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Dopo quattro anni Werner Herzog torna al cinema delle piattaforme ma soprattutto incrocia

nuovamente i suoi passi con il vulcanologo Clive Oppenheimer attraverso un nuovo tassello del suo
ciclo documentario dedicato alle forze oscure e inquiete che governano la natura.
Fireball, il nuovo progetto codiretto da Herzog ed Oppenheimer e distribuito su AppleTv dal 13
Novembre dopo un passaggio all’ultima Festa Del Cinema di Roma espande le riflessioni del
regista e dello studioso che già caratterizzavano Into The Inferno doc sui vulcani distribuito da
Netflix nel 2016. Così come il viaggio tra i vulcani più pericolosi del mondo non era altro che un
pretesto attraverso cui Herzog provava a riflettere sull’incertezza, sulla transitorietà della
condizione umana oltreché sul fascino di quest’elemento naturale al contempo così pericoloso ed
attraente, prevedibile che l’indagine sulle meteore da cui parte Fireball altro non è che lo spunto per
lavorare sulla filigrana legata al carico simbolico che proprio il confronto tra la vita umana e il
meteorite porta con sé.
Si torna dunque all’impostazione che caratterizzava anche Into The Inferno, con Herzog ed
Oppenheimer che viaggiano per il mondo ad osservare gli immensi crateri lasciati da bolidi e
meteoriti caduti sulla Terra nel corso degli anni, confrontandosi anche con le personalità più
svariate che hanno votato la loro vita allo studio di questi oggetti volante, dagli esperti di difesa
spaziale della NASA agli anziani di una tribù aborigena che considera le meteore delle fondamenta
della loro religione passando per il frate responsabile dell’Osservatorio Vaticano di Castel
Gandolfo.
Archiviato e studiato dall’approccio classificatorio di Herzog ed Oppenheimer, il meteorite finisce
dunque per lasciar emergere la sua grana di elemento portante dell’inconscio collettivo dell’essere
umano, che l’ha portato ad essere fin dalle origine della civiltà al centro di rappresentazioni e
leggende di popoli che in realtà non sono mai entrati in contatto e che ancora oggi resiste, come una
sorta di detrito immaginifico, nei riti del Dia De Los Muertos e nelle leggende delle tribù
Neozelandesi.
Interrogandosi costantemente sulla possibilità che proprio i meteoriti possano essere custodi di quei
semi che hanno generato la vita umana, Fireball diventa tuttavia, lentamente, una sorta di saggio
visuale, a cavallo tra la mediologia e la geologia, sull’irrapresentabilità di determinati soggetti ed è
forse da questa prospettiva che l’indagine di Herzog ed Oppenheimer raggiunge i risultati più
interessanti.
A ben guardare, al centro dei momenti più luminosi di Fireball, al di là delle sue rigorose parentesi
divulgative, c’è infatti lo studio di traccie di eventi traumatici avvenuti sulla Terra di cui
all’osservatore è preclusa l’osservazione della causa: vediamo, in sostanza, il cratere scavato dal
meteorite, che magari ora ospita un lago o un edificio religioso ma l’evento scatenante è complesso
da ricostruire se non per ipotesi, così come impossibile è poter toccare con mano, spesso, anche solo
detriti del corpo celeste.
E dunque ecco che Fireball finisce per essere puntellato di momenti in cui, in un modo o nell’altro,
lo sguardo, la mente, nel tentativo di confrontarsi con la forza dell’impatto meteorico e con tutti i
suoi sottotesti finiscono per mancare il bersaglio. Il film non è altro che un viaggio alla continua
ricerca di una mediatizzazione della catastrofe, partendo dal grado zero della Pietra Nera de La
Mecca, inavvicinabile per chiunque, addirittura invisibile per coloro che sono troppo lontani dalla
teca in cui è custodita, passa per il tentativo di Oppenheimer di ricostruire, solo a parole, uno degli
impatti più catastrofici mai accaduti a partire dalle tracce che quello stesso impatto ha lasciato sulla
Terra e arriva fino alle aperte citazioni dei blockbuster hollywoodiani (tra Deep Impact ed
Armageddon), riconoscendo che solo il cinema può sobbarcarsi il compito della rappresentazione di
un evento del genere.
In un continuo rimbalzo da fuori a dentro il sistema della rappresentazione e il soggetto
dell’indagine, Fireball può essere letto dunque anche come una riflessione sul potenziale narrativo e
mitopoietico del meteorite.
Il corpo celeste, in effetti, proprio a partire da quell’elemento di irrapresentabilità che lo
contraddistingue, diventa materiale creativo perfetto da modellare a seconda delle esigenze del
narratore o del pubblico di turno.
È così che l’impatto con il meteorite può assumere i tratti, alternativamente, di un mito creazionista
o legato alla crescita dell’individuo nella società tribale ma anche, più prosaicamente, di un mito
politico che serve a legittimare l’asse di successione di una dinastia di regnanti.
In Fireball si attraversa dunque il mito della meteora ma si compie, si diceva, anche il movimento
inverso, prelevando dall’immaginario materiali che finiscono per mediare la rappresentazione di
questi studiosi cacciatori di meteore attraverso gli occhi di Herzog stesso.
Nel raccontare il lavoro di ricerca sul campo delle equipe che negli anni si sono avvicendate nello
studio dei corpi in caduta sulla Terra non è in effetti casuale che il regista effettui prelievi da spunti
e sensazioni provenienti dal suo stesso cinema, arrivando a descrivere gli studi effettuati dai
ricercatori all’interno di un cratere nell’inospitale giungla dell’America latina in maniera non
dissimile a come raccontava le imprese di Fitzcarraldo e lasciando, in un’altra occasione, che
l’incontro (a distanza) con un orso, sia ammantato dai fantasmi del Grizzly Man Timothy
Treadwell.
Forse, almeno al momento, il lavoro in costante comunicazione tra immaginario, racconto e ricerca
scientifica che Herzog coagula in Fireball rappresenta il perfetto punto d’arrivo di quella costante
ricerca in cui è impegnato il cinema del maestro tedesco e che fa capo ad una riflessione sul ruolo e
sull’impatto della natura nella nostra vita.
Con buona probabilità non esiste nulla di più affine all’idea di cinema di Herzog come un meteorite,
perfetta sintesi tra armonia e distruzione, capace di mandare in mille pezzi i mondi e di ospitare i
semi da cui può germinare nuova vita dopo la catastrofe, concretizzazione ideale di una natura
brutale, a tratti indifferenti ma al contempo meravigliosa come quella di volta in volta mediata
dall’occhio del regista tedesco.

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