva fatto per salire
su un treno sbagliato, e n’era stato impedito da un’altra recluta, Giovannino
Faccia-infarinata.
«Se tu sei di Nomana, conosci per forza l’Ambrogio Riva, il sottotenente
Ambrogio Riva, della classe 1921.»
«Sì, è mio coscritto. Lo conosco, però non ho mai parlato con lui. Lo cono-
sco soltanto di vista.»
«Come? Non ci hai mai parlato? Lo sai che era qui in Russia anche lui, con
l’Ottavo artiglieria Pasubio?»
«Sì, questo lo so.»
«E sai se è vivo o se...»
«No, io ero nella Torino.»
«La mia divisione.»
Il soldato guardò le logore mostrine del sottotenente. «Sì» disse, e passò al
dialetto: «Me mi hanno preso il secondo giorno della ritirata, a quel paese do-
ve ci hanno attaccato coi carri.»
«A Posniacof ?»
«Ecco, proprio. Come sia andata a lui non ho idea.»
Fin dal primo istante il pensiero di Michele era corso ad Alma. «Dì» chiese
passando a sua volta al dialetto «e gli altri della famiglia Riva per caso li cono-
sci?»
«Di nome. So che sono industriali. Brava gente, molto stimata.» Il guardia-
no dei soldati, un mongolo col parabellum di traverso sul petto, sembrava infi-
schiarsi dell’irregolare colloquio. Per cui i due andarono avanti.
«Il fatto è» spiegò Tito, adesso un po’ emozionato a sua volta dall’incontro
col compaesano «che io non abito in paese. Sto in una frazione, la Lodosa, an-
zi in una delle cascine più fuori mano, che si chiama il Casaretto; noi di quella
cascina non andiamo a scuola a Nomana ma fuori comune. Ecco perché io co-
nosco poco quelli di Nomana.»
«Adesso capisco.»
«Mio cugino Valli Piero invece - lui pure del 21 - che andava a scuola, a
Nomana, è molto amico dell’Ambrogio Riva.»
«Capisco» disse profondamente deluso Michele. Intanto pensava: “Troppo
bello, sarebbe stato troppo bello! Peccato però, è di Nomana e non conosce i
Riva. Avrei avuto di che... parlare!”

***
Di che parlare, per la verità, aveva ugualmente. E non mancò di farlo già di
lì a qualche ora, nell’intervallo del rancio.
Tito - nel timore d’essere contagioso - si era andato a sedere un po’ in di-
sparte dalla sua squadra, su una piccola proda erbosa tra gli edifici sparsi del
colcoz; qui Michele l’aveva raggiunto, e dopo essersi meglio informato sulla
sua salute (“Povero disgraziato, guarda com’è ridotto! Chissà se ce la farà a
tornare a casa”) aveva - sempre parlando in dialetto - ricordato con lui certi
particolari della Brianza, come la piazza di Nomana, il trenino delle ‘littorine’,
il ponte d’Incastigo, la cerchia delle Prealpi col Resegone, le due Grigne e il
San Primo, tutte cose che da qui parevano per sempre irraggiungibili. Dopo di
che non aveva saputo trattenersi dal fare al Valli qualche domanda relativa
alla stazione di Cazan e agli spaventosi convogli che quotidianamente vi giun-
gevano dalla Romania.
«Che cose! Oh, che cose!» intercalava ogni tanto le proprie risposte il solda-
to. Non aveva persa la sua sensibilità, e il parlare di così atroci fatti lo sgomen-
tava e metteva in agitazione; guardava a momenti l’ufficiale compaesano negli
occhi, quasi a cercarvi qualcosa: un appiglio, un’ancora cui aggrapparsi in tan-
to orrore.
«Basta» finì col risolvere Michele, trattenendosi dal fargli altre domande
«per adesso basta. Senti, ho qui qualcosa che ho fregato a Stalin.» Infilò la
mano in una delle due tasche laterali della giubba che apparivano gonfie, e la
ritrasse piena di frumento: «Ti va, Tito?»
Il soldato lo guardava senza parlare, sembrava ancora con la mente a Cazan.
«Si può mangiarlo anche crudo» spiegò, del tutto superfluamente, Michele:
«basta metterne in bocca poco per volta.»
«Sì, lo so» disse l’altro. Infine riunì le proprie mani a coppa; l’ufficiale vi
depose una prima manciata di grano: era dorato, pulito, invitante.
«Sai cosa facciamo?» disse Michele: «Qua, tieni aperta questa tasca che te
la riempio.» Stavano seduti ambedue sulla scarpata erbosa della ‘colonia spa-
gnola’ (due casupole circondate da una rete metallica): Michele si mise su un
ginocchio e cominciò il travaso del grano; l’altro teneva aperta la tasca e os-
servava senza commentare.
«Tanto la guardia della vostra squadra» (era l’unica in vista) «se ne frega»
osservò Michele. «Quel mongolo là, quella faccia di gialdone... Lo sai che pri-
ma era una delle peggiori carogne del lager? Adesso invece pare diventato un
pezzo di pane.» (Ignorava il perché: ignorava che l’intero popolo cui la guardia
apparteneva, quello dei Tatari di Crimea, era stato ultimamente - uomini,
donne, bambini, sani e malati - deportato dai comunisti in Siberia. In quelle
settimane stavano percorrendo le ferrovie russe gli ultimi convogli di deporta-
zione; la guardia non faceva che domandarsi giorno e notte quale fosse la sorte
dei suoi famigliari sui terribili treni a piccola velocità: avrebbe voluto aiutarli,
e nello stesso tempo viveva nel terrore di essere deportata a sua volta.)
«Facciamo conto d’essere ‘a sposa’ a Nomana, eh?» disse ancora il sottote-
nente «e che questi siano confetti.»
Tito sorrise: «Quanti confetti» mormorò.
«A saccocciate» disse Michele: «Sono di quelli piccoli, che si buttano in te-
sta agli sposi.»
«Nomana...» mormorò Tito. Quanto appariva lontana a tutt’e due!
«Señor» si udì una voce alle loro spalle.
Voltarono entrambi la testa: un ragazzino era venuto alla rete, e di là, da
una distanza di pochi metri, li stava osservando. Michele sapeva che la ‘colo-
nia’ era composta per intero di ragazzi tra i dodici e i quindici anni: forse cin-
quanta, forse sessanta ragazzi spagnoli; ne aveva incontrati più volte sul lavo-
ro. «Cosa vuoi?» gli chiese bonariamente.
«Confieti, los confites, señor» mormorò il ragazzo.
Il sottotenente si mise a ridere. «Questi non sono confetti: no estàn confi-
tes» disse in uno spagnolo alquanto arbitrario, mostrando il frumento che te-
neva in mano, e riprese il lavoro di trasferimento nella tasca di Tito.
«Confites, señor, confites!» disse con voce più forte il ragazzo.
Michele gli fece sorridendo segno di no con la testa; alcuni altri ragazzi era-
no intanto usciti dalle casupole e venivano verso la rete. Erano vestiti di strac-
ci, avevano in genere capelli neri, folti, e le sopracciglia e i visi marcatamente
disegnati, gli occhi vivaci: chiaramente non erano russi. «Confites, confites»
cominciarono essi pure a chiedere: pronunciavano la parola piuttosto male,
probabilmente la stavano riscoprendo dopo chissà quanto tempo.
«Chi sono quelli?» domandò Tito.
«Sono gli spagnoli. Ne hai sentito parlare, no?»
«Io no. Ma sono dei bambini... Com’è che sono prigionieri?»
«Sono di quei bambini che i rossi hanno portato via quando han dovuto ri-
tirarsi dalla Spagna: è successo verso la fine della guerra, nel 38-39. In Italia
l’avrai sentito dire di questi bambini.»
«Ah, sì, qualcosa infatti.»
«Ce n’è diversi che adesso non ricordano più la loro madre e neanche la
Spagna. Non si può nemmeno dire che parlino veramente lo spagnolo, ma una
mescolanza di spagnolo e russo. L’intenzione dei rossi era di tirarli su nel co-
munismo, per poi utilizzarli in Spagna come propagandisti. E forse, chissà, lo
faranno anche, ma fino a oggi si sono limitati a tirarli su negli stracci, senza
insegnargli niente o quasi. Io li ho incontrati al lavoro nel colcoz e ci ho parla-
to.»
«Ma» disse Tito «non capisco bene. Sono orfani dei rossi, oppure sono figli
di... altri; voglio dire, sono stati rubati?»
«Questo gliel’ho domandato anch’io, ma i ragazzi non lo sanno. Da come li
tengono sequestrati sembrerebbero figli di anticomunisti: però ci sono forse
anche degli orfani di comunisti, chissà.»
«Che cosa!» mormorò il Tito Valli con spossatezza, e ripete: «Che cosa!»
«Sì, poveri ragazzi» convenne Michele.
«Confites, señor» gridò più forte il ragazzo, vedendo che i due militari inve-
ce di prestargli attenzione conversavano tra loro; anche gli altri allora si mise-
ro a urlare: «Confites, confites!»
«Ehi, muchachos» disse Michele levandosi in piedi, e dirigendosi un po’
preoccupato verso il gruppo: «non gridate così. Ticho, ticho (niente chiasso: in
russo).»
Si fermò davanti alla rete metallica: «Vedete no? Questi qui non sono con-
fetti, no estàn confites.» Tornò al russo: «È zernò (frumento). L’ho fregato al
colcoz: zabràl (rubare)» fece il gesto con la mano «en el colcoz: anche voi ne
zabrate quando potete, non è vero?»
I ragazzi, raggruppati al di là della rete, erano ammutoliti e lo guardavano
con gli occhi neri pieni di delusione. Michele provò una stretta al cuore: non
aveva nulla, proprio nulla da offrire a degli innocenti così bestialmente violen-
tati... «No estàn confites» ripeté sorridendo un po’ melenso, e fece scorrere il
grano da una mano all’altra. «No son confites, no» ammise uno dei ragazzi, e
tentennò la testa: «No existen confites aqui en Rossìa.»
Michele approvò: «Ecco, giusto.»
Il ragazzo, che era lacero come un mendicante, ma aveva un bel viso fiero,
esclamò: «Este, señor, es el pais de la mierda.»
Dopo di che si staccò dalla recinzione e s’incamminò al pari degli altri verso
le due baracche. Michele tornò da Tito che, volgendo all’indietro la sua faccia
gialla, gonfia, da malato, aveva seguita ogni cosa attentamente. «Dei bambini
rubati» disse: «Io, quando in Italia la radio lo diceva, non ci credevo.»

CAPITOLO TREDICESIMO

La squadra di Michele rientrò nel lager di lì a qualche giorno, giusto in


tempo per la ricomparsa del commissario Robotti. Il quale non sembrava sod-
disfatto del modo in cui anche negli altri lager i prigionieri italiani avevano
accolta la notizia dei campi di sterminio nazisti. In realtà, allo stesso modo
degli ufficiali, i soldati non credevano più a nessuna propaganda (già prima
del resto, in quanto italiani, ci avevano sempre creduto poco); intuitivi
com’erano essi si rendevano conto - a differenza di molti tedeschi - che quegli
stermini dovevano purtroppo essere stati commessi, ma non per questo - ad
eccezione di pochi - si lasciavano incantare dai miraggi del comunismo, i cui
frutti concreti avevano lì sotto gli occhi.
Robotti faticava a spiegarsi una così massiccia resistenza. Riprese . a con-
versare coi prigionieri, specie con gli ufficiali, entrando e soffermandosi nelle
‘camerate’, o facendo crocchio con loro nei cortili.
Una volta, aggiuntosi a uno di tali crocchi, Michele ebbe agio d’esaminarlo
da vicino: magro, biondo, stempiato, con occhi chiari e freddi (eppure
s’intuiva in lui un nascosto fuoco), indossava il solito giaccone di cuoio nero
dei commissari sovietici che ne metteva ancora più in risalto il colorito smor-
to. “Guarda, somiglia un po’ a quelle figure dei libri di storia, a quegli apostoli
laici dell’ottocento” venne fatto al giovane di pensare. “Certo non somiglia alle
guardie ritardate-mentali che abbiamo ogni giorno tra i piedi, le quali sono
capaci solo di violenza.”
Robotti ripeteva spesso che avrebbe voluto sentire il parere degli interlocu-
tori, ma in pratica, come succede a chiunque abbia della realtà una visione già
completa e conchiusa, e dunque non bisognevole d’ulteriori apporti, finiva con
il parlare quasi solo lui. Michele ne rimarcò alcune sintomatiche affermazioni:
«...la guerra giusta che prima di questa noi abbiamo fatto alla Finlandia fasci-
sta... - Forse qualcuno di voi ritiene che i deportati civili siano innocenti: ma
avete o no fatto caso che tra loro ci sono dei preti? Dunque... - Questo è lo sta-
to degli operai e dei contadini...»
«Quali contadini?» sfuggì a un prigioniero, un sottotenente toscano con gli
occhiali, alto e magro come un trampoliere, con la divisa letteralmente a pezzi:
«Se tutti quelli con cui s’è parlato noi, non hanno manco la facoltà d’uscire dal
loro villaggio senza il lasciapassare della polizia.»
Robotti discusse brevemente, con palese insofferenza, il piccolo dettaglio,
poi andò oltre senza dare alcun peso a quella realtà che pure, al pari dei suoi
interlocutori, aveva egli stesso constatato innumerevoli volte di persona; solo,
per non venire disturbato con simili quisquilie, non tirò più in ballo i contadi-
ni. Ma di lì a poco si trovò disturbato anche a proposito degli operai, quando il
magro e coraggioso sottotenente con la divisa a pezzi buttò là con finta noncu-
ranza: «Ho inteso dire dagli operai che i sindacati qui in Russia hanno la fun-
zione d’obbligarli a eseguire gli ordini dei dirigenti. Tutti gli operai russi con
cui ho parlato lo affermano.»
«È gente che non capisce niente» dichiarò Robotti; tuttavia non mancò di
spiegare, con una sorta di fredda pazienza apostolica, che i sindacati in un
paese in cui gli operai sono «i proprietari delle fabbriche» non possono che
comportarsi così. Dopo di che - lasciando perdere tutti questi elementi margi-
nali - si ricondusse al filone che più gli stava a cuore, quello dei crimini nazisti:
«Che l’U.R.S.S. ha rivelato al mondo intero, e sta rendendo impossibili per
sempre. Non è un merito del comunismo questo?»
Ai crimini commessi dai comunisti sembrava non pensare affatto (a distan-
za d’anni noi sappiamo che realmente non ci pensava: abbiamo letto non solo
le sue memorie di marxista mai sfiorato da dubbi, ma anche quelle di altri fuo-
rusciti ribellatisi più tardi all’ideologia: ebbene perfino questi ultimi seguitano
in buona fede a giudicare criminali e assassini i nazisti, ma non propriamente
tali i loro ex compagni comunisti...)
I prigionieri di guerra non riuscivano a capire se fosse sincero o no. «Visto
che stiamo parlando di crimini» intervenne a un tratto un capitano «come
spiegate certi... fatti che si verificano anche qui?»
«Qui? Quali fatti?»
«Beh, per fare un esempio il cannibalismo.»
«Che cannibalismo?» esclamò con aria sorpresa Robotti, e arrestandosi:
«Dove? Cosa state dicendo? Siete impazzito?»
«Ma... per esempio a Crinovaia.»
«Quale Crinovaia? Dov’è? Non esiste in Russia una località che si chiami
Crinovaia. Io non ne ho mai sentito parlare.»
All’infuori degli ‘antifascisti’ che fecero la faccia indifferente, come non
avessero inteso, i prigionieri si guardarono l’un l’altro: non credevano alle
proprie orecchie.
«Ma... commissario: per il lager di Crinovaia ci sono passato io» non poté
trattenersi dal dire il capitano. «Si trova nell’ansa del Don, non lontano da
Buturlinovca ch’è una cittadina abbastanza grande. Diciamo a una distanza
di...»
«No, è impossibile» lo interruppe Robotti. «Nessun prigioniero italiano è
mai stato in un posto con quel nome. Volete che non lo sappia io? Io?»
Il capitano rimase interdetto: «Ma... Forse a quel posto voi date un altro
nome, però...»
«No» disse Robotti con pazienza ma anche con decisione: «noi non gli dia-
mo un altro nome: queste sono fantasie, proprio come è una fantasia il canni-
balismo.»
Il capitano non osò controbattere oltre e si limitò a fissarlo. Intervenne allo-
ra il sottotenente che sembrava un lacero trampoliere: «Sentite commissario:
noi sappiamo che in seguito il comandante russo di Crinovaia è stato fucilato.
Non per questo però quello che è accaduto cessa d’essere accaduto. Eh, mi
pare.»
«Ma no, ma no, macché cannibalismo» insisté, piuttosto che minaccioso,
accorato Robotti. «Non cominciate a mettervi in testa simili fandonie per fa-
vore. E vi dico che non esiste in Russia alcuna località che si chiami Crino-
vaia.»
Riprese a camminare, accompagnato dal crocchio dei prigionieri sbalorditi;
procedeva con la schiena un po’ storta: tutti nel lager sapevano ch’egli aveva
la colonna vertebrale offesa.
“Che la vera causa di questi ragionamenti ‘a pera’ stia lì?” si chiese molto
perplesso Michele il quale, trovandosi un po’ al margine del crocchio, adesso
non udiva più bene le parole del commissario: “Siccome i fascisti lo hanno ro-
vinato a forza di botte, lui, al di là d’ogni logica, gli attribuisce il monopolio
della barbarie... Che sia così?”
Si sbagliava. Per cominciare egli ignorava che a incrinare le ossa (e anche i
denti) del commissario, non erano stati i fascisti ma i suoi compagni bolscevi-
chi, nel corso di due tragici anni di carcere e di torture: anni che - fatto allora
assai raro in Russia - s’erano conclusi con la riabilitazione di Robotti allorché
suo cognato Togliatti era stato, poco prima della guerra, finalmente riconfer-
mato alla direzione del partito comunista italiano. (Per la maggior parte degli
altri circa trecento comunisti riparati dall’Italia in Russia, le cose non erano
andate così: fra il 37 e il 39 infatti circa duecento di loro erano stati in vario
modo giustiziati, e proprio a Robotti era toccato compilarne l’elenco per gli
schedari riservati del partito.) Queste orribili esperienze però, allo stesso mo-
do di tutta l’altra atroce realtà che aveva quotidianamente sotto gli occhi, non
scuotevano nel suo animo l’entusiasmo per le meravigliose promesse - si badi
bene: promesse - del comunismo. Anzi siccome la realtà oggettiva era in con-
trasto con tali promesse, essa finiva col contare sempre meno per lui. Nel suo
intimo non c’era ormai posto che per l’attesa messianica della società nuova,
riscattata per sempre dal male, che la ‘scienza’ marxista gli prospettava e ga-
rantiva. Tutto il resto non lo interessava propriamente più. Un simile invasa-
mento aveva finito con l’invertire stranamente il rapporto suo - e di tanti altri
come lui - con la realtà: se la storia - cioè appunto la realtà - non li seguiva,
ebbene al limite essi potevano anche cambiare la storia; e in effetti credevano
d’averlo già fatto, riscrivendo paradossalmente più volte quella successiva alla
loro rivoluzione. Come se un fatto accaduto non fosse più accaduto - e ne fosse
invece al suo posto accaduto un altro - solo perché nei loro testi volta a volta
così stava scritto. Forse, chissà, l’anno prima era stato proprio Robotti, oppure
qualche suo intimo collaboratore, informato del cannibalismo che imperver-
sava a Crinovaia, a intervenire presso le autorità sovietiche competenti: le
quali avevano provveduto, fucilando il comandante del lager e cambiando il
nome della borgata da cui il lager si nominava. Dopo di che le orribili cose
accadute in quel luogo dovevano per loro semplicemente ritenersi non acca-
dute...
Michele - che s’era di nuovo avvicinato al commissario - e gli altri prigionie-
ri, continuarono a passeggiare con lui nei cortili, ascoltando increduli le lodi
ch’egli aveva ripreso a tessere della società sovietica. Anche i meno perspicaci
tra loro cominciavano a percepire la straordinaria inversione di cervello che il
conservarsi comunista necessariamente comporta: parecchi di quei prigionieri
non avrebbero più scordata tale percezione.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

L’inverno successivo, 44-45, aveva vista l’avanzata inarrestabile delle trup-


pe russe e di quelle anglo-americane nel territorio stesso della Germania; in
maggio, alla conclusione delle operazioni belliche, non erano mancate a Su-
sdal - su iniziativa dei guardiani e degli ‘antifascisti’ - cerimonie celebrative
della vittoria, a imitazione di quelle che si susseguivano a Mosca. I prigionieri
avevano, ovviamente, cominciato anche a parlare di rimpatrio, ma al di fuori
delle parole, presto portate via dal tritume sempre uguale dei giorni, nessun
fatto nuovo, neanche il più modesto, era intervenuto a costituire per loro un
precedente, un riferimento qualsiasi, cui ancorare la speranza.
I fatti anzi parevano in contrario, perché dalla fine della guerra le deporta-
zioni dei civili dai paesi della sventurata Europa orientale verso la Russia e la
Siberia si erano grandemente intensificate: ogni linea ferroviaria dello stermi-
nato paese ne costituiva un alveo, e anche a Susdal n’era traboccato qualche
spruzzo. I militari italiani avevano avuto occasione mentre si recavano al lavo-
ro di vedere gruppetti di donne baltiche, o polacche, o tedesche, dall’aspetto
oltraggiato e sofferente, bambini che si tenevano abbarbicati ad esse (ma quel-
le povere disgraziate cosa potevano più dargli?), uomini d’ogni età, non di raro
coi capelli bianchi, fermi come pecore all’interno o nei pressi della stazione
ferroviaria. «Guarda: questa dovrebbe essere la gente che il conferenziere di
ieri sera, quel deficiente semianalfabeta, definiva gli ‘strati scientificamente da
reprimere’...»
«Povera Europa, in mano a che bestie!»
«Dicono di non avere carri ferroviari per rimandare a casa noi. Ma per de-
portare tutta questa gente li trovano.»
«Povera gente però!»
Gli unici a guardare i deportati con perfetta indifferenza erano i civili di Su-
sdal. Michele finì col chiedersi se il più grave difetto dei russi - quello che li
aveva resi tanto micidiali a sé stessi, e in futuro, dopo la loro vittoria, avrebbe
potuto renderli mortiferi al mondo intero - non stesse proprio qui: nella loro
incredibile disponibilità alla schiavitù e ad ogni sua manifestazione.
In estate giunse dalla parte opposta, da est, un convoglio di prigionieri
giapponesi, e con essi la notizia di quella straordinaria arma nuova, la bomba
atomica, fatta esplodere dagli americani prima a Hiroshima poi a Nagasachi:
era stata quella - affermavano i piccoli, tuttora ordinati soldati di levante - la
vera causa della resa del Giappone. I giornali russi non avevano dato rilievo
all’arma atomica, ma i commissari - subito interrogati in proposito dagli ita-
liani — si videro costretti a riconoscerne l’importanza, che più d’uno di loro
scoprì appunto nell’esame che ne dovette fare. La loro mortificazione per il
fatto di non possederla era evidente, i commenti dei prigionieri finirono con
l’incentrarsi su tale mortificazione, e sulla gran novità (per loro) dell’evidente
potenza bellica americana; la cosa in pratica finì li.
Non però per Michele, il quale ponderando tra sé la sbalorditiva novità, si
ritrovava intimamente assai turbato. “Se la scristianizzazione continua, eccolo
già trovato il mezzo per le future stragi massali” si diceva. Gli tornava in men-
te la situazione precristiana, la realtà feroce del tempo pagano, certe pagine
del ‘De bello gallico’ di Cesare per esempio: “In Gallia i romani hanno elimi-
nato in pochi anni forse due milioni di persone, più della metà degli abitanti
del paese... E se non l’avessero fatto loro, l’avrebbero fatto i germani, che era-
no già quasi pronti. Anche i galli del resto avevano pochi secoli prima tolto di
mezzo allo stesso modo i precedenti abitatori...” Né in Oriente, stando alla
Bibbia, le cose andavano in modo diverso. “Ecco la realtà cui, continuando
così, il mondo sta per tornare. Adesso però è troppo più popolato, occorrono
quindi altri mezzi di sterminio: ed eccoli.” Nella sua immaginazione sempre
fervida, gli pareva a momenti di vedere le colonne delle esplosioni atomiche
percorrere impetuosamente l’uno o l’altro settore del globo “spazzandolo co-
me scope di fuoco”.
Padre Turla, cui egli partecipò le sue preoccupazioni, lo guardava in faccia
con occhi esausti. «Lascia che arriviamo a casa noi» borbottava «e vedrai che,
in Italia almeno, di scristianizzazione non se ne parla per un pezzo.»
«Sì, è proprio in questo che noi ci dobbiamo impegnare» affermava con
stanchezza Michele: «sarà questo il nostro compito.»
Nelle settimane seguenti ebbe modo di constatare come gli uomini - persino
i suoi compagni di prigionia, che avevano una così straordinaria esperienza di
sofferenze - fossero disposti ad accettare nel loro mondo l’arma atomica. Rap-
presentava o no quell’arma un freno per i comunisti? Sì, per un certo tempo
probabilmente essa avrebbe trattenuto gli eserciti rossi dal rovesciarsi sul
mondo libero. Che fosse dunque la benvenuta.

III

CAPITOLO QUINDICESIMO

In novembre a Milano ebbero inizio le lezioni universitarie. I tre figli mag-


giori di Gerardo arrivavano ogni mattina col treno in città; nel vasto piazzale
della stazione il loro gruppetto si scindeva: raggiungevano con tram diversi
Pino la facoltà di medicina al centro, Fortunato il politecnico nel settore est, e
Ambrogio l’università cattolica nel settore ovest della città.
I segni dei bombardamenti erano visibili dovunque lungo il percorso e
all’interno stesso dei recinti universitari: così nella Cattolica, dove alcune ali
d’edifici erano state atterrate dalle esplosioni. Vi si lavorava però attivamente
alla ricostruzione sotto gli occhi del rettore padre Gemelli il quale - impossibi-
litato adesso a camminare per un incidente d’auto che gli aveva incrinata la
colonna vertebrale - andava e veniva da un cantiere all’altro su una poltrona a
ruote, digrignando i denti per l’impazienza.
Ogni volta che l’incontrava, Ambrogio pensava: “Chissà se, con la memoria-
super che si ritrova, Gemellone ricorda ancora Michele, e quella bravata di
saluto che gli ha rivolto quand’eravamo matricole: ‘Ciao Tintori’... Probabil-
mente sì, perché è di quelli che non dimenticano mai niente. E se io gli comu-
nicassi che Michele è disperso?” Non lo fece tuttavia, non si permise mai di
rivolgere la parola al rettore.
A quest’epoca - autunno 1945 - Ambrogio avrebbe dovuto essere già laurea-
to, invece aveva ancora da dare una metà degli esami; quanto a Michele, se
mai fosse tornato a casa, ne avrebbe dovuti dare parecchi di più. Se invece non
fosse tornato - pensava talvolta Ambrogio - fra qualche anno il suo nome sa-
rebbe apparso nel chiostro principale su una lapide, in fila coi nomi di tutti gli
altri ragazzi ‘pro patria mortui’. Ad Architettura il nome di Manno l’avrebbero
esposto senza dubbio, magari con accanto la sigla M.O., medaglia d’oro; men-
tre all’università di Padova avrebbero esposto quello di Bonsaver, l‘eroe lonta-
no’ (adesso questa definizione per la quale lui l’aveva tanto preso in giro, non
era più fuori posto, dopo tutto): Bonsaver - ricordava Ambrogio - che là sul
Don davanti a Vescenscaia gli aveva insegnato i nomi delle stelle. Chi ci pen-
sava più alle stelle? La notte i loro silenziosi convogli percorrevano come sem-
pre il cielo, ma chi ci badava più? Signore Iddio, che malinconia! Ai morti però
egli non doveva pensare. Doveva - adesso che stava bene - concentrarsi nello
studio e togliersi una volta per tutte dai piedi gli esami, così da potersi poi de-
dicare al lavoro da persona adulta, e non come aveva fatto sinora a pezzi e
bocconi. Era una vergogna infatti che Luca e Igino e Pierello, e gli altri suoi
coetanei al paese, lavorassero sodo, mentre lui era ancora qui a fare il ragazzi-
no con i libri sotto il braccio. In un tempo come questo in cui condizione per la
ripresa d’ogni cosa era appunto il lavoro! Se appena suo padre gliel’avesse
consentito... Col padre Ambrogio aveva affrontato il problema più d’una volta,
nel modo serio che gli era abituale: «Papà, per l’università e gli esami ho riflet-
tuto: avrò tempo in seguito. Adesso il mio posto è in ditta con te.» Il padre
non gli aveva neppure consentito d’andare avanti: «No, se adesso interrompi,
poi non ti laurei più.» «Beh, dopo tutto la laurea non è così importante.» «È
importante invece: la laurea è importante. Quanto tempo ti occorre per finire?
Un anno o un anno e mezzo? Ecco, per un anno e mezzo io desidero che tu in
ditta non ci metta più piede, che alla ditta non ci pensiate nemmeno, tu e tuo
fratello Fortunato. Siete due bravi figli: vi chiedo in questo d’ubbidire.» «Co-
me vuoi papà.»

***
Nel corridoio della facoltà di scienze economiche incontrava a volte (e se
non la incontrava l’andava magari a cercare) Fanny, alla quale per laurearsi
mancavano meno esami che a lui. Adesso la ragazza non indossava più la divi-
sa candida e inamidata con la croce rossa, bensì, come tutte in università, il
grembiule nero. «Oh! Ecco il mio paziente!» lo salutava lei festosa. (Non dice-
va «il mio guerriero» come quel giorno a Stresa: di quell’unico momento di
tenerezza che c’era stato tra loro, essi, stranamente, non avevano mai parlato.)
«Ciao, sorella D.O.V.» le rispondeva di solito lui: «Sempre in forma, eh?»
Se qualcuno degli studenti più giovani li udiva, non comprendeva il loro
gioco. «Dov? Sei straniera?» capitò che qualcuno chiedesse a Fanny.
«I miei vecchi sì, visto che mi chiamo Mayer.»
«Dov Mayer?»
«Sì» tagliava corto Ambrogio: «Dov Mayer, precisamente». Degli antichi
compagni che usavano designarla con quell’appellativo D.O.V. (Dagli Occhi
Verdi) a lezione ne incontravano pochi ormai, perché parte erano oltre il loro
livello di studi, parte avevano abbandonata l’università, qualcuno era morto.
A volte terminate le lezioni Ambrogio e Fanny uscivano insieme in piazza
sant’Ambrogio; la ragazza - sempre elegante nonostante i tempi - indossava
gonne sportive che, con quei suoi capelli corti alla paggio, la facevano apparire
molto giovane, Ambrogio ne subiva inconsciamente il fascino.
«Ti sta bene, posso dirtelo?» dichiarò una volta, un pomeriggio.
«Cosa?» domandò lei, talmente sorpresa da arrestarsi.
Egli indicò col mento la sua gonna di disegno scozzese: «Intendo quella.»
«Ah, la gonna. Grazie.» E divertita, riprendendo a camminare: «Però. Come
ti sbilanci oggi!» Nel suo ambiente, che lei definiva ‘very borghese e molto cit-
tadino’, era abituata a ben più disinvolti complimenti. Proprio per questo i rari
complimenti del ragazzo tetragono e semplice che ora le camminava al fianco
la toccavano, le riuscivano graditi.
«Senti Ambrogio» gli chiese: «cos’hai in programma di fare oggi?»
«Per cominciare ti offro un caffè, diciamo al bar che c’è qui all’incrocio con
corso Magenta.»
«Per cominciare va bene. E poi?»
«E poi, beh, ti offro anche le paste.»
«Non miravo a questo, non sono così ingorda. Volevo sapere cosa conti di
fare dopo preso il caffè.»
«Potrei accompagnarti fin sotto casa tua. Stai in via Boccaccio, ricordo be-
ne?» (Ricordava bene, sì: gliel’aveva detto lei stessa a Stresa; gli aveva anche
spiegato d’essersi iscritta all’università cattolica anziché alla governativa per
semplice comodità, appunto perché abitava vicino alla cattolica; Ambrogio
l’aveva debitamente redarguita: «Chi ha cervello» le aveva all’incirca detto «la
scelta della Cattolica la dovrebbe fare per ben altre ragioni che per la comodi-
tà».) «Allora, ricordo bene o no?»
Fanny mosse la testa: dapprima in senso verticale, affermativo, a significare
che sì, ricordava bene; e poi in senso orizzontale, come a dire no, vedo che non
c’intendiamo. «Vorrei sapere qual è oggi il tuo programma. Conti di prendere
subito il treno per il paesello?»
«No, devo prima cercare un libro in centro.»
«Oh, finalmente! Beh, se mi vuoi ti accompagno.»
«Certo che ti voglio» disse Ambrogio. «C’è bisogno di chiederlo?»
“Ma allora, se è così, perché non m’inviti mai?” gli rispose mentalmente
Fanny, guardandolo per un momento negli occhi.

CAPITOLO SEDICESIMO

Usciti dalla piazza entrarono nel bar di corso Magenta, dove Ambrogio or-
dinò due caffè e le paste, precisando: «Se poi tu, non essendo ingorda, non le
vuoi, pazienza: vuol dire che le mangerò io.» «Beh, se proprio intendi offrirmi
le paste» disse Fanny sorridendo divertita «allora non è il caffè ma il tè che
dovresti ordinare.»
«Sì eh? Va bene» il giovane cambiò l’ordinazione.
Mentre, lieti di trovarsi uno accanto all’altro, attendevano il tè seduti a un
tavolino, sul marciapiede oltre la vetrina del bar passò un piccolo prete di car-
nagione scura, che Ambrogio riconobbe all’istante: si trattava del suo vice ret-
tore di collegio, don Clero Indigeno, da noi già incontrato sulla spiaggia di Ce-
senatico; istintivamente il giovane gli fece un segno di saluto con la mano.
Il piccolo prete notò quella mano in movimento al di là del cristallo - mira-
colosamente illeso - del bar, e, arrestatosi, scrutò all’interno, per vedere a chi
la mano appartenesse: riconosciuto Ambrogio s’illuminò in viso e s’affrettò
all’ingresso. L’ex discepolo gli andò incontro e stringendogli lietamente la ma-
no: «Invece d’essere al lavoro in collegio, siamo in giro a zonzo, eh?» lo salutò
nell’antico frasario; incontrare il vicerettore era un tornare indietro nel tempo,
ai bei giorni irresponsabili.
«Taci, pezzo di lazzarone» gli rispose Clero Indigeno, a sua volta nell’antico
frasario, che per lui però non era antico ma tuttora corrente. Prima ancora
d’interessarsi a Fanny s’informò tuttavia con premura: «Dì, infingardo, ti sei
ripreso? Stai bene adesso? Perché quel giorno a Stresa non m’eri piaciuto, lo
sai? Non m’eri piaciuto per niente.» Si riferiva a una visita che gli aveva fatta
all’ospedale quasi due anni prima (era stato il loro ultimo incontro) : «Adesso
però mi sembri in ordine. Non sbaglio vero?»
«No, non sbaglia, grazie.» E presentando Fanny, seduta in sorridente attesa
al tavolino: «Se sto bene, io lo devo a lei» disse. «La riconosce? Attento a non
dire di no perché sarebbe una gaffe: questa donzella lei l’ha già incontrata.»
Il vicerettore non andò col pensiero alla crocerossina di Stresa, alla quale
durante la sua visita non aveva, si può dire, fatto caso; frugò invece più indie-
tro nel tempo, e ricordò l’altra ragazza (Tricia) con cui Ambrogio, appena usci-
to di collegio - incosciente, infame! - passeggiava sulla riva del mare a Cesena-
tico; era bionda infatti: magari a Cesenatico sembrava anche più bionda
d’adesso, ma vatti a fidare del colore delle donne. «Certo che la riconosco»
esclamò «si capisce. C’è bisogno di chiederlo?» E a mo’ di punizione gli diede
con la mano aperta una pacca sulla schiena. Tendendo poi la medesima mano
a Fanny: «Buongiorno figliola» le disse in tono caricaturale, mellifluo, pren-
dendo in giro sé stesso: «Piacere di rivederla. Dunque lei sembra fidarsi di
questo... diciamo individuo, eh?»
Fanny sorrise divertita, pur non comprendendo dove l’altro volesse arriva-
re: «Non dovrei fidarmi, è vero reverendo?» rispose stando al gioco.
«No, signorina, no, mai, neppure per un momento, neanche per un istante»
disse il vicerettore. «Stia attenta che questo sciagurato, portandola a spasso
come faceva a Cesenatico sulla riva del mare, finirà col farcela cadere dentro.»
Fanny non capiva. Ambrogio invece intuì a volo l’errore: «Non del mare, del
lago deve dire. Con questa qui, con Fanny, ho passeggiato - piuttosto poco
magari - in riva al lago, a Stresa. Perché era la crocerossina del mio reparto,
oltre a essere mia compagna d’università: è a Stresa che lei l’ha vista. Quella di
Cesenatico è un’altra, si chiama Tricia.» Si mise a ridere di gusto, scuotendo la
testa: «Questa poi! Ah, questa è buona, questa è proprio buona!»
Non riuscì in un primo tempo a ridere il vicerettore, che anzi arrossì tutto:
«Allora sono due ragazze diverse» esclamò.
«Certo, proprio così.»
«Mascalzone!» Lo colpì di nuovo con forza sulla schiena col palmo della
mano aperta. «E sembravi uno dei pochi elementi seri della tua classe. Ma
guarda che razza di filibustiere!»
Ambrogio seguitava a ridere; anche Fanny adesso rideva.
«Mi scusi signorina se non l’ho subito riconosciuta.»
«Le pare? È solo un piccolo qui pro quo, reverendo; non è niente.»
«E dire» mormorò Clero Indigeno «che io passo per fisionomista.»
«È vero» convenne Ambrogio. «Eh, a far credito a lei si sbaglia sempre.»
«Taci tu, poligamo» (nonostante la sua disinvoltura, Fanny strabuzzò per
un istante gli occhi.) «Oh, povero me, come invecchio! È che la divisa da cro-
cerossina e la cuffia e... E poi le circostanze, quel giorno io ero molto preoccu-
pato per questo sciagurato che non se lo merita, e...»
«Certo!» ricordò Fanny: «Durante la sua visita io sono rimasta nella stanza
soltanto pochi minuti, ma ho visto bene che lei era preoccupato. Tanto che al
principio la credevo un parente.»
«Son tutti parenti per noi questi ragazzi» disse il vicerettore: «sono i nostri
figli, questi pezzi di disgraziati.» Sospirò, temette d’apparire sentimentale:
«Che gaffe però» concluse; e rivolto ad Ambrogio: «Da voi sotto le armi chi
‘gaffa’ paga la consumazione, è vero?» Usava il presente, quasi che Ambrogio
fosse ancora alle armi.
«Sì» gli rispose questi «anche se per caso si tratta del cappellano, è tenuto a
pagare come tutti gli altri, né più né meno.» Dopo di che al momento del saldo
cercò invano di pagare lui: il vicerettore non glielo permise.
Pagato il conto con frasi che suscitarono anche l’ilare approvazione della
cassiera (in quel momento nel bar non c’erano altri avventori), il piccolo prete
se ne andò sospirando, ma già con evidenza più divertito che mortificato
dall’episodio.
«Non ho mai incontrato un prete così» disse Fanny, ancora tutta ridente, ad
Ambrogio: «Si comporta sempre a questo modo?»
«Sì, press’a poco. Credo che la sua intenzione, di partenza almeno, sia di
farsi ‘ragazzo coi ragazzi’ per motivi apostolici, capisci? Come dice... chi? mi
pare san Paolo. Un po’ alla volta però questo modo di fare è diventato per lui
una seconda natura.»
«Sì, mi son resa conto. È molto simpatico ad ogni modo.»
«Sì, questo puoi dirlo.»
«Adesso ti crederà un impenitente dongiovanni.»
«No» disse Ambrogio: «mi conosce bene.»
«Forse» insinuò Fanny «è proprio perché ti conosce che lo penserà.»
«Tu credi?» fece il giovane, assumendo un’aria sibillina per stare allo scher-
zo. Ma lasciò subito perdere e fece segno di no con la testa.
A Fanny però, da quel giorno una sfornatura di dubbio sembrò rimanere;
Ambrogio notò che, incredibilmente, un tale sospetto non le dispiaceva, e anzi
lo faceva in apparenza crescere nella di lei considerazione.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Da quel giorno uscirono più spesso insieme dall’università, di solito per ini-
ziativa di Fanny. La quale: «Se uno vuol prendere qualcosa, non è affatto ob-
bligato a entrare come per inerzia nel primo bar che trova» gli spiegò una vol-
ta. «C’è locale e locale: per esempio qui in corso Magenta c’è la boiserie di
Marchesi, che è uno dei posti più chic di Milano.»
«La... cosa?»
«Boiserie. Caffè diciamo. L’avrai sentita almeno nominare, spero.»
«No.» Ambrogio fece segno di no con la testa. Era vissuto per sette anni in
un collegio che dava appunto su corso Magenta, eppure non aveva mai sentito
nominare la boiserie di Marchesi.
«Oh, Ambrogio, sei esasperante!» Fanny provò per lui un senso di materna
tenerezza.

***
Nel corso di una di quelle tranquille passeggiate si trovarono la strada ta-
gliata da un corteo di manifestanti che, risalito corso Magenta, s’erano ingol-
fati nella molto più stretta via Meravigli e la percorrevano tra urla varie e slo-
gans, diretti a piazza del duomo: la gente che - come Ambrogio e Fanny -
camminava per i fatti suoi, era costretta a premersi contro i muri o a ritirarsi
dentro i portoni.
«Cosa vorranno questi?» chiese Fanny, infilatasi appunto insieme con Am-
brogio e alcuni altri, nel vano d’un portone.
«Far disordine» le rispose Ambrogio, «impedire agli altri di ricostruire e di
uscire dalla miseria, ecco cosa vogliono. Non loro e non tutti: ma quelli che li
manovrano sì. Mettono avanti dei grandi ideali, ma la realtà nuda e cruda è
questa.»
Fanny tuttavia, più aperta di lui alla protesta, osservava con qualche inte-
resse i dimostranti, e incontrato lo sguardo di uno di loro, molto giovane: «Per
cosa dimostrate?» gli chiese.
«Abbasso il re» urlò quello, ripetendo uno slogan.
Un altro, più anziano, che lo seguiva: «Vogliamo che la regina ci mostri
la...» affermò, nominando l’organo genitale femminile. Siccome aveva a che
fare con una donna, ed era sicuro dell’impunità, si compiaceva di comportarsi
da villanzone.
«Maiale» gli disse Ambrogio a voce alta, e guardandolo in faccia gli ripete
distintamente: «maiale».
«Fascista» esclamò quello di rimando, balbettando per l’eccitazione, e si ar-
restò, indicandolo agli altri che aveva attorno.
Fanny si sentì raggelare il sangue. Anche Ambrogio provò paura, cionono-
stante seguitò a guardare il dimostrante negli occhi. Fortunatamente sia quel-
lo che qualche altro che accennava a fermarsi, furono, dalla massa che li se-
guiva, sospinti avanti.
«Cos’hai fatto?» mormorò dopo qualche istante Fanny. «Come t’è saltato in
testa? Io sono qui che... le gambe quasi non mi reggono. Accipicchia. Ti vede-
vo già linciato!»
«Non potevo permettergli di parlarti a quel modo» disse Ambrogio.
«Ma a me non importa niente di quello che ha detto, proprio niente. Figu-
rati se può farmi impressione una parola.»
Il giovane constatò, ancora una volta, quanto la ragazza fosse dissimile dalle
sue sorelle e da sua madre.
«Per te sarà come dici, ma per altre donne è diverso. E forse quel maiale
d’ora in poi rifletterà prima di dire maialate sulla faccia alle donne. Specie a
certe donne del popolo che - te lo assicuro io - da un parlare come quello si
sentono offese. Anche se a volte magari sono costrette a subirlo.»
«Bravo, lei è stato molto coraggioso» esclamò a questo punto un uomo an-
ziano che, costretto lui pure nel vano del portone, aveva seguito ogni cosa:
«bravo giovanotto».
«Oh Ambrogio, Ambrogio mio» fece Fanny, tuttora emozionata da quella
che a lei sembrava un’azione donchisciottesca; e infilato il braccio sotto quello
di lui lo guardò in faccia, scuotendo la testa con tenerezza: «Uno come te biso-
gna custodirlo.»
Ambrogio non disse niente, si limitò a disapprovare ancora col capo.
«Beh, adesso s’è fatta via libera, andiamo» propose di lì a un po’. Si avvia-
rono tenendosi sotto braccio. «Se penso» disse Fanny «che in questo momen-
to tu potresti essere qui per terra in un...» Scacciò con orrore il pensiero. «Tu
non sai cos’ho visto io il giorno della liberazione in via... Un povero diavolo
l’hanno buttato giù dalla finestra, e c’erano sua moglie e i figli che seguitavano
a gridare. Ho visto tutto coi miei occhi, anzi appena i partigiani se ne sono an-
dati ho cercato di prestargli un po’ di cure: ma era già morto.» Ambrogio ten-
tennò il capo; avrebbe voluto dirle: “E dopo aver visto questo, rivolgi la parola
ai rossi in foia?” Ma preferì tacere, «Dì» continuò lei: «però adesso i fascisti
non li uccidono più a quel modo, adesso li processano regolarmente, è vero?»
«Quanti dei disgraziati che hanno ammazzato erano davvero fascisti?» ri-
spose lui; pensò alla donna del Raperio. «In quei giorni è stato come al tempo
degli untori, né più né meno. Adesso però in effetti non è più così: qui in
Lombardia almeno, dove i carabinieri e la polizia hanno ripreso a funzionare.
In Emilia invece lo leggi tutti i giorni nei giornali, no, cosa succede? Special-
mente nel ‘triangolo della morte’.»
«Che tempi!» convenne Fanny.
«Meno male che c’è un governo che ha riorganizzato i carabinieri e la poli-
zia. Perché se fosse per gli ‘alleati’, col loro scrupolo di non intromettersi... A
volte penso che Manno tutte queste cose deve averle come presentite. Si è sa-
crificato per questo, per conservare a tutti noi la possibilità di sopravvivere, di
uscire dal pantano.»
«Me lo ricordo bene tuo cugino Manno» disse Fanny: «con quegli occhi az-
zurri. Che splendido ragazzo era.»
«Sì. C’eri anche tu a Stresa il giorno in cui l’ho visto per l’ultima volta.»
La giovane annuì: «E c’era anche quell’autista, anche lui con gli occhi azzur-
ri. Come si chiamava?»
«Celeste. Beh, quello c’è ancora, lavora sempre in ditta.»
«Che simpatico. Aveva con voi molta famigliarità.»
«A Nomana è normale» spiegò Ambrogio. E traendo un mezzo sospiro:
«Meno male che esistono posti come Nomana.»
«Il tuo paesello» disse Fanny.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Anche a Nomana tuttavia i rossi avevano cominciato a tenere comizi e cor-


tei: gli attivi tra loro non erano molti - alcune decine tra comunisti e socialisti
ancora non ben differenziati - cui si aggiungevano in occasione delle manife-
stazioni parecchi incerti e non pochi curiosi, cosicché avevano a momenti
l’impressione d’essere folla. Questo li eccitava e li rendeva vociferanti e anche
prepotenti.
Non molto dopo l’episodio di via Meravigli una domenica mattina ebbe luo-
go a Nomana uno di tali comizi. Lo preannunciarono una pedana con sopra un
tavolino e un microfono, nonché (particolare per sé patetico) una bandiera
rossa legata a una gamba del tavolino: il tutto sistemato in piazza sotto il cam-
panile, nell’attesa che la gente uscisse dalla seconda messa, la più frequentata.
Quando i primi uscirono di chiesa, un tizio, giunto da Milano, cominciò ad
arringarli attraverso il microfono: «Attenzione, attenzione, lavoratori avvici-
natevi: sta per avere inizio un comizio del partito dei lavoratori, il partito co-
munista. Attenzione, attenzione.» Oltre all’arringatore erano saliti sulla peda-
na i capi rossi locali, cioè il Foresto - che per l’occasione si era messo in tenuta
partigiana -, Sèp, e un vecchio sfollato dai lunghi capelli a nome Millanta, ti-
pografo milanese in pensione, che spendeva ogni minuto del suo tempo a pre-
dicare il verbo socialista-libertario nell’osteria della Pasqualetta. Sulla pedana
era inoltre salito uno sconosciuto con parecchi denti d’argento in evidenza,
senza dubbio l’oratore.
«Attenzione, lavoratori attenzione: sta per parlare il compagno tal dei tali,
esponente della resistenza in Lomellina» gracchiava il microfono.
I rossi del paese e altre persone si avvicinarono via via alla pedana, insieme
con branchi di ragazzini che s’ammassarono compatti davanti a tutti, col naso
in su. La più parte della gente che usciva di chiesa però lanciava qualche oc-
chiata e se ne andava senza fermarsi, qualcuno anche pronunciando ad alta
voce frasi sdegnate di commento. Ambrogio - che aveva assistito alla messa
insieme con le sorelle Francesca e Alma e al fratello dodicenne Rodolfo -
s’incamminò verso casa; giunto però all’altezza della pedana la curiosità lo
fece sostare.
«Quale sarà l’oratore?» gli chiese Alma, il ‘gattino di marmo’.
«Immagino quello là, con quei denti.»
«Che aria di cattivo, brr...» mormorò Francesca.
Il giovane si mise a ridere. «Dai, voi tre precedetemi a casa» disse, «che io
vi raggiungo fra cinque minuti.»
«Io andrei a trovare il mio amico Saulo» propose Rodolfo (Saulo era il mag-
giore dei figli dell’autista Celeste).
«D’accordo» gli rispose Ambrogio; i tre s’allontanarono. L’esponente della
resistenza in Lomellina (che sembrava piuttosto contrariato per il modo - «da
pecoroni» come mormorò a mezza voce ai suoi vicini - con cui troppi nomane-
si se ne andavano per i fatti loro, manifestamente insensibili al verbo ch’egli
era venuto a portare) ritenne a un tratto opportuno esordire. «Compagni co-
munisti, compagni socialisti, lavoratori di Nomana» attaccò: «vi porto il salu-
to della federazione comunista di Milano. La prima cosa su cui voglio richia-
mare la vostra attenzione, è la miseria indecente in cui ci troviamo adesso tutti
noi lavoratori.» Il Foresto a questo punto annuì con gravità. «Quanto al man-
giare per esempio» continuò l’altro «stiamo forse peggio adesso che in tempo
di guerra, e gli americani... gli americani» ripeté, indicando una jeep con due
distratti soldati sudafricani in transito sull’altro lato della piazza «non ci aiu-
tano di sicuro noi del popolo. Sono troppo occupati ad aiutare chi? Sua maestà
il re.» Dall’assemblea si levò qualche isolato sghignazzo. «Sì» disse alzando la
voce l’oratore: «loro aiutano il re, e aiutano i preti: a quelli danno un mare di
roba, perché si facciano propaganda. Che scopo ha tutto quel latte in polvere e
il resto che danno agli asili infantili e ai ricoveri per i vecchi? Soltanto di fare
propaganda a preti e monache, mi spiego?» Sembrò rimanere in attesa
d’un’approvazione, ma a questo riguardo la gente non sghignazzò affatto. «E i
prestiti in denaro li danno agli industriali» continuò l’oratore: «non glieli
hanno ancora dati, ma l’avete letto sui giornali il Marshall? Glieli daranno,
state sicuri. Agli industriali!» ripeté urlando: al che i rossi presenti si resero
conto che qui dovevano farsi sentire, e lo fecero, ma ancora non in molti. «Co-
sì sono i complici dei fascisti, ecco chi sono, quelli che gli americani aiutano.»
Sèp si mise a battere le mani con cattiveria; al che un po’ alla volta quasi
tutti lo imitarono. «Industriali fascisti!» esclamò, senza girare la testa, un ra-
gazzotto a pochi passi da Ambrogio; qualcuno dei circostanti sbirciò Ambrogio
di sottecchi in attesa d’una sua possibile reazione, ma il giovane non batté ci-
glio.
«Così gli affamatori del popolo possono farla ancora da padroni perché gli
americani li aiutano» gridò Foratore, «ma gli americani non resteranno qui in
eterno, dovranno pur andarsene, ed è per quel momento che noi dobbiamo
prepararci, che dobbiamo organizzarci. Perché allora, compagni, la forza
l’avremo noi, noi che abbiamo fatto la resistenza.»
A questa uscita i presenti cominciarono ad acclamare. E più avanti acclama-
rono a lungo quando dopo il compagno Togliatti l’oratore nominò «il grande
compagno Stalin», e poi la «giustizia partigiana» (ch’è una contraddizione in
termini). L’assemblea andava scaldandosi: innegabilmente l’odio isterico -
notò Ambrogio - non mancava di far presa anche a Nomana. “Quanti saranno
quelli che applaudono senza riserve?” valutò il giovane: “Quaranta? Cinquan-
ta? Ma bastano a fare un certo chiasso.” Giudicò d’essere rimasto a sufficienza
e s’incamminò verso casa; alcuni dei presenti lo imitarono.
«Compagni» la voce del microfono lo seguì per un certo tratto di strada:
«per raggiungere il nostro scopo noi dobbiamo graduare le tappe: adesso la
cosa più importante è togliere di mezzo il re...» “Anche questo ce l’ha col re,
come quelli dell’altro giorno a Milano. E dire che anche loro fanno parte del
governo del re. Il governo non l’hanno formato loro, i partiti del C.L.N., con
quel capo partigiano, quel Parri, alla presidenza del consiglio? E dunque?”
Al termine del comizio i rossi più eccitati - di cui qualcuno, con le scalmane
in faccia - afferrarono la bandiera rossa e si diedero a percorrere le vie del
paese gridando slogan come: «A morte il re», «Abbasso la monarchia», «Il
potere ai lavoratori», «Viva Togliatti», «Viva Stalin», «A morte gli sfruttato-
ri».

Rodolfo, rincasando all’ora di pranzo, riferì indignato e un po’ spaventato


d’averli visti poco prima fermi davanti alla casa canonica a urlare: «Abbasso il
papa» e «Il papa a lavorare». «Il più scalmanato è quel tale che sta sempre a
predicare nell’osteria della Pasqualetta, come si chiama? Il Millanta. Bisogna
vedere che faccia ha. Io non ho mai visto una faccia così.»
«Cosa? Il Millanta grida ‘Abbasso il papa’?» s’informò impressionata Giu-
dittina, che adesso era sui dieci anni.
«Tu lascia perdere» intervenne il padre: «Non è il caso che tu pensi a que-
ste cose. Pensa al risotto piuttosto.»
«No, anch’io voglio essere al corrente» protestò lei.
«Sì, però adesso ti vai a lavare le mani e ti metti a tavola, che ci veniamo su-
bito anche noi.»
La bambina s’allontanò un po’ imbronciata. “Papà ha ragione da vendere”
rifletté Ambrogio, “ma quante sono le bambine che i bolscevichi hanno fatto
morire in Russia? E a quante hanno comunque distrutta la vita? A quante cen-
tinaia di migliaia?”
Gerardo si rivolse a Rodolfo: «Cerca di non impressionare tua sorella» lo
ammonì.
«Sì papà» rispose il ragazzo.
«Dai, va a lavarti le mani anche tu.»
Nel locale - il vestibolo di casa - con Gerardo e Ambrogio era rimasto il solo
Fortunato, che si provò a voltare la cosa in scherzo: «Mi chiedo quale faccia
avrà in questo momento il prevosto» disse.
«Immagino la stessa che avrei io se fossero qui davanti al cancello a gri-
darmi ‘Abbasso’ e ‘A morte’» gli rispose Gerardo.
«Mi sa» fece gravemente Ambrogio «che dovremmo deciderci a mettere in-
sieme qualcosa di serio sul piano politico: dico qualcosa di veramente serio.
Sarebbe ora.»
Gerardo annuì: «Lo dicono anche diversi operai; specie tra quelli che,
quand’ero giovane io, m’hanno aiutato a mettere insieme il partito popolare.»
Ne fosse egli conscio o no, queste parole implicitamente suonavano: «Adesso
toccherebbe a voi giovani darvi da fare.»
I due ragazzi se ne resero conto.
«Papà, io sono troppo negato alla politica, lo sai» disse Fortunato, «e se
proprio fossi costretto a una scelta, sarei liberale: figurati che seguito avrei qui
a Nomana.» Si volse per metà scherzoso ad Ambrogio: «Tu invece non sei
democristiano? Hai la tessera, no?» Ambrogio annuì: «Sì. Me l’ha fatta pren-
dere Agazzino, ma...» Tentennò la testa; in realtà la politica ripugnava anche a
lui. «Se ci fosse qui Manno...» osservò: «In queste cose lui ci credeva, c’era
anche portato. Vi ricordate quanto si dava da fare all’oratorio? Era un po’ co-
me te papà, sotto questo aspetto il tuo continuatore era lui.» Gerardo annuì:
«È una cosa che m’ha detto anche don Mario.» «Certo se ci fosse qui Manno si
darebbe da fare senza bisogno di spingerlo» convenne Fortunato.
«Ma lui si è dato da fare» fece notare, sottolineando le parole, Gerardo: «Se
oggi bene o male abbiamo un governo, e un po’ d’esercito e un po’ di polizia, lo
dobbiamo a quelli che si sono impegnati al principio, come lui.»
«È vero» riconobbe Ambrogio.
Si udì la voce di Noemi che annunciava: «A tavola, è pronto», e subito dopo
quella della madre che li chiamava: «Dove siete? Venite a tavola che si raf-
fredda.»
Mentre si avviavano: «Se provassimo a parlarne con Pino?» propose Fortu-
nato.
«Pino?» valutò per un istante Gerardo; poi strinse le labbra e tentennò la
testa.
Entrarono in sala da pranzo senza aver presa alcuna decisione.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La domenica successiva all’uscita dai vespri Ambrogio venne avvicinato sul


sagrato da Luca.
Il quale dopo il congedo dall’esercito aveva ripreso il proprio posto in fab-
brica; non aveva più la barba rossastra adesso, ma sempre il ciuffo castano
sulla fronte, e un fare posato, da alpino.
«Ambrogio, ho bisogno di parlarti.»
«Volentieri, Luca.»
«Vuoi che venga a casa tua?»
«Come credi. Però, se ti va di parlare anche qui...»
«Sì, certo.» S’esprimeva come sempre in dialetto.
«Allora, cosa c’è di bello? Dì su.»
«Di bello non c’è proprio niente» rispose Luca, ed entrò subito in argomen-
to: «È per il dottor Agazzino. Noi abbiamo paura che un giorno o l’altro non ce
la faccia più. In C.L.N. gli stanno facendo la vita dura, ci son dentro certe ‘car-
ni di collo’ che... Lui non molla e sta dimostrando anche un certo coraggio,
questo bisogna riconoscerlo; però sai che è mezzo malato, ha l’asma.»
«Oh, bravo. Me l’avevano detto che ti dai da fare nella democrazia cristia-
na.»
Luca annuì, poi tentennando la testa: «Non sono cose divertenti (alégher),
però qualcuno le deve pur fare.»
«Ti hanno dato qualche incarico?»
Annuì di nuovo: «Sì purtroppo. Sono segretario della sezione adesso.»
«Ehi. È l’incarico più importante.»
«Me l’hanno dato perché ho fatto la guerra contro i tedeschi, capisci?» Fece
una pausa: «Certo che dopo la guerra in Russia, e quella in Italia, e dopo
quanto mi è successo» (alludeva alla morte di Giustina) «puoi immaginare
che voglia ho di star dietro a queste cose. Però non possiamo mica dargliela
vinta a quei disgraziati. Li hai visti anche tu, no? Sei stato in Russia anche tu,
sai cosa intendo.»
«Sì, certo che lo so.»
«Ecco.»
«Allora dì su: cosa dovrei fare per Agazzino?»
«C’è una circolare che adesso nel C.L.N. i rappresentanti per ciascun partito
devono essere due. E siccome tu hai la tessera, abbiamo pensato che saresti
adatto a dare una mano al farmacista. Cosa ne dici?»
«La tessera, magari, ce l’ha anche mio fratello Pino» fece Ambrogio, istinti-
vamente cercando d’allontanare da sé l’amaro calice «e lui, per di più, ha fatto
il partigiano. Non pensi che, se è d’accordo, andrebbe meglio di me?»
«No» rispose Luca, scuotendo la testa; era chiaro che questa soluzione era
già stata presa in esame e scartata: «No, è ancora troppo ragazzo. Mentre in
C.L.N., al punto in cui sono le cose, abbiamo bisogno d un uomo.»
«Volete farmi uno scherzo non da poco, ti rendi conto?»
Luca annuì. «Pensa a Manno» buttò là a mezza voce.
Non solo a Manno, ma allo stesso Luca, e a tutta o quasi la comunità paesa-
na che, più o meno, vedeva le cose allo stesso modo di Luca, Ambrogio era
tenuto a pensare; si rese conto che non poteva decentemente sottrarsi.
«Va bene» risolse, «farò come dici. Aspetta però: è d’accordo Agazzino?»
«Sì, certo.»
«Perché c’è stato un momento, al tempo della liberazione, in cui mi sem-
brava di dargli quasi fastidio, lo sai?»
«Allora può darsi, quando il C.L.N. era tutta una... insomma una specie di
gioco. Ma non adesso. Adesso, per farcela, ha bisogno d’aiuto.» Rifletté: «Sen-
ti: gli dico che venga da te stasera stessa, va bene?»
«Stasera dopo cena? D’accordo. Però un momento: digli che vado io da lui.
È lui il presidente, no?»
Sorrisero entrambi.

CAPITOLO VENTESIMO

La sera, quando Ambrogio suonò alla porta, Agazzino scese in farmacia e gli
aprì, impedendo con la mano al campanello d’emettere il noto tintinnio. Cer-
cava di mostrarsi scherzoso, ma aveva in realtà un’aria piuttosto accasciata.
Fece sedere il giovane e sedette di fronte a lui, tra gli scaffali con le file di vasi
ornati d’arabeschi e svolazzi colorati, nell’odore acuto dei medicamenti.
«Il segretario mi ha comunicato che lei accetta. La ringrazio.»
«Il segretario?»
«Della sezione, sì: il Sambruna, il Luca Sambruna.»
«Ah, Luca, infatti. Beh, il C.L.N. s’è rivelato un discreto impegno, eh?»
«È piuttosto dura» ammise Agazzino. «Non diciamolo ad alta voce, ma è
dura.» Fece una pausa. «C’è una cosa specialmente che mi dà ai nervi, e gliela
dico subito: il Foresto come lo chiamano, il comunista, non lascia passare riu-
nione senza trovare il modo di tirar fuori di tasca la pistola. Questo gliel’ha
detto Luca?»
«No» rispose Ambrogio: «La pistola? E per che farne, per minacciare?»
«Non esattamente. È per... ricordarmi qualcosa; insomma è un avvertimen-
to, dato alla sua maniera.»
«Non capisco.»
«Senta» fece Agazzino, accostando un po’ la propria sedia a quella del gio-
vane e abbassando nel contempo la voce, che pure non era elevata: «È bene
che lei lo sappia...» Rifletté: «Ormai lei fa parte del C.L.N., e dunque è neces-
sario che conosca ogni cosa. Resta inteso che si impegna a mantenere il segre-
to.»
«Si capisce. Ha la mia parola. Allora?»
«È stato in maggio, o forse a principio giugno, insomma quando ancora i
partigiani rossi non avevano del tutto smesso d’ammazzare la gente. Non so se
lei sia al corrente del giro che in quei giorni L.» (nominò uno dei maggiori
esponenti della resistenza comunista) «ha fatto per i paesi qui del milanese,
contattando i capi comunisti locali. È al corrente?»
«Per la verità no.»
«Beh, L. ha visitato in macchina, uno dopo l’altro, i principali paesi, e dap-
pertutto s’è informato sul numero dei fascisti ch’erano stati giustiziati (questo
mi è stato riferito in seguito a Milano). In ogni posto ha dichiarato: ‘Troppo
pochi’, e come niente fosse ha stabilito lì sui due piedi il numero delle persone
da giustiziare ancora per ciascun paese. Qui nella Brianza collinare, dove in
genere non ci sono stati morti, ha ordinato che si uccidesse almeno un fascista
per comune: ‘uno, ma dovete giustiziarlo, per esempio’»
«Per l’esempio?»
«Intendeva altro ovviamente: vogliono, volevano... creare un’atmosfera di...
sì insomma» Agazzino in queste cose non era a suo agio: «di terrore.»
«Infatti ricordo quella ripresa degli ammazzamenti giù nelle periferie ros-
se...» fece Ambrogio, «e anche più su, al margine tra noi e la periferia rossa.
Sì, ricordo. Anche qui in Brianza hanno ammazzato qualcuno. Una cosa che
allora mi sembrava inspiegabile. In maggio, sì.»
«Beh, anche a Nomana L. ha dato ordine d’ammazzare una persona; e par-
tito lui il Foresto, senza pensarci su, aveva fedelmente disposto ogni cosa per
eseguire. Non che il Foresto sia un farabutto, ormai lo conosco, e anche lei lo
conoscerà: sotto certi aspetti è perfino generoso.»
«Possibile?»
«Constaterà lei stesso. Però è uno scriteriato, e siccome aveva ricevuto un
ordine dal suo capo... Beh, io non sapevo ancora niente quando i rossi sono
andati a prelevare a casa sua il Tavelli, e l’hanno portato giù alla caserma dei
carabinieri. Questo fatto lo ricorda?»
«Sì, il fatto del Tavelli sì.»
«Ecco: era lui la vittima designata per Nomana.»
«Ma no! Il Tavelli? Fascista quello? Sua moglie può darsi, che faceva
l’istruzione ai balilla... E poi macché, neanche lei: l’istruzione doveva fargliela
per forza, visto che è maestra.»
«Comunque avevano scelto lui.»
«Povero disgraziato. Un bel rischio ha corso.»
«Il piano era di caricarlo su un’automobile col pretesto di condurlo a un in-
terrogatorio a Monza, e arrivati... sa dove c’è quella cava lungo la strada
d’Incastigo? Ecco, il programma era di farlo scendere lì, costringerlo a scappa-
re e sparargli nella schiena, insomma ucciderlo lungo la strada. Fortuna che
l’autista della macchina - l’unico dei nostri partigiani che sappia guidare - non
è comunista. È il Carletto Mangiagalli, il figlio della levatrice.»
«Ah, il bersagliere, quello che nei giorni della liberazione sparava sempre
col mitragliatore.»
«Sì, lui. Siccome è un ragazzo sveglio ha capito a volo che c’era del marcio, e
sebbene morisse dalla voglia di farsi un viaggetto in macchina (sa come sono
questi ragazzi) è venuto di corsa ad avvisarmi. Ho potuto intervenire appena
in tempo: appena in tempo le dico. Sono andato direttamente a casa del Fore-
sto e...» Agazzino si oscurò in viso: «È stato un brutto incontro, anzi diciamo-
lo, uno scontro molto brutto. Ho creduto proprio di non farcela, quasi mi sen-
tivo male. Perché lui, il Foresto, siccome l’ho messo alle strette, a un certo
punto non ha esitato a spiattellarmi l’ordine ricevuto dall’esponente del suo
partito, che secondo lui equivaleva a un ordine dell’autorità superiore. Grida-
va che doveva eseguirlo. Intendeva salire in macchina di lì a poco: aveva già in
testa quel maledetto berretto con la stella rossa. L’ho minacciato di denunciar-
lo alla magistratura, ai politici, agli americani, a tutti, e lui duro. Pensi che gli
ho perfino consegnato un mio ordine scritto lì per lì su un foglio di notes, di
non ammazzare nessuno. Ordine del presidente del C.L.N., capisce? di non
ammazzare. Cose da pazzi, da non crederci, adesso.»
«Infatti.»
«Non l’avrei spuntata se non mi fosse venuta, non so nemmeno io come,
un’ispirazione: gli ho detto che secondo me lui stava dimostrandosi complice
del Praga, un complice dei fascisti camuffati insomma. Questo gli ha fatto ef-
fetto: s’è preso paura e... È incredibile come un’insinuazione tanto infondata
abbia potuto funzionare.» (A quell’epoca il Praga - dopo aver compiuto nuovi
crimini - era stato finalmente sconfessato dal partito comunista e veniva atti-
vamente ricercato dai carabinieri.)
«A che punto siamo!» commentò Ambrogio, ridacchiando verde.
«Vero?» disse Agazzino.
«Adesso capisco perché lei ha detto al Tavelli di cambiare aria, perché gli ha
fatto tagliar la corda.»
«Infatti. E sua moglie subito a dirlo in giro a tutti, la furba, ch’ero stato io a
consigliarlo. Ma non è questo il punto; è che da allora il Foresto si considera
defraudato da me con un raggiro, mi spiego? Pensi che originale! Quando nel-
le riunioni non c’è accordo su una qualsiasi cosa, lui finisce col tirar fuori di
tasca la pistola per ricordarmi quel sospeso.»
«Capisco. Ma cosa ne fa esattamente della pistola? Non gliela punta contro,
immagino.»
«No. Ma la muove, la agita. Oppure la sbatte di piatto sul tavolo, così, e in-
tanto urla che pare voglia mangiarmi. Insomma, non è un complimento.»
«Lo credo bene.» Ambrogio immaginò il capo dei comunisti che urlava col
tronco e la testa protesi verso il presidente del C.L.N., congestionati in volto
entrambi: non era davvero un complimento per Agazzino.
«Questi, io direi, sono interventi di tipo paramilitare» cercò di scherzare il
farmacista: «Ecco perché la presenza in C.L.N. di un ex militare come lei sarà
molto opportuna.»
«Che macaco quel Foresto» mormorò Ambrogio. «Va bene. Do una mano
volontieri: bisognerà fargli capire che non solo lui ha famigliarità con le armi.
Ma forse basterà un po’ di sarcasmo.»
«Sì, però stia attento.»
«D’accordo. E gli altri, quelli degli altri partiti? Anche loro si comportano
più o meno così?»
«Oh no. Con gli altri è una mezza farsa. Però che pazienza ci vuole!»
CAPITOLO VENTUNESIMO

La prima riunione del C.L.N. allargato ebbe luogo di lì a non molto, una se-
ra dopo cena. Ambrogio giunse al portone del municipio in compagnia del
presidente, dopo essere passato a prenderlo alla farmacia. Gli altri membri
stavano pure giungendo alla spicciolata.
Entrarono tutti nella sala ch’era stata del podestà, indicata da un’apposita
targa, sulla quale era stato incollato un pezzo di carta con la scritta a mano
‘Comitato di Liberazione Nazionale’. Sedettero, invitati da Agazzino, attorno a
un tavolo stile rinascimento, lungo e stretto, su sedie molto rigide, fornite di
sottili e dure imbottiture in pelle; i due alle estremità (uno era Sèp, convenuto
per i comunisti, nuovo al pari d’Ambrogio) presero posto su due ‘savonarole’
senza schienale, particolarmente scomode.
Agazzino diede il benvenuto in modo abbastanza sommario ai nuovi mem-
bri, quindi esordì ricordando a tutti, vecchi e nuovi, che le casse comunali
erano «desolatamente vuote». Dopo di che aprì il dibattito sul primo punto
all’ordine del giorno: l’aumento, a causa dell’inflazione galoppante, del canone
che i cittadini dovevano pagare per la mutua sanitaria comunale. Si trattava -
come Ambrogio sapeva - d’una istituzione locale molto utile, funzionante da
prima che venissero introdotte le mutue nazionali obbligatorie. Il giovane era
ad ogni modo intenzionato a non intervenire: “Stasera devo limitarmi a impa-
rare” diceva a sé stesso. Si rese però subito conto con sorpresa che nessuno
affrontava il problema in quanto tale: i rappresentanti dei vari partiti utilizza-
vano semplicemente l’occasione per rendersi a vicenda la vita difficile. Dopo
mezz’ora buona d’accesa discussione, e ripetute accuse da parte del Foresto
alla democrazia cristiana e ai liberali di volere «anche in questo modo» toglie-
re i soldi di tasca al popolo, Ambrogio seguiva con orecchio sempre più stacca-
to il dibattito (“Se anche al mio posto ci fosse qui Manno, cosa potrebbe cavare
di buono da queste idiozie?”), quando: «Non pensate a quei mucchi di
ghiaia?» sentì a un tratto che diceva il signor Pollastri, rappresentante del par-
tito d’azione. Costui, sebbene avesse più volte alzata la mano, non era fino a
quel momento riuscito a ottenere la parola; si fece per qualche istante silenzio,
e non solo Ambrogio ma anche gli altri guardarono interdetti il Pollastri, chie-
dendosi se avessero capito bene.
«Dico quella ghiaia che sta lungo le strade, tutti quei mucchi» ripeté colui,
in dialetto.
«Stiamo parlando della mutua sanitaria, cosa c’entra la ghiaia?» osservò il
presidente.
«Se io ho voglia di parlare della ghiaia» rispose il Pollastri, fissando il pre-
sidente con malagrazia «parlo della ghiaia. O a me volete impedire di parlare?
Volete parlare soltanto voialtri? Eh?»
Questo Pollastri, se il lettore ricorda, rappresentava il partito d’azione per
ripiego, in quanto, allorché Agazzino l’aveva interpellato, avrebbe preferito
rappresentare i socialisti o in alternativa, non essendo questi disponibili, i
monarchici. Com’egli aveva giustamente temuto, la rappresentanza del partito
d’azione (rivelatosi - cose da pazzi - un partito d’intellettuali) aveva finito col
dimostrarsi un pessimo affare per lui, tanto che malgrado i più ostinati sforzi
non gli era riuscito di trovare in tutta Nomana un’anima («non un cane» dice-
va parlandone con amarezza in famiglia) disposta a iscriversi al partito. “Vuoi
vedere che mi succede come al tempo del fascio?” egli si prospettava ogni tan-
to con angoscia: “Che anche stavolta perdo l’occasione di fare la mia figura?
Ma cos’hanno gli altri che io non ho?” Questo rodio segreto, e l’età non più
giovane, avevano quasi cambiato il suo carattere: se al tempo del fascio era
stato inutilmente scodinzolante, adesso appariva intrattabile, puntiglioso. Per
cui nessuno si sentiva invogliato a contraddirlo.
«Va bene» disse Agazzino: «Visto che ci tiene tanto, parli. Ma si ricordi che
in anticamera c’è quella gente venuta per la mutua sanitaria.»
«I cumuli di ghiaia, ve ne siete accorti?» attaccò, avuta via libera, il Polla-
stri, sempre in dialetto: «sono tutti quanti sulle strade intorno al Raperio e
alla Lodosa.» Sembrava dovesse continuare, invece qui si fermò, guardando in
faccia gli altri, con un’occhiata circolare.
«Ebbene?» gli chiese il titolare dei liberali.
«Come ‘ebbene’? Non vi dice niente questo?»
Il titolare dei liberali era quello sfollato da Monza vagamente pro fascista,
che per le sue barzellette sul duce durante i viaggi in ‘littorina’, aveva trascorso
due giorni in carcere. «Cosa dovrebbe dirci questo fatto» chiese, lui pure in
dialetto, «che i mucchi di ghiaia sono in un posto piuttosto che in un altro?
Sentiamo.»
«Dov’è che abitano i due stradini comunali?» esclamò, come si trattasse
d’un’illuminazione, il Pollastri: «Non ve lo chiedete? Uno abita al Raperio, e
l’altro alla Lodosa: ecco dove abitano.»
«E allora?» fece il barzellettista liberale, subodorando un’occasione di spas-
so.
«Voglio dir questo» spiegò il Pollastri, disgustato che l’assemblea non lo se-
guisse nella sua perspicacia: «se gli stradini hanno fatta scaricare la ghiaia vi-
cino ai loro paesi, è su quelle strade che hanno intenzione di stenderla, e non
sulle strade che portano qui al capoluogo. Così quest’inverno noi resteremo
pieni di buchi.»
«Ma va» disse il barzellettista: «come faremo a restar pieni di buchi?» Tutti
scoppiarono a ridere. «Nella cinghia forse sì» continuò il liberale «perché la
ghiaia purtroppo non è polenta. Magari lo fosse.»
«Eh, magari» convenne candidamente l’aggiunto dei socialisti, un pensio-
nato completamente calvo, buon diavolaccio.
«Guardi» disse - mentre le risate crescevano - Agazzino rivolto al Pollastri:
«che quei cumuli di ghiaia sono là almeno dal mese di marzo: ce li ha fatti
portare ancora il signor Paolo» (si trattava del decaduto podestà). «Non siamo
responsabili noi di quella distribuzione.»
«Il signor Paolo? Beh, però noi possiamo correggerla quella distribuzione.»
«Possiamo incaricare il segretario comunale d’eseguire un sopralluogo»
cercò di farla finita Agazzino: «di dare un’occhiata.»
«Ma no» si oppose il liberale: «Il signor Paolo è uno con la testa sulle spal-
le. Se ha fatto scaricare la ghiaia là, ci sarà il suo motivo: e noi stiamo attenti a
non far ridere la gente.»
A queste parole il Foresto picchiò con rabbia la mano sul tavolo: «Io non
ammetto che qui, in pieno C.L.N., si parli bene dei fascisti» urlò protendendo-
si verso il liberale.
«Cerchiamo di non uscire dai binari» richiamò tutti il presidente Agazzino
«e soprattutto cerchiamo, se possibile, di non perder tempo. Ho detto che il
segretario comunale farà un sopralluogo di controllo. Mi pare che basti.» E
rivolto al liberale: «La popolazione non se ne accorgerà nemmeno.» Concluse:
«Basta così. L’argomento è chiuso.»
«No che non è chiuso» urlò il comunista, il quale parlava metà in dialetto e
metà in italiano: «qui si continua a dimostrare la massima benevolenza per il
passato regime, e questo il popolo non è più disposto a sopportarlo. Capito?»
«Per favore, cerchi di non cominciare a gridare al suo solito» gli disse Agaz-
zino.
«Il signor Paolo» osservò il liberale «non è il passato regime. È solo una
persona con la testa sulle spalle, e a questo riguardo noi del C.L.N. non pos-
siamo farci proprio niente.»
«Basta così, l’argomento è chiuso» ripete Agazzino nel tentativo di non per-
dere altro tempo: «Torniamo all’ordine del giorno: il canone della mutua.»
«Ah no, eh! Ah no, eh!» fece il Pollastri che, vedendosi ormai appoggiato
dal comunista, esplose: «Il popolo è stanco del comportamento schifoso della
democrazia cristiana e dei liberali: il popolo ne ha piene le tasche» (usò, per la
verità, un termine meno riferibile) «il popolo...»
Malgrado si fosse ripromesso di non intervenire, Ambrogio improvvisa-
mente lo interruppe: «Un momento» e guardandolo in viso con durezza:
«Lei» esclamò «deve fare marcia indietro su quel termine ‘schifoso’. E sarà
bene che la faccia addirittura.»
Il Pollastri guardò sorpreso e un po’ impressionato il giovane:
«Siamo alle... imposizioni adesso?»
«No» rispose con calma Ambrogio «siamo all’educazione, alle norme della
più elementare educazione.»
Il Foresto fece per intervenire, ma era talmente sorpreso che aprì le braccia:
«Come si vede che lei non ha mai partecipato a riunioni politiche» disse con
tutta franchezza ad Ambrogio. «Se lei resta in C.L.N. dovrà sentire ben altro,
se ne accorgerà.»
Il Pollastri non era comunque disposto a lasciarsi fuorviare. «Il popolo»
disse con faccia cattiva «il popolo, e specialmente il mio partito, siamo assolu-
tamente stufi del comportamento provocatorio della democrazia cristiana. In
nome del popolo io esigo che...»
«Mi dica una cosa» lo interruppe Agazzino. Era lui pure molto seccato per
l’insulto di cui il suo partito era stato gratificato, specie dopo che Ambrogio
l’aveva in qualche modo fatto rilevare, andava perciò lentamente facendosi
rosso in viso come un tacchino: «Mi dica: dov’è il popolo che lei rappresen-
ta?» Tutti guardarono sorpresi il presidente, che non aveva mai parlato tanto
chiaro; sapevano tutti che il partito d’azione non contava neppure un iscritto,
tanto che all’interno del C.L.N. il Pollastri, unico, non aveva l’aggiunto. «Lo sa
lei cosa rappresenta?» continuò il presidente: «Lei qui rappresenta soltanto
un timbro: perché il partito d’azione a Nomana si riduce a lei, e al timbro che
lei ha fatto fare, e che ogni tanto usa più o meno a proposito.»
A questa affermazione tutti i presenti, titolari e vice, uscirono in una risata
irrefrenabile, mostrando in tal modo d’essere d’accordo.
«E adesso» concluse Tirato Agazzino, che aveva ripreso il sopravvento:
«basta con la ghiaia o con altri argomenti che non sono all’ordine del giorno.
Portiamo avanti invece il primo degli argomenti in programma: la mutua sani-
taria.»
Pollastri, battuto e in ritirata, alzò un dito: «Protesto, e chiedo che la mia
protesta sia iscritta a verbale.»
«Cos’è che devo scrivere a verbale?» chiese il segretario, ch’era poi un im-
piegato del comune il quale sussultava tuttora per il gran ridere.
«Che il presidente agisce in modo antipopolare» disse rabbioso il Pollastri.
A questo punto il mite ufficiale postale signor Benfatti, titolare un po’ spae-
sato dei socialisti, intervenne con aria addolorata: «No signori» disse «no, vi
prego.»
Era un idealista ingenuo, non per niente durante l’intero ventennio fascista
aveva portata la cravatta nera a fiocco e la barba a pizzo; oriundo del manto-
vano, e di forma mentis non cattolica, lui nel socialismo ci credeva davvero (in
quello democratico beninteso, e non in quello nuovo, populista, alleato dei
comunisti): per tale sua fede, nota a tutti, aveva finito col rimanere rappresen-
tante titolare dei socialisti. «Vi prego di non scrivere niente a verbale, perché
di simili cose disdicevoli non deve rimanere traccia.»
Pollastri lo guardò: “Cose disdicevoli... Ma sentilo! Non è la prima volta”
pensò con ira “che questo ‘incantato’ si permette di tagliarmi l’erba sotto i pie-
di”; comunque la situazione ormai non gli era favorevole, e si limitò a sbuffa-
re.
«Non possiamo far aspettare ancora quella gente. Fate entrare i due che so-
no nell’atrio per cose relative alla mutua» ordinò il presidente.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Il segretario si levò in piedi e raggiunta la porta: «Avanti il pubblico» chia-


mò non senza enfasi.
Entrò una donna di trenta-trentacinque anni, coi capelli biondo scuri legati
a crocchia sulla nuca (era l’Angioletta, operaia della tessitura Riva), e dietro di
lei un uomo sui cinquanta, alto e magro, chiaramente risentito per la lunga
attesa. Ambrogio non conosceva l’uomo: notò che portava, a mo’ di distintivo,
un fazzoletto rosso al taschino della giacca.
«Oh, guarda: il ‘sotterra-morti’ del Raperio» mormorò l’anziano vice dei so-
cialisti, che sedeva a fianco d’Ambrogio.
L’Angioletta salutò con bel garbo l’assemblea e, invitata dal presidente, si
diede a esporre subito il perché della propria venuta: aveva letto là fuori, nella
bacheca del municipio, quel foglio scritto a macchina in cui si invitava chiun-
que avesse qualcosa da dire riguardo alla mutua sanitaria, a venir pure a par-
lare liberamente. «Ora io sono per di più capo famiglia, perché sono vedova.»
«Di guerra?» le chiese ad abundantiam, con sussiego, il vice dei socialisti,
che dal becchino aveva trasferita l’attenzione su di lei.
«No, non di guerra, di pace.»
«Ah, ecco.» Il vice assenti, approvando gravemente con la testa calva.
«E il fatto» continuò l’Angioletta «è che quest’estate la mutua mi ha fatto
una questione.» Trasse di tasca due fogli più volte ripiegati. «È a proposito del
mio bambino maggiore. Perché secondo lui, cioè quello della mutua, una ma-
lattia così non è una vera malattia, in quanto non potendosi a luglio mandarlo
al mare, gli hanno fatto fare la cura elio terapica qui a Nomana, e dunque non
rientra. Invece secondo me rientra nella mutua perché...» Il presidente le
obiettò, in bella maniera, che quel discorso andava fatto non ai presenti, ma ai
nuovi consiglieri della mutua, che sarebbero stati presto eletti. La donna, rite-
nendo quest’assemblea tutto considerato più autorevole, tentò d’esporre
ugualmente le proprie ragioni, in un bel dialetto spiccio, non mancando di
ribadire più volte l’essenziale, come si fa quando si ha l’impressione di parlare
con persone che non afferrano agevolmente. Ben presto però, davanti a nuove
obiezioni del presidente, comprese d’essere venuta lì, come si suol dire, ‘a but-
tar via il tempo’. Perché il suo intervento non andasse del tutto sprecato fece
allora qualche passo avanti e tese i due fogli, nuovamente ripiegati, a quello
dei presenti che le ispirava più fiducia, che era Ambrogio.
«Ma no, cosa fa? Li tenga lei quei fogli» le diceva intanto Agazzino.
Ambrogio presi i fogli si alzò in piedi, e fatto segno agli altri che avrebbe si-
stemata lui la faccenda, riaccompagnò l’operaia nell’atrio. Qui con calma, in
dialetto, le spiegò come stavano le cose e le restituì i documenti: «So che que-
sti sono tempi difficili per chi ha tre bambini sulle spalle come voi» disse. La
donna assentì con un sospiro. «Ma voi avete sempre fatta bene la vostra parte:
anche questo interessamento per le cure al bambino lo dimostra. Si tratta di
resistere con coraggio: vedrete che presto le cose miglioreranno.»
La donna lo ringraziò, grata per quelle poche parole di riconoscimento: ap-
parteneva a una famiglia di operai onesti, seri, e ci teneva che la gente se ne
rendesse conto.
Al rientro nella sala Ambrogio trovò che il becchino del Raperio aveva già
esordito: notò che nell’assemblea più d’uno cominciava a ridere.
«Il mio medico della mutua» stava dicendo il sotterra-morti col fazzoletto
rosso al taschino «è il dottor tale.» Nominò uno dei due medici del paese, ben
conosciuto da tutti. «Per bravo è bravo, non dico di no: un bravo dottore,
niente da dire.» Fece una pausa, approvando ripetutamente con la testa: an-
che un braccio teso, con la mano levata, indicava il suo solenne riconoscimen-
to. «Però ha un difetto» riprese: «che quando ti entra in casa, per prima cosa
alza gli occhi al soffitto.» L’assemblea esplose a ridere: al soffitto, nelle case
contadine, si usavano appendere i salami.
«Per la malora!» ribadì lento il becchino: «Cosa fa? Entra e guarda per aria.
Per prima cosa, capite? Per aria guarda.»
«E tu i salami appendili in cantina, così lui non può più vederli» intervenne
il rappresentante dei liberali.
«Come faccio? Non ne ho più di salami» esclamò lo zotico oratore:
«Quest’anno erano pochi e li abbiamo già finiti tutti.»
«Allora il problema s’è bell’e risolto da solo» concluse il liberale. La piccola
assemblea ormai si spanciava dalle risa.
“Guarda, dopo la tragedia la farsa! ” finì col dirsi Ambrogio: “Davvero è in-
credibile che a gente come la nostra sia preposta, per imposizione, una con-
grega simile...”
Alquanto sconcertato il becchino attese che le risate diminuissero, poi con-
tinuò: «Io al presente faccio il sotterra-morti, al Raperio»
«Un mestiere necessario» buttò là Sèp, che malgrado il supplizio della sa-
vonarola, aveva anche lui le lacrime agli occhi dal ridere. «Forse però l’anno
venturo non lo farò più.»
«Forse però, forse» sottolinearono, sempre in dialetto, due o tre, conti-
nuando a ridere.
Intervenne il presidente Agazzino: «Smettetela» disse all’assemblea, e
all’oratore: «Cos’è che siete venuto qui a dire, in fin dei conti? Volete sostene-
re che i medici non si contentano di quello che gli passa la mutua? Che pre-
tendono altro?»
«No, non lo pretendono, ma...»
«Voglio dire: senza regalie, cioè se voi non gli date un salame, il dottore il
suo dovere lo fa oppure no?»
«Si capisce che lo fa. Vorrei vedere anche questa!»
«Insomma cos’è che siete venuto a dire? Cercate d’arrivare una buona volta
alla conclusione, spiegatevi.»
Lo zotico fissò il suo sguardo sul Foresto, rappresentante titolare dei comu-
nisti: «E allora?» gli chiese cambiando tono. «Perché dite in giro che bisogna
venir qui a protestare, a far bordello, e poi quando uno viene, voi non parlate
neanche?» Indicò col mento Sèp, vice dei comunisti, sprofondato nella savo-
narola: «E lui ride anche, quel disgraziato!»
Chiamato direttamente in causa il Foresto si vide costretto a intervenire, ma
preso così alla sprovvista, e ancora sul principio ridacchiarne, non gli riuscì di
fare altro che una tirata di luoghi comuni contro ‘i medici e gli altri signori’,
avidi come piovre, esosi, succhiatori del sangue del popolo.
Visibilmente nessuno dei presenti ne sembrò suggestionato. «Dai, cerca di
non parlare come ‘L’unità’, cerca di ragionare con la tua testa, se ce l’hai» gli
disse a un tratto il liberale. «Li conosci o no i due medici di Nomana?»
Al che quello ribadì tetragono quanto aveva detto.
Agazzino lo lasciò terminare fissandolo in silenzio, poi osservò: «Dunque,
se ho ben capito, lei adesso va in giro a dire alla gente di venir qui a far bordel-
lo in C.L.N.?»
«Io vado in giro a fare quello che mi pare, io dico al popolo quello che mi
pare.» Il Foresto si mise a urlare, cacciò anche una mano in tasca (“Ecco,
adesso tira fuori la pistola” pensarono contemporaneamente Ambrogio e
Agazzino; ma quello, forse perché intuì il loro pensiero, o forse perché
l’assemblea era ormai troppo numerosa, non estrasse l’arma): «Il popolo è
stufo... il popolo qua... il popolo là...»
Il titolare dei socialisti signor Benfatti, cui dispiaceva soprattutto che il pre-
sidente Agazzino potesse, in quanto farmacista, ritenersi coinvolto nelle rozze
accuse fatte ai medici, intervenne nuovamente. Lo fece con la sua abituale so-
lennità un po’ lisa, laica, e alzata una mano: «Il bene del popolo» affermò ri-
volto al comunista «l’abbiamo a cuore anche noi socialisti. Perciò le ricordo
che il popolo - come diceva Turati - noi dobbiamo sforzarci d’educarlo, e non
dobbiamo far leva sulle sue tendenze deteriori. Le dico di più: a volte, per il
bene del popolo, può anche essere necessario andare contro il popolo.»
Il Foresto fu sul punto di rispondergli malamente, poi sbuffò scoraggiato e
lasciò perdere. Non così il becchino, che puntando un dito sul socialista uma-
nitario si mise a gridare, stavolta in italiano: «Fucilato! Fucilato! Fucilato!»
(Intendeva dire: sia fucilato.)
Al che i presenti esplosero di nuovo a ridere. Agazzino ordinò allora con
sconforto al segretario di scrivere che la definizione del canone della mutua
veniva rimandata alla prossima riunione ‘dopo che i rappresentanti dei partiti
si saranno documentati meglio’ in tal modo il primo degli argomenti
all’ordine del giorno poté considerarsi esaurito. Si passò al secondo, che non
portò via molto tempo: n’era oggetto la riparazione (ennesima riparazione,
come ricordò Agazzino) di una delle pompe dell’acquedotto: «Qui, se la fab-
brica non ricomincia a produrre i pezzi di ricambio originali, un giorno o
l’altro rimaniamo senz’acqua.»
Dopo di che si passò al terzo punto: il rimpiazzo provvisorio d’un impiegato
comunale che si era ammalato; indi al quarto, avente per oggetto il riordino
della pubblica illuminazione nella piazza di Nomana. Su questo punto si sca-
tenò un nuovo principio di putiferio, a causa d’un inaspettata proposta del
vice socialista che dei sei vecchi lampioni in ghisa di disegno ottocentesco in
funzione nella piazza, tre vi fossero lasciati, due trasferiti nella piazzetta del
Raperio (paese del proponente) ch’era priva di lampioni, e uno al principale
incrocio stradale della Lodosa; il tutto per giustizia distributiva.
Risoltosi il mezzo putiferio, si passò al quinto e ultimo argomento all’ordine
del giorno, quello che più stava a cuore ai membri di sinistra del C.L.N. (e che
per ciò stesso era il più inviso agli altri): le epurazioni - o meglio una ripresa
della disputa sulle epurazioni - a Nomana; la trattazione di questo punto portò
via più tempo dei precedenti quattro presi insieme.
Mentre gli altri discutevano e si contrastavano dispiegando tutte le loro
energie oratorie, il Pollastri rifletteva: l’accusa che il presidente gli aveva fatto
di rappresentare soltanto un timbro, non gli andava assolutamente giù, ap-
punto perché rispondeva a verità. Ancora sotto l’urto delle offensive risate che
aveva dovuto incassare, egli si sforzava d’individuare se gli fosse in qualche
modo possibile uscire da questa spinosa situazione. Forse, chissà, un modo
c’era (“forse... molto forse però... prima devo assicurarmi bene”): glielo faceva
intravedere l’inammissibile presa di posizione del Benfatti, quella sua frase
pazzesca; senza dare nell’occhio il Pollastri se l’era annotata: ‘A volte, per il
bene del popolo, può essere necessario andare contro il popolo’. Era mai pos-
sibile che un individuo così reazionario (intendeva: così privo di demagogia)
dovesse continuare a rappresentare i socialisti? E ciò mentre i socialisti, qui a
Nomana, istruiti e formati soprattutto dai discorsi libertari del pensionato mi-
lanese Millanta, in pratica non si distinguevano quasi dai comunisti. Se infatti
sotto sotto non erano disposti a imboccare la strada della rivoluzione sangui-
nosa al modo dei comunisti, però quanto a rivolgimenti a parole non restava-
no certo indietro. “Com’è possibile” si chiedeva il Pollastri “che individui in-
carniti come il tale, per esempio, o il tal altro, abbiano ancora per rappresen-
tante in C.L.N. questa specie di scemo col pizzetto, tanto più che adesso il piz-
zetto nessun socialista, a cominciare da Nenni, lo porta? Uno che ti vien fuori
a dire” (sbirciò il suo appunto): ‘Per il bene del popolo può essere necessario
andare contro il popolo’. “Qui bisogna che io mi decida a frequentare la loro
osteria, io che, essendo impiegato, nelle osterie non ci entro mai. Poi, al mo-
mento giusto, tiro fuori parola per parola questa storia e... Oppure no, forse è
meglio che li prenda da parte e li catechizzi uno alla volta, perché presi tutti
insieme, ignoranti come sono, potrebbero impermalirsi. Beh, è una cosa da
studiare. In seguito, se mi accorgo di far presa, non mollo più: restituisco con
qualche scusa (motivi se ne trovano sempre) la tessera di questo schifoso par-
tito d’azione... anzi, meglio, io questa tessera la straccio: aspetto che il partito
non si trovi d’accordo in qualche cosa coi socialisti, e faccio il gesto di straccia-
re la tessera, poi in cambio chiedo l’iscrizione al socialismo. Dopo di che, se la
fortuna m’aiuta soltanto un poco, potrei anche arrivare a ‘fargli le scarpe’ a
questo Benfatti della malora...”
Si chiese quali sarebbero state le reazioni dei presenti, uno per uno: “Quel-
lo, io credo, sarebbe contento di vedere me al posto del Benfatti, e anche quel-
lo, sì, e forse anche quello: ecco, la possibilità di spuntarla in fondo c’è, c’è...”
Cominciava a riprendere animo. “Se riesco a farcela m’alleo subito col Foresto,
mi metto d’accordo con lui a qualunque costo: di lui il farmacista ha paura, e
tutt’e due insieme, ossia il partito comunista e il partito socialista, gli faremo
vedere i sorci verdi, anche se adesso ha tirato in C.L.N. il ragazzo Riva, a que-
sto disgraziato di farmacista che parla di timbri”. Non mancò d’insultare più
volte mentalmente Agazzino, il cui unico vero torto era d’avergli data la possi-
bilità di partecipare alla politica nuova.

CAPITOLO VENTITREESIMO
La seduta ebbe termine verso mezzanotte. Ambrogio uscì dal portone del
municipio tra Agazzino e il barzellettista liberale, il quale: «Ha visto che ca-
gnara, eh? Cosa gliene sembra?» gli chiese amichevolmente in dialetto, e sen-
za aspettare la risposta: «Qui l’unica cosa che importa, ormai, è arrivare a ele-
zioni regolari. E siccome in Italia ci sono gli americani e gli inglesi, io son con-
vinto che ci arriveremo. Allora vedrà che fine faranno tutti questi malnati.»
«Purché le elezioni vadano bene. Chi può esserne sicuro, oggi?»
«Senta: giurarlo, non può giurarlo nessuno» fece l’altro: «Però io ne sono
convinto. Prima di tutto perché in Italia ci sono molti contadini e, si sa, ‘il vil-
lano è democristiano’. Poi...»
Dovette attendere che Ambrogio smettesse di ridere per questa uscita. «Poi
per via degli americani: dopo tutta la guerra che hanno fatta, non saranno così
stupidi da... Insomma ragioni ce ne sono. In conclusione la spunteranno i pre-
ti, vedrà.»
«Ma i rossi? Se restano soccombenti non faranno la rivoluzione? Anzi, non
la faranno magari prima?»
«No finché ci sono qui gli americani.»
«Guardi in Grecia. Anche in Grecia ci sono gli americani, eppure vede cosa
sta succedendo.»
Era tardi, non potevano esaurire un argomento simile; dopo qualche altra
frase il liberale prese affabilmente congedo e s’avviò verso casa sua.
Nella piazza le lampade dei sei vecchi lampioni ch’erano stati poco prima
oggetto di discussione diffondevano la loro luce. Modesta ma sufficiente per-
ché si potessero distinguere le cose note e care: l’acciottolato su cui d’estate
sfrecciavano le rondini, la chiesa con le sue belle colonne di serizzo davanti, il
campanile... Mentre, ascoltando solo a metà le parole d’Agazzino passava ra-
sente il campanile, Ambrogio ricordò il giorno in cui, alla vigilia della guerra,
da là sopra le campane ora mancanti avevano intronata la testa di Stefano e la
sua... Chissà dov’era adesso Stefano, se era ancora vivo! E il Michele Tintori, e
tutti gli altri? Dalla Russia nessun prigioniero era finora tornato, però erano
giunti inaspettatamente alcuni loro messaggi: pochissimi, ma con certezza
provenienti dai lager di là, tramite la ‘mezza luna’ turca. Lui stesso ne aveva
avuto tra le mani uno, arrivato a una famiglia d’Incastigo. Inoltre aveva senti-
to dire che un elenco di prigionieri italiani era stato ultimamente trasmesso da
radio Mosca. Chissà dunque, chissà.

IV

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Pierello aveva ripreso il vecchio lavoro in ferriera a Sesto San Giovanni. Do-
po tante e così tempestose avventure, le sue giornate s’erano fatte di colpo
monotone: il che, almeno per ora, non gli dispiaceva. Usciva ogni mattina di
casa prima dell’alba con la cartella della colazione sottobraccio, e
s’incamminava di buon passo verso la stazione di Nomana. Superato un tratto
di salita in mezzo ai campi, si voltava puntualmente a guardare il casale - a
quell’ora poco distinguibile nel buio - in cui abitava la Luisina. Perché gli stava
succedendo un fatto strano: che una ragazza, la Luisina appunto, di un anno
più giovane di lui, ch’egli conosceva fin dagli anni della scuola, anzi da prima,
dalla nascita, e alla quale non aveva mai prestato attenzione, da un certo tem-
po in qua (“Che cosa strana, però!”) non gli voleva più uscire di mente. Alla
stazione prendeva l’affollato treno operaio delle sei e un quarto, quasi sempre
la stessa carrozza; se gli era possibile sedeva anche in un dato posto, tra le
medesime persone o quasi - operai saliti con lui a Nomana, oppure ‘d’in
somm’ provenienti cioè dalla finitima provincia di Como. Qualcuno era stato
come lui prigioniero in Germania, da tempo però non parlavano più della pri-
gionia né d’altro: le mani sprofondate nelle tasche, i baveri dei giacconi alzati,
preferivano sonnecchiare. Pierello finiva col pensare di nuovo alla Luisina:
alla sua fronte bombata, ai capelli castani legati a crocchia, e ancor più alle sue
belle maniere. Proprio da queste era originato il suo interesse per lei, quella
mattina di domenica che - per risparmiare l’incomodo alla madre - lui era
uscito a comperare il pane. L’aveva incontrata sulla porta del negozietto, an-
che lei con la borsa di rete al braccio: «Oh, Piero, me l’hanno detto che sei tor-
nato. Stai bene, vero?» l’aveva salutato con garbo.
«Beh» aveva risposto lui, celiando come si conviene a un giovanotto che in-
contra una ragazza: «dovresti saperlo che le bestie grame non muoiono mai.»
Intanto però era sorpreso non solo dalla faccia, ma dall’intero ‘personale’ di
lei. (“Come avrà fatto, mentre io ero via, a migliorare così?”) Avrebbe voluto
farle un complimento adeguato, ma inesperto com’era finì col dirle: «Ehi, Lui-
sina, non sei più come ai tempi che venivi a scuola col moccio al naso, eh?»
Lei, anziché rispondergli ‘in qualche maniera’ (cioè in malo modo) come si
sarebbe meritato, aveva messe le cose nel verso giusto: «Anche tu sei cambia-
to, Piero.» E dopo una pausa: «Chissà quante ne hai passate là in Germania!»
Quest’ultima frase l’aveva detta in un modo, ma in un modo, che a lui era
sembrato ci fosse, in quelle poche parole, una straordinaria comprensione di
tutte quante le tremende esperienze per cui era passato.
Da non credere come le maniere d’una ragazza ti possano riuscire gradite,
davvero da non credere! “Che bel fare, che garbo!” rifletteva Pierello, viag-
giando nel treno stipato: “Ce l’ha proprio avute da natura le belle maniere la
Luisina: nemmeno una signora, o ben poche, sono d’un garbo compagno. E io,
che bestia: il moccio al naso! Che poi non è vero: non ce l’aveva il moccio al
naso la Luisina quando veniva a scuola. Lei però ha capito subito che dicevo
per scherzo, che dicevo così tanto per... per...” si sforzava nel ron ron del treno
di trovare il termine e il concetto.
La domenica successiva a quell’incontro non era andato come di solito alla
seconda, bensì alla terza messa, apposta per rivedere la ragazza. La chiesa di
Nomana però era gremita, così che lui, con nascosto disappunto, si era dovuto
lemme lemme portare avanti fino alle prime panche, dove aveva preso posto
accanto a due suoi coscritti: Severino, già bersagliere in Africa, della Lodosa al
pari di lui, e Damiano di Nomana, rientrato da poco da una dura prigionia in
Jugoslavia e ancora molto malconcio (“Però, che classe di bastonati, il 21!”) In
conclusione durante l’intera messa non aveva potuto dare alla Luisina che
qualche fugace occhiata, torcendo il collo. Per cui alla fine della funzione era
uscito in fretta, quasi senza salutare i coscritti, dal portello laterale, ed era an-
dato a collocarsi davanti al pronao della chiesa, deciso se non proprio ad ac-
compagnare la ragazza fino a casa, almeno a intrattenerla un po’ più a lungo
della domenica precedente, e non certo parlando di moccio, ma di qualcosa di
meglio. Già, di cosa però? Vediamo, che discorso plausibile avrebbe potuto
mettere insieme? Mentre la ragazza usciva con la madre di chiesa, e poi scen-
deva lentamente i pochi gradini del pronao, s’era accorto che, nonché un di-
scorso sensato, non gli veniva alla bocca nemmeno una parola, neanche mez-
za, niente. Finì, quando le due donne gli passarono davanti, col rispondere in
modo melenso al loro saluto affabile. “O Piero, che imbranato, che razza
d’imbranato quella volta! Meno male che t’ha dato una mano san Michele ar-
cangelo, se no...”
Il fatto di san Michele era consistito in questo: che mentre lui si guardava
intorno angustiato, gli era venuto sotto gli occhi quel manifesto azzurro affisso
alla porta della chiesa col programma della sagra di Beolco, di cui san Michele
è patrono: Luisina era già oltre di qualche passo, ma c’era per fortuna in arrivo
tra la gente il suo coscritto Severino. «Ehi Severino» aveva improvvisamente
esclamato Piero: «Te l’ho detto o no che oggi pomeriggio io vado alla sagra di
Beolco? Cosa fai, ci vieni anche tu?»
«Eh? Cosa?» aveva risposto l’ex bersagliere d’Africa: «Beolco?» «Sì, oggi è
san Michele e c’è la sagra. E io» aveva ripetuto Pierello con voce sostenuta
«nel pomeriggio ci vado.»
L’altro gli s’era accostato per intendersi meglio: intanto però - ed era questo
l’essenziale - la Luisina aveva certamente sentito, e sapeva che lui nel pome-
riggio sarebbe andato a Beolco.
In seguito Pierello era entrato in uno stato di vera e propria ansia: “Cosa
vuol dire che lo sappia? Forse che ci verrà anche lei? E perché ci dovrebbe ve-
nire?”

Era ancora inquieto quando, qualche ora più tardi, insieme con Severino
l’africano s’era messo in via per Beolco; tanto che, giunti all’altezza della ca-
scina Casaretto, allorché il suo compagno aveva proposto: «Cosa dici? Gliela
facciamo una visita ai vecchi di tuo cugino Tito che è disperso?» lui aveva ri-
sposto: «Sì, però dopo. Ci fermeremo dopo, quando torniamo, non adesso.»
Finalmente, entrando nel paese di Beolco in festa, aveva scorta la Luisina fer-
ma sullo spiazzo delle giostre insieme con due amiche. Dio del cielo, era venu-
ta davvero, eccola là: era proprio venuta! Che urto al cuore a quella vista! Vero
che subito dopo aveva notato anche altre ragazze e un gruppetto di ragazzetti
della sua frazione più giovani di lui e della Luisina: tutta gente che non era
certo lì a motivo delle parole da lui pronunciate la mattina in piazza; anche la
Luisina e le sue amiche era dunque possibile che... Ad ogni modo non aveva
potuto indugiare in queste riflessioni perché: «Ehi, Piero, guarda là chi si ve-
de» aveva esclamato Severino, e senza por tempo di mezzo si era indirizzato
verso le tre ragazze, e dopo averle abbordate con un aggressivo: «Cosa fate in
giro, zingare?», aveva cominciato a dire spiritosaggini.
Anche Pierello allora s’era messo a discorrere: per prima cosa delle giostre,
una coi sedili appesi alle catene, l’altra coi cavalli a dondolo per i bambini, en-
trambe tempestate di lustrini e specchietti, al solito, e con strani dipinti di
donne velate, logori oltre ogni dire per la vernice tutta scrostata. Pierello ave-
va spiegato - dissipando i timori delle tre ragazze - che sulla tenuta delle cate-
ne non c’erano comunque da nutrire preoccupazioni: «Perché il ferro è sem-
pre ferro» aveva affermato con la sua voce mite e seria, «non è mica vernice.»
Avevano quindi fatto un po’ di giri sulla giostra a sedili, con quello scriteria-
to di Severino che ogni tanto abbrancava lo schienale della ragazza davanti a
lui e gli dava una tremenda spinta, facendo urlare la ragazza a squarciagola
per il troppo spavento.
E sì. Dentro il ron ron del treno, a quella giornata Piero ci aveva ripensato
parecchie volte, anche perché in seguito i suoi incontri con la Luisina erano
stati tutti più brevi. La festa di Beolco invece sembrava combinata apposta per
loro: con le strade principali del paese parate come usava prima della guerra,
cioè a mezzo di sandaline bianche e rosse tese da muro a muro sopra la testa
della gente, mentre lungo i muri c’erano alberelli di bambù ornati con fiori di
carta, una vera sciccheria. O magari non una sciccheria - rifletteva Piero, che
ormai aveva girato e conosceva il mondo - però comunque una cosa ben fatta,
questo sì, se non altro perché dava come l’impressione che la guerra non ci
fosse mai stata, ecco, ne allontanava il ricordo. Lui e la Luisina, e Severino
l’africano, e le altre due ragazze avevano trascorso l’intero pomeriggio in com-
pagnia: parte sulla giostra, parte passeggiando sotto le sandaline in mezzo alla
folla, e davanti all’antica chiesetta di san Michele avevano comprato il torrone.
Qui s’erano imbattuti in Luca - ch’era di Beolco appunto - il quale stava acqui-
stando lo zucchero filato per due suoi nipotini che gli scalpitavano intorno:
«Giusto tu, Piero, devo parlarti. Sai di cosa.» Certo che lo sapeva: era per il
partito della democrazia, voleva che s’iscrivesse, gliel’aveva già mandato a dire
un paio di volte. Beh, che non gli venisse fuori con quel discorso adesso
mentr’era in compagnia. «Parleremo, ma non adesso» gli aveva risposto, ar-
rossendo fino alle orecchie in quanto non era abituato ad avere impicci di
donne; al che l’altro, distolto il proprio sguardo dai bastoncini dello zucchero
filato, l’aveva fermato su di lui, quindi sulla Luisina e, dopo aver capito, aveva
fatto segno di sì con un gran sorriso d’approvazione, quel disgraziato.
La Luisina aveva un ‘personale’ davvero gradevole, che quel giorno il vestito
buono metteva in risalto; ripensandoci sembrava a Piero quasi sorprendente
che una ragazza così fosse in realtà semplice e pudica com’era: tutta - egli lo
sapeva - casa e chiesa, e oratorio delle monache a Nomana, e lavoro laggiù
nella filatura di Briosco, dove le donne quando si mettevano a cantare, canta-
vano le litanie. Gli tornava in mente quella promiscuità spaventosa in Germa-
nia: il comportamento delle deportate e non deportate, che il sesso te lo sbat-
tevano in faccia... Qui invece, ecco, uno - anche un povero diavolo - poteva
essere sicuro della donna che sarebbe diventata sua moglie. Questo - lui lo sa-
peva bene - non succedeva a caso: veniva dall’impegno e dall’esempio di gene-
razioni e generazioni, dai rosari recitati ogni sera, dagli insegnamenti pazienti
di suor Candida, e di don Mario, e degli altri preti ferventi come il don Piero di
Briosco: “Che Dio li benedica quei custodi del tesoro più prezioso dei poveri”.
La Luisina non era soltanto onesta e seria, era anche spigliata quanto basta,
e sapeva per esempio - con quel garbo paesano che tanto piaceva a Pierello -
ridar vita al discorso se per caso lui lo lasciava languire. (In realtà si sentiva a
sua volta emozionata perché il giovane compaesano le piaceva: l’attraeva so-
prattutto per la sua disarmata e insieme solida mitezza, che in effetti - per im-
pressione non soltanto sua ma anche di altri - era il tratto più simpatico di
Pierello: sia prima della guerra, come durante, come poi sempre.) Quel giorno
egli si era provato a indagare se la ragazza fosse venuta a Beolco per le sue pa-
role del mattino o per caso: aveva però smesso quando s’era chiaramente reso
conto che in ogni modo la Luisina gradiva la sua compagnia. “Cosa poi trovi di
buono in me, questo non lo capisco” concludeva ogni volta che ci pensava.
Basta. Ci siamo dilungati anche troppo a rendere le sue riflessioni mentre in
treno - semiassopito, con le mani in tasca e il bavero del giaccone alzato - an-
dava al lavoro.
Non è, intendiamoci, che pensasse alla Luisina per tutta la durata del viag-
gio, di un’ora e più. A volte, mentre i suoi vicini si mantenevano in silenzio, gli
giungevano all’orecchio frasi di altri che sedevano qualche sedile più in là; si
trattava in genere di discorsi banali, in cui magari la stessa cosa, di nessun
interesse se non per chi ne parlava, veniva ripetuta un mucchio di volte. Ogni
tanto gli capitava però anche d’udire notizie d’un certo rilievo; relative per
esempio ad assunzioni d’operai da parte di qualche ditta; allora Pierello ten-
deva l’orecchio e si faceva attento: “Che il lavoro finalmente si decida a tira-
re?” Arrivava a parlarne con l’uno o l’altro dei suoi taciturni vicini: «Sarebbe
ora, no?»
«Cosa?»
«Che il lavoro ricominci a tirare.»
«Eh, credo bene.»
«Lo dico anch’io» interveniva magari un altro: «con tutte le cose che man-
cano, che bisognerebbe costruire.»
«Eh già.»
«Treni, e case, e mobili, e... insomma tutto.»
«Mm.»
Ma perché il lavoro stentava tanto ad avviarsi? La cosa preoccupava segre-
tamente un po’ tutti gli operai, i quali non riuscivano a spiegarsela.
Se c’era presente qualcuno di quelli invasati dalla propaganda rossa, mette-
va subito avanti la sua spiegazione: «Credete a me: la colpa è di chi ha i soldi e
non li vuol tirar fuori per far lavorare la povera gente, ecco di chi è la colpa.» Il
solito discorso. Siccome però chi diceva così dava quasi l’impressione d’essere
contento della scarsità di lavoro, la maggior parte degli operai briantei non
concordava con lui. Tuttavia sul treno raramente c’era chi controargomentava,
come sarebbe accaduto nei paesi; al corrente delle atrocità verificatesi a Sesto
nei giorni della liberazione, gli operai preferivano mantenersi in silenzio, opa-
chi, chiusi in sé stessi per quieto vivere.
Se per caso si trovavano nella carrozza anche dei non operai, capitava che
qualche operaio dicesse delle frasi apposta per farsi sentire da costoro. Una
volta Pierello fu distratto dai suoi pensieri da uno che seguitava a ripetere:
«Quello che noi operai dobbiamo continuare a fare, è non lavorare e intanto
farci pagare.» Riconosceva quel tizio dalla voce: non si trattava d’un sovversi-
vo, ma di uno qualsiasi di Nomana che lavorava alla Marelli, in un’industria
cioè in delicata fase di trapasso alla produzione di pace; probabilmente non
era vero che in quei giorni egli non lavorasse, perché dunque insisteva a parla-
re così? Fingendo di stiracchiarsi Pierello si voltò e scoprì che a poca distanza
c’era l’anziana professoressa Quadri Dodini (quella che aveva pianto per
l’entrata dei tedeschi a Parigi: una ‘signora’ a quel tempo se confrontata con
gli operai), certamente si recava a sua volta al lavoro a Monza, nel ginnasio
delle monache dove insegnava.
Il giovane comprese che lo sproloquio era indirizzato a lei, in quanto solo lei
poteva riceverne turbamento. In sostanza quell’uomo meschino, avendo la
possibilità di causare un’angustia, la causava per il solo piacere di causarla. A
Pierello tornarono per un momento in mente i tedeschi: quelli non erano così
vili... Sì, però, invece di far porcherie di questo genere, ne facevano altre anco-
ra peggiori. Chissà perché gli uomini devono sempre fare delle porcate?
Così tra assopimenti, riflessioni e non molte parole, egli arrivava alla sta-
zione di Sesto, dove scendeva verso le sette e mezzo; il che gli consentiva di
raggiungere la ferriera senza farsi fretta.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Nell’androne grigio della fabbrica timbrava il cartellino poi, dopo avere in-
dossato con calma in uno spogliatoio la tenuta cachi da lavoro, attendeva in
piedi con altri operai (un centinaio in quello spogliatoio) il suono della sirena.
Nella breve attesa si scambiavano tra loro qualche battuta scherzosa, come un
tempo i soldati all’alba prima di mettersi in marcia: qui però con più indiffe-
renza, con minor emozione.
La sirena avviava tutti ai reparti; Pierello entrava di buon passo nel suo, un
laminatoio su tre linee, che avevano inizio con tre forni di riscaldo. In ognuno
dei quali venivano anzitutto introdotti, e portati all’incandescenza, parecchi
lingotti di ferro. Estratto dal forno con apposite pinze, ogni lingotto veniva poi
trascinato per una decina di metri sul pavimento di ferro (questo era uno dei
compiti di Piero), issato - sempre mediante le pinze - sulla placca di lamina-
zione, e sospinto verso la gola di due pesanti cilindri lentamente ruotanti uno
sopra l’altro. Recuperato dopo il passaggio, il lingotto già parzialmente appiat-
tito veniva di nuovo fatto passare più e più volte tra i cilindri, fino a essere tra-
sformato, in capo a una quindicina di passaggi, in una lamiera. Cimate da una
trancia, le stridule lamiere venivano quindi accatastate.
Tra fuochisti, tira-ferro, laminatori e trancia tori, a ciascuna linea lavorava-
no in tutto sette operai. I quali non parlavano tra loro se non per scambiarsi
qualche avvertimento, anche perché nel capannone c’era un notevole frastuo-
no: all’incessante boato delle ventole che alimentavano i forni si sovrappone-
vano di continuo i colpi cadenziali delle trance e, assai più forti, gli schianti
con cui i cilindri superiori cadevano sugli inferiori una volta passate le piatti-
ne. Nell’aria c’era sempre un po’ di polvere, tanto che - non usando a quel
tempo gli elmetti da fabbrica - ogni operaio si proteggeva i capelli con un co-
pricapo portato da casa: con un berretto, o magari uno zucchetto da sci i più
giovani, gli anziani col cappello a falda. Quanto a Pierello inalberava il cappel-
luccio tirolese con cui era tornato dalla prigionia. L’avesse visto la Luisina tra-
scinare, con quell’allegro arnese in testa, il lingotto incandescente di forse
trenta chili sul pavimento, quindi - aiutato dal laminatore - issarlo metodico
sulla placca di laminazione... Durante il lavoro tuttavia non aveva tempo per
pensare alla Luisina. Avrebbe potuto pensarci, volendo, durante la sosta - ogni
ora e mezza o due - per la ricarica dei lingotti nei forni: ma non era invasato a
tal punto. Preferiva, durante la sosta, distendersi al pari degli altri, scambiare
finalmente qualche parola.
Da mezzogiorno all’una c’era l’interruzione per il pasto: di solito una mine-
stra, carne, verdura e vino, preparati nella mensa della fabbrica, cui ognuno
aggiungeva qualcosa portato da casa. Piero mangiava quasi sempre a un dato
tavolo, insieme coi suoi compagni di squadra: qui i più giovani parlavano soli-
tamente di sport, gli altri o tacevano o parlavano di paghe e lavoro; non di ra-
do si commentava qualche episodio di cronaca nera (atti di banditismo so-
prattutto, allora molto frequenti) riferito dalla radio al mattino; qualche volta
si parlava anche di politica, ma con circospezione e senza portare il discorso a
fondo. Per il solo fatto di provenire dalla Brianza Pierello era considerato un
paolotto, cioè un cattolico praticante, il che non gli veniva peraltro fatto pesa-
re: tra loro infatti gli operai si rispettano abbastanza, e questa è, bisogna dirlo,
grazia grande.
All’una il lavoro riprendeva, per concludersi, ancora una volta al suono del-
la sirena, alle cinque. Allora gli operai raggiungevano senza perder tempo gli
spogliatoi, si lavavano davanti a lunghe vasche munite di sei, otto rubinetti
ciascuna, facendo tornar bianchi a forza di sapone i visi e i colli anneriti, infine
si cambiavano d’abito (ognuno di loro disponeva d’un armadietto metallico
con chiave), e uscivano sulla strada.
Le strade di Sesto - il maggior sobborgo industriale lombardo - non erano
allora, come non sono oggi, molto accoglienti. Agli operai tuttavia esse riusci-
vano gradevoli per l’aria più pulita che in fabbrica (c’erano poche automobili a
quel tempo), e per quel po’ di verde - alberi o cespugli - che si scorgeva qua e
là.
Percorrevano tali vie più o meno frettolosi - certuni correndo - verso i capi-
linea delle tramvie extraurbane e verso la stazione ferroviaria. Una volta in
stazione Pierello dava un’occhiata ai binari, per assicurarsi che il suo treno
non fosse ancora arrivato, poi entrava nel bar e si beveva con grande soddisfa-
zione una ‘spuma’. All’arrivo del treno saliva in ressa con gli altri, e dopo
un’ora e un quarto di viaggio scendeva a Nomana.

CAPITOLO VENTISEIESIMO

Uscito dalla stazione s’avviava, sempre con la sua brava cartella sotto brac-
cio, verso casa tra i campi autunnali; malgrado fosse un po’ intontito dalla
stanchezza, c’era nei suoi movimenti un che d’accentuato, di pacificamente
risoluto, come di persona che sa il fatto suo. Certo lui non aveva studiato eco-
nomia al pari d’Ambrogio, e non sapeva niente di prodotto nazionale lordo e
di percentuali d’incremento, ignorava quindi che - continuando così - sia lui
che gli altri operai sarebbero arrivati ad avere, prima d’invecchiare,
l’automobile e l’appartamento: anzi se gli avessero detto una cosa simile, lui
non ci avrebbe assolutamente creduto. Aveva però la consapevolezza - e non
era poco - d’essere col proprio lavoro vitalmente utile ai suoi, alla propria fa-
miglia: a quella attuale e, quando fosse venuto il momento, a quella futura,
che avrebbe formato. Con la Luisina? Probabilmente sì, con la Luisina.
Camminando seguitava, poiché era solo, a tacere come aveva fatto durante
quasi l’intera giornata; in realtà non è che gli fosse mancato il modo di parla-
re, specie in treno; ma a lui, come ad altri, non garbava ripetere cose trite e
inutili, col solo risultato di ‘spendere fiato’. E d’altra parte per uno del popolo
come lui che - secondo ci si esprimeva allora - ‘non aveva studiato’, era diffici-
le parlare di cose meno risapute e usuali, per esempio della sua grande espe-
rienza di guerra e di prigionia. Più volte ci s’era provato: ma si era accorto che
di queste cose poteva parlare con costrutto solo con chi era passato per espe-
rienze analoghe. Gli altri non riescono a capirti, a rendersi con chiarezza conto
dei fatti che tu riferisci. Questo non soltanto in treno o in fabbrica, ma dovun-
que, anche al tuo paese, perfino in casa, dove tua madre - pur agitandosi tutta,
poveretta - finisce solo col provare una gran pietà per te e per gli altri che ci si
son trovati... Così l’enorme esperienza ch’egli aveva messa insieme, e alla qua-
le ritornava a volte col pensiero (il modo di vivere dei contadini tedeschi, la
spaventosa marcia dei profughi prussiani - un popolo intero sradicato dalla
propria terra -, la barbarie indicibile di quei combattimenti tra gente che ave-
va perso il timor di Dio, “Povero cugino Tito ancora in quelle mani!”) tutte
queste cose egli era costretto a tenersele soltanto per sé. Forse un’esperienza
simile avrebbe finito poco alla volta col dissiparsi, col perdersi? No, adesso
egli cominciava ad avere fiducia che no. Grazie alla Luisina, appunto; la quale
aveva tutta l’aria di capire le cose, sembrava addirittura le capisse senza dir-
gliele... Con lei - quando fosse divenuta sua moglie - ne avrebbe parlato, e for-
se in tal modo le avrebbe lui stesso capite meglio. Ne avrebbe magari anche,
chissà, ricavata una sapienza da trasmettere ai figli, al pari di altri che non
avevano studiato, e tuttavia erano più sapienti di tanti dottori e professori.
Nei campi l’erba autunnale, destinata a essere tra poco bruciata dal gelo,
appariva verdissima, turgida d’acqua: i granturchi, smesso il loro precedente
colore maturo, un po’ esotico, ne andavano assumendo uno nostrale tra rug-
gine e grigio, che richiamava alla mente il colore degli uccelli di passo; i filari
dei gelsi si stavano qua e là spogliando e le foglie cadute formavano tante
chiazze sulla terra arata al piede dei tronchi. Ecco la Lodosa, e in fila con gli
altri il casale in cui abitava la Luisina, che a quest’ora - rientrata dalla filatura
- dava certo una mano alla madre nei preparativi della cena.
Finalmente ecco la sua casetta, col minuscolo portico nel quale - sebbene
non fosse ancora buio - la finestra della cucina risultava illuminata. Attraver-
sandolo il giovane salutava sempre col capo l’immagine della Vergine di Cara-
vaggio poi, prima d’entrare in casa, si soffermava a guardare per qualche
istante attraverso i vetri dentro la cucina. C’era sua madre che trafficava alla
stufa, e spesso anche suo padre intento a leggere il giornale spiegato sul tavo-
lo. Martina, la sorella piccola, sedeva composta su una sedia; accanto a lei ec-
co passare la gattina nera, lenta, con la coda tenuta verticale; sul piano della
credenza stava coricata la vecchia sveglia d’ottone che, se tenuta diritta, non
avrebbe funzionato...
Una sera, appena egli aprì la porta, la madre gli rivolse un: «L’hai già sapu-
to, Piero? Te l’hanno detto? È tornato tuo cugino Tito dalla prigionia.»
«Cosa dici? Tito è tornato dalla Russia?»
La madre annuì. «È. ridotto che peserà sì e no quaranta chili, povero fi-
glio.»
«Dov’è adesso?»
«Su a casa sua, al Casaretto.»

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Tito rimase al Casaretto pochi giorni soltanto. Non aveva assolutamente vo-
luto essere ricoverato in un ospedale militare («No, basta, portatemi a casa, a
casa mia»), poi però il dottor Cazzaniga, subito chiamato dai famigliari e tor-
nato un paio di volte di propria iniziativa, era riuscito a farlo ragionare: «Vuoi
morire adesso che sei in Italia? Adesso che hai la possibilità di salvarti?» Ai
famigliari il dottore ripeteva: «Dobbiamo tenerlo in ospedale per qualche set-
timana, quanto basta perché si rimetta un po’ in forze. Nel frattempo gli trove-
remo un posto in sanatorio: perché questo ragazzo va salvato a ogni costo.» Il
dottor Cazzaniga, sempre pallido in faccia e misurato nei gesti, era di carattere
freddo, ma questo caso lo emozionava: fossero occorsi dieci o vent’anni di cu-
re per salvare la vita del reduce - diceva a sé stesso - ebbene per vent’anni egli
non si sarebbe stancato di prodigargliele.
Così Tito, lasciata la stanza mal riscaldata della cascina, ma anche, purtrop-
po, le cure inuguagliabili di sua madre, si ritrovò all’ospedale di Nomana, lo
stesso in cui due anni prima era stata ricoverata la povera Giustina, al pari di
lui malata di tisi. Anche la stanza che lo accoglieva aveva le pareti verniciate
fino al soffitto di colore giallino: il luccichio della vernice però non disturbava
il soldato, proveniente da un mondo di cenci e putredine, al contrario gli dava
se mai un confortevole senso d’igiene. Del resto a queste cose Tito non badava
in alcun modo, ridotto com’era a trentasette chili di peso, e completamente
esausto; più che vivere egli vegetava, al punto che non poteva soffermarsi oltre
un certo tempo su nessun pensiero.
I suoi parenti, gli amici, tutti i compagni di classe gli avevano fatto visita,
chi al Casaretto, chi in ospedale, anche Ambrogio, che pure non lo conosceva
personalmente, si era precipitato da lui dopo che Tito, tramite il cugino Pierel-
lo, gli aveva mandato - sbalorditivamente - a dire che il sottotenente Michele
Tintori di Nova era vivo e gli inviava i suoi saluti dal lager di Susdal. Tito con-
fermò a un Ambrogio emozionatissimo la grande notizia: «Lui non l’hanno
rimpatriato perché per questo primo scaglione hanno scelto solo chi era in
rischio di morire come me, e quelli convertiti al comunismo: che non sono
molti, e anche di questi c’è chi fa soltanto finta, intendiamoci.»
Ambrogio avrebbe voluto fargli un’infinità di domande, e aveva cominciato,
ma smise presto vedendo la fatica che all’altro costava rispondere. Il giorno
dopo tuttavia Tito fu costretto a ripeterle la buona nuova relativa a Michele
anche agli zii di lui, due anziani coniugi che Ambrogio era andato ad avvertire
a Monza, e che l’avevano lì sui due piedi supplicato d’essere accompagnati
all’ospedale.
Sempre più gente intanto veniva, giorno dopo giorno, a chiedere notizie dei
dispersi: stava diventando una processione, perché il portinaio dell’ospedale, e
le stesse suore, non se la sentivano di respingere gente come quella: special-
mente le madri dagli occhi pieni di paura ora che gli pareva - dopo anni di
dubbio dilaniante - d’essere sul punto di conoscere la sorte dei figli. Il rispon-
dere a tante persone però estenuava visibilmente Tito, tanto che alla fine il
dottor Cazzaniga intervenne con energia dando ordini perentori al portinaio e
a tutti, e apponendo all’uscio della sua stanza un cartello a stampa con la scrit-
ta ‘Isolamento - è severamente vietato entrare’.

***
Dopo di che per Tito cominciarono a succedersi giornate finalmente disten-
sive e silenziose, ch’egli trascorreva per lo più in dormiveglia. La suora e i due
infermieri che a turno prestavano servizio nel suo reparto gli dimostravano
ogni possibile premura; dal seminterrato anche suor Agape, la cuciniera, gli
inviava ogni giorno qualche leccornia supplementare, come cioccolato auten-
tico, americano, o primizie di mandarini ed arance; alternandosi tra loro veni-
vano ogni pomeriggio a tenergli compagnia il padre o la madre o suo fratello
Giacomo (il crocifero, come abbiamo già avuto occasione di dire), e tutti ave-
vano cura di non disturbarlo e di lasciarlo il più possibile dormire. Sia pure
con una lentezza che segretamente preoccupava il dottor Cazzaniga, Tito co-
minciò ad aumentare di peso.
Ogni mattina lo veniva a trovare anche don Mario la cui presenza riusciva al
reduce molto gradita: con la sua faccia da bambino con gli occhiali, e i capelli
a spazzola sempre un po’ spiegazzati, il prete gli parlava del recupero definiti-
vo che Dio ha fatto degli uomini a mezzo di Cristo. «Quaggiù non ce ne ren-
diamo ben conto» diceva: «ce ne renderemo conto però quando ci ritroveremo
nell’aldilà, salvi, dopo aver visto tanto male, tanta forza del male. Come hai
visto tu.»
«La forza del male, sì, è vero» diceva a volte il soldato, annuendo: «Proprio
così. Se lei avesse visto!»
Aveva raccontato a don Mario la sua esperienza di Cazan, quei treni carichi
di morti - uomini, donne, bambini - tutti sventrati e cannibalizzati. «Che cose,
don Mario! E chissà quante ne succedono anche adesso, mentre noi ne par-
liamo. Oh che cose!» Guardava con i suoi occhi sofferenti il prete negli occhi, a
cercarvi un appiglio, un aiuto.
«Adesso tu, finché sei in cura, devi sforzarti di non pensarci» lo consigliava
don Mario: «Adesso tu devi riposare, e pensare a una cosa sola, a rifarti le for-
ze.» Ma mentre gli dava questo e simili consigli non riusciva, egli stesso, a
staccare gli occhi della propria mente da quelle orrende visioni.
«Lo diceva il santo curato d’Ars» commentò una volta, rifacendosi alle sue
letture di seminario: «lo diceva che a levare il prete da una comunità, questa si
trasforma in una comunità di belve. Ecco, è proprio vero.»
Tito lo guardava sempre allo stesso modo: «È vero, sì, è così.»
«Tu comunque adesso cerca di non pensarci. Adesso devi pensare soltanto
a guarire.»
«Sì.»
Nel cuore del prete si era però andato accumulando un tale peso, che egli
non riusciva quasi a sopportarlo; certe volte, quando al mattino prendeva tra
le sue la mano del malato e si sforzava di sorridergli, faceva - dati i suoi linea-
menti - una smorfia come di bambino che stia per mettersi a piangere. Tito
per fortuna non aveva la possibilità di indugiare a lungo sulle cose, e si sentiva
ben presto riafferrare dalla semi incoscienza del dormiveglia.
«Però» gli disse una volta don Mario, con una sorta quasi di ribellione:
«anche in Russia una qualche bontà, un qualche barlume, l’avrai pur incontra-
to. Era gente che prima venerava la Madonna, basta pensare a tutte quelle
icone. E non è possibile che in qualche decennio soltanto...» Notò che gli occhi
di Tito lo guardavano fissi, sorpresi. «Voglio dire: qualche caso di bontà l’avrai
incontrato anche tu. Come quelle contadine che - a quanto ho sentito - mas-
saggiavano, senza che nessuno le obbligasse, i piedi congelati ai nostri che gli
capitavano in casa durante la ritirata.»
«Io quello non l’ho visto» affermò Tito. «Ma un caso di bontà... Beh, sì, cer-
to: proprio a Cazan, in quell’ospedale dove le guardie venivano a tirarci giù dai
letti noi prigionieri malati, per condurci a scaricare i treni alla stazione. Là c’è
una dottoressa ucraina, che mi aveva preso a benvolere, come una madre, e mi
ha fatto mangiare una quantità di cose buone. Perché anche allora ero molto
deperito: tanto che senza di lei sarei morto.» Fece una pausa: «Quando suor
Agape mi manda su dalla cucina le cose buone, mi viene sempre in mente
quella dottoressa ucraina, la sistrà (sorella) Evghenia; sempre. Chissà adesso
come andranno le cose là nell’ospedale di Cazan...»
Anche per don Mario quel lontano episodio aveva finito col costituire un
motivo di conforto.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Un giorno, mentre Tito era solo, entrò nella sua stanza l’ex partigiano Sèp,
ch’era suo lontano parente per parte di madre. «Come va, cugino?» lo salutò
in dialetto: «Son proprio contento che sei tornato.»
«L’importante è esser vivi» gli rispose Tito, sorridendo.
«Ecco, bravo.» Sèp gli strinse, non senza emozione, la mano con la propria
sinistra in quanto aveva la destra fasciata e sospesa al collo mediante una
sciarpa. Poi, sempre con la sinistra, batté amichevolmente su una spalla del
malato: non s’aspettava di sentire sotto le dita le ossa e ossicine sporgenti
dell’altro.
«A questa mano m’hanno operato ieri» dichiarò un po’ impacciato mo-
strando la destra rivestita di garze. «Lo sai, no? Il dottor Cazzaniga, a lasciarlo
fare, opererebbe anche la Madonna di gesso delle monache.»
Tito sorrise. «L’avevo sentito infatti che ti hanno operato.» L’altro intuì che
allora doveva essere al corrente anche dei suoi trascorsi partigiani e del suo
attuale attivismo nel partito comunista. «Boh» fece, e alzò marcatamente le
spalle, a significare che comunque a lui non importava niente sia
dell’operazione chirurgica, che delle riserve della gente, che delle eventuali
riserve dello stesso Tito.
A quest’ultimo riguardo tuttavia non era sincero, tanto che poi nel parlare
gesticolava più del necessario, a momenti anche con l’ingombrante destra fa-
sciata; cominciò col farsi beffe del cartello ‘Isolamento - è severamente vietato
entrare’ appeso fuori della porta; al che Tito gli sorrise, con popolana compli-
cità. Notava intanto che il viso di Sèp - sebbene questi avesse soltanto
vent’anni - si stava già raggrinzendo intorno al naso e sulla fronte; ma i visi
raggrinziti - ricordò il malato - erano un distintivo della famiglia di Sèp.
«Non ti siedi un momento?» gli propose.
L’ex partigiano prese allora posto sull’unica sedia del locale, sulla quale se-
devano di solito don Mario e Giacomo il crocifero; accavallò le gambe piutto-
sto lunghe, distintivo di famiglia anche questo.
Il malato gli chiese notizie dei comuni parenti, e Sèp nel dargliele si diffuse
con qualche prolissità; parlò quindi delle difficoltà del momento, tenendosi
però sempre sulle generali, tanto che Tito pensò non ci sarebbero state discus-
sioni, e ne fu lieto, perché l’idea di discutere non l’attirava in alcun modo.
Costituì tuttavia pietra d’inciampo una delle abituali frasi di Sèp, pronun-
ciata senza riflettere: «Peccato che Stalin non sia arrivato fin qui, perché le
cose le avrebbe sistemate lui.»
Tito impallidì un poco. «No» ribatté con calma: «Quello avrebbe soltanto
chiuso in prigione e fatto morire un mare d’operai e di contadini, senza siste-
mare niente.»
A quest’uscita Sèp azzittì; nel suo atteggiamento affiorava l’insofferenza
propria del dogmatico che viene contraddetto, insieme però gli si disegnava in
viso anche un principio di preoccupazione, la preoccupazione che l’altro con-
fermasse certe notizie circolanti nell’ospedale. Quelle sconvolgenti notizie
erano state in realtà il principale movente della sua visita.
«O Tito, non ti sarai messo anche tu coi fascisti, per caso?» esclamò.
«E perché?» rispose Tito: «E da quando in qua? Dopo che hanno perduta la
guerra mi sarei messo con loro?»
«Beh, guarda, non discutiamo» fece Sèp; ma era un proposito velleitario:
l’ultima cosa che avrebbe voluto era di rinunciare davvero a proseguire quel
discorso.
«Ecco, va bene, non discutiamo» aderì incondizionatamente Tito: «oltre
tutto io non me la sento proprio.»
Sèp stava sulle spine. «Tu lo sai che io sono stato partigiano?» buttò fuori:
«Partigiano comunista? E che adesso, qui in paese, sono in politica?»
«Sì, lo so. E allora? Vuoi che per questo non ti dica la verità? Però ascolta:
hai appena detto che non dobbiamo discutere, dunque basta.»
«Tu Tito non puoi metterti dalla parte dei signori. In fin dei conti sei anche
tu un povero diavolo come me» insisté quasi aggressivo l’altro.
«Anche più povero, se è per questo, specialmente di salute.»
«Ecco. Dunque fai male a metterti contro il popolo, lasciamelo dire. Devi
piantarla di raccontare in giro quelle cose che t’hanno messo in bocca... chi?
Saranno stati gli ufficiali, i signori insomma, che sono poi i responsabili d’ogni
miseria dappertutto. Non ti rendi conto?»
«Le cose che m’hanno messo in bocca?» Tito sbuffò. «Senti, tu parli di po-
vera gente, parli di miseria» disse lento, volgendo verso l’altro il viso gonfio
sul collo scarnito: «Lo sai che in Russia c’è molta, ma molta più miseria che
qui da noi?»
«È impossibile.»
«Molta di più. Senza confronto. E quanto ai responsabili... là i responsabili
sono i tuoi comunisti, perché sono loro i padroni di tutto. E trattano la povera
gente in una maniera che i padroni di qui non l’hanno fatto mai. Ecco come
stanno le cose.»
A sentir parlare a quel modo dei comunisti da uno ch’era stato in Russia,
negli occhi di Sèp passò un’ombra di paura. «Tu non puoi avere visto molto»
esclamò «sei sempre stato al chiuso, non hai visto quasi niente.»
«Senti ragazzo, io sono stato là più di tre anni» disse Tito. Sembrava voler
aggiungere altro, ma alzò le spalle e si riaccomodò nel letto. «Va bene. Vuol
dire che quando voglio sapere come stanno le cose in Russia, me lo faccio
spiegare da te. E adesso cambiamo discorso.»
Ci fu una lunga pausa; Sèp, era chiaro, non voleva che l’incontro si conclu-
desse a questo modo.
«Però hanno ragione» non seppe trattenersi dall’osservare Tito «quelli che
dicono che voi comunisti avete portato tutti la testa all’ammasso. È proprio
così. Pare impossibile, la testa all’ammasso. Anche tu.».
Sèp a questa uscita aprì e chiuse un paio di volte la bocca per replicare, ma
non lo fece. Tito s’aspettava d’essere insultato: era chiaro che la sua accusa,
d’avere portata la testa all’ammasso, doveva riuscire particolarmente insop-
portabile all’altro, che in fin dei conti si era ribellato alla dittatura al punto da
combatterla con le armi.
Il reduce provò un senso di malinconia; Sèp riuscì ad ogni modo a dominar-
si, non cedette all’irritazione. Si limitò a dire: «Tito, tu sbagli e fai male a... a
metterti contro la speranza della povera gente. Ecco.»
«Piantala Sèp, piantala. Quale speranza? Quella del comunismo è solo un
inganno, non è una speranza.»
Sèp finì con l’alzarsi in piedi; considerò ancora una volta il malato, rivelato-
si così irriducibile. «Cugino, oggi non avevo in mente di discutere con te» di-
chiarò, «non volevo stancarti o metterti in agitazione (tratt all’ari). E invece ti
ho messo in agitazione, mi dispiace. Adesso è meglio che me ne vada; però io
qui ci torno ancora. Perché la testa all’ammasso non l’ho portata.»
«Lascia perdere» disse Tito con stanchezza: «Non volevo mica offenderti.»
«No» continuò l’altro «devi dirmi tutto quello che hai visto.»
«Soltanto brutte cose» mormorò Tito.
«Va bene, mi dirai quelle. Ritorno domani. E tieni bene a mente che io la
testa all’ammasso non l’ho portata.»
Sèp intendeva effettivamente tornare l’indomani. Ma quel giorno stesso il
dottor Cazzaniga lo tolse di torno, dimettendolo dall’ospedale.
PARTE SECONDA

CAPITOLO PRIMO

Anche il rosso 1945 ebbe termine, sprofondò nel baratro degli anni finiti,
col suo carico di speranze, d’assassini, di sforzi, di grida rimaste a mezz’aria.
L’azione politica spicciola di Luca e Ambrogio e degli innumerevoli altri
come loro sparsi dovunque in Italia, cominciò a rivelarsi efficace quando, nella
primavera del 46, furono tenute qua e là - anche con intenzione d’assaggio - le
prime elezioni amministrative. Il partito d’ispirazione cristiana si dimostrava
in grado di tener testa a quelli marxisti: anzi l’unico in grado, tutti gli altri an-
davano rivelandosi poco consistenti.
A Nomana come dovunque la radio e i giornali diffondevano dopo ogni
giornata elettorale i risultati. «Vedete? Non ci siamo sbagliati» si commentava
la sera durante le riunioni all’oratorio maschile: «Adesso quel che occorre è
perseverare, non contentarci.»
«Dobbiamo anzi aumentare gli sforzi. Perché non basta vincere le elezioni
qui nei nostri paesi: bisogna mettere insieme quanti più voti possibile per
fronteggiare quelli delle zone rosse» affermava e ripeteva Luca.
Ad Ambrogio tornava in mente la situazione nell’esercito: come là, anche
nella vita civile erano gli individui più disposti a portare il peso, che facevano
procedere le cose per tutti.
Tanto più se ne convinse dopo che il governo legittimo, d’accordo con gli
‘alleati’, ebbe fissata al 2 giugno la data della prima consultazione generale:
per la scelta tra repubblica e monarchia, e per l’elezione dei deputati
all’assemblea costituente. Il giovane poté constatare coi propri occhi che an-
che a Milano il lavoro del partito d’ispirazione cristiana aveva carattere quasi
del tutto volontario o, come allora si diceva, spontaneistico. Aveva adottato il
sistema di passare una o due volte la settimana - tornando dall’università -
dalla sede provinciale della democrazia cristiana, situata in un vecchio palazzo
del centro nei pressi della Scala. Ritirava il materiale propagandistico destina-
to a Nomana (volantini, opuscoli, i primi manifesti) ed eventuali direttive.
L’ambiente umano, lo stile, erano quelli ch’egli conosceva bene dell’Azione
Cattolica: si rese anzi conto che il partito, a Milano come a Nomana, finiva con
l’essere una filiazione diretta dell’Azione Cattolica.
Con l’approssimarsi delle elezioni nella sede milanese i collaboratori anda-
rono crescendo di numero, il materiale da ritirare si fece più abbondante, Am-
brogio fu costretto più d’una volta a scendere a Milano in automobile anziché
in treno, perché diversamente non gli sarebbe stato possibile portarselo via
tutto. In paese si formarono per l’affissione dei manifesti squadre di ragazzi
dell’oratorio, che eseguivano il loro lavoro con entusiasmo, vociando, ridendo,
servendosi d’un paio di traballanti scalette. Uno dei loro leaders (sempre per
esprimerci secondo la terminologia che stava entrando in voga allora) era Sau-
lo, il figlio maggiore dell’autista Celeste. Nessuno in quei giorni si sarebbe
immaginato che quel ragazzino magro e volonteroso avrebbe ripetuta la vi-
cenda di Gerardo, creando nel giro di pochi decenni un’industria del valore di
miliardi, e che sarebbe inoltre diventato sindaco di Nomana.
In paese e nelle frazioni anche gli attivisti comunisti e socialisti si davano da
fare: le notizie che giungevano dalle zone rosse della pianura dove il loro pre-
dominio era incontrastato, li inducevano a credere di poter vincere le elezioni
sul piano nazionale, sebbene avvertissero che la gente del paese, anzi della
Brianza in genere, invitata a scegliere tra loro e i cristiani, anziché suddivider-
si, tendeva a identificarsi con i cristiani. Della classe operaia, di cui essi a quel
tempo si dichiaravano apoditticamente gli unici interpreti, solo una parte e -
almeno in Brianza - non certo la migliore, era effettivamente con loro.
Una sera davanti alla fabbrica di Gerardo un attivista della ‘camera del la-
voro’ d’Incastigo, salito in piedi su un tavolino, invitò gli operai a non votare
per il partito cui appartenevano anche i padroni; affermava e ripeteva (in
buona fede, essendo marxista) che gli interessi degli uni erano inconciliabili
con quelli degli altri: gli riusciva irritante constatare che gli operai pensavano
precisamente il contrario. Terminò con grida di «Abbasso i padroni - I padro-
ni a piazzale Loreto» e simili. Un operaio in tuta chiese allora la parola, e bal-
zato a sua volta sul tavolino: «Ho da dire anch’io qualcosa a proposito dei pa-
droni» asserì in dialetto. Era un giovane molto attivo, tornato dalla prigionia
in Germania; Luca, ch’era presente, si fece inquieto: possibile che quello aves-
se abboccato alla propaganda dei rossi?
«Voglio dire una cosa sola» esclamò l’operaio alzando la voce: «quando io
stavo in Germania, e la mia famiglia, come voi sapete, s’è trovata nel bisogno,
l’aiuto non gliel’hanno dato i sindacati, ma il padrone. Se siamo uomini, que-
ste cose dobbiamo ricordarle» gridò «non dobbiamo dimenticarle.» E dopo
essersi guardato attorno alquanto, in attesa di possibili contradditori, balzò
giù dal tavolo, mentre parecchi dei presenti convenivano, e anzi qualcuno ap-
plaudiva.
«Perché» si fece allora avanti un operaio anziano, rivolgendosi al sindacali-
sta «venite qui a parlare di piazzale Loreto? Perché dovremmo uccidere il pa-
drone o chiunque altro? Sempre di uccidere si deve parlare? Cosa siamo di-
ventati, bestie feroci?»
Quando Gerardo riseppe, poco più tardi, l’episodio ne rimase toccato; nei
giorni seguenti i figli lo udirono ripetere più duna volta: «Abbiamo degli ope-
rai (‘delle maestranze’ egli diceva) migliori di noi», e: «Per questa gente dob-
biamo trovare il modo di fare di più...»
I comizi dei rossi non diedero a Nomana il risultato sperato dai loro orga-
nizzatori, né la conquista della direzione socialista da parte del Pollastri - che
era effettivamente riuscito a ‘fare le scarpe’ al Benfatti - giovò loro. A un comi-
zio davanti a un cantiere della vetreria (era iniziata la costruzione d’un altro
capannone) si verificò un mezzo incidente: uno degli assistenti del cantiere
prese il Foresto per il bavero: «Dov’è finita quella disgraziata del Raperio?
Cosa ne avete fatto?» si mise a urlare, reagendo alla qualifica affibbiata
dall’altro ai nomanesi di ‘gente addormentata’: «Cosa pretendete d’insegnare
a noi, voi che siete degli assassini?» I muratori ed altri operai presenti inter-
vennero, separarono i due, spinsero via il Foresto: «Va, va, tornerai un’altra
volta, adesso lascia perdere» gli dicevano.
Ai comizi del partito cristiano (tutti tenuti al chiuso, nel modesto salone
dell’oratorio) il pubblico partecipava via via più numeroso. L’ultimo di tali
comizi ebbe luogo l’antivigilia delle elezioni: in paese era già arrivata la polizia
che avrebbe dovuto sorvegliare l’ordine pubblico (in pratica i seggi elettorali),
costituita da giovani appena incorporati, tutti ex partigiani con la divisa nuova
nuova. A costoro l’ambiente di Nomana non piacque: alcuni assistettero - an-
che se non avrebbero dovuto - al comizio nell’oratorio, e lungi dal curare
l’ordine, lo disturbarono per la prima volta seriamente, mettendosi a sbraita-
re; uno fu addirittura colto da una crisi isterica, si videro alla fine tre o quattro
poliziotti seguire urlando e insultando, attraverso la piazza del paese, l’oratore
che camminava tra Luca e Ambrogio.
Anche questo fatto giovò: alla votazione per l’assemblea costituente il parti-
to cristiano ottenne il 56 per cento dei voti, contro il 44 degli altri partiti nel
loro insieme. Non molto diverso fu il risultato nei vicini comuni della Brianza
milanese; in quelli comaschi - a Visate per esempio - il partito cristiano otten-
ne una percentuale di voti ancora superiore.
Quanto alla scelta istituzionale nella zona prevalsero in genere i voti per la
monarchia: più però per reazione alla feroce propaganda in contrario dei ros-
si, che per fiducia in un istituto i cui rappresentanti conducevano da sempre
una vita agli occhi del popolo poco convincente, se non addirittura dissipata.

CAPITOLO SECONDO

In agosto giunse a Nomana Colomba, con la madre e il padre, il quale aveva


in animo di vendere ‘I dragoni’, la villa ereditata da Eleonora. Gerardo, Giulia,
Ambrogio e Francesca (gli altri della famiglia erano in montagna) si recarono
a far loro visita: non vedevano Colomba da due anni, dal giorno in cui c’erano
stati i funerali della vecchia Eleonora. Sentivano per la ragazza una grande
pietà, in particolare Francesca, che trovandosi ora fidanzata all’Andrea Mar-
savi si prospettava lo strazio per cui l’altra doveva essere passata in seguito
alla morte del fidanzato. Ricordava che Manno gliel’aveva raccomandata (su
questo non scherzava più adesso) e avrebbe voluto essere per lei come una
sorella: le esternò la propria pietà gentile, la invitò con insistenza: «Vieni da
noi, anche tutti i giorni se ti fa piacere. Ci terremo compagnia: qui da sola po-
tresti... annoiarti.» (Intendeva, era evidente, potresti immalinconirti.)
«Cosa devo fare, ci vado?» domandò, partiti i visitatori, Colomba alla pro-
pria madre. «Credi che me lo impongano le convenienze?»
«Non pensare alle convenienze. Ci vai se ti fa piacere» le rispose la madre.
«Del resto perché no? Francesca è una ragazza simpatica.»

***
Così Colomba si recò in visita da Francesca. Attraversò Nomana per il mez-
zo, lungo le strade acciottolate, rese polverose dalla calura; ricordava d’averle
percorse altre volte con lentezza, al braccio della prozia Eleonora, per andare
in chiesa o tornarne. Passando davanti all’arco scemo della corte di Sansone
gettò un’occhiata curiosa all’interno: c’erano le solite donne anziane sedute a
sferruzzare nell’ombra dei gelsi, davanti alle stalle si scorgevano ancora i carri
stracarichi d’erba, le rondini andavano e venivano raso terra come negli anni
passati, felici d’essere al mondo.
La giovinetta ricordò l’interesse di Manno per il nido di rondini che stava
nell’androne de ‘I dragoni’ (quest’anno il nido non c’era più); l’aveva presa un
po’ in giro per lo scodellino con pane e latte che lei aveva sistemato accanto ai
nidiacei: «Dovevi metterci la grappa, non il latte» le aveva detto, o qualcosa di
simile, con uno scherzo di parole soldatesco di cui nemmeno oggi lei afferrava
del tutto lo spirito. “Allora poi avevo solo diciotto anni”.
Adesso che di anni ne aveva ventuno si era fatta ancora più bella, glielo di-
cevano gli sguardi della gente che incontrava: sei bella sembravano dirle. An-
che in piazza c’erano, guarda, molte rondini come un tempo, e a lei che
l’attraversava di buon passo, volavano più vicine del dovuto, qualcuna perfino
(impertinente!) sfiorandola con agreste galanteria: sei bella, lo sai? sei bella,
parevano gridarle involandosi; anche le sue scarpette glielo sussurravano, pic-
chiettando sull’acciottolato: sei bella Colomba, sei bella. “Eh...” si schermiva
lei, tra compiaciuta e malinconica. Passò sotto il campanile, che aveva le cam-
pane nuove, splendenti, passò davanti alla casa d’Igino, che lei però non cono-
sceva. Ecco la cancellata dei Riva (tuttora di legno) e al di là della cancellata il
prato e la vecchia casa ch’era stata una fabbrica, e il giardino dagli alberi color
verde cupo; la ragazza fece il suo ingresso salutata (anche qui: sei bella!) con
simpatia dalla portinaia.
Rimase con Francesca e Giulia l’intero pomeriggio. L’incuriosiva l’ambiente
ch’era stato di Manno, certe notizie relative agli anni più lontani di lui; l’aveva
frequentato così poco, Manno, che nell’apprendere questo o quel particolare
della sua vita da lei finora ignorato, provava la strana impressione di non
averlo, in realtà, conosciuto veramente.
Francesca e Giulia non le parlarono però soltanto di Manno, ebbero cura
d’intrattenerla anche con discorsi di poco impegno, da vacanza, distensivi; la
giovinetta riferì a sua volta qualche esperienza universitaria: «Frequento
scienze biologiche a Pavia, lo sapevate?»
No, non lo sapevano. «Ma perché a Pavia, e non a Milano?» le domandò
Francesca.
«Perché a Milano scienze biologiche non c’è.»
«Oh, guarda!» disse Francesca. «Io invece, tu lo sai, mi sono fermata al di-
ploma di maestra, non ho continuato. Chissà se ho fatto bene.»
«E Alma? Ha intenzione di continuare o no?» chiese Colomba. «È incerta.
Si è diplomata maestra il mese scorso, lo sapevi?»
«Sì.»
«Adesso non ha ancora deciso se continuare.»
«La nostra Almina» fece con tenerezza la madre.
«Quel gattino di marmo» celiò Francesca.
«Domani io devo raggiungerle in montagna, lei e la Giuditta» dichiarò la
madre, e con espressione dialettale: «quei due ‘pastrugni’ (pasticci).»
«Chissà cosa staranno combinando quelle due» disse Francesca. «Ma tu
piuttosto va avanti, raccontaci di Pavia.»
Colomba continuò; ciò che riferiva interessava realmente le ospiti, specie
Francesca. Alla giovinetta quell’interesse riusciva gradito; finì con l’accettare
volentieri l’invito a tornare anche il giorno dopo, al mattino.
Tornò poi anche il seguente (Giulia era partita ormai per la montagna) e i
successivi; portava con sé, in una borsa, il suo lavoro, e conversava sferruz-
zando. «Qui da voi mi piace» diceva talvolta a Francesca: «Ci sei tu, ci tenia-
mo compagnia. Mia madre? Beh, la sua compagnia ce l’ho già tutto l’anno.»
«Non quando sei a Pavia magari.»
«Quando sono a Pavia no.»
Di Manno parlavano sempre meno.

CAPITOLO TERZO

Ambrogio, che aveva rinunciato alla villeggiatura per studiare, si ritrovava


continuamente la ragazza sotto gli occhi. Se lo notavano gli altri ch’era bella,
tanto più lo notava lui.
In quei giorni estivi il suo posto di studio era tornato a essere sotto l’albero
di fico: sedeva nella sdraio, proprio come quando era studente prima della
guerra, e lavorava contemporaneamente a tre esami; teneva i libri accatastati
accanto a sé nell’erba, alternando le materie al fine di resistere il più a lungo
possibile senza alzarsi. Mentre studiava gli giungevano a tratti dal tetto gli im-
provvisi battibecchi delle passere rissose e, più di raro, dal folto degli alberi la
cascatella di note del capinero, che è come la voce dell’estate in Brianza.
‘L’attività del curatore è diretta, oltre che alle funzioni gestorie - e anzi con
maggiore intensità e frequenza - alle due serie di operazioni che conducono
alla liquidazione dell’attivo e del passivo.’
Talvolta giungeva alle sue orecchie anche il chiacchiericcio delle due ragaz-
ze, specie quando passeggiavano in giardino o si recavano nell’orto a cogliere
qualche verdura; Colomba infatti volontieri aiutava Francesca a sbrigare qual-
cuna delle piccole faccende di casa. ‘La liquidazione dell’attivo è preceduta - o
accompagnata - dalla ricostruzione dell’attivo stesso, o massa attiva: ossia
da quanto giova a far rientrare nel patrimonio del fallito elementi che ne
siano usciti indebitamente... usciti indebitamente...’ “Che? Elementi usciti
indebitamente? Beh, è chiaro. Dai andiamo avanti.” Una vera fatica non la-
sciarsi distrarre.
Di solito verso le cinque le due ragazze venivano da lui col vassoio del tè:
«Su, pozzo di scienza» diceva Francesca: «fa lo sforzo d’interrompere per
qualche minuto.» Sebbene intorpidito egli si alzava con prontezza in piedi, e
metteva a disposizione la sua sedia a sdraio; in genere però le ragazze preferi-
vano sedersi quietamente nell’erba, armeggiando alquanto per non rovesciare
le loro tazzine. Chiacchieravano un po’ di questo e di quello.
“Cos’ha perso Manno, cos’ha perso!” considerò più d’una volta il giovane,
non potendosi impedire di notare l’avvenenza di Colomba; e anche: “È più
bella di Fanny, non c’è dubbio. Ma” concludeva vagamente “non esiste soltan-
to la bellezza a questo mondo”.
Alla fine Francesca diceva magari: «Adesso sarà bene che noi due ce ne an-
diamo, che non insistiamo in questo delitto di fargli perdere tempo.»
«Non avete idea di quanto mi dispiaccia non potervi tenere compagnia» di-
chiarava con sincerità Ambrogio.
«Come ti credo!» diceva Francesca.
«Non lo dico per te, è chiaro.»
Colomba gli sorrideva a titolo di ringraziamento, e al pari di Francesca
s’alzava in piedi; raccoglievano le poche stoviglie e se ne andavano.
‘Con riferimento alle persone dei contraenti...’ “Cosa dice questo qui? le
persone dei contraenti? Ah già...” ‘principio fondamentale è che il contratto
ha, anzitutto, efficacia tra le parti (art. 1321, e 1372 primo comma).’ “Non
sarà che in fin dei conti io mi sto comportando da villanzone? Dopo tutto, un
minimo di buona creanza m’imporrebbe di far loro compagnia, almeno ogni
tanto...” Quando gli giungeva di nuovo la voce delle due ragazze che magari,
tra le vicine aiole dei fiori, confabulavano di tecniche coltivatorie col giardinie-
re-portinaio, gli riusciva veramente improbo tener fissa la mente sul diritto
fallimentare, o sulla dottrina dei contratti, o sulla storia economica del profes-
sor Fanfani.

Finì, una volta, con l’alzarsi in piedi: raggiunse le due ragazze e si affiancò
loro; con sorpresa di Francesca si mise a parlare dei fiori.
I suoi erano ragguagli decisamente pedestri, lo stesso giovane se ne rendeva
conto, tanto che: «Ci vorrebbe qui Manno» concluse: «Lui sì che conosceva
bene le piante e i fiori; come gli animali del resto, specialmente gli uccelli.»
«Sì» disse Francesca «Manno conosceva tutte le cose belle.»
«È vero» convenne Colomba. E ad Ambrogio: «Però anche quello che dici
tu è interessante.»
«Beh.»
«No, dico sul serio.»
Era sincera. Anzi se avesse saputo leggere meglio in sé stessa, si sarebbe re-
sa conto che il modo di parlare d’Ambrogio, concreto e pratico, le era più con-
geniale di quello di Manno.
Un giorno, di primo pomeriggio, il giovane fece un passo avanti: si offrì
d’accompagnare le due ragazze a fare una passeggiata in bicicletta. «Eh, cosa
ne dite? Siamo in agosto: così prendo qualche ora di vacanza anch’io.»
«Oh, finalmente. Però quasi non credo ai miei orecchi» commentò France-
sca: «Qui va a finire che si mette a piovere anche se c’è il sole.»
Diedero a Colomba la bicicletta di Alma; in poco meno d’un’ora raggiunsero
e poi - come impropriamente s’espresse Ambrogio - ‘circumnavigarono’ il la-
ghetto di Pusiano, l’Eupili del Parini.
Sul finire della circumnavigazione, ricordando certi versi studiati a scuola,
Colomba domandò quale fosse il ‘clivo di Brianza’.
«Un clivo?» le rispose allegramente Ambrogio, che non ne aveva la minima
idea: «Di clivi qui intorno, come vedi, ce n’è un mucchio: quasi quasi non ci
sono altro che clivi.»
«Dico quello dove danzava la donna di Brianza amata dal Foscolo.»
«Ah, pensa un po’, io credevo si trattasse d’una citazione del Parini.»
«Ma no, sta nell’episodio con cui si concludono ‘Le Grazie’» disse Colomba.
«Aspetta, l’abbiamo studiato a memoria e qualcosa dovrei ricordare: ‘Vaga e
felice i balli e le fanciulle...’ ecco, sì ‘di nera treccia insigni e di sen colmo - sul
molle clivo di Brianza un giorno - guidar la vidi.’
«Che brava!» fece Ambrogio. «E poi il pozzo di scienza sarei io! Sei sicura
però che quella danzava proprio in questi paraggi?»
«Sì, certo, perché c’entra anche il lago. Infatti a un certo punto lei ‘oblia’ le
vesti allegre, ‘e se alla luna’ eccetera ‘più azzurro il scintillante Eupili ondeg-
gia... plora col rosignuol’.
«Oh poveretta! E perché plora?»
«Mah, pene d’amore credo. Ad ogni modo esattamente non ricordo.»
I tre giovani si misero a ridere con allegria. Quella Brianza - settecentesca e
un po’ pagana - era infinitamente lontana da loro, apparteneva a un’altra cul-
tura, la stessa dei nobili e proprietari terrieri, una cultura scomparsa al pari
dell’ignota donna di Brianza cantata dal Foscolo. Adesso, dopo l’avvento della
cultura paolotta del popolo, il tipo della donna di Brianza era se mai la Lucia
manzoniana, questa sì ancor viva e presente in mezzo alla gente. Come che sia
quella lontana, neoclassica vicenda, non li riguardava.
Intanto a passeggiare senza pensieri a quel modo in bicicletta tra campi,
‘clivi’, boschi e lago, in compagnia di due ragazze dalle gonne variopinte, Am-
brogio finiva col vergognarsi un po’: “Neanche fossi un ragazzino!” Per met-
tersi in pace si disse alquanto vilmente (cosa che non gli era abituale): “In
fondo la colpa è di mio padre, che mi costringe, a venticinque anni, a fare an-
cora lo studentello”.

***
Fosse o no colpa di suo padre, di lì a qualche giorno, senza che le ragazze
glielo chiedessero, egli propose loro di fare un’altra passeggiata. E avendogli
Francesca ricordato che nel giardino dei Marsavi a Visate c’era il campo da
tennis, ve le accompagnò senz’altro per una partita. Colomba dimostrò di sa-
per giocare bene, certamente meglio dei due Riva, e mostrò sopra tutto di di-
vertirsi un mondo. Ragion per cui Ambrogio nei giorni successivi, sempre con
Francesca, ve l’accompagnò altre volte ancora.
Quanto mai entusiasta d’una simile frequenza della sua fidanzata (France-
sca appunto, alla quale i genitori non avrebbero mai permesso di recarsi da
sola a Visate) si dimostrò l’Andrea Marsavi, tanto che commetteva lui pure
l’inaudito scempio d’abbandonare il lavoro per partecipare al gioco. «In tre»
spiegò la prima volta mentre usciva dal salumificio a uno dei suoi fratelli (ne
aveva otto di fratelli) «non potrebbero giocare. E in fin dei conti siamo nel
mese d’agosto.»
«Certo. Chi ti dice niente?» gli rispose il fratello.
«Beh, è inutile che mi guardi come fossi un debosciato» esclamò Andrea
quasi con irritazione: «Io ci vado lo stesso, va bene?»
«Ma chi ti guarda?» disse l’altro, tentennando la testa divertito.
Fabbrica, uffici, casa, giardino dei Marsavi, ogni cosa confinava, anzi addi-
rittura s’intersecava; al campo da tennis, situato in mezzo al giardino, giunge-
vano ogni tanto le grida dei poveri suini morituri, sospinti verso le catene di
lavorazione.
Andrea giocava con forza, raggrinzendo nei momenti difficili il naso affilato;
era così preso della sua Francesca, che malgrado l’innata cortesia si accorgeva
a malapena degli altri: la gioia d’averla vicina gli sprizzava dal giovane viso.
Francesca in qualche modo ne riverberava. Non dava importanza al gioco,
nel quale del resto - senza per nulla preoccuparsene - era poco abile; per lei il
gioco era soltanto occasione: con la pesante treccia castana attorno alla testa
gustava in pace la vicinanza del giovane cui voleva bene, le ore buone che la
Provvidenza le concedeva. “Non è una donna: è la donna” pensava allora di lei
Andrea, e s’esaltava: “è ‘la donna eterna’.” In quei giorni d’innamoramento si
ritrovava un po’ poeta anche lui.
Colomba giocava per il gusto di giocare: s’impegnava a fondo, il bel viso le
s’arrossava gradatamente per la traspirazione, i ridenti occhi grigio-azzurri
brillavano, quando un colpo le riusciva bene lanciava esclamazioni gioiose.
Ambrogio non poteva impedirsi d’osservarla; ogni tanto naturalmente
scambiava con lei e con gli altri qualche frase, sopra tutto però rifletteva e -
cosa per lui nuova - perfino fantasticava: questa ragazza non somigliava affat-
to a una donna greca, come a suo tempo sosteneva Manno. “Beh, nel fisico
può darsi, qualche cosa di classico magari c’è: nella testa forse. Anche se il na-
so, per fortuna, a guardarlo bene non è a quel modo, non continua la linea del-
la fronte. Quanto allo spirito però, è escluso che sia greca”. Ma poi: “Che razza
di ragionamento ‘a pera’ sto facendo? Cosa ne so io di com’erano le donne gre-
che? E tanto più nello spirito?” Riconosceva di non averne la minima idea.
“Beh, una cosa è certa: che non potevano avere uno spirito moderno come
quello di Colomba.” E di nuovo, dopo averla - senza darlo a vedere - osservata
e ancora osservata: “Macché donna antica. È una ragazza di oggi, e una gran
bella ragazza anche; ecco cos’è”.
Una ragazza della cui vicinanza, col passare dei giorni egli s’inebriava sem-
pre più.

CAPITOLO QUARTO

Finì col rendersene conto. Durante le ore di studio, alle quali riservava pun-
tigliosamente la mattinata (che, proprio per eliminare le occasioni d’incontro,
adesso non trascorreva più all’ombra del fico, ma in casa, nello studio pater-
no) provava una crescente, straordinaria impazienza che venisse il pomeriggio
e con esso il momento di rivedere Colomba. Fanny - egli constatava - non ave-
va mai esercitato su di lui un’attrattiva tanto forte.
“Ehi, ehi” non mancò d’ammonirsi: “Ricordati che questa è la ragazza di
Manno!” Non gli sembrò tuttavia il caso di drammatizzare: “In che modo po-
trei dimenticarlo? Di cosa mi preoccupo? Dai, non creiamoci fisime inutili”.
Quanto a Colomba, alla quale la presenza d’Ambrogio riusciva allo stesso
modo sempre più gradita, non se ne faceva un problema: era a sua volta de-
terminata, in linea di principio, a conservarsi fedele alla memoria di Manno,
non le sarebbe venuta meno proprio col cugino di lui: “Come se, oltre tutto, al
mondo ci fosse soltanto questa famiglia”. Il solo fatto che le passassero per la
testa simili pensieri avrebbe dovuto metterla in guardia, era però troppo sem-
plice e sprovveduta per rendersene conto.
Intanto più frequentava Ambrogio, più il giovane le piaceva: certo non era
brillante come Manno, la cui forte personalità l’aveva a suo tempo abbagliata.
Ambrogio però, che dimostrava in ogni circostanza spirito pratico, e anche se
credente non avrebbe mai parlato di predestinazione, né mai l’avrebbe para-
gonata a una pianticella, le riusciva in fondo assai più vicino. “Devo ammette-
re che mi fa sentire sempre a mio agio: ha i piedi ben piantati sulla terra, con
lui mi trovo bene”. Per lo stesso motivo, per lo spirito pratico che vi si respira-
va, le riusciva congeniale anche l’ambiente di Visate, in cui il lavoro s’infiltrava
coi suoi rumori, e qualche volta anche odori, da per tutto, anche nel campo da
tennis. Così, tenendosi entrambi scarsamente in guardia, la reciproca attratti-
va cresceva tra loro, com’è nell’ordine di natura.
Fine della natura è anche il congiungimento fisico. Ambrogio, che rifuggiva
per sistema dalla sensualità - a ciò educato con fermezza sin dall’infanzia - fu
il primo ad avvertirlo. Gli accadde all’improvviso, in occasione d’un piccolo
episodio, tanto piccolo che non fu neppure un episodio: mentre durante una
partita egli osservava senza darlo a vedere la sua compagna, questa tutta presa
dal gioco fece alcuni salti avanti e di lato, per cui la gonna le si sollevò al punto
da scoprirle le gambe fino all’inguine. Sebbene usasse nei momenti di maggior
foga tenersi la gonna a posto con la mano libera, non era la prima volta che
questo le accadeva: stavolta però il giovane non riuscì a rimanere insensibile,
provò anzi un’emozione così forte quale, in quest’ordine, non aveva ancora
sperimentato in vita sua.
“Acc... accidenti” si disse mentalmente, accusando il colpo. “Che razza di
scossa! Beh, dai, non dimenticare che hai provato altro, tu che hai visto la
morte in faccia tante volte.” Sì, ma questa era un’emozione del tutto diversa, e
non era qualcosa che si potesse accantonare facilmente mediante riflessioni.
“Che animale sono però! Lei è qui che gioca in piena innocenza, e io le guardo
le gambe... Non di proposito, è vero; dopo tutto non ho mica la testa chiusa in
un sacco...”
Colomba non s’accorse del suo impaccio; neanche gli altri due si resero con-
to che per un certo tempo Ambrogio giocò come assorto e sopra pensiero; ave-
vano entrambi la mente altrove.

Durante il ritorno in bicicletta, sulla strada in discesa che aveva a destra il


grande anfiteatro delle Prealpi e appena sotto, in primo piano, la cascina No-
manella (la stessa strada che Pino e Sèp avevano percorso a piedi l’anno avan-
ti, al loro rientro dalla Svizzera) Colomba affiancò la propria bicicletta a quella
del giovane. Ignara della tempesta che non s’era ancora del tutto spenta in lui:
«Lo sai che la partita d’oggi m’è proprio piaciuta?» gli disse. «Poche volte ho
giocato con tanto gusto. Beh, giocare con voi, con te Ambrogio, è davvero bel-
lo.»
Il giovane annuì serio, fin troppo serio anche per le sue abitudini, e non ri-
spose. Per cui Colomba si domandò se avesse detto qualcosa di sbagliato. “In
un certo senso sì” pensò: “gli ho fatto un complimento, e questo non tocche-
rebbe a me: toccherebbe a lui se mai fare complimenti”. Sorrise a sé stessa:
“Se aspetto che Ambrogio mi faccia dei complimenti sto fresca. Che strano
tipo però!” Lo guardò di sottecchi, sorridendo: l’altro taceva, Francesca si tro-
vava un poco più indietro e pensava al suo Andrea; si udiva solo il rumore leg-
gero delle ruote sull’asfalto.
“Che bel tipo è questo Ambrogio, è proprio un bel tipo!” Continuavano a
procedere in coppia: “Guarda... sembriamo quasi due innamorati”. «Ehi, dì...»
fu sul punto di farglielo notare per riderne con lui, ma si trovò di colpo intriga-
ta: perché - si rese conto -Ambrogio le piaceva davvero molto; le sembrava di
scoprirlo solo adesso. Concluse con lo stringere un poco i freni: «È... pericolo-
so andare così» mormorò, e incolonnò la propria bicicletta dietro quella del
giovane.
“Altro che se mi piace!” constatava intanto, sempre più sorpresa; e rivol-
gendosi mentalmente a lui: “Mi piaci da morire, lo sai?”
Giunsero alle prime case di Nomana, Francesca aveva serrato sotto, entra-
rono uno dietro l’altro in paese; i due fratelli salutavano ogni tanto qualche
passante. Giunti che furono in piazza: «Sentite, vi spiace se io proseguo per
casa mia?» chiese Colomba, e frenò fino a fermarsi.
Anche Ambrogio e Francesca frenarono e si fermarono.
«Mi viene in mente che oggi ho promesso a mia madre d’essere a casa un
po’ prima. Me ne ricordo solo adesso, figuratevi.»
«D’accordo» rispose Ambrogio. «Se lo hai promesso.»
«Domattina ci vediamo, eh?» disse Francesca.
«Si capisce» rispose Colomba; c’era nella sua voce un’ombra d’incertezza
che gli altri non avvertirono. «Beh, ciao Francesca, ciao Ambrogio, e... grazie.»
«Figurati. Grazie a te cara, ciao.»
«Ciao Colombina.»
“Ciao Colombina”: anche Manno l’aveva più volte salutata a quel modo. Ma
che piacere nuovo il diminutivo in bocca ad Ambrogio; era un po’ come essere
accarezzata da questo ragazzo vivo, dalla sua voce virile... le dava uno strano
senso di protezione.
Pedalando lentamente verso casa Colomba fantasticava. Si fermò con la
ruota anteriore del veicolo contro il portello de ‘I dragoni’, aprì, entrò sopra
pensiero nell’andito lastricato di serizzo; era talmente distratta che, una volta
smontata, non sapeva dove appoggiare la bicicletta, dopo averla appoggiata a
un muro tornò indietro per spostarla di qualche metro; la impacciava ogni
cosa pratica e ogni presenza, inclusa quella di Graziosa, l’attempata figlia del
portinaio, che l’aveva salutata con simpatia e volontieri avrebbe scambiato
qualche chiacchiera con lei. Colomba però sentiva troppa necessità
d’appartarsi, di ritirarsi in camera sua, a riflettere su ciò che le stava succe-
dendo. S’avviò con l’intenzione d’evitare anche la madre, ma già mentre attra-
versava il cortile si disse che no, non doveva dare importanza a questo poco
d’infatuazione, non doveva farne un caso. Per cui, mutando a un tratto atteg-
giamento: «Mamma, mamma, sono arrivata» annunciò.
La madre sedeva in veranda (il luogo in cui soleva passare le sue eterne ore
di solitudine la vecchia Eleonora): alzò lo sguardo dal lavoro di cucito e le sor-
rise attraverso i vetri.

Dopo cena Colomba si pose il quesito se dovesse ridurre la propria frequen-


za alla casa dei Riva, e non le riusciva di prendere una decisione.
S’addormentò determinata ‘per cominciare’ a frequentarla d’ora in poi soltan-
to di pomeriggio. (“Tanto al mattino lui sta sempre chiuso nello studio...” fu la
sua ultima riflessione.)

CAPITOLO QUINTO

Già dal giorno seguente tuttavia non tenne fede neppure a quell’irrazionale
proposito.
L’attirava ormai a tal punto Ambrogio, che nonostante le risoluzioni in con-
trario, la ragazza finiva addirittura con l’andare a fargli qualche visita per gio-
co anche durante le ore da lui riservate allo studio. Trovava un pretesto per far
capolino alla sua porta: «Ehi, pozzo di scienza, Francesca ha detto... Oggi po-
meriggio il programma di Francesca sarebbe... Ma dì, tu sei d’accordo? Me ne
vado subito, scappo, eh, non arrabbiarti per così poco.»

Una mattina s’affacciò a quel modo: «Ehi, pozzo di scienza, posso rubarti
un istante del tuo tempo prezioso? Lo sai che Francesca sta macchinando di
preparare i ravanelli? Anche se a te non piacciono, ha detto. Io però non ci sto
a questa congiura: dì, quale verdura vuoi che ti vada a cogliere nell’orto?»
«Verdura? La verdura!» esclamò lui, scuotendo la testa con finto sdegno: «I
ravanelli! Cose da pazzi!» Picchiò la mano sul tavolo: «Via, lasciatemi studia-
re, donnette senza criterio.»
Colomba non si mosse, sorrideva: «Dai, dimmi quale verdura devo coglie-
re.»
Che incantevole creatura! Era vestita di bianco come al tempo in cui Manno
la paragonava ad Andromaca, attraente oltre ogni dire. Ambrogio la sogguar-
dava con finto cipiglio: non gli riuscì di star fermo, si alzò in piedi: «Adesso te
li do io i ravanelli» esclamò, e corse verso di lei.
Invece di fuggire com’egli s’aspettava, e concludere in tal modo il gioco, Co-
lomba si piegò un poco, alzando le braccia come per proteggersi: qualcosa
dentro di lei, un’emozione dolcissima, le impediva di muoversi. Ambrogio le
afferrò le due mani, e gliele agitò per scherzo: «La verdura, eh, i ravanelli?
Come ti permetti di...» Poi si ritrovò che balbettava: «Colomba... tu vieni qui
a... tu...» Sentiva una sconvolgente voglia di stringerla a sé, di accostare il
proprio viso al fresco viso di lei, il quale appariva in attesa, con la bocca se-
miaperta. “Tutto il resto all’inferno” una voce prepotente gridava nel suo inti-
mo. Ecco, lui adesso avrebbe... adesso... “Adesso cosa? Animale! Manno è
morto e questa è la sua ragazza. Lui non te la può contendere, non può fare
niente. Su, fatti avanti tu, maledetto animale”.
Lasciò libere le mani di Colomba: «Scusa» le disse con voce alterata: «Per
poco non perdevo la testa. Scusami.»
Colomba gli fece segno di no, di no con la bella testolina: non doveva pren-
derla così, preoccuparsi, non era accaduto niente, stavano solo giocando: anzi,
dai, continuiamo a giocare.
«Beh, ciao» disse Ambrogio; si voltò e tornò alla scrivania. Colomba rimase
lì ancora per qualche istante, poi se ne andò.
Il giovane non sedette, ma si diede a passeggiare avanti e indietro nello stu-
dio dopo averne chiusa la porta: calma, un po’ di calma! “ Cos’è successo? Beh,
che abbia desiderato, e fisicamente anche, una donna, è naturale alla mia età.
Sì, è naturale, come è naturale sognare certe cose di notte, provare certe ten-
sioni fisiche. Non c’è niente di male, è la natura: l’importante è tenerla in pu-
gno la natura, la bestia, dominarla, non farsi prendere la mano. Ecco. Quanto
al fatto che Colomba...”
Solo a ricordarla lo riafferrava il desiderio: però che creatura attraente, mio
Dio! Era mai possibile che al mondo esistesse una creatura tanto attraente?
“Calmati!” Provò a prospettarsi le cose da un punto di vista strettamente ra-
zionale: “Dopo tutto anche se lei è, cioè è stata, la ragazza di Manno, nessuno,
adesso che lui non c’è più, potrebbe rimproverarmi se io mi faccio avanti con
onestà. Al contrario, quelli che sanno di morale - don Mario, don Carlo Gnoc-
chi - mi direbbero che la vita non si ferma, che non bisogna farsi un feticcio
del passato, che non si deve sacrificare un vivo, anzi due vivi, a un morto,
che... Ecco, cose simili. E avrebbero senza dubbio ragione. Ragione da vende-
re. Con tutto questo io la vigliaccata di prendermi la ragazza di Manno non la
faccio. Punto e basta. E non occorre che mi agiti: tutto sta nel sapersi fermare
risolutamente in tempo. Tutto qui.” Passeggiava avanti e indietro: “Adesso
quel po’ di forza di carattere mi ci vuole davvero tutto, proprio tutto. Mio Dio,
che tristezza però!”

CAPITOLO SESTO

Seguirono giorni per lui molto penosi. E se agosto non fosse stato sul finire,
se Colomba fosse rimasta più a lungo a Nomana, la determinazione del giova-
ne forse non sarebbe bastata; la storia personale di tutt’e due allora sarebbe
stata diversa. Ma agosto era al termine, e la famiglia di Colomba venne, una
sera dopo cena, in visita di congedo.
In tale occasione il padre della ragazza fece a Gerardo la proposta di acqui-
starli lui ‘I dragoni’. «Con tutti i figli che ha... e tra non molto i maggiori do-
vranno metter su casa, no?» Parlava senza rendersi minimamente conto di ciò
che era intercorso tra sua figlia ed Ambrogio: «Il nostro Ambrogio qui per
esempio, sta per laurearsi. Del resto anche gli altri maggiori...» Ci teneva, era
evidente, a liberarsi della villa che per lui costituiva un peso.
Gerardo, con sorpresa dei figli, gli rispose che «per la verità» ci aveva da
parte sua «fatto un mezzo pensiero»: «Purtroppo però questa spesa non va
d’accordo col programma che stiamo maturando, di procedere a un amplia-
mento dell’azienda. Perché, caro dottore, vengon su anche i figli degli operai, e
se non provvediamo noi a mettergli insieme un po’ di lavoro, chi provvede?»
L’altro, di professione medico, non riusciva a capire se l’industriale
s’esprimesse così per diplomazia (“Per tener basso il prezzo?”) o per altre ra-
gioni. Ambrogio tese invece l’orecchio: “Il papà sta decidendo di ampliare, e
con noi non ne parla! ”
«Beh» concluse il medico: «Veda, se crede, di farci sopra un altro ‘mezzo
pensiero’: se poi decide per il sì, può sempre telefonarmi.»
«D’accordo. Perché in fondo lei dice bene: presto i ragazzi vorranno metter
su famiglia.» Gerardo non mancò, scadendo un poco nella retorica (il difetto
più puntuale degli autodidatti), d’aggiungere: «Cosa vuole mai? Questa è la
vita, che i figli si facciano avanti e ci spingano un po’ da parte.»
La mattina dopo Colomba, la nostra Colombina, partì, lasciò Nomana, la la-
sciò per sempre. Perché in seguito Gerardo, fatti i conti e sotto l’insistente
pressione di Fortunato («Questo è comunque il momento di comprare, di
comprare a occhi chiusi: con l’inflazione che c’è, se poi avrai bisogno di soldi
tu rivendi e te li trovi raddoppiati, anche triplicati») finì con l’acquistare dav-
vero ‘I dragoni’.
Così Colomba non ebbe più occasione di ritornare in paese; la gente non vi-
de più per le strade la sua figura leggiadra, la giovane testa ben disegnata, le
gonne variopinte ch’erano una festa per gli occhi di tutti quelli che
l’incontravano («Sei bella... sei bella...»); le rondini non la sfiorarono più con
galanteria impertinente sulla piazza luminosa. Colomba passò, come erano
passate tante altre belle ragazze prima di lei, popolane o benestanti, vistose o
modeste: com’era passata Giustina, coi suoi occhi scuri e gli zoccoletti ai piedi
e la figura alta e troppo sottile; e prima ancora tante altre negli anni e anni,
creature di cui s’era perduta ogni memoria.

CAPITOLO SETTIMO

La domenica successiva Ambrogio, uscito col padre di chiesa dopo la messa,


si guardò intorno cercando d’istinto tra la gente che sciamava la figura della
ragazza, e non la scorse; allora ricordò, e provò un rinnovato senso di desola-
zione. Gerardo, com’era sua abitudine, indugiò alquanto sul sagrato; la gente
era quella di sempre (“Colomba se n’è andata e qui tutto continua come pri-
ma, è mai possibile?”). Tutto in effetti continuava come prima; ecco il porta-
lettere Chin, che nei giorni di festa usava imbrillantinarsi i capelli: con la testa
lisciata a quel modo, aveva un che di cittadino e comunque d’estraneo; ecco
Giuliaccio con le braccia pendenti all’indietro e la strana andatura causata dal-
la colonna vertebrale offesa. Ferma a qualche passo dai due industriali c’era la
madre di Pierello (Ambrogio l’aveva salutata con simpatia, però solo: «Buon
giorno» «Buon giorno», non se l’era sentita d’attaccare discorso); ecco le due
cugine ex studentesse Tea e Isa, minuta e bruttina la prima, cavallona la se-
conda; e la professoressa Quadri Dodini che insegnava dalle monache a Mon-
za. Adesso costei era un poco più zoppa, nessuno però se n’accorgeva, nono-
stante la lentezza inusitata con cui, appoggiandosi al suo bastone, scendeva
uno alla volta i gradini del pronao.
Uno dei ragazzi lasciati liberi da don Mario - che avevano cominciato a ir-
rompere dalla porta della chiesa - la urtò involontariamente in modo tale che
Gerardo, a distanza, fece il gesto di sostenerla; chi però la sostenne davvero fu
Romualdo - l‘ubriaco comunale’, in quel momento per fortuna niente affatto
ubriaco - il quale afferrò in tempo la donna per un braccio impedendole di ca-
dere. Lei arrossì, lo ringraziò, poi scese più in fretta che poté i pochi gradini
residui, mentre Romualdo - ritrovatosi una volta tanto utile al prossimo - cer-
cava di prolungare la propria buona azione con lo sgridare severamente i mo-
nelli: non il colpevole, che s’era subito dileguato, bensì quelli che continuava-
no a uscire di corsa dalla chiesa, e lo guardavano senza capire.
«Quei bambini! Hai visto? Per poco...» esclamò Gerardo, scuotendo la te-
sta.
«Eh beh, i bambini...» gli rispose distratto Ambrogio.
«I bambini si sa, son tutti a una maniera» disse accanto a loro la madre di
Pierello: «Non hanno niente dentro la testa.»
Gerardo, voltatosi, annuì sorridendo. Ambrogio, dopo aver annuito a sua
volta, le chiese in dialetto: «Allora Ermelinda? Come sta il vostro Piero?»
«Ringraziando il cielo, al presente sta bene» rispose la madre. «Dopo tutto
quello che ha passato, povero figlio.»
«Non è qui, vero?» domandò, perché il discorso non s’arenasse subito, Ge-
rardo.
«No, di solito lui va alla seconda messa con mio marito; non possiamo la-
sciare tutti insieme la casa ch’è un po’ isolata.»
«Sì» fece Ambrogio, con l’aria di significare: «Sono al corrente.»
«Adesso che la stagione è buona m’accompagna Martina» continuò la ma-
dre: «la mia ultima. La sto appunto aspettando. In chiesa non vuole stare con
me, va sulle panche davanti, con le sue compagne di scuola. Sapete come sono
i bambini...» Sospirò, anche lei un po’ convenzionale: «Eh, i figli!»
Di ‘figli’ n’erano usciti dalla chiesa forse un centinaio, e diversi seguitavano
a rincorrersi in mezzo alla gente; i più però s’erano ormai calmati, e si stavano
allontanando in gruppetti, oppure sostavano a chiacchierare in piazza tra i
grandi.
“Quanti sono” pensò a un tratto Gerardo. “Quanti! E tutti per vivere do-
vranno in futuro lavorare. Ma i posti di lavoro sono quelli che sono: in che
modo si potrà far fronte a un problema simile?”
I bambini che gli erano più vicini non sembravano angustiati, non si pone-
vano per niente il problema: molti tenevano - a imitazione degli adulti - le
mani in tasca, in atteggiamento domenicale. Non si angustiavano, e tanto me-
no si ribellavano, figli com’erano di famiglie che in maggioranza avevano vota-
to per il partito cristiano. “Fidando in cosa? Nella Provvidenza, d’accordo, ma
anche negli uomini, cioè in noi cui tocca provvedere. E come rispondo io, per
quanto mi riguarda?” Si volse al figlio: «Qui occorre decidersi, dobbiamo spic-
ciarci a fare qualcosa» disse.
Malgrado fosse con la mente altrove, il giovane afferrò il filo dei pensieri del
padre: «Sì papà. Io sono d’accordo, lo sai.»
«Eccola finalmente, la mia Martina» esclamò Ermelinda. «Ma guarda, arri-
va proprio per ultima.» La chiamò: «Martina, ehi, Martina.»
All’udire la voce materna la bimba cercò intorno con gli occhi, vide la ma-
dre, s’illuminò e si diresse passo passo verso di lei.
«Vieni qui, salamino.» Quando n’ebbe la piccola mano nella propria: «Su,
saluta i signori.»
«Buon giorno» disse Martina, abbassando gli occhi con fare vergognoso.
«Ciao, acchiappa-topi» le rispose Ambrogio in dialetto. Acchiappa-topi
(ciaparàtt): anche Piero, il suo fratello grande, ogni tanto la chiamava così;
Martina alzò gli occhi verso Ambrogio e gli sorrise.
«Hai visto che mi rispondi se ti dico acchiappa-topi? Te lo dice anche Piero,
eh?»
«Sì.»
«E che altro ti dice Piero?»
«Mangia-cioccolato.»
«Questo è già un po’ meglio» osservò Gerardo, e chinatosi accarezzò la testa
della bambina. Provò un senso di tenerezza, come quando accarezzava la sua
ultima: «Che brava bambina! (tusèta)» «Ricordatevi di salutarmi Piero» rac-
comandò Ambrogio a Ermelinda: «ditegli che almeno qualche volta la dome-
nica potrebbe farsi vedere.»
«Grazie, riferirò» gli rispose la donna.
S’avviarono ciascuno per la propria strada.
«La svalutazione potrebbe esserci d’aiuto, capisci?» continuò il precedente
discorso Gerardo, che nel frattempo non aveva cessato di pensare
all’ampliamento della sua fabbrica. «Possiamo realizzare l’esubero di magaz-
zino, e ai nuovi prezzi son soldi. Di telai, magari non nuovi, se ne trovano; il
vero problema sono gli immobili. È lì, su quel problema, che dobbiamo fissare
la nostra attenzione, mi capisci?»
«Sì papà.»
Gerardo indicò intorno col mento: «Qualche cosa siamo tenuti a fare.»
«Sì, sono d’accordo.» “E io che pensavo alle ragazze! No, non così magari:
pensavo a Colomba, non ‘alle ragazze’. È diverso. Beh, comunque...” «Senti
papà: se credi io posso mettere per qualche mese i libri da parte: mi rendo li-
bero e...»
«No. Tu i libri da parte non li metti. Toglitelo dalla testa.»
«D’accordo.»

II

CAPITOLO OTTAVO

Nel settembre di quell’anno 1946 (a quasi un anno e mezzo dalla fine della
guerra) rimpatriò finalmente Michele. Arrivò alla stazione dì Milano allo scoc-
care della mezzanotte d’un giorno feriale; al pari dei suoi compagni di prigio-
nia - un centinaio, su due carrozze agganciate in coda a un treno normale - era
emozionato ma soprattutto stanco. Il giorno prima, dal confine, aveva spedito
agli zii di Monza un telegramma preavvertendoli dell’arrivo: era infatti al cor-
rente della morte di suo padre, perché da un anno a questa parte c’era stato un
sia pur ridotto scambio di posta tra i lager e l’Italia, ed egli aveva ricevuto due
missive, una dagli zii, l’altra da Ambrogio. La missiva di Ambrogio gli aveva
trasmesso i saluti del Tito Valli, il soldato di Nomana rimpatriato da Susdal
nell’autunno dell’anno prima: “Così” si diceva Michele mentre il convoglio
entrava con lentezza in stazione “un’idea di quello che io ho passato, a casa la
devono già avere". Ma quale casa? Ed era ancora suo l’appartamento di Nova,
a tre anni dalla morte del padre?
Si affacciò al finestrino, cui stava già affacciato don Turla, il quale per fargli
posto si mise di sbieco. «Stiamo un po’ stretti, eh?» osservò Michele.
«Mai come sul carro che ci ha portato da Crinovaia a Oranchi, ti ricordi?»
gli rispose euforico don Turla, che adesso quanto a salute s’era abbastanza
ripreso.
«Se mi ricordo!» borbottò l’altro. “ Quattrocento trentotto partiti, centono-
vantacinque arrivati’’ riepilogò mentalmente. Tutti gli altri spinti giù dai carri
nella neve una mattina dopo l’altra; chissà se, e quando, e in che modo, li ave-
vano poi sepolti... E il freddo crocifiggente, e quella sete che faceva impazzire,
e il foro sporco, immerdato, del cesso nell’angolo, attraverso cui si raccoglieva
con tanto ribrezzo e fatica la neve per bere. E... ma basta. Uno deve pur smet-
terla di pensare a queste cose.
Alla stessa conclusione doveva per parte sua essere arrivato don Turla, il
quale dopo avere, senza volerlo, messo l’amico sulla via dei ripensamenti, cer-
cò di sviarlo: «Milano è... sempre un gran Milano» finì con l’affermare, in
mancanza di meglio.
Michele sorrise: «Sì, certo, retorico d’un cappellano.»
La stazione Centrale, con le enormi arcate metalliche qua e là ancora segna-
te dalle offese dei bombardamenti, era a quell’ora semi deserta; risultava più
illuminata che durante la guerra, tuttavia ancora scarsamente illuminata.
«Chissà se ci sono qui i miei ad aspettarmi» mormorò il prete. «Arriviamo
con un ritardo d’almeno due ore.»
«Vedi quella gente, quei gruppetti là, in testa al marciapiede?» gli fece nota-
re Michele: «Credo che aspettino noi.» Aggiunse pensieroso: «Chissà se ci so-
no anche i miei zii.»
Non c’erano. Come il treno si arrestò con un ultimo sussulto, mentre la gen-
te in attesa, individuate le carrozze dei reduci accorreva emozionata e perfino
agitata verso di esse, egli poté rendersene conto. «Non ci sono, non ci sono»
ripeteva a mezza voce a sé stesso e a don Turla che - individuati invece i propri
parenti - si tirò di colpo indietro per scendere a precipizio. In luogo degli zii
c’era però, guarda, il suo amico Ambrogio, il quale appena lo vide si mise ad
agitare le braccia e corse verso di lui chiamandolo: «Tintori, Michele, Michele
Tintori». Giunto sotto il finestrino gli afferrò una mano e gliela scuoteva: «Sei
arrivato. Dio sia ringraziato! Bravo Michele, sei arrivato!» Al fianco
d’Ambrogio c’era una bella ragazza, o si trattava d’una giovane signora, sua
moglie? (“Che sia già sposato? Non me l’ha scritto”) la quale, col viso alzato,
gli sorrideva a sua volta ed annuiva commossa, con gli occhi pieni di lacrime; e
fu quando si mise del tutto a piangere, che Michele la riconobbe alle smorfie
infantili della bocca: come no? Si trattava di Francesca, ma certo. E lui non
l’aveva riconosciuta! Che bella ragazza s’era fatta! Francesca, sì, che adesso
non portava più le trecce ma lo chignon. Dio del cielo, se ci fosse stata qui an-
che la ‘sua’ Alma! A nessuno durante il lungo viaggio da Susdal egli aveva tan-
to pensato, e con tanta intensità, quanto ad Alma, la ‘sua Almina’.
«Che bravo Michele!» straparlava Ambrogio, difficoltato per la troppa emo-
zione a dire qualcosa che avesse un costrutto: «Che bravo!»
«Grazie che siete venuti» ripeteva Michele, piegato su di loro dal finestrino.
«Sai che fino a un’ora fa c’erano qui i tuoi zii?» gli riferì Ambrogio: «Poi,
siccome non si riusciva a sapere se sareste arrivati o no stanotte, hanno deciso
di prendere l’ultimo tram per Monza. Perché tua zia è un po’ indisposta. Ma
forza, scendi giù, scendi che parliamo con... più calma.»
Già molti dei reduci stavano scendendo di carrozza; Michele prese dal por-
tabagagli un tascapane semivuoto - ricevuto, insieme alla divisa nuova che
indossava, al comando tappa di Udine - e si accodò a loro.
«Omnia mea mecum porto» disse quando fu sul marciapiede, mostrando
agli amici il tascapane; Francesca annuì sorridendo, Ambrogio gli saltò quasi
addosso con le braccia spalancate, lo strinse a sé e lo baciò: «L’importante è
che adesso sei a casa. Però! Pare incredibile!»
«Lascia che t’abbracci anch’io» disse Francesca «come tu fossi mio fratello»
e lo abbracciò e baciò anche lei. «Bravo Michele» gli disse mite «noi lo sap-
piamo che... sei molto bravo.»
«Questa poi!» si schermì lui, pur commosso da quell’accoglienza affettuosa.
«Sì, certo» insisté la ragazza: «Ambrogio lo diceva anche poco fa di quando,
nella ritirata, tu da solo li stavi riordinando tutti.»
«Io?» fece Michele, e volgendosi ad Ambrogio: «Sei matto?»
«Perché?» rispose Ambrogio: «Il secondo giorno della sacca, a Posniacof.
L’hai dimenticato?» (Pensò: “La stessa mattina in cui è morto Bonsaver. Se
adesso ci fosse qui anche lui!”)
«Ah, per così poco» disse Michele, finalmente ricordando.
Si erano formati tanti piccoli crocchi, uno per ogni reduce o quasi: non
c’erano soltanto i loro parenti ed amici ad attenderli, ma anche dei parenti di
militari dispersi, soprattutto madri e sorelle, in cerca di notizie.
«C’è qualcuno del mio reggimento qui con te?» chiese Ambrogio. «No.
Dell’Ottavo artiglieria nessuno.»
Accanto a loro don Turla, circondato dai suoi famigliari - tutti biondi e con
la parlata bergamasca come lui, e più biondi degli altri un paio di bambini -
vociferava per dominarsi, ma non ci riusciva: le lacrime gli scorrevano per
l’emaciato volto virile.
«Lo vedete quel cappellano lì?» disse Michele: «Sapeste per quanti casi be-
stiali siamo passati io e lui. Talmente tremendi che... Ma non voglio parlarne a
spizzico, e comunque non stasera, che son troppo stanco.»
«Ecco, fai bene» gli disse Ambrogio: «Così devi fare.»
Era ad ogni modo destino che don Turla non avesse ancora pace. Gli si sta-
vano avvicinando con aria spaurita due anziani coniugi i quali, dopo avere in-
terpellato più d’uno nella piccola folla, erano inutilmente saliti sul treno vuoto
a ispezionarlo. Si tenevano stretti uno al braccio dell’altro: «Tenente cappella-
no... è lei il tenente cappellano padre Turla, vero?» chiese l’uomo. «Ci hanno
detto di rivolgerci a lei.»
«Eccomi» rispose il sacerdote passandosi una mano sulla faccia, ad asciu-
garne le lacrime: «In cosa posso servirvi?»
«Noi siamo il papà e la mamma del capitano Riccardo Barrel di Milano, che
è arri... che dovrebbe essere arrivato con voi, perché ne abbiamo ricevuto il
preavviso dal comando militare. Noi però non... non l’abbiamo ancora visto.»
«Ah, il sottotenente Riccardo Barrel» corresse don Turla: «di Milano, sì. C’è
infatti. Ve lo cerco subito.»
«No» precisò l’uomo (la moglie, un po’ curva in avanti, la testa protesa,
apriva e muoveva la bocca come a ripetere le stesse parole del marito): «Quel-
lo l’abbiamo già visto: anche lui si chiama Riccardo Barrel, ma è sottotenente.
Nostro figlio è un altro, ed è capitano.»
“Tra gli ufficiali prigionieri di Barrel c’era solo il sottotenente” riepilogò
mentalmente il prete: “Altri Barrel non ce n’erano, almeno tra gli ufficiali.”
«Voi» chiese ai due «negli ultimi mesi, diciamo da un anno a questa parte,
avete ricevuto posta da vostro figlio? Oppure sue notizie attraverso altri rim-
patriati?»
«No» mormorò il padre.
La madre, con la bocca socchiusa, pronunciò anche lei una sfumatura di no.
«Ma questo è... quasi normale, non è vero?» disse angosciato l’uomo: «Non
è vero?»
Il cappellano annuì pensieroso: «Sì, certo.» Cercò con gli occhi il sottote-
nente Barrel e gli fece con una mano segno d’avvicinarsi. «In sostanza» disse
ai due coniugi «prima della comunicazione del comando, voi di vostro figlio
non avevate alcuna notizia?»
«No. La sua ultima lettera è del dicembre 42: quattordici dicembre» spiegò
il padre. Chissà quante volte aveva parlato di quella lettera.
«La comunicazione del comando quando v’è arrivata?»
«Ieri sera» disse con bocca tremante l’uomo. «Per noi... capite? è stato un
rivivere. Mi capite? Tutta la notte non abbiamo dormito. Oggi poi... Per noi è
impossibile pensare ad altro!»
Padre Turla rifletteva: “Al confine ci hanno detto che avrebbero trasmesso
subito i nostri nomi ai comandi territoriali, perché venissero avvertiti i paren-
ti...”
«Scusate, sulla comunicazione del comando c’era il grado?»
I due coniugi si guardarono l’un l’altro con angoscia: «No. Solo il nome e il
cognome.»
«Aspettate un momento.» Il cappellano prese in disparte il sotto-tenente
Riccardo Barrel, frattanto sopraggiunto. «Sai se i tuoi parenti sono stati avver-
titi del tuo arrivo? C’è qualcuno dei tuoi qui ad aspettarti?» gli domandò.
Quello fece segno di no: «No» rispose, «non c’è nessuno.»
«E durante la prigionia hai mai incontrato un capitano col tuo nome e co-
gnome?»
Ancora una volta l’altro fece segno di no, afflitto: «Nessun capitano Barrel.
A quelli gliel’ho già detto.»
«Oh, poveri cristi!» mormorò padre Turla, e tornò ai due coniugi; era fin
troppo evidente che a motivo dell’omonimia era stato commesso un errore
burocratico. Spiegarlo a questi due adesso! Che tremenda pietà gli facevano.
«Occorre che vi rivolgiate al comando da cui avete ricevuto la comunicazio-
ne» disse. «Sentite: io resto qui a Milano anche domani» (a queste parole, ve-
ramente eroiche, i suoi parenti lo guardarono costernati) «e vi accompagno al
comando subito domani mattina. Là ci chiariranno ogni cosa.»
«No, non possiamo aspettare, non possiamo aspettare fino a domani»
esclamò la madre: «se aspettiamo fino a domani è finita, non lo capite? Ric-
cardo non ci ritorna più.»
Mosse un po’ le labbra, senza aggiungere altre parole, poi si strinse di più,
ancora di più, al braccio del suo compagno, e cominciò a emettere dalla bocca
chiusa uno strano gemito.
«Si sente male» sussurrò il marito, e aiutato dal cappellano e seguito dai
parenti di questi e dal sottotenente Barrel, la condusse a un sedile di pietra
che stava sul marciapiede; ve la fece sedere e seguitava a tenerle una mano.
«Riccardo non torna più» mormorava ogni tanto la donna: «più.»
«Ma no, cosa dici?» la contrastava il marito, e guardava in viso il cappella-
no, in cerca d’aiuto.
Padre Turla stava lì stanchissimo; si chiedeva cosa mai avrebbe potuto fare
per quei due poveretti, e non gli veniva in mente niente.
A un tratto l’uomo alzò un dito, il cappellano notò che adesso aveva il viso
un po’ alterato. «La carrozza precedente» disse l’uomo: «forse Riccardo è pas-
sato su quella. Là noi non abbiamo guardato.»
«Ma...» disse il cappellano: «No, senta...»
L’uomo lasciò andare la mano della moglie che una parente di don Turla fu
svelta ad afferrare: «Badatele un momento voi per favore» disse «che torno
subito.» E si diresse inebetito verso il treno.
Il cappellano lo seguì: «No, senta signor Barrel. Mi ascolti un momento.»
Lo fermò che aveva già posto il piede su un gradino, gli mise un braccio attor-
no alle spalle, cominciò a parlargli.
Ambrogio fissò Michele: «Adesso tu vieni via» disse ribellandosi. «Basta.
Tu non puoi continuare a...» Ma dopo aver detto questo si cacciò una mano in
tasca: «Un momento solo: senti, qui sul treno con voi c’erano dei bersaglieri
del Terzo?»
«Sì, pochi, tre o quattro.»
«Presentami a loro per favore.» Si era tolto di tasca una fotografia di Stefa-
no formato cartolina: «Quali sono?»
«Quello là per cominciare. Vieni.»
«Si tratta di Stefano, Giovenzana Stefano, quel mio compagno di Nomana
ch’era nel Terzo bersaglieri» disse Ambrogio, riferendosi alla fotografia. «È
disperso.»
«Sì» fece Michele.
Risultò che nessuno dei bersaglieri presenti ricordava di avere mai visto
Stefano in prigionia.
Ambrogio non era il solo impegnato in quel pietoso tentativo: diversi rim-
patriati stavano infatti qua e là esaminando nella scarsa luce le fotografie che
venivano loro sottoposte, chiedevano magari qualche ragguaglio, poi le resti-
tuivano facendo segno di no con la testa.
La madre del capitano non tornato si era frattanto ripresa dal suo malore e
piangeva in silenzio, senza più dire nulla. Don Turla e i suoi parenti si avvia-
rono con lei e il marito verso la farmacia della stazione; anche gli altri reduci
cominciavano ad andarsene: chi verso l’uscita, chi - dovendo proseguire in
treno - verso il comando tappa di stazione.

CAPITOLO NONO
Michele scese lentamente, tra Ambrogio - che s’era appeso il suo tascapane
a una spalla - e Francesca, la gradinata interna della stazione.
Uscirono all’aperto attraverso gli alti portici. La sera estiva era gradevole,
calda quanto bastava; il vasto piazzale illuminato dai lampioni e le case circo-
stanti erano ben quelli che il reduce ricordava. “Milano” egli pensò con nuova
commozione, e: “la patria!”, e anche: “Mio padre adesso non c’è più”, ma non
pronunciò una parola.
«La macchina è là» indicò Ambrogio, avvertendo lo stato d’animo
dell’amico: «Su, venite.»
Aveva in quei pochi minuti trovato modo di comunicargli alcune notizie:
che la casa di Nova era sempre sua e attendeva d’essere intestata a lui dopo la
morte del padre; era però attualmente occupata da sfollati. Che i suoi zii vole-
vano egli andasse ad abitare da loro a Monza, almeno fino a quando la casa
non si fosse resa libera («Per questo ci vorranno mesi, forse anni, intendiamo-
ci») e gli avevano a tal fine preparata una stanza. Anzi a sentire gli zii Michele
avrebbe dovuto recarsi a Monza quella notte stessa. («Son matti,
gliel’abbiamo spiegato bene che non è possibile: a Nomana ti stanno aspet-
tando tutti, se arriviamo senza di te, ci linciano.» Francesca annuiva, sorri-
dendo partecipe.) Gli aveva anche comunicato, Ambrogio, la morte di Manno
(«Nelle mie lettere non te ne ho parlato perché... Beh, tu capisci.»)
«Quante lettere mi hai scritto?»
«Per l’esattezza tre.»
«Me ne hanno consegnata una sola.»

La macchina percorse le vie di Milano verso piazzale Loreto, Michele adesso


aveva la mente soprattutto a Manno, però non tralasciava di guardarsi intor-
no: incredibile era l’ampiezza delle devastazioni, tuttora visibilissime, ma in-
sieme era evidente, anche al buio, la ripresa delle attività e della vita. Sorpas-
sarono una jeep. «Quelli sono americani, vero?»
«Sì» rispose Ambrogio.
«Che benedizione gli americani!» disse Michele. «Non so ancora come li
vedete qui, ma se noi pochi siamo rimasti in vita lo dobbiamo a loro, alla soia
che hanno mandato in Russia apposta per noi prigionieri. Con tutto che allora
eravamo in stato di guerra. Lo si sa in Italia questo fatto della soia?»
«No.»
«In Austria ho visto che coi russi non scherzano: noi ci siamo sentiti liberi
solo quando siamo entrati finalmente nella loro zona.»
«Son brava gente» convenne Ambrogio. «Guai se non ci fossero loro. E in-
fatti, se escludi i rossi, qui tutti li vedono con simpatia, molti anche con
un’ammirazione, io credo, fin eccessiva.»

Dopo Milano Sesto San Giovanni, i cui muri apparivano qua e là macchiati
da disordinate scritte comuniste e socialiste, con disegni di falci e martelli;
Michele ne fu intimamente allarmato, anche se Ambrogio, resosene conto,
badava a dirgli: «Non devi preoccuparti, non ce la faranno. Intanto ci sono
sempre qui gli americani e gli inglesi, e ci resteranno per tutto il tempo che
sarà necessario. Ma poi, dopo le elezioni di giugno, è chiaro che sono mino-
ranza.»
«Sono dei disgraziati che non hanno la più lontana idea di cosa sia realmen-
te il comunismo» mormorò Michele. «Appena... quanti? quattro giorni fa, in
Galizia, siamo stati più d’un’ora fermi vicino a un treno merci chiuso, stracari-
co di uomini, donne e bambini polacchi che venivano deportati. Dovevate sen-
tire come gridavano i bambini che chiedevano da bere. Se in Italia si conosces-
se questo solo fatto delle deportazioni... Ma vi riferirò poi» disse con stanchez-
za.
«I rossi nelle fabbriche cercano d’intimidire gli altri operai, di spingerli a fa-
re quello che vorrebbero loro» spiegò Ambrogio «ma gli altri non restano pas-
sivi, e in complesso gli fanno fronte. Quelli dell’Azione Cattolica e delle Acli
soprattutto: una cosa magnifica. Non sai cosa sono le Acli? È l’organizzazione
nuova degli operai cristiani: l’ha voluta il papa. Ne parleremo con calma.»
«A fargli fronte a questi incoscienti, a questi assassini a fin di bene, potete
star certi che mi ci metterò anch’io» disse Michele con determinazione, «per
quel poco che posso.»

CAPITOLO DECIMO

Dopo Sesto, Monza. Qui l’ambiente - pacifico, tradizionale - era al confronto


distensivo. E così poi la campagna e i paesi della Brianza più avanti. Adesso
alla mente di Michele tornava a riaffacciarsi Alma, e con lei gli tornavano in
mente due versi che - cadenzandosi sul ritmo del treno - gli avevano tenuta
compagnia durante l’interminabile viaggio da Susdal a Milano: ‘Signor che
volesti creare - per me questo amore lontano...,’ Tra poco avrebbe rivista dav-
vero Alma! Era soltanto questione di minuti ormai... Incredibile!
Entrarono in una Nomana sepolta nel sonno; il cancello del giardino era pe-
rò aperto, l’automobile l’oltrepassò, e schiudendo coi fari fuggevoli ventagli di
luce tra i cespugli del prato, andò a fermarsi accanto alla porta di casa. Spento
che Ambrogio ebbe il motore, i tre smontarono; erano quasi le due.
Videro, attraverso una finestra, accendersi la luce delle scale, poi quella del
vestibolo.
Rodolfo - tredici anni, in pigiama e ciabatte - venne ad aprire la porta. «Al-
lora? C’è o no Michele? Ah, eccolo, ciao, ciao Michele!» gridò quasi: «Passata
la mezzanotte non t’aspettavamo più e siamo andati a dormire. Come stai, Mi-
chele?»
L’ufficiale gli strinse la mano: «Tu saresti Rodolfo se non sbaglio.»
«Sì.» Il ragazzo lo guardava con interesse: l’ospite indossava una divisa
nuova nuova dell’esercito italiano, di quelle color cachi all’inglese, ma si capi-
va che doveva averne passate tante; reggeva con una mano il tascapane semi-
vuoto, nuovo anche quello: era come un povero che fosse stato rivestito da
capo a piedi. Rodolfo s’emozionò: «Dai, vieni dentro» gli disse: «entra.» E
giratosi verso le scale: «Gente, popolazione» gridò: «scendete giù, scendete
tutti che è arrivato Michele.»
«Non gridare a quel modo» lo rimproverò Francesca: «Sei ammattito?»
Ma il ragazzo di rincalzo, sempre rivolto alle scale: «Sveglia, popolazione:
c’è Michele, c’è Michele, scendete giù.»
I tre entrarono in casa dietro di lui, mentre il piano superiore cominciava ad
animarsi. «Mancano soltanto Fortunato e Pino» Ambrogio avvertì Michele:
«Gli altri ci son tutti.»
«Ti preparo subito qualcosa, un piccolo spuntino» disse Francesca, levan-
dosi sveltamente il soprabito. «Se intanto vuoi darti una rinfrescata. Dov’è il
servizio lo ricordi, vero?»
«Sì, certo» rispose sorridendo il reduce.
Prima però ch’egli lasciasse il vestibolo, in cima alle scale apparve Alma: in-
dossava una vestaglia di lana celestina, le trecce castane le scendevano sul pet-
to come un tempo, sorrideva nel suo bel modo enigmatico: «Oh, Michele, caro
Michele» disse con voce gentile, tendendo una mano verso di lui, e si fermò,
simile a una statuina.
«Alma» esclamò Michele, il cui cuore s’era improvvisamente messo a batte-
re da scoppiare: «Almina!»
«Dai» gridò Rodolfo, sempre emozionato, alla sorella: «scendi giù, non sta-
re lì imbranata.»
Alle spalle di Alma spuntò Giudittina - undici anni, in pigiama, sonnacchio-
sa, i capelli in un’unica treccia - la quale, anziché interessarsi subito a Michele,
strillò all’indirizzo di Rodolfo giù in basso: «Popolazione, scendete popolazio-
ne» rifacendogli il verso, e concluse: «Macaco!» Dopo di che si rivolse a Mi-
chele e, corretto il proprio atteggiamento, lo salutò.
Ma Michele non aveva occhi che per Alma: eccola, esisteva davvero, era
davvero di questo mondo, ed era qui... “Signore Iddio ti ringrazio. Dio mio! Tu
mi concedi questo!” ripeteva tra sé e sé, con tremenda emozione. Ricordava in
che pazzeschi momenti l’aveva pensata, adesso però non doveva rivangare,
drammatizzare, doveva comportarsi nel migliore dei modi per farle buona im-
pressione. Ma qual era il migliore dei modi? Sentì che il viso gli si sbiancava, il
sangue gli affluiva tutto al cuore, cosa gli stava succedendo?
«Alma» ripeté, senza muoversi neppure lui, con l’improvvisa sensazione
che a fare anche un solo passo sarebbe potuto cadere.
Alma prese a scendere le scale inconscia del tumulto che stava suscitando:
veniva giù gentile, sorridente, col bavero della vestaglia celestina alzato attor-
no al collo sottile, ai piedi calzava pantofole di raso, celesti come la vestaglia;
arrivata a lui gli tese con naturalezza la mano, che il giovane strinse appena:
«Ti ritrovo, Alma» mormorò.
«Chissà quante ne hai passate, Michele» disse la ragazza «da quel giorno,
ricordi? che sei stato in visita da noi l’ultima volta.» Lui annuì. «Ne ho passate
davvero tante.»
«Ambrogio ci ha spiegato che sei vivo non per uno, ma per molti miracoli di
seguito.»
«È vero, proprio così. Adesso però...» s’interruppe.
«Adesso però?»
«Vedo te.»
Lei sorrise come per un’uscita stravagante; indugiò un poco, poi: «Hai
sempre intenzione di fare lo scrittore?» gli chiese.
«Eh! Che altro potrei fare?»
«Ecco.» La ragazza sorrise di nuovo: questo, secondo lei, spiegava i modi un
po’ strani di lui. Pensò anche, adolescente: “Con uno scrittore io dovrei sen-
tirmi in soggezione, e invece no”.
Com’era incantevole! Michele la trovava non in tutto, per la verità, simile a
come la ricordava, e ciononostante più che mai rispondente alla propria atte-
sa: “Dio i suoi capolavori li sa fare davvero bene” pensò, “altro che noi con la
nostra fantasia!” e avrebbe voluto dirglielo. Gli venivano però alla bocca frasi
che erano piuttosto inni che frasi, pronunciarne anche una sola sarebbe equi-
valso a farle una dichiarazione d’amore, una pazzia. «Quanti anni hai ades-
so?» le chiese.
«Diciannove.»
«Ciao» gridò a questo punto Giudittina che, scesa a sua volta a pianterreno
e rimasta fino a quel momento zitta, desiderava lei pure festeggiare il giovane:
«Ben tornato!» e fece per balzargli al collo; ma Rodolfo, che l’attendeva al var-
co, l’abbrancò per la treccia, e tirandogliela: «A chi macaco, eh? A chi?»
«Voi due» fece Alma: «Vi pare il modo?» E allontanato con una mano Ro-
dolfo: «Su» disse a Giudittina «saluta come si deve.»
Giudittina tese la mano al reduce e accennando un inchino: «Buona sera,
cioè buon giorno» mormorò.
«Buon giorno o buona sera?» chiese Michele, trattenendole la mano: «Cosa
fai? La contegnosa con me?»
«Eh» disse lei «devo farlo per buona educazione. Se no questi mi predica-
no.»
L’ufficiale annuì divertito.
Ambrogio era uscito per portare la macchina in rimessa, Francesca era in
cucina. «Vieni» Alma invitò Michele: «Accomodiamoci intanto in sala.»
Lo precedette, accese le luci del locale; il giovane la seguiva come incantato;
notò che la vita della ragazza, stretta dal cordone della vestaglia, era molto
sottile, verginale.
Sedettero al tavolo, uno di qua, l’altra di là; Michele avrebbe voluto che il
tempo si fermasse, che potessero restare così: loro due nella sala a contem-
plarsi, nel silenzio rigato dal tic, tac, tic, tac sommesso dell’orologio. Che me-
raviglioso, incredibile momento - si disse - era questo ch’egli stava vivendo.
Uno di quei momenti che, nella vita, compensano veramente quegli altri là,
così tragici.
Giuditta e Rodolfo li avevano seguiti in sala; il reduce sorrise loro, ma face-
va fatica ad interessarsi ad altro che ad Alma. La quale lo guardava con i suoi
occhi castani, onesti, un po’ sorpresa del suo comportamento. Finì con
l’esprimere il pensiero che aveva formulato poco prima: «Gli scrittori sono
sempre un po’ strani» disse.
Michele annuì, poi si schermì alzando alquanto le spalle, come a dire: “Che
ci possiamo fare?”
«Senti» propose la ragazza «perché non mi racconti un... miracolo? Voglio
dire, uno di quei casi attraverso cui sei passato?» Ma subito ci ripensò: «No,
non adesso; cosa dico? Questo non è il momento.»
«Perché? Se ti...» incluse con uno sforzo anche gli altri: «se vi fa piacere.
Vediamo un po’, un miracolo...» fece Michele, e intanto pensava: “Ma perché
cercarne un altro? Non basti tu come miracolo? Se n’è mai visto uno più bel-
lo?’ «Dunque, vediamo... Beh, una specie di miracolo - guardate che non
scherzo - l’ha fatto una volta sant’Antonio a un cappellano bergamasco, un
certo padre Turla, che stasera è arrivato con me a Milano. Anche Ambrogio e
Francesca l’hanno visto.»
«Sì, è vero» confermò Francesca che in quel momento era entrata in sala a
prendere delle stoviglie: «Forse adesso è ancora là in stazione Centrale, pove-
ro padre, a cercar di confortare quei due poveretti.»
«Due poveretti?» chiese Alma.
Rodolfo e Giudittina i quali, in attesa del racconto di Michele, si erano pure
seduti al tavolo, guardarono le sorelle maggiori infastiditi, mostrando di non
gradire interferenze.
«I genitori di uno che non è tornato» spiegò il giovane ad Alma; ma senza
aggiungere altro: non voleva appenarla: esistono anche le ragioni della vita,
non solo quelle della morte. I due ragazzi, con gli avambracci poggiati sul ta-
volo e il mento sui pugni sovrapposti, lo guardavano in attesa.
«Io, intendiamoci, a questo miracolo non ho assistito» precisò Michele
«perché non facevo parte di quella colonna, ch’era quasi tutta di alpini. Padre
Turla però me lo ha raccontato e confermato più d’una volta, anzi in certi
momenti di fame maledetta m’è capitato di sentirgli dire: ‘Ah, se sant’Antonio
facesse ancora il miracolo del pane!’ Insomma ragazzi, per farla breve è suc-
cesso questo: che quella colonna d’alpini prigionieri marciava ormai da quin-
dici giorni senza - si può dire - mangiare mai, diretta a un posto orribile che si
chiama - o meglio si chiamava - Crinovaia. Era febbraio, ancora inverno, mol-
tissimi erano già morti di freddo e di stanchezza, ma soprattutto di fame, per-
ché al gelo e alle fatiche gli alpini di per sé resisterebbero. Beh, padre Turla
stava in coda alla colonna, con i più sfiniti, che camminavano trascinandosi;
se uno cadeva, nessuno era più in grado di sollevarlo, e le guardie allora...»
«Allora?» chiese spaventata Giudittina, coprendosi la bocca con le mani.
«Insomma una situazione molto brutta, proprio brutta. ‘Avessimo anche
soltanto un pezzo di pane’ pensava il cappellano, e gli veniva in mente
sant’Antonio da Padova che ha moltiplicato il pane per i poveri. ‘Ma chi è più
povero di noi?’ ragionava lui, ‘che per rimanere in vita abbiamo solo questo
poco fiato che c’è rimasto?’ Ha finito col dirlo anche a sant’Antonio, col pen-
siero, si capisce: ‘Sant’Antonio, rispondimi: chi è più povero di noi, eh, chi?’
Quasi s’arrabbiava: ‘Sai cosa ti dico? Che se non ripeti anche per noi il tuo mi-
racolo, qui e adesso, tu sei ingiusto.’ Capite? E insisteva, perché era in uno di
quei momenti in cui un unico pensiero ti si ferma nella testa e diventa una
specie di fissazione.»
«Attenti che Michele non dice per dire» avvertì con discrezione Ambrogio,
ch’era appena rientrato: «Questa è una cosa che ho provato anch’io.»
«Anch’io» affermò Giudittina.
«Oh, tu» fece con spregio Rodolfo.
«Beh, la colonna era arrivata a un paese di isbe, che son casette col tetto di
paglia - quasi tutti i piccoli paesi in Russia sono così - e il cappellano ha co-
minciato a dire: ‘Vedi sant’Antonio, il pane tu potresti per esempio farmelo
trovare sulla neve là in quel punto, dove c’è quella macchia che somiglia giusto
a una pagnotta’. “Povero me” pensava intanto “che vedo pane dappertutto!”
Eppure quella cosa sulla neve sembrava proprio una pagnotta: che lo fosse
davvero? Padre Turla s’è stropicciato gli occhi: ‘Adesso mi vengono anche le
traveggole’ fa, continuando, mentre camminava, a guardare in quel punto. La
forma si trovava appena un passo o due fuori della pista, tutta la colonna c’era
sfilata vicino; quand’è arrivato lui s’è abbassato, ha allungata una mano e l’ha
raccolta: era davvero un pane, un grosso pane russo, appena un po’ impolve-
rato di neve.»
Giudittina batté col palmo delle mani sul tavolo.
«Per assicurarsi meglio, il cappellano l’ha spezzato in due: non c’erano
dubbi, era proprio pane, ed era anche fresco, non congelato. Dice: ‘Ehi, guar-
date: sant’Antonio ha fatto il miracolo’ e mostra il pane agli altri soldati sfiniti,
che non credevano ai loro occhi; poi lo ha diviso in pezzi e mangiato con loro.»
Michele parlando s’era rivolto più ai ragazzi che ad Alma; terminato che eb-
be fermò lo sguardo in viso alla ragazza, annuì, e disse serio: «Lo so che può
sembrare una favola, uno di quei fioretti di san Francesco; però com’è vero
Dio, questo fatto è accaduto. Non solo padre Turla, ma anche altri me l’hanno
riferito, tra cui un alpino della Cuneense che ha mangiato un po’ di quel pane.
Secondo abbiamo cercato di ricostruire poi, quasi certamente il pane doveva
averlo depositato lungo il percorso delle colonne qualche donna russa: perché
le contadine in Russia sono ancora d’animo cristiano e buono, solo che in quei
momenti dovevano stare molto attente, perché era proibito aiutare i prigionie-
ri. Sant’Antonio l’avrà ispirata, e ad ogni modo quel pane l’ha fatto trovare a
padre Turla che lo invocava.»
«Perché una donna russa?» intervenne Giudittina: «Non occorre.
Sant’Antonio il pane può crearlo anche dal niente.»
«Allora non sarebbe stato pane russo» le spiegò, una volta tanto con garbo
Rodolfo: «Non capisci? Sarebbe stato pane italiano allora, perché
sant’Antonio è di Padova.»
«Ah già, questo è vero.»
Michele guardava il bel viso attento di Alma: come gli riusciva naturale par-
lare di simili cose davanti a lei! “In sua presenza torna a rivivere il mio bel
medio evo...”

***
Si udì la voce di Francesca che, in anticamera, informava il padre e la madre
dell’arrivo di Michele.
«Oh, mi spiace» disse il reduce, riaffiorando di colpo al presente, «d’avervi
svegliato proprio tutti. Non... non avrei dovuto accettare di venire qui a
quest’ora.»
«Non dirlo più» lo pregò Alma. Aggiunse: «Con noi tu non devi fare com-
plimenti, ti prego. Noi ti vogliamo bene davvero.»
«Sì, lo so» disse il giovane «me ne accorgo...» e si rimise a contemplarla.
La contemplazione fu però subito interrotta dall’ingresso in sala di Gerardo
e di Giulia, e dagli inevitabili convenevoli; entrambi i genitori di Alma piace-
vano a Michele: Giulia perché dava l’impressione d’essere madre non soltanto
dei suoi figli, ma di tutti (prima di partire questo Michele una volta l’aveva
anche detto, e ora se ne ricordò); Gerardo gli piaceva per la sua tetragona atti-
vità d’imprenditore; aveva visto in Russia a cosa può condurre la mancanza o
la scarsità d’imprenditori: “questi capi utilissimi nell’incessante lotta degli
uomini contro la miseria”, com’egli li vedeva ora, convinto a contrario dalle
analisi che sono nei testi marxisti. Non appena tutti si furono seduti di nuovo
al tavolo, Alma raggiunse in cucina Francesca e Noemi, ch’era lei pure scesa a
pianterreno coi capelli tutti arruffati; la ‘statuina’ cominciò a darsi da fare in
un modo tale da generare nelle altre due l’impressione che a Michele inten-
desse accudire lei con le sue mani, e se possibile in esclusiva.

CAPITOLO UNDICESIMO

Dopo un abbondante spuntino dei tre giunti da Milano, cui non mancò
d’associarsi il tredicenne Rodolfo, salirono tutti al piano superiore. Per Miche-
le era stata approntata la camera di Manno: «Che rimarrà a tua disposizione
non soltanto in questi mesi, ma anche tutto l’anno venturo e oltre, finché tu
vorrai» gli disse Giulia. «Mi sono spiegata? M’hai capito bene? Hai sofferto
cose terribili, povero figlio, e in aggiunta non trovi più tuo padre al ritorno.
Noi - non solo Ambrogio, ma tutti noi - vorremmo riuscire a farti sentire la
nostra amicizia.»
Sul letto era predisposto un pigiama: «È nuovo, non l’ha mai indossato nes-
suno» gli disse ancora la madre: «per Ambrogio è un po’ grande, mentre a te
dovrebbe andar bene. L’avevo fatto fare per Manno al tempo che
l’aspettavamo...» S’interruppe, gli occhi le si empirono di lacrime; uscì dalla
camera dopo aver disegnato con la destra un segno di croce: non ampio e so-
lenne come usava tracciare ogni sera sul gruppo dei figli Gerardo, il capo fa-
miglia, ma più modesto, più schivo.
Michele non poté addormentarsi subito, perché a causa delle troppe emo-
zioni e della stanchezza non gli riusciva di rilassarsi. Gli tornava in mente suo
padre: se fosse stato in vita, certo nel corso di questa notte il padre l’avrebbe
trattenuto a conversare per ore e ore. Invece... Gli si prospettava a tratti -
atroce visione - il povero viso paterno come doveva essere in questo momento,
disfatto da tre anni di sepoltura (“Lui però, il suo spirito, per fortuna non è là
in quello sfacelo: è nella gloria di Dio, felice per sempre, insieme con la mam-
ma.”) Introdotti dalla lugubre visione gli tornavano in mente anche i morti
cannibalizzati di Crinovaia, ora tutti riuniti nella balca (un groviglio di venti-
settemila cadaveri!), e quelli che a Oranchi venivano portati fuori della barac-
ca-infermeria al tempo del tifo petecchiale. Da quell’infermeria non uscivano
quasi altro che cadaveri: una terribile sera i malati di tifo - tutti ormai convinti
di morire - avevano rizzato in piedi sul suo pancaccio l’unico cappellano pre-
sente, moribondo, con gli occhi sbarrati, grottesco in mutandone e camicia, e
un soldato gli aveva guidata la mano inerte a impartire l’assoluzione; il cappel-
lano, con quegli occhi fissi, s’era a un tratto messo a biascicare la formula, as-
solvendoli tutti in articulo mortis. Anche dopo ridisteso sul pancaccio aveva
poi continuato a biascicare la formula come un automa, però non era morto: si
trattava di quel padre Brevi che in seguito... Beh, basta. Padre Brevi non era
stato rimpatriato: adesso era da qualche parte in Siberia, con gli altri ‘irriduci-
bili’ che più fieramente si erano opposti al plagio comunista; chissà dove si
trovavano in questo momento... Il loro coraggio lo stavano pagando caro, mol-
to caro; chissà se sarebbero mai tornati in patria? Ma basta, basta. Almeno per
un po’ basta con queste atroci cose.
Per liberarsi da tali pensieri - qui a Nomana, come già tante e tante volte
durante la prigionia - Michele finì col ricorrere ad Alma. (S’era innamorato di
lei appunto evocandola a questo modo: più che d’una ragazza reale si era dun-
que innamorato della sua immagine; quanto fosse prodigioso e fuori del co-
mune che l’incontro con l’Alma in carne ed ossa non l’avesse deluso, egli non
si rendeva per ora affatto conto: seguitava a pensare che si fosse rinnovata
quell’antica vicenda ‘Signor che volesti creare - per me questo amore lonta-
no...’ e trovava la cosa naturale, o quasi.) L’incredibile, a riflettere bene, era
piuttosto che Alma fosse ora a soli pochi passi da lui, al di là d’alcune pareti...
E lui se ne rimaneva qui inerte, come quand’era lontana migliaia di chilome-
tri? Si rigirò parecchie volte nervosamente nel letto, finché: “Piantala, cerca di
calmarti” si disse.
“Cosa vorresti? Bussare alla sua porta” (aveva notato qual era la porta della
camera che la ragazza divideva con Francesca) “e dirle... Dirle cosa? ‘Scusa
Alma, ti chiedo una bazzecola: che tu continui a dormire tranquillamente,
mentre io sto qui a contemplarti.’ Questo vorresti dirle? Basta, cerca di dormi-
re piuttosto, di non rimanere insonne fino all’alba.” All’alba l’avrebbe poi rivi-
sta e contemplata a suo agio, ed avrebbe potuto esaltarsi, e... cantarla - si girò
e rigirò di nuovo nel letto - proprio così: cantarla, al modo di Beatrice... Già,
dunque, ricominciava a idealizzarla. Finché gli attraversò la mente un aspetto
molto pratico della situazione: “Attento! Almina appartiene a una famiglia
facoltosa, d’industriali...” Mentre lui era davvero povero, senza nemmeno la
laurea, senza un mestiere, senza, come si dice, ‘arte né parte’. Stava per entra-
re nel sonno, a questo pensiero sussultò e il sonno si ritrasse da lui. Beh, la sua
‘arte’ lui l’aveva, altroché se l’aveva: la possibilità di scrivere stava in lui allo
stato di singolare potenza, così come stava in lui, a momenti traboccante, la
potenza virile, la possibilità di generare, che pure egli non aveva mai usata.
Anzi il Signore Iddio non gli aveva concesso soltanto la possibilità di scrivere,
ma anche, guarda, a soli venticinque anni un’esperienza degli uomini e delle
cose davvero straordinaria, una materia prima oggettivamente enorme...
S’addormentò finalmente: poco alla volta il sonno sciolse la sua tensione;
fuori della finestra aperta c’era la propizia notte di settembre in Lombardia,
alla quale Manno, e Stefano, e tanti altri ragazzi non avevano fatto ritorno. Lui
invece era tornato, la sua tremenda peregrinazione avanti e indietro tra le
sponde della vita e quelle fetide della morte, era finita; gli era stata concessa la
vita.

CAPITOLO DODICESIMO

L’indomani si svegliò poco dopo gli altri, che avevano tutti avuto cura di
non far rumore per non disturbarlo (specie Giudittina, la quale avvertiva bene
l’importanza di tener da conto uno che, sia pure indirettamente, spartiva i suoi
casi con sant’Antonio).
Quando il giovane scese a pianterreno Alma gli andò incontro festosa e lo
fece premurosamente accomodare in sala per la colazione. Ambrogio era già
uscito (dopo aver fatto colazione in piedi, al modo dei contadini e degli operai
perché - come al padre ch’era stato operaio - gli pareva sconveniente consu-
mare la prima colazione seduto, con davanti bricchi e cuccume). Almina inve-
ce fece sedere Michele e gli portò il caffè («Guarda che si tratta sempre di sur-
rogato») e il pane («Questo è buono, è fresco») e una frittata (le uova! da che
tempo immemorabile lui non le gustava più?), e rimase a tenergli compagnia
mentr’egli mangiava, sorridendo gentile, con le trecce castane sul petto e il
grembiule a mezza vita.
«Poi, se ti va, qui c’è il giornale. Chissà da quanto tempo non lo leggi.»
«Sì, infatti, m’interessa veramente.»
Vennero anche Francesca e la madre Giulia ad assicurarsi che niente man-
casse all’ospite. Prima ch’egli terminasse la colazione fu di ritorno Ambrogio,
il quale si era recato in fabbrica a dare alcune disposizioni urgenti (malgrado
la dispensa paterna, al lavoro in fabbrica non aveva mai rinunciato del tutto) :
«Oggi sono libero» annunciò, «così posso accompagnarti in auto a Monza e a
Nova e dovunque ti pare.»
Ma a questo riguardo Michele non fu d’accordo: «Ti prego, niente macchi-
na. Prestami una bicicletta piuttosto.»
«Che bicicletta? Dai piantala, che ormai non sai neanche più come si fa ad
andare in bicicletta.»
«No Ambrogio, ti prego, fammi saltar fuori una bicicletta. Che oltre tutto mi
sarà utile, in questi giorni, per tornare da voi.»
«Tornare? Sei matto? Tu qui ci sei e ci resti. Ma sentilo.»
«No, Ambrogio, ascolta...»
Ambrogio finì col dargli la propria bicicletta - sempre la stessa, sportiva, di
colore azzurrino, col manubrio orizzontale - sulla quale Michele, tuttora in
divisa, partì alla volta di Monza. Promettendo che sarebbe tornato il giorno
dopo, mentre tutti intorno lo pregavano di tornare quel giorno stesso. «Ti
prepariamo un po’ di cena» dicevano le donne: «Ci fai torto se no.» Ma seb-
bene commosso egli faceva segno di no con la testa.

***
Partito lui, Almina si sentì straordinariamente sola: una brutta sensazione,
che di rado aveva sperimentato nella sua breve vita; si ritirò pensosa in cucina.
Prima di tornare in fabbrica Ambrogio passò dalla cucina e le chiese una mez-
za scodella di surrogato. «Sai quanti esami deve ancora dare Michele?»
s’informò Alma, mentre gli porgeva la scodella.
«All’università vuoi dire?»
«Sì, appunto.»
«Oh, poveretto! Fa conto che li abbia da dare tutti: perché ne ha dati soltan-
to un paio dei minori, sai, come pretesto per venire in licenza. Però è molto in
gamba, e dunque...»
Sorbì il surrogato di caffè, sorrise alla sorella, figurina gentile con le trecce e
il mezzo grembiule: sembrava una bambina che stesse giocando. «Beh, ciao,
gattino di marmo» le disse, e se ne andò.
Che giovane meraviglioso era Michele, pensava Alma mentre rigovernava
trasognata all’acquaio. E, per incredibile che la cosa fosse, non c’erano dubbi:
aveva mostrato d’interessarsi a lei: sì, più a lei che a Francesca. Cosa che nes-
suno aveva mai fatto finora. “E non soltanto ieri sera, che poteva anche essere
frastornato dalla stanchezza, ma stamattina, poco fa: non c’è dubbio ch’è stato
molto contento di rivedermi. Cosa trovi di buono in me non capisco, però è
certo che mi ha rivista con... gioia, sì, ecco, anche se pare incredibile, con
gioia. E per tutto il tempo era contento d’avermi vicina, sono sicura di non
sbagliare”.
Le venne accanto la madre, e non indovinò la sua emozione, che anche sta-
volta non traspariva all’esterno.
«Sai mamma?» disse dopo un po’ Alma: «Stavo pensando a quella decisio-
ne che devo prendere... dico riguardo ai miei studi, se continuarli oppure no.»
«Sì?»
Alma s’era diplomata maestra qualche mese prima, obbediente al volere del
padre Gerardo che tutti i figli maschi si laureassero e le femmine almeno si
diplomassero, per garantirsi il pane.
«Allora?» disse la mamma.
«L’altro giorno avrai, credo, avuta l’impressione ch’ero piuttosto per il no,
per non continuare. Ma adesso ci sto ripensando.»
«Beh, per decidere hai ancora tempo.»
«Sì, ma ormai sto cambiando parere. Insomma non ho ancora deciso, ma
credo che m’iscriverò all’università, alla facoltà di magistero.»
«Il papà ne sarà contento.»
«E tu?»
«Se lo fai volontieri, perché no? Ne sarò contenta anch’io.» “Michele non è
ricco” rifletteva Alma: “Se dovesse scegliere me, un gattino da niente come
me, per sua sposa, io non devo essergli di peso, ma al contrario devo essere in
grado d’aiutarlo. E lo sarò”.
Non smise di fantasticare nemmeno dopo lasciata la cucina, mentre sfac-
cendava nelle stanze con Noemi. “Lui farà lo scrittore e io insegnerò. Nelle ore
libere dall’insegnamento, ogni pomeriggio per esempio, potrò - se lui si fiderà
- fargli da segretaria: andrò in biblioteca a Milano, farò le ricerche per lui, per
evitargli di perdere tempo”. C’era un fondo pratico, una disposizione
all’efficienza nei suoi pensieri: ora come sempre, in strano contrasto con
l’aspetto esteriore di statuina.
“Se poi non mi volesse (perché infatti è quasi impossibile che mi voglia dav-
vero per moglie, sarebbe troppo bello) beh, come laureata in lettere sarò se
non altro in grado di capire meglio i suoi libri, che saranno... di sicuro saranno
meravigliosi”.

CAPITOLO TREDICESIMO

Nei giorni seguenti Michele tornò più volte a Nomana, trattenendosi però
sempre poche ore soltanto. Con suo sincero rincrescimento, perché - anche
senza mettere in conto Alma - il suo naturale punto d’approdo lo sentiva qui,
in questo ambiente pieno di vita, e non a Monza nella deprimente casa degli
zii. I quali si dimostravano solleciti di lui, poveretti, ma erano tutt’e due an-
ziani e con la mente inevitabilmente irretita dai propri acciacchi e problemi, la
zia poi quasi in permanenza lamentosa; pure avevano, con loro incomodo,
lasciata libera per lui la stanza meglio illuminata del loro appartamento, e
v’avevano fatto sistemare un letto ottocentesco, e un tavolino accanto alla fi-
nestra.
Il giovane s’era anzitutto dato da fare per trasferire qui dalla casa di Nova i
pochi abiti civili (adesso troppo giovanili e stranamente inadeguati alla sua
figura), i testi di giurisprudenza, nonché la scrivania regalatagli dal padre
quando s’era iscritto all’università. Intendeva affrontare gli esami universitari
al più presto, uno dopo l’altro: “Devo toglierli di mezzo tutti e arrivare a lau-
rearmi: bisogna che ce la faccia in un anno, in non più d’un anno, perché devo
assolutamente mantenermi da me.” Nel frattempo avrebbe cominciata anche
la stesura di un libro che gli stava già tutto delineato nella mente.
Sistemata ch’ebbe nella stanza di Monza la scrivania al posto del tavolino, si
soffermava a osservarla, e s’incantava: era tutta per lui, un’intera scrivania per
lui! Chi l’avrebbe creduto possibile là nel lager? Adesso nessuno avrebbe po-
tuto impedirgli di scrivere il suo libro: gli unici ostacoli sarebbero stati il son-
no e la stanchezza, al più lo sfinimento per troppo lavoro. “Che sono scioc-
chezze, roba da ridere: cos’è un po’ di sfinimento, se nel contempo non sei co-
stretto a dormire nella neve con decine di gradi sotto zero, e oltre tutto hai da
mangiare a sufficienza? Cosa vuoi che sia un po’ di sfinimento? Davvero roba
da ridere.”
In pari tempo non gli sarebbe stato difficile andare a trovare Alma, parlarle,
contemplarla; la possibilità d’incontrare Alma era senza dubbio la cosa più
importante di tutte: avrebbe introdotto nella sua vita qualcosa di molto simile
alla felicità. L’assaporava fin d’ora nell’aspettativa. Ma perché a lui toccava
tutto questo, mentre tanti altri... Già, gli altri. Quei morti lividi nei cortili di
Crinovaia, ciascuno di loro un essere umano, un destino. E le grida di quel po-
veraccio di Pavia, bestialmente sospinto nel bidone del brodo bollente, e... Ma
basta. Bisognava saper troncare questi pensieri. “L’eterno riposo dona loro
Signore, e mostragli la tua faccia, ti prego, in cui sta tutto il bene”. Forse, a
ripensarci, la felicità per lui non era ancora precisamente a portata di mano...
“Beh, forza, andiamo dai Riva. Là c’è una compagnia simpatica, e non c’è tem-
po per pensare a queste cose. Dai, in meno d’un’ora di bicicletta sono a No-
mana.”

***
Non ci poteva però restare a lungo a Nomana. Perché quand’era là, in quel
movimento, gli succedeva di riandare con la mente il proprio programma
d’azione, e gli pareva per esempio necessario chiedere a un dato compagno di
corso come andassero le cose nella sua facoltà riguardo agli esami. Se Ambro-
gio (dopo aver magari protestato: «Non ti basta quello che ti dico io?» «No, tu
fai scienze economiche, io devo sapere con precisione come vanno le cose a
legge») trovava modo di farlo parlare per telefono con quel compagno, questi -
prossimo alla laurea - oltre a dargli le informazioni, gli offriva impensatamen-
te in prestito i propri libri. Tutti i libri del secondo, terzo e quarto anno di leg-
ge... una vera manna! Allora Michele diventava impaziente di andare da quel
compagno, di portarsi a casa quei libri.
La vista stessa di Alma era un continuo sprone per lui: “Mio Dio, non per-
mettere che la perda, non farmela perdere. Già, ma io cosa faccio qui inerte?
Aspetto forse che un altro, finiti gli studi, si faccia avanti e... No, Signore, no,
tu questo non lo devi permettere.”
In effetti il Signore non l’avrebbe permesso; del resto considerando le cose
con più calma lo stesso Michele inclinava a pensarlo: se infatti era nei piani
provvidenziali ch’egli scrivesse (“Altrimenti perché sarei stato salvato a quel
modo ad Arbusov e in seguito?”) visto che non avrebbe potuto scrivere senza
avere Alma accanto...
Con la ragazza non intendeva bruciare i tempi. “Non precipitiamo le cose”
s’imponeva quando avvertiva particolarmente forte la spinta ad aprirle i pro-
pri sentimenti: “questo splendido amore deve durare tutta la vita”. Alma da
parte sua non gli chiedeva niente: ma che fosse a sua volta attirata da lui il
giovane lo arguiva da diversi particolari. Per esempio: visto il suo interesse per
i giornali, la ragazza aveva raccolto con cura quelli sparsi nei cassetti di casa, e
s’era anche recata dal fruttivendolo-giornalaio del paese (il ‘bel Peppo’) ad ac-
quistare gli arretrati disponibili (si trattava tuttora di larve di giornali, formati
da un solo foglio di quattro facciate); glieli aveva poi consegnati sorridendo:
«Non sono gran cosa, ma siccome ho visto che t’interessano... Guarda, in que-
sto ci sono i risultati elettorali del 2 giugno, tutti i prospetti, vedi? Il papà ave-
va messo questo giornale in un cassetto della sua scrivania, e adesso vien buo-
no.» Più avanti, arrivato per lei il momento di lasciare Nomana per trascorre-
re l’ultima decade di settembre nella colonia del suo collegio a Varenna sul
lago di Como, s’era semplicemente rifiutata di partire.
«Ma se è una cosa decisa da mesi» le ricordava perplessa Francesca.
«Andateci voi, io non ne ho più voglia» rispondeva lei. «Non mi sento più.»
Finì con l’intervenire la madre: «Alma, ti metti adesso, a diciannove anni, a
fare i capricci?»
«Non è un capriccio.»
«No? E cos’è allora?»
«È che... ho paura delle vipere.» (Quest’era una vecchia storia, quasi una
barzelletta. Quante volte i suoi fratelli l’avevano presa in giro per la faccenda
della vipera che, qualche anno prima, per poco - com’essi sottolineavano - non
l’aveva morsa a Varenna...)
«Ma se non hai avuto paura allora» le ricordava Francesca che aveva assi-
stito all’episodio. Alma si era inavvertitamente seduta sul rettile nel prato del-
la villa, e sentendolo muovere sotto di sé l’aveva preso e sollevato con una
mano: e da quella statuina che era, lo teneva così sospeso in aria, non lo but-
tava via, non scappava strillando come le altre collegiali. Fortuna che c’era lì
presso il giardiniere, il quale aveva prontamente ucciso il rettile con un colpo
di falcetto; bianche di spavento le suore Marcelline avevano poi portato tutte
le alunne in cappella a recitare una preghiera di ringraziamento per lo scam-
pato pericolo. «Se allora tu hai avuto meno paura di me? Io sì ch’ero spaventa-
ta, tanto che suor Tobietta mi ha fatto bere il fernet, ti ricordi? Mentre tu non
lo hai voluto, non eri per niente impressionata. E adesso...»
«Beh, adesso invece m’è venuta paura. Insomma io a Varenna non ci vengo,
vi prego di non insistere.»
Francesca e Giudittina finirono col partire senza di lei.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Così, in quell’ultimo scorcio di vacanze estive solo Alma ed Ambrogio erano


disponibili per tenere compagnia a Michele allorché capitava a Nomana (gli
altri fratelli universitari infatti - essendo imminenti gli esami autunnali - sta-
vano sempre chiusi nelle loro stanze a studiare).
Molte erano le notizie ed esperienze che Ambrogio e Michele avevano da
scambiarsi. Se per conversare sedevano in casa, Alma arrivava puntuale con
un lavoro di cucito tra le mani e sedeva accanto a loro, intervenendo piuttosto
di raro; se i due uscivano a sgranchirsi in giardino, Alma li accompagnava, a
volte senza neppur partecipare alla conversazione.
«Cosa fai?» arrivò a chiederle un po’ sorpreso il fratello: «Sei diventata il
nostro cagnolino?»
«Ah no» gli s’oppose prontamente Michele: «la colpa è nostra e soltanto
nostra, che non facciamo discorsi che la interessino. Anche così però Alma è...
la sua sola presenza per noi è... una festa, più di tutti i fiori del giardino messi
insieme.»
Ambrogio lo guardò stupito, poi tentennò la testa: «In certi momenti di-
mentico che sei un poeta» disse. Sbottò a ridere: «Ma lo sai che a volte voi
poeti siete buffi?»
Si volse alla sorella, convinto che in questo fosse d’accordo con lui: «Eh,
Alma?»
«No» gli rispose Alma «Michele è tutt’altro che buffo» e seguitò a cammi-
nare tranquilla al loro fianco, piena di grazia, con le due trecce castane che le
scendevano sul petto.
«Ehi, così mi rispondi, gattino di marmo?» fece ridendo Ambrogio: «Allora
sai cosa ti dico? Che non soltanto son buffi i poeti, ma anche le donne. Beh,
va» disse a Michele: «torniamo a parlare di cose serie. Stavi spiegandomi co-
me gli operai russi vedono il regime.»
Michele proseguì il proprio discorso: l’argomento in sé lo interessava, eppu-
re ciò che l’occupava sopra ogni cosa - come sempre del resto - era la presenza
di Alma, e in questo momento l’evidente significato della sua mite assiduità:
“Anche lei mi vuol bene, ormai non c’è dubbio: Ecco: ‘Amor che a nullo amato
amar perdona’... È proprio così, ed è molto bello sperimentarlo...”

***
All’ora dei pasti comparivano Fortunato e Pino, e tenevano a loro volta un
po’ di compagnia a Michele. Questi interrogò a più riprese minutamente Pino
sulla sua esperienza partigiana: cercava d’afferrarne l’essenziale e i particolari,
sembrava non averne mai abbastanza. «Ne riparleremo ancora» era ogni volta
la sua conclusione.
«Senti, ho l’impressione che alla vicenda partigiana tu dia più importanza
del dovuto» lo avvertì onestamente Pino.
Michele tentennò la testa: «Il fatto è che - sia giusto o no - col tempo finirà
col contare sempre di più, vedrai: non c’è il minimo dubbio.»
Libero da esami e preoccupazioni arrivava, ultimo, Rodolfo, tredici anni
come s’è detto; veniva direttamente da ‘I dragoni’ dove, insieme col vecchio
portinaio, tendeva in quella stagione insidie agli uccelli di passo. Poiché aveva
le mani regolarmente sporche di vischio, era costretto a insaponarle e sciac-
quarle non una ma parecchie volte; così si metteva sempre a tavola in ritardo.
«Gente» diceva sedendo, con la mente ancora tutta presa dalle piccole vi-
cende dell’uccellagione: «dovevate vedere stamattina il mio frisone di richia-
mo che fenomeno. Non ‘stacchettava’ soltanto agli altri frisoni, ma a ogni uc-
cello che entrava in vista, anche alle passere.» E mentre si legava il tovagliolo
intorno al collo: «‘Stacchettava’ che pareva un falegname: a momenti mi face-
va diventare sordo.»
«Cos’è questo ‘stacchettare’?» gli chiese la madre, accennando uno scuoti-
mento di testa: «Perché non parli in italiano?»
«Perché, mamma, la parola giusta in italiano non esiste; esiste soltanto in
dialetto: ‘stacchettare’, cioè piantare ‘stacchette’, chiodi. E infatti i frisoni - che
hanno un beccone grosso così, ecco, grosso quasi quanto la testa - per chia-
marsi tra loro battono i... i due mezzi becchi, e fanno un rumore come quando
si picchietta col martello su un chiodo.»
«I due mezzi becchi?» fece Pino, e scoppiò a ridere: «Ma sentitelo.»
«Oh, quanto sei stitico» borbottò Rodolfo, infilando la forchetta nella pasta
asciutta.
Tutti finivano col sorridergli con simpatia.
Dopo il pasto e due passi con gli altri in giardino, Fortunato e Pino tornava-
no ai loro libri. Anche questo fatto spronava nascostamente Michele: “E io co-
sa sto aspettando? Posso forse perdere tempo, io? ” Certo non veniva precisa-
mente dalla villeggiatura: un po’ di riposo, di distensione di nervi, gli avrebbe
fatto un gran bene, ma tant’è... finché non si fosse messo al lavoro non avreb-
be avuto pace. Finalmente cominciò a dare attuazione al suo programma di
studio, il che lo costrinse a ridurre le visite a Nomana.

III

CAPITOLO QUINDICESIMO

Alla ripresa delle lezioni universitarie i tre figli maggiori di Gerardo, cui ora
s’aggiungeva Alma, ricominciarono a fare la spola tra Nomana e Milano.
Michele invece si recava all’università piuttosto di raro, quasi soltanto per
dare esami; aveva, come reduce di guerra, la facoltà di convocare la commis-
sione esaminatrice, e se ne servì subito. (Una tale facoltà lo sorprendeva ogni
volta che l’usava: “C’è innegabilmente del buono nello spirito della democra-
zia” constatava.) Nei primi esami - scelti tra i più facili - ottenne senza difficol-
tà la sufficienza. Ne preparò allora uno impegnativo, e anche questo gli riuscì
bene. Dopo tali esperienze si trovò in grado - sulla base d’un’occhiata allo
spessore dei testi - di stabilire quanti giorni di studio all’incirca gli occorresse-
ro per la preparazione d’ogni singolo esame: il periodo andava da una setti-
mana per i minori, a due o tre settimane per quelli - com’egli li definiva - di
‘medio calibro’, a uno o anche più mesi per i maggiori.
«Come fai» gli chiedeva a volte meravigliato Ambrogio «a liquidare gli
esami con questa rapidità? Va bene che Gemellone l’aveva capito in anticipo
che sei un mezzo fenomeno; però spiegamelo, come fai? In liceo non eri così
bravo.»
«Beh, con gli anni si matura» rispondeva lui. Ma una volta: «Disilluditi. Co-
sa credi che mi rimarrà di uno studio portato avanti a questo modo? Il fatto è
che ho bisogno di laurearmi, e perciò non guardo per il sottile: mi basta arri-
vare all’esame con appiccicato nella mente tutto quello che sta nei testi, pagi-
na per pagina, in modo da poter rispondere. È una specie di violento gioco di
memoria, ma di memoria a breve termine.»
«Non vorrai dirmi che studi, ma non per imparare.»
«È così: studio per l’esame, non per dopo. Esattamente il contrario di quello
che si dovrebbe fare.»
«Beh, adesso non buttarti troppo giù.»
«Devo confessarti una cosa, Ambrogio. M’accorgo d’aver sbagliato quando
mi sono iscritto a legge. Io non ho assolutamente la mentalità adatta, la men-
talità giuridica, e - se escludi filosofia del diritto - di tutte queste cose che sono
obbligato a ficcarmi in testa, non me n’importa niente. Per cui la prospettiva
di sgombrare poi, alla fine, ogni cosa dalla mente, tutto considerato non mi
dispiace. Anzi è l’unica prospettiva che mi sembra sensata: cosa ce lo terrei a
fare tutto questo armamentario?»
«Ma allora dovresti cambiare facoltà, studiare qualcosa d’altro, che ti inte-
ressi.»
«Non sono più in tempo, perché se cambio facoltà non posso laurearmi nel
giro di un anno: me ne occorrerebbero quattro, lo sai.»
«Sì, questo è vero.»
Come gli accadeva un tempo trattando con suo cugino Manno, così ora trat-
tando con Michele, Ambrogio aveva a momenti la sensazione d’essere sì meno
dotato, però anche, in conclusione, più costruttivo. “Che non ci sia scampo?
Forse quando uno è molto intelligente deve per forza combinare anche delle
sciocchezze?” Avrebbe voluto aiutare Michele, ma in che modo?
In realtà fu il ritmo serrato con cui Michele dava gli esami ad aiutare lui.
Che presto ridusse drasticamente la propria frequenza alle lezioni, concen-
trando a sua volta ogni sforzo nella preparazione degli esami. Anch’egli pote-
va, come reduce, convocare la commissione esaminatrice: si rese conto che,
procedendo d’esame in esame, avrebbe potuto laurearsi entro l’anno accade-
mico, e si propose di farlo.
Michele intanto - sempre attenendosi al programma stabilito - aveva co-
minciato anche a scrivere il libro delle sue esperienze di Russia; il quale però
lo assorbì in breve a un punto tale da fargli, contro la sua volontà, trascurare
completamente lo studio, gli esami, e ogni altra cosa.
Dopo un certo tempo s’impuntò: “Cosa sto facendo? Io ho bisogno di lau-
rearmi al più presto, devo assolutamente laurearmi, non ci sono storie.” Deci-
se di ricominciare a dare gli esami: “Domani stesso vado all’università e con-
voco la commissione esaminatrice.”

CAPITOLO SEDICESIMO

Era in arrivo la primavera: lo si avvertiva anche sul vecchio tram articolato


che portava beccheggiando - e sui rettilinei più lunghi come caracollando -
Michele a Milano.
I binari attraversavano tra Monza e Sesto San Giovanni, e tra Sesto e Mila-
no, una pianura periferica cosparsa qua e là di rottami e rifiuti, con vari riqua-
dri di terreno incolti, coperti da irsute popolazioni d’erbacce morte, uccise
dall’inverno. Questo era l’ambiente che più d’ogni altro, in Italia, richiamava
alla mente del reduce la frusta desolazione dei lager. “Con quei mucchietti di
stracci sparsi tra baracca e baracca: bisogna che non li dimentichi nel libro.
Appena fuori dei reticolati c’era questa stessa erbaccia, come la chiamava quel
tale di agraria? artemisia. I soldati lombardi invece la chiamavano sancarlino,
a romperla quand’è verde dà quell’odore così forte... Sarà bene che ricordi an-
che questa erbaccia nel libro.” Il giovane si tolse di tasca una matita e un foglio
ripiegato su cui c’erano già degli appunti, e scrisse: ‘Stracci per terra nel lager
- sancarlini ed erbacce, desolazione ecc.’
Una donna di mezz’età, seduta davanti a lui con la borsetta in grembo, seguì
incuriosita la sua manovra cercando di non darlo a vedere; gli altri passeggeri
pensavano ai casi loro. Il giovane rimise carta e matita in tasca e tornò a guar-
dar fuori. S’accorse che tra le erbacce morte e allettate spuntavano di già quel-
le nuove, d un color verde tenero in mezzo a tutto quel grigiore. “Guarda, il
miracolo della primavera, anche qui in periferia, come dappertutto! Bisogna
riconoscere che la natura il suo dovere non manca di farlo, che non viene me-
no ai suoi compiti. A sciupare le cose, qui come dovunque, sono puntualmente
gli uomini.” Rifletté: “Ecco un’altra dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno,
del guasto che l’uomo si porta dentro. Davvero se non ci si rifà al precedente
del peccato originale (per oscuro che esso sia: chissà cos’è successo in realtà!)
mai e poi mai si potrebbe capire il comportamento umano.” In lui, ch’era poe-
ta, sulle riflessioni andò tuttavia prevalendo - e rapidamente - il senso della
primavera in arrivo: entro poche settimane - si disse - sarebbero spuntate le
viole, le quali a Nova, su certe prode esposte a mezzogiorno, apparivano già a
metà marzo. Che festa, quand’era bambino, le prime viole! Le raccoglieva infi-
lando le piccole dita tra le erbe secche, ne metteva insieme due o tre, e le por-
tava gioioso alla donna attempata che lo accudiva: «Senti che buon odore, Er-
silia.» “E se quest’anno facessi una scappata a Nova, a raccogliere le viole per
Alma?” L’Ersilia se le appuntava con un sospiro al petto, le poche violette dai
gambi ineguali che lui bambino le portava (quante cose in quel sospiro, a pen-
sarci adesso!) Ad Alma le viole starebbero bene nei capelli, attorno alla testo-
lina nitida: “Messe a corona: così per esempio, oppure in quest’altro modo, o
in quest’altro...” Il giovane vedeva con gli occhi della mente la testa di lei orna-
ta nei diversi modi: se la prospettava con una tale forza d’immaginazione da
averla quasi realmente davanti. Per qualche istante non lo toccava più il gri-
giore delle periferie, non vedeva più la gente affollata nel tram, la dimessa
gente popolana di sempre: sul lungo tram articolato correvano, insieme con
lui, Almina e la primavera.
“Povera Alma, alla quale non mi sono ancora dichiarato. Anche se, certo, ha
capito bene che sono cotto di lei.” Erano... quanti giorni? parecchi, almeno
dieci, che non la vedeva. “Prima il libro, dovevo a ogni costo finire quel pezzo;
poi, domenica scorsa - che avevo stabilito d’andare a Nomana - ci s’è messo
padre Turla.” Gli era arrivato un suo biglietto: ‘Cosa devo pensare di te? Sia-
mo a casa da sei mesi, e non ti sei ancora fatto vedere né vivo né morto’:
proprio così aveva scritto. Michele s’era sentito un po’ in colpa per cui, senza
lasciar passare altro tempo, domenica era andato a trovarlo tra le montagne
sopra Brescia. Caro, vecchio cappellano! Sembrava avere anche lui le sue diffi-
coltà a inserirsi nella vita normale... Beh, Alma l’avrebbe ad ogni modo, con
tutta probabilità, incontrata oggi: frequentava le lezioni in modo metodico,
come una scolaretta, dunque l’avrebbe quasi certamente incontrata
all’università.
Il tram entrò infine in Milano, attraversò beccheggiando piazzale Loreto, si
lasciò indietro il lugubre distributore di benzina dalle cui intelaiature avevano
penzolato a testa in giù i cadaveri di Mussolini, della sua infelice amante e di
vari gerarchi, nonché - a quanto si diceva - di uno sconosciuto, assassinato
semplicemente per sbaglio. La mente di Michele finì col trasferirsi dalla pri-
mavera, da Almina, e dalla rustica canonica di don Turla, alla folla vociante
ch’egli non aveva visto, al suo tripudio intorno ai cadaveri. Certo quei morti
erano responsabili di tante altre più morti, eppure che orrore quel tripudio
intorno a dei cadaveri, anche per lui che di orrori ne aveva visti innumerevoli!
Gli si prospettavano i visi, le bocche sconciamente spalancate
nell’acclamazione... Le belve non arrivano a tanto: solamente gli uomini, solo
la specie umana può arrivare a questi punti. Ancora una volta il peccato origi-
nale... Lui nel libro doveva assolutamente riuscire a renderla la tremenda real-
tà del peccato originale. Nominandolo in modo esplicito, oppure no? facendo-
lo semplicemente risaltare attraverso le sue conseguenze? “Beh, nominarlo
non sarà male, e più d’una volta anche, perché bisogna pur riabituare la gente
ad averci qualche familiarità”. Comunque non era cosa da decidere adesso,
doveva prima considerare, ponderare bene. “È un fatto però” tornò a ripetersi
“che se si esclude dal quadro il guasto che gli uomini si portano dentro - gua-
sto che si fa sentire in ogni cosa - la loro storia sarebbe inspiegabile”.
Facciate e ancora facciate di case, non poche con le occhiaie delle finestre
vuote, cumuli di macerie, ma anche numerosi cantieri di riparazione o di rico-
struzione; per le strade, ogni tanto, autocarri americani o inglesi; nelle vetrine
di corso Buenos Aires una discreta esposizione di merci.

A porta Venezia la linea tranviaria ‘forese’ terminava. Michele scese sotto la


vecchia pensilina del capo linea, passò accanto a scritte minacciose e a disegni
in vernice rossa di falci e martelli (il marxismo, questa tremenda trappola per
immaturi, seguitava a far proseliti: “Imbecilli: sapeste cosa c’è realmente die-
tro quegli emblemi!”). In più d’uno spazio pubblicitario tuttavia si vedeva
qualche timido manifesto nuovo, con l’offerta di prodotti: la qual cosa, raf-
frontata alle scritte, gli riuscì per contrasto quasi commovente. “È un po’ come
l’erba che vien su in periferia. Vedrai che ancora una volta la vita ce la farà a
prevalere sulla morte...” Prese un tram cittadino, più corto di quello che
l’aveva portato fin lì e per così dire meno energico, e dopo avere attraversata la
città per il mezzo, discese nei pressi dell’università cattolica.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO
All’ingresso dell’università, appena oltre l’arco sormontato dalla statua di
Cristo benedicente, una lapide ricordava in latino le distruzioni belliche ‘igni-
vomis globis ab Anglis e caelo temere coniectis’ ora però del tutto riparate e
trasformate in ricordo, in lapide appunto. Alquanto più avanti c’era sulla de-
stra il duplice portale della cappella: Michele sapeva che là dentro il Santissi-
mo era esposto in permanenza, e che almeno due persone vi stavano genufles-
se davanti giorno e notte in adorazione. Entrò per una visita, l’interno era gra-
devolmente riscaldato; inginocchiatosi sulla più vicina panca (munita di cu-
scinetti in pelle, anche questi tutto considerato confortevoli: “Si vede bene che
Gemellone è psicologo”), pregò per qualche minuto intensamente. Com’era
sua abitudine non mancò, dopo avere ringraziato Dio, di ringraziare anche il
proprio angelo custode, al quale stavolta raccomandò in modo particolare Al-
ma: “Quella ragazza, Alma, che sarà la compagna della mia vita: posso chie-
derti di vegliare su di lei con la stessa efficacia con cui vegli su di me? Senti...
secondo me tu dovresti fare una specie di... consorzio col suo angelo.” Già co-
minciava a fantasticare: “Vorrei afferrare la vostra essenza, almeno vedervi
come effettivamente siete, strane creature fatte di luce, specialmente te vorrei
vedere, splendido compagno che in certi momenti m’hai aiutato in maniera
addirittura sfrontata. Io non credo che l’angelo di Almina possa essere ga-
gliardo come te, quindi...” Si rese conto che questa non era più propriamente
preghiera; “Beh” disse all’angelo “mi hai comunque capito”. Si alzò, fece una
profonda genuflessione al Santissimo, quindi, con la testa voltata un po’ di
lato, un cenno di saluto anche all’angelo, e uscì di cappella.
Raggiunse il primo chiostro interno con l’intenzione di proseguire verso si-
nistra, dov’era la segreteria: avrebbe anzitutto convocata la commissione per il
prossimo esame, dopo di che si sarebbe recato nel settore di lettere e magiste-
ro, situato a destra, in cerca di Alma. La ragazza doveva probabilmente trovar-
si là, visto che frequentava le lezioni in modo tanto metodico. Proprio come
una scolaretta! E sembrava una scolaretta davvero con quelle lunghe trecce...
Una volta entrato nel chiostro però il giovane (non siamo in grado di dire se
per una sollecitazione del suo angelo, oppure, chissà, di quello di Alma, per
niente impermalito dalla precedente preghiera, ma anzi ormai associato al
suo) anziché indirizzarsi verso sinistra, s’incamminò subito verso destra, cioè
verso le facoltà letterarie; in segreteria ci sarebbe andato più tardi.
All’albo della facoltà di magistero esaminò l’orario delle lezioni, consultò
anche l’orologio (“Quasi le dieci!”): gli iscritti al primo anno si trovavano dun-
que nell’aula Toniolo, anzi no, nella Salvadori, dove c’era lezione di letteratura
italiana, docente Apollonio. (“Apollonio, niente meno. Bene, perdiana, vuol
dire che finalmente lo vedo.”)
Mentre saliva le scale ricordò le scriteriate incursioni che da matricola face-
va con Ambrogio in questo settore: chissà dov’era finita, dove insegnava ades-
so, quella ragazza emiliana, la Nilde (“Brunilde o Leonilde? Chissà”) che aveva
la fronte a bauletto e la battuta così pronta... Tentennò la testa sorridendo.
Quanto a frate Bertrando (quello alto e bello che scriveva poesie su Mussolini)
tutti sapevano che durante la guerra aveva fatto il partigiano: non in monta-
gna beninteso, ma qui all’università... Il reduce da Crinovaia sbuffò a ridere.

***
L’aula Salvadori, al primo piano, era spalancata e si stava svuotando, la le-
zione essendo appena terminata. Apollonio non c’era già più, e non c’era
nemmeno Alma. Gli studenti - in gran maggioranza ragazze in grembiule nero
- indugiavano nel corridoio, non pochi s’andavano lentamente spostando ver-
so un’altra aula per la lezione successiva. Michele si aggirò tra loro chiedendo
se Alma fosse stata presente alla lezione. «Riva? - Riva?» le studentesse scuo-
tevano la testa o sporgevano le labbra: nessuna sembrava conoscerla; quando
però egli specificò: «È una con le trecce, che pare ancora del ginnasio» la indi-
viduarono subito. «Ah, sì, c’era infatti» dissero alcune; «Stava nella fila da-
vanti alla mia» specificò una con gli occhiali, d’accento meridionale.
«Dove può essersi cacciata?» chiese il giovane.
Nessuna delle ragazze lo sapeva.
Che avesse deciso di non assistere alla lezione successiva? In tal caso lui
avrebbe forse fatto in tempo a raggiungerla negli spogliatoi... Vi si recò difila-
to. Ma negli spogliatoi femminili - situati a metà strada tra le facoltà letterarie
e quelle giuridiche - Alma non c’era.
Il giovane finì con l’incamminarsi sopra pensiero verso la propria facoltà,
quella di giurisprudenza. “Che fesso sono stato a non telefonarle” pensava:
“proprio uno stupido.” Forse Alma, da quella matricola che era, aveva deciso
di marinare la scuola... Anche lui e Ambrogio l’avevano marinata tante volte
durante il primo anno... Forse in questo momento, giusto come un gattino in-
cosciente, stava uscendo dall’università insieme con qualche compagnetta, o
magari compagno di corso. Magari il ragazzo con cui Alma s’era accompagna-
ta le sarebbe col tempo piaciuto sul serio... O forse era addirittura un mascal-
zone, uno di quegli sporcaccioni che... Sì, anche questo era possibile. Michele
cercava istintivamente con gli occhi per terra, se ci fossero sassolini da pren-
dere a calci, come usava fare camminando nei cortili di Susdal quand’era ner-
voso: qui però non c’erano sassi. Stava percorrendo il lungo corridoio nel qua-
le, prima della guerra, Gemellone aveva risposto al suo saluto chiamandolo
per cognome «Ciao Tintori», ma adesso non poteva avere la mente a queste
cose. La sua mente era occupata da altro; la gelosia - cui egli non era abituato -
era una sensazione molto umiliante. “Che bestia sono stato a trascurare Alma”
si diceva, “che disgraziato e superbestia! E dire che non smetto di pensare a
lei. Penso a lei in ogni ora del giorno, e intanto cosa faccio? Mi dedico al libro,
agli esami, a un sacco d’altre cose, ma non a lei, che è di gran lunga più impor-
tante di tutto il resto...”
C’era a metà corridoio una corta diramazione verso la biblioteca: qui si tro-
vava un albo con gli orari di giurisprudenza; istintivamente Michele si chiese
se dovesse dare un’occhiata a quegli orari. Ma no, a cosa gli sarebbe servito?
Arrivato alla diramazione guardò tuttavia in direzione dell’albo. E in piedi da-
vanti ad esso vide, davvero inaspettatamente, Alma.
CAPITOLO DICIOTTESIMO

La quale gli voltava le spalle. Indossava il grembiule nero come tutte le stu-
dentesse, tuttavia non potevano esserci dubbi: la scriminatura diritta che le
rigava la nuca, e le trecce, erano assolutamente sue, e così la figura snella, e la
vita sottile. Un po’ curva in avanti la ragazza stava esaminando gli orari: forse
non si districava ancora bene in simili cose.
Il cuore di Michele cominciò a battere furiosamente. “Che mi succede ades-
so? Cos’è questa emozione?” Trangugiò un po’ di saliva; dunque Alma era ve-
nuta qui, nel settore di legge, il suo settore... Per che fare, se non per... avvici-
narsi a lui, al suo mondo? Sì, certo. Che altro ci sarebbe venuta a fare? “E io,
da quel disgraziato che sono, stavo dubitando di lei! ”
«Alma» la chiamò a mezza voce, rendendosi conto d’avere difficoltà a parla-
re.
La ragazza si girò di scatto, lo vide, s’illuminò in volto, quindi arrossì fino
all’attaccatura dei capelli. «Michele, oh, finalmente!» non seppe trattenersi
dal dire.
Il giovane le si avvicinò: «Cosa ci fai qui, nella zona di legge, eh?» cercò di
scherzare con la strana voce che si ritrovava.
Il viso di lei si fece ancora più rosso; da principio sembrò non volesse ri-
spondere, poi disse: «Non lo può immaginare uno scrittore come te?»
«Sì, lo può» rispose lui.
Ancora una volta lei sembrò non voler aggiungere altro, ma poi disse con
tono di rimprovero: «Perché non ti fai vedere da tanto tempo?»
«Sei disposta a credermi? Me lo stavo chiedendo anch’io. E sai cosa mi ri-
spondevo? ‘Perché sono un fesso’.»
«Oh no» protestò lei.
«Senti, anch’io ti stavo cercando, è la verità, e con...» stava per dire: con
grande ansia, ma non lo disse. «Vengo dalla zona di lettere, dall’aula Salvado-
ri, dove tu hai appena finito di seguire la lezione d’Apollonio. Dico giusto?»
«Sì» rispose lei, non mostrando fuori, al solito, che in minima parte la gioia
che già avvertiva in cuore. «Ma come lo sai? Chi te l’ha detto che ero a lezio-
ne?»
«Le tue compagnette me l’hanno detto, le altre matricoline.»
«Ah.»
«Siccome però di là tu ormai eri venuta via, sono stato a cercarti agli spo-
gliatoi.»
«Come? Agli spogliatoi delle ragazze? Non sai che ai ragazzi è proibito en-
trarci?»
«Certo che lo so» sorrise Michele. «Per cui mi sono affacciato tenendo gli
occhi chiusi, e solo per il tempo strettamente necessario; ma neanche là tu
c’eri. Allora non sapevo più dove dar di testa. Han cominciato a venirmi certi
pensieri che... Pensieri da fesso, appunto.»
«Ma cosa dici?» mormorò Alma; quei pensieri però glieli leggeva ancora in
viso.
«Beh, adesso basta. Adesso cerchiamo di stare un poco insieme» disse il
giovane, circondandole con un braccio le spalle.
S’incamminarono per il corridoio; lei alzò la testa a guardarlo negli occhi,
riconoscente come un’agnellina. «Se ci vedesse il rettore» mormorò. Il contat-
to della mano e del braccio di lui le davano uno strano, indicibile senso
d’appagamento. “Perché lo fai così di raro, perché?” pensò la ragazza. Anche
Michele a causa di quel contatto era emozionato.
«Che pensieri ti erano venuti?» chiese a un tratto lei: «Non vuoi confidar-
ti?»
«Non ci farei una figura famosa, ecco il punto.»
«Ti prego, Michele.»
«Te l’ho già detto, dei pensieri scemi.» Ma poiché lei era sempre in attesa:
«Beh, ti confesso: mi è... insomma ho avuto un attacco di gelosia.»
Alma si fermò, lo guardò negli occhi: «Di gelosia?» Provò un nuovo straor-
dinario impulso di gioia. «Se tu sei geloso, geloso di me, vuol dire che... che io
per te...»
«Sì, tu per me. Proprio così» disse Michele.
«Oh, scusami, scusami» fece lei «che sfacciata sono!»
«No, perché?» disse il giovane «perché sfacciata? Di questo non vedo nean-
che il principio.»
«Ma se tu hai provato, diciamo, anche soltanto un po’ di gelosia... Oh, ba-
sta» s’interruppe Alma: «Tu vuoi solo scherzare.»
«No, Alma, non scherzo.»
«Gelosia vera? Con... con angoscia all’idea che io magari...»
«Proprio così» disse lui: «Che tu magari.»
«Ma non capisci che la gelosia nei miei riguardi non ha senso?» esclamò
Alma. «Non lo dico per rimproverarti, intendiamoci, non confondere. Sempli-
cemente devi renderti conto che è un non senso, una cosa priva di fondamen-
to. Quando io prometterò fedeltà a qualcuno, gli sarò fedele per tutta la vita,
per ogni istante della mia vita, e con gioia anche. Potrebbero farmi a pezzi, e
con questo? Io non ci penserò nemmeno a mancare di fedeltà.»
«Quando prometterai fedeltà a qualcuno?» disse Michele, piuttosto stupi-
damente: «Come sarebbe a dire ‘a qualcuno’?»
“Oh, perché non ti dichiari, perché non impegni la mia fedeltà?” gli chiese
mentalmente Alma, guardandolo fisso. Poi però si vergognò: “Non devo chie-
dere a un uomo come lui, a un artista, di comportarsi come un... chissà, come
un borghese. Che mi vuol bene me lo sta facendo capire anche in questo mo-
mento, dunque...” Ripresero a camminare. «Lasciami spiegare, ti prego» disse
Alma: «Quello che volevo dirti, di cui tu devi renderti tranquillamente conto, è
che non ha senso essere geloso a causa mia. Perché sarebbe una sofferenza
inutile, del tutto assurda.»
“Ah, ecco, così va un tantino meglio” pensò Michele.
«Forse non so esprimermi bene...» proseguì Alma: «Insomma voglio dire
che io, all’uomo che amerò sono fedele da sempre. È da quando ero bambina
che mi riservo per lui anche nei pensieri, che...» «E dalli... cosa significa
‘l’uomo che amerò’?» fece Michele tornando quasi a rannuvolarsi. «Ricominci
a parlare in astratto? Perché dici ‘l’uomo che amerò’?»
Alma alzò di nuovo la testa verso di lui, lo guardò negli occhi: «L’uomo che
io amo» disse a bassa voce. E improvvisamente arrestandosi: «Di cui sono
innamorata da... morire.» Nascose il volto nell’incavo della spalla di lui, con-
tro il suo petto.
«Sapessi anch’io quanto sono innamorato di te» mormorò allora Michele, e
non riuscendo più a dominarsi poggiò le labbra contro i capelli di lei.
Per un po’ non dissero altro; Michele le pose una mano sotto il mento e alzò
il viso di lei verso il proprio, la guardò nei begli occhi castani, onesti, ancora
quasi infantili: «Alma!»
Ricominciarono a passeggiare. Per fortuna, essendo ormai riprese le lezioni,
il corridoio si manteneva deserto; Michele cingeva sempre col braccio le spalle
della ragazza: «Avrei voluto dirtelo fin dal primo momento quanto ti amo, la
sera stessa del mio arrivo: gridartelo quando sei apparsa là, nella tua vestaglia
celestina, in cima alle scale. Tu non hai idea, non hai la più lontana idea di
quante volte io ho pensato a te in prigionia. Non sai di che immenso, indicibile
aiuto mi sei stata.»
«Io?»
«Sì, tu. Il tuo bel viso, la tua figurina gentile, Alma. Quante volte mi sei ve-
nuta in mente! Te lo volevo dire appena tornato, raccontarti ogni cosa la pri-
ma sera» ripete. Annuì, terribilmente commosso. «Invece ero tenuto a domi-
narmi, capisci? E tanto più in seguito, quando ho visto che tu mi corrisponde-
vi.» S’esaltò: «Per forza però tu dovevi corrispondermi: è Dio stesso che ha
disposto così.» S’interruppe: «Signore, che tu sia benedetto!» esclamò con
voce più forte. «Diciamolo insieme Alma: che tu sia benedetto in eterno.»
«Sì, sì. È stato veramente il Signore. Oh, Michele!» mormorò la ragazza.
«Il ringraziamento a Dio ci voleva» esclamò lui. «Anzi io dovrei ringraziarlo
lì in ginocchio, e non basterebbe. Non basterà mai. Ma quello che volevo dir-
ti...» ansimò un poco: «Vedendo che tu mi corrispondevi io pensavo: ‘Se le
parlo, se le dico tutto, e quante volte ho pensato a lei in prigionia, e con che
amore, e con che gioia, e le apro i miei sentimenti, insomma se faccio tutto
questo, poi vivere separati diventerebbe molto più penoso, molto più diffici-
le’.» Michele annuì. «E sarà così da oggi, ho paura. Ancora per anni noi non
possiamo sposarci e... Però come potevamo tacere ancora, e non dirci il nostro
amore? Non si poteva più, ecco, era materialmente impossibile.»
«Che cosa meravigliosa» mormorò Alma. «È una cosa talmente bella! Tu mi
vuoi bene, tu mi dici questo: che mi vuoi bene. Tu!» Il giovane la fissò nuova-
mente in viso: «Sei un capolavoro di Dio» mormorò.
Nel corridoio che stavano lentamente percorrendo entrarono, laggiù in fon-
do, due studenti; venivano verso di loro, erano quasi certamente due matrico-
le. Michele tolse il braccio dalle spalle di Alma: «Dobbiamo ricordarci che
siamo in un posto abitato» osservò, e di lì a poco aggiunse: «purtroppo», poi
tacque. Al momento in cui incrociarono i due, anche per darsi un po’ di conte-
gno fece: «Lo sai dove vanno quelli?»
Alma lo guardò vagamente interrogativa, la sua emozione era tale che non
poteva pensare ad altro.
«Quelli vanno nel settore di lettere e magistero ‘per motivi che non tornano
a loro onore’.»
«Eh? Cosa? Come lo sai tu?»
Anche altri studenti stavano, sempre dalla parte di legge, entrando nel cor-
ridoio. «‘Per motivi che non tornano a loro onore’ significa per vedere le ra-
gazze.» Il giovane ridacchiò scuotendo la testa. «Questo l’aveva scritto Gemel-
lone in un proclama, figurati, cinque, anzi, fammi contare: sei, un po’ più di
sei anni fa, sì: un proclama che era esposto giù nell’albo principale, quello vi-
cino all’ingresso. Anch’io e tuo fratello Ambrogio eravamo di quegli individui
privi d’onore, lo sai? Ci andavamo anche noi a vedere le ragazze di magistero.
Non ci pareva vero di poter perdere tempo, allora.»
«Ma come fai, dopo sei anni, a ricordare una frase che stava esposta
nell’albo?»
«L’ho frequentata per così poco tempo l’università, che ogni cosa di quei
giorni la ricordo. A te sembra di esserci da molto all’università?»
«Io ho appena cominciato.»
«Ecco. E siamo a fine febbraio. Noi due, io e tuo fratello, in febbraio erava-
mo già sotto le armi.»
«Oh, poveretti» mormorò Alma, rendendosi improvvisamente conto della
brevità della loro vita goliardica.
«Non mi compiangere. E comunque non oggi. Oggi sono l’uomo senza con-
fronto più felice del mondo.» Annuì, mentre la contemplava: «Oggi che ci
siamo dichiarati il nostro amore. Però, Signore Iddio, quanto sei attraente!»
non poté trattenersi dall’esclamare. Alma si sentiva scoppiare il cuore dalla
gioia.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Scesero a passeggiare nei bei chiostri aperti del piano terreno, poi pranza-
rono molto frugalmente alla mensa universitaria, poi - siccome sentivano il
bisogno di stare insieme ancora e ancora - decisero di uscire a passeggio per
Milano. Michele accompagnò la ragazza fin sulla porta degli spogliatoi fem-
minili, da cui Alma uscì quasi subito, col cappotto e la cartella sotto braccio:
per non stare neppure un minuto più del necessario lontana da lui, non si era
nemmeno levata il grembiule nero; se lo tolse mentre andavano verso l’uscita,
e tenendo l’indumento per un polso lo fece ruotare con disinvoltura attorno al
pugno, quindi gettò il piccolo involto che s’era venuto a formare dentro la car-
tella. «Cosa fai? Lo manipoli sempre così il tuo grembiule?»
«Perché? A volte sì.»
Michele rise. Senza grembiule la vita di Almina appariva ancora più sottile,
ancora più verginale. “Dio del cielo, che meravigliosa creatura’’ pensò il giova-
ne. In questo cominciava magari, per essere uno scrittore, a dimostrarsi un po’
monotono; ma non se ne accorgeva, e potrebbe essere interessante aggiungere
qui che non se ne sarebbe accorto durante tutta la vita, pur seguitando a ripe-
tere alla sua compagna - a voce, o più spesso mentalmente - una tale constata-
zione, incantato ogni volta da quel capolavoro di Dio.

***
Sulla città, umida per la nebbia dei giorni precedenti, batteva un sole anco-
ra quasi invernale; e tuttavia anche nelle sue strade si avvertiva
l’approssimarsi della primavera per certe folate d’aria fresca ma non cruda,
un’aria nuova, che a Michele faceva tornare in mente le viole della sua infan-
zia. Camminarono l’intero pomeriggio, incuranti di dove andassero, perché la
loro gioia li accompagnava dovunque. Del resto non si sentivano attratti da
alcun luogo in particolare perché - al contrario di Fanny - sia l’uno che l’altra
non conoscevano locali più o meno alla moda (ed erano implicitamente con-
tenti di non conoscerli: da quei campagnoli che in fondo erano, ma anche da
persone ricche dentro, cui ciò che stava all’esterno avrebbe in ogni caso più
tolto che aggiunto.)
Sul tardi, mentre il buio scendeva e la stanchezza cominciava a tagliare le
gambe di Almina (ma per nessuna ragione lei ne avrebbe parlato, col rischio
d’interrompere una passeggiata come quella, e un tale incanto), il loro dialogo
si trasformò, poco alla volta, in un monologo di Michele. Il quale confessò tan-
te cose: come ad Arbusov, nell’inferno della ‘valle della morte’, mentre scen-
deva attraverso la botola nello stambugio sotterraneo in cui Ambrogio giaceva
ferito, avesse pensato, più che alle tragiche condizioni dell’amico, alla possibi-
lità di fare - salvandolo - bella figura davanti a lei: «Che vergogna a ripensarci
dopo, durante la prigionia, quando non sapevo se Ambrogio se la fosse cavata.
Comunque è andata così.» Le riferì con uguale semplicità altri terribili episo-
di: rievocava la vita e la morte, i giorni e le notti dell’interminabile prigionia,
la cieca prostrazione al principio, e poi l’estenuante attesa del ritorno; e in
mezzo a tutto ciò - le diceva - simile a un piccolo lume che brilla incessante-
mente nel buio, c’era stata l’immagine di lei nel suo cuore: di questa bambina
con le trecce, della quale si era un po’ alla volta sempre più innamorato. Le sue
parole rendevano le cose vissute con straordinaria forza suggestiva: Alma pro-
vava una voglia sconvolgente di stringersi a lui, di diventare una cosa sola con
lui.
Si erano accese le luci, le vetrine di Milano proiettavano riquadri gialli, co-
me d’oro, sui marciapiedi bagnati.

CAPITOLO VENTESIMO

Arrivarono così, sempre uno al braccio dell’altro, alla stazione Centrale; in-
sieme viaggiarono in treno fino a Monza: pareva loro ormai assurdo doversi
separare, sebbene sia l’uno che l’altra sentissero anche, a tratti, bisogno d’un
po’ di solitudine per riflettere su ciò che stava loro accadendo, riandare le ore
meravigliose passate insieme, rendersi conto che, obiettivamente, non si trat-
tava d’un sogno. È da dire che sia l’uno che l’altra non avevano mai fatto in
vita loro un sogno bello come questa realtà.
Una volta sceso a Monza il giovane ricominciò a lodare Dio in cuor suo con
grande forza: lo lodò mentre usciva di stazione, mentre camminava per le
strade, poi mentre viaggiava su un piccolo autobus cittadino; lo lodò, con
straordinario entusiasmo, mentre saliva le modeste scale di casa. Il giorno se-
guente egli sarebbe dovuto tornare all’università per convocare la commissio-
ne esaminatrice, non avendone trovato durante tutta quella giornata il tempo;
si era perciò messo d’accordo con Alma che avrebbero fatto insieme il percor-
so da Monza a Milano sul trenino di Nomana. Dopo aver cenato - mentre
scambiava qualche faticosa e inconcludente parola con gli zii (per i quali la
conversazione con lui era diventata giorno dopo giorno sempre più necessa-
ria) - andava di continuo con la mente da ciò ch’era accaduto (il viso di lei, ve-
deva soprattutto il bel viso di lei), all’incontro nuovissimo, portentoso, ancora
tutto da vivere, che avrebbe avuto luogo l’indomani.

***
Per parte sua Alma, mentre il treno la portava a Nomana, ascoltava appena
(non riusciva quasi a sentirle) le parole della signorina Quadri Dodini che, sa-
lita a Monza, aveva occupato con un largo sorriso di soddisfazione il posto la-
sciato libero da Michele. Col bel viso di statuina intento a ciò che le stava
nell’animo, la ragazza non dava all’esterno segni d’eccitazione: dentro però le
andavano e venivano le cose meravigliose scoperte nel corso della giornata:
non solo che l’amore di Michele per lei era certo, indubitabile, ma anche quan-
to fosse grande: un amore quale solo un uomo davvero tale, e riservatosi per
tutta la vita ad un unico amore, può esprimere. E quel fatto singolare, che nel-
le vicende oggettivamente così enormi da lui vissute, lei fosse già stata in qual-
che modo presente: sempre presente nel suo cuore, le aveva detto, al modo
della fiammella rossa che c’è in certe isbe, nell’angolo che chiamano delle ico-
ne. Il profilo di Michele! I suoi lineamenti, quegli occhi neri, intelligenti,
straordinariamente intelligenti, e... “Signore, è troppo: ti ringrazio, ti ringra-
zio, ti ringrazio!” La signorina Quadri Dodini parlava dell’uggia da cui viene
presa l’insegnante che per anni è costretta a ripetere le stesse lezioni: «Se an-
che tu arriverai a insegnare, ti renderai conto di quello che intendo dire. Ma tu
a insegnare non ci arrivi, perché ti sposi prima.»
«Che significa? Dovessi anche sposarmi prima, io alla laurea e
all’insegnamento intendo arrivarci comunque» dichiarò Alma, trattenendosi a
fatica dallo spiegare che, in quanto moglie d’uno scrittore, avrebbe dovuto ba-
dare a non dargli impicci d’ordine economico: “E non soltanto per me, ma an-
che per le necessità dei figli che nasceranno, io devo lavorare” pensava. Certo
un proposito come questo Michele non l’avrebbe approvato, forse ne sarebbe
rimasto sorpreso: ma lei, formulandolo, si dimostrava donna coi piedi ben
fermi sulla terra, e figlia di Gerardo.
Mentre la Quadri Dodini seguitava a parlare, Alma cercò di raffigurarsi, con
crescente curiosità, i figli che avrebbe dato a Michele. Non si prospettava an-
cora il rapporto fisico con lui - attraente certo, e forse più d’ogni altra cosa - da
cui i figli sarebbero venuti: la sua morale cristiana glielo vietava per ora, e lei
obbediva docilmente, rendendosi conto che se il suo amore era oggi così
splendido lei lo doveva anche, in non piccola parte, al fatto d’essersi sempre
attenuta alle norme di quella morale. E senza quella morale, insegnataci diret-
tamente da Dio, adesso anche l’amore di Michele per lei sarebbe stato qualco-
sa di ben più modesto, di già in parte sciupato e come monco... Pensava dun-
que ai figli che un giorno avrebbe dato a Michele, cercando di raffigurarsene le
fattezze, i visini. S’inteneriva all’idea di loro, malgrado non le riuscisse di pro-
spettarseli bene: le era infatti impossibile ridurre allo stadio infantile il viso
serio di Michele. Una cosa le pareva comunque irrinunciabile: che tutti quei
figli, maschi e femmine, dovessero avere i begli occhi neri e intelligenti di lui.
“Ecco, io rivestirò di nuova, tenera carne l’intelligenza di Michele, perpetuan-
dola”; questo le parve (ed era) un bel pensiero, degno della donna d’un grande
scrittore, per cui non mancò di gioire in cuor suo anche di questo.
Una volta scesa dal treno, mentre camminava sotto le querce spoglie del
‘viale della rimembranza’ non smise di pensare al giovane che amava: il buio
anzi, e i rami bassi e protesi degli alberi, le richiamavano il senso di solitudine
che - com’egli le aveva raccontato - lo coglieva in prigionia quando calavano le
tenebre nei lager terribili, circondati da distese di boschi. Neppure smise di
pensare a lui più tardi, durante la cena, nel corso della quale non pronunciò
una sola parola. Né smise dopo, finché si addormentò.

***
Non soltanto il giorno successivo i due giovani lo trascorsero per intero in-
sieme a Milano, ma altri giorni ancora. Fino a quando Alma si rese conto che
toccava a lei - con tutta la sua fragilità - rimettere ordine nelle giornate di Mi-
chele, e lo fece abbastanza rapidamente, con una risolutezza che un poco sor-
prese lei stessa.
Michele ricominciò a dare gli esami nel suo modo serrato e sistematico; do-
po qualche mese tuttavia trasferì un’altra volta la propria attenzione sul libro,
dal quale venne di nuovo totalmente assorbito. Se questo gli faceva trascurare
gli esami, non trascurò più Alma però, non lasciò più passare un’intera setti-
mana senza vederla. A tal fine si recava ogni pochi giorni, la sera dopo cena, in
bicicletta a Nomana: il che l’obbligava - una volta tornato a casa - a fare le ore
piccole per non ridurre il tempo destinato al lavoro.

CAPITOLO VENTUNESIMO

In estate Ambrogio fu finalmente in grado di discutere la tesi di laurea; per


tale occasione convennero a Milano i suoi genitori e fratelli e anche Michele.
Il quale adesso era molto angustiato per la propria situazione economica,
fattasi quanto mai precaria. “Ho sbagliato a pagare la tassa di successione per
la casa” egli si diceva quel giorno, dopo aver preso a Monza il solito tram inte-
rurbano che l’avrebbe portato a Milano: “Ho davvero sbagliato.”
Poiché faceva molto caldo (si era di luglio) la gente viaggiava in maniche di
camicia; dai finestrini aperti entrava a zaffate, insieme con l’aria, odor di ca-
trame, perché fuori stavano riasfaltando tratti della strada tra Monza e Sesto,
accanto alla quale correvano i binari.
A un rallentamento causato appunto dai lavori, il giovane guardò distratta-
mente dal finestrino: c’erano operai che manovravano carriole e pale; su un
cavalletto metallico incrostato di catrame si leggeva a metà la sede della ditta
appaltatrice dei lavori ‘...ate Brianza’; un compressore, muovendosi lenta-
mente, stava livellando una grande rappezzatura nuova, lucida e fumigante.
Lo guidava un giovane uomo dal viso color cuoio, grifagno, che levando gli
occhi al tram incontrò per caso quelli di Michele. Un altro individuo, singo-
larmente somigliante nei lineamenti al primo, stava sulla strada con le mani
poggiate ai fianchi, e sorvegliava il lavoro; Michele notò la somiglianza tra i
due: “Si potrebbe giurare che sono fratelli” pensò per un attimo, e “ ‘..ate
Brianza’: Agrate forse? O Usmate? Chissà di dove sono.” (Si trattava dei due
fratelli Viganò di Merate, quelli che avevano fatto con Manno il viaggio in bar-
ca dalla Tunisia alla Sicilia, che gli avevano dato il posto sulla barca. «Chissà
se abbiamo fatto bene» si erano detti in seguito, quando avevano per caso ap-
presa la morte del giovane ufficiale: «se fosse rimasto in Tunisia, non sarebbe
morto...»; non si erano mai fatti vivi a casa sua ad ogni modo, e non conosce-
vano Michele, né egli conosceva loro.)
Il tram riprese velocità, i lavori dell’impresa Viganò rimasero indietro. “So-
no stati gli zii a consigliarmi di pagare” ricordò il giovane, molto angustiato
dai propri problemi. “Insistevano a fin di bene: ‘Se ti decidi, la casa diventa
tua, ufficialmente tua’, gli sembrava chissà cosa... Poveri zii! Davano tanta im-
portanza alla casa perché per anni, anzi per decenni, hanno risparmiato soldo
su soldo per comperare il loro appartamento. Ma a privarmi di quei pochi
quattrini della liquidazione dall’esercito io ho sbagliato! Ho sbagliato in pieno.
Forse, se avessi chiesto consiglio ad Ambrogio, o meglio ancora a suo padre,
prima di pagare la tassa... Adesso che la zia s’è ammalata, quei soldi ci vorreb-
bero proprio.” Nonché per il nipote, lo zio infatti, data l’inflazione ‘galoppante’
come si diceva, che aveva fortemente falcidiato i suoi risparmi, non aveva ora
denaro sufficiente neppure per sé stesso: tutto gli assorbiva la clinica. “E in fin
dei conti toccherebbe piuttosto a me aiutare lui” pensava Michele, “che a lui
aiutare me. Qui io devo trovare subito delle lezioni private, devo trovarle a
ogni costo, se no presto saranno guai seri.”
Erano già guai seri per la verità: tanto che aveva provato preoccupazione
perfino a sborsare quei pochi spiccioli per il tram. “A che punto sono ridotto!”
Aveva saputo affrontare i guai tremendi della guerra, ma adesso constatava
che anche nella vita civile ci possono essere guai angosciosi: meno appariscen-
ti, certo, ma forse non meno angosciosi, e sono - questi della vita civile - guai
senza confronto più diffusi: è la maggioranza degli esseri umani che li deve
affrontare si può dire ogni giorno. Lui a questo tipo di guai ordinari si sentiva
meno preparato che a quegli altri là, straordinari, del resto ormai passati, del-
la vita militare.

***
S’incontrò coi Riva - c’era anche Alma - all’ingresso dell’università: scam-
biarono le strette di mano davanti alla lapide che ne ricordava la ricostruzione
dopo i bombardamenti effettuati mediante ‘ignivomis globis e caelo temere
coniectis’. Sfiorando con gli occhi la lapide, Michele non poté a meno di dirsi
che i bombardamenti adesso erano un fatto davvero lontano, e anzi - se non
fosse stato una mezza bestemmia pensarlo - quasi invidiabile, perché allora i
soldi venivano del tutto in secondo piano, non avevano - schifosi come sono -
il maledetto potere di angustiarti che hanno invece oggi.
Tutti i componenti del branco Riva si mostrarono lieti di vederlo; il festeg-
giato Ambrogio, un po’ eccitato, lo prese per un gomito: «Sei venuto a farti
delle risate, eh?» gli disse. «Tu che sei super bravo. Vuoi vedere come se la
caverà sotto il fuoco incrociato un poveraccio come me.»
«Macché super bravo» fece Michele, «se c’è una cosa in cui so già che farò
schifo è il mio esame di laurea, figurati.» Poi sorrise incoraggiante: «Ambro-
gio lascia perdere i fuochi incrociati. Vedrai che sarà soltanto una cerimonia,
un po’ come ricevere un’onorificenza, o qualcosa di simile.»
«Questo non è detto» gli obiettò Ambrogio; «ieri mattina ho assistito alla
discussione delle tesi e ho visto che ci sono certi professori - non i relatori, ma
alcuni di quelli delle tesine - che sembra si divertano a rompere le scatole.»
Michele tentennò la testa; intanto: “Ambrogio è un vero amico” pensava,
“tutti costoro mi vogliono bene. Se conoscessero i miei guai, mi aiuterebbero
subito, un prestito me lo farebbero senza neanche chiederglielo. Ma io proprio
a loro, alla famiglia di Alma, i miei guai non glieli posso far conoscere, sarebbe
troppo mortificante.” La sua Alma, col fascicolo della tesi di Ambrogio sotto
un braccio, gli s’era messa al fianco e lo guardava estasiata, come fosse
l’oracolo. “No, piuttosto io crepo.”
Intanto però era giovane, e al suo fianco c’era la ragazza ch’egli amava: i
guai si sarebbero tra poco rincantucciati in un angolo della sua mente, non
sarebbero scomparsi purtroppo, ma se ne sarebbero rimasti per un po’ quieti
in quel canto.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Il gruppo entrò nell’atrio.


«Com’è che ti senti?» chiese una volta all’interno la madre ad Ambrogio,
con una sfumatura d’apprensione: «Non impressionato, spero.»
«No» la rassicurò il figlio «direi proprio di no.»
«Mai impressionarsi» sentenziò Pino, l’ex partigiano. «Ambrogio, quando
sarai davanti a quella sfilza di professori, provati a immaginarli com’erano
stamattina seduti sul water, e con che puzza intorno.»
«Porcellino» protestò Alma, dispiaciuta che si parlasse così al cospetto del
suo Michele.
Il padre Gerardo guardò irritato Pino, e strinse coi denti il labbro inferiore:
tutti si resero conto che se Pino avesse avuto solo qualche anno di meno, in
quel preciso momento uno scappellotto, ed energico, del padre gli avrebbe
fatto sobbalzare in avanti la testa bionda.
«Dai» esclamò Ambrogio, «perché tante storie? Io non mi spavento per così
poco: ho provato di peggio in fin dei conti. No?»
«Eh!» sottolineò Michele: «Direi proprio.» E provvide a cambiar discorso:
«Ma dì, e Fortunato? Come mai non lo vedo?»
«Stamattina gli è arrivata una telefonata da Busto Arsizio; sta trattando una
partita di telai, forse questa è la volta buona.»
«Speriamo» disse il padre, lasciando perdere Pino.
Più addentro nell’atrio c’era in attesa Fanny; la ragazza aveva da tempo ri-
prese le sue passeggiate per Milano con Ambrogio (il quale a Colomba - da
quando se n’era appreso il fidanzamento con un giovane professionista di No-
vara - non pensava più). Pino la scorse per primo, e andò verso di lei con un:
«Ecco la signorina Fanerogama, o come si chiama.»
«Epifania, prego» disse sorridendo Fanny, e venendogli incontro strinse
con molta grazia la mano che il ragazzo le tendeva.
«Ditemi voi se non è anche peggio» fece Pino.
Il padre fu sul punto di mordersi il labbro per la seconda volta. Ma Fanny
era lontanissima dall’essere imbarazzata, aveva anzi un’aria come di padrona
di casa che riceva i suoi ospiti. «Bene arrivati. Bravi» disse. Strinse la mano
uno per uno a tutti, pronunciando qualche parola di convenienza per ciascu-
no, poi guardò Ambrogio compiaciuta: «Come ti senti, Ambrogione?»
«E dalli» fece lui, «volete proprio che mi proclami emozionato?»
«Ma no, lo so, lo sappiamo, che per impressionare te non bastano le canno-
nate» e sorrise con un gentile cenno d’intesa alla madre, che conosceva dai
giorni di Stresa.
Mica male Fanny, pensarono gli altri, anche Michele che prima d’allora
l’aveva vista solo un paio di volte: davvero mica male. Trovavano attraenti i
suoi capelli tagliati alla paggio, gli occhi dall’insolito colore verde, e i suoi mo-
di, decisamente più disinvolti dei loro di campagnoli.
Lei s’interessò soprattutto alla madre: «È andato bene il viaggetto signora
Giulia? Si è stancata? Ma venite avanti, su... Per caso, signora, prima d’andare
in aula magna vuol prendere un caffè?»
No, Giulia non ne sentiva il bisogno. Invece, poiché c’era lì accanto
l’ingresso della cappella, lo indicò quasi timidamente con la mano alla ragaz-
za: «Prima della... sì insomma, dell’esame, non le pare?»
Fanny approvò con molta comprensione. Entrarono tutti nella cappella e
per qualche istante si raccolsero in sé stessi, con serietà, davanti a Dio. Unica
Fanny non sapeva bene per cosa pregare: “Beh, Signore, fammi fare bella figu-
ra” finì col dire. A lato dell’altare c’erano come sempre due persone - in questo
momento due giovani suore - inginocchiate e sprofondate in adorazione. “Le
colonne su cui si regge l’università cattolica” pensò Gerardo, che aveva sentita
questa frase in un discorso di padre Gemelli, anni prima.
Uscirono insieme dalla chiesa e Fanny pilotò tutti verso l’aula magna. Ge-
rardo seguitava a guardarsi intorno con ammirazione.
«Che begli ambienti, che complesso magnifico» ripeteva a Fanny: «Padre
Gemelli ci ha saputo fare, eh signorina? Lei sa se oggi sarà presente anche pa-
dre Gemelli?»
«Alla discussione delle tesi? Non so, ma non credo.»
«Papà era di quelli che a suo tempo hanno baccagliato per far nascere
l’università cattolica, per mettere insieme i fondi e simili» le spiegò Ambrogio.
«Ah. Capisco.»
Davanti all’aula magna c’era una piccola folla: i laureandi erano riconoscibi-
li per le tesi rilegate di fresco che tenevano in mano o sotto braccio. Anche
Almina allungò il fascicolo che aveva portato fin lì al fratello: «Ambrogio, la
tua tesi.»
Il giovane prese il fascicolo, ringraziò la sorella con un cenno del capo:
«Gattino» e, fatto un gesto di saluto collettivo anche agli altri, si staccò da loro
- che un po’ pressati da Fanny («Accomodiamoci, c’è abbastanza gente, non
vorrei che ci portino via i posti migliori») entrarono e sedettero.
Dopo averli sistemati, l’intraprendente Fanny tornò per un istante fuori, da
Ambrogio: «Come va?» gli chiese con tenerezza: si capiva che le sarebbe pia-
ciuto rimanere un po’ con lui.
Accennando scherzosamente a mettersi sull’attenti: «Oggi sto meglio, gra-
zie sorella Mayer» le rispose il giovane, imitando il linguaggio dell’ospedale
militare. Poi sollevata la mano le sfiorò il viso con una carezza: «Vorresti te-
nermi compagnia?»
«Sì» gli disse Fanny, «ma capisco che per te adesso è meglio stare solo.»
«Tanto la lezione non me la puoi mica ripassare, è troppo lunga.» Le mo-
strò sorridendo il fascicolo della tesi.
Fanny approvò comprensiva: «Allora ciao Ambrogione.»
«Se stai con gli altri» le suggerì giudiziosamente il giovane «potrebbe essere
per te l’occasione buona per conoscere un po’ mio padre.»
«Sì, certo.»

CAPITOLO VENTITREESIMO

La ragazza rientrò nell’aula magna che andava sempre più affollandosi: ac-
canto al padre e alla madre - i quali sedevano nel mezzo del gruppo Riva - non
c’erano sedili liberi; per mettersi vicino a loro Fanny fece perciò alzare il poco
formalista Pino e ne prese il posto. Dall’altra parte dei genitori sedevano Mi-
chele ed Almina che facevano un po’ repubblica a sé.
Fanny si dedicò col suo garbo abituale all’intrattenimento dei genitori e di
Francesca; ogni tanto si trovava però costretta a frugare negli angoli più ripo-
sti della memoria in cerca - se mai l’aveva conosciuto - di qualche dato relativo
per esempio alla capienza dell’aula magna, oppure al suo anno
d’inaugurazione, perché Gerardo - che permaneva in uno stato
d’incondizionata ammirazione per tutto ciò che padre Gemelli aveva saputo
fare - glielo chiedeva. Per avere aiuto Fanny pensò bene di coinvolgere Alma:
la quale, improvvisamente strappata all’empireo in cui navigava, e messa di
fronte a simili retorici problemi, atteggiò il viso di statuina a schietta ignoran-
za, e alle domande dell’altra strabuzzava gli occhi o sporgeva il labbro inferio-
re a significare: «E chi lo sa? Io domande come queste non me le sono mai
poste». Fanny decise di lasciarla perdere.

***
Ricondotta sia pure per poco sulla terra, Alma si guardò intorno, e le capitò
di scorgere una figura femminile a lei nota, che veniva avanti con calma nella
corsia principale dell’aula magna, tra le poltrone e la gente. «Oh, guarda chi si
vede, Colomba! Come mai è qui?» mormorò.
La udì soltanto Michele, che guardò verso la ragazza in arrivo. Alta ed ele-
gante, col bel viso che il povero Manno prima di morire aveva evocato tra i
sassi di Cassino (in mezzo alle raffiche falcianti degli spandau e al frastuono
dell’artiglieria: chi ricordava più simili cose?) Colomba, che nessuno aveva
pensato a invitare, veniva anche lei ad assistere alla laurea d’Ambrogio.
«Di chi stai parlando? Di quella ragazza là?» domandò Michele, che prima
d’allora non l’aveva mai vista.
«Sì.»
«La conosci?»
«È Colomba, la fidanzata di Manno, quella delle sue ultime lettere.»
«Ah. Si vede che anche lei ha saputo della laurea di oggi.»
Alma si girò istintivamente per avvertire gli altri della presenza di Colomba,
poi ci ripensò e si trattenne. «Non so se dirlo agli altri» mormorò.
«Perché non dovresti dirlo?» le chiese Michele.
Ma proprio in quella s’affacciarono all’ingresso di fondo, e cominciarono a
entrare nell’aula i professori in toga e tocco. Avanzando solennemente in fila
per uno andarono a prendere posto a un versante del tavolo delle discussioni,
mentre il brusio della piccola folla, dopo essere cresciuto, quasi cessava; la
gente ancora in piedi s’affrettò a un posto qualsiasi; anche Colomba, che tut-
tavia seguitava a guardarsi intorno, senza dubbio in cerca dei Riva.
«Perché non dovresti dirlo agli altri?» Michele tornò a chiedere sottovoce
ad Almina.
Lei fece spallucce: «Beh, sai, c’è Fanny.»
“Fanny?” pensò Michele: “E con ciò?” Ma non erano affari suoi.
Nel giro di qualche minuto tuttavia anche Francesca individuò Colomba: ne
aveva incontrati gli occhi voltandosi; le due ragazze si scambiarono un allegro
cenno di saluto. Subito Francesca avvertì tutti, e spiegò a Fanny: «Quella era
la fidanzata di Manno. L’hai conosciuto anche tu Manno, è vero?»
«Sì, a Stresa» le rispose Fanny annuendo. Fino a quando non giunse il tur-
no della discussione di Ambrogio, Colomba finì col rappresentare il principale
centro d’interesse del gruppo Riva.
La discussione delle tesi infatti riusciva ai profani (com’era da aspettarsi)
decisamente noiosa: non solo essi non capivano ciò di cui si parlava al lungo
tavolo, ma a momenti non lo udivano neppure.
Ambrogio fu il quinto del gruppo di scienze economiche; entrò - al pari de-
gli altri laureandi prima di lui - da un ingresso minore; mentre raggiungeva la
sedia solitaria davanti al severo tavolo dei professori salutò con un cenno del
capo i suoi e, individuata Colomba, salutò anche lei.
Rispose alle domande che via via gli venivano fatte con la sua calma abitua-
le, si sarebbe detto con pacatezza. La madre Giulia provava ciononostante tre-
pidazione per lui, costretto là senza possibilità d’aiuto in mezzo alla cerimonia,
davanti a quei professori dall’aria così importante.
Discussa la tesi, un giovane relatore di tesina fece al candidato
un’osservazione piuttosto pungente circa la ‘disinvoltura’ con cui aveva supe-
rato una difficoltà. «Essere abietto» lo gratificò a mezza voce Pino: «Caino-
mane, faccia di palta!» ma fu presto chiaro che intendimento del giovane rela-
tore non era di mettere in imbarazzo Ambrogio, bensì di cogliere l’occasione
della presenza di tanti illustri colleghi per fare sfoggio della propria raffinata
competenza. (Anche la conclusione degli studi dunque, e anche all’università
cattolica, poteva essere occasione d’esibizione: in fondo era bene che Gerardo,
il quale - al pari di tanti altri incolti come lui - si era dato da fare con semplici-
tà per la realizzazione di quell’università diversa dalle altre, non se ne rendes-
se del tutto conto.)
Terminata la discussione delle tesi di scienze economiche la commissione
esaminatrice si alzò e uscì processionalmente dall’aula: il suo presidente aveva
in precedenza avvertito che sarebbe rientrata di lì a una decina di minuti per
la proclamazione e il punteggio.
Subito Ambrogio raggiunse i suoi, anche Colomba li raggiunse. «È andata
bene, bravo, sei stato bravo» commentarono a gara un po’ tutti; il giovane si
schermì con modestia, era però visibilmente contento che la lunga tirata degli
studi universitari si fosse una buona volta conclusa. Gli ci volle un certo tempo
per rendersi conto che toccava anche a lui dir qualcosa, informarsi per esem-
pio da Colomba come stesse e come andassero i suoi studi. «Cerco di dare
quanti più esami mi riesce» rispose lei «perché a primavera mi sposo, e allora
addio, ho paura che poco tempo potrò dedicare alle cose di prima.»
Ambrogio si chiese se per caso in queste parole non ci fosse una sorta di
rimpianto. “Ma forse penso così perché se la porta via un altro” provvide subi-
to a ‘ridimensionarsi’, secondo il suo solito.
Visibilmente Colomba era più bella di Fanny, e forse d’ogni altra ragazza
presente nell’aula magna. Si congedò prima che rientrassero i professori: «Mi
dispiace, dovete scusarmi, ma ho poco tempo.»
Osservandola allontanarsi Michele disse al Alma: «Vuoi il mio parere?
Quella si conserverà bella finché campa. Precisamente come te. Beh, ne ripar-
leremo fra trenta o quarant’anni.»
«Che strano discorso» fece Alma.
«Infatti» ammise Michele.
«Poi mi spieghi» sussurrò Alma. Michele le fece sorridendo segno di sì.
Rientrata la commissione esaminatrice il presidente chiamò al tavolo ogni
singolo candidato, e consegnandogli una pergamena lo proclamò dottore; di
ciascuno lesse il voto di laurea. Quello di Ambrogio era di centocinque punti
su centodieci, un buon esito.
Quando la commissione di scienze economiche nuovamente sgombrò per
lasciare il campo a quella di lettere, anche i Riva si alzarono e avviarono verso
l’uscita. «Dì, lo vedi quello davanti a tutti, il presidente della commissione di
lettere?» disse, indugiando un istante, Almina a Michele: «è Apollonio.»
«Quello? Oh, finalmente lo vedo!» (Mario Apollonio, preside della facoltà di
lettere e filosofia, scrittore, e critico letterario e teatrale di gran fama, veniva
avanti sorridendo della sagra delle lauree; come tuttavia di un gioco che non
gli spiacesse del tutto: aveva un viso straordinariamente umano.) «Ha una
faccia che mi piace» osservò Michele.
«Papà, vedi quello?» disse allora Alma, indicandolo anche al padre: «È il
professor Apollonio, il preside della facoltà di lettere: è uno dei professori di
lettere più importanti d’Italia.»
«Ah, vedo, vedo» commentò Gerardo, compiaciuto che nell’università cat-
tolica insegnasse un professore tanto importante.

***
Come il gruppo fu all’esterno dell’aula, Fanny riprese saldamente in mano
la situazione. Curando, senza darlo a vedere, che non si facessero inutili soste,
guidò la comitiva per un itinerario che consentisse a Gerardo di farsi l’idea
d’un altro settore dell’università («Questo l’ho già visto» diceva però lui ogni
tanto «all’inaugurazione del 26»; era comunque estasiato quasi quanto allo-
ra.)

Una volta fuori dell’università seguirono tutti Fanny fino a una pasticceria
molto chic di via Borgonuovo. Per la verità Giulia avrebbe preferito intratte-
nersi senza ulteriori distrazioni col figlio, a gioire con lui del successo conse-
guito; Michele e Alma, per parte loro, avrebbero desiderato ‘sganciarsi’ dagli
altri: sarebbe stato però uno sgarbo non assecondare una padrona di casa
compita come Fanny (la cui casa adesso sembrava in qualche modo coincidere
con l’intera Milano), e oltre tutto Michele era stato pregato di rimanere della
comitiva direttamente da Ambrogio .
La pasticceria inalberava il nome abbastanza insolito di ‘Terza Gallia’, che
suscitò la perplessità di Pino: «Cosa vorrà dire? Che razza di stramberia è?» Si
rivolse a Michele: «Ehi, scrittore, a te non pare un nome cervellotico?» Miche-
le si guardò bene dall’impegnarsi: la vicinanza di Almina che camminava al
suo fianco come un’agnella, lo incantava al punto da fargli sembrare invero-
simile uno spostamento dell’attenzione su qualsiasi altra cosa, anche su una
scherzosa disamina filologica. Si limitò a un borbottio.
«Gente» pensò allora bene di puntualizzare Fanny, a beneficio di tutti quei
provinciali: «Questo in cui stiamo per entrare è forse lo ‘squaglio’ di cioccolato
più famoso d’Europa. Mi sono spiegata?» E al distratto Michele, per suo parti-
colare ammaestramento: «Qui ci vengono molti dei più bei nomi della cultura
di Milano, come lo scrittore Piovene e i professori Andrea Guerritore e Carlo
Felice Manara dell’università statale, e la Zezi Locatelli, e la Liliana Grassi di
Architettura.»
In quell’importantissimo ‘squaglio’ ebbero dunque luogo i festeggiamenti
per la laurea d’Ambrogio.
PARTE TERZA

CAPITOLO PRIMO

In autunno - sempre di quell’anno 1947 - uscì il libro di Michele. Che era


stato - per il suo contenuto - accettato dalla prima casa editrice cui egli l’aveva
sottoposto: a due anni dalla fine della guerra infatti ancora non erano apparse,
o quasi, testimonianze dirette della tragedia dei militari italiani in Russia. I
‘lettori’ professionali della casa editrice (si trattava d’una delle maggiori italia-
ne) non ne avevano invece rilevato lo stile inconsueto, fuori d’ogni corrente e
scuola, singolarmente adeguato alla tragica narrazione, attribuendo - nella
loro modesta intelligenza di routiniers - il senso di novità che pur gliene veni-
va, al fatto che si trattava dell’opera di uno ‘fuori del giro’. Appena uscito, co-
munque, il libro cominciò a diffondersi.
Il giovane autore però - più che mai alle prese con le proprie difficoltà eco-
nomiche - non aveva sufficiente disponibilità di spirito per seguirne il succes-
so. Venduti per quattro soldi i mobili vendibili della casa di Nova, non gli ba-
stavano ormai le ore del giorno e della notte per studiare, per alternarsi allo
zio nell’assistenza alla zia inferma, e per cercare in qualche modo di far soldi.
A chiedere un prestito ai Riva egli non s’era risolto neppure dopo che lo zio
l’aveva apertamente sollecitato: «Ti basterebbe fargli intravedere le tue diffi-
coltà: a offrirti un prestito ci penserebbero loro. E, sia chiaro, un prestito non
è un regalo: tu lo restituiresti con tutti gli interessi.» In quella direzione niente
da fare, Michele aveva preferito insistere nei suoi frustranti tentativi di dare
lezioni private, concludendo poco, perché c’era inflazione di studenti bisogno-
si di dare lezioni; e oltre tutto a Monza nessuno lo conosceva.
A festeggiare l’uscita del libro, e a seguirne passo passo il successo iniziale,
fu Almina. La prima copia era stata per lei; gliel’aveva portata all’università il
neo autore: v’era giunto indaffarato un pomeriggio, e l’aveva trovata che scia-
mava - col solito faccino enigmatico e le trecce sul petto - da un’aula di lezione
a un’altra, intruppata con le compagne. «Dove vai, matricola? Non mi crede-
rai, ma ho qui un regalo per te.» E guidandola fuori dalla calca: «Sai da dove
vengo? Direttamente dall’editore. E ti dirò che sono un pizzico esaltato, per-
ché in questo momento stanno distribuendo il mio libro in giro per Milano,
così domani lo vedremo esposto nelle librerie.» Aveva aperta la cartella:
«M’hanno dato sei copie per contratto: la prima è per te.» Gliel’aveva conse-
gnata: «Tieni. Guarda che c’è un po’ di dedica.» Lei s’era dapprima rigirato il
volume nelle mani, poi aveva letta la dedica e l’aveva guardato con indicibile
commozione, senza pronunciare una parola. «Ecco, così, fa la bella statuina,
molto bene, proprio questo mi aspettavo. È il modo migliore perché io possa
contemplarti.» Era stato lì lì per farle una carezza, ma la presenza di tanto po-
polo intorno l’aveva trattenuto. Dal viso di lui, da tutta la sua persona traspa-
riva un amore infinito: «Mi sa che questi» mormorò «saranno anche in futuro
gli unici regali che io riuscirò a farti, Alma. Beh» aveva poi detto normalizzan-
do la voce: «Prendi: quest’altra copia è per Ambrogio e la famiglia.» Lei aveva
cercato di respingerla: «No, ne basta una, no...»
«Con quella dedica?» aveva osservato lui: «Quella è meglio che la tieni tutta
per te.» Si era quindi congedato: «Sarebbe bello adesso, eh, stare un po’ in-
sieme? E invece no, devo salutarti perché ho un impegno urgente, mi spiace.
Ciao Almina.» (L’impegno era un appuntamento con un compagno di prigio-
nia, studente al pari di lui, ma dell’università statale, facoltà di chimica, che
fabbricava il sapone in casa. Perdurando il tesseramento, perdurava il mercato
nero: nei mesi seguenti anche Michele sarebbe in effetti riuscito a fabbricare e
a vendere qualche cassa di sapone, ma con risultati pratici molto modesti.)

***
Il giorno dopo, anziché arrivare col tram fino all’università, Almina scese in
centro, alla fermata di piazza della Scala, ed entrò - con una certa sospensione
di cuore - in Galleria. La percorse di buon passo (il pavimento era ancora in
parte a grandi rappezzature di cemento) fin davanti alla libreria di rappresen-
tanza della casa editrice: nella vetrina principale il libro nuovo occupava il po-
sto d’onore e portava ben leggibili sulla copertina il nome e il cognome di Mi-
chele, del suo Michele... Era presente anche, come la giovinetta constatò con
allegrezza, nelle altre librerie della Galleria e in quelle dei dintorni. Quel mat-
tino Alma arrivò all’università con molto ritardo.
Nei pomeriggi seguenti, al termine delle lezioni, invece di prendere com’era
sua abitudine il tram per la stazione ferroviaria, essa raggiungeva a piedi il
centro della città. Entrava - ogni volta con un tantino di batticuore - in Galle-
ria, e andava difilato davanti alla libreria dell’editore: il libro occupava immu-
tabilmente il posto d’onore nella vetrina principale, con dieci-dodici esemplari
disposti in modo ogni pochi giorni diverso: ora a semicerchio, ora a scaletta,
ora in altra maniera. Alma contava e ricontava attentamente quelle copie: col
passare dei giorni notò con una certa preoccupazione che erano alquanto di-
minuite di numero; tuttavia non scomparivano: altri libri erano entrati in ve-
trina e n’erano usciti nel volgere d’una sola settimana, e anche meno, (con di-
spiacere della ragazza, che provava per gli sconosciuti autori una sorta di soli-
darietà): quello di Michele invece resisteva.
Dopo aver indugiato quanto bastava, e anche un po’ di più, davanti alla ve-
trina, la ragazza - molto graziosa, con le trecce che accompagnavano i movi-
menti del capo - ispezionava le vetrine delle altre tre librerie situate in Galle-
ria, e di una quarta ubicata poco fuori, sotto i portici settentrionali di piazza
del duomo: il libro si manteneva presente in tutte, sia pure con uno o due
esemplari soltanto. (Una volta che non l’aveva individuato nella vetrina sotto i
portici, Alma ebbe un tuffo al cuore, pose la mano sulla maniglia della porta:
col pretesto d’acquistarlo avrebbe dichiarata la propria meraviglia che non
tenessero in vetrina un libro «come quello» di cui «tutti parlavano»: lo scorse
appena in tempo per trattenersi.)
Siccome la più vicina fermata dei tram per la stazione Centrale era in piazza
della Scala, la ragazza doveva al termine della sua ispezione necessariamente
ripercorrere la Galleria: ne approfittava ogni volta per sostare ancora un poco
in muta contemplazione davanti alla vetrina dell’editore. Si avvicinava però il
momento della ‘punta’ in cui le vetture tramviarie dirette alla stazione si sa-
rebbero sovraccaricate di gente, anche a grappoli, e Alma sentiva che avrebbe
fatto bene a spicciarsi; prima di staccarsi di là tuttavia entrava a volte nel ne-
gozio e ordinava una copia del libro con voce chiara, sottolineando («di Mi-
chele Tintori») il nome dell’autore, perché i presenti udissero, e magari, per-
ché no? s’incuriosissero e lo comprassero anche loro. Qualche volta le capitava
di non saper resistere alla tentazione di chiedere (a voce più bassa, s’intende)
al commesso che glielo incartava: «Beh, come va questo libro? Sempre bene?»
«Sì, certo, ha successo, lo vendiamo sempre» le rispondeva il commesso.
«Vi sembra che le prospettive siano buone anche per il futuro?» Il commes-
so si stringeva nelle spalle: «Se la cosa la interessa, posso farla parlare col di-
rettore, venga» e malgrado lei a questo punto, si schermisse, s’avviava
senz’altro, facendole segno di seguirlo: zigzagando tra scaffali carichi di libri
fino al soffitto, la guidava a una scrivania in un angolo: «Commendatore, la
signorina desidera dei ragguagli.»
Finì che il commendatore, un ometto bonario, dotato, per quanto attineva
ai libri, d’una memoria prodigiosa, imparò a conoscerla: «Oh, la nostra signo-
rina! È venuta a prendere un’altra copia del Tintori? Ma brava.» Un giorno le
chiese: «Mi dica un po’, lei forse lo conosce personalmente questo autore?»
«Io?... Sì.»
Attribuì ad Almina, d’aspetto così contegnoso, e con le trecce, un’età parec-
chio inferiore alla reale: «È forse la sua nipotina?»
«No, sono un’amica» rispose Alma, avvampando di rossore.
«Ma allora, in questo caso» affermò generico il commendatore, ben lontano
comunque dall’immaginare che di quella bimbetta l’autore fosse innamorato
«alla signorina bisogna fare lo sconto.» E rivolto alla cassa: «Sconto del dieci
per cento alla signorina.» Anche dopo quest’esperienza Alma non riuscì a im-
pedirsi d’entrare altre volte nel negozio, e da allora - con femminile spirito
pratico - pagò sempre col dieci per cento di sconto.

***
Le difficoltà di Michele raggiunsero il culmine verso la fine dell’anno. Egli
vedeva il bisogno dello zio d’essere aiutato a sostenere almeno le maggiori
spese vive che la sua presenza comportava (quelle alimentari, e il conto della
luce, triplicato a causa delle sue lunghe veglie di studio); aveva inoltre più che
urgente bisogno d’acquistare un cappotto e un abito nuovi. Il poco però che
riusciva a raggranellare, gli bastava appena per le spese universitarie (il tram
‘forese’, la mensa nel seminterrato dell’università, le tasse ch’era tenuto a pa-
gare in segreteria), nonché per le sigarette delle quali, data la continua tensio-
ne nervosa, non riusciva adesso a fare a meno. Nei giorni di più acuto sconfor-
to egli giungeva a chiedersi se valesse davvero la pena di vivere in un mondo
come questo; a volte - in qualche momento particolarmente sconsolato - gli
pareva che delle molte mancanze di libertà per l’uomo, la maggiore e più tra-
gica fosse di non poter scegliere se esistere o no. Poi si rimproverava, ricorda-
va che, ‘oltre tutto’, della sua esistenza faceva parte anche Alma, e questo non
era poco... “Ma cosa mi vale essere innamorato di lei, e che lei lo sia di me, se
non ho neppure un abito decente per andarla a trovare?” Non aveva scampo
comunque: come uomo era tenuto a combattere non solo le battaglie militari -
in cui lo avevano aiutato, così mirabilmente e tangibilmente, il suo angelo e il
suo patrono san Michele arcangelo - ma anche queste piccole e incessanti bat-
taglie contro le miserie quotidiane: “Se ci si ritrova sprofondati
nell’immondizia e nella merda, come capita e ricapita durante la vita, non ri-
mane che lottare anche contro queste, per tirarsene fuori...”

CAPITOLO SECONDO

Si laureò nella primavera successiva, del 1948, poco prima delle famose ele-
zioni generali del 18 aprile, a un anno e mezzo dal rimpatrio.
Soltanto Ambrogio presenziò alla discussione della sua tesi, e il laureando
avrebbe preferito che non ci fosse neppure lui, perché aveva scelto un argo-
mento di poco interesse, non solo, ma non l’aveva neppure preparato bene.
Egli s’era opposto in particolare alla presenza di Alma: «Ti prego di non insi-
stere. Desidero che tu non mi veda in questo, diciamo, frangente, perché mi
piace troppo fare ai tuoi occhi la figura del grand’uomo. Finché dura,
s’intende.» Così Alma quel giorno (un sabato), seppure dispiaciuta, era rima-
sta a Nomana a preparare una cenetta per festeggiare la laurea.
I due giovani - Ambrogio e Michele - uscirono insieme dall’università subito
dopo la proclamazione dei risultati; erano entrambi stanchi: Ambrogio per il
lavoro in fabbrica, il cui peso al termine della settimana si faceva sentire, Mi-
chele per la prolungata tensione nervosa; il neo laureato indossava un cappot-
to color cammello in apparenza nuovo, in realtà ricavato da una vecchia co-
perta di casa.
Stava facendosi sera; nel piazzale antistante l’università, come del resto in
tutte le altre piazze e vie di Milano, erano in sosta pochissime macchine; i due
montarono sulla Millecento nuova dei Riva, di tipo sportivo, che Ambrogio
avviò, indirizzandola verso il centro. «Allora?» disse, per intavolare un po’ di
conversazione.
«Eh, allora!» mormorò Michele; della laurea ritenevano entrambi d’aver già
parlato abbastanza.
«Non te l’ho chiesto, scusa, e sì che l’avevo in mente da stamattina: come va
la seconda edizione del tuo libro?»
«È appena uscita» sorrise Michele, «quanti giorni saranno? Una decina sì e
no.»
«Una seconda edizione è in ogni caso un buon segno.»
«Sì» convenne l’altro.
«E poi vedo che il libro funziona, che la gente lo cerca e lo legge con interes-
se. Ne sento parlare da parecchi.»
Michele annuì. «Anche se mi rende poco o niente. Lo sai che la prima edi-
zione non m’ha reso una lira?»
«Come mai?»
«Era nel contratto: doveva bastarmi la gloria d’essere pubblicato da una ca-
sa editrice tanto importante. Cominceranno a darmi una piccola percentuale
solo adesso, con la seconda edizione.»
«Beh, chissà quante ne usciranno d’edizioni» disse fiducioso Ambrogio. «A
proposito dì, ci sei stato da Apollonio?»
«Non te l’ha detto Alma? Ci sono stato, sì.»
«Oh, era quasi ora. Meglio tardi che mai, eh Michele?» commentò Ambro-
gio.
Ridacchiarono entrambi. Nonostante i propositi formulati fin dal tempo in
cui era matricola, Michele non si era mai risolto a far visita al celebre critico.
Ultimamente, in occasione dell’uscita del libro, aveva progettato di portarglie-
ne una copia: prima però che arrivasse ad attuare quest’ennesimo proposito,
una recensione di Apollonio era apparsa sul quotidiano cattolico milanese.
S’era trattato di una recensione splendida, entusiasta: mai, per nessun’opera
di autore vivente, Apollonio aveva scritto a quel modo.
Almina quando l’aveva letta (su segnalazione del padre, cui era capitata sot-
tocchio durante la colazione del mattino) si era messa a gridare di gioia: il che
per lei, per una statuina di marmo come lei, era davvero inedito. Aveva poi
cominciato a girare tra sala e cucina, tenendo alto il giornale, emozionatissi-
ma: «Vi rendete conto? Capite cosa significa questo? Non c’è in Italia un altro
critico letterario del valore di Apollonio: nessuno può giudicare meglio di lui.»
«Tra quelli cattolici, vuoi dire?» le aveva chiesto il fratello Fortunato, inten-
to al pari del padre a sorbirsi il caffè e latte.
«No, in assoluto, tra tutti. Non c’è uno studioso di letteratura più profondo,
e neanche più autorevole di lui.» La ragazza non aveva mancato di dare dei
ragguagli (sentiva un gran bisogno di parlare): «Ti faccio un esempio: da
quando all’università statale Alfredo Galletti - che è forse il maggior critico
della vecchia scuola - ha lasciata vacante la cattedra d’italiano, tutti insistono
perché concorra Apollonio, capisci? Per la sua fama, e perché ha più titoli
d’ogni altro. Ma lui per fortuna non intende abbandonare la Cattolica.»
«E così alla fine sei andato a trovarlo?» ripeté ora Ambrogio.
«Sì, però non all’università, a casa sua. C’erano già in visita Grassi e Stre-
hler, li hai sentiti nominare?» E a un cenno negativo dell’altro: «Sono due pa-
titi del teatro, della nostra età o poco più anziani. Hanno addosso una febbre
per il teatro che fa impressione. Insieme ad Apollonio - che quando parla di
teatro con loro, sembra quasi un ragazzo anche lui - vorrebbero metter su qui
a Milano un teatro stabile o qualcosa di simile. Chissà se ci arriveranno però.
Gli ci vuole un mucchio di soldi.»
S’incupì un poco: “Sempre i soldi, i maledetti soldi” pensò, e fece una smor-
fia. Da qualche tempo per la verità (da quando il vicerettore del suo collegio -
quel ‘Clero Indigeno’ che anche noi conosciamo - gli aveva trovato lavoro co-
me supplente in un istituto privato di Milano) la sua situazione al riguardo
s’era fatta un po’ meno precaria, tanto che si era potuto comprare un abito,
quello che indossava ora. Di più: da un certo tempo in qua, da quando cioè
erano state fissate per il prossimo 18 aprile le elezioni generali, i problemi
economici stavano di nuovo passando in secondo piano per tutti: perché era in
gioco la sopravvivenza dell’appena conseguita libertà, e forse per molti la vita.
«Beh, cosa t’ha detto in sostanza Apollonio?»
«Non è soltanto un maestro, è un signore. Mi ha accolto molto bene. Per
quanto concerne i miei programmi per il futuro però...» Michele tentennò la
testa: «Ha detto in sostanza che devo fare la mia strada da solo. Dobbiamo
rimanere amici, questo assolutamente, e m’ha invitato ad andare da lui tutte
le volte che credo, però non al modo dei suoi assistenti e degli altri del suo gi-
ro. Perché secondo lui io non posso che sviluppare da me le mie tecniche
espressive, e anche... Beh, così. Ha detto che non devo far gruppo con nessu-
no, neanche con lui.» Il giovane strinse perplesso le labbra.
«Non capisco. Sei contento o no?»
«Non lo so. La mia prima reazione è stata di superbia, puoi ben immaginar-
lo, inquinati come siamo dal peccato originale...»
Ambrogio si mise a ridere.
«Perché ridi? Non è forse così?»
«Non dico di no. Solo che tu lo dici come potresti dire che lì davanti a noi
c’è quel camion.»
«Infatti.»
«Va bene, continua.»
«Beh, dopo quella superbia peccaminosa» Michele sorrise a sua volta «mi
ha preso, devo dirti, una certa preoccupazione, e questa m’è rimasta, ce l’ho
ancora adesso. Perché io sono davvero un isolato, capisci? Del tutto fuori
dell’ambiente, e senza i più elementari accorgimenti del mestiere... Però non è
tanto questo. Se tu d’un’idea che hai in testa parli con altri, con gente davvero
in grado di parlarle voglio dire, sai quanto tempo eviti di perdere? Non soltan-
to gli altri possono aggiungerti qualche cosa, ma la tua stessa idea ti si fa più
chiara, ti si costruisce.»
«Capisco.»
«Beh» concluse Michele «resta il fatto che potrò sempre parlarne con Al-
ma.»
«Con Alma? Cosa stai dicendo? Del tuo lavoro? Ma se è una... bambina. È
intelligente, sono d’accordo, ma in che modo vuoi che t’aiuti?»
«Sbagli» esclamò reciso Michele. «Parlare con lei è un po’ come fare
l’esame d’un progetto davanti a... per esempio a una di quelle pitture del Tre o
del Quattrocento; ciò che nel tuo progetto è inutile o sbagliato cade da sé, per
inconciliabilità voglio dire. Insomma il solo fatto che lei è com’è, ti aiuta
enormemente. Mi sono spiegato?» Davanti alla tacita resistenza dell’altro, Mi-
chele finì con l’annuire a sé stesso, approvandosi in silenzio, come usava fare
in prigionia.
«Accidenti però, che cotta» osservò Ambrogio. «A che punto ti sei ridotto,
povero Michele. Sia ben chiaro che io non c’entro» continuò ridendo: «Io della
tua cotta per Alma non ho la minima responsabilità.»
Erano arrivati in piazza della Scala. Secondo avevano preventivato vi par-
cheggiarono agevolmente la macchina, e raggiunsero a piedi la vicina sede
provinciale della Democrazia Cristiana, dove Ambrogio doveva ritirare del
materiale.

II

CAPITOLO TERZO

Nel vecchio palazzo di via Clerici in cui era insediato il partito c’era a
quell’ora un notevole andirivieni di gente: impiegati e operai, ma anche stu-
denti, che al termine della loro giornata lavorativa, prima di tornare in provin-
cia passavano di qui per incarico delle rispettive sezioni paesane. Alcuni si
portavano via sottobraccio o su una spalla pesanti rotoli di manifesti o pacchi
di volantini e d’opuscoli, altri salivano le scale verso gli uffici per fissare comi-
zi o per ricevere istruzioni, altri ancora scendevano negli scantinati dove il
materiale di propaganda era ammassato.
Scesero anche Ambrogio e Michele il quale, come nuovo del posto, si guar-
dava intorno con curiosità. Negli scantinati manifesti e volantini erano accata-
stati dovunque; in un grande locale delimitato su un lato da transenne, si
scorgevano alle pareti numerosi cartelli coi nomi dei comuni, e davanti ad
ogni cartello, sul pavimento, il materiale destinato a quel comune già assortito
e pronto. Provvedevano alla consegna cinque o sei studenti - quasi tutti muniti
del distintivo dell’Azione Cattolica - i quali facevano capo a un ragazzo pallido
ed efficiente, dai modi molto ambrosiani e col purillo in testa, che tutti chia-
mavano ragioniere.
«Ragioniere» lo chiamò anche Ambrogio, e dopo averlo salutato con un
sorriso: «Il materiale di Nomana per favore.»
Il ragioniere stava in quel momento discutendo con un anziano operaio; lo
lasciò per avvicinarsi ad Ambrogio, pareva seccatissimo.
«Che succede?» gli chiese Ambrogio: «Qualcosa non va?»
«Non va che un incosciente di Limito s’è portato via i manifesti destinati a
Cernusco» disse il ragioniere (doveva essere diplomato da poco, non poteva
avere più di diciotto o diciannove anni): «così l’incaricato di Cernusco se la
piglia con me.» Protestò: «Lo vedete cosa mi combinate con la vostra fretta? È
mai possibile che un giorno sì e un altro sì, debbano succedere di queste co-
se?»
«Mi spiace» disse Ambrogio.
S’era avvicinato anche l’anziano operaio: «Dai ragioniere» perorò in dialet-
to: «faccia il bravo. Di manifesti ne avete qui a montoni, non vorrete mica la-
sciare senza Cernusco sul Naviglio.»
«Non sa che quelli di Cernusco» intervenne pure in vernacolo un giovanot-
to di Gorgonzola, ch’era lì accanto: «se lo vedono arrivare senza manifesti lo
prendono e lo intingono (el pùccen) nel Naviglio?»
«Tas lì ti (Taci tu), disgrasiaa de Gurgunsöla» lo rimbeccò il cernuschese.
«Gurgunsöla e Cernusch, tucc famèi» s’intromise, ridacchiando, un altro
che non c’entrava per niente (era - Ambrogio lo riconobbe - d’Incastigo, zona
industriale: per questo definiva in massa ‘famigli’ quelli della pianura agrico-
la).
Il ragioniere alzò gli occhi al soffitto, emise un sospiro, poi entrò in azione.
«Su, non perdiamo tempo» disse; e ad Ambrogio: «Ritira soltanto per Noma-
na o anche per le frazioni?»
«Non so. Se c’è la roba del Raperio me la dia, che passando gliela lascio.»
Uno degli studenti addetti alla distribuzione avvertì però che la roba del
Raperio era già stata ritirata un’ora prima da un tale coi capelli rossi.
«Ah, sì, lo conosco» dichiarò Ambrogio.
«Senti tu, fammi il favore.» Il ragioniere impegnò addirittura lo studente:
«Metti insieme i manifesti per Cernusco. Prendi la tabella e fa le proporzioni
giuste, mica come viene viene.»
«Gli do addirittura anche quelli con lo scheletro?»
«No» gridò quasi il ragioniere. «Quelli del Guareschi cominciamo a distri-
buirli dopodomani, e non prima. Quante volte ve lo devo dire?»
Poi alzò le spalle. «Le porto subito il suo materiale» disse ad Ambrogio.
Coadiuvato da un altro portò il materiale alla transenna: Ambrogio e Mi-
chele se ne caricarono e s’avviarono verso l’uscita. Prima di lasciare il locale
Michele si voltò per un’ultima occhiata: erano tutti volontari quelli che si da-
vano da fare per le prossime, tremende elezioni: gente dei ceti più disparati,
ma in un modo o nell’altro formata - come lui ed Ambrogio del resto -
dall’Azione Cattolica, della quale si respirava qui la particolare atmosfera, pu-
lita e decisamente popolare.

CAPITOLO QUARTO

Sistemato il materiale nel baule, i due giovani montarono in vettura e per-


corsero speditamente via Manzoni; ignoravano che in un grande albergo di
quella via era sceso poche ore prima il segretario del partito comunista Palmi-
ro Togliatti, impegnato in uno dei suoi giri elettorali.
Dopo via Manzoni percorsero altre vie, lasciandosi indietro prima porta
Venezia, quindi piazzale Loreto, diretti a Sesto; il fondo stradale era quasi do-
vunque dissestato, in più luoghi però n’era in corso il rifacimento, in asfalto o
in blocchi di pietra. Michele notò a lato d’una strada alcuni di quei rustici
schermi in legno e tela di sacco che gli scalpellini usavano tenersi a lato duran-
te il lavoro perché le schegge di pietra schizzanti da sotto gli scalpelli non in-
vestissero i passanti; si ricordò di suo padre, lo scultore scalpellino, e cercò
con gli occhi il nome della strada: gli sarebbe piaciuto tornar qui, a osservare,
gli scalpellini al lavoro.
I muri di questa - come di molte altre vie - erano costellati di manifesti elet-
torali: in complesso quelli dei partiti anti comunisti sembravano prevalere.
Non così nelle vie periferiche, e soprattutto a Sesto, che la macchina raggiunse
dopo aver attraversato brevi tratti di campagna. In questa grossa località in-
dustriale s’avvertiva nell’aria un senso di fermento: non per niente ogni pochi
giorni si formavano qui imponenti cortei d’operai, che i partiti rossi facevano
marciare su Milano per intimidire la popolazione. Sui muri sovrabbondavano
i manifesti di tali partiti, nonché minacciose scritte a mano tra simboli di falci
e martelli; in mezzo a tutto quel rosso i due giovani avevano la strana impres-
sione d’essere quasi dei clandestini.
Videro su un muro cieco una lunga scritta irregolare inneggiante a Tito. «A
proposito di Tito» disse Michele: «non parlo di questo gorilla delle foibe, ma
di quel ragazzo di Nomana ch’era con me a Susdal, e abita in quella cascina
fuori mano, come si chiama...»
«Il Casaretto.»
«Ecco. Come sta? Ce l’ha fatta a riprendersi?»
Ambrogio fece segno di no con la testa. «Non ancora. Ho sentito dire che ha
cambiato un’altra volta sanatorio. È arrivato a un peso quasi normale, però è
sempre molto malconcio.»
«Povero diavolo. Domani lo sarei andato volentieri a trovare alla cascina.»
Ambrogio annuì. Gli venne in mente anche quell’altra cascina, la Nomanel-
la, e quella mater dolorosa, la mamm Lusìa, e la figura di Ferrante fattasi più
curva dopo la morte di Giustina e il mancato ritorno di Stefano. Poveretti! Lui
li visitava di tanto in tanto: non si sforzava più di trovare argomenti di confor-
to, semplicemente stava un po’ con loro. Più spesso di lui li andava a trovare
Luca, ch’era stato fidanzato di Giustina, quello tutte le domeniche che Dio
mandava, arrivava di primo pomeriggio alla Nomanella vestito con l’abito
buono, come ci fosse ancora lei. La nonna, che s’era fatta bacucca, non sempre
lo riconosceva, un giorno l’aveva addirittura scambiato per Stefano: «Sei tor-
nato Stefano?» gli aveva chiesto. Luca, col suo bravo ciuffo sulla fronte, sedeva
insieme con gli altri, d’inverno in cucina, d’estate all’aperto in circolo sotto
uno dei ciliegi; parlava quieto, non necessariamente di Giustina, che però, fin-
ché lui era lì, in un certo senso era come non fosse scomparsa del tutto da
questo mondo. Non era più a questo mondo però. «Devi cercarti una ragazza,
Luca» gli aveva detto una volta Ferrante.
«C’è tempo, pa’» aveva risposto lui.
Dopo Sesto Monza. Se pure un po’ prosaica, la città, aliena dalla violenza e
ricca di tradizione cattolica, dava ogni volta a chi vi giungeva da Sesto un sen-
so di sollievo. “Qui nessuno medita ammazzamenti” avvertirono confusamen-
te sia Ambrogio che Michele, ciascuno per proprio conto. (Mezz’ora prima
l’aveva pensato anche Pierello, traversando la città sul treno diretto a Noma-
na.) Monza ad ogni modo non era che una piccola città per chi veniva da Mi-
lano e Sesto...
Si lasciarono indietro al suo margine nord la villa reale; poi ecco la campa-
gna, che stava già facendosi rigogliosa, e i primi paesi della Brianza. La strada
li attraversava quasi tutti per il mezzo. «Vedi anche qui quanti manifesti per le
elezioni del giorno 18?» fece notare Ambrogio a Michele.
«Vedo. Vorrei proprio sapere come andrà a finire ’sta faccenda» mormorò
questi.
«Andrà bene, vedrai.»
«Speriamo.»
Dopo Incastigo, superato sul grande ponte a due arcate lo scoscendimento
in cui scorre il Lambro, la strada cominciò a salire zigzagando tra le colline, in
mezzo ai boschi di robinia ancora spogli.
«Hai notato per caso se l’acqua del Lambro è fangosa?» chiese Ambrogio.
«No per la verità. Con questo buio.»
«Avrei dovuto controllare oggi mentre scendevo a Milano. Perché se c’è un
po’ di piena, domani potremmo venire a pescare col quadrato allo stabilimen-
to nuovo. Nuovo per modo di dire, intendiamoci, è quello vuoto in riva al
Lambro che abbiamo preso e stiamo avviando.»
«Ah. Lo vedrei volontieri.»
«Allora ci veniamo in ogni caso.»
«Era una delle fabbriche visibili dal ponte?»
«No, dal ponte non si vede.» E dopo una pausa: «Ci stiamo montando telai
su telai, alcuni nuovi, ma i più usati, comprati da tutte le parti. Ti dico la veri-
tà: a volte mi preoccupa l’idea di far partire delle macchine ormai vecchie. A
stare a quello che ho studiato all’università potrebbe essere pericoloso. Oggi,
mentr’eravamo nell’aula magna, questo fatto seguitava a tornarmi in mente.»
«E allora?»
«Più che di capitali - che non abbondano, però neanche mancano - è una
questione di mentalità. Papà non vuol perdere altro tempo: ‘Se non creiamo
nuovi posti di lavoro in un momento come questo’ dice e ripete ‘non capisco
proprio cosa ci stiamo a fare noi industriali. Del resto, se davvero sarà neces-
sario, i telai li potremo anche cambiare in seguito.’ È rimasto, come forma
mentis, forse più operaio che imprenditore: quella dei posti di lavoro è sempre
stata la sua fissazione.»
«Sì, lo so. Beh, il tuo vecchio mi piace.»
Ambrogio annuì. «Fortuna che una decina di giorni fa, a Torino, abbiamo
firmato quel trattato d’unione doganale con la Francia.»
«Con la Francia? Un trattato d’unione doganale?»
«Non ne sei al corrente?»
«No.»
«L’hanno firmato a Torino: per noi il ministro Sforza, per i francesi Bidault.
Questa, dell’unione doganale con gli altri paesi europei, è una delle fisse di De
Gasperi, lo sai. La considera un primo passo verso l’unificazione dell’Europa.»
«Così adesso abbiamo l’unione doganale con la Francia?» disse Michele.
«Non lo sapevo. Sono settimane che, con quest’impiccio della laurea, non rie-
sco a leggere i giornali.»
«Ti dirò che a me sembra strano che possa durare. Non so negli altri settori,
ma per noi tessili sarebbe una tal pacchia... I francesi non possono concorrere
coi nostri prezzi.»
«Se hanno firmato, avranno ben saputo quello che facevano.»
«Già.»

CAPITOLO QUINTO

Mentre la macchina, superato il cancello, s’arrestava davanti alla porta di


casa, dalla porta uscì Alma, ch’era in attesa. La tallonava Giudittina - adesso
sui tredici anni - lei pure contagiata dall’impazienza di Alma.
«Michele, com’è andata? Ti sei laureato? Sì?» chiese commossa Alma,
prendendo e trattenendo nelle proprie mani la destra del giovane: «Allora sei
un signor dottore? Oh, bravo!»
«Ti sei laureato? Ti sei laureato signor dottore? Oh, quanto mi fate ridere»
gridò Giudittina.
«Smettila tu, stupidella» disse Ambrogio. Lei invece spiccò un improvviso
salto, e mentre Alma, col suo sorriso sempre uguale, di statuina, seguitava a
stringere con tenerezza la destra di Michele, piombò addosso a questi, che fu
costretto a far forza sulle gambe per non essere rovesciato.
«Guarda che incosciente» esclamò Ambrogio.
«Lasciala fare» la difese Michele; e a Giudittina: «Però che entusiasmo, che
bene mi vuoi!»
A imitazione di Alma Giuditta afferrò una delle mani di Michele. «E allora?
Spiegaci, su» disse continuando a fare la spiritosa: «Adesso che sei laureato, ti
senti più alto d’una spanna?»
Ambrogio tentennò la testa. «Vado a consegnare i manifesti, poi metto la
macchina in legnaia» dichiarò riavviando il motore. Intendeva nella rimessa
ricavata dalla vecchia legnaia.

***
Michele e Alma avrebbero voluto stare un po’ soli, ma era quasi buio e in
giardino non si poteva ormai più passeggiare. Come entrarono in casa, allo
stesso modo di Giudittina anche gli altri presenti - cioè Pino, Rodolfo, e per un
momento anche Giulia e Francesca, che pure avevano il loro da fare in cucina
- si strinsero attorno al festeggiato. Giulia propose che in attesa della cena egli
riposasse un po’: «Anche soltanto dieci o quindici minuti, è sempre meglio di
niente. Chissà che giornata faticosa hai avuto oggi. La tua stanza è pronta,
perché non ti stendi un po’ sul letto?»
“Non andartene, no, resta qui” invocavano gli occhi di Alma, che tuttavia si
manteneva zitta.
«Grazie, non mi sento stanco» rispose Michele alla madre. Venivano dalla
cucina odori di minestra e d’arrosto, i confortanti odori della vita. “La ‘mia’
stanza” pensò Michele “cioè quella di Manno, che è morto” (gli accadeva anco-
ra, specie nei momenti lieti come questo, di tornare improvvisamente alla sua
esperienza di morte): “lui non li può più sentire questi buoni odori. Chissà”
svagò col pensiero “com’è abissalmente diversa dalla nostra la realtà in cui si
trova lo spirito di Manno in questo momento... Potessimo farci un’idea del
mondo dei morti, del loro modo di essere nell’aldilà! Ma non possiamo. Tanto
per cominciare, nell’eternità non esistono momenti...”
«Vieni» gli disse Alma, tutta contenta ch’egli fosse rimasto con lei «acco-
modiamoci in salotto.»
“Bisogna che nel nuovo libro io parli di Manno” registrò mentalmente Mi-
chele mentre, con gli altri, seguiva la ragazza: “non devo permettere che,
scomparsi noi, il suo ricordo si perda, ingoiato subito dal silenzio, dal ‘racca-
pricciante silenzio.’ ” E tuttavia, anche supponendo che il nuovo libro avesse
avuto successo, per quanto tempo la gente lo avrebbe letto? “Foss’anche per
cento, anche per due o trecento anni, è sempre un’inezia, addirittura un niente
confronto all’eternità...”
«Tra poco arrivano dall’ufficio papà e Fortunato» gli stava dicendo Alma «e
arriverà anche Andrea, sai, l’Andrea Marsavi: vuol farti festa anche lui. Sei
contento?»
Il giovane fermò quasi stupito gli occhi sulla ragazza, sulla sua testa viva,
fragile, sui suoi capelli castani: «Sì, certo» disse, e le sorrise.

CAPITOLO SESTO

A tavola intorno a Michele c’erano proprio tutti: Gerardo e Giulia, e i loro


sette figli, e Andrea, che tra un paio di mesi avrebbe sposata Francesca ed era
arrivato con un enorme mazzo di fiori per lei. “Peccato non sia qui anche Fan-
ny” si diceva segretamente Ambrogio, “peccato”. Anch’egli e Fanny avevano
deciso di sposarsi: nel giro di non molti mesi in casa ci sarebbero stati dunque
due matrimoni. Le donne - Giudittina inclusa - si alzavano da tavola per aiuta-
re Noemi, alternandosi soprattutto nel portare le vivande e nel riportare i vuo-
ti. C’era la solita animazione, Michele non pensava più ai morti.
«E così in un anno e mezzo appena da che sei tornato dalla prigionia, hai
già messo al tuo attivo una laurea e un libro» fece notare Pino.
«Accidenti, questo sì che si chiama essere realizzatori» convenne Fortuna-
to, lui pure prossimo a laurearsi in ingegneria. «E che libro anche. Ho letto
l’articolo di Apollonio: accidenti a te, Michele.»
«Davvero» gli s’aggiunse ammirata Francesca. «Lo sai che se non fossimo
così amici, io mi sentirei in soggezione davanti a uno come te?»
Almina, fermatasi con la zuppiera in mano per non perdere una sola parola,
annuiva felice.
«Dai, smettetela» cercò di schermirsi Michele, «piantatela di prendere in
giro»; ma al vedere la felicità di Alma si sentiva felice anche lui. “Sia benedetta
questa casa così piena di vita!” diceva in cuor suo.
«Dì, Michele» volle sapere Rodolfo, che appariva più riflessivo rispetto a un
anno prima: «dopo un articolo come quello d’Apollonio (l’ho letto anch’io: era
bellissimo) cos’è che succederà?»
Michele si girò verso Alma: «Ehi, non sarà che ai tuoi fratelli tu gliel’hai fat-
to leggere per forza quell’articolo?»
«No» rispose Alma, tutta ridente, sempre con la zuppiera in mano: «Ti as-
sicuro che no.»
«L’ho letto di mia iniziativa, si capisce» confermò Rodolfo, «nessuno m’ha
obbligato. Ma dimmi, cosa succederà? Ti metteranno sui testi di letteratura? E
i ragazzi a scuola, poi, ti dovranno studiare?»
A quest’uscita tutti si misero a ridere, anche se la domanda di Rodolfo li in-
teressava.
«Dì, dì» ripete infatti Fortunato.
Il giovane scrittore tentennò la testa sorridendo. «In Italia ogni critico fa in
pratica repubblica a sé» spiegò, «e si disinteressa o quasi di ciò che scoprono
gli altri critici, anche i maggiori. Così il lavoro di ciascuno di loro serve piutto-
sto a poco. Diverso è quando un’opera italiana la scopre un critico straniero,
soprattutto francese. Certo, a pensarci, in letteratura siamo davvero provincia-
li: più, forse, che in ogni altro campo. Lo siamo a un punto incredibile.» Annuì
riflettendo. «A questo riguardo il fascismo, che impediva a molti di renderse-
ne conto, in fin dei conti era misericordioso.» Notò il viso attento fin ad essere
quasi teso di Gerardo: “Non starò parlando in modo troppo concettuale?” si
chiese.
«Proprio tutti i critici sono a quel modo?» domandò Francesca. Michele
strinse le labbra: «Beh, uno che fa eccezione c’è, uno solo: Benedetto Croce.
Quello, oggi almeno, viene considerato un maestro un po’ da tutti.»
«Croce il liberale?»
«Sì, lui. A me però, ti dirò, non sembra propriamente un critico. A parte il
fatto che adesso fa sopra tutto politica, è... troppo filosofo, e finisce col trattare
le cose della letteratura come... Ma stiamo forse entrando nell’astruso. Sapeste
però, con la sua impostazione, che svarioni ha preso a proposito per esempio
del Pascoli, che razza di fesserie ha detto.»
«Dì» gli chiese Almina, tuttora con la zuppiera in mano: «voi, tu o l’editore,
a Croce il libro gliel’avete mandato?»
«No.»
«E perché? Dovevate mandarglielo» esclamò lei. «Come mai non ci avete
pensato? Accidenti!»
La sua fede nel libro di Michele appariva tale, che i presenti si misero a ri-
dere. Soltanto Giudittina disse: «Eh, certo, dovevate mandarglielo!»
Alma posò la zuppiera sul mobile che le stava più vicino (il copri-calorifero)
e si accostò a Michele: «Senti» gli disse a mezza voce «ne ho di sopra una co-
pia: domani tu ci metti la dedica, che poi a spedirlo ci penso io.»
«Che dedica? Spedirlo a chi?»
«A Benedetto Croce.»
«Ma va.» Michele tentennò la testa, sorridendo divertito.
Dopo di che, per non rimanere troppo al centro dell’attenzione, spostò deli-
beratamente il discorso sul grande argomento di quei giorni: le elezioni che
avrebbero avuto luogo tra due settimane.
Fu subito chiaro che il pericolo di una vittoria del fronte marxista, sebbene
abbastanza remoto, preoccupava tutti: «Il rischio è davvero grosso» osservò
Gerardo, «è tremendo.»
«A quello che succederebbe se vincono loro, è meglio non pensare» con-
venne a mezza voce Ambrogio. «Ma vedrete che non vincono.»
«Lo credo anch’io» disse Fortunato. «Però dà molto fastidio la sproporzio-
ne della posta in gioco: se vince la democrazia cristiana si tratterà d’una vitto-
ria elettorale, punto e basta, per i comunisti rimarrà sempre la possibilità di
prendere il potere la prossima volta, alle prossime elezioni. Per i democratici
invece una vittoria comunista sarebbe la fine, la...» tagliò l’aria col palmo della
mano, a imitare il taglio d’una lama.
Il gesto fu così realistico che si fece un istante di silenzio; Giudittina, spinse
addirittura la testa in avanti, come sotto una lama appunto. Se ne accorse Giu-
lia, che lanciò un’occhiata di rimprovero a Fortunato: «C’è la Provvidenza,
no?» esclamò. «E “dunque... E poi, per che motivo dovrebbero vincere i co-
munisti? Qui in Brianza tutti insieme» (intendeva comunisti e socialisti, che
per queste elezioni s’erano associati nel ‘fronte popolare’) «non arriveranno a
una terza parte dei voti.»
«Certo» le s’aggiunse Rodolfo. «Ricordiamoci che a Visate, due anni fa, alle
elezioni amministrative i rossi non si sono nemmeno presentati. È vero An-
drea?»
«È vero» gli rispose di buon grado Andrea. «Avevano paura che neppure
uno di loro riuscisse eletto, per questo non si sono presentati.»
«Ah, sì» disse Francesca. «Se ben ricordo tuo padre in quelle elezioni è sta-
to il candidato che ha avuto più preferenze, è vero?» Andrea annuì: «Sono sta-
ti soprattutto gli operai a votarlo.»
«Ma in che modo avete fatto le elezioni? Con una lista unica?» s’informò
Pino.
«No, c’erano due liste: una della Democrazia Cristiana, e l’altra, ridotta -
minoritaria come si dice - dell’Azione Cattolica.»
«E quale delle due ha vinto?» chiese con vivacità Giudittina, già riconforta-
ta.
«La Democrazia Cristiana, si capisce. Perché l’altra era una lista di pochi
nomi, messa insieme soltanto per non fare le elezioni con una lista sola.»
Non lontano da Visate, a Monticello (fu Fortunato a ricordarlo) in
quell’occasione era stato eletto sindaco l’ex podestà: il quale, come non era
fascista prima, così non era antifascista adesso, ma semplicemente cristiano:
siccome era ritenuto l’uomo più adatto ad amministrare il comune, la gente gli
aveva dato una forte maggioranza.
«Peccato che l’Italia non sia tutta come la nostra Brianza» mormorò Alma,
che anche lei s’era un po’ turbata.
«Ci sono le zone rosse purtroppo» disse Fortunato: «l’Emilia, la Toscana...»
«Sì. Là prima sembravano tutti fascisti e adesso sembrano tutti comunisti»
fece notare Ambrogio, e tentennò la testa.
«Quando nel 24, cioè due anni dopo aver preso il potere, i fascisti hanno te-
nute le elezioni, la loro lista ha stravinto non solo in Emilia e in Toscana» ri-
cordò Gerardo, «ma in tutt’Italia. Ha ottenuto ben due terzi dei voti. Soltanto
qui da noi ha perso: a Monza e Brianza è arrivata appena al diciannove per
cento.»
«Intanto adesso in Emilia...» fece Ambrogio. «Se pensiamo a tutti quei po-
veri preti assassinati nel ‘triangolo della morte’!» Guardò Michele: «Tu non
hai letto ultimamente i giornali: sai che ancora due giorni fa ne hanno am-
mazzato un altro?»
Michele annuì: «Sì, lo so.»
Giulia andò nuovamente con occhi angustiati alla figlia minore: «Giuditta»
disse, «va un po’ a vedere in cucina a che punto è la Noemi col pasticcio di
zucchine. Va a darle una mano.»
«Uffa» fece Giudittina, conscia che la si allontanava perché non testasse
impressionata. Si alzò in piedi a malincuore.
«Su spicciati.»
La bambina s’avviò, tentennando ad ogni passo in modo caricaturale la te-
sta verso sinistra e verso destra. Ambrogio fu sul punto di dirle una frase iro-
nica, ma ebbe improvvisa la visione di ciò che sarebbe potuto accadere se i
comunisti, vinte le elezioni, avessero fatta subire agli industriali italiani la
stessa sorte che a quelli russi: probabilmente Giudittina sarebbe stata uccisa,
magari dopo essere stata violentata chissà quante volte. O forse l’avrebbero
deportata insieme con suo padre e sua madre, su uno di quei carri bestiame
spaventosi? Come stavano ancora facendo in questo momento con gli ultimi
‘ex’ in Cecoslovacchia e in Polonia... Provò un acutissimo senso di raccapric-
cio: il suo pensiero corse al mitra che aveva acquistato e teneva nascosto in
solaio, e a quelli dei suoi fratelli: prima ne sarebbero finiti a terra di carnefici
rossi... Questo però non avrebbe risolto niente, non avrebbe evitato lo scempio
dei suoi cari, al contrario. “Signore, fa che non succeda, ti supplico” invocò
fervidamente, chiudendo per un istante gli occhi.
«Io non capisco» stava dicendo Francesca: «Gli emiliani che si incontrano
al mare, i bagnini per esempio, sono così simpatici, così allegri... Com’è che
poi ammazzano la gente a quel modo?»
«Hanno il sangue caldo» sentenziò con pesante retorica Gerardo. Questo in
realtà non spiegava molto, ma autodidatta com’era Gerardo mescolava inevi-
tabilmente a osservazioni sensate e non di rado sapienti - quand’erano frutto
della sua esperienza diretta - luoghi comuni come questo. I figli lo sapevano,
nessuno batté ciglio.
«Dovreste vederli in questi giorni gli emiliani» disse allora Andrea, e vol-
gendosi a Francesca che gli sedeva accanto: «Tu sai che giovedì sono stato da
quel nostro fornitore di Faenza.» Giratosi nuovamente verso gli altri: «Alla
stazione di Bologna ho dovuto aspettare più d’un’ora la coincidenza: beh, si
può dire che in quella stazione nessuno o quasi lavora più, la vita s’è come
fermata. Stanno aspettando le elezioni: siccome sono quasi tutti comunisti - e
chi non lo è, non s’arrischia a dirlo per paura - sono convinti che il comunismo
vincerà, e gli sembra ormai inutile lavorare in... sì, insomma in una società che
secondo loro sta per finire. Questo me l’ha spiegato poi il nostro fornitore di
Faenza. A una donna con un bambino in braccio ch’era scesa dal treno, visto
che i facchini non comparivano, la valigia ho finito col portargliela io fino
all’uscita della stazione, perché sembrava sul punto di mettersi a piangere,
povera diavola.»
«Non sarà che le hai portata la valigia perché era carina?» chiese Fortunato,
il liberale.
Andrea sorrise alla battuta, raggrinzendo il naso affilato; anche Francesca
sorrise.
«Non c’è da scherzare» disse invece con gravità Gerardo.
Ambrogio osservò: «Se le cose nelle zone rosse stanno così, bisognerà vede-
re dopo che i rossi avranno perse le elezioni - perché io sono convinto che le
perderanno - come andrà a finire. Accetteranno di tornare al lavoro? O tente-
ranno il ribaltone? Guardate cosa sta succedendo in Grecia.»
Michele sollevò la testa facendosi più attento: effettivamente l’esempio della
Grecia era preoccupante. Là i comunisti, dopo essere stati come in Italia, al-
leati delle altre forze politiche nella lotta contro i tedeschi, avevano
all’improvviso scatenata la loro rivoluzione. N’era nata una selvaggia guerra
civile, con fasi alterne: nell’estate dell’anno prima i comunisti erano arrivati a
proclamare ‘libera repubblica’ il territorio in loro possesso; ora però stavano
ritirandosi verso il confine jugoslavo, premuti da truppe americane e
dall’esercito regolare greco, che s’era rivelato in questa campagna, come a suo
tempo nella guerra contro l’Italia, coriaceo e fedele.
Mentre gli altri commentavano («Che bella prospettiva, che magnifica pro-
spettiva!») o ricordavano qualche particolare della guerra civile greca nomi-
nandone i protagonisti («...quel farabutto di Markos»), a Michele si prospettò
un interrogativo: chissà se in questo momento in Grecia i comunisti stavano
portandosi via dei bambini? Gli erano tornati alla mente i ragazzi spagnoli di
Susdal, vestiti di stracci («Este, señor, es el pais de la mierda...»). Attraverso
che razza di folli e barbare esperienze però stavano passando gli esseri umani
nel nostro tempo!
Nel mezzo di tali discorsi Rodolfo, dopo aver consultato il proprio orologio,
depose con gesto energico il tovagliolo e si alzò in piedi. «Cosa fai?» gli do-
mandò la madre.
«Saluto la compagnia» rispose lui. «Per me è arrivato il momento d’andare
all’oratorio.» Ultimamente era molto cresciuto, s’era allungato e un po’ dima-
grito, il viso irregolare gli s’era fatto più serio. «All’oratorio stasera? A che fa-
re?» s’informò il padre.
«Dobbiamo uscire con le squadre dei manifesti.»
«Che manifesti?»
«Come la settimana scorsa: dobbiamo appiccicare i manifesti in paese.»
«Sì, è vero» spiegò Ambrogio. «Anche stasera i ragazzi devono affiggere i
manifesti elettorali: li ho portati io da Milano.»
«Prima finisci il secondo» pose come condizione la madre a Rodolfo.
«Guarda quanta verdura hai ancora nel piatto: vuoi sprecare tutta quella gra-
zia di Dio?»
«Ma...» protestò lui; poi alzò gli occhi al cielo e allargò le braccia, come fa-
ceva un tempo Pierello per accettare il destino, e sedutosi e afferrata la for-
chetta, attaccò a ingolfarsi la bocca di verdura. La madre avrebbe voluto ri-
chiamarlo di nuovo, dirgli di non mangiare a quel modo, ma si trattenne: da
un certo tempo in qua era intervenuta nel comportamento del ragazzo una
sorta di maturazione, e in fondo anche questa sua pronta ubbidienza lo atte-
stava; non bisognava dunque importunarlo troppo.
Michele era sempre col pensiero ai bambini greci: fino a quel momento nes-
suna notizia era trapelata, ma effettivamente in quei giorni i comunisti in ri-
piegamento ne stavano portando via a migliaia, dopo averli razziati qua e là
nei paesi. Quei bambini però - di cui alcuni molto piccoli - non sarebbero arri-
vati in Russia come quelli spagnoli: sarebbe intervenuta in tempo la lite tra
Tito e Stalin, in seguito alla quale il governo greco avrebbe potuto recuperarli
dalla Jugoslavia, con una trattativa diplomatica di cui la stampa di tutto il
mondo avrebbe parlato.

CAPITOLO SETTIMO

La cena era al caffè (caffè vero, importato dal Brasile come una volta) e i di-
scorsi al tavolo s’erano frazionati, quando giunse dalla strada un confuso vo-
cio. I nervi di tutti erano tesi: sebbene non mancasse una componente giocon-
da in quel rumore, Ambrogio, alzatosi, anziché aprire una delle finestre che
dalla sala davano sulla strada, si trasferì nel locale attiguo: qui aprì l’unica fi-
nestra e s’affacciò. Era in arrivo una delle squadre di ragazzi addetti
all’affissione dei manifesti; il giovane rientrò in sala e chiamò Michele: «Vieni
a vedere.» Tornarono ad affacciarsi insieme.
I ragazzi venivano avanti motteggiando e ridendo, con alla testa come capo
squadra Saulo, il maggiore dei sette figli dell’autista Celeste (futuro industriale
e futuro sindaco di Nomana, come s’è detto.) Dietro costui avanzava il porta-
tore della scala, con la sua scaletta di appena sei o sette pioli collocata orizzon-
talmente su una bicicletta, nonché un ragazzino più piccolo, pure con biciclet-
ta a mano, che portava appeso al manubrio il secchio della colla. Dietro, coi
rotoli dei manifesti e con pennelli vari e qualche pennellessa ad asta, venivano
gli altri, e in coda alcuni pressoché bambini, i quali seguivano non per lavora-
re ma per gioco, e vociavano allegramente con le loro voci bianche. Il capo
squadra Saulo, piuttosto seccato per quel chiasso, contribuiva a incrementarlo
gratificando ogni tanto la propria truppa di frasi come: «Avanti ragazzaglia
(bagaiéra). - Avanti squadra della buona morte. - Avanti branco di paolotti col
secchio della colla...» Alle quali frasi i più vicini tra i suoi seguaci, in particola-
re il piccolo che portava la colla, gli rispondevano puntualmente: «E tu anche.
- E tu sei il capo. - E tu sei il più paolotto di tutti...» senza perdere una battuta,
finché scorsero due alla finestra e allora azzittirono. «Buona sera dottore» sa-
lutò il capo squadra, e ai suoi: «Alt, ferma qui» ordinò.
Indicò uno spazio sul muro della casa di fronte: «Qui ne mettiamo quattro,
uno di fianco all’altro: due con lo scudo e due con la faccia della Democrazia.»
.
«Ne abbiamo di più col filo spinato» lo avvertì uno dei portatori dei manife-
sti, mentre la squadra si disponeva all’azione.
«Lo so» rispose con voce marcatamente seccata Saulo: «Lo so. Però quelli
v’ho detto che li mettiamo nella strada del circolino comunista. Dai, non per-
diamo tempo.»
Di lì a poco era costretto ad alzare di nuovo la voce: «No, Adeodato, no.
Quante volte devo dirtelo che, per mettere la colla, il manifesto non bisogna
mica stenderlo per terra? Non capisci che così sporchi la faccia della Demo-
crazia?»
«La faccia della Democrazia» sussurrò Michele: «Questo mi piace.»
«Vuoi che scendiamo in strada?» gli propose sotto voce Ambrogio: «Che
facciamo magari una puntata all’oratorio? È là che le squadre fanno capo.»
«È la centrale operativa, vuoi dire?» fece Michele; risero tutt’e due.
«La centrale magari è nella sede del partito. Beh, possiamo, se credi, passa-
re anche da quella, si trova giusto sulla strada per l’oratorio. Per te sarebbe
un’esperienza, no?»
«Ma... e qui? Vorresti piantare in asso la compagnia?» Era evidente che
pensava soprattutto ad Almina, che gli dispiaceva, separarsi da lei; nel con-
tempo però l’occasione di vedere coi propri occhi come si svolgeva in paese la
battaglia elettorale l’attirava.
«Forza» disse Ambrogio: «Ormai la cena è finita e non staremo mica via
molto. In mezz’ora siamo di ritorno.» Riaccostò le persiane.
«Massa di deficienti» si sentì fuori la voce di Saulo: «Avete rovesciato il
secchio della colla. Disgraziati. Adeodato, sei stato tu, eh?»
«No» si sentì la voce d’Adeodato rispondere: «è stato quell’impappinato di
Beniamino.»

CAPITOLO OTTAVO

La sede del partito - con la sua brava targa fuori - era nella stessa via Man-
zoni, poco prima dello sbocco in piazza. Coincideva con la bottega d’un orolo-
giaio d’Incastigo il quale - poiché l’utilizzava soltanto il mercoledì, giorno di
mercato - non aveva avuto difficoltà a subaffittarla per gli altri sei giorni della
settimana al partito. Nel suo interno c’erano poche mensole da esposizione e
un paio di piccoli armadi con gli stipetti tenuti rigorosamente vuoti, nonché
un certo numero di sedie impagliate, portate qui dall’oratorio. In un angolo
stava accatastato, su sedie e anche per terra, del materiale di propaganda:
Ambrogio riconobbe alcuni dei pacchi di volantini ritirati da lui e da Michele
quel giorno a Milano.
Nel locale si trovavano in quel momento sei o sette iscritti, tutti operai, che
conversavano seduti in circolo: salutarono i due giovani in modo cordiale, ma
senza alzarsi in piedi, alla maniera indipendente e magari un po’ inurbana dei
briantei.
«Così questa sarebbe la centrale operativa?» disse Michele, tornando al
precedente scherzo.
Ambrogio annuì con un sorriso: «A noi va bene.» E rivolto agli altri: «È ve-
ro o no?», poi a Michele: «Dai, sediamoci un momento.»
Sedettero, mentre tutti spostavano le loro sedie in modo da includerli nel
circolo. Ambrogio si rivolse a uno dei presenti, un tipo biondastro di mezz’età,
dal collo taurino: «Renzo, per il materiale le squadre dei ragazzi fanno capo
qui o all’oratorio?»
«Fanno capo un po’ dappertutto» gli rispose in dialetto l’interpellato, e an-
nuì ilare.
«Per i manifesti vengono qui» precisò, pure in dialetto, un altro «mentre
per la colla - siccome l’ha preparata il figlio del cartolaio, che è il tecnico
dell’articolo - vanno alla cartoleria.»
«Ah, bene.»
«Ha sentito che fiera, eh?» disse l’operaio biondastro a Michele: «Ci sono
anche tre dei miei figlioli nel mazzo.»
«Questo» lo presentò allora Ambrogio a Michele «è il Renzo Crippa, il vice
segretario.» E a Renzo: «L’ho appena visto infatti uno dei vostri figli: Adeoda-
to.»
L’operaio annuì sorridendo: «È piccolo, ma...» (intendeva: ma si arrangia la
sua parte.)
«Eh!» convenne Ambrogio. «Beh» disse poi, con l’aria di fare punto e a ca-
po, «si può sapere di cosa stavate discorrendo?»
«Se lo può immaginare anche lei di cosa stiamo discorrendo» gli rispose
Renzo: «delle elezioni. Per forza.»
«Questo si sa» esclamò spalancando le mani un terzo operaio, giovane, coi
capelli neri, molto corti.
«Che fantasia, vero?» fece un ometto curvo e bianco, si trattava di Felice
(Felizìn): «Ma ormai è così: non si riesce quasi a parlare d’altro.»
«Qui a Nomana comunque siete sicuri di spuntarla, no?» osservò Michele.
«Beh, Nomana non è un problema» ammise Felice.
«Però non dobbiamo dormirci sopra» intervenne uno che finora non aveva
parlato, d’età non facilmente definibile, dal viso sottile, i lineamenti delicati.
Ambrogio lo presentò a Michele: «Questo è il Pio Cavenago. Ha un figlio
che studia da prete.»
Il Cavenago annuì compostamente.
«Si capisce che non dobbiamo dormirci sopra» disse il giovane dai capelli
corti: «perché i rossi, loro, lavorano. E come.»
«Però è incredibile...» Il vice segretario Renzo si rivolse ad Ambrogio con
aria interrogativa: «Lo sa che tra i rossi adesso ce n’è tanti convinti, ma pro-
prio convinti, di vincere? Non dico di vincere qui a Nomana, si capisce, ma in
Italia. Dovrebbe sentirli.» «Più che altro sono quelli che lavorano a Sesto» af-
fermò Felice: «È là che gl’imbottiscono la testa a quel modo.»
«Però è strano» insisté Renzo, sempre guardando in modo interrogativo
Ambrogio, «che siano così convinti.»
«Mah...» gli rispose Ambrogio: «Ragioni fondate non ne possono avere. In
fin dei conti queste non sono le prime elezioni che facciamo. Si saranno lascia-
ti convincere dalla loro stessa propaganda, non credo ci sia altro.»
«Speriamo. Perché guai se no» mormorò il Renzo Crippa. «Meglio la morte
piuttosto.»
Michele lo considerò interessato: era un operaio al pari degli altri, a diffe-
renza degli altri anzi indossava ancora la giubba da lavoro di tela. Perché par-
lava a quel modo? Cos’era a determinarlo? Soltanto motivi religiosi, oppure...
«Il dottor Ambrogio qui, e il Tito Valli, vi hanno riferito come stanno le cose
in Russia, eh?» si provò a saggiarlo.
Renzo annuì. «Lei conosce il Tito Valli, quel povero tapino in croce?» chie-
se.
«Certo che lo conosco» rispose Michele, «eravamo insieme in prigionia.»
«Ah. Allora anche lei è un miracolato. Beh, sì, ci hanno spiegato ogni cosa.
E anche Luca del resto. Lei lo conosce il Luca Sambruna, il nostro segretario
di sezione? Era in Russia anche lui.»
«Alpino, gavetta grande» precisò quello coi capelli corti.
«Conosco Luca, sì.»
«Ecco. Lui ogni tanto ci racconta cos’ha visto, anche ieri sera ne ha parlato»
disse Renzo. «Ma per me, più che queste cose... Vede, io ho quattro figli. Quel-
lo che mi fa veramente paura, del comunismo, è che ti ruba i figli. Non dico
che se vincono le elezioni ce li porteranno via materialmente. Questo in Italia
potrà accadere e non accadere, e per i miei almeno, che sono figli d’operaio,
non credo che accadrà: però gli cambieranno la testa, ecco il punto. Perché noi
del popolo» continuò, sempre in dialetto «non possiamo competere con una
propaganda come la loro, anche se comprendiamo bene che è sbagliata: ab-
biamo fatte a malapena le elementari noi. Gli pompano ogni giorno la testa e...
So io quello che dico. Insomma succederà dei nostri figli - per fare un esempio
- come di quei ragazzi che vanno con le cattive compagnie, sapete, con gente
che gli volta la testa: poi finiscono col non ragionare più come gli altri della
famiglia. Ce l’ho giusto sott’occhio un caso simile. Si disaffezionano e... In-
somma a questo modo uno i suoi figli li perde. E io i miei non intendo perder-
li. Per niente al mondo.»
Michele annuiva (“Per i proletari il maggior bene è la prole... Del resto an-
che mio padre, per non rischiare di perdermi, non mi ha forse fatto studiare in
un collegio che gli assorbiva due terzi del suo assegno di mutilato?”)
«Beh dai, adesso non facciamo i pessimisti» s’intromise Pio, con l’intento di
sdrammatizzare: «I rossi non ce la faranno, perché di gente con la testa sulle
spalle in Italia ce n’è ancora tanta ma tanta. E poi abbiamo la chiesa, no?»
«Contrordine compagni» recitò a questo punto il più giovane dei presenti,
sui diciassette anni, aprendo la bocca per la prima volta: «la frase dell’Unità:
‘Tutti i compagni devono avere in testa il pitale’ contiene un errore di stam-
pa, e va letta: ‘devono avere in testa il Capitale’».
«Cosa vuol dire?» chiese sorpreso Michele ad Ambrogio.
«È una delle vignette del ‘Candido’ di questa settimana, sai, il giornale di
Guareschi; anche qui a Nomana è molto letto.»
Gli altri ridacchiarono, Renzo motteggiò allora in maniera più popolana:
«Martell e scighezz, e ’l popul de mezz.» L’atmosfera, con disappunto di Mi-
chele, si andava facendo convenzionale.
«E Luca?» propose, passando ad altro discorso, Ambrogio: «Come mai sta-
sera non è qui in sede?»
«È uscito poco fa per dare un’occhiata alle squadre.»
«Ha detto però che sarebbe passato prima dall’oratorio, per intendersi con
don Mario» precisò Felice. «In questo momento dovrebbe trovarsi là.»
«Cosa? Don Mario?» esclamò Michele, e ad Ambrogio: «Esiste dunque an-
cora don Mario?»
«Altro che se esiste. E sta più che mai sulla breccia.»
«Sì» disse Pio «è uno che non dorme. È un prete vero don Mario.»
A tali parole gli altri assentirono, con evidente rispetto.
«Lo vuoi vedere?» chiese Ambrogio. «Se lo vuoi vedere dobbiamo spicciar-
ci» consultò l’orologio, «perché fra un quarto d’ora l’oratorio chiude. Vuol dire
che qui in sede ci possiamo se mai tornare dopo.»
«Vorresti portarmi all’oratorio?»
«Su, vieni; qui ci possiamo tornare dopo.»
I due s’alzarono in piedi, salutarono la piccola brigata e uscirono. «Però...»
osservò Michele: «avevamo appena cominciato a discorrere.»
«Davvero ti interessano questi discorsi?» fece perplesso l’altro. «Può darsi,
sì; io ci sono talmente abituato che... Beh, tra poco l’oratorio chiude: al ritor-
no, se credi, possiamo fermarci qui di nuovo.» E dopo una pausa: «Io mi face-
vo scrupolo di non tenerti troppo tempo lontano da... da casa.»
Michele gli batté col palmo della mano sulla schiena.

CAPITOLO NONO

L’oratorio era dietro la chiesa, circondato da un vecchio muro da cui emer-


gevano alcune oscure ombre d’abeti e straripavano le grida dei ragazzi.
Varcato il suo ingresso i due scorsero, alla luce di tre o quattro lampadine
scarne appese torno torno all’unico cortile, i ragazzi intenti a rincorrersi. Era-
no assuefatti a un simile spettacolo fin dall’infanzia: Michele si chiese se tra
poco in Italia sarebbe stato ancora possibile assistervi. Che partita davvero
tremenda si sarebbe giocata nelle prossime elezioni!
Eccoli là, di spalle, don Mario e Luca: passeggiavano uno a fianco dell’altro
in margine al cortile: gli stinchi di don Mario spuntavano esili da sotto la veste
talare, l’altro tratteneva il pesante passo d’alpino, macinatore di chilometri,
per potergli stare a fianco.
«Don Mario, Luca» li chiamò, alzando la voce per superare il chiasso dei
ragazzi, Ambrogio.
Si voltarono entrambi: Luca mise così in vista il ciuffo giovanile, don Mario
i capelli a spazzola, gli occhiali, e la faccia da bambino sofferente.
«C’è qui il mio amico Michele che vorrebbe salutarvi.»
I due s’affrettarono incontro ai visitatori con viso lieto.
«Siamo in giro a vedere come funziona la macchina elettorale» spiegò
scherzosamente Ambrogio, mentre si stringevano le mani. «Avete fuori quelle
masnade a incollar manifesti, e voi ve ne state qui.»
«Chi ci potrebbe combattere con quelli?» esclamò ridendo Luca.
Don Mario, al suo solito, prese invece sul serio le parole scherzose: «Ai ra-
gazzi bisogna dimostrare che ci si fida di loro; allora si disimpegnano bene.»
«Beh, proprio bene non so...» disse semiserio Ambrogio, pensando al sec-
chio della colla rovesciato.
Luca lo approvò con la testa, ridendo generico.
«Beh, don Mario» fece Michele: «Cosa mi dice di bello.?»
«Cosa vuole che le dica, io?»
«Come vede la situazione per esempio.»
«Lei piuttosto» disse don Mario «che è molto colto, uno scrittore. So che il
suo libro fa tanto bene...» Lo guardò compiaciuto: «Che bravo Michele! Ecco,
mi dica lei, come pensa che andranno le cose?»
«Beh, io ho fiducia.»
«È vero? Ecco, ecco.»
Si misero a passeggiare tutt’e quattro al margine del cortile, col rischio
d’essere investiti dai branchi di ragazzi e bambini che si rincorrevano. Don
Mario avrebbe voluto conoscere il parere di Michele su certi episodi di cui
avevano ultimamente parlato i giornali e la radio; il giovane gli rispondeva
però soltanto a mezzo, senza impegnarsi.
«Oggi per Michele è stata una giornata campale» avvertì allora Ambrogio.
«Si è laureato, lo sapete?»
«Oggi? Caspita» fece don Mario, e spalancando gli occhi dietro gli occhiali:
«Chissà che tesi splendida!»
«Per amor del cielo. No, davvero no, don Mario; la prego, non mi faccia
vergognare» disse Michele. «Una tesi raffazzonata, al solo scopo di portare a
casa il diploma di laurea. Tutto considerato uno schifo.»
Il prete si arrestò e lo guardò interdetto.
«Purtroppo è così» ribadì il giovane.
Intervenne Ambrogio a spiegare: «Michele si è laureato in legge, una mate-
ria che adesso non lo interessa più. La sua testa e il suo cuore sono... altrove.»
“Il cuore diciamo qui a Nomana” pensò sorridendo il neo laureato. «Sape-
te» continuò Ambrogio «che sta già mettendo insieme il materiale per un se-
condo libro?»
Don Mario s’illuminò. «Un secondo libro? Ah, ecco, molto bene.» E a Mi-
chele: «È il Signore che la ispira. Ce n’è talmente bisogno oggi.»
«Com’è buono lei, don Mario» mormorò Michele, scuotendo la testa.
«A proposito di nuovi libri» disse il prete, riprendendo a camminare: «ha
letto il carteggio Claudel-Gide, ch’è appena uscito?»
«L’ho preso, è di Garzanti, vero? Ma non l’ho ancora letto; in queste setti-
mane proprio non m’è stato possibile.»
«È angosciante» disse don Mario: «vedrà. Certuni, il curatore per esempio,
ci trovano tante cose, ma io ci trovo e vedo solo l’essenziale: la resistenza di
un’anima alla grazia. È una cosa spaventosa. Quando l’avrà letto desidero
proprio sentire il suo parere.»
«Non credo che io riuscirò ad angosciarmi tanto per l’anima d’un campione
della cultura atea» disse a mezza voce Michele, «dopo avere visto lo scempio
di tanti e tanti poveretti che quella cultura ha prodotto. Però, certo, è nel giu-
sto lei, non c’è dubbio: ogni singola anima conta. Ma io...» Guardò don Mario,
la sua faccia rifattasi scura. «So di sbagliare» l’assicurò.
«Senta don Mario» s’intromise Ambrogio: «Michele oggi ha già ponzato
abbastanza. Adesso vorrebbe soltanto rendersi un po’ conto di come va la
campagna elettorale in paese: è di questo che dovremmo parlare.»
«Cosa?» esclamò sorpreso Luca: «Vuol sapere quel che facciamo in paese?»
A differenza degli altri Luca s’esprimeva in dialetto. Guardò Michele negli oc-
chi: «Se credi di trovare qui a Nomana qualcosa da mettere sui tuoi libri, ti
sbagli di grosso. Te lo dico io.»
Il giovane scrittore si mise a ridere: «Ai libri per adesso non pensiamoci.»
«La campagna elettorale...» continuò Luca: «Si fa il poco che si può, ecco
tutto. La più parte della gente qui la pensa come noi, lo sai; però non dobbia-
mo dormirci sopra. E poi è necessario mettere insieme quanti più voti possibi-
le, perché qualcuno deve pur compensare la situazione delle zone rosse. E se
non provvediamo noi, chi?» Si rivolse ad Ambrogio: «Ecco tutto. Cos’altro c’è
da dire?» “ ‘Compensare la situazione delle zone rosse’ ” rifletté Michele: “Lu-
ca ragiona come quando, da alpino, trovava naturale combattere anche per gli
sbandati e per quelli che comunque non combattevano, per portare a salva-
mento anche loro. Né più né meno.”
«La realtà è che facciamo troppo poco» sospirò meditativo don Mario.
«Non parlo di Luca e d’Ambrogio, che a impegnarsi ancora, dopo essere stati
in guerra, son veramente generosi. Se però uno pensa alla posta in gioco: la
possibilità per il nostro popolo di conservarsi cristiano! Io, quando penso a
questo, e sento le sollecitazioni del papa...»
«Sì, meno male che abbiamo il papa!» disse Luca, convinto. «Quando penso
alle sue parole, io non ho più pace» proseguì il prete. «Sono duemila anni di
fede e di civiltà cristiana conquistate con infiniti sacrifici, giorno per giorno -
vi rendete conto? - che stanno per essere messi in causa tutt’in una volta.»
Luca convenne con gravità. «Però non dica che io faccio il mio dovere: me
la prendo troppo comoda, ecco la verità. Anche stasera in fin dei conti cosa sto
facendo? E abbiamo così poche sere davanti.»
«Beh, Luca, non bisogna nemmeno strafare» obiettò Ambrogio. «Bisogna
fare quello che si può, ma senza esagerare. Hai detto bene prima; fare di più
potrebbe alla fine riuscire controproducente.»
«Questo è anche vero» ammise don Mario. «Strafare non è mai bene. Lo di-
ce anche il signor prevosto, il quale sa quello che dice.» Si richiamava al suo
diretto superiore con deferenza. Ambrogio ricordò come per parte sua il pre-
vosto fosse invece piuttosto critico nei confronti di don Mario: non ne soppor-
tava gli slanci, che giudicava eccessivi. Durante la messa arrivava talvolta a
sbuffare con disapprovazione quando vedeva il coadiutore alzare in modo che
a lui sembrava d’esaltato l’ostia davanti all’assemblea dei fedeli... A tale ricor-
do sorrise.
Michele, pur conservandosi attento alla conversazione, stava ora riflettendo
sullo straordinario impegno di milizia assunto dalla chiesa: il papa, il pastore
supremo, aveva in pratica presa nelle proprie mani la direzione della lotta in
difesa della cristianità. “È veramente un pastore nel senso evangelico del ter-
mine, uno che per il gregge si espone davanti a tutti contro i lupi. Guai se oggi
non avessimo un papa così” pensò il giovane, e non era la prima volta: “Guai
se al suo posto ci fosse un pastore debole o incerto. Questo però non si sareb-
be comunque potuto verificare, perché nei momenti di massimo pericolo il
Signore provvede alla sua chiesa”. Erano scese in campo anche altre forze, in
vario modo democratiche e civili, e va bene; ma quale organizzazione se non
quella capillare, dimostratasi formidabile, della chiesa cattolica, avrebbe potu-
to far fronte alla montante marea rossa, che minacciava di sommergere
l’Europa?
«Avete letto nel giornale di ieri» stava dicendo don Mario «che il governo
ungherese ha varata una legge con cui s’impadronisce di tutte le scuole cri-
stiane?»
«Per me è sorprendente che un governo comunista le abbia lasciate vivac-
chiare fino a oggi quelle scuole» osservò Ambrogio. «Di scuole religiose in
Russia non ce ne sono più da un pezzo.» (Altro che scuole, rifletté: bastava
pensare a com’erano ridotte le chiese. Perché anche i russi le avevano sapute
costruire nel corso dei secoli le loro chiese: quegli edifici mastodontici, di tipo
quasi borbonico, nel mezzo dei villaggi, per esempio sul Don ad Abrossimovo,
a Monastirschina, a Vescenscaia, i quali adesso erano tutti sconsacrati e ridotti
a depositi di cereali. Quanto a Michele ricordò per un attimo le schiere di santi
attoniti sulle pareti del convento di Susdal trasformato in lager, la religio de-
populata...)

L’orologio del campanile batté improvvisamente un rintocco, un altro, un


altro ancora, nove rintocchi; a quel suono i ragazzi aumentarono il loro vocio,
consci che purtroppo era venuto il momento d’interrompere i giochi.
«Sono le nove» disse don Mario «permettete un momento, congedo i ragaz-
zi e torno subito,»
«Sì, però senta... dobbiamo andarcene anche noi» dichiarò Ambrogio: «Ve-
ro Michele?»
Michele, tuttora sopra pensiero, annuì: «Sì, certo, è tardi.» Anche Luca ten-
tò di congedarsi. Ma don Mario non consentì che partissero a quel modo, e
fece segno d’attendere.
Come lo videro venire alla loro volta, alcuni dei ragazzi gli andarono incon-
tro trafelati: «Ci lasci finire, don Mario» perorarono: «è questione di poco,
siamo all’ultima ripresa...»
«Tutte le sere così» disse il prete: «Su da bravi, finirete domani. Domani è
domenica, ne avrete di tempo per giocare.»
Mentre quei pochi ragazzi lo seguivano con aria afflitta, il vocio degli altri
diminuiva rapidamente e andava facendosi discontinuo; alcuni, cessati
senz’altro i giochi, s’incamminarono ansanti e sudati verso il portone, e co-
minciarono a uscire; i più grandi cercavano i fratelli minori per andarsene in-
sieme. «Buona sera don Mario - Buona notte» li si sentiva salutare; «Ciao
Corrado, Clemente» rispondeva don Mario, «ciao Fermo»; il cortile un po’ alla
volta si vuotava.
Il prete si diresse verso il locale dov’erano i giochi da tavolo: due tennis, un
bigliardino, poche altre cose.
“Forse i ragazzi che di solito lo aiutano a chiudere l’oratorio, stasera sono
fuori con le squadre” pensò Luca, e seguì don Mario; Ambrogio colse a volo il
pensiero dell’ex alpino e gli tenne dietro.
Anche Michele fece qualche passo, poi s’arrestò; avrebbe atteso nel cortile.
Dall’interno del locale gli giunse un rumore di sedie spostate, di battenti di
finestra che venivano chiusi; improvvisamente le lampadine del cortile si
spensero.
Nel buio il campanile si stagliava meglio. C’era anche un po’ di luna, e gra-
zie alla sua luce il giovane scrittore poteva ora scorgere per intero il profilo
superiore della chiesa: la chiesa dove, con l’aiuto di Dio, sarebbero state un
giorno benedette le sue nozze. In quel momento lo affascinava però soprattut-
to la mole verticale del campanile: da cui gli sembrava emanasse un senso di
calma certezza, e anche di pace. Stanco com’era provò un improvviso deside-
rio di pace: “Perché questi maledetti comunisti non ci lasciano nel nostro bro-
do, all’ombra dei nostri campanili? Perché ci costringono a quest’altra guer-
ra?”
Ad ogni modo la lotta era in corso, e non si poteva assolutamente perderla.
Mentre fissava il campanile la sua fantasia cominciò a sbrigliarsi: chissà se tra
poco intorno a questo campanile ci sarebbero state sparatorie, e orrore, e san-
gue, la guerra civile? “No, Signore, no, ti prego”. Eppure - bastava pensare alla
Grecia - poteva benissimo accadere... Chissà, in tal caso, se in Italia
l’avrebbero spuntata i nostri, o se questo campanile e gli altri sarebbero diven-
tati tutti silenziosi come quelli della Russia?
«Michele, ehi, Michele» lo chiamò Ambrogio, uscito con gli altri dal locale
dei giochi; e a don Mario e a Luca: «Quello mi sa che sta covando qualche de-
scrizione: il paese sotto la luna e roba simile.» Richiamato al presente, Miche-
le frettolosamente li raggiunse; uscirono insieme sulla pubblica via, che qui
era stretta e acciottolata. Luca chiuse a più mandate il vecchio portone
dell’oratorio mediante una grossa chiave che poi consegnò a don Mario. Si
accomiatò subito: «Devo proprio andare. Buona sera.»
Sulla strada pochi ragazzini ritardatari avevano ripreso a giocare. «Basta» li
sgridò don Mario: «A casa. È ora d’andare a casa, com’è che non lo capite?»
I ragazzini lo guardarono dispiaciuti, poi cominciarono ad andarsene, qual-
cuno già di nuovo sorridente.
«Adesso magari» disse Ambrogio a don Mario «per completare la nostra
indagine, Michele e io passiamo davanti alla centrale operativa nemica, voglio
dire al circolino.»
Don Mario sorrise: «Volete che vi accompagni?»
«No» rispose Ambrogio, «anche perché non credo che la sua giornata sia
finita.»
«Per la verità no. Devo preparare la seconda metà della predica di domani,»
«Ecco, vede? Dunque; salutiamoci.»

CAPITOLO DECIMO

Dichiaratosi Michele d’accordo, anziché tornare sui loro passi i due amici
seguirono per tornare a casa un percorso che passava davanti al circolo Gari-
baldi, sede dei rossi. Del quale però poco poterono vedere, perché era in una
casa dalle finestre piuttosto alte sul livello stradale; soltanto si scorgeva, ac-
canto al suo ingresso una targa, illeggibile al buio.
«Cosa c’è scritto?» domandò Michele, che nel passare aveva, senza fermar-
si, cercato di decifrarla.
«Qualcosa come circolo proletario Garibaldi. In fondo si tratta d’un’osteria
uguale alle altre.»
Il passaggio dei due fu notato all’interno da un frequentatore, che si trovava
per caso vicino a una finestra.
«Cosa vogliono quelle due carogne?» esclamò costui. Si trattava del Mara-
sca, un operaio che faticava a conservarsi nella condizione operaia, sempre
pieno di debiti e nel rischio di finire barbone.
Da un tavolo a pochi passi il Foresto alzò gli occhi interrogativo.
«Cosa vogliono quelle due carogne?» ripeté allora a voce più alta il Mara-
sca.
Il Foresto cessò di scozzare le carte: «Cosa c’è?» domandò.
In luogo di rispondere il Marasca fece schioccare la lingua con disapprova-
zione.
«Allora?» gli chiese severo il Foresto.
Il Marasca, tenuto a dare una spiegazione, non sapeva come concretare in
parole il proprio allarmismo, tanto più che Ambrogio e Michele, senza accor-
gersi di niente, erano ormai andati oltre. «Sono passate di qui due facce di
merda» dichiarò infine.
Sèp, che sedeva allo stesso tavolo del Foresto, dopo avere scambiata
un’occhiata con lui si alzò svelto in piedi, andò alla finestra, scostò una tendi-
na e guardò fuori. «È l’Ambrogio Riva con un suo compagno... uno che mi
sembra d’avere già visto in paese» disse; lasciò ricadere la tendina e tornò al
tavolo.
«Allora si tratta dei tuoi amici, eh?» osservò il Foresto riprendendo a me-
scolare le carte.
Per tutta risposta Sèp pronunciò una mezza bestemmia. (Non era più co-
munista, i discorsi di suo cugino Tito e la quotidiana angoscia di sua madre
non erano rimasti senza effetto su di lui, che aveva concluso col passare ai so-
cialisti. Del che al principio il Foresto e gli altri comunisti s’erano irritati; da
un certo tempo in qua però, visto che in queste elezioni comunisti e socialisti
si presentavano insieme, il corruccio era stato accantonato. Non al punto, tut-
tavia, che all’occasione non si concretasse in qualche punzecchiatura.)
«Veramente non è con questo Riva, non con l’Ambrogio, che io in val
d’Ossola ho fatto il partigiano sul serio» dichiarò Sèp dopo essersi seduto, but-
tando così in faccia all’altro il suo passato di partigiano fasullo.
Il Foresto incassò senza ribattere.
«Ma io dico: cosa ci vengono a fare gli industriali nella nostra strada?» in-
tervenne a questo punto con acredine il Pollastri, che sedeva in bretelle a un
tavolo vicino.
«A fare due passi, perché no?» gli rispose il Foresto.
Seguì una pausa.
«Fan bene gli industriali ad andare a spasso finché possono» concluse,
sempre in dialetto, il Foresto: «perché tra poco chissà se potranno circolare.»
Erano frasi come questa che alimentavano nei suoi seguaci la speranza di
un ribaltone autentico, malgrado tutto.
«Io...» disse allora il Marasca, che s’era avvicinato al suo tavolo, ma non
proseguì.
«Tu cosa?» fece con durezza il Foresto. «Hai forse ancora in mente la mac-
china sport?»
Gli altri, seduti al tavolo con le carte in mano, ridacchiarono a fior di labbra:
quell’idiota del Marasca era andato in giro a dire che dopo vinte le elezioni, al
momento della ‘spartizione’, la Millecento nuova dei Riva se la sarebbe presa
lui. L’aveva detto e ripetuto un sacco di volte, da quell’ignorante che era, susci-
tando in non poca gente anche del popolo timore per i propri beni, tanto che il
Foresto era dovuto intervenire ingiungendogli di smetterla.
Disse ora: «E chi porteresti a spasso con la macchina sport, dì un po’: forse
quel bell’arnese di tua moglie?»
Più d’uno intorno sghignazzò, perché la moglie del Marasca - donna poco
intelligente e, per la sua inettitudine, causa principale della miseria di lui - era
anche singolarmente brutta.
Il Marasca si scostò dal tavolo del Foresto bestemmiando; in qualsiasi am-
biente si trovasse, lui finiva sempre con l’essere maltrattato! La vita non era
generosa con lui...

CAPITOLO UNDICESIMO

Quando Ambrogio e Michele entrarono in casa, Andrea era ancora là, felice
per la vicinanza della sua Francesca. «Avete scansata la recita del rosario, eh,
voi due?» li rimproverò accogliendoli con viso ridente.
«Se vuoi, possiamo recitarne subito un altro» propose per scherzo Ambro-
gio.
«Ma certo, è una buona idea» gli s’aggiunse Michele.
Andrea fece segno di no con la testa, atteggiando il viso a spavento, poi si
girò verso Francesca e le sorrise.
All’udire la voce di Michele Alma - che stava rigovernando in cucina - si tol-
se prontamente il grembiule colorato e accorse in sala: fece accomodare il
neolaureato al tavolo, e sedendo con gioia accanto a lui: «Cos’hai visto di
straordinario?» gli chiese.
“Peccato non sia qui anche Fanny” pensò ancora una volta Ambrogio.
La conversazione si riaccese; Giulia servì un liquore, più tardi Francesca ne
servì un secondo. Alle undici (suonate alla pendola sul mobile copricalorifero,
i cui rintocchi Michele ascoltò trasognato, mentre gli tornavano in mente i rin-
tocchi del campanile e i suoi pensieri di qualche ora prima) Andrea si levò con
evidente dispiacere in piedi e prese congedo. Giudittina era già andata a dor-
mire, così pure Rodolfo (dopo avere - al suo rientro - riferito a pezzi e bocconi
le imprese della squadra manifesti).
Più tardi, era quasi mezzanotte: «Ci ritiriamo anche noi» comunicarono
Gerardo e Giulia. Giunti che furono alla porta della sala, Giulia si voltò: «Voi
non vi sentite stanchi?» chiese. «Tu specialmente Michele, che oggi sei passa-
to per tutta quella trafila?»
Michele non sembrò afferrare bene la domanda: mezzo intontito, si limitò
per tutta risposta a sorridere alla mater familias.
«Qui ci cacciano via» gli disse allora Ambrogio, anch’egli ormai desideroso
di riposo: «Sarà bene che ci decidiamo.» E all’altro, che seguitava a non reagi-
re: «Dai, con la tua Almina ci potrai passare l’intera giornata di domani,
dall’alba al tramonto.»
«Sciocco» si risentì un poco Alma.
Salirono tutti al piano superiore. Si congedarono con ripetuti e assonnati:
«Buona notte - A domani allora - Buona notte». Ciascuno entrò nella propria
stanza.

***
Mentre, seguitando a ciondolare, Michele faceva gli abituali piccoli prepara-
tivi per la notte, gli tornava in mente il campanile di Nomana a cui - come ab-
biamo detto - l’avevano poco prima riportato i rintocchi della pendola. Non
più sviato dai discorsi degli altri, se lo immaginò con maggior evidenza cir-
condato dalla guerra civile: ecco, c’era gente che sparava dalla cella campana-
ria e dal tetto della chiesa, altri, stesi a terra, gli sparavano furiosamente con-
tro dai margini della piazza; più indietro squadre di rossi erano in giro per i
quartieri a imprigionare gente; gli americani non si vedevano, chissà
dov’erano; i rossi entravano nelle case, anche in questa dei Riva entravano,
che però - meno male! - era deserta, perché Ambrogio e i suoi fratelli erano
fuori coi loro mitra a combattere. Almina non poteva comunque essere lonta-
na: forse stava in qualche cantina con altre donne del paese, e i rossi avrebbe-
ro potuto prenderla se i nostri - sempre poco propensi a far fuori il prossimo,
a uccidere -fossero stati sopraffatti. La fervida fantasia gli prospettò la sua
Alma trascinata via dai rossi: com’erano bestialmente felici d’aver messe le
mani su una ragazza così, loro, i più grandi assassini e deportatori della storia,
oggettivamente più micidiali - ad onta di tutto il loro umanitarismo di parten-
za - degli stessi nazisti.
Immaginò i comunisti che costringevano Alma su un letto o sull’erba e...
L’avevano fatto con innumerevoli altre donne prima di deportarle: perché non
avrebbero potuto farlo anche con lei? “Beh, basta, piantala di fantasticare.
Smettila una buona volta.” Lui l’avrebbe smessa, va bene: però a quanti milio-
ni di donne tra russe, romene, polacche eccetera, questo non era accaduto nel-
la realtà? “E anche adesso, anche in questo momento, mentre io son qui che
mi preparo a dormire, a quante starà succedendo in Grecia? E più ancora in
Cina, dove ormai i comunisti sembra stiano vincendo la partita? Chissà a
quante! Dio mio! Dio, Dio, aiutale tu!”
Batté ripetutamente le palpebre, inspirò una gran boccata d’aria, poi si
guardò intorno nella stanza pacifica e ben ordinata ch’era stata di Manno.
“Cerca di piantarla davvero” si disse “o va a finire che ti carichi d’adrenalina al
punto che non riesci più a dormire”.
Terminati i pochi preparativi si fece il segno della croce e recitò una pre-
ghiera; quindi, infilatosi tra le lenzuola odorose di pulizia, spense la luce.
Chissà se anche in Italia si sarebbe arrivati davvero a una tale orribile situa-
zione? Forse, dopo tutto, i comunisti italiani non erano così succubi della dot-
trina, con le teste così totalmente ‘alienate’ come quelli dell’est... Certo se pen-
sava a quel disastroso Robotti incontrato durante la prigionia... Gli venne però
in mente che a Susdal aveva visto e ascoltato anche Togliatti, il segretario del
partito. Già, Togliatti... La sua faccia grassoccia, da professore con gli occhiali
e la cravatta sempre un po’ storta, che i giornali dovevano poi rendere così no-
ta, lui l’aveva vista in anteprima a Susdal, dove il segretario comunista aveva
tenuto una concione ai prigionieri. Della concione Michele ricordava quasi
soltanto la punteggiatura di bestemmie. La Russia era, si può dire, il paese
delle bestemmie: ciononostante quelle d’un individuo consapevole come To-
gliatti lo avevano talmente urtato che - contro le sue abitudini - quella volta
s’era con pervicacia rifiutato di prestare attenzione al discorso. Peccato, per-
ché l’uomo - egli s’era reso conto - aveva una personalità originale, che in con-
clusione lui non aveva potuto afferrare. Ma che tipo d’uomo era in realtà To-
gliatti? Un giorno alla Camera, con sorpresa di tutti, era uscito a parlare di
Guido Cavalcanti e del Trecento fiorentino... Michele se n’era indignato, gli
era sembrata una provocazione: “Come s’è permesso? Con che diritto? Uno
come lui il medio evo, il nostro bel medio evo cristiano, lo deve odiare e ba-
sta”. Un’altra volta era arrivato a paragonare il ministro dell’interno Scelba
al... a... come si chiamava? insomma a un oscuro ghibellino del Tre, no forse
del Duecento: uno che Michele - con tutta la sua passione per quell’epoca -
non aveva mai sentito nominare. Che individuo strano Togliatti! “A rigore, se
conosce davvero la realtà medievale, non può essere nel suo intimo succube
dell’ideologia al modo degli altri. Del resto già a Susdal l’avevo notato che un
bovide non è... Ma basta! Chissà se, come dicono, s’è davvero preso per com-
pagna quella ragazza dell’università cattolica...” Ch’era poi la Nilde, nienteme-
no, quella con la parlata emiliana e la fronte a bauletto, che da matricole lui e
Ambrogio avevano incontrata durante le loro incursioni nella facoltà di lette-
re. “Però, com’è piccolo il mondo!”
A ogni modo anche Togliatti e i comunisti erano soltanto dei mezzi - non
dimentichiamolo - semplici strumenti di castigo, di contrappasso alle colpe
degli uomini. Se lui - sebbene semicotto - voleva in questo momento affronta-
re con serietà il problema d’un’eventuale guerra civile, era da qui che doveva
partire: dalle colpe degli uomini, di tutti i componenti la società italiana... Nel-
la guerra appena finita i morti italiani non erano stati - relativamente parlan-
do - molti: secondo gli ultimi computi da quattro a cinquecento-mila, inclusi i
civili vittime dei bombardamenti e i caduti nella lotta tra partigiani e fascisti.
Ragionando a freddo non molti, se confrontati con le ecatombi di altri paesi
(la Russia e la Germania in particolare). Si poteva pertanto presumere che -
nei misteriosi equilibri della ‘società dei santi’ - da noi si fosse fatto sentire in
modo massiccio il peso appunto di tutti i nostri santi, dall’interminabile
splendida schiera che va da Francesco, Tomaso, Caterina, e gli altri del medio
evo (chissà come Togliatti li giudicava) giù giù fino ai più recenti: a don Bosco,
al Cottolengo, a don Orione (“don Orione, figlio d’uno scalpellino...”) e al vi-
vente padre Pio. Dovevano inoltre avere fatto sentire il loro peso anche i santi
per così dire impropri (“ci esprimiamo un po’ a spanne, eh Michele?”) cioè
tutta la brava gente di ieri e di oggi, come don Mario, e Luca, e il Tito Valli, e il
signor Gerardo che si dava senza tregua da fare per creare nuovi posti di lavo-
ro, e quegli operai riuniti là nella bottega dell’orologiaio trasformata in centra-
le operativa (anche se di questo c’era un po’ da ridere), e tutti gli innumerevoli
buoni padri e madri di famiglia, e le monache di clausura e i frati contemplati-
vi, i quali spendono ogni loro giorno ed ora proprio in questo: nel cercar
d’espiare davanti a Dio, con le orazioni e la penitenza, anche i peccati degli
altri. Insomma il punto era di sapere se, nell’equilibrio della ‘società dei santi’,
i meriti di tutti costoro sarebbero riusciti ancora una volta a compensare le
colpe complessive. “Vent’anni fa, dopo l’altra guerra, l’insurrezione rossa in
Italia si è potuta evitare: ce la faremo anche adesso che non c’è più il fasci-
smo?” O invece stavolta sarebbe iniziato anche per l’Italia un periodo
d’abbandono da parte di Dio, la condizione terrificante di cui lui era stato te-
stimone là all’est?
Il sonno l’andava pian piano sommergendo. Già, ma personalmente cos’è
che faceva per aiutare la comunità? Quella comunità di cui era parte anche la
sua Alma? Aveva scritto il libro, va bene, va bene, ma non poteva proprio fare
altro? Adesso che s’era tolto gli esami dai piedi (all’idea d’essere finalmente
laureato sperimentò ancora una volta un senso di liberazione), adesso...
avrebbe anche potuto tenere, per esempio, delle conferenze, parlare... Ecco, sì,
certo... Sarebbe andato là, alla sede provinciale del partito, da quel ragioniere
col purillo... e gli avrebbe proposto... Il sonno finalmente lo sommerse.
Sognò il ragioniere col purillo che accettava tutto contento la sua offerta di
tenere conferenze sul comunismo, poi sognò il suo amico cappellano padre
Turla, il quale invece gli faceva la faccia scura: «Perché» diceva in bergamasco
«quando hai fatto la lista dei santi ‘impropri’ di me non ti sei nemmeno ricor-
dato, e te ne sei strafottuto completamente.»

***
A distanza di anni possiamo presumere che il meccanismo salvifico della
‘società dei santi’ stesse in quel tempo effettivamente esplicando la sua azione.
Possiamo presumere che il nuovo grande bagno di sangue non abbia avuto
luogo perché i meriti hanno pesato più dei demeriti nella società italiana
d’allora. La quale era sì - per quanto a noi è dato vedere - gravemente imper-
fetta, ma tutto sommato pulita, e non ancora ‘affrancata da Dio’ secondo gli
schemi laicisti, né infognata nei peccati della carne, come sarebbe stata in se-
guito.
Siamo - è chiaro - nel campo delle intuizioni, e una realtà finché è solo in-
tuita, rimane indimostrata: tuttavia noi riteniamo che le cose siano andate
appunto così. Attraverso quale procedimento storico? Cioè - scomparso il fa-
scismo - attraverso quali altre vie di fatto?
Noi riteniamo proprio attraverso le scelte e l’azione - in sé tutt’altro che
santa, ma risultata poi, nei disegni della Provvidenza, salvifica - del segretario
del partito comunista Togliatti. Il quale in quei giorni, a onta della sua fami-
gliarità col medio evo, era senza dubbio assai lontano dal rendersene conto.
(In conclusione Togliatti ‘uomo della Provvidenza’, allo stesso modo di Musso-
lini prima di lui? È quel che pensiamo.)

CAPITOLO DODICESIMO

Chi scrive ha la facoltà di trasferirsi all’altezza di chiunque, anche di To-


gliatti (ci sono scrittori che sono arrivati più su), e noi ci trasferiremo appunto
alla sua altezza, e ci resteremo in compagnia del lettore quel poco che basta al
nostro racconto. Spiacenti se la cosa potrà sembrare a qualcuno contamina-
zione sacrilega, un po’ come erano apparsi sacrileghi a Michele gli excursus
del segretario comunista nella civiltà del medio evo.
Quella sera a Milano l’onorevole Togliatti era rientrato nel suo albergo mol-
to tardi. Non era meno stanco di Michele, perché nel corso della giornata s’era
dovuto sobbarcare a due riunioni impegnative: la prima, nel pomeriggio, di
quadri provinciali del partito; l’altra - più faticosa, di soli esponenti - la sera
dopo cena, e questa era appena terminata.
Mentre la sua segretaria e compagna - la giovane professoressa dall’accento
emiliano appunto, di cui s’è detto prima - precedutolo al piano superiore gli
stava preparando la stanza, il capo (nel senso più proprio del termine: cioè la
testa che unica decideva per l’intero corpo) del partito comunista italiano, ri-
fletteva in solitudine, seduto nella hall con accanto una bibita. Anche quel
giorno aveva dovuto constatare il solito fenomeno: da quand’era rimpatriato
dalla Russia lui andava ripetendo a tutti, chiaro e senza ambiguità, che il par-
tito doveva attenersi alle regole democratiche, specificava che tale direttiva
non rappresentava uno schermo, non aveva secondi fini. Bene, lui lo ripeteva
a tutti, e cosa avveniva? Che nessuno o quasi, a cominciare dai suoi, gli crede-
va. Certo i suoi fingevano di credergli, e formalmente agivano come se gli cre-
dessero (il monolitismo del partito funzionava anche in questo, e come), però
egli avvertiva bene che nel loro intimo non gli credevano. Specialmente gli ex
partigiani... Alcuni di questi anzi non riuscivano a trattenersi, e ogni pochi
giorni ammazzavano qualcuno; in Emilia per esempio ogni pochi giorni am-
mazzavano qualche prete, e se per caso la polizia li acciuffava, avevano il co-
raggio d’atteggiarsi a benemeriti del partito, gli incoscienti! Vero che, in com-
plesso, da un certo tempo in qua la loro smania di scatenare la rivoluzione s
era alquanto placata. “Solo perché hanno davanti i guai in cui si dibattono i
compagni greci, è solo questo che li imbriglia un po’. Non immaginano che c’è
dell’altro, ben altro. Ciò che succede in Grecia per me è l’ultimo, ma proprio
l’ultimo dei motivi. Però, come sono inconsapevoli tutti quanti! E che non
hanno visto niente, non sospettano di niente...” Lui sì che aveva visto e sapeva,
lui e pochi altri sopravvissuti alle terribili ‘repressioni’ esercitate in Russia sui
comunisti d’ogni nazionalità. Intendiamoci, Togliatti non riusciva ancora a
spiegare a sé stesso ciò ch’era accaduto: le varie spiegazioni che si era via via
prospettate (tutte d’ordine storico e sociale, come le condizioni arretrate della
Russia, le sue tradizioni autocratiche, l’estremismo del carattere russo) non
spiegavano in realtà quegli sterminati massacri di compagni fedeli. Sotto lo
zarismo infatti - gli passò anche adesso per la mente - non s’era mai, assolu-
tamente mai, verificato che i sostenitori degli zar venissero macellati in serie a
quel modo. Le carneficine di comunisti verificatesi in regime bolscevico non
erano per il momento spiegabili, e va bene. Però s’erano verificate, ecco il pun-
to. Non solo, ma egli avvertiva (“del resto non sono mai cessate del tutto”) che
sarebbero presto ricominciate su grande scala. C’erano troppi sintomi premo-
nitori. Riandò col pensiero ai terribili anni trascorsi a Mosca, agli incubi
d’ogni notte in quel nefando albergo Lux dove con lui erano ospitati tanti altri
dirigenti antifascisti, italiani e no. La polizia vi faceva sistematicamente le sue
retate notturne: prendeva ora in una stanza ora in un’altra un compagno indi-
feso, e se lo portava via senza chiasso per sottoporlo a barbare torture o per
ucciderlo subito. Dopo quei prelevamenti, al mattino, egli si sentiva addosso
gli occhi terrorizzati dei superstiti, quasi fosse in suo potere fare qualcosa,
mentr’era lui stesso indicibilmente angosciato per la propria sorte. E al pari di
lui tremava a Mosca gente più importante di lui, tutti senza eccezione i grossi
calibri del regime, non parliamo poi dei semplici militanti... (Quanto ai non
comunisti o, peggio, agli avversari del sistema, quelli non lo interessavano:
certo anche di loro in Russia n’era stato ucciso un numero inconcepibile, addi-
rittura decine e decine di milioni, però questo fatto non lo toccava. A loro ri-
guardo valeva sempre, per lui, la famosa argomentazione di Lenin: che cioè il
comunismo aveva programmato d’essere umanitario coi propri avversari, e se
non aveva potuto esserlo, ciò era dipeso unicamente da loro, dalle vittime.) Al
tempo dell’albergo Lux a lui interessava soprattutto la sopravvivenza dei suoi:
dei trecento, o giù di lì, compagni italiani, che per sottrarsi alle persecuzioni
fasciste s’erano rifugiati in Russia (“Tutta gente fedele, da poterci giurare”);
ebbene di quelli la polizia ne aveva soppressi in pochi anni non meno di due-
cento... “Duecento su trecento, senza che uno solo di loro avesse commessa
una qualsiasi mancanza! ” A ripensarci era davvero incredibile! E quanti suoi
collaboratori tra quei duecento: Costa per cominciare, e Bruno Rossi, e Man-
servigi di Ferrara, uomo tra i più intelligenti ch’egli avesse conosciuto, sempre
così serrato nell’argomentare... E il milanese Gorelli, e quell’antifascista stre-
nuo, Vincenzo Baccala, ch’era stato il primo segretario della sezione romana:
tradotti, questi due, a morire nel gelo spaventoso della Colima. E Guarna-
schelli di Torino, quel giovane operaio autodidatta; e poi Calligaris e il napole-
tano Peluso e Arnaldo Silva, tutt’e tre stroncati da piombo nel cranio questi,
e... Com’era potuta accadere una cosa simile? Ancora adesso non sembrava
possibile! Tale realtà però, e non un’altra, stava allora davanti a lui, capo del
partito comunista italiano. “Bel capo! Dovevo sorridere come un servo, fare la
faccia disinvolta perché Stalin non fermasse gli occhi anche su me o su mia
moglie (quell’infelice Paulina moglie di Molotov, deportata e ridotta una lar-
va...)” Per stornare la mannaia dai suoi, egli s’era trovato nella dura necessità
d’essere spietato verso gli altri, specialmente verso quei poveri dirigenti polac-
chi, la cui eliminazione gli era stato chiesto d’avallare con impegno. Lui l’aveva
avallata col massimo impegno: come corrispettivo gli era riuscito di strappare
alla morte qualcuno, soltanto qualcuno, dei suoi, tra cui suo cognato Paolo
Robotti. “Paolo l’ho tolto di mano ai cechisti che aveva ormai la colonna verte-
brale rovinata...” Questo episodio, ricordò ora con una punta di fastidio - la
tortura di Paolo, protrattasi per quasi due anni, anche se mai commentata in
famiglia, anche se sempre taciuta - aveva finito col costituire il principio della
sua rottura con la moglie Rita: in quanto l’aspetto giorno e notte angosciato
della donna, gliene aveva un po’ alla volta resa la presenza insopportabile.
Allungò la mano verso il bicchiere con la bibita, ma i pensieri l’occupavano
al punto che non lo prese: si limitò a far scorrere il polpastrello dell’indice sul
suo orlo; poi ritrasse la mano. Quanto a Paolo, poveraccio, non s’era lamenta-
to, non aveva fatto domande: da vero comunista si era subito applicato con
grande zelo al nuovo compito assegnatogli: la campagna d’indottrinamento
dei militari prigionieri. In tal modo lui, Togliatti, non era stato poi costretto a
interdirgli il ritorno in patria, come ai pochi che, per le torture subite, o da-
vanti al massacro dei compagni, erano diventati infidi. Che guaio, pensò, sa-
rebbe stato dover lasciare per sempre in Russia anche il cognato, come ci ave-
va lasciato Armando Cocchi. Rivide in confuso - sull’onda dei ricordi - la faccia
di Cocchi, quel bolognese querulo, ch’era arrivato al punto di confidare la pro-
pria disperazione agli ufficiali italiani prigionieri... L’irresponsabile!
Fuori dell’albergo si sentiva ogni tanto passare qualche automobile lungo
l’importante via Manzoni, il rumore, se pure molto smorzato, arrivava fin den-
tro la grande hall. Una di tali macchine sembrò fermarsi all’altezza
dell’albergo: giunsero a Togliatti frasi smozzicate in inglese, poi egli vide en-
trare nel vestibolo due ufficiali americani: erano anziani, probabilmente im-
portanti. Confabularono alquanto tra loro - non chiassosamente come usava-
no fare i giovani soldati made in USA, tuttavia anche questi in modo scherzo-
so - quindi si diressero agli ascensori.
Ancora non erano usciti dal campo visivo del segretario del partito che -
com’egli s’aspettava - entrarono nella hall, da una saletta adiacente, le sue
guardie del corpo in abiti civili: due ex capi partigiani fidatissimi; fecero qual-
che passo con finta noncuranza nel locale, lo sfiorarono appena con lo sguar-
do, e nuovamente si ritirarono. Beh, era ora d’andare a dormire. Pure Togliatti
non lo fece, indugiò ancora; si mosse un poco nella poltrona, sistemandosi in
modo d’aver meglio sott’occhio il vestibolo e il lungo banco dei portieri. Lo
sguardo gli si fermò su uno di questi: un individuo brizzolato, “dalla testa cer-
tamente vuota”, che si dava molta importanza. Una volta, quand’era giovane
rivoluzionario, questo modo di fare egli l’avrebbe definito borghese, e lo era;
però adesso sapeva ch’era anche il modo di fare dei portieri che prestavano
servizio negli alberghi di lusso dell’Unione Sovietica. E si fosse trattato solo
dei portieri d’albergo... Un’infinità di cose, malgrado tanti anni di sforzi, non
erano affatto socialiste in U.R.S.S. Certo a considerare questo, non ci si mera-
vigliava più che il compagno Stalin se la prendesse con ogni gruppo, anzi con
ogni individuo componente una società come quella sovietica, che ancora non
si decideva a trasformarsi in socialista... Però, come ogni cosa era lontana dal-
le attese della sua giovinezza, quando lui e i suoi compagni di studi, in partico-
lare Gramsci... Già, Gramsci, il gobbetto. Quello mentr’era in carcere aveva
elaborato un complesso di teorie che avrebbero forse potuto evitare i massa-
cri: secondo lui il potere andava preso non già con la violenza e le sparatorie,
bensì mediante la conquista sistematica dei gangli della comunicazione sociale
e della cultura. Sì, ma anche supponendo d’arrivarci (gli intellettuali sono
obiettivamente i più riducibili a gregge fra tutti gli esseri umani) come si sa-
rebbe potuto conservarlo poi, il potere, senza ricorrere alla violenza? In Italia
ci avrebbero pensato i cattolici modernisti, aveva lasciato scritto Gramsci, a
cambiare la mentalità delle masse avversarie, rendendole anzitutto sanamente
atee. Storie purtroppo. Si vedeva bene, ormai, dove quei cattolici erano finiti
sotto le nerbate di un papa ringhioso come questo... Non ne rimaneva neppure
l’ombra. In Italia almeno, perché a stare alle notizie che giungevano dalla
Francia, la cultura cattolica di là, in fin dei conti... grazie soprattutto a quel
Mounier...
Beh, basta; Togliatti guardò meccanicamente l’orologio. Ricapitoliamo: pre-
sto sarebbero ricominciati gli eccidi di comunisti a tutti i livelli e - lui non ave-
va dubbi - non si sarebbero limitati alla Russia, ma estesi a tutte le società
dell’est. Chissà chi, tra i vari capi che adesso erano come divinità a Praga, a
Varsavia, a Budapest, sarebbe stato tolto di mezzo per primo? Eh? Chi di loro
sarebbe stato fucilato o impiccato per primo? Alcuni di quei capi erano suoi
amici personali fin dal tempo dell’albergo Lux... (“Attento, devo tenermi pron-
to a sconfessarli...”) Emise un sospiro. Però! Non solo era inspiegabile, ma
atroce, atroce al di là d’ogni dire, che questa fosse la realtà comunista! Si mos-
se un poco nella poltrona: bene, ciò non lo esimeva dal vederla e prevederla:
non doveva chiudere gli occhi come un bambino. Doveva, al contrario, com-
portarsi con quanta più oculatezza possibile. E l’avrebbe fatto: “Data questa
situazione oggettiva, noi non dobbiamo sottrarci ai controlli che derivano au-
tomaticamente dalla democrazia. Per evitare che anche nel nostro partito si
arrivi a mangiarci tra di noi (quel Secchia!) dobbiamo consentire che con noi
coesistano realmente gli altri partiti: i quali con la loro vigilanza, il loro chias-
so, eccetera, ci renderanno in pratica impossibile un tal genere d’eccessi. Que-
sta, in fondo, è democrazia intesa nel senso occidentale, cioè reazionario, e
non nel nostro? Va bene: allo stato delle cose essa ci è indispensabile, punto e
basta.”
Fortuna che in Italia la situazione non era come nell’Europa orientale. Qui
non c’era l’armata rossa ma gli americani, inoltre la necessità di competere
elettoralmente coi partiti borghesi legittimava anche agli occhi più sospettosi
qualsiasi scelta programmatica. “Se tutti, compagni e avversari e dirigenti so-
vietici, credono che io mi camuffi da democratico, che a fare il democratico io
ci giochi, va bene, lasciamoglielo credere: vuol dire che mi lascerò credere un
democratico finto per poter fare il democratico vero. O” aggiunse freddamente
“quasi vero”. Sorrise a sé stesso, senza alcun disagio: “Il democratico occiden-
tale ‘marcio’, ma con le debite precauzioni” continuò: “Perché per cominciare
il partito deve restare al suo interno com’è, ferreamente organizzato e con le
sue brave scelte fatte tutte dall’alto: se no, in che modo lo terrei più? Come
minimo si eleggerebbero un capo a loro immagine e somiglianza, uno sprov-
veduto tipo Markos, che farebbe subito la rivoluzione e le solite fesserie. No, il
partito deve conservarsi com’è: democratico in rapporto agli altri, ma monoli-
tico al suo interno, e non sarà male che si conservi anche armato: perché non
venga meno la prospettiva della rivoluzione, che è quella che me lo tiene in-
sieme e condiziona anche chi sta fuori. Ciò che noi facciamo, infatti, lo faccia-
mo soltanto per noi, non certo per gli altri.” Provò un impulso di risentimento:
“Non per quei cagoni di capitalisti. E tanto meno per questi sconci sacrestani
che - soltanto perché glielo consentiamo provvisoriamente, per ragioni nostre
- adesso potranno prendere in mano il potere. Non s’illudano però: noi non
lavoreremo mai per la loro schifosa società pretesca, anzi faremo il possibile
per rendergliene difficile l’edificazione. Basterà impedirgli, giorno dopo gior-
no, di correggerne ogni pur piccolo difetto, fare per esempio in modo che non
possano allontanare dalle cariche pubbliche chiunque si riveli elemento noci-
vo o ladro: questo ci sarà perfino facile (se sapremo condurre la nostra azione
sempre in nome della libertà, la libertà dei singoli, cui loro tengono tanto. Ve-
drai che noi finiremo addirittura col diventare i campioni della libertà dei sin-
goli...” Fece una smorfia divertita: “Davvero splendido.”
Sollevato finalmente il bicchiere cominciò a sorseggiare la bibita. Era tardi,
veramente ora di ritirarsi, pure egli continuava a indugiare. Sentì un ascenso-
re arrestarsi a pianterreno, le porte automatiche schiudersi; pensò che doveva
trattarsi della sua segretaria. Udì infatti un calpestio di tacchi femminili sul
marmo del pavimento; nella hall comparve la giovane donna: «Ha bisogno di
nulla, professore?»
(Lo chiamava così, professore, e nonostante l’intimità si comportava con
lui, a pensarci bene, come l’allieva col professore: “È inevitabile, troppe cose di
me non può capire” egli pensò.)
«No, grazie» rispose. E si alzò finalmente in piedi.
PARTE QUARTA

CAPITOLO PRIMO

Circa un mese più tardi, cioè due settimane dopo le elezioni generali, ci fu il
fidanzamento ufficiale tra Ambrogio e Fanny.
Ebbe luogo di domenica. Il giovane scese a Milano con la Millecento sporti-
va, portando con sé, dentro un piccolo astuccio di raso, l’anello per la fidanza-
ta: intorno al gioiello e all’immagine di Fanny (Fanny che gli avrebbe aperto
esultante la porta di casa, Fanny dagli occhi verdi dolce-ridenti, Fanny che
ammirando l’anello piegava vezzosa la testa dai capelli tagliati alla paggio)
giostravano lieti i suoi pensieri, accordandosi in baldanza al ritmo del motore.
L’attraversamento dei paesi - coi muri ancora tappezzati di manifesti eletto-
rali, e coi lunghi striscioni di tela degli slogans sospesi a funi ormai lasche so-
pra le strade - distraevano però ogni tanto la sua mente dall’attesa gioiosa per
riportarla alle elezioni, e più in particolare ai commenti fatti la sera prima a
Nomana. Gli si prospettavano certe frasi di Michele, che era letteralmente
elettrizzato dalla grande vittoria del partito d’ispirazione cristiana. «Ce ne
rendiamo conto o no?» aveva detto all’incirca: «In tutta l’Europa libera i po-
poli stanno affidando la direzione delle cose ai cristiani: è successo in Francia,
in Belgio, in Olanda, in Germania, perfino in Germania! e adesso anche in Ita-
lia. Ci rendiamo conto che questo non accadeva più da secoli? E cosa significa?
Che la gente, dopo aver sperimentato i bei risultati a cui conducono le altre
strade, ha finalmente capito che solo da Cristo può venire la salvezza: anche
nell’ordine politico.» E ancora: «Dobbiamo ringraziare più d’ogni altro il pa-
pa: raramente nella storia della chiesa un pastore è stato così all’altezza della
situazione, così valido nell’indirizzare il gregge.» Michele aveva anche, im-
pressionando un po’ tutti, sottolineato: «Per noi cristiani questa è
un’occasione enorme: si presenta, precisamente a noi, della nostra generazio-
ne, la possibilità di bloccare la frana della civiltà verso il disastro. Adesso la
possibilità d’evitare che l’Europa intera si trasformi in un’immensa Crinovaia
c’è, esiste veramente.» (Intendeva dire - Ambrogio l’aveva capito - in
un’immensa fossa di cannibali, non solo in senso figurato.) «Su questa possi-
bilità» aveva insistito Michele «noi dobbiamo impostare tutta la nostra azione
futura, che non sarà facile. È un lavoro culturale enorme quello che ci aspetta:
dobbiamo supplire in breve al mancato lavoro d’intere generazioni.» Quando
poi lui, Ambrogio, gli aveva chiesto qualche esempio concreto di ciò che si sa-
rebbe dovuto fare, aveva affermato che, per cominciare, era inammissibile ci
fosse in Italia una sola università cattolica: «Bisogna metterne insieme cinque,
dieci. E come in Italia, negli altri paesi d’Europa.» E s’era messo a parlare di
case editrici, e di giornali, ma a questo punto un po’ tutti erano intervenuti, e
così quel discorso interessante era rimasto a mezzo. Una prospettiva grandio-
sa, comunque, quella del giovane scrittore.
“Beh, arriveremo a realizzarla, vedrai” si disse Ambrogio, cedendo
all’euforia. In quei giorni successivi alla grande vittoria (a Nomana il partito
d’ispirazione cristiana aveva ottenuto il 71 per cento dei voti) ogni cosa sem-
brava possibile. Premette con entusiasmo l’acceleratore.
In Monza, città paolotta, gli sembrò che la gente avesse - e forse realmente
aveva - la faccia più distesa e più allegra del solito.
(Se euforici e come usciti da un incubo erano in quei giorni i paolotti, lo sta-
to d’animo dei loro avversari ci è reso bene dal comportamento del poeta Sa-
ba, secondo lo descrisse più tardi il quasi poeta Vittorio Sereni:
‘E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,
lo vidi errare da una piazza all’altra,
dall’uno all’altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
«Porca» vociferando «porca.» Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.’)
Ma ormai l’incontro con Fanny si approssimava, e le sollecitazioni d’ogni al-
tro ordine raggiungevano sempre meno Ambrogio. Il quale dopo essersi la-
sciata indietro, senza più badare a ciò che lo circondava, anche Sesto, percorse
di buona lena le strade di Milano fino a via Boccaccio, arrestò la macchina da-
vanti al palazzo in cui la ragazza abitava, e salì in ascensore, con crescente im-
pazienza, al suo appartamento.

CAPITOLO SECONDO

S’attendeva di passare l’intera giornata in quella casa, con la fidanzata e i


suoi genitori. Fanny però era di diverso avviso, e dopo ch’egli ebbe appeso il
soprabito nel guardaroba dell’atrio (accanto al bizzarro bastone da passeggio
della futura suocera, lungo appena due spanne), glielo disse: «Guarda che io
oggi m’aspetto che tu mi porti a fare una bella passeggiata.»
«Ah, così? Benissimo. E dì, dove si va?»
«Non lo so» gli rispose la ragazza, «quello lo decideremo dopo, però
dev’essere una bella passeggiata.»
Per il momento andarono tutti - fidanzati, padre e madre - verso il salotto;
la casa di Fanny era, giusto come lei l’aveva altre volte definita, ‘affluente’, cioè
ampia e comoda, e con oggetti e quadri e soprammobili dappertutto, anche
nei corridoi.
Il giovane lanciò un’occhiata al futuro suocero, il commendator Mayer,
chiedendosi - poiché sembrava implicito che lui e la moglie a spasso in mac-
china non ci sarebbero venuti - se l’idea di Fanny gli dispiacesse.
Non sembrava dispiacergli, tanto che commentò: «Una passeggiata? Ma
bravi. Guarda che bell’idea la Ninina.»
Il suo modo d’esprimersi appariva molto commendatorile ad Ambrogio, co-
sì come la sua figura: obesa ma vivace, e con la testa calva. Commendatorile -
sempre secondo l’idea che Ambrogio si faceva del termine - era anche il salot-
to in cui entrarono: con poltrone comode all’eccesso. Su un mobiletto c’era
però una fotografia di Fanny in divisa da crocerossina, a ricordare come du-
rante la guerra questa famiglia non si fosse estraniata dalla sofferenza comu-
ne.
La madre (che da un certo tempo in qua non aveva più i capelli di colore az-
zurro, ma castani con mèche) approvò anche lei l’idea della figlia: «Una pas-
seggiata? Eh già, sicuro, ma certamente.» A differenza del marito non avverti-
va, in presenza del futuro genero, alcun senso d’impaccio. L’aveva in altre oc-
casioni sperimentato ascoltatore paziente, e si riteneva già in credito con lui se
non si metteva subito a parlare ‘a ruota libera’ (espressione anche questa di
Fanny) non importa di che. La qual cosa del resto essa implicitamente si ri-
prometteva di fare tra poco. Intanto si limitava a sorridere in modo marcato,
compiaciuto.
«E allora?» disse Fanny una volta che furono tutti seduti in poltrona:
«Dimmi, li avete finalmente cominciati i lavori nella villa?» «Ai ‘Dragoni’? No
purtroppo, mi vergogno, ma non ancora» le rispose Ambrogio sorridendo.
La ragazza, pur sorridendo a sua volta, disapprovò con la testa: «Oh, ma
quando vi decidete?»
«Sono lavori che non richiederanno molto tempo» asserì il giovane: «Ve-
drai. D’altra parte in questi mesi» spiegò, più ancora che a lei, agli altri: «a
parte le elezioni, in casa nostra non s’è fatto che correre tutti dietro al nuovo
stabilimento.» Si rivolse al commendatore: «Mio padre ha la fissazione
d’aumentare i posti di lavoro: al punto da lasciarmi piuttosto perplesso. C’è il
rischio di finire nei guai.»
«Oh, papà è molto abile» disse generico il commendatore, «li sa far bene i
suoi affari.»
Ambrogio, un po’ interdetto, risolse di prendere la frase come un compli-
mento; era però chiaro che il commendatore non afferrava come stessero le
cose. Forse, con la sua mentalità borghese, non poteva concepire che uno, tan-
to più un industriale, agisse spinto soprattutto da motivi ideali.
«I lavori non è che siano poi così pochi» fece presente Fanny: «C’è quella
parete da demolire per allargare la stanza, e il bagno da costruire ex novo, e
abbiamo anche deciso di ridipingere l’androne d’ingresso, ricordi? E poi c’è...»
elencò alcuni altri lavori; li avevano decisi insieme qualche tempo prima, du-
rante un’apposita visita di lei. Avrebbero occupato, loro due, una metà della
villa, lasciando l’altra metà a disposizione di qualcuno dei fratelli d’Ambrogio,
quando si fosse a sua volta sposato. Mentre Fanny elencava i lavori da esegui-
re, pareva quasi ai due futuri sposi di vedere il loro nido formarsi: anche Am-
brogio si lasciò per qualche istante prendere dalla dolcezza di tale prospettiva.
«Beh, guarda che io non intendo aspettare» concluse risoluta la ragazza.
«Abbiamo detto che quest’estate ci sposeremo, e così dev’essere.»
«Neanch’io intendo aspettare, sta sicura» le disse Ambrogio.
I genitori sorridevano. «Mi sa» osservò il giovane «che in questo momento
a tuo padre e a tua madre sta tornando in mente il giorno del loro fidanza-
mento.»
Fanny annuì con grazia (in momenti come questo, pensò Ambrogio, era
davvero un amore, metteva addosso una gran voglia di stringerla tra le brac-
cia).
«Il nostro fidanzamento?» esclamò invece sorpreso il commendator Mayer;
e guardando la moglie: «Ma noi... ci siamo mai fidanzati, noi?»
Fanny si mise a ridere, scuotendo il caschetto di capelli color castano dora-
to: «Paparone, per favore» disse.
«Filippo, ti prego» sbuffò la signora, e rivolta al futuro genero: «Vede che
spirito di rapa?»
«Io non sto facendo dello spirito, io non scherzo» protestò il commendato-
re. «Quand’è che ci siamo fidanzati noi due?»
«Beh, vi sarete ben scambiati la promessa di sposarvi, no?» cercò
d’indirizzario Fanny: «Anche se magari, che so, non vi sarete scambiati
l’anello.»
II commendatore frugava nella memoria, e intanto seguitava a far segno di
no.
«Per amore del cielo, Filippo» disse seccata la moglie, e alla figlia: «Come?
Cosa dici? Non ci siamo scambiati l’anello? E quello col brillante e i brillantini
intorno, da dove viene quello?»
«Ah, quello. Io non sapevo che.»
Il commendatore intanto, con la testa calva ritirata tra le spalle, e la bocca
stretta così da gonfiare un po’ le guance, faceva sempre segno di no, che lui ad
ogni modo non ricordava niente.
«Oh, Ambrogio» esclamò la madre «lo vede che marito impossibile il mio?»
Entrò una cameriera di mezz’età, in crestina, grembiule nero e grembiulino
bianco, col carrello degli aperitivi: era con evidenza più abile di Noemi, e certo
molto più impersonale: non poteva però essere altrettanto affezionata, pensò
Ambrogio.
«Un momento, Ines» disse Fanny, e agli altri: «Gente, io credo che sia inu-
tile aspettare. È meglio che facciamo subito la cerimonia, no?» E al giovane:
«Sei d’accordo, Ambrogio?»
«Con te sempre» rispose lui.
«Allora vado a prendere l’anello.»
«Va.»
Con grazia si alzò in piedi e uscì dal salotto, mentre la gonna le svolazzava
attorno alle giovani gambe, cosa che attirò l’occhio d’Ambrogio.
La Ines, guidato il carrello in un angolo («Lasci pure Ines» le disse la madre
«che poi facciamo noi»), uscì a sua volta.
Fanny tornò subito con un piccolo astuccio di raso, simile a quello che Am-
brogio aveva con sé, e che ora tirò fuori di tasca; la ragazza si fermò davanti a
lui che, istintivamente, fece per alzarsi in piedi, lei però glielo impedì posan-
dogli le due mani sulle spalle, quindi sedette sul braccio della poltrona in cui
egli sedeva. Aprì l’astuccio, Ambrogio fece altrettanto col proprio: i due giova-
ni s’infilarono a vicenda gli anelli al dito. Gli anelli s’adattarono loro senza
problemi, perché la previdente Fanny aveva a suo tempo avuta la precauzione
di prendere accuratamente le misure. «Ecco fatto» disse.
«E allora? Non ve lo scambiate un bacetto?» chiese trepida la madre.
«Certo» rispose con entusiasmo Ambrogio.
I due fidanzati si scambiarono un bacio. Al che la signora Mayer per poco
non si metteva a piangere. «Oh, Filippo» esclamò «la nostra Ninina. La nostra
Ninina ci scappa via.»
«Eh beh? Non vorrai piangere per questo, spero» le rispose il commendato-
re il quale, con sorpresa d’Ambrogio, appariva anche più commosso della mo-
glie. «Cos’è che vorresti? Che la Ninina ci resti in casa finché diventa una vec-
chia zitella? Questa poi!» Rivolgendosi ai due giovani ripeté con voce ancora
più forte, quasi incontrollata: «Questa poi!» e intanto con la mano si sfilava di
tasca il fazzoletto, mentre gli occhi gli s’andavano arrossando in modo incre-
dibile.
«I miei emotivi genitori» sorrise Fanny. Si alzò dal braccio della poltrona:
«Ma guardate qui, guardate questo piuttosto. Accipicchia però, Ambrogio, che
anello, che meraviglia di brillante! Oh, grazie.» Si chinò a baciare il fidanzato
una seconda volta. Poi, rizzatasi di nuovo: «Non la volete vedere questa mera-
viglia d’anello?» e senza sfilarselo andò verso la madre con la mano tesa: era,
anche in questo, molto graziosa: «Ti piace?»
«Il tuo» disse Ambrogio, mostrandolo intorno con impaccio «è ancora più
bello.» Gli altri questo l’avevano già visto, ovviamente; il giovane ritirò la ma-
no; si sentiva un po’ sconcertato dall’inattesa emozione dei due genitori.
«Fanny non andrà ad abitare lontano» credé bene di ricordare loro: «E voi in
casa nostra, ai ‘Dragoni’, lo sapete che siete in permanenza invitati, che sarete
sempre graditissimi.»
«Sì, sì, è un gran bravo ragazzo lei Ambrogio» disse il commendatore.
«Però davvero, che chic d’anello» osservò la madre: «Fammi vedere bene
Ninina. Guarda Filippo: questo sì che si chiama un signor anello.»
«La pietra viene da un piccolo stock che mio padre ha comprato durante la
guerra» spiegò Ambrogio. «Le aveva prese per sicurezza, per avere qualcosa
con cui scappare se il fronte fosse arrivato fino a Nomana. Adesso quelle pie-
tre le stiamo rivendendo, e in cambio compriamo telai. Ma per ciascuno di noi
figli il papà ne ha messa una da parte: appunto per il nostro fidanzamento.»
«Pensa che fortuna» esclamò con entusiasmo la madre: «Così, senza spen-
dere una sola lira, suo padre si trova ad avere già in casa tutti i brillanti per i
fidanzamenti. Questa sì che è una fortuna.»
Il commendatore tentennò la testa, come abituato a simili sortite.

La cameriera Ines tornò di lì a non molto per comunicare, sempre con di-
screzione, che il pranzo era servito.

CAPITOLO TERZO

I quattro si trasferirono in sala da pranzo, un ambiente con luminose fine-


stre e grandi quadri ottocenteschi dalle cornici dorate alle pareti.
Uno di questi - al pari degli altri di soggetto decisamente profano (“Sono in
una casa di ‘laici’” ricordò Ambrogio) - era appeso di fronte a lui, e gli capitava
perciò di continuo sotto gli occhi. Raffigurava Diana con ninfe al bagno, insi-
diata da Atteone.
Mentre veniva servito l’antipasto, ad Ambrogio tornarono in mente le ele-
zioni di due domeniche prima: strano che fino ad ora non se ne fosse parlato.
«E le elezioni?» buttò là.
«Ah, giusto» esclamò Fanny: «Hai visto ‘L’Italia illustrata’, il numero appe-
na uscito?»
II giovane fece segno di sì: «L’ha portata a casa Alma, figurati, un paio di
sere fa.»
«Accipicchia però, com’è bravo il Michele!»
«È bravo, sì. Dovevi vedere Almina com’era in gloria con quel giornale tra le
mani: faceva quasi ridere.»
«Cosa?» chiese la madre: «‘L’Italia illustrata’?»
«Per favore mamma. Sua sorella Alma faceva ridere, non ‘L’Italia illustra-
ta’.»
«Ma voi state parlando della rivista?»
«Sì, appunto» le rispose Fanny. «Nell’ultimo numero pubblica le foto dei
dodici personaggi che più hanno influito sui risultati elettorali. E uno dei do-
dici, pensa, è il nostro quasi cognato Michele Tintori. Quel nostro compagno
d’università, che ha scritto un libro. Te ne ho già parlato mamma, ricordi?»
«Ah, sì, me n’hai parlato, aspetta. È uno ch’è tornato dall’Africa in... in bar-
chetta. Ehi, non starò dicendo una sciocchezza?»
«Mamma, quello della barca è un altro, è un cugino d’Ambrogio che si
chiamava Manno. Questo Michele è tornato dalla Russia.»
«Oh, poveretto.»
«Hai fatto caso» domandò Fanny ad Ambrogio: «che Michele è l’unico dei
dodici di cui ‘L’Italia illustrata’ non pubblica la fotografia? In fila con le altre
facce, invece della sua hanno messo la foto del suo libro, la foto della coperti-
na.»
«Sì, l’ho notato infatti.»
«Perché non avranno pubblicata la sua foto?»
«Non ne ho idea. Forse non l’avevano sotto mano; oppure gli sarà sembrato
fuori posto mettere un ragazzo come lui in fila con De Gasperi e tutti quegli
altri pezzi grossi.»
«Che bravo però il Michele» ripeté Fanny. «Sta per uscire un’altra edizione
del suo libro, vero?»
«Sì, la terza. Uscirà il mese venturo, in giugno.»
«E quella lettera che gli ha scritto Benedetto Croce?»
Ambrogio annuì sorridendo: «Hai visto?»
«Chi? Come?» intervenne il commendator Mayer, dubbioso di avere capito
bene: «Benedetto Croce ha scritto a quel ragazzo?»
«Sì» gli rispose Ambrogio divertito: «E pensi, il bello è che a provocare la
cosa è stata mia sorella Alma, che è la fidanzata di Michele. È lei che ha avuto
l’idea di mandare il libro a Croce: una sera mentr’eravamo a tavola, circa un
mese fa. Dovevate vederla: noi la prendevamo in giro perché il suo ci sembra-
va un parlare da marmocchietta... E infatti Almina è una marmocchietta, no
Fanny? Nessuno riesce a capire come Michele abbia potuto prendere una cot-
ta così tremenda per lei. Beh, quella sera però la marmocchia ha avuto ragio-
ne, non c’è niente da dire. Aveva... ha nel libro del suo Michele una fede tale...
Secondo lei bastava spedirlo a Croce, e il resto sarebbe venuto da sé: ed è stato
proprio così, a Croce il libro ha fatto realmente impressione.»
Il commendator Mayer notò che Ambrogio non metteva avanti queste cose
per darsi importanza, che non ci pensava nemmeno: non si riteneva impor-
tante, e non si aspettava di fare effetto. Ancora una volta il commendatore non
poté a meno di considerare quanto il futuro genero fosse diverso dalla gente
cui egli era abituato.
«Beh, quel vostro amico dev’essere davvero bravo» concluse.
«Ma dì, com’è?» s’informò la madre: «È un bel ragazzo?» Fanny fece segno
di sì: «Mica male. È piuttosto alto, coi capelli neri» lo descrisse sommaria-
mente. Tale descrizione e i relativi - per Ambrogio molto divertenti - commen-
ti della madre («Che caro, oh che caro... Ma allora dev’essere proprio un amo-
re...»), nonché le correzioni che Fanny tentava, appunto perché notava lo
spasso del fidanzato («Mamma, non essere così dissipata, ti prego»), riporta-
rono un po’ alla volta il discorso su un piano più consueto.
La vicinanza di Fanny - pur così diversa (Ambrogio non mancava di render-
sene conto) dalla fidanzata che in astratto egli aveva cercato di prospettarsi
durante l’adolescenza - andava un po’ alla volta invadendo il giovane. Contri-
buivano a riscaldarlo il vino eccellente e le figure del quadro; l’attirava in par-
ticolare una delle ninfe, che gli voltava a mezzo il corpo nudo, di gran lunga
più appetitoso di qualsiasi vivanda.
«Lei diceva poco fa delle elezioni di domenica l’altra» fece il commendato-
re: «Ha visto il Togliatti e il Nenni e tutti quanti, che fatica hanno fatto ad
ammettere d’averle perdute? Poveretti, io li capisco. Per almeno tre giorni, ha
visto, fino a quando non sono usciti i risultati definitivi, la loro stampa non ha
smesso di tenere accese le speranze. Sa che io non sapevo se essere solidale
con loro o avere paura?»
«Solidale con loro?» disse Ambrogio: «Ma... No, mai, anche se, certo, han-
no dovuto mandar giù un bel rospo. Specialmente nelle zone dov’erano con-
vinti di vincere. Ha letto sul giornale di quegli ex partigiani che in Toscana
sono scappati dai paesi? Ce ne dev’essere ancora qualcuno nascosto in monta-
gna: chissà cos’avevano intenzione di fare se vincevano loro.»
«Adesso bisogna che questi che hanno vinto» disse il commendatore (a dif-
ferenza d’Ambrogio egli non s’identificava con essi) «provvedano subito ad
aumentare la produzione. Per salvare la baracca non c’è altro mezzo: produrre
e ancora produrre. Bisogna far star bene la gente: non c’è altro mezzo» ripeté.
Ambrogio ricordò che piuttosto diversa era l’analisi di Michele. Ad ogni
modo anche questa del commendatore gli sembrò abbastanza fondata: «Credo
che finalmente la possibilità di produrre l’avremo» disse. «Il più grande osta-
colo alla ricostruzione è stato fino a oggi il disordine che i rossi non hanno mai
smesso di fare: quei continui scioperi senza fondamento, e i posti di blocco
sulle strade, e il chiasso, e i cortei a marea come quelli tra Sesto e Milano, che
tenevano tutti in sospeso. Ma ormai queste cose dovrebbero essere finite:
l’ultima marcia su Milano, lei ha visto, la polizia l’ha bloccata senza tante sto-
rie. Credo che adesso tutti potranno mettersi a lavorare: allora sì che ci tire-
remo fuori dai guai.»
«Però» disse il commendatore (e Ambrogio ebbe - del resto senza sorpren-
dersi - l’impressione che la vittoria dei cristiani non gli piacesse del tutto)
«anche gli operai le loro buone ragioni le hanno. Se protestano non si può
dargli torto.»
«Hanno ragione a non voler vivere nella miseria, con stipendi così terra ter-
ra? Eh, lo credo bene! Ma, appunto, sono il disordine e la continua cagnara, e
l’opposizione sistematica ai provvedimenti necessari, che li tengono nella mi-
seria. E a volerli non sono gli operai, ma i comunisti e i socialisti. Vogliono un
ordine in cui comandino loro, se no la cagnara.» Ripeté: «Non sono gli operai
a volere il disordine: tranne un piccolo numero, si capisce. Gli altri gli van die-
tro per paura o per ignoranza. Del resto la maggior parte degli operai non gli
va affatto dietro: le elezioni, appunto, lo hanno dimostrato. Basta fare il conto
dei voti popolari.»
«L’hanno dimostrato, questo è vero» ammise quasi con disappunto il com-
mendatore.
“È il padre di Fanny e io non devo giudicarlo” si disse Ambrogio con un
principio d’irritazione. “Però son tutti uguali questi borghesi chic: prima,
all’idea che potessero vincere i rossi se la facevano sotto; adesso che i rossi
sono stati battuti, non gli va che i cristiani dirigano la società. Si sono messi
con noi soltanto per salvare la pelle: il loro cuore però, e il loro cervello - in
questo Michele ha ragione - sono più vicini ai rossi che a noi.”
«Beh, adesso basta parlare di politica» intervenne Fanny, che aveva intuito
il disappunto sia del fidanzato che del padre.
«Hai ragione, basta, sì» accondiscese subito Ambrogio. «In un giorno come
questo poi.»
Anche il commendatore fu d’accordo. «Una cosa è sicura» disse con
l’evidente intendimento di far pace col futuro genero: «Se un po’ alla volta
questi che hanno vinto arrivano sul serio a dare lavoro alla gente, e soprattut-
to a dargli paghe sufficienti, insomma se la gente comincia a star bene, al co-
munismo non ci penserà più nessuno.»
Ambrogio cercò d’andargli incontro: «Sì, lo credo anch’io. Nel preparare
certi esami (statistica per esempio, è vero Fanny?) vengono sott’occhio cose a
prima vista incredibili. Una volta, in un’esercitazione, io ho fatto dei raffronti,
e sapete cos’ho scoperto? Intendiamoci, non è stata un’indagine ferrata, sol-
tanto un lavoro per esercitazione: beh, ho trovato che in capo a quindici anni,
o press’a poco, qui in Italia dovremmo arrivare per esempio ad avere
un’automobile in ogni famiglia.»
«Questo è impossibile» dichiarò la madre.
«Anche a me sembrerebbe. Se pensiamo che ancor oggi ci occorre
l’elemosina degli americani per mangiare... Pare un discorso addirittura paz-
zesco» convenne Ambrogio. «Però siccome la scienza economica, quella che si
studia all’università, è appunto scienza... beh, direi che non si scappa.»
«Ma ti rendi conto che non avremo neanche strade bastanti?» obiettò la pur
laureata in scienze economiche Fanny.
«Infatti. E non solo le strade bisognerà costruire.»
«Ha tenuto conto nella sua analisi» domandò il padre «del fatto che a tre
anni dalla guerra il nostro reddito nazionale è ancora inferiore a quello
d’anteguerra?»
«Sì, era il mio punto di partenza. Però ho anche tenuto conto della curva
che c’è stata finora negli incrementi, e ho tenuto conto degli incrementi che ci
sono stati nell’altro dopoguerra, non solo in Italia; e di un altro parametro: gli
sviluppi, in America, del rapporto reddito-motorizzazione; e anche... Ma forse
queste son cose che non interessano le signore.» Guardò involontariamente la
futura suocera.
La quale si era messa a parlare a mezza voce con Fanny, e a queste parole
s’arrestò, come colta in fallo.
Ambrogio si affrettò a concludere: «Insomma» disse «anch’io credo che
quando ogni famiglia avrà l’automobile e un tenore di vita in proporzione, il
comunismo non attirerà più nessuno.»
«Anche senza arrivare all’automobile» disse il commendatore. «Basta che la
gente stia discretamente quanto a...» e strofinò tra loro indice e pollice, per
indicare i soldi.
Ambrogio annuì. Non si rendevano conto d’essere, l’uno e l’altro, assai lon-
tani dalla realtà.
***
Il pranzo proseguì tra discorsi più leggeri. Intanto il quadro con le ninfe se-
guitava a cadere sotto gli occhi d’Ambrogio, il quale si sentiva sempre più in-
vadere dalla voglia di mettere le mani addosso a quella data ninfa. O piuttosto
a Fanny, che non era dipinta, ma vera: una voglia che andava facendosi scon-
volgente. “Cosa mi succede?” si chiese a un tratto: “Mi lascio suggestionare
come un debosciato? Questa poi! ” Ad ogni modo era quanto gli succedeva,
anche se il suo non era il caso d’un debosciato, ma di un normale giovane uo-
mo. “È davvero ora che mi sposi, davvero ora” finì col dirsi. Aveva ventisette
anni ormai. Beh, non gli rimaneva più da pazientare che qualche mese, entro
qualche mese si sarebbe sposato.

CAPITOLO QUARTO

In quello stesso momento Michele e Almina passeggiavano uno a fianco


dell’altro nel giardino di Nomana.
Avrebbero dovuto essere felici: anche senza considerare il giudizio favore-
vole di Croce sul libro di Michele e il riconoscimento de ‘L’Italia illustrata’,
erano giovani (questo solo fatto d’essere giovani costituisce di per sé un bene
grande), ed erano innamorati uno dell’altro, e insieme. Michele circondava
con un braccio la vita di Alma: si scambiavano ogni tanto qualche frase, ma
più spesso procedevano in silenzio, lungo le stradicciole bordate dall’erba
convallaria tra i grandi alberi verdi; quando giungevano alla balconata si spa-
lancava loro davanti la vista sull’anfiteatro delle montagne: «Guarda Alma
come il Signore Iddio ha fatto bene il suo lavoro!» Avrebbero dovuto essere
felici, vivere in pace queste ore buone che la Provvidenza concedeva loro; il
giovane scrittore se ne rendeva conto, ma tant’è, sebbene di continuo respinte,
gli si ripresentavano con un’insistenza tale da innervosirlo, le molte cose che
aveva lasciato in sospeso per venire a Nomana: tutti impegni che avrebbe do-
vuto assolvere al più presto se voleva conservarsi in grado di partecipare an-
che in futuro alla grande lotta per l’arresto della barbarie. Quelle ricerche spe-
cifiche, indispensabili al nuovo libro anzitutto. In pari tempo doveva aggior-
narsi in modo sistematico sulla produzione cattolica francese degli ultimi de-
cenni: “Specie su quei due che vanno tanto per la maggiore, Maritain e Mou-
nier (anche se a me Mounier non piace... però cos’ho letto di suo? troppo po-
co). Ma per aggiornarmi sugli autori cattolici francesi quante ore mi ci vor-
ranno? Diciamo al minimo un centinaio di notti, e subito, senza lasciar passa-
re altro tempo.” Contemporaneamente beninteso non doveva trascurare le
opere degli autori non cattolici, a cominciare da quelle di Proust e
dell’irlandese Joyce, che - in modo diverso - erano secondo certe voci iniziato-
ri d’una letteratura di tipo nuovo (“Ma nuovo in che senso? Non nel senso di
Crinovaia e di Maidanek, spero...”); c’erano inoltre quegli importanti autori
americani e inglesi (“Eliot!”) che doveva leggere al più presto, che non poteva
ignorare più a lungo... A guardar bene però non era questa pur pressante pro-
spettiva ad angustiarlo, ma il fatto che da giugno, con l’inizio delle vacanze
estive, si sarebbe trovato senza stipendio per quattro mesi. Doveva dunque,
per primissima cosa, cercarsi un lavoro sostitutivo. Non solo, ma per risolvere
alla radice il problema del pane e in conclusione per potersi sposare, egli
avrebbe dovuto decidersi a prendere un’altra laurea: in lettere stavolta, visto
che la professione dell’insegnamento gli pareva ormai, fra tutte, la meno in
contrasto col suo lavoro di scrittore. Gli sfuggì un mezzo sospiro.
Alma alzò verso di lui il viso enigmatico, di statuina con le trecce: «A cosa
pensi adesso?»
«Non importa.»
«A me lo dovresti dire.»
Michele le sorrise senza rispondere.
«Del resto lo so già» affermò la ragazza: «tu pensi a tutte le cose che devi
fare.»
«Proprio così.»
«Senti» propose lei «perché non ne parliamo?» Desiderava essergli d’aiuto.
Le si prospettava in confuso la singolare mancanza di senso pratico che il gio-
vane aveva dimostrato prendendo, sia pure con superba facilità, una laurea
che ora non gli serviva o quasi. Certo lei non era in grado d’indirizzario, e del
resto non lo voleva, neanche però intendeva essere per lui soltanto un oggetto
di contemplazione. L’amava indicibilmente e desiderava essergli d’aiuto. «Mi-
chele, vuoi che ne parliamo?»
«Pensavo alle cose che non posso rimandare, tra l’altro a certi libri francesi
che debbo leggere con urgenza.»
«Quelli degli autori cattolici?»
«Sì.»
«Ne abbiamo già parlato una volta, ricordi? Prima che ti laureassi. Anzi,
non te l’ho ancora detto, ma io ho dato un’occhiata agli schedari della bibliote-
ca in università: ci sono molti titoli, un mucchio di titoli, anche di roba recen-
tissima. E c’è tutta la raccolta della rivista ‘Esprit’.»
«Hai già controllato tu? Ma guarda» osservò Michele tentennando la testa.
«Se vuoi, le opere che ti servono te le posso ritirare io man mano. Insomma,
se credi, ti posso fare un po’ da segretaria.»
«Non mi va di pesare su di te» disse Michele, dopo aver ponderato per
qualche istante l’inattesa proposta.
«Ma cosa dici? Pesare? Pesarmi un lavoro che farei per te? Anzi, senti» Al-
ma parve sul punto d’iniziare un discorso preparato da tempo: «a me sembra
che questi nuovi studi tu potresti anche utilizzarli in modo pratico.»
«Cosa intendi dire?»
«Potresti per esempio ricavarne degli articoli da pubblicare sulle riviste
dell’università. Per te, che hai scritto quel libro, con quei risultati, non do-
vrebbe essere difficile arrivarci. Servirebbero, per cominciare, a farti conosce-
re nel campo specialistico, voglio dire degli ‘addetti ai lavori’, e in seguito ad
aprirti la strada per diventare prima assistente, e poi, se vorrai, docente.»
«Docente universitario io?» Michele fece un segno di diniego con la testa.
«No Alma, direi proprio di no. Intendo insegnare sì, ma ai ragazzini come fac-
cio adesso, perché questo non m’impegna la mente. E non voglio dedicare
all’insegnamento, cioè allo stipendio, nemmeno un’ora di più delle diciotto o
venti settimanali che sono strettamente necessarie. Così mi rimarranno molte
ore libere, e soprattutto la testa libera, per il mio vero lavoro. Se mi metto nel-
la carriera universitaria sto fresco, non capisci? Mi troverei a non potermi
quasi occupare d’altro.» Lo colse un mezzo sospetto. «Ehi, non sarà che tu
vorresti vedermi professore universitario anziché di scuola media? Che ci tie-
ni?»
«No, figurati, sono lontanissima da questo. Pensavo piuttosto che avresti
maggiori... possibilità nella tua lotta contro l’imbarbarimento. E poi mi sem-
bra che tu non dovresti a ogni costo separare i tuoi studi - questi sugli autori
francesi per esempio, che comunque farai - da risultati pratici.»
«E dalli.»
«Michele, questo è forse un po’ il tuo... inconveniente.» Alma non vedeva
con chiarezza ciò che pur intuiva e avrebbe voluto dire; cercò di renderlo al
meglio: «Tu non affronti i problemi che ti si presentano in modo pratico, uno
per uno, ecco, ma procedi invece sempre per grandi piani. Adesso per esempio
vuoi nello stesso tempo scrivere un altro libro e prendere un’altra laurea, e
così...»
«E così?»
«Insomma in questo modo tu ti ammazzi di lavoro, ma i problemi pratici
rimangono irrisolti.»
Anziché riflettere debitamente su ciò che Alma diceva, Michele si limitò a
sorridere scuotendo la testa. Gli ci sarebbero voluti anni per rendersi conto di
quanto la bella statuina con le trecce fosse in queste cose più perspicace di lui.
«Beh, io parlavo... in generale» finì col dire lei, senza insistere oltre.
«Certo è un guaio che in Italia gli scrittori non possano vivere dei loro libri»
fece il giovane. «Se pensiamo che in Francia e in America molti diventano ad-
dirittura ricchi... Guarda quell’americano, Burns: gli bastano i proventi del suo
primo libro per vivere tranquillamente qui in Europa, e nei migliori alberghi,
mentre scrive il secondo.»
(John Horne Burns, ex soldato al pari di Michele, aveva tratto dalla propria
esperienza di guerra sul fronte italiano un libro che gli aveva data una certa
rinomanza: alcuni nel suo paese - tra gli altri John Steinbeck - vedevano ora in
lui una delle maggiori speranze della giovane letteratura americana. Ultima-
mente Burns era tornato dall’America in Italia: Michele aveva chiesto al pro-
prio editore, ch’era anche editore della traduzione italiana del libro di Burns,
d’essergli presentato: i due giovani - diversissimi tra loro - avevano legato su-
bito. Da alcune settimane s’incontravano ogni pochi giorni e vagabondavano
per le vie di Milano discutendo: l’uno - il ringhioso John Burns, della lettera-
tura dei mastini - faceva a pezzi il mondo intero col suo spirito critico, a mo-
menti cinico; l’altro lo ricomponeva sistematicamente, con non minore forza,
perché quand’era scatenata anche l’intelligenza positiva di Michele godeva
nell’affrontare gli ostacoli, e tanto più quanto più essi erano impervi.)
«Da noi invece nessun scrittore può vivere col provento dei suoi libri: negli
uffici della casa editrice questo lo danno per scontato. Prendi per esempio B.»
(Michele nominò uno dei più celebri scrittori italiani) «sai che pubblica presso
il mio editore; beh, anche lui è costretto ad aiutarsi con altri lavori, se no non
potrebbe tirare avanti. È una cosa scontata» ripeté.
«Il Signore ci aiuterà» concluse Alma. «Adesso basta, non pensiamo più a
queste cose che ci innervosiscono. Tu soprattutto. Dopo quello che hai passa-
to, devi pur lasciarti un po’ vivere, no?» Lo guardò con immenso amore:
«Ringraziamo Dio d’essere qui insieme, noi due. Cosa ci può importare di tut-
to il resto?»
«È vero, hai ragione, parole sante. Se penso a...» Gli tornarono di colpo in
mente quelli rimasti lungo la strada, ammucchiati là nella balca di Crinovaia
per esempio: ventisettemila cadaveri! Altro che i proventi dei libri! “Chissà le
loro ossa a quest’ora a che punto sono” si disse. Veniva dalle paludi della mor-
te, non poteva evitarsi, ogni tanto, simili lugubri pensieri.
Almina intuì la pena ch’era in lui, gli mise una mano sulla fronte: «Non
pensarci più, Michele, ti supplico. Amore mio, non pensare più a quelle orribi-
li cose. Pensa che la vita è fatta anche d’altro.»
Quasi a concreta dimostrazione, un usignolo attaccò a cantare nel folto, a
un tiro di sasso da loro. Aveva una voce nitida, bellissima; provò una lunga
strofe, la riprovò con alcune varianti: lo spazio verde tra gli alberi andava em-
piendosi d’attonito incanto.
«Senti?» Alma s’era fermata e sorrideva a Michele con occhi in cui si me-
scolavano pianto e sorriso.
Il giovane annuì. I due rimasero in ascolto tenendosi vicini. L’usignolo can-
tò qualche altra strofe in crescendo, poi, di colpo come aveva cominciato, az-
zittì.
«Oh, che peccato, ha già smesso!» disse Alma, dopo essere rimasta un poco
in attesa.
«Riattaccherà presto il piccolo cantore» la rassicurò Michele «vedrai. Non
ne può fare a meno, in questo è un po’ come me. Solo che lui non ha altro a cui
pensare, beato lui. Ha cantato tutta quanta la notte, l’hai sentito?»
«No.»
Ricominciarono a passeggiare.
«Dì, Michele, mi viene un’idea» esclamò a un tratto Alma.
«Un’idea?»
«Sì, per dimostrare anche noi gratitudine agli americani.»
«Ma... Cosa c’entrano adesso gli americani?»
«Lo dico a proposito di quella nave francese con la scritta ‘Merçi America’,
di cui si parlava a tavola.»
«A tavola s’è parlato d’una nave francese?»
«Ma sì, ne parlava Fortunato che l’ha vista al cinema, no? in un documenta-
rio.»
«Non ho sentito; è stato forse mentre io conversavo con tuo padre.»
«Ha detto che i francesi, per dimostrarsi riconoscenti agli americani di tutti
gli aiuti: il piano Marshall eccetera, gli hanno mandata una nave carica di loro
specialità, come mode, profumi e simili. E sui fianchi della nave c’è una gran-
de scritta: ‘Merçi America’; in questi giorni sta facendo il giro di tutti i porti
americani.»
«Ah, capisco. E allora?»
«Noi invece, secondo Fortunato, non facciamo proprio niente, e ci facciamo
compatire.»
«Beh, qualcosa abbiamo fatto anche noi, bloccando i comunisti alle elezioni
per esempio. Lo sai che in America c’è gente che è scesa a ballare nelle strade
per festeggiare i nostri risultati?»
«Sì, l’ho sentito. Beh, ad ogni modo adesso m’è venuta un’idea. Lo sai cosa
potremmo regalare agli americani, noi italiani?»
«Dì, sentiamo.»
«L’usignolo potremmo regalargli.»
«Ma... E cioè?»
«Dovremmo mandargliene un certo numero, liberarli in America nei giar-
dini e nei boschi, in modo che attecchiscano anche là. Io non credo - visto il
clima quasi uguale - che le difficoltà siano insormontabili, o che la spesa sia
proibitiva.»
«Ma in America non c’è l’usignolo?»
«No, non c’è. Di questo sono sicura: ricordo bene che Manno lo diceva. Se
noi portandone là, diciamo... qualche migliaio, riuscissimo a farli attecchire...
sarebbe un regalo meraviglioso, non ti pare? Soprattutto per...» attenuò la vo-
ce: «per quelli come noi, per i ragazzi innamorati di là.»
«Almina» esclamò colpito il giovane: «Lo sai che questa è un’idea? Sarebbe
una cosa decisamente simpatica. È un’idea proprio femminile!... Purché sia
realizzabile. Brava la mia statuina di marmo!» Rifletté alquanto: «Potrei par-
larne con John Burns... No, lui se mai è tra i destinatari del regalo. Ad Apollo-
nio potrei parlarne: se non altro la cosa lo divertirà.»
«Non sarebbe meglio tu ne parlassi, che so, a qualche specialista di scienze
naturali?»
«Già, ma di quelli non ne conosco» obiettò Michele. «Se fossi collaboratore
di qualche giornale, potrei lanciare l’idea attraverso il giornale...»
«Ecco.»
«Conosco il direttore de ‘L’Italia’, m’ha invitato lui stesso a collaborare, pe-
rò io non ho accettato perché non gli posso mandare articoli in modo discon-
tinuo, quando riesco a rubare qualche ora: ci sono modalità da rispettare, e io
dove lo trovo il tempo per una collaborazione seria? Più avanti sì, certo, per-
ché ‘L’Italia’ è un giornale che va sostenuto. Ma adesso...»
«Non importa» disse Alma. «Prova a parlarne con Apollonio allora.
Quand’è che lo vedi?»
«Pensavo d’andarlo a trovare tra qualche settimana. Anzi, perché non ci
vieni anche tu?»
«Io? Oh no. Figurati come rimarrei impappinata.»
CAPITOLO QUINTO

Le elezioni del 18 aprile 1948 ebbero un effetto tale da determinare obietti-


vamente la storia di tutti e di ciascuno in Italia. Consentirono davvero che il
paese completasse la sua ricostruzione (per questo bastò un anno o poco più)
e che le attività produttive cominciassero a svilupparsi in modo sistematico.
Ancor più importante fu un principio di recupero spirituale del popolo: il qua-
le aveva ora un’autorità eletta liberamente, disponeva cioè di sé stesso, mentre
la prospettiva di ricadere nelle mani d’una minoranza deviante - rossa o
d’altro colore che fosse - andava lentamente svanendo. L’Italia poteva dunque
ritrovare la propria identità, tornare a essere sé stessa, e tentò di farlo. Ignara
che dopo appena cinque anni - venuta meno una maggioranza politica omo-
genea - il governo non sarebbe più stato in grado di governare, e nel paese non
ci sarebbe più stata autorità. Tanto che in seguito si sarebbe vissuti per decen-
ni di rendita su quei cinque anni: dapprima avanzando ancora impetuosamen-
te, per inerzia e con disordine, nei settori produttivi e materiali in genere, poi
precipitando poco a poco verso una nuova dissoluzione. A quel tempo però un
fatto simile nessuno lo sospettava, e la gente si mise al lavoro con formidabile
impegno.

***
Per i Riva il felice 1948 fu anche anno di matrimoni: in giugno si sposò
Francesca, nella chiesa di Nomana tutta parata a fiori (Andrea aveva la mania
dei fiori); in agosto si sposò Ambrogio.
Per questo secondo matrimonio la famiglia Riva calò in massa a Milano;
contemporaneamente vi convennero i parenti più prossimi, tra cui le due zie
di Monza che un tempo erano sfollate a Nomana; allo zio Ettore bastò uscire
di casa e avviarsi, coi suoi eterni occhiali a pince-nez bravamente inforcati,
verso la chiesa dove si sarebbe celebrato il matrimonio. Che era san Pietro in
Gessate, scelta da Fanny sebbene non fosse la sua parrocchia «perché mi piace
da morire» (ossia per capriccio: se la sentiva cornice adatta a motivo degli an-
tichi affreschi alle pareti, nei quali alcune figure portavano i capelli tagliati alla
paggio, precisamente come lei. «Intendiamoci eh, noi l’offerta al nostro parro-
co l’abbiamo fatta lo stesso» non aveva mancato di precisare il commendatore
padre). Convennero coi parenti anche gli amici, tra cui - in qualità di testimoni
dello sposo - Michele e Luca, quest’ultimo col nastrino azzurro della medaglia
al risvolto della giacca. Era andato a prenderlo in macchina Celeste: nel breve
tratto fra la Catafame e Nomana i due avevano menzionato il povero Manno,
coetaneo e amico di Luca, che «oggi poteva essere qui a far festa anche lui»;
Celeste aveva ricordato l’ultimo viaggio in compagnia del giovane fino a Pia-
cenza («Io gliel’avevo tanto raccomandato di non esporsi!»), Luca il casuale
incontro con lui nella stazioncina delle Puglie.
La chiesa di san Pietro in Gessate - dominata e come schiacciata
dall’enorme, indigeribile mole del palazzo di giustizia che le sorge di fronte - è
di mattoni, placida, edificata nell’età sforzesca, quando Milano era città
d’acque e di silenzio; il suo pavimento si trova a un livello sensibilmente infe-
riore a quello stradale.
“Il passare del tempo” fantasticava Michele mentre, in chiesa, attendeva la
sposa insieme con gli altri testimoni: “i secoli, guarda, gli anni che passano,
che fuggono via inarrestabili, e di ogni anno cosa rimane? Appena un po’ di
polvere. Quanta? È misurabile...” Fece, in rapporto all’attuale piano stradale,
un calcolo sommario: “Da uno a due millimetri per anno: ecco cosa rimane del
tempo che è stato”. A un tratto vide entrare in chiesa e venire gioiosa verso di
lui Alma, come sempre indicibilmente attraente ai suoi occhi, oggi ancora più
attraente nell’abito nuovo che s’era fatto per l’occasione. “Guarda come un
abito può sottolineare la bellezza d’una donna. È incredibile” si sorprese a
pensare il giovane scrittore. Con Almina accanto i cattivi pensieri non poteva-
no durare, l’idea della caducità delle cose abbandonò la sua mente.
I parenti e gli amici di Fanny - assai meno numerosi di quelli d’Ambrogio -
erano distinguibili da questi non già per le acconciature (anche fra le donne
calate dalla Brianza alcune si servivano in sartorie o boutiques milanesi) ma
per un che di più disinvolto e profano, e di meno ‘compreso’ nel comporta-
mento; erano ad ogni modo, i parenti di Fanny, meno belli dei campagnoli
d’Ambrogio, specialmente i maschi.
Attenendosi alla tradizione, tutti s’erano disposti ad aspettare la sposa
all’interno della chiesa, ciascuno in piedi al proprio posto: lo sposo a pochi
passi dall’altare, accanto a un inginocchiatoio rivestito di velluto rosso e cir-
condato di fiori; dietro di lui, presso le loro poltrone pure drappeggiate di vel-
luto rosso, i quattro testimoni, e in compagnia di Michele finché non fosse in
arrivo la sposa, Alma, trepida come una colombina. I due testimoni di Fanny
non erano giovani come quelli d’Ambrogio; si trattava di due suoi zii, uno pa-
terno, l’altro materno, quest’ultimo (primario medico, nonché «socialista pie-
no di soldi» come aveva spiegato qualche giorno prima, con la solita aurea
spregiudicatezza la Fanny) era un «tipo della haute, molto ammanicato con la
nuova amministrazione cittadina». Non si riusciva a indovinare quale dei due
fosse: erano entrambi sulla sessantina, entrambi forniti in abbondanza di den-
ti d’oro, e con un aspetto in complesso malinconico. Gli altri invitati occupa-
vano le prime panche della chiesa, pure coperte di stoffa rossa e infiorate: le
donne e le ragazze, in abiti da cerimonia delle più diverse fogge e colori, inal-
beravano una quantità di cappellini con gale e nastri, e molte portavano guan-
ti lunghi sugli avambracci nudi; erano combattute fra l’interesse alla cerimo-
nia e quello (in genere vincente) al proprio abbigliamento. Al loro fianco gli
uomini, vestiti di grigio scuro in gradazioni diverse, qualcuno dei campagnoli
coi guanti scamosciati emergenti da una tasca della giacca, attendevano sorri-
dendo un po’ impacciati; sentivano per le acconciature delle loro donne suffi-
cienza e compiacenza insieme. Unico Fortunato - investito dell’incarico di ce-
rimoniere - andava e veniva scompagnato per la chiesa, sorvegliando non sa-
peva neppur lui cosa, ogni tanto chiedendosi quale dei due testimoni di Fanny
fosse il socialista danaroso per cui gli era stato raccomandato d’avere partico-
lari riguardi: “Quale dei due potrebbe essere privo di cervello come un sociali-
sta’?” si chiedeva, da quel liberale polemico che era. Quale fosse il socialista se
lo stava chiedendo anche Pino, però senza polemica: sebbene dai socialisti - a
cominciare da Sèp - egli non avesse ricevuto che calci, gli pareva vagamente,
come ex partigiano, di avere pur sempre qualcosa da spartire con loro.
Dopo la giusta dose d’attesa arrivò Fanny, non inferiore quel giorno per bel-
lezza ad alcuna, coi suoi compatti capelli color castano-dorato e l’abito bianco
dalle maniche aderenti che faceva risaltare la tornita fragilità delle braccia.
Venne avanti con grazia, al braccio del padre, sulla passatoia rossa stesa per
lei nel mezzo della navata centrale. Lo sposo, senza darlo a vedere, se la ri-
guardava con emozione: intendeva conservarsi imperturbabile, il pensiero
però che tra poche ore avrebbe potuto tenere fra le braccia questa splendida
creatura senza esserne separato da alcun velo, lo turbava, gli faceva battere il
cuore. A ventisette anni non aveva ancora conosciuto carnalmente la donna, e
la prospettiva del prossimo amplesso si accompagnava in lui a un senso di mi-
stero, cui andava incontro con conscia potenza virile.
Anche Fanny era turbata in segreto; meno dello sposo tuttavia, e ad ogni
modo non aveva tempo per esaminarsi fino a che punto. «Mamma mia» disse
sottovoce una volta preso posto accanto a lui: «Hai visto mia zia Fiorenza co-
me s’è combinata, che tailleur folle?» E di lì a un po’: «Sapessi Ambrogione
che fatica per convincere papà a non usare la bombetta...» Non riusciva in-
somma a sottrarsi - o forse si faceva un impegno d’essere presente - alle picco-
le cose del momento.
Venne dalla sacrestia all’altare il celebrante don Carlo Gnocchi, il quale do-
po la guerra aveva fondato alcuni collegi per il recupero dei bambini mutilati.
Indossava paramenti bianchi intessuti d’oro, e aveva un bel viso fine; alla vista
del quale Luca sussultò sulla sua poltrona coperta di velluto: ricordò com’era
quel viso ad Arnautovo, durante la terribile notte della battaglia, ispido di
barba e giallo e con gli occhi infossati. Ricordò come don Carlo - inginocchiato
tra i feriti davanti all’isba infermeria - lo avesse riconosciuto nonostante il
buio e benedetto, tracciando su di lui il segno della croce. Dopo c’era stata
quell’uscita pazzesca con Pedrana e gli altri per snidare i russi dalla balca
(“Ora e nell’ora della nostra morte...”), e poi la tremenda marcia verso Nico-
laievca, durante la quale il capitano Grandi era morto mentre i suoi alpini can-
tavano piangendo la canzone...
Le nozze vennero celebrate prima della messa: in procinto di pronunciare il
sì definitivo, il giuramento solenne sopra ogni altro, che l’avrebbe legato per
tutta la vita a Fanny, Ambrogio si esaminò ancora una volta rapidamente -
giusto come aveva fatto prima del giuramento militare - e constatò che agiva
in coscienza e libertà: promise quindi solennemente a sé stesso di rimanere se
necessario a costo della vita fedele a questa creatura che gli stava fiduciosa al
fianco. Fanny non fu così complicata: lei aveva deciso da tempo (prima ancora
di lui), e ora ciò che desiderava sopra ogni cosa era che le ‘formalità’ si conclu-
dessero presto.
Dopo i flash del fotografo, e le letture di rito, e gli altri piccoli adempimenti
cui il celebrante e gli sposi erano tenuti, ebbe inizio la messa. Il punto più sa-
liente della quale fu l’omelia di don Carlo: un augurio straordinariamente
semplice e affettuoso, e senza alcuna ricerca d’effetto, agli sposi: così sentito
che riuscì perfetto; Pino lo registrò, o piuttosto credette di registrarlo, su na-
stro (erano da poco comparsi nei negozi i magnetofoni). Disgraziatamente
l’apparecchio che il giovane - piuttosto maldestro in queste cose - aveva siste-
mato sulla balaustra accanto al sacerdote, sebbene le sue bobine girassero do-
cilmente, non aveva le leve dei comandi nella posizione giusta: così del
bell’augurio spontaneo non rimase registrata una sola parola. (Del che ci si
rese conto solo più tardi, dopo partiti gli sposi: e la cosa più irritante fu con-
statare ch’erano rimasti invece registrati i brindisi farciti di luoghi comuni, e i
discorsetti faticosi, pronunciati poi durante il pranzo all’hôtel.)
Di tutto questo inconscia, Fanny seguì l’omelia standosene seduta, per
esprimerci alla sua maniera, «buonina buonina», e ringraziò alla fine don Car-
lo - che vedeva per la prima volta - chinando mitemente la testa.

***
Non seguiremo i particolari della messa, né del successivo pranzo, di nozze,
minutamente organizzato dalla stessa Fanny in un albergo ‘all’altezza’. Pranzo
durante il quale il testimone medico e socialista ‘ammanicato’ con
l’amministrazione comunale di Milano, snobbò lo studentello in medicina Pi-
no che gli si dava d’attorno; l’importante personaggio fu piuttosto asciutto an-
che con Gerardo il quale - rispettoso come sempre d’ogni autorità, e anche sua
apparenza - gli dimostrava deferente interessamento; invece, non dimentico
della grande tradizione umanistica dei medici italiani, una volta eccitato dal
vino l’ ‘ammanicato’ credé bene di gratificare d’una lezione estetico-letteraria
il suo co-testimone Michele. Che sorbì i luoghi comuni dell’altro con perfetta
impermeabilità di mente, senza battere ciglio.

Finalmente, a pomeriggio inoltrato, i due sposi - dopo essersi cambiati


d’abito - poterono partire in macchina, mentre i ragazzi più giovani (soltanto
perché uno di loro aveva cominciato a farlo) gridavano: «Finalmente soli, fi-
nalmente soli...» e lanciavano contro la macchina manciate crepitanti di con-
fetti minuti. (A Michele tornarono di colpo in mente le grida: «Confites, señor,
confites» dei ragazzi spagnoli lassù a Susdal. La guerra era ancora vicina, an-
cora non ci si poteva liberare dai ricordi; e a ogni buon conto quei ragazzi in
questo momento dovevano essere sempre là, dietro il filo spinato.)

CAPITOLO SESTO

La cosiddetta luna di miele gli sposi la trascorsero a Napoli e nei suoi incan-
tevoli dintorni, Amalfi, Positano, Capri.
Durante il viaggio di ritorno, eseguito a tappe, fecero sosta a Perugia. Vi
giunsero di sera; la mattina dopo Ambrogio (mentre Fanny pigramente indu-
giava a letto nella luminosa stanza d’albergo, ed era convenuto che sarebbe
poi uscita da sola a fare qualche compera in città) si mise in macchina per far
visita al suo ex attendente Paccoi, che non vedeva dal lontano giorno del rim-
patrio, cinque anni prima.
Pur non essendo particolarmente sensibile alla bellezza, mentre percorreva
le vie di Perugia il giovane industriale avvertiva d’averne intorno parecchia:
non c’era quasi strada o edificio, o anche - a guardar bene - semplice muro,
che non ne mostrasse qualche segno. “Accidenti” egli si disse più d’una volta
“che bella città! Ha ragione Michele quando afferma che Perugia è la più bella
di tutte le città... in effetti nemmeno Firenze è così bella. Chissà com’era la vita
della gente una volta qui, quando sapevano costruire a questo modo...” Né la
bellezza si limitava alle architetture, ma entrava si può dire in ogni cosa: an-
che - egli notò - nei nomi delle strade e delle porte cittadine, i quali non erano
etichette intercambiabili come succede altrove, ma ciascuno (di quelli antichi
almeno) rendeva davvero, con poetica proprietà, gli attributi del luogo che
designava.
I colpi d’occhio a suo giudizio più belli gli vennero incontro allorché rag-
giunse il margine settentrionale della città: qui i colli su cui sorge Perugia es-
sendo particolarmente frastagliati, obbligano le alte mura (non di rado forma-
te da tre strati sovrapposti: etrusco, romano, medievale) a continue sporgenze
e rientranze, tra le quali s’incuneava la campagna con valloncelli d’erba d’un
verde prodigioso e fiori spontanei, oppure con argentee piante d’ulivo. Un
paio di volte Ambrogio arrestò l’automobile per scendere e ammirare. Senza
dubbio cooperavano le circostanze: fatto sta che ogni cosa gli appariva d’una
bellezza inaudita: “Non è pensabile” si diceva in cuor suo “che nel mondo inte-
ro esista un posto altrettanto bello. Io devo assolutamente tornare qui con
Fanny”. (Si sarebbe non poco meravigliato se avesse conosciuto i pensieri di
tanti perugini i quali, mentre andavano per gli affari loro senza la fretta ‘che
l’onestade dismaga’, notando la targa della sua macchina “Fortunato costui”
pensavano, “che vive a Milano: la città delle industrie, dove si può guadagna-
re”.)
La via della Tramontana, non asfaltata, ch’egli imboccò una volta uscito dal-
le mura, lo condusse sempre più a nord nella campagna ben coltivata, tenen-
dosi dapprima alta sulle dorsali (da qui certo il suo nome, da questa posizione
ventosa), poi snodandosi al piede dei colli qua e là coronati sulle cime da nitidi
cerchi di pini a ombrello, oppure risaliti sui fianchi da cipressi in lunghe file o
in piccole folle; i pendii meno erti erano a grano, ulivi e viti, i più erti intera-
mente a ulivi, i quali finivano con l’improntare l’intero paesaggio col loro
mansueto color verde-argento.
La macchina attraversò qualche piccolo paese, percorse un tratto della via
statale Tiberina, fiancheggiata da cipressi e cipresse allineati, e da qualche ca-
sa colonica coi suoi bei pagliai dorati davanti. Il giovane chiese ripetutamente
indicazioni ai contadini, infine imboccò, dentro una forra boscosa, una stra-
dicciola di terra che lo condusse a una larga conca coltivata; qui gli fu indicata,
da lontano, la casa colonica in cui abitava la famiglia di Giovanni Paccoi.
Il quale Paccoi, in quel momento, stava placidamente rompendo con
l’aratro le zolle di un piccolo campo situato poco lontano dalla carrareccia.
Come lo vide, Ambrogio lo riconobbe: pieno d’emozione fece avanzare ancora
un po’ la macchina, fino ad arrestarla dietro alcuni filari di viti che l’avrebbero
nascosta alla vista dell’altro. E senza scendere, ristette a osservarlo. Basso e
robusto, col braccio sinistro un po’ rattrappito per la ferita riportata a Cerco-
vo, il viso impacciato come allora, ma cotto dal sole e un poco più largo, e coi
capelli sudati, l’ex artigliere di Russia seguiva passo passo l’aratro tirato da
due monumentali vacche bianche. Eccolo dunque nel suo ambiente: sempre
più commosso Ambrogio - che a lui era consapevole di dovere la vita - se lo
ricordò com’era sei anni prima: il giorno della visita di Bonsaver per esempio,
impegnato con zelo a far ben figurare la sua piccola mensa (“una cassa coperta
da un tovagliolo, tra due sgabelli!”); oppure mentre, infagottato e con la ma-
schera di ghiaccio sul viso, scarpinava nella ritirata. E la tremenda mattina in
cui lui, Ambrogio, era stato ferito? L’aveva lasciato libero d’andarsene per con-
to suo: “Se m’avesse abbandonato davvero, io sarei morto”; e invece no: «Que-
sto discorso voi non me lo dovete fare, va bene signor tenente? Io so qual è il
mio dovere». Adesso qui, nel suo ambiente umbro, quella risposta d’una di-
gnità così totale Ambrogio se la spiegava meglio. “Giovanni Paccoi” mormorò
“io non ti potrò mai ringraziare abbastanza.”
L’appezzamento che il contadino stava arando era talmente piccolo (forse
destinato a semenzaio) che l’aratro doveva di continuo invertire la marcia:
arrivate al termine della breve tratta le due vacche aggiogate si arrestavano a
una voce dell’aratore e attendevano ch’egli disimpegnasse il vomere dalla ter-
ra; ad un’altra sua voce eseguivano, sbuffando e urtandosi un poco tra loro, un
mezzo giro, e mentre il vomere s’impegnava di nuovo riprendevano lente il
percorso in senso inverso. Il lavoro era quasi senza rumore (solo Paccoi udiva
il brusio della fertile terra che si rivoltava davanti ai suoi piedi), lo accompa-
gnava però da un albero di fico il canto d’un uccello sconosciuto, un canto for-
te e strano, che sembrava rituale.
Il visitatore era incerto se farsi avanti e interrompere un tale lavoro; cosa
che istintivamente gli dispiaceva. A risolvere il problema provvide lo stesso
Paccoi il quale, avendo notata la macchina in arrivo, e non avendola poi vista
sbucare dal tratto di strada mascherato dalle viti, si fermò a una delle inver-
sioni di marcia dell’aratro e facendo solecchio con la mano guardò attento in
quella direzione. Prontamente Ambrogio fece allora avanzare la macchina al
di là delle viti, l’arrestò di nuovo, ne discese e s’avviò a grandi passi verso
l’amico; a questo punto l’uccello - un rigogolo - smise di cantare.
Paccoi - cui Ambrogio aveva preavvisata per lettera la propria visita - lo ri-
conobbe subito, e fece per ‘rettificare la posizione’; poi ricordò di non essere
più alle armi, diede una voce che confermasse le vacche nello stato di sosta, e
abbandonato l’aratro si affrettò verso di lui; a tale mossa il rigogolo si staccò a
precipizio dal fico e volò via sotto il sole: era - Ambrogio fece in tempo a nota-
re - d’un colore intensamente dorato, pareva una scheggia d’oro.
«Giovanni, finalmente ti rivedo, era ora!»
«Signor tenente!» disse Paccoi, ricambiando con il consueto imbarazzo
l’abbraccio del suo ex superiore: «Perché non m’avete scritto il giorno che sa-
reste venuto? V’avria spettato a casa, anzi saria nuto (venuto) a Perugia a
piavve (pigliarvi).»
«Il giorno non ero in grado di precisarlo» gli rispose Ambrogio. «Come stai,
Giovanni? Come va il tuo polso?»
«Bene, signor tenente, ormai va bene.» Sollevò alquanto il braccio offeso, e
fece ruotare nei due sensi la mano: «Dopo tutto quel ch’emo (abbiamo) passa-
to, ringraziamo ’l Signore. E le vostre ferite?»
«Anch’io sto bene, grazie a Dio. L’ho fatta un po’ lunga con gli ospedali, ma
ormai è solo un ricordo. Tanto che mi son sposato, sono in viaggio di nozze, lo
sai.»
«Sì, me l’ete scritto ’n te la lettera.» Paccoi tacque, lui pure emozionato.
«Eh, sor tenente» mormorò «v’aricordate? (ricordate?)» Ambrogio fece ripe-
tutamente segno di sì con la testa.
«Ma io» disse Paccoi, sovvenendosi a un tratto, «v’ho da ringrazià d’una
cosa: de tutti quei regali.»
«Dai, non farmi ridere.»
«Quei due tagli d’abito massemalmente: m’hon fatto proprio comodo sa-
pete?»
«Io ti devo la vita, altro che tagli d’abito» dichiarò Ambrogio, e lo prese sot-
to braccio. «Beh, fammi vedere il tuo lavoro. M’interessa.»
Si diressero insieme verso l’aratro: «Adesso finisci, fai il poco che ancora ti
resta, mentre io aspetto qui. Si sta bene qui, in questa campagna così bella.»
«Ma no, che dicete? Adesso gimo (andiamo) a casa subito. Anche i miei
v’aspettano; son curiosi de conosceve.»
«Vorresti lasciare il lavoro a mezzo? Così poi sarai costretto a riprenderlo?
No. Tanto che ti ci vuole a finire?»
«Non tanto, a dì la verità, però...»
«Forza allora. Così imparo anch’io come si conduce un aratro. ’» Paccoi fece
ancora qualche resistenza: gli pareva scortese non mettersi subito a disposi-
zione dell’ospite; infine accondiscese, o piuttosto ubbidì, secondo la consuetu-
dine d’un tempo.
Ambrogio gli camminò a fianco durante il primo tragitto d’andata e di ri-
torno, procedendo lento dentro la stoppia, al passo delle vacche sbuffanti, ma
s’accorse che in tal modo disturbava il lavoro; risolse allora di fermarsi
all’ombra d’un albero, una piccola quercia. «Ti guardo lavorare da qui» disse:
«Se no t’impiccio.»
Con lo scuro volto nuovamente sudato, Paccoi camminò avanti e indietro,
avanti e indietro, procedendo lento sotto il magnifico sole, finché la terra del
piccolo campo fu tutta rivoltata. C’era intorno una tangibile pace che faceva
scordare non soltanto la guerra, ormai passata e lontana, ma anche l’industria,
e la vita di tensione ad essa inerente. “Gli avevo offerto di venire a lavorare su
da noi: quale sciocchezza se avesse accettato!”
Finalmente Paccoi fece alt, e prima di staccare le vacche dall’aratro si volse
al visitatore, che s’affrettò a raggiungerlo.
S’avviarono al seguito delle due grandi vacche bianche, sempre aggiogate
tra loro, verso la casa colonica.

CAPITOLO SETTIMO

Seguì la cortese ma niente affatto esuberante (si era in Umbria, dove ogni
eccesso è disdicevole) accoglienza delle donne di casa: la madre e una cognata.
Giovanni, sistemate le vacche nella stalla, salì nella sua stanzetta a fior di tetto
a lavarsi in gran fretta testa, collo e torace, poi ridiscese con indosso una ca-
micia di bucato. L’ospite fu fatto accomodare in cucina, gli venne posto davan-
ti del vino color paglia e - su un tagliere di legno - prosciutto e formaggio pe-
corino. Il vino in particolare era squisito: “Dalle nostre parti i contadini un
vino simile non se lo sono mai nemmeno sognato” egli constatò.
Notò che in pari tempo le due donne cominciavano a darsi da fare per pre-
parare - in merito non potevano esserci dubbi - un pranzo vero e proprio.
«Preparate per il rientro degli uomini a mezzogiorno?» chiese incerto.
«Sì, e per vò sor tenente» gli rispose la madre: «se ve contentate.»
«Ma io... ho lasciato mia moglie a Perugia, è sola e...»
«Nun la potete gì (andare) a pià co la macchina?» fece Giovanni allarmato:
«Mica vorrete ricusà de restà con noaltri.»
Anche la madre e la cognata guardarono il visitatore costernate. Ad Ambro-
gio tornò in mente l’ospitalità che si praticava nei tempi omerici. «Io resterei
più che volontieri ma...» disse: «non... Questo non era previsto.»
«Come sarebbe a dì non era previsto?» fece Paccoi.
«Voglio dire: io non ci avevo pensato. Se no avrei portato con me mia mo-
glie, e sarei venuto qui in un’ora più adatta. Insomma so che voi siete gentilis-
simi, ma così vi do troppo disturbo.»
«Ma no, che dicete? Che ve viene in mente?»
«Ah, facete i complimenti» respirò la madre, e fece un segno alla nuora, a
significare: su, continuiamo.
Il risultato fu che, consultato l’orologio e calcolati i tempi, Ambrogio ripartì
di lì a poco per andare a prendere Fanny; il vino bevuto lo rendeva già legger-
mente euforico, tanto che mentre viaggiava si proponeva con allegria di ripe-
tere alla moglie il vecchio detto umbro appreso in Russia da Paccoi: «’N du
(dove) se magnuca, ’l Signor ce conduca’».

***
Fanny accolse di buon grado l’invito. E durante il pranzo, inevitabilmente
abbondante, si dimostrò all’altezza nell’intrattenere le due donne, alle quali
Ambrogio non sapeva rivolgere che convenevoli; lei invece s’interessò
d’un’infinità di cose, e riuscì simpatica a tutti, anche agli altri uomini di casa,
cioè al padre e al fratello di Giovanni, rientrati a mezzogiorno.
Si venne a sapere che Giovanni stava a sua volta per sposarsi, e con la nuova
annata agraria avrebbe ricevuto in mezzadria un podere non lontano da que-
sto. «I proprietari, che sono gli stessi del nostro podere, sanno che è un bravo
ragazzo e gran lavoratore» disse compiaciuta la madre, «ci conoscono da ge-
nerazioni.»
Gli uomini parlarono di molte cose: risultò che, purtroppo, la situazione di
pace era in realtà precaria anche qui. Certo la gente di qui, i contadini, erano
alieni dalla violenza e dal sangue: sotto questo aspetto le cose andavano diver-
samente che in Lombardia; qui l’antica civiltà, come permeava l’ambiente,
così permeava l’animo della gente, anche di quanti avevano votato comunista.
«Che nun son maligni, c’ete da crede: sol che voion la terra.» Per questo mo-
tivo, con evidente disappunto degli uomini di casa - avversi al comunismo e
perciò, quasi fosse inevitabile, pro fascisti (le scoperte non finivano mai) - la
quasi totalità dei contadini mezzadri aveva votato comunista. «Ma la terra in
proprietà ai contadini non è affatto comunismo» fece presente Ambrogio: «è il
suo, contrario.» Tanto valeva: la propaganda rossa in Umbria (e nelle regioni
circostanti) s’incentrava precisamente su questa promessa menzognera.
“Alla fine anche qui la via d’uscita non potrà essere che
l’industrializzazione” si diceva l’industriale lombardo. “Ma se sorgeranno in-
dustrie e fabbriche in posti come questi, ogni cosa finirà con l’esserne per for-
za modificata, forse sconvolta” (era profeta assai più di quanto immaginasse,
ahimè). “E allora?” Non sapeva bene cosa auspicare: dato che non è possibile
costringere la gente a un genere di vita del quale non è più contenta...
Nell’aia c’era il carro su cui il padre e il fratello di Giovanni erano tornati dal
lavoro: si trattava d’un carro di foggia incredibilmente antica, basso e quadra-
to, con due ruote massicce e il timone: “Somiglia al plaustro romano” alma-
naccava Ambrogio (in effetti lo era: era l’antico carro rimasto in queste cam-
pagne immutato da duemila anni). Ogni tanto, attraverso la porta spalancata
della cucina, lo sguardo del giovane ci capitava sopra; egli finì con l’avvertire
un senso di rammarico all’idea che presto, forse, uno strumento di lavoro di
così attraente disegno, eredità ancor viva del passato, sarebbe diventato un
cimelio.

CAPITOLO OTTAVO

Sulla via del ritorno a Perugia, nel tardo pomeriggio, Fanny tolse dal ricet-
tacolo del cruscotto la guida del Touring, volume Italia centrale, e si diede a
sfogliarla. «Lo sai che questa gente mi è piaciuta molto?» dichiarò: «Piuttosto
incredibile ma... cosa ti posso dire? M’è piaciuta, sì.»
«Puoi ben dirlo» mormorò Ambrogio.
«Pôere stelle, che cari! Beh, fammi un po’ vedere: qui sopra Perugia c’è
Gubbio, vediamo un po’ cosa dice di Gubbio. Ehi, città misterica, figurati...»
Lesse un poco in silenzio: «Ah già, le ‘tavole eugubine’, io non le ricordavo
più.»
«Le tavole eugubine? Che roba è?»
«Come, non le hai studiate in ginnasio?»
«Io no. Che roba è?»
«Ci sono scritte le regole per prevedere il futuro in base al volo degli uccelli,
senti qui: ‘Sono sette lastre di bronzo verdastro, del terzo secolo avanti Cri-
sto: le prime due ricoperte di caratteri etruschi e le altre di caratteri latini. Vi
si prescrive come si devono trarre gli auspici dal volo del picchio verde’»
«Il picchio verde? Hai detto il picchio verde?»
«Sì, perché? Così c’è scritto.»
«Ma lo sai che io stamattina, quando sono arrivato sul posto ho visto per
prima cosa un picchio verde? Almeno credo: era grande quanto un merlo, e
d’un bel colore dorato, verde dorato, che altro poteva essere? Me lo sono chie-
sto e, guarda, credo che fosse proprio un picchio verde. Non l’avevo mai visto
in vita mia.»
«Stai scherzando, Ambrogione?»
«No, dico sul serio.»
Fanny si rese conto che il marito non scherzava (noi sappiamo tuttavia che
in quel momento egli si sbagliava: non aveva visto un picchio verde bensì un
rigogolo. Però i due uccelli si somigliano molto, e il secondo - il rigogolo - è in
quei luoghi più abbondante del primo, ed è anche più suggestivo a vedersi: chi
può garantirci che - dopo tutte - non siano stati i traduttori delle tavole eugu-
bine a cadere in errore, e che l’uccello di cui nelle tavole si parla in etrusco non
sia appunto il rigogolo?) «Vuoi vedere» fece Fanny «che io ho sposato un aru-
spice? Allora, che auspici dobbiamo trarre? Dimmi un po’ su.»
«Che ne so io?» rispose Ambrogio divertito. «Cosa dice circa il modo di vo-
lare la guida del Touring? Quello di stamattina è volato da sinistra verso de-
stra per una cinquantina di metri, diciamo la tratta d’una freccia, poi non l’ho
più visto. E prima di mettersi a volare cantava, anche.»
«Anche» disse Fanny. «Cantava? Ma guarda che tipo, quel picchio. Però qui
la guida non spiega niente, mi spiace, non dice altro. E allora?»
«Allora» fece Ambrogio «sta tranquilla. Significa che tutto va bene. Questi
sono posti di buona creanza, no? Anche lui ci ha augurato felicità e fortuna,
come tutti quelli che incontrano degli sposini in viaggio di nozze.»
«Oh, che bravo il mio aruspice!» E dopo un po’, con trasporto: «Ma in che
posto meraviglioso mi hai portata» disse Fanny. «Perfino i picchi si scomoda-
no per farci gli auguri.» Gli sfiorò delicatamente con una mano la guancia:
«Ambrogio mio» disse.
«Hai voglia che ti stringa tra le braccia, vero?» (Con questa frase in quei
primi tempi indicavano tra loro l’unione coniugale).
«Sì» rispose sotto voce Fanny.
«Adesso arriviamo all’albergo» disse Ambrogio: «Suppongo che neanche tu
stasera abbia voglia di scendere per la cena.»
«No di certo, dopo tutto quello che ci han fatto mangiare.»
«Ecco. Così andremo subito a nanna, e questa notte sarà lunga il doppio
delle altre.»
La giovane moglie lo ringraziò con un sorriso.
CAPITOLO NONO

Non esistevano le grandi autostrade allora, però non c’erano nemmeno


molte automobili in circolazione, e le vie nazionali consentivano quindi una
notevole velocità. Del che Ambrogio si avvalse nell’ultimo giorno del viaggio,
afferrato di nuovo dal suo senso del dovere verso la comunità. La quale per lui
era quella, circoscritta, di Nomana, dove suo padre e suo fratello Fortunato
stavano in quel momento portando la sua parte di peso. E se per caso,
mentr’egli era via, in ditta fosse sorto qualche grave problema? Al telefono due
giorni prima gli avevano assicurato di no, che non ci pensasse neppure, ma il
lavoro dell’industriale scorre tra continui imprevisti, è un rischio ininterrotto:
chi lo guarda da fuori non lo sospetta, ma lui lo sapeva per esperienza.
Fanny notava la sua crescente fretta, e sorrideva. «Tu mi scusi questo po’
d’urgenza, vero?» finì col dirle lui.
«So bene d’avere sposato un uomo dinamico» gli rispose.

***
A Nomana i due sposi diedero inizio a una vita metodica. Ambrogio si alza-
va presto per essere in fabbrica (quella ‘vecchia’) contemporaneamente al pa-
dre, ossia un po’ prima dell’entrata degli operai. L’interruzione di mezzo gior-
no avrebbe dovuto essere di due ore, ma spesso si riduceva, a causa di clienti o
fornitori capitati in ufficio all’ultimo momento. Il ritardo del marito spazienti-
va Fanny, la quale dopo il pranzo amava passeggiare con lui nel giardino de ‘I
dragoni’, tutto a loro disposizione, col capinero (la voce dell’estate in Brianza)
che faceva udire ogni tanto dal folto la sua cascatella di note. («Cosa lo tenia-
mo a fare un giardino che oltretutto ci costa, se poi lo godiamo così poco? Me
lo vuoi spiegare?») La sera Ambrogio avrebbe dovuto essere di ritorno a casa
alle sette, ma poiché riservava il pomeriggio alla fabbrica ‘nuova’ sul Lambro,
e ai connessi viaggi a Milano, Monza, o nel ‘bustocco’, si può dire che la sera
egli in realtà non avesse orario. Dapprima Fanny cercò di richiamarlo
all’ordine, prospettandogli - visto che soprattutto a questo egli era sensibile - i
suoi doveri verso la famiglia; poi un po’ alla volta si adattò. Del resto si rende-
va conto che col passare del tempo Ambrogio le si affezionava sempre più: la
loro vita famigliare era non solo senza screzi (non si potevano dire tali quelli
causati dall’orario) ma anche, nell’ordine dei sentimenti, tranquilla e sicura.
Solo, durante le lunghe ore d’assenza del marito, la giovane moglie s’annoiava
un poco; dedicava insieme alla suocera Giulia qualche pomeriggio
all’assistenza dei bisognosi, non però in modo sistematico; del resto
quest’assistenza non era mai stata pianificata al modo del lavoro degli uomini
(sebbene - soggetta com’era a richieste improvvise e non di raro indilazionabi-
li - riuscisse nel proprio ordine abbastanza impegnativa). La suocera non la
spronava: «Siete appena sposati» diceva «presto arriveranno i bebé, e vedrai
che troverai appena il tempo per provvedere a loro. Al principio, si capisce,
perché poi ci si organizza. Dunque fa con calma: che importa, con i più poveri,
è fargli sentire fin dal principio che t’interessi a loro col cuore, che gli vuoi be-
ne, allora un po’ alla volta cominciano ad avere confidenza e in seguito ci pen-
seranno loro stessi a metterti in movimento, vedrai. Ma questo è meglio che ti
succeda quando ti sarai già impratichita nel fare la mamma, e non prima.»
Sembrava dare per scontato, Giulia, che Fanny volesse avere molti figli, set-
te o otto, magari dieci, come ne voleva avere Francesca che già stava portando
nel grembo il primo. A tale riguardo però la nuora - che non proveniva come i
Riva da un ambiente cattolico praticante, né popolare - aveva idee sue. E ave-
va cominciato, dopo che i primi mesi di matrimonio erano trascorsi senza che
rimanesse incinta, a seguire nei rapporti col marito le norme prescritte dal
metodo Ogino-Knaus per rimandare le gravidanze: «Non è un metodo immo-
rale, anche la chiesa lo ammette, perché noi per qualche annetto non do-
vremmo seguirlo?» Ambrogio, dopo qualche perplessità, aveva acconsentito.

CAPITOLO DECIMO

Il felice 1948 vide anche (in ottobre, al momento della ripresa delle scuole)
l’entrata in noviziato missionario del quindicenne Rodolfo. Il ragazzo, che
s’era andato facendo sempre più mite e insieme più risoluto, partì in un giorno
di pioggia per quel di Vicenza, la terra da cui a suo tempo era venuta, giovane
sposa, la madre di Manno. Giulia e Gerardo erano felici della sua decisione
(‘dare un figlio a Dio!’) e non lo nascondevano; ciononostante al momento del-
la separazione, quando sotto l’acquerugiola il ragazzo entrò nell’automobile al
cui volante sedeva, tutto serio e compreso, Celeste, Giulia scoppiò a piangere,
invasa dallo sgomento. Come quando al principio della guerra Ambrogio era
andato soldato: sapeva che anche questo suo figlio non si sarebbe tirato indie-
tro davanti al dovere, anche al più ingrato, e le pareva già di vederlo, chissà,
prestar servizio in un lebbrosario, incurante di sé, tra la povera gente strazia-
ta. Anche ad Ambrogio, mentre entrava in macchina per accompagnare il fra-
tello in seminario, questa partenza ricordò in qualche modo la propria per le
armi, tanto che finì col rivolgere ai famigliari assiepati accanto allo sportello
una facezia di sapore militaresco: «Mi raccomando, non dite a Luca o a don
Carlo che Rodolfo va in zona di reclutamento della divisione Julia: potrebbero
restarci male, loro che sono della Tridentina.»
Senza comprendere del tutto la facezia la madre aumentò i singhiozzi, e le si
unirono Noemi e, abbastanza inaspettatamente Fanny; avevano le lacrime agli
occhi anche Alma, e Francesca venuta da Visate apposta per assistere a questa
partenza, e perfino Pino, da quell’emotivo che era. Tanto che gli occhi dello
stesso Rodolfo si fecero improvvisamente rossi.
Per la famiglia Riva il felice 1948 si concluse con due lauree: quella di For-
tunato e quella di Pino. Si era nel tardo autunno, gli operai dei Riva superava-
no adesso il numero di settecento: erano cioè più che raddoppiati, e parevano
avviati a raggiungere il numero di quelli del salumificio Marsavi, che pure
continuava lentamente a crescere.

CAPITOLO UNDICESIMO

Gli occupati nelle due fabbriche tessili aumentarono ancora negli anni suc-
cessivi.
«Però a questo modo non va bene» obiettava talvolta Ambrogio al padre:
«C’è troppa sproporzione tra le nostre possibilità finanziare e una simile cre-
scita.»
«I capitali occorrenti ce li mettono a disposizione le banche» diceva Gerar-
do: «Lo vedete anche voi che ci allargano i crediti non appena glielo chiedia-
mo.»
«Perché i direttori hanno fiducia in te. Ma appunto per questo noi dobbia-
mo stare attenti. Certo sei tu che devi giudicare, non io, ma... E poi c’è anche la
questione del rapporto tra operai e impiegati: non è un rapporto normale il
nostro.»
A questo riguardo Fortunato sosteneva il fratello: «Ambrogio ha ragione.
Presto arriveremo a - mille operai, e quanti sono a fronte gli impiegati? Una
ventina.»
«Oggi come oggi sono ventiquattro» ribatteva Gerardo.
«E ti pare una proporzione normale? Ma papà, è un rapporto addirittura
pazzesco» diceva Fortunato: «è pazzesco, altro che normale.»
«Proprio così» sottolineava Ambrogio. «Anche questo è un aspetto della si-
tuazione che dovremmo, secondo me, esaminare bene, studiare a fondo.»
«Tanto più» ribadiva Fortunato «che tra i nostri ventiquattro impiegati non
c’è un solo laureato o diplomato: non uno. Così tutti gli incarichi direttivi a chi
sono in mano? A degli autodidatti o press’a poco, che hanno fatto soltanto
qualche anno di scuola tecnica.»
«Ma cosa gli faremmo, fare a dei laureati o diplomati nelle nostre fabbriche,
volete dirmelo?» obiettava il padre che, come sappiamo, aveva fatta solo la
quinta elementare. «Del resto non ci siete voi due? Non siete laureati voi
due?»
Ambrogio e Fortunato tentennavano la testa. «Papà, non è per farla lunga,
ma questo è un problema che va studiato sul serio.»
«Possiamo studiarlo, d’accordo. Però non capisco cos’avete contro i nostri
capi operai. Vi pare che Serafino, per esempio, non sappia il fatto suo? O che
non sia all’altezza il figlio della Rina?» (La Rina era un’anziana maestra-
operaia della ditta, Serafino era il migliore dei tecnici: gli incarichi direzionali
di cui via via si sentiva la necessità, Gerardo li affidava ai più capaci tra i suoi
dipendenti, o ai loro figli che avevano fatto qualche corso tecnico ed erano sta-
ti assunti da poco.)
«Papà, sia Serafino che il figlio della Rina sono anche troppo bravi» conve-
niva Ambrogio: «fanno addirittura miracoli, ma... non è questo.»
«E li fanno volontieri» sosteneva Gerardo. «In un certo senso insegnano
anche a noi con che grinta va affrontato il lavoro. Anche se non sono diploma-
ti. Comunque, ragazzi, io non son qui per oppormi: volete che esaminiamo
questo problema a fondo? Che gli dedichiamo, per esempio, tre mezze giorna-
te di fila? D’accordo, questo si può fare.»
«Guarda i Marsavi» proponeva ancora Ambrogio, sapendo per esperienza
che i riferimenti pratici erano per il padre gli argomenti più efficaci «loro in
ditta hanno decine di laureati e di diplomati, lo sai.»
«Vuol dire che per il loro lavoro occorrono, che sono necessari. Ad ogni
modo vi ho detto che questo problema lo possiamo esaminare.»
«E un’altra cosa sarebbe necessario esaminare» affermava a volte Ambro-
gio: «cioè come separare i conti dell’attività industriale da quelli commerciali,
insomma dalle continue compra-vendite che tu papà fai.»
«Già, come quella partita di cotone brasiliano che hai comprato e venduto
‘cif Genova’ la settimana scorsa» aggiungeva Fortunato.
«Però hai visto, Ambrogio, che affare magistrale è stato quello? Basta da so-
lo a ripagarci d’una metà della spesa per gli ultimi telai. Papà, sei stato davve-
ro in gamba.»
«Sì, certo» conveniva Ambrogio «ma sono due attività diverse. Il dottor
Mascheroni di Monza» (si trattava del consulente fiscale della ditta) «ogni
anno, quando gli presentiamo il materiale per il bilancio legale, insiste perché
teniamo separati i documenti delle due attività. Dice - e ha ragione - che oggi
come oggi non siamo noi stessi in grado di sapere se l’attività industriale ci
rende effettivamente, oppure no, e quanto.»
«Il dottor Pino Mascheroni è un benedetto uomo» ribatteva il padre:
«Gliel’ho spiegato tante volte che per noi è impossibile dargli le fatture suddi-
vise come vorrebbe lui. Lo sapete anche voi no, che a volte la materia prima
che compriamo con l’idea di rivenderla, poi la mettiamo invece in lavorazione,
oppure ne mettiamo in lavorazione una parte. Anzi questo è forse il caso più
frequente.»
«Però se avessimo nello studio un bravo ragioniere, anche uno soltanto, con
questo preciso incarico, i conti li potremmo avere suddivisi: basterebbe uno
che provveda a fare le imputazioni.»
«Va bene, possiamo esaminare anche questa eventualità, sebbene...» Seb-
bene, intendeva Gerardo, e i figli se ne rendevano conto, l’idea d’impiegare
gente per ‘imputare’ qualcosa di già prodotto non l’attirasse affatto: lui la gen-
te l’avrebbe se mai utilizzata per produrre dell’altro.
Finalmente al problema di una organizzazione più razionale della ditta fu-
rono dedicati tre successivi pomeriggi. All’ultimo dei quali Fortunato - che si
era nel frattempo iscritto presso il Politecnico di Milano a un corso per diri-
genti industriali - fece intervenire come consulente uno dei suoi insegnanti.
Costui si dichiarò ‘strabiliato’ per il rapporto impiegati-operai esistente, ma in
pari tempo rimase così colpito dalle intuitive doti imprenditoriali di Gerardo,
da consigliare che ci si guardasse bene dall’introdurre cambiamenti in contra-
sto con la sua ‘linea manageriale’. Della diagnosi del docente ciò che più rima-
se impresso nella mente dei tre industriali fu un avvertimento, che Gerardo in
particolare ruminò poi a lungo: «Attenzione: è da prevedere che le industrie
con macchinari vecchi, com’è in sostanza la vostra, entreranno in crisi nel giro
di non molti anni per la concorrenza di quelle nuove, che stanno sorgendo.»
Alla fine Gerardo prese la sua decisione: capitali, anche se non abbondanti,
per procedere a un sostanziale rinnovamento delle strutture produttive ce
n’erano, per ora investiti - a evitarne la svalutazione - in alcuni immobili a Mi-
lano e a Monza (case e terreni che era stato possibile conservare nonostante lo
sforzo per i recenti ampliamenti) : «Quei capitali» egli disse ai figli «dobbiamo
continuare a tenerli di riserva. Intanto voi ragazzi vi fate la vostra pratica per,
diciamo, altri due anni, cioè fino a metà 1952, va bene? Dopo di che, quando
avrete le idee sufficientemente chiare, realizzeremo quegli immobili, e sulla
base d’un progetto che studieremo insieme in ogni particolare, procederemo
al rinnovo degli impianti.»
Tale dunque il programma, che rappresentò poi durante il tempo che seguì
un costante riferimento per Ambrogio e Fortunato e per tutti gli altri che ave-
vano responsabilità nella ditta. Tuttavia, come dice il proverbio, ‘l’uomo pro-
pone e Dio dispone’: la crisi, la burrasca, arrivò prima del previsto. E non per
la vetustà degli impianti, o per gli scompensi nell’organico del personale, o per
altre cause interne alla ditta, ma, davvero impensatamente, per cause esterne:
la burrasca ebbe un’origine politica.

II

CAPITOLO DODICESIMO

Una mattina del febbraio 1952 - mentre Noemi gli preparava la prima cola-
zione - Fortunato lesse un titolo nel giornale: la Francia aveva, con un decreto
del suo ministro delle finanze Pinay, rescisso senza preavviso il trattato
d’unione doganale con l’Italia.
Lesse con attenzione riga dopo riga: sapeva che, per una serie di contratti
stipulati l’anno prima, la ditta stava in quel momento lavorando sopra tutto
per il mercato francese: due terzi e anche più della sua produzione erano de-
stinati a quel mercato. Non direttamente (“per fortuna” com’egli subito pensò)
ma indirettamente, in quanto acquirente del prodotto era un gruppo indu-
striale milanese con laboratori di confezione non solo in Lombardia ma anche
in Piemonte e in Liguria. In quei laboratori venivano tagliate ed elaborate le
pezze di tela di canapa e i rotoli di cinghia inviati a vagoni dalla ditta Riva. Il
prodotto finito veniva, poi esportato in base a una serie di contratti che il
gruppo aveva con società ferroviarie e marittime francesi.
Letti attentamente i pochi e con evidenza inesatti particolari, Fortunato si
rivolse a Giudittina, lei pure appena scesa a pianterreno e tuttora semiaddor-
mentata, le mise in mano il giornale piegato in modo che l’articolo fosse in
vista, e: «Sali di sopra dal papà che si sta alzando» le disse: «Indicagli questo
articolo qui. Questo, vedi? Digli di leggerlo subito.»
Poi rimase in attesa, sorbendo pensoso il suo caffè, in piedi, com’era abitua-
to da sempre; di lì a poco il padre lo raggiunse.
Duramente colpito dalla notizia, Gerardo s’impose anzitutto di non darlo a
vedere. «Senza dubbio possono essere guai seri» disse al figlio «ma non dob-
biamo fasciarci la testa prima d’averla rotta. Appena in fabbrica chiama Am-
brogio e vedete di compilarmi subito una situazione: della merce destinata alla
Francia pronta, di quella in lavorazione, della materia prima in magazzino, di
quella che abbiamo ordinata e ci deve arrivare, eccetera. E della merce che
abbiamo già consegnata e non ci è stata ancora pagata. Ci sono poi quei mazzi
di cambiali dei Brusasca che abbiamo girato ai fornitori e alle banche: famme-
ne fare subito uno specchio. Beh, vedremo. Da parte mia cerco di combinare
un incontro coi Brusasca.» I Brusasca erano i titolari del gruppo esportatore.

Quel primo incontro con loro non bastò, ne occorse un secondo, quindi al-
tri, mentre un autorevole funzionario del gruppo dapprima, poi il vecchio Bru-
sasca in persona principiavano a fare la spola con Parigi.
La decisione più difficile da prendere - in quanto carica di conseguenze sia
per i Brusasca che per i Riva - era se interrompere le lavorazioni o portare a
termine i contratti in corso. La prima alternativa - la più sicura dal punto di
vista finanziario - avrebbe comportato l’immediata messa ‘in sospensione’ di
centinaia di dipendenti sia del gruppo che della ditta, e un contemporaneo
colossale immagazzinamento di merci e materie prime non facilmente utiliz-
zabili in altro modo. La seconda soluzione avrebbe invece concesso un respiro
d’alcuni mesi, impiegabile nella ricerca di nuove commesse di lavoro, e con-
sentito quindi - probabilmente - di non fermare le fabbriche: c’era però il peri-
colo che non si riuscisse poi a far entrare in Francia i prodotti finiti. Venderli
in Italia con quelle misure, e confezionati a quel modo, sarebbe stato presso-
ché impossibile.
«Non si deve preoccupare» ripetevano i funzionari del gruppo esportatore
(con sede a Milano in Foro Bonaparte) a Gerardo: «Le sue cambiali portano
tutte la firma d’avallo del commendator Brusasca: lei a suo tempo l’ha for-
malmente richiesta, e ha avuto ragione. È una firma che vale miliardi, di cosa
si preoccupa?»
«Eh» rispondeva per niente convinto Gerardo: «eh.» Tra sé e sé pensava:
“E dire che per far fronte a queste grosse ordinazioni, ho trascurato tanti vec-
chi clienti! ”
Le autorità politiche di Roma, interessate e per quanto possibile sollecitate
dai Brusasca (i quali però non disponevano nella capitale di corrispondenti
adatti) fecero sapere che il presidente del consiglio De Gasperi in persona si
stava attivamente adoperando per ristabilire l’unione doganale con la Francia,
proprio da lui a suo tempo voluta, e riferivano d’incontri a livello diplomatico
già intervenuti o predisposti, dando assicurazioni generiche. In rapporto alle
quali si passava a Milano e a Nomana dallo scetticismo (lo stato d’animo più
frequente) all’ottimismo e perfino all’euforia (ad Ambrogio tornavano in men-
te le prime ore seguite alla chiusura della sacca sul fronte russo).
In occasione dell’incontro risolutivo il vecchio Brusasca disse a Gerardo:
«Senta, io leggo la domanda che c’è nei suoi occhi. Le dico una cosa sola: che
ho sempre, da che sono al mondo, onorata la mia firma, e intendo onorare
anche quella che sta sulle cambiali a sue mani.»
«Sì, ma consenta una domanda. Supponiamo che la merce non entri in
Francia. In questo caso lei ha il liquido disponibile per far fronte? O almeno
delle riserve in case e terreni, realizzabili in breve tempo?»
«Tutti i miei soldi sono investiti negli stabilimenti» rispose piano il Brusa-
sca, e tacque un istante. «Però» aggiunse «sono stabilimenti che fan gola a
molti, e non dovrebbe essere difficile venderli.» Cercò d’allontanare una simi-
le prospettiva negando ripetutamente con la testa (i lineamenti gli s’erano fatti
tesi): «Senta Riva, non facciamoci prendere dal panico.»
In conclusione il Brusasca comunicò di propendere per la seconda delle so-
luzioni sopra prospettate, quella di portare a termine le forniture: «Sempre
che lei Riva sia disposto a darmi i semilavorati.»
«Mi lasci parlare coi miei figli» gli rispose Gerardo, che voleva riflettere an-
cora: «Le darò la risposta entro domani.»
Messi di fronte al dilemma Ambrogio e Fortunato si trovarono sprovveduti
come bambini; la decisione la dovette prendere ancora una volta Gerardo, col
suo intuito innato, sì, ma anche con la sua preparazione da quinta elementare.
L’idea di mettere in sospensione da una settimana all’altra centinaia d’operai
gli era intollerabile sopra ogni cosa, e non solo per le agitazioni, i cortei e gli
schiamazzi che i rossi avrebbero immediatamente organizzato. «Io mi metto
nei panni di certi operai: il pane e il companatico noi sul tavolo ce l’avremo
ancora, ma loro? E ci sono alcuni, come il Gatti, con quella figlia così malata,
che gli costa un occhio della testa... e un sacco d’altri coi loro guai. Beh, in fin
dei conti il Brusasca è un galantuomo: sentite ragazzi, io gli do la roba.»
I manufatti spediti dal Brusasca però - prima un treno, poi il successivo, poi
altri - vennero bloccati alle dogane francesi e qui fatti scaricare. Mentre si af-
fannava per trovare il modo di svincolarli e farli entrare in Francia, di solo de-
posito doganale il Brusasca si trovò in breve a dover pagare intorno a un mi-
lione di lire al giorno. Non fu più in grado di ritirare le proprie cambiali in
scadenza e ne chiese ai Riva il rinnovo: «Per il tempo strettamente necessario
a sbloccare la situazione.»
Così, nella primavera del 1952 ebbe inizio per i Riva una nuova guerra, di-
versa ma per certi aspetti non meno estenuante di quella che si era conclusa
sette anni prima.

CAPITOLO TREDICESIMO

Dovettero affrontare anzitutto i singoli fornitori della materia prima e le


banche, cui le cambiali erano state versate in pagamento o allo sconto, chie-
dendone a loro volta il rinnovo: se possibile integrale, se no almeno parziale
(nel quale caso versavano la differenza in denaro contante). Dovettero in pari
tempo mettersi affannosamente alla ricerca di nuovo lavoro per non fermare i
telai; impresa ardua: furono costretti ad accettare anche commesse in perdita
o quasi, e alcune da clienti finanziariamente poco sicuri. Sempre nello stesso
tempo dovettero darsi da fare per liberarsi delle materie prime giacenti nei
magazzini che non sarebbero state utilizzabili nelle nuove lavorazioni. E poi-
ché la situazione finanziaria, già a fatica sostenibile, sarebbe potuta di colpo
precipitare, cominciarono anche a darsi d’attorno per vendere qualcuno degli
immobili di Milano e di Monza col cui realizzo si aveva in programma di rin-
novare le fabbriche.
Per Gerardo e i suoi figli non esisteva davvero più orario. In teoria il padre
avrebbe voluto far tutto da solo (senza parlarne, egli ricordava la dura lotta
per la sopravvivenza della ditta che aveva sostenuto appunto da solo al tempo
della grande crisi del 1929 e, irrazionalmente, avrebbe voluto risparmiare un
cimento simile ai figli). Questi, inesperti com’erano, al principio l’avevano un
po’ lasciato fare, poi però, ciascuno secondo le proprie attitudini, gli erano ta-
citamente subentrati in diversi compiti: Fortunato dedicandosi soprattutto
alle vendite, Ambrogio ai rinnovi cambiari oltre che al funzionamento delle
fabbriche; a procurare nuovo lavoro provvedeva il padre. Dal gruppo Brusasca
di Milano giungevano ogni tanto assicurazioni generiche circa una prossima
conclusione delle trattative per far entrare la merce in Francia: tali assicura-
zioni aiutavano, tutto considerato, a tirare avanti (come un tempo al fronte le
chiacchiere sulla prossimità delle linee amiche).
Dopo quattro mesi dall’inizio della crisi - le cambiali avevano scadenza a
quattro mesi - Ambrogio fece personalmente il computo dei rinnovi effettuati:
entrò tenendo il prospetto in mano nell’ufficio di Gerardo: «Lo sai papà a che
cifra ammontano i rinnovi che abbiamo fatto ai Brusasca in questi quattro
mesi?»
«Dì.»
«A un miliardo quasi esatto. Mille milioni, rinnovati si può dire uno per
uno.»
«Accidenti» mormorò il padre, impressionato dalla cifra: «Pare impossibile
che siamo riusciti a farcela.»
«Davvero. Il guaio è che adesso quelli vorrebbero i rinnovi dei rinnovi.»
«Per fortuna non domandano di rinnovare tutto. Soltanto le cambiali che
scadono nelle prossime settimane. Beh, quelle bisogna rinnovargliele per for-
za: non possiamo lasciarle protestare proprio adesso che il Brusasca è sicuro
di far passare una grossa tranche della merce che ha in dogana» (appunto così
gli aveva detto il Brusasca: una tranche, alla francese, e Gerardo lo ripeteva).
«Non appena lui incassa ricomincerà a pagare le sue cambiali, vedrai: me ne
ha data la parola.»
«Speriamo. Perché non so, altrimenti, per quanto tempo potremo resiste-
re.»

CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Di lì a tre mesi, in settembre, la situazione non era affatto mutata. Alla fine
di quel mese Michele ed Alma si sposarono; insegnavano entrambi adesso,
Alma, laureata in lettere, nello stesso ginnasio della Quadri Dodini. Non
s’erano sposati in giugno - ossia all’inizio delle vacanze scolastiche - soltanto
perché Michele aveva prima voluto terminare e consegnare all’editore il datti-
loscritto del suo secondo libro (un romanzo-saggio), che a differenza
dell’opera precedente gli era riuscito abbastanza difficile licenziare. Avendo
egli fatta un’esperienza praticamente ignota alla cultura italiana (aveva visto
coi propri occhi e sperimentato di persona i frutti dell’anticristianesimo inte-
grale) in questa seconda opera si era sforzato di far confluire - tramite le vi-
cende, le scoperte, le conversazioni dei personaggi - tutti i fili del processo di
scristianizzazione che, iniziatosi ancor prima dell’evo moderno, aveva portato
ultimamente ai forni crematori di Auschwitz e al cannibalismo di Crinovaia e
degli altri lager (e non solo lager) sovietici. Per tale lavoro non meno della
storiografia cattolica egli s’era servito a contrario delle indagini laiciste, so-
prattutto di quelle di Marx che gli erano familiari dai tempi della prigionia.
D’accordo con molti altri studiosi cattolici, Michele vedeva il principio della
scristianizzazione nel passaggio dall’umanesimo cristiano all’umanesimo tout
court: passaggio che - iniziatosi in Italia - era giunto a produrvi un primo e
perfetto - anche se su scala ridotta -Hitler o Stalin, col granduca Valentino, il
famoso principe del Machiavelli. Si trattava d’un uomo della cerchia papale:
fin là dunque s’erano infiltrati il riscoperto paganesimo e l’immoralità che
avevano cominciato a corrompere un po’ dovunque i costumi cristiani... Quel
tragico processo era stato più tardi arrestato, e poi rovesciato (segno questo,
secondo Michele, che Cristo è sempre coi successori dei suoi apostoli, per
quanto indegni e peccatori) dalla grande riforma cattolica, la cosiddetta Con-
troriforma, la quale però non aveva potuto interessare tutta la cristianità, e
nelle stesse nazioni cattoliche non tutti quanti gli ambiti culturali. A quel pri-
mo gigantesco episodio di scristianizzazione Marx - secondo risultava a Mi-
chele - non aveva dato rilievo; egli aveva invece afferrato molto bene, e saluta-
to con entusiasmo, il passo successivo, cioè la frattura prodotta nella società
cristiana dal protestantesimo. Partendo dal presupposto che ‘la critica della
religione è la premessa d’ogni critica’ Marx aveva indicato in Lutero il libera-
tore dell’uomo dalla ‘schiavitù esteriore a Dio’ e mostrato come la filosofia
tedesca avesse poi successivamente completata l’opera di Lutero, liberando
l’uomo anche dalla ‘schiavitù interiore a Dio’. Una volta liberi da Dio - in pra-
tica dalla sua morale - i diversi gruppi umani comunque in grado d’aspirare al
predominio (dapprima lo stato, poi la classe, poi la razza) avevano - sempre
secondo l’individuazione di Michele - teorizzata ciascuno la propria suprema-
zia e l’asservimento a sé di tutti gli altri gruppi, e in modo tanto più radicale
quanto più il senso morale cristiano s’era andato attenuando. I due episodi-
apice di questo processo erano stati finora lo sterminio dei sei milioni d’ebrei
inermi nella lotta razziale nazista, e di dieci milioni (come si riteneva: in realtà
erano stati il doppio) di contadini russi, pure inermi, nella lotta di classe co-
munista. Questo gigantesco fenomeno d’annientamento dell’uomo, ch’era il
vero prodotto della sua ‘liberazione da Dio’, il giovane scrittore aveva cercato
di renderlo in modo definitivo: s’era però reso conto di quanto l’impresa fosse
difficile, stanti gli innumerevoli preconcetti ormai introdotti dal laicismo e
dalla scristianizzazione un po’ in tutte le menti. Aveva avvertito che le pur ri-
gorose analisi su cui le sue pagine si fondavano avrebbero urtato contro molti
ostacoli: perciò s’era sforzato di dare ad ogni singola pagina il massimo
d’incisività. Perché l’opera lo soddisfacesse appieno gli sarebbe occorso altro
tempo: durante il quale tuttavia la sua voce non sarebbe stata presente nel
concerto della cultura in un periodo in cui nuove apocalittiche stragi - ad ope-
ra dei comunisti detentori del potere - avevano cominciato a prodursi in Asia;
s’era dunque risolto a pubblicare l’opera non rifinita, col proposito di tornarci
eventualmente sopra in seguito. Anche perché si era accorto che - nonostante
la ferma vigilanza di papa Pio - un grave errore di matrice francese, tendente a
presentare le verità marxiste come ‘verità cristiane impazzite’, ma pur sempre
verità cristiane - stava subdolamente infiltrandosi nello stesso mondo cattoli-
co, col rischio d’una immensa confusione; ciò l’aveva reso tanto più impazien-
te.

Il matrimonio dello scrittore e di Alma fu benedetto nella chiesa di Nomana


dall’ex cappellano padre Turla, il quale a quel tempo era tutto preso da un suo
progetto: costruire in montagna un piccolo santuario a ricordo dei soldati pri-
gionieri morti in Russia, e anzitutto dei suoi alpini: «Ogni cosa nel santuario:
gli affreschi alle pareti, i mosaici del pavimento, le vetrate, deve rappresentare
visivamente quei soldati com’erano nei lager, di modo che anche fra dieci,
anche fra cinquantanni il celebrante, ad ogni messa, si ricordi di loro: che so-
no morti troppo abbandonati, troppo.»
Dopo la cerimonia tutti si trasferirono per il pranzo all’albergo Villa Olmo
sul lago di Como: il quale lago in quella giornata di settembre presentava i
suoi colori più belli, cosicché la vista di acque monti e cielo, che si godeva
dall’arioso giardino dell’albergo, era davvero incantevole. La bellezza delle co-
se però può anche riuscire dolorosa, se l’animo di chi le osserva è in angustie.
Ambrogio ad esempio non aveva occhi per l’ambiente. Anche se fuori non
ne dava segno, egli tornava di continuo col pensiero alle cambiali del Brusasca
che sarebbero scadute di lì a due giorni: si trattava d’un importo elevato: “La
settimana passata coi rinnovi ce l’abbiamo fatta per puro miracolo, ma questa
settimana non vedo proprio come riusciremo. E adesso ci s’è messa anche
quella banca caina di Monza, che non solo non fa più rinnovi, ma ci ha chiesto
di rientrare subito di tutto lo scoperto. Bisogna trovare la maniera di tappare
anche quel buco, sì, ma come?”
Fortunato ponderava tra sé la difficile trattativa di vendita d’uno degli im-
mobili di Milano: quasi certamente non gli sarebbe stato possibile spuntare un
prezzo superiore a quello - davvero basso - offertogli ieri dal possibile acqui-
rente. Doveva vendere lo stesso oppure no?
Gerardo - che s’era proposto quel giorno (“almeno il giorno delle nozze di
mia figlia, che diamine!”) di non pensare agli affari - si ritrovava mortificato
per non poter aiutare don Turla - col quale aveva viaggiato in automobile da
Nomana al lago - a costruire la sua chiesa. “Se usciamo da questo profondo
pozzo in cui ci troviamo, se arriveremo a uscirne senza le ossa rotte, lo aiuterò.
Senz’altro lo aiuterò, se e quando ne usciremo... Beh, come Dio vuole.”
L’impressione d’essere al fondo d’un pozzo buio, con la luce che appariva lassù
in alto, molto in alto, come un cerchietto azzurro irraggiungibile, gli ritornava
spesso, corrispondeva bene al senso ch’egli aveva della propria situazione, al
punto che la sperimentava anche in sogno. Naturalmente non esternava tale
suo stato d’animo: il quale oggi sarebbe apparso oltretutto inspiegabile visto
che - considerandolo suo dovere di padre (né più né meno di come considera-
va suo dovere d’imprenditore ritirare le cambiali nonostante ogni difficoltà) -
aveva ‘debitamente’ provveduto alle occorrenze dei giovani sposi, non soltanto
acquistando per loro i mobili della camera nuziale secondo l’uso, ma anche
altre suppellettili indispensabili, e un’automobile, di cui aveva fatto dono al
genero: «Ti farà risparmiare parecchio tempo, che potrai dedicare al tuo lavo-
ro vero, quello più importante.»
Soltanto gli altri dunque - cioè gli invitati, e tra i famigliari i giovani e le
donne, meno consci della gravità della situazione - poterono estasiarsi per il
lago finemente marezzato dalla breva, e i monti verde-cupo tutt’intorno, e il
profondo cielo di Lombardia così azzurro là sopra. In particolare se n’estasiò
la diciassettenne Giuditta, che da un certo tempo in qua andava facendosi so-
gnatrice e ‘occhipensosa’, come Michele aveva recentemente fatto notare ad
Alma. La quale Alma - lei almeno - era quel giorno perdutamente felice. Le
pareva addirittura che Dio, concedendole una gioia come questa, concedesse
troppo a un essere umano. Nell’abito bianco da sposa, con le trecce castane
che le scendevano sul petto delicatamente modellato, guardava ogni tanto in-
cantata, senza parlare, il suo Michele.
Partì infine con lui, dopo essersi cambiata d’abito, sulla macchina nuova,
sotto la rituale grandine di confetti minuti (“Susdal!”) mentre tutti, intorno,
ridevano e motteggiavano, e anzi i giovani - su proposta di Fortunato - accor-
revano verso la macchina per sollevarne la parte posteriore e impedirle così di
partire; tanto che Michele, colta a volo la giocosa minaccia, scattò via scavan-
do con le ruote dei piccoli solchi nella ghiaia del viale.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Nella primavera dell’anno successivo, 1953, la crisi della ditta continuava a


infierire. «È più d’un anno ormai che lottiamo a questo modo, in certi mo-
menti fino allo spasimo” rifletteva a volte Ambrogio: “Quanto durerà ’sta sto-
ria? Non vorrà, anche questa guerra, durare quanto quell’altra?” La prospetti-
va lo sgomentava, ed egli finiva col dirsi che no, una tal cosa non era “né pre-
vedibile, né possibile”, e si attaccava all’uno o all’altro appiglio per dimostrar-
selo.
Alle elezioni del 6 giugno 1953 - le seconde elezioni generali della repubbli-
ca - il partito d’ispirazione cristiana perse la maggioranza assoluta conquistata
cinque anni prima. Le conseguenze sarebbero state molto gravi - come s’è già
detto - anche se nessuno o quasi in Italia al momento se ne rendeva conto.
Quanto ai Riva di rendersene conto non avevano neppure il tempo; l’unico a
preoccuparsi era Michele, che con la sua Alma veniva puntualmente in visita a
Nomana ogni sabato sera. Alla cena del sabato nella casa paterna cercava per-
ciò di partecipare anche Ambrogio, trascinandovi la riluttante Fanny: «Do-
mani impiegheremo la giornata come vorrai tu» le diceva per propiziarla,
«andremo dai tuoi a Milano magari.»
«Dai miei? Forse ti attira una prospettiva simile? Me no.»
«Beh, allora andremo a fare una bella passeggiata.» (Stanco com’era, egli
avrebbe preferito trascorrere la giornata festiva in giardino, o addirittura di-
steso sul letto.)
«Senti Ambrogio, per stavolta ancora t’accontento. Ma non sarebbe più ca-
rino includere anche il sabato nella nostra passeggiata, eh, la settimana pros-
sima?»
«Lo sai che il sabato sono impegnato fino a tardi.»
«Uffa.»
Durante la cena il suocero spingeva immancabilmente Michele a commen-
tare gli avvenimenti politici del momento: gli piaceva la proiezione della cro-
naca in storia ch’era pressoché automatica nel discorso del genero, gli piaceva
la profondità delle sue analisi.
Dopo le elezioni del 53 Michele s’era fatto pessimista: «De Gasperi l’ha det-
to e ripetuto con molta chiarezza prima delle elezioni: con la nostra costitu-
zione ‘garantista’ anche una maggioranza omogenea e sicura, come quella di
prima, incontrava serie difficoltà a far passare le leggi. Figuratevi cosa succe-
derà adesso.»
«Ma non ha contribuito, e più degli altri, la Democrazia Cristiana a stendere
la costituzione?»
«Sì, infatti. Però a quel tempo, non dimentichiamolo, i democristiani ave-
vano solo la maggioranza relativa. In pratica sia loro che i rossi, nel timore -
gli uni e gli altri - che fossero gli avversari a prevalere, hanno fatto a gara a
inserire nella costituzione tutele e vincoli e clausole d’ogni genere che garan-
tissero le minoranze. Col risultato che la maggioranza incontra adesso troppe
difficoltà a governare. Se poi non è omogenea, non governa affatto. Ecco per-
ché De Gasperi insisteva tanto nei mesi scorsi per introdurre quella nuova
legge elettorale.»
«Quale? La ‘legge truffa’?»
«Precisamente. Era per consentire una maggioranza organica di partiti de-
mocratici in parlamento, che permettesse di far passare almeno le leggi più
importanti. Però avete visto com’è andata a finire... Comunisti e socialisti
hanno fatto un tal chiasso contro quella legge, che anche noi adesso finiamo
col chiamarla ‘legge truffa’.»
«E allora?»
«E allora una democrazia senza una maggioranza che funzioni, non è più
una democrazia. Ormai per andare avanti i democristiani saranno costretti a
sottostare a compromessi sempre più deleteri coi rossi.»
Partito Michele, di pensare alla politica sia Gerardo che i figli non avevano
però tempo. Nessuno di loro lesse nemmeno il cosiddetto ‘testamento politico’
di De Gasperi. Fu ancora Michele a parlarne, qualche giorno dopo
l’improvvisa morte del grande statista al quale era legata la ricostruzione ita-
liana, e anche purtroppo la sciagurata unione doganale con la Francia: «C’è
nel ‘testamento’ un’analisi completa della nostra situazione. In sostanza per-
ché la maggioranza possa funzionare è indispensabile una modifica della co-
stituzione. Ma chi potrebbe ormai mettere insieme i due terzi dei voti necessa-
ri per modificare la costituzione?»

Ovviamente in quegli incontri non si parlava soltanto di politica. D’affari ad


ogni modo, e di lavoro, si aveva cura di non parlare; rimanevano i piccoli casi
della vita d’ogni giorno: verso questi le donne oppure Pino indirizzavano la
conversazione.
Pino era tornato da qualche mese dall’Inghilterra, dove aveva per un anno
fatta pratica medica specializzata. Al suo rientro si era, una delle prime sere,
presentato al padre nello studio di casa (era abitudine inveterata di Gerardo di
portarsi dall’ufficio qualche lavoro da sbrigare dopo cena) mostrando con ciò
di volergli parlare. Richiesto, a mo’ di prologo, in quale ramo esattamente si
fosse specializzato in Inghilterra, aveva risposto: «In malattie tropicali e
nell’uso della lingua inglese.»
«Malattie tropicali? E inglese? Perché? Pensi forse d’andare in Africa anche
tu, come tuo fratello Rodolfo?»
«Sì papà.»
«E non hai mai detto niente né a me né a tua madre?»
«Non mi fidavo della mia costanza.» (Il padre s’era ricordato del tempo in
cui Pino era sempre insicuro di sé, e usava dire: «Io sono un poveretto». Da
quella malattia l’aveva guarito la vita partigiana, soprattutto la fiducia riposta
in lui da quel comandante, come si chiamava? Beltrami, che ormai nessuno
ricordava più.) «Però adesso è arrivato il momento d’informarvene» aveva
detto Pino: «in conclusione avrete in Africa due figli missionari, uno frate e
l’altro medico. Sempre, beninteso, che io sia capace di resisterci, in Africa.»
Per completare la propria preparazione faceva ora pratica generica nel pic-
colo ospedale di Nomana (lo stesso in cui erano stati ricoverati Giustina e il
Tito Valli), e di là appunto egli riportava ogni tanto qualche notizia: «Oggi ab-
biamo ricoverato il tale... Abbiamo dimesso il tal altro...» In paese si conosce-
vano tutti.
Una sera riferì ch’era stato ricoverato il Foresto, tuttora capo dei comunisti
nomanesi; qualche giorno più tardi comunicò, turbato, che la sua diagnosi era
infausta: leucemia, cancro del sangue, un male a quel tempo senza rimedio. La
notizia riuscì ingrata a tutti, perché non si sarebbe potuto fare nulla, proprio
nulla, per quell’uomo che, sebbene avversario, era un prossimo anche lui. Il
Foresto volle sapere dal medico la verità tutt’intera: si trovò così, di colpo, di
fronte alla morte che gli stava arrivando addosso e già lo stava afferrando ine-
luttabile. Tutto ciò in cui aveva creduto, per cui aveva lavorato fino a quel
momento, non gli serviva più perché si riferiva a questa vita e non contempla-
va l’aldilà... Lo sventurato passò alcune settimane chiuso in un mutismo che
nessuno sapeva in cosa sarebbe sfociato; don Mario l’andava a trovare ogni
giorno e cercava d’interessarlo con un po’ di conversazione, attento sempre,
per non approfittare d’una simile tragedia, a non toccare argomenti religiosi.
L’ammalato non gli pose mai domande sull’aldilà, del resto non gli faceva do-
mande di nessun genere: lo lasciava parlare e basta; un giorno però, dopo
averlo alquanto considerato in silenzio, lo pregò di mandargli Luca: «Sempre
che lui abbia voglia di venirmi a trovare.» Così Luca, tuttora segretario della
Democrazia Cristiana, si recò, un po’ meravigliato, a far visita al capo comuni-
sta. Fu visto tornare in ospedale anche nei giorni seguenti, non riferiva agli
altri una sola parola dei suoi discorsi col Foresto, ma in pratica succedeva
questo: che il comunista - da anni chiuso a tutto ciò che non fosse politica -
stava provando ad accostarsi al fatto cristiano appunto percorrendo la via po-
litica. Volle anzitutto sapere come mai tanti democristiani del popolo fossero
disposti per l’aldilà a sacrificare il loro interesse terreno: «Questa m’è sempre
sembrata una bestialità grossa, però devo riconoscere che adesso non mi sem-
bra più.»
Luca, aiutandosi col proprio buon senso popolano, ma soprattutto con la
propria fede, ch’era autentica, argomentò pazientemente con lui, accompa-
gnandolo per quanto gli era possibile a brancicare tra i grandi perché: la vita,
la morte, il destino eterno. Infine propose all’altro di parlare anche con don
Mario: «Lui di queste cose ne sa infinitamente più di me, tanto che quand’ero
al fronte io per capire pensavo a quello che m’aveva insegnato lui.» Il Foresto
finì con l’accondiscendere.
A quell’uomo condannato a morte don Mario parlò soltanto di Cristo croce-
fisso; all’altro occorse del tempo per afferrare la realtà salvifica della croce, gli
ci vollero settimane di riflessione, infine vi aderì e chiese di confessarsi. Dopo
di che il nemico degli uomini, che non si dà mai per vinto, tornò alla carica più
volte, facendo anche della sua anima un campo di battaglia, così che il Foresto
dovette passare attraverso spossanti lotte spirituali; l’aiutava, come poteva,
Luca, l’aiutava don Mario, che ogni mattina gli portava la comunione, e una
sera dopo una grave crisi, a sua richiesta gl’impartì anche l’estrema unzione.
Pino riferiva in casa: «Mi sa che don Mario supplica ogni giorno il Signore
di portarselo via: ‘Prendilo adesso, mentre è conciliato con te, prenditelo subi-
to’.»
E un giorno il Signore se lo prese: tutti a Nomana quando suonò la campa-
na dell’agonia, sapevano che suonava per il Foresto, non più foresto (forestie-
ro) ormai. Anche il suo corpo venne portato nel camposanto del paese ad at-
tendere la resurrezione, in fila con tutti gli altri.

***
Finalmente arrivò per Pino il giorno della partenza. Era giulivo quel giorno,
nella sua aria tuttora disarmata di ragazzo, e per non darsi importanza faceva
ogni tanto la faccia di chi sta per combinare una marachella. Il fratello Rodol-
fo, cui i superiori avevano accordato un apposito permesso, lo accompagnò in
macchina all’aeroporto di Milano-Linate insieme con Ambrogio e Fortunato;
Rodolfo adesso vestiva da frate ed era prossimo ai voti: «Così mi hai tagliata la
strada, eh? In Africa arrivi prima tu.»
«Sono o no maggiore di te? Di anni magari, anche se non di criterio?»

CAPITOLO SEDICESIMO

A sua volta Rodolfo partì per l’Africa alla fine del 55. Aveva quasi ventitré
anni, si era fatto alto e magro e, nonostante il viso un po’ irregolare, veramen-
te un bel giovane: era lui il più bello dei figli di Gerardo. Insieme al senso di
responsabilità per la sua nuova condizione (“Sono sacerdote di Cristo, in eter-
no!”) gli si leggeva negli occhi una contenuta gioia: ecco, la Provvidenza gli
concedeva d’entrare - dopo anni di preparazione e penitenze, e dopo tanto che
lo desiderava - nel campo del Signore, operaio da lui inviato alla messe ster-
minata. Le cose della famiglia sembravano toccarlo meno (‘Nessuno, che dopo
aver posta mano all’aratro si volge indietro, è adatto al regno di Dio’), e tut-
tavia prima d’uscire di casa per salire sull’automobile che l’avrebbe portato
all’aeroporto di Milano-Linate, non poté a meno di schiudersi - per un mo-
mento - all’ansia dei suoi, soprattutto della madre. Gli sforzi continui per stare
vicina al marito e sostenerlo nella strenua lotta che durava da più di tre anni
(la quale, nonché cessare, pareva in seguito a una comunicazione ricevuta
proprio in quei giorni, sul punto di farsi ancora più drammatica) avevano im-
presso nella figura di Giulia tracce visibili. Tanto più visibili a lui, Rodolfo, che
non aveva di continuo la madre sotto gli occhi, ma la vedeva solo di tanto in
tanto: “Guarda la mamma com’è sciupata, povera donna: s’è come rattrappi-
ta...” Sul punto di partire prese dunque in disparte i genitori: «C’è una cosa di
cui sono convinto» disse loro: «ed è che questa penitenza, questo ‘bagnoma-
ria’ come dicevate prima a tavola, in cui il Signore da anni ci tiene - anzi vi tie-
ne - non è dovuta al caso.»
«Speriamo» non seppe trattenersi dal mormorare con un sospiro Gerardo.
(Aveva, poco prima, consegnato al figlio un piccolo fascio di banconote france-
si di grosso taglio, messe insieme con feroce sacrificio: «Agli altri ho fatto un
regalo quando si sono sposati, è dunque giusto che oggi lo faccia anche a te.
Con questi soldi - mi sono informato bene - tu non avrai impicci di dogana,
perché hanno corso legale nell’Africa equatoriale francese dove vai.» E avendo
il figlio cercato di ricusarli: «Ma no papà, perché? Non mi occorrono», «Ti
saranno molto utili invece, vedrai. Non fosse che per procurar da mangiare
alla povera gente di là. Il problema del pane quotidiano là dev’essere ancora
per tanti il problema numero uno.»)
Ora Rodolfo disse: «Sono convinto che questa grossa prova in cui il Signore
vi tiene è voluta da lui, a fin di bene. Vi impedirà, a tutti, di diventare ricchi,
come c’era effettivamente il pericolo.»
Il padre fu sul punto di protestare: “Ma lo sai che per creare un posto di la-
voro oggi occorrono intorno a cinque milioni? Se uno non mette insieme i ca-
pitali necessari, come può creare nuovi posti di lavoro? E noi industriali se
non diamo lavoro, cosa ci stiamo a fare al mondo?” questo, più o meno,
avrebbe voluto obiettare Gerardo. Ma non disse nulla; nelle parole del figlio
frate che gli si rivolgeva con autorità nuova, sentiva che c’era un fondo di veri-
tà: si tenne, davanti a lui, come fosse in chiesa davanti al confessore.
«Lo so bene» disse il giovane «che tu papà non hai mai agito per i soldi, e
che tutta la tua vita è stata un servizio. Questo l’ho davanti agli occhi da che
sono al mondo. Anzi se oggi vado dove vado, è appunto perché ho imparato la
tua lezione; per lo stesso motivo, credo, anche Pino è medico missionario in
Tanganica. Però il pericolo c’era: non per te, magari, ma un po’ per tutti noi
c’era, che prendessimo gusto alla ricchezza, che attaccassimo il cuore
all’abbondanza materiale. Ecco, vorrei che questo dato entrasse nel vostro
prospetto delle cose.» Si rivolse alla madre: «Mamma, se è così, non dobbia-
mo smangiarci, non dobbiamo angosciarci per la prova. Io volevo dirvi que-
sto, nient’altro.» Alzò molto commosso la giovane mano e li benedisse.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

A causare ai Riva la preoccupazione che la crisi della ditta fosse sul punto di
farsi ancora più drammatica, era stato un annuncio del Brusasca. Il vecchio
imprenditore li aveva improvvisamente avvertiti di non essere più in grado
‘comunque si mettano le cose’ di pagare le proprie cambiali mediante denaro.
Aveva perciò proposto loro di accettare in pagamento alcuni dei suoi stabili-
menti.
Poiché bisognava dargli una risposta, Gerardo e i suoi due figli maggiori si
riunirono, la sera stessa della partenza di Rodolfo, nello studio di casa. (Era il
medesimo locale in cui, allorché Ambrogio si preparava agli esami,
s’affacciava per gioco Colomba: «Ehi, pozzo di scienza...» Com’erano lontani
quei giorni! Adesso bisognava tenersi a galla, resistere, non lasciarsi distrarre
neppure dal ricordo.)
I due giovani Riva si ritrovarono molto presto, nell’esame della situazione,
agitati: «Perché il Brusasca ci ha tirato in lungo fino a oggi prima di offrirci le
sue fabbriche? Perché non ce le ha offerte quando non eravamo stremati fino a
questo punto?»
«Probabilmente perché» rispose Gerardo «sperava di non esservi costretto,
e comunque se ce le avesse offerte al principio, noi ci saremmo ben guardati d
Accettarle.»
«Se le prendiamo adesso, quanto tempo ci occorrerà per venderle? Mesi o
anni?»
«Questo nessuno lo può dire.»
«E nel frattempo? Lui non ci darà più cambiali sue da scontare.»
«Proprio così» disse, un po’ pallido in volto, Gerardo: «noi saremmo tenuti,
man mano scadono le sue, a sostituirle con cambiali nostre.»
«Dunque, se si arriva al protesto, sarà la nostra firma e non la sua ad essere
protestata?»
«Precisamente.»
«Ah no, è troppo comodo per lui.»
«Non ce la fa più, ha perduto troppo» osservò, tirandosi indietro sulla se-
dia, Fortunato. «Pensiamo alle cifre enormi che abbiamo perso noi: lui ha
perduto ancora di più.»
«Dopo tutto» fece notare Gerardo «coll’avvertirci, e col proporci questa
transazione, il Brusasca si dimostra ancora un galantuomo.»
«Ma come faremo noi a caricarci sulle spalle degli altri stabilimenti? Quanti
sarebbero?»
«Tre, secondo i suoi calcoli. Bisognerà fare bene le valutazioni.»
«Altri tre stabilimenti oltre ai nostri due? È chiaro che non abbiamo assolu-
tamente i soldi per farli funzionare, neanche per cominciare.»
«Questo è fuori discussione. E infatti gli stabilimenti lui s’impegna a darceli
chiusi: fermi e chiusi. Li sta già fermando del resto, perché non ha più i soldi
per farli funzionare; sapete anche voi che da tempo versa ai suoi operai soltan-
to acconti sulle paghe.»
«E così a chiudere stabilimenti ci si è arrivati comunque» fece notare For-
tunato, il quale aveva in quegli anni più d’una volta rimproverato al padre le
sue ‘fisime’ sociali, che rendevano tutto più difficile.
«Sì» convenne Gerardo. «Ci si è arrivati. Però dopo avere fatto anche
l’impossibile per non arrivarci.»
«Ecco la parola giusta» disse Ambrogio: «l’impossibile. Proprio così. E se
pensiamo che non è finita!»
«Già. Allora ragazzi, cosa si decide?»
«Supponi che rifiutiamo.»
«In questo caso ho paura che il Brusasca tra un po’ non sarà più in grado di
darci neppure gli stabilimenti.»
«Ah, che bella situazione!»
«Papà, se siamo a questo punto non c’è proprio niente da decidere: c’è solo
da pregar Dio che ce la mandi buona.»
Così, ancora una volta costretti dalla forza delle cose a fare ciò che non
avrebbero voluto, i Riva si presero in pagamento tre complessi industriali - di
cui uno solo situato in Lombardia - e subito cominciarono a darsi dattorno per
venderli. L’impresa, già tentata senza successo dal gruppo Brusasca, si rivelò
particolarmente difficile. Gerardo risolse allora di sollevare Fortunato da ogni
altro incarico, delegandolo a questo unico; il giovane ingegnere (pur essendo
all’atto pratico sollevato dalle sue abituali incombenze quasi soltanto
nell’intenzione paterna) si dedicò a questo compito con straordinario impegno
e insieme con un’abilità tale, che venne notata da più d’un imprenditore. Oc-
correva assolutamente ai Riva - per non fallire nella sostituzione delle cambia-
li Brusasca con le proprie - un minimo di liquido fresco: in pratica dovevano
vendere subito almeno un complesso. Fortunato ci riuscì (“Le preghiere della
mamma...” pensarono molti in famiglia, a cominciare da Gerardo): vendette
quello ubicato in Lombardia a un prezzo tutto sommato discreto.
Il vecchio Brusasca, come ne ebbe notizia e seppe dell’abilità con cui il gio-
vane aveva condotto la trattativa, fece una cosa insolita, chiamò personalmen-
te al telefono Gerardo: «Il futuro della sua ditta è assicurato da quel ragazzo»
gli disse: «mi congratulo con lei.» Era, lo si capiva dalla voce, contento anche
per sé stesso, per questa dimostrazione che gli ostacoli più angosciosi possono
pur venire superati.
Venduto il primo stabilimento, Fortunato si buttò a far la spola tra Piemon-
te e Liguria - dov’erano situati gli altri due - per tentare di vendere subito an-
che quelli; ma per quanto si desse da fare, non gli riuscì di ripetere l’exploit.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Pochi mesi dopo, all’inizio del 56, comparve sui giornali la notizia che l’ex
cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi era stato ricoverato in una clinica in
condizioni di salute gravissime. Da parecchio tempo a Nomana non lo si vede-
va più; anche i suoi amici Riva furono costretti a seguire le ultime fasi della
sua malattia sui giornali, perché i medici vietavano ogni visita. Don Carlo era
adesso conosciuto nell’Italia intera: c’erano suoi collegi per il recupero dei
bambini mutilati anche al centro e al sud, per l’inaugurazione d’uno dei quali
s’era addirittura scomodato il presidente della repubblica. (In tale circostanza
Fanny, ricordando che il discorso così bello e sincero, fatto alle sue nozze
dall’adesso celebre sacerdote era andato perduto, se n’era molto rammaricata.
Tutto per l’insipienza di Pino nel manovrare il registratore... Se n’era lamenta-
ta con Ambrogio: «Il tuo caro fratello! Quel giorno s’è comportato da vero par-
tigiano.» Ambrogio aveva sorriso: «Ti pare un discorso logico? Cosa c’entrano
i partigiani coi magnetofoni? E poi tu i partigiani non li hai sempre visti piut-
tosto di buon occhio?» «Oh, basta, falla finita, so io cosa dico.» Ogni tanto
Fanny, ribellandosi alla situazione che s’era creata con la crisi, aveva uscite
d’aspra insofferenza.)
Il 28 febbraio don Carlo capì d’essere alla fine: il cancro l’aveva fisicamente
consumato, da diverse ore il suo corpo scheletrico era, dallo stomaco in giù,
paralizzato, inerte. Volgeva ogni tanto gli occhi al Crocefisso che teneva sul
comodino, un Crocefisso donatogli da sua madre il giorno dell’ordinazione
sacerdotale, e pregavi in silenzio. Forse chiedeva a Dio d’abbreviare quelle ore
tremende; di tanto in tanto alzava a fatica una mano e se la passava sugli oc-
chi; entrò infine in agonia e cominciò a rantolare. Pochi minuti prima di mori-
re ritornò lucido, aprì gli occhi, con uno sforzo supremo afferrò il Crocefisso e
se lo pose sul petto. Chissà com’erano in attesa, di là, tutti gli alpini cui egli
aveva chiuso gli occhi sulla neve...
Per il funerale si formò a Milano un’enorme folla, comprendente anche
moltissimi ex alpini col cappello militare in testa, e centinaia di bambini muti-
lati; nel triste corteo gli alpini portavano sulle spalle i bambini mutilati, come
avevano già fatto in altre occasioni, con un gesto che a don Carlo era molto
piaciuto.

Mentre procedeva inglobato nella folla al fianco di Michele, Ambrogio reci-


tava mentalmente dei requiem, la preghiera dei morti; a tratti però se ne di-
straeva, chiedendosi perché Iddio avesse tolto dalla terra don Carlo mentr’era
così necessario e ancora giovane, di soli cinquantaquattro anni. Faceva il ra-
gionamento elementare che tanti fanno in circostanze analoghe: “I farabutti
che combinano guai, e gli inutili, Dio li lascia qui. Invece si porta via chi è ne-
cessario, chi potrebbe fare ancora tanto bene. Perché?” Più d’uno è da questa
constatazione indotto a pensare che Dio non si curi molto delle vicende uma-
ne, o addirittura che Dio non esista. Certo Ambrogio non era disposto a met-
tersi per un simile ordine d’idee, avrebbe però voluto rispondersi con efficacia.
Si volse a Michele e gli sottopose a mezza voce la questione. Michele, meno
legato a don Carlo, tra quel fluttuare di cappelli alpini stava in quel momento
pensando ai morti sepolti senza funerale, semplicemente gettati nelle fosse
comuni dei lager (anche quel giorno in Russia e in Cina quanti ve n’erano stati
gettati?); impiegò qualche istante per afferrare il problema postogli dal cogna-
to: «Perché Dio si porta via chi è necessario, chi fa il bene? È questo che ti
chiedi?»
«Sì. Mentre lascia qui i farabutti che fanno il male. C’è chi dubita della sua
esistenza per questo, lo sai?»
«Lo so. Ma proprio questo - direi - ci guida nella risposta: se Dio intervenis-
se in modo sistematico a colpire i mascalzoni, e a preservare i buoni, costrin-
gerebbe con ciò stesso gli uomini a fare il bene. Come dire che li priverebbe
della loro libertà.»
«Ah, capisco.»
«Certo che quando la morte porta via uno a cui siamo molto affezionati, al-
lora tutti i ragionamenti e la logica passano in secondo piano...»
«È vero. Lo sto sperimentando.»
«Ecco. Quello che noi non riusciamo a mandar giù è la morte dell’uomo: in-
tendo la morte in sé stessa» disse Michele. Aveva visto innumerevoli morti, e
seguitava a fare tale riflessione. «Il che ci ricorda che noi non eravamo desti-
nati a questo. Davanti a ogni singola morte lo avvertiamo di nuovo.»
«Stai pensando ancora, per caso, al... peccato originale?» Michele annuì.
«Che fissazione» sorrise Ambrogio.
“Senza di quello, non si spiega la storia in generale, e nemmeno la storia di
ogni singolo uomo” pensò Michele, ma non insisté.
Intanto don Carlo era morto: non l’avrebbero mai più sentito parlare di Dio
e degli alpini, non l’avrebbero più visto sorridere...
Davanti a questa sconfortante realtà tutti i ragionamenti passavano davvero
in secondo piano.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La crisi della ditta seguitò a trascinarsi e a incrudelire, anche perché s’era


prodotto, insieme con diversi altri guai minori, un grosso guaio nuovo: uno
dei clienti malsicuri, da cui i Riva avevano accettate commesse dapprima limi-
tate poi sempre più importanti allo scopo di non fermare i telai, aveva a un
tratto chiesto loro di intervenire alla scadenza delle proprie cambiali. Non si
trattava d’uno schietto galantuomo alla maniera del vecchio Brusasca, neppu-
re d’un filibustiere, bensì di un individuo furbastro che, sempre più spaventa-
to, non s’era fatto scrupolo, per portare avanti i suoi laboratori di confezioni,
di mentire, ricorrendo anche ad espedienti nel presentare la sua situazione
finanziaria ai fornitori. Specie a quelli che sapeva troppo impegnati per tener-
lo sotto controllo.
In realtà in quegli anni, mentre sorgevano sempre nuove industrie, non po-
che delle vecchie stavano entrando in crisi: la crisi appunto che Gerardo e i
suoi figli avevano temuto, e per far fronte alla quale avevano progettato di
rinnovare in tempo i loro macchinari. (È da dire che, nonostante le terribili
difficoltà, i Riva non avevano disatteso del tutto tale programma: specie per
iniziativa d’Ambrogio il quale, forzando letteralmente la mano al padre, in oc-
casione della vendita di alcuni degli immobili di Milano, aveva utilizzato una
minor parte dei ricavi per l’acquisto di telai nuovissimi, di tipo automatico:
«Si tratta anche qui di sopravvivenza, papà» aveva testardamente spiegato.)
Intanto per l’insolvenza del nuovo cliente si venne a formare un altro giro di
rinnovi sistematici, equivalente a circa un terzo di quello iniziale del Brusasca.
“Così siamo più in alto mare di prima, più in alto mare che mai” riflettevano
con amarezza i Riva “e il pagamento degli interessi di tutti questi giri di dena-
ro cade ormai per intero sulle nostre spalle. Il che basterebbe da solo a dissan-
guarci”.
Di lì a non molto un altro cliente - cliente della ditta da tempo immemora-
bile questo, e stimatissimo dai Riva e da tutti - venne a trovarsi nella medesi-
ma condizione di non poter pagare: a costui - che meno d’ogni altro l’avrebbe
meritato - i Riva si trovarono costretti a opporre un rifiuto quando furono ri-
chiesti d’intervenire.
Le sue cambiali (che in quel momento, fortunatamente per i Riva, non as-
sommavano a un importo elevato) andarono perciò in protesto. Il vecchio
cliente, a motivo anche di altri disguidi più gravi, cadde in uno stato di tale
prostrazione da arrivare nel giro d’alcuni mesi al suicidio. A Nomana si parlò
del fatto con sbigottimento, ma non per molto: non c’era tempo da dedicargli,
pareva veramente d’essere tornati in guerra.
Per i Riva il trattare con le banche era diventata un’autentica umiliazione:
se ne rendevano conto anche i dirigenti bancari, di cui alcuni - fidando soprat-
tutto, e lo dicevano chiaro, nell’integrità morale di Gerardo - cercavano di ade-
rire alle incessanti richieste di rinnovi senza opporre un numero eccessivo di
ma, di se e di però; altri invece si dichiararono ‘loro malgrado costretti’ a chie-
dere un rientro degli scoperti, il che veniva a rappresentare ogni volta per i
Riva un problema quasi tragico. Non mancò tuttavia un anziano e autorevole
direttore di filiale che, venuto a conoscenza del rientro chiesto da un’altra
banca, di propria iniziativa aumentò in proporzione alla ditta il castelletto di
sconto. Il che fu per i tre industriali motivo d’indicibile conforto, anche se non
bastava certo a risolvere i loro problemi.
In tale situazione un gruppo chimico milanese s’offerse d’acquistare lo sta-
bilimento sul Lambro: quello e non un altro, e solo l’immobile beninteso, per-
ché i telai e le altre macchine tessili non interessavano. Fu questo forse per
Gerardo il momento di maggior strazio: e non si sarebbe - malgrado
l’ossessionante bisogno di denaro - risolto a vendere, se nella trattativa non gli
fosse subentrato con decisione Fortunato, che concluse la vendita e mise pra-
ticamente il padre davanti al fatto compiuto; Gerardo si limitò ad apporre le
firme.
Dopo di che si dovettero licenziare tutti gli operai occupati nello stabilimen-
to, i quali erano sì nel corso degli anni diminuiti di numero (in quanto non
pochi avevano trovato posto nelle fabbriche nuove, specie nella vetreria di
Nomana, che seguitava a crescere a dismisura): ne rimanevano però ancora
circa duecento, che restarono disoccupati.
Immediatamente i comunisti intervennero, adoperandosi nel fare il mag-
gior chiasso possibile. Dichiararono ‘occupata’ la fabbrica, e addirittura un
loro deputato vi entrò per un ‘sopralluogo’, seguito da un codazzo di gente sua.
Dei dipendenti della ditta lo accompagnò unicamente il capo tecnico (cioè il
più anziano tra i vari autodidatti preposti da Gerardo ai compiti essenziali) il
quale intendeva - come spiegò poi - fare un tentativo per convincere il deputa-
to a promuovere un finanziamento statale alla ditta. Il deputato (un villanello
rimesso a nuovo, in quest’occasione glorioso - lo si vedeva bene - di non avere
ormai, per il resto dei propri giorni, problemi economici) eseguì coi suoi un
giro tra le file dei telai malinconicamente fermi, esprimendo di continuo al
capo tecnico (ad alta voce, per farsi sentire da tutti) la propria ‘somma mera-
viglia’ per la ‘vetustà’ dei macchinari. «Dove li hanno spesi i loro soldi questi
capitalisti? A Saint Moritz o al casinò? Perché non hanno comprato macchine
nuove invece?» Il capo tecnico comprese che ogni tentativo per aiutare la ditta
sarebbe stato vano; lo seguì fino al termine del giro senza parlare.
I comunisti ripeterono sulla loro stampa quegli interrogativi: «Dove li han-
no messi i loro soldi questi capitalisti? Perché non li hanno investiti in mac-
chinari nuovi?» e propalarono con ogni mezzo la notizia che la polizia sarebbe
presto intervenuta per espellere ‘a manganellate’ dalla fabbrica gli operai ‘oc-
cupanti’: si sforzarono insomma con accanimento di creare disordini. La poli-
zia però non intervenne, oltre tutto gli operai - malgrado i cartelli affissi
all’esterno della fabbrica - non la occupavano affatto; preferivano attendere
che Gerardo mantenesse una sua promessa: che si sarebbe adoperato per con-
vincere i nuovi imprenditori ad assumerli.

Un mattino sui muri di Nomana apparvero grandi scritte in calce: ‘Riva, pa-
ga gli operai, non la polizia’, tra disegni di forche. Tutti in paese sapevano che
i Riva avevano pagato i salari fino all’ultima lira, e che la polizia non era affat-
to intervenuta; ciononostante per Gerardo vedere il proprio nome additato
all’abominio sui muri, e sperimentare su di sé l’odio usato come strumento di
potere da questi anticristi di provincia, fu causa d’indicibile pena.
In seguito gran parte degli operai licenziati venne effettivamente assunta
dal gruppo chimico; a casa restarono i più anziani, che furono poi, sia pure
con molta lentezza, quasi tutti riassorbiti dalla fabbrica di Nomana.

CAPITOLO VENTESIMO

La crisi della ditta, iniziata come abbiamo detto nel 52, ebbe termine solo
nel 58, allorché i Riva riuscirono a vendere - a pochi mesi di distanza uno
dall’altro - i residui due stabilimenti avuti in pagamento dal Brusasca tre anni
prima. Nel frattempo l’altro cliente insolvente era fallito, e i Riva avevano do-
vuto pagare anche tutte le cambiali ricevute da lui e girate a terzi.
Dopo che col ricavo dell’ultimo stabilimento Brusasca essi ebbero ritirata
l’ultima cambiale, e rimborsati i prestiti ricevuti da parenti (dallo zio Ettore e
dai Marsavi in particolare) e da amici, si ritrovarono economicamente strema-
ti, senza più uno solo degli immobili di Milano e di Monza, ma con lo stabili-
mento di Nomana ancora in funzione. «Dunque siamo vivi e in piedi, e con
intatta la voglia di lavorare» ripeteva ai suoi figli Gerardo, pover’uomo, che
aveva ormai passato i settant’anni.
In realtà occorsero ai Riva altri anni ancora per tornare al pieno equilibrio e
a un ritmo di produzione normale: a questo fine ciò che più li aiutò fu il rinno-
vo parziale del macchinario della fabbrica, attuato testardamente da Ambro-
gio nel periodo delle difficoltà. Intanto Fortunato - che da tempo s’era sposato
e abitava a Milano donde gli era più facile tenere i contatti con clienti e forni-
tori - era giunto ad averne abbastanza di fare l’industriale. Al padre per il
momento non ne faceva parola, ma al fratello ripeteva: «È una vita dannata,
come non te ne rendi conto? La crisi della nostra ditta l’hanno causata i fran-
cesi, ha avuto origine politica, d’accordo. Però è un fatto che praticamente tut-
te le industrie - dico tutte senza eccezione - si ritrovano ogni po’ di anni - di-
ciamo ogni venti o trentanni - in grave rischio di fallire.»
«Per i Marsavi non è stato così, finora.»
«Hanno visto anche loro i sorci verdi al tempo della crisi mondiale del 29, e
poi nel 44. Del resto aspettiamo un altro po’ di anni e vedremo.»
«Nel 44 è stato a causa della guerra, perché non trovavano materia prima.»
«Per un motivo o per l’altro, intanto è successo. E poi, ti ripeto, lasciamo
passare ancora un po’ di anni e vedremo.»
Dubitare in quei giorni della sorte dei Marsavi pareva insensato: non solo
essi avevano dalla fine della guerra raddoppiata la loro industria, ma affron-
tando risolutamente il problema della scarsità d’abitazioni operaie, divenuto
in Brianza tormentoso, avevano appena terminato di costruire per i loro di-
pendenti un quartiere di moderni condomini a riscatto (proprio così, un quar-
tiere, che copriva il versante d’una collina) e stavano per dare inizio alla co-
struzione d’un secondo quartiere, sempre ai margini di Visate.
«E il rischio periodico di fallire, di perdere tutto, non è l’unico
bell’inconveniente» continuava Fortunato: «C’è anche quell’altro fatto non
meno gradevole, d’essere in compenso considerati degli sfruttatori, quasi dei
ladri di professione.»
«Non dalla nostra gente di Nomana però, né della Brianza in genere.»
«Cos’è la Brianza? Un fazzoletto di terra. Non arriviamo a un milione di
persone su cinquanta in Italia. No Ambrogio. Guarda anche alla televisione,
con tutto che è governativa: come ci considerano noi industriali? Ci sopporta-
no perché in qualche modo necessari, però danno per scontato che siamo degli
sfruttatori, e sembra facciano fatica a non sghignazzare ogni volta che ci no-
minano.»
«Sì. Ma se noi ci tiriamo indietro, se gettiamo la spugna, la diamo vinta a
simili cialtroni. E in conclusione ai marxisti che li manovrano.»
In effetti questo mezzo nuovissimo, la televisione, che aveva cominciato a
diffondersi in Italia nel 1953, col passare degli anni andava dimostrandosi
sempre più influenzato dai marxisti e pro marxisti. Per non scontentare i qua-
li, i cristiani pur presenti nell’ente, da tempo ormai non facevano più il discor-
so loro proprio, limitandosi a un discorso di compromesso che gradualmente
si andava per così dire istituzionalizzando. (Con viva preoccupazione dello
scrittore Michele Tintori, il quale afferrava bene l’enorme influsso del nuovo
mezzo sul pubblico: «Ha più effetto dei giornali e di tutta quanta la stampa nel
suo insieme» asseriva: «Finirà per forza con l’influenzare le generazioni che
vengono su. Alle quali è gravissimo che non venga proposto - come sarebbe
giusto aspettarsi - il modello italiano che s’è dimostrato più valido alla prova
della guerra: quello alpino per intenderci, o se vogliamo quello popolare cri-
stiano. La televisione invece, lo vedete, finisce col proporre di continuo, alme-
no implicitamente, il modello del progressista, del rivoluzionario potenziale, e
al più, durante le trasmissioni di svago, sottopone agli spettatori quello roma-
nesco dello scroccone, che è uno dei nostri modelli umani peggiori. Ci fate ca-
so che il linguaggio ‘disimpegnato’ in Italia sta diventando sempre più roma-
nesco?»)
Fino allora, nonostante le messe in guardia di Michele, i Riva presi
com’erano dalla lotta per la sopravvivenza, non avevano avuto il tempo di
rendersene conto. E adesso che - usciti dall’incubo della crisi, affiorati final-
mente dal pozzo buio - cominciavano a guardarsi intorno, non lo afferravano
bene.
Vedevano il tenore di vita degli italiani sensibilmente migliorato proprio
grazie all’espansione delle industrie, mentre la minaccia rossa non accennava
per questo a diminuire, anzi. È che la presenza nel corpo della nazione di un
così enorme ed organizzato partito comunista s’andava inevitabilmente facen-
do sempre più sentire. Tale era l’impegno dei suoi adepti, che l’ideologia mar-
xista era riuscita a non perdere il proprio fascino neppure dopo il rovescia-
mento del ‘culto’ di Stalin nel 56, e le connesse sconvolgenti rivelazioni fatte
dagli stessi capi russi sulle smisurate stragi susseguitesi in quel paese. Il com-
pito d’approfondire, di diffondere, di far debitamente recepire quelle notizie,
sarebbe spettato soprattutto ai cristiani operanti alla televisione, ma costoro,
tenuti in permanenza sotto il ricatto della qualifica di fascisti dal potentissimo
apparato politico-culturale comunista, e insieme sollecitati senza posa a dar
prova d’essere antifascisti come al tempo mitico della ‘Resistenza’, conclude-
vano - per quieto vivere - col non lasciar trascorrere si può dire giorno senza
richiamare - monotoni come burattini - l’attenzione generale sui passati cri-
mini nazisti e fascisti. In tal modo - com’era nell’intendimento dei burattinai -
l’attenzione generale finiva con l’essere puntualmente stornata dagli ancor più
colossali crimini comunisti. L’orrore sempre rinnovato per l’indubbiamente
nefando sterminio di sei milioni d’ebrei (ad opera dei nazisti, da anni ormai
scomparsi dalla scena) aveva conseguito lo scopo d’annebbiare le rivelazioni
sullo sterminio di circa venti milioni di contadini piccoli proprietari ad opera
dei comunisti. E riusciva giorno dopo giorno ad occultare i massacri - ancora
più sterminati di quelli russi - che in quel tempo si susseguivano in Cina.
Va inoltre detto che gli intellettuali ‘laici’ (i quali, pur non essendo comuni-
sti, finiscono anch’essi col porre come obiettivo dell’uomo la sua felicità sulla
terra) col passare del tempo andavano in numero crescente scoprendo la pro-
pria affinità ideale coi comunisti. Meglio ancora: s’andavano rendendo conto
che, per il fatto d’essere i più a sinistra fra tutti i materialisti, i comunisti era-
no anche - almeno nelle intenzioni - i più coerenti. Ciò andava condizionando
in modo crescente il campo laico, e incideva in particolare sui giornali, i quali
da sempre sono in Italia in mano ai laici.
In un simile contesto continuavano - sempre più isolati per il mancato so-
stegno dei mezzi della comunicazione sociale - i tenaci, mirabili insegnamenti
di papa Pio XII, che durarono fino al giorno della sua morte. Perciò i marxisti
e i laicisti d’ogni tipo si scagliavano ormai sopra tutto contro di lui. Così anche
il Vangelo continuava: il tempo degli osanna al papa era finito da un pezzo, ed
era sopravvenuto quello dei ‘crucifige’, in una marea di vociferazioni e di ca-
lunnie crescenti e sempre più insensate, di fronte alle quali i suoi finirono col
lasciarlo talmente solo che una sera, mentr’egli giaceva malato e pieno di
sconforto, Cristo gli apparve per confortarlo. (In relazione a questo episodio
possiamo dire che il Vangelo continua ancor oggi, a ventanni di distanza: gli
stessi cristiani infatti che allora, durante l’agonia di sangue di papa Pio hanno
dormito nell’ignavia, non amano che ora si parli di quel miracolo. Intorno al
quale ha finito col crearsi una sorta di congiura del silenzio, interrotta solo, di
tanto in tanto, da qualche miscredente che lo ricorda per sghignazzarne.)
PARTE QUINTA

CAPITOLO PRIMO

Un altro stacco di anni, ma non di vita. Michele - che non aveva neppure
tentato d’inserirsi nella televisione (pensava con ragione che i democristiani
responsabili, per non guastarsi coi rossi, non avrebbero mai accettato uno
come lui) - aveva terminata una nuova opera, una tragedia. Sottopostala per
l’eventuale pubblicazione al suo editore, ne aveva in attesa della risposta fatte
tirare un centinaio di copie al ciclostile, e le andava inviando a uomini di tea-
tro. Con la prima di tali copie sotto braccio si era recato all’università cattolica
per consegnarla personalmente a Mario Apollonio; non senza batticuore:
Apollonio era allora ritenuto, anche fuori degli ambienti cattolici, il maggiore
dei critici (oltreché storici) italiani del teatro, e il suo giudizio sarebbe stato
per il neo drammaturgo in ogni caso determinante.
L’illustre docente aveva accolto con un benevolo sorriso il fascicolo (intorno
a lui, appena uscito da un’aula, gli studenti stavano sfollando, e molti lancia-
vano occhiate di curiosità a Michele, non più giovanissimo, sulla quarantina
ormai): «Leggerò la sua opera con immenso interesse» aveva dichiarato. Poi-
ché doveva raggiungere un seminario interno, lo scrittore gli s’era messo al
fianco, accompagnandolo passo passo: «Lei non ha voluto spezzettarmi le tec-
niche del teatro» s’era permesso di dirgli in tono amichevole: «non ha voluto
insegnarmele, discorrendone a fondo con me, come io le avevo chiesto. Lo sa
che questo m’ha obbligato a una fatica tremenda?»
«D’individuazione personale nel corso del lavoro, oppure di ricerca sui ma-
nuali? Voglio dire: quelle tecniche lei le è andate a cercare in studi o testi, o le
ha messe insieme da sé?»
«Me le sono inventate nel corso del lavoro, si capisce, come lei m’aveva con-
sigliato. Che impresa però! Non avrei mai creduto che lo scrivere per la rap-
presentazione fosse tanto diverso dallo scrivere per la lettura. È enormemente
diverso, tutt’un’altra cosa.»
Apollonio annuiva: «Un autore originale come lei, modi e tecniche se li deve
appunto inventare, in questo non ha scampo» affermò. «Toccherà poi a noi,
che spezziamo il pane della conoscenza al pubblico, studiarli e farli conosce-
re.»
Era ancora una volta un grande riconoscimento. Michele, per ringraziarlo,
non aveva saputo far altro che sorridere timidamente (in queste cose era ri-
masto un ragazzo). «Intanto» aveva osservato «invece dei cinque o sei mesi
canonici, per scrivere questa tragedia me ne sono occorsi... beh, molti di più.»
«Questo» aveva detto Apollonio «mi fa venire ancora più voglia di leggerla.
Lo farò con l’interesse che lei può immaginare. Poi le telefonerò.»

***
Non fu lui a telefonare, ma sua moglie, qualche giorno dopo.
All’apparecchio le rispose Alma, che ne riconobbe la voce essendo stata più
d’una volta con Michele in visita dal professore. «Cercavo proprio lei signora»
le disse la Apollonio: «Volevo comunicarle che in vita mia non ho mai visto
mio marito così emozionato durante la lettura di un’opera. Mai l’ho visto così.
Dice che è un capolavoro, un lavoro straordinario. Sono felice per lei, mi cre-
da, felice.»
Come quattordici anni innanzi - al tempo della pubblicazione del primo li-
bro di Michele (le opere successive avevano incontrato un’accoglienza sempre
più ostile, per il graduale prevalere del marxismo e promarxismo negli am-
bienti culturali) - ad Alma sembrava di toccare il cielo col dito. Ringraziò, nel
suo solito modo compito, da quella statuina di marmo ch’era rimasta, la si-
gnora Apollonio, quindi corse nello studio a comunicare la grande notizia al
marito: «Sai chi ha telefonato adesso? La moglie d’Apollonio. E sai cos’ha det-
to? Che non ha mai visto - mai - suo marito così emozionato durante la lettura
di un’opera, come adesso che sta leggendo la tua. E... insomma che la tua tra-
gedia è un capolavoro.»
Michele s’illuminò in volto, “Forse ci siamo” pensò, “forse è finalmente arri-
vato il mio momento. Stavolta entro in lizza anch’io e...” «Dimmi cosa t’ha
detto esattamente» chiese alla moglie. «Ripetimelo, su.»
«Ha detto che secondo Apollonio è un lavoro straordinario, un vero capola-
voro.»
«Ah, così.»
Alma era tuttora molto attraente, lo era senza dubbio in questo momento,
arrossata in viso per la grande emozione che le vibrava dentro e tuttavia, al
solito, pareva non riuscisse a venire in superficie.
«Sei tu il capolavoro» disse il marito. Scostò alquanto la poltrona dal tavolo
a cui stava lavorando, e: «Vieni qui». Sì prese la statuina sulle ginocchia:
«Raccontami bene come stanno le cose».
«Ma io t’ho già detto tutto» e lo baciò.
«Sì, infatti, è una buona notizia. Fammi riflettere...» Si abbracciarono, e ba-
ciarono ripetutamente, come due ragazzi invasi dalla felicità.
«Un momento» fece lui: «La signora ti ha detto se è stato Apollonio a inca-
ricarla di telefonare?»
«No, non l’ha detto. Io ho l’impressione che mi abbia telefonato di sua ini-
ziativa per... amicizia. Non hai idea di quant’era contenta.»
«È una gran donna. Del resto questo l’abbiamo già constatato altre volte,
no? Beh, vuol dire che domani o dopo si farà vivo anche Apollonio.»
«Sì. Oh, Michele mio!» Almina poggiò la fronte contro la gota del marito, ve
la premette: «Che incanto essere tua moglie.»
«Anche se magari» disse lui «occasioni per essere fiera di me, come questa,
te ne do piuttosto di raro.»
«Ma va!» In realtà pensava: “È che tu, nelle cose pratiche, vuoi fare a ogni
costo di testa tua. Come quando non hai voluto nemmeno mostrare all’editore
la lettera di Croce, perché dicevi che i cattolici non devono farsi sostenere da-
gli altri, non devono ‘consegnarsi’ agli altri, ma devono bastare a sé stessi...” Si
astenne comunque dal dirlo, gattino di marmo come sempre.
«Beh, meglio una volta ogni tanto che mai» concluse lui.
Le effusioni dopo dieci anni di matrimonio non erano infrequenti tra loro.
Quando svegliandosi al mattino scorgeva accanto a sé la moglie addormenta-
ta, Michele se ne sorprendeva sempre, come d’un incredibile dono di Dio, e la
esaminava con emozione nell’incerta luce; a volte ne esplorava delicatamente
con una mano i lineamenti del viso (gli pareva di sentirne la perfezione di sta-
tua sotto le dita), il collo gentile, una spalla, il seno. “Non è un sogno, non è
affatto un sogno, è vera... Ed è qui, è veramente qui con me!” si diceva. Gli ca-
pitava di mettersi improvvisamente a baciarla con furia: «Sei qui, Alma, sei
qui con me!»
«Ma... cosa ti piglia? Per forza... io sono tua moglie» biascicava lei sveglian-
dosi frastornata. «Cosa t’aspettavi? Di non trovarmi più?» Poi, svegliatasi me-
glio, corrispondeva con trasporto alle sue effusioni, perché erano tuttora ‘cotti’
uno dell’altro. E sì che già in quei primi dieci anni in comune la vita non aveva
risparmiato loro le prove: pur desiderandoli, non avevano avuto figli, e aveva-
no dovuto assistere, senza poter fare niente, alla tragica lotta per la sopravvi-
venza economica dei parenti di Alma, che ormai erano anche gli unici parenti
di Michele. Inoltre, sebbene il modo di scrivere di questi fosse arrivato a in-
fluenzare altri narratori e anche giornalisti di successo, il suo nome non si era
affatto affermato nell’olimpo letterario. Nessuno infatti riconosceva formal-
mente quell’incidenza a lui, che seguitava a lavorare isolato e poco conosciuto,
guardandosi dal rivendicare alcunché.

Il professor Apollonio lo chiamò al telefono di lì a qualche giorno: non si li-


mitò a ripetere il giudizio anticipato dalla moglie, ma affermò che un’opera
come quella doveva essere rappresentata al più presto. Suggerì a Michele
d’inviarne subito copia ad alcuni uomini di teatro, ai quali egli avrebbe in pari
tempo scritto. «Peccato» si lasciò sfuggire «che ormai non possiamo rivolgerci
ai miei amici Grassi e Strehler.»
«Come mai?»
«Beh, adesso io non faccio più parte della direzione del Piccolo Teatro.»
Apollonio ridacchiò garbato: «Mi hanno sostituito ‘per avvicendamento’, capi-
sce?»
No, Michele non afferrava bene il sarcasmo di quella frase. Non fece tutta-
via domande.

CAPITOLO SECONDO

Passarono alcuni mesi. Un po’ alla volta Michele si andò rendendo conto
che se la sua opera fosse stata apolitica, non avrebbe incontrato difficoltà a
essere rappresentata, anzi data la scarsità di testi nuovi, sarebbe stata per il
suo indubbio valore drammatico accolta a braccia aperte. Ma si trattava di tea-
tro politico... (In effetti la tragedia, ambientata con realismo in Russia tra i
protagonisti delle enormi vicende di quel paese, rendeva in modo vigoroso e
insieme straziante l’impossibilità di cambiare con mezzi materialistici la co-
scienza e la natura dell’uomo, e dunque - né più né meno - l’impossibilità di
costruire il comunismo; si trattava senza dubbio di teatro politico.)
A chi glielo faceva osservare, egli obiettava: «Si trova o no oggi la politica al
centro delle passioni della gente? Dunque oggi il teatro non può evitare
d’essere, in maggiore o minor misura, politico. Così come quello medievale
non poteva evitare d’essere religioso, e quello greco mitico.» Non mancava di
portare solidi esempi a sostegno: «Guardate Brecht, il successo straordinario
che sta avendo in Germania e un po’ dappertutto Brecht. Nessun autore
drammatico è oggi sulla cresta dell’onda quanto lui: ditemi, s’è mai visto un
teatro più politico del suo?»
«Sì, questo è vero. Ma...»
Il ma non glielo dicevano, era tuttavia evidente: «Ma Brecht è marxista, si
trova cioè dalla parte verso cui si sta spostando, con molti altri settori della
cultura, l’intero ambiente dei critici, dei cronisti, e degli impresari teatrali.
Non te ne rendi conto? Brecht è addirittura il vate del marxismo.»
Michele, com’è ovvio, intuiva tale obiezione. “Brecht è soprattutto un pove-
ro disgraziato” si limitava a rispondere mentalmente: “Per conservarsi comu-
nista ha sopportato senza difenderla con una sola parola che la sua amante, la
Carola Neher, fosse deportata nei lager di Stalin. Dov’è morta chissà in che
condizioni, e dopo chissà quali sporchi ‘trattamenti’ da parte dei cechisti. E
pensare che finora è stata la miglior protagonista dell’ ‘Opera da tre soldi’. Co-
sa proverà adesso Brecht quando gli capita d’assistere alla sua ‘Opera’? Si sen-
tirà debitamente un verme, o è ormai a tal punto cerebroinvertito, da non pro-
vare alcuna emozione?”
Una sera si decise a esporre le proprie perplessità ad Apollonio, dopo averlo
chiamato al telefono per sentire se qualcuno si fosse fatto vivo con proposte
concrete.
«Io non credo che le cose siano deteriorate fino a questo punto, che i marxi-
sti la facciano a tal punto da padroni» gli rispose un po’ incerto il professore. E
dopo qualche istante di riflessione: «Senta Tintori: nei prossimi giorni sarà
qui a Milano il regista De Ponti, che la settimana ventura ha la compagnia in
scena al teatro Goldoni. Quello è d’estrazione cattolica, e quindi... Facciamo
così: io gli telefono e vedo di fissare un incontro. Lo andremo a trovare insie-
me.»

***
Il teatro Goldoni - uno dei maggiori della città - è ubicato non lontano dal
duomo; il professore e Michele vi si diressero a piedi, partendo appunto da
piazza del duomo dove s’erano dati appuntamento (sotto l’arcata di mezzo del
portico settentrionale: qui - a farlo apposta - era esposto il nuovissimo reper-
torio del Piccolo Teatro del comune di Milano diretto da Grassi e Strehler: si
trattava di tutte o quasi opere di Brecht, d’accesa propaganda marxista; i due
avevano finto di non vederlo).
Una volta usciti dalla piazza passarono davanti a una trattoria che Michele
conosceva per avervi subito dopo la guerra pranzato più volte con John Burns,
a quel tempo giovane speranza della letteratura americana, adesso già spieta-
tamente dimenticato. Lo scrittore avrebbe voluto ricordare Burns ad Apollo-
nio, ma ne fu impedito dal fatto che questi lo veniva ragguagliando sul regista
col quale stavano per incontrarsi: «È figlio dell’ex senatore De Ponti, che è
uomo oltretutto molto facoltoso» Apollonio strofinò il pollice e l’indice della
mano, «miliardario. Ed è anche nipote del ministro Tiziano.»
«Ah, questo non lo sapevo.»
«Si tratta di due personalità importanti della Democrazia Cristiana come
vede, specialmente il secondo. De Ponti - parlo del regista - ha press’a poco
l’età che ha lei Tintori. Se è già potuto arrivare dov’è arrivato, non lo deve sol-
tanto ai propri meriti di regista (che pure sono notevoli, gliel’assicuro) ma an-
che al fatto d’avere quei parenti, cioè in conclusione al partito. Ora uno che dal
partito cristiano ha ricevuto tanto, non può assolutamente essersi intruppato
coi marxisti. Le pare? Sarebbe un comportamento da... addirittura da...»
«Eh!» convenne Michele.
«Ecco, noi non dobbiamo nemmeno pensarlo, sarebbe un pensar male del
nostro prossimo» disse Apollonio. «Io anzi sono convinto che oggi De Ponti
non si lascerà sfuggire l’occasione per dimostrare che la fiducia riposta in lui è
ben riposta. Vedrà.» Apollonio si aspettava con evidenza dagli altri un com-
portamento analogo al proprio; Michele - altrettanto sprovveduto - fu
d’accordo senza difficoltà.
Entrarono nel grosso immobile del teatro Goldoni per un ingresso minore;
erano attesi e vennero accompagnati dietro il palcoscenico, in un locale am-
mobiliato con mobili scompagnati e di fortuna; Michele si guardava intorno
con vivo interesse: “È la mia prima entrata nei sacri penetrali del teatro” si
diceva, cominciando a gustare la piccola vicenda.
De Ponti li raggiunse subito: vestiva in modo finto-trasandato, con maglio-
ne a girocollo e giacca a spacchi, aveva la fronte alta, da intellettuale, in una
mano teneva il copione di Michele fattogli recapitare da Apollonio.
«Caro professore. Non immagina quanto la veda volontieri. Come sta? Co-
me sta?»
E dopo che si furono seduti tutt’e tre, sempre rivolgendosi ad Apollonio:
«L’ho molto ammirata, sa? Dico per quella strigliata nell’ultimo numero di
‘Drammaturgia’ ai finti tonti del Ministero. Un discorso magistrale: lei gli leva,
con garbo, la pelle di dosso.»
«Oh» fece Apollonio sorridendo «sono svagatezze, nugae...» Andarono
avanti così a scherzare per un po’; quindi De Ponti, alzando il copione della
tragedia: «Ma veniamo al punto, al motivo del nostro incontro» fece; e quasi
senza mutare tono: «Purtroppo devo subito dire che questo lavoro io non lo
posso inserire nel mio programma, perché per quest’anno e anche per tutto
l’anno venturo mi trovo così.» Tagliò con la mano l’aria sopra la propria testa,
a significare: mi trovo sommerso. «Il mio programma è già completo, e stipato
anche.»
La cosa non sembrava verosimile; i due visitatori lo guardarono interdetti.
“Ecco, siamo alle solite” pensò Michele.
«Ma questa è un’opera obiettivamente importante» disse Apollonio a mezza
voce: «Uno che sta sulla breccia come lei, non dovrebbe lasciarsela sfuggire.»
«Non ne dubito» rispose l’altro. «Poiché lo dice lei» (“Prendi nota” afferrò
Michele: “poiché lo dice lei”) «non dubito che sia importante. Ma cosa posso
fare? Il mio piano di lavoro è già completo le dico. Per due anni. Non posso
introdurre dell’altro.»
A queste parole tenne dietro un breve silenzio.
«Mi scusi» fece a un tratto Michele, che fino a quel momento non aveva
quasi parlato: «Posso chiederle se il copione lei lo ha letto?»
«Se l’ho letto? Si capisce che l’ho letto. Eh, credo bene.»
«E come lo giudica?»
«A me lo chiede? Ma se abbiamo qui il nostro maestro? Non esiste un giu-
dizio più autorevole del suo.»
“Non si vuol sbilanciare nemmeno con un giudizio verbale” realizzò di nuo-
vo Michele, e guardò Apollonio tentennando la testa, come a dire: è inutile che
perdiamo il nostro tempo.
De Ponti afferrò quell’occhiata e se ne risentì; la fronte e gli zigomi gli
s’arrossarono un poco. «Senta signor mio» disse a Michele: «lo sa lei che io ho
partecipato alla resistenza?»
«Alla resistenza?» rispose Michele «E cosa c’entra?»
«Ah, le sembra niente questo?»
S’intromise prontamente Apollonio, che provvide a smorzare sul nascere la
schermaglia: «Sa, anche Tintori ha molto sofferto per la guerra: è uno dei po-
chi sopravvissuti ai campi russi di prigionia, che in realtà furono spesso di
sterminio, come sappiamo appunto grazie a lui.» Sorrise invitando alla disten-
sione poi, con cortesia, mostrò d’interessarsi all’affermazione del regista:
«Dunque lei ha partecipato alla resistenza? L’ho letto da qualche parte infatti.
Dove ha operato che non ricordo?»
«A Urbino.»
«A Urbino?»
«Sì, all’università. Certo» continuò De Ponti con aria risentita «non s’è trat-
tato d’uno dei maggiori episodi della resistenza nazionale. Non dico questo.
Quella d’Urbino in fin dei conti è soltanto una piccola università. Però qualco-
sa» ribadì teso «abbiamo fatto anche là. Altroché.»
Apollonio annuì ripetutamente, invitando con ciò l’altro ad andare avanti.
Gli occhi di Michele - che in quel momento era tentato per reazione di manda-
re a quel paese, e senza ritorno, tutta quanta la ‘resistenza’ - si fermarono sulla
cicatrice d’una frattura ossea che il professore aveva in fronte. Di quella cica-
trice solo pochissimi conoscevano l’origine: gliel’aveva provocata una SS col
calcio ferrato del fucile un giorno che Apollonio - visti in sosta in una piazzetta
di Milano alcuni autocarri carichi di deportati - dopo essersi precipitato a
comperare per loro, in mancanza di meglio, della frutta in un negozio, aveva
cercato di passargliela. Era stato raccolto da terra privo di sensi, con la testa
insanguinata. Per lui la resistenza al nazismo era stata qualcosa di sofferto e
autentico - pensò Michele - proprio per questo non ne parlava mai, e tanto
meno a vanvera.
Risolse a un tratto di non lasciar perdere, e interrompendo il discorso già
un po’ meno risentito di De Ponti: «Senta» gli disse «ho l’impressione che ci
sia un malinteso. Lei ha parlato di resistenza; perché - io mi chiedo - lei s’è
opposto al nazismo? Per gli errori su cui sì fondava, immagino, e per le sue
prepotenze, e sopra tutto per le vittime che faceva. In questo io sono toto cor-
de con lei. Però anche nel comunismo ci sono errori che comportano conse-
guenze molto tragiche. E infatti quanto alle vittime il comunismo ne ha fatte
senza confronto di più, e poiché non è scomparso come il nazismo, di ecatom-
bi ne sta provocando anche oggi, anche adesso: in Cina come lei sa. Dunque,
proprio a motivo del suo spirito resistenziale, lei dovrebbe essere d’accordo
con me in questo: che il fenomeno comunista va quanto meno indagato. Il
processo allo stalinismo non lo possiamo lasciar fare ai soli stalinisti, le pare?
Ora la mia tragedia intende appunto...»
Il regista, che l’aveva ascoltato diventando sempre più rosso in viso, lo in-
terruppe in modo quasi isterico: «No, signor mio. No. No. Io ho fatto la resi-
stenza» ripeté alzando addirittura la voce. «La vuol capire? E lei non può ob-
bligarmi ad agire come se non l’avessi fatta.»
Michele cessò d’argomentare. Era troppo evidente che all’altro non stava in
alcun modo a cuore la resistenza, ma soltanto il proprio utile, il suo ‘particu-
lare’. “Non pensa ad altro. Con un padre e uno zio così formidabilmente piaz-
zati, si sente a posto dal lato governativo, e si dà quindi da fare per tenersi
buoni sull’altro versante i comunisti. Delle vittime in Cina se ne frega. Tutto
qui. Che schifo però!”
Apollonio intervenne di nuovo, ricucì con pazienza le fila della conversazio-
ne, e la portò avanti seppure con minor vivacità quel tanto che consentisse a
lui e a Michele di venir via senza strappi. Infine s’alzò in piedi. I due visitatori
presero congedo; gli ambienti del teatro, mentre li riattraversava diretto
all’uscita, non avevano già più per Michele l’attrattiva di poco prima.

CAPITOLO TERZO

«Urbino...» osservò lo scrittore una volta che furono nella pubblica via:
«non l’hanno liberata le truppe italiane dell’esercito regolare?»
«Non saprei» rispose il professore, guardandolo incuriosito.
«Credo proprio. Oppure i polacchi di Anders, che in fondo fa lo stesso. Lo
dico perché a Nomana - sa, il paese di mia moglie - c’è un tale, allora sottuffi-
ciale degli alpini nel corpo italiano che stava con gli ‘alleati’, il quale una sera
chiacchierando mi ha detto: ‘Il nostro battaglione ha ricevuto il cambio dai
polacchi sotto Urbino: avevamo la città in faccia’. Più o meno così, tanto che
m’è venuto in mente l’ ‘abbiamo in faccia Urbino ventosa’ del Pascoli. Sì. Non
credo che sia stata liberata dai resistenti dell’università.»
Procedettero in silenzio. Dopo un po’ Apollonio disse: «Forse le cose vanno
effettivamente peggio di quanto io supponessi.»
«A me dispiace per lei» fece Michele; intendeva mi dispiace che un uomo
come lei si sia, per causa mia, esposto a un rifiuto.
Il professore tentennò la testa bonariamente: pur a sua volta mortificato,
non aveva perduto il bel sorriso intelligente e paterno che ha dato conforto a
tanti.
Le vie di Milano - anche le più centrali - hanno sempre un che d’attivo e di
feriale, e questo invitava i due a non drammatizzare, a darsi da fare ancora, a
non cedere.
«La cosa che forse dovrebbe preoccuparci di più» propose Apollonio dopo
altri pochi passi «è la confusione che mi pare si stia infiltrando un po’ dovun-
que. Adesso tutti applaudono quel sant’uomo di papa Giovanni, e fanno bene;
il fatto strano - che non torna - è però che lo applaude anche chi non dovreb-
be. E in primo luogo i comunisti.»
«A quelli importa soprattutto una cosa: che nel suo amore, per tutti senza
eccezione gli uomini, il papa stia abbassando di fatto le difese nei loro riguar-
di.»
«Già. Ma è implicito che in pari tempo gli chiede di convertirsi.»
«Sì, senza dubbio. Intanto però abbassa le difese, ed è questo che conta per
loro.»
«Ecco, come le dicevo, la confusione non è poca. Io non vorrei che in mezzo
a noi i profittatori, come questo signore che abbiamo appena incontrato, fini-
scano col creare dei guasti troppo grandi.» Tacquero di nuovo.
«Beh» buttò là Michele «in duemila anni noi cattolici non siamo riusciti a
far naufragare la chiesa, non ci riusciremo neppure adesso.» Sorrisero en-
trambi: era una facezia, ma anche una constatazione obiettiva. Del resto per-
ché allarmarsi oltre misura? A quel tempo il mondo cattolico risentiva ancora
in pieno gli effetti dell’illuminata guida di Pio XII: la dottrina della chiesa era
tuttora così limpida e univoca, e le sue certezze talmente radicate nel cuore dei
fedeli, che l’idea d’una prossima crisi sembrava davvero fuori posto. E tutta-
via...
«Lo sa professore che il mese scorso il mio editore m’ha restituito il dattilo-
scritto della tragedia? Con tante scuse e belle parole, s’intende; però non lo
pubblica. Credo che anche nella casa editrice non se la sentano più di dispia-
cere ai marxisti.»
«Capisco.»
In prossimità della piazza del duomo i due ripassarono davanti alla trattoria
in cui un tempo usava pranzare John Burns; stavolta lo scrittore lo ricordò al
docente: «Vede questa trattoria, professore? Qui ho pranzato più volte con
John Burns, lo scrittore americano. L’ha ancora presente? Ha letto la sua ‘Gal-
leria’?»
«Sì, certo. In seguito però non ho letto altro di suo. John Burns... È morto
mi pare.»
«Sì. Il suo secondo romanzo ‘Lucifero con un libro’ non ha avuto successo, e
lui, ridotto in miseria e alcolizzato, s’è suicidato con l’alcol.»
«Qui in Italia?»
«Sì. Non a Milano però, a Roma; non riusciva più a staccarsi dall’Italia, po-
veraccio. È morto senza una lira in tasca, tanto che l’editore ha dovuto pagare
il funerale.»
Che malinconia!
Michele cercò inutilmente di dare attraverso le finestre un’occhiata dentro il
locale: chissà se c’era ancora quel cameriere comunista che lui - sotto lo
sguardo dapprima beffardo, poi un po’ alla volta partecipe di Burns - s’era tan-
to dato da fare per convertire al cristianesimo e alla democrazia? Abbastanza
impensatamente quel cameriere aveva concluso col convertirsi davvero... “Il
mio unico successo apostolico e politico fino a oggi” pensò ora lo scrittore:
“Chissà però se col tempo quello si è conservato nella fede?”
Entrati in piazza del duomo i due si salutarono senza giungere al portico
settentrionale in cui era trionfalmente esposta la programmazione marxista
del Piccolo Teatro del comune di Milano. «L’esperienza che abbiamo fatta oggi
è quanto meno un sintomo» disse Apollonio (ignaro che anche per lui sareb-
bero arrivati i giorni dell’ostracismo: per mettere in difficoltà la cultura cri-
stiana infatti i rossi e soprattutto i loro portavoce sedicenti cristiani come que-
sto De Ponti, avrebbero instancabilmente sottoposto a contestazione i suoi
esponenti, fino a privarli d’ogni autorità effettiva: anche Apollonio sarebbe
stato un po’ alla volta escluso dai vari mass media, e alla fine anche da quelli
cattolici). «Perciò noi adesso dobbiamo sentirci impegnati a lavorare più di
prima» proseguì: «Lei specialmente, che s’è assunto il compito - e anzi la
Provvidenza stessa, io credo, gliel’ha assegnato, conducendola attraverso quel-
le terribili esperienze - di far conoscere la realtà del comunismo.» E poiché
Michele annuiva in silenzio: «Siamo d’accordo?»
«Sì» gli rispose lo scrittore. «Del resto io non posso fare a meno di lavorare.
E poi, beh, come lei ha detto, ho visto cose peggiori di questa.»
Partito il docente lo scrittore bighellonò alquanto con le mani in tasca nei
dintorni della cattedrale. Come una volta, quando vagava con John Burns...
Poiché non poteva più disputare con lui, gli venne spontaneo di recitare per lo
scrittore scomparso le preghiere dei morti, per aiutarlo almeno da morto, vi-
sto che non era riuscito con le sue argomentazioni ad aiutarlo da vivo. Ogni
tanto alzava gli occhi ai fastigi del duomo, che gli apparivano da prospettive
diverse: dovunque sulle guglie gotiche c’erano statue, fatte dello stesso marmo
delle pareti, erano centinaia e centinaia. Pensò ai maestri scalpellini che le
avevano scolpite: uomini sconosciuti i quali, qui e altrove, avevano spesa la
vita intera, soprattutto nel medio evo, a scolpire con pazienza, e spesso con
arte mirabile, le statue delle cattedrali, anche quando sapevano che una volta
issate al loro posto, nessuno avrebbe potuto ammirarle: nessuno, tranne Dio.
Lui dopo tutto non si era sempre considerato uno scalpellino? Sebbene
scolpisse pagine anziché pietra. Cos’era dunque questa pena che l’attanagliava
perché la gente non avrebbe forse mai conosciuta la sua opera? Certo, come
dice il Vangelo, non si accende un lume per metterlo sotto il moggio: tuttavia
il suo dovere era di continuare a scrivere senza lasciarsi turbare, seguisse o no
il successo. Delle sue opere avrebbe certamente goduto Iddio; e anche suo pa-
dre, lo scalpellino-scultore, che si trovava con Dio là in alto.

CAPITOLO QUARTO

Passarono alcune settimane. Il neo drammaturgo aveva spedito il copione


della propria opera ad altri uomini di teatro, e anche ad alcuni studiosi del
mondo russo. Da uno di questi ultimi - un giornalista molto noto e deputato al
parlamento - gli arrivò inaspettatamente una lettera che non era evasiva; ve-
niva da Roma: ‘Caro Tintori, molto cautamente e con diffidenza ho cominciato
a leggere il suo lavoro. Poi, man mano che avanzavano le pagine, sono stato
preso dalla lettura. È un’opera originale, vivissima, utile, forse anche impor-
tante. Merita di essere messa in scena al più presto. Ha anche dei difetti natu-
ralmente, ma superficiali...» seguiva una breve indicazione dei difetti, la lette-
ra concludeva: «Ho telefonato a Lucio Ferri. Anche lui l’aveva letta e condivi-
deva la mia opinione. Pensa che meriti di essere messa in scena al più presto.
Si darà da fare. Molti auguri dunque - suo Ludovico Zarbini.’
Lo scrittore rimase elettrizzato. Sedutosi al tavolo di lavoro rilesse con at-
tenzione la lettera, poi si alzò di nuovo in piedi e cominciò a camminare avanti
e indietro. Zarbini era uno dei più preparati e intelligenti giornalisti italiani: il
suo parere era in ogni modo importante. Peccato Alma non fosse qui: avrebbe
voluto parlarne subito con lei, che invece in questo momento stava insegnan-
do alle sue ragazzette nel collegio delle monache. Quanto a Lucio Ferri era un
uomo di teatro notissimo: anche a lui dunque il lavoro era piaciuto, non sol-
tanto ad Apollonio tra i competenti di teatro. Di Ferri cos’è che diceva esatta-
mente la lettera? Michele la riaprì, rilesse: ‘... pensa che meriti di essere messa
in scena al più presto. Si darà da fare.’ Come mai però fino a oggi Ferri non
s’era fatto vivo? A lui, drammaturgo e capo compagnia tra i più affermati, e
inoltre dichiaratamente cristiano, Michele aveva spedita una delle prime co-
pie. Beh, non importa, l’essenziale era, ecco qui, che adesso sembrava deciso a
darsi da fare per la sua opera. ‘Darsi da fare’: cosa vorrà dire di preciso? “Che
individuo in gamba però questo Zarbini. È andato subito al sodo, senza perde-
re tempo. È deputato liberale: io coi liberali sono in un certo senso in polemi-
ca, non riesco a perdonargli quella mezza parentela ideale che hanno col mar-
xismo. Loro invece guarda, Croce prima, e adesso Zarbini: si dimostrano nei
fatti più generosi di me!” Ma cos’è che intendeva precisamente fare Lucio Fer-
ri? Era questa adesso la cosa più importante. Michele ebbe un’improvvisa
ispirazione: doveva telefonare ad Apollonio, e subito, senza perder tempo!
Quello senza dubbio conosceva di persona Ferri: “Così, se anche Apollonio gli
dà una spinta...” Il telefono era sul tavolo: sedette di nuovo, aprì la rubrica
famigliare alla pagina in cui era il numero d’Apollonio, sollevò la cornetta, poi
si fermò. Alma! Non era giusto lasciarla fuori della vicenda. Gliene dava così
poche di soddisfazioni come autore lui ad Alma... Avrebbe atteso il suo ritorno
e avrebbero telefonato insieme: l’avrebbe fatta partecipare. Depose la cornet-
ta. “Del resto se aspetto fino all’ora di pranzo avrò più probabilità di trovare
Apollonio in casa”.

CAPITOLO QUINTO

Quel giorno stesso Apollonio telefonò a sua volta a Ferri a Roma, poi chia-
mò Michele: «Ha intenzione di mettere in scena il lavoro. Proprio oggi ha av-
viata la pratica per la sovvenzione statale.»
«La sovvenzione statale?»
«Sì. C’è una leggina che stanzia un po’ di fondi per le opere di autori nuovi -
tre milioni a opera - e lui cerca d’avvalersene. Ho fiducia, stavolta ci siamo.»
Diede per ogni evenienza a Michele il numero telefonico di Ferri.
Nelle settimane successive, mentre da Roma non giungevano notizie, Mi-
chele e con lui Alma passavano dal senso dell’attesa (ricco di suggestione, av-
vincente) a qualche momento d’inquietudine, finché una sera, non sopportan-
do più tale altalena, lo scrittore si decise a telefonare a Ferri. Gli rispose il ca-
po compagnia in persona. «Non gliel’ha detto Apollonio?» chiese non appena
udì il nome di Tintori: «Andiamo in scena, certo, è tutto deciso. Adesso sto
scegliendo gli attori. Diamo due opere nuove, una è la sua. Un momento, i co-
pioni... ha dei copioni disponibili? Sì? E non me li ha ancora spediti? Forza, li
spedisca subito. A casa mia? No, meglio al teatro: prenda nota, le detto
l’indirizzo e il numero di telefono, d’ora in poi mi telefoni là.»
“Sono stato indiscreto” si rendeva conto Michele, “a telefonargli a casa... Ad
ogni modo ormai bene così”. Annotava intanto l’indirizzo: teatro della Stella,
via del teatro di Marcello: «Due teatri sulla stessa via?» chiese.
«Sì» gli rispose ridendo Ferri: «soltanto che il teatro di Marcello ha duemila
anni e li dimostra tutti, perché è un rudere, piuttosto grosso magari.» Si rese
conto che Michele non conosceva quella parte di Roma: «Sa dov’è la via del
teatro di Marcello? Corre al piede del Campidoglio. Ha presente la famosa sa-
lita del Campidoglio, quella di Michelangelo? Ecco, ha inizio proprio di fronte
al nostro teatrino della Stella.»
Michele s’informò anche circa il regista, se fosse già stato scelto. «No, non
l’ho ancora scelto» rispose Ferri «e, a dir la verità, della sua tragedia sto pro-
gettando di farlo io stesso il regista. Sarebbe la mia prima regia, che ne dice?
Però non so, devo ancora decidere.» Michele era sempre più emozionato (ac-
canto a lui Alma, con la tempia appoggiata alla sua, seguiva attentamente il
colloquio, e poco mancava non le scoppiasse il cuore per la gioia): «Io non...
Non so proprio come ringraziarla» concluse la conversazione, assolutamente
con poca fantasia, Michele.
«Come si vede che lei è nuovo a queste cose» fece il capo compagnia
all’altro capo del filo, e si mise a ridere. Dava ai due che l’ascoltavano
l’impressione di un uomo non solo all’altezza dei propri compiti, ma anche
d’animo buono.
Una volta riappeso il ricevitore: «‘La c’è la Provvidenza’, vedi?» esclamò
Michele, e alzandosi in piedi: «Pensare che io, dopo quell’incontro con De
Ponti, temevo che il lavoro non sarebbe mai stato rappresentato, almeno me
vivente. E invece.»
Alma, indicibilmente felice, gli fece una carezza. All’altro parve a un tratto
d’essere troppo fortunato, tanto che divenne per qualche momento pensiero-
so: sapeva che a molti ciò ch’egli aveva temuto per sé, di non venire rappre-
sentati o pubblicati, era in effetti accaduto, e stava accadendo.

***
Nei giorni che seguirono il senso d’attesa si fece in Michele straordinaria-
mente intenso; l’avvertiva si può dire, ogni volta che nel corso della giornata
staccava l’attenzione da ciò che la teneva occupata: subito, in luogo d’una
qualsiasi altra cosa, gli si prospettava la stupenda vicenda che stava per vivere.
Sarebbe andato a Roma, avrebbe visto i personaggi costruiti dalla sua imma-
ginazione prendere corpo, impersonati da attori che si sarebbero adoperati a
rendere nel modo migliore i casi, i sentimenti, il mondo da lui immaginati.
Ciascuno di quegli attori - di cui tuttora ignorava i nomi - avrebbe necessa-
riamente trasformato un po’, non fosse che a causa del proprio aspetto, il per-
sonaggio da lui inventato, gli avrebbe cioè dato un proprio apporto. Quale sa-
rebbe stato il risultato? “Davvero” constatava Michele “altra cosa è scrivere
per la lettura, e altra, molto diversa, scrivere per la rappresentazione.”
Se gli capitava di destarsi nel corso della notte quel senso d’attesa lo per-
meava totalmente: gli si prospettava la sala, la gente, la recitazione, e poi gli
applausi, e poi gli articoli dei giornali con i commenti, un incontro con questo
o quel critico (di cui ignorava le fattezze, e quindi gliele prestava). La sua di-
mostrazione davvero inattaccabile (egli n’era convinto) dell’impossibilità di
costruire il comunismo - la quale veniva oltre tutto a costituire un’eccellente
convalida storica a contrario della dottrina sociale della chiesa - sarebbe fi-
nalmente entrata nel concerto della cultura, vi avrebbe portato frutti. Forse
sarebbe arrivata a insinuare dei dubbi, se non tra i comunisti, almeno tra gli
intellettuali ‘laici’ loro sostenitori. Fors’anche dei forti dubbi... Dopo Roma -
perché no? - lo spettacolo, dato l’immancabile successo, si sarebbe trasferito
in altre città, e dovunque i giornali ne avrebbero parlato. La fantasia dello
scrittore si sbrigliava: chissà, se ne sarebbe forse interessata anche la stampa
estera, la quale influisce ben più della nostra sulla realtà mondiale in divenire.
La sua tragedia (“come quelle dell’antico teatro greco” egli pensava esaltando-
si “ch’erano state realmente maestre di vita”) sarebbe potuta diventare un
ostacolo concreto all’imbarbarimento, in particolare all’estendersi delle terri-
bili ecatombi comuniste - dopo la Russia e la Cina - ad altri paesi...

CAPITOLO SESTO

Quando alcune settimane dopo la conversazione telefonica con Ferri, Mi-


chele apprese, sempre per telefono, che le prove della tragedia avevano avuto
inizio, non seppe più trattenersi.
Ottenuto un breve permesso dalla scuola partì per Roma in automobile, e
finché gli fu possibile - cioè fino a Bologna - utilizzò la nuova grande autostra-
da in costruzione attraverso l’Italia. Dalla fine della guerra le automobili erano
enormemente aumentate di numero, non ancora tuttavia al punto da rendere
nei giorni feriali difficoltoso il traffico sulle strade di grande comunicazione;
così anche dopo lasciata l’autostrada, mentre correva senza eccessivi intoppi
lo scrittore era libero di fantasticare: Si trovava in uno stato di lievitante eufo-
ria: all’avanzato spostamento in favore del marxismo di tanta parte degli uo-
mini di teatro (dunque anche dei cronisti e dei critici che avrebbero giudicata
la sua opera) non pensava più; gli bastava che i pochi ancora liberi e obiettivi,
come Apollonio, Ferri e Zarbini, fossero riusciti a portare l’opera sulla scena:
“Quando la gente sarà al corrente della sua esistenza, l’andrà a vedere, e
l’opera camminerà per forza propria...”
S’incontrò con Ferri quel giorno stesso, nel tardo pomeriggio. Il celebre
drammaturgo e capo compagnia aveva un aspetto in complesso modesto, co-
mune; malgrado la stanchezza del viaggio, Michele non poteva evitarsi di stu-
diarlo con attenzione: si rese conto che, con non minore interesse, l’altro stu-
diava lui; avvertirono entrambi quanto la situazione fosse bizzarra, e le loro
fisionomie lo significarono: subito cambiarono atteggiamento e cercarono di
comportarsi in modo scoperto, come fossero vecchi amici. Su invito di Ferri -
che aveva una decina d’anni più di Michele - si diedero addirittura del tu.
Michele apprese che Ferri non s’era riservata la regia della tragedia ma
l’aveva affidata a Pavi Austeri, un regista allora assai noto, tra i più importanti
d’Italia.
Ch’egli incontrò la mattina dopo alle prove: era un uomo legnoso, dall’aria
soverchiamente intellettuale, il quale lo salutò con strana freddezza; Michele
ne fu sorpreso. E subito dopo rimase interdetto - quasi non credeva ai propri
occhi - nel vedere che gli attori non recitavano le loro parti muovendosi e ge-
stendo normalmente (sia pure - in quella fase di prova - col copione in mano)
ma leggevano le battute stando ciascuno in piedi dietro un leggio.
«Cosa significa?» chiese al regista, alla prima interruzione.
«Non le ha spiegato Ferri?»
«No.»
«Intendiamo fare un esperimento veramente nuovo: il movimento lo ese-
guiremo con le luci, gli attori non si muoveranno.»
«E ciascuno la sua parte la reciterà o la... leggerà?»
Pavi Austeri fece con la testa segno di no alla parola reciterà, di sì a leggerà.
«Lei ha visto» disse asciutto.
“È una follia!” pensò immediatamente Michele; ma non replicò: “Aspetta,
renditi prima conto bene” s’impose.
Le prove ripresero. Nessuno si rivolgeva mai a lui, l’autore che pure era lì
presente, per chiedergli una spiegazione, un approfondimento del testo,
un’informazione qualsiasi.
Gli attori (tranne due o tre scelti a suo tempo da Ferri, come Michele avreb-
be appreso poi) erano molto giovani, di per sé inadatti alle parti. “Li avranno
scelti tanto giovani per risparmiare” opinò Michele, “provvederanno poi a
supplire col trucco”.
Più in là tuttavia fu costretto a dirsi: “Quello non ce la farà mai a sostenere
la sua parte. E forse neanche quello là, e probabilmente neanche quello. Tanto
più se si pensa che i giovani truccati da anziani (come viceversa del resto) ri-
schiano sempre di riuscire ambigui. Ma perché questa storia in fin dei conti?
Chi glielo fa fare a Pavi Austeri di rendersi così difficili le cose? Com’è possibi-
le che abbia successo un pasticcio simile?”
Non poté resistere per molto a quello strazio; si alzò in piedi e abbozzando a
mezza voce una scusa lasciò il locale delle prove. Percorsi alcuni anditi rag-
giunse l’ufficio di Lucio Ferri.
«Il dottore è assente, e lo sarà per due giorni almeno» gli comunicò la se-
gretaria.
«Ma... se l’ho incontrato qui ieri sera, e non m’ha detto niente?»
«Sì. Stamattina però è dovuto inaspettatamente partire per Firenze, dove
stiamo per mettere in scena ‘Un uomo lo sa Dio’» (era l’ultima opera di Ferri)
«perché il regista s’è ammalato.»
Lo scrittore lombardo, non abituato a improvvisate come questa, aveva
l’impressione d’essere preso in giro. Eppure non era possibile che Ferri gli fa-
cesse simili scherzetti... A qual fine poi? Nessuno, dopo tutto, l’obbligava a
rappresentare la sua tragedia.
Uscì meditabondo dal teatro.

***
All’esterno l’ambiente era suggestivo oltre ogni dire: davanti al teatro,
sull’altro versante della strada (che scendeva verso destra ai ruderi del teatro
di Marcello e al Tevere) s’innalzava il colle Campidoglio, ornato di lauri e di
pini, risalito dalla nitida scalinata di pietra ‘che pare conduca al cielo costruita
da Michelangelo.
Michele ricordò la sensazione provata qualche tempo addietro all’uscita dal
teatro Goldoni di Milano, dopo l’infelice incontro con De Ponti: l’invito a ope-
rare ancora, a non cedere, che gli era venuto dall’ambiente milanese così per-
meato d’attività. “Qui l’ambiente è del tutto diverso” constatò. E tuttavia sen-
tiva di trovarsi anche in questo perfettamente a suo agio: apparteneva anche
questo, non meno di quello, alla sua cultura e civiltà.
D’accordo. Adesso però aveva bisogno di riflettere. Si mise a passeggiare
avanti e indietro lungo la strada che scendeva al Tevere, rimuginando. Non gli
occorse molto tempo per afferrare cosa si nascondesse dietro le scelte di Pavi
Austeri: il regista stava comportandosi, con l’opera che s’era ritrovato fra le
mani, né più né meno di come si sarebbe comportato se fra le mani gli fosse
capitata una patata bollente. Non rinunciava a dirigerla (perché? probabil-
mente a causa dei suoi rapporti professionali con Ferri) ma in pari tempo
gliene doveva venire disagio e fors’anche paura. Certo si prospettava le reazio-
ni sfavorevoli della maggior parte del mondo teatrale, che in fin dei conti era il
suo mondo, quello in cui egli doveva vivere... Sì, questo, e nient’altro che que-
sto, poteva spiegare il suo strano comportamento: anche qui a Roma infatti,
secondo Ferri gli aveva confermato la sera prima, i più dei critici e dei cronisti
teatrali, se anche non erano passati al marxismo, si fingevano attivamente
promarxisti per interesse. (“Però, quanta viltà in Italia!”) Come che sia, con
tale realtà Pavi Austeri doveva fare i conti: ecco perché era apparso così imba-
razzato con lui, perché non aveva voluto nel cast attori adatti, i quali avrebbe-
ro ovviamente contribuito al successo della, rappresentazione... Ed ecco per-
ché stava trasformando la rappresentazione stessa non già, come aveva affer-
mato, in un ‘esperimento nuovo’, ma in un’asettica lettura drammatizzata, né
più né meno, cioè in qualcosa di devitalizzato, di neutro, di non propriamente
teatrale.
La prima mossa di Michele - una volta afferrato tutto questo - fu un deciso
dietro-front per tornare in teatro: avrebbe invitato il regista a sospendere le
prove: ove quello si fosse rifiutato, avrebbe - pensava - fatto intervenire la so-
cietà nazionale che tutela i diritti degli autori, bloccando in ogni caso la rap-
presentazione.
Dopo alcuni passi furibondi s’impose però un’ulteriore riflessione. Valeva la
pena di mettersi a discutere con uno sconosciuto? Non sarebbe stato meglio
affrontare la questione con Ferri? Era troppo evidente che sì. Però i suoi im-
pegni scolastici (insegnava in un liceo adesso) non gli consentivano
d’attendere il ritorno del capo compagnia a Roma. E allora? Trattare la que-
stione con lui per telefono, da casa? “No, eh no. Cosa potrei concludere per
telefono?” Pensò che il meglio sarebbe stato raggiungere Ferri a Firenze: “Oggi
stesso, perché no? Sì, è la soluzione migliore: io non devo perdere tempo.” De-
cise di rimettersi in macchina e partire addirittura. “Se poi, per qualche ragio-
ne, non riesco ad incontrarlo, mi libero dalla scuola per un’intera settimana,
torno qui a Roma, e non mi muovo finché non risolvo questo maledetto pro-
blema”.

Ricominciò a passeggiare meditabondo. Cadeva ogni tanto sotto il suo


sguardo qualcosa di simile a una gabbia che stava tra i rampicanti al di là della
strada, contro un tratto di parete rocciosa del Campidoglio. Sopra pensiero
com’era Michele finì con l’attraversare la strada per sincerarsi: si trattava ef-
fettivamente di un gabbione, che rinchiudeva - guarda - un’aquila viva, molto
malandata. Volatile e scrittore, entrambi sorpresi, si guardarono negli occhi e
rimasero così per un certo tempo, senza muoversi: “Chi mai” pensava l’uomo
“ha avuto la cattiva idea di chiuderti qui dentro? Come non s’è reso conto che
per conservare il suo valore emblematico un’aquila non deve essere in gab-
bia?”
Gli occhi dell’uccello, straordinariamente fissi nei suoi, parevano con la loro
fissità rimandargli in qualche modo il suo stesso pensiero: ‘Sta attento a te,
bada a te...’; quel confuso messaggio finì col turbarlo, anche se sul momento
non gli riusciva di decifrarlo bene.
“Come ti hanno ridotto, però, povero animale!” Lo scrittore ricordò le uni-
che aquile da lui viste allo stato libero: là nell’alta Valtellina, terra d’alpini.
Una coppia aveva il suo nido a metà d’una parete inaccessibile della conca di
Bormio: dallo strapiombo roccioso ora l’una ora l’altra aquila si staccava ad ali
spalancate per navigare nel cielo della vallata, della quale esplorava il fondo
con l’occhio acutissimo; talvolta ne esplorava anche, rasentandole, le pareti,
sempre, in ogni istante, bellissima a vedersi. Più belle però erano le due aquile
quando - non in cerca di cibo, ma per il semplice piacere di volare -
s’innalzavano insieme fino a superare in altezza i monti circostanti, e lassù,
piccole nel cielo nitido, descrivevano cerchi stupendi. Ogni cacciatore e ogni
imbecille avrebbe voluto impadronirsene ma - com’egli stesso aveva fatto no-
tare ad Alma - bastava agli uccelli tenersi a qualche centinaio di metri dagli
uomini per essere al sicuro, senza cessare per questo di fare a loro modo parte
dell’ambiente.
Michele s’accostò allo sportello della gabbia e l’ispezionò, seriamente inten-
zionato ad aprirlo, che l’uccello se ne volasse via, verso i monti d’Abruzzo per
esempio, terra d’alpini anche quella; sebbene fosse dubbio che nello stato in
cui era, potesse volare ancora; lo sportello risultava ad ogni modo chiuso da
un grosso lucchetto. L’uomo fissò di nuovo i suoi occhi in quelli dell’animale:
“Dovevo aspettarmelo che chi ti tiene prigioniero, anche se non capisce niente
del resto, quanto a inghippi e chiusure ci sa fare”.
Gli occhi dell’aquila tornarono a ricambiare con fissità il suo sguardo. “Cosa
vuoi dirmi? Che potrebbe capitare anche a me d’essere ingabbiato? O che già
mi trovo in buone mani?”

CAPITOLO SETTIMO
Non poté incontrare Ferri a Firenze. Ebbe modo di parlare con lui soltanto
qualche giorno più tardi per telefono, da casa (stavolta Alma non era presente
alla conversazione: pur tenendola informata di tutto, il marito aveva di propo-
sito effettuata la chiamata in sua assenza).
Ostentando di non dare troppa importanza alla cosa, Ferri ammise che sì,
forse la scelta del regista non era stata del tutto felice. Ma cosa poteva fare
ormai? Si dovevano in particolare tenere presenti le spese già sostenute...
In quei giorni Michele aveva ponderato a lungo sulla decisione da prendere
nel caso non fosse riuscito ad ottenere da Ferri una vera e propria rappresen-
tazione. Doveva buttare tutto all’aria? Oppure chiudere gli occhi e piegarsi alle
manipolazioni del regista Pavi Austeri? Certo se in conclusione nemmeno Fer-
ri risultava in grado di rappresentare la sua tragedia, ben difficilmente egli
avrebbe potuto trovare un altro capo compagnia in grado di rappresentarla...
Ragionando a freddo aveva finito col riconoscere che una lettura drammatiz-
zata sarebbe stata, dopo tutto, meglio di niente. Glien’era venuto un pesante
senso di violenza e d’umiliazione. Com’era potente però, e come si faceva sen-
tire anche qui il demonio che là all’est aveva intruppato centinaia di milioni
d’esseri umani nel sistema dei lager e del cannibalismo! Ma possibile che
un’opera obiettivamente importante - sulla cui importanza c’era il giudizio
concorde d’Apollonio, di Zarbini e dello stesso Ferri - dovesse rimanere come
non scritta? Era dunque questa la vita? (Sì, anche questa - gli diceva una voce
dentro - era la vita: la difficoltà, e per tanti l’impossibilità di realizzarsi.) Un
tal fatto tuttavia gli ripugnava al punto che aveva finito col non decidere, col
lasciare la decisione in sospeso.
Adesso, con Ferri al telefono, cercò di convincerlo del grosso errore che si
stava per commettere («Anche sotto l’aspetto economico: chi vuoi che compe-
ri il biglietto per assistere a una lettura drammatizzata?») e che la vera solu-
zione sarebbe stata il ritorno al progetto iniziale («Devi deciderti a fare tu
stesso il regista: è l’unico modo per sistemare ogni cosa.»)
L’altro però gli rispose che no, questo ormai non era più possibile, neanche
pensabile. Promise soltanto, sotto il pressante argomentare di Michele, che
avrebbe chiesto a Pavi Austeri di rappresentare in modo regolare almeno i
punti chiave dell’opera. Poi - da vero uomo di teatro, cui i colpi di scena veni-
vano spontanei - diede a Michele, sempre in tono minore, un’importante noti-
zia: «Non te l’ho ancora detto che la televisione ha deciso di registrare il lavoro
e di metterlo in onda? Ho già definito ogni cosa. Sei contento?» Lì per lì Mi-
chele ammutolì: la televisione significava milioni di spettatori, il che cambiava
oggettivamente la prospettiva, anche se - magari - rendeva più bruciante il
fatto che l’opera non venisse rappresentata nel debito modo.
«Ho capito bene?» domandò: «Daranno la tragedia alla televisione?»
«Sì, hai capito bene. La prendono a scatola chiusa: la verranno a registrare
qui in teatro, e poi la trasmetteranno in televisione, è già tutto definito.» Ferri
parlava con la naturalezza di chi alla televisione è di casa; e lui lo era infatti.
«Senti, m’assicuri che almeno i punti principali verranno rappresentati
normalmente?»
«Ti assicuro che lo chiederò a Pavi.»

***
La prospettiva della televisione entusiasmò Alma, e con lei tutti i parenti di
Nomana, i quali decisero di assistere in massa alla prima d’un’opera tanto im-
portante. La sola a non mostrarsi attirata fu Fanny, alla quale dagli anni della
crisi della ditta tutto ciò che concerneva i parenti d’Ambrogio dava soltanto
fastidio: «Me non m’incanti più, caro» aveva risposto al marito che le prospet-
tava la gita a Roma; s’era fatta un po’ nevrotica, non di rado gli rispondeva con
sgarbo a quel modo, e anche in modo peggiore.
Per cui Ambrogio stabilì che si sarebbe recato a Roma senza di lei, accom-
pagnandovi in macchina il padre e la sorella Francesca, che per essere presen-
te aveva in programma di lasciare a Visate la nidiata dei suoi figli (sette ormai,
in quattordici anni di matrimonio, tutti col nasino affilato, distintivo dei Mar-
savi). Giuditta, in quei giorni prossima al parto (s’era sposata da qualche an-
no), dovette invece suo malgrado rinunciare. Fortunato (da un pezzo non più
industriale, divenuto commerciante di immobili e terreni) e sua moglie, e con
loro Alma, si sarebbero recati a Roma in aereo giusto in tempo per la prima.
Michele raggiunse la città con qualche giorno d’anticipo per assistere alla
ultime prove. Com’era prevedibile il regista Pavi Austeri non aveva accolta la
proposta di Ferri di rappresentare in modo normale i punti salienti della tra-
gedia: gli era stato facile obiettare che ne sarebbe derivata un’inammissibile
mistura. Aveva invece, il giorno prima dell’arrivo dell’autore, tentato di fare
un’altra cosa: recatosi nella tipografia in cui si dovevano stampare i manifesti
e le locandine dello spettacolo, aveva fatto togliere da ogni bozza il proprio
nome, sostituendolo con quello d’un suo aiuto-regista, un ragazzo che gli era
stato saltuariamente al fianco nel corso delle prove. Fu per puro caso che Mi-
chele - recatosi a sua volta nella tipografia a dare un’occhiata - venne a cono-
scenza della cosa. Prontamente bloccò la stampa del materiale e fece interve-
nire Ferri, minacciando apertamente, stavolta, d’impedire la rappresentazio-
ne. Riconoscendo le sue buone ragioni Ferri finì con l’indignarsi per il com-
portamento di Pavi Austeri il quale, dopo avere manipolato a suo piacimento
lo spettacolo, tentava ora di non figurarvi, e ne fece reintegrare il nome negli
stampati: «Vedi però con che gente si è costretti a lavorare nel nostro ambien-
te? Ti rendi conto? E Pavi, t’assicuro, non è dei peggiori. Anzi.»
Alla prova generale presenziarono - seduti in platea insieme col regista Pavi
Austeri - il capo compagnia Ferri, l’autore Tintori, il giornalista e deputato
Ludovico Zarbini, un paio di critici teatrali loro amici, e un anziano giornalista
dell’ ‘Osservatore Romano’ che si era anni prima favorevolmente occupato dei
libri del Tintori.
Malgrado l’assurdo dei personaggi tutti vestiti in modo identico e inchiodati
ciascuno dietro un leggio, ridotti in pratica a semplici voci, finì grazie alle ri-
sorse del testo col riuscire una serata in qualche modo esaltante: i non ordina-
ri spettatori, che avevano letto il copione, s’immaginavano l’azione mancante e
se ne commovevano; Zarbini e Ferri specialmente, il quale ultimo, quasi in
risposta alle obiezioni dell’autore, ripeteva ogni tanto: «Se non è teatro que-
sto! Se non è teatro questo!» al punto che Michele si lasciò contagiare
dall’entusiasmo generale e cominciò, contro ragione, a sperare in una riuscita.
Tutto ciò venne avvertito da Pavi Austeri (che unico tra i presenti serbava -
come per modestia - un atteggiamento distaccato), e finì con l’allarmarlo an-
cora di più.

II

CAPITOLO OTTAVO

La sera della prima il teatro della Stella si riempì di gente fino a traboccar-
ne. Michele vi giunse in compagnia dei parenti di Nomana, con i quali aveva
cenato; gli camminava a fianco Almina, che per l’occasione s’era fatta un bel-
lissimo abito da sera nuovo, di velo azzurro: il più bell’abito che Michele le
avesse mai visto (e che le avrebbe mai visto anche in seguito); era talmente
fiduciosa, che sembrava irradiare luce: coi suoi lineamenti di statua, e i capelli
castani raccolti a chignon sulla nuca, s’intonava singolarmente - lei lombarda -
all’ambiente romano. Il marito era a tal punto preso dalla sua presenza che
avrebbe voluto non dedicarsi ad altro. Ma doveva dedicarsi ad altro: dovette
per cominciare presentare il famoso giornalista Zarbini - venutogli incontro
nel ridotto - a Gerardo e ai cognati, i quali lo conoscevano di fama e furono
emozionati di poter scambiare qualche parola con lui. Dovette informarsi da
un valletto se fosse arrivata per caso qualche personalità del mondo romano
(sì, c’erano alcune personalità politiche). Dovette chiedere all’anziano giorna-
lista dell’ ‘Osservatore Romano’, che attendeva passeggiando su e giù nel ri-
dotto, se gli fosse riuscito di portare un importante critico (no, stasera quel
critico era impegnato altrove, aveva però promesso di venire l’indomani). In
compenso c’erano tutti senza eccezione i cronisti teatrali dei giornali romani:
«E sono, la avverto, un po’ nervosi» gli riferì Zarbini. «Certo non si aspettano
un panegirico del comunismo: si augurano però che la sua critica non vada
troppo a fondo. Se ne accorgeranno, eh?» Il giornalista sorrise: «Attento però:
è gente che morde.» Indicò un tale seduto su un divanetto: uno strano indivi-
duo col viso duro e i capelli striati in bianco e bruno, tanto da richiamare il
mantello d’una zebra: «Quello lo conosce? È...» e glielo nominò.
«Ah, l’invert... Non l’avevo mai visto.»
«È uno dei più inesorabili quando ci si mette.»
Lo spettacolo, o meglio la lettura, cominciò puntualmente. Come già duran-
te la prova generale, le luci - cui era preposto un tecnico capace - furono im-
piegate senza risparmiò e con abilità, tanto da dare, al principio, l’impressione
che sarebbero state in grado di supplire alla mancanza di movimento sulla
scena. Ma fu un’impressione passeggera. Nel giro duna decina di minuti Mi-
chele si rese conto che il rapporto stabilitosi tra la scena e la platea non era
affatto quello teatrale, di compartecipazione. “Non è lo stato d’animo di cui
parla così spesso Apollonio. È qualcosa di diverso: un, come chiamarlo? un
rapporto d’attenzione, ecco, simile a quello che si stabilisce tra il pubblico e un
conferenziere... È dunque a questo che mirava Pavi Austeri? Sì, senza dubbio,
e dev’essere andato a colpo sicuro: conosce troppo bene il suo mestiere per
sbagliare.” Alma, seduta al suo fianco, e gli altri spettatori in genere, non era-
no ovviamente in grado di analizzare in profondità ciò che succedeva, avverti-
vano solo, in confuso, che mancava qualche cosa: forse c’era troppa immobili-
tà sulla scena, ecco; a ogni buon conto cercavano di stare bene attenti per non
perdere il filo del discorso (proprio così: il filo del discorso).
Non ci furono grandi battimani se non al calare del sipario per l’intervallo;
il quale - come Michele notò con sorpresa - fu anticipato di alcune scene. “Per-
ché? Cos’è quest’altra scoperta?” Ma non aveva tempo per rispondersi.
Mentre si trasferiva con Alma nel ridotto, Zarbini gli fece lietamente segno
di raggiungerlo agitando una mano: intendeva presentarlo a un importante
personaggio politico, ex presidente del consiglio dei ministri e tuttora parla-
mentare influente, d’origine piemontese. Costui salutò l’autore con semplicità
e volontieri intavolò discorso con lui: «Sa che io ho incontrato qualcuno dei
suoi personaggi ancora l’anno scorso a Mosca? Con Crusciov, per esempio, ho
bevuto la vodca, e le dico che adesso mi fa un certo effetto vederlo trasferito
sulla scena.» Sebbene fosse passato attraverso cariche tanto alte, l’uomo poli-
tico s’era conservato genuino, perfino rustico; doveva inoltre essere un cri-
stiano autentico. Michele, che da principio si comportava con lui in punta
d’etichetta, si trovò talmente a suo agio da rimandare le varie cose di cui
avrebbe dovuto occuparsi in quell’intervallo: è che quest’incontro inaspettato
gli si stava già trasformando dentro in nuova poesia. Fu sua cura far parteci-
pare alla conversazione - sostenuta in parte anche da Zarbini - la consorte
dell’ex presidente, la quale al pari del marito era persona senza infingimenti
(indossava una gradevole pelliccia: «Altro che gradevole» gli avrebbe spiegato
più tardi Almina «è addirittura fa-vo-lo-sa, chissà quanto costa»); anche
l’anziano presidente non mancava di rivolgere con garbo la parola ad Alma; i
minuti passavano.
Gerardo e Ambrogio - essendo le donne rimaste in sala in compagnia di
Fortunato - passeggiavano uno a fianco dell’altro per l’affollatissimo ridotto e
guardavano ogni tanto in direzione del gruppetto: Gerardo non credeva ai
propri occhi, suo genero e sua figlia in tranquilla conversazione con l’ex presi-
dente del consiglio e con Zarbini! Michele captò per caso una delle occhiate
del suocero e subito si chiese in che modo avrebbe potuto farlo partecipare
alla conversazione. Poiché l’uomo politico proveniva dall’ambiente tessile
piemontese, si provò a trasferire il discorso su tale ambiente: con vero piacere
l’anziano uomo accettò di parlare della terra natia; Michele infilò allora nel
discorso l’industria tessile della Brianza («che è il mio paese») e abbozzò va-
gamente un parallelo; l’altro gli chiese se però l’industria tessile in Brianza
non fosse in prevalenza cotoniera. Michele, dichiaratosi non in grado di ri-
spondere, girò la domanda alla moglie: «Che è appunto figlia d’un industriale
tessile» spiegò. Ovviamente Almina non poteva rispondere in modo adeguato.
«Qui ci vuole tuo padre» disse allora Michele, e sempre più divertito dalle
proprie inusitate manovre, chiamati con una mano Gerardo e Ambrogio, li
presentò, quindi sottopose loro la questione.
Il giornalista Zarbini intanto si meravigliava ch’egli non si preoccupasse
d’indagare le reazioni dei critici teatrali; a un tratto risolse: «Io faccio una
scappata, vado a sentire cosa dicono i cronisti e i critici dei giornali.» Michele
fu da queste parole richiamato alla realtà; avrebbe voluto seguirlo, ma eviden-
temente gli sarebbe occorso del tempo per disimpegnarsi. Zarbini se n’andò
da solo.
Tornò di lì a non molto che Gerardo aveva finito di spiegare con impegno
all’ex presidente le caratteristiche dell’industria tessile in Brianza. «C’è un po’
di contrasto» annunciò a Michele, che lo guardava interrogativo «di discus-
sione.»
«Molto contrasto?» chiese Michele. L’altro gli fece segno di sì.
«Ci vorrebbero accompagnare, questi signori, a prendere una bibita al
bar?» propose la consorte dell’ex presidente.
«Ecco, farebbe piacere anche a me!» le s’aggiunse vezzosamente Alma.
Con premura gli uomini, dopo essersi inchinati, scortarono le signore verso
il bar, mentre Gerardo e Ambrogio provvedevano a congedarsi.
Davanti al banco c’era un po’ di ressa. Informatosi quali bibite le signore e
gli altri gradissero, Michele - come più giovane del gruppo - si ficcò nella mi-
schia; passò così altro tempo. Mentre finalmente sorbivano le bibite, notarono
che alcuni dei presenti lasciavano in fretta il ridotto per tornare in sala. «Che
sia ricominciato lo spettacolo?» chiese dubbioso Zarbini.
«Non è possibile, non hanno dato il segnale con le luci» osservò Michele. La
maggior parte della gente, del resto, indugiava tuttora nel ridotto.
L’ex presidente ad ogni buon conto li lasciò liberi: «Vadano pure, controlli-
no, non vorrei essere d’impiccio.»
Mentre si avvicinavano agli ingressi della sala, Zarbini, Michele ed Alma
udirono le voci degli attori: la lettura era già ricominciata. Appena preso posto
Michele valutò che doveva durare da una decina di minuti almeno... Come
mai? Com’era potuto accadere? Perché la ripresa non era stata segnalata nel
ridotto con gli abituali movimenti di luci?
Non ebbe il tempo di riflettere neppure su questo, perché la sua attenzione
fu nuovamente assorbita dalla lettura che gli attori facevano, sempre tenendo-
si immobili dietro i loro leggii. L’autore avvertì ancora una volta che il rappor-
to tra scena e spettatori non era quello proprio del teatro.
Finalmente, terminata la lettura, scrosciarono gli applausi e durarono a
lungo. Ci furono anche ripetute chiamate alla ribalta degli attori e del regista,
al punto che Gerardo, Ambrogio, Fortunato, Alma, e gli altri nomanesi, ebbero
l’impressione di trovarsi di fronte a un grande successo: ignoravano (ma non
l’ignorava Michele) che gli applausi dei molti amici ed estimatori di Ferri e di
Pavi Austeri sarebbero bastati in ogni caso a sostenere la prima.
Durante una chiamata più lunga delle altre, qualcuno si mise a gridare:
«L’autore... Vogliamo l’autore» per cui anche Michele - che poca voglia ne
aveva - dovette salire sul palcoscenico a inchinarsi, a ringraziare, a sorridere
in fila con gli altri.

CAPITOLO NONO

Cessati gli applausi il pubblico cominciò a sfollare. Nel gruppo di Nomana si


commentava con calore quello che veniva giudicato un grande successo; tutti
se ne felicitavano con Michele mentre percorrevano passo passo verso l’uscita
il corridoio tra le poltrone della platea.
Al termine del quale un portiere attendeva l’autore: «Dottore, ci sono due
signori stranieri che desiderano parlare con lei.»
«Due stranieri?»
«Sì, due russi. Così hanno detto.»
«E vogliono parlare con me?»
L’altro annuì: «Sì. Uno ha il tesserino di giornalista.»
«Ah.»
«Che fa, ci parla?»
Michele era perplesso. «Come no?» risolse però subito: «sentiamoli.» E ai
suoi: «Vi spiace aspettarmi un momento, magari nell’atrio, accanto
all’uscita?»
«Io vengo con te» gli disse Ambrogio.
«Sì, andiamo.»
Il portiere li precedette fino a una rientranza del ridotto dov’erano in attesa
due signori di mezza età: uno robusto, di tipo sanguigno, con baffi ispidi e una
lunga ciocca di capelli che gli tagliava la fronte; l’altro magro e alto, con radi
capelli color biondo lino e occhi molto chiari.
«Sì che sono russi» mormorò Ambrogio appena li vide: «non c’è il minimo
dubbio» e pensò: “Comunque non dovrebbero essere della polizia: hanno
un’aria troppo abbacchiata.” (Aveva seguito il cognato col segreto intendimen-
to di dargli man forte in caso di necessità.)
Michele annuì: quello magro e biondo gli richiamava in qualche modo lo
sconosciuto tenente di fanteria che una ventina d’anni prima, ad Arbusov, gli
aveva così inspiegabilmente salvata la vita. (Il tenente Làricev, di cui egli non
seppe mai il nome: il quale da allora non aveva potuto partecipare ad alcuna
prima teatrale, né ad altre manifestazioni artistiche - e gli sarebbe piaciuto,
artista com’era! - perché stava sepolto sotto poca terra, al pari di tutti gli altri,
italiani, russi e tedeschi, rimasti per sempre nell’atroce vallata.)
«Siete russi?» disse Michele, tendendo la mano al più anziano e robusto dei
due.
Entrambi risposero di sì: «Russi in esilio» specificarono, mentre stringeva-
no la mano ai due italiani. L’individuo tarchiato dai baffi ispidi, rivelandosi
molto emozionato, spiegò perché avevano voluto incontrare l’autore: «Quello
che volevamo dirle è che la sua tragedia è veritiera. Lei ha davvero capito: è
uno dei pochi in Italia, ad aver capito.»
Michele, a sua volta emozionato, arrischiò una battuta scherzosa in russo -
nel russo stentato dei prigionieri di guerra italiani - che i due però non com-
presero; dopo averla ripetuta, sforzandosi invano di riuscire più chiaro, la la-
sciò perdere.
Il russo tarchiato commentò alcuni punti del lavoro appena rappresentato
o, per meglio dire, appena letto. «Com’è riuscito a portare sulla scena
un’opera simile?» chiese. «Noi eravamo convinti d’assistere a uno dei soliti
lavori pro comunisti che sono ormai di moda in Italia: pensavamo di combat-
terlo sulla nostra rivista, perché questo è il nostro compito, spiegare e combat-
tere senza cedere; e invece... Per noi è stata una sorpresa meravigliosa.»
«Sì» confermò l’altro russo (il quale dopo le poche parole alla presentazione
sembrava entrato in un atteggiamento di muta tristezza, che doveva essergli
abituale): «Sì, è vero.»
«Quand’ero prigioniero a Oranchi m’è riuscito di parlare con intellettuali
russi non conformisti, persone come voi, non disposte a piegarsi alla dittatu-
ra» disse Michele. «Per me sono stati incontri importantissimi, in cui ho im-
parato molte cose. La lotta per la libertà è in Russia senza confronto più dura
di com’era in Italia al tempo del fascismo, non è vero?»
Il russo tarchiato annuì: «Nelle nostre prigioni non si possono certo scrive-
re trattati ideologici contro il regime, come ha fatto Gramsci qui in Italia.
Dunque, a quanto sento, lei ha avuto modo di parlare coi nostri deportati?»
«Sì, con gli ‘zech’ con alcuni, tra cui qualcuno molto colto.»
«Ah, se fosse possibile far conoscere quest’opera, che vede le cose da
un’altra angolazione, ai nostri compatrioti!» sospirò il russo: «Sarebbe per
certi aspetti illuminante anche per loro.» Poi sorrise: «Comunque lei è corag-
gioso: domani si troverà aggredito da tutti i giornali italiani. Se ne rende con-
to, non è vero?»
«Spero di no» rispose Michele: «i giornali cattolici, almeno quelli, spero
doverli dalla mia parte.»
«Oh, non s’illuda» gli disse con amarezza il russo: «fino a qualche anno fa sì
certamente, ma adesso anche quelli si stanno tutti lasciando plagiare.»
«No, perché dice questo? Adesso c’è soltanto un po’ di confusione» affermò
Michele. «Ma ci riprenderemo, vedrà.»
La maggior parte della gente aveva ormai lasciato il teatro; anche i quattro
s’incamminarono, sempre conversando, verso l’uscita. «La pubblicate in ita-
liano la vostra rivista?» chiese Michele.
«Sì. Cerchiamo di far sapere come stanno effettivamente le cose nell’Unione
Sovietica.»
«È strano che io non la conosca.»
«Ha poca diffusione, purtroppo.»
«Beh, da questo momento dobbiamo tenere i contatti tra noi.» «D’accordo»
rispose il russo. Si fermò e trasse di tasca e consegnò allo scrittore una cartoli-
na con l’intestazione e l’indirizzo della rivista; Michele gli diede in cambio il
proprio biglietto da visita.
Nell’atrio c’erano i parenti di Nomana in attesa accanto all’ingresso; tra loro
Alma, sempre con la gioia dipinta in viso, incantevole nel suo bell’abito color
celeste cielo. Michele non fece le presentazioni; tese invece la mano ai due
profughi, che gliela strinsero inchinandosi; eseguita la stessa operazione con
Ambrogio i due uscirono. Alma s’affrettò a mettersi a fianco del marito e a in-
filare il proprio braccio sotto il suo.
«Poveracci quei due» disse a mezza voce Ambrogio, in risposta allo sguardo
interrogativo dei famigliari: «Sembrano gli ‘umiliati e offesi’ di Dostoievschi».
«Se pensiamo che la Russia è un paese di così enormi possibilità» mormorò
Michele tentennando la testa: «E guarda come riduce i suoi figli!»
«Sono profughi, vero?» s’informò Fortunato.
«Sì. Pubblicano qui a Roma una rivista per combattere il comunismo.»
Il gruppo dei Riva uscì dal teatro proprio nell’istante in cui venivano spente
le luci della facciata; il che rese di colpo all’esterno ogni cosa più buia.

***
Anche cosi però l’ambiente era straordinariamente suggestivo: la salita di
pietra al Campidoglio pareva irradiare una contenuta luce azzurrina, grazie a
riflettori sapientemente disposti tra gli alberi circostanti; alla sua sommità
irradiavano allo stesso modo luce le due statue equestri dei Dioscuri e, più in
là, i fastigi - che assumevano un che di favoloso - degli edifici michelangiole-
schi. Mentre il gruppo s’incamminava verso il più vicino parcheggio di auto
pubbliche, Michele cercò per un istante con gli occhi la gabbia dell’aquila pri-
gioniera: ne individuò a fatica la sagoma. “Là dentro, a pochi passi da noi, c’è
sempre quel povero animale prigioniero” rifletté: “c’è, anche se nessuno ci
pensa e se ne cura.”
Dietro di lui Fortunato commentava il contrattempo dell’intervallo: «Chissà
com’è potuto succedere... Mi chiedo come mai abbiano ripresa la recitazione
pur vedendo che la platea era quasi vuota. E perché non hanno dato il solito
segnale con le luci?» Si rivolse dettamente a Michele: «In quei cinque o dieci
minuti è andato perduto per gli spettatori qualcosa d’importante?»
«Sì purtroppo. Uno dei momenti più drammatici e salienti, che conclude la
prima parte. Senza una ragione al mondo Pavi Austeri l’ha spostato a dopo
l’intervallo...» “Senza una ragione? ehi, un momento, un momento...”
«Non sarà» disse Ambrogio «che l’ha fatto apposta?»
Solo adesso Michele se ne rendeva conto: «Sì» rispose annuendo:
«Dev’essere proprio così. Io non ci avevo pensato, ma dev’essere così. Anzi, ne
sono convinto: il regista l’ha fatto per paura delle critiche dei comunisti. Sì, se
non altro ha creato una certa confusione.»
«Ma perché?» domandò la moglie di Fortunato che, al pari degli altri, era
all’oscuro del comportamento di Pavi Austeri.
Michele spiegò in breve: «A quello non importa il successo o l’insuccesso
della mia tragedia» concluse. «A lui importa di non avere contro, in futuro,
tutta la stampa progressista.» Riferì il tentativo del regista di togliere il pro-
prio nome dai manifesti.
«Che razza di...» esclamò tra i denti Fortunato.
Gli altri tuttavia presero la cosa senza drammi: quello era un fifone, va be-
ne. L’essenziale però era, secondo loro, che non gli fosse riuscito d’impedire il
successo. In merito al quale non esistevano dubbi.
«Lo credete voi» disse Michele, «ma non è così. Da come si son messe le co-
se è chiaro che il successo non c’è stato. Domani ve ne renderete conto dai
giornali.»
Le sue parole sollevarono un coro di proteste; nessuno gli credette.

CAPITOLO DECIMO

L’indomani mattina Michele fu svegliato dalla luce ch’entrava nella stanza


d’albergo attraverso i lunghi spiragli delle persiane avvolgibili. .Si rese conto
di non essere a casa; era a Roma... “I giornali!” pensò subito: “Devo uscire a
prendere i giornali”.
Al suo fianco, coi capelli un po’ di traverso sul bel viso in traspirazione, con-
tinuava a dormire sua moglie: come d’abitudine lo scrittore indugiò un poco a
osservarla nella penombra: “Che tu sia benedetta, Alma, per essere come sei!”
Anche oggi, al pari d’ogni altro giorno, si ripeteva l’incanto, egli sperimentava
la gioia incomparabile di trovarsela vicina.
Più in là, bizzarramente agganciato al braccio d’ottone d’una lampada, pen-
deva l’abito da sera di lei. “Ti sei fatta la veste bella, amore mio, per il successo
che non c’è stato...” Lo scrittore sorrise, scuotendo la testa con tenerezza. Che
compagna meravigliosa Dio gli aveva concessa! Il Signore Iddio, già... soltanto
adesso se ne ricordava! Posata nuovamente la testa sul guanciale, Michele si
tracciò col pollice una piccola croce sulla fronte, e come ogni mattina recitò la
preghiera di lode, il gloria a Dio che non soltanto l’aveva creato, tratto dal nul-
la, ma anche costruito a propria immagine e somiglianza, cioè intelligente e
capace d’amare. Con ciò Dio l’aveva posto incommensurabilmente al di sopra
dei miliardi di miliardi di soli fiammeggianti, e di tutti gli altri oggetti stupen-
di che s’era pure compiaciuto di creare. Michele recitò la preghiera nella for-
ma che ormai da anni aveva finito col darle: “Sia gloria al Padre, cioè
all’Essere increato, sussistente di per sé; sia gloria al Figlio, che è il Pensiero
eternamente pensato dall’Essere, la sua Espressione di fronte a sé stesso; sia
gloria allo Spirito Santo, cioè all’Amore che procede eternamente dall’Essere e
dalla sua Espressione. A queste tre persone che formano un unico Dio, sia al
presente gloria, come ne avevano prima che tutti gli altri esseri intelligenti e
capaci d’amare e d’odiare, cioè gli angeli e gli uomini, fossero creati. E questa
gloria duri eternamente nei secoli dei secoli, amen.” Alla preghiera di lode a
Dio fece seguire - come ogni mattina, e sempre con grande tensione dello spi-
rito - quella d’impetrazione per i morti (i suoi fratelli in Cristo, che dopo Fu-
mana caduta li ha con infinito amore recuperati versando il proprio sangue),
dei quali cercò di richiamarsi anzitutto alla mente i più vicini a lui per paren-
tela o per amicizia.
Ma doveva alzarsi e, procurando di non far rumore, lavarsi, vestirsi e uscire
in fretta senza destare Alma. La sua Alma! Si rimise a contemplarla: era molto
bella a vedersi nella penombra. Che incanto poter rimanere così: questa con-
templazione era, in un certo senso (la contemplazione della bellezza uscita
dalle mani di Dio!), una sorta d’anticipo del paradiso. Che incanto! Perché
dunque interromperla? Chi lo costringeva a uscir fuori e a infognare la men-
te... in che? Nelle tiritere dei giornalisti comunisti e socialisti, e dei piccoli vi-
gliacchi che per tornaconto si fingevano tali! I quali si sarebbero senza dubbio
impancati - già gli pareva di leggerli - a portavoce della cultura più autentica.
“Quale cultura? Quella delle stragi, la cultura che ha prodotto i più grandi
massacri della storia, e nemmeno se ne rende conto!” Oltre tutto era aprile, il
mese di Roma, e lui era a Roma, accanto a questa bella creatura da cui si sen-
tiva attratto anche fisicamente; dunque... “Dai Michele, spicciati, non perder
tempo.” Sporse le gambe dalle coperte, infilò a tentoni le pantofole, si rizzò in
piedi ed entrò nel bagno chiudendone la porta senza far rumore. (Quasi tutti
gli alberghi adesso avevano le camere coi servizi: la povertà d’un tempo la gen-
te se la stava addirittura dimenticando.)
Quando uscì dal bagno lavato e sbarbato, trovò Alma seduta sul letto.
«San Michele arcangelo buon giorno.»
«Ciao regalo del Signore.»
«Perché non m’hai svegliata?»
«Perché volevo lasciarti dormire.»
«Figurati. Altro che dormire: stamattina dobbiamo uscire di corsa a com-
prare i giornali, l’hai dimenticato?» Spinte da un lato le coperte Alma mise i
piedi sul tappeto: «Non ti farò perdere tempo, vedrai. Mi sistemo in un mo-
mento.»
«No, fa con comodo. Te li porto io i giornali.»
«Ma cosa dici? Li dobbiamo andare a prendere insieme.»

CAPITOLO UNDICESIMO

Uscirono dall’albergo senza aver fatto colazione; percorsero frettolosamente


alcuni segmenti di strade verso l’edicola più vicina, dove già nei giorni prece-
denti Michele aveva acquistato i giornali con gli annunci della prossima rap-
presentazione. Passarono accanto a una donna di mezz’età ferma davanti a un
portone con una sformata valigia al piede e un pacco sulla valigia; attendeva
probabilmente l’autobus, aveva l’aria d’essere una donna di servizio appena
giunta in città. Nel sorpassarla Michele l’esaminò senza darlo a vedere: appa-
riva stanca e spaesata, chissà da dove veniva; forse aveva viaggiato tutta la
notte. Lo scrittore provò quasi vergogna per la propria crescente impazienza
di conoscere ciò che i giornali dicevano della sua opera: “Questa qui” si disse
“il suo nome sui giornali non lo leggerà mai, mai.” Rimase pensieroso.
«Vuoi che li scelga io i quotidiani?» gli chiese la moglie quando furono
all’edicola.
«Facciamo insieme.» Acquistarono una copia d’ogni quotidiano in vendita
e, sebbene in quel luogo ci fosse un notevole andirivieni, li aprirono subito
uno dopo l’altro alla pagina degli spettacoli: tutti parlavano, molto o poco, del-
la prima della tragedia. Indugiarono alquanto, cercando tra le righe se i giudi-
zi fossero positivi o negativi, finché: «Vieni» disse lo scrittore «mettiamoci in
un posto più tranquillo.» Alla frusta donna di servizio emarginata dalla sorte
non pensava già più.
S’incamminarono verso l’albergo, ma di lì a poco s’arrestarono di nuovo in
una strada senza traffico, una di quelle strade romane in pendio, ombreggiate
da lunghi filari di alberi, in questo caso lecci la cui vegetazione era tagliata
quasi a spigoli. «Per cominciare io leggo questo» disse Michele «e tu questo.
Dai, vediamo un po’.»
Lessero e si scambiarono quei primi due, poi altri giornali, ogni tanto pro-
nunciando frasi o mezze frasi di commento.
Com’era da attendersi la stampa marxista sputava fiele e livore. «Hai visto
qui nell’ ‘Unità’?» chiese Alma.
«Certo che ho visto. Cosa t’aspettavi?»
«Come maltratta quel povero Pavi Austeri! E hai letto questo punto? Dice
che tu sei una specie di corruttore dei giovani. Cosa vorrà dire? È diventato
matto questo qui?»
Michele rise.
«Ma cosa vorrà dire?»
«Mettiti dal loro punto di vista: tu sai, no? che alcuni dei nostri giovani at-
tori, all’inizio più o meno comunisti, sono entrati in crisi durante le prove.
Beh, si vede che anche quelli del giornale l’hanno saputo.»
«Ma parlare di te a questo modo... Che razza di disgraziato!»
«Pensa a Socrate, su.» Michele rise di nuovo.
Non rise invece Alma, la quale s’andava sempre più rannuvolando. «Che
rettile anche questo dell’ ‘Avanti’» esclamò dopo un po’: «In pratica non fa che
insultarti.»
«Mm.»
«Dice che la tua più che una tragedia è una farsa, perché (lesse) : ‘Le infor-
mazioni dell’autore, in materia di marxismo e di comunismo, non vanno al di
là delle approssimazioni da Domenica del Corriere’.» «Buono eh?» Michele
tentennò la testa: «L’Unione Sovietica la conoscono soltanto loro, i socialisti.
Pensa: non sanno neppure che là, i reggi-coda come loro, una volta utilizzati,
sono stati spediti in massa nei lager. E se glielo dici come faccio io, non rie-
scono a reagire in altro modo che insultando. Si tratta del loro modo di tran-
quillizzarsi, ti rendi conto?»
«Che stupidi.»
«Sì, hanno poco cervello. Hai visto Nenni quando Crusciov ha fatto le sue
rivelazioni? Ha restituito tutto indignato il premio Lenin: sinceramente indi-
gnato direi. L’aveva preso senza minimamente rendersi conto di cosa faceva,
povero asino. E lui è il capo. Anche dopo del resto - almeno finora - non hanno
effettuata alcuna ricerca sulla realtà sovietica, il minimo approfondimento,
niente.» Andarono avanti a leggere un altro po’, senza più parlare.
«Che mi preoccupa, piuttosto» mormorò dopo alquanto Michele, con voce
diversa «è questo qui.» Agitò con un principio d’irritazione il giornale che sta-
va esaminandi: «L’hai letto?»
«No. È ‘Il popolo’?»
«Sì, il giornale della Democrazia Cristiana. Fa un discorso quasi uguale a
quello dei marxisti. Strano.»
Proseguì nella lettura: «Evidentemente la cronaca teatrale del ‘Popolo’ è fi-
nita in mano a un tipo De Ponti. Sì, dev’essere così.» (Quelle amare parole dei
due esuli russi sulla stampa cattolica plagiata!...) «Chissà ieri sera a teatro, per
tenere le distanze da me, cosa ne avrà dette sul mio conto, questa piccola put-
tana che fa di tutto per riuscire gradita ai rossi.» Guardò in calce all’articolo:
«Non si firma. Chi sarà? Comunque un pezzo come questo è un brutto indi-
zio.»
«Forse anche il giornale cattolico parla allo stesso modo?» domandò Alma:
«Qual è? Non l’ho ancora visto.»
«No, quello grazie a Dio è favorevole: è questo, prendi, ‘Il quotidiano’. Ha
scarsa tiratura purtroppo.» Lo scrittore rimase qualche istante sopra pensiero:
gli tornava in mente la sua fiducia al tempo della grande vittoria elettorale del
48, quattordici anni prima, i suoi sogni relativi a un prossimo, grande svilup-
po della stampa cattolica! Che delusione! La moglie l’osservava preoccupata.
«Su, leggilo Alma, cita Apollonio e... insomma parla bene. Anche se non pren-
de del tutto posizione perché... Guarda, ridammelo un momento.» Cercò tra le
righe e lesse: «Qui: ‘la sera della prima è stata ostacolata da inconvenienti
accidentali’ - allude agli scherzetti di Pavi Austeri, solo che non erano acciden-
tali - ‘ostacolata da inconvenienti accidentali che hanno impedito ai critici un
esatto giudizio’. Capisci? È favorevole e mi sembra anche acuto, ma si astiene
dal pronunciare un giudizio conclusivo.»
«Fortuna che l‘Osservatore Romano’...»
«Sì, per fortuna. Quello non delude. L’hai letto? È un articolo lungo - non
come quelli dei giornali di partito - e serio, ragionato: un articolo ben fatto,
molto favorevole.»
Favorevoli erano anche i giornali indipendenti, ad eccezione di uno dei quo-
tidiani di maggior tiratura della capitale, il cui cronista dopo aver elogiato Fer-
ri e Pavi Austeri, stranamente se la prendeva con la mancanza di modestia
dell’autore. Il quale - sempre lì in piedi sotto i lecci della strada - rilesse le ri-
ghe che lo riguardavano senza riuscire a spiegarsele. «Pensare» disse alla mo-
glie «che questo tipo qui è amico di Ferri, ed era uno dei pochi presenti alla
prova generale. Cosa gli avrà preso? Mi piacerebbe sapere cosa gli ha preso.
Beh» concluse a un tratto, mettendosi i giornali sotto braccio: «Non dobbiamo
dimenticare che non abbiamo ancora fatto colazione. Forza, torniamo in al-
bergo.»
«Che gente cattiva c’è al mondo» disse sommessamente Alma, infilando il
suo braccio sotto quello del marito.
Michele le sorrise: «Cara, sai che ho visto di peggio. Qui in fin dei conti nes-
suno ci spara nella nuca, almeno per il momento, e neanche ci fa morire di
fame. Ti rendi conto che nessuno stamattina c’impedirà di far colazione? Que-
sto non deve sembrarti poco. Siamo, rispetto a tanti e tanti, in posizione privi-
legiata, molto privilegiata, te lo dico sul serio.» Aggrottò la fronte: «Pensa a
quelli che, in questo stesso momento, si dibattono senza speranza di salvezza
nelle loro mani, strozzati dall’angoscia per essere stati condannati a morte:
tutti quei poveri contadini cinesi piccoli proprietari, per esempio - proprietari
magari soltanto d’un fazzoletto di terra - che loro stanno sistematicamente
facendo morire.»

CAPITOLO DODICESIMO

Quello stesso giorno i Riva lasciarono Roma per far ritorno in Lombardia;
con loro partì anche Alma, chiamata dai suoi doveri d’insegnante. Michele ri-
mase invece nella capitale ancora qualche giorno per seguire le repliche della
tragedia: intendeva afferrare bene la trasformazione che le frasi subivano nel
momento in cui, da scritte, diventavano parlate.
Una sera Lucio Ferri, incuriosito, lo raggiunse in sala e prese posto accanto
a lui: finì con l’interessarsi al problema dell’altro, che per parte sua aveva ri-
solto da molto tempo: «Tanto che per me lo scritto è un semplice appunto, un
pro memoria; a me il discorso viene in testa già con l’effetto che produrrà a
teatro. Certo è una questione d’esperienza, di pratica.»
«Dì un po’» gli chiese Michele durante l’intervallo (erano rimasti seduti ai
loro posti) : «Te la spieghi tu l’indignazione del cronista del...?» nominò il dif-
fuso quotidiano della capitale.
«Certo» gli rispose Ferri. «Come no? Quello se l’è presa con te perché du-
rante le prove non l’hai avvicinato per lisciarlo, diciamo per reclamizzargli il
tuo lavoro. Tutto qui; se n’è offeso in modo da non credere.»
«Ma... io gli ho consegnato un copione. Che altro potevo fare? Mi sarebbe
sembrata una cosa scorretta fare di più.»
«E infatti è così. Lo vuoi sapere? Io ti ho ammirato per questo. E a lui l’ho
anche detto, gli ho ricordato che in America gli autori si guardano bene dal
reclamizzare la loro opera prima della rappresentazione: se lo facessero si
squalificherebbero. Però qui ci troviamo in Italia, non in America.» Tentennò
la testa: «Senti, giacché siamo in tema di malinconie, ho qualcosa di peggio da
comunicarti. Non sapevo come dirtelo e... Sai la registrazione per la televisio-
ne?» s’interruppe.
«Sì?»
«Me l’hanno annullata. Dopo il chiasso dei giornali di sinistra io me
l’aspettavo. Comunque mi hanno avvertito stamattina. M’ha chiamato al tele-
fono il direttore in persona: ‘Non se ne parla neppure’ m’ha detto. Aveva quasi
l’aria di prendersela con me, che gli ho fatto correre un ‘rischio tanto’.» Ferri
ridacchiò amaro. «E pensare che se tu, invece d’una realtà come questa che
veramente coinvolge la sorte di tutti, avessi trattato robetta, il tuo lavoro in
televisione l’avrebbero dato senz’altro. Era già tutto combinato, lo sai.»
Michele si limitò ad annuire. Di lì a un po’ disse: «Mi viene in mente, come
si chiama? il direttore dell’ ‘Unità’, quel fascista convertito al comunismo. Hai
visto come s’è comportata la televisione con lui? Non solo ha parlato e riparla-
to del libro in cui racconta la sua edificante conversione, ma gliel’ha anche
sceneggiato. L’hanno trasmesso in due puntate, te ne ricordi? Un cinque o sei
mesi fa.»
«Altro che se me ne ricordo» rispose Ferri.
«Beh, in fin dei conti gli scrittori russi prigionieri nei lager e nei manicomi
criminali, non hanno nemmeno loro la televisione a disposizione: non per
questo piagnucolano. Dunque neanch’io piagnucolerò.»
Ferri lo guardò interessato: ad adeguarsi alla situazione, a piegarsi a un mi-
nimo di compromesso - era chiaro - Michele non ci pensava.
«Tu non hai bisogno di guadagnare per vivere?» gli chiese.
«No, grazie a Dio. Insegno in un liceo, e questo mi basta per il pane. E mia
moglie, per vivere, non ha bisogno di me, perché insegna anche lei. Dunque.»
«Ah, è così che la metti?»
«Sì» rispose tranquillamente Michele.
Al termine dello spettacolo Ferri gli disse: «Senti, domani ho qualche ora
libera: mi piacerebbe spenderla a chiacchierare con te.»
«Anche a me» rispose Michele.

***
Trascorsero buona parte della mattinata successiva a conversare, dapprima
nello studio di Ferri, poi girovagando per le vie di Roma.
Il capo compagnia fu assolutamente sincero con Michele, rispose a tutte le
sue domande, anche alle più indiscrete sull’ambiente teatrale («La conosci
quella battuta: ‘Invertito soltanto da un anno, e già regista?’») e sul mondo
della televisione, tutto quanto impostato sul compromesso.
«Dì» chiese a un tratto allo scrittore lombardo: «ti fa vomitare l’ambiente
romano?»
Michele fece segno di no: «M’interessa piuttosto essere al corrente di come
la corruzione originale si faccia sentire anche qui, al centro della nazione.»
Stando con lui l’altro aveva l’impressione di respirare un’aria singolarmente
ossigenata: “un’aria di montagna” pensava. Si chiese se potesse trarre da
quest’individuo così fedele a sé stesso un personaggio per il nuovo dramma
cui stava per mettere mano, e finì col rispondersi che no: “Riuscirebbe un per-
sonaggio troppo improbabile” disse, “anche se è vero”.

***
Nel pomeriggio di quel giorno - che fu il suo ultimo a Roma - Michele
s’incontrò coi due profughi russi nei modestissimi locali in cui approntavano
la loro rivistina. Finì col concordare con loro la traduzione della tragedia in
russo, impegnandosi a rinunciare a ogni compenso. E poiché si rese conto che
il costo della pubblicazione a stampa avrebbe ciononostante costituito per i
due un notevole peso, si offerse di contribuire. “Faccio quei viaggi all’estero
ogni due anni per conoscere il mondo” rifletté, “vuol dire che i pochi soldi
messi da parte per andare negli Stati Uniti, li spenderò in questa impresa.
Tanto l’America non scappa, resta sempre là.”
Così fece. E la tragedia - tradotta in russo dal profugo biondo e stempiato
che somigliava vagamente al tenente Làricev di Arbusov - venne di lì a un an-
no messa in vendita negli ambienti della diaspora russa sia in Europa che in
America, e fu anche inviata per posta in Unione Sovietica, poche copie alla
volta, settimana dopo settimana, sempre con un involucro diverso. In Italia
parecchie copie furono collocate nelle stanze d’albergo degli intellettuali russi
che capitavano in ‘visita organizzata’: la voce si diffuse tra loro, tanto che più
d’uno chiese nascostamente il volumetto agli interpreti o ai portieri d’albergo.
Così Michele si trovò in qualche modo a essere - del tutto inconscio - partecipe
del fenomeno che doveva poi assumere il nome di samizdat. Di lì a poco anche
certi intellettuali polacchi, pure esuli, chiesero d’entrare in contatto con lui e
anche con loro, e alle medesime condizioni, Michele combinò una traduzione.
Intanto a Roma stava per avere inizio il Concilio Vaticano Secondo. A
quell’epoca la chiesa - grazie soprattutto all’azione dei passati pontefici - era
simile a una città perfettamente difesa e in ordine: proprio questo però faceva
sì che la sua voce e il suo insegnamento non arrivassero alla gente uscita dalle
sue mura nei tempi andati. Al lodevole fine di non estraniarsi di più tale gente,
e anzi per ristabilire un colloquio con essa, gli attuali pastori sembravano in-
tenzionati a fare (nei limiti del possibile, e perfino - si aveva a momenti
l’impressione - al di là di tali limiti) lo stesso discorso di quella gente. Che fini-
va ovviamente col non essere più il discorso di Michele, né di tutti gli altri ser-
batisi fedeli nel corso dei secoli.
PARTE SESTA

CAPITOLO PRIMO

Il tempo continuò a passare. Non può fermarsi il tempo: una parte degli es-
seri umani fa crescere («Questo tempo che non passa mai!»), una parte ne fa
declinare («Però... Come fuggono in fretta i giorni e gli anni...»), tutti ugual-
mente porta - senza che lo si possa in alcun modo arrestare - verso la conclu-
sione misteriosa.
«Dopo la morte... Chissà in che condizioni verremo a trovarci realmente? Io
certe volte mi domando com’è fatto l’aldilà» diceva Gerardo a suo figlio padre
Rodolfo, giunto a Nomana dall’Africa per un turno di riposo.
Correva l’agosto 1968, Gerardo era vicino agli ottantanni. Appariva molto
smagrito rispetto a una volta: gli abiti - sebbene Giulia, lei pure una vecchiet-
ta, provvedesse ogni tanto a farglieli restringere, ed egli stesso non mancasse
di farsene confezionare di nuovi - gli stavano tutti larghi; aveva perso molti
denti, per cui la sua bocca specie quando rideva riusciva assai sgradevole a
vedersi; stava anche diventando sordo. Non aveva tuttavia cessato di lavorare:
«Io ho bisogno di sentire i telai che battono» usava dire (le sue affermazioni,
un tempo prese molto sul serio da tutti, adesso potevano apparire - anche se
non lo erano - un po’ velleitarie, e c’era a volte chi ne sorrideva). In più d’una
circostanza egli si era ultimamente trovato in contrasto col figlio Ambrogio su
importanti decisioni da prendere circa il lavoro: in genere a torto, e l’aveva poi
riconosciuto. In seguito a ciò, dopo avere ben ponderato, senza che nessuno
glielo chiedesse aveva trasferita integralmente la direzione della ditta ad Am-
brogio, riservando per sé soltanto un piccolo ufficio isolato. Là aveva fatto si-
stemare la sua vecchia scrivania e un telefono, là il rumore dei telai non gli
mancava, anzi gli giungeva meno attutito che nell’ufficio principale. E là Ge-
rardo indipendentemente dalla ditta, adesso comprava e vendeva in proprio
filati e tessuti in modesti quantitativi, come all’inizio della sua attività im-
prenditoriale. «Cosi non rimango in ozio» diceva ai pochi rappresentanti di
commercio che l’andavano a visitare (in genere individui anziani con cui aveva
trafficato per tanti anni, ma anche qualche sprovveduto novellino al quale il
suo nome suonava ancora importante). A non lasciarlo in ozio sarebbero co-
munque bastati i due figli missionari, padre Rodolfo appunto - che ora gli pas-
seggiava al fianco - e il medico Pino, le cui iniziative egli s’era sempre più as-
sunto il compito di sostenere mediante un invio metodico di materiali raccolti
anche da appositi centri: medicinali e ancora medicinali, apparecchiature sa-
nitarie, idriche, agricole, scolastiche, macchine varie, viveri, capi di vestiario;
più d’una volta era riuscito a servirsi, per trasferirli in Africa, degli aerei da
trasporto dell’aeronautica militare (la quale era allora tenuta per regolamento
a effettuare ogni anno voli di addestramento in ‘zone particolarmente disagia-
te’); frequentando missionari e militari il vecchio industriale aveva con sor-
presa scoperta l’affinità esistente tra i due tipi umani: non tutto ciò che aveva-
no in comune egli era in grado d’individuare, ne vedeva però bene l’uguale
disponibilità a spendersi e la facilità di contentatura, e certi conseguenti at-
teggiamenti, bizzarramente simili.
Ora Gerardo - come s’è detto - stava parlando col figlio dell’aldilà. Passeg-
giavano sul vialetto dell’orto che conduceva alla balconata e al tasso ‘a breva’
dal quale una volta cantavano gli usignoli (non più adesso, da quando gli in-
cessanti sibili notturni della vetreria li avevano scacciati: da anni a Nomana
non se ne sentiva più cantare uno). A lato del vialetto rimaneva però ancora la
siepe di carpini lungo cui Manno aveva fatto baruffa con l’usignolo durante la
sua ultima licenza, prima di partire per sempre; sull’altro lato cresceva ancora
la solita camomilla spontanea, dal buon odore arsiccio, pacifico; poiché era
giorno, e c’erano quindi nell’aria altri rumori, i sibili della vetreria giungevano
smorzati.
«Se si potesse sapere com’è fatto realmente il mondo di là» disse Gerardo.
«Da giovane un idea io credevo d’avercela, ma adesso...»
«Non è facile farsene un’idea» convenne il figlio, che provava un nascosto
senso di pena per il disfacimento paterno. (“Per forza gli si prospetta il pensie-
ro della morte” pensava “chissà quante insufficienze gliela richiamano ogni
giorno, povero papà”.)
«Ma perché» gli chiese «vorresti avere un’idea esatta dell’aldilà?»
«Eh, perché...» mormorò Gerardo.
«Noi uomini non possiamo raffigurarci una realtà fatta solo di spirito» dis-
se il frate: «temo proprio che a questo riguardo non ci sia scampo.»
«Ma perché, io mi chiedo a volte, nessuno è mai tornato indietro a riferire
come stanno le cose dall’altra parte?»
«Qualcuno con certezza è tornato» gli fece notare il frate: «Lazzaro per
esempio, che è stato resuscitato dal Signore.» Siccome aveva parlato con voce
normale, il vecchio socchiuse la bocca dai brutti denti e inclinò la testa verso
di lui, porgendo un orecchio. “Devo ricordarmi ch’è un po’ sordo” pensò padre
Rodolfo, “io seguito a dimenticarlo”. «Lazzaro, quello del Vangelo, per esem-
pio» disse con voce più sostenuta: «Quello senza dubbio deve aver riferite le
cose che ha visto di là, perché dopo uscito dal sepolcro non s’è mica chiuso in
sé stesso, tant’è vero che in seguito, se ricordi, ha offerto al Signore e agli apo-
stoli una cena in casa sua.»
«Il Vangelo non dice cos’ha riferito?»
«No. Significa che coincideva con quanto il Signore andava insegnando tutti
i giorni. È ovvio del resto.»
«Ma cosa insegna precisamente il Signore?»
«Le stesse cose che ci insegna oggi la chiesa: in sostanza chi si salva va a
godere per l’eternità della visione beatifica di Dio.»
«Già. Ma di cosa si tratta esattamente? La visione... Noi non ce la possiamo
immaginare, dici tu.» Il vecchio rifletté pensoso. «Ad ogni modo quello che io
vorrei soprattutto sapere è se di là c’importerà ancora veramente delle perso-
ne alle quali abbiamo voluto bene su questa terra, e se staremo ancora in loro
compagnia.»
«Io credo proprio di sì. Pensa alla posizione privilegiata - al di sopra degli
angeli e dei santi - in cui Gesù ha voluto porre la sua mamma terrena... Del
resto l’amore umano è oggettivamente un bene: dunque, siccome in Dio c’è
ogni bene, noi di là lo ritroveremo. In ogni caso, papà, tieni presente che
dall’altra parte noi non troveremo una realtà, come dire? inferiore a questa,
ma proprio il contrario. Troveremo una felicità duratura: quella che tutti cer-
chiamo sempre anche qui sulla terra, perché appunto per essa siamo costrui-
ti.»
«Già» mormorò Gerardo «già.» Rifletteva, utilizzando il suo cervello che
presto si sarebbe sfatto, come è nel destino di ogni organo di carne: «Però...»
«Però papà?»
«Le cose di là non avranno quasi più rapporto con quelle di questa vita: sa-
ranno per forza diverse, diversissime.»
«Sì, certo.» Il figlio lo considerò con pietà: «Papà, son d’accordo anch’io che
le cose di quaggiù hanno una loro validità. Mi viene in mente san Francesco e
il sasso ‘spicco’ della Verna: lui, dico san Francesco, aveva come pochi il senso
delle cose terrestri: l’aria, l’acqua, il fuoco, i fiori, l’erba... pensa al cantico del-
le creature; inoltre, a differenza di noi, conosceva anche il mondo di là, perché
c’era stato in estasi parecchie volte: insomma era in qualche modo in grado di
fare il confronto. Beh, al momento di lasciare la Verna per andare ad Assisi a
morire (sapeva d’andare a morire, e lo diceva, perché Dio gliel’aveva rivelato)
pur essendo impaziente di raggiungere il cielo, s’è messo a piangere quando
ha salutato quel sasso che gli era caro, perché alla sua ombra tante volte aveva
pregato e meditato. Ecco: anche le cose di qui contano. E lo stesso Lazzaro...
non è che dopo avere sperimentato l’aldilà, considerasse zero tutto quello che
c’è e si fa sulla terra. Tant’è vero che s’è dato da fare per offrire al Signore
quella cena: una cena preparata con grande impegno, giusto come faremmo
noi nelle nostre case.»
«Sì» disse il vecchio industriale annuendo ripetutamente: «Sì. Tanto che le
cose di là io... Beh, finiscono col non attirarmi. Un posto in cui ci saranno mi-
liardi e miliardi di anime, anzi dopo la resurrezione dei corpi, miliardi di per-
sone: chissà quanti miliardi, ti rendi conto? Senza contare gli angeli, che sono
anche loro un’infinità... Come potrebbe attirare un posto simile? Mi chiedo
perfino se sia possibile che uno ci si trovi a suo agio...»
«Beh, una volta a questo riguardo sarebbero mancati riferimenti, ma non
oggi. Certo, ripeto, noi non possiamo raffigurarci l’aldilà. Che però al Creatore
sia possibile creare un paradiso... adeguato» padre Rodolfo sorrise «ce lo di-
mostra, e d’avanzo, il creato materiale. Papà, io non sono uno studioso di
scienze, ma ho letto nelle divulgazioni che nella nostra sola galassia ci sono
più o meno cento miliardi di stelle, e che nell’universo finora esplorato coi
mezzi moderni, ci sono più o meno cento miliardi di galassie: vuol dire - stan-
do a quanto gli scienziati hanno scoperto finora - cento miliardi per cento mi-
liardi di stelle, cioè di soli... Che numero dà? Insomma chi ha potuto creare un
simile numero di soli, non può certo avere difficoltà a creare un posto in cui
stiano magnificamente a loro agio quanti vuoi miliardi di persone e di angeli.»
«Questo è anche vero, sì.»
Per allontanare il padre dal pensiero della morte, il missionario cercò di de-
viare un poco il discorso: «Noi non sappiamo se - come certuni suppongono -
ci siano anche altri astri abitati. Se però non ce ne sono, beh mi sembra che
questa immensa estensione dell’universo non sarebbe ugualmente senza sco-
po, appunto perché serve a dare a noi uomini l’idea della potenza del Creato-
re.»
«A noi uomini? Vuoi dire che siamo così importanti?...» mormorò Gerardo.
«Sappiamo per rivelazione che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio:
qui sta il punto. E vediamo che, effettivamente, c’è un abisso tra l’uomo e tutte
le altre creature. Pensa per esempio: noi siamo gli unici in grado di uscire
dall’astro in cui siamo nati, con la materia del quale (il fango di cui parla la
Bibbia) Dio ci ha fatti. Lo sai che per Natale gli americani hanno in program-
ma di arrivare a girare intorno alla luna.»
Gerardo annuì; guardava il figlio coi vecchi occhi azzurri slavati e un po’
spenti. Non avrebbe dovuto attendere molto - pensò questi, con una nuova
sensazione di rammarico - per sincerarsi d’ogni cosa nell’aldilà.

CAPITOLO SECONDO

Dalla porta di casa uscì Noemi (aveva più di settant’anni, s’era fatta grossa e
alquanto sbilenca, e molto grigia di capelli, mancava di vari denti; cionono-
stante era lei pure sempre attiva. Disponeva d’un conto in banca di qualche
milione, e d’una stanza ben organizzata, con letto e cucina, a ‘I dragoni’, sopra
l’appartamento dei portinai: vi si recava soltanto la domenica per rassettare:
«Quella stanza mi sarà utile quando sarò vecchia» affermava.) Fece ora solec-
chio con la mano ed esplorò nelle varie direzioni: scorti i due che passeggiava-
no nell’orto, li chiamò ad alta voce come faceva una volta coi bambini: «Signor
Gerardo, padre Rodolfo, è pronto...»
«Veniamo subito» le gridò con sollecitudine il religioso, per evitarle di ripe-
tere - come doveva immancabilmente fare un tempo coi bambini - il suo ri-
chiamo. E giratosi s’incamminò senz’altro con Gerardo verso casa.
Nella sala da pranzo - sempre la stessa, sempre tenuta in buon ordine, sen-
za cambiamenti di rilievo - c’erano in quel momento Giulia e Ambrogio,
quest’ultimo appena giunto dalla fabbrica (sua moglie e i suoi figli erano al
mare: per tale motivo, e tanto più volontieri da quando era arrivato il fratello
Rodolfo, egli consumava i pasti nella casa paterna).
Giulia stava facendo ordine in un cassetto del buffè: da qualche tempo que-
sta del fare ordine era diventata in lei una sorta di mania, quasi sentisse il bi-
sogno di mettere ogni cosa a posto prima d’andarsene per sempre. Negli ulti-
mi anni aveva fatto passare più volte la vecchia corrispondenza, i libri, i qua-
derni, gli oggetti di scuola dei figli, estraendone dei pezzi, che aveva consegna-
to all’uno o all’altro di loro: «È roba tua: forse col tempo potrebbe ancora inte-
ressarti, portalo via.» Alle figlie e alle nuore, sempre materna, aveva, anno per
anno, un Natale dopo l’altro, distribuito quasi tutti i propri gioielli, i sopramo-
bili di valore, i piatti e i vasi d’argento e di cristallo della casa (di questi alcuni
non venivano mai usati, altri però tutti erano abituati a vederli in un dato pun-
to della casa, perciò avrebbero voluto che vi rimanessero, ma lei: «Perché
aspettare che io muoia? Prendeteli, su, godeteli adesso mentre siete ancora
giovani»). Nel fisico s’era ulteriormente rattrappita e fatta anche un po’ gob-
ba: “Però è pur sempre lei, la mamma” pensò padre Rodolfo al vederla, rin-
graziando istintivamente Iddio che gliela conservava.
Dopo essersi lavate le mani (in una toletta nuova, ricavata dove prima era
un ripostiglio) gli uomini raggiunsero il proprio posto intorno al tavolo; Giulia
invece indugiava, china sul cassetto che stava riordinando. Il marito la prese
bonariamente in giro: «Una volta ero io a non arrivare mai puntuale a tavola,
ma adesso!»
«Vengo, arrivo subito» esclamò Giulia: «intanto voi cominciate a mangiare.
Un minuto solo e ho finito.»
«No mamma, finché non vieni non benedico la mensa» disse Rodolfo.
La vecchietta chiuse allora - ma non del tutto - il cassetto a cui stava traffi-
cando, e s’affrettò al tavolo dove prese devotamente parte alla preghiera in
comune; poi, mentre gli altri sedevano, uscì in fretta dalla sala: «Vado a la-
varmi le mani e torno subito».
«La mamma» commentò Ambrogio «non riesce proprio a stare in pace.» E
a Rodolfo: «Lo vedi come fa?»
Rodolfo annuì: «L’avevo già notato» mormorò.
«Francesca cerca di tenerle compagnia» disse Gerardo, che per udire le pa-
role del figlio aveva protesa la testa verso di lui: «Viene apposta ogni giorno da
Visate. E sì che a Visate adesso hanno i loro guai, poveretti.»
«Ho sentito» fece padre Rodolfo.
«I Marsavi stanno male quasi quanto noi al tempo del Brusasca e di
quell’esportazione in Francia» specificò Ambrogio. «Sputano sangue giorno
dopo giorno per tenersi in piedi, e a loro occorrono cifre più grosse di quelle
che occorrevano allora a noi. Povero Andrea, sempre in giro a combattere con
le banche.»
«E pensare» osservò Rodolfo «che, almeno nel nuovo settore, quello farma-
ceutico, producono roba talmente buona. Il loro preparato contro la lebbra è
risolutivo: noi lo usiamo da qualche anno, e non ce l’hanno mai fatto pagare,
lo sapete: basta che gli scriviamo e subito lo mandano. Che brava gente!»
Gerardo annuì pensoso: «È una vera vergogna quel parroco» disse.
«Il parroco?» domandò meravigliato padre Rodolfo: «Cosa vuoi dire?»
«L’attuale parroco di Visate» gli spiegò Ambrogio per il padre. «È uno di
quei preti nuovo stile che... Per quanto riguarda gli operai, i guai più seri ai
Marsavi glieli procura lui: pensa, è arrivato a dire in una predica che se non
sono pagati come si deve, gli operai hanno il diritto di rubare, perché non sa-
rebbe più un rubare. Chi lo decide però se sono pagati o no come si deve? Io
vedo che oggi hanno tutti quanti la macchina, e molti anche l’appartamento, e
un mucchio d’altre cose.»
«E loro, gli operai, come reagiscono?»
«Quelli anziani sono sempre a posto, continuano come prima; ma tanti dei
giovani sono un vero disastro» disse Ambrogio. «Non rubano, ma a volte gua-
stano la roba. Anche perché le Acli e la Cisl (sai bene quanto contano qui in
Brianza) fanno più o meno i discorsi balordi del parroco.» Tentennò la testa:
«Io proprio non capisco cosa gli ha preso ai nostri sindacalisti: dopo il Conci-
lio, lasciati liberi di scegliersi la strada, non hanno saputo far altro che acco-
darsi ai rossi, e non gl’importa se così smentiscono tutto quello che han detto
e fatto prima. Trattare con loro, con quelli della Cisl voglio dire, oggi per noi è
diventato anche peggio che trattare coi rossi. Lo sto sperimentando io in que-
sti giorni, che sono cominciate le trattative per il nuovo contratto di lavoro.
Figurati i Marsavi...»
«Sai che a Visate certi ragazzotti» disse Gerardo «sono arrivati a picchiare
due operai anziani che li avevano sgridati per i vandalismi?»
«Ma cosa diavolo state combinando qui in Italia?» esclamò padre Rodolfo.
Egli vedeva ogni cosa dalla sua prospettiva particolare: gli italiani, e gli euro-
pei in genere - tutti, anche gli operai - a lui sembravano straordinariamente
ricchi; e lo erano, se paragonati agli indigeni tra i quali egli viveva: queste vi-
cende che gli venivano riferite - come anche le recenti, grandi baraonde stu-
dentesche di cui gli era giunta notizia laggiù in missione - a lui sembravano
dunque in un certo senso delle beghe, dei capricci di ricchi.
Prima che gli altri rispondessero tornò in sala Giulia la quale, dopo essersi
lavate le mani aveva trovato modo d’indugiare un poco di là. Gli uomini cam-
biarono allora discorso (era diventata piuttosto apprensiva la mamma): Am-
brogio attaccò a parlare degli americani che, come la televisione aveva ricor-
dato la sera prima, progettavano di mandare entro l’anno un’astronave con tre
uomini a bordo a girare intorno alla luna: «È da tempo che ne parlano, e del
resto avete visto, le loro astronavi vuote ci sono già andate tre volte senza in-
convenienti. Anche gli equipaggi andranno e torneranno senza inconvenienti,
ci possiamo giurare.»
«Ma davvero arriveranno anche a sbarcare sulla luna?» fece Gerardo. «A
me pare una cosa talmente impossibile.»
«Eppure vedrai papà» disse il figlio frate: «entro l’anno venturo o al mas-
simo in due anni ci arriveranno, precisamente com’è nel loro programma.»
«Certo, a pensarci, sembra una cosa impossibile» osservò anche Ambrogio:
«Andare sulla luna!»
La madre ascoltava senza parlare, come attonita.
«Sarà veramente una grande vittoria dell’uomo» disse il frate; «anche pri-
ma in giardino se n’è parlato col papà: una straordinaria dimostrazione della
superiorità dell’uomo sulle altre creature.»
«Sì» fece Gerardo. «Eppure vedi come si comportano certi commentatori
della televisione? Si direbbe che a loro la cosa gli faccia rabbia: ogni volta tira-
no fuori quanto costa.»
«Con tutto che noi italiani per quei viaggi non spendiamo un quattrino» fe-
ce notare Ambrogio.
Non potevano immaginare allora che un tale meschino spirito denigratorio
si sarebbe andato sviluppando nel mondo intero fino a stendere - qualche an-
no dopo la grande impresa - una sorta di velo d’avversione e infine di silenzio
su di essa. Gli uomini avrebbero così trovato modo di guastare anche
un’impresa delle dimensioni di questa... Tuttavia, va pure detto che
l’avrebbero compiuta.

CAPITOLO TERZO

Al termine del pranzo, dopo avere sorbito con una certa fretta il caffè, Am-
brogio s’avviò verso la fabbrica da solo, in quanto Gerardo intendeva trascor-
rere l’intera giornata in compagnia del figlio giunto dall’Africa.
Nell’ultimo tratto di strada il rumore dei telai venne incontro all’industriale:
erano tutti automatici adesso, non soltanto più veloci di quelli d’una volta, ma
anche in grado di cambiare da sé le spole man mano s’esaurivano (Marietta
‘delle spole’ - dal fare bislacco, e i capelli repulsivi, e gli occhi neri d’agnello —
era morta, e le vecchie spoliere cui un tempo accudivano le sue principianti
non esistevano più); erano anche in grado, i telai nuovi, d’arrestarsi da soli
appena un filo dell’ordito si spezzava; ogni operaia non ne sorvegliava più due
o quattro come un tempo (quando lavorava Giustina) ma otto o dieci, e anche
più. I muri della fabbrica erano sempre gli stessi, solo rintonacati e con serra-
menti nuovi in alluminio; per gli uffici era stata costruita una palazzina a lato
dell’ingresso, sull’area d’un capannone demolito: intorno alla palazzina cre-
scevano pianticelle di tiglio ancora gracili, contrastanti con i vecchi tigli su-
perpotati degli altri cortili.
Ambrogio entrò nel proprio ufficio a pianterreno e sedette alla scrivania; di
fronte a lui l’ampia finestra del locale (in cui non c’erano altre scrivanie oltre
la sua) era spalancata e lasciava entrare l’incalzante rumore dei telai e il gran
caldo d’agosto. Aveva mezz’ora di tempo prima dell’incontro ‘informale’ (“In-
formale: questo frasario da burocrati!”) che gli era stato chiesto dal consiglio
di fabbrica, e intendeva prepararsi. Sul tavolo insieme ad altri documenti era
predisposto un grafico con le coordinate relative alla mano d’opera: tre linee
spezzate che divergevano sempre più. Il numero dei dipendenti (di poco supe-
riore ai duecento) da anni non variava o quasi; quello dei presenti al lavoro
(una linea curvata all’ingiù) era da qualche anno in diminuzione a causa del
nuovo fenomeno dell’assenteismo, che aveva cominciato a farsi sentire anche
a Nomana; la terza linea, quella relativa al costo della mano d’opera,
s’impennava addirittura attraverso tutto il foglio; Questo in particolare preoc-
cupava Ambrogio; non che avesse bisogno del grafico per esserne al corrente,
anzi la nozione di tale realtà non lo lasciava si può dire mai; ma a vederla così
prospettata se ne sentiva maggiormente incalzato.
Doveva risolversi a eliminare qualche altra delle lavorazioni ormai in perdi-
ta o quasi (alcune schede disposte sul tavolo gliele indicavano), perché chissà
che sberla sarebbe stato il nuovo contratto di lavoro. Da quando i socialisti
erano entrati nel governo, i sindacati erano riusciti a far promulgare leggi pu-
nitive per l’industria, che avevano resa agli imprenditori la vita più difficile,
sovente senza vantaggio alcuno per gli operai. Ciò soprattutto dopo la decisio-
ne (uno schiaffo tremendo per i sindacalisti) dei capi sovietici di far costruire
agli imprenditori italiani la maggiore fabbrica d’automobili della Russia a To-
gliattigrad sul Volga. Nel corso del corrente anno 1968 a complicare le cose
erano poi intervenute le gazzarre studentesche. Questa - a sentire il cognato
Michele tuttora specialista di comunismo - era un’ondata che partiva dalla
Cina: gli studenti occidentali (sollecitati senza tregua - non va dimenticato -
dai loro maestri in modernità, alla rivoluzione e ai mutamenti) avevano a un
tratto preso un abbaglio colossale su quanto stava succedendo in Cina. Aveva-
no cioè creduto che davvero gli studenti cinesi impegnati nella cosiddetta ‘ri-
voluzione culturale’ (in realtà intruppati e mossi come burattini dalla fazione
più feroce del partito comunista cinese) stessero trasformando il loro paese
‘con la fantasia’, e s’erano buttati a corpo perduto sulla medesima strada. Nei
diversi paesi occidentali le grandi gazzarre studentesche stavano producendo
conseguenze diverse (particolarmente gravi negli USA); in Italia rendevano di
fatto ogni giorno più dimissionaria la classe politica nei confronti della piazza.
Il vuoto di potere che s’andava producendo non veniva però occupato dagli
studenti, incapaci di fare altro che chiasso, ma dai sindacati, i quali una certa
presa sulla piazza la mantenevano. Dopo di che - com’è nella loro natura - i
sindacati andavano traducendo tale crescente potere in richieste sempre più
sconsiderate d’aumenti salariali e delle spese sociali. Quanto ai pochissimi
uomini di cultura che si sforzavano - come il cognato Michele sul quotidiano
cattolico milanese - di far conoscere ciò che realmente stava succedendo in
Cina, e denunciavano il grande abbaglio collettivo, non venivano presi in con-
siderazione neppure per essere derisi...
“Siamo al punto” pensò Ambrogio “che anche chi viene a conoscenza di
queste cose, non riesce neppure a capire che deve preoccuparsene...”
L’industriale fece ripetuti segni di diniego con la testa: a volte aveva la para-
dossale impressione che in Italia gli unici individui ancora dotati di senso di
responsabilità, addirittura gli unici individui maggiorenni, fossero gli impren-
ditori. “Verrebbe voglia di lasciare che se la sbrighino gli altri, lasciarli andare
avanti fino a sbattere il naso... Ha fatto bene Fortunato a piantare l’industria!”
Ma aveva fatto davvero bene? Ancora Ambrogio non aveva finito di pensarlo,
che già ne dubitava: “Eh no. Ci deve pur essere qualcuno che faccia fronte,
perché le cose non potranno andare sempre avanti così: la gente dovrà per
forza tornare a ragionare un giorno...” Ma basta con tutto questo; doveva con-
centrarsi nel suo problema immediato, fissò l’attenzione sulle schede.
Dopo alquanti minuti squillò il telefono. L’industriale sollevò con gesto
meccanico il ricevitore: «Sì? Pronto.»
«Pronto? Pronto? Sei tu Ambrogio, sì? Qui è Fanny.»
«Ah. Buon giorno cara, come stai?»
«Vedi un po’» disse Fanny «se ho sbagliato a chiamarti in ufficio anziché a
casa» e rise.
«Eh già. Ma dì, com’è che chiami a quest’ora?» Fanny si trovava al mare sul
Gargano, con i due figli maschi (Manno di quindici, e Filippo detto Popi di
quattordici anni) e la figlia Orsetta di undici. Ambrogio in quei giorni avverti-
va molto la mancanza dei due ragazzi, specialmente del maggiore, così ‘suo’:
somigliante com’era nel carattere lineare e nella buona volontà a lui e a suo
padre Gerardo. «Dì un po’, da dove mi telefoni, dall’albergo?»
«Certo Ambrogio, si capisce. Immaginati se con questo sole potrei essere al-
la spiaggia o fuori a passeggio... Bisognerebbe essere pazzi fanatici.»
«Mm.» Ambrogio sorrise; in fin dei conti gli faceva piacere risentire sua
moglie: quel modo di parlare gli richiamava tempi lontani; pensò che
l’indomani, sabato, l’avrebbe rivista, e con lei avrebbe rivisto i figli; anche la
prospettiva d’un paio di giorni d’interruzione del lavoro gli riusciva in questo
momento gradita. «Dimmi allora, perché questa telefonata? Cosa c’è di bel-
lo?» S’aspettava che la moglie gli chiedesse di portarle qualche oggetto o in-
dumento lasciato a casa.
«Non vorrei dispiacerti» rispose invece Fanny «dato eh eravamo d’accordo
che tu saresti stato qui con noi domenica e forse già domani pomeriggio...»
«Infatti, già domani pomeriggio, non forse» disse Ambrogio. «Perché?»
Non sorrideva più.
«Però quanto a domani parevi incerto.»
«È vero. Ma poi mi son reso libero.»
«Beh, allora, se è così, non importa» disse la moglie.
Ambrogio ne immaginava il viso non più bello - con quella fronte angolosa e
i denti un po’ sporgenti - contrariato. Sentì nascersi dentro, mescolate, pietà e
irritazione. Ma fu solo questione di attimi: «Cosa c’è, dimmi» chiese con voce
il più possibile distesa: «Voi lì avete per caso fatto un altro programma?»
«I ragazzi. Insistono per andare alle isole Tremiti, capisci?»
«E non potremmo andarci tutti insieme domenica?»
«No. Gli unici posti - l’unico buco disponibile sul piroscafo - sono per la
partenza di domani, ecco il guaio. Abbiamo telefonato al porto, non credere,
ma per la partenza di domenica non c’è niente da fare: tutto esaurito.»
«Capisco.»
«Ad ogni modo non importa» disse la moglie. «Come non detto, lasciamo
pur perdere.»
«No» fece Ambrogio «aspetta, perché? I ragazzi ci terranno di sicuro.»
«Sì. Figurati che Manno s’è ficcato in testa di cercare le tartarughe.»
«Va bene. Io potrei anche rimandare la mia venuta a sabato venturo, ve-
diamo, fammi controllare l’agenda... Sì, potremmo fare così.» «Se però non ti
va di rimandare...»
«Perché? Non importa. Già la sfacchinata del viaggio - aereo, poi macchina
rent - sarebbe stata notevole, e... Ecco, facciamo così: vengo sabato venturo.»
«Vuoi parlare coi ragazzi?»
«Sì. Cioè non adesso. Sto aspettando da un momento all’altro il consiglio di
fabbrica e devo ancora consultare dei documenti. Salutameli tu i ragazzi, e
buona passeggiata, cercate di divertirvi.»
«Ciao caro. Non volermene.» La voce di lei era chiaramente sollevata.
«Di cosa? Ti pare? Attenta piuttosto sul piroscafo, specialmente a Filippo.»
«Sì, ciao. Stammi bene.»
Dov’era finita pensò Ambrogio, deponendo il ricevitore, la Fanny D.O.V.
che lui aveva conosciuto all’università, che poi lo aveva curato come croceros-
sina (com’era leggiadra allora...), e in seguito l’aveva sposato? Gli occhi verdi li
aveva sempre, si capisce, ma adesso le si erano fatti duri, e soprattutto alieni.
“Povera Fanny. L’ho portata in un mondo che non era il suo, che non le si con-
faceva. ” Lei al principio aveva cercato d’adeguarsi, con brio anche, ma era
arrivata troppo presto quella prova interminabile, la crisi della ditta “e ha fini-
to con lo spoetizzarsi...” C’erano stati giorni in cui Ambrogio aveva creduto
d’essere sul punto di perderla: un paio di volte Fanny aveva abbandonata la
casa (che momenti quelli!), però s’era ogni volta rifugiata dai suoi, per fortu-
na, e dopo qualche giorno era tornata. In seguito, col tempo, avevano trovato
un modus vivendi: alle crescenti fatuità di lei (l’esigenza di vestirsi sempre in
sartorie à la page, la passione per le partite di canasta, la frequentazione di
quei ricevimenti chic a lui così incongeniali) egli si era adeguato senza fiatare,
pago che lei, se non altro, gli si conservasse rassegnatamente fedele. Del resto
a questo aveva contribuito molto la presenza dei figli.
Ma bando a tutto ciò: doveva preparare l’incontro col consiglio, chiarirsi
bene i limiti entro i quali avrebbe potuto assecondare le sue immancabili ri-
chieste. Dispose meglio le schede davanti a sé sul tavolo; s’era accorto che ne
mancavano alcune che gli sarebbero state utili, chiamò - premendo un pulsan-
te - l’impiegata che gli faceva da segretaria, una donna di mezza età in grem-
biule nero, la quale prontamente entrò e prese dagli scaffali le schede mancan-
ti. Gliele dispose sul tavolo, quindi se ne andò dopo aver chiesto se gli occor-
resse altro: aveva un’aria solidale e preoccupata per i nuovi, immancabili osta-
coli che nell’imminente visita sarebbero stati frapposti al buon andamento
dell’azienda. “Ecco una che s’è conservata fedele” pensò Ambrogio con un
mezzo sorriso. Da fuori seguitava a entrare il caldo estivo e il fragore dei te-
lai... La vita, che serie ininterrotta di ostacoli! Più ne superi e più se ne presen-
tano. Vale davvero la pena di continuare in un simile gioco? L’industriale tor-
nò a concentrarsi nei suoi prospetti.
Trillò di nuovo il telefono; l’uomo afferrò ancora meccanicamente il ricevi-
tore: «Sì? Ditta Riva» recitò.
«Potrei parlare, per favore, col dottor Ambrogio Riva?» chiese una voce un
po’ esitante di donna (di chi poteva essere? Gli pareva di conoscerla quella
voce...)
«Sono io. Chi parla?»
«Sei tu Ambrogio? Davvero?» esclamò la voce facendosi gioiosa: «Che effet-
to mi fa, sapessi, risentirti dopo tanto tempo. Ma sei proprio tu?»
«Sì, sono io.»
«Indovina chi ti parla.»
«Sei Colomba vero?» disse Ambrogio, di colpo stranamente emozionato.
Non aveva più vista Colomba dal giorno della tesi di laurea, quanti anni pri-
ma? «Colomba! Che piacere sentirti. Come stai? Come va? Hai ricevuta la mia
cartolina d’auguri, è così?»
«Sì, appunto. L’ho ricevuta oggi, pensa, con tre settimane di ritardo. Da
Novara me l’hanno rispedita qui ad Alagna dove siamo in villeggiatura. Per cui
mi son detta: ‘Questo incredibile Ambrogio, che dopo tanti anni mi manda gli
auguri per il mio compleanno!’ È la seconda volta che me li mandi, vero? An-
che l’anno scorso li ho ricevuti: anche allora una cartolina.»
«Sì, infatti.»
«Beh, mi son detta, stavolta voglio proprio telefonargli. Ed ecco.»
«Hai fatto molto bene.»
«Sapessi che strano effetto mi fa sentirti dopo tanto tempo.»
«Anche a me» rispose Ambrogio. (Era la verità: avvertiva un’emozione in-
tensa, paradossale, quasi di ragazzo ai primi approcci d’amore.) «Non ci siamo
più visti dal giorno della mia laurea, ti ricordi? Dunque dal 47. Fanno, vedia-
mo... fanno ventun anni, pensa un po’.»
«Proprio così, Ambrogio.»
A quel tempo egli s’era imposto, per lealtà verso Fanny, di non incontrare
più Colomba; com’era nel suo carattere aveva tenuto fede al proprio impegno,
non aveva mai sgarrato.
«Però che strano tipo sei» disse Colomba. (La sua voce era sempre fresca,
giovanile, il che la faceva supporre immutata anche quanto al resto: “Ma cer-
tamente non può essere così” pensò Ambrogio.)
«Perché? Perché mi son fatto vivo dopo tanti anni? Beh, dimmi di te. Come
stai? Cosa fai di bello? E i tuoi figli? Sono due vero? Saranno già abbastanza
grandi adesso.»
«Eh sì. La maggiore è ormai fidanzata. Gli anni passano, caro Ambrogio. Il
maschio veramente è ancora piccolo, fa il ginnasio, pensa che...» Colomba gli
diede alcuni concisi ragguagli; davvero la sua voce non era cambiata: pareva
ad Ambrogio di vedersela davanti ragazza, con la figura a giunco, gli occhi gri-
gio-azzurri e la bella testa da statua greca. «Ma perché, dico io» concluse Co-
lomba «non ci decidiamo a incontrarci, qualche volta?»
«Eh!» convenne l’industriale: «ti rivedrei proprio volentieri.»
«Noi torniamo a Novara a fine settembre. Potresti venirci a trovare subito
dopo; bada però, senza lasciar passare altri mesi, o magari anni. L’indirizzo ce
l’hai.»
«Sì» fece Ambrogio. «Ma... Dove hai detto che ti trovi adesso? Ad Alagna?»
«Sì, in Valsesia. Ho una villa qui: una villetta di legno, non credere, però è
frutto del mio lavoro. L’ho comprata dopo la morte di mio marito: d’estate per
i ragazzi è l’ideale.»
«Che brava» la complimentò Ambrogio. Intanto si chiedeva: “Perché aspet-
tare? Dopo tanti anni, maturati come siamo tutt’e due... È vero che sentire la
sua voce mi commuove, ma è ridicolo pensare che adesso io possa mancare di
fedeltà a mia moglie, anche soltanto col pensiero.”
«Fammi fare un po’ il conto, Colombina» disse: «Quanto tempo mi ci vor-
rebbe per venire ad Alagna? Due o tre ore immagino?»
«Sì, credo. Noi da Novara impieghiamo poco più di due ore. Perché? Stai
per caso pensando di fare una passeggiata fin qui?»
«Beh, quasi quasi...»
«Davvero? Ma che meraviglia, ma che bellezza!»
«Domani sei... siete in villa? O avete in programma qualche passeggiata?»
«No, siamo qui. Vieni domani?»
«Se tu m’inviti...»
«Certo. Ehi, che tipo deciso sei! Sempre lo stesso, eh? Allora ti aspetto do-
mani. Guarda che non puoi più ritirarti.» Pareva sorpresa e nello stesso tempo
un po’ emozionata: «A che ora pensi di arrivare?»
«Facciamo intorno alle quattro? Vi va bene?»
«Benone. Ma sai che stento a crederci? Senti, ti spiego come devi fare per
trovare la nostra villa: c’è una strada che esce da Alagna verso...» cominciò a
dargli le indicazioni.
L’impiegata-segretaria batté con le nocche alla porta dell’ufficio e la soc-
chiuse; Ambrogio, coprendo con una mano il trasmettitore telefonico, le fece
col mento un cenno interrogativo.
«C’è qui il consiglio di fabbrica» annunciò a mezza voce l’impiegata.
«Va bene, un attimo solo.»
La donna si ritirò, chiudendo la porta.
Dopo un ultimo: «Allora a domani, e guarda che sono in grande attesa, non
devi mancare» anche Colomba chiuse la conversazione.
Ambrogio si ritrovò notevolmente sorpreso. “Cosa diavolo sto combinando?
E dove accidenti intendo arrivare? Vediamo, non sarà una ripicca per la tele-
fonata di Fanny?” Dalla finestra il caldo e il rumore incalzante dei telai conti-
nuavano a entrare imperturbati; al di là d’una parete laterale si sentiva a tratti
ticchettare una macchina da scrivere. “La mia vita sempre uguale...” pensò
Ambrogio, e “Io la mia vita me la sono ormai giocata!” Ebbe una sensazione di
sgomento, ma subito si riprese con la dovuta energia: “Beh? Non l’ho forse
scelta io questa vita? E del resto che altro sarei capace di fare?” Ma non aveva
tempo per riflettere: oltre la porta c’erano i rappresentanti degli operai che
aspettavano d’entrare. Allungò una mano verso il pulsante, la solita urgenza...
“Di urgenza in urgenza: è sempre così per me. Già, e con ciò?...” Ma perché
tutte queste riflessioni? Non agì sul pulsante. Molto inaspettatamente domani
avrebbe rivista Colomba, un caso a dir poco bizzarro. Tentennò la testa, e tut-
tavia tale prospettiva gli rinnovò dentro quell’emozione, da ragazzo ai primi
incontri d’amore. “Ehi, che importanza sto dando a un fatto che d’importanza
non ne può avere? Se mai avrei dovuto inserire il nome di Colomba nella lista
per gli auguri non due, ma dieci o dodici anni fa, ecco.” No. Ancora dieci anni
fa gli sarebbe sembrato sleale verso Fanny inviare biglietti d’auguri a una
donna come Colomba, per la quale aveva a suo tempo provata una così forte
propensione... Tanto più che in lui i sentimenti non mutavano facilmente. A
ripensarci adesso, che straordinario fascino allora, appena finita la guerra,
aveva esercitato su di lui la ragazza! Era stato il ricordo del povero Manno, la
ripugnanza all’idea di portarla via a lui ch’era morto, a trattenerlo dal farle la
corte, dal dichiararsi... A quel tempo gli sarebbe sembrato un sacrilegio. “Che
cose incredibili si fanno da ragazzi!” Beh, ma cos’andava rimestando ormai?
“Renditi conto: a quel tempo Colomba (Andromaca diceva Manno parlando di
lei: proprio discorsi da ragazzi) aveva vent’anni, mentre adesso ne ha sulle
spalle quarantatre o quaranta-quattro, di cui non pochi di vedovanza e di la-
voro per portare avanti la baracca. Ha anche una figlia che sta per sposarsi...
Chissà in che stato è ridotta, povera diavola”. Sentì per lei, certo molto cam-
biata da allora (bastava confrontare la Fanny d’adesso con quella d’una volta),
un diverso e malinconico trasporto di simpatia. È vero che la voce non gli era
sembrata quella d’una donna disfatta... “Ma che razza di sciocchezze vado fan-
tasticando? Io sono un uomo sposato, dunque basta con simili fantasticherie.”
Premette il pulsante.

CAPITOLO QUARTO

Neppure il giorno dopo tuttavia, quando l’industriale uscì in macchina dal


portone de ‘I dragoni’ diretto ad Alagna, le sue fantasticherie e quell’assurda
emozione da ragazzo ai primi approcci erano venute meno del tutto. Anzi do-
po che la macchina ebbe preso abbrivo, esse s’intensificarono.
Nomana e il paesaggio conosciuto rimasero presto indietro: la direzione (di
ovest, abbastanza inconsueta per lui) lo portò attraverso campagne, paesi,
contrade meno note, il che cominciò ad aggiungergli un inusitato senso
d’avventura. Forse a quest’ora Colomba seduta davanti allo specchio stava
preparandosi a riceverlo (“Le donne, si sa, si dedicano con impegno a queste
cose...”), oppure stava facendo ordine nel soggiorno o nel salotto della sua vil-
la (“Di legno ha detto, povera Colombina, l’ha comprata coi suoi risparmi. È
laureata in biologia: si sarà impiegata in qualche ditta chimica o farmaceutica,
per tirare avanti la barca, i figlioli... ed è arrivata anche a farsi la villetta. È sta-
ta brava.”)
Poco alla volta, insensibilmente, la macchina aumentava la velocità; superò
rombando il Ticino sul lungo ponte in ferro di Sesto Calende, da cui lo sguardo
dava a destra verso il lago in direzione di Stresa (“Chissà in che stato è il vec-
chio hôtel che mi faceva da ospedale; chissà che gente lo frequenta adesso...”).
Più in là c’erano le montagne, quelle stesse che avevano viste le gesta partigia-
ne di Pino, e anche questo riportava indietro nel tempo, faceva giovinezza.
Ogni tanto l’occhio d’Ambrogio andava alla spia rossa della benzina: l’indice
cominciava a segnare riserva: “Sarà bene che mi fermi, sì, al primo distributo-
re mi fermo”, ma i distributori entravano in vista e per qualche confuso moti-
vo egli li superava senza fermarsi. Il fatto è che non sapeva risolversi a inter-
rompere anche per poco il viaggio: in quel momento tuttavia non se ne rende-
va conto, tanto che se qualcuno gliel’avesse detto si sarebbe sorpreso.
Ecco - a poco più d’un’ora dalla partenza - i primi indizi della Valsesia; ecco
là un’indicazione di Alagna, che però distava ancora parecchio; al suo inizio la
valle era molto larga e disseminata di paesi, una sorta di prosecuzione della
pianura: la macchina vi si addentrò con una velocità che suscitava disapprova-
zione nella gente di buon senso. Qualche salita, Varallo con alcuni distributori
di benzina (al resto Ambrogio badava poco), diversi chilometri più in là, ecco
un piccolo distributore isolato sul bordo della strada, che adesso aveva ai due
lati ripide pareti di montagne; era davvero ora di fermarsi. Pure Ambrogio
non si risolse ancora: “Al prossimo. Senz’altro al prossimo distributore mi
fermo”, e andò avanti. Ma non per molto, perché il motore cessò a un tratto di
funzionare. Non rimase all’uomo che accostare quanto più possibile il veicolo
a destra, fino ad arrestarlo con le due ruote esterne sopra il bordo erboso.
“Che guaio, accidenti che guaio! Però anche che fesso, che razza di fesso sono
stato!” Il distributore era rimasto indietro forse due chilometri, e non c’erano
paesi o abitazioni in vista.
Dopo avere chiuso i vetri e le portiere, s’incamminò senza indugio alla volta
del distributore. Procedeva di passo spedito, ma senza correre: “Non posso
arrivare ad Alagna sudato come un ragazzino”; intanto si guardava inutilmen-
te attorno se ci fossero persone cui chiedere informazioni. Tentò anche, con
un certo imbarazzo, di fermare qualcuna delle macchine che andavano nel suo
stesso senso. Assai più numerose erano quelle che venivano in senso inverso,
risalendo la valle: “È sabato pomeriggio, ecco perché. Forse farei meglio a
fermarne una di queste: mi faccio lasciare alla prima autorimessa e torno qui
con un mezzo...” Si provò a fermarne una, poi un’altra, poi altre ancora, sem-
pre senza successo, finché lasciò perdere. Intanto non aveva percorso neppure
un chilometro e il distributore era ancora lontano: a tale considerazione - che
gli si fermò inquietante nella mente - fece con maggior impegno e quasi con
ansia segno, una dopo l’altra, a diverse macchine che risalivano veloci la valle:
all’ultima fece segno con rabbia. Dopo di che si meravigliò di sé stesso: “Cosa
diavolo mi sta prendendo? Io non ho la minima intenzione di fare... chissà
cosa con Colomba. Io sto semplicemente andando a far visita a una vecchia
conoscenza, tutto qui”. «A una vecchia conoscenza» ripeté ad alta voce, alzan-
do anche un braccio in segno di monito. “E dunque? Cos’è questa agitazione
che m’ha preso? Io mi faccio ridere”, e rise forte: «Ah, ah, ah». “Guarda” pen-
sò poi “sto parlando da solo! Mi faccio schifo.”
Smise di gesticolare e si costrinse a un comportamento normale. Giunto al
distributore non vi trovò una macchina disponibile per riaccompagnarlo, né
un telefono con cui avvertire Colomba del ritardo. Erano ormai le quattro,
l’ora dell’appuntamento; con una bottiglia di benzina in mano (nemmeno una
lattina erano riusciti a scovargli), dopo avere perso altro tempo nella vana at-
tesa che qualche macchina si fermasse a far rifornimento, s’avviò di nuovo a
piedi, con passo normale. Non poteva evitare intanto d’immaginarsi Colomba
che l’attendeva; se la figurava come l’aveva sempre vista, cioè simile a quando
aveva vent’anni: cercava sì, razionalmente, d’aggiungerle un po’ di grigio ai
capelli, o d’ingrossamento ai fianchi, ma l’immagine insensibilmente se ne
liberava e ritornava com’era sempre stata. Sugli altri pensieri (chissà
nell’attesa Colomba cosa stava congetturando, e così via) tornò un po’ alla vol-
ta a prevalere questo: fra non molto egli l’avrebbe in ogni caso rivista, presto
avrebbe rivisto Colomba! Finì con l’accelerare suo malgrado il passo, si rifece
nervoso, sempre meno gli riusciva di dominare l’interna agitazione. Cosa dia-
volo gli succedeva? ‘Esistono più cose tra terra e cielo di quante ce ne pro-
spetti la nostra filosofia’ gli balenò nella mente; non riusciva a spiegarsi ciò
che gli succedeva in quel momento, certo non se lo sarebbe aspettato. Una vol-
ta giunto all’automobile rovesciò in fretta il contenuto della bottiglia nel ser-
batoio, poi - con gesto teatrale, assolutamente inconsueto per lui - lanciò la
bottiglia a infrangersi contro un muretto che c’era sull’altro lato della strada.
Gli ci volle un certo tempo per avviare il motore, perché l’intero sistema
d’adduzione della benzina s’era prosciugato. Al primo distributore si fermò e
fece il pieno, quindi: “Via, adesso spicciamoci, non perdiamo altro tempo...”,
si diede a percorrere in stato di quasi agitazione i circa trenta chilometri che
ancora lo separavano da Alagna. Ben due volte corse il rischio d’uscire di stra-
da (“Cosa direbbero a casa e in giro se dovessi finire all’ospedale? O anche sol-
tanto scassare la macchina? Chissà a che razza di doppia vita penserebbero...
Signore, aiutami tu!”) Ma davvero poteva aspettarsi che il Signore gli prestas-
se aiuto in una circostanza come questa? Non mancò di chiederselo, e dovette
subito rispondersi che sì, era proprio ciò che stava succedendo: perché essen-
dosi la macchina ritrovata di colpo - dopo una curva effettuata ad alta velocità
- su un tratto di strada dissestato, vi eseguì sopra alcuni balzi tremendi, quindi
piombò tra due altre macchine che stavano pacificamente per incrociarsi:
guizzò tra l’una e l’altra con una sorta di zig zag pazzesco, alla conclusione del
quale Ambrogio avvertì più che un tuffo, uno schiaffo al cuore. Solo per mira-
colo non aveva provocato un disastro! Vide - nello specchietto retrovisore - le
due macchine fare alt e i conducenti scendere a terra costernati. Il Signore
aveva provveduto, sì, lui però era un cane, né più né meno, era al disotto del
livello d’un animale, se metteva a repentaglio la vita degli altri a quel modo; e
anche la sua, dopo tutto, di padre di famiglia, di responsabile del lavoro di non
poca gente. “Per cosa poi? Per-che-co-sa? ” Francamente non se lo sapeva
spiegare.
Ridusse in modo drastico la velocità. Intanto, guarda, Dio l’aveva aiutato
anche in una circostanza come questa, gli aveva (lui intimamente lo sentiva)
dimostrata indulgenza, misericordia... “Cosa vorrà dire questo?” si chiese cer-
cando, com’era in lui istintivo, di cavarne un costrutto: “Dio non avrà per caso
voluto indicarmi che devo essere meno rigido di come sono abitualmente? I
tempi cambiano, la sensibilità si trasforma... è forse un invito ad adeguarmi?
A volte, in effetti, sento che sarebbe mio dovere correggere la rigida imposta-
zione mentale che ho... Dio è longanime, abbiamo un Signore buono, infini-
tamente buono con noi anche mentre sbagliamo, questa è la realtà: l’ho appe-
na sperimentata. Con che diritto dunque io lo considero soprattutto un casti-
gatore? Certo era tale durante la guerra, ma quello era il tempo del castigo e...”
Bene, fino a qual punto avrebbe dovuto correggersi? Più che pensieri i suoi
erano però brandelli di pensieri; finì come altre volte col lasciare il problema
in sospeso. Già la precedente emozione tornava a invaderlo, riuscì tuttavia a
conservare moderata la velocità; la strada della valle adesso s’andava facendo
sempre più alpestre, stretta su entrambi i lati da magnifiche abetaie.
Ecco Alagna. Prima d’entrare in paese Ambrogio arrestò la macchina su uno
slargo erboso, si cambiò in fretta la camicia (s’era portato una camicia di ri-
cambio: in queste cose Fanny l’aveva dirozzato) e sommariamente si pettinò;
mentre ripartiva consultò l’orologio: era in ritardo di un’ora e mezza.
Attraversò senza fermarsi il paese: anche l’orologio del campanile - aguzzo,
montanino - gli confermò il ritardo. Dov’era la strada indicatagli da Colomba?
Era forse questa? No, gli spiegò un ragazzo, che lo fece tornare alquanto indie-
tro: con l’impazienza che si ritrovava, egli l’aveva sorpassata. Finalmente la
imboccò e la percorse lentamente, ecco le ville che s’aspettava di vedere, ed
ecco quella di Colomba: sul cancelletto basso della recinzione si leggeva in una
piccola targa il suo cognome da sposata.

CAPITOLO QUINTO

Davanti alla villa c’era un fazzoletto di prato con un ombrellone a colori è


alcune sedie a sdraio. Da una di queste si alzò Colomba, e fece qualche passo
verso la macchina. Ambrogio la scorse prima ancora di scendere e il cuore
cominciò a battergli. “Disgraziato” si disse, mentre apriva con energia la por-
tiera: “Disgraziato. Tu stai semplicemente facendo visita a una vecchia cono-
scenza, chiaro? Siccome non sei un selvaggio, fai visita alla gente. E ricordati
che una donna di oltre quarant’anni non è una ragazza di venti. Chiaro?”
Sempre con fare energico e quasi senza guardare in direzione della donna po-
se una mano sul saliscendi d’ottone, molto ossidato, del cancelletto, l’inclinò
ed entrò nel piccolo giardino.
Colomba lo accolse con un lieto grido: «Oh, Ambrogio, sei tu, sei arrivato!»
Gli venne incontro tutta sorridente, gli tese la mano: «Ambrogio! Sai che quasi
non t’aspettavo più? Cos’è successo? Prima però dimmi, come stai? come va?
E fatti un po’ vedere.» E subito allegramente: «Lo sai che ti trovo bene?»
Altro che riflessioni e avvertimenti! Colomba era splendida, non meno at-
traente di quando aveva vent’anni, anche se, certo, non era identica ad allora.
«Anch’io ti trovo bene» disse Ambrogio. «Accidenti, com’è possibile? Tu sei...
sei...» e s’interruppe, proprio come un ragazzo.
Colomba rise divertita; le si vedeva al dito la fede matrimoniale: «Beh,
dimmi, cosa te successo?»
«Eh? Parli del ritardo?»
Colomba annuì: «Sì, sai che non sapevo se aspettarti ancora o no?»
«Avrei dovuto telefonarti, scusami. Ma prima non ne avevo la possibilità:
mi s’è arrestato il motore in aperta campagna, lontano dai paesi, e per riparti-
re m’è occorso un sacco di tempo. Dopo non mi sono fermato a telefonare per
non perdere altro tempo.»
«Dunque hai dovuto tribolare. Oh, mi dispiace.»
«No, roba da niente.»
«Beh, ti ringrazio d’essere venuto. La tua visita mi fa piacere.»
«Sì» disse Ambrogio. «Anche a me fa piacere.»
«Dopo vent’anni, anzi ventuno!»
Ambrogio annuì.
«I miei figli sono andati al tennis con alcuni loro amici, ma saranno di ri-
torno fra poco.»
S’erano incamminati verso l’ombrellone: «Cosa facciamo? Ci sediamo qui,
oppure vuoi visitare prima la mia casetta?»
«Sai che hai una bella villa?» la complimentò lui.
«Oh, è di legno, te l’ho detto, molto modesta.»
«Comunque mi piace.»
«Ma se non l’hai ancora vista?» Colomba rise, scuotendo la bella testa, coi
capelli ancora da statua greca, come una volta.
«Beh, com’è fatta esternamente lo vedo, no?»
La donna si fermò un istante ad osservare l’esterno della propria casa: «Sì,
fuori non è male» convenne «si lascia vedere. Ma vieni che te la mostro
all’interno.»
La villa era a un solo piano, costruita in tronchi d’abete al modo delle case
rustiche della valle; la sosteneva un seminterrato in muratura abbastanza alto,
incrostato di muschio e lichene, il che richiamava gli inverni duri della monta-
gna; contro il seminterrato crescevano alcune roselline rampicanti dalla vege-
tazione rada e d’aspetto quasi selvatico.
L’interno non era molto comodo, ma lindo e di buon gusto, a mezzo tra di
villa e di baita; nel soggiorno un solido camino di pietra portava scolpito un
avvertimento in latino ‘Nec procul nec adhuc’.
«Dove la sei andata a pescare quella scritta?»
«Mio padre, me l’ha suggerita lui.»
«Ah già. Dimmi di tuo padre. Come sta? E tua madre?»
Si scambiarono notizie sulle persone che conoscevano, su Nomana, sulla
villa ‘I dragoni’ ch’era stata della vecchia Eleonora, prozia di Colomba.
In un altro locale facevano mostra di sé, dentro una vetrinetta, parecchie
coppe trofeo: ce n’erano forse una ventina.
«Che roba è questa?» domandò Ambrogio sorpreso: «Chi le ha vinte? I tuoi
figli?»
«No» disse Colomba «quasi tutte io, giocando a tennis. Sai che ne sto vin-
cendo ancora?»
«Ah.»
«Ti ricordi quelle partite che facevamo a Visate? Ci andavamo in bicicletta,
le hai ancora presenti?»
Ambrogio annuì: «Sì, certo.»
«Non ho mai smesso di giocare. Se non altro» nel dir questo la sua voce as-
sunse un tono quasi di giustificazione «per non ammuffire, per mantenermi
sana e in ordine.»
«Ti capisco e t’invidio. Magari avessi fatto anch’io qualcosa di simile.»
Adesso Ambrogio capiva meglio anche il vestito di lei, bianco e a pieghe ver-
ticali, stretto in vita: rammentava in qualche modo il costume femminile da
tennis, anche se non era così succinto. “Andromaca s’è messa a giocare a ten-
nis” gli venne fatto di pensare: “Ecco perché nonostante gli anni e la vedovan-
za, questa bella creatura non sfiorisce affatto”.
Uscirono, sempre discorrendo, dalla villa verso l’ombrellone: il piede di lei
era come una volta (quando lui studiava in giardino) snello e giovanile
nell’erba, la sua figura attraente come allora.
«Vuoi sapere una cosa?» non seppe trattenersi dal dire Ambrogio, e assun-
se, in polemica con le proprie remore interiori, un’aria cocciuta: «Lascia che te
lo dica prima che arrivino i tuoi figli: tu sei sempre molto bella, Colomba. Ti
sei conservata una bellissima creatura.»
Gli occhi della donna brillarono di compiacenza: «Oh, questo mi fa davvero
piacere» esclamò lieta. «Sei gentile Ambrogio, ti ringrazio. Perché certo
l’incontro di oggi, per forza di cose, era per me in qualche modo un esame, e...
Dunque ti ringrazio.»
«Come aveva ragione Manno quando diceva che tu sei una specie di mira-
colo» continuò l’uomo: «come aveva ragione!» Tentennò la testa quasi con
struggimento.
Colomba lo guardò piuttosto sorpresa. «Ma Ambrogio... Io ti conoscevo
come un tipo posato, senza esuberanze. Lo sei sempre stato. E certo lo sei an-
che adesso che, come uomo d’affari, tu...»
«Vuoi ricordarmi che sono un ‘commenda’ eh? Sì, fai bene a ricordarmelo.»
«No, cosa dici? Perché? Non volevo assolutamente dir questo. Volevo dire
che sei un industriale, lo sei sempre stato: lo eri perfino da ragazzo. Questo
non significa che sei un industriale con pancia... Anzi, ti dirò che io t’ho sem-
pre visto anche come un soldato: voi due cugini» disse abbassando la voce «lo
siete sempre stati ai miei occhi: sia tu, che quell’altro, che nella guerra c’è ri-
masto.» Tacque.
“Manno...” pensò Ambrogio, e: “Chissà se adesso guarda a questo nostro in-
contro, o se non gliene importa più niente, se anche potendo guardar giù non
guarda neppure”. Senza avvedersene stava tornando ai suoi ragionamenti da
ragazzo; intanto annuiva.
«Vieni» disse lei «sediamoci. A quest’ora si sta bene qui all’aperto.»

A interrompere la strana atmosfera che si andava formando tra i due, era in


arrivo lungo la strada un giovincello sui quindici anni che: «Mamma» annun-
ciò festoso «siamo qui.» Giunto al cancellerò invece d’aprirlo vi si appoggiò
con ambe le mani, prese lo slancio e lo superò con un volteggio.
«Giulio, sai che non voglio» lo sgridò Colomba.
Alle spalle di Giulio era in arrivo anche la sorella, graziosa, sui vent’anni, la
quale aprì il cancello regolarmente; vennero entrambi a salutare il visitatore.
Mentre gli stringevano la mano, l’osservavano con una certa curiosità: per loro
Ambrogio era il cugino del primo fidanzato della mamma, cioè d’una figura
senza volto, lontana quasi quanto i personaggi dei libri di storia: il cugino di
uno che, prima di morire in guerra, aveva scritto alla mamma strane lettere -
che loro due non avevano letto - in cui si parlava della patria e di altre simili,
improbabili cose. Era talmente lontano da loro, quel defunto fidanzato della
mamma, che non avevano mai supposto si potessero chiedere di lui notizie
concrete e sensate, si potesse insomma parlarne come d’una persona vera.
Una volta stretta la mano ad Ambrogio i due ragazzi sedettero un po’ imbaraz-
zati di fronte a lui nell’erba.
Ma ebbe inizio una conversazione che andò dalla scuola e dagli esami - i
quali, in quell’anno di ‘contestazione’ studentesca generalizzata, non erano più
uno spauracchio per nessuno - al prossimo matrimonio della ragazza. Non si
parlò affatto di Manno, invece si parlò della motocicletta di Giulio, cui s’era in
quei giorni ‘scassato’ il cambio, tanto che bisognava sostituirlo: «Il che signifi-
ca tirar fuori quindicimila lire» specificò il ragazzo stropicciando indice e pol-
lice. «Dovrei cioè investirci un mese e mezzo della mancia che ricevo dalla
mamma.» Accorgendosi da più segni che la madre non gradiva si parlasse di
soldi davanti al visitatore, Giulio si chiese se questo non fosse il momento
adatto per risolvere alla radice il problema della sua moto (non era la prima
volta ch’egli prospettava in famiglia la necessità di acquistarne una nuova: «Di
quelle con la targa, non una motoretta senza targa come il mio catorcio»). Co-
lomba cercò ripetutamente di sviare il discorso, proprio per questo il figlio vi
tornò di nuovo e v’insisté, tanto che Colomba finì quasi con l’arrabbiarsi.
Arrivò alla villa anche la donna di servizio a ore, poi vi giunse per un saluto
il fidanzato della figlia, un ragazzo alto, con gli occhiali, prossimo alla laurea, il
quale sedette nell’erba accanto alla fidanzata e rispose con molta serietà e con
impegno alle frasi dell’autorevole visitatore.
Così si fecero le sette, l’ora di prendere congedo. Ad Ambrogio tuttavia ri-
pugnava troncare la visita tanto presto, senza prima essersi potuto intrattene-
re un po’ con Colomba. In merito a cosa? Non lo sapeva, ma non intendeva
andarsene subito. Anche Colomba dava l’impressione di non gradire ch’egli se
ne andasse di già: «Peccato quel guasto alla macchina» disse infatti più d’una
volta, come angustiata.
«Senti, non ha senso che io abbia fatto un viaggio di centocinquanta chilo-
metri per restare poi così poco, ti pare?» osservò a un tratto l’industriale. «Co-
sa ne diresti se, per esempio, uscissimo a cena insieme?»
«A cena? Uscire?» fece Colomba: «Oh! Peccato che io non abbia preparato
qui in casa!»
«Non potevi sapere del mio ritardo» disse Ambrogio, nascostamente lieto
(proprio come un ragazzo) che la donna non avesse respinto subito la sua
proposta. «Beh, allora, cosa ne diresti d’uscire?»
«Uscire a cena?» Colomba, non abituata a simili profferte, finì col rivolgersi
come per un’autorizzazione alla figlia: «Tu cosa ne dici?»
«Mamma, se ti fa piacere... Perché non dovresti uscire?»
«In questo caso voi due venite a casa mia» propose subito il fidanzato ai ra-
gazzi: «Dai, sapete che abbiamo quella barbecue dietro la villa... Ceneremo
tutti insieme sul prato; eh, vi va l’idea?»
La fidanzatina si dimostrò entusiasta: «Sì, certo, vi preparo io da mangia-
re.» Per l’entusiasmo Giulio si mise a fare ‘il verso degli indiani’, ch’era una
sorta d’ululato di sua invenzione, reso ritmico dal ripetuto battere della mano
contro la bocca.

CAPITOLO SESTO

Così, partiti i ragazzi, Ambrogio e Colomba uscirono effettivamente insie-


me; Colomba, dopo essersi cambiata d’abito, salì sulla macchina del visitatore;
la figlia aveva fissato per telefono un tavolo in un ristorante panoramico fuori
paese. Vi arrivarono in una decina di minuti: il luogo era panoramico davvero,
situato su un poggio coperto di grandi alberi di noce, con prospettiva verso
l’altissima, imminente mole del monte Rosa.
«Perché non discorriamo un poco tra noi, prima di metterci a tavola?» pro-
pose Ambrogio.
«Volontieri» rispose Colomba. E poi: «Di cosa vuoi che parliamo?» chiese
sorridendo; a sua volta si sentiva adesso vagamente turbata.
«D’ogni cosa, di tutto quello che gradiremmo sapere uno dell’altro. Non hai
domande da farmi tu?»
«Sì, qualcuna forse, se siamo disposti a parlarci come in confessione.» Lo
guardò negli occhi. Ancora una volta Ambrogio non poté a meno di notare la
bellezza di lei. Per quanti anni si sarebbe conservata? Per quanto ancora, gio-
cando strenuamente a tennis, Andromaca sarebbe riuscita a fermare il tempo?
«Dai» le disse «intanto possiamo fare due passi per questa stradetta.» .
L’ultimo sole, molto obliquo, tingeva di rosso ogni cosa: la stradina di mon-
tagna, i tronchi dei noci, i prati all’intorno. Colomba pose con naturalezza il
proprio braccio sotto quello del compagno. Ciò finì con l’introdurre gradata-
mente Ambrogio in uno stato di strana estemporaneità. In che tempo viveva?
Era un momento d’oggi questo, o di tanti anni prima?
Agitò perfino la testa come per risvegliarsi. «Vuoi cominciare tu con le do-
mande?» propose.
«Se ti fa piacere» disse Colomba. Tacque un istante per riordinare le idee:
«A quel tempo, voglio dire allora, dopo la guerra, quand’eravamo ragazzi, tu
hai provato molta simpatia per me. Questo io lo sentivo.»
«Sì» confermò Ambrogio, «anche se mi sforzavo di non dimostrarla.»
«Appunto. Ecco, è stata solo per l’idea di... come dire? di non far torto alla
memoria di tuo cugino, che non ti sei dichiarato?»
«Sì, soltanto per questo; mi sarebbe sembrato di fare una vigliaccata.»
«Non è stato forse anche per... diciamo per ragioni fisiche? M’è venuto il
dubbio, sai? Forse io non ti attraevo dal punto di vista fisico voglio dire.»
«Hai potuto pensare questo?» esclamò Ambrogio: «Eri davvero lontana
dalla realtà.» La guardò negli occhi: «Non ti dico altro. Hai sbagliato in pieno
se l’hai pensato.»
Colomba sospirò e nello stesso tempo sorrise perplessa.
«Prova a considerare una cosa» disse Ambrogio: «Ti sei mai chiesta perché
io non mi sono fatto vivo con te prima d’oggi, o dell’anno scorso se vogliamo?
Per vent’anni, scrupolosamente, io non mi sono fatto vivo.»
«Infatti. Per essere sincera devo dire che la cosa è stata abbastanza strana»
osservò Colomba.
«Ecco, non siamo più dei ragazzi e posso dirlo. È appunto perché tu mi atti-
ravi troppo. Per questo non mi sono fatto vivo: non sarebbe stato leale verso
mia moglie. Avrei rischiato di tradirla, fosse solo col pensiero.»
Colomba lo considerò, volgendo parzialmente verso di lui la bella testa dai
capelli così attraenti. «Ti capisco e ti credo. È nel tuo stile, nel tuo tipo, fare
una cosa simile.»
«Tanto più dopo che sei rimasta vedova» continuò Ambrogio. «Ho pensato
che non doveva essere facile per te dal punto di vista... quello che chiamano
sentimentale, per intenderci, e non volevo metterti inutilmente in tentazio-
ne.»
«È stato molto difficile infatti. Avevo ormai l’abitudine al rapporto fisico, se
è questo che intendi: mi è mancato in modo terribile al principio. È stato duro
conservarmi fedele alla memoria di mio marito.» Colomba annuì, come par-
lasse a sé stessa. «Anche perché non hai idea di quanti, durante il lavoro per
esempio, cercassero... sì, insomma, diciamo che avrebbero voluto consolarmi.
Davvero non è stato facile; ma con l’aiuto di Dio ci sono riuscita, non ho cedu-
to mai.»
«Sei stata brava» disse Ambrogio commosso.
Camminarono un poco in silenzio.
«Così l’anno scorso» riprese lei «hai pensato che dopo una ventina d’anni
eravamo finalmente maturati a sufficienza tutt’e due? È per questo che ti sei
deciso a inviarmi quella cartolina per il mio compleanno?»
«Press’a poco, sì.»
«E ti senti veramente al di sopra d’ogni tentazione adesso?» Ambrogio fece
con la testa un segno di diniego. «No. Devo confessarti che no» dichiarò con
franchezza.
«Senti Ambrogio: posso chiederti cosa provi realmente in questo momento?
Puoi anche non rispondere.»
«E perché? Da domani dovrò tornare al silenzio ancora per un certo nume-
ro di anni, ma stasera... Non siamo più adolescenti, non intendo nasconderti
niente» fece una pausa. «Dunque vuoi sapere cosa mi sento dentro? Per co-
minciare uno straordinario guazzabuglio. Mentre viaggiavo per venire qui -
devo dirtelo? - mi sono comportato come un ragazzo, o piuttosto come un
pazzo.»
«Ma Ambrogio, cosa dici?»
«Insomma, come uno senza testa. E non riesco io stesso a capire bene come
mai.» Le raccontò della benzina lasciata esaurire per l’incapacità di decidersi a
far sosta: era stata questa e non un guasto meccanico - come le aveva lasciato
credere - la causa del suo ritardo; le raccontò del sorpasso folle sul tratto di
strada dissestata, del rischio continuo d’uscire di strada: «Non riesco a capire
cosa m’aveva preso. Perché almeno in superficie mi sentivo e mi sento norma-
le, ecco il punto. Certo non so se faccio bene, se dimostro davvero testa a rac-
contarti tutto questo. Non vorrei - scusa la mia presunzione - accendere la tua
fantasia e... insomma farti del male.»
«No, non temere» disse Colomba; lo disse quasi con stanchezza. «Un’altra
cosa, se vuoi che io vuoti il sacco: lo sai che ieri, dopo avere parlato con te al
telefono, io avevo come la sensazione d’essermi giocata malamente la vita?
Eppure, dopo tutto, non l’ho sprecata: ho fatto sempre quello che ritenevo mio
dovere, e nel mio piccolo sono stato utile al prossimo. Ai miei operai, per
esempio, e alle loro famiglie, anche se oggi è di moda dire il contrario.»
«Certo» fece Colomba, con adesione. «Ma allora, se le cose stanno così, de-
vo credere che veramente da domani tornerai al tuo silenzio?»
«Cos’altro potremmo fare? Lo vedi anche tu.»
«Beh, si potrebbe decidere in modo leale che non mancheremo di fedeltà tu
a tua moglie, e io alla memoria di mio marito; dopo di che, siccome anche
l’amicizia in fin dei conti è una buona cosa... E poi ormai siamo davvero matu-
ri, abbiamo dei figli, e già grandi.»
«Io non so quello che provi tu» disse Ambrogio «ma a me, in questo mo-
mento, sembra che questi ultimi vent’anni si siano come annullati: mi sembra
d’essere tornato ad allora; in questo momento tutto è davvero come allora
stando vicino a te.»
Colomba tentennò la testa, poi gli sfiorò con una mano una gota. «Dì, forse
è così anche per te?» le chiese Ambrogio.
«Forse un poco sì» mormorò lei.
«Ecco, vedi?» fece lui.
Dopo avere lentamente percorsa prima in un senso poi nell’altro la stradina
fra i noci dai tronchi color sangue, erano tornati nei pressi del ristorante. Non
ripeterono la breve passeggiata: «Su, entriamo» risolse Ambrogio.
Entrarono, presero posto al tavolo loro riservato, diedero inizio alla cena.
Ma per quanto ci si provassero, non riusciva loro di parlare nel modo usuale,
come avrebbero voluto e come chiedevano le circostanze.
Finché, per caso, a un tavolo vicino prese posto una famigliola amica di Co-
lomba, e allora Ambrogio se lo impose. Puntigliosamente cominciò a parlare
dei buoni risultati scolastici dei suoi due figli maschi, nonché dei figli stessi, di
cui uno, il maggiore - riferì — portava il nome di Manno, l’altro del defunto
padre di Fanny; parlò di suo cognato Michele, lo scrittore, il quale adesso ve-
deva nella ventilata introduzione del divorzio in Italia, addirittura la fine di un
periodo di civiltà. Ricordò anche ‘I dragoni’, la sua casa, con osservazioni non
molto originali sulle continue spese che le vecchie case richiedono; quando
Colomba gli domandò se quest’anno le rondini avessero fatto il nido
nell’androne, dovette ammettere di non saperlo: «Agli uccelli io non faccio
caso. Era Manno che... Comunque ci guardo e poi te lo faccio sapere. Va be-
ne?»
A sua volta Colomba parlò dei propri figli e del prossimo matrimonio della
figlia, delle preoccupazioni che un matrimonio inevitabilmente dà; parlò del
suo lavoro e del tennis.

***
Terminata la cena Ambrogio la riaccompagnò a casa. S’era fatto buio, notte
proprio, il cielo fresco e pulito era pieno di stelle; Colomba in macchina non
parlava più. Ambrogio si voltò a mezzo verso di lei e notò che i suoi occhi così
belli sembravano ancora più belli; finalmente si rese conto che piangeva.
Lo invase allora una tentazione tremenda: di non fermarsi alla villa di tron-
chi, ma d’andare oltre e portarsela via. In pochi istanti gli passarono per la
mente un’infinità di cose: ciò che aveva letto e sentito dire, della sempre mi-
nore importanza che anche nell’ambito cattolico si dava adesso al peccato del-
la carne: certi preti sostenevano la liceità o quasi delle relazioni prematrimo-
niali, perché non dunque anche extramatrimoniali? C’erano state donne, egli
aveva sentito dire, cattoliche e serie, che in seguito all’affermarsi della ‘morale
nuova’ s’erano come pentite della propria intransigenza e buttate allo sbara-
glio nel tentativo di recuperare il tempo perduto... Del resto non aveva Dio
stesso, e proprio quel giorno, mostrata evidente comprensione per il suo stato
d’animo, aiutandolo tangibilmente in quei momenti pazzi del viaggio? Già,
Dio! Con lui però non si poteva scherzare. I preti nuovi sostenevano...: ‘Ma io
vi dico: se uno guarda con desiderio una donna ha già commesso peccato
con lei’ ‘Io vi dico’ altro che il chiacchiericcio dei teologi del momento, i quali
‘purché ci sia l’amore’ giustificavano qualsiasi cosa. E poi bastava pensare al
vecchio don Mario che ora faceva il cappellano nell’ospedale di Monza, e a don
Carlo Gnocchi quand’era vivo, ai preti veri, che parlavano lo stesso, identico
linguaggio da duemila anni: erano loro i portavoce di Dio, non questi preti
permissivi d’adesso.
Arrestò la macchina davanti alla villa, scesero entrambi: alle finestre non si
scorgeva alcuna luce, i figli di Colomba dovevano essere ancora fuori. Prese la
mano di lei, se l’accostò alle labbra e la baciò; Colomba continuava a piangere,
sempre in silenzio, senza singhiozzare. Chissà - da quando era vedova - quante
volte aveva pianto così. Ambrogio premette più volte le labbra sul dorso della
sua mano, poi la lasciò e risalì in macchina.

***
Il viaggio di ritorno non fu agitato come quello d’andata, anzi in apparenza
tranquillo, ma ci furono dei momenti per lui di quasi desolazione. Certo non
avrebbe potuto concludere diversamente da come aveva concluso. Avrebbe
mai consentito lui che Fanny si concedesse a un altro uomo? Una simile pro-
spettiva gli era assolutamente intollerabile; gli uomini non possono vivere alla
maniera delle bestie, questo era evidente, e la nuova morale, di cui si parlava,
semplicemente non era una morale. Tutto ciò gli fu via via sempre più chiaro:
il problema morale non si poneva neppure. Restava la sua pena, e più ancora
la pena di lei, la loro sorte, e restavano le grandi domande: perché a suo tem-
po, quand’era possibile, essi non si erano scelti, se l’attrazione tra loro era tale
da dimostrarsi ancora così forte dopo vent’anni? E anzi perché Manno che
prima di lui s’era innamorato di Colomba, era morto, era stato tolto via? Que-
sti due fatti avevano cambiata completamente la vita di lei... Perché si erano
verificati? Non poteva rispondersi.
“Andromaca s’è messa a giocare a tennis” si diceva ogni tanto: e a differenza
di prima, adesso gli pareva che in questo fatto ci fosse un che di straziante. La
giovane donna che più volte s’era vista troncata la vita affettiva, non si lasciava
andare, al contrario, sembrava avere ingaggiata una partita con la propria sor-
te: non intendeva decadere, non intendeva entrare in disfacimento. E resiste-
va in modo mirabile, perfino sorprendente; ma fino a quando? Cos’era la forza
di una donna, se paragonata alla forza del tempo, che polverizza ogni cosa?
Venne ad Ambrogio, da un così impari confronto, un angoscioso senso
d’inanità. Era ben lontano dal supporre che anche la sua agitazione di ieri e di
oggi, quel suo improvviso comportarsi come un ragazzo, erano una ribellione
alla propria decadenza incipiente, al lento disfacimento che anticipa in cia-
scuno, mentre è ancora vivo, la tomba. Ignorava che non pochi altri alla sua
età erano passati e passano per esperienze analoghe, che essi non sanno spie-
garsi, e di cui in genere si vergognano di parlare.
Una volta a casa e a letto non gli riuscì di prendere sonno, ogni tanto si rigi-
rava turbato, dovette lottare anche con la fantasia che gli prospettava come
avrebbe trascorse queste stesse ore se le avesse passate con Colomba; cristia-
no a metà (come tutti noi cristiani siamo) si aiutò con la preghiera, e anche
prospettandosi la sbalordita, dolorosa disapprovazione dei suoi figli, special-
mente del maggiore, così coerente e severo. Al trillo della sveglia si alzò senza
avere dormito un solo minuto, cosa che non gli capitava dal lontano tempo
della guerra.
PARTE SETTIMA

CAPITOLO PRIMO

Sei anni dopo, verso sera.


Su una Fiat 127 i due figli d’Ambrogio, Manno e Filippo detto Popi, stavano
lasciando Milano diretti a Nomana. Il più giovane dei due (il Popi, vent’anni,
occhi e capelli scuri, carattere estroverso) fischiettava guidando con disinvol-
tura; l’altro (più anziano d’un anno, capelli chiari e occhi azzurri come quelli
del nonno Gerardo e del defunto ‘zio’ Manno, del quale ripeteva il nome) era
invece taciturno e serio in volto. Cominciava a far buio: sul viale Fulvio Testi -
la ‘superstrada’ nuova a molte corsie che esce dalla città in direzione nord -
c’era il solito traffico imponente. «E stasera ci va ancora bene» osservò Filippo
detto Popi «perché l’ondata di piena delle macchine è ormai passata. Hai visto
invece ieri sera che roba?»
Manno si limitò ad annuire.
«Ecco» continuò il Popi «ce ne dobbiamo ricordare: quando non si può ve-
nir via da Milano prima delle sei, conviene aspettare fino alle sette, che passi
l’ondata. Eh?»
Discorsi come questo il Popi ne faceva spesso; guardò il fratello maggiore
che gli rispose annuendo di nuovo, con aria assente.
«Del resto anche se le lezioni all’università finiscono alle cinque, di venir via
da Milano prima delle sei, almeno finché dura la campagna per il referendum,
noi ce lo possiamo scordare» continuò il Popi. «Ci pensa lo zio Michele a far-
celo scordare, eh?»
Ancora una volta Manno non rispose, per cui il Popi ridacchiò da solo. Zio
Michele, lo scrittore, membro del comitato dei cattolici combattivi (‘retrivi’
secondo l’opinione laicista, chissà...) che avevano promosso il referendum
contro il divorzio, con l’approssimarsi della grande consultazione popolare
non solo non risparmiava sé stesso, ma non dava tregua nemmeno ai nipoti;
specie a Manno che era, per convinzione propria, antidivorzista quanto lui.
Quel giorno ad esempio lo zio aveva incaricato Manno di portare un articolo
dattiloscritto alla redazione d’una rivista, di ritirare presso la sede della De-
mocrazia Cristiana certi volantini, e presso un altro recapito un pacco di gior-
nali che l’indomani avrebbe portato con sé in Valtellina. Non si risparmiava
davvero lo zio, pensò il Popi: poveraccio che da anni stava lavorando a un
grosso libro senza manco sapere se poi gli sarebbe stato possibile pubblicarlo,
dato che ormai i rossi e i laicisti condizionavano le scelte di tutte o quasi le
case editrici. Ciò nonostante lo zio non si risparmiava, e adesso quanto alla
battaglia contro il divorzio purtroppo non risparmiava neppure gli altri, quelli
almeno che gli davano corda, come suo fratello Manno.
Filippo detto Popi alzò le spalle e riprese a fischiettare. Il traffico era senza
veri ingorghi: a ogni semaforo rosso nei due principali canali della superstrada
si arrestavano intorno a trenta-quaranta macchine e non di più: non c’erano le
disordinate code ‘da italiani in guerra’ dei momenti di punta. Certo neanche
così era un traffico distensivo. «Il traffico a Milano non può mai essere disten-
sivo» dichiarò il ragazzo, trasferendo in parole i propri rimuginamenti. «Dì, ti
ricordi quel giorno di pioggia a febbraio, quando c’è stata la paralisi totale?
Che macello! È successo anche l’anno scorso del resto: basta che tutte - e ma-
gari neanche tutte - le macchine si mettano in movimento, e la città si blocca,
rimane paralizzata. Un bello scherzo.»
Manno seguitava a non rispondere. La Fiat 127 si trovava adesso piuttosto
avanti nel lungo branco di automobili che, dopo aver sostato a un semaforo,
s’erano rimesse in moto; manovrando con perizia il Popi si adoperava per por-
tarsi in testa. «Fortuna che quest’anno hanno raddoppiato il prezzo della ben-
zina» proseguì imperterrito: «In questo modo se non altro ci pensano gli arabi
a mettere un po’ d’ordine nel nostro traffico, quei ladri.»
Superate diverse macchine e infine una Millecento (se ne vedevano ancora
in giro: ne avevano fabbricate fino a pochi anni prima), la Centoventisette era
ormai arrivata all’avanguardia del branco: la insidiava propriamente soltanto
un’altra Centoventisette, alla cui guida sedeva un ragazzo che a differenza dei
due fratelli era fornito di lunghe chiome secondo la moda ora prevalente.
Accettando con prontezza la sfida il Popi dai corti capelli si mise a gareggia-
re col lungo-chiomato. ‘Centoventisette, un nuovo modo di viaggiare in au-
tomobile’ declamava intanto, ripetendo un diffuso slogan pubblicitario. «Non
c’è niente da dire, è proprio così» affermò, sempre parlando da solo: «Non
vedi? Con appena novecento centimetri cubici di cilindrata stiamo dando la
birra a tutti. Prova a dire che non è vero.»
Laggiù in fondo il prossimo semaforo si mise al rosso: le due Centoventiset-
te dovettero rallentare passando dai centotrenta ai centodieci, ai novanta chi-
lometri orari; rallentarono ancora, imitate dalla Millecento che s’era riportata
al loro fianco, e da tutte le macchine che le seguivano, infine dovettero arre-
starsi.
Il Popi trasse un gran sospiro, poi si voltò verso il fratello: «E piantala»
esclamò. «Ancora ci rumini su? Ma guarda che frescone! Cosa te ne frega a te
se fanno o non fanno lezione? Ad Architettura invece di far lezione si fa bu-
glione, lo sai benissimo, dunque basta. Anche l’anno scorso cos’altro avete fat-
to?»
«Eh, scherzaci tu» mugugnò a mezza voce Manno. «Perché da voi alla Cat-
tolica le cose bene o male funzionano ancora. Dovresti provare a trovarti nel
casino.»
«Oh, anche da noi, non credere... È finito il tempo di Gemellone in cui si
pregava giorno e notte in cappella; adesso anche da noi i rossi hanno il loro
locale di riunione, e tutt’intorno appendono la faccia di Ho Ci Min e le figure
pornografiche. Cosa credi?»
Manno tentennò la bionda testa e sbuffò, a significare: «Vuoi fare un con-
fronto con noi? Dai, non essere ridicolo.» Per la verità all’origine del suo ma-
lumore non c’era in questo momento il disordine imperversante ad Architet-
tura, la sua facoltà, ma certe constatazioni che aveva fatto qualche ora prima
nella sede della Democrazia Cristiana dove - come s’è detto - s’era recato a ri-
tirare dei volantini per incarico dello zio Michele. Vi era stato accolto con in-
sofferenza e quasi con sgarbo: aveva così scoperto che i politici democristiani
milanesi (da qualche anno notoriamente appartenenti a una fazione opportu-
nista, organizzata da un petroliere di stato per condizionare il partito) erano
irritatissimi coi membri del comitato per il referendum sul divorzio, che li co-
stringevano all’attuale battaglia contro le sinistre. Così stando le cose, come si
sarebbe potuta vincere la battaglia a Milano? A colmare la misura aveva anche
appreso che un dirigente, da cui era stato trattato con insofferenza, veniva de-
signato da tutti con un soprannome (‘Il signor 3%’) che lo qualificava procac-
ciatore di finanziamenti agli uomini d’affari. Gliel’aveva rivelato, per consolar-
lo, un commesso anziano mentre gli impacchettava i volantini, il quale: «Dav-
vero qui non è più come una volta...» aveva asserito, scuotendo con amarezza
la testa. Adesso il giovane Manno non poteva impedirsi di ripensarci: per con-
trasto gli tornavano in mente il ragioniere col purillo e i suoi aiutanti volonta-
ri, dei quali aveva sentito raccontare da zio Michele e da suo padre. Come mai
si era potuti giungere alla situazione di oggi? Preferiva però non parlarne col
fratello, che verso la Democrazia Cristiana era già fin troppo critico.
Il quale fratello intanto non cessava di tener d’occhio il semaforo. Ripartì
con una sorta di balzo non appena sul senso trasverso s’illuminò il disco aran-
cione. Disgraziatamente l’antagonista capelluto invece di fare altrettanto svol-
tò quieto quieto a destra, in direzione di Sesto San Giovanni, così quella par-
tenza ‘in tromba’ risultò del tutto superflua.
La grande strada che attraversa la zona industriale a nord di Milano, taglia-
va ormai pochissimi sprazzi di campagna: dappertutto eran venute su costru-
zioni, delle vere distese, appartenenti a comuni diversi. Al nodo sempre bruli-
cante di traffico del rondò di Monza i muri erano come al solito tappezzati di
manifesti con grandi scritte dirette agli automobilisti immemori: ‘Ricordati
che Dio ti ama’, ‘Ricordati che Dio ti ama’; ci si accorgeva così d’essere entrati
in Brianza. Senza farci caso il Popi, che cessata la gara col lungochiomato ave-
va moderata un poco l’andatura, riprese a fischiettare: «Alla faccia della facol-
tà di architettura» dichiarò a un tratto con esuberanza.
Manno tentennò la testa. «Voi della Cattolica dovete ringraziare il povero
Apollonio» disse. «Perché in principio anche da voi le cose s’erano messe da
bestia, forse più che alla Statale. Però Apollonio ha avuto il fegato di buttar
fuori quella professoressa, come si chiama? quella finita al ‘Manifesto’: è stato
da quel momento che le cose hanno ricominciato a funzionare da voi. Lui co-
me preside di facoltà poteva buttarla fuori e l’ha buttata fuori: gliel’ho sentito
raccontare io, una volta ch’era a cena da zio Michele. Tutti alla Cattolica se la
facevano sotto: adesso cosa succederà, dicevano, quella ha un seguito
d’estremisti dentro e fuori l’università. Ma lui ha tenuto duro e l’ha spuntata.
Così il rettore s’è preso coraggio e di lì a poco ha messo fuori i dieci o quindici
studenti più casinisti. A pensarci neanche venti scalzacani su ventimila, ma è
bastato, hai visto, per rimettere le cose in ordine.»
«Sì, lo so. Però il fuoco cova sotto la cenere, te lo dico io» dichiarò il Popi,
senza curarsi d’appurare se il termine scalzacani si riferisse oltre che ai venti
anche ai ventimila, dei quali ultimi lui pure faceva parte.
«Intanto da voi i professori tengono lezione ogni giorno, e quando è il mo-
mento uno può dare tranquillamente i suoi esami. Vuoi mettere? Da noi ad
Architettura passano mesi senza che si tenga una vera lezione, e i docenti o
accettano di parlare di rivoluzione e di comunismo, le solite fregnacce, o se no
devono stare alla larga. Perché se uno di loro fa tanto di venire a un’assemblea
per parlare di cose serie, sta fresco. Sai che anche stamattina hanno fatto il
tiro a segno addosso al professor X? ‘Un passo a destra, X’ gli gridavano e gli
tiravano un modello di legno, o anche di ghisa, obbligandolo a scansarsi, e poi:
‘un passo a sinistra’ e gliene tiravano un altro, l’hanno ridotto uno straccio.
Per forza i professori in gamba, decisi a non mollare, ormai non fanno più le-
zione. Ma come andrà a finire ’sta storia?»
«Andrà a finire che il ministro democristiano i professori in gamba li mette-
rà fuori dell’università, vedrai» disse ridendo il Popi: «ecco come andrà a fini-
re.»
«Il fatto è che da noi non c’è stato un Apollonio a raddrizzare le cose sul na-
scere» fece Manno, e sbuffò. «Purtroppo. Povero Apo, che uomo era!» Gli tor-
nò in mente una frase sconsolata che poco prima di morire Apollonio aveva
scritto a proposito del mondo cattolico infrollito. «Due anni fa, quand’è mor-
to, ho visto lo zio Michele piangere come un bambino: è l’unica volta che l’ho
visto piangere» mormorò.
«Lo vedrai piangere di nuovo tra poco, quando usciranno i risultati del re-
ferendum» disse scherzando, ma non del tutto, il Popi.
«Questa è una pisquanata che dici tu» lo contrastò stavolta, sia pure senza
durezza, il fratello. «L’Italia, se Dio vuole, non è fatta tutta di merde frolle.
Non perderemo stavolta. Anzi è proprio questa l’occasione per...»
S’interruppe, annuendo a sé stesso con energia, «Lavorate come bestie tu e lo
zio per il referendum» gli diede la baia il Popi «e intanto non vedete? Perfino
certi preti per ‘stare col popolo’ dicono che va bene votare divorzio. Siamo al
punto che da noi all’università cattolica i divorzisti stanno facendo tutte le
conferenze che vogliono, mentre a voi antidivorzisti non è permesso di parla-
re. Questo all’università cattolica!»
Manno fece nuovamente segno di sì con la testa, il giovane volto atteggiato
a sfida: «Di Giuda e porci e superporci ce n’è stati sempre» disse, «ma il cri-
stianesimo va avanti lo stesso da duemila anni.»
Il Popi smise di scherzare: con un fratello serioso come il suo non c’era suc-
co; accese piuttosto i mezzi fari. Nel primo buio cominciavano a occhieggiare
qua e là sui bordi della superstrada - che adesso si era ridotta a quattro sole
corsie - dei fuochi rossastri e fumosi, mediante i quali le prostitute segnalava-
no la loro presenza e disponibilità.
«Arieccole» fece il Popi, con logismo romanesco d’origine televisiva: «an-
che stasera le pi sono alla posta.» Disse le pi, usò cioè la sola lettera iniziale
della loro qualifica perché, malgrado i tempi e il linguaggio sboccato
dell’università e degli ambienti giovanili in genere, i due fratelli - specie tra
loro - parlavano in modo pulito.
Manno lanciò un’occhiata ai fuochi, alimentati con copertoni fuori uso
d’automobile: nel laido riverbero di ciascun fuoco stavano una, due o più pro-
stitute, ben riconoscibili per le minigonne che giungevano loro a malapena
all’inguine. (Qualche anno prima le minigonne, provenienti d’oltralpe, si era-
no diffuse dappertutto: molte ragazze le avevano adottate; in seguito erano
passate di moda, e adesso sembravano diventate una sorta di divisa delle me-
retrici, che non le avrebbero abbandonate per nulla al mondo, confacenti
com’erano alla loro professione.) Intorno ai fuochi oltre alle donne c’era qual-
che uomo che parlamentava con loro; le automobili di questi uomini ingom-
bravano pericolosamente il bordo della strada.
«Dobbiamo ringraziare i socialisti» osservò Manno: «Sono stati loro, una
volta entrati nel governo, a trasformare le strade d’Italia in casini.»
«Però al governo i socialisti ce li hanno chiamati i tuoi democristiani» non
mancò d’osservare il Popi. Che disgustato da tutte senza eccezione le forze po-
litiche italiane, si considerava un senza partito (secondo la terminologia dei
suoi compagni ‘impegnati’ - ma in che? - un qualunquista.)
«Non tutti i nostri ce li volevano» obiettò mortificato l’altro: «quelli come lo
zio Michele e come papà, cioè la maggioranza dei nostri, non ce li volevano, lo
sai.»
«Ma cosa potevano fare, se non hanno abbastanza voti per governare? Del
resto riguardo ai socialisti avevano contro perfino il papa e Kennedy, e tutta
l’altra mercanzia» fece il Popi. «Sì, e non starmi a ripetere che lo zio Michele
l’aveva previsto fin dal principio che sarebbe venuto fuori questo merdaio, e
che l’ha anche scritto. Lo so bene, e con ciò? È un fatto che nessuno gli ha dato
ascolto, e adesso ci siamo dentro tutti.»
«Beh, è arrivato il momento in cui dal merdaio si può venir fuori» disse
Manno: «è proprio a questo che punta Gabrio Lombardi. E stavolta ne usci-
remo, vedrai.»
A buon conto avevano distolto sia l’uno che l’altro gli occhi dalle peccatrici
per non cadere in tentazione, secondo ci avverte il Pater; del resto tanto l’uno
che l’altro non avevano fino allora conosciuto donna: il costume della famiglia,
quanto a loro due, prevaleva ancora su quello della società.
All’altezza d’Incastigo, dove dalla grande via se ne diramava verso destra
una minore, pure nuova e fiancheggiata da pioppi novelli, che conduceva al
vecchio ponte sul Lambro, c’era un ultimo fuoco; la Centoventisette vi si do-
vette fermare davanti a causa del semaforo rosso. Qui una peccatrice era alle
prese con un ragazzo che poteva avere quattordici anni, il quale le faceva le
sue profferte metà per scherzo metà sul serio: la peccatrice cercava di scac-
ciarlo, e lo rincorse anche con la borsetta levata a mo’ di frusta, spingendolo
fuori del cerchio luminoso del fuoco; un camionista lercio, dai calzoni a fisar-
monica, che assisteva e rideva, pronunciava frasi d’intercessione per il ragaz-
zo.
«An vedi oh» commentò, usando ancora il lessico televisivo, il Popi; ma non
poterono vedere altro, perché il semaforo si mise al verde ed essi ripartirono;
imboccarono la via minore verso destra. «Però, che schifo!»
«Un bello schifo, sì» mormorò Manno. Uno spettacolo come questo delle
prostitute tutti i giorni sotto gli occhi - egli rifletté - era sufficiente a guastare
chissà quanti ragazzi dei paesi della Brianza. “È una grazia che a Nomana
spettacoli simili non si vedano ancora”.
«Povera Italia!» fece il Popi: «Aggiungici quelli che sequestrano la gente, e i
rapinatori, e i delinquenti che alzano la cresta dappertutto, mentre i rossi pre-
tenderebbero di legare ancora di più le mani alla polizia; e intanto il governo
fa tutto tranne che governare... Non sono soltanto le università, è l’Italia intera
che sta andando a tocchi.»
«Già. Proprio per questo bisogna far fronte, darsi da fare per rovesciare
l’andazzo.»
«Con che cosa? Col vostro referendum?»
«Ti rendi conto che tutti fino all’ultimo quelli che sfasciano stanno dalla
parte del divorzio? Se noi arriviamo ad assestargli un buon colpo in testa, cioè
a far vedere che sono soltanto minoranza, sarà il principio della ripresa.»
«La propaganda che fanno loro è almeno dieci volte la vostra» disse il Popi.
«Tutti gli striscioni che si vedono a Milano sono loro, e forse otto o nove mani-
festi su dieci. Non parliamo poi dei giornali.»
«Per forza: i borghesi e i rossi associati insieme hanno troppe più palanche
di noi.» Manno s’interruppe e tentennò la testa: «Certo che... Non so se sia più
da ridere o più da piangere: i borghesi che si associano ai rossi nello sfasciare
la situazione, e ci si esaltano anche!»
«Io non capisco come voi pensiate seriamente di poter risalire una china
simile» disse Filippo-Popi.

La Centoventisette varcò sul solito ponte a due arcate la grande spaccatura


in cui scorre il Lambro, fiume da anni ridotto per gli scarichi indiscriminati ad
una cloaca a cielo aperto. (Scomparse erano le lunghe alghe verdi che una vol-
ta fluttuavano nel senso della corrente, scomparse le scàrdole dai fulminei
guizzi dorati e ogni altro pesce; adesso a detta dei giornali ci vivevano solo i
bacilli delle fogne, anch’essi per parte loro emblematici.) Oltre il ponte la stra-
da risaliva tuttavia le colline in mezzo ai boschi ancora intatti di robinie, che
sembravano accrescere il fresco della sera.
Ecco il Raperio, frazione di Nomana (il paese in cui, alla fine della guerra,
era stata catturata dai comunisti del Praga l’infelice donna rifugiatasi nella
merceria in piazza: i due giovani ignoravano semplicemente l’episodio). Come
Incastigo, come la stessa Nomana e ogni altro paese e città di Lombardia, an-
che il Raperio si era più che raddoppiato, sebbene - qui almeno - gli abitanti
fossero cresciuti di poco. Le case nuove erano sorte attorno al vecchio nucleo:
senza confronto più comode e più ricche delle vecchie, erano tuttavia incredi-
bilmente disformi tra loro e disposte - qui come dovunque - con disordine per-
fino sorprendente: in qualche modo allineate, però voltate in ogni senso, le
alte mescolate alle basse, in stili e colori diversi, non di raro cervellotici, al
punto che il paesaggio un tempo così bello ne veniva irrimediabilmente detur-
pato.
A quest’ora però, grazie al buio, tutto ciò non si notava molto, e del resto i
due fratelli l’antico paesaggio in cui la natura e l’opera dell’uomo felicemente
armonizzavano, non l’avevano quasi conosciuto. Alla prospettiva dell’ormai
vicina tavola apparecchiata cominciava a svegliarsi in loro un certo appetito;
la macchina attraversò svelta la parte nuova a sud di Nomana, formata da al-
cune strade fiancheggiate da villette e grossi condomini, con un grattacielo e
un mezzo grattacielo (via don Gnocchi, viale Kennedy, via Manno Riva, incen-
trate nella piazzetta Quinto Alpini), poi risalì la vecchia via santa Caterina,
non più acciottolata ma asfaltata, e si fermò davanti al portone de ‘I dragoni’.
«Da zio Michele ci vai tu, eh, a portare la mercanzia?» disse il Popi, socchiu-
dendo lo sportello.
«Sì, certo.»
Il Popi aprì allora del tutto lo sportello e scese di macchina.

CAPITOLO SECONDO

Alzando acrobaticamente una dopo l’altra le lunghe gambe (entrambi i fra-


telli erano alti di statura, come molti giovani delle generazioni nuove) Manno
si trasferì al posto di guida e manovrò i comandi: docile la Centoventisette ri-
partì. Attraversò la parte centrale del paese, animata a quell’ora da un notevo-
le andirivieni d’automobili e di strepitanti motorette; qua e là sui vecchi muri
si scorgeva qualche scritta, non più in calce come un tempo, ma a spray: ‘Viva
la classe 1954 - abbasso la naia’ oppure ‘Se parte il 54 per il dolore - tutte le
fighe si fanno suore’ (innegabilmente, grazie all’apporto laico il linguaggio dei
coscritti s’era fatto più disinibito). Davanti alla corte di Sansone la macchina
fu costretta a sostare per un semaforo rosso: Manno lanciò - attraverso il for-
nice ad arco scemo sormontato dalla sigla ‘AD. 1777’ - un’occhiata dentro la
corte: non vide carri d’erba come si vedevano una volta in questa stagione, ma
automobili: ce n’erano parecchie (anche più d’una per famiglia), talune ricove-
rate sotto i portici, o con difficoltà nelle ex stalle, o nei pollai ampliati con
l’ausilio di lamiere.
Più avanti, nella piazza sorvegliata da un vigile urbano (Nomana adesso ne
contava tre, in divisa nera identica a quella dei vigili di Milano, dotati di radio-
line rice-trasmittenti) il giovane dovette ridurre la velocità a passo d’uomo per
la gente che stava affluendo alla chiesa. “Ah già, siamo nel mese di maggio”
ricordò, “quindi c’è la benedizione”. Poi sempre mentalmente aggiunse: “Io
però fino al giorno 12, alle funzioni serali non potrò partecipare” (il 12 era il
giorno del referendum popolare). Passò anche davanti al bar Piper (‘ ’l bar de
la scènza’ come lo chiamava il popolo) abitualmente frequentato dagli intellet-
tuali paesani: v’intravide alcuni ‘contestatori’ più o meno suoi coetanei, impe-
gnati in quei giorni nella campagna pro divorzio. “Facce di palta” li gratificò.
Il cancello del giardino del nonno era spalancato (da anni non c’era più por-
tinaio), e il giovane lo oltrepassò annunciandosi con qualche colpetto di clac-
son. Ecco presso la casa l’Alfa Romeo 1300 dello zio Michele, con una portiera
aperta e le luci interne accese. “Guarda, lo zio è su piede di partenza, di sicuro
andrà a parlare da qualche parte.”
Lo zio era effettivamente su piede di partenza, si trovava nel vestibolo: «Oh,
bravo Manno» lo salutò. «Tra poco ho una conferenza a Lomazzo e devo spic-
ciarmi. Hai portato ogni cosa?» Manno annuì: era entrato in casa col pesante
carico dei giornali e dei volantini ritirati a Milano sulle braccia, dopo avere
spinta la porta - trovata socchiusa - con la punta d’un piede. Nel vestibolo ol-
tre allo zio c’erano zia Alma e Luca il quale, malgrado le proteste del giovane,
gli tolse dalle braccia ogni cosa e l’andò a deporre sulla scrivania dello studio,
accanto ad altro materiale di propaganda.
«Il nostro Manno!» fece sorridendo lo zio: «Ecco qui un figlio della legge.»
La locuzione (dialettale, trasferita di peso in italiano) significava figlio legitti-
mo, non solo quanto al sangue ma anche e soprattutto quanto al costume.
«T’ho dato da fare anche oggi, eh? Mi dispiace. Beh, entro una decina di giorni
anche ’sta storia sarà finita.» Si rabbuiò un poco: «Dieci, anzi nove giorni. So-
no pochi, davvero pochi. In nove giorni non possiamo più fare molto.»
«Zio, ho letto l’articolo che m’hai fatto portare alla redazione di ‘Studi Cat-
tolici’» disse il ragazzo: «è semplicemente formidabile, davvero centrato. Io
credo che riuscirà utile.»
Lo scrittore fece segno di no con una mano: «La gente che intende votare
per il divorzio, non legge ‘Studi Cattolici» avrebbe voluto spiegargli. Zia Alma
invece sorrise al nipote con gratitudine: teneva in mano e stava spazzolando la
giacca dello zio. Il ragazzo notò la gratitudine che c’era nel suo sorriso. “A che
punto gli vuol bene” pensò, “da non credere! Ecco, io vorrei che il Signore des-
se anche a me una donna innamorata così. Per tutta la vita anch’io l’amerei
allo stesso modo, anzi per tutta l’eternità.” Non era la prima vòlta che lo pen-
sava.
«Allora è pronta la giacca?» chiese Michele alla moglie. «Scusami, ma non
vorrei farmi aspettare.» E a Luca: «Con te siamo d’accordo. Ricordati che
quella roba» indicò alcuni pacchi di fogli su una sedia del vestibolo «è da di-
stribuire subito. E che la minuta del manifesto va consegnata al Corbetta tipo-
grafo prima di domani mezzogiorno. Cosa conti di fare? Gliela mandi da qual-
cuno o la porti tu?»
«Sarà meglio che la porti io» rispose Luca.
«Ecco, bravo. Spiegagli che le due righe con l’argomento della conferenza,
insomma le parole ‘Referendum: scelta di civiltà’ devono essere in forte risal-
to. Digli che le faccia alte non meno di dodici-quindici centimetri. Non meno
di quindici.»
«Va bene, ci penso io» (Luca s’esprimeva come sempre in dialetto).
Zia Alma, che aveva terminato di spazzolare la giacca, aiutò il marito a in-
dossarla: «Vuoi che Luca non lo sappia da sé cosa deve fare?» osservò.
«Ma no» disse Luca «fa bene a precisarmi le cose.»
Michele sorrise: «Lo so anch’io che Luca è in gamba. Non per niente era del
Quinto.»
«Che quinto?» chiese il giovane Manno.
«Il Quinto degli alpini, no?» gli rispose zia Alma. «Figurati se tuo zio Mi-
chele può riferirsi ad altro quando parla con Luca: quinto battaglione, o quin-
to qualcosa di simile, degli alpini.»
«Quinto reggimento» precisò lo zio. «Vedi che non lo sai? Questo significa
che io non ne parlo abbastanza. Beh, vorrà dire che da domani ne parleremo
più spesso, eh Luca?»
Luca ridacchiò divertito, il volto onesto sempre sormontato dal ciuffo che
adesso s’era fatto grigio e un tantino più rado. «Eh, gli alpini...» mormorò, e
fece un gesto vago, a significare una realtà ormai lontana, perduta.
«Su, bisogna proprio che mi spicci» disse Michele, «se no arrivo in ritardo e
quelli di Lomazzo potrebbero protestare.» Si volse a Manno: «Vuoi un pas-
saggio fino a casa tua?»
«Grazie zio, ma ho qui la mia macchina.»
«Ah, certo. Senti allora: domani a Milano dovresti passare dalla sede del
comitato in via San Marco. Rivolgiti direttamente alla segretaria: ti darà tre o
quattro articoli dattiloscritti di collaboratori volontari. Voglio vederli prima
che siano passati alla stampa. D’accordo?»
«Sì zio.»
«Vorrà dire che poi, a referendum finito, ti faremo un piccolo monumen-
to.»
«È a te zio, se mai, che bisognerebbe fare il monumento.»
Lo zio gli fece sorridendo segno di no. «Beh, ciao.» Tese quindi la mano a
Luca: «Ciao Quinto alpini» gli disse, guardando di sottecchi zia Alma. E vol-
gendosi di nuovo a Manno: «In pratica il comitato qui a Nomana è lui, Luca.
Fa tutto lui.»
«È vero» convenne il giovane.
«Eh, starei fresco, ci sono anche gli altri» si schermì Luca.
«Stai facendo un buon lavoro, come al solito» disse Michele avviandosi
all’uscita. Ma in quella si udì la voce del suocero che lo chiamava dalla sala; lo
scrittore si girò e affacciatosi frettolosamente alla porta del locale: «Papà sono
in ritardo, devo scappare» disse rivolto ai due suoceri che nella penombra si
scorgevano appena, seduti davanti alla televisione.
«Un momento, prima ascolta» esclamò eccitato il vecchio Gerardo: «Sta
parlando di te, non senti? Ha appena fatto il tuo nome.» Michele entrò allora
del tutto in sala, insieme con Alma e gli altri. Nel quadro luminoso il presenta-
tore proseguiva la sua chiacchierata (non era la prima volta che in quei giorni
nominava Michele): «...a suo giudizio la libertà del coniuge dissenziente, ossia
del coniuge che non vuole il divorzio, risulta quindi violata dalla legge. Lo
scrittore Michele Tintori ha concluso affermando che anche il diritto dei figli a
conservare l’integrità famigliare è violato da questa legge.»
Il presentatore non fece pausa: «L’onorevole Tal dei Tali, parlando per il
partito radicale, ha invece difesa la legge sostenendo che il divorzio...»
«Beh, io ormai sono passato, quindi vi saluto» disse allegramente Michele,
«se no è la volta che faccio davvero tardi.»
«Dove le hai pronunciate quelle frasi?» gli chiese ciononostante la suocera,
come tutti i vecchi invincibilmente portata a indugiare.
«Sono frasi scritte, che vengono passate alla televisione dalle segreterie dei
partiti e anche da quella del nostro comitato. Le ho preparate alla scrivania;
mamma, le riferirò ogni particolare domani. Adesso devo proprio scappare.
Buona notte. Buona notte anche a lei, papà» e s’avviò.
La moglie Alma lo seguiva: «Ma come sei importante, Michele mio, ma co-
me sei bravo!» lo scherzò affettuosamente.
«Certo, certo» stette allo scherzo Michele: «è meglio che non ci pensiamo,
se no c’impressioniamo; beh, ciao» e circondata con un braccio la moglie la
tirò a sé e la baciò con amore sul viso ancora bello di statuina.
Il giovane Manno notò il trasporto dello zio, notò la gioia della zia: “Come si
vogliono bene quei due” pensò di nuovo.
«Ciao, ‘fiö de la leg’» lo salutò lo zio con un sorriso, e seguito da Luca, il
quale s’era messo sotto braccio i pacchi dei fogli da distribuire, uscì di casa.
Ma anche gli altri, compresi i due suoceri che s’erano alzati dalle loro pol-
trone, lo seguirono fuori, e indugiavano accanto alla macchina mentr’egli
l’avviava. «Un momento» gli disse Alma, «ti sei ricordato di prendere la chia-
ve del cancello?»
Michele abbassò un vetro: «Eh? Cosa?»
La moglie ripeté la domanda. Lo scrittore le fece segno di sì sorridendo, e
avviò la macchina; che uscì dal giardino con un lieve strepito delle ruote sulla
ghiaia.
I due vecchi si voltarono per rientrare in casa insieme con Almina, la quale
da circa una settimana, per non restare sempre sola la sera, si era trasferita a
Nomana. «Sono contenta che la televisione parli finalmente di Michele» disse
Giulia: «Qualche riconoscimento come questo gli ci vuole.»
Manno sapeva che non si trattava affatto d’un riconoscimento, che la televi-
sione citava lo zio soltanto perché tenuta a leggere le argomentazioni ricevute
dal comitato e dai partiti; e sapeva (anche questo gliel’aveva detto lo zio) che
appena passato il referendum sarebbe tornata al precedente silenzio nei suoi
riguardi. Ma non disse nulla ai vecchi. S’offerse invece d’accompagnare Luca
con la propria macchina: «Non faccia complimenti, l’accompagno molto vo-
lentieri.»
«Grazie. Ma ho la mia macchina qui fuori del cancello» gli rispose Luca.
«Beh, mi saluti allora suo figlio Tarcisio, il mio compagno.»
«Grazie, presenterò.»
«L’ho visto ieri a Milano, a un incontro di CL. Lo sa, no, che anche noi, nel
nostro piccolo, ci diamo da fare contro il divorzio?» (CL: Comunione e Libera-
zione, era una vitale organizzazione nuova che riuniva sempre più giovani cri-
stiani dopo l’entrata in paralisi dell’Azione Cattolica.)
Luca annuì cordialmente. Il ragazzo montò sulla Centoventisette e la mise
in moto.

CAPITOLO TERZO

Uscito a piedi dal giardino Luca sistemò i pacchi sul sedile posteriore del
proprio automezzo (una Millecento in ottime condizioni nella quale, come in
molte automobili degli operai briantei, c’era una piccola croce appesa allo
specchietto), e sedette a sua volta al volante.
Raggiunse anzitutto la casa del tipografo Corbetta, al pari di lui vecchio mi-
litante della Democrazia Cristiana, tanto che poteva permettersi di disturbarlo
a qualsiasi ora. Mentre spalancava lo sportello davanti alla cartoleria-
tipografia, per un soffio non urtò il Farirö - il piccolo fabbro che, ai tempi,
aveva aperto ai partigiani la caserma dei carabinieri: chissà se il lettore lo ri-
corda ancora -, il quale avanzava lungo lo stretto marciapiede; sceso in fretta
di macchina Luca si scusò con lui, e scambiò ridendo qualche parola sullo
scampato pericolo. (Da anni il Farirö andava in giro tutto ripulito perché suo
figlio era diventato un industriale - anzi un importante industriale - metal-
meccanico; per il resto l’ex piccolo fabbro non aveva mutato stile, e tra l’altro
seguitava come prima ad accendere i fiammiferi strofinandoli sul fondo dei
calzoni: che adesso, per essere di ottima lana, si prestavano ancor meglio a
tale servizio.)
Alle spalle del Farirö ecco venire avanti a lunghi passi Pierello, accompa-
gnato dalla figlia minore. Aveva in testa il berretto a visiera e sotto braccio la
cartella: doveva - Luca pensò - essere appena sbarcato dal treno (lavorava tut-
tora a Sesto, in ferriera); come mai dunque lo accompagnava la figlia?
«Ciao Piero» lo salutò.
«Ciao» gli rispose asciutto Pierello.
«Sempre in gamba, eh?»
L’altro non disse nulla; era - Luca si accorse - molto abbacchiato. «Ehi, t’è
successo qualcosa?»
Pierello fece segno di no con la testa, e andò oltre senza fermarsi. Luca ri-
mase perplesso: “Cosa diavolo può essergli capitato?” Dopo aver consegnata al
tipografo la bozza del manifesto, ed essersi intrattenuto con lui una mezz’ora
(il Corbetta, gran conversatore, non l’avrebbe lasciato mai venir via), Luca
raggiunse la propria casa. Non abitava più alla Catafame (dov’erano rimasti i
suoi vecchi, che avevano affittati i locali lasciati vuoti dai figli, e perfino il ‘so-
laio delle passere’, a immigrati meridionali), bensì a Nomana, in un condomi-
nio della zona nuova. Come tanti altri operai della sua età - come lo stesso Pie-
rello ad esempio, che risiedeva in un condominio non lontano - era proprieta-
rio d’un bell’appartamento di quattro locali con riscaldamento centrale, forni-
to di mobili che potevano gareggiare per comodità con quelli di casa Riva.
Venne ad aprirgli il figlio ventunenne Tarcisio, studente d’architettura, che
premurosamente lo liberò dei pacchi: «Vuoi che li porti addirittura in sede,
pa’?»
«No, lascia. In sede ci andiamo poi insieme, dopo mangiato.»
«Va bene pa’» (Parlavano entrambi in dialetto.)
«Il tuo compagno Manno ti manda i suoi saluti: l’ho visto poco fa.»
«Ah, grazie.»
Era un bravo figlio il Tarcisio, pensò Luca, anche lui un ‘fiö de la leg’ al pari
di Manno, nonostante quella bolgia di scuola che entrambi frequentavano a
Milano. Anche degli altri suoi quattro figli e figlie Luca non si poteva lamenta-
re: non uno sbandava. Egli sapeva d’essere sotto questo aspetto molto fortu-
nato, perché le cose non andavano affatto allo stesso modo per altri capi fami-
glia operai, i quali si ritrovavano ad avere dei figli ‘contestatori’ che li facevano
dannare. A Nomana ultimamente era comparsa anche la droga...
«Ah, dimmi un po’, quel ragazzo della tua età, come ha nome? Taddeo, il fi-
glio di Pierello e della Luisina, quello che studiava da prete... per caso oggi ne
ha combinata qualcuna delle sue?»
«L’hai già saputo? Forse te l’hanno detto dai Riva?»
«No. È che ho visto suo padre, e m’è sembrato preoccupato.»
«Ci credo. Oggi pomeriggio i carabinieri hanno chiamato un’altra volta
Taddeo in caserma. Forse però sarà ancora per quella macchina che ha brucia-
to a Milano.»
«Ha bruciato una macchina? Ah già, sì, me l’avevi detto.»
«In una manifestazione per il VietNam.»
«Sì? Che testa sbagliata! Cos’ha fatto di male suo padre, per meritarsi un fi-
glio simile?»
CAPITOLO QUARTO

In quel momento Pierello, a casa sua, era seduto a tavola per la cena: una
cena che gli stava andando tutta in veleno. Ogni tanto scuoteva con disappun-
to la testa rotonda dagli occhi marroni (anche i capelli gli s’erano conservati
dello stesso colore marrone chiaro, quasi senza fili bianchi, sebbene adesso,
nel 74, egli avesse più di cinquantanni). Sedeva con la moglie Luisina e le due
giovani figlie al tavolo della cucina, perché la famiglia non si serviva mai per i
pasti del tavolo buono della sala, tenuto sempre lustro come uno specchio.
Le tre donne tacevano per rispetto alla sua pena; ogni tanto la moglie - piut-
tosto invecchiata, ma tuttora provvista del bel garbo che aveva a suo tempo
conquistato Pierello - si alzava da tavola per andare a prendere qualcosa, op-
pure raggiungeva con un piatto sporco l’angolo dov’era la pattumiera di plasti-
ca, liberava il piatto dai residui di cibo, quindi lo sistemava addirittura nella
lavastoviglie spalancata; dopo un po’ s’alzava di nuovo per qualche altra in-
combenza; quel suo continuo movimento ne indicava agli altri il nervosismo.
Alla fine tolse dal fuoco e portò al tavolo la macchinetta del caffè espresso;
prima che prendesse anche dalla credenza pensile le tazze, i cucchiaini e lo
zucchero, si alzò la maggiore delle due figlie e provvide a tale bisogna. Luisina
la guardò per un attimo interrogativa (siccome le figlie lavoravano tutto il
giorno in ufficio, la madre, nonostante le loro sempre rinnovate proteste, non
gli consentiva di sobbarcarsi al servizio della mensa). «Mamma, almeno per
stasera lascia perdere, ti prego» disse la figlia. La Luisina non ribatte; la ra-
gazza versò il caffè fumante, dal buon odore, anzitutto al capo famiglia. «An-
che il caffè volete farmi prendere?» protestò Pierello.
«Lo prendiamo tutte le sere, papà» osservò la figlia.
«Sì, ma...»
«Piero, passerà anche questa» disse la Luisina. Al pari del marito
s’esprimeva in dialetto, le due ragazze invece in italiano.
L’uomo annuì e si diede a rimestare col cucchiaino nella tazza. Dopo che la
figlia ebbe versato il caffè anche alla madre, alla sorella e a sé stessa, la madre
si alzò per collocare la macchinetta col caffè residuo sopra una mensola accan-
to a due piatti coperti in cui stava la cena del figlio. Pierello seguì con gli occhi
i movimenti della moglie, fissò i due piatti coperti, quindi allontanò da sé il
proprio caffè. «Stasera non ne ho voglia» disse con sconforto.
«Piero ti prego.»
«Lasciami fare.»
La donna sorbì pensierosa un paio di sorsi del proprio caffè, poi allontanò a
sua volta la tazzina.
«Mamma!» intervenne allora la figlia maggiore. E rivolgendosi anche al pa-
dre: «In fin dei conti oggi non è mica successo niente di nuovo. Non è che
Taddeo ne abbia combinata un’altra. I carabinieri gli hanno soltanto chiesto
dei particolari su quel fatto della macchina, lo sapete.»
«E ti par poco?» esclamò il padre, atteggiando il viso a severità. «No, non è
che mi par poco.» La figlia sospirò: «Ma ormai quello che è successo è succes-
so, e adesso questa storia deve fare il suo corso.»
«Ah, quello che è successo è successo! Bella roba. Ma perché è successo?
Cosa diresti tu se un farab... se qualcuno ci bruciasse la nostra macchina?» e
alla moglie: «Oltre tutto è un operaio anche quello là, vero?»
Alludeva al proprietario della macchina bruciata qualche settimana prima a
Milano dal figlio e da altri dimostranti.
«È un impiegato» precisò la figlia, «ma... per caso.»
«Ecco, è un impiegato come te» disse Piero; «e del resto chiunque fosse...
Perché dei disgraziati devono bruciare a caso le macchine ferme in margine
alla strada?»
«Quando ci sono le dimostrazioni, lo fanno. Non dico che fanno bene: sono
dei senza testa, in questo sono d’accordo con te, con voi, lo sapete bene.»
«Sono dei ladri» dichiarò Piero: «perché poi chi si trova la macchina bru-
ciata, non ce l’ha più, e nessuno gliela paga.»
«Siamo d’accordo papà. Però in fin dei conti queste cose succedono quasi
tutti i giorni. Il nostro Taddeo è stato soltanto più salame degli altri perché
l’ha fatto sotto gli occhi di quegli studenti che lo conoscevano, che poi lo han-
no denunciato. E lui, quando la polizia gliel’ha chiesto, non ha detto di no, non
ha negato. In questo, dopo tutto, è stato onesto.»
«Ah, onesto! Onesto a bruciare le macchine degli altri?»
«Come puoi dire così?» esclamò accorata anche la Luisina.
«No, sentite... Quello che voglio dire è che adesso voi non dovete smangiar-
vi. Perché di sicuro Taddeo lo chiameranno ancora altre volte, e gli faranno
magari anche il processo. Voi non potete prendetela ogni volta a questo modo.
Ci rimettete la salute, non capite?»
«A che punto siamo!» fece Pierello, e tacque. Ricordò quanto fosse glorioso
di quell’unico figlio maschio (cui aveva posto il nome del suo indimenticabile
amico Tadeusz, il prigioniero polacco) qualche anno prima, allorché studiava
da prete in seminario. Poi, chissà come, gli si era voltata completamente la
testa.
«Sono stati quei suoi due compagni a traviarlo» affermò senza spiegare,
continuando il proprio pensiero: «quelli che studiavano con lui giù in semina-
rio: il figlio del Consonni sopra tutto. Ecco chi è stato. E insieme con quei due
il coadiutore nuovo, don Vittorio.»
«A sentire la madre del Consonni, sarebbe stato invece il nostro a traviare il
loro» osservò la Luisina.
«Il nostro? Beh, chissà, potrebbe anche avere ragione lei. Chi può saperlo
con certezza? Ma cosa gli ha preso a questi ragazzi, io mi chiedo. Addirittura
in tre hanno abbandonato il seminario... E prima erano tutt’e tre bravi ragazzi,
tra i meglio del paese, e quanto mai di buon comando. Poi si sono come inca-
rogniti. E anche a certi preti giovani cosa gli ha preso, me lo sai dire tu?»
«Non devi parlare così delle persone consacrate» osservò con gravità la Lui-
sina, lanciando un’occhiata alle figlie: «Non tocca a noi di giudicarle.»
«Già, però hai visto don Mario l’anno scorso quand’è venuto a Nomana per
la festa del Crocefisso. Mentre io gli contavo di nostro figlio e del brutto esem-
pio che gli dà don Vittorio, gli son venute le lacrime agli occhi: non ha detto
niente, però è d’accordo anche lui, e come!»
La madre rivolse di nuovo uno sguardo angustiato alle figlie: «Non tutti i
preti giovani sono così» obiettò: «Soltanto qualcuno.»
Là maggiore delle figlie, ch’era una ragazza di molto buon senso, si alzò in
piedi: «Ermelinda» disse alla più giovane «ci stavamo dimenticando che sta-
sera alla televisione c’è Mike Bongiorno; su, è quasi ora.»
Ermelinda (ripeteva il nome della nonna paterna) si alzò in piedi un po’ in-
certa: «Mike Bongiorno, ah sì, è vero.»
«Vieni» disse la maggiore. La precedette nella sala dove, in un angolo, stava
l’apparecchio televisivo. «Ma non sarebbe meglio, stasera, aiutare la mamma
a sparecchiare?» propose la minore.
«Lascia perdere» fece sottovoce la prima: «la mamma ha paura che ci scan-
dalizziamo, non vedi? Povera donna, sapesse che discorsi dobbiamo sentire
ogni giorno in ufficio.»
«Lo credo bene che non tutti i preti giovani sono così» continuò Pierello ri-
volto alla moglie: «Perché allora vorrebbe dire che non c’è più religione. Eh, ci
mancherebbe!»
«Quando gli si volta la testa a quel modo, i preti finiscono in genere con lo
spretarsi» disse liberamente la Luisina, adesso che non erano più presenti le
figlie. «Come ha fatto il don X coadiutore a L. per esempio. Beh, in fondo è
una grazia che il nostro ragazzo abbia abbandonata la veste prima, mentr’era
ancora in tempo: se no io ne sarei morta di magone.»
«In questo sono d’accordo. Però non chiamarla una grazia.» Pierello fece
una pausa. «Che brutto lazzarone!»
Si alzò in piedi come qualche istante prima avevano fatto le figlie. Proprio
non riusciva a darsi pace: «Dove sarà adesso?»
«Lo puoi immaginare, sarà andato a quel giornaletto.»
«Così io, che son tornato dal lavoro col treno delle otto, per parlare con lui
dovrò aspettare fino a mezzanotte, e anche più tardi, eh? Eppure alla fine toc-
cherà a me, a noi, di pagare la macchina che lui ha bruciato. Perché lui, il si-
gnor studente, non guadagna una lira: anzi a noi ci tocca di pagargli anche gli
studi.»
La Luisina fece un gesto a significare: «Lascia perdere.»
«Dimmi un po’» le chiese il marito: «Lo ha detto a te che domande gli han-
no fatto i carabinieri, insomma a che punto stanno adesso le cose?»
La moglie fece un segno di diniego. «A me non ha detto niente, ma ne ha
parlato un po’ con sua sorella.»
«Ah, così.»
In piedi nella cucina l’operaio rimuginava la situazione. «Così io, che sono
suo padre, per sapere dovrò aspettare fin dopo mezzanotte, eh?» ripeté.
La moglie lo guardò in silenzio.
«Beh, non mi va d’aspettare» esclamò Piero. Andò all’attaccapanni e prese
il berretto a visiera con cui era tornato dal lavoro: «Non mi va d’aspettare»
ripete. Mise la mano sulla maniglia della porta.
«Piero, quel figlio... cerchiamo di non perderlo del tutto» fece la moglie; le
si andavano arrossando gli occhi.
Il marito la considerò per qualche istante: «Non avere paura, non mi lasce-
rò prendere dalla rabbia» disse a mezza voce, e uscì.

CAPITOLO QUINTO

La sede della rivistina progressista ‘Brianza Nuova’ era nella ‘Libreria don
Milani’, un negozietto a un solo occhio situato a pochi metri dalla piazza in un
edificio di costruzione recente. Tale edificio (insieme con una fabbrica molto
più voluminosa ad esso retrostante, venuta su negli anni del ‘miracolo econo-
mico’) impediva ora quasi del tutto la vista che una volta si godeva sulla cer-
chia delle montagne.
In quel momento Taddeo e gli altri giovani redattori non si trovavano però
nella sede, bensì nel finitimo bar Piper, ‘ ’l bar de la scema’, che faceva angolo
con la piazza. V’erano entrati uno dopo l’altro scorgendovi don Vittorio, il
coadiutore rosso, seduto a un tavolino mentre in chiesa si stava impartendo la
benedizione. Il prete aveva accolto ciascuno con frasi sarcastiche: «Come? Tu
non vai in chiesa a sentire la storia del popolo eletto che scappa dal faraone tra
due muraglie d’acqua?» oppure: «Entri qui invece d’andare in chiesa? Non
t’interessa la storia di san Pietro che fa cadere morti a terra i cattivi?»
La poca gente che circolava per la piazza (adesso asfaltata e quasi per intero
occupata da un grande parcheggio) era abbastanza simile a quella d’una volta:
meglio vestita però, in particolare le ragazze, anche quelle molto giovani, le
quali ultime sotto l’influenza della televisione e dei tempi nuovi avevano tutte
un che di sexy nell’abbigliamento (tanto che Michele le definiva ‘le vampine’).
Appunto per la comodità d’osservare le ragazze don Vittorio era diventato fre-
quentatore del bar in piazza: non era un ipocrita e non se lo nascondeva, ma
nell’attuale fase del suo travaglio interiore - in cui si mescolavano anche aspi-
razioni in sé nobili e giuste, però sempre meno regolate, e sempre più perdenti
di fronte alla suggestione del grande rinnovamento preconizzato dalle teorie
di Carlo Marx - egli non dava ormai a questo genere di tentazioni molta im-
portanza. A suo tempo, diversi anni prima, il giovane sacerdote aveva come
tanti altri imboccata la via delle novità e del progressismo credendo in buona
fede d’interpretare un indirizzo proveniente dall’alto. In seguito l’avevano più
d’una volta preso dei dubbi anche tormentosi, sebbene la sua lettura del Van-
gelo si fosse andata diversificando da quella ‘tridentina’ e ‘borghese’. Anche
l’attuale crescente propensione per la donna lo aveva sul principio lasciato
interdetto, non tuttavia fino al punto da indurlo a un ripensamento.
I ragazzi progressisti lo ammiravano per la sua spregiudicatezza a dispetto
d’ogni protesta dei ‘benpensanti’ (specie del parroco - nuovo pure lui, ma di
mentalità antica): il che finiva con l’indurlo ad atteggiamenti sempre più spre-
giudicati. Quella sera i giovani erano dunque venuti a sedersi attorno a lui. Si
trattava di maschi e di femmine, per la maggior parte d’estrazione cristiana -
alcuni come s’è detto ex seminaristi -, ma comprendevano anche l’élite della
tuttora scarsa gioventù comunista di Nomana, la quale adesso, assai più
istruita e aperta, lasciatisi indietro i tempi bradi del comunismo staliniano,
formava in pratica un tutt’uno con i ‘contestatori’ cattolici.
Dai motteggi - che si rinnovavano ad ogni nuovo arrivo - si era nel gruppo
passati al commento delle ultime novità: ovviamente l’eroe del giorno era
Taddeo, il figlio di Pierello, nei guai a causa del suo impegno per la vittoria dei
comunisti indocinesi. Quei giovani s’inorgoglivano all’idea che il sostenere la
guerra di liberazione comunista costasse loro sacrifici reali come questo.
Quanto al fatto che gli indocinesi - vietnamiti, cambogiani e laotiani - non vo-
lessero saperne d’essere liberati dai comunisti (e lo dimostravano in modo
inequivocabile ad ogni avanzata di questi, fuggendo nella proporzione di nove
su dieci con le truppe dei rispettivi eserciti nazionali, o raggiungendo in pro-
porzione di nove su dieci le linee nazionali non appena le circostanze lo con-
sentivano loro) quei giovani un tale fatto l’ignoravano, oppure - se glien’era
giunta notizia - lo giudicavano mostruoso, e dovuto all’impreparazione di
quelle popolazioni. Le ragioni degli americani (che dopo essere entrati in
guerra per la libertà di quei popoli, esattamente come a suo tempo in Europa
contro i nazisti, avevano due anni prima, nel 72, ritirate le proprie truppe, e
ora si limitavano a rifornire gli eserciti nazionali) erano soverchiate dal clamo-
re in contrario di tutti o quasi i giornali italiani, nonché della radio e della te-
levisione.
L’ ‘imperialismo’ americano finì con l’entrare anche nei discorsi di quella
sera: «Quei porci d’americani devono piantarla d’aiutare i loro reggicoda ri-
masti in VietNam e in Cambogia.»
«Hanno contro gli studenti d’America, e l’opinione pubblica del mondo in-
tero, tanto che sono stati costretti a venirsene via: però lo vedete, non vogliono
saperne di mollare del tutto.»
«A sperare che vincano loro è rimasta ormai solo la gente di Nomana.»
«È proprio gente che non capisce niente. Come fanno a non rendersi conto
che una sconfitta degli americani rappresenterebbe una straordinaria vittoria
della libertà nel mondo intero?»
«Beh, forse è appunto questo che loro non vogliono.»
«Che razza di disgraziati! Ma com’è possibile che non gl’importi niente di
tutte quelle sofferenze, di tutti quei morti?» (Pronunciò questa frase la Tecla,
una ragazza in blue jeans, dagli occhi ardenti.)
«Già. E noi non dovremmo fare dei falò di macchine per svegliarli, questi
ipocriti?» esclamò con durezza un altro.
Taddeo annuì con aria severa e insieme modesta: al centro com’era
dell’attenzione, si manteneva debitamente schivo..
«La gente di Nomana seguiterà a non capire niente finché sarà plagiata dal
capitalismo» spiegò con gravità il Consonni, ex seminarista, laureando in filo-
sofia all’università statale e direttore della rivista. «Per rendercene conto ci
basta sentire i ragionamenti che fanno i nostri famigliari, no?»
«Ecco, bravi ragazzi!» lo approvò il prete. Anche gli altri erano incondizio-
natamente d’accordo.
(Con questi giovani che, considerandosi affrancatori del popolo, avevano
non senza sacrifici personali messo in piedi il periodico e la piccola libreria
progressista, Michele aveva inutilmente tentato di discutere. D’essere anziché
liberatori, dei plagiati portatori di schiavitù, essi non potevano a quel tempo
prenderlo in considerazione nemmeno per ipotesi; soltanto anni dopo alcuni
di loro l’avrebbero capito. Finivano perciò, a quel tempo, con l’apparire allo
scrittore una dimostrazione vivente di come avesse a suo tempo visto giusto il
‘gobbetto’ Gramsci, il quale aveva indicata ai suoi la conquista del potere non
per la via leninista della rivoluzione violenta, ma attraverso il plagio: attraver-
so cioè il progressivo condizionamento di tutti gli organi dell’informazione -
come giornali, radio, televisione - nonché degli istituti culturali: scuole, case
editrici, teatri, cinema. Gramsci aveva, con straordinaria lucidità, previsto che
una volta conseguito tale condizionamento, il compito di togliere di mezzo il
grande ostacolo, la visione cristiana della realtà, se lo sarebbero assunto spon-
taneamente gli stessi cristiani, i quali sarebbero gradualmente diventati atei
dopo aver accettata l’analisi sedicente neutra e scientifica che della realtà fa il
marxismo. In effetti questi ragazzi e questo prete, e tanti altri come loro sparsi
in Italia e in Europa, si erano precisamente messi su tale strada dopo che -
morto Pio XII - la cultura cattolica, anziché lottare contro le analisi marxiste,
insisteva a cercare dei punti d’incontro con esse. Va anche detto che, nel con-
tempo, l’intera cultura europea - soprattutto per l’analoga situazione creatasi
in Francia, suo centro - era incredibilmente scaduta, compiendo in pochi anni
enormi passi indietro verso una condizione precivile. Emblematica al riguardo
appariva a Michele la recente affermazione di Picasso, riportata da tutti i gior-
nali ‘Se oggi rinascesse Raffaello non venderebbe neppure uno dei suoi qua-
dri, e nessuno li guarderebbe’: purtroppo le cose stavano effettivamente così.
Venuta meno la sensibilità per le opere d’arte autentiche, succedeva ora di ve-
dere in certe esposizioni - e non delle minori - una fila di boccette con le feci
dell’artista allineate in luogo dei suoi quadri.)
«Beh, il VietNam è estremamente importante» aveva richiamata
l’attenzione di tutti il Consonni: «però dobbiamo ricordarci che questo nume-
ro del giornale va dedicato alla libertà di divorzio. All’Indocina stavolta non
possiamo dedicare più di mezza facciata.»
«In questo siamo d’accordo.»
«Già. Cioè, eh già.»
«Sì, certo che siamo d’accordo.»
«I pezzi sul divorzio li avete preparati nel modo che abbiamo deciso duran-
te l’ultimo collettivo?» egli s’era assicurato.
«Io il mio sì.»
«Io non ancora; cioè, l’ho solo abbozzato, perché, cioè, vorrei sentire il vo-
stro parere.»
«Io sono pronto.»
«Beh poi, nella seduta di redazione, esamineremo ogni cosa. Comunque en-
tro domani sera dovete consegnarmeli: perché questo numero non può uscire
in ritardo.»
«Ah, no di sicuro.»
«Ci mancherebbe.»
«Allora?» chiese quello che ancora doveva terminare il proprio pezzo: «Non
sarebbe ora di trasferirci in redazione, cioè, sì, in redazione?»
«È che manca l’Elvira...» (si trattava della figlia secondogenita d’Igino, stu-
dentessa in lettere all’università cattolica).
«Ah già.»
«Sempre ritardataria quella,.»
«Già. Cioè, infatti.»
I giovani contestatori avevano indugiato ancora un po’, in attesa della com-
pagna assente.
Nel ristagno della conversazione don Vittorio si era rivolto direttamente a
Taddeo: «Beh? Ce lo vuoi raccontare o no cosa t’hanno chiesto i carabinieri?»
«Cos’è che volete? Anche voi un rapporto circostanziato?» Dopo avere sor-
riso il giovane, tornato alla sua spigolosa serietà, s’era messo a raccontare.
Fu a questo punto che Pierello, diretto alla libreria don Milani, arrivò da-
vanti al bar.

CAPITOLO SESTO

Vide attraverso le vetrine illuminate suo figlio intento a riferire agli altri:
“Eccolo là. Cosa starà predicando quel disgraziato? Sta per forza parlando del-
la sua impresa di oggi... E di che altro? Beh, avrò diritto di sentirla finalmente
anch’io che sono suo padre, no?”
Non gli usciva tuttavia dalla mente l’ammonimento angosciato della moglie:
«Piero, quel figlio... cerchiamo di non perderlo del tutto». Perdere il figlio, a
questo punto! Eppure se lui fosse entrato nel bar, non avrebbe potuto ascol-
tarne le malefatte senza interloquire, e ne sarebbe nata - in pubblico a quel
modo - una discussione ben più grave che se fosse stata a tu per tu. Da
quell’uomo semplice che era, Piero quel figlio - il suo unico maschio - l’amava
fin dalla nascita con tutta l’anima... Avvertiva quindi, con tormento, che non
era cosa da poco arrischiare una rottura.
Mentre se ne stava così irresoluto davanti alla vetrina, vide il prete approva-
re a un tratto calorosamente Taddeo, e sollecitare anche l’approvazione degli
altri. Finì con l’incentrare il proprio interesse su questo particolare: se merita-
va riprovazione suo figlio, è certo che ancora di più ne meritava quel prete.
Piero si scostò un poco dalla vetrina per riflettere: un sacerdote che si compor-
tava a quel modo! Per un operaio paolotto come lui era un vero scandalo, tan-
to che di proposito a quel prete egli cercava di non pensare mai. Sempre con
quelle ragazze scalmanate attorno poi, un sacerdote di Cristo! Come poteva,
con un simile esempio sotto gli occhi, venir su bene la gioventù? È vero che
anche senza quel prete i tempi erano cambiati, e anche qui a Nomana i rap-
porti tra i sessi non erano più quelli d’una volta, quand’era ragazzo lui, che la
maggior parte dei maschi arrivava al matrimonio senza aver conosciuta la
donna. Ah, no davvero, le cose adesso non andavano più così. Tanto che ormai
circolava anche qui quel detto che una volta si sentiva soltanto giù in pianura,
a Sesto per esempio, dove tuttora egli lavorava nella ferriera: ‘Se ’l Signur el
perduna no ’l pecaa de la braghèta - el pò resta sú de per lü a sunà la trum-
bèta’ (Se il Signore non perdona il peccato delle mutandine - può restarsene
lassù da solo a suonare il piffero). A questa riflessione l’operaio sorrise con
una certa indulgenza, anche se tale realtà intimamente gli dispiaceva: perché
quanto tempo sarebbe poi occorso al popolo cristiano per tornare ai propri
costumi? Beh, la gente comune pazienza: ma un prete? Possibile che non si
rendesse conto, se non altro, della sconvenienza di quella promiscuità? Per
forza poi tanti preti rossi finivano con lo spretarsi, per forza i seminari si vuo-
tavano... In quello della diocesi, a quanto lui aveva sentito dire, nel giro di po-
chi anni gli aspiranti al sacerdozio s’erano ridotti addirittura alla metà. Non
gliene importava niente a don Vittorio d’un fatto così tremendo? Non ci pen-
sava mai? Pierello tentennò con disapprovazione la testa rotonda: chissà come
sarebbe finito questo prete! Gli venne in mente il don X, coadiutore di L., un
paese vicino a Nomana, che - incalzato dal bisogno della donna - aveva poco
tempo prima ottenuta la riduzione allo stato laicale per sposarsi, e poi, in una
delle prime notti dalle nozze, era morto d’infarto. Certo lui non intendeva eri-
gersi a giudice, ma non era forse un esempio per tutti quello? E che esempio
anche!
Rimuginando tali cose Piero si era passo passo allontanato dal bar Piper, e
stava lasciando anche la piazza, di cui in quel momento gli dava fastidio
l’eccessiva illuminazione e l’andirivieni delle automobili. Oltrepassò l’oratorio
nuovo (in cemento armato, dotato d’un grande salone ad anfiteatro con le pol-
trone di velluto, e d’un magnifico cortile per i giochi; disponeva perfino d’un
pulmino per accompagnare i ragazzi: che differenza rispetto a una volta! Ma
cosa valeva tutto questo - pensò l’operaio - se adesso molti genitori non ci
mandavano più i loro figli, per tema che il prete contestatore glieli rendesse
ribelli?) Dio mio, a pensarci bene, che razza di situazione s’era creata!
Piero scantonò per una viuzza poco illuminata. Cosa diavolo stava succe-
dendo in fin dei conti, si può sapere? Dopo la guerra il benessere di tutti era
cresciuto, il popolo, gli operai, erano arrivati - lavorando sodo, si capisce, e
sacrificandosi - ad avere l’appartamento e la macchina, e potevano mandare i
loro figli all’università: tutte cose un tempo assolutamente impensabili. Certo
non tutti c’erano ancora arrivati, ma la gran maggioranza sì, e andando avanti
sulla strada buona, in un ragionevole numero di anni ci sarebbero arrivati tut-
ti. La gente avrebbe dovuto essere contenta, avere finalmente il cuore in pace,
e invece... Non solo succedeva che i figli si ribellavano ai genitori e alle istitu-
zioni, come il suo Taddeo, ma la più parte della gente anziché contenta sem-
brava diventata rabbiosa. Volevano sempre di più, e sempre più presto, e lavo-
rando di meno... Ci s’erano messi senza misericordia anche i sindacati: da
quando quelli cristiani è quelli rossi si erano collegati insieme, prendevano le
imprese per il collo in una maniera tale che le cose dovevano finire male per
forza... E infatti molte fabbriche, pur seguitando ad alzare i loro prezzi per pa-
gare quelle paghe incessantemente crescenti, non ce la facevano più, e chiede-
vano soldi al governo per tirare avanti, e più d’una chiudeva: aveva chiuso la
vecchia filatura sul Lambro dove un tempo lavorava sua moglie Luisina, e an-
che il nuovo salumificio di Nomana, mentre altre fabbriche - come la Motta a
Milano - erano occupate in permanenza dagli operai che seguitavano a fare
cortei. “Dovevate aver criterio quand’era il momento, invece di fare i cortei
adesso” pensò Pierello. Ma cos’è che stava succedendo infine? Possibile che gli
uomini non dovessero mai, proprio mai, avere pace?
Dopo eseguito un irregolare giro, egli finì col ritrovarsi di nuovo in piazza,
attirato dal bar Piper come da una calamita; qui scoprì che suo figlio e gli altri
giovani contestatori avevano lasciato il locale: certo s’erano trasferiti nella se-
de del giornaletto. L’operaio fu dubbioso se raggiungerla a sua volta, secondo
il primitivo disegno: avrebbe chiamato fuori Taddeo e... E cosa? Ancora non
aveva capito che il discutere non sarebbe servito a niente, proprio a niente? E
allora? Già, allora! Con un rinnovato senso di frustrazione egli finì col voltarsi
e con l’incamminarsi lentamente verso casa: “Domani mattina devo prendere
di buon’ora il treno per Sesto”. Il lavoro in ferriera non era più pesante come
una volta adesso che ogni cosa era automatizzata, anche lui però non era più
giovane.

II

CAPITOLO SETTIMO

Nel pomeriggio del giorno seguente, del tutto inconscio di come quel viag-
gio si sarebbe concluso, Michele partì per la Valtellina. Tenne una riunione
organizzativa a Sondrio, quindi cenò in un piccolo ristorante con i componenti
del locale comitato, che gli esposero le loro preoccupazioni: «La vittoria qui
sarebbe pacifica» affermarono in sostanza costoro «se non fosse per gli aclisti
e i nostri sindacalisti.»
«Si danno da fare per la libertà di divorzio?»
«Non proprio. Però quando capita la difendono, e il popolo - abituato a fi-
darsi di loro - non riesce a capire come mai altri cristiani, e gli stessi vescovi, si
esprimano in modo contrario. Il nostro clero è molto preoccupato, al punto
che cerca di non prendere posizione.» «Ma le Acli da quando si sono accodate
ai marxisti non le possiamo più considerare cristiane. Com’è che questa gente
fedele le prende ancora per riferimento?»
«Ecco, lei dice bene» osservò il presidente del comitato, un solido ragionie-
re quarantenne molto sensato e di modi molto alpini: «Proprio questo è il
punto: che la nostra è gente fedele, dunque non cambia facilmente.»
«Capisco» convenne Michele con una stretta al cuore. Gli tornarono in
mente i grandi anni di Pio XII: come avevano potuto, in seguito, i cattolici
sbandarsi fino a questo punto? A fin di bene, s’intende, per andare il più pos-
sibile incontro agli erranti, per farsi lievito nell’intera massa, su questo non
esistevano dubbi. C’era un’altra scusante: nel suo cammino storico la chiesa
non s’imbatte soltanto nel bene e nel male, ma anche nella stupidità umana:
bastava pensare alle tragiche defezioni da essa subite - anche a livello popola-
re - per la sua pur giusta lotta agli errori della rivoluzione francese. In certi
periodi l’ottusità della gente si fa talmente invincibile che determinate lotte,
anche se giuste, è meglio evitarle, per non estraniarsi da troppi. Michele nel
suo intimo avvertiva che forse, alla fine, le attuali sciocchezze e inadempienze
avrebbero potuto - nelle mani di Dio - non riuscire negative. Beh, tutto quello
che si vuole, però le sciocchezze non cessano di essere sciocchezze. Eccolo qui,
per ora, il risultato degli indirizzi di Maritain e Mounier e degli altri che ave-
vano aperto a comunisti e modernisti: eccolo il bell’esito. Ricordò come da
principio egli si fosse opposto con tutte le forze ai nuovi indirizzi; in seguito -
dopo il Concilio - avendo la sensazione d’andar contro una scelta deliberata
dei pastori, si era (e non lui solo) tirato in disparte. Non aveva pubblicato qua-
si più, seguitando però a scrivere «per dopo il diluvio», come malinconica-
mente usava dire. Tra l’altro aveva messo mano a una grande opera narrativa
che compendiasse l’esperienza della sua generazione «per quelli che, domani,
dovranno pur accingersi a ricostruire.» Intanto anno dopo anno le notizie
provenienti dall’est avevano sempre più confermata la giustezza delle sue ana-
lisi di partenza; adesso si sapeva che le vittime fatte dal comunismo in Unione
Sovietica assommavano a molte decine di milioni: secondo le statistiche di
Curganov-Solgenitsin addirittura a sessantasei milioni, e senza il minimo ‘sal-
to di qualità’ nella vita della gente. Altro che una società nuova, più giusta e
felice... Sessantasei milioni d’esseri umani sacrificati nell’inane tentativo di
cambiare la coscienza e la natura dell’uomo. In Cina le vittime erano ancor più
numerose, anche se finora non esistevano statistiche al riguardo: c’era però
quel terrificante computo di Walker per incarico del senato americano (da
trentaquattro a sessantaquattro milioni di vittime fino al 1970), e - ultima-
mente - c’erano le valutazioni di certi specialisti di demografia parigini, che
segnalavano l’assenza nei compendi statistici cinesi di centocinquanta milioni
d’esseri umani... E in Indocina? La vittoria dei comunisti era soltanto questio-
ne di mesi: ad onta delle attese beote di tutti i plagiati, molti dei quali scende-
vano di continuo nelle strade a manifestare per la ‘libertà’ dei popoli indocine-
si, quante sarebbero state anche là le vittime? Quanti altri milioni e milioni?
Mai, assolutamente mai, nell’intero corso della storia si ora assistito a un fe-
nomeno tanto omicida, e in pari tempo tanto menzognero: perché mentre uc-
cideva un così inconcepibile numero d’esseri umani, il comunismo seguitava a
presentarsi come riscattatore dell’uomo. (Ciò gli era possibile soprattutto per
l’appoggio costante che gli veniva da gran parte della cultura ‘laica’ padrona
dei mass media, la quale, sebbene sia anti totalitaria, ha diversi antenati in
comune col marxismo. Dobbiamo anzi dire che senza lo strenuo impegno di
tanti campioni dell’‘illuminismo’ democratico per coprire - naturalmente ‘a fin
di bene’ - prima le stragi di Lenin e Stalin, poi quelle di Mao, infine ciò che
stava ora realmente accadendo in Indocina, ai comunisti non sarebbe stato
possibile compiere ecatombi così immani, né ridurre un così sterminato nu-
mero d’esseri umani in schiavitù.)
Quanto ai pastori, per fortuna, da un certo tempo in qua non riuscivano più
a nascondere la propria angoscia per l’andamento delle cose. Appena se n’era
accorto Michele era tornato in campo con saggi e articoli sui pochi periodici
che ancora li accettavano: “Chissà però se siamo in tempo a recuperare la si-
tuazione?” si chiedeva a volte. Se lo chiese anche quella sera a Sondrio.
Dopo la cena egli si trasferì con alcuni membri del comitato nella cittadina
di Tirano, dove tenne una conferenza nel cinema Italia, alla presenza di appe-
na una cinquantina di persone. Tra queste c’era un esiguo gruppo di divorzisti,
non più di cinque o sei, intorno a un giovane sindacalista cristiano, venuto -
come dichiarò - per esporre in contradditorio con l’oratore le tesi del ‘mondo
del lavoro’. Ovviamente non poteva disporre di tesi divorziste cristiane, ed in-
fatti espose pari pari quelle marxiste. Michele le conosceva al punto che
avrebbe potuto elencarle al suo contraddittore nello stesso ordine in cui gli
sarebbero state esposte: l’aveva comunque lasciato dire, e dopo avergli rispo-
sto punto per punto come a un normale contraddittore marxista, aveva fatto
notare il carattere appunto marxista di quelle tesi, e messo con fermezza
l’altro di fronte all’incompatibilità tra cristianesimo e comunismo marxista. Il
giovane s’era sforzato in vari modi di negare tale incompatibilità: fu subito
evidente a Michele la sua pressoché perfetta ignoranza del comunismo, teoria
e prassi. Ciò finì con l’immalinconire lo scrittore: non era forse proprio questo
il compito ch’egli s’era assunto fin da principio, di far conoscere almeno
nell’ambito dei credenti la realtà del fenomeno comunista? Che insuccesso la
sua vita! Il maggior quotidiano cattolico - quello milanese - qualche anno pri-
ma lo aveva addirittura emarginato (e con lui aveva emarginato Apollonio ed
altri lottatori per la verità). Nello stesso tempo il giornale aveva chiamato a
collaborare dei comunisti tesserati... Per forza molta gioventù cristiana era
oggi così ignorante, qui, come a Nomana e dappertutto, e così incredibilmente
plagiata dall’avversario. Il quale da parte sua, dopo avere un po’ alla volta por-
tata l’Italia all’attuale fase preinsurrezionale, da un certo tempo in qua - con-
statati i fallimenti all’est, e che la via al potere attraverso il plagio, preconizza-
ta da Gramsci, era invece molto pagante - non intendeva più fare la rivoluzio-
ne violenta. E sì che adesso gli sarebbe bastato poco per rovesciare
l’organizzazione statale ormai a pezzi... Se ai cristiani non fosse riuscito con
una chiara vittoria in questo referendum di ribaltare la situazione, per quanto
tempo ancora si sarebbe prolungata l’attuale fase di disfacimento nella parali-
si? Una fase in cui - guarda - non pochi degli attivisti per il comunismo erano
appunto giovani cristiani come questo, che nella sua invincibile ignoranza si
dava da fare contro il cristianesimo...
Dopo la conferenza gli organizzatori chiesero allo scrittore di restare ancora
un poco con loro, desiderando essere meglio informati sull’andamento della
battaglia elettorale nel resto della Lombardia, e anche semplicemente per of-
frirgli da bere, all’alpina. Pur schermendosi («S’è fatto tardi, e domani mattina
ho un incontro a Milano») Michele aveva finito con l’accompagnarli in un bar,
perché questa gente gli piaceva, in quanto tutta d’un pezzo, e senza isterismi
verbali, e fedele sotto ogni aspetto: gli richiamava il suo vecchio amico padre
Turla (che adesso era parroco in un paese» della val Camonica, la grande valle
parallela a questa, dove aveva finalmente costruito il suo santuario a ricordo
dei caduti: “Padre Turla non lo vedo da molto tempo, però la colpa non è sol-
tanto mia, è anche sua, che Dio lo perdoni, quell’‘impunito’.”) Oltre a padre
Turla questa gente gli richiamava gli altri compagni di prigionia dell’atroce
box per cavalli di Crinovaia: e non importava che l’inflessione piemontese,
della val Maira, della val Varaita, di quelli, fosse diversa dall’inflessione lom-
barda di questi.

CAPITOLO OTTAVO

Si rimise in macchina che mezzanotte era già suonata da mezz’ora


all’orologio della torre di Tirano, la quale gli sembrò - eretta com’era al margi-
ne delle case - una gigantesca sentinella messa lì a vigilare nel buio.
Dio del cielo, come li sentiva suoi questi posti severi! Mentre nella solitudi-
ne della notte la macchina percorreva veloce i rettilinei di fondo valle, comin-
ciarono ad affluirgli nel cuore i ricordi...
Attraversò in senso inverso Sondrio, nella quale si andavano spegnendo le
ultime luci; poi passò al piede della cittadina di Morbegno ormai avvolta nel
sonno: sopra le sue case più alte però si scorgeva, a mezza costa della monta-
gna, un piccolo monumento illuminato, che tenacemente ricordava nell’Italia
degli scioperi, del divorzio, e di tutti i cedimenti, l’eroica fedeltà degli alpini di
qui. “Ciao battaglione Morbegno, nappine bianche” mormorò quasi ritmando
Michele, “ciao battaglione Tirano, nappine rosse, ciao...” Il Morbegno - il bat-
taglione di Luca - durante la ritirata dal Don trent’anni prima era stato an-
nientato nella terribile notte di Varvarovca, quando s’era battuto da solo con-
tro la grande colonna nemica che avrebbe dovuto tagliare in due la divisione
Tridentina: era stato quello il suo modo d’aiutare la massa di sbandati e
d’inermi che gli alpini si trascinavano dietro verso la salvezza. Aveva lottato
fino a essere distrutto il Morbegno gagliardo, per questo non c’erano poi state
nappine bianche sulle tradotte che avevano riportato in patria i resti della di-
visione Tridentina... Le famose ‘tradotte del rosario’ di cui più volte gli aveva-
no parlato sia don Carlo Gnocchi che Luca. E pensare che quella preghiera, il
rosario, era stata poi... Eppure si trattava della preghiera dei poveri, secondo
insisteva a dire don Turla. Com’era potuto accadere che certe personalità cat-
toliche si mettessero prima a criticare, poi a proscrivere il rosario? E padre
Bertrando, quel frate suo compagno d’università, quell’inguaribile esibizioni-
sta, con particolare accanimento: proprio qui, in questi posti, nel santuario
circondato di pioppi della Madonna di Tirano, al termine d’una predica padre
Bertrando aveva teatralmente spezzata, davanti ai valligiani attoniti, una co-
rona del rosario. Del resto nel seminario arcivescovile di F. i chierici avevano
bruciate tutte le loro corone! “Maled... No Michele, non maledire, su, sta buo-
no. E modera la velocità piuttosto: non vedi che stai esagerando?”
Moderò la velocità; adesso padre Bertrando stava facendo più che mai par-
lare di sé con le sue conferenze pro divorzio: si esibiva un po’ dappertutto, ac-
clamatissimo da rossi e borghesi. Dai lontani tempi dell’università, quando
scriveva le poesie su Mussolini, non aveva cessato d’esibirsi, tuttavia non era
mai riuscito a mettersi in vista come in questo momento: il maggior quotidia-
no divorzista nazionale gli aveva appena dedicato un articolo in prima pagina,
e tutta si può dire la stampa contraria alla morale cristiana ne andava intes-
sendo elogi.
Che pena però - pensò Michele - la stampa italiana, che frana! Da otto a no-
ve giornali su dieci si erano schierati - in quanto ‘laici’ - a favore del divorzio.
E con quale insofferenza e villania anche! Tanto che a Milano - cioè nel mag-
gior centro dell’editoria nazionale - lui che aveva l’incarico di tenere i rapporti
tra il comitato e la stampa, non era riuscito a stabilire contatti se non con un
limitato numero di periodici minori...
Proprio per questo - senza trascurare quei periodici - dedicava ora tanta
parte del suo tempo alle conferenze e agli incontri col pubblico: il che gli face-
va tornare in mente quei preparatissimi soldati d’aviazione tedeschi (ne aveva
incontrati alcuni in prigionia) che nell’ultima fase della guerra, per mancanza
d’aerei, avevano finito con l’essere utilizzati come fantaccini... Un ricordo che
lo turbava. Perché questa lotta intorno al matrimonio civile - la cui indissolu-
bilità era stata introdotta in Italia dal cristianesimo un millennio e mezzo pri-
ma - gli appariva l’ultima possibilità obiettiva per bloccare la scristianizzazio-
ne delle leggi e del costume. Per questo egli - sospesa da quattro mesi ogni
altra attività - vi dedicava gratis e con tutta la forza di cui era capace l’intero
suo tempo. Guai se questa lotta fosse andata perduta! Subito dopo sarebbe
stata introdotta con certezza anche la libertà d’aborto, cioè di strage degli in-
nocenti non ancora nati... Essendo per natura refrattario a ogni utopia e fon-
damentalmente influenzato, nella sua visione delle cose, dall’esperienza della
guerra, anche ora, mentre la macchina correva veloce nel buio, lo scrittore
pensava: “Di guerre purtroppo ce ne saranno sempre: a questo riguardo non
possiamo farci illusioni; ma una cosa sono le guerre tra popoli ancora cristia-
ni, un’altra quelle tra popoli scristianizzati, come ho visto io all’est...”
L’immaginazione gli prospettava i nuovi mezzi d’annientamento che gli uomi-
ni s’erano dati, e in particolare le colonne incandescenti sormontate dai funghi
nucleari, dalle quali un giorno anche l’Italia avrebbe potuto ricevere il con-
trappasso per lo sterminio in serie dei bambini non ancora nati: Milano, Mon-
za, Nova, e la stessa Nomana, investite da quelle masse di fuoco... A tale pro-
spettiva sentì il pelo rizzarglisi sulle braccia: che altro poteva fare lui oltre lot-
tare, come già faceva, contro la scristianizzazione? “Beh, basta, vedrai che sta-
volta ce la facciamo.” Dopo tutto se in questa lotta i cristiani avevano contro la
borghesia danarosa padrona dei mass media, e la vociante canea dei marxisti
di tutte le confessioni, avevano però con loro la maggioranza del popolo sano,
della gente pulita. “E questo non è poco...” Inoltre la gente fedele aveva trova-
to un’autentica guida in Gabrio Lombardi, il presidente del comitato che li
aveva chiamati alla lotta: Michele lo conosceva bene, poteva anzi dirsi suo
amico; oltre che d’un cristiano esemplare si trattava d’un capo autentico, come
in Italia - la terra in cui tutti si reputano generali - ne appaiono di rado. Perché
dunque non nutrire una ragionevole fiducia?
(Un inizio di recupero, che lo scrittore non poteva in quel momento preve-
dere, ci sarebbe effettivamente stato di lì ad alcuni anni, in seguito alla feroce
schiavitù instaurata dai comunisti vincitori in VietNam - resa patente dalla
fuga per mare d’innumerevoli sventurati -, alle pazzesche ecatombi d’inermi
perpetrate dai loro compagni in Cambogia, nonché alle guerre esplose tra gli
stati comunisti vietnamita, cambogiano e cinese. Questi fatti avrebbero porta-
to anche in Italia a molti ripensamenti non solo tra i ‘laici’ fiancheggiatori, ma
tra gli stessi militanti comunisti, e quindi a un sensibile allentamento della
presa marxista sulla società: si sarebbe così tornati - non possiamo oggi dire
per quanto tempo - a una situazione di relativa libertà delle menti. Quanto ai
cristiani, sarebbe stato proprio lo scossone della sconfitta nel referendum sul
divorzio a costituire il principio del loro risveglio; più tardi Iddio avrebbe fatto
alla sua chiesa l’immenso dono del papa polacco: un papa di nuovo ‘pietra’ e
‘roccia’ finalmente.)

I lunghi rettilinei della Valtellina erano ormai rimasti indietro; ecco a destra
la diramazione verso la valle Spluga: lassù tra quelle montagne c’era Madesi-
mo, dove Michele era stato qualche volta a sciare da ragazzo. Ricordò ora che
nella notte tremenda in cui ad Arbusov era caduto prigioniero dei russi, aveva
vaneggiato d’essere appunto a Madesimo: gli sembrava di vagare per le sue
strade gelate in cerca d’Ambrogio... Sulla scoscesa catena che gli stava a sini-
stra era invece annidato Tartano, il paese degli alpini di Luca, che compone-
vano cioè la squadra comandata da Luca ad Arnautovo e a Nicolaievca. Chissà
- si chiese lo scrittore - in che proporzione la gente d’un paese così ‘alpino’
come Tartano, avrebbe votato per l’indissolubilità del matrimonio? (Noi sia-
mo ora in grado di rispondere: nella proporzione dell’ottantanove per cento.)
Le prime avvisaglie del lago di Como: rigagnoli geometrici nei prati di fondo
valle e qualche specchio d’acqua quadrato, tenebroso nell’erba; la strada si
strinse a sinistra contro il fianco della montagna, e cominciò a torcersi e in-
curvarsi, seguendo e a tratti anche intagliando la parete rocciosa; finché rag-
giunse la sponda del lago, se ne staccò per poco, la raggiunse di nuovo e prese
a seguirla intagliata sempre più spesso nel piede dei promontori che scende-
vano dirupati verso l’acqua.
Lo scrittore ridusse ulteriormente la velocità, non tanto tuttavia che a qual-
che curva le ruote posteriori non guaissero strisciando rudemente sull’asfalto.
Nel buio la superficie solenne del lago era pressoché invisibile, delineata sol-
tanto lungo l’opposta sponda dalle file di luci dei paesi che vi si specchiavano.
Michele però non aveva più occhi per l’ambiente: si era a un tratto ricordato di
non aver ancora recitate le preghiere di quel giorno: “Altro che criticare quelli
che boicottano il rosario: pensa tu a pregare piuttosto!” Ma era troppo stanco
per farlo debitamente; risolse di recitare un semplice ‘angele Dei’: “Angeli di
Dio, che siete i nostri custodi” invocò mentalmente, rivolgendosi com’era sua
abitudine non solo al proprio ma anche all’angelo della moglie: “custodite noi
che vi fummo affidati dalla pietà celeste...” Che incantevole preghiera era que-
sta! Gli uomini e gli angeli che si danno una mano e lottano insieme... “Voi
due angeli custodi” insisté Michele “non vegliate solo su di me che sono in
viaggio, ma anche su di lei, su Alma, che a quest’ora starà dormendo indifesa.”
Terminata la preghiera tornò a vagabondare col pensiero; la macchina se-
guitava a correre lungo la strada del lago pressoché deserta, a momenti lo
scrittore scuoteva repentinamente la testa e spalancava gli occhi per non far-
seli chiudere dal sonno.
Avvertì a un tratto un piccolo sussulto, forse al motore, forse alle ruote:
“Ehi” farfugliò, “cosa succede?” Stava attraversando un paese, Dervio: si augu-
rò che a causare quel sussulto fosse stata un’irregolarità del fondo stradale:
“Perché se no, a quest’ora... Sarebbe davvero un bel guaio rimanere per strada
a quest’ora”.
All’uscita dal paese il motore sussultò di nuovo, poi si spense; senza frenare
Michele esplorò con gli occhi dinanzi a sé: c’era alquanto più avanti verso de-
stra, cioè dalla parte del lago, uno spiazzo con un distributore di benzina e un
edificio ancora illuminato che pareva un negozio (si trattava in effetti di un
bar): Michele guidò la macchina, che procedeva ormai solo per inerzia, fin so-
pra lo spiazzo, e la fermò davanti al bar. “Proprio non mi ci voleva” si disse e
ripeté: “Questa non ci voleva”.

CAPITOLO NONO

Agendo alla chiavetta si provò più e più volte, se pure con scarsa fiducia, a
riavviare il motore. Infine smise i tentativi e considerò la propria situazione:
era quasi l’una e mezza, certo tra poco anche questo bar avrebbe chiuso; dove-
va dunque telefonare subito ad Alma per avvertirla che non sarebbe rincasato,
quindi cercarsi un posto per dormire. “Fortuna che in questi paesi gli alber-
ghetti e le pensioni non mancano”. Alla riparazione dell’auto avrebbe provve-
duto non appena si fossero aperte le officine l’indomani mattina: “Dovrò dun-
que essere in piedi e pronto un po’ prima delle otto... Perché alle dieci c’è quel-
la riunione a Milano alla quale non posso mancare”.
Aprì lo sportello e uscì dalla macchina; saliti alcuni gradini entrò nel bar,
una costruzione a un piano quasi nuova, arredata con mobili metallici leggeri.
V’indugiavano pochi avventori ritardatari che lo guardarono senza parlare; si
rivolse a una ragazzotta insonnolita la quale, seduta dietro il banco, aveva al
suo entrare sollevata la testa come per chiedergli cosa desiderasse: «Ha getto-
ni, per favore?»
Quella fece segno di sì, alzandosi in piedi e trasferendosi alla cassa.
«Prego, me ne dia dieci.» Posò una banconota da cinquecento lire sul piat-
tino della cassa.
La ragazza aprì un tiretto e gli contò dieci gettoni: «Chiudiamo all’una e
mezza, tra cinque minuti» lo avvertì.
«D’accordo» rispose lui. «Sa dirmi se potrò trovare da dormire qui in pae-
se?»
La ragazza gli fece segno di sì, accennando uno sbadiglio.
«Ne parliamo poi» disse Michele, ed entrò nella cabina telefonica traspa-
rente che stava in un angolo del locale, chiudendosi la porta alla spalle.
Alma gli rispose dopo appena un paio di trilli del telefono. «Ehi, cosa suc-
cede? Sei ancora sveglia?» fece lui, e in tono volutamente scherzoso, perché
non si allarmasse: «Brava, proprio così devi fare: devi sempre vegliare inson-
ne quando io sono fuori a zonzo.»
«A... a dove?»
«A zonzo» ripeté lui divertito; «Come ‘le vele rogge che vagano sul mare in
cerca di fortuna’» (si trattava, nientemeno, d’una frase udita con Alma dieci o
quindici anni prima da un oratore romagnolo durante l’inaugurazione d’un
monumento in una cittadina balneare - egli aveva ogni tanto di simili sortite, e
la moglie lo sapeva).
Stavolta però non si raccapezzava: «Eh? Cosa? Hai detto il mare?» chiese.
«Cioè il lago» corresse lui, e poiché quella ancora non sembrava capire:
«Insomma posso sapere perché non sei andata a dormire come ti predico
sempre?»
«Ma io stavo dormendo, cosa credi?» rispose lei. «Ho il telefono qui sul
comodino, come siamo d’accordo.»
«Ah! E hai risposto quasi al primo suono di campanello? Da quando in qua
hai i riflessi così pronti?» (stava per aggiungere «gattino di marmo?», ma si
trattenne, nel sospetto che la sua voce - perdurando il silenzio degli avventori
- si udisse fuori della cabina.)
«Insomma cosa t’è successo, dove sei?» gli chiese la moglie.
«Sono a Dervio, ancora quasi al principio del lago dalla parte della Valtelli-
na. La macchina non vuole più andare, e siccome ormai è l’una e mezza...»
«L’una e mezza?» esclamò Almina: «Oh, mamma mia. Non sarà vero?
Fammi controllare.» La sua voce s’era fatta di colpo più vivace.
Michele se l’immaginò che accendeva la luce e guardava la sveglietta posta
sul piano del comodino accanto al telefono. Sorrise scuotendo con tenerezza la
testa: Alma, che per tanti aspetti seguitava ad ammirare incondizionatamente
il marito, non si fidava di lui in queste piccole cose, perché lo sapeva distratto.
«Neanche per un numero così piccolo, uno e mezzo, mi fai credito?» prote-
stò lo scrittore.
«Sì, è davvero l’una e mezza, oh poveri noi» udì la voce della moglie: «E
adesso come si fa?»
«Si fa così» disse Michele, passando per gioco al tono che si usa coi bambi-
ni: «Qui in questo paese ci sono tanti posti per dormire, e allora lo sai cosa
faccio? lo sai cosa faccio? Chiudo per bene la macchina e me ne vado a dormi-
re. Poi domattina alle otto faccio riparare il guasto e riparto subito, perché alle
dieci ho quell’incontro a Milano. Ti ho telefonato soltanto perché tu non abbia
a preoccuparti.»
«Scherzi?» esclamò animandosi Almina: «A Milano hai l’incontro con quei
giornalisti, i direttori delle riviste cattoliche, no? C’è anche Cesare Cavalieri,
no? Quello è un incontro importante.»
«Va bene. E allora?»
«E tu vorresti andarci con la barba lunga, dato che lì non hai il rasoio? E
senza nemmeno cambiarti la camicia?»
«D’accordo. Vuol dire che prima passerò in fretta da casa a farmi la barba e
a cambiare la camicia. Va bene?»
«No che non va bene» incalzò lei, che ormai aveva preso l’abbrivo: «è anche
una questione di tempi: per andare da lì a Milano ti ci vogliono almeno due
ore, no? Ecco. E per riparare il guasto quanto credi che ti ci vorrà? Un’altra
ora? O magari di più?» A questo punto deviò dal filo principale: «Almeno que-
sta spesa te la rifonderanno quelli del comitato?»
«Dai Almina, adesso non metterti a fare la tirchia.»
«Comunque le officine non aprono prima delle otto, e forse sul lago, dove
tutti se la prendono comoda, anche dopo, e tu come farai, per le dieci devi es-
sere a Milano?»
«Beh» disse Michele «se la riparazione va per le lunghe, mi faccio portare
in macchina a Lecco e lì prendo il primo treno per Milano. Cosa vuoi che fac-
cia? Se non altro arriverò in tempo per salutarli, quei direttori, per spiegargli il
mio ritardo.»
«No. Non capisci che quello è un incontro importante per te? Che ti potrà
servire anche dopo, passato il referendum?»
«Però! Come sei pratica» rise lui.
«Certo che sono pratica» disse Almina: «una donna che ha il marito scritto-
re deve essere pratica per forza. Ci mancherebbe altro.»
«Bene, cercherò di fare del mio meglio» promise Michele. «Tu comunque
sei avvertita. Adesso ciao, qui devono chiudere, ti saluto.»
«Un momento» fece lei: «dove hai detto che ti trovi?»
«A Dervio.»
«Proprio dentro il paese? O dove precisamente?»
«Poco fuori paese, dalla parte verso Lecco. C’è uno spiazzo con un distribu-
tore della Shell: ho fermato la macchina sullo spiazzo; quindi non sulla strada,
né in un altro posto pericoloso. Ti ho resa bene la situazione? Sta tranquilla
dunque.»
«Ecco» disse la statuina di marmo: «l’ho scritto: ‘Dervio - Shell’, non è che
questi nomi di paesi e di benzine, figurati, io me li ricordi facilmente. Oh!
Adesso tu mi aspetti lì buono buono che arrivo a prenderti: il tempo di vestir-
mi e di venire lì, diciamo poco più d’un’ora.»
«No!» esclamò impaurito Michele: «Cosa ti salta in testa? Sei matta? Viag-
giare da sola di notte? E poi cosa vorresti fare, rimorchiarmi? La tua Cinque-
cento non ce la farebbe. No, senti...»
«Non discutere, ti prego.»
«Ma è troppo pericoloso. Se ti capitasse un guasto? Oppure a quest’ora po-
tresti incontrare qualche malintenzionato con la macchina più potente della
tua, e...»
«Senti, prenderò la Centoventicinque del papà, è il massimo che posso con-
cederti. Ti va bene?»
«Neanche per sogno. Alma, cerca di ragionare, seguimi per un momento...»
«Per favore Michele, non perdiamo altro tempo. Ah, la tua macchina si ca-
pisce che non la rimorchiamo: io non mi sento versata in questo genere di co-
se; vedi tu cosa puoi fare, non so, prendi il numero di telefono di qualche offi-
cina lì intorno per esempio; insomma vedi tu che sei un uomo importante.
Ciao, a fra poco.»
«No Alma, non voglio, è pericoloso.» Alzò la voce: «Io non voglio. Non vo-
glio, hai capito?»
«Fra poco sarò lì. Intanto pensa a questo: faremo la strada di ritorno insie-
me come due sposini. E un’altra cosa: è inutile che tenti di richiamare per
farmi cambiare idea, perché adesso stacco il telefono.» Fece una breve pausa.
«Ciao amore mio, amore mio dolcissimo: lo sai che riuscirti d’aiuto nella tua
lotta contro mezzo mondo mi dà gioia» disse con voce del tutto mutata, affet-
tuosa: «Se non t’aiuto nemmeno io, chi allora?» e clich staccò l’apparecchio.
Il marito tentennò la testa, intimamente toccato dalla grande tenerezza che
c’era in quelle ultime parole. Quindi sospirò e premette il pulsante di recupero
dei gettoni non utilizzati: uno solo precipitò tintinnando nell’apposita nicchia.

CAPITOLO DECIMO

Alma si vestì in fretta, uscì dalla stanza nel corridoio, indirizzò all’uscio di
una stanza vicina un fuggevole “Ciao papà, ciao mamma”, ignorando che quel-
lo era il suo ultimo saluto sulla terra ai genitori, poi scese le scale, attenta a
non fare rumore. Le ci volle un certo tempo per aprire e richiudere la porta di
casa, quindi per tirar fuori la Fiat 125 dalla rimessa (ricavata, come sappiamo,
da una costruzione ch’era stata una legnaia), infine per aprire il cancello del
giardino, trasferire la macchina di là, scenderne e richiudere il cancello.
C’era nell’aria il rombo opprimente e incessante dei forni della vetreria che
guastava ormai senza scampo le notti di Nomana (col decadimento
dell’autorità chiunque poteva ora, nel proprio interesse, arrecare al paese
qualsiasi danno impunemente); la donna, tuttora presa dalla dolcezza delle
sue ultime parole al marito, ricordò il canto degli usignoli d’una volta: “Povere
bestiole” pensò, “siamo di maggio, questo era il loro mese migliore”.
La macchina attraversò le vie del borgo vuote di persone e di veicoli e fin
eccessivamente rischiarate dai lampioni al neon dell’illuminazione pubblica.
“Chissà se non sarà anche a causa di questa luce eccessiva che gli usignoli se
ne sono andati?” Alma ricordò quel lontano giorno prima di sposarsi in cui,
per riconoscenza agli americani che aiutavano economicamente l’Italia, lei
avrebbe voluto regalare loro gli usignoli; com’era piaciuta a Michele quella sua
piccola pensata, quanti significati ci aveva trovato! Il suo Michele! Che forza
d’animo c’era in lui - quale lei, con tutto il suo entusiasmo, al principio non
aveva neppure immaginato - ma insieme anche, per certi aspetti, che bambi-
no! Esistevano campi della vita pratica in cui non sapeva proprio organizzarsi:
cose che a chiunque, anche alle persone più mediocri, non sarebbero sfuggite
(come l’utilità, per lui che scriveva, di fare domani buona impressione su quei
direttori di rivista, specialmente su Cesare Cavalieri) non le vedeva affatto, o
non riusciva a prenderle in considerazione, a farle rientrare nelle sue prospet-
tive. Fortuna che c’era lei a... cercar di provvedere. Con la speranza che poi
domani, dopo questa faticata, anziché tenerseli buoni, Michele non si mettesse
magari a questionare anche con quei direttori, i più disponibili e affini a lui fra
tutti, non li sgridasse per qualche cosa. Gli pareva di vederlo, era proprio il
tipo, sì; Alma batté per dispetto un piccolo colpo con ambe le palme sul volan-
te. Poi tentennò la testa e sorrise: si sarebbe magari messo a questionare con
quel fiocchetto a mezzo il collo del maglione... Che ridere! Gli aveva fatto, set-
timane addietro, un maglione nuovo, un pullover, e per gioco ci aveva, del tut-
to arbitrariamente, applicato a un lato del collo un fiocchetto. E Michele aveva
indossato quel pullover con naturalezza, senza rifiatare. Dio mio, che sprov-
veduto!
Una volta uscita di paese, mentre percorreva la salita verso Visate (quella
stessa che Ambrogio e Colomba avevano percorsa più volte in bicicletta, e Pi-
no e Sèp avevano disceso il giorno del loro rimpatrio dalla Svizzera), accelerò
decisa. Laggiù nella conca a sinistra, sullo sfondo appena visibile delle monta-
gne, c’era la cascina Nomanella: la cercò alla luce della luna, ma non le riuscì
d’individuarla. Chissà se la vecchia mamm Lusìa, rimasta vedova da anni,
s’era già trasferita nella cascina per passarvi l’estate, o se era ancora in paese
presso la figlia sposata? A pregare, in un caso o nell’altro, per tutti i suoi mor-
ti, povera Lucia. Alma accese con un sospiro le luci del cruscotto e controllò la
benzina: ce n’era più di quanta gliene occorresse.
I paesi cominciarono a restare indietro. La donna non provava alcuna paura
malgrado l’allarme del marito: “Lui quando si tratta di me fa sempre così, non
riesce ad essere equilibrato, diventa una sensitiva: uno che ne ha viste di cose
tremende come lui!” Sorrise: Michele l’amava immensamente, ecco perché
sragionava quando si trattava di lei. Questa, che dopo oltre vent’anni di ma-
trimonio il marito l’amasse a quel modo, era nella sua vita la cosa più impor-
tante. E a pensarci bene la più incredibile... Michele si conservava innamorato
di lei proprio come un ragazzo; non si stancava mai di corteggiarla, di lodarla
con quelle sue parole semplici e poetiche. «Non pensi che un giorno o l’altro
mi vedrai vecchia?» gli diceva a volte lei, impaurendosi un poco: «Anch’io per
forza invecchierò, e non sarò più la stessa. Cosa farai allora? Devi prepararti.»
Invece di risponderle: «Invecchierò a mia volta» o qualcosa di simile, il marito
le diceva: «No cara, affatto, per niente: tu non puoi invecchiare. Sei una sta-
tuina di marmo, dunque...» L’amava anche fisicamente con una frequenza che
a momenti la sorprendeva. «Ma fanno così anche gli altri sposati?» gli chiede-
va lei: «con questa frequenza?» «Beh, gli scrittori in certe cose sono piuttosto
dotati» scherzava lui. «Però senti, perché farci dei problemi? Il Signore ci ha
dato questo: gioiamone.» Certi giorni Alma si domandava se tutto ciò non fos-
se perfino eccessivo... Beh, basta. Tra poco l’avrebbe rivisto: si sarebbe sorbita
il suo inevitabile predicozzo, poi gli avrebbe ceduta la guida della macchina, e
nel viaggio di ritorno, rannicchiata accanto a lui (già ora ne provava il deside-
rio), avrebbe appoggiata la testa sulla sua spalla... “Spicciamoci dunque” si
sollecitò “che oltre tutto domani mattina devo essere a scuola alle otto. Però,
questo referendum è davvero piuttosto scomodo: l’avessero almeno fatto in
tempo di vacanza!...”
Sebbene si snodasse tutta tra le colline, la strada per Lecco - grazie a parec-
chi raddrizzamenti operati alcuni anni prima, e a lunghi tratti nuovi - consen-
tiva una velocità sostenuta. Giunta al piede delle montagne, cioè qualche chi-
lometro prima di Lecco - essa confluiva nella ‘superstrada’ a due canali e più
corsie proveniente da Milano. Alma entrò nella grande arteria con prudenza;
notò che qui c’era ancora un certo traffico, cosa che le riuscì gradita e la fece
insieme più attenta nella guida. Ecco il ponte sull’Adda e dall’altra parte la
città di Lecco col sobborgo di Pescarenico, davanti al quale l’Adda formava
uscendo dal lago lo specchio d’acqua della fuga di Lucia. Nel romanzo di don
Lisander quel tratto si allargava ‘liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se
non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si spec-
chiava da mezzo il cielo’. “Giusto come adesso” constatò la donna, che cono-
sceva la bella pagina a memoria (la faceva immancabilmente studiare a ogni
successiva generazione delle sue alunne): rallentò incuriosita, e mentre inve-
stigava con lo sguardo oltre la spalletta del ponte, ne ripeté mentalmente
qualche riga: ‘Addio monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo’ “Guardali
infatti, eccoli lì” ‘cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella
sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari... addio! Quan-
to è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!...’ A queste parole
Alma avvertì un improvviso groppo alla gola, come se quell’accorato addio
valesse in qualche modo anche per lei. ‘Addio casa natia...’ tentò di prosegui-
re, ma dovette interrompersi per l’emozione che s’andava facendo insostenibi-
le. «Cosa mi prende?» farfugliò turbata.
Oltre il ponte la strada aggirava Lecco tenendosi in riva al lago per poi,
sempre senza staccarsi dal lago, indirizzarsi verso nord, intagliata nel piede
roccioso della montagna. Qui tornava a essere doppia come prima del ponte,
ma non era rifinita, e in alcuni tratti uno solo dei due canali funzionava: in
apparenza a causa di piccoli smottamenti di pietre dalla montagna, ma forse,
chissà, per altre ragioni meno comprensibili. Era stata costruita negli ultimi
due o tre anni, quando le cose in Italia avevano cominciato a non funzionare,
ed era essa stessa una dimostrazione di questo fatto.
Dopo una decina di chilometri la via doppia cessava del tutto, e ricomincia-
va quella vecchia, ottocentesca, a curve e strettoie, che attraversava di conti-
nuo paesetti e gruppi di ville, e campicelli fortemente inclinati verso il lago, e
gracili uliveti; Alma controllò l’orologio del cruscotto: erano “abbondantemen-
te” passate le due. “Sarà bene che mi spicci” si disse, e aumentò alquanto la
velocità senza tuttavia mettersi a correre, certamente senza che nelle curve le
ruote della Centoventicinque stridessero sull’asfalto come quelle della mac-
china di suo marito un’ora prima. Ripresasi dall’inspiegabile emozione (“Che
scherzi fa la stanchezza!”) era di nuovo calma, e per niente preoccupata dalla
solitudine che tuttavia qui - lontana ormai dai luoghi conosciuti - non manca-
va di avvertire.

CAPITOLO UNDICESIMO

Gli unici a essere preoccupati per lei in quel momento erano i due angeli, il
suo e quello di Michele, mentre Michele adesso dormiva pacificamente dentro
l’Alfa 1300. Prima che il bar chiudesse egli aveva disposta ogni cosa per la ri-
parazione della vettura l’indomani, quindi s’era seduto in attesa al posto di
guida. Aveva ripetuta la preghiera ai due angeli custodi senza rendersi conto
di quanto in quel momento fosse tempestiva e importante, poi si era detto:
“Tra poco dovrò tenere d’occhio la strada perché Alma non passi senza avvi-
starmi”, e aveva fatta anche qualche prova, scrutando con attenzione una do-
po l’altra alcune macchine provenienti dalla parte di Lecco. Dopo di che la
molta stanchezza, ancor più psichica che fisica, e il non poco sonno arretrato,
gli avevano fatto appoggiare gli avambracci sul volante e la testa sugli avam-
bracci. “Attento però: non devo addormentarmi” si era detto: “E con le brac-
cia... devo cercare di... non premere il clacson... le braccia... il clacson... le...”
Finché un po’ alla volta s’era assopito.
Così gli unici ad essere in guardia mentre s’avvicinava il momento della
morte di Alma erano i due angeli custodi: quello gagliardo di Michele e il suo,
l’angelo cortese che Dio le aveva messo accanto prima che lei nascesse,
quand’era ancora nel grembo di sua madre, a custodirla fin da allora. Furono i
due angeli a ispirare alla donna una preghiera che essa - quasi intuendo
l’origine della sollecitazione - rivolse appunto a loro: “Angeli di Dio che siete i
nostri custodi...” Quante volte aveva pregato così in macchina e altrove, in-
sieme con Michele! Non ultimamente però... “Anche per tutta la giornata di
oggi” rifletté Alma “se escludo quei pochi minuti stamattina mentre andavo a
scuola, non ho pregato. Ormai mi succede abbastanza spesso, sì, a Dio io dedi-
co troppo poco tempo. E invece bisognerebbe essere sempre pronti, come ci
ripeteva suor Anna in collegio. Ce lo diceva anche qui a Varenna, dove per po-
co non m’ha morsicata quella vipera quand’ero bambina: ‘Dovete essere sem-
pre pronte come se ogni giorno della vostra vita fosse l’ultimo’ Povera suor
Anna... Che ridere quella volta che, giusto qui a Varenna (ormai non dovrebbe
distare più molto) la Camusso le ha detto: ‘Ma non le sembra d’essere un tan-
tino mena-gramo, suora?”’ Alma sorrise al ricordo: “E invece la suora aveva
ragione, proprio a quel modo dovremmo vivere. Beh, vediamo cos’ho fatto
oggi di cui mi devo pentire”. S’esaminò rapidamente: quell’insofferenza acuta,
a scuola, nei riguardi dell’Ivana, per il suo comportamento da bottegaia preco-
ce... A volte lei si lasciava prendere da simili insofferenze: di fronte alla volga-
rità tutto considerato innocua dell’Ivana, come di fronte alla presunzione ra-
dical-chic di altre allieve, specie della Bassetti, che le riusciva ugualmente in-
sopportabile. “E invece no, non devo: sono tenuta ad avere pazienza con tut-
te”. Ricordò una frase importante, citata più volte da Michele: dobbiamo stare
ben attenti che la nostra lotta contro il male, non si trasformi in persecuzione
per qualcuno. Sospirò. Quindi riprese a esaminarsi dal mattino giù giù fino
alla sera, individuando più d’un’azione negativa della quale si pentì. “Anche
ieri sera, quando la televisione ha citato le frasi di Michele e il suo nome, da
che sciocco senso di vanagloria mi son lasciata prendere... Michele dice che la
situazione di emarginato cui lo costringe la cultura laicista che in Italia fa or-
mai il bello e il brutto tempo, ci evita se non altro le tentazioni della vanità. E
invece guarda: m’è bastato un niente - una citazione d’ufficio - per peccare di
vanagloria come un’oca! Sono spiritualmente debole” concluse, “e davvero
lontana dall’ideale che le suore c’indicavano, della donna forte cristiana. E,
Dio mio, solo a pensarci, che abisso rispetto alla perfezione suggerita dal Van-
gelo ‘Siate perfetti come è perfetto il padre vostro che è nei cieli’ ”.
Si rese conto (una voce glielo diceva dentro) che doveva pentirsi sul serio,
cioè in modo impegnativo, non superficiale. “Certo che mi pento” si propose
“e sul serio”: d’ora in poi avrebbe cercato di non ricadere più in quelle colpe.
Ma non c’era un poi per lei; non qui sulla terra vogliamo dire, in cui avrebbe
potuto ancora commettere colpe (ma anche dare tanta gioia).

Davanti alla Fiat 125 viaggiava da qualche minuto una macchina piuttosto
sgangherata che non accennava a darle strada, e ogni tanto la costringeva a
rallentare. Alma rifuggiva per abitudine dal chiedere il passo col clacson o coi
fari; dopo un paio d’inutili tentativi di sorpasso senza segnalazioni tuttavia si
era provata a lampeggiare; il guidatore dell’altra macchina aveva risposto alla
sua richiesta in modo strano, confuso: si era con lentezza spostato verso de-
stra e v’era rimasto per pochi istanti, riportandosi poi altrettanto lentamente
nel mezzo della strada proprio mentre Alma si accingeva a iniziare il sorpasso:
era - a quanto si poteva vedere - molto giovane. La donna cominciò a innervo-
sirsi: si propose d’attendere una dirittura abbastanza lunga, e poi di chiedere
strada con più decisione; percorse in tale attesa uno o due chilometri; ecco
finalmente un tratto di strada che sembrava prestarsi al sorpasso: correva di-
ritto, tutto intagliato nella roccia, ad un’altezza di pochi metri sulla superficie
del lago. Alma lampeggiò ripetutamente e diede anche un piccolo colpo di
clacson; ancora una volta la macchina sgangherata accostò pigramente a de-
stra: sembrava farlo con non minor lentezza e indecisione della volta prece-
dente. Che storia era questa? Cosa gli prendeva a quello? Alma non si rendeva
conto che il guidatore era drogato: in tale stato - pur non essendo contrario a
darle strada - il ragazzo reagiva agli stimoli esterni come operando da lontano
e quasi per interposta persona e, più che con l’azione, con l’intenzione. Co-
munque adesso c’era uno spazio sufficiente al passaggio: dopo aver lampeg-
giato di nuovo, Alma v’immise la Centoventicinque accelerando con energia.
Aveva quasi effettuato il sorpasso quando l’altra macchina urtò blandamente
in coda la sua, appena in un angolo. Appena in un angolo, ma la Centoventi-
cinque sbandò con violenza prima verso destra, poi verso sinistra, batté con la
ruota contro il marciapiede sinistro, vi balzò sopra impetuosa: Alma tentava
con tutte le forze di dominare il volante, ma invano; fu una questione di atti-
mi: la donna udì lo stridore del metallo contro i ritti di pietra del parapetto e
urtò in pari tempo con terribile violenza il capo. Dopo di che non s’accorse più
di niente; non si accorse che la macchina, sfondato il parapetto, precipitava
nell’acqua nera. Ebbe solo una lontana, lontanissima percezione di freddo, e
fu la sua ultima percezione quaggiù.
Sulla sua anima, come due falchi, piombarono ad ali chiuse i due angeli: il
suo e quello di Michele, pronti all’ultima difesa contro eventuali insidie
all’ingresso nel mondo degli spiriti. Ma non ci furono insidie.
Mentre, rotolando lentamente sott’acqua, la macchina col corpo ormai sen-
za vita d’Almina precipitava giù giù verso il fondo del lago, la sua anima e i
due angeli affiorarono insieme nell’aldilà, nel mondo per noi inimmaginabile
perché fatto unicamente di spirito. Sorridendole senza sorridere, e parlandole
senza parlare, gli angeli - splendide creature a mezzo tra raggi di luce e soldati
- diedero il benvenuto ad Alma: «Sei qui, gattino di marmo?» la accolse all'in-
circa, con molta familiarità, il suo (e chi mai aveva avuto con quella creatura
più costante familiarità di lui, l’angelo invisibile, messole accanto da Dio ancor
prima che nascesse?) Scorgendo negli occhi non più materiali di lei la doman-
da: «E Michele? Cosa ne sarà di Michele senza di me?» l’angelo accentuò il
sorriso in modo incoraggiante.
«Verrà anche il suo momento» le rispose con piglio più soldatesco l’altro
angelo: «questione solo di poche decine d’anni, per chi sta qui lo stesso che
niente.»
In un ultimo residuo di comportamento terreno Alma sospirò.
Intanto intorno a lei cominciavano a configurarsi altre presenze spirituali:
si accorse anzi che una di queste le stava venendo incontro. Era lo spirito
d’una donna d’incomparabile bellezza: Almina spalancò i suoi occhi nuovi:
«Marietta!» esclamò: «Oh, Marietta, sei tu?»
Era proprio Marietta ‘delle spole’, che tante e tante volte aveva accompa-
gnata Alma infante in chiesa o a passeggio lungo le strade allora acciottolate di
Nomana, tenendola per mano. Non aveva più i capelli repulsivi né la faccia
gialla né le gambe storte, aveva invece ancora - se pure non più fatti di materia
- i begli occhi neri d’agnello che sulla terra sembravano così fuori posto nel
suo povero viso: ma non erano fuori posto qui, dopo che tutto il resto della sua
figura - pur senza propriamente cambiare - si era per così dire adeguato ad
essi.
«Benvenuta Almina» la salutò con gioia Marietta: «Benvenuta.»
«Nessuno, a pensarci bene, era più degno di te del paradiso» mormorò
estatica Alma.
«Oh, se è per questo siamo qui in tanti, in tanti» disse Marietta con voce
angelica (ma che ricordava ancora in qualche modo la sua voce sempre un po’
spaventata d’una volta) «perché non uno di quelli per cui Cristo è morto si
perde, Alma cara, non uno; se non vuole. Vedrai tuo cugino Manno, e Giusti-
na, e Stefano, col loro padre Ferrante, vedrai il Foresto, e suor Candida, e Ro-
mualdo, e anche il Praga d’Incastigo che - grazie alle preghiere instancabili di
don Mario - il demonio non è riuscito a tenere soggiogato sino alla fine.»
A questo punto l’angelo di Michele fece un gesto circolare di saluto: «Beh,
io devo tornar giù» disse con un mezzo sospiro, «il mio posto è ancora là», e
schiuse le ali per lanciarsi nel tragico mondo degli uomini.

FINE

‘Ecco, ora svaniscono


I volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, li amava,
Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama.’
T.S. Eliot

INDICE

Primo volume: IL CAVALLO ROSSO

Parte prima (32 capitoli suddivisi in tre mannelli - i mannelli di capitoli


sono indicati con numeri. romani)
Parte seconda (11 capitoli, mannello unico)
Parte terza (29 capitoli in quattro mannelli)
Parte quarta (21 capitoli in tre mannelli)
Parte quinta (27 capitoli in cinque mannelli)
Parte sesta (7 capitoli, mannello unico)

Secondo volume: IL CAVALLO LIVIDO

Parte prima (30 capitoli suddivisi in quattro mannelli)


Parte seconda (8 capitoli, mannello unico)
Parte terza (14 capitoli in due mannelli)
Parte quarta (14 capitoli in due mannelli)
Parte quinta (28 capitoli in sei mannelli)
Parte sesta (15 capitoli in tre mannelli)
Parte settima (9 capitoli, mannello unico)

Terzo volume: L'ALBERO DELLA VITA


Parte prima (28 capitoli suddivisi in quattro mannelli)
Parte seconda (23 capitoli in tre mannelli)
Parte terza (12 capitoli in due mannelli)
Parte quarta (20 capitoli in due mannelli)
Parte quinta (12 capitoli in due mannelli)
Parte sesta (6 capitoli, mannello unico)
Parte settima (11 capitoli in due mannelli)

— I titoli dei tre volumi sono tratti dall’Apocalisse ai capi 6.4, 6.8, e 22.2 —

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