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Jack Ryan è, in divenire, una delle cose migliori avvenute nella dimensione dell’intrattenimento

audiovisivo contemporaneo ma, al contempo, è necessaria forse una guida all’approccio per
percepire pienamente la profondità dell’ultima creatura di Carlton Cuse esclusiva Amazon Prime.
Nel suo inserirsi all’interno di un percorso già splendidamente tracciato da progetti quali Homeland
o The Looming Tower, in cui si tenta (nella maggior parte dei casi), la sintesi più o meno evidente
tra profondità narrativa, bella scrittura dei personaggi in gioco e cura nella regia delle sequenze più
prettamente action, Jack Ryan sembra puntare alla ricerca di una sua voce peculiare. Il genere
action spionistico televisivo è insomma il microcosmo che per primo (con almeno un decennio
d’anticipo rispetto a quanto sta avvenendo nel cinema contemporaneo se pensiamo al caso 24) ha
tentato e continua a tentare la sintesi tra visione d’autore e intrattenimento e in questo senso,
l’approccio alla materia di Jack Ryan è certamente degno d’interesse e non va sottovalutato.
L’ultimo progetto di Carlton Cuse, per usare una citazione colta, “sa di non sapere”, in sostanza sa
di non godere (ancora) della fiducia e della popolarità di cui gode Homeland e sa di non
organizzarsi tutta attorno ad una ragnatela storico-ideologica complessa come quella di The
Looming Tower, è cosciente dunque di non poter strafare e di doversi far conoscere nel migliore dei
modi dal suo pubblico, rendendo dunque suoi punti di forza proprio questi limiti che di fatto si è
autoimposta. Jack Ryan dunque, nel suo essere serie tv ad medio/alto budget, ragiona come se fosse
un progetto dal background produttivo molto più contenuto.
Jack Ryan, tra spettacolarità e scrittura, sceglie di dare completa priorità a quest’ultima e dunque lo
spettatore si ritrova a confrontarsi con una sorta di ritorno in auge della cara vecchia sceneggiatura
di ferro applicata ad un prodotto d’intrattenimento.
Durante la visione dei singoli episodi si riesce quasi a percepire il controllo esercitato dal team di
scrittura su tutto il racconto. La storyline della prima stagione di Jack Ryan si può riassumere nel
giro di un paio di minuti, dieci righe scritte al massimo. È una scelta, ovviamente voluta, perché un
racconto contenuto rende di fatto più “pulita” e ordinata la scrittura (non c’è, in effetti, un fatto,
un’azione, una battuta sprecata, una sequenza di troppo, ogni singolo dettaglio contribuisce,
piuttosto, allo sviluppo dell’intreccio totale), aiuta a gestire nel migliore dei modi il ritmo del
racconto (che, in effetti, non soffre di gravi cali) e, soprattutto, permette di concentrarsi
maggiormente nella caratterizzazione dei personaggi. Un discorso, quello della caratterizzazione
delle parti in gioco, che sorprende perché, oltre ai protagonisti, si prende il suo tempo per sezionare,
cesellare, la psicologia e l’interiorità degli antagonisti, lavorando sul loro background, sulle loro
motivazioni e soprattutto portando lo spettatore a contatto con quel relativismo ideologico che
sembra essere alla base delle azioni del villain di turno e che porta ad un’inaspettata empatia di chi
guarda nei suoi confronti. C’è, insomma, una strana concretezza, un proficuo contatto con il
REALE nel tessuto di Jack Ryan, lo si ravvisa nell’umanità sfaccettata che caratterizza i personaggi
ma soprattutto ci si confronta con essa durante le sequenze action, mai eccessive, sempre calibrate,
costantemente caratterizzate dall’equilibrio tra dinamismo e controllo compositivo.
Ammirevole poi, a margine, quanto la serie, pur lasciandosi andare, a volte, a flirt più o meno
insistiti con l’ideologia dell’America come entità dominante e perfetta, unica esportatrice della
democrazia nel mondo, abbia tuttavia il coraggio di affrontare a piene mani quella brutale attualità
che a volte ci sforziamo di non guardare, dalla questione dei profughi siriani alla minaccia
terroristica in Francia.
Jack Ryan è insomma un’ottima scoperta di quest’estate 2018 in tv ammesso, tuttavia, che la si
sappia “leggere” nel migliore dei modi. La creatura di Carlton Cuse è infatti, per il momento,
assimilabile, proprio in virtù di quei limiti che si è autoimposta, ad un concept, ad un’anteprima di
ciò che la stessa serie potrà essere nel momento in cui sarà andata su di giri (e già se ne può intuire
il potenziale in tal senso nel momento in cui la puntata finale è disseminata di indizi che portano a
intuire che direzione andrà a intraprendere la seconda stagione), se si accetta questa sua natura di
anticipazione, di non finito, di prodotto che si muove all’interno di coordinate definite senza strafare
ma caratterizzato da una straordinaria cura nella realizzazione, allora l’esperienza di visione
certamente riserverà grandi soddisfazioni.

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