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L’età della frammentazione

Introduzione: l’immagine in copertina è opera di Villemard e fa parte di una serie di


cromolitografie, dal titolo complessivo En l’an 2000, in cui s’immagina il futuro. Viene
rappresentata una classe scolastica, in cui il professore lascia cadere i libri in uno strano
macchinario, dal quale partono fili elettrici, che attraversano il soffitto e si collegano a cuffie dorate
indossate dagli studenti; il macchinario, dunque, legge a voce alta i libri. Secondo l’immaginazione
dell’illustratore, la scuola del 2000 non avrà più bisogno dei tradizionali libri cartacei ma ancora dei
suoi contenuti. L’immagine è la prima testimonianza dell’idea che siano le tecnologie a
determinare l’evoluzione sociale e a suggerire strumenti, metodologie e pratiche didattiche.
L’applicazione del determinismo tecnologico ci fa illudere che i manuali di istruzioni dei dispositivi
usati possano trasformarsi in linee guida e tecnologie. Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD)
parte invece dall’idea che le tecnologie e i contenuti digitali costituiscano una componente
essenziale della formazione, ma che la loro selezione debba essere guidata da un’idea coerente
degli obiettivi formativi 🡪 non sono le tecnologie che determinano questi obiettivi, ma gli obiettivi
devono guidare la scelta delle tecnologie.
Il testo è diviso in tre parti:
1. Le diverse tipologie di risorse, contenuti, metodologie e pratiche didattiche.
2. Il libro di testo.
3. Il ruolo del libro di testo e della lettura a scuola.
Alla base delle parti vi è lo studio del rapporto tra mediazione formativa (esercitata dai docenti
attraverso la gestione delle attività didattiche e attraverso la selezione di contenuti editoriali di
varia natura) e mediazione informativa (esercitata da chi elabora e organizza quei contenuti).

Parte I
I: Competenze, conoscenze e scuola digitale
Quando si parla di scuola digitale si uniscono due termini dotati di una portata connotativa ampia:
1. La scuola: è un’istituzione storica e sociale influenzata da concezioni filosofiche e
pedagogiche; la sua organizzazione è un riflesso del ruolo che la nostra società attribuisce
alla scuola come istituzione. Le finalità sono a loro volta complesse (formazione,
apprendimento, acquisizione di competenze, preparazione alla cittadinanza ecc...).
Importante è la discussione in ambito pedagogico del rapporto fra conoscenze e
competenze: l’idea di non fermarsi all’acquisizione di un insieme prefissato di nozioni porta
con sé una reazione nei confronti di una scuola fatta di discipline nettamente separate. Vi è
dunque l’esigenza di un aggiornamento metodologico 🡪 la scuola è rimasta indietro
rispetto all’evoluzione culturale e sociale. Non vi è però una reale contrapposizione fra
conoscenze e competenze; la costruzione di un bagaglio di conoscenze è un’operazione
complessa che richiede competenze specifiche.
2. Il digitale: di per sé, l’aggettivo digitale indica una modalità di rappresentazione
dell’informazione, basata sul codice binario per codificare testo, suoni, immagini e
programmi. L’aggettivo è diventato poi un sostantivo autonomo, il digitale.
Il riferimento a una scuola digitale rischia di far percepire il digitale come un’ideologia totalizzante;
in realtà è uno degli elementi interdipendenti di un’equazione al cui centro è il ruolo che diverse
tipologie di contenuti informativi e di strumenti per la produzione dell’informazione hanno nella
costruzione delle nostre conoscenze/competenze.

II: Il mito della granularità digitale


Si dice che il digitale sia caratterizzato da contenuti fortemente granulari, e che chi lavora
nell’ambito debba necessariamente pensare in termini di contenuti brevi e granulari. In presenza di
contenuti complessi e articolati si dovrebbe quindi procedere a operazioni di selezione e ritaglio. Di
per sé, il lavoro di analisi di risorse informativi strutturate è utile, ma il paradigma della granularità
del digitale ha un limite, se utilizzato come guida alla selezione e alla produzione di risorse di
apprendimento: il rischio di perdere di vista la dimensione di maggiore complessità e articolazione
da cui quell’analisi era partita. Tradizionalmente, la didattica ha sempre utilizzato risorse granulari
(come una tabella, un’immagine, un test) sia risorse complesse e strutturate (come il libro di testo).
La pretesa della granularità naturale del digitale sembra aver scardinato questo rapporto: le risorse
granulari non sono immediatamente collocate in un contesto di livello più alto, ma sono usate
individualmente o al massimo aggregate; ci si aspetta che l’aggregazione basti a costruire
complessità.
Ma il mondo digitale è davvero per sua natura granulare e frammentato? La prevalenza di risorse
informative brevi, granulari e frammentate non rappresenta una caratteristica essenziale
dell’ecosistema digitale, ma una caratteristica contingente di una sua fase evolutiva. Il mondo del
digitale attraversa oggi quella che è definita l’età della frammentazione, ma ciò non indica che i
contenuti digitali debbano essere sempre frammentati.
Perché nell’ecosistema digitale l’informazione granulare prevale su quella complessa e strutturata?
Per rispondere sì può fare riferimento sia alla pluralità delle forme di testuali digitale e alla grande
quantità di contenuti disponibili, sia allo scarso tempo a disposizione del lettore. Però, le
situazioni di sovrabbondanza portano a sviluppare strumenti di gestione e mediazione informativa
(come biblioteche e cataloghi), non necessariamente a sacrificare la complessità.
Un’altra considerazione avanzata per spiegare la granularità del mondo digitale è rappresentata
dalla facilità con la quale l’informazione digitale può essere articolata e scomposta. Secondo Laura
Czerniewicz, il contenuto digitale è granulare, ciò può essere rappresentato da blocchi di diverse
dimensioni, e può essere scomposto, a differenza del contenuto analogico che è consolidato.
Anche in questo caso, la possibilità della scomposizione digitale non spiega la preferenza per
contenuti brevi e granulari.
Mentre la modularità concerne la relazione fra blocchi, la granularità riguarda i costituenti di tali
blocchi. La granularità degli oggetti digitali deriva dalla loro natura in ultima analisi numerica e
dalla possibilità di risolvere le unità composte arrivando fino ai più minuti elementi che le
costituiscono.

III: Alla ricerca di Xanadu


Una delle metafore legate alla granularità del digitale è quella di Xanadu, ed è legata proprio al
paragone fra complessità e articolazione delle conoscenze gestibili attraverso strumenti digitali e la
complessità architettonica della città di Xanadu. Nella seconda metà del XIII secolo, Xanadu era la
capitale estiva del regno dell’imperatore mongolo Kublai Khan. Marco Polo, nel Milione, la descrive
come circondata da un’alta muraglia e ricca di meraviglie naturali e architettoniche. Ora il nome
Xanadu viene collegato anche all’idea di edificio di conoscenze. Viene infatti utilizzato negli anni ’80
da Ted Nelson per nominare il suo progetto di ipertesto globale, con la volontà di unificare e
organizzare la crescita tecnologica in modo da renderne più facile l’utilizzo 🡪 la Xanadu di Nelson è
spesso considerata una prefigurazione del World Wide Web, in quanto si propone di realizzare un
immenso deposito di conoscenze. È ovviamente diverso dal web 2.0, ovvero quello della
condivisione, accessibile da una pluralità di dispositivi e capace di accogliere e distribuire ogni tipo
di contenuto informativo.

IV: L’età dei cacciatori-raccoglitori


All’inizio degli anni ’90, il web non esisteva, ma Internet aveva già più di vent’anni. La rete era nata,
con il nome di ArpaNet, alla fine degli anni ’60: il primo messaggio fra i primi due nodi della rete è
stato scambiato il 29 ottobre 1969. Doveva essere la parola “login” ma il sistema andò in crash
dopo aver trasmesso “lo”. I nodi di rete che man mano si aggiunsero erano nella maggior parte dei
casi centri di ricerca civili e militari. Inizialmente, la rete veniva utilizzata per la condivisione di file e
lo scambio di messaggi di posta elettronica. Con il tempo, le istituzioni presenti in rete cercarono di
organizzare indici e cataloghi dei file offerti in rete. Nel 1983, la componente più strettamente
militare di ArpaNet, preoccupata della crescente popolarità della rete, scelse di isolarsi in una rete
autonoma, chiamata MilNet. Ciò cominciò a rendere ArpaNet Internet, che era però fortemente
elitaria. Si potrebbero paragonare i primi utenti di Internet a una delle prime forme di
organizzazione sociale, quella dei cacciatori-raccoglitori: dipendenti da risorse informative disperse
e occasionali.
Nella seconda metà degli anni ’80, molti cacciatori-raccoglitori cominciarono a utilizzare il
computer come strumento per utilizzare videogiochi, mentre gli altri ne scoprirono le possibilità
comunicative. Con un accoppiatore acustico e uno dei primi modem, si scoprì il mondo dei BBS
(bulletin board system), server amatoriali. Ogni BBS dispone di una o più linee telefoniche: l’utente
telefona ai relativi numeri usando il modem o l’accoppiatore acustico, e alla risposta del server
viene stabilito il collegamento (handshake). I file scambiati, all’epoca, erano soprattutto
programmi.
Oltre a Internet e alle reti di BBS, i cacciatori-raccoglitori della seconda metà degli anni ’80 e dei
primi anni ’90 avevano a disposizione diverse altre reti:
● Italia, 1986: nasce Itapac, una rete professionale frequentata anche da “clandestini”.
● Francia, 1982: nasce Minitel.
Ci si muoveva saltando da una rete all’altra attraverso gateway, utilizzando servizi che
permettevano di raggiungere numeri telefonici esteri.
Internet non è la somma delle reti concorrenti, ma è la rete che, assorbendo progressivamente
nodi e funzionalità delle altre, si è dimostrata più funzionale.
La crescita è stata accompagnata dalla nascita dei primi strumenti pensati per aiutare nella ricerca
e nella gestione di informazioni distribuite: i server WAIS (Wide Area Information Servers). Essi
permettevano l’indicizzazione dei documenti disponibili all’interno di una banca dati; i Gopher
permettevano di creare alberi organizzati di risorse informative in grado di integrare contenuti
provenienti da server diversi; Veronica indicizzava i menù dei Gopher server.

V: Dai primi insediamenti urbani all’età dell’artigianato e del commercio


Nel 1989, Tim Berners-Lee presenta un memo dal titolo Information Management: A proposal, con
lo scopo di dotare la comunità impegnata nella ricerca scientifica della possibilità di creare
documenti online capaci di integrare contenuti multimediali e collegati tra loro in forma
ipertestuale. Nel 1991, quest’idea porta all’apertura del primo sito web. L’idea di sito ha una
connotazione di stabilità geografica: dal nomadismo dei primi cacciatori-raccoglitori si passa a una
situazione più stabile e organizzata. Il primo servizio a larga diffusione di pagine personali degli
utenti prende proprio il nome di GeoCities e adotta la metafora degli insediamenti urbani per
differenziare siti di natura diversa (come “Atene” per le pagine dedicate all’ambito umanistico). Nei
suoi primi dieci-quindici anni, il web esistente rappresenta quello che noi conosciamo come web
1.0, in cui i siti si danno una struttura interna e si basano sul modello dello sticky site, capace di
offrire al suo interno un numero di servizi informativi sufficiente a renderlo attraente per utenti
relativamente stanziali. La tappa successiva è chiamata l’età dell’artigianato e del commercio, e
avviene col progressivo sviluppo del user generated content e dei feed. Un feed è una successione
di singoli oggetti informativi granulari, concatenati e organizzati in modo da favorirne la
circolazione da un sito all’altro; i feed, ad esempio, organizzano la successione dei nostri messaggi
di stato sui social network. La granularità è una caratteristica essenziale di questo modello di
circolazione dell’informazione; dai siti stanziali siamo passati a un modello di spazio di rete molto
più commerciale e dinamico, ma l’informazione ad oggi “virale” resta comunque breve e poco
strutturata → il web di oggi è ancora caratterizzato da forte granularità e frammentazione dei
contenuti.
Che il passaggio dalla granularità alla complessità non sia immediato è dimostrato dalla storia della
testualità scritta: la scrittura nasce dall’uso di contrassegni d’argilla (nelle situazioni di scambio e
commercio), quindi per veicolare contenuti informativi granulari, e acquista complessità solo
progressivamente → la stessa granularità è ancora presente nel mondo dell’editoria (articoli di
giornale, pubblicità, fogli volanti). In rete, però, la granularità rappresenta la quasi totalità dei
contenuti; la difficoltà di questo passaggio non è legata a caratteristiche intrinseche della codifica
digitale, ma dalle pratiche sociali e dalle tipologie di interazione.

VI: Nativi digitali?


L’espressione nativi digitali è stata introdotta nel 2001 da Marc Prensky → afferma che i nativi
digitali, ovvero la generazione nata dopo il 1985, pensano e gestiscono l’informazione in maniera
essenzialmente diversa rispetto ai loro predecessori. Questo, associato al concetto di plasticità
cerebrale (l’organizzazione dei collegamenti neurali cambia in funzione delle nostre esperienze),
porta Prensky a ritenere che i cervelli dei nativi digitali siano cambiati fisicamente. Esiste però un
problema terminologico: quando parliamo di digitale parliamo di una forma di codifica, e a usare
la codifica digitale è il computer; quindi i “nativi digitali” dovrebbero essere i computer, non i
ragazzi.
Esiste davvero una differenza antropologica fra le generazioni precedenti/successive alla
rivoluzione digitale? Tre motivi che smentiscono questa ipotesi:
1. Prensky ricorda che i bambini passano molto più tempo davanti a un videogioco, e molto
meno tempo a leggere; in realtà, i ragazzi di oggi leggono di più. Inoltre, questa
considerazione era già stata fatta negli anni ‘60 con il boom della televisione.
2. L’idea di plasticità cerebrale è data da un fraintendimento dei dati che vengono dalle
neuroscienze: la plasticità è semplicemente maggiore da giovani, ma in ogni ambito, non
solo nel digitale.
3. Quale sarebbe la generazione dei nativi digitali? Prensky ne parlava nel 2001, quando
ancora non esistevano tablet o smartphone. A cambiare nel tempo non è il nostro cervello,
ma l’ambiente con cui interagiamo, e ciò porta a nuove abitudini e a nuovi bisogni.

VII: Live in fragments no longer


L’ecosistema comunicativo all’interno del quale si muovono gli studenti di oggi è effettivamente
diverso da quello del passato. L’informazione viene prodotta da una pluralità di soggetti, integra
codici comunicativi diversi ed è dunque multicodicale, interattiva e on-demand (può essere
selezionata e modificata in dipendenza dal contesto e dalla volontà dell’utente). I nuovi studenti
sono però poco bravi a reperire, valutare e gestire informazione complessa e strutturata. In
passato, la complessità da gestire era prevalentemente testuale; oggi è la natura stessa
dell’informazione a essere cambiata: essa è ora spesso composta da messaggi brevi e granulari.
All’idea di selezione a scelta volontaria di contenuti articolati (libri, film, dischi), si sostituisce
l’impressione che sia l’informazione stessa a inseguirci. Le interconnessioni, in forma di link, sono
diversificate e ci consentono una fruizione non pienamente controllata e spesso casuale. La
situazione non è solo negativa: la varietà delle risorse rappresenta un arricchimento; tuttavia
occorre riconoscere che questa situazione pone al sistema formativo il compito di gestire la
frammentazione dell’informazione e di elaborarla e di utilizzare i contenuti molecolari per costruire
strutture informative via via più complesse. Il problema non risiede nel fatto che non si possa
produrre informazione complessa e strutturata anche in digitale; il problema centrale è che la
produzione di informazione multicodicale e interattiva complessa e strutturata richiede
competenze non banali. La scuola deve dare agli studenti gli strumenti necessari per affrontare la
sfida rappresentata dalla riconquista digitale della complessità. Douglas Engelbart, uno dei padri
fondatori dell’universo della comunicazione digitale, vedeva le realizzazioni dell’informatica come
strumenti di human augmentation, di potenziamento delle nostre capacità conoscitive e di
apprendimento. Perché sia effettivamente così, è essenziale che il web della complessità prevalga
sul web del frammento.

VIII: Grande è il disordine sotto il cielo


Le istituzioni scolastiche sono ancora ferme a un uso occasionale e primitivo del digitale; a essere
rimasta indietro non è solo la scuola, ma anche la qualità del dibattito pubblico su istruzione e
formazione. Anche a livello istituzionale, la riflessione sui nuovi bisogni formativi e didattici è a sua
volta frammentata, e concentrata unicamente su singole tecnologie (come la LIM). Il Piano
Nazionale Scuola Digitale rappresenta uno dei primi interventi che parte dall’individuazione dei
nuovi bisogni formativi e dal lavoro sulle competenze, sulle metodologie e sulle infrastrutture
anziché su singole tecnologie. L’incontro fra le forme tradizionali della didattica e il mondo dei
contenuti e degli strumenti digitali rappresenta per la scuola un passaggio difficile, sia perché i
tempi di reazione della scuola italiana sono lenti, sia perché l’evoluzione del mondo digitale è
invece rapidissima. Si parla troppo spesso di strumenti innovativi ma ancora legati alla didattica
trasmissiva tradizionale, mentre bisognerebbe ripartire dalla questione prioritaria: quella degli
obiettivi. Il necessario obiettivo trasversale è quello di dare allo studente le competenze
necessarie a produrre, selezionare e utilizzare informazione complessa.

IX: Contenuti di apprendimento


Le risorse di apprendimento sono tutti i contenuti, gli strumenti, gli agenti e le condizioni che
contribuiscono a rendere possibile e a strutturare un processo di apprendimento, sia esso formale
o informale, interno o esterno al contesto scolastico. Non possono invece essere considerati come
risorse di apprendimento in senso stretto i presupposti metodologici e operativi adottati. Con
contenuti di apprendimento si intende il sottoinsieme di risorse costituito dai contenuti
informativi e documentali utili all’acquisizione delle conoscenze e delle competenze che
costituiscono l’obiettivo del processo di apprendimento. Possono essere distinti in base a diversi
criteri:
● Natura: possono essere testuali, visivi, sonori.
● Formato: la scelta fra formati alternativi si pone anche rispetto a contenuti della stessa
natura. Nella scelta va considerata anche l’esigenza della massima interoperabilità, che
porta oggi a preferire spesso i formati legati al web.
● Organizzazione dei contenuti: può essere lineare o ipertestuale; la seconda struttura
implica un certo livello di interattività legata alla navigazione.
● Grado di copertura curricolare: si va da approfondimenti su singoli temi a contenuti che
garantiscono una copertura curricolare completa (come i libri di testo).
● Modalità di produzione: può esserci un processo di produzione editoriale professionale,
oppure il contenuto può essere prodotto da docenti e studenti.
● Requisiti: possono essere utilizzati hardware e software diversi; i contenuti di
apprendimento digitali erano tradizionalmente distinti in base alla loro autosufficienza
(risorse stand alone) o dipendenza da un collegamento di rete.
● Accessibilità: i contenuti di apprendimento sono più o meno accessibili in funzione della
possibilità o meno di utilizzarli da parte di persone disabili o con bisogni educativi speciali.
E’ importante anche l’accessibilità linguistica e culturale.
● Fruibilità: i contenuti di apprendimento sono più o meno fruibili in funzione della natura e
dei costi non solo dei contenuti stessi ma anche dell’hardware, dei software e delle
infrastrutture necessari a utilizzarli.
● Regime di copyright: in ambito educativo, le risorse realmente aperte dovrebbero
prevedere non solo il libero riuso ma anche la possibilità di modificare i contenuti.
● Forma di validazione: una validazione di processo dovrà includere l’attenzione verso il
rispetto delle licenze sui contenuti utilizzati; la validazione scientifica dovrà essere prevista
sia all’interno del processo di produzione sia alla sua conclusione. Il presupposto è la
trasparenza.

X: Facciamo da soli? L’autoproduzione dei contenuti


In merito all’autoproduzione esiste un riferimento normativo, ovvero l’art. 6 legge 128/8.11.2013.
Questo articolo prevede che possano essere autoprodotti sia materiali utilizzabili con funzione di
libri di testo sia altre tipologie di strumenti didattici disciplinari, e prevede che il relativo lavoro di
elaborazione possa avvenire in forma individuale o collaborativa. L’articolo sembra specificare che
il lavoro di produzione di questi contenuti debba essere svolto in orario curricolare, validato da un
docente supervisore e inviato al ministero che dovrebbe metterlo a disposizione di tutte le scuole. I
problemi di quest’articolo:
● La professionalità docente non include necessariamente competenze editoriali e
redazionali.
● Non si comprende se il docente supervisore debba essere lo stesso che coordina la
produzione del contenuto o un docente terzo.
● Non si comprende attraverso quali piattaforme e metodologie il ministero debba
raccogliere e redistribuire questi contenuti, se e quali procedure debbano essere previste
per una validazione, chi sia il titolare della responsabilità e dei diritti d’autore.
● La norma è collocata in un articolo dedicato al contenimento dei costi. Pensare che dei libri
di testo digitali di qualità possano costare poco è illusorio..
La questione è stata affrontata anche nell’azione 23 del Piano Nazionale Scuola Digitale. Qui si
afferma la necessità di fornire alle scuole una guida che distingua le varie tipologie di risorse
digitali disponibili e che permetta di identificare processi differenti a seconda che si tratti di risorse
a copertura curricolare o di natura integrativa.
Per quanto riguarda la produzione di contenuti di qualità a copertura curricolare, è necessario
l’intero spettro di conoscenze messo in campo dall’editoria scolastica commerciale. Per quanto
riguarda le risorse granulari e integrative, l’autoproduzione di contenuti è una pratica ricca di
valore formativo, perché permette di affrontare su scala più facilmente gestibile alcuni dei
problemi legati all’incontro fra editoria digitale e mondo della scuola.

XI: Ambienti di apprendimento


Pur essendo realtà diverse, i sistemi formativi di Finlandia e Singapore sembrano essere entrambi
molto efficaci → in entrambi i casi, gli studenti dichiarano di studiare volentieri. Questo perché
intorno ad ambienti fisici belli, funzionali e ricchi di servizi si sviluppano più facilmente ambienti
relazionali altrettanto soddisfacenti. Ciò è ovviamente legato a un impegno economico sostanzioso
da parte dello stato; ma questo impegno economico funziona perché è bene indirizzato. Le nostre
scuole sono tradizionalmente organizzate intorno a spazi fisici di apprendimento spesso poco e
male curati, e per lo più centrati sulle aule di classe standardizzate, a cui si affiancano due o tre
spazi laboratoriali, una palestra e un’aula docenti. Una “bella” scuola prevede invece una pluralità
di luoghi: le aule non dovrebbero essere necessariamente solo legate alle classi, ma comunque
vivaci e funzionali. Dovrebbero esistere spazi destinati a lettura e attivina lean back (rilassati
all’indietro), spazi per lo studio in piccoli gruppi, spazi laboratoriali, spazi sportivi e ricreativi, spazi
di ristoro e spazi esterni al verde.

XII: Dagli ambienti fisici a quelli digitali e misti


L’aula informatica replica spesso l’organizzazione di una tradizionale aula di classe, col modello
della lezione frontale. Questo setting funziona per alcuni scopi (come la somministrazione di test),
ma molto spesso quest’organizzazione diventa poco funzionale. Sarebbe meglio avere postazioni
differenziate per funzioni e dotazioni. Molto spesso, questa situazione viene riproposta nelle aule
con la LIM o con computer, collocati sempre nello stesso posto per suggerire una lezione frontale.
Considerazioni analoghe si possono fare per gli spazi virtuali delle piattaforme online → il loro
allestimento deve essere guidato anche dalla necessità di rendere il più possibile piacevoli e
funzionali tutti gli aspetti dell’esperienza di apprendimento. Il concetto di ambiente di
apprendimento non si applica solo alla piattaforma in sé, ma anche al modo in cui essa viene
utilizzata, personalizzata, integrata all’interno di attività che prevedono spesso anche una
interazione in presenza. Provando a riassumere, l’espressione ambiente di apprendimento
corrisponde all’organizzazione complessiva degli spazi fisici, virtuali e relazionali nei quali
l’apprendimento ha luogo. L’organizzazione dovrebbe essere funzionale, piacevole e amichevole.

XIII: Flipped classroom: capovolgere senza frammentare


Nella didattica tradizionale, l’insegnante spiega o espone, e gli studenti fanno i compiti e studiano
a casa, su appunti e libro di testo. Nella didattica capovolta, gli studenti si preparano prima sui temi
della lezione (che potranno poi essere ripresi e approfonditi in classe attraverso discussioni, attività
guidate ed esercizi. Le attività svolte in classe rafforzano il carattere collaborativo e costruttivo
dell’apprendimento. Elemento centrale della metodologia è l’effettivo impegno degli studenti nella
preparazione sui contenuti distribuiti prima delle attività in classe, e il ricorso a contenuti online.
Esistono però, nell’applicazione concreta di questa metodologia, alcune criticità, spesso legate alla
natura troppo spesso frammentata e occasionale dei contenuti integrativi utilizzati. Il tradizionale
studio a casa offre allo studente dei punti di riferimento sicuri: gli argomenti sono inquadrati nel
contesto lineare e ben definito offerto dal libro di testo; il risultato è una preparazione fortemente
passiva e mnemonica ma organica e coerente. Anche le pratiche didattiche “vive” del passato
prevedevano un lavoro molto più attivo e collaborativo: i medievali, ad esempio, affiancavano a
forme di studio ripetitive e mnemoniche un’enorme attenzione alla messa in opera delle
competenze acquisite, come la pratica della disputatio.
Elemento ricorrente di criticità di molte pratiche didattiche legate all’uso di contenuti digitali è la
diffusa percezione di un’eccessiva varietà di stili, finalità e strumenti accompagnata dalla
prevalenza di contenuti granulari. Nel caso della flipped classroom, molte fra queste criticità sono
legate proprio al carattere troppo spesso totalmente eterogeneo e a volte occasionale dei
contenuti che sostituiscono la tradizionale lezione frontale. La diversità è certo un valore ma
richiede anche la capacità di non fermarsi alla contrapposizione di posizioni diverse e di garantire
integrazione, negoziazione e costruzione di un contesto di riferimento comune e condiviso. Tutto il
peso di questa costruzione non può ricadere solo sugli interventi del docente: il quadro di
riferimento deve essere previsto e progettato, a disposizione dello studente e costruito con
consapevolezza e attenzione. In altri termini, la flipped classroom è un’eccellente metodologia
didattica a condizione che le risorse sulle quali gli studenti si dovrebbero preparare non siano
scelte in maniera estemporanea ma siano integrate all’interno di un progetto didattico costruito
con competenza.

XIV: Riuso della didattica: il courseware


Fino a poco tempo fa, il modello prevalente nel campo dei contenuti di apprendimento digitali era
rappresentato dai learning object, oggetti di apprendimento modulari caratterizzati da obiettivi
formativi specifici, organizzati in forma di “pacchetto”. Ai learning object si sono ben presto
sostituite risorse di apprendimento varie e diversificate. I contenuti ad oggi utilizzati (come video
YouTube, voci di Wikipedia, dispense) sono contestualizzati e collegati fra loro da due tipologie di
strumenti: da un lato da contenuti strutturati e curricolari (libro di testo), dall’altro dalle lezioni del
docente. L’idea di affidare alle lezioni una funzione di raccordo e contestualizzazione delle attività
formative e dei contenuti di apprendimento utilizzati deve fare i conti con il fatto che esse sono
sottratte a ogni forma di conservazione e riuso. Questo forte ancoramento al contesto di
produzione si allontana dal paradigma di autoconsistenza dei learning object, ma la diffusione di
strumenti specifici di community può anche suggerire che una componente di personalizzazione e
contestualizzazione dei contenuti di apprendimenti in molti casi possa rappresentare un vantaggio,
anche motivazionale. Il Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha creato uno dei primi
esempi di distribuzione di un open courseware.
Il termine courseware fa riferimento all’insieme di risorse e contenuti usati e/o prodotti
nell’ambito di un corso e che ne testimoniano lo svolgimento: le lezioni del docente, il programma
del corso, le dispense, le presentazioni video usate. Il courseware diventa open courseware nel
momento in cui viene raccolto e messo a disposizione in rete in forma libera e gratuita.
Accortezze da utilizzare nell’organizzazione del courseware:
● Una lezione registrata non è autosufficiente: deve essere accompagnata da una breve
descrizione e da tutti i materiali utilizzati.
● Una lezione registrata è più faticosa da seguire di una lezione in presenza, per questo è
bene spezzare in unità più brevi le lezioni tradizionali. L’organicità è garantita a livello di
strutturazione complessiva del courseware.
● E’ bene ridurre al minimo i riferimenti alla situazione contingente di registrazione.
● E’ possibile coinvolgere gli studenti nel processo di registrazione e nella registrazione stessa
previa autorizzazione scritta.
● Per il docente, riguardare la lezione può essere traumatico, ma ciò gli permette anche di
analizzare il proprio stile di lezione e di imparare dagli errori.

XV: Smartphone in classe? Il BYOD e i suoi problemi


BYOD abbrevia l’espressione inglese Bring Your Own Device. Ciò non significa che la scuola non
debba disporre di strumenti tecnologici, anzi, il modello BYOD presuppone la disponibilità di
alcune dotazioni tecnologiche (un buon collegamento a internet, ad esempio). Il dibattito pubblico
si è concentrato su un singolo aspetto: l’uso dello smartphone in classe. In realtà il modello non si
riferisce solo allo smartphone e, soprattutto, quando prevede la possibilità di utilizzare per alcune
attività anche dispositivi personali non si immagina affatto una situazione in cui ogni studente è
abbandonato a se stesso. Al contrario, i dispositivi vengono utilizzati come strumento di
partecipazione a un lavoro comune, ben definito e coordinato dal docente.
Ci sono, ovviamente, alcune criticità: l’adozione del modello BYOD attribuisce alla scuola una
responsabilità, sia pure indiretta, anche sui dispositivi di proprietà degli studenti. Perché, allora, il
modello viene adottato sempre più spesso? Per un problema di costi: in una situazione ideale, ogni
studente dovrebbe avere a disposizione all’interno dell’ambiente di apprendimento una dotazione
rispettabile. La formazione richiede ambienti attrezzati e differenziati, e ciò pone il problema di
una negoziazione implicita su quali dotazioni debbano essere fornite dalla scuola e quali debbano
essere invece pagate individualmente. L’idea dell’istruzione gratuita e obbligatoria suggerisce che
debba essere lo stato a farsi carico di tutte queste spese; d’altro canto, i costi economici crescenti
rappresentati da ambienti di apprendimento funzionali e ben forniti sono in contrasto con la
limitata disponibilità economica garantita alle scuole dall’investimento dello stato nell’istruzione.
Dal punto di vista delle indicazioni ministeriali, l’apertura al BYOD è esplicitamente prevista
dall’azione 6 del Piano Nazionale Scuola Digitale: non si tratta di una semplice raccomandazione
ma di una indicazione netta, che però non implica che questi dispositivi debbano essere utilizzati in
qualunque attività didattica.
Problemi del BYOD:
● Il principale è quello di assicurare una ragionevole uniformità negli strumenti a disposizione
degli studenti, evitando disparità; ciò può essere anche un’occasione per riflettere su
queste disuguaglianze. E’ indispensabile una ricognizione preventiva della situazione, che
assicuri la necessaria privacy, così da poter mettere in atto politiche compensative.
● Il problema della sicurezza dei dispositivi e della rete wireless.
E’ necessario che ci sia un lavoro specifico di riflessione e progettazione delle modalità concrete di
implementazione del modello BYOD, che dovrebbe portare a un documento di policy, che richiede
negoziazione, definizione di ruoli e competenze, indicazioni chiare e trasparenti sulle risorse.
La maggior parte delle esperienze BYOD adotta fra due possibili strategie: l’uso di un ambiente
software specificamente pensato per il BYOD, o l’uso di siti e applicazioni web. Per quanto riguarda
la prima soluzione, si tratta di una sorta di ambiente software specifico, che garantisce anche
l’indipendenza del lavoro fatto in ambito scolastico rispetto agli altri contenuti personali
dell’utente.

Parte 2
XVI: I libri di testo servono ancora?
Le principali tipologie di critiche mosse all'idea di libro di testo:
1. Negli anni '60/'70 è stato criticato per la sua funzione di voce unica e strumento di
trasmissione dell'ideologia dominante.
2. In parte legate al primo punto sono le critiche mosse alla qualità del libro di testo: i
frequenti errori mostrano i rischi dell'affidarsi a un singolo libro.
3. Il tentativo di rispondere a queste critiche ha portato a testi più ricchi e articolati ma troppo
dispersivi e costosi.
4. Più recentemente, si è sostenuto che il libro di testo rappresenti una dannosa limitazione
alla libertà di scelta del docente.
5. In parte legate al quarto punto sono le critiche al libro di testo tradizionale che ne
contestano la natura prevalentemente testuale e lineare, incapace di raccogliere le
opportunità della multicodicalità digitale.
Vi sono poi altri aspetti ampiamente dibattuti, legati a questione di politica editoriale (come le
politiche dei prezzi e la tendenza a pubblicare sempre nuove edizioni). Importante è anche la
discussione sulla possibilità di realizzare libri di testo al di fuori del mercato editoriale tradizionale,
attraverso progetti coordinati da docenti come Book in Progress.
XII: I libri di testo che non vogliamo: L'età della contestazione
La difficoltà nell'affrontare storicamente e criticamente l'evoluzione del settore dell'editoria
scolastica italiana è legata al fatto che la letteratura su questo tema è da tempo scissa in due filoni
fra loro poco comunicanti: quello storico-editoriale e quello più strettamente pedagogico.
Già nel primo '900 il ruolo del libro di testo è stato discusso dalla pedagogia; il tema è stato poi
ripreso negli anni '60 anche come conseguenza della scolarizzazione di massa, dello sviluppo
industriale del settore editoriale e della riflessione sulla riforma della scuola. L'influsso convergente
convergente questi tre fattori ha portato da un lato a un notevole sviluppo del mercato
dell'editoria scolastica, dall'altro a una presa di coscienza pedagogica della delicatezza del loro
ruolo.
A livello internazionale, già subito dopo la seconda guerra mondiale diverse voci avevano
sottolineato l'esigenza di allontanare i libri di testo dai modelli ideologico-propagandistici del
periodo bellico. È stato pubblicato anche un Handbook nel 1949 dall'UNESCO, in cui viene offerta
una sintesi storica nella ricostruzione dei tentativi di ripensare i libri come strumenti capaci di
favorire la comprensione internazionale anziché come veicoli di trasmissione di valori
nazionalistico-identitari.
Le prime riflessioni critiche sviluppate nel corso degli anni '60 portano a mettere in discussione in
forma radicale l'idea del libro di testo come veicolo di trasmissione del sapere e i modelli di sapere
dominanti. La tendenza si accentua dopo la pubblicazione di Lettera a una professoressa 1967 da
parte di Don Milani, che critica esplicitamente sia il linguaggio dei libri di testo sia la loro
impostazione.
La critica è portata avanti in molte forme: pratiche didattiche alternative e i cosiddetti "stupidari",
raccolte di passi che rivelano il basso livello culturale di molti fra i libri di testo più diffusi
dell'epoca. → il modello dello stupidario è alla base anche de I pampini bugiardi di Marisa Bonazzi
e Umberto Eco.
Alla critica del contenuto si aggiunge anche una critica radicale all'idea stessa di manuale come
sintesi disciplinare; le due dimensioni si incontrano nel lavoro del Movimento di Cooperazione
Educativa → gli insegnanti del MCE sperimentano pratiche alternative come giornalini di classe,
autoproduzione di contenuti ed esperimenti sul campo. Quest'idea non comporta un totale rifiuto
del libro di testo, semmai l'idea che occorra utilizzare più libri al posto di un singolo manuale.

XVIII: Le conseguenze della contestazione: i libri di testo documentali e post-ideologici


A partire dal 1971 gli insegnanti vicini al MCE organizzano le cosiddette adozioni alternative e,
anche se lentamente, dal punto di vista legislativo ci sono dei cambiamenti: prima il decreto
delegato 419 del 1974, poi la legge 517 del 4 agosto 1977 riconoscono l'adozione alternativa nella
scuola primaria. L'estensione di questa possibilità all'intero percorso scolastico passa poi per una
serie di altre tappe e giungono alla legge 128 del 2013. Le adozioni alternative rimangono però una
minoranza.
Gli editori percepiscono che l'età del libro di testo come strumento per la trasmissione dei valori e
delle ideologie dominanti è finita. Del resto il panorama dell'editoria scolastica, già negli anni
'70/'80, vede una salda presenza di autori e case editrice lontani dai modelli del passato. Per
questo è necessaria la realizzazione di una nuova generazione di libri di testo, in cui assumono un
ruolo centrale la funzione di riferimento e la rappresentazione di voci eterogenee.
Questa evoluzione non interessa solo l'Italia. Alain Choppin distingue, per quanto riguarda
l'evoluzione dei libri scolastici in Francia, tre periodi:
1. Il primato della funzione ideologica (1793-1875)
2. Lo sviluppo della funzione strumentale (1875-1970) in cui viene progressivamente garantita
la libertà di scelta
3. L'affermazione della funzione documentale (dopo il 1970)
Il primato della funzione ideologica si protrae in Italia più a lungo, almeno fino alla caduta del
regime fascista ma in parte anche dopo, fino alla metà degli anni '60. Lo sviluppo della funzione
strumentale si ha tra la metà degli anni '60 e la metà degli anni '70.
Tuttavia, il tentativo di risolvere alcuni dei problemi del passato apre problemi nuovi, come la
progressiva elefantiasi dei manuali, che divengono raccolte di materiali a disposizione del docente:
materiali che lo studente finirà per usare solo parzialmente e in maniera frammentata. Questa
funzione antologica, legata all'offerta dei contenuti integrativi (destinato al docente), deve essere
distinta da quella del filo conduttore curricolare (destinato al discente). Il libro di testo finisce per
diventare uno strumento di reference, in cui l'obiettivo di copertura curricolare si trasforma in uno
sforzo enciclopedico. La competizione di mercato fra manuali diversi finisce così per spostarsi sulla
quantità dell'offerta: il manuale ideale non è quello meglio organizzato, ma quello che soddisfa
ogni docente, offrendo a ciascuno la possibilità di ritagliare i propri contenuti. Il digitale è così
usato più come valvola di sfogo per l'elefantiasi dei testi che come occasione per modificare la
struttura stessa del manuale.
Va notato che la spinta verso il rifiuto del libro di testo unico era venuta soprattutto dalla scuola
primaria, in anni in cui l'accesso all'istruzione secondaria era ancora abbastanza limitato (l'obbligo
scolastico fino ai 14 anni era stato inefficace); è chiaro però che il ruolo del libro di testo cambia
quando si passa al maggiore approfondimento disciplinare che caratterizza l'istruzione secondaria.
Nel contempo, l'istruzione di massa aumenta non solo il numero degli studenti ma anche quello
dei docenti: la docenza di massa diventa un problema a causa delle politiche di formazione deboli
dei docenti.

XIX: A cosa servono i libri di testo?


Roberto Maragliano ha osservato come termini come "manuale" "libro di testo" "sussidiario"
rimandano ad aree semantiche differenti. Sembra difficile sottrarre il libro scolastico all'intento di
presentare un oggetto autonomamente portatore di garanzie. Molto si definisce su questa
autonomia: la garanzia che offre consiste nel presentarsi come un sistema autosufficiente →
questa caratteristica viene anche chiamata chiusura.
Le caratteristiche fondamentali che hanno segnato in passato l'uso del libro come strumento di
apprendimento:
1. Il libro di testo permette un'organizzazione articolata e fortemente strutturata dei
contenuti, di norma risultato di una valutazione specifica.
2. Il libro di testo fornisce un punto di riferimento canonico e curricolare e garantisce un
collegamento tra i programmi ufficiali e la loro applicazione in classe, così da garantire
l'esistenza di standard comuni fra istituzioni scolastiche diverse.
3. Il libro di testo garantisce di norma un alto livello di cura autoriale ed editoriale.
4. Il libro di testo costituisce una risorsa di apprendimento almeno in parte indipendente che
è sempre a disposizione del discente ed è riutilizzabile.
5. Grazie alla sua articolazione strutturata e alla copertura curricolare, aiuta la
memorizzazione e consente di tornare su un passaggio.
6. Il suo carattere di prodotto editoriale organico e pubblicamente disponibile facilita la
validazione e il controllo qualitativo dei contenuti.
7. La riconoscibilità dell'autore e il meccanismo pubblico di validazione lo dota di una certa
autorevolezza.
Maria Teresa di Palma ha dedicato al tema del passaggio dai manuali cartacei a quelli online la sua
tesi di dottorato, e ha riportato la definizione di libro di testo fornita nel Dizionario della Lingua
Italiana 1869 di Tommaseo e Bellini: libro che serve nelle scuole, per aiuto agli scolari; o, piuttosto,
soccorso all'ignoranza e all'imperizia de' maestri.
Pur se costruita per affiancarsi al lavoro del docente, la voce del libro porta una propria
prospettiva. In Italia siamo abituati a libri libri testo che uniscono quattro funzioni che sarebbe
probabilmente meglio affidare a quattro strumenti distinti:
1. Quella di filo conduttore.
2. Quella di riferimento e di supporto per il lavoro didattico del docente.
3. Quella di raccolta antologica di materiali di corredo.
4. Quella di raccolta di esercizi.
Il digitale potrebbe essere una occasione per distinguere meglio queste quattro diverse funzioni.
Il libro di testo come risorsa di apprendimento unica e privilegiata rischia di sfociare in
autoritarismo. Il suo carattere unilaterale contraddice sia il carattere plurale e liquido delle
conoscenze, sia le molte diversità presenti dal lato dei discenti.
La strada migliore sembra essere quella di costruire, nel mondo delle risorse di apprendimento
digitali, un efficace equilibrio fra risorse curricolari (punti di riferimento sicuri) e risorse integrative,
che permettono la personalizzazione dei contenuti di apprendimento.

XX: Libri di testo e digitale: le posizioni in campo


Non è necessario rinunciare all'impiego didattico dei libri di testo, semmai bisogna studiare le
forme per realizzare la migliore integrazione possibile questi e le risorse complementari → ad oggi,
l'ecosistema digitale è il luogo in cui lavorare per realizzare questa integrazione. Il decreto
ministeriale 781/27 settembre 2013 include considerazioni che vanno in questa direzione. Viene
affermato che, in quanto strumento di apprendimento, il libro di testo ha tre funzioni principali
interconnesse:
1. Offrire al lavoro didattico un percorso di riferimento, per garantire uniformità.
2. Offrire una esposizione autorevole ed efficace dei contenuti previsti dalle indicazioni
nazionali.
3. Utilizzare al meglio la caratteristica fondamentale della forma libro: la capacità di
organizzare contenuti complessi in un percorso narrativo autorevole e organico.
Queste caratteristiche restano proprie del libro di testo anche nella sua versione digitale. Il libro di
testo digitale dovrà rappresentare una griglia di riferimento alla quale collegare i contenuti digitali
integrativi utilizzati. Importante è anche la natura dei contenuti di apprendimento integrativi,
ovvero risorse di natura eterogenea selezionate di volta in volta dal docente o individuate
collaborativamente; corrispondono di norma a risorse di apprendimento molecolari, altamente
personalizzabili. Un ruolo particolare hanno le risorse educative aperte (Open Educational
Resources - OER). Fra le caratteristiche più diffuse dei contenuti digitali integrativi ci sono, oltre alla
modularità, la riutilizzabilità e la capacità di favorire l'interazione collaborativa.
Poche settimane dopo l'emanazione del decreto, per iniziativa di Maria Chiara Carrozza (ministra
dell'Istruzione), si è aperto un dibattito alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Le posizioni in
campo sono state quattro:
1. C'è chi ritiene che la moltiplicazione delle risorse di apprendimento disponibili in rete renda
superato il concetto stesso di libro di testo in quanto non servono libri di testo canonici
(non c'è più un canone da trasmettere). Viene proposta la sostituzione degli strumenti di
apprendimento organizzati in forma tradizionale con strumenti per l'aggregazione
personalizzata di risorse granulari ricavate dalla rete. → questa tesi propone una versione
dispersiva della didattica digitale
2. C'è chi sostiene che servano risorse di riferimento complesse, ma che la loro realizzazione
debba avvenire in maniera collaborativa direttamente ad opera dei docenti. L'idea è quella
di costruire nuove risorse canoniche a partire da contenuti autoprodotti o reperiti in rete.
→ solo possibile nel caso di contenuti integrativi
3. C'è chi ritiene che l'esigenza di disporre nel lavoro didattico di risorse di riferimento
complesse non venga meno con la moltiplicazione delle prospettive resa possibile dalla
rete, ma che anzi risulti accresciuta. È necessario quindi costruire dei libri di testo digitali
così da evitare la dispersione legata all'enorme quantità di risorse disponibili in rete. → tesi
migliore secondo l'autore
4. C'è infine chi ritiene che il digitale sia troppo giovane per costruire il supporto principale dei
libri di testo. È un fronte conservatore variegato, dove vi sono anche posizioni sfumate. Un
esempio è quello di Roberto casati, secondo cui l'ambiente cartaceo presenti vantaggi
cognitivi notevoli, legati alla maggiore concentrazione e al miglioramento uso di attenzione
e memoria rispetto all'ambiente multimediale, non negando però la possibile utilità di altre
tipologie di risorse digitali per l'apprendimento. → trae forza dagli scarsi progressi
dell'editoria digitale e dal suo scarso uso da parte dei docenti
L'ultima tesi merita attenzione in quanto sottolinea l'importanza del design delle situazioni di
apprendimento: la ricchezza dei contenuti non basta, serve anche un'attenzione specifica verso il
modo in cui questi contenuti vengono proposti.
Quali sono i problemi dell'editoria scolastica?
● Difficoltà politiche
● Resistenze culturali
● Problemi infrastrutturali e tecnologici
L'editoria scolastica tende anche a proteggere quello che sembra un mercato garantito, e teme le
innovazioni che possono alterare gli equilibri.

XXI: Libri di testo e digitale: le potenzialità


Il digitale rappresenta un'occasione importante per una sorta di superamento dialettico (di
Aufhebung) della mera contrapposizione fra sostenitori e avversari del libro di testo. Il punto non è
chiedersi se sia o meno necessario un cambiamento nell'organizzazione dei contenuti di
apprendimento, ma è piuttosto chiedersi in quale direzione il cambiamento debba essere
indirizzato. I nuovi libri di testo dovrebbero conservare la capacità di rappresentare un luogo della
complessità, senza ridursi a una successione di schede e box autosufficienti. La forma-libro è
caratterizzata da questa capacità di organizzare e strutturare contenuti complessi, per questo la
scuola non può farne a meno. Il libro di testo non è affidato alla forza esclusiva della testualità
scritta, comprende grafici, schemi, immagini: sono utilizzati codici diversi, quindi si tratterebbe di
allargare i codici comunicativi utilizzati, conservando l'unitarietà dell'impianto complessivo.
Il libro di testo dovrebbe trasformarsi in uno strumento orientato molto più alla narrazione e alla
motivazione che all'accumulazione di contenuti espositivi, capace di rivolgersi direttamente allo
studente. Uno strumento inoltre non più solo cartaceo, capace di sfruttare le potenzialità del
digitale, soprattutto per quanto riguarda la costruzione di reti di riferimenti esterni non dispersivi,
pertinenti e semanticamente organizzati, e l'integrazione di strumenti efficaci per la visualizzazione
dei dati.
Potrebbe essere utile una sperimentazione collaborativa portata avanti congiuntamente da più
case editrici e dal mondo della scuola, ed essa potrebbe anche riguardare il tema dei modelli di
distribuzione e di licenza. La totale riproducibilità dei contenuti digitali pone infatti problemi di
tutela dei diritti d'autore e di copia, ma offre anche opportunità per la diffusione aperta e libera.

XXII: Le piattaforme di fruizione


Un aspetto spesso ignorato è quello delle piattaforme di fruizione, cioè del software attraverso il
quale libri e contenuti digitali dovrebbero essere letti e utilizzati. Le dimensioni da considerare
sono tre:
● Quella legata ai contenuti informativi veri e propri (un contenuto lineare o ipertestuale, per
esempio).
● Quella legata ai dispositivi di fruizione e dunque alle caratteristiche dell'hardware
utilizzato.
● Quella legata alle piattaforme di fruizione e alle loro funzionalità.
Le tre dimensioni si influenzano a vicenda.
Non si parla spesso di piattaforme, dando apparentemente per scontato che i fornitori di contenuti
e di hardware si occupino del problema → il risultato sono strumenti incapaci di dialogare fra loro.
In particolare, la questione delle funzionalità delle piattaforme rappresenta un tema
particolarmente rilevante: una buona piattaforma di fruizione dovrebbe permettere di gestire
anche l'interazione scuola-docente-studenti-famiglie, dovrebbe consentire non solo la creazione
ma anche la gestione condivisa di annotazioni su tutti i contenuti di apprendimento, dovrebbe
offrire funzioni di diario, quaderno e agenda, e così via. Si tratta in sostanza di creare un vero e
proprio sistema operativo di apprendimento. L'associazione Italiana Editori ha avviato un progetto
in questo senso, la piattaforma Zaino digitale 2017: grazie alla registrazione sul sito, gli studenti
possono accedere da un unico punto alle diverse piattaforme degli editori aderenti all'iniziativa. È
solo un primo passo, in quanto non si tratta di una reale piattaforma condivisa.

Parte 3
XXIII: I libri, la scuola, le biblioteche scolastiche
Le biblioteche scolastiche innovative potrebbero rappresentare la sede migliore per integrare
risorse e competenze informative di tipo diverso, promuovendo la lettura e l’incontro con la
complessità. Negli anni ‘60 e ‘70, le biblioteche scolastiche erano concepite come testimonianza
della tradizione e come collezioni di classici, erano presenti soprattutto nei licei ed erano destinate
spesso più ai docenti che agli studenti. I dibattiti di quegli anni hanno contribuito a cambiare la
percezione del ruolo delle biblioteche e dei libri nella scuola e hanno reso la biblioteca uno dei
primi luoghi di capovolgimento della didattica tradizionale. Le riflessioni e le proposte che ne sono
seguite hanno però dato vita solo a entusiasmi momentanei, perché i responsabili nelle politiche
scolastiche non hanno mai capito che dare la centralità alle biblioteche scolastiche è una mossa
importante per rinnovare il nostro sistema educativo.
Ovviamente, la diffusione del digitale ha portato, a livello globale, un cambiamento nel ruolo delle
biblioteche scolastiche. Nel trentennio 1960-1990, le biblioteche e l’uso di una maggiore varietà di
risorse informative rappresentavano la strada per affiancare alla forma-libro contenuti integrativi
diversi. Nel trentennio successivo, le reti hanno acquistato progressivamente una decisa
preminenza e quindi la biblioteca scolastica è diventata non solo un luogo di acquisizione delle
competenze legate al riconoscimento delle varie tipologie di risorse informative, ma anche un
luogo di incontro con le varie forme di complessità ereditate dalla forma-libro e di riflessione sulle
loro possibili trasformazioni digitali. Nelle biblioteche scolastiche si dovrebbero incontrare oggi sia
libri sia risorse di altro genere, comprese risorse granulari e integrative: l’importante è che le
risorse strutturate e complesse conservino la loro centralità. In troppe scuole, oggi, le biblioteche
scolastiche non entrano nelle pratiche quotidiane della vita scolastica, non sono organizzate con e
per gli studenti ma per rispondere a una sorta di dovere morale. Una biblioteca fatta solo di classici
non è un luogo dove i classici possono essere incontrati, ma un luogo dove i classici sono rinchiusi
e dimenticati: le biblioteche scolastiche dovrebbero essere punti di diffusione e non luoghi di
reclusione dei libri, dove sia presente un incontro fra interessi diversi ed età diverse. I libri, i
videogiochi, i progetti digitali elaborati costituiscono mondi, e sono legati alla complessità verticale
e strutturata.

XXIV: Le biblioteche scolastiche e l’azione 24 del PNSD


L’attenzione istituzionale verso le biblioteche scolastiche in Italia è legata più a singole iniziative che
a un disegno organico.
● Programma per la Promozione e lo Sviluppo delle Biblioteche Scolastiche, 1999-2000:
questa iniziativa ha portato per la prima volta ad affrontare il problema della formazione
delle figure professionali che avrebbero dovuto operare nella biblioteche scolastiche, con
l’istituzione di master universitari su questo tema. Ciò non è stato però accompagnato da
un riconoscimenti formale della figura del bibliotecario scolastico.
● Biblioscuole, 2004: questo progetto prevedeva un sito di riferimento contenente l’anagrafe
delle biblioteche scolastiche, ma non è più attivo.

● Bibliorete 21 (2010), che aveva la volontà di costruire una “rete di reti” che aiutasse a
collegare fra loro le biblioteche scolastiche, offrendo strumenti comuni e occasioni di
scambio informativo e formativo: non ha però portato a risultati significativi, a causa
dell’assenza di finanziamenti. Questa iniziativa ha preceduto l’azione 24 del PNSD.
Il Piano Nazionale Scuola Digitale è stato elaborato dal MIUR nell’ambito dell’attuazione della
legge 107 del 13 luglio 2015. Il piano ha previsto un’azione per le biblioteche scolastiche, l’azione
24, restituendo ad esse un ruolo centrale e contribuendo ad avviare una riflessione sul nuovo ruolo
che esse possono e devono assumere in un contesto profondamente mutato rispetto al passato. La
formulazione dell’azione 24 mette in chiaro che le biblioteche scolastiche sono ambienti di accesso
alle risorse informative e documentali, di information literacy, di promozione della lettura e della
scrittura, caratterizzati dall’incontro tra informazione tradizionale e informazione digitale. Fra le
critiche avanzate all’azione 24 è l’assenza di finanziamenti specifici per l’acquisto di libri su carta, va
però ricordato che il PNSD non poteva prevedere finanziamenti di questo tipo. L’azione propone
dunque una valorizzazione delle biblioteche scolastiche, che passa anche dalla loro apertura ai
contenuti digitali. Non offre però una soluzione complessiva e di lungo periodo, che richiede
necessariamente anche interventi normativi e un riconoscimento esplicito della figura del
bibliotecario scolastico. Una soluzione poteva essere rappresentata dall’art.7 della proposta di
legge Giordano-Zampa (2016?) sulla promozione della lettura: nella formulazione era prevista
l’istituzionalizzazione delle reti di biblioteche ed era previsto che per ogni rete vi fosse una figura di
referente con competenze specifiche. Purtroppo, l’iter della proposta si è fermato: il MIUR e il
Parlamento sembrano considerare le biblioteche scolastiche un lusso, forse a causa dei costi della
previsione di un migliaio di bibliotecari scolastici a livello nazionale.
Azione 24: il bando si proponeva di selezionare fino a 500 progetti presentati dalle scuole,
prevedendo per ciascuno un finanziamento; era poi prevista una attività formativa per i referenti e
l’ulteriore selezione di un progetto relativo a una piattaforma di coordinamento per le attività del
bando. Tre aspetti del bando vanno sottolineati:
1. La forte attenzione verso la biblioteca scolastica come spazio fisico: si parla di spazi aperti
e flessibili, adatti a una fruizione sia individuale sia di gruppo.
2. L’apertura al territorio, con un riferimento specifico alle istituzioni e ai sistemi bibliotecari
territoriali. Si tratta di un passo necessario per concepire scuole più aperte e partecipative.
3. L’attenzione verso il prestigio digitale bibliotecario: il bando prevedeva che fino al 15% del
finanziamento potesse essere impiegato nell’acquisizione di contenuti digitali, così da
permettere a studenti e docenti di ottenere in lettura libri e quotidiani con modalità simili a
quelle del tradizionale prestito bibliotecario, ma in formato digitale.
L’effettivo successo dell’azione dipenderà da molti fattori, in primo luogo la capacità del MIUR di
seguire la realizzazione del progetto e dare continuità nel tempo all’impegno preso.
XXV: Letture aumentate
Che tipo di attività dovrebbero essere previste all’interno delle biblioteche scolastiche? In che modo
integrare risorse informative tradizionali e digitali?
L’allargamento dell’esperienza di lettura attraverso la produzione e la ricerca, la selezione e
l’aggregazione di contenuti integrativi e digitali sono attività che richiedono competenze e
strumenti specifici, non sempre disponibili.
Il progetto The Living Book è stato approvato nel 2016 e prevede la partecipazione di istituzioni
provenienti da sei paesi europei, dove vi è una realtà svantaggiata per quanto riguarda la lettura
giovanile. Al centro del progetto c’è la volontà di fornire strategie e strumenti online che aiutino ad
allargare l’esperienza di lettura di una generazione molto più vicina al digitale che alla carta. Il
rapporto tra ecosistema digitale e promozione della lettura può essere considerato sotto due
prospettive diverse:
1. Come promozione della lettura digitale, concentrando quindi l’attenzione sul settore
dell’editoria elettronica e sui relativi dispositivi di lettura.
2. Come promozione digitale della lettura, senza limitarsi alla lettura di contenuti digitali ma
considerando il digitale come l’ambiente comunicativo in cui si svolge l’attività di
promozione, e dunque di avvicinamento fra contenuti e lettori.
Ad oggi la lettura digitale riguarda contenuti diversi dalla forma-libri (messaggi, social networks), e
questo penalizza i contenuti strutturati complessi. I libri elettronici esistono, e in forma di libri
aumentati, possono integrare complessità e multicodicalità digitale. Ma la realizzazione di libri
aumentati di buona qualità richiede strumenti ancora poco sviluppati e investimenti consistenti; la
lettura avviene su dispositivi ancora insoddisfacenti e prevede l’uso di meccanismi di protezione
complessi. Anche la lettura digitale di libri tradizionali è penalizzata da questi problemi e non riesce
a proporsi come base per un’esperienza migliore di quella su carta, a partire dai prezzi non sempre
competitivi rispetto all’editoria tradizionale. L’ecosistema dei contenuti granulari è invece, di
norma, gratuito e risulta più facilmente accessibile, ed è inoltre quasi interamente basato sulla
condivisione di contenuto generato dagli utenti, che diventano protagonisti attivi dello scambio
comunicativo.
D’altra parte, attività specifiche di promozione della lettura di contenuti granulari non hanno molto
senso, le giovani generazioni ne sono già sommerse; quel che si dovrebbe promuovere è semmai la
riconquista anche in digitale di contenuti strutturati e complessi. La promozione della lettura
digitale dunque per il momento può rivelarsi controproducente, suscitando una reazione di rifiuto
proprio per i contenuti più strutturati e complessi e per la forma-libro, penalizzati dai limiti attuali
di mercato e tecnologie.
Per questo la strada della promozione digitale della lettura è più promettente ed efficace della
promozione della lettura digitale. Come lavorare alla promozione digitale della lettura? Può essere
utile una maggiore integrazione fra la pratica della lettura e la produzione e l’uso di contenuti
informativi digitali, per far crescere la motivazione e l’interesse nei confronti della lettura. Questa
prospettiva suggerisce di considerare l’ecosistema digitale e di rete come lo spazio che
accompagna la relazione attiva tra testo e lettore, anche quando la lettura avviene su carta. La
grande maggioranza dei lettori, di fatto, usa la rete per allargare la propria esperienza di lettura: la
lettura aumentata è considerata in questo caso come allargamento dell’orizzonte di fruizione e
reinterpretazione personale del testo, attraverso la possibilità di produrre e raccogliere risorse
digitali complementari e integrative. Qui emerge il ruolo di strumenti utili alla produzione e al riuso
di contenuti che possono accompagnare la lettura: le biblioteche scolastiche possono essere il
luogo in cui rendere possibile questo incontro, ed è su questi aspetti che il progetto The Living
Book sta lavorando, anche attraverso la predisposizione di apposite linee guida.
Il collegamento delle attività di ricerca, selezione e valutazione dell’informazione con la specificità
della situazione di lettura suggerisce alcune attenzioni ulteriori: innanzitutto tenere traccia delle
ricerche fatte e raccogliere in forma organizzata i contenuti reperiti, che potranno poi essere
riutilizzati da altri lettori. Alla ricerca occasionale andrebbe dunque sostituito l’uso di strumenti di
raccolta e aggregazione. In rete non esistono aggregatori pensati specificamente con l’obiettivo di
permettere la costruzione di un “diario di lettura”, ma ci sono diversi strumenti che si avvicinano a
questo scopo, avendo però il limite di concentrarsi quasi esclusivamente sui contenuti disponibili
online. Importanti sono le immagini: possono essere aggregate con bacheche condivise come
Pinterest o Padlet, ma rimangono totalmente indipendenti rispetto ad altre attività possibili sul
libro. In generale, la maggior parte degli strumenti di aggregazione non consente di organizzare i
contenuti seguendo una griglia o una struttura di riferimento creata dagli utenti e corrispondente
all’organizzazione complessiva del libro letto. Importanti sono gli strumenti di annotazione, ma ne
restano esclusi i libri non disponibili in formato digitale. Una menzione particolare merita LightSail,
una piattaforma legata alla gestione di biblioteche di testi disponibili online, ma che include la
creazione di gruppi di lettura, per la valutazione legata a test e per la generazione di statistiche
generali o legate a obiettivi di lettura.
Dunque, al momento l’offerta online sembra fornire da un lato strumenti per l’annotazione di testi
destinati esclusivamente alla fruizione digitale, dall’altro strumenti generali di aggregazione di
contenuti, non pensati per la creazione di raccolte legate alla lettura e strutturabili seguendo
l’organizzazione interna del libro letto.
Un ultimo aspetto è quello della protezione dei tempi e degli spazi della lettura: la lettura digitale
ha il potenziale per trasformare una esperienza di lettura immersiva, nella quale gli studenti sono
completamente focalizzati sul compito di leggere, in un'attività interattiva. Idealmente, però, la
lettura dovrebbe costituire sia il punto di partenza delle altre attività, sia il punto di arrivo: le
pratiche e gli strumenti in grado di “aumentare” l’esperienza di lettura devono insomma essere
concepiti in funzione della lettura, e non viceversa.

XVI: Gruppi di lettura


Dal punto di vista relazionale la lettura ha due dimensioni:
1. L’atto di leggere è individuale e personale, e richiede un ambiente di lettura non distrattivo.
2. Quello che si può definire l’intorno della lettura, quindi i bisogni, le attività e le interazioni
che precedono e seguono l’atto del leggere, è di natura sociale e relazionale, come anche il
contesto della produzione, conservazione e fruizione dei testi.
Queste due dimensioni sono entrambe interessate dalle conseguenze della rivoluzione digitale:
l’atto del leggere può avvenire anche su dispositivi digitali, e l’intorno della lettura unisce
interazioni fisiche e interazioni virtuali. I gruppi di lettura presuppongono, accompagnano e
stimolano la lettura e sono legati all’interazione e al confronto tra i partecipanti; questa interazione
non è fine a se stessa, ma ha anche lo scopo di migliorare e arricchire la comprensione del testo.
Ma cos’è, esattamente, un gruppo di lettura? Harvey Daniels nota come la pluralità dei termini
utilizzati per riferirsi ai gruppi di lettura riveli quanto sia difficile delimitarne esattamente la natura.
Il titolo del suo libro comprende tre alternative:
● Literature circles: l’idea del circolo letterario presuppone l’esclusione della saggistica e di
altri generi editoriali diversi dalla narrativa e l’idea del canone necessariamente alto che i
termini “circolo” e “letteratura” portano con sè.
● Book clubs: il termine “club” presuppone una partecipazione esclusiva e regolata.
● Reading groups: espressione più neutra e quindi preferibile.
Alcune indicazioni generali circa i gruppi di lettura, tenendo conto delle indicazioni fornite da
Daniels e da due iniziative importanti, il Book Club Program e il Book Club Plus:
1. Un gruppo di lettura è costituito da un gruppo di persone che si riuniscono fisicamente o
virtualmente per discutere su uno o più libri selezionati. La partecipazione a un gruppo può
essere incoraggiata ma è libera, consapevole e volontaria.
2. Il numero di partecipanti è estremamente variabile.
3. E’ sempre bene costituire i gruppi basandosi sugli interessi e sulle scelte dei partecipanti e
non su aggregazioni precostituite.
4. La scelta dei libri da leggere è effettuata liberamente dai membri del gruppo, tenendo
sempre presente la varietà di generi editoriali, stili e interessi (bibliodiversità).
5. Durante le attività del gruppo, vengono ascoltate e rispettate le idee di tutti i membri.
6. Possono essere assegnati compiti o stabiliti ruoli funzionali al miglior svolgimento della
discussione; questi ruoli devono essere distribuiti in maniera condivisa, devono essere
flessibili e non gerarchici.
7. La biblioteca o la scuola devono offrire supporto logistico e strutturale al gruppo, senza
condizionarne le scelte o lo svolgimento. Nel contesto scolastico, la partecipazione al
gruppo non dev’essere trasformata in un compito o sottoposta a valutazione. I prodotti
possono essere valutati solo tramite la normale discussione da parte dei partecipanti, non
formale.
8. L’ambiente, fisico e virtuale, deve essere funzionale e non distrattivo. Nel caso di ambienti
fisici, un tavolo circolare può essere un esempio. E’ utile prevedere strumenti di
riproduzione audiovisiva e avere collegamenti a Internet per verificare o ricercare
informazioni.
9. Negli ambienti virtuali, il gruppo può funzionare in modo asincrono, sincrono o,
preferibilmente, misto.
10. Il gruppo può adottare metodologie di discussioni particolari, come il debate, e può
utilizzare strumenti di comunicazione e promozione, come un blog, sia per allargare la
partecipazione, sia per far conoscere all’esterno le attività e i prodotti del gruppo.
Un aspetto avanzato dal Book Club Program e dal Book Club Plus e Book Club Plus è quello
dell’attenzione alla dimensione testuale e linguistica dei libri discussi; qualunque gruppo è anche
un esercizio di buon uso e di comprensione del linguaggio. Ma il riconoscimento dell’importanza
di questo aspetto non dovrebbe essere assunto come vincolo a monte: non solo per l’opportuna
apertura dei gruppi di lettura anche a testi non letterari, ma anche e soprattutto perché il
riconoscimento della centralità della dimensione testuale dovrebbe essere un risultato del lavoro
del gruppo, non un’assunzione imposta dall’alto. Momenti specifici di discussione sul linguaggio e
sulla struttura narrativa sono utili, ma imporli come tappe obbligate rischierebbe di trasformarli in
“compiti”.
Gli strumenti disponibili online a supporto dei gruppi di lettura sembrano ancora assai limitati. Ci
sono piattaforme di social reading, come GoodReads, ma gestiscono solo la discussione sul testo,
non forniscono alcun reale supporto alle attività che la possono accompagnare. D’altro canto, i
gruppi di lettura attivati su queste piattaforme sono in genere aperti e possono avere un altissimo
numero di partecipanti.
Quanto alle poche piattaforme specifiche per la gestione di gruppi di lettura, come
BetterBookClub, oltre a essere a pagamento non offrono strumenti efficaci di aggregazione dei
contenuti né la possibilità di gestire videoconferenze. Dunque chi si trova a organizzare un gruppo
di lettura online, o si limita a utilizzare le funzionalità offerte dalle piattaforme di social reading
(che si pongono come forum) o deve saltare da uno strumento all’altro.

XXVII: Giochi
Il lavoro di avvicinamento alla complessità passa per la forma-libro, ma ad oggi possono essere
utilizzate anche altre tipologie di contenuti, come film o videogiochi. Esistono molti videogiochi
ispirati da libri e libri ispirati da videogiochi: Assassin’s Creed è un esempio, perché è ispirato al
romanzo Alamut e ha dato a sua volta origine a una serie di romanzi. Un esempio importante è
Pokémon Go, un gioco per dispositivi mobili che può essere collegato al mondo del libro. Il gioco è
figlio del gioco giapponese Pokémon, uscito nel 1996 per Game Boy, e che può essere considerato
come il risultato di tre forme ludiche preesistenti: collezionismo (di specie di Pokémon), i
“collectable card games”, e l’idea della “caccia al tesoro” sul territorio” (quindi, pensato per un
target di bambini). Gli elementi dell’universo pokémon tornano in Pokémon Go con un fattore
completamente nuovo, l’ambientazione nel mondo reale, che è figlia di un altro videogioco:
Ingress. Ingress è stato lanciato nel 2012 ed è stato il primo videogioco a larga diffusione basato
sulla realtà aumentata; la sua struttura narrativa è basata su una premessa fantascientifica e vede
due fazioni sfidarsi, dunque è un gioco con un target molto diverso rispetto a quello di Pokémon.
Le persone che giocano a Pokémon Go sono completamente immerse dal gioco, dunque, riconosce
G. Roncaglia: questo tipo di immersione non è un meccanismo simile a quello attivato dalla
lettura? Pokémon Go è solo un esempio, ma esistono videogiochi dalle potenzialità notevoli. Nella
sua forma attuale, può essere uno strumento di scoperta (è necessario camminare e scoprire posti
nuovi).
XXVIII: Digitale debole e digitale forte
Il tema di fondo del libro è il rapporto tra scuola, mondo del libro e mondo digitale. Vi sono
competenze (legate alla comprensione, alla ricerca, alla valutazione ecc.) che sono sempre state
affidate alla forma-libro, ma che si possono allargare anche alla considerazione di altre forme e
tipologie di contenuti digitali. Il problema principale riguarda il pregiudizio diffuso che vede
granularità e frammentazione come caratteristiche essenziali dell’ecosistema digitale. Il risultato è
una scuola ingessata, con pratiche didattiche incapaci di coinvolgere e motivare studenti e docenti.
Occorre rivisitare con strumenti nuovi le pratiche di costruzione della complessità del passato, a
partire dalla forma-libro e affiancare a risorse strutturate e curricolari anche risorse granulari e
integrative. Il digitale a scuola è stato spesso presentato anche come uno strumento di
decostruzione della didattica tradizionale, ma una decostruzione priva di strategie è improduttiva:
non c’è bisogno di un digitale debole, orientato alla granularizzazione dei contenuti (che produce a
sua volta una scuola debole). Il buon funzionamento del sistema scolastico dipende da una
pluralità di soggetti: studenti, insegnanti, personale tecnico, autori di contenuti di apprendimento
e degli strumenti necessari al loro uso.

Parte 4
XXIX: Didattica a distanza o didattica di emergenza?
Il 4 marzo 2020 viene emanato un decreto del presidente del Consiglio che obbliga i dirigenti
scolastici ad attivare, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole,
modalità di didattica a distanza. Si è avviato così un gigantesco esperimento collettivo di didattica
online. L’autore distingue per il mondo della scuola quattro fasi diverse: la scuola del passato; la
scuola dell’emergenza, con una didattica a distanza sostitutiva; la scuola del periodo di convivenza
con il virus; e la scuola del futuro.
Anche per il mondo della scuola, la pandemia segna uno spartiacque: in ogni caso, la
sperimentazione di nuovi strumenti e metodologie, la necessità di un’organizzazione degli spazi più
flessibile e modulare, la necessità di lavorare con gruppi di studenti più piccoli e flessibili,
rappresentano un’opportunità di ripensamento complessivo delle metodologie didattiche.
Occorrerà però evitare sia di dimenticare un periodo drammatico attraverso il ritorno ai riti del
passato, sia di continuare ad affidarsi senza riflessione agli strumenti tecnologici. Quello che è stato
fatto infatti non è stato un esperimento di didattica a distanza, ma piuttosto di un esperimento
necessario di didattica di emergenza, basato su un uso obbligato, ma sbagliato, di strumenti nati
per essere utilizzati in altri modi. Esistono contesti in cui la didattica a distanza può essere
sostitutiva e non integrativa (corsi universitari interamente online), ma la scuola è un ambiente
fisico e relazionale, in cui il processo di apprendimento comprende anche il corpo e i sensi. La
scuola ha sempre usato le tecnologie (i libri, i quaderni, i banchi, sono prodotti dell’intelligenza
dell’uomo); e la scuola ha anche sempre utilizzato la didattica a distanza, come la lettura e lo studio
a casa. Gli strumenti di didattica online, che si è stati costretti ad usare in modo improprio ed
emergenziale, rappresentano per il mondo della scuola tecnologie utili per migliorare la qualità
della didattica, accompagnando il lavoro in presenza e non sostituendolo.
Nella situazione data, e considerate le disuguaglianze della dotazione tecnologica, delle
competenze e delle infrastrutture, l’esperimento ha funzionato meglio di quanto fosse prevedibile.
Il primo monitoraggio ministeriale, chiuso il 25 marzo 2020, valutava che circa l’80% degli studenti
fosse raggiunto da attività di didattica a distanza. Successivamente, il CENSIS ha rilevato un tasso di
dispersione inferiore al 20%. Per quanto riguarda le scuole superiori e le università, un’indagine
dell’osservatorio “Giovani e Futuro” di MTV ha rilevato un tasso di partecipazione alle attività in
e-lerning molto alto. In generale, quindi, la didattica a distanza di emergenza ha funzionato in
maniera discreta, raggiungendo la grande maggioranza delle studentesse e degli studenti, ma non
ha funzionato in maniera ideale: le disuguaglianze, l’assenza di una chiara comprensione del
quadro metodologico, la confusione fra scuola dell’emergenza e scuola del futuro costituiscono
criticità che è indispensabile affrontare.

XXX: La didattica a distanza crea disuguaglianze?


Una tesi molto diffusa è che, richiedendo specifiche attrezzature metodologiche, competenze e
infrastrutture non sempre disponibili, la didattica a distanza crei disuguaglianze. La risposta
standard, data da chi sollevava il problema è che questo è vero, la didattica a distanza crea
disuguaglianze, ma la si è dovuta accettare in una situazione di emergenza, e si lavora nel ridurre il
più possibile le disuguaglianze create. Secondo l’autore, questa tesi nasconde una prima fallacia:
non si tratta di una didattica a distanza metodologicamente solida, ma di una didattica di
emergenza. E la necessità di ridurre le diseguaglianze si presenta sia nel caso della didattica in
presenza sia in quello della didattica a distanza: non è un problema esclusivo della didattica a
distanza. Garantire l’inclusione non è facile in una situazione emergenziale, soprattutto in un paese
non capace di riconoscere il ruolo essenziale delle competenze e degli strumenti digitali. Cercare di
affrontare le diseguaglianze riscontrate in questa situazione emergenziale rischia di risultare poco
efficace, se non si guarda al problema in maniera più organica.
La seconda fallacia riguarda il fatto che la didattica a distanza non crea diseguaglianze, ma le rivela.
Per esempio, molti dati affermano che le studentesse e gli studenti che hanno a casa molti libri e
hanno genitori abituati a leggere hanno un rendimento scolastico migliore degli altri: ciò non
significa che i libri creano disuguaglianza. Diseguaglianza e scarsa inclusività in ambito tecnologico
non sono colpa della didattica online, ma della società.

XXXI: Problemi di metodo


Lavorare sul digitale a scuola non può ridursi alla semplice introduzione di dispositivi tecnologici,
considerando per esempio solo l’hardware, senza analizzare le caratteristiche del software o dei
contenuti di apprendimento. Lavorare sul setting didattico significa non solo organizzare gli spazi
in funzione degli strumenti e delle metodologie adottate, ma anche riflettere sulle concrete
modalità d’uso di strumenti e metodologie, sui vincoli esistenti e sulle loro conseguenze. La
didattica a distanza rappresenta un buon esempio dei problemi che può porre il passaggio
dall’indicazione astratta di un setting didattico (studenti e docente a casa, didattica su una
piattaforma online) alla sua messa in opera: è necessaria la scelta delle modalità di
apprendimento, dei contenuti, delle attività e della loro organizzazione. Inoltre, l’esigenza di dare a
livello di istituto indicazioni uniformi sulle attività da svolgere ha portato a forme di didattica a
distanza riconducibili al tentativo di replicare a distanza le stesse lezioni frontali della didattica in
presenza.
La didattica a distanza svolta in emergenza si è basata su un mix di quattro tipologie di attività e
contenuti:
1. Lezioni sincrone, come fossero lezioni frontali a distanza.
2. Lezioni registrate dal docente.
3. Indicazione di contenuti online creati da soggetti esterni.
4. Indicazione di compiti più tradizionali.
Tutte queste modalità hanno un problema comune: si basano sull’attivazione di rapporti individuali
e asimmetrici tra docente e discente. Solo in pochi casi una maggiore consapevolezza
metodologica ha portato ad aggiungere altri tipi di attività, come: attività collaborative, forme di
didattica capovolta, attività basate sulla raccolta di documentazione da discutere e valutare,
attività basate sulla considerazione e sul coinvolgimento diretto dell’ambiente familiare, uso
integrato di piattaforme e strumenti differenti, attività non esclusivamente legate al gruppo classe
o non strettamente curricolari.
Il lavoro di gruppo è una delle modalità collaborative più usate nella didattica a distanza
progettata: di norma, ogni componente del gruppo ha un ruolo specifico, anche in base a interessi
e competenze, e il lavoro collaborativo è organizzato attraverso aree specifiche della piattaforma
usata e riunioni online autonome.In generale, molte delle attività a distanza mosse più
frequentemente si prestano a un “capovolgimento” che vede nei momenti di lavoro sincrono in
piattaforma non delle repliche della didattica frontale in presenza, ma dei momenti di discussione
e interazione.
Un tema importante è quello delle diseguaglianze e dell’inclusione, spesso affrontato solo in
termini di disponibilità o meno dei dispositivi e del collegamento alla rete: è un problema legato a
molte altre dimensioni, inclusa quella delle attività e delle metodologie didattiche da adottare. Un
problema che va adottato con strategie diverse: strategie di breve periodo (prima fase
emergenziale), strategie di medio periodo, e strategie di lungo periodo. Molte soluzioni della fase
intermedia (2020-2021) possono essere auspicabili per la fase post-emergenziale, ma il vincolo del
distanziamento le condiziona enormemente. Due esempi:
● Dotazioni tecnologiche: durante la fase di emergenza molte scuole hanno risposto al
problema attraverso l’acquisto di notebook e tablet, e ne sono scaturiti molti interrogativi
(chi ne è responsabile?). Ma, se per risolvere le diseguaglianze bastasse lavorare sulla
dotazione tecnologica, le tecnologie digitali rappresenterebbero non ostacolo ma un
potente strumento di inclusione sociale. In realtà le differenze più rilevanti non riguardano i
dispositivi che lo studente ha a casa, ma il resto della casa. La scarsa attenzione verso
questo aspetto spiega in parte l’enorme scarto che si è manifestato tra scuola e casa.
● Setting della fase intermedia: durante la fase intermedia è stata preferita una modalità
ibrida, con metà della classe presente in aula e metà collegata via rete: un setting che
presuppone esclusivamente la lezione frontale, statica.
Questi due esempi mostrano che le tecnologie non sono una variabile indipendente: il loro uso va
sempre considerato in un contesto ampio, all’interno di un progetto complessivo che includa
l’organizzazione degli spazi e delle attività, le metodologie e le pratiche didattiche, e gli eventuali
vincoli specifici.

XXXII: La scuola in TV
Una delle conseguenze della pandemia sul mondo della formazione è stata la rinnovata attenzione
rivolta al ruolo della televisione come strumento per la diffusione di contenuti educativi. Il servizio
pubblico radiotelevisivo del nostro paese è arrivato preparato al lavoro di emergenza che si è reso
necessario nel campo della televisione educativa: mentre la BBC, negli anni precedenti, aveva
progressivamente rinunciato agli spazi di televisione educativa tradizionale, a favore di canali
culturali (e quindi ha dovuto avviare una programmazione educativa specifica destinata al mondo
della scuola), la RAI aveva sempre conservato il canale RAI Scuola, affiancandolo e non
sostituendolo con altri canali culturali. L’aspetto più interessante del dibattito sul tema della
“scuola in TV” è legato non tanto alla discussione sull’allargamento degli spazi televisivi, quanto a
quella sulle tipologie dei contenuti educativi. Si chiedeva infatti alla RAI di “trasmettere lezioni”,
sulla scia di due pietre miliari della televisione educativa italiana: Telescuola e Non è mai troppo
tardi, la trasmissione del maestro Alberto Manzi degli anni ‘60. La richiesta era quella di
raggiungere con un’offerta in qualche modo “curricolare” le studentesse e gli studenti
impossibilitati a partecipare alla didattica a distanza. Ci sono però tre fattori che modificano la
situazione attuale da quella degli anni ‘60:
1. Quando furono avviate le esperienze di Telescuola e Non è mai troppo tardi, l’obbligo
scolastico di fatto si fermava alla quinta elementare: l’innalzamento alla terza media arrivò
solo con la scuola media unificata (1963). Quindi, mentre negli anni ‘60 il problema era
quello dell’alfabetizzazione di base, l’insieme di ordini, gradi scolastici e discipline da
considerare è molto più ampio.
2. La seconda considerazione riguarda la necessità di affiancare, e non sostituire, i docenti,
con cui anche durante la didattica d’emergenza gli studenti hanno mantenuto qualche
forma d’interazione. I programmi degli anni ‘60 prevedevano comunque gruppi di ascolto in
cui proseguire anche in presenza il lavoro, cosa impossibile nel periodo dell’emergenza
COVID-19.
3. L’offerta di televisione educativa attuale non può prescindere dall’importanza odierna della
rete. La BBC, col progetto Bitesize, non ha infatti prodotto lezioni tradizionali, ma contenuti
riusabili distribuiti principalmente attraverso il sito web e attraverso i servizi della TV
digitale interattiva.
La televisione ha un ruolo essenziale per un pubblico molto preciso: i bambini della scuola
dell’infanzia e dei primi anni della scuola primaria. Nel loro caso la didattica online è difficile da
organizzare ed è a maggiore rischio di dispersione. E’ necessaria quindi una programmazione
televisiva integrativa e mirata, che cerchi di riprodurre alcune delle dinamiche della scuola (com’è è
stato fatto da La banda dei fuoriclasse).
Il servizio pubblico radiotelevisivo ha risposto complessivamente bene all’emergenza, ma la
soluzione alle diseguaglianze di dotazione tecnologica e infrastrutturale non può essere quella
delle lezioni televisive: deve essere data lavorando con le scuole perché le competenze e le
tecnologie necessarie a un uso attivo e consapevole della rete siano disponibili per tutte e tutti, e
assicurando sull’intero territorio le infrastrutture necessarie a garantire un accesso economico e
veloce alla rete.

XXXIII: Le biblioteche scolastiche come risorsa


La concezione della biblioteca scolastica come ambiente di apprendimento, di ricerca, di
approfondimento sta progressivamente guadagnando attenzione. Nel 2019 è infatti nato il
Coordinamento delle Reti di Biblioteche scolastiche, ma l’emergenza pandemica ha bruscamente
interrotto questo lavoro, costringendo a rimandare convegni. Nel contempo, l’emergenza ha
rappresentato una sfida per le biblioteche, molte delle quali si sono organizzate fra loro e hanno
organizzato servizi anche nel periodo di sospensione delle attività scolastiche in presenza.
In merito al rapporto fra biblioteche scolastiche e istituzione scolastica (riguardo il tema della
necessità di spazi per l’approfondimento degli interessi personali), G. Roncaglia propone cinque
direttrici:
1. Prevedere spazi e tempi legati all’approfondimento degli interessi degli studenti. Le
nostre scuole sono invece organizzate per classi e per discipline; occorre dunque
riequilibrare il rapporto fra gruppi classe, discipline e spazi e tempi legati agli interessi
personali e alla socializzazione, anche attraverso un lavoro sistematico di costituzione di
gruppi di lavoro e di progetto basati su interessi.
2. Prevedere biblioteche scolastiche concepite come terzi spazi: spazi di documentazione,
attività, ricerche finalizzate in primo luogo ad approfondire interessi personali. Occorrono
biblioteche innovative, distinguibili anche visivamente dagli altri spazi della scuola, in cui i
libri coesistano con risorse digitali ma anche con la possibilità di lavorare su contenuti audio
e video o di fare e ascoltare musica.
3. Favorire la socializzazione basata su interessi, e considerare la lettura come una delle
forme possibili di socializzazione basata su interessi. Uno strumento prezioso è
rappresentato dai gruppi di lettura.
4. Evitare la contrapposizione artificiale fra cartaceo e digitale, e favorire l’integrazione del
lavoro orizzontale su contenuti informativi granulari con il lavoro verticale di
approfondimento legato in primo luogo alla forma-libro.
5. Sviluppare le competenze: bisogna riconoscere che le figure professionali necessarie a un
sistema formativo moderno e funzionante sono molteplici e non sempre riconducibili
all’alternativa fra docenti disciplinari e personale ATA. Tra queste figure dovrebbero avere
un ruolo importante i docenti-bibliotecari.
Se le biblioteche scolastiche fossero state concepite esclusivamente come collegate alla
disponibilità di uno spazio di lettura e al prestito dei libri, la chiusura degli edifici scolastici le
avrebbe costrette a una sospensione completa dei servizi. Invece, almeno nelle situazioni più
avanzate, questo non è successo. Alcuni servizi offerti:
● Prestito digitale di libri, quotidiani, riviste, film, musica: MLOL Scuola è la più diffusa
piattaforma di prestito digitale per le biblioteche scolastiche.
● Prestito di dispositivi digitali e assistenza remota al loro uso: le biblioteche scolastiche sono
state in prima linea nel lavoro per ridurre le diseguaglianze legate al possesso di dispositivi
mobili.
● Organizzazione di video e audioletture: un supporto alla didattica a distanza, capace di
migliorare il coinvolgimento degli studenti.
● Organizzazione online di presentazioni di libri, incontri con gli autori ecc.
● Organizzazione di gruppi di lettura e di gruppi di progetto, legati anche al racconto della
fase di quarantena attraverso scrittura creativa e storie filmate, contribuendo a fornire
sostegno psicologico.
● In alcuni casi isolati, le biblioteche hanno potuto erogare anche servizi di supporto ai
docenti nel lavoro di didattica a distanza, istituire un “numero amico” per il contatto con le
famiglie, organizzare performance teatrali e musicali a distanza ecc.

XXXIV: Piccoli gruppi crescono: lettura a casa e online durante l’emergenza (e dopo)
Nessun dato sembra indicare che nei mesi di quarantena gli italiani abbiano effettivamente letto di
più: nonostante l’isolamento a casa, l’ansietà e l’incertezza associate al periodo del lockdown
rendevano più difficile la lettura. Il neuroscienziato inglese Oliver J. Robinson ha osservato che il
problema non è solo legato alla difficoltà di concentrazione generata dall’ansietà, ma anche un
effetto di accelerazione della percezione del tempo (dovuta dall’ansia) che si contrappone al tempo
lento e protetto richiesto dalla lettura. Dall’altro lato, la situazione corrisponde anche alla difficoltà
che il nostro paese sembra avere nel lavorare sulla lettura come attività che può aiutare ad
affrontare meglio i periodi di crisi. A livello globale, in molti paesi le vendite di libri sono
effettivamente cresciute prima e durante il lockdown (come negli Stati Uniti). L’attenzione verso la
lettura ha riguardato anche molti fra gli organismi che lavorano per la promozione del libro; nel
Regno Unito, la Reading Agency ha proposto linee guida specifiche per “restare connessi”
attraverso la lettura durante l’emergenza: fra le proposte avanzate, la creazione di gruppi di lettura
a distanza. Resta quindi l’impressione che il nostro paese fatichi più di altri nel proporre la lettura
come un’attività adatta a periodo economicamente o emotivamente difficili; in questo senso, il
ruolo delle biblioteche scolastiche sarebbe essenziale, in particolare nell’aiutare i genitori a
mettere in atto strategie familiari di promozione della lettura. Il progetto ReadTwinning nei mesi
dell’emergenza ha lavorato su questo tema, proponendo come possibile modello quello di piccoli
gruppi di lettura che possono essere organizzati in famiglia o fra amici. L’idea alla base del progetto
è che, rispetto ai gruppi di lettura tradizionali, più adatti a lettori già “forti”, il lavoro in piccolissimi
gruppi possa risultare più efficace nell’avvicinare alla lettura chi non legge o legge poco. Fra gli
strumenti utilizzabili, il progetto propone l’uso di un diario di lettura condivisa, articolato in sezioni
che possano essere riempite da ogni partecipante; propone anche l’uso della lettura aumentata, e
dunque il ricorso alla rete come ambiente in cui reperire contenuti utili ad approfondire i temi del
libro. Il progetto si propone di realizzare una piattaforma online che possa fornire strumenti diretti
di collaborazione e ospitare i diari di lettura condivisa.

XXXV: Quattro tesi per il futuro


E’ possibile trarre quattro conclusioni dall’emergenza, che dovrebbero guidarci nella costruzione
della scuola del futuro:
1. La contrapposizione fra didattica a distanza e didattica in presenza: la scuola ha nella
presenza una componente essenziale che nessuno potrebbe sostituire con la pura
interazione a distanza. Ma la scuola è anche immersa nell’ecosistema comunicativo più
ampio della società alla quale appartiene: la rete. L’esperienza di didattica a distanza fatta
durante il lockdown non è un modello per la scuola del futuro, ma è stata un’occasione per
capire quanto sia importante il lavoro per superare diseguaglianze tecnologiche, strutturali
e di competenze e per incontrare strumenti e tecnologie di cui abbiamo bisogno, anche se
siamo stati costretti a usarli in forme innaturali e sbagliate.
2. I problemi della didattica a distanza utilizzata nella fase di emergenza non si sono limitati
alla forzata mancanza dell’interazione in presenza: in molti casi, l’assenza di competenze si
è tradotta nel tentativo di replicare a distanza il modello della didattica frontale, con tutti i
limiti che ne derivano (incapacità di differenziare le attività, di lavorare sugli interessi, di
stimolare la collaborazione ecc.).
3. Le biblioteche scolastiche servono oggi ancora di più: per aiutare a organizzare e gestire
attività differenziate e orientate all’approfondimento degli interessi e per collegare in
positivo l’eredità della cultura del libro e il mondo multiforme delle culture di rete.
4. Il libro e la lettura non sono l’unico strumento per lavorare sull’approfondimento degli
interessi, ma sono una componente fondamentale di questo lavoro. Il digitale non
rappresenta una minaccia ma un’opportunità, che non tende a far perdere l’attenzione sulla
complessità che da sempre caratterizza il libro e di cui abbiamo bisogno.

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