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Carlo Rocca, Olmo Erba, Ludovico Colombo

e Simon Pellegrini

Quattro riflessioni su sacro


e profano nell’arte
Quattro riflessioni su sacro
e profano nell’arte

Testi di Carlo Rocca, Olmo Erba, Ludovico Colombo


e Simon Pellegrini
Indice

7 Introduzione

11 Breve storia di gesto e oggetto tra mondano e ultraterreno

14 Tempi remoti

19 Tra antico e moderno

29 Dinamiche inclusive / Dinamiche esclusive

40 Considerazioni sulla satira

55 Intercessione dal basso

58 Tra la chiesa e la piazza

60 Incidenti benedetti

65 Visioni sociali
Introduzione

Questo breve saggio, che si pone come una raccolta di quattro differen-
ti scritti, nasce dalle riflessioni venute a galla in seguito alla lettura del
saggio “Forme del Sacro e arte contemporanea fra materiale e immate-
riale” (Ivan Bargna, 2019). La stesura di una riflessione unitaria e coe-
rente su di un tema così variegato, personale, per definizione impalpabile
e intangibile, si è per noi posta come ossimorica: che ognuno abbia la
possibilità di riferirsi allo stesso Dio, in termini spinoziani, con il nome
che più lo aggrada, ci siamo allora detti. L’impossibilità nel ridurre quat-
tro differenti visioni a riguardo di un solo argomento alla ristrettezza
d’una, ha orientato la nostra scelta nel frammentare in più elementi il
discorso, per ricongiungerlo poi ad un unico insieme significante, che
è il rapporto tra Sacro e Profano nel contesto dell’arte: se le nostre ri-
flessioni sul tema abbracciano prospettive d’indagine differenti, è una-
nime l’intenzione di cogliervi l’inevitabile affinità tra l’oggettività dell’o-
pera e la sua condizione (seppur spesso laicamente) sacrale e profana.
L’ordine dei capitoli, nonostante possa sembrarlo a prima vista, non è
casuale: gli argomenti presi in esame, seppur poi sempre ricondotti in
maniera più o meno esplicita alla contemporaneità, si pongono come
progressivo excursus temporale, in un lasso di tempo che porta dalla
caverna paleolitica allo spazio espositivo atono, caro al contemporaneo.
Il primo capitolo si pone il compito di gettare un breve sguardo alla con-
dizione dell’oggettualità votiva, come alle innumerevoli declinazioni del
gesto rituale che la coinvolgono nel tempo. Da una primitività remota e
a un passo dall’insondabile si cerca di giungere ai limiti delle civiltà an-
tiche, sottolineando in particolare l’attualità protratta nel tempo del sim-
bolo materiale nel rendersi vettore ideale tra mondanità e immaterialità.
Il legame dell’oggetto ai processi sociali che vi identificano un determi-
nato valore, è individuato come filo conduttore, che attraversa le diffe-
renti forme storiche del contesto votivo e artistico nell’ambito funerario.

Nel capitolo seguente viene analizzata l’analogia tra la purificazione


dell’isola sacra di Delo avvenuta nella Grecia classica del V secolo a.C., e

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la condizione sacrale ed atemporale degli spazi espositivi moderni e
contemporanei, facendo riferimento in particolare alle trattazioni “In-
side the White Cube” e “Art Power”, dei critici d’arte Brian O’Doherty
e Boris Groys. Vengono prese in considerazione particolare la figura
dell’intermediario tra spazio sacro e profano e la condizione mediana,
di transito doganale, dell’opera nello spazio che la ospita: lo spazio mu-
seale viene proposto come “zona franca” che si frappone tra l’hic et nunc
(aura) dell’opera e la sua (im)permanenza materiale nel flusso del tempo.
Il terzo capitolo prende in esempio specifico un graffito blasfemo di
epoca tardo- romana con il presupposto di identificare la satira e il di-
segno satirico in virtù di esorcismo, cercando di stabilirne un parame-
tro d’efficacia coerente, riferendosi al saggio “Inside the White Cube”.

Seguendo la teoria del Desiderio di Jacques Lacan viene steso un paralleli-


smo critico nei confronti di soluzioni esplicitamente metaforiche e carica-
turali, talvolta ricontestualizzate maldestramente nel panorama artistico
contemporaneo. La questione satirica è poi rimbalzata al momento icono-
clasta; terrorista, letto e contestualizzato anch’esso in chiave critico-artisti-
ca, seguendo le ideologie espresse da Boris Groys nel saggio sopracitato.

Il quarto e ultimo capitolo pone infine l’accento sulla necessità fondamen-


tale dell’investitura; del riconoscimento di un’aura sacrale nel culto solo
tramite e grazie all’intervento del popolo, della credenza popolare, che vi
attribuisce un valore attraverso la celebrazione e la rievocazione nel tempo.
Vengono presi come esempio tre avvenimenti particolari, tratti da conte-
sti storici, territoriali e culturali differenti; che mostrano ognuno la pre-
senza di un processo di canonizzazione di un elemento “profano”, che per
l’intercedere di una volontà superiore (o inferiore), di carattere apparen-
temente miracoloso o quantomeno inspiegabile, riceve lo statuto di sacro.
La nostra speranza è, tramite la diversificazione dell’argomento di par-
tenza in favore di una lettura personale, e di conseguenza più am-
pia della questione, di fornire una visione della tematica in termini
più articolati, seppur a volte parziali o apparentemente discontinui.

Ciò che vogliamo evidenziare attraverso questo modus operandi è la diffi-


coltà nel rendere uniforme un tema tanto etereo e sfuggevole, e al contem

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po il ripresentarsi in più occasioni e contesti dell’arte in vece di elemen-
to mediano; un tramite, nella materializzazione dell’immateriale, laico,
religioso, sintomatico o auratico.

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Breve storia di gesto e oggetto tra mondano e ultraterreno

Carlo Rocca
La presenza fisica di oggetti e beni materiali nella tumulazione, come la vo-
lontaria assenza di essi, seguono inscindibilmente tutte le forme culturali di
celebrazione e cura dei defunti. Pensiamo all’offerta come ad un’entità fisica,
un oggetto e allo stesso tempo un’immagine, che adoperiamo come vettore
in grado di trascendere la propria dimensione. Se da un lato è la collettivi-
tà culturale a identificare l’uno o l’altro oggetto, questa o quell’immagine,
nell’intento di farli propri, in compenso è la capacità del singolo di perce-
pire la qualità trascendente di questa “immagine incarnata” ad attribuirgli
il suo status di offerta, per definizione simbolica, per necessità concreta.

Questa polarità, ossia il rapporto tra un valore qualitativo e uno sim-


bolico, immateriale, caratterizza la ritualità funebre come quella for-
ma d’arte che si faccia portatrice di un significato altro al materiale. È
appunto quando questo valore trascende la realtà fisica per indirizzar-
si a una condizione differente, come un’altra vita o il senso della stessa,
che percepiamo più profondamente questi processi. Anelare all’irrag-
giungibile caratterizza dunque queste esperienze umane: aggrappando-
si alla solidità degli oggetti e del loro contesto tendere ai confini della
nostra finitezza, fisica, attraverso l’atto finale della morte, e di senso,
nella continua auto indagine esistenziale e sociale mediata dall’arte.

Semplificando più o meno maldestramente la nostra visione della storia,


tendiamo a identificare nelle forme più arcaiche del culto dei morti una
maggior attenzione all’immediatezza e alla materialità di queste intera-
zioni fisiche, ma sbaglieremmo se pensassimo che questa visione prag-
matica dell’oltretomba potesse essere priva di un’ elaborata simbologia
e significati più ampi di una mera “funzionalità” dell’offerta. È tuttavia
innegabile che nell’immaginare un tempo così remoto si perda la perce-
zione di una sofisticata distinzione tra doppio e corpo (usando la termi-
nologia di Edgar Morin, l’uomo e la morte), tra oggetto e simbolo, e per
certi versi, tra vita e morte. Questa condizione originaria di sovrapposi-
zione degli opposti calza a pennello con la percezione distorta di
una primitività nebulosa, che cerchiamo di padroneggiare ma che anco

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ra oggi sfugge alla comprensione.

Tempi remoti

Abbiamo detto come nel principio dell’umanità si identifichi inevitabil-


mente il principio della morte, giacché da quando esiste l’uomo esiste
anche la morte per come la conosciamo. Riferendosi a un tempo così
lontano occorre innanzitutto accorgersi che quasi nulla di ciò che po-
tremmo prendere in analisi rimane inalterato a fronte dell’enorme carico
di nozioni e stratificazione storica di cui siamo portatori. In altre pa-
role, più ci allontaniamo indietro nel tempo più perdiamo la pos-
sibilità di fruire della purezza e genuinità di questi fenomeni, in
quanto la nostra mente ragiona attraverso meccanismi e applica co-
noscenze radicalmente diverse e allo stesso ingannevolmente simili.

Con la consapevolezza della finitezza della vita, e quindi della morte


come atto finale, nasce la capacità di percepire una trascendenza che ca-
ratterizza la nostra esistenza e ci permette di concepire un “oltre”, una
dimensione altra in continuità con la vita terrena ed estremamente cor-
relata ad essa. Partendo dal presupposto che questa “altra vita” si rela-
ziona alle strutture sociali e alle dinamiche di quella terrena, vediamo
come il contatto tra queste due dimensioni si esprime attraverso ritualità
e oggetti rimandanti alle usanze e alle pratiche più cariche di significato.
Individui legati tra loro più che al luogo di appartenenza (in una fase in
cui le popolazioni erano principalmente nomadi), sviluppano simboli e
pratiche per garantire la continuità del proprio nucleo attraverso il tem-
po, anche perpetrando la presenza del defunto attraverso la memoria.
Questa tendenza a considerare l’aldilà come estensione, specchiatura o
distorsione della vita terrena caratterizza uno stadio di incubazione del-
la ritualità funebre, già ben consapevole del valore di gesti e immagini.
In questa enorme estensione temporale, cercheremo di non
smarrirci, portando solo alcuni esempi di come la mor-
te di un singolo sia passata da un evento casuale a un determinato
momento nella vita del gruppo, e come inevitabilmente si sia svilup-
pata una coscienza simbolica che permettesse di relazionarsi con essa.

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Riprendendo le parole di Edgar Morin (l’uomo e la morte), la pau-
ra della morte è dovuta alla prospettiva della perdita dell’individuali-
tà, di cui la morte appunto ci priva rendendoci materia. Il rito funebre
si sviluppa quindi in funzione di un riconoscimento di individualità a
colui che non la può più manifestare: ed è attraverso le immagini che
esso può apparire a noi come quello che è stato (un individuo), e non
come quello che è ora (un corpo). Secondo Morin inoltre, la condi-
zione arcaica di identificazione del singolo con il gruppo poteva porre
l’individuo in uno stato di “grazia” per cui la paura della morte veniva
meno, in quanto l’individualità lasciava spazio all’identità collettiva.

Non ci stupisca dunque che le prime forme d’arte e le prime for-


me di culto funebre abbiano avuto modo di coincidere e sicuramen-
te di alimentare vicendevolmente il proprio sviluppo: se la perce-
zione simbolica della realtà ha permesso di gettare le basi dell’arte
preistorica, la necessità di adoperare questi simboli nel rapporto con i
defunti e la loro “esistenza postuma” hanno fornito materiale su cui
un’arte agli albori potesse far prevalere le sue qualità trascendentali, in
quanto medium in grado di giungere là dove noi non arriviamo. Basta
osservare come molta arte preistorica fosse collegata al contesto funebre
e rituale, per capire quanto i simboli che incarnava fossero fondamentali
al fine di un dialogo efficace tra materiale e immateriale, mondano e
ultraterreno.

Per quanto concerne la ricerca sul campo, uno dei siti più interessanti
riguardanti sepolture primitive è quello della grotta di Shanidar, situata
nel Kurdistan settentrionale nei pressi di Mosul, dove nel 1960 il pale-
ontologo Erik Trinkaus e colleghi riportarono alla luce ben 10 sepolture
di Neanderthal. Lo scavo venne reso celebre dal ritrovamento di polline
di fiori nei sedimenti che interessavano i resti di questi individui, oltre
a utensili in pietra, suggerendo come potessero essere coinvolti fiori o
altri elementi naturali nei riti di sepoltura, rivelando una complessità del-
le ritualità preistoriche connesse alla morte fino ad allora sconosciuta.
Il “flower burial” scoperto a Shanidar è un esempio brillante di come
l’estrema lontananza nel tempo tra noi e questi individui crei talvolta
dei cortocircuiti simbolici, dovuti alla nostra irresistibile tensione verso

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immagini che già conosciamo e crediamo di padroneggia-
re (come l’immagine di un fiore per esempio), i quali, se da un lato
suggeriscono una visione romantica, talvolta possono fuorviare la nostra
lettura. Il ritrovamento di fiori in queste sepolture, non ci stupisce tanto
quanto constatare come la presenza del fiore sia predominante in tutte le
tradizioni funebri e in generale sociali-celebrative, tanto è vero che nel
corso della storia sono stati suddivisi e categorizzati in ogni cultura tra-
mite infiniti significati e contestualità differenti. Per non eccedere nella
divagazione ci limiteremo a notare come il fiore sia innanzitutto in natura
un elemento pratico per attirare l’attenzione, per catalizzare lo sguardo
su di esso, le sue proprietà estetiche di simmetria e colore lo rendono
un archetipo di bellezza naturale eguale o superiore all’artefatto. La loro
infinità varietà si presta inoltre a innumerevoli interpretazioni e attri-
buzioni di significato (fondamentale nel contesto funebre, dato che la
bellezza formale del fiore deve farsi carico di un valore altro, capace di
trascendere la sua fisicità), spesso attraverso storie, aneddoti e leggende.
Inoltre, il fiore, in particolar modo se reciso e condannato a un repenti-
no appassimento, incarna una condzione di estrema precarietà. Questa
estrema prestanza del fiore a un’interpretazione simbolica ha portato a
derive singolari: talvolta troviamo esempi brillanti negli innumerevo-
li siti internet di varie aziende funebri e attività connesse al settore, le
quali, oltre ad offrire il loro servizio, si preoccupano di fornire un vasto
compendio di aneddoti e informazioni riguardanti il contesto funerario.
Tra i temi più frequenti in assoluto vi è appunto la simbologia del fiore
funebre, il quale deve essere opportunamente scelto in base all’occasione,
al rapporto col defunto e alle sue ormai passate qualità, in osservanza di
un codice non scritto che assicura in sostanza “un’efficace commemora-
zione”. Potremmo azzardarci a pensare, che nel gesto primitivo di deporre
un’infiorescenza su un cadavere, vi fosse forse un più genuino approc-
cio al valore intrinseco del fiore, inteso come prezioso esempio di vita,
e libero dalle ingombranti complessità simboliche costruitesi nel tempo.

Tornando allo scavo di Shanidar e ad altri nel mondo, è doveroso nota-


re infine come le ricerche sui resti dell’uomo Neandertaliano, avvenute
dall’inizio del secolo scorso fino a gli ultimi anni, abbiano suggerito per
poi confermare che le più remote testimonianze di sepolture e riti fune

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rari si riconducano anche a questo ramo dell’evoluzione umana, con il
quale tuttavia non abbiamo continuità evolutiva.
Con l’avvento del Paleolitico superiore, che coincide con la fine dell’ulti-
ma glaciazione, circa 11.700 anni fa, assistiamo all’espansione dell’uomo
morfologicamente moderno (Homo Sapiens) in tutto il pianeta. Con la
fine dell’era glaciale si creano le condizioni che consentiranno un rapi-
do sviluppo di forme di sedentarietà, modificando le strutture sociali
e lo stile di vita di comunità fino ad allora principalmente nomadi. Re-
lativamente a questo periodo, un sito di grande interesse è certamente
il complesso di Sunghir, un grande insieme di scavi situato in Russia,
200 chilometri a est di Mosca; dove tra il 1957 e il 1964 vennero com-
piute ricerche che portarono alla luce diverse sepolture. Tra le meglio
conservate, quella di una cacciatrice adulta, adornata con 30 denti di vol-
pe artica e migliaia di perle di avorio finemente intagliate in varie for-
me, presumibilmente cucite al vestiario e intrecciate in altri ornamenti.
Il ritrovamento più impressionante rimane tuttavia un altro, rinvenuto
in strati leggermente sottostanti, la poi divenuta celebre sepoltura di due
giovani, di 14 e 10 anni, deposti supini e allineati, con i capi vicini in
una stretta fossa. L’enorme quantità e ricchezza del corredo funebre non
hanno precedenti, nel totale dei due corpi si contano 230 denti di vol-
pe polare cuciti su cinture, 13.000 perle di avorio, ossa animali, polvere
d’ocra e delle incredibili lance in avorio di mammut. Inoltre l’utilizzo di
ocra rossa e ocra gialla nel momento della deposizione dei corpi deno-
ta come elementi propri dell’arte preistorica si unissero alle pratiche di
sepoltura, probabilmente anche grazie alla loro forte valenza simbolica.
Queste sepolture ci parlano di come queste comunità avessero attraver-
sato periodi si sedentarietà alternati ad altri di nomadismo, e come nei
primi si fossero potuti permettere di sviluppare elaborazioni artistiche
e ritualità più complesse. Nel caso di Sunghir in particolare, vediamo
come il culto dei morti presso queste popolazioni fosse ormai caratte-
rizzato da una componente collettiva (realizzazione di perle e altre ela-
borazioni da parte di individui designati, creazione di abiti e ornamenti
funebri). In particolare colpisce l’attenzione all’abito, confezionato
con grande cura e quantità di ornamenti, con il quale venivano sepolti
i membri di queste comunità: le cinture, i bracciali, e la bensì primiti-
va sfarzosità degli abiti fanno supporre i paleontologi di come non tutti

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questi elementi fossero indossati quotidianamente ma facessero piuttosto
parte di cerimonie e riti funerari. Questo discorso potrebbe forse ap-
parire più attuale alla luce delle usanze tutt’ora in uso, basti pensa-
re alle considerevoli cifre spese, dalle tasche di chi può permetterse-
lo, per vestire un caro estinto: L’abito che non può essere sfilato deve
necessariamente essere il migliore, e attestare non solo il buongusto dei
congiunti ma tuttalpiù la statura sociale e morale del defunto, attraverso
i canoni della cultura a cui apparteneva. Nonostante non sia avvenuta
con continuità nella storia dell’uomo, vediamo come questa attenzione
all’abito, e quindi alla vestizione dei morti, oscillino tra un’espressione
di individualità della persona e una attestazione di appartenenza a un
sistema sociale, attraverso lo status simbolico dell’abito. Attraverso le se-
polture indaghiamo le relazioni sociali: il trattamento differente per ogni
individuo mostra ad esempio come la gerarchia sociale non si basasse
esclusivamente sulla predominanza del maschio cacciatore adulto come
ipotetico vertice sociale, ma rivelano invece un più sofisticato rapporto
con figure di “ibridi sociali” che ricoprivano un ruolo ancora da definire
nella comunità, ma che di certo si distaccava da meccanismi pragmatici
(sussistenza, protezione, forza lavoro), agendo in una sfera di valori
simbolico-rituali. Ne sono esempio le sepolture di bambini e ragazzi che
mostravano malformazioni e caratteristiche insolite, come nel caso della
doppia sepoltura di Sunghir, in cui l’estrema ricchezza del corredo fune-
bre attesta l’alta considerazione di cui nutrivano questi individui.

La cacciatrice di Sunghir, con copricapo funebre e altri ornamenti in pelle di avorio.

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Questi prototipi di approccio alla finitezza della vita si riscoprono com-
plessi e articolati, plasmatisi su nuclei sociali in continuo sviluppo e mu-
tamento. Nonostante conosciamo ancora così poco, non occorre molto
per accorgersi della profonda interconnessione tra vita e morte percepi-
ta da queste prime società: le forme e i simboli presi dalla quotidianità
si fanno indistintamente carico di significati che possono trascendere
la dimensione terrena, attraverso l’importanza acquisita nella praticità,
si sviluppano come immagini ideali e diventano vettori di significato.
Non tanto la lancia serve allo spirito dell’uomo per cacciare nell’altra vita,
quanto il simbolo della lancia e lo status che rappresenta identificano il
singolo individuo nel momento in cui la sua presenza nel mondo fisico
viene meno, trasportandosi su di un altro piano esistenziale. Riguardo
al tema dello status sociale, ricordando le parole dell’antropologo Robert
Hertz (…sulla rappresentazione collettiva della morte), possiamo notare
come la morte di un individuo lasci un vuoto nell’ordine sociale, e come
questo vuoto generalmente venga cercato di colmare con la ridistribu-
zione di cariche e beni del defunto, ossia la rappresentazione della sua
condizione sociale in vita. Tuttavia, un’ombra di questo status si mantie-
ne legato all’immagine del defunto, la condizione sociale quindi trascen-
de parzialmente, grazie alla cura con qui essa viene testimoniata nei riti
funebri e alla considerazione che l’individuo manterrà dopo la morte.

Tra antico e moderno

Se nella preistoria umana tendiamo a muoverci nel buio per vastità di


tempo e spazio, e per un’estrema scarsità di conoscenze, è con l’inizio del-
la storia e l’avvento delle grandi civiltà che assistiamo ad una repentina
evoluzione delle ritualità. Tutti i più grandi esempi di cultura antica si ca-
ratterizzano per la loro singolare concezione del divino, dell’ultraterreno,
della mortalità umana e del rapporto tra essi, e come già detto, attraverso
culti e ritualità legati alla sfera funeraria possiamo leggere meccanismi e
rapporti sociali, in altri contesti non cosi marcati, o quantomeno espliciti.

Il più celebre esempio di come la società e la cultura di un’intera civiltà si


strutturino inevitabilmente sugli aspetti simbolici più importanti della

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vita stessa, è nel nostro contesto di ricerca sicuramente l’antico Egitto. Il
fenomeno che forse più ci affascina di questo panorama culturale è
la preservazione del corpo, esso: deve essere integro, come leggiamo
nel libro dei morti, in modo che l’evento finale sia invece l’inizio di una
nuova vita. Periodo di estremo interesse a riguardo è l’antico regno (cro-
nologicamente il più lontano, in cui tradizioni e cultura egizia vanno
formandosi), in quanto ci mostra come i più archetipici retaggi funebri
si innestino in una civiltà in ascesa, plasmando una nuova ed estrema-
mente articolata visione della vita ultraterrena. La mummia di Gebe-
lein, custodita al museo egizio di Torino, fornisce interessanti spunti
di riflessione. Notiamo innanzi tutto come questo corpo, come altri in
sepolture coeve, sia stato sottoposto a una mummificazione natura-
le, il corredo funebre povero e mal conservato indica inoltre la condi-
zione precaria di questi individui tanto quanto delle loro sepolture.
Datata intorno ai 5600 anni di età, questa mummia ci mostra come la
postura fetale (la quale si riconduce alla ciclicità della vita e all’interpre-
tazione della morte come rinascita, propria di molte culture antiche) e il
trattamento del corpo (avvolto in stuoie di giunco), prefigurasse l’evolu-
zione della cultura funeraria egizia senza tuttavia distaccarsi da simbolo-
gie preesistenti. Fu appunto grazie all’osservazione della mummificazio-
ne naturale, operata dal Natron (minerale salino) presente nella sabbia,
che gli egizi svilupparono in seguito la pratica della mummificazione
artificiale, con l’obbiettivo di preservare al meglio il corpo del de-
funto in funzione della nuova vita che si apprestava a comincia-
re, e in seguito del sarcofago, anch’esso creato allo scopo di forni-
re protezione nel tempo alle spoglie mortali. Altra peculiarità del
periodo predinastico è la nascita delle Mastabe, prototipo della sepol-
tura architettonica, definite in tal modo per la loro forma a gradoni.
Erano tombe scavate in parte nella pietra, progettate per l’inumazione
di una o più salme, e presentavano un aspetto dicotomico: in superfi-
ce delle stanze visitabili dai viventi e utilizzate in occasione delle cele-
brazioni, si collegano a una sezione ipogea attraverso un pozzo, nel-
la quale si trovano camere sepolcrali dove era situato il sarcofago.
A separare queste due dimensioni simboliche si erge una stele detta “fal-
sa porta”, elemento-cerniera che blocca “corpi viventi” e “corpi morti”
nel rispettivo contesto, ma permette, o almeno suggerisce il passaggio di

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valore immateriale: in questo modo un elemento pratico di separazio-
ne architettonica, attraverso la rappresentazione scultorea della porta,
si arricchisce di una doppia valenza, configurandosi come l’elemento
centrale della sepoltura. È l’espediente del falso, della presenza (por-
ta vera) emulata dal simbolo (porta falsa), a cambiare la lettura
dell’elemento fisso della stele, tanto quanto è ciò che vi si cela die-
tro, a giustificare il paradosso di una porta che non si può aprire.

Vale inoltre la pena soffermarsi brevemente sulle proprietà architetto-


niche di queste sepolture, in quanto rivelano efficacemente la contrad-
dizione innata dell’architettura funebre. Quest’ultima si configura come
una “anti struttura” in cui le parti sono volontariamente separate e sigil-
late, sancendo il limite tra luogo di visita e sepolcro. Nell’ottica dell’al-
lontanamento del corpo attraverso la sepoltura (Morin), si manifesta la
necessità di creare un dispositivo che possa isolare la salma, e allo stesso
tempo configurarsi come portale che permetta la trasmissione di valore
simbolico. L’ambivalenza dell’elemento architettonico funebre si lega in-
scindibilmente al tema dell’offerta: la pietra funebre, il sepolcro, la lapi-
de, vengono umanizzati da chi vi interagisce attestando e potenziando la
trascendenza dell’offerta stessa. In questo senso possiamo affermare che
l’interazione coi morti si concentra nella loro manifestazione a noi più
prossima, sia essa eterea come un’iscrizione, o tangibile come una reliquia.

Stele “falsa porta” risalente alla seconda metà dell’antico regno.

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Apprendiamo quindi come il forte apparato simbolico sviluppatosi nel
contesto funerario, vada di pari passo con necessità materiale e possibi-
lità tecniche. Inoltre, se l’oggetto incarna un valore che può trascendere
la mondanità a cui appartiene, si rende necessaria la garanzia di un ente
trascendente che protegga questo valore nel momento in cui, trascen-
dendo appunto, non possiamo più governarlo nella sua integrità. È tut-
tavia proprio nella prospettiva di necessaria attestazione di questo valore
gettato nell’incertezza, che a mio parere le più grandi imprese di raffi-
gurazione simbolica sono state compiute. Per portare un singolo esem-
pio, basti pensare come al tempo in cui le piramidi dei faraoni erano già
vecchie di duemila anni (260 a.C.), all’altro capo del mondo vi era chi si
circondava di dozzine di soldati in terracotta, non certo i più scattanti o
i meno fragili, ma infallibili nel testimoniare tutto lo splendore e la gran-
dezza del primo imperatore cinese, o di chiunque altro si potesse sentire
tanto importante.

Proseguendo, società radicalmente diversa da quella egizia ci appare


quella greca, i quali culti religiosi si contraddistinguono per una spic-
cata materialità e mondanità di temi e storie, le quali, in confronto con
altre culture, appaiono talvolta addirittura “dissacranti”, seppur fuor di
metafora incarnino gli stessi medesimi valori. Tuttavia, se da un lato la
visione greca del divino viene ricordata per i suoi tratti estremamente
umanizzati, è forse la sua visone dell’aldilà che ha notevolmente influen-
zato culture che sentiamo forse più vicine, come quelle romana e cristia-
na. In un atteggiamento diametralmente opposto a quello di una strut-
tura sociale verticale, il rito funebre greco incarna valori differenti tra i
quali notiamo una generale minore attenzione alla ricchezza delle sepol-
ture (che venne eventualmente regolata da leggi), un’eguale attenzione
al trattamento del corpo ma in un’ottica di purificazione e non di con-
servazione della fisicità in funzione dell’oltretomba, e inoltre la pratica
della cremazione, praticata parallelamente all’inumazione, riflette una
percezione di maggior distacco tra anima e salma, nonostante conviva
con la volontà di mantenere l’immagine del corpo (soprattutto quello
“eroico” descritto nella letteratura) intatta e inalterabile dal decadimento
della morte (Jeane-Pierre Vernant, L’individuo, la morte l’amore).
Riguardo al tema della ricchezza delle sepolture e dei corredi funebri,

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notiamo come in una società giuridicamente più avanzata delle prece-
denti come quella greca, si sia manifestata la volontà di limitarne l’ecces-
siva ricchezza, in modo da attenuare almeno esteriormente le differenze,
ammettendo implicitamente come ricchezza e status sociale avessero un
peso nel contesto della commemorazione del defunto, se non dopo la
morte. Ecco come l’arte funebre sottolinea più volte nella storia questa
tematica della disparità sociale, mantenendo tuttavia un’eguale attenzione
proprio a quell’aspetto di cui abbiamo parlato pocanzi, ossia la funzio-
ne commemorativa e votiva. Ciò che accomuna la piramide canoviana
per Maria Cristina d’Austria alla più muschiosa delle lapidi è dunque
l’intenzione di renderle luoghi prediletti per il dialogo con l’oltretomba, in cui
simbolo e immagine divengono offerta grazie all’aura della sepoltura stessa.

Alcuni elementi della cultura funebre greca assumono inoltre una forte va-
lenza trascendentale grazie alla simbologia legatavi, prendiamo per esem-
pio l’usanza che riguarda l’obolo di Caronte. Questa piccola moneta o obolo
(termine greco per moneta di scambio) dal valore economico minimo ve-
niva posta nella bocca o sulle labbra del defunto prima che venisse seppel-
lito o cremato, fungendo da pedaggio per il traghettamento della propria
anima ad opera di Caronte, il traghettatore infernale descritto nella mito-
logia greca. L’aspetto interessante riguarda la trasposizione di un elemen-
to prettamente pratico (a cui forse, pregiudicati da un sistema economico
prepotentemente radicato nella società contemporanea, attribuiamo una
materialità più cruda di quanto non si facesse un tempo), legato a un siste-
ma di mercato, in un contesto che riguarda un piano differente dell’esisten-
za con cui non abbiamo possibilità di interagire. Un altro oggetto comune
diviene vettore di un’offerta al defunto, tramite un mito o credenza che lo
legittimano (elemento sempre più importante nell’avanzare della storia).
Notiamo con curiosità come questa particolare usanza abbia avuto rela-
tiva fortuna presso altre culture, in quanto oltre che nella Roma antica, la
ritroviamo in Europa occidentale presso i celti influenzati da cultura ro-
mana e spagnola, in alcuni popoli medio orientali e soprattuto nelle pri-
ma forme di cristianesimo, nel quale la moneta veniva sostituita talvolta
da una croce dorata, come nei popoli del nord potevano essere sostituite
con lamine di metallo recanti iscrizioni. Altre varianti di quest’usanza si
ritrovano sporadicamente in Europa fino al diciannovesimo secolo.

23
Obolo proveniente da Cizico, Asia minore (400-450 a.C.).

Per citare un ultimo caso particolare, merita uno sguardo veloce la tra-
dizione funeraria etrusca, la quale originariamente concepiva la morte
come una seconda vita che lo spirito del defunto svolgeva in continui-
tà con quella precedente. Le celebri necropoli etrusche erano difatti del-
le “cittadine funerarie” a tutti gli effetti, organizzate in sezioni abitative
ricostruite in chiave simbolica, presentavano svariati oggetti di uso quo-
tidiano e i simboli dello status sociale come armi e gioielli. Se questa
versione pittoresca di un oltretomba sotterraneo di casupole dipinte e
arredate può ricordarci grossomodo la concezione egizia di oltretomba,
dopo il V secolo a.C., l’influenza delle colonie greche e il conseguente
declino della civiltà etrusca convertirono la visione fisica della vita ultra-
terrena in una più pessimistica in cui le anime venivano condotte in un
oltretomba che si rifaceva a quello greco, scortate da demoni e divini-
tà, esse potevano trovare sollievo dalle loro sofferenze solo grazie ai riti
e alle offerte dei viventi. L’idea che l’anima del defunto sia legata da un
rapporto di semi-dipendenza (instaurato dalle offerte e dai re-
lativi benefici) al mondo dei viventi, ha generato e gene-
ra tuttora forme singolari di devozione verso i morti, in parti-
colare quando sepolcri e monumenti dimenticati o trascurati
vengono riabilitati dall’altruismo della comunità a cui appartenevano.

24
La cura delle tombe dimenticate si colloca nel ventaglio del sentimen-
to pietoso verso lo sconosciuto: proiettando sull’altro la nostra pau-
ra di essere dimenticati tendiamo ad essere colpiti dalla visione di una
trascuranza quasi profanatoria, nonostante talvolta sia solo il tempo a
profanare la nostra memoria. Un esempio che ancora colpisce è l’usanza
napoletana ormai estinta di adottare dei resti anonimi delle catacombe
della città: le cosiddette anime pezzentelle, che non ricevono cure né of-
ferte. Chi adotta il defunto si fa carico di curarne il teschio accogliendolo
come un proprio caro e collocandolo eventualmente in una cassetta o
una scatola, spesso nella speranza di ottenere una grazia per il suo gesto
altruista, oppure i numeri da giocare al lotto. Espressioni più informali,
come una sigaretta lasciata tra i denti di un cranio, come qualche mo-
netina posatagli accanto, testimoniano ancora il retaggio di queste vec-
chie usanze. Questa pratica antica della cura dei teschi ci fa intuire an-
cora una volta quanto nel rapporto di materialità con l’oggetto (in questo
caso la reliquia) si identifichi il fulcro dell’esperienza simbolica. I resti
del defunto, esibiti in teche o sigillati in un sepolcro, apparterranno sem-
pre nella loro materialità alla dimensione terrena, ma possono ricondur-
re all’identità di chi li animava, attraverso la cura e la memoria di essi.
Se con questi esempi compiamo grandi salti temporali e tematici, alcu-
ne dinamiche sono più lampanti di altre all’occhio che insegue le forme
dell’arte, e certamente la trasposizione del rapporto materiale/immate-
riale, che tanto incarna l’offerta funebre, nel contesto artistico ci appare
ora più esaustiva. L’artista compie nell’atto di creare il processo inverso
che si cela nell’atto di morire, infondendo significato nella materia esso
unisce ciò che la morte inevitabilmente separa: ecco perché questo discor-
so è tanto caro a noi come a chi guarda gli oggetti e le figure con l’intenzio-
ne di vedere oltre gli stessi, ed altrettanto significativo rimane come l’arte,
funeraria in particolare, esprima a pieno ancora oggi le volontà di rappre-
sentare per conservare, racchiudere per ricordare, offrire per esprimersi.

Questo primo scritto vuole rimanere distaccato da un tempo ameno,


permettendo di leggere questi archetipi del linguaggio votivo senza tut-
tavia identificarvisi in modo acritico, concedendo qualche breve riman-
do alla contemporaneità. Proiettarsi oltre un’ ipotetica zona di comfort

25
Proiettarsi oltre un’ipotetica zona di comfort, significa quindi spinger-
si lontani nel tempo più che nello spazio, per ricostruire intuitivamen-
te l’origine del proprio rapporto con l’“oltre”, riscoprendolo talvolta
cangiante e mutabile nelle sue forme, talvolta immobile sui suoi prin-
cipi. Le opere d’arte come le offerte funebri, siano esse concepite per lo
sguardo dei viventi o ad esclusiva dei defunti, si esprimono nei termini
che solo uno sguardo attivo e simbolicamente critico possono fruire, ap-
partenga esso all’una o all’altra condizione. se l’offerta indirizza il proprio
valore al defunto, esprimendosi attraverso le immagini dei viventi, tal-
volta l’arte si appella a una condizione altra interagendo con il presente.
In definitiva, vediamo come lo stretto rapporto tra materialità e signifi-
cato corre lungo tutta questa serie di esperienze, siano esse legate al fare
artistico, o a un linguaggio che trascende questo mondo, individuali o
collettive, esprimono la necessità di incarnare in oggetti e immagini
questi valori per renderli comprensibili, maneggevoli, scambiabili: l’anti
esorcismo definitivo adoperato al fine di legare un pensiero, una verità
fondamentale a un’immagine che la potenzi per incutere paura o la neutra-
lizzi per infondere fede, ad una forma governabile che diviene simbolica.

26
Bibliografia

Edgar Morin, “L’uomo e la morte”, 1951.


Erik Trinkaus, “The People of Sunghir”, Oxford University Press, 2014.
Ovidio, “Metamorfosi”
Z.V. Spinar, “Quando l’uomo non c’era”, 1974.
Robert Hertz, “Contributo sulla rappresentazione collettiva della morte”,
1907
Jeane-Pierre Vernant, “L’individuo, la morte, l’amore”, 2000
Emma Pomeroy e Paul Bennett, Research Article: “…the ‘flower burial’
at Shanidar Cave”, 2007.
Giulia Rocca, “La Damnatio Memoriae tra i privati dall’ Antico e Nuovo
Regno egiziano”, 2015.

Sitografia

youtube.com/Le Passeggiate del Direttore: rituali e sepolture nel Predi-


nastico (S.1 E.7)
it.wikipedia.com/glaciazione_Wurm
www.cimiterofontanelle.com
www.bibliotecaambrosiana.com
www.storiacontrostoria.org

Siti a tema furerario/votivo, citati a pag. 16


www.giubileo.com
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Simon Pellegrini
Un esempio che può aiutarci, a meglio capire, come sia possibile, attraver-
so una “purificazione” che tiene conto del profano, far valere la sacralità di
un luogo o la sua integrità rispetto al resto, sono alcuni eventi legati alla
storia dell’ isola di Delo. Sull’isola di Delo era proibito sia nascere che mo-
rire, così stabiliva un editto ateniese del V sec. a.C., che sancì l’inizio della
purificazione dell’isola. Si iniziò, dunque, ad aprire tutte le tombe esistenti
sull’isola, ed ossa e suppellettili vennero trasportati nell’ isola vicina, Renea.
Da quel momento nessuno nacque e nessuno mori, ne tantomeno venne
sepolto sull’isola sacra, e gli abitanti di Delo rimasero così, senza patria.
Questi individui quindi sono di passaggio? Anche se vivono l’isola si
può dire che ne fanno realmente parte?

Rituali, festeggiamenti e attività lavorative occupano le strade e i luoghi


di Delo, c’era spazio solo per l’essere in vita. Viene quindi da pensare, al-
lora perché anche le madri che stavano per partorire venivano portate
via, le stesse donne che appunto stavano per portare nuova vita allo stes-
so tempo potevano diventare portatrici di sventura, di un figlio morto o
della loro stessa mancanza. Veniva dunque separata la vita dagli unici
avvenimenti certi che la caratterizzano, o meglio, la morte è sicura, la na-
scita meno, ma comunque non era preso in considerazione ciò che non
si trovava nel mezzo, nell’in. Appurato che l’isola era dedicata alla vene-
razione di Apollo, e senza mettere in discussione l’approccio alla realtà
nell’antichità che in molti casi era più magico che scientifico, mi limiterò
a prendere in considerazione questo esempio come un punto di rifles-
sione sul rapporto e percezione di sacro e profano rispetto ad un luo-
go, e su come questa dinamica può presentarsi nella contemporaneità.

Mi sembra doveroso, o almeno necessario, introdurre questo discorso


con una piccola nozione, senza confondere il sacro con il santo, ragio-
niamo per qualche riga sul termine sacro. Deriva da una parola indoeu-
ropea che significa separato, e appunto, come ci spiega Umberto Galim-
berti in sacro e ragione, da Edipo agli anni 2000, questo sacro prevede
degli spazi separati dal profano, come templi, chiese, moschee ecc. , ma

30
questi luoghi prevedono anche un mediatore, che stia sia nel sacro che
nel profano, per appunto mediare. Questo qualcuno è il sacerdote. Prima
di approfondire le figure che vanno a porsi sul confine di questi luoghi e
delle azioni che compiono, inizieremo a ragionare sulle caratteristiche di
queste zone, in particolare sulla sacralità che caratterizza e viene perce-
pita di un’istituzione artistica.

Come afferma O’Doehrty lo spazio espositivo è costruito in base a leggi


religiose, come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa me-
dievale. Il principio di queste leggi osserva che il mondo esterno deve re-
starne al di fuori, come se le opere all’ interno di una galleria non fossero
soggette al tempo comune presente all’ “esterno”. Questa caratteristica fa
si che la “galleria ideale” debba privare l’opera di tutti i riferimenti che si
frappongono al suo essere “arte”, appunto, isolandola da tutto ciò che po-
trebbe compromettere la sua autovalutazione. Lo spazio, dunque, assume
un’ importanza primaria, ciò che inquadriamo in quel luogo come arte è
strettamente legato a questa “ubicazione”, oggi siamo arrivati al punto di
vedere prima lo spazio e poi l’arte. In questo modo lo spazio acquisisce
una presenza che è tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano
attraverso la reiterazione di un sistema chiuso di valori, come potrebbe
esserlo un luogo dedicato a pratiche religiose. La dimensione sacrale del-
lo spazio diventa allora evidente, e con essa una delle grandi leggi pro-
iettive del modernismo: più invecchia, più il contesto diventa contenuto.

Sempre citando il testo Inside the White Cube di O’Doehrty, riferendosi


allo spazio espositivo, qui l’arte è libera di “vivere la sua vita”, ma quale
vita? E dove?
Riprendendo l’esempio iniziale, in cui si parlava della particolarità di Delo
e facendo riferimento a questa sacralità dell’isola ma anche del luogo in sé,
mi viene spontaneo chiedermi se è possibile creare un parallelismo tra : Il
percorso dell’opera d’arte, che nella maggior parte dei casi, nasce al di fuo-
ri dell’istituzione artistica, e la condizione degli abitanti dell’ isola greca.
Premettendo che un’ipotetica opera d’arte non nasca o venga prodotta
necessariamente già all’interno di un istituzione artistica, quindi esclu-
dendo particolari casi di site specifity, che mutano il significato dell’opera
in relazione al contesto (O di opere che si vanno a creare unicamente

31
attraverso un’ iterazione tra artista-opera-luogo-pubblico-istanza) e che
eccezionalmente esigono un lavoro creato seduta stante, ma che par-
tendo dal lavoro individuale o collettivo di un artista, venga posto e che
eccezionalmente esigono un lavoro creato seduta stante, ma che par-
tendo dal lavoro individuale o collettivo di un artista, venga po-
sto e coinvolto come primo luogo lo studio, il pensiero o un sem-
plice foglio di carta all’interno di una zona non connessa a gallerie,
musei o fondazioni, possiamo dire che, come a Delo, l’opera d’arte
(come l’isolano) non nasce nella sua “isola” anche se, comunque, sem-
pre sotto un’ orizzonte più ampio, non identificabile o tantomeno cir-
coscrivibile da ipotetiche mura, ovvero quello del “mondo dell’arte”.
Possiamo vedere come un lavoro nasca, al di fuori di quella che sarà
poi la sua casa, anche se probabilmente destinato ad essa, rima-
ne in attesa, tra l’esser realizzato e poi ,forse, anche autorizzato a far-
ne parte, un po’ come quando si entra in dogana, e citando Groys,
permettendomi di fare dello spirito, sappiamo che è la polizia ad es-
sere in ultima istanza una garanzia di opposizione tra arte e non arte.

Tornando sui nostri passi notiamo come, nell’esempio citato all’inizio di


questo breve capitolo del saggio, momenti fondamentali, se possiamo di-
re così, della vita dell’opera e del trascorso di un abitante dell’arcipelago
delle Cicladi, non siano poi cosi distanti.

L’opera prima di entrare in galleria, o di entrare nel nostro cam-


po contemplativo, nasce al di fuori di questo contesto, senza entra-
re nel come nasca un’opera limitiamoci ad osservarne il dove pos-
siamo vedere come per entrare nella “scaralità” del luogo dell’arte il
lavoro dell’artista ne debba restare al di fuori, almeno inizialmen-
te. Ovviamente non approfondiremo questo riferimento, ma ci-
teremo la Land Art come esempio di uscita dal luogo espositivo.
Anche se la Land art condivide con il Minimalismo l’esperienza come
soggetto dell’opera mette comunque in crisi quello che è il contesto, di
conseguenza mette in discussione l’autorevolezza dell’istituzione e la sa-
cralità del White Cube, che rimane neutrale oltre ad essere immutabile e
protetto dall’esterno, spostando la fatidica esperienza estetica dall’ogget-
to all’ambiente e di conseguenza al fruitore. Questi sono alcuni se non

32
pochi punti fondamentali della Land Art ma necessari per indirizzare
questo discorso, anche se questo lavoro entra nella sacralità della gallerie
attraverso la documentazione, che in passato, ma anche in presente, ha
comunque visto uno spostamento dell’interesse verso di sé, quasi a va-
lorizzare più la documentazione di un’opera che l’opera stessa. Anche
se per definizione la documentazione dell’arte non è arte, ne fa solo ri-
ferimento, ma in questo modo fa chiarezza su cosa sia l’arte che, in
questo caso, non è più presente e immediatamente visibile ma al con-
trario assente e nascosta. Dunque necessaria, come nel caso di opere
simili a quelle di Oppenheim o De Maria e altri ancora che lavorando
con la temporalità hanno bisogno di immortalare in qualche modo,
e in questo caso con la documentazione fotografica, queste azioni.

Dennis Oppenheim, Whirlpool - Eye of the storm, 1973.

Appurato ciò rifletterei, per qualche riga, sull’oggetto in sé, e su di come


all’interno di un museo ne venga cambiata la percezione. Sempre in Art
Power di Boris Groys, nel capitolo “Sul nuovo”, viene fatta chiarezza sull’a-
spettativa di vita che si attribuisce ad un’ opera d’arte. L’opera d’arte è più
longeva all’interno di un museo rispetto a quanto possa esserlo un qual-
siasi oggetto nel quotidiano. Questo perché le cose normali sembrano più
vive e reali in un museo che nella realtà. Nel quotidiano è, infatti, più
semplice immaginare e predire la fine di un qualsiasi oggetto, non si può

33
dire lo stesso per un’opera sottoposta a restrizione così da poter essere
esposta “per sempre”, andando a fungere quasi da reliquia o addirittu-
ra cambiare la propria funzione, come succede a reperti di arte antica.
Ma cosa succede, dunque, quando l’oggetto “artistico” diviene tale solo
dopo averlo sradicato dal suo contesto e dal suo utilizzo? Continuamente
oggetti che vengono creati per funzioni rituali / apotropaiche o profane,
ma che hanno un’ estetica “artistica”, vengono portati ad essere esposti e
curati, ma così facendo ne si neutralizza e addomestica l’ effettiva missione.
In certi casi la popolazione, a cui appartiene un determinato oggetto sa-
cro è propensa a questi tipi di nuovo utilizzo, vedendo in essi un’ aspet-
to che precedentemente non veniva considerato, o meglio, non veniva
proprio immaginato. Nonostante ciò, esistono anche altri casi in cui le
associazioni di alcuni popoli nativi si oppongono a questa “vita nuova”
che travolge questi oggetti, questo perché ritenuti sacri e di conseguen-
za non visibili dai profani. Vediamo dunque un interessante scambio di
posizione tra sacro e profano, il luogo dell’arte “sacro” diventa un conte-
nitore di spettatori profani che si interfacciano con oggetti sconosciuti
provenienti da altre culture. Gli spostamenti, che vedono come soggetti
questi manufatti, in contesti diversi da quelli designati originariamente,
producono in essi, e nella loro percezione, una profonda trasformazione.
Nel testo “ Dal tribale al globale: introduzione all’antropologia” viene
preso in esame un tamburo “reale” come quello del regno precoloniale
dell’Ankole (Africa centro-orientale), fatto risuonare un tempo solo in
particolari occasioni come la salita al trono e la morte di un re. Si trat-
tava di uno strumento che, quando non veniva utilizzato per rituali, era
riposto e conservato con molta cura da parte dei sacerdoti, veniva po-
sto accanto ad altri tamburi più piccoli costituenti la sua “famiglia”. Si
trattava di un tamburo che, assieme ad altri, costituiva la metafora del
re e della sua corte (Remotti, 1993). Dopo la caduta del regno per opera
degli inglesi, questo tamburo non venne più ritrovato, ed è possibile che
sia stato sottratto ai bianchi in vista di un futuro ritorno della monar-
chia. Immaginiamo invece che questo tamburo fosse caduto in mano ai
funzionari coloniali britannici e che questi ultimi lo avessero spedito a
qualche museo etnografico della Gran Bretagna; e immaginiamo anche
che il tamburo avesse trovato un suo posto fra gli altri oggetti conservati
nel museo e non più tra il suo gruppo di simili. Tale operazione sarebbe

34
consistita nell’inserimento dell’oggetto in un altro contesto di significato,
e precisamente quel significato che noi ancora oggi attribuiamo all’idea
di cultura quando ce la rappresentiamo come entità tangibile, cumula-
tiva, descrivibile e in un certo senso “misurabile”: il tamburo, in questo
caso, sarebbe stato collocato nella sezione del museo dedicata agli stru-
menti musicali, tra gli strumenti a percussione e magari accanto ad al-
tri tamburi costituenti altrettanti esempi di una precedente, o successiva,
fase evolutiva della concezione e delle tecniche di costruzione di questo
tipo di strumenti Che relazione significante esisterebbe più, a questo
punto, ne tamburo reale nel regno dell’Ankole e quello stesso tamburo
ne museo etnografico britannico? È chiaro che, come avviene per frigo-
riferi di Singapore di cui ci parla Guidieri, saremmo anche qui di fron-
te a un caso tipico di ricorso a un lessico e a una sintassi che apparten-
gono a orizzonti culturali distinti. Anche in questo caso l’oggetto della
cultura “altra” (il tamburo) verrebbe inserito in un particolare contesto
di significato corrispondente a una concezione particolare della cultura,
dove per cultura si intende un’entità composta di elementi sia materiali
sia spirituali, incrementabili e sottoponibili a misurazione. La collocazio-
ne di un tamburo rituale in un museo è un’operazione solo formalmente
analoga all’introduzione dei frigoriferi nella cultura di una comunità del
Sudest asiatico. In entrambi i casi, si tratta di un inserimento di parti-
colari oggetti in un sistema di organizzazione del significato diverso da
quello d’origine. Ma da un punto di vista sostanziale, cioè di “politica
culturale” si tratta di due eventi molto diversi. Il trasferimento di un og-
getto tribale in un museo occidentale coincide con un’appropriazione di
tale oggetto da parte di qualcuno il trasferimento di un elettrodomestico
occidentale in una società non avvezza alla tecnologia è invece un atto
voluto da entrambe le parti, ma in cui coloro che cedono l’oggetto sono
perfettamente consapevoli di un effetto da loro perseguito intenzional-
mente (l’allargamento del mercato). Il traffico delle culture porta infatti
su di sé il marchio della relazione asimmetrica, costitutiva del dominio
che certe culture sono in grado di esercitare, in certe epoche, su altre.

Dopo questo esempio che ci fa ragionare sulle dinamiche che prendo-


no in causa l’oggetto e lo spazio, ora possiamo farci delle domande, su

35
ciò e su chi media, protegge, tutela un luogo o un’istituzione dal “resto”
e cosa può accomunare questi due mediatori nell’arte e nella religione.
In questa parte, dunque, faremo riferimento al mediatore nel-
la sfera artistica, analizzando ciò che caratterizza la figura del cu-
ratore, quindi a chi dispone le opere in uno spazio espositivo, a
chi le contestualizza, narra e, che di conseguenza, le relativizza.

L’artista a differenza del curatore ha la possibilità e privilegio di esporre


oggetti che non sono già stati elevati a status di opera d’arte, anche se
prima, ad esempio, erano i curatori a fare l’arte portandola all’interno di
una mostra e forse è ancora così dato che il curatore pone le basi per il
mercato, come pone “l’ affermazione” di una qualsiasi opera, facendo-
ne aumentare il suo valore portandola in gallerie, mostre, musei e fiere.
Quindi il curatore, ha la possibilità di evocare, attraverso l’esposizione
delle opere, aspetti della vita quotidiana e non solo, in modo da espan-
dere i limiti della nostra comprensione di ciò che è sconosciuto, in-
spiegabile o irrappresentabile. Questo dovrebbe essere l’incipit di ogni
mostra ed esibizione, creare un nuovo contesto, portare a nuove connes-
sioni ed ipotesi di pensiero create attraverso l’accostamento di diverse
opere, anche se purtroppo vediamo sempre di più grandi mostre con
poche idee ma grandi nomi.
Tralasciando questo aspetto critico delle mostre, che per ora non an-
dremo ad approfondire, torniamo alla figura di questo curatore, che
cerca di mostrare l’inspiegabile attraverso il lavoro degli artisti che
già in primo luogo fanno, appunto celando e mostrando appena…
L’artista si occupava della creazione e il curatore della selezione, ora questa
distinzione non è più cosi serrata, oggi l’arte viene definita in base a un’iden-
tità tra creazione e selezione, l’artista, selezionando il suo stesso lavoro, di-
venta curatore di se stesso. Questa selezione può identificarsi in quelle che
potremmo chiamare “mostre curate dagli artisti” ovvero le installazioni,
anche se già affermata e datata, questa situazione, è presente, nell’arte, già
da Duchamp. Senza riformulare la domanda cos’è un’opera d’arte, ne tan-
tomeno rispondere ci limiteremo a prendere in osservazione ciò che Bo-
ris Groys dice in Art Power a proposito dell’installazione, - L’arte odierna
non è la somma di cose particolari ma la topologia di luoghi particolari.-
Il mezzo dell’installazione è lo spazio stesso, ed è attraverso l’inseri

36
mento di ordini soggettivi e relazione tra le cose che, l’installazione, ci
permette di mettere in discussione quegli ordini che si presume esi-
stano “al di fuori” della realtà. Anche le dinamiche che si vanno a cre-
are all’interno di questi luoghi e che, di conseguenza, li caratterizzano,
possono connettere esterno e interno, creando rimandi e indizi, quin-
di, oltre all’importanza di un mediatore, è fondamentale il carattere
del luogo, che non forzatamente deve creare distinzione, netta, ma po-
trebbe svilupparsi come canale direzionale per meglio integrare due
identità. Come fare, dunque, a creare un ponte tra esterno/interno, co-
mune e straordinario o almeno trovare una similitudine quasi certa?

Credere nell’aldilà non caratterizza solo individui poco razionali o non


ancorati alla scienza, in realtà fenomeni simili a quelli della comprensio-
ne e credenza nell’aldilà riguardano cose che hanno a che fare con la vita
quotidiana anche di chi le chiese non frequenta.
Per esempio i musei sono delle forme di luoghi di culto e l’arte contem-
poranea è connessa alla comprensione dell’aldilà. Sia nella religione che
nell’arte, ciò che non si vede e più importante di ciò che si vede, attraverso
la materia e le cose che vediamo davanti ai nostri occhi possiamo cercare
di attivare dei processi per cui l’invisibile torna visibile. Questo, in filoso-
fia, prende il nome di “Il Mistico”, ciò che non si può dire ma che si può
mostrare, l’aldilà e l’ al di là in realtà sono due processi per cui l’invisibile
torna essere visibile. Wittgenstein nel Tractatus dice -sopra ciò che non ci
è dato sapere bisogna tacere, bene, tacere sì, ma mostrare no- ed è mostra-
re ciò che c’è al di là del nostro sguardo sensibile che caratterizza tanto l’ar-
te contemporanea che l’aldilà e tutti i processi di comprensione religiosa.
Queste le parole di Leonardo Caffo in un’ intervista del 2018 per Lei Festival,
che fanno ben chiarezza su quello che è un ponte tra arte contemporanea e
credo. Il pretesto dell’aldilà non riguarda solo lo spirituale ma comprende
anche il rapporto tra oggetti comuni e l’immagine che è connessa a que-
sti, anche se non visibile siamo comunque al corrente della sua presenza.

37
Bibliografia

Boris Groys, Art Power, Postmediabooks, 2012.


M.Paoletti e S. Settis, Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace,
Donzelli, 2015.
Brian O’Doehtrty, Inside te White Cube, L’ideologia dello spazio esposi-
tivo, Johan & Levi, 2012.
Roberto Malighetti, Ugo Fabietti e Vincenzo Matera, Dal tribale al glo-
bale: introduzione all’antropologia, Pearson, 2020.

Sitografia

Visita ai santuari di Apollo, De Agostini, 2001


https://www.youtube.com/watch?v=BZId0Ak9hgU&t=622s

Leonardo Caffo, Lei festival, 2019


https://www.youtube.com/watch?v=ogemQncg5Pg&t=1s

Umberto Galimberti, sacro e ragione, da Edipo agli anni 2000, Feltrinelli


Editore, 2013
https://www.youtube.com/watch?v=W3iUPY10PaA&t=154s
Considerazioni sulla satira

Olmo Erba
In queste poche pagine mi piacerebbe cercare di esaminare un disegno
in particolare, un unicum che è miracolosamente sopravvissuto al tempo
per giungerci in una forma abbastanza inusuale e assolutamente sfortu-
nata, che penso possa poi essere la causa del suo passare quasi sempre
inosservato agli occhi della storia e degli studiosi più competenti. Pre-
metto che ciò che vorrei ora prendere in considerazione, il “Graffito di
Alexamenos” (o di Alessameno, se italianizzato), è un disegno che, per
quanto semplice e possibilmente infantile, si pone come esplicitamente
blasfemo; raffigurante una deformazione palese della figura di Cristo, e
vorrei quindi invitare chiunque possa sentirsi in qualche modo offeso
da tutto ciò ed un discorso ad esso strettamente riconducibile, a passare
direttamente al prossimo capitolo, a cui questo non è necessariamente
indispensabile, seppur forse utile. Sono convinto però che non stando
noi dialogando di storia dell’arte ma di storia del disegno, sia necessario
cercare di andare ad esaminare, senza alcun pregiudizio ideale, morale o
culturale, qualsiasi possibile fonte di punti per la linea che stiamo cercan-
do di tracciare; anzi, che sia d’obbligo cercare di spingere volontariamente
la questione ovunque ci possano per l’appunto essere il pregiudizio o la
mancanza di informazioni, dove non sono stati già spesi fiumi di paro-
le per decantare la bellezza più immediatamente palese. Credo che non
a caso l’unico studio completo e veramente attendibile che abbia potuto
reperire sull’argomento sia stato steso dal suo stesso scopritore, Raffae-
le Garrucci, ecclesiastico convinto e archeologo di grande intelletto che
seppe guardare con occhi estremmente moderni e consapevoli un reper-
to così prezioso, ma al contempo problematico e scivoloso, già nel 1857.
Nella sua pubblicazione “Il Crocifisso graffito in casa dei Cesari e il sim-
bolismo cristiano in una corniola del secondo secolo”, Garrucci ci parla
del rinvenimento archeologico assolutamente inusuale di un piccolo
graffito su marmo rappresentante una crocifissione, ma in cui il marti-
rizzato vieneraffigurato con testa di mulo selvatico e la tunica corta (co-
lobio) che non riesce nell‘intento di coprirgli completamente il deretano.
Al fianco sinistro di questa grottesca composizione pseudo- surrealista
fa la sua comparsa un giovane stilizzato, Alexamenos, di profilo, quasi la

41
parodia di un personaggio su un vaso greco, che manda baci nel modo
in cui sarebbero potuti esser mandati solo perscherno ad una vecchia
lupa, a colui che la scritta in greco sottostante attesta essere il suo Dio.

Graffito di Alexamenos, marmo, Antiquarium del Palatino, I-III sec. a.C.

La contestualizzazione storica e iconografica offertaci da Garrucci è


soddisfacente e incontestabile: nessuna divinità è mai stata rappresenta-
ta crocifissa se non Cristo, ed egli ci dimostra citando fonti dell’epoca,
come già ai tempi di Tertulliano (155-230 d.C circa) e Marco Minucio
Felice (II- III sec. d.C) i culti cristiani ed ebraici (spesso addirittura er-
roneamente confusi e accomunati) fossero calunniati dai pagani con
l’attribuzione alla divinità di “turpissimae” sembianze d’uomo asino
(onolatria). Ci sono tutt’ora parecchie controversie sull’effettiva datazione
del graffito, certi studiosi tendono a sporgersi nel vuoto facendolo risalire
addirittura al I° secolo d.C. e ponendolo come la prima raffigurazione
esistente del Crocifisso e di Cristo, mentre altri, seguendo fondamental-
mente le massime date da Garrucci, tendono a riferirlo al termine del
secondo secolo o agli inizi del terzo, limitandosi a dire che potrebbe
esserne la più antica raffigurazione pervenutaci o tutt’ora identificata:
sempre Garrucci argomenta a ragione, citando i SS. Padri della Chiesa,

42
come la croce fosse un simbolo già accettato e utilizzato fin dagli albori
della cristianità: lo possiamo riscontrare e confermare in maniera molto
più pratica e senza scomodare i Padri grazie ai quadrati del Sator rinvenu-
ti a Pompei e quindi per ovvie ragioni antecedenti al 79 d.C., il cui codice
una volta decifrato restituisce una croce, seppur non immediatamente vi-
sibile ad occhio nudo. Garrucci più che sulla precisa datazione, che credo
sinceramente non si possa ottenere effettivamente e in maniera realmente
esaustiva se non effettuando nuovi studi tecnico- scientifici più accurati,
pone poi l’attenzione sulle nozioni pratiche che possiamo trarre dalla rap-
presentazione, ovvero la testimonianza ottica e potenzialmente affidabile
di un romano dell’epoca su come davvero dovesse essere la croce (a forma
di tau) utilizzata per infliggere la pena capitale ai condannati più proble-
matici: la traversa su cui appoggiano, presumibilmente inchiodati, i piedi
dell’uomo-asino, ci sussurra che forse l’idea che abbiamo della crocifissio-
ne, con una morte che sopraggiunge velocemente per via dello stesso peso
corporeo, possa non essere abbastanza infima per sottostare alle leggi del-
la realtà. Dato un breve accenno al contesto in cui porre la storia di Alexa-
menos, non vorrei rubare i meriti di Garrucci limitandomi a trascrivere in
forma semplificata ciò che l’archeologo ha articolato e dimostrato con par-
ticolare perizia, ma vorrei invece osservare ora questo graffito non tanto
per la sua valenza di reperto storico, ma per la sua valenza, fors’anche più
trascurabile, di disegno. Esso è eseguito con tratti rapidi ma relativamente
sicuri, forse di nascosto, forse non troppo, non denota una particolare
abilità da parte dell’esecutore nell’arte della mimesis e delle proporzioni
quanto in quella dell’umorismo, ma si mostra inscritto in una tradizio-
ne rituale disegnativa ben precisa ed affermata: sappiamo sempre grazie
alla testimonianza dataci da Pompei ed Ercolano che fosse d’uso comune
per molti romani il decorare i muri delle città con piccoli disegni, poesie
o più spesso scritte dal carattere particolarmente pungente, alludenti di
solito a canzoni, bravate, motti politici o perfino alla madre di qualcuno,
un immenso brusio che ha trovato la sua salvezza dall’oblio della storia
proprio nello stesso oblio, imponendosi a contrasto del silenzio roboante
steso a forza su una città evidentemente molto poco diversa dalle nostre.
Maledetti graffitari. Ma quindi perché fra tutte le testimonianze perve-
nuteci di questo genere voglio ostinarmi a prendere in esame proprio
questo particolare soggetto? Si potrebbe probabilmente raccontare una

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storia per ognuno dei graffiti romani ritrovati, e forse una storia
particolarmente interessante per quelli ritenuti esser stati fatti da bambi-
ni, ma credo che il Graffito di Alexamenos ci possa permettere di collo-
care e comprendere meglio un nuovo valore che il disegno può assumere,
un nuovo rito tutto romano, forse non casto quanto il teatro greco ma
ad esso direttamente legato: l’arte della satira e del disegno satirico. Non
intendo essere frainteso proprio in questo passaggio scivoloso, specifico
subito la mia convinzione dell’esistenza di satira di qualità, intellettuale,
arguta, profonda o impegnata, come esiste buon teatro che non potrebbe
esserlo senza quello che merita il lancio di ortaggi, e di satira scaden-
te, come quella che ci troviamo ad esaminare in questo momento. Ma a
questo vorrei ritornare fra poco, più nel dettaglio e senza lasciare la que-
stione sospesa al semplice gusto personale. La satira era una possibilità per
chiunque, dotto o no che fosse, di esprimere la propria opinione a riguar-
do delle tematiche più disparate, dalla politica alla teologia, come abbia-
mo appena potuto constatare. Un gran carnevale, con maschere e buffoni:
una lama (a doppio taglio, vien da chiedermi?) alla portata del più arguto
per convincere della propria ragione e allo stesso tempo screditare l’avver-
sario. Credo che di avversario si debba per forza parlare, perché penso che
l’unica sottigliezza che possa effettivamente differenziare la satira dal tea-
tro sia proprio il fatto che il teatro si rivolga al pubblico sugli spalti, mentre
la satira all’unico che è, molto probabilmente, rimasto a casa quel giorno
(o che vi tornerebbe appena scoperto qual’è l’argomento dello spettacolo).
In qualche modo la satira si mostra necessariamente legata a quel qual-
cuno rimasto a casa, poiché se non lo fosse diventerebbe semplice teatro:
si potrebbe dire che la satira, anche nella sua forma più alta e fine, debba
avere un nemico, un oppositore da canzonare; sia esso un tiranno con
le sue leggi, un’ideologia, la morte o un cristiano. Si potrebbe anche, se
tutto questo fosse vero, dire ottima satira quella che riesce ad avere la
parvenza esteriore di puro teatro, convincendo tutti a venire ad assistere
allo spettacolo e centrando quindi in pieno il bersaglio, ignaro in tri-
buna, come farebbe un cecchino: “l’azione d’avanguardia per eccel-
lenza consisterebbe forse nell’invitare il pubblico per poi sparar-
gli addosso”, scrive Brian O’Doherty in “Inside the White Cube”.
Forse il disegno satirico, per quanto buffa questa definizione possa
a prima vista sembrare, potrebbe davvero essere quel disegno che con le

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proprie linee vuole occultare un cecchino per conto del suo esecutore.
Un disegno di guerra: giornata di calma apparente. “Lo shock, come di-
mostra la storia dell’avanguardia, rientra oggi nella categoria delle armi
leggere”, scrive infatti ancora O’Doherty nel saggio sopracitato, riferen-
dosi a Marcel Duchamp, su cui non ha senso spendere ulteriori parole,
probabilmente superflue. Certo vien da sé pensare che un cecchino
al momento dello scontro aperto, senza la miglior copertura possibile,
non possa aspirare a nulla se non ad una fine misera: il suo ruolo gli im-
pone di strisciare nella macchia al pari di un lombrico, per guadagnarsi
la possibilità di sparare il colpo che da solo può potenzialmente metter
fine allo spargimento di sangue. Lo spettatore deve dedicare al disegno
satirico l’attenzione che dedicherebbe ad un cespuglio (o a un gabinetto),
per poi ricevere il colpo, netto, pochi passi dopo. Il disegno satirico
che nasconde male il proprio cecchino non può suscitare altro che una
burla negli oppositori; risate per il piano mal riuscito e messo in piedi
da un comandante che dovrebbe tornare a studiare Sun- Tzu. Il disegno
satirico ha un bersaglio da centrare, oltre che un referente a cui presen-
tarsi: è impiegato dal suo esecutore nella battaglia verso un qualsiasi
ente, materiale o ideale, che lo può minacciare in maniera più o meno
diretta. Sarebbe però particolarmente difficile cercare di affermare che
ogni nemico, ogni guerra, ogni bersaglio, all’origine possa nascere da
altro che una sensazione di paura, di minaccia per l’appunto: “ammaz-
zare il tempo” si suol dire; se il disegno è di per sé un rito, la satira può
rientrare nell’ambito più specifico dell’esorcismo: si guardino ad esempio
le danze macabre tardo- medievali e rinascimentali, tremendi esorcismi
nei confronti della paura della morte e dei poteri forti della società, ad
essa impotenti e conigli. L’unica danza di morti viventi che però mi vie-
ne ora già in mente e che può forse aiutarci a comprendere meglio il
problema, fastosa all’inverosimile, sfarzosa e ricca di invitati di rilievo
quanto i pontefici medievali, è quella disegnata dalle splendide parole di
Petronio Arbitro ne “La Cena di Trimarchione”, dal Satyricon. Una satira
ben più affilata e meglio camuffata di quella messa in scena dal Graffito
di Alexamenos: teatro brillante e vivissimo che maschera un tripudio di
morti viventi che muore ogni giorno di più per via dell’alito della morte
che li porta alle lacrime durante i banchetti. Splendida la rappresentazio-
ne cinematografica restituitaci da F. Fellini, in cui i partecipanti alla festa

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sembrano quasi fantasmi, maschere di fuliggine molto lontane dalla ci-
viltà dell’esteriorità dell’anima greca. Un “et in arcadia ego”che pare ben
diverso da quello espresso da Achille nell’Ade, che preferirebbe essere un
vile servo piuttosto che un’ombra ai vertici di un impero. Trimalcione
vive qui e ora, indiscutibilmente, ma il suo pensiero è proiettato ai trenta
milioni di sesterzi che lascerà alla morte e a quanto grande sarà la sua
tomba, pulita e senza nessuno che possa desiderare di defecarvi sopra (il
termine utilizzato nel Satyricon è decisamente più diretto). Sembrereb-
be quasi che, fra tutte le abbondanze proposte durante questo sregolato
simposio decadente, l’unico sfarzo capace di far davvero venire l’acquo-
lina in bocca al signore sia quello del sollievo portato dalla morte (oltre
forse al giovane che scatena il litigio con la moglie); che tutta questa esa-
sperazione febbrile del “qui e ora” si stia ormai rivolgendo più al lasciare
un’idea costrutta di sé, che a viver davvero l’entità del flusso del tempo.
Vanitas. A fingersi morti e vedere quanto forte possa suonare l’orchestra.
Un movimento, seppur forse leggero, della richiesta. Qualcosa dev’esse-
re successo necessariamente. Ora possiamo finalmente ricongiungerci al
nostro graffito, per comprendere meglio cosa in particolare nella società
romana abbia potuto condurre alla sua realizzazione. Nietzsche scrive:
“I greci vedevano sopra di sé gli dèi omerici non come padroni, e sé stessi
sotto di loro non come servi (…). Essi vedevano per così dire l’immagine
riflessa degli esemplari più riusciti della loro stessa casta, cioè un ideale,
non un opposto della loro natura”. Lo psichiatra Primo Lorenzi nella le-
zione (reperibile in rete) intitolata “I culti misterici nella crisi del mondo
antico” puntualizza a ragione che le divinità greche e poi romane fossero
sì fortemente simili e vicine agli uomini, ma al contempo immensamen-
te distanti per via della loro immortalità: se esse condividevano tutti i
vizi e le virtù degli umani, non potevano però comprendere il proble-
ma più drammatico e comune a tutti gli umani. Alessandro Stavru, nella
pubblicazione “Walter Friedrich Otto e la questione del “giudeocristia-
nesimo””, ci spiega che Otto (come concordano anche Lorenzi e Edgar
Morin) fa risiedere nei culti misterici orientali, orfici ed eleusini, diffu-
si particolarmente nell’impero romano, il rinnovarsi di un interesse per
la continuazione della vita nell’aldilà; non a caso Persefone-Proserpina
è simbolo di ritorno dall’oltretomba e rinnovarsi delle stagioni, Orfeo
fallisce nel riportare alla luce del sole Euridice ed è categorica anche la

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visione data da Andrea Tagliapietra a riguardo della figura di Dioniso/
Zagreo in “La metafora dello specchio- Lineamenti per una storia sim-
bolica”: il figlio di Zeus è un sacrificio, un cadavere su cui banchettano i
Titani che ritorna poi alla vita eterna, divina, per volere del padre Zeus.
L’ideologia cristiana delle origini, che appunto possiamo stabilire già dif-
fusa nell’impero romano nel 79 d.C, è vista da Otto come fondamental-
mente positiva, rinnovatrice degli ideali classici ormai decadenti, infatti
egli scrive in particolare: “il cristianesimo non violentò il mondo antico,
ma gli diede, in età veneranda, quell’ideale per il quale era ancora ricet-
tivo. Il cristianesimo si era lungamente preparato a questo, assimilando
gran parte della cultura spirituale dell’antichità. Poté addirittura donare
a quel mondo vecchio e malato una specie di seconda giovinezza. Perché
quel che esso apportò fu realmente un ideale.” Certo se filosoficamente
parlando il cristianesimo può essere quindi visto come continuazione,
evoluzione di un flusso ideologico, esso si pone però all’apparenza este-
riore come fondamentalmente opposto alla religione pagana. Spavento-
so, molto probabilmente, agli occhi di chi non avesse mai avuto a che
fare con le ideologie dei riti misterici. Un culto che dà una certezza della
vita dopo la morte, e soprattutto d’un giudizio inevitabile, avrebbe forse
atterrito Trimalcione più della morte stessa: la sua idea di eternità non
è che l’idea fittizia che solo forse la morte può dare di lui. Coloro che
parlano di immortalità “ci gettano così nell’orrore più assoluto”, per usare
le parole di Edgar Morin (L’uomo e la Morte); non penso che per caso la
damnatio memoriae fosse l’unica pena considerata peggiore della morte
all’interno della società romana: l’eternità può apparire come un nume-
ro oltremodo sconfinato, se comparato a trenta milioni di sesterzi. Ma
penso che una promessa d’immortalità, da sola, non possa bastare a sca-
tenare la necessità di un esorcismo, o almeno, non nel caso che stiamo
esaminando. Se le divinità romane erano molte, in continui contrasti di
odio e amore fra di loro, potentissime ma vincolate dal non poter cam-
biare ciò che sentenzia un altro Dio e quindi non del tutto onnipotenti,
come vediamo nelle Metamorfosi di Ovidio dall’accecamento di Tiresia
da parte di Giunone, con un Giove incomparabile in forza ma impotente
al volere della moglie; la Divinità offerta dal cristianesimo è invece una,
triplice (questo però saranno il Concilio di Nicea del 325 e le dispute teo-
logiche successive a confermarlo con chiarezza) ma singola e onnipotente

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impossibile da rappresentare a differenza delle divinità vanitose dei ro-
mani: senza rivali, perfetta e soprattutto fattaSi uomo per provare e com-
prendere la morte (e di conseguenza anche rappresentabile in futuro,
d’altronde si parla del potere assoluto, che deve per forza esprimersi in
termini di significanti umani ossimorici: “chi ha veduto me, ha veduto
il Padre”- Giovanni 14, 9 citato in “Cultura Visuale”). Se la tematica del-
la resurrezione dei corpi o la dannazione postuma al giudizio dell’ani-
ma dopo la morte potevano far ravvedere nei romani una similitudine
nei confronti della nuova religione con i concetti portati dalle divini-
tà dalla testa d’animale dell’oriente (che sia un caso che i primi eremiti
cristiani meditarono nei deserti della Tebaide d’Egitto?), essi però non
potevano soprattutto comprendere la venerazione religiosa di un uomo
che non fosse l’imperatore, tantomeno proprio uno fra gli schiavi e i sov-
versivi che spesso si potevano vedere inchiodati a una croce: gli egizi e i
praticanti dei misteri potevano pure sperare nella continuazione nell’ol-
tretomba, ma credevano nell’incontro fra umano e divino nell’impera-
tore e nel faraone, non certo in un sovversivo. Un sovversivo onnipo-
tente, perlopiù: infatti l’uomo asino della leggenda non è rappresentato
nel graffito in veste di filosofo scriteriato, teologo folle o predicatore
senza platea, ma come criminale politico condannato a morte. Questo
potrebbe forse spiegare come mai ci fu terrore, e di conseguenza un ac-
canimento ideologico e non solamente giuridico nei confronti di chi
rifiutava di riconoscere l’imperatore o di combattere nell’esercito, fra i
praticanti di questa nuova religione, in un impero ormai universalmente
riconosciuto come multiculturale e caratterizzato da una relativamente
forte libertà di pensiero e di credenza, seppur già in lenta trasformazio-
ne. Il graffito di Alexamenos è satira palese, un esorcismo nei confronti
della paura di questo nuovo culto onnipotente, che fa del martire sovver-
sivo il vincitore. Come si può vincere chi vince quando è sconfitto? Non
ha questo graffito ottenuto solo di rendere martire il povero Alexame-
nos, di cui oggi, quasi duemila anni dopo, stiamo ricordando e pronun-
ciando la fede? Abbiamo smascherato senza difficoltà il cecchino nasco-
sto alla carlona e identificato il disegno come satira invece che teatro, e
quello che ci è potuto scappare non è che una risatina pietosa prima di
smentire le teorie del comandante, o almeno etichettarle come semplice
frutto della paura dell’impotenza nei confronti di ciò che poteva minare,

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far crollare e rivoltare le sue più salde convinzioni e priorità a riguardo
della condizione stessa di vita e morte. “Ridere per non piangere” è la
perfetta condizione dell’esorcismo imperfetto, quanto scolarsi una botti-
glia di Whisky per esorcizzare il timore della morte. Siamo ben lontani
dall’idea portataci più di trentamila anni prima dal leone antropomorfo
di Hohlenstein-Stadel, nel quale la fusione con l’animale domina la
paura, innalza l’uomo a simulacro di potenza cosmomorfica, a idolo,
come anche nella religione egizia. Siamo quantomai distanti anche da
quella offertaci da Goya, che riuscì a codificare una condizione universa-
le, platonica, nella figura dell’animale: siamo ad una visione sfortunata-
mente molto più vicina a quella che oggi finanzia, con capitali capaci di
risanare piaghe umanitarie, le visioni poco acute e male invecchiate che
portano un artista a trasformare in tanti gorilla i parlamentari inglesi.
Una semplice metafora, sostituzione di un significante in favore di un
altro nella catena significante, stando a Lacan: trasformo le labbra in
ciliegie perché alle ciliegie posso fare ciò che desidero; espressione di un
sintomo, come sottolinea Paul Fry nella lezione dell’università di Yale
(reperibile in rete- link in sitografia) a riguardo. Non siamo andati oltre:
se qualcosa ci spaventa, ci terrorizza, ci può davvero minacciare nel
profondo o ha il completo potere su di noi lo esorcizziamo tramutando
noi stessi in fate che trasformano e rendono inoffensivo il motivo del
terrore, appioppandogli le sembianze di un animale inerme, innocente,
muto, che possiamo evitare (o macellare) con poco sforzo a differenza
di ciò che esso davvero rappresenta. “Ma è proprio vero che chi non può
bastonare l’asino, se la prende con il basto”, per citare ancora una volta
il Satyricon: trasformiamo i parlamentari in un ammasso di gorilla con
quella bacchetta magica che è il pennello perché ci terrorizza l’idea di
lanciare banane e scarpe contro di loro, mentre lanciare frutta ai goril-
la ci diverte come bambini. A buon intenditore poche parole. Nessuna
parvenza di teatro, solo satira fine a sé stessa, cecchini da poco conto
che, facendosi scoprire ancor prima di aver colpito, rendono martire il
bersaglio anziché nuocergli. Chi avrebbe osato lanciare ortaggi al Cristo
Onnipotente? Chi a un asino selvatico che si fa i fatti suoi in un prato?
Certo mi vien da supporre che il gioco dell’uomo che dimentica di es-
sere primate, per trasmutare in scimmie di una specie differente gli altri
primati, non sia altro che una barzelletta che non fa più ridere ormai da

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millenni. Non vorrei però trasformare questo breve capitolo già nato
fondamentalmente da una divagazione in un’ulteriore divagazione, non
più di quanto possa esser necessario per esprimere il concetto che mi
era caro in principio. Stabilita questa nuova valenza satirica del disegno,
e di esorcismo della satira, capiamo perché essa in ogni forma e epoca
fosse particolarmente scomoda e quindi il più delle volte osteggiata, se
non impedita o distrutta, dai bersagli dell’esorcismo; soprattutto quando
non mascherata a dovere. Il fatto che così poche testimonianze di questo
genere siano arrivate fino a noi fa supporre senza troppo rischio che se
non fosse stato per il caso, o il destino suo compagno, che ha voluto che
alcuni graffiti romani restassero celati fin quasi ai giorni nostri, proba-
bilmente la paura umana, nel circolo di paura che invoca paura, avrebbe
fatto il suo corso: rabbrividisco al pensiero che il Graffito di Alexame-
nos se rinvenuto, ad esempio, nel Rinascimento, sarebbe molto proba-
bilmente stato distrutto nel corso dei secoli, come anche le scritte sen-
za vergogna nelle strade di Pompei. Sarebbero stati messi tutti a tacere
da ideologie braghettone. La tematica dell’accanimento nei confronti
dell’immagine satirica ci può introdurre però anche a considerare la
problematica dell’iconoclastia, poiché penso non possa essere defi-
nita altrimenti se non come quell’ideologia che vede nella natura fini-
ta dell’immagine una profanazione, una satira spaventosa nei confronti
della condizione assoluta della divinità o dell’ideologia: ogni sua rappre-
sentazione vela un intrinseco colpo di fucile diretto alla sua vera natura
inattacabile (come anche la censura imposta alla rappresentazione gra-
fica della violenza da parte dei media può ormai a ragione considerarsi
un patetico contro- attacco volto alla salvaguardia della natura astratta
di un “dio- Violenza”, che troppo spesso essi vergognosamente ritengo-
no comodo mantenere intatta). Parlando però ora in termini più sottili
potremmo ovviamente affermare che non possa esistere alcun atto crea-
tivo senza prima atto iconoclasta, e che la stessa “creazione” non sia che
un atto di iconoclastia nei confronti dello stato della materia che ci cir-
conda, e non della materia stessa, stando al principio assolutamente non
trascurabile del “Nulla si crea, nulla si distrugge”. Che non ci sia quindi
una differenza tra il migliore fra gli artisti e il gruppo terrorista che ha
distrutto la sinagoga di Dura- Europos, o i nazisti che vomitavano canzoni
idiote ballando intorno a falò di libri? Boris Groys spiega in “Art Power”

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che a differenziare l’atto artistico dall’atto terroristico sia la realtà: il fatto
che l’artista trasformi in briciole e uccida solo idealmente, in una recita
teatrale, mentre invece i terroristi distruggono e uccidono realmente, i
loro video di decapitazioni non sono niente di riconducibile a fiction o
teatro. Sono fondamentalmente d’accordo, non ho mai visto artisti com-
mettere un omicidio (se non Caravaggio e Richard Dadd), e soprattutto
non con la speranza di fare arte uccidendo; ma dopo aver visto un uomo
puntare una pistola contro Marina Abramovich, uno sparo al braccio di
Chris Burden in galleria o le amputazioni volontarie di Rudolph Schwar-
tzkogler, penso si possa scendere ulteriormente nel dettaglio. Non cre-
do possa esistere davvero una “finzione” in termini concreti, a meno che
non si voglia dire, usando le parole di J. Ranciére che “il reale è sempre
l’oggetto di una finzione”, ma poco cambia, all’interno del reale o della
finzione assoluta, dietro al Velo di Maya, non vi è comunque alcuna di-
stinzione: o tutto è reale, o tutto è fittizio, e non sarò certo io a provare
a stabilire quale delle due sia la risposta giusta. Gli eventi accadono nel
continuum e siamo noi a definirli in una tal maniera: non è finta una
recita teatrale nel suo svolgersi pratico, ma può essere semmai fittizia
la nostra decodificazione involontaria e volontaria di ciò che possiamo
tangere con i sensi (“la configurazione del nostro reale”, per tornare a
Ranciére, la nostra percezione, stando a Gombrich). Si opera innegabil-
mente una trasformazione materiale sia nel costruire un tempio che nel
distruggerlo, e quindi non penso si possa propriamente parlare di una
costante di realtà e finzione: “le immagini non possono essere colloca-
te davanti o dietro la realtà, poiché esse contribuiscono a costruirla”, per
usare le parole di Horst Bredekamp. Forse come quando parlando del di-
segno, essendo esso operato da una volontà umana, dobbiamo riferirci
a degli intenti precisi, penso che anche a riguardo della funzione icono-
clasta si debba necessariamente esprimersi in termini di intenti. Nell’atto
terroristico, come anche nella distruzione delle immagini, si può parlare
inequivocabilmente di ignoranza e di un intento ignorante, ma non mi
si fraintenda: non uso proprio questa parola per la prima volta, a caso e
in termini banalmente accusatori e semplicistici, ma parlo dell’ignorare
il concetto imprescindibile del “Nulla si crea, nulla si distrugge”. Il terro-
rista (tra cui si possono annoverare, dando a Cesare ciò che è di Cesare,
anche i torturatori di Abu Grahib e l’uomo che ha minacciato Marina

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Abramovich, ad esempio), a differenza dell’artista che ha come preroga-
tiva la modifica, l’inserimento nel flusso; ignora di essere effettivamente
incapace di distruggere, quanto invece abile nel trasformare i luoghi in
macerie, le icone in frammenti, gli uomini in morti e in idee, il tortu-
rato in divinità: le “picture” (usando i termini dati da W.J.T. Mitchell)
in martiri invincibili e incontestabili in tutti e tre i casi, testimoni nel
tempo della loro vittoria. Duchamp non ha distrutto una “picture” del-
la Gioconda, ma ne ha distrutto l’idea, l’”image”, garantendole definiti-
vamente un bel paio di mustacchi vistosi, e strane voglie. Modificando-
la, senza negarla, sorpassandola. E io ancora oggi non posso guardarla
senza che mi scappi una risatina, però non pietosa questa volta. Rivolta
al bersaglio e non al cecchino, impeccabile, nascosto sotto al prosopon
di due piccoli baffi: il dadaismo fece nel suo teatro perfetto satira del-
le fondamenta di quella società balorda, terrificante, che portò ad una
guerra mondiale prima e a un’altra più tardi. “Negare un’immagine si-
gnifica affermarla”, ricordano Andrea Pinotti e Antonio Somaini: il ter-
rorista fallisce inevitabilmente poiché spera, invano, di distruggere: ma
fosse davvero così facile, trascendere le leggi della fisica e delle idee…

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Bibliografia

Alessandro Stavru- Walter Friedrich Otto e la questione del “giudeocri-


stianesimo”.
Andrea Tagliapietra- La metafora dello specchio. Lineamenti per una
storia simbolica.
Andrea Pinotti e Antonio Somaini- Cultura Visuale.
Boris Groys- Art Power.
Brian O’Doherty- Inside the White Cube.
Edgar Morin- L’uomo e la morte.
Ernst Gombrich- Arte e Illusione.
Francesco Garrucci- Il crocifisso graffito in casa dei Cesari ed il simboli-
smo cristiano in una corniola del secondo secolo.
Jacques Lacan- Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione.
Ovidio- Metamorfosi
Petronio Arbitro- Satyricon
Sara Ahmed- The Cultural Politics of Emotion

Sitografia

https://www.youtube.com/watch?v=giorqDURrYM&t=805s

https://www.youtube.com/watch?v=lkAXsR5WINc
Intercessione dal basso

Ludovico Colombo
Quale è il ruolo della cultura popolare quando si deve mettere in rela-
zione alla sacralità di una tradizione o di un oggetto? Partirò dicendo
fin da subito che personalmente, non solo trovo rilevante l’influenza di
essa sulla vita religiosa di una popolazione, ma addirittura fondamenta-
le. La presenza di questi “costumi del luogo” favoriscono, ampliano ed
impreziosiscono i riti, le liturgie e gli eventi religiosi, rendendo ancor più
particolare il folklore tipico di tantissime cultura sparse per il globo. Cada
rari casi in cui, per rigidità della regola religiosa, la cultura popolare fatica
ad entrare nel credo (o viceversa, ma difficilmente la cultura popolare è
rigida nei confronti del credo) quasi ovunque questa “contaminazione” è
avvenuta per secoli e tutt’ora, nei modi talvolta più improbabili, continua
da accadere. Un popolo e la sua “bassa” cultura riconosce ed accetta,
scarso di rari equivoci nella storia, una forte influenza della cultura reli-
giosa su quella popolare. Ovviamente ciò vale per le grandi religioni del
mondo. Poiché penso che già un culto più specifico o ristretto abbia di
per sé una certa purezza, e si auto conservi trasformandosi in tradizione
popolare; ad esempio alcuni credi animisti. I pochi che hanno resistito
ad un tipo di contaminazione meno inclusiva, ovvero quello della reli-
gione cattolica importata dai missionari, hanno adottato questa strategia
di sopravvivenza. Questi casi esistono e sono ormai più una tradizione
che credi veri e propri, portati avanti dagli ultimi discendenti di queste
etnie, i quali in gran parte ormai si sono convertiti ad altri credi (mag-
giormente quello cattolico). Che ciò sia avvenuto per non perdere questa
parte di identità nelle frenetiche contemporaneità multiculturale o per
mantenerla, nonostante la conversione, ad un’altra religione è un tipo
di indagine diversa. I casi in cui, dove per necessità di sopravvivenza, il
credo diventa tradizione è un’altra questione ed avrebbe bisogno di uno
studio a parte, molto più specifico. Tornando alla questione che voglio
affrontare, avendo già preso delle precauzioni sulle intenzioni di questo
testo, mi permetto di aggiungere che non andrò tanto meno a trattare
le “tradizioni necessarie”. Con “tradizioni necessari” parlo di quei ritua-
li che hanno origine per necessità e diventano quindi parte integrante
di un credo, per esempio la circoncisione, come necessità di igenica del

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le parti intime, o la mancanza di maiale ed altri carni rosse nella die-
ta di molte popolazione mediorientali. Forse per la mia ricerca sarebbe
più interessante, riguardo ciò, andare a vedere come queste indicazioni
queste indicazioni alimentari di base religiosa abbiano influenzato la cu-
cina popolare. Non è comunque questo il caso, non andrò ad affrontare
la questione: “Rapporti tra tradizione culinaria popolare e principi reli-
giosi”, sarebbe interessante, ma anche qui bisognerebbe scrivere un testo
a parte solo per ciò. Tornando a noi, il nocciolo del discorso quindi si
pone intorno ad una popolazione (e la sua “bassa” cultura) di in un dato
luogo ed agli eventi “di base religiosa” legati ad esso. Queste situazioni
prese in esame, dovrebbero svelare le modalità attraverso le quali questo
processo di integrarsi a vicenda, tra sacro e profano avviene facendo col-
lidere ampia cultura popolare e complesso corpo di credenze religiose.
Questo procedimento non è del tutto inverso, probabilmente più reci-
proco. Esso trasforma il profano in sacro con una marginale presenza di
chi rappresenti il culto (un prete o uno sciamano) ed è parte fondamen-
tale per comprendere le usanze, i pensieri e le azioni di un dato popolo.
Dopo questi chiarimenti introduco i tre casi presi in esame per metter
in evidenza la fondamentale forza che ha la cultura popolare di inglo-
bare la religione, portandola fuori dal luogo di culto, che invece di ab-
bassarla di sacralità riesce a potenziarla. Ciò avviene supportando
fortemente il credo e fondendosi con esso. Il primo caso riguarda le di-
mostrazioni pubbliche di fede, dove la popolazione dimostra apertamen-
te il legame con la religione, prendendo in esame avvenimenti come le
processioni in diversi luoghi del sud italia. Questi eventi sono impor-
tantissimi per la comunità cittadine, ed in queste vere e proprie feste il
popolo è presente non solo come membro partecipante, ma portando
anche una propria interpretazione di elementi sacri e tradizioni religiose.
Il secondo caso riguarda un particolare evento, diremmo noi occiden-
tali casuale, che misto ad una leggenda alimentata dalla credenza popo-
lare del luogo è diventato culto. Questo processo ha dato modo di eri-
gere intorno alla figura di un uomo morto in un incidente, un tempio.
Tempio che ad oggi e meta per tutti i pellegrini su due ruote di tutta l’india.
Il terzo caso riguarda la visione di Lourdes. Andando ad analizzare quali
motivazione hanno dato modo di rendere così importante un evento che
può essere verificato da un solo individuo che ha avuto la visione. Ovvero

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come un caso nato da una singola persona, con il supporto di tutta la co-
munità locale possa gettare basi solide, per rendere questo caso un culto
vero e proprio. Inoltre, andando a sottolineare la necessità da parte dell’i-
stituzione religiosa di doversi attivare a sua volta, per rendere da ufficio-
so ad ufficiale l’evento, concludendo questo processo di sacralizzazione

Tra la chiesa e la piazza


Manifestazioni popolari religiosa durante la settimana santa in Sicilia

In quasi tutti i paesi del sud italia, l’importanza che si dà alla settima-
na santa è fondamentale. Dal singolo cittadino a tutto il tessuto sociale
si attivano in queste occasioni, solo le feste vicino alla pasqua o diret-
tamente collegata ad essa animano un così particolare senso comune di
partecipazione. Probabilmente è l’eredità della cultura spagnola a dettare
questo comportamento rispetto alle processioni. Questo lascito ispani-
co è il principale indiziato, la risposta più diretta e plausibile di questa
propensione del meridione rispetto ad altre zone d’italia. In particolare
il regno di Sicilia vede la presenza del dominio spagnolo per più di 200
anni, dall’inizio del 500 fino ai primi anni del 700. Sicuramente la suc-
cessione di questa pratica è diventata cara e fondamentale alla popola-
zione isolana che ha saputo, da paese a paese, interiorizzare ed aggiunge-
re, a seconda del luogo, caratteri unici a queste manifestazioni. In esse la
popolazione intercede inserendosi nell’ambito della funzione sacra, non
solo in modo attivo con la partecipazione fisica alla processione, ma an-
che attraverso la cultura specifica del luogo, inteso come singolo paese o
zona dell’isola. La partecipazione di questa “cultura popolare specifica”
è un’ulteriore presenza che si riattiva nel momento della festa religiosa.
Tutto ciò ovviamente, avviene nella dimensione pubblica, attraverso ci-
tazioni più o meno esplicite di questa cultura popolare, come ad esem-
pio: personaggi appartenenti alla bibbia affiancati da personaggi vestiti
in abiti tipici del luogo dove viene eseguita la processione. In alcuni di
questi casi l’evento sacro diviene modo per recuperare ed innalzare tutti
questi particolari componenti più vicini al popolo che alla religione. L’e-
sempio degli abiti tipici, purché molto ampio, si presta bene a ciò perchè

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in alcuni casi porta a sviluppare una propria figura e personalità intorno
ad essi, la quale diviene fondamentale nella processione tanto quanto la
statua del santo. Capita a volte che sia proprio la cultura popolare che su
proprie interpretazioni di alcune figure e costumi entri a piedi pari nel
tema religioso. Ciò produce un dato effetto all’interno dell’evento sacro.
Entro in merito a questo riguardo portando un caso unico nel suo ge-
nere: le maddalene penitenti di Militello Rosmarino. Questa particolare
tradizione vede la presenza di quattro figure, vestite completamente di
nero, dall’aspetto tetro e maligno. Queste figure accompagnano il croci-
fisso durante tutta la processione, anzi ne restano ai piedi, strettamente
vicine ad esso tanto quanto i portatori. Queste figure rappresentano un
caso importante in nell’idea di forte legame tra cultura popolare e reli-
gione, perché vede modificata non solo l’immagine della maddalena,
ma addirittura un’interpretazione personale della stessa figura religiosa.
I pochi documenti che spiegano l’origine di queste figure sono confusi.
Principalmente due teorie sono state stipulate: la prima le vede come le
rappresentanti della confraternita, composta da sole donne, chiamata la
“Congregazione dei sette dolori di Maria”; la seconda, che non esclude
la prima, come un’interpretazione di un affresco presente nella basilica
centrale del paese. Il tale affresco, dipinto sopra l’altare, vede la figura di
gesù cristo vicino al sole e quella della maddalena subito sotto la luna.
Oltre la rappresentazione del passo biblico in cui il cielo inizia ad oscu-
rarsi in pieno giorno subito dopo la morte di Cristo sulla croce, questa
interpretazione trova basi solide poiché la figura delle Maddalene nere
di Militello si avvicina molto a questa relazione con il buio della notte,
oltre che ovviamente alla relazione dell’abito nero con il lutto per la per-
dita della propria guida spirituale. Particolare che bisogna sottolineare è
la presenza nel costume di questa figura di un ornamento del capo fat-
to di rami intrecciati, diretto riferimento alla corona di spine. Forse una
probabile interpretazione popolare vede questa scelta come un tentativo
di avvicinare ulteriormente la figura di Cristo con quella femminile, la
quale dovrebbe condividere lo stesso spirito di sacrificio nei confronti
dell’umanità. Una lettura di questo genere, oltre che essere molto parti-
colare, ci aiuta a riflettere su un’altra questione, ovvero il fatto che queste
quattro figure siano interpretate solo da giovani ragazze, assolutamente
nubili e vergini, questione a cui lo stesso paese tiene molto. Vedere una

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parte del popolo muovere verso questa figura tale interpretazione e por-
tarla all’interno di una manifestazione pubblica, segna irriducibilmen-
te che questo processo di duplice contaminazione avviene e si radica
fino ad evolvere molto più di quanto possa apparentemente sembrare.

Incidenti benedetti
Il BULLET BABA TEMPLE Jodhpur, Rajasthan

Durante il mio primo viaggio in India ebbi modo di visitare un tem-


pio molto particolare, pure per la (a volte) stravagante cultura indiana.
Quello che spesso viene considerato un preconcetto, ovvero che il con-
fine tra vita quotidiana e religione in India è molto labile, si conferma
fin da subito non essere solo un preconcetto. Nelle nostre case la pre-
senza di un crocifisso ormai è paragonabile ad un qualsiasi altro oggetto
di arredo. Se però non è ancora diventato arredo, sicuramente ha perso
quel forte rapporto per cui ci si rivolgeva anche solo guardandolo ogni
volta che si entrava nell’ambiente domestico, atteggiamento che invece
cambia se il crocifisso è dentro una chiesa.Mettiamo questo atteggiamen-
to a confronto con la pratica quotidiana della puja (offerta) verso la fi-
gura sacra induista, la quale avviene giornalmente non solo nei templi,
ma anche nell’ambito domestico, dove spesso vicino all’entrata è presente
una statua ed un altare dedicati ad una delle innumerevoli divinità del
pantheon indu. Questo paragone può essere un semplice esempio per di-
mostrare la differenza nei confronti della pratica quotidiana lontana dal
luogo di culto, e come in India questo comportamento nei confronti del
sacro non sia così fortemente legato al luogo di culto. Tornando al no-
stro tempio, il breve accenno qui sopra non è solo legato a spiegare una
delle molte differenze fra due culture e il loro rapporto con il luogo re-
ligioso, ma bensì per evidenziare quanto ancor di più il come, nel caso
di quella indiana, l’oggetto che diviene “di culto” abbia facoltà a divenire
tale molto più facilmente rispetto a qualsiasi immagine cristiana portatile
(santino da portafoglio), la quale sviluppa un rapporto con il possesore,
ma mai con una interà comunità, come invece è successo per l’oggetto
presente in questo tempio. L’oggetto di culto del Bullet Baba Temple è una

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motocicletta. Fedeli che passano per Jaipur spesso raggiungo questo tem-
pio, presente in un villaggio fuori città, poiché pensano che un’offerta a
questa motocicletta porti loro protezione, soprattutto se il mezzo su cui
viaggiano è una moto. Questo tempio è una meta obbligata per i mo-
tociclisti e i viaggiatori in generale, che guidano nelle caotiche strade
dell’India, le quali sono tutto tranne che sicure. Interessante è anche la
storia dietro all’evento per cui questa motocicletta, da mezzo di trasporto,
sia divenuto oggetto di culto. Il motivo di questa intercessione nasce da
un incidente, incidente nel vero senso del termine. La storia narra che
questo giovane benestante di alta casta si chiamasse Om Singh Ratho-
re, ubriaco di whisky alla guida della sua moto, perse il controllo del-
la motocicletta e si schiantò contro un albero. Lo stesso albero vicino al
quale ora sorge il tempio. Ma più che soffermarci sulla questione che an-
che l’albero è diventato a suo modo un oggetto di culto (punto che più
tardi riprenderemo, continuando nella seconda parte della storia) dopo
l’incidente e la morte di questo signore, la moto fu portata dalle auto-
rità presso la stazione locale della polizia. Per motivi a noi sconosciuti
questo motocicletta, animata da forze soprannaturali, durante la notte si
mosse, o forse si smaterializzò e rimaterializzò nel luogo dell’incidente.
I poliziotti nei giorni seguenti continuarono a riprendere la motociclet-
ta e portarla presso la stazione, ma questa continuava misteriosamente,
durante la notte, a tornare nel luogo dell’incidente. La voce si sparse,
le storia divenne leggenda ed intorno alla motocicletta e alla figura di
quest’uomo si creò una forte aurea di importanza mistica.Presto la mo-
tocicletta fu reclamata dallo stesso popolo, la famiglia del defunto la ce-
dette, e intorno a questa fu costruito un tempio. Trovo particolarmente
interessante che un avvenimento così tristemente comune nelle strade
dell’India come un incidente in moto, possa aver dato modo, attraverso
la presenza di una storia che entra a far parte delle leggende popolari
della zona, di creare un vero e proprio luogo di culto. In questo tempio
passano diverse centinaia di persone al giorno, portando offerte come
fiori, incenso, bracciali di filo e collane, per assicurarsi una protezione.
La scena che più mi è rimasta impressa, tra le modalità di offerta, è che
sul busto di questo defunto signorotto, ormai divenuto Baba (figura sa-
cra paragonabile ad un santo nella cultura cristiana) venisse versata mez-
za bottiglia di whiskey. Questo gesto di riportare la causa della morte

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come offerta aveva attirato la mia attenzione. La motivazione di tale gesto
è probabilmente che una delle attività preferite in vita del santo era, insie-
me alla guida spericolata, quella di consumare buon whisky di produzio-
ne inglese. Il gesto di versare questa passione direttamente sopra il mezzo
busto, che rappresenta il Baba, a parer mio richiama il desiderio del po-
polo del voler riportare la causa scatenante (il whisky) che ha provocato
la situazione unica (l’incidente) perché si verifichi questa fortuito evento
miracoloso (la storia intorno alla motocicletta) e quindi tramite questo
processo possa rinforzare la potenza magica che l’artefatto in questione
possiede. Che un simile processo sia stato avviato e venga mantenuto atti-
vo dal popolo del villaggio dove tutto ciò è accaduto, diventa un esempio
a favore dell’idea che la cultura popolare ha una influenza straordinaria
nei confronti del credo. Una forza in grado di generare miti unici, che a
loro volta generano culti e costruiscono luoghi altrettanto unici. Tutto
ciò però avviene anche con l’influenza della forza “opposta”, ovvero una
religione preesistente. Il culto di questo Baba e della sua motocicletta con
il passare del tempo è cresciuto di notorietà fino a diventare un culto fa-
moso in tutto il continente, ed ovviamente anche una meta turistica per
chi passa per lo stato del Rajasthan. Nei pressi del tempio anche l’albero
sul quale si schiantò il Baba, la seconda motivazioni che costò gli la vita,
dopo lo stato di ebbrezza, è a sua volta un punto di raccolta delle offerte.
In particolare, l’offerta maggiore in questo caso, è il tipico cordino ros-
so che si presenta legato su diverse alberi, in tutta l’India. Questi alberi,
per esempio il Peepal, sono parte dei miti della storia religiosa indiana.
Il fatto che l’albero in questione non venga trascurato, ma anzi ricoperto
di offerte lo carica di importanza. Ciò stimola in me un ragionamento
simile a quello fatto sul versare il whisky sopra la sopra la statua del Baba:
questo albero viene investito (con tutta la specificità di questo termine)
da un evento che in qualche modo scaturisce una forza magica unica, la
sua presenza ha portato alla morte del Baba e quindi, successivamente,
diviene anch’esso parte integrante di questo evento. Portare ad esso un’of-
ferta rappresenta un gesto fatto non tanto per riattivare questa implicita
energia del luogo di culto, più per affermare fortemente una seconda vol-
ta, una specie di memorandum introno al “è successo proprio qui, contro
questo albero”. Non vi si versa sulle radici dell’alcol, ma lo si ricopre con
dei cordini rossi, lo si riveste di importanza e lo si evidenzia in modo

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unico rispetto ad un altro albero che può trovarsi a pochi metri di di-
stanza. In un certo senso queste due pratiche, il versare alcol sulla statua
e il legare un filo rosso all’albero conservano internamente una forte
componente performativa, sprigionano in modo semplice un’intenzione
fondamentale, pratica e comunque utile, tengono attivo il luogo sacro
e ne ricordano l’importanza. Non solo il fedele tramite questi gesti si
assicura una protezione, ma rimarca che tale protezione avviene per
propria decisione, ovvero quella di riattivare il luogo tramite la medesi-
ma azione: l’offerta sul luogo stesso. Quindi, in conclusione, abbiamo tre
azioni: la prima rende questo luogo da zona dove è avvenuto un inciden-
te a Tempio, la seconda mantiene attiva la forza magica del tempio e la
terza ne rimarca l’importanza dell’ubicazione. Questo caso è stato preso
in esame perché trovo che il triplo livello di azioni, fondamentalmente
messe in atto solo dal popolo, abbia in sé una forte carattere performa-
tivo. Si “azione” che parte dal popolo, si muove generando, da un evento
casuale come l’incidente, una storia “mitica”, ed inoltre attiva profonda-
mente una partecipazione diretta e assolutamente fondamentale dell’in-
dividuo e di tutta la collettività nel dover mantenere attivo questo statuto
di miticità. Possiamo definire tutto ciò non solo come un particolare
attitudine religiosa? Ma anche come una performance incessante, nata
dal popolo e continuata da esso, per il popolo.Tutto in perfetto equilibrio
tra cultura popolare e religiosa, un atto spontaneo che opera in totale
accordo tra i due poli, mantenendo una costanza che anche il miglior
performer della storia farebbe fatica a mantenere. In conclusione questa
riflessione non vuole entrare in merito al confronto tra il puro gesto reli-
gioso con la performance art, bensì aprire la possibilità a una riflessione
intorno alla quale un gesto apparentemente semplice nato dal caso possa
trasformarsi in una attività reiterata nel tempo, la quale andrà ad assu-
mere, in autonomia, una fama ed importanza enorme.

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Visioni sociali
Le apparizioni mariane a Lourde

Le visioni mistiche di Marie-Bernarde Soubirous sono un evento im-


portante per la religione cristiana, dai risvolti più o meno discutibili.
In principio furono un evento intorno al quale si strinse una piccola
comunità rurale. Successivamente questo evento produsse l’effetto in-
credibile di rendere un paesello sperduto nei monti dell’occitania la se-
conda meta turistica più frequentata di Francia, seconda solo a Parigi.
La condizione per cui una giovane quattordicenne analfabeta iniziò ad
avere visioni mistico religiose non è il centro di questo testo. Non an-
drò a discutere il perché o il per come queste visioni si siano manifestate,
ma piuttosto andrò a parlare di cosa può produrre un evento di questo
genere, quando un piccolo gruppo di persone inizia a credere e traspor-
tare fiducia verso di esso, lo rende parte propria delle cultura del luogo e
ne fa riserva un interesse unico. Questo caso è degno di esser analizzato
perché getta, una volta per tutte, una luce chiara sulla innegabile capa-
cità che ha il popolo nel poter generare in modo autonomo condizioni
periferiche al credo, che per processo di partecipazione della popolazio-
ne, salgono di grado e diventano sempre più importanti, fino, come in
questo caso, a generare un luogo di rilevanza per una religione intera.
Nel caso di Lourde, tale importanza è dovuta al fatto che è divenuto meta
di pellegrinaggio, una delle più importanti al mondo, probabilmente al
terzo posto, in pari con Santiago di Compostela, dopo il Vaticano e Ge-
rusalemme. Ora, prendiamo brevemente ad esame quali possono esse-
re le principale motivazioni per cui proprio questo evento, tra le molte
apparizioni mariane della storia, ha avuto una tale risonanza in tutto il
mondo cristiano cattolico, e fin dal principio ha trovato una grande par-
tecipazione da parte della popolazione locale. Ad esempio, la presenza
tra diversi miracoli, apparentemente più o meno verificati, di una fonte
benedetta dalle proprietà curative uniche, che comunque dopo successivi
esami scientifici si è reso noto avere solo una grossa concentrazione di sali
minerali, nulla di più. La presenza di un elemento come questa fonte ren-
de il luogo delle apparizioni non più un ambiente in cui il resto del grup-
po diventa passivo e subordinato all’individuo che ha avuto l’apparizione

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(l’unico persona che può vedere e sentire la manifestazione), bensì at-
tivo, poiché può interagire con essa e provare in prima persona questa
presenza superiore, tramite l’assunzione dell’acqua miracolosa di questa
fonte. Oltre che la diretta e ripetuta simbologia dell’acqua nella religione
cristiana, la presenza attiva di questo elemento che offre effetti curativi,
ovviamente riscontrati nei periodi seguenti in cui i cittadini di Lourdes
bevevano l’acqua, è solo una delle motivazioni per cui questa apparizio-
ne diventa anche una questione pubblica. La fonte miracolosa funge da
connessione tra la singola persona che è la visionaria e il resto del po-
polo, in essa può constatare anche lui la forza mistica di questo evento.
Inoltre una successiva motivazione è stata che queste visioni avevano
anche un riscontro uditivo. La giovane occitana in più di un’occasione
ha riportato che questa visione le parlava. Oltre che rivelare la presen-
za della fonte, vi è stato l’ordine da parte della Vergine, di far passare la
processione cittadina per quel luogo.Si è dato modo di creare un link tra
il luogo sacro centrale, quale la basilica e la grotta in cui avviene il mira-
colo. Questo particolare ovviamente rinforza il legame tra la popolazione
e l’evento. Continuando sulla linea della necessità di una partecipazione
collettiva affinché il credo si radichi nel luogo, analizziamo l’ultima “caso
locale”, che al pari della fonte miracolosa, può spingere persone esterne
dalla città di Lourdes a recarsi lì. Questo caso condivide proprio la stes-
sa origine della fonte miracolosa, ovvero i miracoli avvenuti durante le
veglie pubbliche. Questi eventi partecipati permettono, come la fonte, di
fare esperienza diretta della presenza del divino in quel luogo, ma a dif-
ferenza dell’acqua miracolosa, hanno una modalità molto più diretta e
momentanea. Faccio riferimento a un miracolo in particolare: il mira-
colo di mercoledì 7 aprile 1858, o miracolo del cero la cui fiamma non
brucia la pelle. Durante una veglia pubblica Bernadette si mise a pregare
in ginocchio davanti alla grotta, tenendo tra le mani un cero, questo con-
sumandosi raggiunse la pella della miracolata, la quali non si bruciò; lei
non proferì lamento e il dorso delle sue mani rimase immacolato, senza
segni o ferite. Simpatico è l’aneddoto, il quale ci vuole far sapere che a
questo miracolo assisté un medico che venne folgorato dall’evento e si
convertì diventando un fervente cristiano, ma di ciò a noi interessa poco
o nulla. Il centro della questione è che assistere a questi miracoli lasci
un senso di dubbio, il quale viene colmato continuando lo scetticismo

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verso queste figure mistiche o con il sorgere della più certa convinzione.
Poiché si era presenti, si e visto lo sforzo della miracolata e il beneficio
della sua forte fede, come già detto, tutto successo davanti ad una platea
divisa tra chi scettico cerca conferme e chi invece, già convinto, vuole
averne solo l’ennesima dimostrazione. Questa pratica a metà tra lo spet-
tacolare e il mistico è a tutti gli effetti una dimostrazione pubblica di cre-
do, che però, a differenza di una qualsiasi manifestazione religiosa, funge
non tanto per mantenere viva una tradizione, ma bensì per crearne una
nuova, con un nuovo protagonista, vivo e vegeto. La nuova protagoni-
sta è pronta a dimostrarci il perchè ha senso la nostra presenza, in quale
davanti a esso, a vedere la dimostrazioni pratica di ciò che normalmente
dovrebbe essere un processo personale, basato su riflessioni profonde, e
non una dimostrazione pubblica, ma del resto si sa “vedere per crede-
re”o se già ci si crede abbastanza personalmente direi “vedere per essere
ancor più sicuri di credere”.In conclusione apro una riflessione sull’ulti-
mo punto che ha chiuso il cerchio e trasformato Lourdes e Bernadette in
rispettivamente: un luogo di pellegrinaggio ed una Santa. Questo pun-
to riguarda la conferma da parte di un’istituzione, la Chiesa Cattolica.
Nel 1925 Papa Pio XI confermò le visioni di Lourdes e canonizzò Ber-
nadette. Questo fu l’ultimo passo per confermare ciò che prima era già
più che sicuro nei cuori e nelle menti di molti fedeli, quella era una ma-
nifestazione di Dio. Ora, dico, è veramente necessario? Nel mondo ci
sono molti luoghi dove sono avvenute apparizioni, le quali sono meta
di pellegrinaggio, sempre su lascito della chiesa, ma senza conferme ef-
fettive di quest’ultima. Non è di per sé la presenza del pellegrino e del
più ampio gruppo di persone, a rendere tutto ci una reale luogo di culto
“attivo”? Ma l’istituzione conferma, annaffia, con un gesto di finale ap-
provazione dove ben prima era stato piantato il seme della convinzio-
ne popolare. Questo toglie qualsiasi dubbio al fedele. Volendo fare un
parallelo, così come accade per le situazioni religiose, anche quelle ar-
tistiche nel momento in cui dicono che il quadro è arte, poiché non è
un falso o ha assunto una qualsiasi valore fondamentale per il momen-
to storico culturale a cui è iscritto, viene iscritto ad un sistema più alto,
sistema tra l’altro amministrato da coloro che danno queste conferme,
è quindi da oggetto “e chi l’ha generato” diviene arte ed artistica. così
come la persona normale che ha una visione, tramite l’ultima conferma
della Chiesa, diviene santa e ciò che ha visto è apparizione sacra.
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Sitografia

https://www.lidentitadiclio.com/la-settimana-santa-in-sicilia-parte-pri-
ma/

http://capodorlando.org/siciliantica/le-maddalene-di-militello-rosmari-
no-riti-della-settimana-santa/

https://www.sanpaolostore.it/approfondimento/santa-bernadette-soubi-
rous.aspx

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