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I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)

di Anna Maria Novero*


“Ma com’è che adesso sono tutti dislessici?”
Come logopedista, addetta ai lavori ed esperta di apprendimento e di DSA (Disturbi specifici dell’ap-
prendimento), questa domanda mi è stata rivolta innumerevoli volte; e non solo da ragazzi e ge-
nitori, ma anche da insegnanti e da funzionari della scuola. Come le allergie, l’autismo, il reflusso
gastroesofageo, i disturbi alimentari e dell’attenzione, anche i DSA (e fra essi la dislessia), sono ormai
entrati – faticosamente – nel novero delle patologie o dei disturbi di cui più o meno tutti sentiamo
parlare e di cui tutti sappiamo qualcosa.
Spesso le notizie non giungono in modo organico e razionale, ma alla rinfusa. Qualche anno fa, mi
divertii, insieme a un gruppo di miei pazienti più grandi, a tracciare un “profilo” del soggetto disles-
sico attraverso le notizie che giungevano dai giornali e dalla televisione. Sembrerà strano – forse non
troppo – ma le caratteristiche “mediatiche” più frequentemente attribuite ai dislessici erano:
s la creatività (in particolare l’abilità nel disegno),
s le difficoltà nel linguaggio verbale,
s i problemi familiari.
Non una parola sui problemi di lettura o, più generalmente, sull’apprendimento e sul quoziente
intellettivo, sui punti di forza e di debolezza dei soggetti che convivono con questo strano disturbo.
Non è vero che “oggi” sono tutti dislessici. Il numero probabilmente è sempre lo stesso. È cambiata
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solo la diagnosi: oggi – finalmente – molti bambini, ragazzini, ragazzi e adulti riescono a trovare un
nome per le loro difficoltà, ottenendo così l’aiuto che occorre per mettere in atto le loro potenzialità
cognitive. Fino a pochi anni fa, a questi ragazzi veniva attribuita l’etichetta di chi “non ne voglia”
oppure “è pigro” o peggio ancora “è intelligente, ma non si applica”, causando, in moltissimi casi,
l’abbandono scolastico, per non parlare delle ricadute sull’autostima.
Nelle prossime pagine troverete un testo informativo sui DSA e indicazioni utili nel caso abbiate nel-
le vostre classi studenti con questo tipo di disturbo. Vedrete che la didattica per i bambini con DSA
non è diversa da quella per i bambini normolettori, necessita semplicemente di alcuni accorgimenti
che aggirino le difficoltà di automatizzazione che caratterizzano il disturbo.
Di questi accorgimenti si è tenuto conto anche nella realizzazione di questa nuova antologia.
Abbiamo scelto di dedicare particolare attenzione agli studenti con DSA a partire dal carattere di
alcuni testi, quelli indicati come Testo amico, che è diverso da quello a cui siamo abituati.
La diversità di questi caratteri crea quelle differenze fra grafemi simili che, indifferenti per i normo-
lettori, possono aiutare molto il ragazzo dislessico nei compiti di decifrazione e nel miglioramento
conseguente della velocità di lettura.
Abbiamo inoltre deciso di incrementare nel testo i messaggi veicolati attraverso le immagini e più
genericamente attraverso il linguaggio visivo. Questa procedura, più agile e immediata, non solo
stanca meno lo studente con DSA, ma è più accattivante anche per il normolettore o il ragazzo con
esigenze diverse (per esempio di madrelingua non italiana).
Abbiamo optato per un riduzione degli esercizi da eseguire sul quaderno, prediligendo sempre
– laddove possibile – la compilazione sul testo. A questo scopo, e per venire incontro alle esigenze

* Anna Maria Novero è laureata in Storia della Lingua italiana e in Logopedia all’Università di Genova. Si occupa da diversi
anni di DSA, di apprendimento e di didattica, dopo aver vissuto, all’interno della sua stessa famiglia, il problema “disles-
sia”. Da sempre sostenitrice di percorsi terapeutici centrati sui bambini (e non sui disturbi), ha lavorato a Genova in équipe
multidisciplinare e attualmente collabora con il Centro Psicologia della dottoressa Piera Campagnoli di Gorgonzola, al fine
di fornire un approccio integrato e multidisciplinare alla terapia del bambino con DSA.

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dei ragazzi con disgrafia, abbiamo predisposto spazi rigati o tabelle dove poter svolgere gli esercizi
nel modo più ordinato possibile. Va inoltre ricordato che tutti i brani Ascolto online, più altri brani
aggiuntivi, sono disponibili online, scaricabili e utilizzabili per svolgere i compiti con il computer.
Questo è lo strumento che abbiamo elaborato per essere di valido supporto nell’avvicinarsi alla
lettura per tutti gli studenti, normolettori, DSA, di madrelingua diversa dall’italiano. Speriamo che
possa integrarsi con la vostra esperienza di insegnanti in modo da poter concretizzare tutte le loro
potenzialità e rendere più proficua, motivante e stimolante la vita della vostra classe.

1. L’acquisizione della lettura


La maggior parte di noi serba un posto speciale nella sua memoria alla persona che gli ha svelato il “magi-
co mondo” della lettura. Ancor più della scrittura, il piccolo miracolo della lettura dà l’accesso a tesori fino
a un momento prima irraggiungibili ai bambini: libri, cartelli, scritte sui muri, fumetti... Questo “posto
speciale” in genere spetta a un insegnante, talvolta a un genitore o a qualche altro parente.
Ma cosa è successo quando l’uomo ha inventato la scrittura? Come ha imparato a leggere e a scrivere?
E come impariamo noi oggi? E in particolare, che cosa fa il nostro cervello quando leggiamo e scri-
viamo? Forse non ci siamo mai soffermati a pensarci, ma da un punto di vista evolutivo, leggiamo e
scriviamo da pochissimo tempo. Poche migliaia di anni.
Di conseguenza poche migliaia di anni non possono aver abituato il nostro cervello alla lettura e alla
scrittura. Il cervello dell’uomo è formato in modo da condensare in uno spazio limitato (la scatola
cranica) il maggior numero possibile di connessioni; questa necessità lo costringe a lavorare in modo
economico, sfruttando ogni possibilità di spazio. Quando l’uomo ha “inventato” lettura e scrittura,

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il cervello ha convertito a questi compiti alcune aree già esistenti che, semplicemente, facevano altro.
Si tratta di alcuni gruppi di neuroni dell’emisfero temporale sinistro. Prima si occupavano di rico-
noscere la forma degli oggetti, in particolare di quelli che presentavano intersezioni (come due rami
incrociati, per esempio) successivamente hanno imparato a riconoscere la forma delle lettere (non a
caso spesso costituite da forme che presentano intersezioni o giunzioni).
Questa è la prima lettera dell’alfabeto fenicio: nata probabilmente dall’osservazione di una testa
bovina ( ). A quel punto il più era fatto e lo scoglio più arduo superato. La strada che avrebbe por-
tato a Omero, Dante e Proust era aperta. Il nostro cervello oggi ha imparato a riconoscere a colpo
d’occhio le lettere (e magari è meno veloce con i rami intrecciati).
Vediamo ora come imparano a leggere i normolettori. Il modello più accreditato è quello a quattro
stadi proposto da Uta Frith.1
1. Stadio logografico: si ha durante la scuola materna; in questa fase il bambino “legge” in modo
globale, sfruttando la componente visiva. Le parole sono percepite come disegni e il significato è
associato solo con l’aiuto di un adulto. In questa fase il bambino non ha ancora appreso i nessi
che legano i suoni alle lettere, quindi non è in grado di leggere, ma solo di riconoscere la parola:

Una particolare scritta bianca in campo rosso, associata a una cosa piacevole permetterà al bam-
bino di riconoscerla e al genitore di pensare che il piccolo sia già in grado di leggere. In realtà la
stessa parola scritta “Coca Cola” non sarebbe riconosciuta.

1 Frith U., Beneath the surface dyslexia, in J.C. Marshall, M. Coltheart, K. Patterson (a cura di), Surface Dyslexia and Surface
Dysgraphia, Routledge and Kegan Paul, London, 1985.

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2. Stadio alfabetico: è quello in cui si comincia a leggere davvero e in cui entrano in campo scuola e in-
segnanti che mostrano al bambino le relazioni che legano i suoni alle lettere, cioè, più propriamente,
i fonemi ai grafemi. In questa fase la lettura apparirà all’adulto molto “stentata” e faticosa; il compito
di associazione che viene richiesto è assai complesso: il bambino deve riconoscere la singola lettera, ri-
cordare il suono corrispondente e pronunciarlo, e tutto questo per ogni lettera che compone la parola.
3. Stadio ortografico: le regole di associazione fra grafema e fonema vengono potenziate in questa
fase; il bambino non decifra più lettera per lettera, ma è in grado di analizzare e riconoscere silla-
be, suffissi e morfemi. Quando l’acquisizione di questa fase è completa, il bambino è in grado di
leggere tramite la via fonologica, convertendo cioè grafemi o gruppi di grafemi in suoni. È ancora
una lettura piuttosto lenta e “sillabata” all’orecchio di un adulto. Ma è il tipo di lettura a cui ricorre
anche il lettore esperto, quando incontra parole nuove o non parole.2
4. Stadio lessicale: è la fase più raffinata che caratterizza la lettura adulta; le parole vengono lette diretta-
mente senza che sia necessario operare conversioni fra grafemi e fonemi. Dopo solo qualche anno di
pratica il nostro cervello ha imparato a “fotografare” la parola, e senza bisogno di decifrare ogni singola
lettera, è in grado di riconoscerla e di leggerla. È la lettura tipica dell’adulto: fluente, rapida, corretta.
Facciamo un passo indietro, alle prime fasi dell’acquisizione della lettura, quando al bambino, all’i-
nizio della scuola primaria, viene proposto un grafema, per esempio “M”. In questo caso dovrà ese-
guire i seguenti passaggi e mettere in campo queste capacità cognitive:
s analisi visiva della lettera da decifrare, per esempio: “M”;
s confronto fra lo stimolo in esame e quelli noti nel magazzino della memoria “A” “B” “C” “D”...
“M”... “V” “Z”;
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s riconoscimento dello stimolo “M” e soppressione di quelli diversi “A” “B” “C” “D” “V” “Z”;
s associazione dello stimolo grafico al suono corrispondente: “M” = /m/.
È intuitiva la complessità di questo compito e la conseguente necessità di dispiegare in esso notevoli
energie mnemoniche e attentive. E si tratta solo del riconoscimento di un grafema! Se il compito
fosse di riconoscerne due (per esempio “M” + “A”) il lavoro sarebbe doppio, e non solo, il bambino
dovrebbe svolgere anche un compito metafonologico, associando il suono /m/ al suono /a/.
Tuttavia, in un tempo relativamente breve questa abilità diventa automatica e non richiede più né
fatica né tempi lunghi. Che cosa è successo? Semplicemente il bambino ha imparato.
Quando impariamo a fare qualcosa come guidare l’auto, sciare o leggere, accade che un atto da complesso e
volontario diventi semplice e automatico, o quasi. Ricordiamo le prime volte che abbiamo guidato un’auto:
la tensione dei muscoli e lo sforzo mentale per cercare di ricordare tutto quello che dovevamo fare e tutte le
cose a cui dovevamo prestare attenzione. Un’esperienza faticosissima e probabilmente non troppo positiva
(difficile avere una guida fluida ai primi tentativi). Adesso probabilmente ognuno di noi è in grado di guida-
re in modo rilassato e sicuro, senza stress e in modo nettamente migliore rispetto agli esordi.
Tanto che magari mentre stiamo guidando possiamo anche permetterci di pensare ad aggiornare la
lista della spesa. Meno fatica, meno tempo, miglior risultato.

ATTO AUTOMATICO
– FATICA
– TEMPO
+ RISULTATI

2 Le “non parole” sono parole senza senso (come *doci, o *cruvimere), vengono usate in ambito testistico per valutare
l’efficienza della lettura per via fonologica. Ma le incontriamo nelle nostre letture quotidiane, in forma, per esempio, di
nomi propri o parole straniere.

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Ma a volte nonostante gli stimoli all’apprendimento forniti dai docenti siano corretti e costanti,
nonostante l’applicazione sia congrua e le capacità cognitive adeguate, l’atto volontario non diventa
automatico o non lo diventa nei tempi previsti: rimane lento, faticoso e poco gratificante. E se stia-
mo parlando di lettura (e in genere di apprendimenti scolastici) e l’insegnamento non porta all’atto
automatico, probabilmente stiamo anche parlando di DSA.

2. Come si manifesta un DSA


I Disturbi specifici dell’apprendimento indicati nell’acronimo sono:
– dislessia: disturbo della capacità di lettura (correttezza e rapidità);
– disortografia: disturbo delle capacità di scrittura (difficoltà ad automatizzare le regole di conver-
sione fra fonema e grafema e/o le regole ortografiche);
– discalculia: disturbo dell’automatizzazione delle procedure del calcolo;
– disgrafia: difficoltà nella resa grafica dei grafemi.
I singoli disturbi saranno diffusamente analizzati più oltre, per ora limitiamoci a qualche dato generale.
Innanzitutto, occorre far presente che in Italia “dislessia” e “DSA” sono usati come sinonimi: “bam-
bino dislessico” non indica necessariamente un disturbo di lettura “puro”, ma può indicare anche
la presenza degli altri DSA. Sono disturbi che colpiscono circa il 4% della popolazione italiana3 e
si caratterizzano per un quoziente di intelligenza (QI) normale o superiore alla norma, assenza di
deficit sensoriali, neurologici, psicologici o educativi e presenza di deficit nelle capacità di lettura e/o
ortografia e/o calcolo e/o scrittura di almeno due deviazioni dalla norma.

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Questo dato significa che abbiamo a che fare con bambini e ragazzini dall’intelligenza pronta e vi-
vace che fanno tanta, tantissima fatica a imparare quanto viene loro insegnato a scuola già dai primi
anni delle elementari.
Sono disturbi che emergono in età evolutiva, che spesso hanno segnali indicatori precoci e che non
passano con la crescita: un bambino dislessico sarà un adulto dislessico. Tuttavia, l’impiego di stra-
tegie di apprendimento adeguate può portare le performance di lettura, scrittura e calcolo a notevoli
miglioramenti (in alcuni casi sovrapponibili con i risultati dei normolettori).
Oggi sappiamo che esiste una causa genetica per i DSA; una minima anomalia cromosomica. Sap-
piamo che quel piccolo gruppo di neuroni dell’emisfero temporale sinistro, quelli deputati al ricono-
scimento degli oggetti con intersezioni, cui si faceva cenno in precedenza, nei bambini che saranno
dislessici si disloca in maniera anomala4 già durante la gravidanza.
Sappiamo che la causa è genetica e sappiamo anche che esiste familiarità: un bambino con un ge-
nitore o un parente stretto con DSA ha assai più probabilità di sviluppare a sua volta un DSA di un
coetaneo senza familiarità.
Un bambino intelligente, vivace e pieno di attesa si affaccia, a sei anni, al mondo della scuola. È facile
immaginare la sua curiosità, le sue aspettative e quelle della famiglia. Per tutti i bambini è così. L’ingresso
nella scuola è il primo contatto con un mondo che non è quello della famiglia, con i primi doveri e le
prime vere regole. È un mondo, come accennavo prima, di cui la maggior parte di noi serberà il ricordo
per tutta la vita. Di solito fin dai mesi precedenti il bambino viene preparato all’evento con incitamenti
e raccomandazioni, gli si spiega che “sta diventando grande”, che imparerà a leggere e scrivere, cose “da
grandi” per eccellenza. La scuola sarà il suo lavoro, non troppo diverso da quello di mamma e papà.

3 Questa percentuale vale per la lingua italiana. È relativamente bassa a causa della “trasparenza” dell’ortografia della no-
stra lingua (che con poche eccezioni si legge come si scrive). In paesi dove la lingua è meno trasparente le percentuali sono
assai più elevate (17% in Gran Bretagna).
4 “L’anomalia” di cui stiamo parlando è subclinica, cioè non è riscontrabile con esami; non si “vede” né con lastre né con
risonanze magnetiche.

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Ma, per alcuni bambini, l’entusiasmo finisce molto presto. A volte già all’atto di tracciare i primi se-
gni, di riconoscere le prime letterine, di “fonderle” insieme per farle diventare una sillaba.
s La lentezza è la prima cifra caratterizzante i DSA.
s La seconda è la fatica.
Occorre a questo punto una piccolissima premessa: nessuno più di un insegnante sa che ogni bambino
è diverso dagli altri. Allo stesso modo ogni bambino con DSA è diverso dagli altri bambini e dagli altri
bambini con DSA. Per questo è molto difficile tracciare un profilo delle caratteristiche specifiche che si
possono manifestare e indurre, in insegnanti e genitori, il sospetto della presenza di un DSA. Per fare
solo un paio di esempi, in molti casi insieme alla dislessia si presenta anche la discalculia (difficoltà
nel calcolo), ma molti bambini dislessici sono bravissimi in matematica! In molti casi alla dislessia si
accompagnano disturbi della lateralità e goffaggine motoria... ma Magic Johnson5 è dislessico.
Propongo, a uso degli insegnanti, un piccolo elenco dei segni a cui prestare attenzione, che più spesso
possono celare una difficoltà di apprendimento (fatte salve le limitazioni precedentemente espresse).
s Lentezza:
– nell’imparare a riconoscere i grafemi, nell’associarli al suono corrispondente e nel fonderli in-
sieme;
– nel tracciare i segni, che spesso sono realizzati al contrario, o in maniera speculare; lentezza che
spesso si accompagna a difficoltà nel gestire lo spazio del foglio, e spesso anche nell’impugnare
correttamente la matita;
– nell’assimilare sequenze (che possono essere i giorni della settimana, i mesi dell’anno, le tabel-
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line ecc.).
s Fatica:
– nei compiti che proponiamo ai bambini non notiamo nessun miglioramento dovuto alla prati-
ca: le attività di riconoscimento, di associazione, di memorizzazione non solo rimangono lente,
ma sono anche sempre faticose. Dopo aver decifrato pochi grafemi, il bambino è già “stanco”.6
Se osserviamo questi elementi, possiamo cominciare a sospettare di avere davanti un caso di DSA.
Per la maggior parte delle famiglie questo è un fulmine a ciel sereno. “Improvvisamente” un bambi-
no sveglio e sano non riesce a imparare a leggere bene come gli altri.
Questo non è sempre vero, o almeno, non lo è nella maggior parte dei casi. Oggi sappiamo che circa l’80%
dei soggetti con DSA ha avuto un pregresso disturbo del linguaggio (per esempio ha cominciato a parlare
tardi, ben oltre il primo anno di vita, ha sviluppato il linguaggio verbale in maniera irregolare, spesso ha
avuto bisogno di aiuto logopedico, in alcuni casi è giunto a scuola con qualche residua difficoltà nell’e-
spressione verbale). Spesso i genitori (e anche gli addetti ai lavori) trascurano il legame fra linguaggio e
apprendimento della letto-scrittura. Invece questo legame è molto, molto importante. Perché il disturbo
del linguaggio è strettamente correlato a quello dell’apprendimento: come il bambino piccolo decodifica
e produce con difficoltà i suoni della lingua parlata, allo stesso modo il bambino più grande sarà in diffi-
coltà con quelli della lingua scritta. L’80% dei bambini con disturbo del linguaggio svilupperà un DSA.
Questo dato non è utile soltanto per i logopedisti e per le famiglie, ma anche per gli insegnanti:
permette (almeno per un certo numero di DSA) di potersi muovere con tempestività, di “tenere
d’occhio” i bambini a rischio, evitando il pericolo della diagnosi tardiva e della conseguente caduta
di autostima del bambino.
Un ruolo fondamentale può essere svolto anche dagli insegnanti della scuola materna. Proponendo
nell’anno precedente l’ingresso a scuola attività metafonologiche ai bambini, possono dare indica-
5 Earvin Johnson jr., noto come Magic Johnson è un ex giocatore di basket statunitense ed è considerato uno dei più grandi
giocatori della storia di questo sport.
6 E i bambini non sono “pigri”.

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zioni molto precise sulle possibili difficoltà future. Le attività metafonologiche sono basate sulla
manipolazione delle parole, per esempio: identificare quelle che cominciano con la stessa sillaba
(il vecchio gioco “è arrivato un bastimento carico di...”) o con la stessa lettera, giochi con le rime,
“trenini” di sillabe in cui la parola successiva deve cominciare con la finale di quella precedente ecc.7
Un bambino con difficoltà in questo ambito è ad alto rischio DSA.
Proporre qualche piccolo gioco metafonologico all’inizio della prima primaria, può essere molto
utile e pratico per l’insegnante, identificando i bambini che potrebbero presentare difficoltà future.
Riassumendo, i “campanelli di allarme DSA” da cogliere all’ultimo anno della scuola materna sono:
– difficoltà nel linguaggio, anche se risolte;
– difficoltà con i giochi metafonologici;
– difficoltà di discriminazione (il bambino non coglie la differenza fra suoni simili).
Quelli, invece, da cogliere all’inizio della scuola primaria:
– persistenti difficoltà di linguaggio, anche lievi;
– difficoltà con esercizi metafonologici;
– fatica e lentezza nei compiti di riconoscimento/produzione/lettura grafemi.
Quindi, il bambino con sospetto DSA NON presenta:
– ritardo mentale;
– deficit sensoriali;
– deficit neurologici;
– problemi di deprivazione culturale o ambiente ipostimolante;

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– problemi psicologici.8
Ma PUÒ presentare:
– difficoltà nel linguaggio verbale;
– difficoltà metafonologiche;
– lentezza nell’apprendimento, affaticabilità e distraibilità.9

3. La dislessia
Come abbiamo visto, è il disturbo che impedisce o rende assai lenta e difficile l’automatizzazione
del processo di lettura. In precedenza abbia ricordato che l’atto automatico richiede meno tempo e
meno fatica di quello volontario, a parità di risultato. Se parliamo di lettura, l’automatizzazione del
processo si vede nelle variabili di:
1. rapidità,
2. correttezza,
3. affaticabilità.

Rapidità
L’incremento fisiologico della velocità di lettura è di circa 0,5 sillabe al secondo annue, fino alla 2°
media; per un dislessico lieve è di 0,3 e per uno grave di 0,2. Il grafico alla pagina seguente illustra chia-
ramente che un dislessico grave, alla fine della terza media, legge più o meno come un normolettore in
seconda primaria.
7 A pag. 133 proponiamo un piccolo elenco di giochi metafonologici.
8 Qui si vuole intendere che la dislessia non è causata da problemi psicologici, come molti ancora credono; in realtà molti
bambini dislessici sviluppano problemi psicologici, ma essi sono la conseguenza della dislessia e non la sua causa.
9 La distraibilità non è legata a problemi attentivi, ma correlata con il maggior sforzo che il bambino fa per svolgere i
compiti proposti: facendo più fatica, si stanca prima e, quindi, tende a distrarsi.

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È importante ricordare anche che si è in grado di comprendere quello che viene udito solo se viene
letto con una certa velocità; se la velocità è troppo scarsa non si comprende più. Questo aspetto è
molto significativo, perché una lettura molta lenta può influire sulla comprensione del testo letto.
Per questo la comprensione della lettura, che dovrebbe essere buona, nei dislessici può risultare com-
promessa. Per stabilire se si tratta di un problema di comprensione o di dislessia, basta leggere per il
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bambino e poi rivolgergli le domande di comprensione.

Correttezza
La variabile della correttezza è meno importante della rapidità nella lingua italiana; la trasparenza
fonologica della nostra lingua che, con poche eccezioni, si legge come si scrive, “aiuta” i bambini a
essere corretti. Non mancano, tuttavia, alcune difficoltà legate alla “somiglianza” grafica di alcuni
caratteri, come per esempio p – d – q – b, a – e, u – n ecc.
Questi grafemi, in stampato minuscolo, sono il ribaltamento o la rotazione dei medesimi elementi e
possono creare difficoltà di lettura. Di solito intorno alla quarta classe della primaria la correttezza
del bambino dislessico si allinea a quella del normolettore. Le difficoltà di correttezza sono tuttavia
un utile campanello di allarme per cogliere la dislessia.
A questo punto ritengo importante spendere qualche parola sulla “pigrizia” e sull’“allenamento”: si
è calcolato che alla fine della seconda classe della primaria un bambino ha visto per 400000 volte lo
stimolo “a”; se dopo aver visto “a” per 400000 volte il bambino ha ancora problemi per distinguerla
da “e”, è perché ogni volta deve fermarsi e confrontare i due simboli, non avendoli automatizzati.
Non ha senso proporre più allenamento o pensare che il bambino sia pigro.
La dislessia rende difficile l’automatizzazione del collegamento fra fonema e grafema.

CON AUTOMATIZZAZIONE CON DISLESSIA


LA LETTURA È : LA LETTURA È:
+ VELOCE – VELOCE
+ CORRETTA – CORRETTA
– FATICOSA + FATICOSA

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Quali sono i tipici errori di lettura che possono farci sospettare la dislessia?
ERRORI FONOLOGICI
– Scambi, aggiunte e omissioni di suoni.
– Confusione fra suoni simili (per esempio /n/ e /m/) e fra suoni con resa grafemica simile, in par-
ticolare i già evidenziati p/b/q/d.
– Inversioni di suoni (al/la, il/li ecc.).
– Riduzione di gruppi consonantici o di dittonghi (es. */stada/ invece di /strada/).
– Errori nelle doppie es. /’pala/ vs /’pal:a/.
– Errori di accentazione.
Altri errori frequenti sono:
– errate anticipazioni (leggere “sedia” al posto di “tavolo” o “mangio” invece di “mangiare”);
– salti di riga.
In relazione ai diversi momenti scolastici possiamo stilare questa serie di disagi:
I ciclo scuola primaria
– Acquisizione lenta e non automatica della corrispondenza fra grafema e fonema.
– Errori di transcodifica e previsione semantica.
– Lievi e rari deficit di comprensione.
II ciclo scuola primaria
– Lentezza e mancanza di fluidità nella lettura.

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– Mancanza di autocorrezione (il bambino sente che c’è un errore, ma non sa trovarlo).
Scuola secondaria di primo grado (e di secondo grado)
Difficoltà nell’usare lettura e scrittura come strumenti per apprendere. Ciò provoca:
– difficoltà nell’organizzare il proprio pensiero e le nozioni apprese;
– difficoltà di espressione (specie nella stesura del tema: il bambino presta un’eccessiva attenzione
all’ortografia, a scapito del contenuto);
– difficoltà a rendere produttivo il proprio studio.

4. La disgrafia e la disortografia
Le componenti specifiche della scrittura sono:
1. l’analisi fonemica della parola che si vuole scrivere (o che viene dettata);
2. la corrispondenza fra grafema e fonema;
3. il recupero della forma ortografica (cioè dell’insieme delle regole che permettono di rendere i suo-
ni della lingua parlata attraverso i grafemi);
4. la realizzazione effettiva della parola scritta, cioè la produzione di precisi pattern di movimenti,
volti alla scrittura delle lettere e delle parole.
Se i problemi a livello della scrittura riguardano i punti 1, 2 o 3 si parlerà di disortografia, se sono a
livello del punto 4, si avrà disgrafia.

Disgrafia
La disgrafia è uno dei disturbi dell’apprendimento e spesso si associa a dislessia e disortografia. Si
manifesta con calligrafia difficilmente leggibile e disarmonica.
Normalmente, già nella prima classe della scuola primaria, dopo un iniziale periodo di confusione
e difficoltà, i bambini raggiungono una scrittura abbastanza chiara e leggibile. In seconda, spesso, si

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osserva un certo deterioramento del tratto; ciò è dovuto al fatto che i bambini imparano parole più
lunghe e diventano più rapidi nella scrittura, a scapito della resa grafica. Circa in quarta primaria, in-
fine, i movimenti si fanno più fluidi e armoniosi: la scrittura diventa meno faticosa e più automatica,
e questo permette al bambino di intervenire sul tratto calligrafico e renderlo personale.
I bambini disgrafici, invece, mantengono un tratto grafico in genere poco leggibile e molto faticoso,
spesso realizzato con pattern di movimento faticosi e poco “economici”.
Gli appositi protocolli diagnostici che valutano la disgrafia pongono la loro attenzione su precisi
parametri:
– velocità di scrittura,
– pressione di scrittura,
– tendenza alla macrografia o alla micrografia,
– discontinuità del tratto,
– ritoccature del segno già tracciato,
– andamento del tracciato,
– inesatta legatura dei segni,
– distanza fra le parole.
Un piccolo esempio di disgrafia (bambino di terza classe della scuola primaria).
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Non si può negare che il primo impatto con una grafia come questa non sia piacevole, le lettere sem-
brano in un equilibrio precario, ora lontane, ora addossate le une alle altre con poca chiarezza. Le
legature fra i vari segni non sono precise, spesso la “fine” di una lettera si sovrappone al “principio”
della successiva. A un genitore, a un insegnante, può sembrare che il bambino non si sia impegnato
nell’esecuzione del compito, che abbia voluto “fare presto”.
In realtà, se si guarda con un po’ più di attenzione questo scritto, appare evidente che sia vero il contrario:
il tratto è stentato e faticoso e solo a prezzo di continui ritocchi e aggiustamenti il bambino riesce a legare
insieme le letterine. Per un bambino disgrafico i dubbi sulla forma delle lettere, sulla loro dimensione, sulla
spaziatura, sulla legatura sono presenti in ogni parola; più di una volta per ogni parola che deve scrivere.
Chi non ha problemi di disgrafia può immaginare questi disagi solo provando a cimentarsi con forme di
scrittura non familiari: provando semplicemente a copiare un testo dal greco o dall’arabo (naturalmente
senza conoscerli) apparirebbe evidente lo sforzo necessario per creare dei segni simili e per legarli fra loro.

Disortografia
Come abbiamo visto in precedenza, la disgrafia rende difficile la realizzazione grafica dei segni quan-
do si scrive a mano; un bambino che fosse esclusivamente disgrafico potrebbe scrivere con il compu-
ter o con la macchina da scrivere e sarebbe perfettamente comprensibile. Nella disortografia, invece,
si hanno degli errori nel contenuto delle parole scritte, errori che sarebbero perfettamente visibili
anche se scritti con la tastiera di un computer.
Quando si vuole scrivere una parola occorre:
1. identificare i fonemi che la compongono;

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2. mantenerli nella memoria;
3. individuare i grafemi corrispondenti ai fonemi identificati;
4. conoscere le regole ortografiche per la scrittura corretta di una determinata parola.
Gli errori compiuti da un paziente disortografico sono di vario tipo; è molto importante analizzarli,
ed eventualmente identificare quelli prevalenti, per avere un valido “bilancio” dell’ortografia del pa-
ziente, e poter programmare rinforzi e trattamenti mirati. Gli errori più comuni sono:
s Errori ortografici fonologici: sono relativi alla difficoltà di riconoscere correttamente i suoni che
formano le parole; per esempio scrivere balla al posto di palla.
– errori di sostituzione: possono riguardare suoni che si somigliano dal punto di vista fonologico
(per esempio c/g, f/v, s/z), dal punto di vista della forma grafica (per esempio p/q/b/d, a/o,
m/n/u), o per entrambi i criteri;
– errori di omissione: di solito riguardano i dittonghi o i gruppi di consonanti;
– errori di aggiunta di grafema.
s Errori ortografici non fonologici: sono causati da una cattiva rappresentazione ortografica10 delle
parole; per esempio scrivere *accua al posto di acqua (la pronuncia è la stessa):
– errori di segmentazione e fusione illegale: si hanno quando il bambino separa le componenti di una
sola parola, per esempio *in sieme (per insieme), o fonde due elementi che sarebbero separati,
per esempio *lerba (per l’erba) o *melanno (me l’hanno);
– errori nelle parole omofone non omografe: per esempio nell’uso di “qu”/”cu”;
– errori relativi all’accento e all’uso di “h”;
– errori nell’uso delle doppie.
Gli errori ortografici fonologici sono caratteristici nei bambini del primo ciclo della scuola primaria,
quando l’attività di riconoscimento dei suoni e la scelta del grafema corretto per rappresentarli è
ancora incerta e faticosa.
10 Ortografia è l’insieme delle regole che permettono di scrivere in maniera corretta in una determinata lingua.

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Gli errori “non fonologici”, invece, sono caratteristici della fase successiva: il bambino – con grande
fatica – è riuscito a “fissare” le corrispondenze fra grafema e fonema, e viene chiamato a un compito
più difficile, cioè imparare regole diverse, che non sempre concordano con quanto appreso.
In materia di ortografia parlare di “regole” non è esatto, sarebbe più opportuno definirle “convenzio-
ni”. Se scrivo *pampino invece di “bambino” l’errore è evidente alla lettura. Ma se scrivo *celo al posto
di “cielo” oppure *ai mangiato invece di “hai mangiato” la lettura della parola (o frase) sbagliata non
è diversa da quella corretta.
Scrivere *celo è fonologicamente corretto e ortograficamente sbagliato. Per convenzione grammati-
cale, in genere su base linguistica ed etimologica, in italiano si usa, per esempio, la lettera “h” (che
non ha suono) per connotare alcune voci del verbo avere, l’accento per differenziare preposizioni da
voci verbali (per esempio dà/da), l’uso di due consonanti uguali e vicine (le “doppie”) per rendere
un suono consonantico lungo.11
Queste convenzioni, non hanno nulla di “naturale”, non sono derivabili dalla pronuncia delle parole,
e non sono invariabili e universali: altre lingue usano sistemi diversi per rendere i suoni consonantici
lunghi, e, per quanto concerne la lingua italiana, c’è stata una lunga battaglia fra linguisti sostenitori del
verbo avere con “h” (ho, hai, ha, hanno) e sostenitori del verbo avere con accento (ò, à, ài, ànno).
Ho voluto porre l’accento sull’arbitrarietà di queste convenzioni per far meglio comprendere lo sfor-
zo al quale chiamiamo i bambini: apprendere e applicare regole astratte e complesse, senza l’aiuto
delle regole fonologiche (in caso di DSA acquisite a costo di grandissima fatica).
Sezione 2

5. La discalculia
La discalculia evolutiva è il disturbo specifico del calcolo. In realtà mediamente, in ogni classe di circa
25 alunni, 5 vengono segnalati per difficoltà di calcolo,12 quindi la percentuale di bambini con diffi-
coltà nell’ambito matematico è di circa il 20% del totale. I discalculici, invece, sono “solo” lo 0,5-1%.
Questo dato lascia supporre una qualche diffusa difficoltà nell’ambito della didattica della matema-
tica, seppur le più recenti ricerche psicologiche13 abbiano dimostrato che la capacità di comprendere
il mondo in termini numerici sia innata nell’uomo e anche in molti animali (non solo primati, ma
anche i mammiferi e persino alcuni anfibi).
Per quanto concerne la discalculia, la Consensus Conference Italiana (2007) distingue fra due tipi di
“profili”:
s 1° profilo: il bambino presenta difficoltà a strutturare la cognizione numerica. Risulterà proble-
matico rappresentare le quantità, compararle, manipolarle e gestire il calcolo a mente;
s 2° profilo: riguarda le difficoltà nelle procedure esecutive (lettura e scrittura delle cifre e dei nu-
meri, incolonnamento ecc.) e del calcolo.
Gli errori più frequentemente commessi da bambini e ragazzi discalculici sono:
s difficoltà visuospaziali: i bambini hanno difficoltà a riconoscere i segni matematici, a incolonnare, a
stabilire la direzione procedurale, a gestire i prestiti e i riporti;
s errori nel recupero dei fatti numerici:14 per i ragazzi risulta difficile automatizzare anche i calcoli più
semplici, e sono costretti a ricorrere sempre al conteggio;
11 La lettura “esatta” della parola “palla” dovrebbe essere “pal-la”; non a caso, la trascrizione fonetica della parola (/’pal:a/)
si avvale del simbolo “:” a indicare il prolungamento della consonante precedente.
12 Lucangeli D. et al. L’apprendimento difficile, Quaderni del Centro Nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e
l’adolescenza, 2006, Firenze, Istituto degli Innocenti.
13 Rugani R., Regolin L. e Vallortigara G., Rudimental numerical competence in 5-day-oldchicks: identification of ordinal
position, Journal of Experimental Psychology: Animal Behaviour Processes, 2007, 33, 1, pag. 21-31.
14 I “fatti numerici” sono i calcoli di cui conosciamo il risultato senza dover contare (per esempio 3 + 2 = 5).

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Strategie
per l'incl
usion e
s errori nel ricordare le procedure di calcolo e nel mantenerle: difficoltà a ricordare (o a rispettare sempre)
il sistema per svolgere un’operazione. Per esempio può essere difficile ricordare che quando si fan-
no le divisioni in colonna si inizia da destra, oppure si può passare a lavorare da sinistra durante
lo svolgimento dell’operazione;
s errori di transcodifica da un codice all’altro (per esempio errori nella dettatura dei numeri: la mae-
stra dice “centosette” e il bambino scrive “1007” o 10003006 per “milletrecentosei”);
s errori nella “sintassi” del numero (le unità sono più piccole delle decine che sono più piccole delle
centinaia, quindi vanno scritte in un determinato posto e con un determinato ordine ecc.);
s errori nelle applicazioni delle procedure: possono esserci difficoltà nello stabilire l’ordine delle operazio-
ni da eseguire, nel prestito e nel riporto, nella mancanza di progettazione del calcolo svolto e di manca-
ta verifica del medesimo (avviene quando i ragazzi iniziano immediatamente a svolgere un’operazione
senza cercare di “prevedere” quale sarà approssimativamente il risultato che otterranno, e nella manca-
ta verifica e ricerca di errore in caso di risultato diverso dalla previsione o evidentemente assurdo).
La terapia della discalculia è complessa e deve tenere conto della specifica area di difficoltà.
Tuttavia è importante aiutare i bambini a rinforzare i concetti di quantità e grandezza, anche con
la visualizzazione (non impedendo, per esempio, di contare con le dita; se ne sentono la necessità
significa che la nozione di grandezza, anche se semplice, non è stata ancora automatizzata). Inoltre
l’insegnante dovrebbe cercare sempre di distinguere fra errori logici, di procedura e di calcolo, in
modo da approntare le strategie di rinforzo più adeguate.
Accorgimenti che possono giovare ai soggetti in difficoltà possono essere:

Sezione 2
s semplificare il testo dei problemi;
s schematizzare in modo visivo le modalità di svolgimento delle operazioni;
s cercare strategie alternative che favoriscano la memorizzazione dei fatti numerici e delle sequenze
vincolate.

6. La diagnosi
Abbiamo imparato a conoscere i DSA e a coglierne i “campanelli di allarme”. In alcuni casi sono
proprio gli insegnanti i primi a notare i segni di difficoltà dei bambini e a segnalarli alla famiglia.
Questo non deve sorprendere: l’insegnante è l’esperto dell’apprendimento, naturale che riesca a co-
glierne le anomalie. Altre volte le difficoltà del bambino vengono rilevate precocemente dalla fami-

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glia (magari in caso di pregresse difficoltà di linguaggio o di familiarità con DSA). In entrambi i casi
occorre provvedere a una diagnosi del disturbo.
È opportuno ricordare che tale diagnosi NON può essere posta prima della fine della seconda classe
della scuola primaria per quanto concerne dislessia, disgrafia e disortografia e prima della terza classe
della scuola primaria in caso di discalculia. Perché questa attesa?
Perché fino a quel momento le difficoltà posso rientrare nelle normali variabili dei tempi di appren-
dimento di ciascun bambino.
L’iter diagnostico per i DSA si articola attraverso la somministrazione di diversi test. Inizialmente un
medico specialista (neuropsichiatra infantile, foniatra, neuropsicologo) o uno psicologo esperto di
apprendimento valutano il potenziale cognitivo del bambino (il quoziente di intelligenza o QI); ri-
cordiamo che la diagnosi di DSA presuppone un quoziente di intelligenza normale (o superiore alla
media). Questi test hanno lo scopo di valutare l’adeguato livello intellettivo del bambino.
Dopo questa fase “preliminare” vengono valutate le capacità di apprendimento, attraverso la sommi-
nistrazione di test specifici che valutino rapidità, correttezza e comprensione della lettura, correttezza
ortografica, grafia, abilità di calcolo.
Questi test sono tarati sulle diverse classi frequentate dai bambini. Un esito di due (o più) deviazioni
standard al di sotto della media, a fronte di un QI adeguato, dà diagnosi di DSA.
A seconda dell’età del bambino e della gravità del disturbo si predispongono i passi successivi alla
diagnosi. Nella relazione restitutiva per la famiglia e per gli insegnanti l’esperto che ha svolto la valu-
tazione dà indicazioni sulla terapia riabilitativa adatta al bambino (in genere quella logopedica per
la letto-scrittura e calcolo e psicomotoria per la disgrafia), e sulle misure compensative, dispensative
Sezione 2

e pedagogiche da mettere in campo per mettere il bambino nelle migliori condizioni di apprendere
e di sfruttare le sue potenzialità cognitive.
In ultimo, nella relazione, non dovrebbero mancare indicazioni sull’approccio psicologico e sulle
maniere per aiutare il bambino non solo a migliorare nel leggere, nello scrivere e nel far di conto, ma
anche – e soprattutto – a vivere serenamente e costruttivamente le proprie difficoltà.
L’emotività del bambino con DSA, su cui torneremo, è di fondamentale importanza: migliorare il
numero delle sillabe lette al secondo è assolutamente inutile se il bambino si sente un “problema”
per la sua famiglia, un “fastidio” per gli insegnanti, un “numero” per i terapisti.
Il bambino ha fatto i test e ha ricevuto, insieme alla sua famiglia, la restituzione della diagnosi. In
moltissimi casi la diagnosi di DSA ha un esito estremamente positivo sui bambini: finalmente le dif-
ficoltà hanno un nome. C’è una spiegazione per tutta la fatica, la frustrazione, la stanchezza.
Di solito sono due le domande che i bambini pongono, a questo punto.

La prima è “Ma allora non sono scemo?”


A noi adulti può sembrare strano, ma di fronte a queste difficoltà in genere un bambino pensa o
di non essere abbastanza intelligente, o di non impegnarsi abbastanza. Forse è il messaggio che gli
arriva più o meno esplicitamente dagli adulti, o forse è la spiegazione che si dà osservando la facilità
con cui i compagni svolgono compiti per lui tanto ostici.
Il fatto è che per un bambino una difficoltà tanto grande in una cosa importante come la scuola ha
un impatto molto forte. E il ruolo degli adulti, a questo punto, è fondamentale. Il bambino va conti-
nuamente sostenuto da familiari, insegnanti e terapisti. Non basta dirgli una volta che è intelligente,
ma ha un disturbo. Occorre ricordarlo quotidianamente, perché le difficoltà di apprendimento si
presentano tutti i giorni, più volte al giorno.
Tutti i giorni, quando i tempi dei compiti si allungano all’infinito, quando “gli altri” hanno già finito
e sono a giocare, quando il fine settimana passa sui libri, quando persino la mamma e il papà più
pazienti sono stanchi. Occorre valorizzare i punti di forza del bambino (che sono sempre tanti) e
cercare di metterlo nelle condizioni migliore per dare il meglio di sé.

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Strategie
per l'incl
usion e
La seconda è: “Adesso mi date una medicina e mi passa?”
Purtroppo la risposta deve essere negativa. La “medicina” per i DSA esiste e funziona, anche se il
disturbo non passa; inoltre si tratta di una medicina che non ha esito immediato: ci sono tre compri-
mari e un attore protagonista in queste “cure”.
Il protagonista è il bambino, un bambino che ha un DSA. E proprio il bambino deve essere al cen-
tro della riflessione: non il disturbo, non la terapia, non le sillabe al secondo, ma il bambino, il suo
benessere e la sua autostima.
I comprimari sono:
– i medici e i terapisti,
– gli insegnanti,
– la famiglia.
La cosa più importante è che nessuno degli attori cerchi di prendere il posto degli altri.
Ognuno è il prezioso esperto del suo ambito e vedere genitori che fanno i viceterapisti o terapisti
che fanno gli pseudo insegnanti è quanto di peggio si possa avere negli interessi del bambino. Ogni
figura deve avere il suo ruolo e la sua area di competenza.
I medici e i terapisti hanno il ruolo più marginale. Sono esperti del disturbo, lo conoscono e sanno come
aiutare il bambino a rinforzare le competenze carenti e come guidarlo nell’elaborare strategie di appren-
dimento che gli permettano di aggirare le difficoltà. Aiutano i familiari e gli insegnanti condividendo con
loro le proprie conoscenze e aiutandoli nell’esportare a casa e a scuola tutti i progressi fatti in seduta.
Come devono comportarsi i logopedisti e i medici che seguono i bambini?

Sezione 2
s Fare una diagnosi adeguata e restituirla con chiarezza e semplicità.
s Programmare cicli riabilitativi per il tempo necessario, prevedendo anche periodi di pausa.
s Spiegare a bambini, genitori e insegnanti il problema, ricordandosi sempre che la spiegazione non
viene assimilata una volta per tutte, ma spesso è necessario ribadire le nozioni fondamentali (per
esempio i punti di forza del bambino).
s Fare consulenza agli insegnanti e agli altri medici e terapisti che entrano in contatto con il bambi-
no (per esempio i pediatri).
s Presentare il caso quando il bambino cambia scuola.
s Lodare sempre l’impegno profuso e tutti i miglioramenti, anche relativi.
Come non devono comportarsi i logopedisti e i medici che seguono i bambini?
s Comunicare in “buracratese” o in “medichese”: è fondamentale per i futuro del bambino (e per la
serenità della famiglia) che il problema venga compreso. Questa fase è molto delicata. Compito
del medico che restituisce la diagnosi e del terapista che illustra la riabilitazione è fare in modo
che ciò avvenga. Per questo è fondamentale usare un linguaggio chiaro che sia comprensibile sia
al bambino che ai genitori.

7. Dopo la diagnosi: a scuola


Un insegnante può fare la differenza nella vita di un bambino con DSA. Gli insegnanti sono gli
esperti dell’apprendimento e hanno un ruolo davvero centrale.
Per fortuna si stanno ormai allontanando i tempi in cui capitava di sentirsi dire “in quarant’anni di
insegnamento non ho mai avuto un alunno dislessico”.15 La maggior parte degli insegnanti fa quasi
letteralmente i salti mortali per sostenere in modo adeguato i bambini con difficoltà. Spesso i pro-
blemi sono di natura logistica o economica, ma ormai cominciano a essere rare le situazioni difficili
dovute a scarsa collaborazione e conoscenza del problema.
15 Ma fino a pochi anni fa accadeva ancora.

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Tutti questi progressi sono stati realizzati grazie alla costanza e alla volontà dei docenti, spesso lasciati
piuttosto “soli” dalle istituzioni. Frequentare corsi, leggere manuali, confrontarsi con colleghi e terapisti.
Tutte attività che hanno ricadute estremamente positive sui bambini con DSA, ma che spesso sono
lasciate all’iniziativa personale dei docenti. Per fortuna gli insegnanti hanno risposto (e rispondono)
in modo adeguato. Certo, in molte realtà può essere un problema avere la carta per le fotocopie, il
computer in classe, lo scanner, la sintesi vocale, ma gli insegnanti non solo hanno compreso che i
bambini non sono “pigri” e che le loro difficoltà non sono dovute a problemi psicologici o a genitori
troppo (o troppo poco) presenti, ma stanno facendo un’opera fondamentale di diffusione delle loro
competenze acquisite.
Un ulteriore aiuto viene dalla nuova legge nazionale sui DSA e dalle recentissime linee guida del
Ministero dell’Istruzione (12 luglio 2011) che danno, finalmente, indicazioni molto precise.
Oltre alle opportune precisazioni sui “campanelli d’allarme”, sulla diagnosi, sulla terapia e sulle
misure compensative e dispensative, viene posto l’accento sull’importanza della didattica, chiaren-
do in modo inequivocabile che il bambino con DSA non ha bisogno di una didattica né diversa né
speciale, ma solo di un metodo di insegnamento razionale che sfrutti le capacità “fisiologiche” di
apprendimento dei bambini di lingua italiana.
Per fare solo qualche esempio, le linee guida consigliano definitivamente l’abbandono del cosiddet-
to “metodo globale” per l’insegnamento della lettura, a favore di quello fono-sillabico, con “l’aggiun-
ta” di presentare i grafemi in “doppia associazione”, per esempio:16
Sezione 2

ovo

Nell’immagine proposta il grafema “U” viene presentato attraverso un oggetto che ha una forma che
ricorda quella del grafema il cui nome comincia con la stessa lettera. Nei normali alfabetieri non
esiste questa “doppia” associazione, ma solo quella fonologica. In questo modo si offre ai bambini
un doppio canale di accesso al grafema e si riduce il carico di lavoro della memoria.
Inoltre si sconsiglia di approcciare l’insegnamento della letto-scrittura attraverso la presentazione
contemporanea dei quattro caratteri (stampato e corsivo maiuscolo e minuscolo).
Successivamente le linee guida non solo presentano le misure compensative e dispensative, ma spie-
gano anche come esse non debbano essere fornite “a pioggia”, ma scelte d’accordo con i terapisti
in base alle difficoltà del bambino, e costantemente “adeguate” ai progressi fatti e alle necessità di

16 A pag. 140 altre doppie associazioni, ma ogni insegnante può crearne di personali, eventualmente sfruttando gli inte-
ressi dei bambini.

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usion e
apprendimento. Molto importanti anche i suggerimenti che vengono dati sull’emotività dei bambini
con DSA.
Forse, però, la cosa più importante, per un addetto ai lavori, è vedere scritto in modo esplicito che la
didattica che serve per un bambino con DSA NON è diversa da quella utile a un bambino senza
DSA.
Perché il metodo fono-sillabico non è il migliore solo per il bambino con DSA, ma per tutti i bambi-
ni.17 Così come cimentarsi prima con lo stampato maiuscolo e solo dopo, quando questo sia fissato
in modo stabile, passare agli altri caratteri non è utile solo per i DSA, ma è meglio per tutti i bambini;
certo per quelli con DSA queste accortezze sono fondamentali e fanno la differenza; quelli senza DSA,
probabilmente, con molta fatica, imparerebbero ugualmente, ma non sarebbe il modo migliore.
Certo, al di là delle linee guida, spesso l’insegnante si sente “solo” in classe con i suoi alunni e i loro
problemi. Nei colloqui con i colleghi insegnanti, spesso non sono i problemi “teorici” o di compren-
sione dei DSA a creare maggiore ansia, ma quelli “pratici”.
“Dove trovare le schede giuste per rinforzare le particolari difficoltà di ogni bambino? Come spiegare
alla classe che un bambino possa scrivere al computer, o avere più tempo a disposizione nelle veri-
fiche? Come far accettare la tavola pitagorica, o la calcolatrice? Dove trovare il tempo di preparare le
fotocopie, scannerizzare le pagine in modo da poterle proporre in stampato maiuscolo?
Come convincere una famiglia restia a intervenire, o persuadere un ragazzino a rendere la classe par-
tecipe della sua difficoltà?”
Naturalmente non posso rispondere in modo definitivo a queste importanti (e frequentissime) do-
mande, ma solo dare qualche indicazione generica.

Sezione 2
Le famose (e a mio avviso famigerate) schede: vorrei ricordare che gli insegnanti (non i terapisti, non
i genitori) sono gli esperti dell’apprendimento, quindi non devono “aver paura” di creare il proprio
materiale senza l’avallo degli esperti. Siete voi insegnanti gli esperti.
L’offerta di schede “pronte” (in testi di didattica speciale, in testi “normali”, su Internet) è infinita.
Si tratta in genere di materiali validi, che, magari con qualche minima modifica tarata sulle esigenze
individuali, possono senza dubbio essere usati; l’unico suggerimento che mi sento di dare è di avere
sempre ben presente quale sia l’obiettivo che ha la somministrazione di una scheda o la proposta
di un esercizio. Per esempio, se ho intenzione di rinforzare la competenza sull’uso di H, cercherò di
focalizzare il mio intervento su questo: un dettato di frasi “con molte H” potrebbe non essere adatto
allo scopo. Perché?
Perché per fare un dettato le competenze in gioco sono molte:
1. ascoltare quello che l’insegnante detta (impiegando risorse attentive);
2. ricordarlo (impiegando risorse mnemoniche);
3. recuperare le regole di conversione grafema/fonema (risorse attentive e mnemoniche);
4. recuperare i pattern motori di realizzazione grafica delle lettere (risorse attentive, mnemoniche e
procedurali);
5. scrivere;
6. recuperare le regole ortografiche (non fonologiche) per usare correttamente l’H.
Un semplice dettato di frasi, e stiamo lavorando su sei competenze; per non parlare della memoria e
dell’attenzione; la competenza che volevamo veramente allenare, nello specifico, era solo la n° 6.
È molto facile che a un bambino DSA (ma anche semplicemente un bambino “stanco” alla terza ora
di lezione) “sfugga” qualcosa; e ancor più facilmente gli sfuggirà la cosa da fare “per ultima” e la più
difficile (perché senza aiuto fonologico), cioè “mettere l’H”, proprio la competenza che era l’obiet-
tivo dell’esercizio.

17 O almeno per tutti i bambini di lingua italiana.

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Per rafforzare una competenza specifica, sarebbe meglio cercare esercizi che si concentrassero il più
possibile sull’abilità oggetto di rinforzo. Esercizi a risposta chiusa potrebbero essere più utili, perché
eliminando il dettato e la scrittura, permetterebbero una maggiore specificità di esercizio.

Scegli fra: O/HO A/HA AI/HAI ANNO/HANNO


– ……… portato i bambini ……… giardini?
(HAI/AI) (HAI/AI)

– Vuoi mangiare pasta ……… riso?


(HO/O)

– ……… scritto una cartolina ……… miei nonni.


(HO/O) (HAI/AI)

– Il prossimo ………………, ……… luglio, andrò al mare ……… Rimini.


(HANNO/ANNO) (HA/A) (HA/A)

– Per andare ……… correre ……… messo la mia tuta nuova ……… righe.
(HA/A) (HO/O) (HA/A)

Per aiutare la memorizzazione della regola, si potrebbe proporre ai bambini di svolgere l’esercizio con
schede che illustrassero, con esempi, le regole; l’attività di ricerca dell’esempio nella scheda didattica e
Sezione 2

il suo adattamento all’esercizio permette di “fissare” le regole, senza affaticare inutilmente la memoria.
Non bisogna temere che così sia “troppo facile” perché vedere la forma corretta aiuta a fissare nella
memoria la regola e a familiarizzare con essa. Non appena la regola sarà automatizzata il bambino
smetterà di usare la scheda: perché farà molto più in fretta senza,18 ma magari sarà rassicurato dal
fatto di poterla tenere sul banco.
L’insegnante noterà facilmente che i bambini senza particolari difficoltà ben presto non useranno
più la scheda didattica (o la useranno solo per “controllare”), avendo familiarizzato con la regola. I
bambini con DSA (o magari soltanto bambini più piccoli o stranieri) continueranno a usarla più a
lungo. Ma avendola messa a disposizione di tutti si eviteranno problemi e difficoltà.
Questo tipo di approccio permette di superare molte difficoltà legate al trattamento “diverso” dei
bambini con DSA. L’insegnante deve essere sicuro che la didattica adatta ai DSA è adatta a tutti i
bambini e che in molti casi l’intervento specifico sul DSA consiste solo nel dare un minor numero di
esercizi o nel mettere a disposizione un maggiore tempo di svolgimento.19
Le altre difficoltà che inevitabilmente si presentano possono essere risolte instaurando un clima di
collaborazione e integrazione in classe.
Il ruolo dell’insegnante è preziosissimo, in questo: sulla scorta della mia esperienza la cosa peggiore
che può capitare è che un bambino abbia un trattamento diverso dagli altri (per esempio usi il pc
in classe, o la calcolatrice) e che nessuno spieghi la cosa ai compagni. Il “è così, perché sì” crea nella
classe un clima di scarsa fiducia reciproca e alimenta le peggiori “leggende”.
In accordo con la famiglia e il bambino, ed eventualmente anche con la collaborazione del terapista,
si deve spiegare la situazione del bambino DSA alla classe, con calma e semplicità, illustrando le cose
in cui riesce bene e quelle in cui c’è una difficoltà e in che modo queste difficoltà vengono superate.

18 Chi di noi tiene in macchina il manuale per la patente, per verificare il suo operato al volante?
19 In realtà dare più tempo è una misura non sempre adatta, specie ai bambini più piccoli: abbiamo visto come la fatica
del bambino DSA sia assai maggiore di quella del bambino non DSA; prolungare il tempo dell’esercizio spesso allunga solo
l’ultima parte del compito, già affaticata e poco brillante. In genere meglio ridurre la quantità di esercizi.

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Può essere l’occasione per illustrare le altre “difficoltà” presenti nei bambini e per spiegare che per un
DSA l’uso del computer è come l’uso degli occhiali per un bambino miope: non è una cosa che
mette in vantaggio rispetto agli altri, ma qualcosa che mette nelle stesse condizioni. Quando si riesce
a instaurare un clima come questo tutto il resto si semplifica.
Una classe affettuosa e accogliente, con poche “risorse”, è senz’altro da preferire a una dotata di tutte
le tecnologie, ma in cui il bambino “diverso” viene visto come un fastidio.20
Per concludere, lo spinoso nodo a cui ho accennato sopra, cioè la questione della famiglia e della
sua collaborazione. Tutte le buone prassi di cui abbiamo parlato sono impossibili da realizzare se la
famiglia non vuole cogliere i suggerimenti degli insegnanti, procedere agli accertamenti diagnostici,
accettare l’idea di avere bisogno di aiuto, o peggio, decida di “tenere segreta” la diagnosi.
Purtroppo questa situazione è tutt’altro che infrequente e molto difficile: dolorosa per i bambini
che vedono le proprie difficoltà o ignorate, o considerate “vergognose”, e frustrante per insegnanti e
terapisti che vorrebbero (e potrebbero) essere d’aiuto e ciò viene loro impedito.
In questi casi l’unica cosa da fare rimane tentare di fare opera di persuasione sui genitori, magari
suggerendo loro di prendere contatto con associazioni di genitori di bambini con DSA.
E infine, non arrendersi e non abbattersi, mai.

COME DEVE COMPORTARSI L’INSEGNANTE?


s Collaborare alle attività di screening e segnalare i soggetti a rischio.
s Lavorare insieme alla famiglia e ai terapisti per migliorare il più possibile la situazione degli
alunni con DSA (e non solo).

Sezione 2
s Lavorare “per obiettivi”.
s Partecipare a corsi di formazioni e creare gruppi di lavoro con i colleghi in modo da condividere
i saperi acquisiti.
s Favorire l’autostima del bambino.
s Mettere in atto provvedimenti compensativi e dispensativi.
s Lodare.

CHE COSA NON DEVE FARE L’INSEGNANTE?


s Far leggere ad alta voce.
s Correggere tutti gli errori nei testi scritti. Vedersi restituire un foglio completamente striato di
rosso e di blu è molto avvilente e umiliante per il bambino. Meglio limitarsi a indicare le varie
tipologie di errore.
s Dare liste di parole da imparare.
s Far copiare dalla lavagna.
s Far copiare un lavoro già fatto.
s Fare paragoni con i compagni.
s Far cambiare calligrafia (spesso il bambino preferisce scrivere in stampatello).

8. Dopo la diagnosi: a casa


I familiari sono gli esperti del bambino. Hanno il ruolo più difficile e più delicato. Molti genitori
vivono con sofferenza le difficoltà di apprendimento del loro bambino; in parte possono sentirsene
responsabili e, se hanno sofferto del medesimo disturbo, conoscono la frustrazione e la rabbia pro-

20 Mi è capitato di vedere bambini DSA “parcheggiati” nel banco (attaccato alla cattedra) da soli, ma con il posto accanto in-
gombro di audiolibri, calcolatrici e PC, ammucchiati alla rinfusa e a volte non funzionanti. Alle proteste della famiglia il direttore
didattico disse «non ci possono dire niente, gli diamo tutto». Questo un perfetto esempio di come NON devono essere le cose.

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vate e mai vorrebbero che la stessa cosa capitasse ai loro figli. Inoltre i genitori vogliono garantire ai
propri bambini di poter godere del diritto di imparare nel modo migliore, di cogliere tutte le oppor-
tunità possibili per crescere e per garantirsi un futuro soddisfacente.
Tutti questi motivi, assolutamente legittimi, possono portare fortissimi carichi di ansia e apprensio-
ne ai genitori: seguire il bambino, portarlo in terapia, dialogare con gli insegnanti, la logopedista,
“spiegare” la situazione a chi ancora non la conosce ecc.
Tutto questo può portare a perdere di vista quello che è il ruolo più importante di un genitore: quello
affettivo. Spesso, senza che gli adulti ne abbiano intenzione, i genitori (e più spesso le mamme) di-
ventano coloro che “fanno fare i compiti” coloro che “si occupano della scuola”. Lo sforzo e la fatica
dei lavori quotidiani portano a un appiattirsi dei rapporti intorno al nucleo del “problema”.
Ho conosciuto (e conosco) molti genitori che ricordano con vero orrore il periodo delle scuole elementari
dei loro figli dislessici. E molti bambini e ragazzi che hanno vissuto con vero sollievo il loro abbandono
scolastico. La scuola è una parte fondamentale della vita di un bambino ed è centrale nell’organizzazione
familiare, ma non deve essere il fulcro dell’esistenza. La famiglia spesso si sente “in trincea” con il suo
problema, sola contro tutti. I genitori, pensando di far bene, magari caricano i loro bambini di esercizi “in
più” o replicano a casa gli esercizi che vengono proposti in terapia per fare “più allenamento”.
Il genitore deve garantire il suo ruolo affettivo ed educativo, deve partecipare all’esperienza didattica
dei figli, ma non deve diventare né vice-terapista né co-insegnante.
Essere genitori è già abbastanza faticoso, però dà un grandissimo vantaggio: il fattore tempo. Un
bambino passa 4-6 ore ogni giorno a scuola, circa 2 settimanali con il terapista. Il tempo rimanente
è tempo della famiglia. Non deve diventare (solo) tempo dei compiti.
Sezione 2

Anche perché i genitori hanno una missione nell’ambito dell’apprendimento che difficilmente può
essere svolta da un insegnante o da un terapista: quella di far amare la lettura e i libri ai loro bambi-
ni. Può sembrare impossibile, ma si può far amare la lettura a un bambino dislessico; si può fare in
modo che non sia preso dall’angoscia ogni volta che vede un libro o che conti le righe che gli man-
cano per finire la pagina. Il sistema esiste, ed è molto semplice, basta leggere per lui.
Sicuramente questo non aiuterà a migliorare la velocità e la correttezza della lettura, ma contribuirà
a farla diventare una soddisfazione personale, una motivazione in più a superare le difficoltà; potrà
far nascere quella “voglia di libri” che può fare la differenza fra un bambino che supera la dislessia e
uno che si arrende a essa.

COME DEVE COMPORTARSI UN GENITORE?


s Documentarsi: a tutti i livelli, leggendo, incontrando genitori con il medesimo problema, navi-
gando su Internet; scoprire che “non si è soli” ad affrontare un tale problema rinnova la fiducia
e la speranza.
s Lavorare insieme a insegnanti e terapisti, ognuno con il proprio ruolo.
s Lodare l’impegno profuso e il più piccolo miglioramento (anche se relativo) raggiunto.
s Comprendere il problema e farlo comprendere.
s Spiegare tranquillamente e chiaramente la situazione al bambino, informandolo sul suo disturbo.
s Favorire l’autonomia del bambino.

COME NON DEVE COMPORTARSI UN GENITORE?


s Considerare la dislessia una condanna: purtroppo per una parte di genitori che negano il pro-
blema anche di fronte a una diagnosi, ve ne sono altri per i quali essa diventa un momento
drammatico, in cui pensano di dover ridimensionare, o addirittura cancellare tutti i progetti fatti
sull’avvenire del figlio. I DSA sono disturbi importanti, ma non tali da dover causare un tale
sconforto: il bambino andrà aiutato e sostenuto, ma se il problema viene capito e si riesce a ot-

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Strategie
per l'incl
usion e

tenere collaborazione si possono ottenere ottimi risultati. Esistono dislessici laureati, e dislessici
insegnanti, medici e ingegneri.
s È importante che un tale atteggiamento negativo non arrivi al bambino, è importante che egli
sia a conoscenza del proprio problema, ma non viva “da malato”.
s L’atteggiamento precedente con la diagnosi vista come una sentenza senza appello, porta spesso
a comportamenti iperprotettivi, o di mortificazione: “Questo non puoi farlo, è troppo difficile”.
Il bambino con DSA può fare cose difficili perché le sue abilità cognitive sono integre. Compito
di terapisti, insegnanti e genitori è trovare il modo in cui possa “fare la cosa difficile” senza incor-
rere nelle difficoltà che il disturbo gli provoca. Vivere nell’angoscia; spesso quando il genitore,
con fatica, trova un ambiente sereno e collaborante, comincia a pensare con ansia a quello che
succederà nel futuro, quando, obbligatoriamente, si dovrà abbandonare quell’ambiente: “alle
medie come faremo?”.
s Certo appare naturale affezionarsi e fidarsi di insegnanti e terapisti che hanno mostrato compe-
tenza e disponibilità verso i propri problemi, tuttavia ciò non deve portare a un atteggiamento di
chiusura. I bambini con DSA devono poter frequentare la scuola pubblica e lì avere tutto quanto
è previsto dalla legge per la loro formazione.
s Non fare eterne sessioni di compiti “in più”: per il bambino i compiti normali richiedono già
un lavoro assai più gravoso di quello che viene svolto dai compagni. Tormentarli con esercizi
supplementari che di solito non sono neanche utili è assolutamente da evitare.
s Non strappare le pagine e far riscrivere: il genitore, per quanto preparato e amorevole, spesso non
può rendersi conto dello sforzo che quella pagina, piena di segnacci e cancellature, sia costata al

Sezione 2
bambino. Le pagine scritte da un bambino con DSA non sono certo da valutare come un “prodotto
estetico”, ma come l’emblema della fatica e dell’impegno. Strapparle e buttarle via manifesta di-
sprezzo per qualcosa che è costato tanto, magari un pomeriggio intero senza giochi, senza tv, senza
merenda. È bene che la frustrazione del genitore non vada mai a ricadere sul bambino.

9. Alla scuola secondaria di primo grado


Abbiamo imparato a conoscere i DSA e il loro impatto nella vita dei bambini e delle loro famiglie.
Vediamo ora che cosa accade quando i bambini crescono, diventano ragazzi e approdano alla scuola
secondaria di primo grado.
Il primo biennio della scuola primaria è dedicato all’apprendimento della lettura e della scrittura. Il
triennio successivo serve a impiegare queste abilità nell’apprendimento di altre discipline: si comin-
ciano a studiare storia, geografia, scienze... si impara a dare forma ai propri pensieri, a comporre testi
e molto altro.
Con la scuola secondaria di primo grado tutto questo continua, con l’aggiunta che il ragazzino si
trova di fronte a decisi cambiamenti: di sede scolastica, di insegnanti, di compagni, di materie e tipo-
logie di studio. Alle maestre si sostituiscono i professori, il contesto scolastico diventa più formale e
meno familiare.21
Si diversificano le materie oggetto di studio, si raffina e si approfondisce quello che è già stato ap-
preso, cominciano, piano piano, a delinearsi quelle passioni e quegli interessi (e anche quei “punti
deboli” e quelle idiosincrasie) che caratterizzeranno le personalità dei futuri adulti.
È un importante cambiamento quello che si verifica: è una sorta di primo passo nell’età “dei grandi”.

21 Spesso si passerà dall’allocutivo “tu” al “lei” nel rivolgersi alla figura docente. Può sembrare una differenza marginale,
ma è invece una cifra di cambiamento percepita come molto importante; il “tu” è la forma che si usa in famiglia, gli in-
segnanti della scuola primaria hanno anche funzioni simili a quelle genitoriali; alla scuola media i rapporti si fanno più
formali (anche se non per questo necessariamente caratterizzati da minor affetto e stima).

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Che cosa accade al ragazzino DSA?
Occorre distinguere fra due possibili situazioni: quella in cui ci sia stata una diagnosi posta in tempi
adeguati e quella in cui, invece, la diagnosi arrivi proprio durante la scuola secondaria di primo grado.
Nel primo caso il ragazzino ha già svolto un percorso che gli ha permesso di familiarizzare con il
disturbo, con i disagi che reca e con le strategie da mettere in campo per evitarli. Probabilmente sono
stati svolti cicli di terapia riabilitativa che hanno permesso di migliorare le prestazioni e di elaborare
percorsi alternativi. Il ragazzino DSA arriva alle medie in genere più sereno, non pensando più a se
stesso come “uno stupido”. Accade spesso che sia anche molto motivato ad apprendere cose nuove
e a “lanciarsi” in una nuova avventura. D’altro canto, se vi è stata un’esperienza scolastica positiva,
il cambiamento potrà generare ansia: il ragazzino (o i suoi genitori) potranno temere di non trovare
una realtà scolastica altrettanto disponibile e preparata.
Nel secondo caso la situazione è molto più complessa, perché il ragazzino ha già alle spalle un vissu-
to scolastico molto faticoso, in cui ha accumulato esperienze di fallimento e frustrazione; spesso ha
imparato a convivere con l’idea di non essere “portato” per lo studio. A volte la sofferenza è tale da
far sì che comincino a prendere forma progetti per il futuro forzatamente limitati e autoescludenti.
L’arrivo della diagnosi porta spesso una certa rivalutazione di sé e delle proprie capacità, ma anche
una forte carica di rabbia verso le frustrazioni e le delusioni del passato. In entrambi i casi, tuttavia,
esiste una grandissima differenza fra scuola primaria e scuola secondaria di primo grado, perché i
ragazzi che giungono al secondo gradino dell’istruzione dell’obbligo sono preadolescenti e non più
bambini. Vivono un’età difficile, piena di cambiamenti, di ansie e di paure, ma anche di soddisfazio-
ni, di scoperte, di sperimentazioni e affermazioni. Un’età in cui cominciano a essere davvero “perso-
Sezione 2

ne nuove” e ad assomigliare agli adulti che saranno qualche anno dopo.


La preadolescenza annuncia la volontà di differenziarsi dalla famiglia, di “ribellarsi” all’autorità che
culminerà nell’adolescenza; questa ribellione, che permette prima il distacco e poi la rielaborazione,
è il percorso fisiologico che ogni individuo compie verso l’autonomia. Ed è il percorso che compiono
tutti i ragazzini, DSA e non.
Per i DSA, spesso, c’è un carico aggiuntivo di rabbia e ansia dovuto alle difficoltà che il disturbo crea
e al timore di non trovare, nella scuola, comprensione e accoglienza.

La terapia
Quando i ragazzi DSA giungono alla scuola secondaria di primo grado, la terapia si adatta alle loro
nuove esigenze: difficile (e inutile) proporre ad alunni di dodici anni esercizi per la velocità di lettura
o lunghe sessioni di rinforzo dell’ortografia; meglio materiale specifico e agile che permetta di agire
selettivamente sulle criticità e preparazione di materiali che aiutino a catalogare le regole in modo
chiaro, così da potervi attingere in caso di dubbio.
Soprattutto la terapia deve aiutare il ragazzo a imparare le strategie che gli permettano di aggirare
le difficoltà causate dal DSA e di studiare in modo razionale ed economico. In breve la terapia deve
aiutare i ragazzi a elaborare un proprio metodo di studio.
Anche in questo caso il percorso del ragazzino con DSA non è diverso dal quello del ragazzino
normolettore: entrambi si trovano a fronteggiare un aumento importante del carico di lavoro, più
materie da studiare e più complesse. Entrambi hanno bisogno di “imparare a studiare”, di riflettere
sul loro stile di apprendimento, di ragionare in termini metacognitivi.
Le particolari difficoltà del ragazzino con DSA possono richiedere un’attenzione maggiore nello sco-
prire le proprie caratteristiche di apprendimento; ma proporre in classe riflessioni metacognitive e
guidare i ragazzi a capire “come funziona” l’apprendimento e come ognuno può favorire il proprio
è una buona prassi, che di certo porterà ottimi risultati nell’ambito della consapevolezza e della di-
dattica.
A questo scopo abbiamo elaborato il breve questionario che si trova a pag. 150.

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per l'incl
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Il metodo di studio
È utile ricordare ai ragazzi che non esiste un “metodo di studio” adatto per ogni persona, una ricetta
“magica” che permetta di imparare “presto e bene” e senza fatica, superando dislessia, disortografia,
discalculia e deficit di memoria a breve termine, carenze di motivazione, difficoltà di organizzazione,
di capacità di analisi e di sintesi.
È senza dubbio un’esperienza che tutti hanno fatto, trovandosi a studiare con altre persone, notare
caratteristiche e stili di apprendimento diversi: esiste chi legge e ripete; chi fa dei brevi riassunti; chi
sottolinea molto, chi per nulla; chi riempie i testi di studio di fittissime note a margine; chi ricorda
ogni singola illustrazione; chi disegna grafici e tabelle...
Non esiste un “metodo giusto per tutti”, ma esiste un “metodo giusto per ciascuno”, per questo si
accennerà ad alcune semplici riflessioni metacognitive, e ad alcuni suggerimenti per imparare a stu-
diare in modo efficace ed economico; condivise in classe, permetteranno all’insegnante di guidare i
suoi studenti verso il traguardo di uno studio maturo e responsabile.

1) Organizzare il proprio tempo


Un atteggiamento molto comune fra i giovani studenti (ma diffuso anche fra gli adulti) è quello di
“gettarsi a testa bassa” nel compito che si deve affrontare. Ma non sempre (anzi, quasi mai) gli studen-
ti hanno un solo compito da affrontare nella giornata e difficilmente gli insegnanti assegnano compi-
ti, lezioni e verifiche da un giorno all’altro. Questo permette ai ragazzi di “gestire” in modo organico
e razionale il proprio tempo. Permette, per esempio, di approcciare prima le materie più ostiche
(quando si hanno maggiori energie) e successivamente quelle più semplici. Permette di inserire

Sezione 2
alcune pause nel proprio tempo di studio, per non arrivare sfiniti (e non più operativi) alla fine del
pomeriggio. Permette di gestire i tempi di preparazione delle verifiche, dividendoli su più giorni, con-
tenendo in questo modo l’ansia scolastica. Permette di non dover rinunciare ai propri impegni ludici,
sportivi o artistici. L’errore di molti adulti è pensare che questa capacità di organizzazione sia “innata”.
Non esiste il metodo di studio perfetto, ma aiutare i ragazzi a pensare al loro tempo e a come gestirlo
al meglio è senza dubbio un ottimo sistema per incominciare a trovare il proprio.
Si inizierà in modo molto semplice, organizzando la settimana, suggerendo ai ragazzi di non lasciare
accumulare compiti e lezioni, ma di studiare un poco per volta, “portarsi avanti” con il lavoro nei giorni
meno faticosi per avere un po’ più di tranquillità in quelli più faticosi e precedenti alle verifiche.
Le critiche a questo sistema organizzativo non mancano, neppure fra gli adulti: in genere si obietta
che gestire un’agenda razionale è difficile e “porta via molto tempo”, e che in un certo senso “frena”
la creatività di ciascuno.
È certo che la gestione richiede tempo, ma permette di guadagnarne molto di più e soprattutto, di ge-
stirlo nella maniera migliore: organizzarsi non vuole dire lavorare sempre, significa potersi godere
una pausa in tranquillità, senza pensare che in quel momento si dovrebbe fare qualcos’altro.
Molti ritengono che essere organizzati significhi essere rigidi; questo sarebbe vero se si avesse la pretesa che
un metodo organizzativo adatto a qualcuno fosse arbitrariamente esteso a tutti gli altri; è evidente che que-
sto non avrebbe senso, tutte le persone sono diverse fra loro. Esistono persone più abili in alcune attività e
meno in altre, che rendono meglio facendo una sola pausa abbastanza lunga, altre che ne fanno spesso di
brevissime; alcune preferiscono studiare nel primo pomeriggio, altre riescono meglio nelle ore serali, alcune
sono ansiose e necessitano di essere tranquillizzate, altre devono essere spesso “richiamate all’ordine”.
Un metodo organizzativo dovrà essere:
s efficace;
s usato sempre.
È importante che genitori e insegnanti cerchino di fare imparare allo studente a organizzarsi, ma non
“come” organizzarsi, dando piccoli suggerimenti, come quelli sopraelencati, ma mai canoni precisi

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di comportamento. Un metodo organizzativo provato e modificato personalmente e spontaneamen-
te è assai più utile di quello imposto da qualcun altro; molto meglio un confronto “metacognitivo”
sia con i genitori sia con gli insegnanti e i terapisti, basato sullo scambio “tu come fai quando hai
tante cose da fare?”.
Solo in questo modo, “provando e riprovando” si otterrà un’organizzazione efficace e personalizzata
che, avendo dimostrato i suoi vantaggi, sarà sempre usata dallo studente, fino a diventare un tutt’uno
con il suo modo di essere e di affrontare le situazioni.

2) Utilizzare i sussidi
“Sussidio” significa: “che dà aiuto o soccorso”; qui si vogliono indicare i sussidi che aiutano a studia-
re meglio. Alcuni di essi sono contenuti nei libri di testo (caratteri particolari, sottolineature, figure,
didascalie, carte geografiche, mappe, schemi) altri sono testi autonomi, come i vocabolari, gli atlanti,
le enciclopedie; in alcuni casi possono essere sussidi di studio anche alcuni programmi televisivi,
Internet, il registratore, il lettore CD ecc.
È molto importante conoscere questi sussidi, perché il loro contributo a rendere più piacevole e inte-
ressante lo studio può essere notevole; tuttavia è anche fondamentale che ai ragazzi venga insegnato
ad adoperarli adeguatamente, a seconda delle caratteristiche del loro modo di apprendere.
Gli approcci a un testo così vario possono essere molteplici: per esempio un ragazzo con DSA potrà
preferire leggere il titolo, poi analizzare le figure e leggere le didascalie, consultare l’enciclopedia
multimediale per farsi un’idea di quello che di cui tratterà il testo. Successivamente passerà alla let-
tura vera e propria (o alla sintesi vocale).
Sezione 2

Un altro soggetto, magari con difficoltà nel mantenere l’attenzione22 sarebbe distratto dall’uso del com-
puter e dall’analisi delle figure; per lui sarà quindi preferibile una lettura veloce che gli permetta di
cogliere il senso del testo, e poi potrà approfondire cercando le parole, analizzando le immagini ecc.
Molti studenti si concentrano talmente sul testo che quasi non si accorgono delle altre cose che com-
pongono la pagina; se si domanda loro che cosa raffigurassero le illustrazioni, in genere rispondono
che non si sono neppure accorti della loro presenza. Questi studenti, in genere vengono considerati
molto attenti e concentrati; tuttavia è bene che gli insegnanti facciano capire che i sussidi non sono
qualcosa “in più” di cui si può fare a meno, ma possono essere elementi che arricchiscono lo studio
e lo rendono capace di aprire la mente a nuove esperienze. Quindi è importante che lo studente sia
aiutato a “fare tesoro” del sussidio, compatibilmente con il suo metodo di studio.

3) Rielaborare
In un certo senso la rielaborazione è la vera chiave del processo di apprendimento. È un’attività che
ciascuno svolge in maniera originale e diversa dagli altri.
Rielaborare significa:
s costruire legami fra cose che già si conoscono e cose nuove;
s distinguere le informazioni importanti da quelle che lo sono meno;
s riformulare con le proprie parole quanto si apprende (facendo un riassunto, uno schema, una
parafrasi, un grafico, un disegno ecc.);
s farsi domande e porsi in modo critico verso ciò che si apprende;

22 La neuropsicologia distingue fra tre tipi di attenzione:


s LATTENZIONESOSTENUTAÒLACAPACITÌDIMANTENERELATTENZIONESUDIUNDATOSTIMOLOPERUNPROTRATTOPERIODODITEMPO
s LATTENZIONESELETTIVAÒLACAPACITÌCHEPERMETTEDICONCENTRARSISUUNOOPIáSTIMOLISELEZIONANDOLITRAALTRISTIMOLIDI-
straenti o fra informazioni in competizione tra loro;
s LATTENZIONEDIVISAÒLACAPACITÌDIPRESTAREATTENZIONEEDELABORAREDIVERSEINFORMAZIONICHESIPRESENTANOCONTEMPORA-
neamente.

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s formarsi delle opinioni su quello che si studia;
s distinguere fra ciò che si è capito e ciò che non si è capito.
Ecco alcune modalitò di rielaborazione.
s Associare: consiste nel trovare un concetto, un’immagine, una parola che colleghi fra loro elemen-
ti diversi; tanto più l’associazione fatta sarà efficace tanto più essa (e gli elementi che essa collega)
rimarranno impressi nella memoria e favoriranno l’apprendimento.
s Farsi domande: permette di porsi in maniera attiva di fronte al testo. Per esempio può essere mol-
to utile domandarsi che cosa si sceglierebbe di raccontare di quello che si è appena studiato a un
compagno di scuola che non lo avesse ancora letto, o a un bambino più piccolo ecc.
s Collegare: permette di mettere in rapporto ciò che si sta studiando con elementi già noti, apparte-
nenti ad altre materie o a esperienze personali; per esempio, può essere molto interessante colle-
gare la letteratura di un dato secolo con la storia e la storia dell’arte.
s Sintetizzare: gli esempi visti fino a questo punto, si servono dell’elaborazione per “ampliare” ciò
che viene appreso. Elaborare, tuttavia, è anche fondamentale per “condensare” quello che si im-
para, sintetizzandolo, eliminando ciò che non è necessario, e facendo sì che emerga il vero nucleo
fondamentale. La capacità di sintetizzare, di fare schemi, riassunti, grafici e tabelle è molto impor-
tante per favorire la memorizzazione e per rendere stabile quanto si apprende.
La capacità di sintesi (come tutti gli altri esempi di elaborazione) non è innata, e può essere “allena-
ta”; esercizi come quello di “trovare un titolo” per un brano (o un paragrafo) che si è letto o cercare
di enucleare il “tema centrale” sono molto utili per migliorare le proprie abilità di sintesi.

Sezione 2
4) Modalità di studio
Esistono diversi metodi per ottimizzare il tempo dello studio. Come già sottolineato, non ve ne sono
“giusti” o “sbagliati”, ma ciascuno deve scegliere quello più adatto a se stesso e a ciò che sta studiando.
s Sottolineare (o evidenziare): molti studenti ricorrono a questa tecnica, spesso anche in manie-
ra incongrua. Facilmente insegnanti, genitori e terapisti si trovano di fronte pagine interamente
evidenziate. Sottolineare tutto è come non sottolineare nulla, e imparare a distinguere quello che
è davvero importante ricordare da quello che, invece, può essere recuperato mediante ragiona-
mento non è affatto semplice. Può essere utile, per esempio, far riflettere i ragazzi sul fatto che
spesso sottolineare durante la prima lettura può essere poco proficuo: infatti può accadere che si
conosca poco quello che si legge, e quindi si possono sottolineare cose trascurabili o tralasciarne
di importanti; a una seconda lettura, invece, sarà più facile distinguere quello che è utile sapere e
memorizzare da quello che non lo è. Inoltre possiamo far notare ai ragazzi come il testo “aiuti”
nell’evidenziazione: le cose più importanti sono già messe in risalto in modo visivo (per esempio
sono scritte in carattere maiuscolo o in grassetto).
È infine molto importante capire che tipo di testo si abbia di fronte e quale compito si debba svolgere
per sottolineare in modo adeguato: se il testo è una ricetta di una torta e lo scopo è quello di riassu-
merla si eseguirà un certo tipo di sottolineatura; se invece è quello di immaginare il risultato finale
per poi disegnarla si evidenzieranno altre cose.
– Scrivere mentre si studia: leggere, sottolineare, e infine scrivere una parola o una breve frase, a
margine del testo. Frutto di una valida capacità di sintesi, questo approccio può rappresentare un
metodo davvero completo e personale per “impadronirsi del testo”.
– Ripassare: può sembrare strano agli studenti delle precedenti generazioni, ma oggi non è più
molto diffusa l’abitudine del ripasso. Si ritiene comunque che sia buona norma, una volta che si
è studiato, riprendere il materiale appreso e cercare di esporlo. Questo ripasso può essere parziale,

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fatto cioè alla fine di ogni capitolo, o finale, quando vuole riprendere tutta la materia studiata. Il
ripasso può essere fatto tenendo il testo aperto davanti a sé (infatti anche solo vedere un’immagine
può aiutare a recuperare un concetto, che poi risulterà fissato nella memoria).

5) Flessibilità di studio
È bene che lo studente apprenda molto presto che il suo studio deve essere “flessibile”, cioè deve
avvalersi di diverse strategie, e deve essere in grado di passare rapidamente da una all’altra: la lettura,
per esempio potrà essere differente a seconda dei testi che si è chiamati a studiare. L’insegnante potrà
facilmente trovare esempi di testi diversi che richiedano modalità di lettura differenti: alcuni richie-
deranno una lettura molto attenta e accurata (la sintesi di un capitolo di storia), altri una lettura più
veloce (una descrizione all’interno di un romanzo), altri ancora una lettura che proceda “a salti” (una
tabella, un dizionario). Occorre che lo studente sia consapevole di poter usare questi diversi tipi di
lettura e sia in grado di scegliere quello più adatto per il compito che deve svolgere.

6) Gli appunti
La strategia su cui si basano gli appunti consiste nel “raccogliere” in classe quante più informazioni
possibili su quanto l’insegnante spiega; in questo modo il lavoro a casa sarà più semplice e veloce.
Prendere appunti è un’attività piuttosto complessa e assolutamente personale: tutti gli studenti, infatti,
tenderanno ad appuntare le informazioni che non sono riportate sul testo e quelle che l’insegnante
ritiene più importanti; tuttavia ogni studente si concentrerà con maggiore attenzione (e prenderà più
appunti) su quelle parti della spiegazione che gli sembrano più complesse, appuntando poco o nulla
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su altre che appaiono più semplici. Prendere appunti non è facile: spesso osservando le prove degli stu-
denti più giovani si vede per qualche riga una “trascrizione fedele” di ogni parola detta dall’insegnante,
poi si hanno poche parole con molti spazi bianchi (lo studente non riesce, con la scrittura-trascrizione
a tenere il passo della spiegazione), infine qualche parola sparsa e poi più nulla. Le responsabilità di
queste difficoltà risiedono anche nell’abitudine di alcuni insegnanti di “dettare gli appunti” (o di indi-
care che cosa sottolineare): attività contraddittoria che impedisce agli alunni di imparare a trovare da
soli uno stile e una modalità propri e di avere un ruolo attivo nell’apprendimento.

Due consigli pratici che l’insegnante può dare agli alunni:


– evitare di scrivere tutto, ma cercare il nucleo fondamentale di quello che si sta spiegando;
– eliminare articoli, preposizioni e altri elementi grammaticali non indispensabili alla comprensio-
ne dell’appunto.
Gli appunti sono uno strumento personale, quindi lo studente non deve eccessivamente preoc-
cuparsi di produrre un testo dall’aspetto gradevole e “scolasticamente accettabile” (e naturalmente
nessun insegnante dovrebbe “controllare” o peggio correggere gli appunti). Quindi è bene che ven-
gano usati il più possibile simboli matematici (+ al posto di “più”, – al posto di “meno”, x al posto
di “per”, = al posto di “uguale” ecc.), abbreviazioni (anche inventate dallo studente) e simboli grafici
(frecce, insiemi, sbarre ecc.).

7) Concentrarsi
La capacità di concentrarsi e di mantenere la concentrazione è variabile in ogni studente e come mol-
ti altri aspetti dell’apprendimento può essere “allenata”. Naturalmente la motivazione verso il com-
pito che dobbiamo svolgere influenza notevolmente la concentrazione. Sembra superfluo notare che
ci si concentra senza alcuna fatica su di un compito interessante e piacevole. Capita a molte persone
di essere così coinvolti dalla lettura di un romanzo da riuscire a concentrarsi su di esso anche su un
treno affollato e rumoroso, in piedi e dopo una lunga giornata di lavoro. Probabilmente le stesse

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persone, nelle medesime condizioni non riuscirebbero a concentrarsi su un esercizio di matematica
o a fare una buona parafrasi di una poesia.
Gli studenti, naturalmente, sanno che è necessario studiare anche le materie che li appassionano
meno; per aiutarli a farlo al meglio l’insegnante può suggerire e promuovere semplici strategie che
favoriscano la concentrazione (degli studenti e perché no? Anche la propria):
s ambiente: un ambiente tranquillo e poco rumoroso è ideale per favorire la concentrazione, è op-
portuno che l’aula non sia troppo ricca di stimoli;
s posizione: deve essere comoda sia per non causare problemi posturali, sia per avere tutto “a porta-
ta di mano”: sarebbe davvero deleterio per la concentrazione doversi interrompere per cercare una
penna, qualora si voglia annotare qualcosa sul testo, o l’evidenziatore, qualora si desideri sottoli-
neare;23 inoltre è opportuno avere un buon piano di appoggio e una fonte di luce adeguata;
s condizioni personali: è forse superfluo dire che se si è molto stanchi, o preoccupati per qualcosa,
difficilmente si riuscirà a ottenere un livello di concentrazione adeguato; tuttavia è anche bene
ricordare che è davvero problematico mantenere alti livelli attentivi per periodi di tempo molto
protratti: meglio quindi fare qualche piccola pausa di tanto in tanto. Sarà utile sia alla classe che
all’insegnante.

Le situazioni di “emergenza”
La verifica e l’interrogazione sono situazioni che molti studenti vivono con apprensione, e in molti
casi con ansia. L’ansia è uno stato emotivo che ci fa vivere le stesse sensazioni della paura (anche a
livello fisico si riscontrano pallore, aumento della frequenza cardiaca, addirittura crampi addomi-

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nali) senza che però nulla di reale ci minacci. Se è vero che, in una certa misura, la tensione porta le
persone a “dare il meglio”, è anche vero che se essa è eccessiva possono esserci situazioni di blocco:
quante volte capita di essere talmente tesi da avere l’impressione di non ricordare nulla o di non
essere in grado di fare alcunché?
Questo capita anche agli studenti, e anche in questo caso l’aiuto del docente può essere prezioso per
imparare a gestire queste situazioni critiche. Potrebbe anche essere utile provare a svolgere in classe
questo tipo di riflessioni, rendendo partecipi gli alunni e chiedendo loro di esporre i propri stati d’a-
nimo. Alcuni consigli generali possono essere:
1. Fare un elenco degli argomenti (con equivalente “in pagine”) da studiare, e stabilire il totale.
2. Raccogliere il materiale su cui si dovrà studiare (testi, eventuali appunti, enciclopedie, atlanti ecc.).
3. Dividere il totale a seconda dei giorni che si hanno a disposizione (e in relazione agli impegni
già presi o che si può supporre che si aggiungeranno, come compiti di altre materie ecc.), ricordarsi
di lasciare un po’ di tempo a disposizione del ripasso. Naturalmente si dedicherà più tempo alle
parti ancora sconosciute e meno a ciò che è solo necessario rivedere.
L’insegnante spiegherà che è meglio non stabilire tempi troppo “stretti”, in modo da poter gestire al-
cuni possibili “imprevisti” (un forte mal di testa che impedisce di studiare, una festa di compleanno
a cui si vuole partecipare ecc.).
4. Preparare una lista delle domande che l’insegnante pone più spesso sull’argomento, e ipotizzare
le relative risposte.
5. Qualora l’insegnate lo permetta, preparare un argomento “a scelta” da approfondire.

23 Molti sussidi scolastici non aiutano gli studenti: per esempio spesso si hanno astucci molto ingombranti e “distraenti”
che non posso essere tenuti sul banco e creano perdita di tempo e attenzione con il loro uso. Potrebbe essere utile, inoltre,
che l’insegnante promuovesse una certa sobrietà nella gestione dello spazio del banco: per esempio richiedendo la presenza
delle sole cose indispensabili su di esso (durante una lezione di storia: libro, foglio/quaderno, matita, evidenziatore).

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6. Preparare alcuni riassunti nella forma che appare più congeniale a ciascuno (schemi, grafici, note
a margine del testo ecc.).
7. Provare a esporre ad alta voce, o a ripetere a qualcuno.

Infine sarebbe opportuno spiegare ai ragazzi che non stanno studiando per far piacere all’insegnante
o ai genitori, o per potersi vantare di fronte ai compagni dei loro bei voti, ma solo per loro stessi.
Sarebbe positivo comunicare le proprie opinioni ai ragazzi non solo attraverso i voti, o i giudizi, ma
soprattutto, parlando.24
Create queste premesse che comunque dovrebbero contribuire a ridurre notevolmente l’ansia e a
migliorare in modo significativo la vita di classe, si potranno proporre strategie più mirate, volte a
combattere particolari situazioni stressanti. Per esempio si potrà permettere all’alunno di essere in-
terrogato mentre resta seduto al suo posto, senza dover stare in piedi di fronte al resto della classe; si
potranno programmare interrogazioni e verifiche di gruppo; si potranno valutare come interrogazio-
ni lavori di ricerca svolti insieme a scuola, si potrà permettere agli studenti di preparare un calendario
di interrogazioni programmate.25 È importante che sia i genitori sia gli insegnanti comprendano che
un ambiente eccessivamente autoritario è negativo quanto lo è uno troppo permissivo. Così come
gli adulti lavorano meglio in un ambiente disteso e sotto la guida di un capo autorevole (non auto-
ritario!), allo stesso modo gli alunni impareranno e cresceranno meglio in una classe serena, sotto la
guida di un insegnante severo, ma comprensivo.
Applicando queste “buone prassi” alla fine ci accorgeremmo di aver creato un ambiente sereno e
stimolante, di aver soddisfatto le esigenze dei nostri alunni DSA e – ormai non è più una sorpresa –
Sezione 2

anche quelle dei nostri alunni normolettori.

25 Curiosamente, invece, l’insegnate manifesta le sue opinioni sullo studente soprattutto durante i colloqui con i genitori.
26 Questo sistema, di solito piuttosto mal visto, permette in realtà di responsabilizzare gli studenti ed eliminare un impor-
tante fattore di ansia.

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Strategie
per l'incl
usion e

10. Giochi metafonologici: alcuni esempi


Qualche idea
1 Conte, filastrocche e canzoncine, anche accompagnate da movimenti volti a sottolineare il ritmo
(per esempio battere le mani o i piedi, o fare piccoli salti). Questi esercizi sono molto importanti
perché favoriscono la segmentazione in sillabe.
2 Filastrocche con cambi di vocali: viene scelta una filastrocca nota al bambino (o se ne insegna
una) e si propone di sostituire tutte le vocali con quella proposta dall’adulto. Naturalmente un
bambino di cinque anni può non possedere la nozione di vocale e consonante. In questo caso
l’adulto proporrà un esempio: “La vispa Teresa avea tra l’erbetta ... Adesso proviamo a dirla solo con
la E: Le vespe Terese evee tre l’erbette...”.
3 È arrivato un bastimento carico di...: l’adulto propone una sillaba e insieme al bambino cerca le
parole che comincino con quella sillaba.
4 Catena di parole: è un gioco che può essere fatto con un piccolo gruppo di bambini. L’adulto
propone una parola e il primo bambino deve dirne un’altra che cominci con la sillaba finale della
prima, e così via. Per esempio: tavolo – locomotiva – vapore – remo – mosca – scatola ecc.
5 Giochi con le rime: data una parola stimolo (o una sillaba) possiamo giocare con il bambino a
cercare le parole che finiscono nello stesso modo, e ad organizzarle in piccole filastrocche.
Per esempio: “C’era una volta uno signore di nome Oreste, dalle maniere certo oneste, che faceva

Sezione 2
l’oste. Un giorno fece delle liste per rimpinguare le scorte rimaste: tre ceste, una veste celeste, del-
le paste miste. Così decise di andare a Trieste, dove riempì le ceste con la veste celeste e si mangiò
tutte le paste.”
6 Domino: preparando dei cartoncini che rappresentino le parole trovate nei due giochi precedenti
si può organizzare un gioco di domino, nel quale si possono legare fra loro le parole che iniziano
(o che finiscono) con la stessa sillaba.
7 Ricerca di parole: l’adulto, con l’aiuto del bambino, sceglie una serie di categorie (animali, oggetti,
città, nomi di persona ecc.), poi viene sorteggiata una sillaba. Il bambino (o i bambini) devono trovare
una parola che inizi con la sillaba scelta, appartenente a ogni categoria.
8 Gioco dell’intruso: si propongono al bambino tre o più disegni raffiguranti soggetti i cui nomi
comincino con la stessa sillaba, tranne uno. Dapprima si faranno denominare i soggetti, poi si
chiederà al bambino di identificare la sillaba iniziale di ciascuno, e infine di trovare “l’intruso”.
Naturalmente l’adulto dovrà cercare di rendere il compito interessante e divertente; per esempio
dicendo al bambino: “sei un famoso detective e devi scoprire chi è andato alla festa senza essere
invitato... a questa festa sono invitate solo le parole che cominciano per...”. In questo tipo di attivi-
tà, e anche in molti altri giochi, è utile proporre uno “scambio di ruolo”: in questo caso possiamo
proporre al bambino (a seconda delle sue abilità) di scegliere le parole e disegnarle, mentre noi
troveremo l’intruso. Per esempio: «Dov’è l’intruso? Colora l’intruso.»

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9 Gioco delle coppie: si presentano ai bambini dei cartoncini disposti su due colonne. Ciascuno di
quelli situati a sinistra comincia con una sillaba diversa, ma uguale a uno di quelli disposti a destra:
il bambino dovrà formare la “coppia” che comincia con la stessa sillaba.
Sezione 2

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Strategie
per l'incl
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11. Esempio di Piano didattico personalizzato (centro diagnosi clinica)


per studenti con diagnosi di DSA – Scuola secondaria
In riferimento alle recenti Circolari Ministeriali, prot. n° 4099/A/4 del 5/10/2004 e prot. n° 26/A 4° del
5/01/2005, si consiglia l’utilizzo di misure compensative e strumenti dispensativi, in particolare:
Misure dispensative:
s dispensa dalla lettura ad alta voce, scrittura sotto dettatura, uso del vocabolario;
s dispensa dallo studio mnemonico delle tabelline, delle forme verbali, grammaticali, formule
geometriche;
s dispensa dallo studio a memoria di poesie, soprattutto di quelle lunghe o prive di rima;
s nella lingua straniera prediligere la forma orale e/o iconica (gli insegnanti vorranno riservare
maggiore considerazione per le corrispondenti prove orali e non fare una media aritmetica con le
prove scritte, come misura compensativa dovuta);
s programmazione di tempi più lunghi per le prove scritte oppure riduzione degli esercizi dati per le
verifiche in classe;
s tenere in considerazione che anche lo studio a casa richiede tempi più lunghi;
s organizzazione di interrogazioni programmate, per quanto possibile orali e non più di una al giorno;
s riduzione dei compiti a casa non per contenuto ma per quantità.
Strumenti compensativi:
s uso di tabelle di memoria (tavola pitagorica, tabella dei verbi, schema di grammatica, schema
delle formule geometriche, tabelle di misura);

Sezione 2
s uso di cartine geografiche, mappe concettuali, parole chiave (se necessario anche durante i mo-
menti di verifica);
s registratore e/o sintesi vocale:
– da utilizzare a scuola per registrare eventuali dettati di appunti integrativi del testo effettuati
da parte dell’insegnante e per registrare l’assegnazione dei compiti a casa;
– per facilitare lo studio.
s uso del computer con:
– programmi di videoscrittura con correttore ortografico;
– sintesi vocale;
– libri digitali.
s uso di facilitatori per la produzione scritta spontanea (es. tracce, domande guida) per le prove scritte;
s uso della calcolatrice.

MODALITÀ DI VERIFICA E VALUTAZIONE


norme contenute nel DPR N. 122 art. 10 del 22/06/2009
s Organizzare interrogazioni programmate, per quanto possibile orali e non più di una al giorno.
s Quando possibile leggere all’alunno le consegne e le spiegazioni degli esercizi.
s Valutare la lunghezza dei testi proposti, eventualmente suddividere la prova in step.
s Nel caso di difficoltà di esposizione e di produzione spontanea proporre domande con risposte chiuse.
s Concedere tempi più lunghi per le prove scritte, in alternativa minore quantità di esercizi.
s Concedere l’utilizzo degli strumenti compensativi anche durante i momenti di verifica e in sede
di esame.
s Nel caso in cui l’allievo sia autonomo nell’impiego della sintesi vocale sarebbe utile consegnare
la verifica in formato digitale per permettere l’ascolto del testo (con impiego delle cuffie).
s Evitare se possibile prove differenziate nei contenuti, ma ridurre la quantità di domande o di
esercizi da eseguire nello stesso tempo assegnato alla classe.

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s Utile far pervenire alla famiglia le verifiche eseguite in classe e le correzioni effettuate.
s Privilegiare e programmare le interrogazioni orali su argomenti predefiniti permettendo di con-
sultare una mappa concettuale o uno schema che lo aiuti a ricordare ed esporre meglio.
s Prevalenza del voto orale rispetto a quello scritto in tutte le materie, in particolare per le lingue straniere.
s Valutazione delle prove scritte e orali con modalità che tengano conto del contenuto e non della
forma o degli errori ortografici.
s Nel diploma finale, rilasciato al termine degli esami, non viene fatta menzione delle modalità di
svolgimento e della differenziazione delle prove.

SCUOLA
ATTENZIONI NELLE SINGOLE DISCIPLINE
ITALIANO
s Per le verifiche di comprensione e rielaborazione considerare le difficoltà di decodifica di lettura
(anche l’adulto può diventare “lettore” per l’alunno).
s Utilizzare consegne scritte possibilmente in forma semplice e chiara (vd carattere e grandezza).
s Nell’analisi grammaticale, logica e del periodo permettere all’allievo di consultare schemi con le
possibili voci.
es. nome PROPRIO COMUNE
DI COSA DI PERSONA DI ANIMALE
FEMM. MASCH.
SING. PLUR.
Sezione 2

s Nei temi fornire una traccia o domande per favorire l’organizzazione delle idee.
s Per le verifiche di comprensione e rielaborazione considerare la lunghezza del testo da proporre
e la sua complessità lessicale.
MATEMATICA
s Utilizzo della tavola pitagorica e della calcolatrice.
s Consentire l’uso di tabelle di misura, di peso, di formule geometriche.
s Semplificare la terminologia o abbinarla a esempi figurativi: possono presentarsi difficoltà nella com-
prensione e memorizzazione di termini specifici (es. crescente-decrescente, addizione, sottrazione...).
s Fornire i testi dei problemi già dattiloscritti o scritti in stampatello dall’insegnante.
s Incentivare l’utilizzo del supporto figurativo o l’esemplificazione pratica durante l’esecuzione dei
problemi.
GEOGRAFIA, STORIA, SCIENZE
Può essere difficoltosa la memorizzazione di città, fiumi, date, nomi e vocaboli specifici. Permette-
re la consultazione della cartina geografica, di tabelle, mappe concettuali, parole chiave.
LINGUA STRANIERA
Si presentano difficoltà in quanto le ortografie delle lingue straniere studiate non sono trasparenti,
ovvero non presentano una stretta corrispondenza fonografica come l’italiano.
s Si suggerisce di rafforzare soprattutto il lessico e far prevalere l’orale sullo scritto.

PER TUTTE LE MATERIE


Lettura
s Evitare la lettura a voce alta davanti ai compagni (eventualmente l’alunno si può preparare in
anticipo sulle righe da leggere) in quanto la lettura a prima vista risulta essere per un dislessico
un ostacolo spesso insormontabile.

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Strategie
per l'incl
usion e
s La lettura è difficoltosa e faticosa; soprattutto quando viene utilizzato un lessico specifico (es.
testi di storia, geografi a, scienze, matematica, grammatica).
s La comprensione del testo risulta migliore se è presentata in una veste grafica chiara (per font,
grandezza, spaziatura) e se utilizzato lo stampato maiuscolo, carattere da preferire agli altri an-
che per i testi dei problemi o per prove di verifica scritte.
s La comprensione del testo, essendo strettamente correlata alla decodifica, risulta buona solo
dopo una lettura ripetuta e corretta e ciò richiede tempi maggiori.

Scrittura
s Evitare di farlo scrivere alla lavagna.
s Evitare di far prendere appunti, ricopiare testi (anche dalla lavagna il compito di copiatura risulta
difficile).
s Controllare che scriva correttamente i compiti sul diario per permettere a chi segue l’alunno a
casa di aiutarlo nel modo corretto.
s Fornire gli appunti dettati su supporto digitalizzato o cartaceo stampato (preferibilmente arial o
comic sans 14-16).

Altre indicazioni
s Insegnare l’utilità degli indici testuali per lo studio (lettura delle immagini sul libro, titoli, sotto-
titoli, parole in grassetto, box per approfondimenti).
s Sono importanti i momenti di gratificazione e incoraggiamento.

Sezione 2
s Il Consiglio di classe al completo deve essere a conoscenza di tutte le scelte metodologiche con-
divise nella stesura del PEP.

ACCORDI SCUOLA-FAMIGLIA
Si ricorda che gli alunni con DSA sono lenti e fanno più fatica rispetto agli altri anche nello svolgi-
mento dei compiti, pertanto occorre ridurre gli esercizi tenendo conto degli aspetti fondamentali
per ogni disciplina (riduzione della quantità ma non dei contenuti).
Si consiglia di accordarsi su:
s compiti da svolgere a casa (comunicazione tramite diario, contenuti passati attraverso fotocopie
o registrazioni di messaggi orali su supporto digitale (registratore, I Pod); modalità e tempi di
verifiche;
s argomenti delle interrogazioni;
s strumenti compensativi da usare a casa e in classe.

Fonte: Centro per la diagnosi clinica e la rieducazione dei disturbi specifici dell’apprendimento, Sede di Milano,
Dott.ssa Marcella Mauro, Direttore scientifico: Prof. Giacomo Stella.

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12. Format di un Piano didattico personalizzato

PIANO DIDATTICO PERSONALIZZATO SCUOLA SECONDARIA

ISTITUZIONE SCOLASTICA: .....................................................................................................................


ANNO SCOLASTICO: .................................................................................................................................
ALUNNO: ....................................................................................................................................................

1. DATI GENERALI

Nome e cognome

Data di nascita

Classe

Insegnante coordinatore della classe

Diagnosi medico-specialistica redatta in data …


da …
Sezione 2

presso …
aggiornata in data …
da
presso …

Interventi pregressi e/o contemporanei effettuati da …


al percorso scolastico presso …
periodo e frequenza …
modalità …

Scolarizzazione pregressa (Documentazione relativa alla scolarizzazione e alla


didattica nella scuola dell’infanzia e nella scuola pri-
maria)

Rapporti scuola-famiglia

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Strategie
per l'incl
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2. FUNZIONAMENTO DELLE ABILITÀ DI LETTURA, SCRITTURA E CALCOLO
Elementi desunti dalla Elementi desunti
diagnosi dall’osservazione
in classe
Lettura Velocità
Correttezza
Comprensione
Elementi desunti dalla Elementi desunti
diagnosi dall’osservazione
in classe
Scrittura Grafia
Tipologia di errori
Produzione
Elementi desunti dalla Elementi desunti
diagnosi dall’osservazione

Sezione 2
in classe
Calcolo
Mentale
Per iscritto
Eventuali disturbi nell’area motorio-prassica:

Ulteriori disturbi associati:

Altro
Bilinguismo o italiano L2:

Livello di autonomia:

3. DIDATTICA PERSONALIZZATA
Strategie e metodi di insegnamento

Discipline linguistico-espressive
Discipline logico-matematiche
Discipline storico-geografico-sociali
Altre

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Misure dispensative/strumenti compensativi/tempi aggiuntivi

Discipline linguistico-espressive
Discipline logico-matematiche
Discipline storico-geografico-sociali
Altre

Strategie e strumenti utilizzati dall’alunno nello studio

Discipline linguistico-espressive
Discipline logico-matematiche
Discipline storico-geografico-sociali
Altre
Sezione 2

4. VALUTAZIONE (anche per esami conclusivi dei cicli)


L’alunno nella valutazione delle diverse discipline si avvarrà di:

Disciplina Misure dispensative Strumenti compensativi Tempi aggiuntivi


Italiano
Matematica
Lingue straniere






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Strategie
per l'incl
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STRATEGIE METODOLOGICHE E DIDATTICHE
s Valorizzare nella didattica linguaggi comunicativi altri dal codice scritto (linguaggio iconografico,
parlato), utilizzando mediatori didattici quali immagini, disegni e riepiloghi a voce.
s Utilizzare schemi e mappe concettuali.
s Insegnare l’uso di dispositivi extratestuali per lo studio (titolo, paragrafi, immagini).
s Promuovere inferenze, integrazioni e collegamenti tra le conoscenze e le discipline.
s Dividere gli obiettivi di un compito in “sotto obiettivi”.
s Offrire anticipatamente schemi grafici relativi all’argomento di studio, per orientare l’alunno nella
discriminazione delle informazioni essenziali.
s Privilegiare l’apprendimento dall’esperienza e la didattica laboratoriale.
s Promuovere processi metacognitivi per sollecitare nell’alunno l’autocontrollo e l’autovalutazione
dei propri processi di apprendimento.
s Incentivare la didattica di piccolo gruppo e il tutoraggio tra pari.
s Promuovere l’apprendimento collaborativo.

MISURE DISPENSATIVE
All’alunno con DSA è garantito l’essere dispensato da alcune prestazioni non essenziali ai fini dei
concetti da apprendere. Esse possono essere, a seconda della disciplina e del caso:
s la lettura ad alta voce;
s la scrittura sotto dettatura;
s prendere appunti;

Sezione 2
s copiare dalla lavagna;
s il rispetto della tempistica per la consegna dei compiti scritti;
s la quantità eccessiva dei compiti a casa;
s l’effettuazione di più prove valutative in tempi ravvicinati;
s lo studio mnemonico di formule, tabelle, definizioni;
s sostituzione della scrittura con linguaggio verbale e/o iconografico.

STRUMENTI COMPENSATIVI
Altresì l’alunno con DSA può usufruire di strumenti compensativi che gli consentono di compensare
le carenze funzionali determinate dal disturbo. Aiutandolo nella parte automatica della consegna,
permettono all’alunno di concentrarsi sui compiti cognitivi oltre che avere importanti ripercussioni
sulla velocità e sulla correttezza. A seconda della disciplina e del caso, possono essere:
s formulari, sintesi, schemi, mappe concettuali delle unità di apprendimento;
s tabella delle misure e delle formule geometriche;
s computer con programma di videoscrittura, correttore ortografico;
s stampante e scanner;
s calcolatrice o computer con foglio di calcolo e stampante;
s registratore e risorse audio (sintesi vocale, audio-libri, digitali);
s software didattici specifici;
s computer con sintesi vocale;
s vocabolario multimediale.

STRATEGIE UTILIZZATE DALL’ALUNNO NELLO STUDIO


s strategie utilizzate (sottolinea, identifica parole-chiave, costruisce schemi, tabelle o diagrammi);
s modalità di affrontare il testo scritto (computer, schemi, correttore ortografico);
s modalità di svolgimento del compito assegnato (è autonomo, necessita di azioni di supporto);
s riscrittura di testi con modalità grafica diversa;
s usa strategie per ricordare (usa immagini, colori, riquadrature).

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STRUMENTI UTILIZZATI DALL’ALUNNO NELLO STUDIO
s fotocopie adattate, strumenti informatici (libro digitale, programmi per realizzare grafici);
s utilizzo del PC per scrivere;
s registrazioni;
s testi con immagini;
s software didattici;
s altro.

VALUTAZIONE (ANCHE PER ESAMI CONCLUSIVI DEI CICLI)1


s programmare e concordare con l’alunno le verifiche;
s prevedere verifiche orali a compensazione di quelle scritte (soprattutto per la lingua straniera);
s valutazioni più attente alle conoscenze e alle competenze di analisi, sintesi e collegamento piutto-
sto che alla correttezza formale;
s far usare strumenti e mediatori didattici nelle prove sia scritte sia orali (mappe concettuali, mappe
cognitive);
s introdurre prove informatizzate;
s programmare tempi più lunghi per l’esecuzione delle prove;
s pianificare prove di valutazione formativa.
Sezione 2

1 Cfr. D.P.R. 22 giugno 2009, n. 122 – Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli
alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto-legge 1° settembre 2008, n. 137,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169 – art. 10. Valutazione degli alunni con difficoltà specifica
di apprendimento (DSA).
1. Per gli alunni con difficoltà specifiche di apprendimento (DSA) adeguatamente certificate, la valutazione e la verifica degli appren-
dimenti, comprese quelle effettuate in sede di esame conclusivo dei cicli, devono tenere conto delle specifiche situazioni soggettive di
tali alunni; a tali fini, nello svolgimento dell’attività didattica e delle prove di esame, sono adottati, nell’ambito delle risorse finanziarie
disponibili a legislazione vigente, gli strumenti metodologico-didattici compensativi e dispensativi ritenuti più idonei.
2. Nel diploma finale rilasciato al termine degli esami non viene fatta menzione delle modalità di svolgimento e della differenziazione
delle prove.

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Strategie
per l'incl
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I fascicoli per DSA legati all’antologia


di Bianca Maria Carrescia
I fascicoli a uso degli alunni con DSA, annessi all’antologia, nascono da un duplice obiettivo: da un
lato facilitare il lavoro dell’insegnante, spesso costretto a piegare la propria didattica in più modalità
per soddisfare le esigenze dei diversi alunni; dall’altro testimoniare la necessità di trovare strategie
efficaci perché tutti gli alunni, in particolar modo coloro che siano stati certificati con Disturbo spe-
cifico dell’apprendimento, possano perseguire gli obiettivi didattici previsti per la loro formazione.
Per gli alunni con DSA infatti non è prevista alcuna riduzione degli obiettivi didattici. Nonostante
le difficoltà che essi riscontrano quotidianamente, si richiede agli insegnanti di portarli, con il solo
adeguamento della didattica, al raggiungimento degli stessi obiettivi previsti per i ragazzi che non
hanno le medesime difficoltà. È un po’ come richiedere a una utilitaria di percorrere lo stesso tragitto
di una fuoriserie, alla stessa velocità.
Ciò è in teoria possibile, perché i ragazzi con certificazione non presentano deficit intellettivi (è
uno dei vincoli sanciti dalla Consensus Conference del 2009, che stabilisce che si può accedere a una
diagnosi di DSA solo in presenza di un QI almeno nella norma). Essi sono dunque alunni intelligenti
che hanno il diritto e il dovere di raggiungere i medesimi obiettivi dei loro compagni di classe, ma
questo impone agli alunni stessi e agli insegnanti dei notevoli sforzi sia sul piano dell’impegno perso-
nale, sia (molto spesso) sul piano emotivo, per superare le inevitabili frustrazioni legate all’insuccesso.

I fascicoli, dunque, senza la pretesa di essere esaustivi, si propongono come un percorso che supporta

Sezione 2
docente e alunno verso il raggiungimento degli obiettivi programmati. Per questo motivo, infatti, le
verifiche di fine Unità sono le medesime proposte nel testo base; in alcuni casi è stato proposto un
adeguamento delle richieste, solo laddove ciò non va a influire sul raggiungimento degli obiettivi
di apprendimento o di comprensione, ma è solo strumentale al lavoro e riguarda la sostituzione di
alcuni esercizi con attività più facilmente gestibili da un ragazzo con certificazione. Per esempio, la
ricerca dei vocaboli nel dizionario è stata sempre evitata negli esercizi di comprensione.

Tutte le proposte operative prevedono l’utilizzo degli strumenti compensativi previsti dalla legge
170/2010 che sono concordati con la famiglia e formalizzati nel Piano educativo didattico.
Le attività, soprattutto quelle dove è richiesta la scrittura, privilegiano l’utilizzo del PC e suggerisco-
no spesso il lavoro cooperativo in modo da favorire l’inserimento sociale dell’alunno con DSA che
assumerà, in questo contesto, un ruolo di esperto nella gestione delle nuove tecnologie a supporto
dello svolgimento del compito del gruppo.

I fascicoli sono corredati ciascuno da un CD che raccoglie, in formato MP3, la maggior parte dei bra-
ni del testo in modo da sollevare l’alunno dislessico dalla fatica della decodifica del testo scritto e da
fornirgli accesso alla comprensione attraverso l’ascolto.
Si consiglia comunque l’utilizzo del testo base come supporto all’ascolto in modo da poter usufruire
della memoria visiva per poter poi, negli esercizi di comprensione, più facilmente ritrovare le infor-
mazioni nel brano. Per questo motivo, sia nei brani riportati nei fascicoli, sia in molti dei brani del
testo base, a margine del testo sono riportati i titoli di sequenza, che consentono un miglior orienta-
mento nel testo e una più efficace comprensione del brano.

Particolare cura è stata dedicata agli esercizi di allenamento alle prove Invalsi, che sono state inte-
ramente lette sia nella parte testuale sia nella parte di domande e risposte, ricalcando la proposta del
Ministero dell’Istruzione che prevede la possibilità di richiedere il formato MP3 delle prove per gli
alunni che abbiano depositato la certificazione agli atti della scuola.

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Dal punto di vista grafico l’attenzione è stata rivolta a evitare il “crowding effect” ovvero l’affollamen-
to della pagina. Si è cercato, senza mortificare la gradevolezza delle pagine e cercando di mantenere
una grafica accattivante, di rendere lineare la fruizione del testo utilizzando il carattere EasyRead-
ing®, studiato per fornire la massima leggibilità ai soggetti con Disturbo della lettura. Anche l’interli-
nea del testo è aumentata e sono stati eliminati il “giustificato” nei testi e gli “a capo” forzati.
Si è curato infine che le immagini non interrompessero con la loro presenza il flusso del testo, ma
che fossero, invece, utilizzabili come valido strumento di supporto alla comprensione.

Naturalmente, i fascicoli seguono la struttura dell’intera antologia e, trattandosi di un percorso di


apprendimento, sono state inserite anche le spiegazioni delle varie tipologie testuali, fondamento
dell’antologia. Le descrizioni delle varie tipologie testuali e le spiegazioni tecniche sono fornite come
ascolti all’alunno che, in questo modo, sollevato dalla fatica di decodificare il testo, può investire le
proprie energie nel comprendere e memorizzare gli argomenti di studio.

Ampio risalto è stato dato al metodo di studio. È noto infatti che per i ragazzi con DSA è fortemente
consigliato l’utilizzo di mappe concettuali sia per riassumere e schematizzare gli argomenti di studio,
sia per memorizzare, a livello visivo, le informazioni che servono alla rielaborazione dell’argomento
trattato. Anche in questo caso il lavoro è stato pensato come un percorso che possa accompagnare il
ragazzo alla costruzione di mappe sempre meglio strutturate e sempre più efficaci ai fini dell’appren-
dimento. Questo percorso trova il suo compimento nel capitolo che riguarda i testi argomentativi: la
parte che riguarda il metodo di studio è infatti differentemente trattata sul fascicolo, rispetto al testo
Sezione 2

base, perché si è voluto indirizzare l’alunno con certificazione verso una metodologia che prevedesse
fasi di studio diverse da quelle proposte ai compagni di classe. Le strategie proposte e sviluppate sug-
geriscono l’anticipazione dell’argomento trattato, la fruizione degli indici testuali e delle immagini,
l’utilizzo di parole chiave per strutturare mappe concettuali e le prove di esposizione dell’argomento
in previsione di dell’interrogazione, che dovrà sempre essere concordata con l’insegnante.

Sono stati inseriti nei CD anche alcuni brani scelti per il piacere della lettura. È noto, infatti, che i
ragazzi con dislessia non maturano il piacere di leggere, pertanto sviluppano un lessico un po’ povero.
La fruizione di romanzi audio può invece coinvolgere e appassionare gli studenti con DSA, finalmente
sollevati dalla fatica di decodificare il testo per accedere al suo significato. In questo senso, i brani della
sezione “Il piacere di leggere” non propongono attività mirate al raggiungimento di obiettivi didattici
e/o esercizi di verifica o comprensione, ma sono proposte come momento di puro piacere e relax.

I brani d’ascolto sono sempre letti da attori e non da voci sintetizzate per poter rendere la lettura più
calda e vicina affettivamente al ragazzo e si è avuto cura di differenziare le voci (maschile, femminile)
per poter di volta in volta riattivare l’attenzione dell’alunno senza rendere monotona la fruizione del
brano audio.

In conclusione, il lavoro, lungi dall’essere esaustivo rispetto alle necessità dei ragazzi con DSA, si
propone come un ausilio nel loro percorso d’apprendimento. Siamo consapevoli che il prodotto a
cui siamo arrivati, sia pur curato e specificatamente strutturato, non riuscirà mai a sostituire un buon
insegnante, che è colui che media la proposta didattica non considerando gli allievi rispetto alle cate-
gorie di appartenenza, ma proponendo il proprio intervento basandosi sulla professionalità, passio-
ne, sensibilità ed esperienza. È impresa impossibile trasferire tutto ciò in un supporto didattico, sia
pur con le migliori intenzioni e tecnologie a disposizione.

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Strategie
per l'incl
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I volumetti per studenti non madrelingua


I volumetti per studenti non madrelingua sono un sussidio didattico per coinvolgere tutta la classe
nella lettura dell’antologia, un testo di supporto per gli studenti che non padroneggiano bene la lin-
gua italiana e si trovano a lavorare sull’antologia I fili del racconto.
I volumetti per stranieri contengono circa 60 brani (anche poesie) tratti dai tre volumi base dell’anto-
logia, riscritti in un linguaggio piano e semplificato per renderli più accessibili a studenti che hanno
un patrimonio lessicale limitato e difficoltà di comprensione delle strutture linguistiche complesse.
Per la semplificazione dei testi sono stati seguiti alcuni criteri fondamentali:
s narrazione in ordine cronologico;
s uso di frasi brevi e coordinate;
s costruzione delle frasi secondo l’ordine soggetto-verbo-complemento;
s frequente ripetizione dei soggetti;
s uso di un lessico semplificato;
s numerose note esplicative per i termini meno semplici;
s uso di modi finiti e in forma attiva.
I testi sono stampati in caratteri grandi e ben leggibili e i brani sono accompagnati da molte illu-
strazioni a colori che aiutano la comprensione del testo.
Ogni brano è preceduto da un’attività di pre-lettura, che inquadra l’argomento, ed è seguito da un
apparato didattico mirato alla comprensione degli elementi di base, alla riflessione sul lessico e al

Sezione 2
potenziamento dell’espressione scritta e orale.
Dopo la lettura e la comprensione del testo semplificato si suggerisce agli alunni di leggere il testo in
originale, in modo da favorire il graduale passaggio ad un livello linguistico più maturo.
Nel testo sono inserite anche molte schede lessicali (Laboratorio di lessico) ampiamente illustrate,
che presentano i termini essenziali di alcune aree semantiche significative per il lavoro sui brani e
sui temi dell’antologia.

Una strategia per l’inclusione: l’apprendimento cooperativo


di Bianca Maria Carrescia

A Marco Polo che sta descrivendo un ponte, pietra per pietra Kublai Khan chiede:
«Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?»
«Il ponte» risponde Marco Polo, «non è sostenuto da questa o quella pietra
ma dalla linea dell’arco che esse formano.»
(I. Calvino, Le città invisibili)

Perché utilizzare l’apprendimento cooperativo


Spesso la scuola nel tentativo pressante di erogare saperi, di rincorrere la necessità degli adempimenti
burocratici, perseguendo l’obiettivo di una valutazione positiva degli alunni, tralascia il proprio com-
pito fondamentale: la formazione di un adulto competente. Perseguire questo obiettivo significa invece
in primo luogo ragionare su quale significato attribuisce oggi la società alla parola “competente”.
Per far ciò si possono prendere in considerazione i criteri di valutazione dei candidati durante i col-
loqui di lavoro: le aziende oggi non richiedono più solo cultura e saperi specifici. Naturalmente, i
candidati devono essere in possesso di specifici titoli di studio in relazione al contesto in cui andranno
ad operare, ma trasversalmente a qualsiasi conoscenza, vengono sempre richieste competenze come la

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capacità comunicativa, la buona gestione dei rapporti interpersonali, la capacità di lavorare in gruppo,
la capacità di gestione e coordinamento, la propensione a risolvere problemi, la creatività e capacità di
ideazione e, infine, la conoscenza delle lingue straniere e alcune conoscenze informatiche.
Se dunque le aziende, a tutti i livelli, dall’operaio alla classe dirigente, richiedono competenze che
esulano dai saperi, ma si riferiscono, nella maggior parte, a esperienze di convivenza e cooperazione,
dove dovrebbero averle acquisite i giovani? Alla scuola dunque il compito di inserire il bambino e
poi il ragazzo in una comunità dove gli vengano proposte esperienze di relazione, condivisione e
cooperazione che, differenziandosi per età e obiettivi dei soggetti, diano la possibilità di formarsi in
vista delle competenze di adulto che andrà inserirsi nel mondo lavorativo.
Un’ulteriore determinante motivazione a perseguire gli obiettivi relativi alle competenze relazionali
e pratiche menzionate sopra, è l’eterogeneità delle classi dei nostri studenti, che impone ai docenti
di proporre metodologie che non escludano nessuno studente, ma che anzi includano tutti ricercan-
do e individuando negli studenti punti di forza che possano considerarsi ricchezza del singolo, ma
contemporaneamente, patrimonio della comunità.
A. L. Costa e R. M. Liebmann1 sostengono che:
Gli essere umani sono esseri sociali. Ci raduniamo in gruppo, troviamo terapeutico essere ascoltati,
traiamo energie l’uno dall’altro, e cerchiamo reciprocità. Nei gruppi dedichiamo tempo ed energie
a compiti che ci stancherebbero velocemente se dovessimo lavorare da soli. Infatti una delle forme
più crudeli di punizione che si può infliggere un individuo e lasciarlo in totale solitudine.
Gli esseri umani cooperativi comprendono che insieme si è più forti intellettualmente e/o fisi-
Sezione 2

camente, di un solo individuo. È probabile che la disposizione più importante nella società post
industriale sia l’abilità elevata di pensare insieme con altri, essere più interdipendenti e sensibili ai
bisogni degli altri. La soluzione dei problemi è diventata un processo così complesso che nessuna
persona può raggiungerla da sola. Nessuno ha l’accesso a tutte le informazioni necessarie per pren-
dere decisioni critiche; nessuno può considerare tante alternative come possono invece fare alcune
persone insieme. Lavorare in gruppo richiede l’abilità a giustificare idee e saggiare la fattibilità delle
strategie di soluzione con altri. Richiede anche lo sviluppo di una volontà e di un’apertura ad ac-
cettare il feedback da amici critici. Attraverso questa interazione, il gruppo e l’individuo continuano
a crescere. Ascoltare, ricercare il consenso, sospendere un’idea per lavorare con qualcun altro, em-
patia, compassione, leadership di gruppo, sapere come sostenere gli sforzi del gruppo, e altruismo
tutti questi sono comportamenti indicativi di essere umani cooperativi.

Il Cooperative Learning, o apprendimento cooperativo, come sostengono D. W. Johnson e R. Johnson2


padri di questo approccio metodologico, risponde certamente a queste esigenze:

È tempo di cambiare da un paradigma di conduzione della classe fondato sull’egoismo e egocentri-


smo ad uno fondato sulla comunità, sul coinvolgimento personale e sul prendersi cura degli altri.
È tempo per i sistemi di conduzione della classe di andare oltre il comportamentismo, con la sua ri-
levanza per il proprio interesse e un comportamento volto a conseguire ricompense estrinseche e ed
evitare punizioni, per evolversi verso sistemi di conduzione della classe che sono fondati su un am-
biente positivo di apprendimento costruito su tre programmi interconnessi: comunità cooperativa,
soluzione costruttiva del conflitto, valori di cittadinanza. Per stabilire una comunità che apprende,
la cooperazione deve essere strutturata con attenzione a tutti i livelli di scuola. Per mantenere la comu-
nità che apprende, le procedure di soluzione costruttiva del conflitto devono essere insegnate a tutti
i membri della scuola e i valori di cittadinanza devono essere presenti in tutti i membri della scuola.

1 A. L. Costa e R. M. Liebmann, in Envisioning Process as Content: Towards a Reinassance Curriculum, 1997


2 D. W. Johnson e R. Johnson, Learning together and alone: Cooperative, competitive, and individualistic learning, 1999

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Strategie
per l'incl
usion e

Che cos’è il Cooperative Learning?


Il Cooperative Learning è un sistema di gestione della classe che assume una forte connotazione di-
dattica. Esso prevede l’espletamento di compiti affidati non più ai singoli alunni, ma a un gruppo
definito. Spesso in classe gli insegnanti affidano lo svolgimento del compito a un gruppo di studenti,
ma vi sono alcune differenze sostanziali tra un lavoro svolto in gruppo e uno svolto in apprendimen-
to cooperativo. Le peculiarità fondamentali dell’apprendimento cooperativo sono infatti: l’attribu-
zione dei ruoli e la costante esplicitazione del duplice obiettivo (quello relativo alla produzione di
un prodotto e quello della cooperazione).
Entrando in una classe dove si lavora in apprendimento cooperativo vedremo i banchi disposti a
piccoli gruppi, in modo che anche la posizione nello spazio consenta, faciliti e promuova l’inter-
scambio tra compagni che, in apprendimento cooperativo, non avviene in modo casuale, ma avviene
con criteri che prevedono lo svolgimento di un ruolo da parte di ciascun componente del gruppo di
lavoro, ruolo che deve essere funzionale alla elaborazione del lavoro proposto.

Il lavoro in classe
Se dunque la buona riuscita di un’attività didattica svolta con metodologie tradizionali prevede il rag-
giungimento del solo obiettivo didattico (l’apprendimento di contenuti o competenze da parte del
singolo alunno), l’esito favorevole di una proposta svolta in apprendimento cooperativo deve sempre
contemplare obiettivi plurimi: relativi alla didattica, agli aspetti sociali e al lavoro individuale.
Con questo presupposto diventa decisiva la fase di analisi della situazione iniziale, ovvero prece-

Sezione 2
dente allo svolgimento dell’attività, che andrà a modificare lo status quo in ragione dei risultati attesi
ai differenti livelli.
Da qui si avvia la progettazione dell’attività che ricadrà e modificherà sia la condizione del singolo
alunno (rispetto agli apprendimenti e alle competenze di cooperazione), sia del gruppo (gestione
degli interscambi, interdipendenza positiva), sia della didattica del gruppo classe.

Anche la progettazione della composizione dei gruppi, nell’ottica di quanto esposto, diventa deter-
minante per il raggiungimento degli obiettivi programmati.
I gruppi possono essere formati valutando le competenze di ciascuno e facendo in modo che a cia-
scuno, in relazione al ruolo che gli verrà affidato, abbia il riconoscimento da parte del gruppo dei
propri punti di forza.
Altra strategia può invece essere quella di utilizzare la tecnica del sociogramma di Moreno per definire
quali sono le figure leader o emarginate del gruppo classe, valutare la posizione sociale di ciascuno
in relazione a un ipotetico “centro sociale” e di conseguenza costruire gruppi e affidare ruoli che pos-
sano modificare la visibilità e la centralità di ciascun alunno rispetto al gruppo. Per esempio affidare
a un alunno taciturno e chiuso il ruolo di espositore del progetto potrebbe essere efficace o dannoso,
a seconda di come è composto il gruppo: se nel gruppo non abbiamo inserito figure dominanti dal
punto di vista comunicativo, l’alunno in questione potrebbe trovare uno spazio dove “in sicurezza”
sperimentare una competenza, supportato, magari da qualcuno del gruppo che abbia competenze
inclusive o incoraggianti.

Prima della lezione è bene sempre (ma questo anche quando non si lavora in apprendimento coope-
rativo) esplicitare gli obiettivi didattici e sociali dell’attività. Ciò rende protagonisti del percorso i ra-
gazzi che più facilmente possono verificare in autonomia i propri progressi e/o i nuovi apprendimenti.
E prima di iniziare a lavorare è efficace ricordare agli alunni che nessuno potrà raggiungere gli obiet-
tivi senza avvalersi del supporto di ciascun componente del gruppo. Tecnicamente ciò è nominata da
Jonson e Holubec, interdipendenza positiva.

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Per stimolare l’interdipendenza positiva, potremo per esempio assegnare, come compito a casa a
ciascuno studente, lo studio di una parte di un medesimo argomento, cosicché solo l’insieme delle
parti possa dare origine a un quadro completo. Per esempio in storia, parlando di un determinato
periodo, si distribuiranno ai singoli studenti lo studio della cultura, delle scoperte e invenzioni,
dell’organizzazione politica, degli eventi bellici... Poi, a scuola, il gruppo dovrà realizzare un pro-
dotto (cartellone, testo, questionario, presentazione in Powerpoint...) che comprenda le varie parti e
rappresenti il quadro completo di quell’epoca. Naturalmente la valutazione del prodotto sarà attri-
buita considerando il lavoro globale e non le singole parti.
Durante la fase operativa in classe dunque il docente assumerà il ruolo di facilitatore degli inter-
scambi, supporterà l’interdipendenza positiva che si esprime attraverso l’ascolto reciproco e il rispet-
to dei tempi, suggerirà strategie di analisi, scambio e produzione, avvicinandosi a ciascun gruppo
e facendo precedere un qualunque suo intervento da una fase di osservazione delle dinamiche che
quel gruppo sta mettendo in atto.
Spesso l’osservazione delle dinamiche che si innescano nel gruppo, fornisce al docente informazioni
illuminanti rispetto ai singoli temperamenti (punti di forza e di debolezza, degli alunni). E il lavoro
collaborativo costituisce per gli allievi un percorso all’interno del quale, sbagliando o non riuscendo
a ottenere il risultato atteso, si determina la necessità di cercare, provare e trovare in modo autonomo
una strategia maggiormente efficace.
Al termine della lezione è assolutamente necessario che i ragazzi possano avere un tempo di rifles-
sione non più sui contenuti del lavoro, ma sulle modalità di svolgimento del lavoro stesso. È impor-
Sezione 2

tante infatti offrire agli studenti strumenti metacognitivi grazie ai quali ciascuno impari, tramite ten-
tativi ed errori, il proprio funzionamento cognitivo, le strategie opportune da mettere in atto rispetto
al proprio apprendimento e ai propri meccanismi di relazione cooperativa.
Un ottimo strumento per la riflessione metacongnitiva è rappresentato dall’autovalutazione (sia del
prodotto sia delle interazioni sociali) che verrà supportata dall’individuazione e la condivisione dei
criteri di valutazione.

Un esempio di attività in apprendimento cooperativo


Immaginiamo di trovarci in una classe prima . La classe è composta da cinque gruppi di quattro alun-
ni ciascuno. Il compito che l’insegnante intende affidare alla classe è la produzione di una mappa
concettuale di sintesi di un testo di studio.

Si individuano le fasi del lavoro:


1. osservazione della struttura delle pagine (paragrafi, indici testuali, immagini...);
2. predisposizione della struttura della mappa, conforme al testo;
3. lettura del paragrafo;
4. sintesi dei concetti chiave e delle parole chiave;
5. produzione grafica della mappa (punti 3-4-5 da ripetere per ciascun paragrafo);
6. revisione del prodotto;
7. prova di esposizione.

A questo punto bisogna individuare i ruoli necessari allo svolgimento del compito. L’insegnante
potrà scegliere, a seconda della complessità del progetto, di assegnare tutti i ruoli o solo alcuni. D’al-
tro canto, non sempre il numero dei ruoli/funzioni necessari, sia didattici che sociali, rispondono
al numero degli alunni che compongono il gruppo. Se necessario, a ciascun alunno possono essere
affidati più ruoli, sia di produzione del lavoro, sia di gestione del gruppo.

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Strategie
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I ruoli funzionali al lavoro da svolgere possono essere:
s ruoli di gestione
– controllo dei toni di voce
– controllo dei rumori
– controllo dei temi
s ruoli di apprendimento
– ricapitolare
– precisare
– verificare la comprensione
– fare ricerche
– comunicare
– elaborare
– approfondire
Ma sono necessari anche figure/ruoli orientati al funzionamento del gruppo:
s ruoli di funzionamento
– spiegare idee e procedure
– registrare
– incoraggiare la partecipazione
– osservare i comportamenti
– fornire guida
– fornire sostegno

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– chiarire e illustrare
s ruoli di stimolo
– criticare le idee e non le persone
– chiedere motivazioni
– distinguere
– sintetizzare
– sviluppare
– verificare
– sviluppare opzioni
– valutare
Definiti i ruoli, si procede ad assegnare un tempo entro cui svolgere il lavoro e l’insegnante inizia il
suo monitoraggio come osservatore dell’attività dei gruppi.
In apprendimento cooperativo l’attenzione del docente deve sempre essere su entrambi i livelli di
prestazione: quello prettamente didattico e quello sociale. Ecco che assistiamo al cambiamento del
ruolo del docente che, da trasmettitore dei saperi, si pone adesso come mediatore, facilitatore degli
apprendimenti, come persona che supporta l’abilità sociale e pone l’accento sulle modalità di risolu-
zione dei problemi, contemporaneamente sui contenuti dei saperi e sul risultato raggiunto. L’atten-
zione si sposta sulle competenze sociali, sulle abilità di problem solving, sulle dinamiche relazionali, sulle
metodologie organizzative e comunicative degli alunni, rispondendo così a quelle che abbiamo in apertura
elencato come le competenze dell’adulto adeguatamente formato.
La metodologia originale del Coooperative Learning prevede che per ogni ruolo da assumere, in “riu-
nioni” di coloro che ricoprono il medesimo ruolo, prima della fase concreta di svolgimento del la-
voro, si definiscano modalità ed obiettivi del proprio ruolo, come anche a fine lavoro possa svolgersi
fra gli stessi alunni una riunione di confronto e verifica del lavoro svolto.
Un passaggio decisamente importante riguarda infine la valutazione. Essa verrà attribuita al gruppo,
cosicché il lavoro del gruppo diventi la somma dell’impegno di ciascuno. È preferibile in tal senso

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che le riunioni di verifica delle modalità di svolgimento dei ruoli, vengano effettuate dopo che l’in-
segnante, insieme agli altri gruppi di lavoro, abbia valutato il lavoro svolto in modo da dare l’oppor-
tunità di riflettere sui necessari accorgimenti metodologici da adeguare per il raggiungimento di un
più proficuo risultato

In conclusione
È comprensibile che l’apprendimento cooperativo possa sembrare complesso e articolato sia nell’or-
ganizzazione sia nella fattibilità in ragione dei tempi sempre serrati che l’organizzazione scolastica
impone. Il docente che volesse intraprendere la propria formazione in merito e conseguentemente
proporre alle proprie classi una sperimentazione della metodologia, dovrebbe partire certamente da
attività semplici, dove il numero di ruoli sia esiguo e l’attività di facile svolgimento. Sia il docente sia
gli alunni necessitano infatti di un graduale apprendimento e adeguamento del loro lavoro metodo-
logico che rappresenta esso stesso la formazione attesa.
È possibile introdurre la metodologia cooperativa in ogni classe di qualunque grado di scuola, ma
naturalmente, come ogni competenza, più la si esercita e sperimenta, maggiori saranno i risultati in
termini di efficacia dell’applicazione.

Lungi dal voler essere esaustiva, la descrizione dell’apprendimento cooperativo qui proposta deve
necessariamente rimandare a fonti specifiche che possano supportare l’insegnante che volesse intra-
prendere questa nuova avventura.
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Libri consigliati
David W. Johnson, Roger T. Johnson, Edythe J. Holubec, Apprendimento cooperativo in classe, Migliorare il clima emotivo e il
rendimento, Erickson
Elizabeth G. Cohen, Organizzare i gruppi cooperativi, Ruoli, funzioni, attività, Erickson

Siti consigliati
http://www.apprendimentocooperativo.it/
http://www.abilidendi.it/materialeCooperativeLearningBreveGuida.pdf
http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm

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