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Latervm
di "Birbo Luddynski"
Premessa
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sapere cosa sia, e funziona! Ha sempre funzionato da migliaia di anni, prima cioè
che qualcuno ne codificasse l’algoritmo, e continuerà a farlo, nonostante i moderni
inquisitori.
Chi scrive non è un erudito, non cita fonti per convinzione ideologica, ma ha
imparato in tenera età come si scrive “epistemologia”. Ha poi sguazzato per anni
nei liquami dell’associazione a delinquere di cui sopra, fino a quando, senza esser
riuscito ad assuefarsi al mefitico fetore, non ha trovato una onorevole via d’uscita.
Popper, Kuhn, Feyerabend, sono stati tutti pensatori che avevano compreso
appieno la perversione di certi meccanismi istituzionali, ma che non avrebbero
neanche potuto immaginare che il marciume avrebbe dilagato in modo così
incontrollato e tirannico nella società, fino al punto che uno scienziato possa
raggiungere il potere di impedirti di uscire di casa, o di possedere un’automobile,
o di importi di mangiare i vermi. A parte TK, lui aveva capito tutto, ma questo è un
altro discorso.
In questo scritto non si parlerà del ruolo che ha la scienza nella società
contemporanea, del suo progressivo divenire culto, del progressivo erodere degli
spazi di libertà e di partecipazione civile in suo nome. Non si parlerà del rapporto
coi media, e del potere che hanno i questi di far passare gli sproloqui di un
mediocre professore borioso per verità acclarate. Non si parlerà quindi delle
massime cariche dello stato che dichiarano guerra all’antiscienza, che dichiarano
vittorie a plebisciti mai indetti, dove la gente viene portata alle urne a ricatti e
bastonate.
Non si parlerà di come la “vera scienza” - ossia quella che afferisce al rispetto del
metodo scientifico - sia violentata dal virologo internazionale e dai CTS del
mondo, che prendono decisioni incoerenti, letteralmente a cazzo di cane, e
pretendono che chiunque si adegui senza dubitare.
Qui troverete raccontato il motivo per cui la scienza non è ciò che dice di essere, e
proprio per questo motivo ha assunto tale ruolo nella società.
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Tutto quello che trovaterete qui scritto è ampiamente risaputo e documentato in
libri, longform, articoli su settimanali divulgativi e persino articoli su riviste peer-
reviewed (LOL). Googlate “publish or perish”, “reproducibility crisis”, “p-hacking”,
"publication bias", e decine di altri termini correlati. Io di fonti non ne fornisco,
perché come ho detto è contrario alla mia ideologia. Il valore aggiunto di quanto
vado a scrivere è una descrizione immediata, sicuramente partigiana e senza
censure, dei meccanismi osceni che pervadono tutto il mondo scientifico, dal
reclutamento degli studenti di PhD alle pubblicazioni.
Lo scienziato è uno studente modello, nel corso di tutta la carriera scolastica prima
e universitaria poi. Studente modello significa disciplinato, con voti negli ultimi
percentili dei test standardizzati, e anche buone capacità relazionali. Riesce a farsi
notare durante gli ultimi anni dell’università (cosiddetta “undergraduate”, che però
stranamente in Italia è la magistrale o specialistica o come cazzo si chiama oggi),
fino a trovare la raccomandazione (letteralmente) da parte di un professore per
iscriversi a un programma di PhD, o dottorato, come si chiama fuori
dall’Anglosfera. Il PhD è un programma universitario elitario, lungo dai tre ai sei
anni a seconda del paese e della disciplina, dove viene addestrato a fare “lo
scienziato”.
Durante il PhD nei primi anni segue corsi di altissimo livello tecnico, tenuti dai
migliori professori del suo dipartimento, ai quali si affianca una prima fase di
avviamento alla ricerca, sotto forma di “research assistant”, o RA. Questa fase, che
sancisce il passaggio dalla “conoscenza consolidata” dei libri di testo alla “frontiera
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della ricerca scientifica”, avviene esplicitamente sotto la guida di un professore-
mentore, che con buona probabilità seguirà lo studente dottorando durante la
rimanente parte del corso di dottorato, e quasi sempre nel corso di tutta la
carriera. L’agoghé della soia. Non tutti i dottorandi verranno ovviamente
accoppiati a un mentore “vincente”, ma solo quelli più determinati, ambiziosi, e
che mostrano vivacità nei corsi.
Nel corso di questa fase di RA, lo studente viene svezzato a quelle che sono le
vere pratiche della ricerca scientifica. È una fase davvero cruciale, è il momento in
cui lo studente passa dagli ideali romantico-prometeico-faustiani della scoperta
del Vero, alle nottate passate a smanettare con dati che non hanno senso, fra
errori nel codice e un generale sbigottimento di fronte al senso smarrito. Perché
sto facendo tutto questo, perché devo trovare proprio QUEL risultato? Non è
contrario a tutti gli schemini razionalisti che condividevo su facebook due anni fa,
quando prendevo per il culo il terrapiattista di turno? Come sarebbe a dire che se
la stima non supporta l’ipotesi allora devo cambiare la specificazione del modello?
È a questo punto che in genere pone al mentore delle timide domande dal vago
sapore “epistemologico”, che in genere vengono evase con supercazzole
positiviste sulla scienza che prosegue per errori, o con un discorso che suona più o
meno così: “Ti succederà di non capire. Ci sono due modi di non capire: non capire
aspettando di capire, o non capire rompendo i coglioni. Scegli tu. A ottobre ti
finisce la borsa.”
I più puri a questo punto cadono in depressione, dalla quale usciranno trovandosi
un lavoro onesto, con o senza pezzo di carta. Gli arrivisti, gli psicopatici e gli
ingenui Fachidioten andranno invece avanti come treni, inarrestabili nella loro
sfolgorante carriera votata al prestigio.
Dopo la prima fase di RA, durante la quale contribuisce alle pubblicazioni del
mentore - con o senza menzione tra gli autori - passa alla fase successiva, più
matura, fatta di costruzione di una propria pipeline di ricerca, collaborazione da
coautore con il mentore e i suoi altri coautori, partecipazione a conferenze,
tessitura di una rete relazionale con altre università. Al coronamento di questa fase
c’è il conseguimento del titolo di PhD, che però a questo punto non è niente altro
che una formalità, dal momento che i conseguimenti del dottorando parlano da
soli. La “dissertazione”, o “difesa” infatti non sarà altro che un seminario dove lo
studente presenta il suo lavoro di maggior rilievo, già pubblicabile.
Ma ora lo studente è già lanciato: a seconda della disciplina e della fortuna, avrà
già firmato un contratto da “assistant professor” in “tenure track”, o da “post-doc”.
La sua carriera futura sarà quindi determinata esclusivamente dalla sua abilità nello
scegliere i cavalli giusti, ossia i progetti di ricerca sui quali puntare. È infatti entrato
nel mondo infernale del “publish or perish”, nel quale la sua probabilità di essere
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confermato “a vita“ dipende esclusivamente dal numero di articoli che riesce a
pubblicare su riviste peer-reviewed “buone”. In molte scienze dure il limbo dei
post-doc, durante i quali lo scienziato si sposta di contratto in contratto come un
monaco errante, nell’impossibilità di vivere relazioni stabili, può durare anche dieci
anni. La “tenure track”, ossia il periodo dopo il quale possono decidere se
confermarti o meno, dura più o meno sei anni. Un ricercatore che riesce a
diventare strutturato stabile in una università prima dei 35-38 anni anni può
ritenersi fortunato. E questa non è affatto una peculiarità del sistema italiano.
Il peer-review
Migliaia di pagine sono state scritte su questo istituto, sui pregi, sui difetti, su
come migliorarlo. È stato ridicolizzato e trollato a sangue, ma la conclusione
recitata dagli alfieri della scienza è sempre la medesima: è il sistema migliore che
abbiamo e ce lo dobbiamo tenere. Il che è in parte vero, ma la sua supposta aura
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di infallibilità è la principale responsabile dello stato penoso nel quale versa
l’accademia. Vediamo come funziona.
Il nostro ricercatore Anon ha il suo bel Pdf scritto in Latex intitolato “The Antani
Problem: is it Quintana or Setta?” (citazione boomer), e lo sottomette al Journal of
Liquid Bullshit tramite la sua piattaforma web. Il Chief editor del JoLB prende il pdf,
dà una occhiata veloce, e decide a quale associate editor smistarlo, in base
all’argomento. L’editor prescelto dà un’altra occhiata veloce e decide se 1)
mandare una breve lettera dove dice ad Anon che il suo lavoro è sicuramente
bello e interessante ma unfortunately it is not a good fit for the Journal of Liquid
Bullshit, I reccomend similar outlets such as Journal of Bovine Diarrhea, or Liquid
Bovine Stool Review oppure 2) inviarlo ai referee. Ma fermiamoci un attimo.
Chi è il Chief editor? L’editor è una personalità di spicco nel campo del Liquid
Bullshit. Sicuramente un Full Professor, minimo 55 anni, decine di pubblicazioni di
rilievo, citatissimo, è stato keynote speaker in svariate conferenze annuali
dell’American Association of Liquid Bovine Stools. Durante le conferenze ha
costantemente un capannello di gente intorno.
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Chi sono i referee
Non dobbiamo immaginarci gli editor come gente avulsa dal mondo, ma con le
mani estremamente in pasta. Un editor infatti ha un potere enorme, e non si
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diventa editor se non si dimostra di bramare a questo potere, oltre ad esserselo
meritato, secondo le logiche perverse del cartello. Il potere enorme dell’editor
consiste nell’influenzare la sorte di un paper in tutte le fasi della revisione. Può
scegliere referee favorevoli o sfavorevoli a un paper: le faide scientifiche e i loro
partecipanti sono note, e sono soprattutto note agli editors. Può anche schierarsi
con il referee di minoranza e chiedere una revisione (o il rigetto).
Ogni ricercatore di alto livello sa quali sono gli editors amici, e sa quali possono
essere i potenziali referee nemici più pericolosi. Gli articoli vengono spesso
calibrati, cercando di leccare il culo all’editor o ai referee potenziali, strizzando
l’occhio alle loro agende di ricerca. È in questo contesto infatti che si sviluppa il
mercato delle vacche delle citazioni: se ho paura del referee Tizio, ne citerò più
lavori possibili. Oppure altra strategia (valida per giornali minori e lavori di nicchia)
è ignorarlo completamente, altrimenti l’editor neutrale potrebbe sceglierlo come
referee semplicemente scorrendo la bibliografia. Molti referee inoltre, in fase di
revisione, fanno di tutto per pompare le loro citazioni sostanzialmente spingendo
gli autori a citare i loro lavori, anche se poco pertinenti. Ma questo accade su
riviste minori. [2]
La cosa più rilevante da comprendere della natura del peer review, è come sia un
processo a cui partecipano soggetti consapevolmente e strutturalmente in
conflitto di interessi. La cosa divertente è che questo stesso sistema è anche usato
per allocare i fondi di ricerca pubblici, come vedremo.
Il fatto che ogni tanto qualche articolo “scomodo” riesca a bucare il muro del peer
review non deve ovviamente ingannare: il processo, seppur ben guidato, rimane
ancora in parte casuale. Un referee può raccomandare l’accettazione
inaspettatamente, e l’editor può farci ben poco. In ogni caso poco male: un
articolo scomodo ogni tanto non contribuirà mai alla crazione del consensus,
quello che fa comodo agli apparati finanziatori ultimi, e anzi dà all’osservatore
esterno l’illusione che ci sia un dibattito franco.
Generalmente sì, anche perché si bara a vari livelli, generalmente lasciandosi dietro
vari schermi di plausible deniability, ossia espedienti che ti permettono di dire che
ti sei sbagliato, che non lo sapevi, che non l'hai fatto apposta, che è stato il
dottorando, che il cane ti ha mangiato i dati grezzi. Certo, nel raro caso che si
venga scoperti non ci fai una bella figura, e il paper generalmente finirà
"retracted". Un discreto marchio di infamia sulla carriera di un ricercatore, che se
però riesce a nascondere le prove della sua malafede conserverà comunque la
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cattedra, e tra qualche anno tutti si saranno dimenticati. Dopotutto son cose che
fanno tutti: peccato, pietre, eccetera.
Ogni tanto, sempre più di frequente, capita qualche retraction grossa, dove si
scopre che i dati di qualche lavoro ben pubblicato erano completamente inventati,
e che i risultati erano troppo belli per essere veri. Questo accade quando qualche
giovane emergente psicopatico esagera, e attira troppo l'attenzione su di sé.
Questi casi estremi di frode totale sono sicuramente più numerosi di quelli
scoperti, ma come detto non serve inventarsi i dati per trovare un risultato
pubblicabile, basta pagare una scimmia che provi tutti i modelli possibili su tutti i
sottoinsiemi possibili. La giustificazione a posteriori del perché hai escluso il
sottoinsieme B si trova sempre. Volendo puoi anche ometterla, tanto se non hai
pestato i piedi a nessuno è escluso che qualcuno si metta a fare le pulci al tuo
lavoro. Addirittura nelle scienze sperimentali può capitare che nessuno sia riuscito
a replicare gli esperimenti di paper importantissimi, e ci hanno messo quindici anni
a scoprire che forse si erano inventati tutto. Andatevi a cercare su google
"alzheimer scandal" LOL! Non c'è nessun incentivo reale nell'accademia a scoprire
articoli farlocchi, se non letteralmente vantarsene su twitter.
Per fare ricerca servono soldi. Non ci sono solo le attrezzature dei laboratori, che
non sono comunque necessari in numerose discipline. C’è anche e soprattutto la
forza lavoro. I laboratori e in generale la ricerca è infatti mandata avanti da gente
sottopagata, cioè dottorandi e post-doc (in italia noti come “assegnisti”). Ma non
solo, ci sono anche spese per software, acquisto dataset, viaggi per conferenze,
seminari e workshop da organizzare, con gente da invitare e a cui pagare viaggio,
albergo e cena in ristorante decente. Considerate l’importante lato PR di questo
aspetto: invitare un professore importante, magari un editor, per una vacanzetta di
due giorni e farselo “amico” può sempre tornare utile.
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diventare una sorta di reietto. A non vincere grants è quello strano, coi capelli
arruffati, che ha l’ufficio in fondo al corridoio vicino al cesso. Ma come si vincono i
grants?
Abbiamo quindi un sistema dove pubblica chi ottiene i grants, e ottiene i grants
chi pubblica. Il tutto governato da un inestricabile intreccio di conflitti di interesse,
dove a risultare vincenti sono le connessioni informali - e in ultima istanza
interessate - del singolo ricercatore. Connessioni informali che, ricordiamolo
partono dal dottorato. Quello che è presentato come un sistema asettico,
oggettivo e informale di valutazione meritocratica, assomiglia nella migliore delle
ipotesi al sistema per assegnare l’appalto del rifacimento del parcheggio dei bus
di un paesino dell’agro Pontino negli anni Ottanta.
L’agenda di ricerca
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pubblicare bene. In genere si viene lanciati sull’agenda hot durante il dottorato, se
l’advisor ti consiglia bene. Ad esempio può darsi che l’advisor abbia in mente un
filone, ma non gli va di mettersi a imparare una nuova metodologia a 50 anni,
quindi manda avanti il giovane coautore. Spesso quindi il prof cinquantenne,
ormai “full professor”, si trova a diventare fra i leader di un filone di ricerca
“d’avanguardia” senza averne mai davvero padroneggiato le metodologie e le
tecnicalità, limitandosi dunque al lato manageriale e di marketing della questione.
Come già spiegato, intorno alle agende si formano delle vere e proprie bande, che
agiscono per monopolizzare il dibattito sull’argomento, dando vita a un vero e
proprio pseudo-dibattito controllato. Gli articoli “seminali” dei boss non si
potranno mai demolire totalmente, semmai arricchire, espandere. Si potranno
esplorare le questioni da un altro punto di vista, sotto altre dimensioni, utilizzare
nuove tecniche di analisi, altri dati, che porteranno a conclusioni sempre via via
diverse. La cosa chiave è che nessuno dirà mai “scusate raga ma qui stiamo
perdendo tempo”. L’unico tempo perso nell’accademia è quello che non porta a
pubblicazioni e quindi a grants.
Il grosso equivoco alla base della scienza, e quindi della giustificazione del suo
finanziamento di fronte all’opinione pubblica, è che questo incessante e caotico
“ricercare per pubblicare” riesca comunque ad aggiungere tasselli alla Conoscenza.
Ciò è largamente falso.
Infatti, le agende di ricerca non si parlano mai tra loro, e soprattutto non
sembrano mai giungere ad una conclusione. Dopo anni di pseudodibattito
l’agenda sarà stata talmente “arricchita” da centinaia di articoli pubblicati, che
provare a dargli un senso sarebbe un lavoro duro e ingrato. Ingrato perché di fare
questo lavoro non interessa a nessuno. Fondi sono stati spesi, e cattedre sono
state prese. Il filone infatti prima o poi si secca: l’argomento smette di essere di
moda, quindi di essere appetibile per le riviste top, passa via via su riviste minori, i
dottorandi nuovi smetteranno di interessarsene, e se i leader del filone tengono
alla carriera, passeranno ad altro. E ricomincia la giostra.
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ricerca non potrà fare a meno di notare che i risultati “da portare a casa” sono ben
pochi. Fra risultati inconcludenti, metodologie errate o applicate erroneamente, il
contributo netto portato alla conoscenza è quasi sempre zero, e la risposta
qualitativa, o “di buon senso”, rimane sempre la migliore.
Conclusioni
Abbiamo fin qui descritto lo scientificio. Il suo funzionamento, gli attori in esso
coinvolti e il loro reclutamento. Abbiamo descritto come il conflitto di interessi - e
la corruzione morale e sostanziale - governino ogni aspetto della professione
accademica, che non è quindi in grado, nel suo complesso, di offrire alcun punto
di vista oggettivo e imparziale, su nulla.
Certo, ci sono le eccezioni. Certo, ci sta il prof. che è passato attraverso le maglie
del sistema, e ora grazie alla posizione ha una piattaforma per dire qualcosa di
interessante. Ma è una voce isolata, ridicolizzata, utilizzata per aizzare i consueti
due minuti d’odio televisivi o social. Non c’è nessun bambino da salvare nell’acqua
sporca. Il bambino è morto. Affogato nei liquami.
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nominalmente ed assegnando semplicemente un gettone di presenza attraverso le
scuole più d’élite, i rampolli della nuova classe dirigente.
[1] A consigliare Galilei di parlare di “ipotesi” fu Bellarmino. Per tutta risposta Galilei pubblicò il ridicolo “dialogo”, dove l’evidenza portata a sostegno delle sue affermazioni
sull’eliocentrismo non era altro che una congettura, completamente sbagliata e senza alcun fondamento empirico. La posizione del Santo Uffizio fu letteralmente “dì quello che ti
pare basta che non la spacci per Verità”. Galilei si è vendicato: ora dicono quello che gli pare e la spacciano per verità. Fonti? Cercatevele.
[2] Paradossalmente, nella fascia medio-bassa dei giornali, dove la competizione dei tagliagole è minima, si può trovare ancora qualche raro esempio di peer review fatto bene. Ad
esempio una volta mi fu richiesto di referare un paper per un giornale minore, con il quale non avevo mai avuto nulla a che fare e del quale non conoscevo l’editor neanche
indirettamente. Paper inviato senza frontespizio quindi anonimo, e stranamente non trovai il working paper online. Era oggettivamente una porcheria, e raccomandai il rigetto.
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