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Quando la seconda stagione di The Mandalorian è finita, a inizio Dicembre, era chiaro a tutti, anche

a noi che da anni ci occupiamo di cinema, serialità, intrattenimento di massa in generale, che era
terminato un progetto che, per valori produttivi e coraggio, era semplicemente troppo grande da
trattare in maniera convenzionale.
Per questo abbiamo atteso finora. Perché un progetto caratterizzato da così tante linee tensive aveva
bisogno di una forma non tradizionale per essere trattato. Per le tematiche che affronta, per il modo
in cui si rapporta al materiale narrativo di partenza, per le modalità attraverso cui sceglie di entrare
in contatto con lo spettatore.
Abbiamo quindi deciso di fare un passo indietro, avvicinandoci a Mandalorian in maniera genuina,
cercando di limitare il più possibile i filtri accademici, propri degli studiosi (che comunque abbiamo
usato), per provare a capire come mai la serie di Favreau e Filoni ha avuto un impatto così
dirompente nel panorama dell’intrattenimento contemporaneo, ragionando prima da spettatori e poi
da critici.
Ci siamo riuniti, come amiamo fare, e ognuno di noi ha scelto il suo episodio preferito della
seconda stagione, provando a restituire in una manciata di battute i motivi per cui considera quella
puntata il punto più alto dell’arco narrativo, tentando di comprendere le unicità del progetto seriale
Disney nel particolare di una puntata da una trentina di minuti.
Questo è ciò che è venuto fuori dal nostro dialogo con The Mandalorian.

No, Non è come pensate.


La rivelazione del volto di Din Djarin, apice emotivo di una sequenza dai tempi volutamente
dilatati, in realtà non c’entra niente. Non è per quello che Il Vendicatore (ma che bello è, fuori da
ogni deriva esterofila, il titolo originale, The Believer?), è, forse, il momento più alto della seconda
stagione di The Mandalorian.
L’ho scelto, piuttosto, per lo straordinario senso di libertà che si respira durante tutto l’episodio.
Mi spiego meglio: tutto The Mandalorian può essere letto come il racconto della ricerca che
coinvolge Dave Filoni e Jon Favreau, impegnati per otto puntate a rompere il codice, fatto di
convenzioni e aspettative degli spettatori alla base del sistema narrativo di Star Wars. La liquidità
dello spazio digitale che plasma il reale in cui ci muoviamo (e che guardacaso accoglie anche la
serie, distribuita solo sulla piattaforma streaming Disney+) impone infatti un rinnovamento del
sistema linguistico che passa anche per la ricombinazione e la libera interazione di spunti, temi,
input spesso non direttamente afferenti a Star Wars ma necessari a liberarsi di certi obblighi che
hanno raccolto il favore dei fan tradizionalisti impedendo però alla saga di essere davvero nel
tempo.
Filone e Favreau costruiscono quindi un’architettura narrativa prelevando spunti e materiali alla
maniera postmoderna ma prendendo atto di come ci si stia confrontando con dettagli, temi, idee che
comunicano tra di loro secondo una sintassi digitale organizzando ipertesti e aprendo percorsi
imprevisti ad ogni nuova connessione.
La libertà di giocare con “Il Codice Star Wars” esplode proprio in The Believer.
L’episodio è infatti il primo che esorbita evidentemente dal canone e dialoga tanto con il cinema di
William Friedkin quanto con quello di George Miller spingendosi fino al teatro minimalista con
l’apice dell’episodio, che si, cita l’operazione Cenere dell’universo espanso e Bastardi Senza
Gloria ma che è probabilmente il punto di non ritorno di un intero franchise. La fantascienza
massimalista Lucasiana si riduce a tre personaggi, ad una scenografia spoglia e ad un dialogo che
rischia di scaraventare nell’abisso gli interlocutori. È, forse, il grado zero del codice, un universo di
spunti e connessioni racchiusi in una stanza e forse provvidenzionalmente raccolti nel personaggio
di Mayfield, vero e proprio homo novus del franchise, stormtrooper pentito che, in uno screen time
di neanche mezz’ora riesce ad essere molto più umano e reale di decine di comprimari con cui lo
spettatore si è confrontato nelle trilogie cinematografiche. Filoni e Favreau hanno rotto il sistema,
hanno trovato un nuovo punto di partenza. ora non rimane che scavare e capire dove arrivare.

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