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Parlare di Mank, l’ultima creatura di David Fincher, significa procedere ad una profonda azione di

debunking che prenda di petto di film e lo interroghi su ogni sua zona critica.
Sia chiaro, tuttavia, che se è vero che il senso profondo di Mank è quello di svelarne i meccanismi
su cui si regge, è altrettanto vero che in nessun caso siamo interessati a comprendere cosa ci sia di
storicamente vero nella lettura che Fincher (meglio che i due Fincher) danno di Mank, anche perché
lo sappiamo già: poco o niente prevedibilmente, ma non è certamente un problema, anzi.
Ben più interessante e costruttivo è interrogarsi sulla grana di Mank, meglio ancora su tutto ciò che
si vede in controluce. Il primo elemento di cui prendere atto riguardo al film, forse ancor prima di
premere Play, è che, con buona probabilità, questo non è il film che Jack Fincher aveva in mente fin
dall’inizio.
Del Mank di suo padre, forse, David Fincher ha conservato, oltre al soggetto, gli snodi principali
della trama e la caratterizzazione dei suoi protagonisti ma tra le pieghe del film, sottotraccia, c’è
troppa, davvero troppa enfasi sugli immaginari a contatto con la contemporaneità, sulla sfera
mediale, sullo spettacolo come strumento di falsificazione supremo della realtà che è impossibile
non considerarlo più un’opera di Fincher figlio che di Fincher padre.
Preso atto della paternità quantomeno ambigua dell’opera non rimane altro che scardinare, come in
un effetto domino, tutti gli altri apparenti pilastri su cui dovrebbe poggiarsi Mank.
Si parte col riconoscere che l’ultimo progetto di Fincher non è un biopic su Herman J. Mankiewicz,
né è una storia di un particolare segmento della Hollywood della Golden Age, al contempo, un
tratto da non sottovalutare nei nostri tempi così affascinati dal passato e dall’eterno ritorno di
strutture conosciute e consolidate è costituito dal fatto che il film non è neanche un elogio di quel
momento storico o di quei metodi produttivi, elementi che per Fincher, come si vedrà, saranno
piuttosto un mezzo per arrivare ai propri obiettivi più che il fine ultimo del suo viaggio.
Piuttosto, Mank si pone soprattutto come una riflessione squisitamente autoriale sullo stato di salute
del cinema contemporaneo, letto attraverso l’ideologia di Fincher che finisce per rifrangersi nella
dimensione del cinema classico, più simile in questo senso ad un ambiente controllato su cui
riprodurre in scala una situazione reale che come altare su cui celebrare un’età dell’oro ormai
perduta.
E se è vero che Fincher non è certo il primo ad utilizzare la Storia come prisma utile a studiare il
tempo presente, forse, come si vedrà, rimane uno dei pochi ad avere un atteggiamento ai limiti
dell’ambiguo rispetto alla materia che si ritrova ad osservare.
Il primo vero passo per avvicinarsi ai lati più profondi di Mank è in effetti riconoscere quanto si
tratti di un film attraverso cui David Fincher si ritrova ad analizzare con severità non solo la
contemporaneità ma anche quel cinema classico che, secondo alcuni, il film vorrebbe celebrare:
Mank è dunque un film tanto antimoderno (per dirla con Compagnon), quanto antiretromaniaco (per
dirla con il sempre presente Simon Reynolds), in cui tutto si gioca nella zona grigia tra questi due
atteggiamenti estremi.
Il punto, tuttavia (ed è forse qui che nasce l’equivoco alla base della risposta popolare a Mank) è
che per quanto estremamente schierato e convinto delle sue argomentazioni, il film di Fincher
origina a partire da un crogiuolo che accoglie un flusso costante di stimoli costituiti non solo, come
si vedrà, dai tratti ricorrenti del suo cinema ma anche da emersioni del mondo digitiale da un lato e
da input legati ad una profonda fascinazione per il passato dall’altro.
Si parte, però, da lontano, da un affresco storico di cui Fincher direziona costantemente i caratteri
attraverso una rilettura autoriale del biopic, in cui il cuore della argomentazioni si coagula in tutti
quegli scartamenti dalla norma, in tutte quelle parentesi in cui la biografia di Mank devia e l’uomo
diventa prima alter ego dei due Fincher e poi strumento con cui David prova a scardinare i
meccanismi occulti e le ipocrisie del mondo dello spettacolo, mettendo radici in quei momenti in
cui del cinema viene messa in risalto l’artefazione e il sapore carnevalesco, in cui tutto non solo è
falso ma anche inaspettatamente doloroso.
Ciò che colpisce, in questo senso, non è tanto la pervasività della rilettura della Storia da parte di
Fincher ma l’aggressività del suo approccio, che lo porta a non fermarsi praticamente di fronte a
nulla se in ballo c’è la possibilità di analizzare la contemporaneità da un nuovo punto di vista, dalla
sua personale posizione di osservatore.
Con buona probabilità la caratterizzazione spigolosa e aggressiva di Orson Welles offerta da Tom
Burke ma soprattutto il ruolo di Shelly Metcalf, regista inventanto da zero da Jack Fincher e che
costituirà il vero e proprio turning point della militanza politica di Mank sono proprio le dirette
conseguenze di quest’approccio alla storia così volutamente fuori dagli schemi.
Da un certo punto di vista Mank è un lungo inseguimento tra il gatto ed il topo, tra il passato,
continuamente ricercato e ricreato dallo sguardo di Fincher, che arriva ad invecchiare digitalmente
il sonoro, a simulare i cambi di rullo, a suggerire a Trent Reznor ed Atticus Ross di lavorare su una
drammaturgia del suono apertamente citazionista dei classici del passato e un presente in fuga che
però non può che far trasdare dal tessuto di quella stessa Hollywood della Golden Age, tutta la sua
grana eminentemente digitale.
Mank si muove dunque in un mondo in cui i suoi stessi colleghi discutono in una riunione di
produzione di sviluppare un franchise esattamente come farebbero gli executives di Marvel, Disney
o Warner oggi, il tutto mentre, forse unico intellettuale lungimirante in uno spazio dominato da
cinici arrivisti, cerca di schivare le minacce di una (post)verità manipolata attraverso il cinema e
l’immagine in operazioni che annunciano gli spettri di certo populismo di là da venire.
Al contempo, il mondo costruito dai Fincher a immagine e somiglianza della Storia interroga lo
spettatore attraverso un continuo Who Is Who, stimolando quel fact checking che è un altro
strumento centrale che, in era digitale, guida sempre più spesso lo spettatore nel suo confronto con
un’opera audiovisiva, il tutto mentre viene accompagnato dalla diegesi nella biografia esplosa di
Mank, a contatto con un tempo liquido, manipolato, in cui passato e futuro si intrecciano in un
gioco di causa ed effetto ma soprattutto di link, di legami pregni di significato tra oggetti e soggetti
apparentemente diversissimi. L’unico elemento che forse non cambia nel contatto fluido tra passato
e presente è forse una Hollywood colta in una crisi che è al contempo economica e valoriale, una
presa di coscienza tra l’altro ancora più impietosa nel momento in cui Fincher riflette sulle strategie
per contrastare la catastrofe. Perché se è vero che la Hollywood degli anni ’40 può contare su Orson
Welles, outsider indipendente che lavora al di fuori del sistema delle major e desidera ricostruire i
meccanismi produttivi da zero, nel presente Netflix solo in apparenza si pone come la salvezza di
un immaginario e il centro di una traslazione dell’esperienza di visione, in realtà l’azienda di Los
Gatos è solo il fondo nero del pozzo oscuro in cui è finito il cinema ed è stata scelta come canale di
distribuzione di Mank solo perché ormai tutto è perduto, perciò tantovale sopravvivere in ogni
modo possibile.
In questo senso è abbastanza rivelatorio che il Cinema raccontato in Mank è frammentario,
sghembo, sconclusionato, sezionato, fatto di scene che vengono discusse, progettate, ma mai
effettivamente girate, di un’azione creativa tutta fuori scena, un cinema a suo modo statico, fermo,
nullo, in fondo l’unico risultato possibile quando a confrontarsi sono due forze uguali e contrarie
come quelle dell’ipermodernità e della retromania, che scorrono nel tessuto di Mank, perfetto luogo
di ritrovo di divi e creativi sempre più simili a fantasmi informi, a ombre apatiche una volta grandi.
Forse ad oggi il picco di maturità della ricerca di David Fincher su contemporaneità e spazio
mediale, Mank colpisce però soprattutto, al di là della sua cura formale, per lo sguardo
assolutamente disincatato e pessimista con cui Fincher cattura un intero immaginario e il suo
sistema semantico, un approccio tanto lucido quanto raro in un’epoca costruita su magnifiche sorti e
progressive e su Yes Men a tutti i costi. A volte serve che qualcuno rompa il velo di Maya, a volte è
interessante ciò che ha da dirci, anche se, o forse soprattutto se, siamo in disaccordo con lui.

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