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questione di linguaggio. Dal Caso Spotlight, McCarthy lavora infatti su un’idea di film-inchiesta dal
taglio etico, attenta a lavorare sul controcampo più che sul campo, sull’umanità dietro l’indagine
piuttosto che sul crimine in sé. Il passo di McCarthy è quasi Brechtiano, gioca con le attese del
pubblico, utilizza il genere come un grimaldello per riflettere su tematiche più ampie e vede il
regista testare per primo la tenuta del suo cinema.
A dominare La ragazza di Stillwater è infatti una sensazione di spaesamento che coinvolge tanto il
protagonista quanto lo stesso McCarthy. Bill Baker (Matt Damon) è un operaio dell’Oklahoma
costretto a confrontarsi con un contesto alieno come quello della mitteleuropea Marsiglia per
provare a dimostrare l’innocenza della figlia. Nessuno comprende la sua lingua o il suo modo di
pensare, tranne la giovane Virginie, che insieme alla figlia proverà ad aiutarlo. La donna offrirà a
Bill una bussola che invece McCarthy pare non voler seguire, attratto, piuttosto, da un contesto
ignoto in cui far immergere il suo cinema.
La ragazza di Stillwater è infatti un asciutto thriller Pollackiano sedotto dall’esotismo europeo, da
Campanella e dall’ultimo Desplechin, un giallo senza cadavere che pone la detection in secondo
piano, a favore di inattesi momenti più intimi, dilatati, che riflettono sul fuoriscena dell’omicidio,
sulla colpa, sul retaggio, con il piglio di Durrenmat. In questo contesto il protagonista, un convinto
repubblicano, diventa una particella alienata del sistema, un’entità sempre più fuori dal quadro e
ideale centro di un ambizioso saggio sociologico sulla cultura dell’America Trumpiana.
Il passo di McCarthy è vivacissimo, in costante equilibrio tra il racconto morale e le bordate
satiriche, a tratti didascalico ma al contempo felicemente onesto quando si confronta con il suo
protagonista. Il suo è il ritratto, nutrito di sincera pietas, di un action hero imbolsito, stanco, a tratti
ingenuo, non privo di ambiguità ma animato da una fede genuina, il tutto inscritto nel corpo
attoriale di un Matt Damon straordinariamente misurato e attento all’emotività del suo personaggio.
Tolto dal contesto isolato in cui è cresciuto, Bill diventa dunque un’interessante anomalia che pare
comprendere la fallacia della sua forma mentis. Critica certi valori dell’America conservatrice, è
ostile alle fake news e al razzismo quando lo riguardano da vicino e mette in dubbio l’approccio
aggressivo e pragmatico attraverso cui vorrebbe risolvere il suo dramma. Nutrito da queste
premesse, il rapporto tra Bill e Virginie e sua figlia, diventa un cortocircuito affascinante proprio
perché mette in scacco il naturale spirito imperialista americano. L’uomo vorrebbe controllare uno
spazio che invece prima lo sottomette e poi lo conquista, costringendolo a mettere da parte la sua
diffidenza, ad accettare l’aiuto delle sue alleate, a ridurre il suo pragmatismo ai minimi termini e a
metterlo al servizio della loro quotidianità, tra un giocattolo riparato ed un guasto casalingo risolto.
Il risultato è un affresco tanto stimolante quanto utopistico, in cui la cultura pare la vera ricchezza e
highbrow e lowbrow si guardano senza giudicarsi, collaborando all’insegna della verità.
A tratti fuori misura, la ragazza di Stillwater è un genuino atto di coraggio da parte di Tom
McCarthy, che esplora con consapevolezza una terra incognita e spinge all’estremo l’etica che
scorre sotto alle sue immagini senza paura delle conseguenze.