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Roubaix Commissariat Central è un documentario che il regista Mosco Levi Boucault ha curato nel

2007 e che cattura con grande intelligenza la difficile quotidianità delle forze dell’ordine di
Roubaix, piccola cittadina nel nord della Francia un tempo fiorente polo industriale ora considerata
una sorta di pecora nera dell’enclave di Lille, prigioniera di piccola delinquenza, apatia, mancanza
di prospettive e vita alla giornata.
Nel confrontarsi con il progetto di Boucault vengono in mente le pagine che David Simon ha
dedicato al sottobosco criminale di Baltimora durante la sua carriera di reporter, poi confluite nel
suo lavoro su The Wire e dopotutto è comprensibilissimo: siamo in fondo nel bel mezzo di quegli
anni ’00 che sono stati centrali per il ritorno in auge di un vero e proprio interesse per l’indagine del
reale e non è un caso che oltre ad accogliere proprio The Wire siano stati gli stessi anni degli esordi
di intellettuali e autori come Alex Gibney, dei nostrani D’Anolfi e Parenti, del grande ritorno di
Errol Morris, dell’Adversaire di Carrere.
Arnaud Desplechin a Roubaix ci è nato e attraverso il suo cinema ha sfiorato più volte la sua città
Natale ma sembra che solo attraverso il suo ultimo progetto, Roubaix, une lumière, noir presentato a
Cannes 2019 e in sala da noi dal 1 Ottobre, abbia deciso di entrare davvero in contatto con l’anima
profonda della sua cittadina d’origine e di affrontarla in tutta la sua complessità. Per farlo, parte
proprio dal progetto documentario di Boucault e organizza un thriller che colpisce proprio per il
modo in cui dialoga e gioca costantemente con le due istanze che lo innervano, con l’approccio
documentaristico e la lettura sociologica dell’humus della cittadina da un lato e la macchina del
cinema, dello spettacolo puro, con l’emotività, dall’altra, con la realtà e la sua mediazione attraverso
gli elementi riccorenti nella poetica di Desplechin.
L’immagine da cui scaturisce Roubaix, Une Lumière è dunque volutamente e straordinariamente
malferma, fragile, intrappolata in un limbo tra due contesti espressivi e stilistici agli antipodi da cui
preleva di volta in volta ciò che gli occorre per prendere corpo.
La solidità dell’occhio sociologico e dell’impronta documentaria, a contatto con il passo
contemplativo della narrazione, finisce per sfaldarsi e ammantare lo spazio in un’atmosfera da non
luogo mentale; i crimini di cui è puntellata la narrazione, la maggior parte dei quali già raccontati
nel documentario, emergono come dal nulla e si imprimono nel tessuto del racconto senza soluzione
di continuità, ponendo l’accento su un elemento casuale vicinissimo al teatro dell’assurdo; al
contempo è innegabile (come già notato da molti) riconoscere nella caratterizzazione del
protagonista, il sovrintendente Daoud, una eco letteraria che lo avvicina alle atmosfere del Maigret
di Simenon.
Con buona probabilità Desplechin crede che per venire a patti con le sue origini, con il suo passato,
per introiettarlo, il modo più efficace sia proprio mitigarlo, mediarlo attraverso il cinema puro, che
ne smussa i confini e le asperità e ne permette un’assimilazione priva di traumi.
Non è un caso, a questo proposito, che Roubaix, une lumière sia prima di ogni altra cosa un film sul
retaggio, sul passato individuale, sulla tradizione, sul fare i conti con le proprie origini, sullo stigma
che il contesto sociale lascia su di noi fino a influenzare il nostro destino (quasi un’apparizione
fantasmatica del naturalismo francese di Zolà). La narrazione lascia dunque lo spettatore solo a
confrontarsi con un campionario di umanità che ha scelto di fare i conti con i luoghi emozionali del
proprio passato in maniera sostanzialmente traumatica, uomini e donne che Desplechin osserva con
una sorta di Pietas classica, senza mai giudicarne con severità le azioni, attraverso lo sguardo
distaccato e razionale tipico del suo cinema, probabilmente perché vede in loro (o almeno in parte
di essi), lo stesso strappo identitario da cui si muove anche lui.
Il punto, forse, è che questo continuo dialogo tra dimensione reale e poetica cinematografica non
può non arrivare, almeno secondo i ragionamenti di Desplechin, ad una sorta di punto morto in cui
il linguaggio finisce per sclerotizzarsi e schegge dell’una e dell’altra dimensione semantica
collidono fino a generare dei risultati imprevisti e per certi versi stranianti.
In questo senso l’ultimo atto, tutto giocato sulla confessione delle due assassine e sulla ricostruzione
del delitto è particolarmente rivelatorio. In filigrana sembra in effetti di rivedere le sequenze del
dittico The Look Of Silence/The Act Of Killing di Joshua Oppenheimer, soprattutto per il modo in
cui i colpevoli di un omicidio rimettono in scena con movimenti meccanici da teatro Brechtiano
l’omicidio di cui sono accusati ma tutto ciò che rimane del sistema è una struttura zoppicante e
malferma proprio perché quella realtà evocata nella scena (“fatemi vedere come sono andate le cose
realmente” dice Dadou alle due ragazze) viene dapprima distorta dalla performance e subito dopo
apertamente fatta a pezzi dal riconoscimento di quanto nulla di quanto abbiamo visto o vedremo
avrà qualcosa a che vedere con la realtà o addirittura con la verità.
Non si cita, in fondo, il concetto di verità a caso, proprio perché, se ammettiamo che il cinema
documentario parta dal reale e dalla verità, è curioso notare quanto tutto l’ultimo atto sia giocato
sull’ambiguità della verità stessa, con le due colpevoli che si rimpallano costantemente una
ricostruzione dei fatti labilissima, pronta a crollare e rinascere dalle sue fondamenta da un momento
all’altro.
Roubaix une lumière, è dunque, prima di qualsiasi altra cosa, una pellicola che ben coglie lo spirito
dei nostri tempi, che problematizza i suoi riferimenti, che interroga lo stesso linguaggio con cui si
esprime, uno strumento utile per confrontarsi con il trauma della memoria, per mitigarlo, per
ricostruire la propria identità e per restituirle concretezza nel momento storico in cui, forse, non
potrebbe essere più labile di così.

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