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ISBN: 978-88-88774-82-4

1 itolo originale: Mit dem Hund auf du

© 2011 Piper Verlag GmbH, Münich


Tutti i diritti riservati

I edizione: luglio 2011


© 2011 Orme Editori s.r.l.
Via Isonzo 34
00198 Roma
Eberhard Trumler

A tu per tu con il cane

a cura di Federica Frasca

ORM E
La mia “vita da cani”
Invece di un’introduzione

In una piccola valle circondata da boschi e pascoli, su fondamenta


vecchie di due secoli, sorge il mulino o, più esattamente, quello
che ne è rimasto dopo un grande incendio. Un ruscello scorre at­
traverso il podere formando una curva, e vicino si trovano uno
stagno con un fitto canneto, dei prati e un boschetto di pioppi, ol­
mi e salici. Oltre a questi, ci sono anche faggi, querce, abeti, aceri,
betulle e, fra un albero e l’altro, cespugli di nocciolo, ligustro e
sambuco. Una splendida, piccola oasi, lontana dal traffico rumo­
roso delle grandi città.
Il mio studio si trova al primo piano del mulino. Sulla scrivania
c’è sempre un binocolo da campo, qualche volta lo uso per osser­
vare come una cutrettola d'acqua caccia rabbiosamente una cop-
pietta di cutrettole di montagna che è venuta a insediarsi nel suo
territorio, oppure per seguire una coppia di falchi che porta il cibo
al nido. Solitamente, però, le lenti del mio preziosissimo strumento
di lavoro sono puntate sul mio “popolo”. Dallo studio, infatti, rie­
sco a vedere quasi tutti i miei cani. Quando ho un po' più di tem­
po, salgo un'altra rampa di scale e mi siedo sul balcone che mi of­
fre un panorama ancora più ampio. Da anni vivo circondato, da
mattina a sera, da un numero di cani che varia da trenta a sessanta.
Io allevo cani. Qualcuno può pensare che sia un buon affare, io
posso solo dire che è un’occupazione meravigliosa. Se allevassi ca­
ni di una qualche razza pregiata, chissà, forse potrebbe essere an-

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che un buon affare. Il guaio è che i miei cani non li posso vendere e
nemmeno regalare! Ma di che cani si tratta, se non si possono nem­
meno regalare? Sono dingo, ovvero quei cani selvatici australiani
che qualche volta si vedono negli zoo. Anche i progenitori dei miei
vengono da uno zoo, e li devo ad Alfred Seitz, direttore, fino al
1970, del giardino zoologico di Norimberga. I dingo non sono
adatti alla vita domestica, creano troppe difficoltà. Ma non è tutto.
Ho incrociato questi dingo con cani domestici e ho continuato a
ibridare i bastardi che ne sono nati per alcune generazioni. Anche
in questo modo, ho ottenuto dei cani che non sono certo ideali per
chi ama tenere la casa in ordine. Ho pure degli sciacalli, che non
sono neanche loro dei veri e propri cani. Inoltre, da me vive una
coppia di cani da alce, o elkhound. Questa coppia ha un lungo pe­
digree, cioè una sorta di albero genealogico, e può darsi che un
giorno riesca effettivamente a venderne i discendenti. Ci vorrà co­
munque del tempo, dato che il maschio è ancora un cucciolo, e poi
chi mi garantisce che la prima cucciolata sarà all'altezza delle aspet­
tative? Infine, non vanno dimenticati i due cani da pastore, belli,
anzi splendidi. Si tratta però di padre e figlia e, stando all’esperien­
za, un accoppiamento del genere non dà mai grandi risultati. Fa lo
stesso, tanto non hanno nemmeno un pedigree. Insomma, non so­
no capace di vendere neanche cani da pastore!
E allora i miei cani me li tengo, tanto in fondo è quello che vo­
glio. Loro, infatti, mi aiutano a risolvere i problemi inerenti l'ad­
domesticamento e le mutazioni comportamentali a esso connesse.
E questo spiega perché i miei affari vanno “da cani”!
Programmo esperimenti di selezione per scoprire in che modo
gli animali selvatici si sono trasformati in animali domestici e come,
nell’ambito di questo processo, siano avvenute le numerose muta­
zioni riguardanti la struttura fisica, il colore del pelo, ma soprattut­
to il comportamento, che è il tema principale di questo libro. Di­
mostrerò come sia impossibile studiare il comportamento del cane
domestico nei bassotti, nei cani da pastore o nei terrier, poiché in
queste razze è possibile rilevare solo alcuni aspetti comportamenta­
li comuni, mentre molti altri si sono in qualche modo modificati e
variano da individuo a individuo. Konrad Lorenz, il fondatore del­
l’etologia, che ha altresì contribuito in modo notevole alla com­
prensione del comportamento canino, ci ha fornito questa chiave
interpretativa: solo l’animale selvatico possiede l’inventario com-
pleto e immutato dei modelli comportamentali della propria spe­
cie; l’animale domestico, invece, attraverso la trasformazione del
proprio patrimonio ereditario, che implica tanti aspetti sconosciuti,
ha subito mutazioni indecifrabili e spesso complicatissime. In tale
molteplicità non è, pertanto, più possibile ritrovare un’unità fonda-
mentale, e l’unico modo per riuscire a ricostruirla è conoscendo il
comportamento delle forme primitive, integre, e stabilendo come e
con quali mezzi il processo che definiamo “domesticazione” o “ad­
domesticamento” abbia modificato il comportamento originario.
Approfondire queste conoscenze e acquisirne delle nuove ci aiu­
terà a capire sempre meglio ogni singolo esemplare appartenente
alle attuali razze canine, così diverse fra loro.
Questa è anche la ragione per cui in questo libro si parla molto
di lupi, sciacalli e dingo, e molto meno del cane domestico, noto a
tutti i lettori. Tuttavia, posso promettere fin d’ora che proprio
queste descrizioni, osservazioni ed esperienze offriranno al lettore
più informazioni sul suo cane - sia esso bassotto, boxer, pinscher,
lupo, barboncino nano, levriero o di qualsiasi altra razza - che
qualunque trattato specifico. Mi sento di affermarlo in tutta tran­
quillità perché, in questi anni di “vita da cani”, la convivenza co­
stante con questi dingo dal muso di volpe e dall’aspetto esotico,
ritenuti strani persino dai cinofili, mi ha insegnato molto di più
sulla realtà canina di quanto avrebbe fatto l’osservazione dei no­
stri cani domestici. Il mondo del cane è molto più sfaccettato di
quanto immaginiamo portando a spasso il nostro Fido o il nostro
Wolf. Chi si prende la briga di esplorare questo mondo un po’ più
in profondità imparerà a guardare il proprio cane con occhi diver­
si e, soprattutto, a smettere di considerarlo una creatura che si li­
mita a obbedire, a non sporcare in casa e a ricevere cibo e cure. Si
renderà conto di come tutto quello che, in quanto zoofili, perce­
piamo di lui, sia solo una pallida ombra di ciò che questo animale
è in grado di esprimere quando gli è permesso di essere veramen­
te quello che è: un cane.
Ho scritto questo libro nella speranza di contribuire ad allevia­
re l’esistenza da schiavo che spesso viene imposta al cane per tra­
dizionale ignoranza o per abituale leggerezza. Sarebbe auspicabile
che le pagine che seguono ci spingessero a riflettere se facciamo
veramente del nostro meglio per soddisfare le esigenze del nostro
cane, risparmiandogli così un’esistenza “da cani”.
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I
Una costante nella molteplicità

È possibile scrivere solo sui cani che si conoscono personalmente,


quindi, dato che non si possono conoscere tutti i milioni di cani
presenti e futuri, ce ne sarà sempre qualcuno che si differenzierà
in questo o in queiraspetto. Ritengo perciò che, ancor prima di
esaminare i modelli di comportamento generali, sarà bene soffer­
marsi suirorigine dell’accentuata individualità dei nostri cani. So­
lo così riuscirò a evitare che un giorno l’universo dei cani si rivol­
ti, ringhiando, contro di me accusandomi di essere un “livellato­
re”, uno che non si accorge della loro personalità ben definita,
delle loro caratteristiche individuali, e che vuole convincere i loro
padroni che esiste un comportamento canino uniforme.
Un ricercatore finisce per sprecare fatica e impegno se fonda i
propri studi su basi insufficienti, o se parte addirittura da “mate­
riali” inadatti, ovvero i cani di cui si vuole studiare il comporta­
mento.
Se è ovvio che non posso studiare il comportamento dei cani
osservando i gatti, dovrebbe essere altrettanto ovvio che non è
possibile studiare il comportamento dei cani basandosi sulle razze
più selezionate, che costituiscono il materiale scientifico meno
adeguato per tale scopo. Queste, infatti, possono solo servire a
studiare le mutazioni di comportamento filogenetiche, derivate da
un comportamento primitivo che però prima bisogna conoscere.
Quello che c’interessa è, dunque, il comportamento originario di
cui la natura, non influenzata dall’uomo, ha dotato i cani selvaggi
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prima che l’uomo, grazie all’arte dell’allevamento, lo correggesse
creando nuove razze canine a suo piacimento.

Problematica Stina
Quanto sia accentuata l’individualità dei nostri cani e quanti
grattacapi possa creare il comportamento di un singolo cane, l’ho
imparato dalla mia Stina. Ora vi racconto perché questa rappre­
senta il mio cruccio.
Stina è la terza di una cucciolata assai poco omogenea che ho
ottenuto per vie traverse, con l’aiuto della mia elkhound Binna e
di un incrocio precedente fra dingo. Mentre due di questi cani,
che allora avevano otto mesi, avevano un’altezza alla spalla di cir­
ca quarantacinque centimetri, il terzo non raggiungeva neppure i
trenta, era una specie di nanerottolo. Proprio questo nanerottolo,
però, era quello che mi correva incontro al cancello per farmi le
feste con irruente affettuosità. Perciò, un giorno mi dissi: “No,
questo cagnolino così affettuoso non è fatto per il canile, sarà il
primo ad avere il permesso di dividere con me lo studio. Lo vi-
zierò un po’, l’avrò sempre intorno e me lo terrò sulle ginocchia
mentre scrivo il mio libro sul comportamento dei cani”.
Un cane cresciuto in un recinto non è in grado di sapere, ovvia­
mente, che nello studio del padrone non è lecito fare i propri biso­
gni sul pavimento né, tantomeno, sulla poltrona. Per un esperto di
cani, tuttavia, educarlo a fare altrimenti è un gioco da ragazzi, o al­
meno così pensavo mentre ripulivo la stanza le prime volte. Invece,
nemmeno dopo tre settimane di tentativi vidi alcun cambiamento!
La mia simpatica Stina s’innervosiva se stava troppo all’aperto e
non vedeva l’ora di tornare nel mio studio, perché lì e soltanto lì ac­
cettava di dare libero sfogo alle sue necessità. Avreste dovuto vedere
l’espressione radiosa e contenta di quel musetto scuro quando,
espletata l’opera, valutava il risultato! E ogni giorno scopriva un po­
sto nuovo e originale per le sue opere, piccole e grandi.
Non che Stina fosse stupida, tutt’altro. Nel giro di ventiquat-
tr’ore aveva capito che tenevo alla pulizia della mia stanza di lavo­
ro, semplicemente non concordava con la mia strana pedanteria.
Perciò nel periodo successivo la vedevi tutta intenta a escogitare
un modo per farla franca, e il novantanove per cento delle volte ci
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riusciva. Deve anche aver riflettuto a lungo su come evitare il peri­
colo di diventare un cane da grembo. In verità, non credo che un
cane sia in grado di riflettere, perlomeno non in forma astratta co­
me fa l’uomo. Per Stina, però, la cosa deve essere in qualche mo­
do diversa.
Per Stina quasi tutto è diverso. Quando, ad esempio, mi osser­
va con la coda delPocchio a distanza di sicurezza, ho la sensazione
che non mi prenda sul serio e che prenda ancora meno sul serio le
mie idee sul comportamento dei cani, anzi, ne sembra addirittura
divertita!
All’inizio pensavo che bisognasse avere pazienza, in fondo Stina
era cresciuta in un recinto ed era abituata a certe condizioni di vita.
Ero andato spesso a trovarla e ogni volta lei era stata la gentilezza in
persona. O, per meglio dire, sfacciata e petulante, come del resto i
suoi due fratelli. Era probabile, dunque, che il suo comportamento
dipendesse dall’ambiente sconosciuto, cui la cagnetta doveva anco­
ra abituarsi. Ma il mio ragionamento si rivelò sbagliato.
Con mio grande sconcerto, quella cagnetta mi prese in giro per
più di tre settimane. Non è assolutamente pensabile dedicarsi con
entusiasmo alla stesura delle prime pagine di un nuovo libro con
una cagnetta come Stina lì a scrutare, con lo sguardo teso, ogni
tuo minimo movimento, pronta a correre all’altro capo della stan­
za al minimo sospetto che quel movimento la riguardi.
Col passare dei giorni la mia perplessità aumentava e alla fine
cominciai persino a dubitare di me stesso, vedendomi incapace
d’impormi con un cane così piccolo. Se faccio entrare nel mio stu­
dio un dingo, quindi un cane selvaggio potenzialmente feroce e
pericoloso come un lupo, che ha vissuto due anni nel recinto, di
certo nell’arco di alcune ore ridurrà la stanza a un caos di cocci,
carte e oggetti, ma dedicherà ogni minuto libero a leccarmi il viso,
a saltarmi addosso o comunque a esprimermi a modo suo quanto
siano meravigliosi i nostri contatti. Una volta un contadino voleva
quasi uccidere il suo cane da guardia, noto per la ferocia, perché
l’animale, anziché sbranarmi, aveva stretto amicizia con me. In
un’altra occasione, il padre di un amico mi regalò uno dei suoi si­
gari migliori perché la sua bassotta, di solito molto scontrosa con
gli estranei, dopo pochi minuti di conoscenza si era arrampicata
sulle mie ginocchia infilandomi tutta contenta la testa affusolata
fra la camicia e la giacca.
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Con Stina, invece, a tutt’oggi non ho trovato la chiave di volta.
Ha degli atteggiamenti molto amichevoli quando, entrando, mi
vede seduto al solito posto: in genere mi saluta affettuosamente,
addirittura si appoggia con le zampe anteriori alla poltrona sco­
dinzolando e leccandomi il viso, inoltre si lascia accarezzare e si
vede che le fa piacere. Non appena, però, ritiene che i convenevo­
li siano durati abbastanza e siano stati abbastanza intensi, sparisce
sotto il divano per uscirne solo quando spalanco la porta gridando
“Stina, fuori!”. A quel punto sfreccia in corridoio, ritraendosi
però timorosa con la coda fra le gambe tutte le volte che le passo
davanti. All’aperto gioca con i grossi cani pastore, ma solo rara­
mente viene da me quando la chiamo, e alla fine mi tocca giocare
d’astuzia per riportarla dentro.
Così vanno le cose con Stina, la cagnetta che ho visto nascere,
che ho pesato un giorno sì e uno no quando era piccola, e che ha
dei fratelli per nulla ritrosi che sono la simpatia personificata.
Quello che è capitato a me con Stina può succedere anche a un
qualunque lettore, che allora, osservando il proprio cane, riporrà
con aria rassegnata tutti i libri sull’argomento - compreso il mio -
ed esclamerà irritato: è tutto falso! Purtroppo, neanch’io sarò in
grado di contraddirlo, almeno per quello che riguarda quel cane,
il suo cane.

I progenitori dei miei cani: gli elkhound e i dingo


Mi diverte sempre vedere un’automobile che, percorrendo a
velocità sostenuta la strada che passa a circa cento metri da qui,
frena all’improvviso e ripercorre un tratto a marcia indietro, per
imboccare poi lentamente il sentiero che conduce ai canili. In ge­
nere si tratta di forestieri che si sono smarriti su questa strada nuo­
va, poco conosciuta. Di solito la macchina si ferma al primo recin­
to, le persone scendono e osservano perplesse i cani. La perples­
sità aumenta man mano che scoprono gli altri recinti. Alcuni risal­
gono in macchina scuotendo la testa, altri s’incuriosiscono e ven­
gono a chiedere: “Scusi, che cani sono? Sono volpi?”.
Alla mia spiegazione segue immancabilmente la domanda: “È
possibile comprarne uno?”. La risposta, anche se mi dispiace, è no,
e il perché l’ho già spiegato. Allora ringraziano cortesemente e an­
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che loro scuotono la testa, dopo essere risaliti in macchina, questo
non solo per essere rimasti a mani vuote, ma anche perché pensa­
no a questo matto che alleva cani che non servono a niente.
In realtà, questi cani servono a molte cose, così tante che questo
volume contiene solo una minima parte di quello che ci sarebbe da
dire. Il lettore si aspetta che tratti il comportamento dei cani, e
perciò sono costretto a tralasciare altri temi non meno interessanti.
Accennerò, tuttavia, ad altri argomenti ogni volta che questi avran­
no attinenza con il comportamento canino. E ora vado a presenta­
re i “progenitori” dei miei cani.
Decisi di acquistare Binna, una femmina elkhound, dopo aver
conosciuto la storia di questa razza. Secondo i cinologi scandina­
vi, infatti, questi animali venivano allevati nella loro forma attuale
già alcune migliaia di anni fa. Il tipo da cui si è sviluppata questa
razza è probabilmente un cane delle torbiere del Nord, i cui resti
sono stati rinvenuti presso il lago Lagoda in insediamenti che ri­
salgono ad almeno seimila anni fa. A quel tempo cani del genere
erano già molto diffusi e facevano la guardia alle abitazioni su pa­
lafitte dei laghi svizzeri.
La mia Binna discende, dunque, da una stirpe antichissima e,
per certi aspetti, incarna il cane dell’età della pietra. Proprio que­
st’aspetto mi spinse a studiare più da vicino questa razza, che d’al­
tronde non era mai stata soggetta ad alcuna moda, come tante no­
stre razze canine. Possedevo così un animale domestico, il cui pa­
trimonio ereditario era rimasto immutato e omogeneo sin dall’an­
tichità. Ovviamente, un esperto è in grado d’individuare delle dif­
ferenze anche fra gli elkhound ma, in ogni caso, non si tratta di
differenze profonde, senz’altro non maggiori di quelle riscontra­
bili all’interno di un branco di lupi imparentati fra loro.
Gli elkhound sono animali domestici nel senso più ampio del
termine, ovvero dei cani di razza che l’uomo ha accuratamente se­
lezionato, addirittura per alcuni millenni. Da cani del genere, per i
quali nelle mostre canine è prescritto che la coda, dal pelo folto e
lungo, sia perfettamente arrotolata a metà del dorso, posso dun­
que ancora aspettarmi un comportamento primitivo?
E possibile rispondere a questa domanda se pensiamo come e
a quale scopo si alleva l’elkhound. Ricordiamo, innanzi tutto, che
gli scandinavi amano molto i cani e hanno una spiccata sensibilità
per la natura. Nelle poche grandi città scandinave quasi nessuno
possiede un cane da alce, un elkhound per l’appunto, d’altronde
perché dovrebbe? La sensibilità dei nordici garantisce a questa
razza l’habitat che più le è congeniale, ovvero le piccole e grandi
fattorie di campagna. A Oslo o a Stoccolma la passione per i cani è
dimostrata dal fatto che vi si possono ammirare tutte le razze del
mondo, spesso in splendidi esemplari. Per vedere i cani da alce,
però, bisogna spingersi fino ai fiordi e ai fjellet, negli immensi bo­
schi di abeti, interrotti dalle paludi fiancheggiate da betulle, cioè
nell’ambiente naturale dell’alce.
Per la caccia a questo animale, una specie di grosso cervo dalla
testa di montone e dalle corna palmate, l’elkhound viene selezio­
nato e allevato fin dai tempi più remoti. I superbi alci sono una
selvaggina particolarmente difficile da scovare, bravi come sono a
sottrarsi a qualunque inseguimento. Senza cani adatti, dunque, sa­
rebbe quasi impossibile cacciarli. Naso a terra, il cane segue in­
stancabile le tracce dell’alce, distingue quelle vecchie da quelle
fresche e, alla fine, scova la sua preda anche se per questo è co­
stretto a seguirne le tracce per tre giorni e tre notti senza un atti­
mo di tregua. Le orme dell’alce ora s’inerpicano su ripidi picchi,
ora scendono attraverso la palude. Per il cacciatore è assai faticoso
seguire il cane che tira con tutte le forze, affidandosi all’olfatto.
Quando l’eccitazione del cane comincia ad aumentare visibilmen­
te, si stacca il guinzaglio e lo si lascia sfrecciare via in direzione
dell’alce, ormai vicino. Ha dell’incredibile che un cane alto circa
mezzo metro riesca a inchiodare sul posto un gigante di due metri,
dando il tempo al cacciatore, armato di fucile, di raggiungerlo.
Abbaiando con forza, il cane gira intorno all’alce che, malgrado la
sua abilità, non riesce a colpirlo con le corna.
Una notevole prova di bravura, non c’è che dire, che è alla ba­
se dei criteri selettivi nell’allevamento dell’elkhound: la fama del
cane e la frequenza dell’impiego per la riproduzione sono diretta-
mente proporzionali al numero di animali puntati. Il lavoro che il
cane si trova a compiere nella caccia all’alce è, tuttavia, un aspetto
del suo comportamento originario: nello stesso modo, i lupi se­
guono le orme dell’alce, per poi scovarla tutti insieme e ucciderla.
Proprio come avviene per il cane, il lupo che non abbia un fiuto
sufficientemente sviluppato o che non sopporti la fatica del lungo
inseguimento, in natura viene escluso dalla riproduzione. Come
vedremo, i giovani lupi imparano la tecnica della caccia dai con­

specifici più anziani, e lo stesso vale per i cani da alce: la formazio­
ne degli esemplari più giovani è affidata a quelli più anziani. Un
cane troppo stupido o troppo pigro per imparare viene escluso
come verrebbe escluso un lupo che non si dimostrasse all’altezza
del compito.
Fin dai tempi più remoti, dunque, la selezione dei cani da alce
fa in modo che soltanto gli animali sani, intelligenti, resistenti e
dall’istinto affidabile siano coinvolti nella riproduzione, garanten­
do così anche la conservazione, almeno in gran parte, del compor­
tamento originario.
Quando segue una traccia, la mia Binna diventa cieca e muta, e
io posso sgolarmi fino allo stremo, tanto non mi dà retta comunque.
D’altronde, perché dovrebbe? Rinunciare alla preda sarebbe total­
mente insensato. Una volta puntata la selvaggina, per lei il caso è
chiuso. Dato che non c’è un lupo-guida che afferra la preda né un
cacciatore che spara, Binna fa dietro front e ritorna a casa. Non è
capace di uccidere la selvaggina. Dal canto mio, ritengo che nei lupi
lo sbranare un animale di dimensioni notevoli non faccia parte di
un comportamento istintivo, innato, ma debba essere acquisito at­
traverso l’apprendimento. Secondo questa ipotesi, dunque, nel ca­
ne da alce non avremmo una mancanza d’istinto, bensì soltanto una
“lacuna formativa”. Il comportamento che, invece, è sicuramente
innato, è la cattura di piccoli animali, ad esempio topi. In questo
campo Binna è bravissima e scovare topi la diverte un mondo.
Ho cominciato a osservare il comportamento dei cani parten­
do dalla mia elkhound. Quando, in seguito, Alfred Seitz mi ha of­
ferto due cuccioli dingo, non ci ho pensato due volte, e così sono
arrivati anche il maschio, Aborigeno, e Suki, sua sorella.
I dingo, i cani selvaggi dell’Australia, sono una specie antichis­
sima. Si ritiene, infatti, che questi animali dal mantello fulvo siano
giunti nel quinto continente tra gli otto e i diecimila anni fa, insie­
me agli attuali indigeni (o aborigeni, come li chiamano gli austra­
liani bianchi). Questo cane dell’età della pietra proviene probabil­
mente dall’Asia sud-orientale da dove, attraverso la Nuova Gui­
nea, è giunto in Australia.
In alcune regioni della Nuova Guinea, i Papua hanno dei cani
che a prima vista possono essere scambiati per veri e propri din­
go. Thomas Schultze-Westrum, uno studioso che ha condotto
molte ricerche in quelle regioni, mi ha mostrato una serie di foto­
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grafie a colori di questi cani simili ai dingo. Secondo lui, sono de­
stinati a scomparire perché i Papua preferiscono i cani europei ai
loro cani da pagliaio che generalmente sono degli ibridi indefini­
bili. Oltre a questi cani, molto docili, in Papuasia vivono ancora
allo stato brado dei “cani selvatici”. Nel 1955, un funzionario del
governo australiano di nome Hallstrom ne portò una coppia allo
zoo di Sydney. Lo zoologo australiano Troughton pensò si trattas­
se di veri e propri cani selvaggi, come il lupo e lo sciacallo, e per
questo gli diede il nome di canis hallstromi. Tuttavia, fu ben presto
chiaro che non poteva trattarsi d’altro che di una particolare spe­
cie di dingo. Nello zoo di Sydney i due animali procrearono come
ci si aspettava da loro. Alcuni cuccioli furono trasferiti allo zoo di
San Diego dove più tardi, nel 1962, fecero a loro volta una cuccio­
lata, una coppia della quale giunse al giardino di animali domesti­
ci dell’istituto di Zoologia dell’Università di Kiel. Qui, nel 1964,
videro la luce quattro cuccioli maschi e tre femmine: uno di questi
era Luxl, il capostipite dei miei dingo.
Per quanto riesco a giudicare dall’aspetto di Luxl, e da alcune
fotografie di altri animali della stessa linea, il dingo della Nuova
Guinea, che vive allo stato selvaggio, si differenzia dal dingo austra­
liano innanzi tutto per la statura più bassa. Luxl era alto quaranta
centimetri e mezzo alla spalla, pressappoco come un beagle, un
bedlington terrier o un volpino di Pomerania. Era dunque un cane
relativamente piccolo. La volta che provammo a farlo accoppiare
con la mia Binna, faticò terribilmente senza riuscire nell’intento poi­
ché era troppo piccolo per i quarantasette centimetri di lei. Direi
che il dingo della Nuova Guinea incarna la specie che vive nei bo­
schi di montagna, come dimostrano gli arti piuttosto brevi, il muso
molto simile a quello di una volpe e la notevole lunghezza del pelo.
I dingo australiani sono invece slanciati, hanno le zampe più lunghe
e il muso più affilato, che li fa assomigliare a dei levrieri. Una diffe­
renza essenziale sta anche nella folta coda ad anello del dingo hall­
strom, diversa dalla snella coda a sciabola del dingo australiano.
Della vita dei dingo della Nuova Guinea non conosciamo nulla. Ri­
guardo a quelli australiani, invece, possiamo affermare con sicurez­
za che, da quando sono approdati sul continente più piccolo del
mondo, sono vissuti allo stato selvaggio, come i lupi. Ancora oggi
sono sottoposti a una selezione naturale, e nessun essere umano
può decidere quali esemplari destinare alla procreazione.
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Possiedono, inoltre, una serie di caratteristiche che di solito si
riscontrano soltanto negli animali domestici. Non esiste nessun
rappresentante dei canidi, né della specie canis né delle altre spe­
cie di questa famiglia, con la coda a sciabola, cioè estesa verso l’al-
to, con l’estremità ripiegata in direzione della testa. Questa forma
la troviamo soltanto nei cani domestici e nei dingo. Il dingo hall-
strom della Nuova Guinea ha addirittura la coda ad anello, come
il volpino di Pomerania. Fra l’altro, i dingo presentano dei tipici
“distintivi” bianchi, in particolare le macchie sulle zampe, un’am­
pia macchia sul petto, che può estendersi fino al ventre, e sull’e­
stremità della coda. Molto spesso queste macchie bianche com­
paiono anche nel pelo che ricopre la gola, il mento e la parte supe­
riore del naso. Di queste caratteristiche tipiche degli animali do­
mestici, che però a volte possono comparire anche in esemplari
che vivono allo stato naturale, riparleremo in seguito.
Il dingo, tuttavia, è vissuto per lunghissimo tempo allo stato
selvaggio, senza l’influsso dell’uomo e soggetto alla selezione na­
turale, quindi possiamo a buon diritto ritenere che in lui il patri­
monio innato dei modelli comportamentali sia molto più comple­
to che in qualsiasi altro cane domestico. Resta, dunque, da scopri­
re cos’abbia il dingo in comune con i nostri cani domestici.
Se gli studiosi che se ne sono occupati hanno visto giusto, il
dingo ha molte cose in comune con i nostri cani. Alcuni arrivano
ad affermare che tutti i nostri cani domestici discendono dal din­
go, o perlomeno ne sono stati influenzati in maniera decisiva. Per
citare soltanto un esempio interessante, nella palude di Sencken-
berg presso Francoforte sul Meno, insieme allo scheletro di un
uro furono rinvenute anche le ossa, compreso il cranio, di un cane
che si ritiene fosse domestico. L’insediamento in questione risaliva
a circa 11.000 anni fa. Lo studioso Robert Mertens notò la straor­
dinaria somiglianza delle ossa e del cranio di quel cane con quelli
di un dingo, escludendo categoricamente che potesse trattarsi di
un lupo. Era il 1936, e se in seguito sono sorti dubbi sulla datazio­
ne, mai se ne sono avuti sulla somiglianza. Pare che il reperto ri­
salga a 9-10.000 anni fa, ma un millennio in più o uno in meno
non fa una gran differenza. Ci troveremmo, dunque, di fronte non
solo al più antico cane domestico conosciuto, ma anche a un cane
simile al dingo, e poiché è difficile immaginare che dalla loro terra
d’origine, l’Asia, i dingo siano arrivati in Germania da soli, l’ipo­
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tesi più plausibile è che ce li abbia portati l’uomo, proprio come
un tempo gli aborigeni d’Australia si portarono appresso il dingo.

Lupi e sciacalli
Certamente qualche lettore si sarà chiesto: perché tante com­
plicazioni? Perché non arrivare subito all’antenato di tutti i cani, il
lupo? Nel lupo deve esserci per forza, e nella sua forma più auten­
tica, quel comportamento primitivo che cerchiamo di ricostruire.
La risposta è ovviamente sì, ma occorre fare prima qualche rifles­
sione: il lupo puro e semplice non esiste, bensì ne esistono numerosi
tipi che in zoologia vengono classificati come sottogruppi della spe­
cie lupo: gli esperti ne elencano ben ventuno. La loro esistenza si de­
ve al fatto che la specie lupo è diffusa, o perlomeno lo era fino al se­
colo scorso, in tutta l’Europa, l’Asia e l’America del Nord.
Le condizioni naturali in cui vive un lupo siberiano sono com­
pletamente diverse da quelle in cui vive un lupo dell’india meridio­
nale o un lupo spagnolo, e dato che ogni animale adatta la struttura
fisica e il comportamento al proprio habitat, un lupo artico si diffe­
renzia da un lupo indiano non soltanto nell’aspetto, ma anche nel
comportamento.
Questa affermazione, purtroppo, non è supportata da dati, dal
momento che proprio sui lupi meridionali, che ci interesserebbero
in maniera particolare e per motivi ben precisi, abbiamo scarsissime
notizie. Tuttavia, per analogia con le altre specie animali del pianeta,
siamo in grado di dedurre ciò che avviene ed è avvenuto fra i lupi.
A tale proposito, non dobbiamo dimenticare che il cane dome­
stico dovrebbe aver fatto la sua comparsa fra il decimo e il dodice­
simo millennio. A quell’epoca, in Europa, la glaciazione si era già
ritirata verso il Nord, ma lo sviluppo della civiltà non era ancora
così avanzato da permettere un allevamento indipendente di ani­
mali. E più probabile che le prime razze di animali domestici sia­
no giunte nelle nostre regioni dal Vicino Oriente, dove a quel tem­
po esistevano già civiltà molto sviluppate. Si potrebbe, quindi, az­
zardare l’ipotesi che il cane domestico sia comparso in un’epoca
ancora più antica di quella sopra indicata.
In ogni caso, sono certo che possiamo ubicare il luogo del pri­
mo addomesticamento nella regione compresa fra l’Asia anteriore
20
e l’india. Lì vivono alcuni sottogruppi di lupi - in particolare il lu­
po indiano (canis lupus pallipes) - il cui comportamento, però, ci è
ancora meno noto di quello dei lupi dell’Europa, dell’Asia e del­
l’America settentrionali.
Ciò nonostante, ritengo sia importante studiare attentamente e
in ogni particolare la vita e il comportamento anche dei lupi nordi­
ci perché, a prescindere dal fatto che, come abbiamo già ricordato,
hanno concorso alla formazione di molte delle nostre razze canine,
essi rappresentano la più organica forma di vita sociale al di fuori
di un ristretto nucleo familiare. Le dure condizioni di vita del loro
ambiente fanno sì che in inverno i singoli si riuniscano in branco
per cacciare, accentuando al massimo i modelli di comportamento
sociale, come succede nei nostri migliori cani domestici.
Ciò che m’impedisce di studiare il comportamento originario
di questi lupi è il fatto di non poter offrire loro le condizioni di vi­
ta che li spingerebbero a sviluppare liberamente il loro modo di
vivere naturale. Questi lupi, durante il periodo degli amori, da
febbraio a marzo, vivono a coppie e, sempre in coppia, in aprile e
maggio allevano i cuccioli. In autunno, poi, con i loro cuccioli e
probabilmente anche con quelli dell’anno precedente, formano
un nutrito branco. Bisognerebbe avere a disposizione una superfi­
cie dal paesaggio molto vario, soprattutto boschivo, di almeno
cento ettari, circondata da una recinzione alta due metri.
Si continua a ripetere che almeno uno degli antenati del cane,
se non l’unico, è lo sciacallo. La questione è molto dibattuta, ma
poiché fino a oggi non disponiamo di prove convincenti, è oppor­
tuno che, giunti a questo punto, ce ne occupiamo. Si dice, ad
esempio, che la specie di sciacallo alla quale si fa riferimento, il ca­
nis aureus, si accompagni al leone e viva presso le famiglie di leoni
aspettando che queste si siano saziate con le prede. Non appena i
leoni lasciano i resti della zebra o dello gnu per tornare alle loro
tane, gli sciacalli vi si gettano sopra. E dunque nella natura dello
sciacallo seguire dei cacciatori esperti, e forse questo comporta­
mento è stato ripreso dall’uomo quando è diventato egli stesso un
cacciatore. Ciò potrebbe averlo indotto ad addomesticare lo scia­
callo, facendone, appunto, un animale domestico.
L’ipotesi era interessante, quindi, poiché è supportata da altri
argomenti - si pensi agli studi di Konrad Lorenz sul comporta­
mento - e poiché gli sciacalli sono in fondo dei simpatici cagnoli­
21
ni, non ho avuto pace finché non sono riuscito ad aggiungere due
sciacalli al mio gruppo di cani.
Quando sono arrivati al mulino avevano appena sei settimane
ed erano creature minuscole, terribilmente paurose, molto più
graziose di tutti i cuccioli di cane che avessi mai visto. Inoltre, era­
no molto più svegli di quanto in genere lo siano i cagnolini della
stessa età. Dopo appena tre giorni, nonostante le mie speranze di
osservare negli sciacalli il comportamento dei cani, ho dovuto am­
mettere che, se i nostri cani hanno qualcosa in comune con gli
sciacalli, certamente i miei Ben e Ali sono l’eccezione che confer­
ma la regola. Questi due animali, infatti, presentano alcuni model­
li comportamentali che non ho mai riscontrato né in un dingo né
in alcuna razza di cane domestico. A ciò si aggiunga una caratteri­
stica fisica che fino a quel momento non avevo mai notato in cani,
lupi o dingo: le due dita mediane non sono completamente sepa­
rate, bensì sono unite nella parte iniziale. Ciò determina la forma­
zione di un tubercolo digitale doppio a ferro di cavallo, che nei
due sciacalli è presente sia nelle zampe anteriori che in quelle po­
steriori. Sebbene all’inizio la cosa mi sembrasse inspiegabile, oggi
la vedo sotto un’altra luce. Un’altra femmina dingo, che ho otte­
nuto mediante complicati incroci e che presenta mutazioni nel co­
lore del pelo, ha anch’essa i tubercoli digitali non completamente
separati. Mi sono, quindi, reso conto che è molto pericoloso trarre
conclusioni affrettate, e ho deciso di affidare la conferma di que­
ste prime impressioni e osservazioni a un confronto più approfon­
dito fra i miei sciacalli e gli altri cani.
A questo punto, devo aggiungere che, come il lupo, anche lo
sciacallo si suddivide in numerosi sottogruppi - diciannove per la
precisione - che presentano ognuno delle notevoli differenze in
termini di dimensioni e colore. Anche l’area di diffusione dello
sciacallo è molto ampia, da Sumatra si estende attraverso tutta l’A­
sia meridionale, fino al Mediterraneo. A quale di questi sottogrup­
pi, tutti poco conosciuti, appartengano i miei due esemplari non
sono ancora oggi in grado di dirlo, perché devo aspettare che di­
ventino adulti. Qui li presento come autentici cani selvaggi, parte
del mio patrimonio canino.

22
I miei bastardi
La parola “bastardo” ha un significato dispregiativo anche ri­
ferita ai cani, eppure per tanti padroni è sinonimo di un animale
di fronte al quale persino il cane di razza più bello e nobile appare
insignificante. In questa convinzione c'è molto di vero: una delle
scoperte più importanti della moderna zoologia è infatti che, dal­
l’incrocio di diversi patrimoni ereditari, molto spesso si ottengono
degli esemplari di pregio. Si parla di “rigoglio da bastardi” rife­
rendosi al fatto che gli ibridi hanno un rendimento maggiore dei
genitori di razza pura. Nelle galline, il record delle uova si ottiene
proprio con questi “ibridi”, altro nome dato ai bastardi, e questo
è oggi il criterio più seguito dagli allevatori di bovini e di suini. Il
rovescio della medaglia è, però, che non si può continuare a in­
crociare fra loro questi animali, utilizzati soltanto per il loro rendi­
mento. Per ottenerli, dunque, le due razze pure dei genitori, dal
patrimonio ereditario molto diverso, devono essere allevate sepa­
ratamente.
Il rendimento di un ibrido è rappresentato, nelle galline, dalla
quantità e dalla qualità delle uova, nei maiali dalla carne, nelle
mucche dal latte. Nel caso dei cani, si attribuisce loro una maggio­
re intelligenza e molte altre buone qualità che rientrano senz'altro
nell’ambito degli interessi di un etologo. Per questo, un bel giorno
valutai la possibilità di ottenere dei cani con un potenziale com­
portamentale molto accentuato, e decisi di dare la mia elkhound
Binna in moglie al dingo Aborigeno, detto Abo.
Le mie aspettative non andarono deluse. Della cucciolata di
sette piccoli ho tenuto un maschio e due femmine, tutti diventati
dei bei cani, di cui vado molto fiero. Björn, il maschio, è un anima­
le robusto, dalla linea armonica, sicuro di sé e pieno di vita. La so­
rella Berne non è da meno, e anche lei è più forte di una elkhound
o persino di una dingo. Lo stesso si poteva dire dell’altra sorella,
Fella, che sfortunatamente è stata uccisa da un cacciatore che l’ha
scambiata per un cane inselvatichito. Dato il comportamento tipi­
camente primitivo di quest’animale, era quasi prevedibile che un
incidente del genere potesse accadere. Avevamo predisposto un
nuovo recinto per loro, ma i tre ibridi, molto più abili degli elk­
hound o dei dingo, nel giro di poche ore erano riusciti a trovarne il
punto debole. Si aprirono un varco scavando sotto il reticolato e
23
Fella e Bente scapparono nel bosco vicino. Erano le otto di matti­
na. A mezzogiorno Bente rientrò sola. Si trascinò faticosamente fi­
no alla casa, poi crollò. La sua pelliccia fulva era rigata di sangue e
accertammo che, dalla punta del muso all’attaccatura della coda,
tutta la parte destra del corpo era crivellata di pallini che per fortu­
na non erano penetrati troppo in profondità, forse perché sparati
da una certa distanza. Avevamo la speranza di salvare almeno lei,
visto che Fella non era più ricomparsa. Bente superò l'intossicazio­
ne da piombo in un tempo relativamente breve, e dopo poco entrò
in calore. Questi ibridi fra dingo ed elkhound sono cani davvero
forti e resistenti.
Avevo, dunque, ottenuto dei bastardi molto ben sviluppati fisi­
camente che, dal punto di vista del comportamento, potevano de­
finirsi addirittura dei cani esemplari.
Ma non ero ancora soddisfatto. Quello che m'interessa non è
soltanto stabilire quale sia stato il comportamento primitivo e ori­
ginario del cane, voglio anche conoscere attraverso quali vie e per
quali cause i modelli comportamentali dei nostri cani si siano, per
certi aspetti, modificati. E perciò feci quello che con i bastardi
non si dovrebbe mai fare: feci accoppiare Björn con la sorella Ben­
te, cosa che, secondo i criteri di un allevamento orientato al mi­
glior rendimento dell'animale, rappresenta un errore doppiamen­
te grave. Infatti, non solo avevo incrociato fra loro degli ibridi, ma
anche fratello e sorella: il risultato non poteva essere buono.
D'altronde, non era nemmeno necessario che lo fosse. Per
quanto mi riguardava, volevo osservare le mutazioni del patrimo­
nio dei comportamenti ereditari o, perlomeno, la loro eventuale
attenuazione. I primi cuccioli nati da questa coppia hanno adesso
due anni e finora non ho quasi notato alcuna mutazione nel com­
portamento; ciò non significa, però, che entro certi limiti non pos­
sano essersi verificate lo stesso. Anche Knud e Kala - così si chia­
ma la coppia nata da Björn e Bente - sono perfettamente sani, vi­
vaci, ben fatti, solo un po' più piccoli dei genitori. A loro volta
hanno avuto dei cuccioli vivaci, sani e simpatici, anch'essi un po’
più piccoli dei genitori. Sono ancora troppo giovani per poter
trarre delle conclusioni sui loro schemi comportamentali, ma tutti
mi sembrano assolutamente normali.
Quando si è decisi a scoprire qualcosa, nulla ci può fermare, e
fu così che incrociai la mia elkhound Binna una volta con il figlio
24
Björn, un'altra con il nipote Knud. A questo punto, com'era pre­
vedibile, le cose si sono complicate. Non tutti i piccoli delle due
cucciolate, sempre di sette, corrispondevano al modello ideale; è
accaduto, ad esempio, che un cucciolo continuasse a deperire e lo
si dovesse narcotizzare prima che morisse di fame. Nei miei canili
non si era mai verificato nulla del genere. I cuccioli che presenta­
vano uno sviluppo normale, invece, diventarono dei cani molto
belli, anche se piccoli, con un'unica eccezione: Stina, il mio cruc­
cio. Come ho già accennato, è più piccola dei fratelli e il suo com­
portamento è estremamente scontroso. A volte penso a lei come a
una specie di lupo in miniatura. A questo proposito, è utile sapere
che Lutz e Heinz Heck, entrambi noti zoologi e direttori di zoo,
l'uno a Berlino, l'altro a Monaco, hanno condotto molti esperi­
menti sull'incrocio di animali diversi, da cui è emerso un fenome­
no molto interessante: incrociando un animale domestico con uno
selvatico di specie affine, si ottengono degli ibridi che, oltre alle
caratteristiche dei genitori, presentano delle peculiarità che non
appartengono a nessuna delle due specie scelte per l'esperimento,
bensì alla forma primigenia dell’animale domestico in questione.
La cosiddetta “legge di Heck” è stata confermata, sebbene in al­
tro senso, dagli etologi. Gli individui nati da incroci fra specie di­
verse di anatre, ad esempio, presentavano determinati schemi
comportamentali che non erano peculiari né dell’una né dell’altra
specie dei genitori, ma di una terza specie di anatra che non era
direttamente implicata in quel processo riproduttivo, e il cui com­
portamento poteva definirsi più primitivo. In altre parole, gli ibri­
di avevano “riattivato” alcuni antichi modelli comportamentali
che le specie dei loro genitori dovevano aver posseduto nelle pri­
me fasi del loro sviluppo filogenetico, così come quella terza spe­
cie li aveva conservati, fino a quel momento.
Ma torniamo a Stina, di cui vi ho già parlato e che, come sape­
te, è di razza bastarda. Nel suo caso si potrebbe dire che, attraver­
so i vari incroci, siano riaffiorate antiche caratteristiche. Ad esem­
pio, il colore del mantello, sia suo che dei suoi cuccioli, presenta
stranamente delle caratteristiche che ho notato solo negli sciacalli
e non nei lupi. La statura molto bassa di questa cagna non è ne­
cessariamente un sintomo di “degenerazione”. Stina, infatti, non
presenta alcuna caratteristica che possa essere collegabile a feno­
meni del genere, anzi è, per così dire, un animale al massimo del­
25
l'efficienza. È, invece, più probabile che in lei sia stata “riattivata”
una statura che in epoche più remote era tipica di tutti i cani. Per­
sino le attuali specie grosse e feroci della famiglia dei canidi di­
scendono da antenati che non erano più grandi di una donnola.
Molte specie di volpi, ad esempio, non superano i venticinque o
trenta centimetri, come la volpe del Bengala in India o quella del­
l'America del Nord. Il più piccolo cane attualmente esistente è il
cane viverrino o procionide (specie: nyctereutes), con i suoi venti
centimetri di altezza alla spalla. Pare che di recente animali di que­
sta razza siano giunti fino a noi, passando per la Russia e la Polo­
nia. Forse anche la ritrosia che Stina mostra nei confronti degli es­
seri umani - mentre va molto d'accordo con i cani più grossi e con
i giovani sciacalli, senza mostrare la minima paura - potrebbe es­
sere il sintomo di una simile “riattivazione”.
Lo studio delle mutazioni del comportamento nell'ambito della
domesticazione è compito di una particolare branca dell'etologia.
Tuttavia, affinché il lettore non pensi che su questo punto il sotto-
scritto non abbia proprio nulla d'interessante da dire, racconterò
brevemente di un altro cane, Strixi, un bastardo trovato per strada
a Rott. Strixi è un cane affettuoso, intelligente, ma senza razza, co­
me se ne incontrano tanti da queste parti, forse un discendente di
antichissime razze di cani da pagliaio. In tutta la mia attività d'in­
croci, il buon Strixi doveva fare la sua parte e, poiché mi era molto
simpatico, gli assegnai come compagna una bella dingo. Lui, però,
da gran furbo qual è, pensò bene di accoppiarsi anche con un'altra,
con conseguenze non felici: riuscimmo a tenere in vita solo una ba-
stardina nerissima come il padre e con la quale Strixi ha continuato
a vivere. I cuccioli nati in seguito sembravano dei cani di pelouche,
con la testa vistosamente grossa e lo sguardo smarrito e accattivan­
te. Purtroppo non rimasero a lungo con noi, morendo poco dopo
aver compiuto i due mesi. L'autopsia rivelò delle insufficienze de­
generative al fegato, ai reni e anche al cuore.
Soltanto allora capii, sfortunatamente troppo tardi, di aver
commesso degli errori con i miei bastardi. Tutti i miei cani cresco­
no sani e vispi nei loro canili, senza nessun intervento da parte
dell’uomo. Avrei dovuto fare quello che, purtroppo, si fa molto
volentieri nei nostri allevamenti, cioè occuparmi di questi cuccioli,
dare loro pappe e vitamine, tenerli bene al caldo e crescerli con
quell’amore malsano per gli animali che ha fatto sì che molte delle
26
più belle razze canine oggi non sono quasi più in grado di soprav­
vivere senza l’uomo.
Per dimostrare questa mia supposizione attesi un’altra cuccio­
lata dei due cani e mi comportai come appena descritto. I tre cuc­
cioli nati godono di ottima salute (stavano quasi per morire quan­
do sono intervenuto io; volevo sapere se anch’essi erano deboli
come i fratelli della cucciolata precedente), sono vivaci, contenti e
giocherelloni, decisamente i più simpatici di tutta la compagnia di
cani che allora, quando loro sono nati, contava trentotto elementi.
A dieci settimane si comportavano come un cucciolo di quattro,
non particolarmente sveglio, poi hanno recuperato lo svantaggio e
oggi, a più di tre mesi, sembrano molto, o relativamente, vispi. Il
loro aspetto è sempre quello di cuccioli da latte, hanno delle gros­
se teste rotonde e a volte sono molto goffi nei movimenti. Dopo la
sesta settimana di vita non sono più cresciuti, ed è assai probabile
che rimarranno dei nanetti di venticinque centimetri di altezza.
D’altro canto per alcuni aspetti il bastardo Strixi non si com­
porta come un cane sicuro del proprio istinto, soprattutto nei rap­
porti con i suoi simili ma, poiché immagino che non abbia avuto
una giovinezza felice, è probabile che si tratti di disturbi del com­
portamento subentrati nella prima fase della vita e di cui ci occu­
peremo ancora nel corso del libro.
Per quanto riguarda i figli di Strixi, posso invece affermare che
sono la dimostrazione vivente di come si possa condurre un alle­
vamento veramente “da cani” aiutando con ogni mezzo la crescita
di cuccioli che altrimenti non avrebbero uno sviluppo normale. Il
mio esempio è un caso limite, ma pensiamo a che cosa avviene
quando per molte generazioni delle minime insufficienze nello
sviluppo, apparentemente trascurabili, vengono compensate con
amorose cure: il loro sommarsi porta inevitabilmente alla comple­
ta decadenza della razza, e alla fine si ottengono dei cani che non
sono più nemmeno in grado di partorire da soli, ma per i quali si
deve ricorrere al taglio cesareo. Oggi ne esistono già e se questo
modo di allevare ha ancora a che vedere con l’amore per gli ani­
mali, significa che l’uomo ha un senso di responsabilità davvero
scarso nei loro confronti. Amare le bestie non vuol dire allevare
degli storpi, ma evitare che esistano.

27
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II
Il polimorfismo della specie canina

I nostri antenati cacciatori non avranno certo cominciato ad alleva­


re cani catturando qualche centinaio di lupi o di altri canidi selvag­
gi, bensì adottando una cucciolata orfana di genitori, trovata da
qualche parte. Crescendo, quegli animali sono rimasti docili e han­
no continuato a vivere con l’uomo. Sopraggiunta la maturità ses­
suale, si sono poi accoppiati tra fratelli e sorelle, e anche i loro figli,
una volta in grado di procreare, si sono accoppiati fra loro e con
genitori, zii e zie. Questo è stato l’inizio di un tipo di allevamento
ritenuto a tutt’oggi il migliore. Gli animali crescono contenti e af­
fezionati all’uomo, il quale generosamente provvede alle loro ne­
cessità e, come ogni buon allevatore, vigila affinché non s’infiltri
qualche lupo selvatico che potrebbe pregiudicarne la docilità.
Quali sono le conseguenze di ciò? Una crescente diminuzione
della statura dei “lupi domestici” e la comparsa di una serie di mu­
tazioni nelle caratteristiche della specie, riscontrate nei rinveni­
menti non solo di cani, ma anche di altri animali, risalenti al perio­
do più antico della domesticazione.

Caratteristiche dell’allevamento: differenze della mutazione


I miei esperimenti di allevamento sono anch’essi orientati in tal
senso e dimostrano, attraverso molti e diversi esempi, come in un
lasso di tempo piuttosto breve si possa arrivare alla riduzione del-
29
la statura e all'alterazione di altre caratteristiche. Ferma restando
l’ipotesi formulata a proposito della domesticazione del cane, li­
mitiamoci per il momento a considerare il semplice accoppiamen­
to tra fratelli. Già gli individui generati presentano una generale
riduzione della statura, anche se con qualche eccezione legata al
fatto che, come il lettore ricorderà, l’esperimento da me realizzato
ha visto coinvolti due diversi tipi di dingo. Ma su questo argomen­
to torneremo più avanti. La diminuzione di statura diventa ancora
più evidente, stavolta senza eccezioni, in un caso particolare: la
mia dingo Buna, nata quando ancora vivevo a Norimberga, fu fat­
ta accoppiare, come d’uso, con il fratello Dingo (che si chiama
proprio così e appartiene a un privato). Il risultato fu una cagnetta
di nome Tanila. In seguito, Alfred Seitz mi procurò uno dei fratel­
li di Buna, proveniente da un’altra cucciolata dei genitori. Questo
cane robustissimo, di nome Motu, da adulto si accoppiò con Tani­
la, di cui era una sorta di zio (ma questo grado di parentela, alme­
no nell’Europa centrale, non s’instaura in seguito ad accoppia­
menti fra consanguinei). Buna e Motu hanno avuto finora due
cucciolate.
La prima era formata da due soli cuccioli, relativamente picco­
li, i quali però ci offrirono una grossa sorpresa: alla nascita non
erano nerastri, come tutti i cuccioli dingo, bensì color grigio ar­
gento chiaro, il maschio con una sfumatura azzurra, la femmina
con una sfumatura fulva. Purtroppo, nel recidere il cordone om­
belicale al maschio, Tanila gli aveva provocato delle lesioni alla cu­
te dell’addome e fui costretto a narcotizzarlo. La femmina, invece,
si sviluppò molto bene, anche se rimase un po’ più piccola della
madre Tanila che, a sua volta, è più minuta rispetto alle altre din­
go. Adesso, quindi, annovero fra i miei cani anche Arta - così si
chiama la cagnetta dallo strano colore - una specie di dingo in for­
mato ridotto che, statura a parte, non mostra nessun altro segno di
degenerazione. Al contrario, è vivacissima, straordinariamente
svelta e abile, e tutti coloro che capiscono qualcosa della struttura
fisica di un cane ne ammirano l’eleganza. Inoltre, Arta è amiche­
vole con tutti, a differenza degli altri dingo che, almeno al primo
approccio, si mostrano molto diffidenti verso gli estranei. Il suo
mantello color grigio argento chiaro, si è modificato nel corso del­
la crescita, ma in maniera completamente diversa da quanto acca­
de negli altri dingo. Il suo colore ora si avvicina molto a quello al­
30
bicocca del barboncino, che rappresenta una mutazione cromati­
ca ereditaria propria di quella razza. Non mi dilungherò oltre sul­
le altre peculiarità del colore del mantello di Arta, aggiungo solo
che un’ulteriore caratteristica importante di questa cagnetta è che
i tubercoli digitali medi non sono nettamente separati, bensì uniti
nella parte inferiore.
La seconda cucciolata di Tanila era costituita da un maschio e
da tre femmine, quattro in tutto. Il colore del mantello delle tre
femmine, anch’esse molto piccole, era quello normale di tutti i
cuccioli dingo, mentre il maschio era ancora grigio argento!
Questo esempio dimostra come, attraverso criteri di selezione
ben precisi, sia possibile ottenere mutazioni riguardanti la statura,
singole caratteristiche della struttura fisica, il colore e l’indole.
Ovviamente, si potrebbe pensare che la comparsa di queste
mutazioni nello spazio di poche generazioni abbia avuto origine
dall’accoppiamento iniziale di due tipi diversi di dingo. Ciò che
mi spinge a formulare questa ipotesi è il fatto che, in esperimenti
precedenti, ho notato con quanta rapidità si ottengano mutazioni
del genere incrociando topi di laboratorio con topi allo stato sel­
vatico.
Questa è la ragione che mi ha spinto a ibridare, come ho già
descritto, dingo ed elkhound, come pure una dingo con il cane da
pagliaio Strixi, ed è per questa stessa ragione che voglio continua­
re l’esperimento con i miei sciacalli. La spinta proviene anche da
un’altra considerazione: gli antichissimi cacciatori che per la pri­
ma volta ebbero l’idea di allevare una cucciolata di lupetti con pie­
no successo - sicuramente i giovani animali giocavano con i loro
bambini, mentre quelli adulti, grazie ai loro sensi particolarmente
sviluppati, avvertivano molto prima dell’uomo ravvicinarsi di ani­
mali predaci o di estranei - quella prima tribù di cacciatori, dice­
vo, sarà stata ben presto imitata da altre tribù vicine, e nel giro di
un tempo relativamente breve, molte di esse avranno dato l’avvio
a un proprio allevamento di cuccioli. Recenti studi archeologici
dimostrano come già nelle epoche più remote della civiltà umana
lo scambio di oggetti di ogni genere fosse molto diffuso. Possia­
mo, dunque, immaginare che anche i lupi domestici passassero da
una regione all’altra, magari raggiungendo zone popolate da un
sottogruppo di lupi completamente diverso. Di conseguenza, è
probabile che la mescolanza fra razze diverse sia avvenuta fin dal­
31
l’inizio del periodo cui risale l'addomesticamento, e che, di con­
seguenza, la specie canina abbia cominciato a differenziarsi molto
presto.
Anche i miei ibridi fra dingo ed elkhound, ottenuti per linea
diretta, ovvero per accoppiamento tra fratelli o fra genitori e figli,
di generazione in generazione diminuiscono di statura e la mia Sti-
na è, ancora una volta, l'esempio di come questo fenomeno si veri-
fichi rapidamente se si accoppia la madre con il figlio ibrido.
In tutti i discendenti non meno sorprendente è il colore del pe­
lo, molto differenziato, da quasi bianco a quasi nero, così come la
comparsa di alcuni elementi caratteristici del lupo e dello sciacal­
lo: insomma, il materiale è tanto che ci si potrebbe scrivere un vo­
lume intero. Poiché, però, ritengo che l’interesse dei miei lettori
sia soprattutto rivolto al comportamento di questi animali, vorrei
dire qualcosa al riguardo.
Di Stina ho già raccontato. I suoi due fratelli, Sven e Dove, so­
no dei simpatici cani che a volte si mostrano scontrosi con gli
estranei, un po’ come Stina. Credevo, tuttavia, che Sven sarebbe
stato un animale affettuoso, da tenere in casa, e così la pensava an­
che un mio conoscente che era molto attratto da questo bell’ani­
male quasi nero, con striature argentee, che voleva per sé a tutti i
costi. Feci venire il cane, che allora aveva un anno e cinque mesi,
nel mio studio e l’animale dimostrò subito simpatia per il mio co­
noscente, che lo fece salire in macchina per portarselo a casa.
Una settimana più tardi me lo restituì: in un ambiente estraneo
aveva manifestato lo stesso comportamento forastico della sorella
Stina! Non appena riportato nel suo vecchio recinto, si mise a sal­
tare tutto contento, leccandoci le mani, e diventò di nuovo il cane
più affettuoso del mondo.
In alcune occasioni, anche Dove, la sorella, si è mostrata schiva
come un animale selvatico. Una volta, ad esempio, si era ritrovata
per caso nel solaio, dove il ciarpame e la massiccia travatura del
tetto l’avevano resa sempre più timorosa. Aveva raggiunto un pun­
to della stanza per me inaccessibile, e lì si era rifugiata. Per alcune
ore ero rimasto a pochi metri da lei, tentando di attirarla fuori dal
suo nascondiglio, ma invano, anzi sortendo l’effetto opposto.
Questo gioco durò tre settimane. Avendo trovato il modo di uscire
sul tetto, Dove offriva ai miei visitatori lo strano spettacolo di una
cagna grigio argento con il muso nero, simile a un volpino di Po-
32
merania che, distesa sul comignolo a un’altezza vertiginosa, giace­
va placidamente al sole.
La situazione non mi piaceva tanto perché non mi lasciava al­
tra alternativa che prenderla per fame. Dall’alto della sua posta­
zione mi scrutava attentamente mentre davo da mangiare agli altri
cani, ma nemmeno questo riusciva a convincerla a scendere. Di
certo il solaio era ben popolato di topi, ma dubito che bastassero
a sfamarla. Inoltre, temevo che da un momento all’altro potesse
scivolare sulle tegole lisce e schiantarsi a terra, con la certezza di
ammazzarsi. Le zampe di un cane, però, sono come le scarpe da
roccia di uno scalatore e Dove passeggiava in lungo e in largo per
il tetto, sotto lo sguardo attento di tutti, persino degli altri cani.
Dopo tre settimane esatte, e la mia ennesima scalata fino al so­
laio, Dove venne giù e mi corse incontro, saltandomi addosso e
scodinzolando con gioia, proprio come fa ogni cane che sia stato
molto tempo lontano dal padrone. Rimasi senza parole. Come se
non fosse successo nulla, si lasciò prendere in braccio e riportare
da Sven, che la salutò con altrettanta effusione. Era smagrita, ma
non al punto di essersi indebolita fisicamente. All’inizio le ho dato
poco da mangiare per riabituarla gradualmente al regime norma­
le, e ora la cagna è ritornata a essere socievole com’è sempre stata.
Queste mie esperienze sono sufficienti a dimostrare quanto sia
difficile fare delle affermazioni sull’indole di cani del genere, ma
anche quante caratteristiche diverse emergano dall’ibridazione.
Per completare il quadro della variabilità di questi animali nei lo­
ro rapporti con l’uomo, dopo l’episodio di Dove e l’esempio della
docile cagnetta Arta, basterà menzionare un’ultima cagna del mio
allevamento. Si tratta di una delle figlie di Stina, che ha per padre
Sven. Quanto poco socievole è la mamma e, in certe situazioni,
anche il padre, tanto più disinvolta è la figlia nel ruolo di cane da
compagnia. Il conoscente che mi aveva restituito Sven, prese lei al
suo posto, ed è felicissimo di questa cagnetta, un po’ più alta della
madre Stina, vivace, affettuosa, ottima compagna di giochi di un
bambino di tre anni.
Se per “indole” di un cane intendiamo l’insieme delle qualità
che lo rendono un compagno più o meno buono per l’uomo, ope­
riamo una divisione fra indole e comportamento innato. In realtà,
poiché quest’ultimo comprende tutte le possibilità espressive insi­
te nei rapporti fra conspecifici e molte altre cose ancora, alcune
33
delle quali possono essere incluse anche nella definizione dell’in­
dole, possiamo affermare che non esiste una divisione netta. La­
sciando da parte quest’aspetto, però, quello che ora m’interessa è
stabilire invece se, attraverso i criteri cui si sono ispirati i miei
esperimenti di allevamento e d’ibridazione, si siano verificate an­
che altre imitazioni nel comportamento.
La risposta è sì, e per dimostrarlo citerò a questo punto un uni­
co esempio che, ancora una volta, ha come protagonista Tanila.
Mentre Sydney, una cagnetta dingo, partorisce con grande disin­
voltura e si occupa dei suoi cuccioli con estrema calma e sicurezza,
al punto che una volta io stesso non mi sono neppure accorto che il
parto era avvenuto, Tanila, ogni volta che deve partorire, viene col­
ta da grande agitazione. Appena i cuccioli sono nati, comincia a
mugolare e a lamentarsi, esce dal canile inquieta per ritornarvi solo
se i piccoli piangono, inoltre aggredisce il robusto Motu con una
tale violenza che il poveretto non sa più come proteggersi e mi toc­
ca tirarlo fuori dal recinto. Per finire, poi, si mette a ululare come
una pazza se solo oso avvicinarmi per guardare i cuccioli. Alla se­
conda cucciolata le cose sono andate ancora peggio, al punto di
avere l’impressione che tanta agitazione e irrequietezza sortiscano
come unico effetto quello di allontanare Tanila da ciò che invece
tenta di raggiungere con ogni sforzo. D ’altronde, non è raro ri­
scontrare un simile comportamento anche negli esseri umani.
Abbiamo così tracciato un quadro abbastanza completo di co­
me, all’interno della famiglia dei canidi, si sia giunti a una notevo­
le varietà d’individui, per quanto sia riguarda il colore del mantel­
lo che le caratteristiche comportamentali.
Avendo finora parlato esclusivamente di abbassamento della
statura, a questo punto viene naturale chiedersi da dove proven­
gano le razze di cani di grossa taglia, come i San Bernardo, i collie
e i mastini, che possono raggiungere un’altezza alla spalla di ottan­
ta centimetri.
Ho già accennato che nel mio allevamento di dingo esistono
anche delle eccezioni. Una di queste è il maschio Paroo, che supe­
ra notevolmente i genitori e i nonni in statura. Paroo è il mio din­
go più bello, un animale robusto, espressivo, dallo sguardo inten­
so accentuato dalle pieghe del volto. E figlio di Aborigeno e di
Suki, il fratello e la sorella che hanno dato inizio all’allevamento.
Già loro erano più alti della madre Gina, la snella australiana, e
34
naturalmente più alti del padre Luxl, proveniente dalla Nuova
Guinea, i cui arti sono più brevi di quelli di un normale dingo. Pa-
roo dimostra come nel corso di accoppiamenti successivi possa
verificarsi anche un aumento di statura, e io sono ansioso di vede­
re se mi sarà possibile mantenere questo aumento anche nelle ge­
nerazioni successive.
Tutte queste considerazioni e osservazioni, però, non devono
farci perdere di vista il fatto che finora abbiamo concentrato la
nostra attenzione su pochi episodi, strettamente limitati. Se, inve­
ce, riflettiamo su quanti diversi sottogruppi di lupi hanno parteci­
pato, nel tempo, al processo di addomesticamento dei nostri cani,
e teniamo presente che qua e là si sono sicuramente verificati de­
gli incroci con gli sciacalli, anche da quel poco che oggi ci è dato
sapere possiamo avere un’idea delle possibilità - sempre più varie
anche grazie alla costante moltiplicazione - di nuove combinazio­
ni e deirinflusso reciproco del patrimonio ereditario, che, a sua
volta, ha dato origine a mutazioni significative.
Considerando la portata di tutte queste possibilità, è facile ren­
dersi conto deirenorme varietà presentata dai nostri cani, anzi,
dovremmo addirittura stupirci che esistano “soltanto” quattro-
cento razze. Inoltre, stando così le cose, dovremmo anche stupirci
che i nostri cani, rispetto a tutto quello che può accadere nell’am-
bito del patrimonio ereditario, presentino ancora una quantità di
modelli comportamentali originali. A prescindere dai risultati di
alcuni allevamenti estremamente selezionati, con un po’ di abilità
e di fortuna è possibile ottenere di nuovo, attraverso opportune
combinazioni, una gamma di modelli comportamentali completa
e originale dalla maggior parte delle razze canine a noi note, o da
alcuni loro esemplari. Spesso mi meraviglio di quanti aspetti si
siano conservati intatti nei nostri migliori cani!

Mantello bianco e occhi rossi


Tutti conoscono i topi bianchi e i conigli dal pelo candido e
dagli occhi rosa. E difficile immaginare un cane con un aspetto
del genere, ma chi lo vuole vedere può farlo, visitando lo zoo di
Karlsruhe. Il direttore di quel giardino zoologico, Birkmann, è in­
fatti riuscito a ottenere una razza di dingo albini.
35
Questo fatto non è solo molto interessante dal punto di vista
zoologico in generale, ma ci offre una nuova opportunità di spie­
gare la varietà della specie canina. Tempo fa, mi sono occupato
d'incroci fra topolini bianchi da laboratorio e normali topi selvati­
ci. L'accoppiamento successivo dava come risultato degli individui
con tutte le possibili varianti di colore, ad esempio topi neri, gial­
lo-marrone, grigi. Inoltre, sono riuscito a ottenere delle notevoli
mutazioni del comportamento, come una sempre maggiore ag­
gressività nei topi che finivano per sterminarsi a vicenda poiché,
invece di accoppiarsi, i partner sessuali si uccidevano a morsi. Ho
ottenuto persino topi che nelle zampe posteriori avevano quattro
dita invece di cinque, pur presentando un piede perfettamente
funzionale e di forma normale, cosa che mi ricorda un po’ i tuber­
coli digitali semiuniti di Arta. Una volta, accoppiando criceti di
colore normale e albini, ho ottenuto un criceto la cui testa somi­
gliava a quella di un mops (un cane più noto col nome di carlino),
che però non è vissuto a lungo.
Incrociando esemplari dal colore normale con esemplari albini,
e continuando ad allevarli nella sequenza normale, si possono dun­
que ottenere i risultati più imprevedibili. Questi esperimenti sono
molto avvincenti, al punto di dare l’impressione che basterebbe
avere un albino di una qualsiasi specie animale per riuscire a sele­
zionare tutte le forme di animale domestico fino a oggi conosciute.
Per lungo tempo ho riflettuto sull’ipotesi che la presenza di un
individuo albino possa davvero essere stata determinante per ogni
mutazione relativa all’addomesticamento. Gli albini, infatti, si ot­
tengono non solo grazie all’allevamento selettivo, com’è stato fatto
a Karlsruhe, ma esistono anche in natura. Sono state scoperte giraf­
fe e zebre albine, e da tempo immemorabile si conosce il cervo
bianco, come pure caprioli, martore, scoiattoli e talpe albini. Si può
quasi affermare che non esiste, sulla Terra, specie animale che non
presenti individui albini. Persino fra gli uomini la comparsa di albi­
ni non è così rara, anche se i popoli primitivi, almeno all’inizio, ne­
gavano l'evento eliminando i neonati albini subito dopo il parto.
Come mai esistono individui albini? Oggi sappiamo che si trat­
ta di una mutazione genetica ma, pur avendo studiato le alterazioni
psicologiche degli individui interessati e come si eredita l'albini­
smo, non siamo arrivati a conoscerne la causa prima. Può darsi che
a provocare tale variazione sia ancora una volta un incrocio fra
36
consanguinei diretti, che può avvenire anche in popolazioni uma­
ne numericamente esigue, che vivono allo stato naturale e isolate.
Sappiamo, tuttavia, che gli animali selvatici albini hanno sem­
pre suscitato grande interesse presso i popoli primitivi, e ancora
oggi la comparsa del cervo bianco, con la sua croce luminosa fra
le corna, è un retaggio di superstizione medievale. Gli antichi egi­
zi - come anche i cinesi, assai abili nell’allevamento di animali -
consideravano il topo bianco un portafortuna, e probabilmente in
epoche ancora precedenti era lo stesso. Il possesso di un animale
albino vivo doveva far apparire lo stregone o lo sciamano simile a
un semidio agli occhi della tribù, pertanto non sarebbe da respin­
gere a priori l’ipotesi che gli albini abbiano avuto un ruolo non
trascurabile nel processo di domesticazione anche dei nostri cani.
Per lo sciamano non doveva essere facile scovare un altro lupo al­
bino da far accoppiare con il suo lupo bianco, perciò deve aver­
gliene procurato uno normale, dando così inizio a un processo
d’ibridazione, che è quanto basta per avvalorare la nostra teoria.
A ciò va aggiunto il fatto che gli animali albini sono molto più
facili da addomesticare degli altri. A differenza di un topo norma­
le, un topo albino lo si può tranquillamente tenere su uno scaffale
senza che salti giù. Inoltre, i ratti albini sono straordinariamente
docili, confermando che, anche da questo punto di vista, gli indi­
vidui albini sono i più adatti alla domesticazione.
Apriamo così un capitolo molto interessante e fondamentale
per capire il cane. E, infatti, provato che non solo gli individui al­
bini e quelli normali sono molto diversi fra loro sotto il profilo
comportamentale, ma anche che le mutazioni cromatiche che
compaiono negli incroci successivi rimandano a notevoli mutazio­
ni del comportamento. Colore e comportamento sono dunque in­
dubbiamente connessi tra loro, e la cosa non deve meravigliare: il
sistema nervoso e la pelle, infatti, hanno origine dal cotiledone
esterno di quel precoce stadio evolutivo dell’embrione denomina­
to gastrula. Tale strato esterno di cellule sviluppa l’impianto cere­
brale e il restante sistema nervoso, insieme alla pelle e ai peli, non­
ché alla pigmentazione. Si potrebbe pensare che il colore sia l’e­
spressione visibile dell’intero “equipaggiamento” nervoso.
Chi ha una certa esperienza di cani da pastore spesso afferma
che gli esemplari più ricchi di pigmenti, cioè quelli con il mantello
prevalentemente scuro, hanno un temperamento più forte di quelli
37
chiari. Prendiamo, ad esempio, la pantera nera, che dovrebbe esse­
re particolarmente feroce, almeno secondo i libri di avventure e
quanto si afferma nei circhi dove questi animali si esibiscono. In un
racconto di cavalli, se si parla di un maschio particolarmente foco­
so, di solito si tratta di un morello. Nella nostra fantasia gli animali
neri emanano sempre qualcosa di misterioso, basti leggere la descri­
zione dello schwarzer Pudel, il barbone nero, nel Faust di Goethe. A
onor del vero, bisogna qui specificare che quell animale non ha nul­
la a che vedere con i nostri cani barboni, ma è stato scelto da
Goethe in ricordo dell'antico cane da pastore tedesco, pericoloso e
feroce, lo Schafpudel, appunto, che era un mezzo lupo per davvero.
A questo punto si potrebbe obiettare che Tunica circostanza
assodata è che il colore nero è stato sempre associato, fin dai tem­
pi più antichi, a qualcosa di misterioso, di mistico, forse per una
reminiscenza ancestrale della “notte nera”, irta di pericoli per
l'uomo primitivo. Ciò è certamente possibile, fatto sta, però, che
di recente si è addirittura riusciti a provare l'esistenza di un colle­
gamento, almeno nei cani, tra colorazione scura e temperamento.
L’etologo praghese Zdenko Martinek, grazie a un sistema da lui
stesso ideato, ha condotto delle misurazioni sull’attività dei cani,
riuscendo a dimostrare che, in un dato allevamento preso in esa­
me, gli esemplari neri erano più vivaci degli altri di colore diverso.
D ’altra parte, però, non si può banalizzare il tutto affermando
che basta vedere il colore del mantello di un cane per conoscerne
l’indole. Alcuni individui con scarsa pigmentazione potrebbero,
ad esempio, possedere il fattore recessivo per la colorazione nera,
cioè un patrimonio genetico che non si manifesta a livello esterio­
re. Di conseguenza, come hanno dimostrato gli esperimenti con­
dotti da Zdenko Martinek, in casi del genere anche i cani dal man­
tello chiaro possono presentare il temperamento tipico di quelli
neri. Ciò emergerà con chiarezza attraverso incroci successivi con
un partner nero, pure recessivo: due cani chiari, che presentano
una spiccata vivacità, avranno sicuramente dei figli neri.
Allo stato naturale, oltre agli albini esistono anche individui
completamente neri, ad esempio la già citata pantera nera. Tuttavia,
in natura s’incontrano anche individui fulvi, e sappiamo anche di al­
tre mutazioni di colore, ad esempio nella talpa, di cui sono ben note
le macchiettature. Ciò che hanno dimostrato i miei esperimenti sui
topi, che ho prima ricordato, si verifica dunque anche in natura,
38
senza l'intervento dell'uomo. Siamo soliti parlare di “colori della
domesticazione'', ma temo che dovremmo rivedere tale concetto, o
introdurre quello di “autodomesticazione" nel senso della possibile
comparsa di fenomeni di domesticazione allo stato naturale, che
sfuggono ai criteri dell’allevamento selettivo da parte dell’uomo.
È noto, inoltre, che nei parchi delle grandi città i merli in parti­
colare presentano in misura sempre crescente delle screziature
bianche, e di recente ho avuto notizia di un merlo con le penne gri­
gio-rossastre. Ciò mi spinge ad affrontare un altro argomento che di
certo interessa molti allevatori di cani. Gli standard1ufficiali di mol­
te razze canine prescrivono che gli esemplari non abbiano macchie
bianche né sul petto né sul ventre né in nessun altro punto, o che
non presentino la punta della coda bianca né le zampe bianche,
poiché ciò viene considerato un difetto. L’esplicita menzione di tali
caratteristiche negli standard ufficiali implica, pertanto, che talvolta
possono comparire o sono comparse simili macchie.
I miei dingo, come ho raccontato, presentano queste macchie
di colore bianco. Ce l’ho messa tutta per ottenere anche animali
che ne fossero privi, ma devo ammettere di aver fallito nell’inten­
to. Solo il magnifico Paroo sembra essere sulla buona strada, in­
fatti l’estremità della coda non è bianca, la macchia che ha sul pet­
to è piccolissima e anche sulle zampe il colore bianco interessa
una superficie molto ridotta.
Questi fenomeni di “albinismo parziale” sono considerati an-
ch’essi caratteristici degli animali domestici e notoriamente com­
paiono molto spesso nel processo di domesticazione. Come si
evince dai merli maculati, però, l’intervento umano non è indi­
spensabile. In una piccola e sperduta palude della Norvegia cen­
trale, ho incontrato una popolazione, molto isolata, di arvicole,
anche chiamate ratti d’acqua, la maggior parte delle quali aveva
almeno gli artigli bianchi, se non addirittura le dita o la punta del­
la coda. Uno degli animali da me catturati aveva persino della pe­
luria bianca sulla fronte. Si sarebbe, dunque, trattato di un caso di
‘autodomesticazione” allo stato naturale.
Per quanto riguarda l’origine del dingo, queste e altre conside­
razioni mi hanno spinto a formulare un’ipotesi che potrebbe spa­
lancare nuovi orizzonti allo studio delle razze canine. Parto dal
presupposto che i dingo, portati in Australia dagli aborigeni, non
fossero affatto degli animali domestici, bensì selvatici. Certamente
all’inizio non saranno stati molti e quando, nel corso di vari mil­
lenni, si moltiplicarono, dovette verificarsi per forza un frequente
incrocio fra consanguinei e, di conseguenza, un’“autodomestica­
zione”. Così probabilmente sono sorte le caratteristiche da anima­
le domestico che ritroviamo nei dingo.
Quale specie di cane selvatico avrà acquisito il “diritto di citta­
dinanza” in Nuova Guinea e in Australia? Sappiamo che gli abori­
geni sono venuti dall’Asia meridionale dove vive una razza di cani
selvatici che non è stata quasi studiata, quella del cuon o cyon. Que­
sto genere di carnivori fu classificato a parte perché chi li descrisse
per primo credeva che il numero dei loro denti fosse ridotto a qua­
ranta. Così, a tutt’oggi è in uso questa classificazione, anche se è
stato verificato che i cuon possiedono quarantadue denti come il
nostro cane, il lupo e lo sciacallo. Il tipo di cuon che vive nella pe­
nisola malese, a Sumatra, a Giava e nel Borneo, l’ajag (cuon javani-
cus), si differenzia a malapena dal dingo in termini di figura, colore
e statura; fra l’altro, in quelle stesse regioni vivono dei cani indigeni
che discendono in maniera inequivocabile dal cuon. Bisognerebbe
studiare più a fondo i cuon, perché sarebbe un vero peccato se gli
ultimi esemplari di questa specie fossero sterminati prima che la
scienza si decidesse a occuparsene.

Lindividualità dei nostri cani


La formazione del patrimonio ereditario, estremamente vario,
dei nostri cani, si può spiegare dunque in molti modi, anche consi­
derando che non si è ancora accennato al fatto che molte delle at­
tuali razze canine sono state ottenute incrociando due, tre o più
razze, frutto a loro volta di precedenti incroci. Ottenere attraverso
la selezione una nuova razza canina con un patrimonio ereditario
stabile presuppone già una notevole esperienza di allevamento.
Occorrono abilità, pazienza e tempo, oltre a una notevole quantità
di soldi! Gli esemplari di nuova creazione sono relativamente
semplici da capire e da studiare; d’altronde, poiché le loro caratte­
ristiche di base derivano da razze già esistenti, non hanno molto a
che vedere con le mutazioni della domesticazione. Tuttavia, è logi­
co che proprio questi nuovi individui siano particolarmente a ri­
schio di perdere sempre più il loro istinto.
Un'altra causa del comportamento diversificato dei cani è il fe­
nomeno della neotenia2 o infantilismo, che comprenderemo me­
glio dopo esserci occupati più diffusamente dello sviluppo e del
comportamento del cane durante il periodo giovanile.
Osservando il normale evolversi del comportamento del cuc­
ciolo, scopriremo un'ulteriore causa di alterazioni comportamen­
tali, ovviamente non ereditarie, che, a mio avviso, giocano un ruo­
lo molto più decisivo di quelle ereditarie nel determinare la varie­
gata individualità dei nostri cani. Sappiamo già che all'interno di
un branco di lupi si possono notare, fra un individuo e l'altro, dif­
ferenze non solo innate, ma in parte acquisite durante il periodo
giovanile. Si tratta di un fatto normale che offre al branco una se­
rie di vantaggi. Nei nostri cani, invece, questo fenomeno, che di
solito si presenta in forma molto più accentuata, può portare non
solo a disturbi del comportamento, ma persino a delle nevrosi.
Esiste già una letteratura su questo triste capitolo dell'esistenza
canina, e alcuni veterinari si sono specializzati in questo ramo.
Con vero raccapriccio, ho letto un esaustivo lavoro di Ferdinand
Brunner, studioso viennese di cinopsichiatria, che a malapena si
distingue dalla relazione di uno specialista in psichiatria umana:
per il novantanove per cento le cause di queste penose turbe psi­
chiche risalgono al periodo giovanile dell’animale.
La cosa migliore che possiamo fare è osservare con la massima
attenzione i cani che hanno avuto un normale sviluppo nel perio­
do giovanile, senza presentare turbe né alterazioni del comporta­
mento. Questo è uno dei temi più affascinanti dell’etologia, e inol­
tre contiene la chiave di tutto quanto contribuisce a formare il fu­
turo cane adulto, che è il prodotto non solo del patrimonio eredi­
tario ma del proprio sviluppo giovanile. Si può senz’altro afferma­
re che un cane che non possieda un buon patrimonio ereditario,
ma abbia avuto uno sviluppo armonioso nella giovinezza, diven­
terà un individuo migliore di un altro che, pur avendo a disposi­
zione un miglior patrimonio ereditario, abbia vissuto delle espe­
rienze negative durante il periodo giovanile. Forse molti allevatori
moderni, più attenti al pedigree e ai premi che alle prime settima­
ne di vita del cucciolo, stenteranno a crederlo. Chi, però, seguirà
attentamente ciò che diremo sull’argomento, alla fine non potrà
che darmi ragione.

41
■»,
Ill

Le prime settimane di vita

Il bruco che si schiude dall’uovo di farfalla è, per l’aspetto e per il


modo di vivere, essenzialmente diverso dai suoi alati genitori, e
non si può certo stabilire la loro parentela confrontando le varie
parti del corpo o i modelli comportamentali. Se vogliamo sapere a
quale specie di farfalle appartenga un determinato bruco, dobbia­
mo aspettare pazientemente che cresca, cambi la pelle e diventi
una crisalide, da cui finalmente nascerà la farfalla. Il fenomeno
delle varie forme assunte in fasi successive dallo stesso individuo,
molto diffuso nel regno degli insetti, si chiama “metamorfosi”.
Nei vertebrati sono soprattutto i rospi e le rane a presentare
una trasformazione analoga: le loro larve, denominate girini, si
differenziano nettamente dai genitori sia per la struttura fisica che
per come vivono. La trasformazione avviene, comunque, meno
rapidamente di quanto avvenga negli insetti. Il girino, che all’ini­
zio consiste di una testa direttamente innestata sul ventre e di una
coda, sviluppa a poco a poco prima le zampe anteriori, poi quelle
posteriori, molto più allungate. Alla fine la coda scompare e il mi­
nuscolo rospo o la ranocchia emergono dall’acqua per vivere, a
partire da quel momento, sulla terraferma. Si tratta, dunque, di
un passaggio piuttosto complesso da uno stadio all’altro, che av­
viene nel periodo giovanile. Gli anfibi raggiungono l’età adulta e
la maturità sessuale solo nell’arco di alcuni anni.
Quanto appena descritto viene in mente osservando anche un
cucciolo di cane appena nato.
43
Un cagnolino incompleto?
La creatura che la cagna estrae amorosamente con i denti dalla
membrana che l'avvolge, ripulendola poi con la lingua, non somi­
glia minimamente a un fiero cane da pastore o a un elegante le­
vriero: è un fagottino informe con le zampette corte e tozze, la te­
sta rotonda troppo grossa e una minuscola coda. Mentre quest'ul-
tima non sembra ancora possedere una funzione precisa, la gran­
de testa rotonda si muove in continuazione, ciondolando di qua e
di là senza sosta. Appena ripulita dalla lingua della mamma, la
strana creaturina si rizza subito e fa come per cercare qualcosa in
terra, un movimento che ricorda lo strisciare delle salamandre. Il
cucciolo è molto impacciato e sembra dover impiegare tutte le sue
energie per portare in avanti il pesante tronco e la grossa testa. E
la situazione non cambia nelle due settimane che seguono.
Nel caso di un vitello o di un puledro appena nati, invece, la
questione è completamente diversa. Pur non avendo le proporzio­
ni esatte dei genitori, si può da subito riconoscere di che animale
si tratta, tale è la somiglianza. Dopo circa mezz'ora, cioè dopo un
breve esercizio sulle gambe ancora incerte, il puledro cammina
proprio come un cavallo, il vitello come una mucca, e anche tutti
gli altri movimenti sono simili a quelli dei genitori.
Da questi esempi, si evincono due diversi sistemi della natura,
da considerare come adattamenti a precise condizioni di vita. Il
cavallo e il bue sono animali che vivono in gregge e, in quanto er­
bivori, spesso soggetti a lunghi spostamenti giornalieri. I piccoli,
nati aU’interno di un gregge che si sposta in continuazione, sono
costretti a seguire gli altri sin da subito, se non vogliono diventare
preda di animali di ogni specie. Solo restando all'interno di un
grande gregge sono sicuri e al riparo. Ecco perché nascono già ab­
bastanza sviluppati, per essere in grado di adeguarsi immediata­
mente ai ritmi di vita dei loro conspecifici adulti.
Diversa è, invece, la situazione degli animali da preda della
specie dei canidi, ovvero lupi, sciacalli, coyote, volpi e altri, che vi­
vono in piccole comunità, molti soltanto in coppie. La prole viene
partorita in un nascondiglio sicuro - di solito una tana che i geni­
tori scavano nella terra - dove vive per un certo tempo.
Bisogna, inoltre, considerare che gli animali da preda che caccia­
no animali in grado di fuggire non possono permettersi una gravi-
danza troppo prolungata. Una lupa che portasse nel ventre i suoi
cinque o sei cuccioli finché questi non fossero in grado di seguirla
nelle sue uscite alla ricerca di cibo, alla fine sarebbe così pesante e
impedita nei movimenti da non riuscire a stanare nemmeno un topo.
Ma per quale motivo questi animali da preda non si acconten­
tano di un unico cucciolo, come gli animali da branco erbivori?
Questa è un'altra peculiarità degli animali predatori: essi, infatti,
non sono in condizione di formare una comunità tipo gregge, poi­
ché la loro tavola non è così riccamente imbandita come quella
degli erbivori delle steppe. Per una comunità ristretta la lotta per
la sopravvivenza è senz’altro molto più dura e a rischio di perdite.
Un maggior numero di piccoli serve, pertanto, ad assicurare la
continuità della specie e, in tal senso, il “sistema plurigemellare”
può essere anch’esso inteso come una forma di adattamento.
La necessità di una cucciolata composta da almeno cinque in­
dividui è stata dimostrata nel 1941 dallo scienziato russo Sewer-
zow che, sulla base di precise osservazioni, riscontrò che il qua­
rantacinque per cento dei cuccioli di lupo muore entro il primo
anno di vita, un altro trentadue per cento entro il secondo: in altre
parole, il settantasette per cento di tutti i lupacchiotti ha zero
chance di sopravvivere! Pertanto, poiché i lupi raggiungono la
maturità sessuale intorno ai ventidue mesi, la probabilità che, di
una cucciolata di tre individui, almeno uno contribuisca alla con­
tinuazione della specie è quasi nulla. Inoltre, queste percentuali
danno un’idea di quanto sia dura la selezione naturale fra questi
animali, basata sulla capacità di sopravvivenza.
Come è avvenuto per i canidi, la soluzione migliore è, dunque,
che i cuccioli nascano nel minor tempo possibile per non intral­
ciare le attività di caccia materne. Tutti gli allevatori di cani sanno
bene che durante i primi trenta o trentacinque giorni di gravidan­
za è difficile accorgersi se una cagna è gravida; gli embrioni, infat­
ti, si sviluppano lentamente per non compromettere l’agilità della
madre. Successivamente, si verifica una crescita molto rapida, ma
anche così la cagna che porta cinque o sei cuccioli in grembo non
s ingrossa molto e resta agile, cosa che sarebbe impensabile se la
gravidanza si protraesse più a lungo. Il cucciolo passa, quindi, dal
riparo del corpo materno a quello altrettanto sicuro di una tana.
Per capire meglio come viene protetto il neonato, dobbiamo
innanzi tutto esaminare la tana. Lo zoologo moscovita Ognew
45
scrive in proposito: “I lupi hanno delle tane semplicissime. Nelle
torbiere e nelle pianure settentrionali, regioni inaccessibili e ac­
quitrinose i lupi, in coppie, cercano dei luoghi asciutti. La tana è
costituita da una semplice buca, dal fondo piatto e duro. Nella
steppa i lupi costruiscono la tana in fondo a delle forre o ai piedi
di pendìi scoscesi o di ripide sponde, in punti ben riparati dal sot­
tobosco e dai rampicanti. E interessante osservare che, nei territo­
ri desertici e nella steppa semideserta, i lupi a volte vivono anche
in grotte utilizzando, come avviene ad esempio nella steppa del
Baikal, quelle dei bobak, le marmotte dell’Asia centrale”.
I lupi, dunque, cercano innanzi tutto un nascondiglio sicuro,
poi, una volta trovato, vi scavano una buca dal fondo piatto.
Con un nascondiglio sicuro a disposizione, è possibile lasciare i
cuccioli soli per ore e allontanarsi alla ricerca di cibo. Da ciò appare
chiara l’opportunità che i cuccioli non nascano già completamente
sviluppati: in questo modo, infatti, non sono in grado di abbando­
nare la tana con il rischio di essere catturati da altri predatori. La
forma della buca risospinge i cuccioli che tentano di uscirne al cen­
tro, evitando che possano smarrirsi. Inoltre, di solito si adattano co­
sì bene alla loro cuccia che starne fuori non li attira affatto. Un cuc­
ciolo che per una circostanza qualsiasi esce all’aperto si mette a ug­
giolare allertando i genitori, che subito vanno a riprenderlo.
In realtà non è esatto affermare che i cuccioli sono “imperfetti”
poiché, al contrario, sono perfettamente adatti alle condizioni in cui
si svolge la prima fase della loro esistenza, proprio come lo sono i gi­
rini alla vita nello stagno. Il fatto che la cagna, a differenza della ca­
valla o della mucca, non porti in grembo i propri piccoli fino al loro
completo sviluppo, non significa che i cuccioli di cane perdano la
protezione del corpo materno a uno stadio quasi embrionale: la na­
tura li ha forniti di tutto ciò di cui hanno bisogno nei primi giorni di
vita e che costituisce la base del loro successivo sviluppo.

I primi minuti di vita


Vorrei ora illustrare, con l’ausilio di due esempi di parto molto
diversi tra loro, ciò che i primi minuti di vita di un cucciolo sono
in grado di rivelarci.
II primo di questi parti, che era anche il primo cui assistevo, ri­
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sale a oltre vent’anni fa. Xanthi, una femmina di cane lupo, era
stata chiamata così dalla famigerata moglie di Socrate ma, a diffe­
renza di Santippe, era fedele e devota al marito Xingu. Docile e
affettuosa, dopo che ebbi allontanato il maschio, che annusava in­
torno tutto eccitato, non si dimostrò affatto contraria a che le stes­
si vicino in quel particolare momento, e alla fine premiò la mia pa­
ziente veglia notturna con sei vivaci cuccioli. In tutta la faccenda,
10 avevo la stessa esperienza della cagna che partoriva per la prima
volta ma, a differenza di me, lei “sapeva” come liberare dalla
membrana i cuccioli rannicchiati su se stessi e recidere con delica­
tezza il cordone ombelicale. Ero così affascinato dalla scena che
avevo davanti agli occhi, da non osare quasi muovermi, e certo
stare immobile era la cosa migliore che potessi fare per non di­
sturbarla. Dopo tre ore buone, era tutto concluso e la cagna aveva
ripulito con la lingua i sei cuccioli e i propri genitali.
Quanto a me, mi trovavo invece ad affrontare un difficile pro­
blema. A quel tempo, era consuetudine a Vienna che soltanto
quattro cuccioli di uno stesso parto potessero essere candidati al­
l’ambitissimo pedigree. Allevatori esperti ritenevano, inoltre, che,
in linea di principio, non fosse opportuno affidarne un numero
maggiore a una cagna primipara, relativamente giovane. Che fare?
In base a quali elementi operare una scelta?
La decisione va presa entro le prime ore di vita dei cuccioli.
Come si può sapere, però, se i cuccioli eliminati senza un criterio
preciso non siano proprio quelli destinati a diventare gli esempla­
ri più belli e più bravi? Ovviamente, è facile scegliere quando in
una cucciolata sono presenti anche individui che presentano dei
difetti, ad esempio delle grosse macchie bianche. Capita anche
che ci siano dei cuccioli deformi, storpi o particolarmente piccoli,
per cui la selezione non costituisce certo un problema. Ma che fa­
re con sei cuccioli tutti sani e tutti uguali?
Mentre mi arrovellavo su questo dilemma, osservavo uno per
uno quegli esserini e i loro sforzi per raggiungere il caldo ventre
della madre, che continuava a leccarli, e per infilare il loro tozzo
Musetto fra i peli. Grazie all’aiuto della mamma, che li guidava con
11naso, nel giro di poco quattro dei cuccioli erano già attaccati ai
capezzoli e succhiavano beatamente. Solo due giacevano lì vicino
e>pur se dimenavano la testa e ogni tanto stendevano in avanti una
delle zampette anteriori o puntavano una di quelle posteriori, non
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sembravano affatto così affamati come i fratelli. Qualche cucciolo
si era già rivolto alla fonte del nutrimento ancor prima che fossero
tutti raccolti insieme, ma allora la cagna lo aveva respinto perché
era ancora troppo impegnata nel parto. Uno dei due cuccioli che
non succhiavano era l’ultimo nato, l’altro era nato per secondo o
terzo, ed era un maschio.
Allora ebbi un’illuminazione: se i due non si erano ancora at­
taccati, forse era perché la loro vita non era ancora davvero co­
minciata, perciò li presi e li portai fuori dalla stanza, senza che la
cagna, occupata com’era, se ne accorgesse...
Il secondo parto che voglio descrivere ebbe luogo vent’anni
più tardi, e anche stavolta si trattava di una primipara, la dingo
Buna. Quando stava per avvicinarsi l’ora del parto, mi trovavo
nella stanza con altre cinque persone che, ovviamente, volevano
tutte assistere all’evento. Dovetti spiegare loro, in maniera piutto­
sto esplicita, che la loro presenza avrebbe disturbato la cagna.
Questo è, infatti, ciò che affermano tutti i libri sull’argomento:
una cagna in procinto di partorire ha bisogno di tranquillità asso­
luta. Quando però la prima persona, convinta dalle mie parole,
accennò ad allontanarsi, Buna saltò fuori dalla cuccia e cominciò a
leccarle le mani uggiolando, facendole chiaramente capire che vo­
leva che restasse. Lo stesso accadde quando un altro fece per an­
darsene, poi quando si mossero una terza e una quarta persona.
Fu così che restammo tutti con la cagna, che apparve molto con­
tenta della nostra decisione. Dettai alla mia collaboratrice alcuni
appunti sullo svolgimento del parto e scattai una foto dopo l’altra.
Nel giro di cinquantanove minuti Buna diede alla luce tre cuccio­
li. Quattro minuti dopo la nascita e ventuno minuti prima della
nascita dell’ultimo fratello, il secondo cucciolo aveva già raggiunto
il capezzolo materno e cominciato a succhiarlo avidamente.
E gli altri due? Cercarono un po’, ma senza riuscire a trovare le
mammelle. Allora li avvicinammo noi, ma anche così non succhia­
rono. Alle 18.55 il primo cucciolo pesava 312 grammi, il secondo
310 e il terzo 305. Erano passati pochi minuti dalla nascita dell’ul­
timo cucciolo. Alle 24 il loro peso era rispettivamente di 309, 310
e 295 grammi. Alle 12 del giorno successivo eliminai il terzo, il cui
peso era sceso a 235 grammi e, qualche tempo più tardi, il primo,
che pesava appena 242 grammi.
Il secondo cucciolo - che oggi si chiama Tanila ed è già, a sua
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v olta mamma - in quelle stesse ore pesava già 402 grammi, cioè
era aumentato dalla nascita di ben 92 grammi. Tanila è diventata la
dingo più vivace che abbia mai conosciuto, una creatura incredi­
bilmente vispa, abile e sveglia, ricca d’inesauribile energia vitale.
Eccoci, dunque, al nocciolo della questione. L’energia vitale di
Tanila non era il risultato di un tipo di allevamento particolarmen­
te complesso, integrato dall’uso di vitamine e da una dieta su mi­
sura. Tanila è cresciuta proprio come tutti gli altri miei cani, senza
preparati speciali, senza nessuna delle tanto pubblicizzate vitami­
ne senza alcun tentativo di migliorare un prodotto della natura
con l’ausilio di tecniche umane. La vitalità di Tanila è solo ed
esclusivamente il frutto di una felice combinazione dei patrimoni
ereditari dei suoi genitori, e questa vitalità era apparsa evidente
fin dai primissimi istanti.
Non solo questi due episodi, ma molte altre nascite di cani cui
ho assistito, mi hanno portato alla seguente conclusione: i primi
minuti di vita dei cuccioli ne rivelano chiaramente la stoffa. Ricor­
diamo che il cucciolo neonato non è un cane in miniatura, ma
rappresenta un particolare stadio della vita limitato nel tempo e
caratterizzato da un proprio adattamento alle circostanze esterne.
Non possiamo né dobbiamo valutare le manifestazioni vitali a es­
so associate con gli stessi criteri che adottiamo per un giovane ca­
ne di due o tre mesi né, tantomeno, con quelli validi per un cane
adulto. Occorre, quindi, formulare un criterio di giudizio adegua­
to a questa fase di passaggio nella riproduzione della specie.
Il patrimonio ereditario di un cucciolo non è semplicemente
un miscuglio delle qualità materne e paterne poiché, in realtà, i
patrimoni dei genitori possono influenzarsi a vicenda in vari mo­
di- Negli individui delle razze canine più selezionate, dove è fre­
quente l’incrocio fra consanguinei, ciò si verifica molto spesso e
con conseguenze decisamente negative. È facile, infatti, che com­
paiono fenomeni di degenerazione che di solito si ritrasmettono,
poiché in genere si tratta di alterazioni del patrimonio genetico.
Non ci sarebbe stato bisogno di un esperto per allevare artifi­
cialmente i cuccioli di Buna. Supponiamo che l’avessi fatto perché
una apparteneva a una razza che allora andava molto di moda e i
cui cuccioli si vendevano a caro prezzo. Supponiamo anche che
0ssi stato un freddo commerciante e che mi fossi detto che un
unico cucciolo non mi avrebbe fatto guadagnare abbastanza. In
49
tal caso, li avrei venduti tutti e tre, e loro avrebbero avuto un
aspetto splendido e avrebbero ricevuto il loro bravo pedigree con
cui fare il loro ingresso nella vita...
Nessuno avrebbe sospettato il mio inganno sia nei confronti
dell’acquirente, convinto di acquistare un cane di razza, sano e di
valore, che del cane stesso!
Se un cucciolo non impegna tutte le proprie forze per raggiun­
gere la mammella sin dai primi istanti di vita, vuol dire che il suo
patrimonio genetico non è integro, e la causa di ciò non è attribui­
bile a circostanze esterne. Ho assistito alla nascita di cani in locali
riscaldati, così come a parecchi gradi sotto lo zero, ma non ho mai
riscontrato differenze nel comportamento dei cuccioli. Se erano sa­
ni, non appena riuscivano a puntare i piedi, sentivano nient’altro
che un fortissimo impulso a raggiungere la fonte del nutrimento.
Il cucciolo appena nato è una creatura piena di vita che manife­
sta la propria gioia per essere finalmente venuta al mondo. Nelle
mie cagne dingo, che essendo animali allo stato naturale considera­
no il parto un evento del tutto normale, ho potuto osservare con at­
tenzione e fotografare più volte il momento in cui il cucciolo sta per
uscire dall’utero materno, notando in alcuni casi che la membrana è
già lacerata prima che sia uscito completamente. In quel momento,
la sua testa comincia a oscillare da ogni lato, come se fosse già alla
ricerca del capezzolo. Subito dopo la bocca si spalanca e, mentre le
zampe posteriori sono ancora avvolte in residui di membrana, ri­
suona il primo, acuto strillo. Ovviamente la mamma vuole subito ri­
pulire la sua creatura leccandola, ma il cucciolo si comporta come
molti bambini che non si vogliono lavare e tenta in ogni modo di
sottrarsi alla sua lingua, attirato invece dal calore del suo corpo.
Dunque, già durante il parto, e forse addirittura prima, l’atteggia­
mento verso il mondo esterno deve essere ben distinto e spontaneo.
Il cucciolo non appare né sorpreso né turbato, anzi, tutto dimostra
che attendeva questo momento: la sua energia interna si è accumula­
ta in attesa dell’evento liberatore, per sprigionarsi e far finalmente
compiere tutte le azioni che ora acquistano un senso. Immagino che
il cucciolo abbia una fame terribile, e voglia riempirsi lo stomaco. I
movimenti delle zampette sono goffi e non ancora coordinati, tutta­
via il piccolo riesce a raggiungere il corpo materno con una notevole
sicurezza. Evidentemente possiede una spiccata sensibilità per il ca­
lore, e un istinto che glielo fa percepire come la cosa più importante
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cui tendere nel suo primo periodo di vita. Il cucciolo neonato pos­
siede anche una notevole tattilità che gli permette di affondare il na­
sino nel mantello della madre non appena l’ha raggiunto, e di tasta­
re nella sua pelliccia per trovare il capezzolo. Possiede, inoltre, una
sensibilità innata che gli permette di sapere esattamente quello che
deve fare: non appena sfiorato il capezzolo con il naso, infatti, lo
prende saldamente in bocca succhiandone con forza il latte.
Il cucciolo possiede altri due schemi motori fissi, ovvero mo­
delli d’azione innati, così come definiti dagli etologi. Uno è costi­
tuito dal movimento di pressione esercitato alternativamente dalle
zampe anteriori sulla ghiandola mammaria per sollecitarne l’atti­
vità. Per imprimere al tempo stesso la spinta con il muso, sempre
allo scopo di stimolare la produzione di latte, il cucciolo deve
inoltre puntare con forza le zampette posteriori a terra.
Tutte queste cose il cucciolo appena nato non le impara, per­
ché le sa già. Ma a cosa serve sapere qualcosa se poi non lo si met­
te in pratica? Inoltre, per fare pratica occorre uno stimolo. E da
dove viene lo stimolo? Un tempo si pensava che tutte le azioni di
un animale fossero soltanto in reazione a uno stimolo esterno. Nel
nostro caso significherebbe che il cucciolo appena nato reagisce
agli stimoli che gli sono offerti dal corpo materno.
Un esperimento molto semplice dimostra, però, che le cose
non stanno proprio così. Prendiamo un cucciolo appena nato e
mettiamolo in un ambiente privo di stimoli, ad esempio una sca­
tola, che non contenga nulla che ricordi anche vagamente il corpo
materno, le mammelle e così via. Malgrado ciò, il cucciolo com­
pirà gli stessi movimenti che ho descritto prima - cercare qua e là,
sollevare e oscillare la testa fino al punto di piegare tutto il treno
anteriore verso destra o verso sinistra, puntare le zampe posteriori
- e in più emetterà dei guaiti sempre più acuti. Meno palese, ma
comunque dopo un po’ sempre più evidente, è il succhiare a vuo­
to e il tipico movimento della zampetta che preme sulla ghiandola
Mammaria. Questi due movimenti sono più marcati in presenza
del corpo materno, ma perché si manifestino completamente non
occorre il relativo stimolo esterno.
Ciò, dunque, significa che esistono degli impulsi interni che
Permettono al cucciolo di compiere tali movimenti, così impor­
tanti per la sua sopravvivenza. Gli studi etnologici, in particolare
quelli condotti da Konrad Lorenz e da Erich von Holst, hanno di­
mostrato che simili forme innate di movimento sono stimolate da
una produzione endogena d’impulsi, cioè che in determinati cen­
tri nervosi vengono prodotti degli impulsi che spingono l’indivi­
duo a tradurre in azione i singoli schemi motori fissi. In un cuccio­
lo appena nato, questi centri nervosi sono sottoposti a un elevato
livello di tensione, e infatti l’azione si produce anche senza l’inter­
vento di uno stimolo esterno. Stimoli quali il calore hanno sola­
mente una funzione di guida.
La suzione e la pressione della ghiandola mammaria si accentua­
no sia quando il cucciolo trova la fonte del nutrimento, sia quando
ne rimane privo per lungo tempo. Ciò deriva dal fatto che i centri
superiori formano un blocco, il quale viene meno solo in presenza
di un effettivo stimolo esterno, consentendo così la produzione de­
gli impulsi che stimolano il movimento. Tale stimolo esterno funge,
perciò, come una chiave che apre una serratura: le energie si libera­
no, il movimento si produce visibilmente. Qualora una chiave del
genere resti a lungo inattiva, si può verificare un accumulo di pul­
sioni tale da spezzare il blocco e causare un movimento a vuoto.
Questo è, in parole semplici, il principio degli schemi motori
fissi, cioè degli aspetti innati del comportamento che, complessi­
vamente, formano l’istinto.
Si pensa che dietro a ogni singolo movimento esista un patri­
monio ereditario portatore d’informazioni. Se questo non è inte­
gro, come facilmente avviene proprio nei nostri cani allevati con
criteri troppo selettivi, il movimento non si svolge più nel modo
corretto, oppure la produzione d’impulsi non è sufficiente a sti­
molarlo. Una volta danneggiati, i geni non possono più rigenerar­
si, ma solo, e nel migliore dei casi, regredire o essere eliminati me­
diante particolari tecniche di allevamento.
Ritengo, pertanto, che i primi minuti della vita di un cucciolo
siano di vitale importanza. Privo di qualunque bagaglio esperien-
ziale e dotato unicamente del proprio patrimonio genetico, il pic­
colo si muove guidato da impulsi innati. È possibile misurare con
una certa sicurezza l’entità della loro forza perché essa si manifesta
proprio in questi primi istanti di vita attraverso la vivacità dei mo­
vimenti, l’energia e la rapidità con cui riescono a trovare la mam­
mella e cominciano a succhiare. Già durante il parto appaiono evi­
denti le differenze fra i singoli individui di una stessa cucciolata. Si
tratta di differenze soggettive, non condizionate dall’ambiente, che
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non dipendono da cause esterne, dall’apprendimento o dall’espe­
rienza, ma solo ed esclusivamente dal patrimonio ereditario. I pri­
mi minuti di vita ci offrono un’occasione irripetibile per misurare
con esattezza la vitalità dei cuccioli e futuri cani.
A chi volesse utilizzare un termine scientifico che descriva
quanto appena descritto, suggerirei la parola “biotono”, coniata
da G. Ewald, che mi sembra più appropriata rispetto ad altri ter­
mini, fin troppo sfruttati, quali “temperamento”, “attività” o “for­
za vitale”. A prescindere dalla definizione scelta, osservare ciò che
accade in questi primi, fondamentali minuti di vita resta comun­
que un’esperienza straordinaria.

Il peso alla nascita


Il cucciolo appena nato possiede, dunque, un comportamento
ben definito, i cui impulsi sono prodotti dal sistema nervoso. Sia­
mo in grado di scorgere delle differenze individuali fin dai primi
attimi di vita, non appena il cucciolo viene liberato dalla membra­
na placentare. Fin qui ho parlato solo delle differenze del biotono,
caratterizzate geneticamente, e ho sostenuto che un indebolimento
del biotono va considerato come un sintomo di degenerazione.
Non potrebbe invece essere che, a causa di una cucciolata
molto numerosa - come succede ad alcune cagne che riescono a
partorire fino a dodici cuccioli alla volta - oppure in seguito allo
stato di cattiva salute della madre, i feti non si siano potuti svilup­
pare tutti sufficientemente bene? L’uno o l’altro dei cuccioli può
risultare un po’ più debole perché nel ventre materno occupava
una posizione meno favorevole, e questo ovviamente non costitui­
sce un difetto ereditario. Infine, dobbiamo anche considerare che,
durante il periodo di calore di una cagna, gli ovuli fecondabili
giungono negli ovidotti non contemporaneamente ma alla spic­
ciolata, nell’arco di una settimana. Di conseguenza, se la cagna
viene coperta più di una volta, i cuccioli hanno un’età diversa, pur
nascendo tutti insieme. Quest’ipotesi spiega il differente grado di
sviluppo, indipendentemente dai fattori ereditari.
In tutti questi casi ci si aspetterebbe un comportamento post­
datale che denunciasse un biotono inferiore, non per cause gene­
tiche, bensì esclusivamente inerenti lo sviluppo.
Ebbene, Tesarne del peso alla nascita, associato al controllo del
biotono, mi ha dimostrato che forse le cose non stanno così. Ho vi­
sto dei cuccioli che alla nascita pesavano molto meno dei fratelli,
ma non per questo il loro biotono era inferiore. In genere questi in­
dividui sono in grado di recuperare in breve tempo la differenza di
peso, a meno che non si tratti di animali destinati per costituzione a
rimanere più piccoli dei fratelli, circostanza che si verifica spesso,
ma questo, ovviamente, non è possibile stabilirlo nell’arco della
prima ora di vita. In questi casi, la cosa migliore da fare è controlla­
re il peso a intervalli regolari. Un cucciolo che dopo due o tre setti­
mane pesi ancora notevolmente meno dei fratelli, non riuscirà più
raggiungerli e per questo, al fine di mantenere l’altezza prescritta
dagli standard della razza, sarà escluso dalla procreazione.
Spesso mi è stato chiesto se sia opportuno prendere in mano
un cucciolo appena nato. La mia risposta è: chiedetelo alla vostra
cagna. Se morde, vuol dire che non è d’accordo. In realtà, pur­
troppo, ci sono molte cagne che, al momento del parto, e spesso
molti giorni dopo, sviluppano uno spiccato istinto di difesa e rea­
giscono ferocemente a chiunque voglia occuparsi dei loro cuccio­
li. Stranamente, ciò si verifica più di frequente nelle razze più sele­
zionate che in quelle più primitive. Finora le mie femmine dingo
non hanno mai avuto nulla in contrario quando ho preso loro i
cuccioli subito dopo il parto. Erano molto preoccupate e ansiose
di riaverli, certo, ma non si sono mai ribellate.
A mio avviso, perché il controllo del peso possa essere eseguito
senza difficoltà, il rapporto di confidenza fra il cane e l’uomo deve
essere molto stretto.
Le cagne che mordono il padrone o la padrona quando questi
si occupano dei cuccioli non sono normali, ma isteriche, e in que­
sti casi sarebbe opportuno interrompere l’allevamento per evitare
la trasmissione di questa cattiva disposizione.
Supponiamo, allora, di assistere alla nascita di una cucciolata e
di poter mettere sulla bilancia, uno dopo l’altro, i vari cuccioli. Ba­
sta una semplice bilancia da cucina, la precisione al grammo è più
che sufficiente.
Come riconoscere un maschio da una femmina dovrebbe essere
noto. Fare altre distinzioni fra i cuccioli può talvolta risultare diffici­
le, ad esempio nel caso siano tutti neri. Un buon metodo è quello di
contrassegnarli tagliando con una forbicina qualche ciuffo di pelo in
un determinato punto. Se nella cucciolata i maschi, oppure le fem­
mine, sono soltanto due, basterà ovviamente contrassegnarne uno
solo. Se i cuccioli dello stesso sesso sono tre, uno rimarrà senza con­
trassegno, uno verrà contrassegnato nella parte sinistra, l’altro in
quella destra.
Da tempo avremo preparato una tabella sulla quale riportare
ordinatamente tutti i dati: in alto si annoteranno il giorno del par­
to e il nome della cagna. E consigliabile avere, per ogni singolo
cucciolo, una scheda con sufficiente spazio per segnare tutte le
pesate successive e inoltre l’ora esatta in cui è nato, la valutazione
del biotono, segni o contrassegni particolari e il peso alla nascita.
L’ora esatta in cui il cucciolo esce dal corpo materno non ci
serve per fargli l’oroscopo, bensì per poter stabilire a quali inter­
valli ognuno dei cuccioli è venuto alla luce. Questo dato è molto
importante per valutare la qualità di fattrice di una cagna, di cui
parleremo più diffusamente nell’ultimo capitolo. La valutazione
del biotono sarà effettuata mediante un semplice sistema di pun­
teggio. Quando un cucciolo, non appena liberato dalla membra­
na, si mette a cercare la mammella, o addirittura comincia ad agi­
tarsi essendone ancora avvolto, merita “1”. Un “2” sarà invece as­
segnato al cucciolo che giace per qualche momento prima di en­
trare in attività. Daremo “3” al cucciolo che si sforza di raggiun­
gere il corpo materno senza però riuscire a trovare la mammella, e
che per cominciare a succhiare deve essere prima attaccato, oppu­
re a quello che succhia per un po’ e poi desiste. Il “4” non merita
neppure un commento, perché qualunque allevatore ragionevole
eliminerebbe un cucciolo così poco attivo, che comunque mori­
rebbe entro le prime ventiquattr’ore.
Riportiamo ora tutti i valori relativi al peso alla nascita e con­
frontiamoli fra loro, senza considerare le differenze di dieci o ven­
ti grammi in quanto assolutamente normali e non sintomatiche, a
meno che non alleviamo dei cani nani il cui peso alla nascita sia di
soli cinquanta grammi! In questo caso, anche una differenza di
dieci grammi è rilevante, ma chi si occupa di allevamenti del gene­
re è già un esperto, e io non ho certo nulla da insegnargli.
Se all’interno di una cucciolata notiamo notevoli differenze di
peso alla nascita, rifletteremo sull’opportunità di lasciare in vita i
cuccioli che pesano di meno. Per esempio, se cinque fratelli pesa­
rlo fra i 395 e i 430 grammi e il sesto solo 315, non occorre pensar­
55
ci su troppo, anche se la valutazione del biotono è stata positiva:
un cucciolo così sottopeso va eliminato.
Esaminiamo ancora una volta un caso concreto scelto dal mio
schedario, a mio avviso molto interessante sotto vari aspetti (si veda
la tabella dei pesi riportata alle pagine seguenti). Si tratta del quar­
to parto dell’elkhound Binna, che allora aveva quattro anni. Anche
quella volta il padre era suo figlio Björn, avuto con il dingo Abo.
Fra le 12.55 e le 15.18 si svolse il parto di 3:3 cuccioli, ovvero,
tre maschi (cifra prima dei due punti) e tre femmine (cifra a segui­
re i due punti, secondo la formula usata dagli allevatori). Il parto
durò, quindi, tre ore e ventitré minuti, che per Binna era normale.
Nella tabella, però, compaiono soltanto quattro cuccioli, poiché
due li narcotizzai subito dovendo operare una certa selezione.
Gli animali rimasti furono pesati di nuovo dopo dodici ore. A
eccezione del numero 115, tutti avevano perso qualche grammo,
un fenomeno assolutamente normale. Alla prima pesata, infatti, i
cuccioli sono ancora bagnati, mentre alla seconda sono asciutti, e
questo comporta già una notevole differenza. Inoltre, c’è il calo fi­
siologico: grazie al colostro, prodotto dalle mammelle della cagna
nei due giorni successivi al parto, che ha un effetto leggermente
lassativo, i cuccioli più robusti espellono molto meconio, cioè il
residuo intestinale del periodo trascorso nel ventre materno. Sol­
tanto delle poppate vigorose o una lenta evacuazione intestinale
possono consentire un aumento di peso.
Il giorno seguente, circa dodici ore più tardi, tre dei cuccioli
erano aumentati, mentre la seconda cagnetta era ancora cinque
grammi sotto il peso alla nascita. Tuttavia, era stata anche quella
che aveva subito il maggior calo fisiologico ed era naturale che
avesse bisogno di un po’ più di tempo. Non era quindi ancora il
caso di preoccuparsi.
Dato che, nel caso di questa cucciolata, mi sembrava importan­
te eseguire un controllo particolarmente accurato, lo stesso giorno
pesai ancora una volta i cuccioli, per l’esattezza trentasei ore dopo
il parto. I due maschi e la seconda cagnetta avevano aumentato il
proprio peso in maniera soddisfacente, mentre la cagnetta numero
uno pesava undici grammi meno che alla nascita. Di solito, ciò ba­
sta per farmi decidere di narcotizzare un cucciolo. Secondo i dati
da me registrati, il biotono di questa cagnetta era stato valutato -2.
Per una volta, però, volevo vedere come si sarebbe sviluppato un
56
cucciolo del genere. La cagnetta superò il proprio peso iniziale sol­
tanto al quarto giorno, poi continuò ad aumentare, ma sempre me­
no dei fratelli; il settimo giorno il suo peso raggiunse la punta mas­
sima, quindi riprese a scendere, e all’undicesimo giorno era di
nuovo ritornato a 433 grammi, cioè soltanto otto grammi in più ri­
spetto alla nascita!
La piccola, che giaceva indifesa accanto ai fratelli più grossi di
lei, sembrava fosse stata appena partorita e non aveva ormai alcu­
na possibilità di sopravvivenza. Si muoveva poco e ogni volta che
provavo ad attaccarla, succhiava un paio di volte ma senza forza,
per poi ricadere subito indietro. Era uno spettacolo penoso, e cer­
tamente sarebbe morta nel giro di altre ventiquattro ore se non
fossi intervenuto prima.

ESEMPIO DELLE VARIAZIONI DI PESO


IN QUATTRO CAGNOLINI DI UNA STESSA CUCCIOLATA
Centro di ricerche zoologiche di Grubmuhle - 16 giugno 1970
IV cucciolata della cagna da alce Binna e dell’ibrido Björn

Numero di registro e sesso M113 MI 15 F117 F118


Ora della nascita 13.45 15.08 12.55 13.07
Peso alla nascita 412 349 425 366
Biotono 1+ 1 -2 1
12 ore 408 353 415 348
24 ore 419 376 426 361
36 ore 439 397 414 377
2° giorno 463 422 420 387
3° giorno 511 483 420 414
4° giorno 573 530 427 450
5° giorno 617 580 454 492
6° giorno 652 644 450 534
7° giorno 717 682 479 584
8° giorno 789 765 447 642
9° giorno 830 807 468 687
10° giorno 879 857 474 714
11° giorno 939 906 433/ 764

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12° giorno 1012 972 - 817
13° giorno 1102 1034 - 870
14° giorno 1227 1127 - 922
15° giorno 1255 1195 - 957
16° giorno 1362 1289 - 1050
17° giorno 1366 1368 - 1097
18° giorno 1454 1429 - 1152
19° giorno 1564 1509 - 1243
20° giorno 1630 1610 - 1280
21° giorno 1702 1678 - 1325
22° giorno 1787 1789 - 1412
23° giorno 1840 1822 - 1477
24° giorno 1870 1905 - 1525
25° giorno Non effettuato il controllo del peso

26° giorno 1997 1975 - 1605


27° giorno Non effettuato il controllo del peso

28° giorno 2057 2059 - 1692

M= maschio F= femmina
Il cucciolo Fi 17 è stato narcotizzato dopo la pesata dell’undicesimo giorno.

All’inizio di questo capitolo ho affermato che, entro la prima


fase della sua esistenza, il cucciolo quadruplica il peso iniziale.
Vediamo se ciò è avvenuto nella cucciolata presa in esame. Il ma­
schio numero 1 ha raggiunto i 1648 grammi necessari per qua­
druplicare il suo peso iniziale la sera del ventesimo giorno, il ma­
schio numero 2 i 1396 grammi fra il diciassettesimo e il diciottesi­
mo giorno e la cagnetta numero 4 i 1464 grammi il ventitreesimo
giorno.
Va notato che all’inizio il maschio numero 2 aveva un peso mol­
to ridotto, ma poiché la valutazione del biotono era ottima, ha re­
cuperato in fretta fino a raggiungere il peso del fratello il quattordi­
cesimo giorno, poi crescendo a un ritmo costante a partire dal di­
ciassettesimo. Questo conferma appieno quanto detto a proposito
della differenza di peso alla nascita: un cucciolo sano raggiunge i
propri fratelli quando la differenza iniziale non è troppo accentua­
ta. Viceversa, la cagnetta numero 4 dimostra di aver intenzione di
58
rimanere abbastanza piccola, come del resto è normale in accop­
piamenti fra madre e figlio. Di certo non è diventata una nanetta
come Stina che, come ho già raccontato, nasce da un’unione dello
stesso genere.

La fase vegetativa
È consigliabile suddividere il successivo sviluppo del cucciolo
in “fasi”, un termine non particolarmente connotativo, come con­
corderanno i lettori, ma pratico e ormai affermato presso gli
scienziati che hanno studiato lo sviluppo giovanile del cane. Ov­
viamente, in questo contesto tutti i dati riguardanti l’età sono da
considerarsi valori di media che possono spostarsi verso l’alto o
verso il basso, a seconda che si tratti di cani precoci o tardivi. Se
non vogliamo limitarci a conoscere la denominazione e la dinami­
ca degli schemi di comportamento canino, ma vogliamo capirli
per davvero, la cosa più sensata è seguire lo sviluppo del cane da
quando è cucciolo a quando diventa adulto. Così facendo, non se­
guiamo un percorso che va dal semplice al complesso, ma impa­
riamo a comportarci nei confronti del cane che cresce e, al tempo
stesso, comprendiamo ciò che è giusto e ingiusto pretendere da
lui nelle singole fasi della vita, riuscendo a essere per l’animale
adulto quello che ogni cinofilo desidera essere: un padrone o una
padrona in grado di far felice il proprio cane.
Un’altra cosa che osserveremo con attenzione, e che ci sarà
molto utile, è come i cani genitori, e per genitori intendo proprio
maschio e femmina, si comportano nei confronti dei figli. Ognu­
no dei miei cuccioli vive in una vera e propria famiglia, ma ciò è
abbastanza insolito visto che la maggior parte dei nostri cani di
razza cresce orfana di padre. Alcuni allevatori di cani, vedendo
nei miei canili i maschi giocare con i piccoli, mi hanno chiesto se
non c’è pericolo che il maschio divori i cuccioli. Evidentemente
quest’idea è così radicata che alcune persone non riescono a con­
vincersi che tutto proceda per il meglio neanche quando ne sono
testimoni con i propri occhi.
Poiché di solito un allevatore vende i cuccioli quando hanno
solo otto settimane, non è poi così tragico per il loro sviluppo cre­
scere in una famiglia senza padre, a patto che l’uomo dia loro ciò
59
che normalmente riceverebbero dal genitore. Di fatto, la maggior
parte delle regole di base per allevare un cagnolino riflettono fe­
delmente quello che io definirei il “comportamento educativo”
dei cani genitori. Di solito si tratta di regole che le persone esperte
consigliano dopo averne constatato la validità. Osservando una fa­
miglia di cani al completo, comprendiamo le ragioni per cui biso­
gna agire in un modo e non in un altro, e notiamo anche una serie
di altre cose che potremmo fare meglio o in più. Ma se anche non
vi fosse nulla da imparare, osservare una vera famiglia di cani è co­
sì affascinante che solo il piacere nel farlo ripaga ampiamente del
tempo dedicato. Quando osservo il mio buon Björn che, disteso
sul tetto del canile, segue attento i movimenti della figlioletta in­
tenta ad afferrargli la coda che lui lascia penzolare ad arte, mi vie- j
ne facile dimenticare che sto conducendo una ricerca di etologia,
una scienza basata su regole precise e ferree, che rifugge qualsiasi
“umanizzazione deiranimale”: ciò che vedo in quel momento è
soltanto un padre affettuoso che gioca con la figlia.

Gli schemi motori


La natura ha preordinato tutto ciò che è importante per le pri­
me settimane di vita del cucciolo, lasciando il superfluo al caso.
Per quindici giorni, ovvero per tutta la durata della prima fase,
non si registrano cambiamenti, tranne l’aumento di statura e di
peso. Sia dal punto di vista fisico che comportamentale, il cuccio­
lo è in grado d’integrare le cure materne e si adatta perfettamente j
a vivere nella tana a forma di conca.
Mangiare e dormire sono le sue due funzioni principali. Di
conseguenza, dev’essere in grado di muoversi abbastanza per arri- ì
vare al cibo, e a questo scopo dispone di schemi motori precisi
che, come ho già spiegato, sono attivi fin dalla nascita.
Fra i vari tipi di movimento del cucciolo rientrano la posizione
bocconi, l’orientamento avanti e indietro e la capacità di strisciare
in entrambe le direzioni. D’altro canto, non avrebbe alcun senso 5
che il cucciolo sapesse rotolare su se stesso, correndo il rischio di
ritrovarsi nella direzione sbagliata. Due caratteristiche lo proteg- |
gono da questo pericolo. La prima riguarda il suo modo di avan­
zare strisciando, che non avviene in linea retta, bensì descrivendo
60
un piccolo cerchio. Qualora il cucciolo non incontri il corpo della
madre, muovendosi in tondo torna comunque al punto di parten­
za. D ’altronde, la cuccia è piuttosto stretta, quindi le probabilità
che il cucciolo non trovi la madre sono relativamente scarse. A tal
fine è funzionale anche la sua forma concava, che gli rende diffi­
coltoso allontanarsi dal centro. Dimostreremmo un maggior ri­
spetto per la natura se alla cagna che deve partorire, invece di una
cuccia a base piatta, ne fornissimo una con il fondo leggermente
concavo, simile a quella usata dai cani selvatici. Attualmente, gra­
zie ai moderni materiali sintetici che mantengono il calore, ciò
non costituisce affatto un problema.
La seconda caratteristica, che assicura al cucciolo il rapido rag­
giungimento della meta, è l’automatismo di ricerca. La testa del
cucciolo oscilla con notevole regolarità verso destra e verso sinistra.
Così facendo, il cucciolo esplora una minima porzione dell’angusto
ambiente che lo circonda e, dato che la cagna, distesa su un fianco,
occupa la maggior parte della cuccia, di solito basta questo movi­
mento oscillatorio per raggiungere un punto qualunque del corpo
materno.

I sensi
Riguardo al movimento, il cucciolo ha dunque un’ampia gam­
ma di possibilità a disposizione, che ci consentono di controllare e
valutare il suo biotono, ovvero di verificare con quanta energia
vengono sfruttate. Non sempre, però, osservando i piccoli nella
cuccia riusciamo a ricavare un quadro preciso della situazione.
Può accadere, infatti, che uno di loro si trovi talmente vicino al
capezzolo da non dover far altro che aprire la bocca, e che invece
un altro debba faticare un bel po’ prima di arrivarci. Per esclude­
re queste differenze casuali, basta effettuare un piccolo test: dopo
averlo pesato, mettiamo il cucciolo su un tavolo e stiamo a vedere
Cosa fa. Se striscia di qua e di là tutto vispo, o fa oscillare la testa
c°n un preciso movimento sia orizzontale che verticale, o ancora
^ rigira subito quando lo mettiamo sulla schiena e a contatto con
a iredda superficie di vetro o metallo si ritrae di scatto, allora tut-
e a posto. Se, invece, resta sdraiato aspettando di essere ripre-
So>allora significa che non è sufficientemente vitale.
61
Avendo il cucciolo sul tavolo, davanti a noi, possiamo provare
anche un altro esperimento, collocandogli vicino un cuscino termi­
co alla temperatura di trenta o quaranta gradi. Un cucciolo sano ce
la metterà tutta per raggiungerlo, e ciò significa che è in grado di
percepire il calore e che in lui Tistinto di andare verso una fonte di
calore è perfettamente sviluppato.
Non appena avrà toccato il cuscino termico con il naso, verifi­
cheremo un altro modello comportamentale, cioè il gesto di affon­
darlo nella pelliccia: il cucciolo preme la punta del naso contro il
cuscino termico e la struscia verso Talto.
Questo movimento si ripete in continuazione, e lo stesso avvie­
ne poggiando la sua testina nell’incavo di una mano calda. Se, in­
vece, lo mettiamo a contatto con una superficie piatta e dura, ad
esempio di metallo o legno, anche riscaldata, il cucciolo non pro­
verà ad affondarvi il musetto: il senso del tatto, infatti, gli fa rico­
noscere i corpi molli. L’importanza del movimento di affondo ap­
pare subito chiara osservando il piccolo attaccato al corpo mater­
no. Spingendo in avanti il naso affondato nel pelo della madre sol­
leva i peli e ciò gli permette di scoprire anche un capezzolo nasco­
sto fra la pelliccia, come in genere lo sono il primo e il secondo.
Anche la forza e l’intensità con cui esegue questo movimento, so­
no per noi un prezioso indicatore dell’integrità del suo patrimonio
genetico. Non appena il cucciolo prende in bocca il capezzolo ma­
terno, comincia a succhiare. Ognuno dei suoi movimenti di suzio­
ne è dettato da un automatismo il cui centro si trova proprio die­
tro il cervello, nel midollo spinale allungato.
Si potrebbe pensare che in questo stadio l’olfatto sia superfluo,
come la vista e l’udito. Il fisiologo russo Trosinin è riuscito a dimo­
strare, con un semplicissimo esperimento, che i cuccioli appena na­
ti sono già in grado di percepire gli odori. Ad alcune cagne che
avevano appena partorito, Trosinin lavò le mammelle sfregandole
poi con dell’olio mentolato. I cuccioli, privi di qualsiasi precedente
esperienza, si attaccarono ai capezzoli trattati. Dopo il primo pa­
sto, l’essenza odorosa svanì, e quando i cuccioli sentirono di nuovo
lo stimolo della fame non riuscirono più a trovare le mammelle.
Ciò dimostra che con la prima poppata s’imprime anche la prima
immagine olfattiva delle mammelle materne e si stabilisce un’asso­
ciazione fra soddisfazione dell’istinto di suzione e odore della
mammella. Non esiste una mammella che non abbia nessun odore.
62
Quale sia il suo odore, il cucciolo non lo sa ancora, l’importante è
che ne abbia uno ben preciso, altrimenti non sarebbe nemmeno
possibile abituare dei cuccioli appena nati al biberon. Tuttavia, l’o­
dore non deve essere neppure troppo penetrante o sgradevole. Ad
esempio, l’olio essenziale di anice concentrato risulta insopporta­
bile al cucciolo, che si ritrae disgustato e tende ad allontanarsi,
mentre quello di pesce lo attira. Per quanto riguarda gli odori esi­
ste, dunque, una certa capacità di differenziazione.
Nel nostro immaginario, l’olfatto è sempre collegato al gusto:
sarà capitato a tutti noi, almeno una volta, di constatare come an­
che il pranzo più prelibato possa risultare insipido quando si è af­
fetti da un potente raffreddore che ci mette ko il naso. Per il cane,
che possiede un olfatto particolarmente fine, la cosa è ancora più
accentuata, tanto che la sua sensazione di gusto sembra essere
condizionata prevalentemente dalla percezione olfattiva. I cani
privi della facoltà olfattiva non riescono a distinguere il sapore di
un pezzo di pane da quello di un pezzo d’argilla della stessa for­
ma. Sembra che i cuccioli appena nati non abbiano quasi sensa­
zioni di gusto, infatti dal biberon succhiano indifferentemente lat­
te dolce, tè amaro o qualsiasi altra cosa si propini loro. Non han­
no neppure una sensibilità innata per il gusto e per l’odore del lat­
te di cagna né si fissano per forza su un particolare sapore. Di
conseguenza, è facile allevarli artificialmente, sia dal primo giorno
di vita che più avanti, dopo che sono stati allattati per qualche
tempo dalla madre. In quest’ultimo caso l’unica difficoltà consiste
nell’abituarli alla tettarella di gomma alla quale manca il familiare
odore della mammella.
Consideriamo ora le possibilità che ha un cucciolo di proteg­
gersi dai pericoli. Ho già detto che il cucciolo si ritrae di fronte a
cose che gli risultano sgradevoli al tatto o all’olfatto. Per l’autodi­
fesa è, ovviamente, importante anche la sensibilità al dolore. Un
cucciolo è molto resistente e la sua sensibilità al dolore non è mol­
to accentuata, ma quando viene afferrato in maniera troppo rude
lo avverte e non solo tenta di divincolarsi, ma esprime irritazione,
dolore o, in alcuni casi, gioia emettendo forti guaiti, che fungono
da segnale d’allarme per la mamma.
La voce è connessa all’apparato respiratorio. A tale proposito,
è opportuno segnalare un’altra cosa: non appena il cucciolo si li­
bera dalla membrana, spalanca la bocca e tira fuori la lingua, che
penzola di lato. Quest’azione può ripetersi una o due volte, si trat­
ta del primo respiro cui fanno seguito, subito dopo, i primi accen­
ni di suono. Così facendo, le vie respiratorie si liberano, permet­
tendo al cucciolo di cominciare a respirare con il naso, visto che la
bocca gli serve soprattutto per succhiare.

La suzione
Il concetto di suzione non è da prendere troppo alla lettera.
Nei cani, infatti, il succhiare è accompagnato dal leccare, e a tale
scopo la lingua assume in bocca la forma di una grondaia e aderi­
sce, lateralmente e in basso, al capezzolo. In questo modo, esercita
una notevole pressione sulla mammella, colpendola circa venti
volte al secondo.
Tale ritmo è insito nell’automatismo di suzione e tarato sulla
capacità della mammella canina di produrre latte. Su quest’aspet­
to, numerosi scienziati, soprattutto americani, hanno compiuto
vari esperimenti. A mio parere, i risultati più interessanti sono
quelli raggiunti da D.M. Levy, che divise una cucciolata di collie
in tre gruppi: il primo rimase con la madre, il secondo fu allevato
con un biberon il cui succhiotto aveva un foro molto piccolo, il
terzo anch’esso con un biberon, ma con un succhiotto con un foro
piuttosto grande. L’esperimento dimostrò che i cuccioli dell’ulti­
mo gruppo non riuscivano a soddisfare il proprio automatismo di
suzione, e infatti succhiavano qualunque oggetto gli capitasse a ti­
ro, ad esempio un dito che gli veniva avvicinato, o le orecchie dei
fratelli. Ciò conferma che il numero dei movimenti di suzione e il
grado di appagamento sono collegati per una legge innata. Se a
causa del foro della tettarella troppo grande, che lascia fuoriuscire
molto latte tutto insieme, il cucciolo si sazia troppo in fretta, gli ri­
mane un bisogno di suzione inappagato, che tenta di soddisfare a
vuoto con oggetti sostitutivi.
Come è noto, Freud ha messo in luce il nesso fra la soddisfazio­
ne dell’istinto di suzione e l’abitudine di succhiarsi il dito, che a
volte è più accentuata nei bimbi allattati artificialmente. Ricerche
più recenti, come quelle condotte da Detlev Ploog, hanno eviden­
ziato che una sazietà raggiunta troppo in fretta grazie a un foro
troppo grande nella tettarella fa sì che i lattanti continuino a suc­
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chiare a vuoto piangendo, e si acquietino soltanto una volta placa­
to il desiderio di suzione attaccandosi al biberon vuoto.
Dal nostro punto di vista, la sintonizzazione deirautomatismo
di suzione del cucciolo con la quantità di latte assimilata ed emes­
sa dal capezzolo assume un valore pratico qualora dobbiamo alle­
varlo artificialmente. Se si prende la cosa alla leggera, ci sono buo­
ne probabilità che insorgano turbe comportamentali permanenti.
Verificare se l’istinto di suzione di un cucciolo è soddisfatto o no è
facile: dopo la poppata, tendiamogli un dito davanti al musetto.
Se la quantità di latte assunto e il bisogno di suzione sono in equi­
librio, esso non attirerà il suo interesse. Se, invece, a causa di un
foro troppo grosso sulla tettarella, si è saziato troppo in fretta,
tenterà di succhiare la punta del nostro dito. Come dimostra chia­
ramente anche l’abitudine di succhiare il pollice, succhiare a vuo­
to può stimolare delle cattive abitudini, come quella di “leccare
l’aria” che certi cani continuano ad avere anche da adulti. Non è
detto che succeda sempre, ma è possibile.
Restando in tema di suzione, il cucciolo possiede un altro im­
portante schema di comportamento, cui abbiamo già accennato, e
cioè la pressione esercitata con la zampa sulla ghiandola mamma­
ria. I cuccioli che succhiano premono ora l’una ora l’altra zampi-
na anteriore sulla zona intorno al capezzolo, praticando così un
massaggio continuo alle ghiandole mammarie. Questo movimen­
to è strettamente connesso con quello di suzione, anzi, si potreb­
be dire che l’uno non avviene mai senza l’altro.
Il piccolo, però, non riuscirebbe a compiere questo movimen­
to se non puntasse con forza le zampe posteriori per terra, un al­
tro gesto tipico dei cuccioli. Se la superficie è piatta, le tozze zam­
pine posteriori che si agitano continuamente alla ricerca di un
punto d’appoggio, spingono il cucciolo contro la pancia della
mamma contribuendo al consolidamento della posizione. Ciò è
ben visibile osservando i cuccioli che, lottando fra loro, si accalca­
no per raggiungere la mammella materna. Talvolta la competizio­
ne si fa piuttosto dura, e capita che uno dei cuccioli sia spinto via
proprio dai fratelli, tutti intenti a fare forza sulle zampe.
Tuttavia, non si può parlare di brutalità o di mancanza di ri­
guardo: questi cuccioli non hanno ancora la minima idea dell’esi­
stenza dei fratelli, poiché non sono in grado di percepirla. Direi,
invece, che quanto più brutale è il loro comportamento durante i
primi quindici giorni di vita, tanto più ottimisti possiamo essere ri­
spetto al loro futuro. Sono proprio i cani robusti e forti, e che si
sono sviluppati in modo sano, a diventare più socievoli. La vora­
cità con cui un cucciolo succhia il latte è un’altra espressione tan­
gibile della sua energia interna.
Osserviamo ora brevemente il comportamento della madre du­
rante il periodo dell’allattamento. Nei primi due giorni, la cagna
non si allontana quasi mai dalla cuccia per occuparsi dei piccoli a
tempo pieno. All’inizio i cuccioli mangiano ogni due ore, e guai a
non dare alla mamma la possibilità di tornare indietro in tempo se
per caso l’abbiamo portata a fare una passeggiata! Se il momento
del pasto si avvicina, l’assale l’ansia di tornare nel più breve tempo
possibile affinché i piccoli non debbano aspettare troppo. Duran­
te l’assenza della madre, di solito i cuccioli rimangono tranquilli.
Quando la mamma se ne va, “giacciono a contatto”, cioè si strin­
gono l’uno all’altro, e dormono così finché lei non è di ritorno. Se
la cagna resta fuori per un periodo di tempo abbastanza lungo, i
cuccioli comunque non si mettono a gironzolare per la cuccia o a
guaire. Anche in questo, la natura dimostra la sua perfezione. In
questo modo, infatti, non c’è il rischio che la tana venga scoperta,
e se anche la madre non tornasse più, i piccoli morirebbero senza
soffrire, scivolando dal sonno in uno stato di torpore o d ’inco­
scienza. Soltanto una volta cresciuti e in grado di lasciare la cuc­
cia, i cuccioli si fanno sentire se sono affamati. A quel punto, però,
sono già in grado di reagire con prontezza a rumori sospetti, e di
nascondersi se sentono avvicinarsi qualcuno.
In questa prima fase di sviluppo della cucciolata, la cagna ha
comunque molto da fare. Ispeziona continuamente ogni cucciolo,
annusandolo dappertutto per verificare che sia a posto, ne pulisce
il pelo con la lingua, infine ne massaggia il pancino per facilitare la
digestione, di cui poi elimina prodotti, sia liquidi che solidi, in­
ghiottendoli, per mantenere la cuccia pulita.

I cuccioli fra loro


I cuccioli sono dei gran pantofolai e, come tutti coloro che stan­
no fin troppo volentieri rintanati in casa, sono degli egoisti belli e
buoni, per i quali esistono unicamente i propri bisogni e le proprie
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comodità. Uno di questi bisogni è il sonno. Se guardiamo all’inter­
no della cuccia, di solito vediamo tutti i cuccioli dormire contem­
poraneamente un sonno pacifico e tranquillo, solo di tanto in tanto
intercalato dal sospirare della mamma nel sonno, o dal guaito di
uno dei piccoli scivolato giù dalla sua pancia, che trova scomoda la
nuova posizione. Dopo un po’, uno dei cuccioli si sveglia, si stirac­
chia sbadigliando e si spinge verso la mammella. Nel modo che già
conosciamo trova un capezzolo e comincia a succhiare rumorosa­
mente. Trascorso un minuto, tutti i cuccioli sono attaccati alle
mammelle. Perché tutti contemporaneamente? Si dice che lo sti­
molo a succhiare sia contagioso. Posso accettare quest’ipotesi solo
per i cuccioli che abbiano già avuto dei contatti sociali fra loro, il
che, come vedremo, non avviene prima che siano trascorse tre setti­
mane di vita. Dalla nascita fino a due settimane almeno il cucciolo
non ha nessun tipo di rapporto con i fratelli. Non sa nulla degli altri
cuccioli e dei suoi simili, è un essere solitario senza vita di relazione.
Il fatto che tutti i cuccioli facciano la poppata contemporanea­
mente ha due spiegazioni. La prima è quella della reazione a cate­
na. Il cucciolo che si sveglia per primo si dà da fare per trovare la
mammella, agitando le zampette con tanto vigore da svegliare si­
curamente almeno uno dei fratelli. Dato che tutti i piccoli dormo­
no il più possibile vicino alla madre, quando non addirittura sulla
sua pancia, è molto probabile che, puntando le zampe posteriori,
calpesti uno degli altri che, una volta sveglio, sente fame a sua vol­
ta e, cercando la mammella sveglia un altro, e così via...
La seconda spiegazione è che l’odore del latte contribuisce a
questa sveglia collettiva.
Giacere a contatto non rappresenta uno schema di comporta­
mento sociale, ma deriva semplicemente dal bisogno di appoggio,
e ciò è dimostrato dal fatto che il cucciolo si accontenta di qualsia­
si altro oggetto sostitutivo, purché adatto allo scopo.
Certamente, a questo riposo collettivo contribuisce anche il bi­
sogno di calore dei cuccioli, tuttavia ciò non deve far pensare che
occorra assolutamente tenerli molto al caldo. Alla nascita, infatti,
hanno una temperatura corporea bassissima, il numero di globuli
rossi nel sangue di un cucciolo è molto inferiore a quello di un ca­
ne adulto, insomma sono degli animali a sangue freddo, quasi co-
nie i rettili, pur se in maniera meno evidente. Possono essere espo­
sti a notevoli sbalzi di temperatura senza subire alcun danno, ad
esempio quando la mamma lascia la cuccia e poi ritorna. La loro
produzione di calore è molto limitata, e se la temperatura corporea
si abbassa notevolmente, diminuisce l’attività e si addormentano.
Una mattina, davanti al canile che conteneva la cuccia di una
delle sue dingo, Alfred Seitz trovò un cucciolo che giaceva inerte
sulla neve. Bastò rimetterlo vicino alla cagna perché il cucciolo si
“scongelasse” e tornasse vispo e sano come i fratelli. Da quanto ho
potuto dedurre osservando delle cagne partorire sotto zero in
semplici tane scavate nella terra, e da quanto confermato da altre
esperienze, il bisogno di calore dei cuccioli neonati è molto limita­
to e la quantità elargita dal corpo materno è del tutto sufficiente
ad assicurare il loro benessere. Se così non fosse, i cani costruireb­
bero dei nidi per proteggersi, proprio come fanno i topi che,
quando fa freddo, dovendosi allontanare coprono i piccoli con lo
stesso materiale utilizzato per la costruzione del nido.

La fase di transizione
Il risveglio dell’udito e della vista caratterizza il passaggio dal
primo stadio, di cucciolo, al secondo, di giovane cane. Il lattante
che non metteva il naso fuori dalla cuccia si trasforma in un ca­
gnolino abbastanza sviluppato da poter avere i primi veri contatti
con l’ambiente esterno. Come in molti altri processi biologici,
neanche in questo caso si può tracciare una netta separazione fra
uno stadio e l’altro. Per tale motivo, il sociobiologo ed etologo
americano J.P. Scott, esperto di comportamento canino, parla di
una fase di transizione fra questi due stadi. In questo periodo si at­
tua una graduale trasformazione sia sotto l’aspetto fisiologico che
sotto quello comportamentale, nel corso della quale non solo si
cominciano a rilevare, scaglionate nel tempo, capacità nuove e di­
stinte in uno stesso individuo, ma anche come variano dall’uno al­
l’altro.
Per ogni cucciolo l’ingresso in questa fase di transizione coinci­
de con l’apertura delle palpebre. Anche questo è un processo che
può protrarsi per oltre ventiquattr’ore, nel caso in cui un occhio si
apra prima dell’altro. Che i tempi individuali varino di molto lo
dimostrano i dati riferiti da un’ampia letteratura sull’argomento.
Sappiamo, ad esempio, che esistono cani che aprono gli occhi a
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soli nove giorni di vita, mentre per altri bisogna aspettare il di­
ciannovesimo. Si tratta, ovviamente, di due casi estremi perché di
norma i cuccioli aprono gli occhi fra il dodicesimo e il quindicesi­
mo giorno. In due cucciolate di sciacalli, Eisfeld ha riscontrato
che i piccoli aprivano gli occhi il decimo o l’undicesimo giorno, in
altre due invece il quattordicesimo.
Nel considerare questi dati non dobbiamo però dimenticare
che, in genere, i cuccioli nati da uno stesso parto non hanno tutti
la medesima età, in quanto il periodo di gestazione di ognuno può
variare, anche fino a otto giorni. Nelle prime due settimane di vita
questo ha certamente il suo peso. Di conseguenza, non è detto
che un cucciolo che apre gli occhi al quindicesimo o al sedicesimo
giorno denoti uno sviluppo tardivo, probabilmente è stato solo
concepito più tardi degli altri. A ogni modo, per quel che ci ri­
guarda, annoteremo con cura ogni particolare e osserveremo at­
tentamente i progressi relativi al comportamento che il cucciolo
mostra nella fase di transizione.
Ci renderemo così conto con sufficiente chiarezza, grazie an­
che ai regolari controlli del peso corporeo, delle inclinazioni dei
nostri cuccioli.
L’apertura degli occhi, tuttavia, non implica ancora la capacità
di vedere, bensì solo la presenza del riflesso pupillare. Inoltre, gli
occhi luccicanti, ancora cerulei, cominciano ora a muoversi, an­
che se non in maniera coordinata, conferendo ai cuccioli uno
sguardo fortemente strabico e un’espressione decisamente buffa.
Chi li osservasse da profano penserebbe che siano affetti da una
malformazione. Il modo migliore per stabilire se il cucciolo sia già
in grado di vedere è tenere una lampada tascabile davanti ai suoi
occhi e accenderla all’improvviso; se la bestiola ha un sussulto o
reagisce in qualche altro modo che denoti insofferenza, allora è si­
curo che vede. Comunque, entro il ventunesimo giorno di vita la
vista è completamente sviluppata.
In genere, anche per il pieno sviluppo dell’udito bisogna atten­
dere le prime tre settimane. Soltanto allora, infatti, il cucciolo mo­
stra di reagire ai rumori, ad esempio muovendo le orecchie o, più
palesemente, acquattandosi in reazione a un suono che lo spaven­
ta. Dovremmo tenere sempre a mente che qualunque rumore -
uno scoppio, un richiamo, uno scroscio d’acqua, o altro - per il
cucciolo che passa dalla sordità al mondo del suono all’inizio rap­
presenta un qualcosa di strano e misterioso. Pertanto, sarebbe op­
portuno non spaventarlo inutilmente, perché così si eviterebbe il
rischio, del tutto reale, che si radichi in lui la paura di determinati
rumori. Proprio come l’uomo, anche il cane risente d’impressioni
giovanili non superate, quando queste hanno provocato un shock.

Lolfatto
Nel cane, la prima facoltà che si risveglia è quella dell’olfatto.
Fin dal sedicesimo, diciassettesimo o diciottesimo giorno, vediamo
che il cucciolo annusa i fratelli, o anche il nostro dito, se glielo avvi­
ciniamo al naso. In questo modo, comincia a percepire l’ambiente
e, trattandosi di un animale osmatico, non deve meravigliare che
sia proprio il naso l’organo che entra prima in funzione. Anche per
il cane adulto, il mondo si compone perlopiù d’impressioni olfatti­
ve, anziché ottiche o acustiche. Noi uomini siamo animali a preva­
lenza sensoriale visiva, mentre il cane è un animale a prevalenza
sensoriale olfattiva, che ricava la maggior parte delle informazioni
dall’aria che attraversa le zone olfattive delle sue mucose nasali.
Normalmente, il naso rivela al cane l’ambiente circostante, co­
me fanno per noi gli occhi, aiutati dal cannocchiale e dalla lente
d’ingrandimento. Ma quante delle nostre razze canine, selezionate
soltanto in base alla bellezza - o a ciò che si ritiene tale! - hanno
perduto l’acutezza del loro senso principale, l’olfatto! Un cane
con un olfatto non perfettamente sviluppato non vive veramente.
Passa attraverso le cose che lo circondano come un uomo semicie­
co, con lo svantaggio in più di non avere un cervello altrettanto
sviluppato, le cui facoltà immaginative gli renderebbero comun­
que accessibile il mondo circostante. Per un cane privo di olfatto,
il mondo si riduce a pochi, banali particolari; certo, gli rimangono
la vista e l’udito, ma anche se questi sensi funzionano perfetta­
mente, non sono in grado di offrirgli un mondo altrettanto vario.
L’intero cervello canino è concepito per rielaborare nei centri su­
periori le percezioni olfattive, da cui sviluppa poi le esperienze ve­
re e proprie, che nessuno dovrebbe negare al proprio cane. L’oc­
chio e l’orecchio svolgono nel cane funzioni ausiliarie come per
noi l’orecchio e, in minor grado, il naso. Noi siamo orientati visi­
vamente, e tutto il nostro mondo d’idee è costruito su elementi fi­
70
gurativi. Il cane, invece, è orientato olfattivamente, e qualunque
suo processo si basa su immagini olfattive, così come per i delfini
valgono le immagini sonore. Il forte condizionamento esercitato
sulle diverse prestazioni del cervello dalle corrispondenti presta­
zioni dei sensi è dimostrato dal fatto che, nonostante il nostro cer­
vello sia notevolmente sviluppato, non riusciamo a concepire al­
tro concetto che quello di “immagini olfattive”. Persino un cieco,
che percepisce il mondo attraverso il tatto, rielabora figurativa­
mente le proprie impressioni, perché il suo cervello è per lui l’e-
quivalente del senso della vista, dell’orientamento visivo.
Come mai i cacciatori hanno tanti aneddoti sulla straordinaria
intelligenza dei loro cani da raccontare? Certo, può darsi che, da­
vanti a un bicchiere, il cacciatore della domenica tenda a esagera­
re un po’, ma se non altro possiamo prestare fede al racconto di
una guardia forestale, ben informata sulle prestazioni del proprio
cane. Tutti i cani da caccia sono selezionati in base al loro olfatto,
ed è molto importante che questo senso sia sviluppato al massi­
mo. Da cani del genere ci si può aspettare anche che siano in gra­
do di utilizzare il cervello in maniera “intelligente”, al punto di ar­
rivare talvolta a stupirci.
Un cane dal fiuto abbastanza sviluppato, che viva tutto il gior­
no in un appartamento di cui conosce ogni odore a menadito, e
che al momento giusto sia portato fuori per una frettolosa passeg­
giata fino all’angolo, non gode della vita. Noi uomini abbiamo il la­
voro, problemi di varia natura, andiamo al cinema, guardiamo la
televisione, leggiamo i giornali, qualche libro, telefoniamo ai nostri
conoscenti, ci vediamo con gli amici. Quanti cani, invece, vivono
in prigioni costituite da ambienti privi di stimoli, dove non c’è qua­
si nulla che fornisca loro lo spunto per nuove esperienze. Se il cane
ha bisogno di movimento fisico, di correre, di fare delle passeggia­
te, ha ancora più bisogno di esercizio psichico. Per lui una passeg­
giata non è importante solo perché può correre a volontà, ma per­
ché gli offre la possibilità di sperimentare il nuovo. Il mondo è un
carosello olfattivo, un tappeto variopinto dove gli odori s’intreccia­
no in splendide linee - circoli, spirali, volute, triangoli - in ogni
forma, cioè, che possa apparire, anzi, odorare, per un cane.
A questo punto, sarà opportuno ricordare alcuni dati, ormai
ben noti, frutto delle vaste ricerche di psicologia dei sensi condot­
te sui cani. E stato dimostrato, innanzi tutto, che il cane, essendo
71
un animale carnivoro, possiede una capacità olfattiva molto più
acuta per le materie animali che per quelle vegetali. Ad esempio,
riesce a distinguere anche la minuscola quantità di due milligram­
mi di siero di carne pressata, e reagisce a cinque milligrammi di
urina di una cagna; inoltre, percepisce l’acido acetico in una solu­
zione diluita cento milioni di volte più di quanto sia invece neces­
sario alla percezione umana. Di fronte a tale sensibilità, l’uomo
può senz’altro definirsi “olfattivamente cieco”.
Ovviamente, la struttura dell’organo olfattivo del cane è, in
proporzione, più complessa della nostra. Nell’uomo, il campo ol­
fattivo della mucosa pituitaria, che si trova nella parte superiore
del naso e dove penetrano le sottili diramazioni dei nervi olfattivi,
si estende su una superficie che ha le dimensioni di una scatola di
fiammiferi, all’incirca cinque centimetri quadrati. In un cane da
pastore, invece, le dimensioni medie si aggirano sui centosessanta
centimetri quadrati. Anche lo spessore della mucosa pituitaria nel
cane è di 0,1 mm, mentre nell’uomo raggiunge solo 0,006 mm.
Queste, dunque, sono alcune delle caratteristiche anatomiche che
fanno del cane un animale macrosmatico, che letteralmente signi­
fica ‘gran fiutatore’.

Coordinazioni ereditarie e apprendimento


Per quanto riguarda la locomozione, il cucciolo dapprima stri­
scia sulla pancia, poi si trascina sgambettando e, infine, cammina
sulle zampe. Ancora una volta, possiamo imparare qualcosa osser­
vando il processo di maturazione dei movimenti istintuali. Innanzi
tutto, si sviluppano gli schemi motori fissi, o coordinazioni eredi­
tarie, inerenti alla locomozione, di pari passo con il graduale svi­
luppo dell’apparato motorio. Mentre fino a questo momento i
cuccioli non avevano sperimentato altro che il mangiare e il dor­
mire, nella terza settimana si manifesta un bisogno sempre cre­
scente di movimento. I cuccioli cominciano a girare senza meta
per la cuccia in una sorta di camminata, che preannuncia ciò che
sarà a breve. Nessuno nasce imparato, tuttavia da questi primi
tentativi non si svilupperebbe mai un vero e proprio moto di
deambulazione se gli impulsi del sistema nervoso non spingessero
i cuccioli a esercitare questa nuova capacità.
72
Stesso dicasi per le altre attività. Il motore di tutto è la curio­
sità, ovvero lo stimolo per ogni forma di apprendimento. Allo sta­
to naturale, il cane conserva per tutta la vita la gioia d’imparare,
anche perché essa costituisce una condizione indispensabile per la
sopravvivenza.
Tale curiosità emerge tra il sedicesimo e il diciottesimo giorno
di vita, evidentemente stimolata dal senso dell’olfatto. Se non fos­
se curioso di scoprire l’odore degli oggetti, il cucciolo non si so­
gnerebbe neppure di utilizzare il proprio naso. Funziona così:
quanto maggiore è la curiosità, tanto più impara e tanto più
profondamente penetra nei dettagli e nei rapporti del mondo che
lo circonda. Pertanto, il comportamento di un cucciolo alla fine
della terza settimana di vita può già rivelarci qualcosa del suo fu­
turo, quindi se sarà un corifeo, cioè un capo, oppure se dovrà ac­
contentarsi della qualifica di mediocre. Naturalmente può anche
trattarsi di un individuo tardivo, per il quale la famosa lampadina
si accende solo una settimana dopo. Non è importante il momen­
to in cui la curiosità si manifesta per la prima volta, ma il livello
della sua intensità.
Rivolgendo, dunque, tutta la nostra attenzione a questo fatto­
re, possiamo stare certi di vederne delle belle. I cuccioli comincia­
no ad annusare tutto: la madre, i fratelli, la cuccia, la mano che gli
viene avvicinata. Poi entra in azione la lingua, che tenta di leccare
tutto, anche le zampette. Alla fine, il cucciolo mordicchia tutto
quello che gli capita a tiro e, così facendo, impara a distinguere le
superfici piatte, come quella della cuccia, più difficili da afferrare
con i denti, da quelle più smussate e spigolose, come l’orecchio o
con il naso di un fratello, ben agganciabili.
Ma impara anche un’altra cosa: che i fratelli fanno come lui, e
che quando un cucciolo afferra un orecchio, il suo proprietario
comincia a fare l’impossibile per liberarsi, agita le zampette e alla
fine si mette a guaire di rabbia. Capisce che anche lui può venir
morso, e che la cosa è alquanto sgradevole. E divertente, però,
stare seduti muso a muso spalancando la bocca al massimo. Il più
svelto afferra il naso del compagno, che si mette a urlare ma, al
tempo stesso, aprendo la bocca, può tentare di mordere la mascel­
la inferiore dell’assalitore, e dato che quest’ultimo cerca di difen­
dersi allo stesso modo, ne risulta una lotta buffissima in cui en­
trambi si divertono finché uno non viene morso sul serio.
73
Per la prima volta il cucciolo esprime chiaramente la propria
gioia, dimenando a destra e a sinistra la coda, ancora piuttosto
corta, simile al codrione di un’anatra: è il preludio del vero e pro­
prio scodinzolare.
Tutti i movimenti osservati fin qui - l’andare a tentoni, le batta­
glie per finta a colpi di morsi, le ispezioni condotte con il naso -
sono eseguiti come al rallentatore, quasi con circospezione, e il lo­
ro effetto è molto comico. Anche le reazioni oculari sono ancora
piuttosto lente, e il cucciolo, prima di gettarsi su qualcosa che lo
interessa, lo fissa a lungo. Deve, insomma, esercitarsi in tutto e ac­
quisire una maggior esperienza.
Riguardo all’emissione della voce, i guaiti si vanno facendo me­
no frequenti anche in conseguenza della maggiore capacità di mo­
vimento che permette al cucciolo di sottrarsi a situazioni spiacevo­
li. Allo scadere della terza settimana lo si può sentire per la prima
volta emettere una specie di ringhio, che preannuncia l’abbaiare.
Adesso, se non si è ancora stretta amicizia con i piccoli, quando ci
si affaccia per controllare che sia tutto a posto, si viene accolti dai
loro minacciosi ringhi dal fondo della cuccia. Un comportamento
piuttosto contraddittorio: il ringhio, infatti, è associato a un atteg­
giamento di minaccia che, se l’avversario non si arrende, si trasfor­
ma in un’aggressione a morsi. I cuccioli, invece, non sono ancora
in grado di mordere e non appena si fa il gesto di volerli afferrare,
si appiattiscono in un angolo, restando paralizzati dal terrore, op­
pure urlando a tutto spiano.
Alla fine della terza settimana di vita il cucciolo comincia a
mordicchiare tutto quello che gli capita a tiro, essendogli spuntati
i denti incisivi e anche le zanne da latte, che all’inizio sono appun­
tite come aghi, provare per credere! Inizia già a sminuzzare dei
pezzettini di carne, pur non essendo ancora in grado di nutrirse­
ne, e perciò la madre rigurgita il cibo semidigerito, che i piccoli
leccano avidamente. A mio parere, è più importante dare alla ma­
dre del cibo selezionato, anziché integrare l’allattamento dei cuc­
cioli. In commercio esiste dell’ottimo cibo per cuccioli, di cui può
senz’altro servirsi chi possiede una cagna con uno scarso istinto
materno. Tuttavia, l’alimento integrativo per eccellenza, quello
previsto dalla natura, è la pappa prodotta dalla mamma. Per que­
sto, è bene sottoporre la nostra cagna a un regime variato, ricco
soprattutto di grassi e di albuminoidi. Il grasso è particolarmente
74
importante per i cani. Una volta ho notato che una cagna - una
dingo dall’istinto molto sviluppato - preferiva alla carne fresca di
cavallo del lardo di pony, che dall’odore non sembrava molto fre­
sco, come cibo per i suoi piccoli. Nel momento in cui io stesso,
una volta, offrii a dei cuccioli di ventiquattro giorni dei pezzettini
di carne e di lardo giallastro, essi si gettarono su quest’ultimo sen­
za esitazione! Molto adatto è anche il grasso bovino o quello di
animali più piccoli, come pecore, conigli e galline. Inoltre, la ca­
gna riesce a trasformare le interiora - cuore, fegato e rognoni - in
una pappa succulenta. Un po’ di cautela, come sempre del resto
quando si allevano cani, va invece usata con i carboidrati, che non
servono a nutrire i cuccioli, bensì solo a ingrassarli. In questo pe­
riodo, poi, la cagna dovrebbe cibarsi di piccoli animali, come i to­
pi, perché questo è ciò che il suo stato naturale prevederebbe.
Forse, però, non tutti possono trasformarsi nel Rousseau dei cani
e adottare lo slogan “Ritorno alla natura”.
Il fatto che il cibo destinato ai cuccioli debba prima essere ri­
dotto in poltiglia contribuisce a instaurare un nuovo rapporto
non soltanto con la madre, ma anche con il padre. Pochi sanno
che il maschio collabora al nutrimento dei figli e che spesso fra i
genitori nasce una certa competizione. E quasi commovente leg­
gere come i lupi Trigger e Lady, fratello e sorella, che la coppia
Crisler aveva allevato nella più remota regione dell’Alaska, si
prendevano cura di cuccioli non loro. Quando Trigger e Lady,
che sotto quel profilo erano ancora dei giovani animali inesperti,
vedevano i nuovi arrivati, si risvegliava in loro un istinto di prote­
zione e di cura, quale solo possono provare degli animali con un
elevato grado di socialità. Percorrevano anche trenta chilometri
per procurare loro del cibo e facevano a gara per sminuzzarglielo
in forma di pappa.
Erik Zimen mi ha raccontato che fin dall’età di quattro mesi la
sua prima lupa accudiva in modo simile dei cuccioli più giovani di
lei, un comportamento che non poteva aver imparato, visto che era
stata tolta alla madre quando era ancora piccolissima e allevata ar­
tificialmente con il biberon. Questo comportamento istintivo, tut­
tavia, si è perso in molte delle nostre cagne, e ancor più nei maschi.
I cuccioli, siano essi di lupo, di sciacallo o di cane, chiedono ai
genitori di preparare loro la pappa urtando continuamente il naso
contro l’angolo della bocca del padre o della madre, come dei pic­
15
coli mendicanti. Nel caso dei cuccioli di cane, ciò ha inizio intorno
al ventiduesimo giorno di vita.
E interessante notare come il colpetto dato al genitore per
chiedere cibo non finisca su un punto qualsiasi del muso, bensì
proprio sull’angolo della bocca. Può darsi che esista un collega­
mento tra questo gesto e il riflesso che induce il cucciolo di due o
tre settimane a sbadigliare di cuore quando lo si accarezza proprio
in quel punto, e che lo stimolo evocato spinga i genitori ad aprire
la bocca e a rigettare il cibo.
Per la trasformazione del cucciolo in creatura sociale, urtare il
naso contro l'angolo della bocca dei genitori e nutrirsi del cibo da
loro premasticato sono azioni che rivestono un’importanza parti­
colare, sulla quale ci soffermeremo ampiamente nel prossimo ca­
pitolo. Verso la fine della fase di transizione la richiesta di cibo del
cucciolo, accompagnata dal tipico gesto che abbiamo descritto,
può già considerarsi una reazione sociale: si tratta, infatti, di una
richiesta cui segue un’elargizione. Tale comportamento si diffe­
renzia dalla pressione sulla ghiandola mammaria o sulla mammel­
la, che invece è totalmente avulsa dall’esperienza e non suggerita
da nessun tipo d’intuizione. Del resto, è molto probabile che que­
st’atto non sia altro che un’evoluzione della pressione sulla mam­
mella in uno schema di comportamento orientato, guidato e inte­
grato dall’esperienza. In seguito, parleremo anche di un’altra tra­
sformazione del gesto di premere sulla mammella materna.

76
IV
L’impronta per la vita

Con le prime uscite dalla cuccia, comincia per i cuccioli una nuo­
va fase della vita, che durerà alTincirca fino alla fine del terzo me­
se. Se le prime settimane, trascorse nel sicuro involucro della cuc­
cia, rappresentavano, seppure in condizioni diversissime, una fase
tardiva del processo di sviluppo intrauterino, ora inizia il vero
confronto con l’ambiente circostante.
Questo primo ingresso neirimmenso mondo, tuttavia, non è
proprio una passeggiata per i nostri cuccioli. Il padre, infatti, inse­
gna loro che là fuori, nel mondo reale, non tutto è facile come nel­
la cuccia in cui sono stati partoriti. Lo fa in modo non troppo se­
rio e con un certo compiacimento, ma l’effetto è comunque note­
vole. Balzando da un cucciolo all’altro con fare giocoso e allegro,
li prende a uno a uno per la collottola e li tira di qua e di là come
se fossero delle palle, finché i piccoli non gridano a pieni polmoni
e non si gettano sulla schiena. Non appena il genitore lo lascia, il
cucciolo riguadagna in fretta il canile, dove può trovare protezio­
ne dal rude modo di giocare del padre. Dopo un po’, al termine di
questa loro prima uscita, i cuccioli sono di nuovo riuniti nella cuc­
cia. Guai a colui che in quest’occasione mostri sintomi di scarsa
vitalità: se non ha gli schemi comportamentali della sottomissione
ben sviluppati, o se non li possiede affatto, se non è abbastanza
intelligente o robusto per sottrarsi all’impulso ludico paterno riti­
randosi nella cuccia, allora è perduto. Il padre gioca così a lungo
con lui da fargli perdere tutte le forze, e neppure può contare sul
77
fatto che la mamma vada a prenderlo: un cucciolo che non torni
per la poppata non viene più riconosciuto dalla madre. Per alcuni
cuccioli, il ventunesimo giorno di vita è anche l’ultimo. Si tratta di
un giorno decisivo, in cui si attua una selezione che certamente in­
cide in modo determinante sulla trasmissione di un patrimonio
genetico sano.
Anche se all’inizio si limita a un’oretta al giorno, il debutto nel
mondo segna un importante punto di svolta nella vita del cuccio­
lo. Fino a quel momento la sua esistenza si era svolta in maniera
quasi automatica, scandita dal regolare alternarsi di cibo e riposo
reso possibile grazie agli schemi comportamentali innati e alle cu­
re della madre. Adesso, quasi all’improvviso, il cucciolo è assalito
da mille stimoli nuovi, che vanno dagli ossi di una preda, alle fo­
glie secche, ai rametti di legno, alle pietre, alla sabbia, e così via.
Per la prima volta avverte il vento e le gocce di pioggia, il calore
del sole, le ombre si muovono come i fratellini, ma a differenza di
loro non riesce ad afferrarle. I genitori vanno e vengono, si riposa­
no e si uniscono al gioco. Tutto questo, e molto altro ancora, arri­
va al suo piccolo cervello attraverso gli organi sensoriali, per esse­
re poi rielaborato. Allo stato naturale, da cui bisogna sempre par­
tire per capire l’origine del comportamento canino, ci sono anche
grandi pericoli. Pertanto, se tra le prime cose che impara c’è l’abi­
lità di sfuggire al padre, in seguito dovrà schivare i pericoli e stare
sempre all’erta.
Il comportamento dei genitori offre anch’esso molte indicazio­
ni, quindi bisogna prestargli attenzione. Ad esempio, i cagnolini
capiscono sin da subito che quando i cani anziani emettono un
suono leggero, simile a uno starnuto, si tratta di un segnale d’allar­
me, per cui non c’è altro da fare che correre a nascondersi.
Eisfeld ha definito questo segnale come un “respiro affanno­
so”, poi, nello sciacallo, l’ha descritto come un “breve, intenso
starnuto”, che è esattamente il suono che emettono i miei dingo
quando un estraneo entra nel loro recinto, per cui un attimo dopo
i piccoli sono già scomparsi. Il movimento della testa ricorda un
vero e proprio starnuto, e sembra essere provocato da una solleci­
tazione della mucosa pituitaria in seguito a un input non gradevo­
le, ad esempio l’odore di un animale pericoloso, come un orso. Lo
starnuto si produce nel naso e si trasforma in un segnale. A diffe­
renza dello starnuto come atto riflesso, questo ha uno scopo preci-
s0, di avvertimento, quindi è orientato. Il movimento della testa
serve a indicare al conspecifico la provenienza di quel nauseante
stimolo olfattivo.
Questo era un semplice esempio a dimostrazione di come i
cuccioli debbano ora confrontarsi con situazioni completamente
nuove. Affinché riescano a dominarle, devono avere a disposizio­
ne una notevole quantità di schemi comportamentali innati. Se Fi-
stinto a difendersi dovesse passare per l’apprendimento, infatti,
già la prima uscita potrebbe risultargli fatale. E dunque escluso
che, ad esempio, il significato dello starnuto di avvertimento sia
un qualcosa che s’impara con l’esperienza, poiché ciò potrebbe ri­
velarsi estremamente pericoloso. Questo segnale induce automa­
ticamente la fuga del cucciolo nel nascondiglio, dove resterà ac­
quattato finché non si calmano le acque. Una reazione del genere
non può essere appresa osservando i genitori, poiché questi fanno
esattamente l’opposto: corrono incontro al pericolo per attirarlo
su di sé e distoglierlo dalla tana. Persino nell’ambiente piuttosto
limitato di un canile è ancora possibile osservare questo tipico
schema comportamentale: gli anziani, in presenza di ciò che a loro
avviso rappresenta un pericolo, fanno di tutto per attirare su di sé
l’attenzione e in nessun caso si dirigono verso la cuccia.
Nel cucciolo, dunque, all’inizio della quarta settimana di vita,
emerge già tutta una serie di modelli comportamentali che non
era possibile osservare prima. Al tempo stesso, però, il cucciolo
continua a imparare molte cose, e piuttosto in fretta. Soprattutto
grazie agli studi di Irenàus Eibl-Eibesfeldt, sappiamo che esiste
un’“innata predisposizione all’apprendimento” delle nozioni più
importanti per la vita di un animale. Nella struttura stessa dell’or­
ganismo animale, dunque, è insita una particolare capacità di ac­
quisire facilmente e rapidamente le informazioni necessarie alla
sopravvivenza. Di norma queste specifiche capacità di apprendi­
mento integrano gli schemi motori fissi ampliandone il campo
d azione. Per un osservatore esterno, tali capacità costituiscono
talvolta un ostacolo, in quanto è facile non accorgersi di questo
Processo e avere l’impressione che si tratti esclusivamente di azio-
ni istintive innate.
A eccezione dei modelli comportamentali legati all’accoppia-
mento, fin dalla quarta o quinta settimana di vita si manifestano
Uei Cuccioli quasi tutti gli schemi di comportamento del cane
adulto: nel capitolo successivo potrei già compilarne un intero ca­
talogo. Così facendo, però, da un lato la peculiarità di un determi­
nato periodo della vita canina si perderebbe nella molteplicità de­
gli argomenti, dall’altro le ulteriori fasi di sviluppo del giovane
animale, per quel che riguarda il comportamento, si susseguireb­
bero in maniera monotona. Pertanto, per ogni singola fase di svi­
luppo, cercherò di esaminare i modelli comportamentali che più
la caratterizzano, assumendo un’importanza rilevante rispetto alle
altre fasi, precedenti o successive. Ho ritenuto di dover fare que­
sta premessa affinché il lettore, una volta giunto alla fine del pre­
sente capitolo, non pensi che abbia trascurato la metà delle cose
che si possono osservare nelle settimane che costituiscono la fase
presa in considerazione.
Negli studi più recenti, il periodo compreso fra la prima uscita
dalla cuccia e la fine del terzo mese di vita è definito aetà della so­
cializzazione”. Tuttavia, la prima parte di esso, fino airincirca allo
scadere della settima settimana, è chiaramente caratterizzata da un
particolare fenomeno di apprendimento - come del resto dalle di­
sposizioni innate all’apprendimento - e perciò vorrei analizzarla
separatamente. Dopo questo periodo, infatti, la socializzazione si
sviluppa in maniera molto più evidente nel cucciolo, il cui appren­
dimento è notevolmente condizionato anche dall’insegnamento
impartitogli dai conspecifici. Per tale motivo, ho ritenuto oppor­
tuno operare una separazione tra la “fase deirimprinting” (dalla
quarta alla settima settimana compresa) e la vera e propria “fase di
socializzazione” (dall’ottava alla dodicesima settimana compresa).

La fase deirimprinting
Il lettore che non abbia dimestichezza con la terminologia eto­
logica avrà forse qualche difficoltà a immaginare il significato che
la parola imprinting assume in questo contesto. Nel coniare una
moneta, l’impronta del conio resta per sempre su entrambe le fac­
ce, mentre nel linguaggio corrente dire che qualcosa ci è rimasto
“impresso” significa che non lo dimenticheremo tanto facilmente.
Per moltissimo tempo Konrad Lorenz ha allevato personal­
mente ogni possibile specie di uccelli, fra cui le oche selvatiche.
Questo è il modo migliore per identificare i modelli comporta­
80
mentali innati. Un uccellino appena uscito dall’uovo, che pertanto
n0n ha mai visto un suo conspecifico, non può aver appreso nulla
dai propri simili, quindi quello che sa deve essere per forza innato.
Se, ad esempio, un pulcino appena nato si mette a beccare il grano
senza nessuna guida, il suo può essere definito un comportamento
istintivo.
Nel caso specifico delle oche selvatiche, fu dimostrato che
questi volatili, se allevati letteralmente ab ovo, consideravano l’uo­
mo come un proprio simile, e questo per tutta la vita. Un maschio
di questa specie che sia stato allevato in isolamento non ricono­
scerà mai un’oca selvatica come sua simile, poiché resta legato al­
l’uomo. Mi è capitato il caso di un tacchino cresciuto in solitudine
che voleva accoppiarsi soltanto con uomini e che addirittura ucci­
deva le tacchine. Questi volatili non hanno un’immagine innata
dell’aspetto dei loro simili né d’altronde hanno bisogno di averla,
poiché normalmente un uccello adulto è la prima cosa che vedo­
no alla nascita. Affinché, però, tale ricordo duri per tutta la vita, la
natura li ha dotati di una particolare capacità di apprendimento
che è ancora più efficace delle disposizioni innate di cui ho parla­
to prima. L’immagine degli uccelli adulti s’imprime nel piccolo
nel giro della prima ora di vita, in maniera così profonda che in
seguito l’animale non potrà mai sbagliare, nemmeno incontrando
un uccello di una specie molto simile alla sua.
Quando, per un caso imprevisto, il primo essere che l’uccelli­
no appena nato vede è l’uomo, la sembianza umana s’imprime in
lui in maniera irreversibile. A tale proposito, Lorenz parla di “ir­
reversibilità dell’imprinting”, considerandola un elemento essen­
ziale per la definizione di tale concetto.
Nei pesci e negli uccelli si sono potuti osservare numerosi altri
esempi d’imprinting irreversibile, ma visto che per i mammiferi la
cosa non era altrettanto evidente, l’etologo preferisce parlare in
questo caso di “processi di apprendimento analoghi all’imprin­
ting”. Un cane allevato in solitudine dalla nascita considera l’uo­
mo come un conspecifico: se non ha mai occasione di vedere un
altro cane, vivrà contento così e un bel giorno farà all’uomo la sua
regolare proposta di matrimonio. Tuttavia, nel momento in cui gli
capiterà di avvicinare un altro cane, lo considererà subito un pro­
prio simile. In questo caso, dunque, l’imprinting è reversibile e
Perciò non corrisponde ai criteri sopra descritti.
81
Lorenz stesso ha spiegato che per i mammiferi la situazione è
diversa, ispirandosi a una vignetta vista su un quotidiano: un bas­
sotto, girando attorno a un albero, “incontra” il proprio posterio­
re e, dopo averlo annusato, si accorge con enorme delusione che è
sempre lui! A differenza degli uccelli, animali a prevalenza senso­
riale visiva, i mammiferi sono prevalentem ente degli osmatici,
quindi in grado di annusare se stessi. Un uccello, invece, non è in
grado di osservare se stesso e perciò, non conoscendo il proprio
aspetto, non può sapere nemmeno che aspetto devono avere i suoi
conspecifici. Per un cane, l’uomo che l’ha allevato ha pur sempre
un odore diverso. Il primo cane che incontra, invece, ha un odore
familiare, simile al proprio e, di conseguenza, da quel momento in
poi sarà attratto dal suo simile per affinità olfattiva.

Il imprinting nei confronti del conspecifico uomo

Anche nel cane esiste una forma limite d ’imprinting che non è
reversibile. Ancora una volta, però, si tratta di un’eccezione: la na­
tura, infatti, come non ha preordinato l’esistenza d ’incubatrici e di
etologi, non ha nemmeno previsto che l’uomo e il cane avrebbero
formato un sodalizio così stretto. Tuttavia, questo caso limite esi­
ste solo con segno negativo, poiché se non si verifica un im prin­
ting nei confronti dell’uomo, non s’instaura mai una vera comu­
nità fra uomo e cane.
Per spiegare meglio il concetto, porterò un esempio concreto.
Ho fatto crescere una cucciolata di dingo privandola di qualsiasi
contatto con esseri umani fra la terza e la settima settimana di vita.
I cuccioli potevano vederci, ma nessuno di noi giocava con loro o
li toccava, cosa che invece accadeva con i loro affettuosi genitori,
con cui continuavamo a interagire, anche davanti a loro. Il risulta­
to è stato che i cuccioli sono diventati cani selvatici, così poco so­
cievoli da nascondersi non appena qualcuno si avvicina a dieci o
quindici metri dal loro recinto. Ogni sforzo di stabilire un contat­
to con loro dopo la settima settimana è fallito. L’unica soluzione
ancora possibile sarebbe quella di addomesticarli, come se fossero
animali selvaggi, ma anche in questo caso si otterrebbe soltanto
che non avessero più paura dell’uomo, mentre non sarebbe più
possibile instaurare una vera intimità.

82
Un altro esempio è dato dai miei sciacalli. È noto che gli scia­
calli, se allevati fin da piccoli, diventano socievoli e affettuosi come
cani. I miei sciacalli sono nati in un canile che aveva il pavimento
di terra nuda. All'età di cinque settimane, questi animali, estrema-
mente precoci, avevano scavato una galleria sotterranea che, alla fi­
ne della sesta settimana di vita, aveva raggiunto una lunghezza di
ben due metri e mezzo. Qui passavano la giornata dormendo e so­
lo di notte andavano dalla madre, evitando così qualsiasi incontro
con gli esseri umani. Quando, a sei settimane esatte, li abbiamo
presi, era già troppo tardi. Con l’aiuto del nostro cane da pastore
Sascha siamo riusciti a ottenere che sopportino la vista dell’uomo
senza scappare, ma ovviamente non si lasciano prendere e, se qual­
cuno tenta di farlo, mordono selvaggiamente dove capita.
Qualcuno dirà che, essendo dei cani selvaggi, è logico che sia
così. L'esperimento con i dingo, però, non l’ho compiuto a caso,
bensì spinto da uno studio realizzato negli Stati Uniti su innume­
revoli cani. A Bar Harbor (Maine) c'è il Roscoe B. Jackson Memo-
rial Laboratory, che si occupa del rendimento psichico dei cani.
Fra l’altro, lì si trovano anche delle grandi riserve dove alcune raz­
ze canine, tra cui fox terrier, beagle, collie e basenji, vivono e alle­
vano i propri cuccioli senza l’intervento dell’uomo. Tutti i cuccio­
li cresciuti in quelle condizioni si comportano proprio come i miei
dingo, mostrano cioè scarsa socievolezza e così rimangono. Per il
mio esperimento con i dingo mi ero basato su questo risultato e
speravo, attraverso ulteriori esperimenti, di ottenere un quadro
più esauriente.
Ed ecco come andò l’esperimento successivo: una femmina
dingo, che aveva vissuto tre mesi con la madre nel canile senza es­
sere mai presa in braccio da noi a partire dal ventunesimo giorno,
fu portata a casa nostra insieme ad altri cuccioli molto socievoli,
alcuni più giovani, altri coetanei o più anziani di lei. L’allegra
combriccola aveva il permesso di entrare una volta al giorno nello
studio dove poteva giocare liberamente con lo zio Sascha. La ca­
gnetta dingo tendeva a rimanere sulle sue, e se qualcuno faceva
per prenderla si nascondeva e scappava: nemmeno vivendo a
stretto contatto con noi umani era ormai più possibile farla diven­
tare domestica. A volte evitava persino il contatto con gli altri cuc­
cioli, i quali invece apprezzavano moltissimo ogni rapporto con
l’uomo.

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Vorrei, infine, descrivere un terzo caso, un po’ particolare ri­
spetto agli altri due. Abbiamo pesato Kor e Kira, due cuccioli nati
in una fossa scavata per terra, a una temperatura siberiana, fino al
cinquantesimo giorno, ma negli ultimi venti giorni soltanto quat­
tro volte. Dopo il ventesimo giorno ce ne siamo occupati solo sal­
tuariamente e quando questi animali hanno raggiunto un’età fra le
sette e le otto settimane, li abbiamo fatti entrare due volte in casa
perché giocassero con gli altri cuccioli e con Sascha. All’età di die­
ci settimane li abbiamo portati ogni giorno fuori dal canile, e que­
sto per una settimana di seguito. A cinque mesi hanno avuto il
permesso di stabilirsi in casa. Qual è il loro atteggiamento verso
l’uomo? Scodinzolano cordialmente, ma accennano soltanto un
saluto, avvicinandosi e come dando un colpetto all’aria con il mu­
so. Una piccola differenza individuale è costituita dal fatto che a
volte Kira si spinge a leccare timidamente la mano che le viene of­
ferta, mentre Kor non lo fa mai. Dopo questo cenno di saluto,
sempre cordiali ma scodinzolando a coda bassa, si ritraggono co­
me in attesa di vedere cosa accadrà. Se ci si siede tranquillamente,
riprendono quasi subito i loro giochi con gli altri cuccioli, talvolta
si avvicinano a noi per esprimerci di sfuggita la loro sottomissione,
e Kira osa persino urtarci la mano con il naso. Inoltre, si nota che
percepiscono in modo differente me e la mia assistente, Èva. Poi­
ché Èva porta loro da mangiare presenta una “tonalità positiva” e,
avendo più occasioni di stare con loro, l’attaccamento verso di lei
è ovviamente un po’ più intenso, al punto che Kira spesso le per­
mette persino di accarezzarla.
Attraverso una serie di altri esperimenti, ho riscontrato nei ca­
ni tutte le reazioni possibili, da una totale mancanza di contatto a
un timore più o meno accentuato di qualsiasi contatto, fino a un
estremo piacere nell’avere rapporti con l’uomo. Il piacere, o il ti­
more, di tale rapporto dipende esclusivamente da quanto l’uomo
si occupa dei cuccioli a una determinata età. Non sono in grado di
fornire dei limiti di tempo precisi, poiché per stabilirli con assolu­
ta certezza sarebbero necessari altri esperimenti. Un fatto è certo,
però, ed è che la fase critica inizia intorno al diciottesimo giorno
di vita e non oltrepassa di molto la settima settimana. A ciò si ag­
giunga, poi, il fenomeno di quello che definirei “l’ampliamento
dell’immagine dell’uomo”. L’espressione va intesa in questi termi­
ni: all’inizio della fase critica, il cucciolo considera chi si prende
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cura di lui, cioè la prima persona con la quale viene a contatto, co­
me suo partner nel processo di socializzazione. Nei confronti del­
le persone che compaiono in un secondo tempo prova dapprima
un senso di paura, che però supera in fretta se queste giocano
spesso con lui nel primo periodo della fase dell’imprinting. Se
però queste persone entrano nella vita del cucciolo a partire dal­
l’ottava settimana, l’adattamento è ancora possibile, ma non rag­
giungerà il grado d’intensità che, in linea di massima, si può otte­
nere quando ciò avviene in una fase assai precoce. I cuccioli di al­
cune razze sono persino costretti a rimanere legati a chi si è preso
cura di loro per primo, quando per un periodo di dodici o più set­
timane è stato impedito loro di avere contatti con altre persone: la
loro immagine dell’uomo rimane così limitata a quell’unica perso­
na e non sarà più possibile ampliarla. E noto invece che, ad esem­
pio, i cani da pastore si affezionano facilmente a varie persone per
tutto l’arco della loro vita molto più di altre razze. Pertanto, può
darsi che tale predisposizione vari da una razza all’altra. Tuttavia,
nei rapporti con l’uomo la fase dell'imprinting è uno dei fattori
quantomeno essenziali, se non addirittura determinanti. Di solito
i cuccioli, già nelle prime otto settimane di vita, vedono parecchie
persone e di conseguenza hanno modo di rendersi conto che esi­
stono più compagni con cui giocare. Per loro, l’uomo non è altro
che una diversa forma di conspecifico.
Il nocciolo della questione è, dunque, il seguente: dall’imprin­
ting riguardante una singola persona si passa gradualmente all’im­
printing riguardante le persone in generale, e questo passaggio si
compie proprio nel corso di alcune settimane decisive.
I cani che si smarriscono cercano di stabilire un contatto con
persone sconosciute, di seguirle. Alla Protezione Animali arrivano
ogni giorno comunicazioni del tipo: “Ho trovato un cane abban­
donato che mi ha seguito fino a casa”. In casi del genere, si tratta
sempre di cani che, durante la fase di socializzazione, hanno am­
pliato la loro immagine dell’uomo. Quei cani che, invece, hanno
avuto un imprinting limitato raramente seguono una persona,
tutt’al più non scappano via se qualcuno li chiama. Naturalmente
esiste un’intera gamma di sfumature in tal senso, legate alle espe­
rienze giovanili dell’animale. I cani che hanno avuto un imprin­
ting limitato tendono a cercare esclusivamente il proprio padrone
e. nei casi estremi, non entrano in confidenza proprio con n essu n
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altro, e se vengono adottati da nuovi proprietari, approfitteranno
di ogni occasione per cercare di fuggire.
Parecchi anni fa ho preso dalla Protezione Animali un cane da
pastore nero. Questo esemplare costituiva un’eccezione alla regola
secondo cui gli individui della sua razza fanno amicizia con tutti,
tant’è che anche dopo quattro settimane questo individuo di circa
tre anni non mostrava la minima disponibilità a instaurare un vero
contatto. In altre parole, mi accettava unicamente come dispensa­
tore di cibo. Da parte mia, ero sempre in giro a cercarlo, e la cosa
andò avanti così finché un bel giorno non riuscii più a trovarlo.
Devo precisare che quel cane da pastore doveva evidentemente
aver avuto un buon rapporto con il suo padrone, perché conosce­
va tutti i comandi generalmente usati, anche se nei miei confronti
- essendo io un estraneo per lui - li eseguiva solo controvoglia.
Tuttavia, il solo fatto che li eseguisse senza che i suoi movimenti
tradissero un senso di sottomissione servile significava che il rap­
porto con il padrone doveva essere stato positivo. Molti cani da
pastore che hanno subito un addestramento troppo severo e poco
comprensivo, quando sentono un comando si piegano letteral­
mente su se stessi, anche se viene impartito loro da una persona
estranea o non è rivolto a loro ma a un altro cane.
Per quanto riguarda i rapporti fra uomo e cane, dunque, una
cosa è certa: le prime esperienze di contatto con l’uomo sono deci­
sive per il futuro sviluppo del suo carattere. Dato che non sappia­
mo con precisione cosa sia effettivamente ereditato e cosa sia inve­
ce “impresso” fra la terza e la settima settimana, è probabile che
queste prime esperienze incidano notevolmente sull’indole di un
cane.

Il acquisto di un cucciolo
Chi abbia intenzione di procurarsi un cagnolino, potrebbe cer­
care nelle vicinanze un allevatore che abbia reso noto, magari at­
traverso l’associazione di categoria di cui fa parte, l’arrivo o l’atte­
sa imminente di una cucciolata. Una volta presi accordi con lui,
fin da quando ha inizio la fase dell’imprinting, dovrebbe andare a
trovare i cuccioli per giocare un po’ con loro. Se nota che, lì all’al­
levamento, questi hanno sufficienti occasioni di ampliare la pro­
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pria immagine dell’uomo e di approfondire i contatti con lui, ba­
steranno un paio di visite prima di decidere quale portarsi a casa.
Altrimenti, si dovrà cercare di avere il maggior numero di contatti
possibile entro l’ottava settimana di vita. Per quanto mi riguarda,
non comprerei mai da un allevatore un cagnolino che scappa se
mi avvicino. I cuccioli che hanno raggiunto un giusto livello di so­
cializzazione con l’uomo corrono incontro a un visitatore scono­
sciuto senza alcun segno di paura, anzi con grandi manifestazioni
di gioia. Il cucciolo che per primo vi salterà addosso, fino a rag­
giungere il viso per toccarvi col muso e leccarvi, è quello giusto!
Una volta deciso di prendere un cane, che sarà nostro amico
finché vivrà, dobbiamo essere consapevoli di tutti questi problemi
e, pertanto, la premessa essenziale per trovare un buon amico è
trovare prima un buon allevatore. Non esiste altra possibilità, a
meno che non li alleviate voi stessi.
Esistono, purtroppo, molte persone che, non avendo mai ri­
flettuto su questi aspetti, pensano che acquistare un cane sia come
acquistare un articolo di marca, la cui qualità è garantita dalla dit­
ta produttrice. Prima di decidere l’acquisto di un’automobile, che
deve durare almeno tre o quattro anni, la maggior parte delle per­
sone ci pensa su bene, soppesando i vari prò e contro. Un cane,
invece, lo comprano basandosi sui famosi documenti che com­
provano che si tratta di un animale di razza pura, i cui antenati so­
no stati tutti premiati in vari concorsi canini. Solo in seconda bat­
tuta si accertano che il cane sia sano e, nel migliore dei casi, si fan­
no rilasciare un certificato di vaccinazione, poi prendono il cagno­
lino in braccio e se lo portano a casa.
Alcuni allevatori si rifiutano di vendere i loro cani a persone
del genere. Un vero allevatore è orgoglioso dei propri cuccioli ed è
molto più contento se il futuro acquirente comincia a interessarsi
dell’animale ben prima del giorno in cui va a ritirarlo. Non credo
che seguire il mio consiglio presenti delle difficoltà. Nella peggio­
re delle ipotesi, si tratterà di cercare un altro allevatore che condi­
vida il vostro interesse e lo sappia apprezzare. Vedrete che non ve
ne pentirete.

87
Qua la zampina!
Durante la fase dell’imprinting la cagna non allatta più i piccoli
esclusivamente nella cuccia ma, più di frequente, all’aperto. Possia­
mo vederla spesso allattare seduta ma, a poco a poco, tendere ad
assumere la posizione della lupa capitolina, per cui i cuccioli, come
i fondatori di Roma, devono succhiare a testa in su. Ai cuccioli rie­
sce difficile sollevare contemporaneamente le due zampette ante­
riori e così ben presto si accontentano di premere sulla ghiandola
mammaria con una sola, utilizzando l’altra per l’appoggio.
Ho voluto descrivere questo fatto non solo perché c’illustra co­
me un modello comportamentale infantile, cioè la pressione sulla
mammella, possa trasformarsi in una componente molto specifica
del comportamento di un cane, nell’adolescenza prima e nell’età
adulta poi, ma anche perché ci permette di esplorarne ancora me­
glio il comportamento espressivo.
Rana, la mia cagna da pastore, ha un’abitudine piuttosto anti­
patica. Tutte le volte che le permetto di entrare nello studio, mi si
butta addosso poggiandomi la zampa sulle ginocchia, o anche più
in alto. Presa dall’entusiasmo dei saluti, lo fa ripetutamente e con
molta energia, anche alternando le zampe. Il fatto che di solito ar­
riva dal cortile è testimoniato dalle evidenti tracce che lascia sui
miei vestiti! Ho esitato a lungo a farle perdere questa cattiva abi­
tudine, che si portava dietro fin da piccola. Spesso, infatti, Fetolo­
gia convince a fare l’esatto contrario di ciò che qualunque pro­
prietario di cani farebbe normalmente. Così, tutte le volte che ser­
ve, ho la scusa pronta al fatto che i miei cani sono decisamente
“maleducati”. Tuttavia, questo gesto di Rana di dare la zampa, co­
sì accentuato e mai appreso, ha stimolato in me un vivo interesse.
Esso rappresenta un preciso segno di sottomissione, ovvero un ge­
sto di propiziazione preventiva a fronte di eventuali cattive inten­
zioni nei suoi confronti.
Quasi tutti i cani che ho conosciuto hanno compiuto il gesto di
dare la zampa tutte le volte che avevano motivo di essere sgridati
severamente. Tale gesto, unito allo sguardo del cane, pieno di de­
vozione e di senso di colpa, ha veramente un effetto disarmante e
suscita commozione, tanto sembra umano. Si tratta, invece, di un
modello comportamentale che, con lo stesso significato, si attua
fra gli stessi cani e che, pertanto, non è il risultato dell’educazione
88
impartita dall’uomo. La maggior parte di chi possiede un cane gli
ha insegnato fin da cucciolo a dare la zampina e perciò pensa, ov­
viamente, che il cane utilizzi questo gesto per ingraziarsi il padro­
ne, dimostrando così la sua eccezionale intelligenza.
Esistono, però, altre opinioni in proposito. Una volta, ad
esempio, un conoscente mi ha raccontato che la sua brava bar-
boncina aveva trasmesso in eredità ai cuccioli il gesto di dare la
zampina, che lui stesso le aveva insegnato. Rimase molto deluso
quando gli dissi che, invece, si trattava di una vecchia credenza
infondata, ormai superata da tempo. Per dimostrarmi che aveva
ragione, sottolineò che tutti i suoi cuccioli avuti dalla cagna ese­
guivano quel gesto spontaneamente, senza che nessuno glielo
avesse mai insegnato. Replicai che tutti i cani lo fanno istintiva­
mente e che non occorre insegnare loro come fare, ma soltanto
quando farlo, cioè in risposta a quale stimolo o comando. Per di
più, gli si può persino insegnare a farlo con la zampa destra, pro­
prio come gli uomini.
Eisfeld, a tale proposito, afferma: “Questo gesto dimostra sot­
tomissione in un clima cordiale”. Il cane non intende toccare di­
rettamente il partner della sua stessa specie, o perlomeno non an­
cora, bensì fare un gesto che possa essere compreso, che deriva da
quel particolare “tastare con le zampine” che ho spesso osservato
nei miei cani. Nel loro caso si tratta di un contatto diretto, di soli­
to nella zona del collo o della testa, sia fra un maschio e una fem­
mina in vena di effusioni, sia da parte dei cuccioli verso i cani
adulti. I padri dingo, in particolare, che pure giocano molto affet­
tuosamente con i figli, li educano a un’incondizionata sottomissio­
ne. Se uno di loro si lancia arrabbiato verso il rampollo, quest’ulti­
mo si butta a pancia in su guaendo a tutto spiano, quasi stesse per
essere divorato! Non appena, però, il padre cessa di minacciarlo e
il cucciolo riprende coraggio, si assiste immancabilmente a un ri­
tuale di propiziazione, in cui i gesti di porgere la zampa e di tasta­
re l’altro rivestono un ruolo molto importante.
Così è, dunque, come il cucciolo ottiene clemenza presso il ge­
nitore, ed è con lo stesso significato che il cane usa questi gesti an­
che con l’uomo. Vorrei sottolineare la parola “ottiene” per torna­
re sulla pressione esercitata dalla zampa sulla mammella.
A prima vista questo riferimento può sembrare strano, ma la
spiegazione è semplice e per comprenderla basta osservare un
89
cucciolo di sei o sette settimane mentre succhia dalla cagna in po­
sizione eretta, sulle quattro zampe. In questa posizione, il lattante
non riesce più a esercitare una pressione sulla mammella come
quando la mamma era distesa nella cuccia, ma continua a farlo al­
zando una zampa e premendo con questa. Riconosciamo il gesto
di porgere la zampa, solo che in questo caso l’obiettivo da rag­
giungere è un altro: stimolare il flusso del latte!
Anche quando la mamma porta da mangiare, riconosciamo nei
cuccioli, nel loro modo di quasi mendicare il cibo, il gesto di por­
gere la zampa. Queste, dunque, sono le trasformazioni subite dal
gesto di premere la mammella compiuto dal cucciolo neonato.
Del resto, nel regno animale sono molto diffusi i gesti da que­
stuante, intesi anche come gesti di propiziazione, e persino la ma­
no sollevata dagli uomini in segno di pace potrebbe avere la stessa
origine. Eibl-Eibesfeldt scrive a questo proposito: “Gli scimpanzé
si danno la mano, proprio come noi. L’iniziativa parte da chi è di
rango inferiore; questi, con un gesto da questuante, offre la mano
aperta, con il palmo rivolto verso l’alto, al superiore. In risposta a
questo gesto di ricerca di contatto, che ha origine nell’infanzia, chi
è gerarchicamente superiore porge a sua volta la mano, in questo
modo tranquillizzando l’altro”.

I colpetti di naso
Esiste un altro modello comportamentale del cucciolo che ri­
troviamo in seguito, con una nuova funzione, nella vita del cane
adulto. Si tratta del gesto di sprofondare il naso nella pelliccia del­
la mamma, grazie al quale il piccolo nidiaceo cerca e trova il ca­
pezzolo. Da questo gesto tipico del poppante deriva quello, cono­
sciuto da tutti, con cui il quadrupede che ci è affezionato c’invita
ad accarezzarlo. Quando invece il cane, attraverso questi colpetti,
ci fa capire che vorrebbe qualcosa di quello che stiamo mangian­
do, si tratta di una trasposizione, molto interessante sotto il profi­
lo etologico, di un gesto espressivo in un ambito funzionale diver­
so e, inoltre, del risultato di una cattiva educazione. In ogni caso,
quando urta la fredda punta del naso contro la nostra mano, il ca­
ne vuole dirci che desidera qualcosa, e ci sollecita a fare qualcosa
per lui. Questo gesto - lo si avverte distintamente - viene eseguito
90
dal basso verso Palto, proprio come avviene quando il cucciolo
affonda il nasino nella pelliccia materna. Nel caso desideri le no­
stre carezze, riesce persino, a furia di colpetti, a portare la nostra
mano sulla sua testa oppure, viceversa, a spingere questa sotto la
nostra mano, dopo averla sollevata con il naso.
Binna, la mia elkhound, che è tutta contenta quando ci si occu­
pa di lei, esegue questo invito alla carezza con abilità magistrale.
Aiutata da quella capacità tutta sua di abbassare le orecchie all’in-
dietro, fino a quasi farle scomparire nel folto pelame, ti offre la te­
sta, che in realtà somiglia più a quella di una foca, guardandoti
con due occhi canini che trasudano fedeltà. A quel punto, è dav­
vero impossibile sottrarsi alPinsistenza dei suoi colpetti!
Di solito questo modo di farsi accarezzare sulla testa è preferi­
to dai cani a orecchie lunghe, soprattutto bassotti e spaniel. Un
vero lupo invece - la mia Rana è un’eccezione - non apprezza
molto se gli si passa il palmo della mano dal naso fino a dietro la
testa. Questa differenza ci permette di distinguere i vari tempera-
menti: se un cane da pastore ama questo tipo di carezze, vuol dire
che è particolarmente sottomesso, uno schiavo devoto al padrone,
docile strumento di ogni genere di dominio, disposto a seguire
chiunque si mostri gentile con lui. Ovviamente, sto parlando di
un maschio adulto. Nel caso di una femmina, soprattutto se il pa­
drone è di sesso maschile, la regola non si applica in modo altret­
tanto rigido, e meno che mai quando è in calore. Un esperto di ca­
ni da pastore, giudice nelle commissioni d’esame dei cani da dife­
sa, recentemente mi ha detto che lui vieta addirittura le carezze
sulla testa. Penso che ciò non dipenda solo dal fatto che un cane
che se ne stia a orecchie basse di fronte al padrone non offre un
bello spettacolo, ma soprattutto dal fatto che un cane dalle orec­
chie dritte può stare all’erta soltanto quando i suoi recettori di
suoni non subiscono interferenze di alcun genere. Un vero cane
da difesa non può sentirsi a proprio agio se s’impedisce ai suoi or­
gani sensoriali - orecchie, naso, occhi - di captare senza interru­
zioni quello che avviene intorno. Un lupo con le orecchie appiat­
tite all’indietro, il naso e gli occhi rivolti fissamente al viso dell’i­
struttore, sente vede e annusa solo questo e nient’altro.
E, tuttavia, lecito, frenare un eccesso di colpetti di tanto in tan­
to, ad esempio quando il cane ci sollecita, in modo impaziente, a
uscire per la passeggiata se indugiamo troppo con il guinzaglio in
mano. Ai suoi occhi dobbiamo mantenere la posizione di capo­
branco e continuare a essere noi a decidere il momento della pas­
seggiata. Se poi reclama parte del nostro pasto, allora dovremmo
essere ancora più fermi nel dirgli di no, evitando di farci intenerire.
Ogni cane normale capisce in fretta e facilmente che il dare dei
colpetti con il naso deve restare nell’ambito funzionale cui appar­
tiene, e allora la sua amichevole ricerca di contatto ci farà soltanto
piacere.
Come ho già detto, questo modello comportamentale in origine
non era legato ai rapporti con l’uomo, ma con i consimili. “I con­
tatti nella regione della testa, del collo e della spalla, mediante leg­
geri colpetti di naso e annusate” appartengono, come ha osservato
Alfred Seitz nei coyote e negli sciacalli, alle funzioni legate al com­
portamento finalizzato all’accoppiamento. La stessa osservazione
l’ha fatta R. Schenkel a proposito dei lupi. E non diversamente si
comportano i miei cani: il maschio e la femmina affondano il naso
nella pelliccia l’uno dell’altro in corrispondenza della testa e del
collo, fino alle spalle, passando gradualmente dai brevi colpetti a
un prolungato, quasi voluttuoso, frugare fra i peli del mantello. A
questo gesto di rovistare nel pelo dell’altro si aggiunge un annusare
ben distinto, che non ha nulla a che vedere con i colpetti dati con il
naso. L’annusata delle regioni della testa e del collo sarà oggetto di
un altro capitolo, essendo connessa a un altro comportamento del
cane, fonte di preoccupazione per molti padroni.
Infine, che i cani si diano dei colpetti col naso fra loro può rap­
presentare anche un invito al gioco e, in generale, a quel tipo di
giocosità affettuosa che porta alla formazione di una coppia. So­
prattutto i cani fra i quali esista una grande confidenza, come ma­
dre e figlia, o i fratelli fra loro e i cani che vivono da lungo tempo
insieme d’amore e d’accordo, dandosi dei colpetti di naso s’invita­
no a delle reciproche giocose effusioni, nel corso delle quali le fau­
ci di chi ha preso l’iniziativa prendono delicatamente il muso del
partner. Ci dev’essere una grande fiducia reciproca per affidare
una parte così sensibile del proprio corpo, come quella fra il naso
e la bocca, agli aguzzi denti del compagno.
Il cane in vena di dare colpetti con il naso considera la nostra
mano come un surrogato del nostro viso o del nostro collo, e al­
trettanto volentieri gioca con essa a “prendere il muso nelle fau­
ci”. Di solito questo gesto di trattenere la mano con un cauto mo­
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vimento di masticazione appena accennato, non sempre piacevole
con un cane giovane per la sua mancanza di esperienza e per i
suoi denti aguzzi, è una manifestazione di tenerezza. Se diventa
più forte, assume le caratteristiche di un vero e proprio invito: il
cane vuole giocare. Allora, come nel caso dei cuccioli che comin­
ciano con le effusioni muso a muso per poi passare a una lotta a
morsi per finta, il cane adulto che trattiene con una certa forza la
nostra mano, tirandola, vuole indurci a giocare, oppure invitarci a
fare l’abituale passeggiata.
Quando Binna o Rana con i loro colpetti di naso m’invitano a
uno scambio di tenerezze, spesso rispondo imitando la presa delle
fauci, con le dita piegate. Va fatto delicatamente, in modo che il
cane possa sempre strofinare le fauci, compiendo una breve rota­
zione, sulla punta delle dita, perché solo così riesce a capirne il ve­
ro significato. Perché dovrebbe essere soltanto il cane a imparare
e a sforzarsi di comprendere il comportamento dell’uomo? Una
volta tanto potremmo anche noi avventurarci nel linguaggio cani­
no, pur sempre mantenendo la nostra dignità!

Il sonno
Esaminiamo ora un modello di comportamento molto elemen­
tare, il sonno, che a quest’età riveste ancora una grande importan­
za. Innanzi tutto, però, dobbiamo tornare ai primissimi giorni di
vita del cucciolo.
Le caratteristiche anatomiche del cucciolo, ad esempio le gam­
bette molto divaricate, fanno sì che tendenzialmente dorma boc­
coni. Per lui, però, anche quando dorme è fondamentale mante­
nere un contatto con il corpo materno o perlomeno con quello
dei fratelli.
Un cucciolo che non possa appoggiarsi a qualcosa di morbido,
caldo e peloso, non riesce a dormire e uggiola forte e senza sosta.
Questo modo di giacere a stretto contatto non si limita alla pri­
ma infanzia ma compare in tutto il periodo infantile, e va lenta­
mente scomparendo nel corso del primo anno di vita. Il cane
adulto, invece, non ama nessun tipo di contatto fisico quando
dorme, nemmeno con un suo simile cui sia molto affezionato. Al­
l’età di otto settimane, Rana aveva stretto subito amicizia con Sa-
scha, che allora aveva un anno e mezzo. Questo maschio, come ho
già raccontato, è molto amico dei cuccioli e spesso mostra un at­
teggiamento quasi materno. Sascha si occupò in maniera commo­
vente della cagnetta, giocando con lei tutte le volte e per tutto il
tempo che lei voleva. Ma quando Rana, stanca dal gioco, si sdraia­
va accanto a lui, come fanno i cuccioli, non riusciva a sopportarla
per più di qualche minuto, dopo di che doveva andarsi a distende­
re qualche metro più in là, lasciando sola Rana che nel frattempo
si era addormentata. Ora Rana ha quasi dieci mesi, ma ogni tanto
prova ancora il desiderio di addossarsi a Sascha durante il sonno.
Pur essendo un cuore e un’anima, però, quando succede, Sascha
si alza e cambia posto.
La normale posizione che un cane adulto assume durante il son­
no è quella a ciambella: il corpo giace metà sul fianco e metà sul
ventre formando un cerchio completo, mentre il muso poggia sul­
l’attaccatura della coda, la quale circonda la testa. In questo modo,
la superficie del corpo si riduce e le parti più sensibili sono protet­
te. Quella a ciambella è una posizione molto pratica, che ripara dal
vento e dalle intemperie, e pensate che i discendenti degli elkhound
e dei dingo di mia proprietà spesso si lasciano ricoprire dalla neve
stando in questa posizione, proprio come i cani da slitta.
La posizione su metà lato ricorda un po’ quella dei cuccioli: il
tronco è disteso a terra sul ventre e la testa giace fra le zampe ante­
riori stese in avanti, mentre una delle cosce posteriori viene spinta
di lato, in modo che le due zampe posteriori siano entrambe rivol­
te dalla stessa parte. Esistono però molti cani la cui posizione di ri­
poso somiglia moltissimo a quella dei piccoli: il ventre poggiato
completamente a terra e le zampe posteriori divaricate all’indie-
tro, una per lato. La mia Binna predilige questa posizione cosid­
detta “a scendiletto”, e come lei alcuni dei suoi discendenti ibrida­
ti con i dingo. Chi non possiede un laika ma volesse osservare dal
vivo questa posizione, può andare allo zoo: tutti gli orsi, in parti­
colare quelli polari, la preferiscono di gran lunga alle altre.
Queste sono le tre tipiche posizioni di riposo del cane. Binna,
però, ne conosce una quarta: si stende volentieri sul dorso, la spi­
na dorsale un po’ incurvata, le gambe ripiegate, e in questa posi­
zione riesce persino a dormire. Talvolta i cani assumono delle po­
sizioni talmente grottesche, che è difficile immaginare comode!
Per i primi dieci giorni, il cucciolo si accontenta della posizione
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che, come abbiamo detto, caratterizza anche gli orsi polari. Con le
sue gambette tozze e non ancora del tutto sviluppate sarebbe per
lui abbastanza difficile rialzarsi da una posizione diversa. Inoltre,
ha ancora la possibilità di dormire a contatto con la mamma.
Un’altra cosa che possiamo osservare in un cucciolo sono dei lievi
sussulti che fa con le zampe e persino con le minuscole orecchie.
Questo comportamento, accompagnato da emissioni vocali si­
mili a un ululato o a un ringhio represso, è tipico del cane adulto.
Ma anche un uomo che parli nel sonno raramente si esprime con
chiarezza, e il motivo, come per il cane, è lo stesso: i sogni.
Un cane sogna proprio come l’uomo, e i suoi sogni si riferisco­
no ovviamente al suo mondo, dove probabilmente gli odori hanno
un ruolo importante. Capita a volte che un cane sia profondamen­
te immerso nei suoi sogni. Provate a svegliare un cane mentre,
chiaramente, sta sognando di dare la caccia a un altro animale: os­
servandolo bene ci si rende conto di come in quel momento faccia
fatica a distinguere tra sogno e realtà. Nel cane, tuttavia, questo
processo si svolge molto più in fretta di quanto avvenga per la
maggior parte degli uomini. Anche nel sonno più profondo, infat­
ti, i sensi del cane non sono mai sopiti del tutto. Ad esempio, riesce
ad accorgersi se ci stiamo avvicinando, e io ritengo addirittura pos­
sibile che inserisca questo fatto in ciò che sta sognando.
So per esperienza quanto sia facile che il trillo della sveglia
s’insinui nell’ultimo sogno del mattino, prima del risveglio. È no­
to come questi sogni si svolgano molto più rapidamente dei nostri
pensieri da svegli. Il cane, dunque, deve sognare molto intensa­
mente e noi dobbiamo avvicinarci in maniera quasi impercettibile
perché quest’attimo di sorpresa causato dall’improvviso muta­
mento di situazione si verifichi. Del resto, chi conosce da anni il
comportamento del proprio cane riesce a indovinare con un buon
margine di sicurezza che cosa sta sognando in quel momento.
Non è certo possibile dimostrarlo, ma è divertente immaginarlo.
Dormire è un’occupazione non soltanto piacevole ma anche
utilissima, provocata da uno stato di appetizione che in genere de­
finiamo “bisogno di sonno”. Tale bisogno spinge il cane a ricerca­
re degli “stimoli evocatori di sonno”. H.D. Schmidt definisce
questo fenomeno un’“appetizione appresa, che viene orientata
verso quei luoghi le cui caratteristiche sono note agli animali in
virtù di esperienze pregresse”. In altre parole, il nostro cane salta
sul divano perché sa per esperienza che vi si dorme bene. Oppure
non lo fa perché si ricorda che gli è stato proibito e che lui ha un
proprio posto per dormire, l’unico da cui non viene mai cacciato
né disturbato in alcun modo. Alcuni cani si accorgono persino del
sospiro di sollievo del padrone quando lo sente dirigersi verso la
cuccia, dopo aver gironzolato un bel po’.
Giunto sul luogo scelto per dormire, di solito il cane si rigira
parecchie volte su se stesso prima di accucciarsi. Già Darwin ave­
va osservato questo comportamento e l’aveva indicato come esem­
pio di un’azione istintiva che, ereditata dagli antenati e tuttora esi­
stente nel cane domestico, è però priva di funzione. Per l’etologo,
invece, essa rappresenta l’esempio più tipico del decorso non
preordinato e non intelligente di uno schema motorio ereditario.
Dai tempi di Darwin si pensa che questo movimento sia sorto dal­
la necessità di calpestare l’erba e che, in quanto istinto trasmesso
ereditariamente, si manifesti anche quando non ci sia dell’erba da
calpestare. La spiegazione sembra plausibile, ma non corrisponde
a verità. Non è esatto affermare che questo movimento serva a
scovare e far fuggire “serpi e scorpioni”. Si può inventare una co­
sa del genere solo con una buona dose di fantasia, seduti a tavoli­
no. Chi conosce il comportamento di serpi e scorpioni, infatti, sa
benissimo che un cane dovrebbe fare esattamente il contrario per
difendersi, poiché in tal caso non avrebbe bisogno di un particola­
re istinto, bensì del suo buon fiuto.
Kurt F. König, un ricercatore indipendente divenuto celebre
per i suoi straordinari allevamenti di hovawart2 e di altre razze,
non avendo mai dato molto credito a quest’ipotesi, ha condotto
una serie di esperimenti non soltanto su cani, ma anche su lupi,
sciacalli, volpi, martore, visoni e procioni lavatori. Dopo aver fatto
camminare tutti questi animali, per un periodo di tempo più o
meno lungo, su una ruota girevole, osservava poi come si dispone­
vano a dormire. Come lui stesso mi scrisse, emerse che “quanto
più un animale aveva camminato in circolo tanto più si rigirava
per trovare la posizione a ciambella, mentre se aveva camminato
poco gli bastava rigirarsi una volta sola”. Ecco, dunque, svelato il
mistero: questo girare su se stessi serve in realtà a trovare la giusta
curvatura della spina dorsale per la posizione abituale del cane
dormiente, quella a ciambella. Se la spina dorsale, camminando, è
stata affaticata, l’animale deve compiere parecchi movimenti di
96
rotazione come quello sopra descritto per trovare la posizione
corretta. Anche un cane che ha dormito a lungo e che si alza per
poi accucciarsi di nuovo, si gira più di una volta, perché in questo
caso la spina dorsale si è irrigidita nella posizione del sonno. Per
rimediare a questo problema, il cane, una volta alzatosi, si stirac­
chia, proprio come facciamo noi.
Nei nostri cani gli istinti primordiali e l’intuizione lavorano in
stretta collaborazione. Non essendo esseri che vivono a binario
unico, non obbediscono ai propri istinti in maniera cieca e senza
criterio, al punto di calpestare l’erba anche dove questa non c’è!
Anche per gli animali, dormire e riposare sono attività istintiva­
mente associate all’idea di una casa, di un rifugio sicuro, solo che,
nel loro caso, la sicurezza del luogo viene prima della comodità.
Questo aspetto va tenuto ben presente quando ci portiamo a casa
il nostro cucciolo di otto settimane. E, dunque, opportuno trovare
nel nostro appartamento un posto adatto dove il cane, non solo da
piccolo ma anche da adulto, possa riposare veramente indisturba­
to. Poiché sentirà più spesso di quanto gli piacerebbe il nostro pe­
rentorio “A cuccia!”, questa dovrà essere quanto più confortevole
possibile. La cuccia migliore è costituita da una cassetta, simile a
un canile dal tetto piatto, completamente aperta sul davanti perché
il cane, dalla sua postazione, vuole essere in grado di controllare la
situazione intorno a sé. L’altezza deve essere tale da evitare che il
cane urti il tetto con la testa quando si rizza sulle quattro zampe,
come è solito fare sentendo risuonare nel corridoio i passi del pa­
drone che rincasa. Esistono molti cani cui piace riposare in un
punto sopraelevato, da cui godono una vista più ampia, ed è per
questo che consiglio il canile a tetto piatto, che gli offre questa pos­
sibilità evitando che utilizzi il nostro divano. Dentro la cuccia sarà
sufficiente collocare una semplice coperta: allo stato naturale i cani
non hanno dei giacigli imbottiti, ma solo la terra nuda e, in base al­
la mia esperienza, le buche scavate in terra sono state sempre pre­
ferite alla paglia o al fieno che avevamo messo nei capanni in via
sperimentale.

97
Il “prototipo infantile” e il fenomeno della neotenia
Possiamo osservare come i cani adulti siano in grado di ricono­
scere con molta precisione i cuccioli della propria specie e, inol­
tre, di distinguere i bambini dall’uomo adulto, adattando di con­
seguenza il proprio comportamento. Conosciamo ormai moltissi­
mi esempi di cani da guardia estremamente feroci e aggressivi, che
si lasciano afferrare e tirare da qualche bambinetto, magari scono­
sciuto, senza opporre resistenza! Tutta la ferocia che un cane del
genere può sviluppare di fronte a un bambino spesso svanisce.
Più avanti ci occuperemo in maniera dettagliata del comporta­
mento espressivo che un conspecifico comprende per disposizio­
ne innata. Approfondite analisi etologiche hanno dimostrato che
nell’espressione compaiono sempre dei tratti estremamente sem­
plificati, che hanno la funzione di stimoli-chiave, cioè in grado di
scatenare o inibire determinati modelli comportamentali. Nel pa­
trimonio ereditario viene, dunque, fissata un’immagine, molto
semplificata e appena schematizzata, dell’espressione globale. Per
illustrare tale concetto, mi servirò di un esempio semplicissimo:
prendiamo un foglio e disegniamoci sopra due cerchi, poi traccia­
mo un segmento con le estremità curvate verso l’alto nella metà
inferiore del primo, e un segmento con le estremità curvate verso
il basso nella metà inferiore del secondo. Chiunque vedrà nel pri­
mo un volto che ride, nel secondo uno triste. Ecco spiegato ciò
che Konrad Lorenz definì il “prototipo infantile”. Osservando il
regno dei mammiferi, e risalendo fino a quello degli uomini, in
tutti gli individui giovani possiamo individuare delle caratteristi­
che comuni. Spesso, infatti, la testa è molto rotonda - al contrario
di quella di un animale adulto - e sproporzionata rispetto al corpi-
cino cui appartiene. Questi due tratti segnalano che si tratta di un
cucciolo. Ma non è tutto. Due grandi occhi rotondi danno a quel
musetto un’espressione tipica, e un nasino appena accennato, due
guance paffute e morbide, la bocca arrotondata pronta a succhia­
re, sono le caratteristiche che marcano la differenza tra l’individuo
piccolo e quello adulto. Chi desidera approfondire questo feno­
meno, faccia caso all’assortimento di bambole in un negozio di
giocattoli. I fabbricanti, nel progettarle, partono dal presupposto
che esse debbano possedere dei tratti evocatori molto accentuati,
ottimali, in grado di sollecitare il nostro istinto ad assistere e a
98
proteggere la prole. Spesso fanno quasi più tenerezza dei bambini
veri! Per natura, gli adulti reagiscono a questi stimoli, che si tra­
ducono nell’acquisto del prodotto, e i bambini giocano con le
bambole, cioè, in termini etologici, compiono atti di cura parenta­
le. In noi uomini, dunque, riscontriamo quello che all’inizio ci
aveva sorpreso nella lupa di Zimen. Il “prototipo infantile” è fa­
miliare anche agli individui giovani o, per meglio dire, lo schema
evocatore è già attivo in loro, per cui vi reagiscono in maniera au­
tomatica.
Il cucciolo di cane, con le sue gambette corte e tozze, il pelo
vellutato e l’andatura goffa, presenta le stesse caratteristiche che,
di fronte a un bambino, ci fanno intenerire. La sua vista risveglia
in noi sentimenti precisi e familiari, come il desiderio di fargli del­
le coccole e di accarezzarlo. Tutto questo avviene a livello incon­
scio, e non è altro che una reazione al meccanismo attivato dal
“prototipo infantile”.
Non diversamente succederà a un cane, per il quale il cucciolo
presenta anche un’immagine olfattiva infantile. Prima di convin­
cersi a curare e ad assistere dei piccoli, un cane li annusa accurata­
mente. Il “prototipo infantile” adempie, inoltre, a un’altra funzio­
ne: proteggere il cucciolo dalle aggressioni, anche se ovviamente
entro certi limiti, perché la difesa della propria prole di fronte alla
concorrenza può in alcuni casi costituire un impulso più forte, ca­
pace di superare qualunque barriera. La soglia dello stimolo non
è sempre alta allo stesso modo ed è legata alla situazione contin­
gente, questo per evitare che i meccanismi naturali diventino
troppo rigidi e unilaterali. E noto, ad esempio, che presso gli abo­
rigeni dell’Australia, che conducono una vita nomade, le donne
non esitano a sopprimere i loro neonati quando la carestia minac­
cia di compromettere la sopravvivenza della specie, mentre in
condizioni normali sono tenere e affettuose verso i propri figli, co­
me tutte le madri del mondo. Esistono, dunque, delle circostanze
particolari in cui il meccanismo delle cure parentali soggiace a sti­
moli più forti. Lo stesso avviene quando una cagna che allatta uc­
cide senza pietà un cucciolo estraneo, circostanza in cui il “proto­
tipo infantile” si attiva solo nei confronti dei propri cuccioli, ma
non verso terzi. Tuttavia, è possibile far accettare un cucciolo non
suo a una cagna che allatta, mettendolo per un certo tempo fra gli
altri cuccioli. Ben presto acquisterà il tipico odore della cuccia e,
99
dato che i cani non sono in grado di contare i propri figli, la cagna
al ritorno non si accorgerà dell’inganno.
Il “prototipo infantile” è, quindi, molto generalizzato, cioè le
sue qualità fondamentali sono molto simili presso tutti gli animali,
e ciò spiega come sia possibile affidare a una cagna dei piccoli di
un’altra specie. Esistono molti casi, riferiti dalle guardie forestali,
di cuccioli di capriolo allevati da cagne da caccia, ed è famoso
quello di una femmina boxer di un circo che si è presa cura dei
cuccioli di un leone ed è rimasta la loro mamma anche una volta
che questi sono diventati adulti.
Quanta parte abbia il “prototipo infantile” in ciò che giudi­
chiamo “amabile” e “carino”, lo dimostrano anche tutte le ibrida­
zioni di cani finalizzate all’ottenimento di razze in cui i segnali
evocatori del suddetto meccanismo siano fissati in maniera dura­
tura. Prendiamo, ad esempio, i famigerati carlini: anche per loro,
come per i pechinesi, i pinscher nani, i bichon e i maltesi, l’arte
dell’allevamento ha trasformato il “prototipo infantile” nello stan­
dard della razza. “Ah, se rimanesse sempre così piccolo e carino,
senza diventare grosso come un San Bernardo!”: questa frase, che
esprime il desiderio atavico di alcuni cinofili, è stata raccolta da
speculatori esperti di allevamento che l’hanno trasformata in
realtà, donandoci questi “giocattoli viventi”. Per ottenerli bisogna
provocare un’atrofia nello sviluppo di alcune caratteristiche, re­
primendo parzialmente o addirittura annullando alcuni processi
di crescita. Se il musetto del cucciolo non cresce oltre un certo
punto, abbiamo il muso del carlino. Il nanismo, tuttavia, non coin­
volge il cervello, rimane solo una grossa testa rotonda nella quale
si spalancano dei grandi occhi, come nei bambini piccoli. La sua
tenera “ciccia” stimola il nostro istinto di protezione. Nel maltese,
invece, è il pelo serico, morbido e lungo, che sollecita il bisogno di
accarezzare e di assistere.
Quest’atrofia, il cui nome scientifico è neotenia, si limita alle
caratteristiche fisiche dei nostri cani, oppure esiste anche un in­
fantilismo che riguarda tutte le loro qualità naturali? Esiste, certo,
e probabilmente più spesso di quanto si pensi. Un mancato svi­
luppo comportamentale può avere due cause. Innanzi tutto, nel
patrimonio ereditario si possono verificare delle trasformazioni at­
traverso le quali si perdono dei processi di maturazione del carat­
tere. L’incredibile disposizione al gioco dei carlini allevati razio­
100
nalmente - cioè in modo che non degenerino psichicamente a pu­
ri oggetti da accarezzare - è appunto uno dei risultati di questo ri­
tardo, fissato in modo definitivo nel patrimonio ereditario. Esisto­
no molte razze canine i cui individui, anche in vecchiaia, non di­
ventano mai tranquilli, ad esempio gli alani. Ovviamente, all’inter­
no delle singole razze esistono delle differenze legate alle diverse
qualità o caratteristiche.
Konrad Lorenz sottolinea gli effetti positivi di certi processi di
neotenia. Grazie a questa atrofia dello sviluppo, infatti, la curio­
sità e l’impulso all’apprendimento, tipici del cucciolo, rimangono
inalterati fino a un’età più avanzata. I carlini, sia da cuccioli che
da adulti, adorano imparare, a tutte le età. Da vecchi sembrano
una contraddizione vivente e fa un certo effetto un cane che, pur
mostrando un’età avanzata, non solo conserva un aspetto infanti­
le, ma anche l’indole allegra e scherzosa dell’animale giovane.
Un’altra causa concomitante di questo fenomeno non è di na­
tura genetica, ma riguarda la conservazione individuale dei mo­
delli comportamentali giovanili. Nei rapporti fra uomo e cane ciò
ha un’importanza non indifferente. Ricordiamoci che l’uomo
s’imprime nel cane come un diverso tipo di conspecifico. I primi
simili che il cucciolo vede sono i genitori e i fratelli, che si distin­
guono tra loro per un fattore molto importante: i genitori procu­
rano il cibo, i fratelli fanno il contrario, cioè tentano di sottrarlo
appena possono. Sotto quest’aspetto, così decisivo, il grande bi­
pede uomo, loro nuovo compagno, presenta una notevole somi­
glianza con i genitori, poiché anche lui dà il cibo. Il cagnolino,
una volta raggiunti i nove o dieci mesi massimo, scioglie il sodali­
zio con i genitori e si mette a vagabondare. Così facendo, diventa
indipendente e inizia a procurarsi da solo il nutrimento, cosa che,
come si sa, non è semplicissima per un cane allo stato selvaggio.
Quando, invece, il cane sta con noi sin da quando è cucciolo, di­
ventiamo per lui il genitore che elargisce cibo e continuiamo a es­
serlo non solo perché gli diamo da mangiare, impedendo persino
che se lo procuri da solo, ma perché continuiamo a mantenere il
nostro legame con lui. Nei cani la separazione dai genitori è deter­
minata anche dal fatto che questi, a un certo punto, mostrano
chiaramente di non avere più intenzione di mantenere un parassi­
ta ormai adulto e, ringhiando e mostrando i denti, gli fanno capire
che ormai è abbastanza grande per badare a se stesso. Il nostro
101
comportamento, invece, è completamente diverso e, di conse­
guenza, anche fra noi e il nostro cane s’instaura e si mantiene per
tutta la vita un legame simile a quello che unisce genitori e figli.
Ciò ha notevoli ripercussioni su vari aspetti dello sviluppo psichi­
co del cane, che perciò conserva nei nostri confronti - se conti­
nuiamo a còmportarci nel modo giusto - anche un importante ele­
mento dell’adorazione infantile verso i genitori, ovvero il ricono­
scimento della loro autorità. Penso che quanto detto sia sufficien­
te a farci capire meglio il nostro ruolo nella vita del cane, permet­
tendoci così d’instaurare un rapporto soddisfacente per entrambe
le parti.

La fase della socializzazione


Dalla nona alla dodicesima settimana compresa, lo sviluppo
del cucciolo intraprende un percorso diverso. Questo è il periodo
in cui l’animale apprende tutte le nozioni base delle attività sociali
che hanno un’importanza decisiva nella vita di questi animali su­
periori, che vivono in famiglie e in gruppi.
Fino a questo momento al cucciolo era permesso di fare e di­
sfare a suo piacimento. I genitori, indulgenti e comprensivi, sop­
portavano tutto con pazienza: “E solo un bambino, bisogna la­
sciar correre”. Il cane deve prima svilupparsi, rendersi conto delle
proprie possibilità di movimento, esercitarsi fino a raggiungere
una certa maturità; solo più avanti ci si potrà ripresentare a lui in
veste di educatori.
Ora, invece, la situazione cambia. E giunto il momento di edu­
care il piccolo a diventare un cane utile e bravo, che in un futuro
sia in grado di affermarsi aU’interno della comunità e di educare a
sua volta i suoi figli. Per quanto incredibile possa sembrare, esiste
veramente un programma educativo progressivo molto equilibra­
to che, lungi dall’essere antiautoritario, è invece decisamente auto­
ritario. A tale proposito, bisogna precisare che fra i cani l’autorità
è qualcosa di molto diverso da quella pseudo-autorità sviluppatasi
nell’ambito delle società occidentali, che si compiace d’instaurare
un rapporto di sudditanza fra padre e figlio. Per questo motivo, il
termine ha assunto un’accezione negativa. Vedremo, invece, come
per i cani l’autorità non si limiti a essere la chiave del successo nel­
102
la lotta per la sopravvivenza, ma costituisca addirittura un biso­
gno per il giovane individuo. Questo, infatti, cerca e riconosce da
solo l’autorità del padre, come più tardi - nel caso del lupo -
quella del capobranco. Un cane che non riconosca l’autorità del
proprio padrone diventa un cane difficile. Questo è il suo modo
di contestare, che molto spesso non viene capito. Se un lupo-gui­
da fallisce nel suo ruolo, viene sbranato perché la sua morte serve
a garantire la sopravvivenza della specie. Essendo ormai vecchio e
logorato dagli acciacchi, non è più in grado di guidare il branco, e
lo porterebbe alla rovina se gli altri non si sbarazzassero di lui.
Approfondiremo questo discorso quando esamineremo i diversi
aspetti dell’aggressività.
In questo contesto, interessa invece qualcosa di ancora più im­
portante e decisivo di qualunque forma di aggressività: i modelli
comportamentali volti alla coesione del gruppo. A questo propo­
sito vorrei rimandare il lettore all’opera di Eibl-Eibesfeldt Amore
e odio\ che tratta delle strutture fondamentali dei legami sociali
fra uomo e animale. Osservare il cane, le cui manifestazioni socia­
li sono molto simili a quelle dell’uomo, può contribuire notevol­
mente a illuminare questo nucleo di problemi.
A favorire la coesione del gruppo è innanzi tutto l’imprinting,
che stabilisce in maniera irreversibile chi debba essere riconosciu­
to come conspecifico. Nel caso di un cane allevato sotto la tutela
dell’uomo, possiamo parlare, come abbiamo già ricordato, di due
tipi di conspecifici, pur mantenendo una netta distinzione fra il
suo simile e l’uomo. Poiché, tuttavia, allo stato di natura esistono
delle differenze notevoli anche fra i cani selvaggi appartenenti a
branchi diversi, il fatto che uno dei conspecifici sia l’uomo non
presenta, in linea di principio, alcuna difficoltà: il cane inseritosi
nel gruppo umano sente ormai di farne parte e, pertanto, conside­
ra gli altri cani, che non appartengono al gruppo, come degli estra­
nei e perciò come potenziali partner sessuali.

Linserimento nella comunità umana


Per poter far parte di un gruppo, oltre agli schemi di compor­
tamento innati che rispondono già alle esigenze della socialità, c’è
bisogno di tutta una serie di processi d’inserimento e di coesione.
103
Dato che i lupi, come gli uomini, sono duttili e possiedono una
buona capacità di adattamento - imprescindibile per riuscire a so­
pravvivere - la vita sociale non può basarsi soltanto sugli istinti,
come nel caso delle api, ma deve soprattutto svilupparsi attraverso
l’apprendimento. Di conseguenza, per la specie si allarga la sfera
delle possibilità evolutive. Una parte di questo apprendimento
viene fornita dall’educazione, che costituisce un fattore essenziale
nella formazione degli schemi comportamentali relativi alla coe­
sione del gruppo.
Come si può facilmente rilevare nei miei canili “familiari”, il
padre compare in veste di educatore. Particolarmente interessante
è stato per me osservare la coppia di cani lupo Sascha e Rana. Ra­
na è una figlia di Sascha da noi sottratta alla madre a otto settima­
ne, per essere affidata alle cure paterne.
Quando si trovava nel recinto della madre, Rana aveva degli
ottimi rapporti con la gente, ed è tuttora molto affezionata a me e
cordiale con tutti quelli che non hanno cattive intenzioni nei suoi
confronti. Appena ricevuta, Sascha si dedicò alla piccola con l’a­
mabilità che lo caratterizza, giocando con lei e insegnandole gio­
chi nuovi, il tutto con grande spirito di sopportazione. I due cani
trascorrevano l’intera giornata insieme e, di solito, la sera stavano
alcune ore con me e con la mia collaboratrice Èva nel mio studio.
Non abbiamo mai portato Rana a passeggio, visto che poteva
scorrazzare all’aperto con Sascha quanto voleva. Da noi ha impa­
rato solo il significato del “No” e a non sporcare in casa, nient’al-
tro. Nel frattempo Rana è diventata adulta. Non perde occasione
per dimostrarci il suo affetto e la sua cordialità, ma non c’è verso
di giocare con lei né di farle imparare qualcosa, un vero caso di­
sperato. Acquattandosi con la coda fra le gambe, liquida qualsiasi
tentativo di approccio.
Questo vale anche per tutti gli altri nostri cani che sono stati
educati esclusivamente dal padre e che, dopo l’ottava settimana,
non hanno imparato che l’uomo non è soltanto un essere amabile
cui affezionarsi e leccare la mano, ma è anche qualcuno con cui
giocare e collaborare.
Se durante la fase della socializzazione l’unico educatore è l’uo­
mo, il cane gli rimane molto affezionato e in futuro avrà qualche
difficoltà nei rapporti con i propri conspecifici. I cani che in questo
periodo hanno avuto, almeno occasionalmente, la possibilità d’in­
104
contrarsi e di giocare con i propri simili, sviluppandosi diventano
quello che io definirei un “cane normale”. Che cane è quello che
non si sente a suo agio con altri cani? Airesatto opposto, Rana non
è diventata un cane normale, poiché è incapace di entrare davvero
in relazione con la comunità umana. Grazie all’imprinting riesce ad
aggregarvisi, ma senza inserirsi veramente perché non è stata solle­
citata in tal senso nella fase della socializzazione. Invece, quando si
trova con gli altri cani è meravigliosa, molto affettuosa con i cuccio­
li e gentile con ogni cane estraneo che incontra.
Il suo educatore Sascha è, al contrario, completamente integra­
to nella comunità umana. Non è mai così felice come quando si
gioca con lui o gli s’insegna un nuovo numero. Si fa letteralmente
in quattro per il desiderio di collaborare con l’uomo. Nel suo caso,
emerge un comportamento di coesione di gruppo che vorrei bre­
vemente descrivere perché illustra alla perfezione questo concetto.
Sascha adora correre a riprendere il legnetto che qualcuno ha
lanciato, e riconsegnarlo al mittente o, di preferenza, a qualcun al­
tro, scegliendo chi fino a quel momento non ha partecipato abba­
stanza attivamente al gioco. Poiché Èva gioca e lavora spesso con
Sascha - al punto di poter dire che è il suo cane - per lui è, per co­
sì dire, logico che fra loro ci sia uno stretto legame. Dal momento,
però, che una società è formata da parecchie persone, non soltan­
to da due, spontaneamente cerca di stabilire altri contatti. Se io ed
Èva siamo insieme, non riporterà mai il legnetto a lei per invitarla
a giocare, bensì a me, a meno che non sia molto tempo che non
giocano insieme. Se c’è un ospite, una delle prime cose che Sascha
fa è quella di portargli un legnetto: glielo poggia in grembo, gli si
siede di fronte e lo fissa negli occhi in trepidante attesa. Se l’ospi­
te non reagisce, Sascha diventa impaziente, riprende il suo legnet­
to con le fauci e lo rimette con forza sulle ginocchia del visitatore
dandogli dei colpetti con il naso sulla mano, quasi a dire: “Su, gio­
ca!”. Si tratta di un inequivocabile tentativo di stabilire un rap­
porto, o di approfondire o rinsaldare una conoscenza.
Rana non invita mai nessuno di noi a giocare: è rimasta a un li­
vello di comportamento infantile, e si limita a porgere la zampina
e a leccare la mano, sebbene veda ogni giorno Sascha collaborare
con gli uomini. Se le lanciamo un legnetto, resta a guardarlo con
aria sciocca; se, invece, è Sascha a scappare con un legnetto in
bocca, lo rincorre tentando di sottrarglielo.
105
Il gioco, come elemento di coesione del gruppo, viene fissato
nella fase di socializzazione nei confronti dei conspecifici o degli
uomini, mediante processi diversi, tanti quanti sono i modi in cui
un cane può essere allevato. Se il nostro è un “cane unico”, in que­
sta fase dobbiamo preoccuparci di farlo giocare anche con altri ca­
ni, perché non si leghi esclusivamente alicorno e non abbia poi
difficoltà con i propri simili, che potrebbero avere delle conse­
guenze spiacevoli nel corso delle nostre passeggiate, e trasformarsi
in catastrofe qualora si accolga un secondo cane.
Se invece prendiamo in casa un cane di età diversa, ad esempio
di dodici settimane, è opportuno verificare in che modo è stato al­
levato. Di solito, un allevatore che tiene una cinquantina di cani
non è in grado di fornirne neanche uno socializzato con gli uomi­
ni. Si riconosce subito, provando a giocare con lui, se un giovane
cane ha avuto, in questo periodo così importante per la sua forma­
zione, sufficienti occasioni d’instaurare un contatto sociale con
l’uomo attraverso il gioco.

Il gioco
Passando ora a parlare del gioco, non soltanto acquisiremo dei
dati importantissimi sul comportamento del cane in generale, ma
soprattutto impareremo come noi stessi possiamo, grazie a esso, ap­
profondire il contatto sociale con lui. Il gioco negli animali è da
molto tempo oggetto di studio da parte degli psicologi, e in partico­
lare gli etologi. Rifacendomi alle argomentazioni di Eibl-Eibesfeldt,
vorrei innanzi tutto illustrare le caratteristiche essenziali del gioco.
Per i nostri cuccioli, le zuffe, gli inseguimenti o il trascinare in
giro gli oggetti non hanno un significato o uno scopo ben precisi,
manca in essi qualunque riferimento a situazioni reali. Certo, un
gioco può anche trasformarsi in qualcosa di serio come quando,
ad esempio, nel fervore della lotta, un cucciolo morde l’altro con
troppa energia in una parte sensibile come l’orecchio o la pancia,
e la vittima si arrabbia per davvero e comincia a guaire a pieni pol­
moni, a mostrare i denti, a ringhiare contro il compagno, dando il
via a una zuffa in piena regola durante la quale possono persino
volare ciuffi di pelo. E dire che tutto era cominciato per gioco! Ma
questi sono solo imprevisti.
106
Notiamo, inoltre, che nel gioco non si riproduce un’azione,
per esempio la caccia, dalla A alla Z, con una sequenza precisa,
ma che le singole componenti sono mescolate insieme in maniera
disordinata. A volte accade persino che, accanto a queste compo­
nenti, si manifestino modelli comportamentali relativi ad altre
funzioni, ad esempio al comportamento sociale. Tutto avviene,
dunque, alla rinfusa, secondo il caso. I singoli modelli comporta­
mentali sono quindi avulsi dal contesto globale e possono essere
combinati liberamente. Ciò vale sia per gli schemi motori fissi, sia
per quello che è stato acquisito con l’apprendimento.
E generalmente noto che, nell’età giovanile, il gioco serve a im­
parare tutte le cose che saranno in seguito necessarie nella vita adul­
ta. Il gioco è una forma di preparazione alla futura esperienza reale,
e questo si evince con chiarezza osservando i vari modi di giocare.
Eibl-Eibesfeldt vede il rapporto fra curiosità, gioco e appren­
dimento così: “Esiste un’evidente appetizione al gioco, basata su
un impulso di curiosità, cioè su un meccanismo che spinge l’ani­
male a sperimentare situazioni nuove. Appetizione al gioco e ap­
petizione all’apprendimento hanno una radice comune, poiché il
gioco è una forma di apprendimento attivo”.
Questo stimolo a imparare, che è alla base di ogni gioco, nei
cuccioli si manifesta con la stessa incostanza che notiamo nei bam­
bini piccoli che intraprendono continuamente qualcosa di nuovo,
incapaci della minima concentrazione. Quello che un momento
prima era interessantissimo, un attimo dopo viene messo da parte
perché nel campo visivo è entrato qualcos’altro che promette an­
cora di più. Seguendo, però, attentamente lo sviluppo dei cuccioli,
a poco a poco si nota che la curiosità si fa più intensa e che essi co­
minciano a dedicare un tempo sempre più lungo a un’unica cosa.
Ciò, ovviamente, vale soprattutto quando giocano con un oggetto,
non per i giochi collettivi, che continuano a essere piuttosto insta­
bili, anche perché qualunque movimento del compagno può sti­
molare nuove possibilità di gioco.
Per il cucciolo, dunque, un unico giocattolo non basta. I nego­
zi specializzati offrono una notevole gamma di prodotti, di cui sa­
rebbe bene approfittare, perché il gioco con gli oggetti è molto
^riportante per il suo sviluppo, anche se non potrà mai sostituire i
giochi collettivi, che insegnano a convivere con i propri simili, né
servirà all’esercizio dei movimenti utili a cacciare una preda.
107
Si potrebbe obiettare che un cane che vive in casa, in famiglia,
non ha bisogno del contatto con i propri simili né di andare a cac­
cia per procurarsi il cibo. E vero, ma che ne sarebbe di un bambi­
no che fosse tenuto chiuso in un recinto assieme a una cinquanti­
na di conigli, con i quali poter giocare a volontà, ma senza mai la
possibilità di fare con altri bambini i giochi che sono propri della
sua specie? Non riuscirebbe a raggiungere un sano sviluppo per­
ché non avrebbe mai l’opportunità di realizzare le forme di gioco
che sono innate anche nei bambini. Il suo inserimento nella comu­
nità degli uomini sarebbe precluso per sempre.
Abbiamo già visto, seppure in un contesto diverso, quanto sia
importante che i modelli comportamentali innati si esprimano senza
alcuna repressione. Accumulo di pulsioni, impedimento della nor­
male espressione dei modelli comportamentali innati e altre frustra­
zioni non formano certo le premesse giuste per un corretto sviluppo
della personalità del cane. La natura ha previsto delle forme di gioco
adatte alla sua specie, quindi eventuali inibizioni delle stesse potreb­
bero provocare profondi disturbi a livello psichico. Ciò, natural­
mente, significa anche che è possibile contribuire in maniera positi­
va allo sviluppo del cucciolo, tenendo conto del suo bisogno di gio­
co e regolandosi di conseguenza. Di solito nessuno riesce a non gio­
care con un cucciolo, ma la cosa può essere ancora più piacevole e
soddisfacente se si conosce l’importanza dei vari modi di giocare e
se si tiene conto dell’utilità di questi giochi nella vita del cane che,
allo stato naturale, è un animale che caccia in branco. Questo stimo­
la le doti inventive e rende il gioco più vario anche per l’uomo!
A questo punto, faremo di nuovo qualche salto temporale per
spiegare il comportamento legato al gioco in relazione alle varie
fasce d’età, partendo dalle fasi precoci dello sviluppo, per poi esa­
minare le successive, come quella della costituzione di una gerar­
chia o della formazione del branco.
Anni fa, presso l’istituto di Psicologia Veterinaria dell’Univer-
sità di Giessen, Hans Ludwig ha realizzato uno studio sul gioco
dei boxer. Dev’essere stata un’esperienza molto divertente e ricca
di aneddoti, visto che aveva a disposizione nove cani giovani insie­
me ai genitori. Al tempo stesso, però, non sarà stato facile effet­
tuare ricerche dovendo tenere a bada un tornado di undici musi,
quarantaquattro gambe e ventidue orecchie! Ebbene, Ludwig ci è
riuscito e noi metteremo a frutto il risultato della sua fatica.
108
Nel comportamento ludico dei cuccioli predominano i giochi
di lotta. Da questo, però, non bisogna dedurre che fra i cani la lot­
ta sia un principio assoluto e che abbia una parte preponderante
nella loro esistenza. Il gioco, oltre a essere una forma di apprendi­
mento attivo, costituisce uno sfogo essenziale all’impulso di movi­
mento, molto importante per lo sviluppo dei muscoli, dei tendini
e delle articolazioni. Quale modo migliore per sfogare quest’im­
pulso che misurando le proprie forze con un conspecifico, insom­
ma facendo alla lotta?
Si comincia con dei segnali d’invito al gioco, che già conoscia­
mo, oppure saltellando intorno al partner in maniera esagerata e
provocatoria, ad esempio andature galoppate, piccoli balzi od
oscillazioni del treno posteriore. L’inizio non è preceduto, come
nei conflitti seri, da atteggiamenti di minaccia e di superiorità,
d’altronde si tratta di un gioco, anche se vengono utilizzati tutti i
tipi di morsi osservabili in un vero combattimento. Certo, in que­
sto caso i cani non si mordono sul serio, e ciò avviene grazie a
un’inibizione che impedisce di ferire l’altro. Se talvolta, nel fervo­
re del combattimento, ci si spinge troppo in là, il tutto si esaurisce
con ululati di dolore. Possiamo però essere certi che c’è molta sce­
na, un po’ come accade nel calcio, quando un giocatore subisce
fallo e sembra che stia per morire.
Anche il ringhio fa parte del gioco, ma è diverso da quello che
ritroviamo nella lotta vera: qui è chiaro e breve mentre, quando i
cani fanno sul serio, ha un suono profondo, prolungato e cattivo.
Si capisce subito, dunque, quando un cucciolo passa dal gioco a
un vero e proprio stato di rabbia.
Un’altra forma di lotta, sempre per gioco, consiste nel “toccar­
si appena” per usare le parole di Ludwig, saltandosi addosso. Gli
avversari si appoggiano l’uno sull’altro con le zampe anteriori e si
respingono in un modo che somiglia vagamente allo spalla a spal­
la della cosiddetta “posizione di lotta sulle zampe posteriori”.
Quest’ultima si differenzia, però, dalla lotta dei cuccioli perché
qui i cani stanno entrambi sulle zampe posteriori, si tengono ben
saldi e tentano di mordersi alla gola. I cani giovani, invece, nell’ur-
tarsi perdono in genere l’equilibrio, quindi uno scappa e comincia
il gioco dell’inseguimento. Esistono molte varianti di queste finte
lotte in posizione eretta. Ad esempio, quella in cui i due cani si
trovano l’uno di fronte all’altro tentando di afferrarsi alla gola, di
109
mordersi le gambe, oppure mirano alla presa nuca-gola, che consi­
ste nel premere una delle zampe anteriori sulla nuca dell’awersa-
rio. Si tratta sempre di opporre le rispettive forze usando tutto il
peso del corpo, sia per respingere l’avversario affrontandolo di
petto, sia per metterlo a terra cercando di schiacciarlo con il peso
del treno anteriore.
Tutti questi giochi richiedono molta abilità, reazioni rapide e
l’impiego di una notevole forza fisica, e perciò sono un’ottima
scuola per l’addestramento di tutte le capacità dell’animale. Il cuc­
ciolo impara a conoscere le proprie possibilità, a valutare la pro­
pria forza. Scopre che esistono diversi rapporti di forza, la supe­
riorità dei genitori e l’inferiorità di alcuni dei fratelli. Queste lotte
sviluppano, dunque, anche rapporti che in seguito si esprimono
nella costituzione dell’ordine gerarchico.
Anche noi, imitando i modelli comportamentali della lotta con
le possibilità a nostra disposizione, possiamo gettare le basi del fu­
turo rapporto con il nostro cane. La lotta si disputa esclusivamente
attraverso contatti fisici. Le nostre mani sono degli strumenti mera­
vigliosi, in grado persino di sostituire due fratelli! Se, ad esempio, il
cucciolo sta tentando di mordere la nostra mano destra o di sottrar­
re la gola alla sua presa, noi, con la mano sinistra possiamo “mor­
derlo” sulla coscia posteriore. A quel punto, lui si girerà su se stesso
per attaccare il nuovo assalitore, ma l’avversario destro tornerà in
azione per immobilizzarlo al suolo con la presa nuca-gola. Se il no­
stro cucciolo è destinato a diventare grosso come un alano o un San
Bernardo, avremo bisogno di tutte e due le mani e, quindi, potre­
mo fornirgli un solo avversario alla volta. Nel frattempo, però, il ca­
ne impara che l’impulso a mordere dev’essere ulteriormente conte­
nuto nei nostri confronti, poiché la pelle umana offre una protezio­
ne minore rispetto alla folta pelliccia che ricopre la sua nuca.
Giocando, il cane impara. Lottando con l’uomo impara soprat­
tutto che mai, e sottolineo mai, potrà sopraffarci, che noi siamo
molto più forti di lui e che anche nel gioco siamo noi a tenere le re­
dini. Per il cane il concetto è facilmente comprensibile, perché è
proprio questo che s’impara in una famiglia di cani allo stato natu­
rale: i genitori sono superiori in tutto e sempre. Tale consapevolez­
za, tuttavia, non crea dei complessi d’inferiorità: il gioco è diverten­
te anche quando si perde. Ludwig ha, infatti, dedotto, osservando i
suoi boxer, che c’è gusto anche a giocare a vincitore e vinto, ed es­
110
sere sottomesso è divertente quanto prevalere. Disponiamo, quin­
di, del metodo migliore e più naturale per abituare fin da piccolo il
nostro amico quadrupede alla superiorità del nostro rango, senza
per questo ricorrere alla violenza o provocare conflitti.
Ho notato spesso che gli uomini sono molto inclini ad affidare
l’educazione dei cuccioli alle mogli, mentre loro cominciano a oc­
cuparsene solo quando l’animale è abbastanza grande per essere
addestrato. I risultati educativi sono abbastanza discutibili, ma
non perché le donne non siano adatte a questo compito, come
l’uomo che non riesce ad addestrare il proprio cane potrebbe mali­
gnamente insinuare. Di solito, la causa è da attribuirsi proprio a
questa rigida divisione del periodo dello sviluppo. Per il cane non
è bene che i giochi dell’infanzia siano eliminati con un taglio netto
dalla realtà della vita. Nella sua evoluzione naturale è previsto e
stabilito, in maniera ben precisa, un graduale passaggio dal gioco
infantile agli aspetti più seri della vita, come la costituzione della
gerarchia.
Il gioco nell’età della socializzazione fissa una volta per sempre
il ruolo delle persone in esso coinvolte, perciò se in questo perio­
do il padrone non se ne interessa, questa scelta condizionerà il
comportamento del giovane animale nei suoi confronti anche per
il futuro. Il padre cane che, come educatore e istruttore, si occupa
dei figli per molto tempo e gioca con loro, da questi giochi fa sca­
turire, con ammirevole maestria, la gioia d’imparare cose nuove
sotto la sua guida. Dobbiamo prendere esempio da lui. Lo svilup­
po che porterà l’animale a diventare un buon cane da utilità o un
abile cane da circo, che esegue contento i suoi pezzi di bravura,
comincia proprio nella fase della socializzazione. Solo in questo
periodo il cucciolo è sensibile alla gioia di imparare, e l’insegna­
mento, che ovviamente all’inizio deve procedere per gradi, si tra­
sforma in un legame fra chi insegna e chi impara. E soltanto quan­
do quest’evoluzione naturale viene rispettata che s’instaura il giu­
sto atteggiamento nei confronti dell’apprendimento, per cui in se­
guito, quando saranno richieste nuove prestazioni, non sorgeran­
no delle difficoltà. A questo proposito, ricorro ancora una volta
all’esempio di Rana, che si lascerebbe addestrare da un cane, ma
non da un uomo. Quando si mette a cuccia, lo fa perché deve e
perché sa per esperienza che non ha senso opporsi. Ma non è cer­
to questo il tipo di obbedienza che desideriamo dal nostro cane!
È indubbio che un istruttore bravo ed esperto sa assumere,
grazie alle sue doti di sensibilità e di comprensione, una posizione
di supremazia che il cane riconoscerà volentieri, forse addirittura
con gioia. Tuttavia, sono poche le persone davvero capaci di que­
sto. E possibile, però, evitare molte difficoltà se si comincia a in­
staurare un rapporto di fiducia con il cane fin da cucciolo, utiliz­
zando il gioco per affermare a poco a poco il proprio predominio
e la forza del comando. In questo modo, nel cane non nascono ri-
sentimenti verso le novità che intervengono a modificare la sua vi­
ta, ma si realizza un graduale passaggio dal gioco a tutte le opera­
zioni che un bravo cane deve essere capace di fare.
Anche da adulti i cani giocano fra loro e, perlopiù, si tratta di
lotte. In tutti i miei recinti i cani vivono in coppia e, ad eccezione
del periodo in cui la cagna deve provvedere ai piccoli, il maschio è
indubbiamente il padrone. Tuttavia, almeno due volte al giorno, al
mattino e nel tardo pomeriggio, fra maschio e femmina s’instaura­
no furiose lotte per gioco, che ho l’impressione abbiano a che ve­
dere anche con la gerarchia. La posizione di predominio del ma­
schio emerge palesemente pure nel gioco, ed è sempre lui a deci­
dere quando interromperlo. Questo è un altro aspetto che possia­
mo sfruttare nel rapporto con il nostro cane: il gioco non rappre­
senta soltanto un’occasione di sfogo fisico, ma adempie a una fun­
zione di coesione del gruppo, dato che giocando ci si esercita a
stabilire un ordinamento gerarchico.
Un’altra classe di giochi sono quelli che Ludwig definisce “gio­
chi del procacciarsi il cibo”. Esaminiamo, innanzi tutto, quelli del­
la caccia.
In questo caso, ho notato che spesso a impersonare la preda è
l’individuo superiore per rango, che si offre volontariamente di fa­
re la parte del braccato. Di solito si tratta del cucciolo più forte del­
l’intero gruppo, oppure, cosa molto piacevole da vedere nelle fami­
glie che vivono unite, del maschio. Anche Sascha e Rana, i miei due
cani da pastore, mi offrono quotidianamente lo spettacolo dei loro
giochi: si tratta di due cani adulti, tra cui il maschio ha senza dub­
bio il predominio. Sascha si piazza a una distanza di otto o dieci
metri da Rana, fissandola. Rana si piega sulle ginocchia, cioè piega
tutte le articolazioni in modo che la sua statura si riduca assumen­
do una posizione di agguato, con il collo allungato e la testa bassa,
protesa in avanti, e fissa a sua volta il maschio, finché quest’ultimo
112
non fugge con uno scarto improvviso. Con la rapidità di un lampo,
Rana balza in avanti - le articolazioni piegate fungono da molle - e
10 insegue.
Questa è lo schema tipico dell’agguato a una preda. Un lupo si
avvicina di soppiatto alla vittima, che avverte il pericolo incom­
bente e fiuta il vento. Il lupo assume la posizione caratteristica
dell’agguato, abbassandosi lentamente fino a raggiungere l’incli-
nazione ottimale per spiccare il salto. Fissa la preda, la quale lo
fissa a sua volta irrigidendosi, per poi tentare di salvarsi fuggendo
con uno scarto repentino. Nel giro di poche frazioni di secondo,
l’inseguitore deve scattare con la stessa rapidità e senza indugi,
cosa che richiede, oltre a una notevole sveltezza di riflessi, un alle­
namento costante per essere sempre in forma. Tuttavia, non so se
i lupi allo stato selvaggio, sempre piuttosto impegnati a procurarsi
11 cibo, divenuti adulti giochino ancora alla caccia. E probabile
che i nostri cani continuino a fare questo gioco anche in età avan­
zata perché non hanno nessuna occasione di esplicare i modelli
comportamentali legati alla ricerca del cibo. Indubbiamente, an­
che in questo caso si verifica un accumulo di stimoli endogeni,
che necessita di una valvola di sfogo, il che giustifica il persistere
dei giochi del periodo giovanile come un surrogato della caccia
reale. Nei gatti che non hanno la possibilità di cacciare topi, si
manifestano delle “reazioni a vuoto”: non potendo scaricare il lo­
ro impulso in maniera adeguata, tendono agguati e assalgono topi
immaginari. Certamente, anche nel cane le forme principali di
movimento relative alla caccia corrispondono a schemi motori fis­
si: fra le une e gli altri esistono delle grosse lacune che devono es­
sere colmate dall’esperienza, e perciò diventa possibile adattare le
singole, rigide parti del sistema alle varie situazioni e, rispettiva­
mente, alle varie forme di caccia. Trattandosi di schemi motori
ereditari, avviene una produzione endogena di stimoli, ovvero di
un insieme di pulsioni che devono essere scaricate. Molti dei no­
stri cani assumono, perciò, un comportamento di appetizione, a
causa del quale scompaiono silenziosamente per vivere allo stato
selvaggio, finché non incappano in un cacciatore. La rabbia e la
reazione di quest’ultimo sono comprensibili: il cane che vaga allo
stato selvaggio rappresenta, infatti, un concorrente in zona, e la
caccia è un’attività che fa riferimento a un sistema arcaico di vita
che implica in modo imprescindibile la difesa del territorio.
A questo punto sorge una domanda non priva d’importanza:
come impedire al proprio cane di cacciare, cioè di vagabondare al­
lo stato selvaggio? La prima cosa da fare in assoluto è offrire al ca­
ne delle attività sostitutive, grazie alle quali possa sfogare gli im­
pulsi innati, riassumibili così: cercare la preda, tendere l’agguato,
scattare, inseguire, afferrare, non mollare la preda finché non sia
morta, portarla a casa.
Sappiamo anche che i singoli schemi motori fissi non devono
necessariamente esplicarsi nella successione in cui si svolgerebbe­
ro in circostanze reali. Il gioco ci ha dimostrato che ogni schema
motorio fisso può esistere da solo o collegarsi ad altri, ciò che im­
porta è liberare, con una scarica di energia, il sistema nervoso da
tutti questi impulsi. E con ciò ritorniamo di nuovo al gioco, quello
pianificato, con un programma e uno scopo precisi e in un certo
senso propedeutico, fra l’uomo e il cane.
Cercare e scovare una preda implica rifiutare una traccia oppu­
re, soprattutto nei cani a prevalenza sensoriale visiva, come i brac­
chi mediterranei o i levrieri, seguire con lo sguardo, da lontano,
un punto in movimento. Certo, nel cacciare una preda, anche l’u­
dito ha la sua importanza ma, indipendentemente dagli organi
sensoriali utilizzati, quello che conta è l’impulso a cercare che è al­
la base del comportamento di ricerca del cibo. Di solito è la fame
a evocarlo, ma anche un cane sazio può essere colto da questo sti­
molo se è sopraffatto dalle proprie pulsioni.
Heinz Basche, un esperto di cani da pastore, mi ha raccontato
una volta di come era riuscito a spingere un cane piuttosto diffici­
le a seguire una pista. Senza saperlo, aveva fatto dell’etologia ap­
plicata. Stava addestrando un lupo alsaziano di diciotto mesi per
l’esame di cane poliziotto. Sebbene avesse delle buone qualità,
quando, all’età di due anni, gli fu messo per la prima volta il guin­
zaglio richiesto, l’animale cominciò a tremare in tutto il corpo.
Evidentemente quell’oggetto gli ricordava brutte esperienze - for­
se durante le prime esercitazioni gli era successo qualcosa di sgra­
devole, o magari aveva subito un trauma che si era legato indisso­
lubilmente all’idea di guinzaglio. In simili condizioni si doveva as­
solutamente escludere di portare il cane su una qualsiasi pista, sa­
rebbe scappato terrorizzato. Basche cominciò ad abituarlo un po’
alla volta al guinzaglio usato per i cani poliziotto, infilandoglielo
per andare a passeggio e per giocare. In questo modo, il cane su­
però la paura dei finimenti di cuoio, senza che però fosse ancora
possibile fargli seguire una pista: tutti i tentativi in tal senso falli­
rono.
Il nuovo padrone scoprì allora un sistema che si rivelò effica­
cissimo. Per tre giorni lasciò il cane senza mangiare. Non si tratta
di una crudeltà, anzi, è un’abitudine salutare e risponde alle con­
dizioni naturali di vita dei cani selvaggi. Sarebbe, anzi, auspicabile
che tutti i padroni tenessero digiuni i propri cani almeno una vol­
ta alla settimana, se non due. La maggior parte dei cani che incon­
triamo per la strada sono intorpiditi dal cibo. L’eccesso di cibo è
un attentato alla salute del cane! Allo stato naturale il cane non
mangia mai più di una volta al giorno, inoltre deve vivere abba­
stanza spesso dei periodi di digiuno perché questo è ciò che pre­
vede la selezione naturale, e saltare qualche pasto non può che
aiutarlo a mantenersi in forma. La cura del digiuno non ha dun­
que fatto male al cane di Heinz Basche, anzi ne ha attivato il com­
portamento di ricerca del cibo, proprio come sarebbe avvenuto
allo stato naturale. Nessun animale da preda va a caccia finché il
suo stomaco non avverte i morsi della fame, in questo modo non
si affatica più del necessario. Nel cane di Basche la soglia dello sti­
molo di ricerca si era, dunque, notevolmente abbassata.
Basche condusse l’animale vicino alla pista già preparata e lo
legò a un albero, a pochi passi dal punto in cui iniziava uno spic­
chio di terreno di circa un metro quadrato attraversato in tutti i
sensi da orme piuttosto marcate, poi tirò fuori dalla tasca un pac­
chetto che conteneva dei pezzetti di appetitosa carne di manzo. Il
cane ne ricevette subito uno, poi Basche collocò gli altri bene in
evidenza sul rettilineo della pista, uno ogni dieci metri, per circa
cinquanta metri. Il resto se lo rimise in tasca, tornò dal cane, lo
prese al guinzaglio e lo condusse all’inizio della pista, dove aveva
messo il primo pezzo di carne. Per la prima volta il cane non solo
non si allontanò, ma iniziò a percorrerla con vero interesse pas­
sando da un pezzo di carne all’altro. Giunto alla fine, ricevette
tutta la carne avanzata, insieme a molti complimenti. Da quel mo­
mento, seguire una pista per il cane fu associato a un’esperienza
piacevole e, di conseguenza, fu possibile addestrarlo in modo da
fargli superare l’esame.
Questa, dunque, è la regola per far seguire una pista a un cane,
Perché risponde all’indole dell’animale e il cacciatore può attener­
115
visi rigidamente. Basta osservare il lavoro di un cane da seguita, o
sanguinario, che insegue la preda che si è rifugiata nel sottobosco
lasciando, se è ferita, una traccia di sangue dietro di sé. In questa
ricerca, naturalmente, il cane segue con piacere la pista, fino a
quando non riesce a scovare la selvaggina. Poi, quando il cacciato­
re sventra il selvatico privandolo degli intestini, riceve la sua ri­
compensa.
In linea di massima, pertanto, nel cane seguire le tracce della
selvaggina si associa a impressioni positive e, più precisamente, al­
l’ambito delle funzioni relative alla ricerca del cibo. Molto diverso
è, invece, il lavoro compiuto da un cane poliziotto su una pista.
Qui il cane deve imparare a seguire la traccia odorosa di una per­
sona che non conosce affatto e della quale, dopo che l’avrà scova­
ta, non potrà nemmeno ricevere qualche bocconcino. In questo
caso, quindi, un modello comportamentale è avulso dal suo ambi­
to funzionale originario, ed è immesso in un contesto estraneo al­
l’esperienza del cane. A ogni modo, la prima traccia umana che si
fa seguire a un cane per addestrarlo è quella del padrone: seguirlo
rientra nelle possibilità di comprensione dell’animale, che è già
abituato anche a seguire le orme dei suoi simili. Fiutare una pista
può far parte dell’ambito di funzioni relative alla vita sociale o alla
riproduzione. Da questo a seguire la traccia di una persona estra­
nea, il passo è breve, e nel frattempo il cane avrà imparato anche i
relativi comandi, per esempio “Cerca”, e inoltre capito che, per
qualche strana ragione, al suo padrone importa che lui non abban­
doni la pista.
Consiglierei anche a chi non vuole addestrare il proprio bar-
boncino, bassotto o terrier come un cane poliziotto, un simpatico
gioco di ricerca, molto divertente anche per il cane. Voi, oppure
un’altra persona cui il vostro cane sia affezionato, percorrete un
breve tratto - si deve cominciare con dei tratti piuttosto brevi - e
sia all’inizio che a metà della pista collocate un fazzoletto, un
guanto o qualcos’altro che sia impregnato dell’odore della perso­
na da cercare, la quale si nasconderà alla fine della pista, restando
in assoluto silenzio. La seconda persona che partecipa al gioco ac­
compagna all’inizio della pista il cane legato a un guinzaglio più
lungo possibile - se il cane è piccolino basta una lunghezza da tre
a cinque metri - e ordina: “Cerca!”. Che gioia quando, alla fine
della pista, il cane ritrova il suo amico! La prima volta si permette
116
al cane di vedere allontanarsi la persona che lui, comunque, vor­
rebbe seguire. In nessun caso, però, dovrà seguirla con lo sguardo
per più di metà strada, altrimenti invece di usare il fiuto la cer­
cherà con gli occhi. Quando la ricerca viene effettuata su una de­
terminata traccia, escludendo tutte le altre, si definisce “su pista
diretta” (Fährtenreinheit). Nel gioco che vi ho descritto, va da sé
che il ritrovamento della persona amata risponde senz’altro ai de­
sideri del cane. Come si comporta, ad esempio, un cacciatore
quando vuole che un segugio segua solo ed esclusivamente le trac­
ce fresche di cervo? Cerca lui stesso delle orme fresche di cervo
sul terreno molle e su queste fa lavorare il cane, incoraggiandolo e
lodandolo.
Come ricompensa, alla fine del tratto di pista che ha scelto,
metterà un frammento di pelle, un osso fresco o un pezzo di carne
di cervo. Tutte le volte che il cane si metterà a fiutare un’altra pi­
sta, ad esempio di capriolo o di lepre, o se anche solo accennerà a
farlo, lo richiamerà con un tuonante “No!”, rimproverandolo. Se
il cane fa il testardo, esiste un modo efficace per fargli perdere l’a­
bitudine di seguire altre tracce, che anche noi potremo utilizzare
per impedire al nostro cane di vagabondare e di fare delle scorri­
bande notturne nel pollaio dei vicini. Mi riferisco al collare a pun­
te, uno strumento che in realtà è molto meno pericoloso di quello
che lasci supporre il suo nome. È costituito da una catena i cui
elementi, anziché curvi, sono appuntiti, ma comunque non distur­
bano il cane quando sta buono al guinzaglio. Se vuole seguire le
orme di una lepre o di un capriolo, lasciamo scorrere il guinzaglio
(che deve essere lungo almeno dieci metri) fino a quando non si
tende. A questo punto, gridiamo un bel “No!” perentorio, dando
un breve strattone. In quel momento il cane avverte l’effetto degli
elementi appuntiti come una vera e propria punizione. Se lo ripe­
tiamo tre o quattro volte, l’odore della selvaggina sarà associato
puntualmente allo stimolo doloroso del collare a punte, e la trac-
eia seguita acquisterà una “tonalità negativa”. Il cane smetterà di
vagabondare come se fosse allo stato selvaggio e non degnerà più
nemmeno di uno sguardo le galline del vicino, essendo queste col­
legate a un’esperienza sgradevole.
Questo è dunque un ottimo rimedio per scoraggiare un incor-
reggibile vagabondo o ladro di galline. Non dobbiamo, però, ac­
contentarci d’imporre la nostra volontà, e a questo bisogno di cac­
117
ciare, innato nel cane, dobbiamo offrire delle attività sostitutive.
Ho già descritto come soddisfare il suo impulso alla ricerca. L’ap­
postamento e l’agguato sono i due successivi modelli comporta­
mentali relativi alla funzione del cacciare. A questo punto, ammetto
di non sapere quali giochi si possano inventare per esercitare tale
funzione, perciò direi di lasciare che sia il cane a cercarseli da solo.
Portandolo a spasso, lo vedremo tutt’a un tratto allontanarsi di
scatto, per poi tornare ad assalirci di sorpresa: il cane è in cerca di
situazioni in cui ha la sicurezza che il padrone stia al gioco. Se poi
capita di non essere abbastanza robusti da sostenere l’urto di qua­
ranta chili di un San Bernardo, e di rotolare a terra, per il cane è il
massimo della felicità.
Nella caccia, all’appostamento e all’agguato segue l’assalto. Il
“salto in alto” con il padrone è un’attività sostitutiva molto mode­
sta. Se il cane è ancora giovane, fate attenzione a non lasciarlo sal­
tare troppo in alto, è meglio che si alleni gradualmente, d’altronde
dove sta scritto che nel primo anno di vita debba superare ostaco­
li alti due metri? È molto più importante che segua i nostri inviti,
anche quando si tratta di saltare su un bastoncino a soli trenta
centimetri dalla superficie del prato. Finché non si affatica trop­
po, l’animale lo considera un gioco e un divertimento e continua a
farlo anche quando, attraverso un processo lungo e ponderato, un
giorno riesce a saltare attraverso un cerchio infuocato, a superare
sei ostacoli consecutivi di un metro, oppure a lanciarsi da apposite
impalcature.
In questo caso parliamo già di alta scuola ma, se non altro, ora
ci rendiamo conto di come tutto quello che possiamo dare al cane
in fondo non è altro che un aiuto a mettere a frutto le sue capacità
naturali. Si tratta di schemi motori che il cane sente il bisogno di
scaricare, che esercita spontaneamente da cucciolo e che in seguito
costituiscono per lui un allegro gioco. Da qui dobbiamo prendere
le mosse per l’addestramento del cane che, in fondo, non è diverso
da quello praticato allo stato naturale: il gioco si trasforma in realtà
e le capacità, mantenute in esercizio nel gioco e potenziate attra­
verso l’apprendimento, sono utilizzate nella lotta per l’esistenza.
Visto che noi questa lotta gliela risparmiamo, dobbiamo creare una
valvola di scarico per le pulsioni che spingono all’attività. L’adde­
stramento del cane non è soltanto una necessità per la polizia e per
la difesa dei confini, ma soprattutto per il cane stesso. Un cane che
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non ha mai la possibilità d’imparare qualcosa, di esprimere fino in
fondo le sue capacità, s’impigrisce, deperisce psichicamente, di­
venta insomma una creatura solo degna di compassione.
Non è un caso che abbia inserito questi problemi relativi all’ad­
destramento del cane nel capitolo dedicato al gioco: anche se ciò
che viene insegnato al cane da utilità ha per scopo acciuffare un
delinquente o trovare una persona sepolta da una slavina, per il ca­
ne stesso deve rimanere un gioco, seppure da svolgersi nelle forme
che gli sono state insegnate e entro i limiti stabiliti dall’uomo.
A proposito dei cani da utilità, oggi si evitano il più possibile
termini come “addestrare” e “ammaestrare”, che hanno acquisito
un significato negativo a causa dei metodi brutali usati un tempo,
quando la frusta sostituiva la persuasione. Purtroppo, perdura ancora
il pregiudizio che gli animali del circo siano ammaestrati nel senso ne­
gativo del termine. Consiglierei a qualche istruttore di cani troppo si­
curo di sé di andare a vedere, almeno una volta, cosa succede dav­
vero sotto al tendone. In genere, troviamo animali non certo dotati
della pazienza dei nostri cani. Per anni, io stesso ho assistito tutti i
pomeriggi alle prove che si svolgevano al circo Krone, e ho visto in
che modo si ammaestrano gli animali. Nei domatori ho riscontrato
un elevato grado di simpatia, sensibilità, comprensione e amore
per gli animali, che mi ha fatto aprire gli occhi su molte persone
che, invece, trattano i propri cani in modo poco paziente e genero­
so. Nel circo, infatti, l’addestramento dell’animale avviene in ma­
niera lenta e graduale, attraverso il piacere del gioco e della ricom­
pensa, che può essere una leccornia o una parola affettuosa, il tut­
to senza far ricorso alla violenza e senza l’ambizione di perfeziona­
re il numero nel più breve tempo possibile. L’addestramento dura
il tempo che serve all’animale per imparare, in modo che provi pia­
cere nel fare ciò che gli viene richiesto e lo esegua come per gioco,
con interesse e soddisfazione. In tanti spettacoli cui ho assistito,
non mi è mai capitato di cogliere negli animali segni di eccessiva
sottomissione o di paura, mentre assistendo a delle esercitazioni di
cani poliziotto ne ho notati, eccome.
A un cane sano e bene allevato si può insegnare qualunque co­
sa, purché, ovviamente, si tratti di qualcosa alla sua portata. Èva
ne ha continuamente la riprova con Sascha. In poco tempo ha
messo su un vero e proprio numero con lui, che inizia addirittura
con la ribellione del cane agli ordini della padrona. Èva lo può
119
chiamare, picchiare, urtare, tirare, e lui niente, rimane disteso per
terra senza darle retta. Tanta è l’indifferenza dell’animale, che si
ha l’impressione che abbia indetto uno sciopero. Sascha rimane
disteso e aspetta finché Èva non va a prendere una carriola. Allora
vi salta dentro e si fa portare nel luogo in cui si svolgono le eserci­
tazioni, dovè si trovano i cerchi e gli altri attrezzi. Così è come co­
mincia lo spettacolino. Appena Èva prende la carriola o uno dei
cerchi, Sascha è colto da una gioia irrefrenabile, non riesce ad
aspettare che l’esercizio cominci, si mette a correre e, pieno d’en­
tusiasmo, va a prendere un altro attrezzo. Se Rana, verso la quale è
sempre molto gentile e affettuoso, lo disturba durante gli esercizi,
si arrabbia sul serio e le ringhia contro.
Per Sascha lavorare insieme alla padrona è motivo di autentica
gioia, e lo fa a testa alta, con lo sguardo aperto e le orecchie tese.
La coda, ovvero il barometro dell’umore, è dritta, e se un esercizio
viene modificato o se ne aggiunge un altro, si agita a sottolineare
un ulteriore aumento d’interesse.
Quello che lo diverte di più, come ho già raccontato, è riporta­
re il legnetto, un’azione che può ripetere fino all’esaurimento del­
le forze. Tutte le volte che usciamo di casa, Sascha arriva di corsa
portando in bocca un pezzo di legno qualsiasi, a volte un ciocco, a
volte un ramoscello, insomma quello che riesce a rimediare sul
momento, ed è puntualmente un’amara delusione se non rispon­
diamo al suo invito. Eccoci, quindi, ritornati ai giochi di sostitu­
zione: questa volta si tratta della cattura della preda, nell’ambito
dei comportamenti inerenti la ricerca del cibo.
I giovani cani giocano spesso da soli con un oggetto, lancian­
dolo di lato o verso l’alto per poi riprenderlo. Il gioco è particolar­
mente divertente soprattutto se l’oggetto è rotondo e rotola via,
perché dà la possibilità d’inseguirlo. Palle di legno o di gomma
piena sono, pertanto, giocattoli ideali, e i negozi specializzati ne
offrono un’ampia scelta. Il riporto di un oggetto scagliato a distan­
za non è un’invenzione dell’uomo, ma un gioco del cane, tipico
della specie: l’oggetto che il cane insegue corrisponde alla preda
che l’animale bracca, cattura e porta nella tana. Il riporto è un mo­
dello comportamentale del gioco, che può trasformarsi in un com­
pito. Soffermiamoci un momento su questo aspetto, che ci offre
l’opportunità d’illustrare, grazie a un esempio concreto, come get­
tare le basi per la futura istruzione pratica del cane.
120
Prima regola fondamentale: non tentare d’insegnare al cuccio­
lo a riportare, ma aspettare che sia lui a invitarvi al gioco, cosa che
al massimo capiterà verso l’ottava o nona settimana di vita. Ovvia­
mente, lo si può incoraggiare facendo rotolare una palla di gom­
ma che senz’altro si metterà a inseguire. In questo caso, riprendia­
mola e lanciamogliela di nuovo, senza pretendere che ce la riporti;
prima o poi lo farà spontaneamente, al più tardi quando avrà ca­
pito che il gioco con l’uomo può continuare solo se la palla viene
ripresa e rilanciata. Ben presto entrerà a far parte del gioco che il
cucciolo riporti la palla o il legno senza alcuna esortazione. Quan­
do succede, riconosciamoglielo con espressioni di lode e, quando
si lancia all’inseguimento, accompagniamolo con il comando
“Porta!”, elogiandolo di nuovo dopo che l’ha fatto. Bisognereb­
be, tuttavia, cominciare a usare il comando “Porta!” soltanto
quando si è sicuri che il cane tornerà a portarci l’oggetto che ab­
biamo lanciato. Superati i quattro mesi, il cucciolo riporterà l’og­
getto quando glielo ordiniamo e con lui potremo già cominciare a
strutturare il gioco in maniera più disciplinata, ad esempio facen­
do in modo che il cane si accucci davanti a noi con l’oggetto in
bocca e aspetti che glielo prendiamo. Si può anche farlo stare “al
piede” mentre noi scagliamo il pezzo di legno lontano. In tal mo­
do l’animale impara che può correre nella direzione dell’oggetto
solo dopo aver ricevuto l’ordine di portare. Tutto questo esercizio
si sviluppa in maniera semplice e allegra dal gioco, senza bisogno
di urla, imprecazioni o botte, e per il cane resta associato per sem­
pre a qualcosa di piacevole, anche quando dovrà ripeterlo da
adulto, nel corso della sua istruzione. Approfittando del piacere
del gioco, così naturale nel cucciolo, per costruire con sensibilità
un programma di apprendimento organico, non s’incontreranno
mai difficoltà nell’addestramento del cane adulto. Il gusto d’im­
parare deve formarsi quando è ancora cucciolo, esattamente nel
periodo compreso fra l’ottava e la dodicesima settimana. In que­
sto periodo, infatti, non solo la gioia di apprendere raggiunge il
suo apice, ma si sviluppa anche, in maniera particolarmente inten­
sa, il bisogno del gioco sociale, il piacere di giocare con l’uomo. Se
sapremo ispirarci a ciò, gli avremo dato fondamenta solide per il
futuro. Ora il cucciolo comincia a considerare l’uomo come un
partner con cui fare giochi meravigliosi, e si rende conto che essi
procurano soddisfazione a entrambi. Da parte nostra, dobbiamo
121
fargli sempre capire che ogni progresso, per quanto piccolo, ci fa
molto piacere, come d ’altronde manifestargli il nostro disappunto
se fa qualcosa di sbagliato, e per questo basta un “N o” pronuncia­
to in tono di rimprovero. Non consiglierei di punire un cucciolo
di quest'età con una botta, perché è inutile. Se proprio non è pos­
sibile fare altrimenti, si dovrebbe ricorrere a queste misure solo
dopo la dodicesima settimana. Nel periodo che definisco “fase
deirordinamento gerarchico “ , i cagnolini di una stessa cucciolata
stabiliscono fra loro una solida gerarchia, ed è questo il momento
in cui l’uomo deve assolutamente ribadire la propria posizione di
predominio, se non vuole perderla per sempre.
Esaminiamo ora qualche altro gioco dei cani, il cui utilizzo è in
genere abbastanza evidente. I cuccioli litigano spesso per una “pre­
da”, ad esempio un pezzo di stoffa che gli abbiamo dato, da cui si
genera un vero e proprio tiro alla fune, che possiamo fare anche
noi con il nostro cane. Il significato del gioco è chiaro: così facen­
do, si trattiene una preda, ma si può anche farla a brandelli. Lo
stesso fa il cane poliziotto durante le esercitazioni, quando trattiene
per l’apposito manicotto la persona che recita la parte del delin­
quente ricercato. Qui il gioco si è trasformato in una forma di col­
laborazione con l’uomo. Il cane non deve mollare la presa finché il
padrone non dice: “Basta!”.
Un gruppo a sé è rappresentato dai giochi di movimento, che
non servono a esercitare determinate azioni che si ripresenteran­
no nel corso della vita, bensì ad allenare i muscoli, a sviluppare
l’abilità e a essere più rapidi nel movimento. Capita abbastanza
spesso di osservare un cucciolo che ripete uno stesso movimento
finché non è soddisfatto, e soltanto allora passa a qualcos’altro. Si
tratta di un modo più coerente di esercitarsi, che viene ricompen­
sato dalla soddisfazione di riuscire a eseguire bene un dato movi­
mento.
Fra i cuccioli possiamo osservare anche dei giochi di tipo ses­
suale, benché Ludwig dubiti che si tratti di un comportamento lu­
dico vero e proprio. Capita spesso di vedere cuccioli, anche picco­
lissimi, che si montano in maniera così evidente, seppure priva di
qualunque intenzione realmente sessuale, da poter parlare di “gio­
chi di monta” . Anche i giovani adulti li fanno. Ricordo alcune sce­
ne davvero buffe che si verificavano quando Sylvia, una teckel a
pelo lungo, e la dingo Buna entravano contemporaneamente in

122
calore. Vivevano insieme da parecchio tempo, erano buone ami­
che e facevano insieme tutti i giochi possibili. All’inizio del perio­
do degli amori cominciavano a montarsi a vicenda, come avviene
anche fra le mucche al pascolo. Nel caso delle due cagne si poteva
pensare a un riferimento a una circostanza reale, poiché sussisteva
già una disposizione all’atto sessuale, tuttavia si trattava comun­
que di due femmine.
Ludwig descrive, infine, i “giochi della muta” , che non sono in
realtà delle forme di gioco autonome, ma l’insieme dei giochi che
l’intero gruppo dei fratelli - spesso con i genitori, come avviene nei
miei canili - fa insieme. A partire dalla dodicesima settimana di vi­
ta, a volte anche prima, si può notare che gli animali giocano fra lo­
ro in maniera più disciplinata. A volte si tratta, ad esempio, di dare
la caccia a un compagno che fa la parte della preda in fuga e, cosa
molto interessante, spesso ho visto il padre invitare i cuccioli a inse­
guirlo. In questa caccia basata sull’inseguimento, i cuccioli impara­
no un po’ alla volta ad agire in maniera coordinata, attorniando la
preda o sospingendola abilmente verso un altro compagno. Così è
come si sviluppa la tattica di caccia di un branco di lupi.
Col passare del tempo, questi giochi diventano sempre più or­
ganizzati. Come i componenti di una squadra di calcio, i cuccioli
si allenano con impegno nei vari ruoli che dovranno assumere in
pratica, e questo ci ricorda che, proprio in questo periodo, defini­
to “fase dell’ordinamento gerarchico” , la natura ha predisposto
che i cuccioli siano pronti a collaborare tatticamente con i propri
simili e che raggiungano allo stesso tempo anche il grado di svi­
luppo psichico necessario per la disciplina. Questo è, pertanto, il
momento più adatto per iniziare gli esercizi di obbedienza. Anche
nella vita naturale, questo tipo di esercizi rientra nello sviluppo
giovanile del cane, animale da preda.
E molto divertente osservare questi giochi di muta, basati sul­
l’inseguimento della preda. L’animale che la interpreta sviluppa
delle tattiche particolari per riuscire a sfuggire, un allenamento
che può anch’esso rivelarsi utile nella vita. Queste tattiche vengo­
no impiegate con astuzia soprattutto dal padre, il quale riproduce
tutte le situazioni che possono verificarsi nell’inseguimento della
selvaggina, impartendo così una lezione molto efficace.
Sascha, che è un cane molto sicuro del proprio istinto, nonché
padre e zio esemplare, mi ha offerto l’opportunità di studiare par-
ticolarmente bene questi giochi di caccia. Quando sua figlia Rana
raggiunse Fetà giusta, Sascha cominciò a giocare ogni giorno con
lei a cacciatore e preda, dimostrando una straordinaria inventiva.
Il gioco aveva inizio quando lui fuggiva saltando a grandi balzi da­
vanti a Rana, oppure ne attirava l’attenzione attraverso la solita
modalità d ’invito al gioco. Capitava anche che facesse ricorso allo
sguardo fisso, di cui abbiamo parlato prima. Quando Rana accet­
tava d ’inseguirlo, usava tutti i trucchi possibili per sfuggirle. Spes­
so si nascondeva dietro una catasta di legno, spiando da quale par­
te la cacciatrice sarebbe arrivata per girare dalla parte opposta. La
cosa si ripeteva finché Rana non capiva il trucco e si metteva a cor­
rere nell’altra direzione, incontrando così l’astuto Sascha. Lui glie­
lo permetteva per un paio di volte, poi faceva l’esatto contrario,
correndo attorno alla catasta di legna, lasciando Rana con tanto di
naso. A questo punto Rana era costretta a fare leva su tutto il suo
acume, e così smetteva di correre di slancio e si soffermava an-
ch’essa ad analizzare la situazione, contribuendo ad aumentare la
tensione. Alla fine entrambi i cani restavano a spiarsi da dietro
l’angolo in attesa di decidere da quale parte sarebbe ripreso il gio­
co. Allora Sascha fingeva di scappare a sinistra, il che induceva
Rana a andargli incontro da quella parte, ma dopo pochi metri ri­
tornava sui suoi passi e girava attorno alla catasta da destra, la­
sciando di nuovo Rana con un palmo di naso. Bluff riuscito!
Per ore intere si potrebbe stare a guardare dei cani che gioca­
no; è uno spettacolo sempre nuovo che ci dimostra, fra le altre co­
se, come noi non possiamo offrire al nostro cane u n ’attività com­
pletamente sostitutiva del gioco. Ai cani giovani bisognerebbe la­
sciare sempre la possibilità di giocare di tanto in tanto con i loro
simili. I cani adulti della maggior parte delle nostre razze giocano
ancora volentieri fra loro, e un bravo individuo è particolarmente
contento di poter giocare con dei cuccioli, proprio come Sascha.

La disciplina

Abbiamo già visto come il padre non solo gioca insieme ai pic­
coli, ma anche li educa energicamente all’obbedienza. Sotto que­
st’aspetto possiamo imparare molto da lui! Il suo metodo educati­
vo è duro e severo, ma giusto! Quando papà cane le suona, i cuc­

124
cioli si mettono a urlare disperatamente, ma un minuto dopo gli
sono di nuovo intorno fiduciosi, e lui riprende a giocare con tutti
loro come se nulla fosse accaduto.
Durante la fase della socializzazione, il maschio inizia a scuote­
re con forza i suoi cuccioli uno dopo l'altro, da una a tre volte al
giorno, e questo trattamento sembra fare molto bene ai piccoli bir­
banti, perché stabilisce una forma di subordinazione che non ha
nulla a che vedere con la paura o il servilismo. In una famiglia di
cani, il cucciolo impara così a rispettare la statura e la forza di chi
gli è superiore, senza diventare un succube nevrotico, come capita
spesso quando viene educato a colpi di bastone. Se un cane non si
sottomette di buon grado, nella maggior parte dei casi dipende dal
fatto che non è stato educato in tal senso all’età adatta. La subordi­
nazione va sviluppata nella fase della socializzazione, altrimenti
non riusciremo a ottenere molto di più di una sottomissione impo­
sta con la forza.
Impariamo, dunque, dal comportamento del cane maschio e
cerchiamo di farne le veci agli occhi del cucciolo che all’età di ot­
to settimane inseriamo nella comunità umana. La bestiola si trova
in un’età in cui non solo capisce cosa sono l’ordine e la disciplina,
ma addirittura li pretende, perché così è previsto dalla natura.
Come abbiamo già visto per il gioco, la nostra mano può sosti­
tuire efficacemente il muso di un cane. Non per picchiare, ma per
mordere, e precisamente alla nuca! A fferrando con la mano il
cucciolo per la collottola - tenendo le altre quattro dita opposte al
pollice - bisogna scuoterlo una volta brevemente pronunciando
un bel “N o!” di rimprovero. Ecco il primo passo per fargli com­
prendere il significato di questa parola. Dopo la terza volta non
avremo più bisogno della mano, basterà il comando.
In questo modo il cucciolo impara molto rapidamente quello
che non deve fare e reagisce senza alcun senso di frustrazione al­
l’elenco dei nostri divieti, poiché anche nell’ambiente naturale esi­
ste una norma. Certo, un cucciolo è anche una creatura molto cu­
riosa e spesso, anzi quasi sempre, vuole essere davvero sicuro che,
ad esempio, non è permesso rosicchiare la gamba della sedia. Al­
lora prova a farlo proprio davanti ai nostri occhi e aspetta la no­
stra reazione, costringendoci a diventare campioni di coerenza!
Farci ripetere il divieto gli serve per essere certo della nostra opi­
nione sull’opportunità di rosicchiarla o meno.

125
Certo, capita abbastanza spesso che questa verifica dei divieti si
presenti con una certa frequenza, e che non riusciamo più ad argi­
narla a parole. A quel punto, dobbiamo passare all’azione, ma sta­
volta non ci accontenteremo più di afferrare il discolo per la collot­
tola e di dargli una scrollata, bensì lo scuoteremo dopo averlo solle­
vato in alto, prendendolo solo per la collottola oppure per la collot­
tola e per la groppa insieme, ovviamente subito dopo che ha com­
piuto il misfatto e pronunciando la parola associata a quel divieto.
Nei miei canili ho avuto modo di osservare come un padre crea
apposta le situazioni che gli permettono di mostrare ai cuccioli la
sua forza di educatore. Il maschio impone, per così dire, dei “tabù
arbitrari”, e per fare ciò si serve di preferenza di un osso. E oppor­
tuno ricordare che a quest’età i cuccioli non sono ancora indipen­
denti per quel che riguarda il cibo, ma sono ancora autorizzati a
toglierlo di bocca ai genitori senza che questi si arrabbino. Nel ca­
so di quel determinato osso, però, non devono assolutamente far­
lo, per loro è tabù, e il padre lo sorveglia attentamente anche
quando sembra averlo abbandonato in giro per il canile. Un cuc­
ciolo che tenti di avvicinarsi all’osso viene rimproverato con molta
severità. Se non si conosce il contesto in cui si verifica, questo fat­
to suscita una strana impressione, anche perché di solito si tratta
di un osso già rosicchiato che si trova da tempo nel recinto. Ho vi­
sto utilizzare in modo simile anche un pezzo di legno.
Questa scuola di disciplina, inoltre, impone che gli oggetti
nuovi siano prima esaminati dal padre, e che soltanto dopo il suo
scrutinio, ed eventualmente quello materno, i cuccioli possano av-
vicinarvisi. Se da un albero si stacca una foglia che va a cadere a
terra vicino a un cucciolo, guai a lui se osa fiutarla prima che l’ab­
bia fatto il padre! Il vecchio lo aggredisce abbaiando, il piccolo si
mette a urlare, insomma una vera e propria tragedia.
Terminata l’ispezione, il padre si ritira e il cucciolo può fiutare
l’oggetto a sua volta. E un accorgimento molto intelligente e razio­
nale, che evita che il cucciolo inesperto si avvicini a un oggetto po­
tenzialmente pericoloso. La disciplina si dimostra, quindi, utile al­
la sopravvivenza e la creazione di tabù da parte del padre una scel­
ta educativa molto saggia.
In questo modo si afferma anche la posizione di predominio
del padre, il quale, all’interno del nucleo familiare, riveste anche il
ruolo di capobranco.
126
Quali siano le implicazioni di ciò nell’ambito dell’espressione
sociale della gerarchia, lo apprendiamo da Rudolf Schenkel, al
quale dobbiamo fondamentali studi sul comportamento dei lupi.
Nello zoo di Whipsnade, dove i lupi vivono in condizioni ottimali
in un ampio tratto di bosco, Schenkel ha potuto osservare quanto
segue: al mattino, dopo il risveglio, il capobranco passeggiava an­
nusando il terreno. Si fermava in un punto e disseppelliva un os­
so. Lo prendeva in bocca con un atteggiamento fiero, la coda eret­
ta, e lo esibiva al branco. Allora, gli altri lupi si alzavano e lo attor­
niavano in un rituale di questua. Il maschio ringhiava e prosegui­
va il cammino. A un certo punto lasciava cadere Tosso e smetteva
di occuparsene. Gli altri si disponevano a cerchio intorno all’osso
per un momento ma senza prenderlo, e si disperdevano subito
dopo. Secondo Schenkel non si tratta di una vera e propria richie­
sta di cibo, ma di una questua simbolica. Per il capo e il suo bran­
co, l’osso è solo un accessorio utilizzato in una “cerimonia di ar­
moniosa integrazione sociale”.
Partendo da questo esempio, potremmo essere tentati di stabi­
lire dei parallelismi con certi antichi costumi del genere umano,
ma preferiamo rivolgere la nostra attenzione al giovane cane, per
il quale vogliamo diventare un buon capobranco, di cui, una volta
adulto, possa accettare con gioia l’autorità. Non è necessario fare
di un vecchio osso un tabù e portarlo in giro a scopo dimostrati­
vo, il nostro appartamento ordinato e le aiuole di fiori in giardino
ci offrono infinite possibilità.
Anche il permesso di mangiare rientra in questo campo: mette­
re sotto il naso del nostro quadrupede un appetitoso wiirstel, vie­
tandogli di mangiarlo prima che il tabù sia stato revocato da un
nostro cenno o da una nostra parola, non implica affatto una so­
praffazione della natura canina. Queste dimostrazioni del proprio
rango sono, per l’appunto, una prerogativa del capobranco. La
premessa, ovviamente, è che il nostro cane ci riconosca come tale!
Altro fatto interessante sotto vari aspetti è che la cordiale ubbi­
dienza di un maschio nei nostri confronti si trasmette spontanea­
mente, e senza il nostro intervento, anche ai suoi figli. Avendo im­
parato dal padre la sottomissione, ora vedono che noi stiamo an­
cora più in alto del loro grande genitore, e che lui si sottomette a
Hoi. Questo vale anche per i cuccioli allevati esclusivamente dalla
madre. Realizzata in questo modo, la sottomissione dei giovani ca-
127
ni nei riguardi degli uomini è molto gratificante. Occorrono, infat­
ti, una grande esperienza e una notevole sensibilità per stabilire un
rapporto di sottomissione senza l’uso della forza, come fanno i ge­
nitori cani. Detto questo, la conflittuale situazione della nostra
brava Rana ci appare ancora più evidente: grazie a Sascha, suo mo­
dello, la cagnetta si sottomette bene e volentieri, ma questa sua
sottomissione non le serve a nulla perché nell’età della socializza­
zione non ha mai conosciuto l’uomo come educatore e compagno
di giochi. E felice di dimostrarci il suo affetto e la sua ammirazio­
ne, ma pretendere qualcosa da lei, sia pure un semplice gioco, è
un’impresa disperata. Quando viene sgridata per aver commesso
qualcosa che non doveva, si acquatta impaurita, e questo perché
non ha mai imparato ad accettare dall’uomo dei castighi meritati.
Altrettanto impossibile è farle capire che l’uomo possiede degli
oggetti, cui lei non può avere accesso. Rana ruba come può perché
non ha imparato nemmeno questo nell’età della formazione e,
mentre rispetta gli ossi di Sascha, non si fa problemi a saccheggia­
re la nostra dispensa. Al contrario, Sascha incede tutto fiero fra i
piatti preparati per gli ospiti senza neppure degnare di uno sguar­
do un’appetitosa fetta di salame o a una coscia di pollo. Per lui so­
no tabù e basta.
Si parla molto di sottomissione, di gesti servili e simili, ma per
definire quello che un cane socializzato nel modo giusto ci dimo­
stra, l ’espressione più esatta è “attestazione di attaccamento” .
Nelle mie famiglie di cani ho modo di osservare bene come i cuc­
cioli dimostrano il proprio attaccamento al genitore che li educa:
un cucciolo che è stato punito non striscia sul ventre di fronte al
padre, come si vede spesso fare dai cani che vengono sgridati. A
testa alta, si dirige verso il genitore e gli esprime il suo stato d’ani­
mo attraverso i noti schemi comportamentali infantili: dare col-
petti con il muso sull’angolo della bocca, porgere la zampina, ac­
cennare gesti da questuante o di propiziazione. Tali gesti esprimo­
no rispetto per l’autorità, i cui provvedimenti disciplinari sono
saggi, giusti e adeguati, e alla quale, quindi, si sottostà volentieri.
Soltanto se il nostro cane reagisce in questo modo a una giusta pu­
nizione, possiamo considerarci un buon padrone per lui. Un cane
non deve assoggettarsi per paura, ma deve riconoscere l’autorità
in modo aperto e libero. Sta a noi stimolare nell’animale la sicu­
rezza e la fiducia in se stesso, sia nel gioco sia nella disciplina, non

128
pretendendo dal cucciolo più di quanto sia in grado di compren­
dere alla sua età.
Innanzi tutto, come ho già detto, il cucciolo è capace di capire
i divieti e di comprendere che non è sempre il momento di gioca­
re con noi. Non gli crea alcun complesso il fatto che, sul più bello,
possiamo ritirarci dal gioco. Se giocando ha esagerato nel morde­
re, cosa che capita spesso, e noi, per coerenza, abbiamo detto ba­
sta, impara fino a che punto è lecito spingersi. Gli sarà, invece,
difficile capire perché durante il gioco venga all’improvviso puni­
to: così facendo, non riusciremo a fargli perdere l’abitudine di es­
sere troppo irruente, mentre instilleremo in lui un senso d’insicu­
rezza, dato che il cucciolo non è in grado di cogliere il significato
del nostro comportamento. Con un cane adulto, che sa già fino a
che punto può spingersi nel gioco, la cosa è diversa; se qualche
volta esagera e viene punito con una percossa, sa esattamente il
perché. Un cucciolo di dieci o dodici settimane, invece, ne rica­
verà solo l’esperienza dell’imprevedibilità dell’essere umano,
un’esperienza che proprio in quell’età s’imprime in maniera
profonda! Dobbiamo, inoltre, attenerci sempre al principio che
un castigo può essere impartito soltanto se viene infranto un di­
vieto e mai quando il cagnolino non è ancora abbastanza maturo
per fare quello che vogliamo. Come ho già spiegato a proposito
del riporto, possiamo ottenere dal nostro cane tutto quello che
vogliamo, e in perfetta armonia, solo se siamo contenti di quello
che il cane fa e glielo dimostriamo, magari con parole affettuose,
perché il cane impara presto a riconoscere la nostra espressione.
In questo modo otterremo anche che per il cane la collaborazione
con l’uomo sia qualcosa di piacevole, che lui cerca spontaneamen­
te. Arrabbiarsi, imprecare o addirittura picchiare il cagnolino,
perché non fa quello che ci aspettiamo da lui, è il modo più sicuro
per renderlo un insicuro, che in seguito ci ubbidirà soltanto per
paura della nostra violenza. A quest’età, un addestratore impa­
ziente riesce soltanto a rendere il cane scontroso. Mettiamoci be­
ne in testa che il nostro cane, pur essendo un esemplare di razza,
particolarmente costoso, non è un bambino prodigio: il suo pro­
cesso di maturazione è preordinato dalla natura per svolgersi lun­
go un periodo formativo piuttosto lungo, e credere il contrario
vuol dire pretendere da lui l’impossibile.
Insegnare al cane la disciplina nell’età della socializzazione

129
contribuisce a rinsaldare il legame fra cane e padrone e a gettare le
basi per un rapporto di totale fiducia. Per sua natura, da piccolo il
cane ha bisogno del polso fermo: è ancora indifeso e può sentirsi
sicuro soltanto airinterno di una comunità guidata da qualcuno
esperto e forte. Una disciplina che tenga conto delle esigenze della
sua specie è percepita dal cane come assolutamente positiva.
A questo punto, però, è utile accennare anche ai provvedimen­
ti disciplinari che non rispondono aliandole del cane. Nei nostri
cuccioli, infatti, esistono forme di comportamento espressivo in­
nate e già complete che, pur dettate dalle migliori intenzioni, noi
non riusciamo a sopportare. Mi riferisco al desiderio del cucciolo
di leccarci il viso e di saltarci addosso per dimostrare il suo attac­
camento. Schenkel ha osservato questi attestati di affetto nei lupi e
ne ha descritto così i gesti caratteristici: “Eseguiti con le orecchie
abbassate all’indietro, sono: leccare il muso, urtarlo leggermente
contro le labbra di un superiore di rango, infine afferrare delicata­
mente il muso di quest’ultimo, magari con un affettuoso uggiolio.
La regione anale di chi rende omaggio è sempre nascosta, senza
che però la coda si trovi necessariamente fra le gambe. Spesso l’a-
nimale scodinzola con tutto il treno posteriore. Questo vivace mo­
vimento, un leggero avanzare e, soprattutto, i movimenti del muso
orientati in modo preciso, danno Timpressione di una certa inizia­
tiva, che ha fatto attribuire a questo modello comportamentale il
nome di 'sottomissione attiva’” .
Se due lupi si scorgono a una certa distanza, quello di rango in­
feriore può accennare il gesto simbolico di toccare con il proprio
muso quello dell’animale superiore, tendendo in avanti il naso e
abbassando le orecchie: in questo modo, l’atto di dare un colpetto
con il muso non è più molto evidente, ma spesso dà l’impressione
che un animale si volga nella direzione dell’altro.
Schenkel ha inoltre osservato che i cani si fiutano la pelliccia
del collo, oppure la zona del naso, i lati della testa e gli angoli del­
la bocca, sempre in un clima pacifico e disteso. Ho ricavato un di­
segno da una fotografia scattata alla mia elkhound Binna, che allo­
ra aveva sedici settimane, e la zia omonima, di quattro anni, men­
tre si scambiano delle effusioni.
La maggiore delle due Binna aveva giocato un po’ con quella
più piccola, ma entrambe si erano stancate, e ora la piccola Binna,
tutta contenta, si stringeva vicino all’affettuosa zia, leccandole il
muso e annusandola delicatamente. Le sue orecchie erano tese al-
l’indietro, in segno di sottomissione, la giovane mostrava un atteg­
giamento completamente privo d’intenzioni aggressive, tutto l’op­
posto di quando voleva invece giocare a mordere. La maggiore a
un certo punto aveva voltato la testa, altro atteggiamento tipico
perché si tratta di un gesto come di rabbonimento, quasi a voler
dire: “Va bene, lascia stare, non parliamone più”. Se non l’avesse
fatto, la piccola non solo avrebbe dovuto continuare i suoi sforzi
in tal senso, ma li avrebbe persino dovuti intensificare, e persiste­
re nell’immobilità avrebbe significato un invito a giocare a mor­
dersi, oppure un segno di autentica scortesia.
Davanti agli occhi abbiamo, dunque, una pacifica scenetta che
possiamo vedere ogni giorno fra cani che sono amici fra loro, e
ancor di più fra animali giovani e anziani. Quella fra madre e fi­
glio è una delle più comuni.
Adesso comprendiamo quello che il nostro cane ci vuole “di­
re” quando cerca di toccarci il viso con il naso. Armandoci di au­
tocontrollo, proviamo una volta a lasciarlo fare: il freddo naso as­
sesterà un colpetto preciso all’angolo della nostra bocca e subito
dopo quella sensazione di freddo sarà eliminata dalla lingua mor­
bida e calda. Queste sono le effusioni muso a muso! Facciamo ca­
so alla posizione delle orecchie: il nostro bravo quadrupede ci
tratta senza dubbio come un proprio simile e vuole dirci che è fe­
lice di riconoscere la nostra superiorità, sottomettendosi a noi con
amicizia. Cosa si può volere di più? Non tutti, però, gradiscono
quest’umido segno di affetto. In tal caso, si può tranquillamente
girare la testa e rifiutare quest’effusione, senza per questo offen­
dere l’animale, anzi, proprio questo rifiuto gli dimostra che siamo
così in alto nei suoi confronti da non aver bisogno di gesti simili.
Invece, non dovremmo mai reagire con una punizione, anche solo
verbale. D ’altronde, come abbiamo visto, non si tratta di cattive
maniere del cane. Possiamo convincerlo con dolcezza che capia­
mo bene il suo gesto, ma che non lo gradiamo in forma così diret­
ta. Imparerà presto a eseguirne solo un accenno, un movimento
incompiuto, magari colpendo l’aria.
Non si tratta di cattive maniere neanche quando rientrando a
casa il nostro cane, con gioiosa eccitazione, ci salta addosso - e se
è un alano o un altro cane di grossa taglia la cosa può risultare ri­
voltante nel senso letterale del termine! - bensì di un espediente

131
utilizzato dal cane. Se qualcuno mi chiede cosa si può fare per di­
fendersi da questi salti, io gli consiglio di mettersi a quattro zampe
o di accovacciarsi. Così facendo, il cane non avrà più bisogno di
spiccare salti, perché arriverà tranquillamente alla nostra bocca
per offrirci le sue effusioni muso a muso, a mo’ di saluto.
E un peccato dover rifiutare una simile mostra di gentilezza da
parte dei nostri cani, ma purtroppo non si può fare altrimenti.
Spesso smorziamo con un rimprovero o un gesto di rifiuto la pro­
rompente gioia che ci accoglie al rientro a casa, e questo non è cer­
to il modo di ringraziare il cane per tutto l’amore che, pur a modo
suo, ci esprime. C ’è solo una via: proibire tassativamente questo
modo di esprimersi, ma al tempo stesso far capire airanimale che
è solo la forma a non piacerci, mentre apprezziamo il contenuto.
A seconda della taglia e del temperamento, troveremo nuove for­
me di espressione, grazie alle quali testimoniarci a vicenda la gioia
di rivedersi. In particolare, dare la zampa sarà un ottimo sostituto
dei colpetti di muso e delle leccate sul viso. Un cane possiede dei
modelli comportamentali innati, ma anche la capacità di escluder­
li nei momenti non adatti o di sostituirli con dei comportamenti
appresi. Se gli insegniamo a eseguire un piccolo numero di bravu­
ra, chiedendoglielo ogni volta che gli viene spontaneo di strofinare
il muso contro il nostro viso, ben presto capirà di poterci esprime­
re anche in questo modo la sua “sottomissione attiva”.
Un cane non è un essere istintivo privo d ’intuizione. Si porta
dietro un bagaglio di schemi motori fissi, ma ha pure ampie possi­
bilità d’impiegarli saggiamente e di controllarli, soprattutto per
quel che riguarda l’espressione. Anche noi disponiamo di compor­
tamenti espressivi innati. La manifestazione della gioia, per esem­
pio, è il riso. Possiamo ridere perché abbiamo ascoltato una barzel­
letta spiritosa, e in questo caso si tratta di uno schema motorio fis­
so attivato da una particolare situazione, ma possiamo anche ridere
per una barzelletta insulsa, per ragioni di convenienza sociale, ad
esempio perché ce l’ha raccontata il nostro principale: in tal caso
ricorriamo volontariamente a questo schema motorio fisso.
Eccoci, quindi, giunti alla questione se un cane sia in grado di
pensare, ovviamente in maniera diversa da noi. Otto Koehler, i cui
eccellenti studi di etologia e psicologia animale ci offrono un qua­
dro delle più elevate prestazioni del cervello animale, parla di un
“pensiero averbale”, ossia di un processo intellettuale che fa a me­

132
no delle parole e che dobbiamo immaginare costruito sulle imma­
gini fornite dalla memoria. Nell’uomo, questa forma di pensiero è
la premessa per l’evoluzione del linguaggio. Il bambino piccolo
impara la lingua materna esclusivamente attraverso questo “pen­
siero averbale”, collocando le parole che ha sentito e che imita nel
posto prima occupato dal pensiero averbale, poiché si rende con­
to che le singole parole si riferiscono sempre a un determinato og­
getto o a una determinata situazione. Allo stesso modo si svolge il
processo di apprendimento del nostro cane, che però non è in
grado d ’imitare le parole, come d ’altronde di comprendere la
combinazione di diverse parole in frasi di senso compiuto. Per lui,
come per il bambino piccolo all’inizio, esistono soltanto delle
“frasi monoverbali”. Quando, ad esempio, gli diciamo “Va’ a cuc­
cia”, il cane percepisce “Vaacuccia”, e per lui questa combinazio­
ne di suoni non è altro che il segno acustico da ricollegare alla
cuccia, perché così ha imparato. Proprio grazie alle decennali ri­
cerche di Koehler, siamo così bene informati sulle prestazioni in­
tellettuali degli animali da poter scartare come pura fantasia l’af­
fermazione, spesso ripetuta, che i cani, mediante dei segni con la
testa, riescono a formare delle frasi in risposta alle domande poste
dall’uomo.
Dobbiamo, invece, riconoscere al cane quel tipo di pensiero
che non opera con simboli verbali, come avviene in un uomo
adulto in grado di parlare, ma che è basato sull’associazione delle
esperienze. Quando lo Schnauzer medio di Koehler, avendo speri­
mentato la difficoltà di trasportare correndo un ramo lungo due
metri con vari ramoscelli, dopo la prima volta li stacca a morsi pri­
ma di ripetere l’impresa, ci troviamo decisamente di fronte a un’a­
zione intelligente. Possiamo tentare di spiegarla così: il cane nota
che il ramo s’impiglia continuamente dappertutto. Tempo prima
ha trasportato un legno altrettanto lungo, con il quale ciò non
succedeva. Si ricorda l’aspetto di quel ramo, l’immagine della me­
moria gli mostra che non aveva dei ramoscelli. Lo confronta con il
ramo frondoso e trova la soluzione: bisogna renderlo come l’altro.
Certamente s’inseriscono altri ricordi connessi all’azione di stac­
care dei rametti a morsi, come magari ha già fatto per gioco, senza
uno scopo preciso. La combinazione di tali immagini di pensiero
Porta a un’azione ben precisa, cioè a strappare a morsi i ramoscel­
li che sono d ’impaccio. Il risultato è che ora può trasportare più

133
facilmente il ramo, e che da quel momento in poi farà sempre così.
Così è più o meno come possiamo tradurre nel nostro linguaggio
il pensiero averbale.
Il cane non capisce le nostre parole di comando nel loro com­
pleto significato, ma associa il loro suono con ciò che ha imparato.
Molte persone spesso si meravigliano che un cane esegua un co­
mando prima ancora che il padrone abbia parlato. Qui entra in
gioco la straordinaria capacità di osservazione di questo animale.
Non impartiamo questo o quel comando in modo neutro ma, nel
periodo in cui abbiamo insegnato al cane quello che doveva o non
doveva fare, ci siamo abituati ad assumere una certa espressione.
Nei primi tempi abbiamo pronunciato ogni comando in maniera
particolarmente chiara e scandita, chiedendoci con un po’ di ten­
sione se lo avrebbe eseguito o meno. Avendo poi conservato alcu­
ne componenti mimiche, assumiamo l'espressione adatta ai co­
mandi “Vai a cuccia” o “Vieni qui” prima ancora di pronunciare
le parole. Spesso si tratta di alterazioni quasi impercettibili nei no­
stri tratti o nel nostro atteggiamento, di cui non ci accorgeremmo
neanche guardandoci allo specchio. Il nostro occhio è troppo po­
co allenato, quello del cane ci supera di molto!
Spesso mi chiedono come fa un cane a sapere esattamente che
il padrone sta tornando a casa. Forse possiede delle capacità divi­
natorie? Esistono molte cose sorprendenti che un cane riesce a fa­
re, tanto che spesso restiamo sbalorditi, non capendo come ciò sia
possibile. Chi possiede un cane lo sperimenta quasi quotidiana­
mente, e in realtà certe cose superano davvero la nostra immagina­
zione.
Ciò non significa, però, che dobbiamo credere nei miracoli.
Una volta, durante un’interessante conferenza tenuta da un istrut­
tore di cani, fu usata più volte l’espressione “senso del sentimen­
to”, molto ricorrente fra i cinofili, e forse molto pratica, ma che
può facilmente trarre in inganno.
Io e l’esperto istruttore iniziammo la seguente discussione:
“Lei che cosa intende per senso del sentimento?”. “Che il cane
possiede un senso particolare per capire gli stati d’animo e i senti­
menti del proprio padrone”. “Esatto. Il cane riconosce con gran­
de precisione il nostro stato d’animo e vi si adegua, anche senza
bisogno che proferiamo parola. Tuttavia, lei ci ha parlato di tre
sensi: olfatto, udito e vista. Nel linguaggio corrente si tratta di sen­
134
si collegati ad altrettanti organi sensoriali: il naso, le orecchie e gli
occhi. Non esiste, invece, un organo sensoriale in grado di coglie­
re gli stati d’animo dei propri simili o dell'uomo”.
Di fronte alla mia obiezione, il mio interlocutore ammise: “Sì,
certo, ma se sfogliamo i libri dei grandi cinofili, come Moss e altri,
vediamo che in tutti si parla di questo senso del sentimento”.
Mi trovavo, dunque, ancora una volta a imbattermi nella vecchia
scuola carica di tradizioni e nei sacri dogmi dei grandi maestri!
Per spiegare il fenomeno del “senso del sentimento” la cosa
migliore è partire dal significato del comportamento espressivo al­
l'interno del branco di lupi. Prendiamo, ad esempio, una coppia
di lupi che caccia insieme e che ha scovato una grossa preda. Fra i
due animali s’instaura una stretta collaborazione basata non sol­
tanto sulla vasta esperienza di caccia, ma anche sull’osservazione
attenta del comportamento del compagno. Un animale scorge la
preda, mentre l’altro, che rimane nascosto, non può vederla e,
pertanto, deve intuire dai più sottili e impercettibili movimenti
del compagno a che distanza si trova e il momento in cui tocca a
lui entrare in azione. Si tratta, dunque, dell’efficienza di naso, oc­
chi e orecchie. Allo stesso modo, quando d’inverno i lupi si riuni­
scono in branchi e stabiliscono l’ordine gerarchico, tutto dipende
da questi organi sensoriali. Per i lupi, saper osservare attentamen­
te il compagno di branco è una condizione imprescindibile per
l’esistenza.
A cosa servirebbe un comportamento espressivo così vario, se
non fosse continuamente osservato dal compagno di branco? Il
termine “osservare” è, in realtà, insufficiente. “Osservare” indica,
infatti, un’azione compiuta coscientemente dal soggetto. Esiste,
però, una percezione indipendente dall’attenzione consapevole,
un’attività costante degli organi sensoriali che trasmettono senza
posa ciò che li colpisce al cervello. Questo, a sua volta, elabora in
maniera automatica le impressioni e preleva dalla memoria i dati
utili per trarre le conclusioni necessarie. Come ho già accennato,
un cane dal sonno leggero svegliandosi sa all’istante quello che
succede intorno, perché anche durante il sonno il naso e le orec­
chie hanno continuato a trasmettere informazioni al cervello, i cui
centri di elaborazione delle percezioni lavorano in continuazione.
L’esatta registrazione di quanto accade nell’ambiente circostante e,
in particolare, dell’espressione dei propri simili non avviene neces-
sanamente in maniera attiva. Basta che i risultati di questa perenne
attività degli organi sensori, registrati e valutati in precedenza nel­
l’inconscio, emergano negli strati psichici della coscienza.
Sappiamo che gli organi sensori del lupo e del cane, soprattut­
to il naso e le orecchie, sono molto più sensibili dei nostri. Non mi
riesce difficile immaginare un lupo che, svegliandosi per caso, sap­
pia già che il compagno di branco, addormentato qualche metro
più in là, al risveglio sarà di cattivo umore perché ha fatto dei
brutti sogni che lo hanno eccitato e ne hanno modificato l’odore
corporeo. Il primo lupo non lo sa per averlo verificato al risveglio,
ma perché ciò è avvenuto mentre dormiva. Adesso ne è soltanto
consapevole perché i suoi centri elaboratori hanno comunicato al­
la sfera della coscienza che il lupo Occhio Nero ha la luna storta.
Ecco svelato il “senso del sentimento” del cane. Vivendo con
noi, l’animale ha imparato il significato di un determinato atteg­
giamento del nostro corpo o espressione del volto, di una certa in­
flessione della voce oppure della secrezione di adrenalina che mo­
difica il nostro odore, insomma, ci ha decifrato! Spesso non gli oc­
corre nemmeno guardarci perché sa già tutto, ad esempio se i no­
stri movimenti sono più nervosi o rilassati del solito - il fruscio dei
vestiti, che noi spesso non percepiamo nemmeno, il cane lo sente
forte e distinto. Senza doversi neppure concentrare, il cane cono­
sce il nostro stato d’animo ancor prima di noi, e si comporta di
conseguenza.
A un esame più attento, dunque, quel nebuloso “senso del sen­
timento” si rivela come l’accordo di organi sensoriali straordina­
riamente acuti, ma pur sempre quelli, collegati a efficientissimi
centri di elaborazione dei particolari espressivi, che sono molto
più numerosi di quelli che noi riusciamo a percepire con il nostro
naso e con le nostre orecchie, così ottusi. Una meravigliosa capa­
cità del cane, non un miracolo extrasensoriale!
Chi è capace di una ricezione tanto precisa deve possedere an­
che la capacità di distinguere con semplicità le varie percezioni.
Ciò significa che la vita psichica del cane dev’essere straordinaria­
mente differenziata, molto più di quella di tanti nostri simili, che
trattano quest’animale con i piedi, come uno schiavo. Da una pro­
spettiva piuttosto unilaterale, la differenza con l’uomo consiste
grosso modo nel fatto che al cane manca quel complesso sviluppo
della corteccia cerebrale, che nell’Era Neozoica ha permesso al­
136
l’uomo di allontanarsi tanto dall’animale. Tuttavia, la corteccia ce­
rebrale non è la sede della vita psichica vera e propria. Gli stati
d’animo nascono in quella “vecchia” parte del cervello che, per la
sua posizione, viene denominata diencefalo, ovvero ‘cervello me­
dio'. Questo non presenta differenze sostanziali nell’uomo e nel
cane, né riguardo alla struttura né riguardo all’attività. Anziché ri­
correre alle nostre doti d’immedesimazione (empatia), noi faccia­
mo troppo spesso appello alle straordinarie capacità della cortec­
cia cerebrale.
Partendo dalle semplici reazioni del cucciolo neonato, abbia­
mo fatto molta strada, fino ad arrivare alle sue massime prestazio­
ni nella sfera psichica e intellettiva. Proprio l’ultimo tratto di que­
sto percorso, che ci ha introdotto all’importantissima fase della
socializzazione del cane, ha messo in luce le ottime capacità di
questo animale. E ciò per un valido motivo. La possibilità di sta­
bilire uno stretto legame, come quello che s’instaura fra l’uomo e
il cane, si basa sul fatto che le maggiori capacità psichiche del ca­
ne, comprese quelle sviluppate nel cacciare una preda, sono state
sviluppate al servizio del comportamento sociale. Allo stato sel­
vaggio, infatti, il cane vive da solo soltanto occasionalmente e per
brevi periodi, mentre per la maggior parte della sua vita anche
cacciare costituisce un’attività comunitaria.
La nostra struttura psichica si è formata in maniera analoga.
Un tempo l’uomo era anch’egli un cacciatore che viveva in picco­
le tribù, con un numero di membri simile a quello di un branco di
lupi. I modelli comportamentali sociali sviluppatisi allora sono
ancora oggi i nostri, e sono anche quelli che notoriamente rendo­
no così difficile la convivenza nelle città sovraffollate. Nel Paleoli­
tico la caccia comune, in cui una buona disciplina costituiva la
premessa per una proficua collaborazione, non era molto diversa
da quella condotta da un branco di lupi. Come per i lupi, la difesa
del territorio contro le tribù vicine e la cura comune della prole
erano una necessità. In sintesi, nella vita sociale dell’uomo e del­
l’animale esistono molti punti di contatto e, di conseguenza, l’in-
serimento di un animale selvatico nella società umana non ha
comportato nessuna trasformazione essenziale. Tutte le strutture
tipiche della sua indole si sono adattate perfettamente alla comu­
nità dei bipedi uomini, il cui comportamento sociale, oggi costret­
to in un ambiente che non è più il suo, era allora più genuino di
137
quello attuale. Lo sviluppo della civiltà ha sopraffatto l’uomo che
ora deve lottare per non soccombere.
Dunque, non soltanto è comprensibile che, un tempo, fra l’uo­
mo e il cane vi fosse un rapporto di solidarietà, ma il comporta­
mento sociale del secondo ci offre parecchie indicazioni su quanto,
nel nostro, è ancora genuino e su quanto invece è sovrastruttura. Il
comportamento di un cane, che non sia stato correttamente educa­
to durante la fase della socializzazione, con l’andare del tempo so­
miglia sempre di più, e sorprendentemente, a quello che nella so­
cietà umana porta all’emarginazione o addirittura alla criminalità.
E spesso sono proprio le stesse cause a rendere un cane “difficile”.
Torneremo sull’argomento a proposito dell’aggressività del ca­
ne, e ancora una volta avremo modo di osservare che esistono due
aspetti: innanzi tutto, secondo natura l’aggressività fra individui
della stessa specie occupa un posto di secondo piano rispetto ai
modelli comportamentali sociali e di coesione di gruppo. In secon­
do luogo, è colpa dell’uomo se questo rapporto viene turbato e se
nel cane l’aggressività diventa un fattore predominante. Proprio
adesso, nella fase in cui il cucciolo è particolarmente disposto a sta­
bilire dei legami di gruppo, un’educazione sbagliata, derivante da
un’errata valutazione della sua indole, può causare gravi turbe per­
manenti del comportamento sociale, sia nei confronti dei conspeci­
fici che dell’uomo, e di conseguenza trasformare la sua vita in un
tormento senza fine.

138
V
Scuola e tirocinio

Se finora abbiamo trattato principalmente dell’educazione del


cucciolo come elemento di una comunità, a partire dalla dodicesi­
ma settimana, in una famiglia di cani allo stato naturale, acquista
importanza soprattutto la sua trasformazione in un valido compa­
gno di branco. Ovviamente, i genitori continuano la loro opera di
educatori, soprattutto il padre che, man mano che i cuccioli si
fanno più grandi e indipendenti, assume una ruolo sempre più
particolare. Vorrei ricordare che nella seconda fase del periodo di
gestazione la posizione di superiorità del maschio aveva ceduto, in
misura sempre crescente, il posto alla cagna. Adesso, invece, il
maschio ridiventa il numero uno, a occupare il rango più elevato,
e la cagna torna a sottomettersi a lui. Nel corso dell’ultimo mese,
la femmina si è ripresa dalle fatiche del parto e deH’allattamento e,
perciò, quando si tratta di spartire il cibo, il maschio non ha più
tanti riguardi per lei. I cuccioli, invece, continuano ad avere la lo­
ro parte di cibo senza fare il minimo sforzo, anche se ora gli anzia­
ni non si lasciano più rubare i pezzetti di carne da sotto il naso in
modo così sfacciato.
Il legame dei giovani animali con la famiglia si allenta: i fratelli
compiono ora delle brevi scorribande senza i genitori, ma senza
allontanarsi troppo dalla tana alla quale, poco dopo, fanno ritor­
no. Durante queste gite imparano naturalmente molte cose nuo­
ve, che per qualche “saccente” possono risultare fatali. La loro
educazione è ora affidata principalmente al padre, l’anziano più
139
esperto, il quale, attraverso giochi disciplinati, inizia i giovani al­
l'arte della caccia, della lotta con i conspecifici, ad esempio per la
difesa del territorio, e dell’autodifesa da un nemico più forte. Seb­
bene i miei recinti misurino soltanto tra i cinquanta e i centoventi
metri quadrati, e non corrispondano quindi alle condizioni am­
bientali allo stato naturale, sono tuttavia abbastanza spaziosi per­
ché lo studioso possa individuare i processi fondamentali del
“programma educativo” degli animali anziani. Questo tipo di os­
servazione scientifica non è esente da errori, che possono insorge­
re laddove vi siano delle manifestazioni di aggressività, che però
possono essere solo una conseguenza dello spazio ristretto, men­
tre allo stato selvaggio sarebbero meno violente avendo l’animale
la possibilità di isolarsi. In secondo luogo, bisogna considerare la
noia. Quando, infatti, dei cani non hanno nient’altro da fare che
stare ad aspettare il cibo, si determina molto facilmente un accu­
mulo di pulsioni, che può scaricarsi sia mediante aggressioni occa­
sionali, sia attraverso una disponibilità al gioco molto più accen­
tuata di quella che forse si avrebbe in condizioni di vita libera.
Tuttavia, questi fenomeni collaterali influenzano solo marginal­
mente il quadro dell’educazione dei cuccioli che mi si offre e, stan­
do a quanto noto nei miei cani che circolano liberamente, dovreb­
bero essere indice di una situazione autentica, almeno nei tratti es­
senziali.
Da un punto di vista pratico, è molto importante che più o me­
no in questo periodo il cagnolino si trovi già nelle mani del futuro
padrone e maestro, soprattutto se è destinato a prestare la sua pre­
ziosa opera come cane da utilità. A San Rafael, in California, esiste
un centro di addestramento e di allevamento per cani per ciechi, la
Hamilton Station, dove i cuccioli che vi sono nati rimangono fino
alla dodicesima settimana di vita. Fino a quel momento sono edu­
cati come vuole la loro età, quindi vengono sottoposti a un test che
determina la loro potenziale idoneità al lavoro che saranno chiama­
ti a svolgere. Questi cani di tre mesi, una volta scelti, sono affidati a
privati e, solo dopo aver raggiunto il primo anno di vita, addestrati
come accompagnatori di ciechi e sottoposti a un esame finale. Cla-
rence J. Pfaffenberger, che ha diretto l’istituto fino alla sua morte,
avvenuta nel 1968, ha fatto le seguenti, interessanti considerazioni:
i cuccioli affidati a privati prima della tredicesima settimana di vita
riuscivano quasi tutti a raggiungere il grado di preparazione loro ri­
140
chiesto entro la fine del primo anno, con una percentuale di falli­
mento del dieci per cento massimo. Se, però, uscivano dal canile
dopo la quindicesima settimana, soltanto il trenta per cento riusci­
va a superare l’esame finale.
Questi dati dimostrano chiaramente l’importanza di questo pe­
riodo per il futuro sviluppo delle doti e del carattere del cucciolo.
Il cane, sebbene abbia una notevole predisposizione all’apprendi­
mento, è molto condizionato dalle varie fasi dello sviluppo, nel
corso delle quali deve gradualmente acquisire le diverse nozioni
utili alla sua formazione. Ripetere una classe, recuperare quello
che non è stato fatto a tempo debito, non è possibile.
La ragione del fallimento di certi cani non è imputabile al loro
patrimonio ereditario, bensì, il più delle volte, a un periodo giova­
nile malvissuto e maisfruttato. A che cosa serve essere dotato del
miglior pedigree e del miglior patrimonio genetico, se poi il cuc­
ciolo finisce in mano a qualcuno che crede che la sua educazione
debba cominciare solo a partire dall’ottavo o dal nono mese? Il
successo dell’istruzione dipende in maniera decisiva dalla giovi­
nezza, nel corso della quale si stabilisce in maniera definitiva l’af­
fiatamento fra cane e uomo. Se durante la giovinezza l’animale ha
imparato a considerare l’uomo come un partner con cui è bello
collaborare, da adulto supererà gli esami più difficili nelle varie
specializzazioni. Ma è proprio osservando il cane nel suo ambito
familiare che impariamo quello che bisogna fare e come procede­
re. Ai cani che vivono allo stato selvaggio non importa niente di
medaglie e di mostre canine, ciò che conta è la vita o la morte, e la
conservazione stessa della specie. Tutto è subordinato a questa
necessità, e a tal fine servono i vari processi di adattamento, fra
cui rientrano anche le misure educative sviluppatesi nella lotta per
l’esistenza, che devono trasformare un cucciolo inesperto in un
cane completo, in grado un giorno di educare a sua volta dei figli.
Purtroppo queste ricerche sono ancora agli inizi e c’è ancora molto
da fare prima di riuscire a delineare un quadro davvero esauriente
dell’argomento. Tuttavia, ciò che fino a oggi conosciamo è già suf­
ficiente per permetterci un approfondimento dei nostri rapporti
con il cane.
Vorrei, a questo punto, suddividere in due fasi anche il perio­
do che va dalla tredicesima settimana al sesto mese compreso. La
Prima, che arriva fino allo scadere del quarto mese o perlomeno
141
fino alla sedicesima settimana inclusa, è prevalentemente caratte­
rizzata dalla stabilizzazione dell’ordinamento gerarchico fra i cuc­
cioli. Quella successiva, invece, presenta già una vera collabora­
zione con gli animali più anziani: i cagnolini assumono qui il ruolo
di compagni.

La fase dell’ordinamento gerarchico


Di norma un ordinamento gerarchico non è una semplice linea
ascendente, dall’animale che si trova più in basso a quello che si
trova più in alto, dall’alfa all’omega del gruppo, ma è - almeno fra i
cani - una faccenda molto varia e complessa, in cui non è facile di­
stricarsi. In un branco composto da gruppi di età diverse la cosa
diventa poi particolarmente complicata, ma in questa sede non ci
interessa molto, dato che non riguarda il nostro personale rapporto
con il cane. Dal nostro punto di vista, è più importante conoscere
la gerarchia che si stabilisce all’interno di un gruppo di cuccioli.
A che scopo una gerarchia fra cuccioli e, rispettivamente, fra
cani giovani? Riflettendo sul fatto che, all’età di circa dieci mesi,
vengono respinti dalla madre, che entra di nuovo in calore, come
anche dal padre, e che spesso devono cominciare a provvedere a
se stessi, riesce difficile cogliere un senso più profondo nelle zuffe
continue e spesso molto accese che nascono per stabilire una ge­
rarchia. A me sembra che i motivi plausibili siano due: il primo è
che questi sforzi per stabilire una gerarchia abbiano lo scopo di
operare una seconda selezione, infatti non è difficile immaginare
che il più debole dei cuccioli sia allontanato un po’ alla volta dagli
altri anche per ciò che riguarda il cibo, al punto di essere escluso
dalla riproduzione. Tuttavia, ritengo più importante il secondo
motivo, e cioè che, trascendendo i confini del gioco, tali sforzi ser­
vano soprattutto ad allenare i cuccioli alla lotta fra conspecifici,
che solo in determinati casi si risolve con la morte di uno dei due
rivali, mentre in generale richiama molti modelli comportamentali
simbolici, quasi un combattimento rituale. Sono più che altro i
maschi a praticarlo fra loro, ma anche il maschio che voglia ridur­
re alla ragione la propria compagna, per quanto accesa sia la lotta,
non la ferirà mai intenzionalmente. In questa forma di combatti­
mento assumono grande importanza la tattica e il comportamento
142
espressivo che, proprio durante la fase dell’ordinamento gerarchi­
co, a mio parere si vanno perfezionando, emergendo dal materiale
grezzo formato dagli schemi motori fissi, o coordinazioni eredita­
rie innate.
Questo esercizio torna molto utile ai lupi quando, d’inverno,
devono formare i branchi; se, infatti, dovessero stabilire allora la
gerarchia, la cosa richiederebbe troppo tempo e dispendio di
energie e potrebbe, di conseguenza, compromettere l’efficienza
della muta. Nella caccia collettiva gerarchia significa divisione del
lavoro: con le loro qualità specifiche i vari individui collaborano
ripartendosi i vari compiti. In presenza della preda, la gerarchia
riprende forse il carattere selettivo di cui ho parlato prima, come
“prerogativa nel cibo”. Tuttavia, le migliori possibilità di conser­
vare la specie e di salvaguardare il patrimonio ereditario spettano
proprio agli animali di rango più elevato e, quindi, più dotati.
È molto probabile che le gelosie per questioni di rango, come
quelle che si verificano nei giardini zoologici nei branchi di lupi ar­
bitrariamente composti, siano un fenomeno legato alla cattività.
Allo stato selvaggio, infatti, non si riscontrano forme così accen­
tuate. Come ho potuto osservare in vari zoo, lo spazio limitato e la
mancanza di un’occupazione portano a una costante e latente ag­
gressività, che allo stato selvaggio comprometterebbe seriamente la
coesione del gruppo. Quando parliamo di aggressività, siamo trop­
po influenzati da quello che osserviamo negli animali in cattività,
cioè in condizioni di vita anomale. Come ho già accennato, a volte
anche nei miei canili si scatena un’aggressività maggiore di quella
che, presumibilmente, si determinerebbe allo stato selvaggio.
Tuttavia, per non fare torto ai miei animali, sarà opportuno ag­
giungere che c’è una differenza piuttosto significativa fra le mie
esperienze degli inizi e quelle di oggi. Allora quasi non passava
settimana senza un po’ di subbuglio, e i miei nervi erano in uno
stato di tensione perenne. In seguito la situazione si è relativamen­
te tranquillizzata, e posso dire che, in effetti, non succede più nul­
la. Allora dicevo a tutti che non bisogna lasciare i dingo di otto
mesi insieme ai genitori, perché altrimenti si scatenano delle fu­
riose lotte a suon di morsi. Dopo le prime esperienze, per evitare
situazioni del genere, mi preoccupavo di spostare in tempo i gio­
vani. Poi, però, alcune osservazioni casuali hanno stuzzicato la
mia curiosità e ho provato a non separarli. Ovviamente ero sem­
pre all’erta per intervenire in caso di trambusto ma, con mia sor­
presa, questo non è mai stato necessario! Annoiato, il maschio
Abo guardava il figlio Paroo, un birbante di otto mesi, montare la
madre Suki. Non era ancora nel pieno del periodo dell’estro, ben­
sì in anticipo di una settimana, ma d’altronde anche il giovane ma­
schio faceva solo per finta. Quando arrivò il momento, però, fu
Abo a coprire Suki, mentre il figlio se ne stava tranquillamente in
disparte, ubbidiente ed educato. E dire che i dingo sono sessual­
mente maturi già a sette mesi!
Ora lascio andare le cose come vogliono e, torno a dirlo, non ci
sono più problemi. Suki, ad esempio, convive pacificamente con i
suoi figli, due maschi e una femmina. Björn, il figlio che Binna ha
avuto da Abo, di recente ha coperto la moglie Bente, mentre i due
figli, un maschio e una femmina di sette mesi esatti, se ne stavano
in disparte, senza prendersela se a volte venivano aggrediti: in fon­
do, i pochi giorni dell’amore passano in fretta e subito dopo i di­
vertenti giochi con gli anziani riprendono come se nulla fosse.
La spiegazione del fenomeno è semplice: allora, agli inizi, avve­
nivano in continuazione degli spostamenti che servivano per otte­
nere le varie ibridazioni. Inoltre, il giardino zoologico mi aveva in­
viato dei nuovi dingo che avevo sistemato qua e là, in maniera un
po’ arbitraria, secondo i miei progetti di allevamento, e non si era
ancora instaurato il ritmo dei periodi di estro che regna oggi. Tutto
era ancora in disordine, il raggruppamento degli animali obbediva a
leggi artificiose e variava da canile a canile. Nel frattempo, le cose si
sono sistemate, nuove generazioni sono cresciute in condizioni nor­
mali, si sono formate delle famiglie naturali e ora tutto si svolge pa­
cificamente o, almeno, molto più di prima. Anche in questo caso
notiamo l’importanza di uno sviluppo giovanile armonioso. Se, per
motivi di studio, tengo in casa una cagna dopo il parto, con tutta la
cucciolata e, quando i cuccioli hanno raggiunto le sei o sette setti­
mane, li metto nel recinto insieme al padre, la convivenza della fa­
miglia non è certo tranquilla come nqi casi in cui la cagna ha parto­
rito nel canile o vi ritorna con i piccoli prima che questi abbiano
compiuto la terza settimana. La pace familiare è notevolmente com­
promessa anche se per un certo periodo, circa due o più settimane,
tolgo i cuccioli o un animale anziano dal canile e poi ce li riporto.
Non c’è altra soluzione: per vedere i cani come sono in realtà, con la
loro indole straordinariamente socievole e pacifica, non bisogna in-

144
terferire nella loro vita con provvedimenti arbitrari, gli animali non
10 sopportano e reagiscono con estrema sensibilità. E quando una
creatura così sensibile non riesce ad accettare qualcosa, scatta una
reazione di aggressività a catena. D’altronde, usereste pinze e mar­
tello con un orologio di precisione?
Nell’ambiente naturale, i gruppi cresciuti insieme non vengo­
no smistati qua e là, separati e riuniti a caso, ma tutto avviene se­
condo la legge del minimo attrito, esclusivamente ai fini della con­
servazione della specie. Animali che, per procurarsi il cibo, spesso
devono percorrere parecchi chilometri al giorno, non hanno certo
11tempo di scervellarsi per ore su questioni di rango, hanno biso­
gno della loro energia per cose ben più importanti. Forse, dun­
que, l’esercizio della lotta per il predominio durante la spensierata
gioventù, quando sono ancora i genitori a procurare il cibo, serve
soprattutto ad acquisire esperienza per non perdere troppo tem­
po ed energia in seguito, quando si deve affrontare la dura realtà
della vita. S’impara come bisogna fare e, secondo me, all’inizio
della formazione del branco, l’atteggiamento di saluto di un ani­
male è già sufficiente per chiarire ogni questione legata al rango.
Come spiegherò più avanti, fra i cani è molto importante dimo­
strare la propria superiorità psicologica e fisica.
E ciò ha inizio fin da questa fase dello sviluppo. I conflitti per
la gerarchia fra cuccioli sono ancora soprattutto una questione di
forza fisica, ma questa modalità primitiva di stabilire un ordina­
mento gerarchico cede presto il passo all’affermazione della per­
sonalità e della sicurezza in se stessi, e la cosa si manifesta in ma­
niera molto evidente anche nel rapporto con un animale più an­
ziano, particolarmente con il padre, sebbene questi, quando non
può fare diversamente, continui a esibire anche la propria supe­
riorità fisica. Infatti, la posizione di predominio del padre si basa
in prevalenza sul fatto che i giovani gli riconoscono la superiorità
derivatagli dall’esperienza e dalla maturità, mentre la personalità
dei cuccioli è ora sviluppata al punto di consentire loro di apprez­
zare l’autorità genuina, sotto la cui guida si sentono sicuri. Nel
successivo periodo di vita, il padre diventa addirittura il modello,
per usare un termine antropomorfico. Come Konrad Lorenz ha
osservato nei cani che discendono dai lupi, si ha persino una spe­
cie d’imprinting nei confronti del lupo-guida e, rispettivamente,
dell’uomo. Ma su questo argomento torneremo più avanti.
145
A proposito delle lotte giovanili per la gerarchia, vorrei citare
un altro esempio molto interessante, che dimostra come tali forme
di combattimento siano limitate a quest'età, e inoltre come l’ag­
gressività, nella forma in cui è stata potenziata in certe razze cani­
ne, provochi in questo particolare periodo qualche difficoltà.
Presso la già citata Hamilton Station era impossibile allevare
insieme più di tre fox terrier a pelo ruvido. Se nascevano quattro o
più cuccioli alla volta, nella fase deirordinamento gerarchico quel­
li che erano di troppo venivano tenuti lontani dal cibo e persino
uccisi dai fratelli. Questo si può spiegare pensando che un cuccio­
lo riesce a difendersi da altri due, ma un quarto non riesce a difen­
dersi dagli altri tre, perché la preponderanza diventa schiacciante.
Si tentò, allora, il seguente esperimento: quattro cagnolini della
stessa cucciolata furono allevati separatamente fino al compimen­
to della sedicesima settimana di vita, poi tornarono a vivere insie­
me. Il risultato fu una convivenza assolutamente pacifica. La fase
deirordinamento gerarchico, ormai trascorsa, era stata bypassata
una volta per tutte. Ancora una volta, perciò, abbiamo la riprova
di come il periodo giovanile del cane sia regolato da norme molto
precise. Poiché in un animale da preda, specializzato neirappren­
dimento, gli schemi motori fissi devono essere molto generalizzati
per evitare di limitargli la ricettività verso l’ambiente, necessaria ai
fini dell’apprendimento, c’è bisogno di una norma in grado di ga­
rantire che ciò avvenga. Esiste, dunque, un “programma di ap­
prendimento” innato che si adatta perfettamente alla vita della fa­
miglia naturale e al programma educativo dei genitori. I curricula
previsti da un Ministero dell’istruzione non potrebbero essere più
ortodossi...
Esistono, tuttavia, delle eccezioni, qualora il sistema s’inceppi
in qualche punto, ad esempio quando al padre succede una di­
sgrazia durante la caccia. In quel caso, la cagna è perfettamente in
condizione di assumere il ruolo del maschio. Suki, la mia dingo, lo
fa in maniera esemplare. Sola con i suoi tre teppisti, è costretta a
rinunciare all’aiuto del padre per ragioni che spiegherò in seguito.
Osservandola da lontano, sembra proprio di vedere un maschio,
tanto brava è a tenere la disciplina e a dominare il gruppo. Fa tut­
to quello che di solito spetterebbe al maschio, e certamente anche
allo stato selvaggio i suoi giovani cani risulterebbero altrettanto ef­
ficienti di altri, cresciuti sotto l’autorità paterna.
146
Viceversa, anche il maschio, se occorre, è in grado di sostituire
la madre. Ovviamente non può allattare i piccoli, ma non appena i
cuccioli hanno raggiunto la fine della terza settimana, può nutrirli
riducendo il cibo in poltiglia. Nell’Africa orientale è stato osserva­
to un gruppo di iene - che non sono certo direttamente imparen­
tate con i nostri cani, lupi e sciacalli - costituito da soli esemplari
maschi, che allevavano insieme, con la massima cura, una cuccio­
lata orfana di madre. Ho perfino sentito di un giovane maschio di
volpe che ha allevato dei volpacchiotti che gli erano compieta-
mente estranei. E evidente che nei canidi l’istinto di curare e di as­
sistere la prole ha radici molto profonde. Per questo, è un vero
peccato che, grazie al nostro sconsiderato allevamento artificioso,
sia quasi scomparso nei nostri cani: oggi persino alcune cagne
sentono a malapena l’istinto di curare e allevare i propri figli!
Ma che ne è dei giovani animali che rimangono privi di en­
trambi i genitori? Per poterlo capire, ho isolato dei cuccioli di ot­
to o dieci settimane, osservando con quale straordinaria natura­
lezza si ripartivano i vari ruoli, riproducendo il modello della casa
paterna. Guardandoli, viene in mente una piccola comunità di
giovani autogestita. Uno dei cuccioli assume subito la direzione e
si preoccupa di mantenere la disciplina, cosa che gli riesce perfet­
tamente. In ogni singola fase della vita di un cane si risvegliano,
secondo schemi innati, i corrispondenti bisogni di apprendimen­
to, perciò, per quanto è possibile, il cucciolo impara tutto quello
che è previsto per la sua età.
A questo proposito, cito un altro esempio che mi ha fatto ri­
flettere a lungo e che dimostra, innanzi tutto, come i cuccioli di
dieci settimane siano già assolutamente in grado di badare a se
stessi, di evitare i nemici, di resistere alle intemperie, di condurre
insomma la stessa vita degli adulti. L’esempio dimostra, però, an­
che qualcos’altro, perché i cuccioli di cui vi voglio raccontare non
facevano parte della schiera dei miei tanto lodati cani selvatici,
dall’istinto integro, bensì di una razza che è frutto di un’accurata
selezione.
Circa tremila anni fa, espertissimi allevatori cinesi riuscirono a
ottenere un cagnolino straordinariamente tranquillo, caratterizza­
to da un delizioso musetto infantile sul quale si spalancano due
grossi occhi rotondi dallo sguardo schietto: il famigerato carlino,
noto in Germania come mops.
147
Divano di velluto, fiori finti, centrini di pizzo, la buona vecchia
zia, queste sono le immagini che il termine “mops” evoca, insieme
all’idea di qualcosa di grasso, di sciocco e di kitsch. Tuttavia, la de­
scrizione che ci ha fornito la pungente penna di Wilhelm Busch,
intrisa di critico umorismo, non riguarda in realtà i mops in gene­
rale, bensì solo quegli esemplari che, a dispetto della loro indole,
sono diventati vittime di un “amore” per gli animali egoistico e so­
lo capace di conseguenze disastrose. In tutte le razze canine espo­
ste a questo destino, esistono deformazioni del genere.
Allora, io me ne sto seduto in una piccola radura circondata da
abeti e betulle. Intorno a me scorrazzano circa due dozzine di mops,
fedeli come solo un mops sa essere, che sprizzano una vivacità tale
da costringermi a regolare una trentina di volte l’apparecchio prima
di riuscire a scattare una foto. Corrono all’impazzata, saltano, sfrec­
ciano via, s’inseguono l’un l’altro: un momento ne arriva uno che
trascina un lungo ramo difendendolo dai compagni; nel frattempo,
un altro scava una grossa buca nel terreno molle con l’energia di
una talpa, mentre due si azzuffano abbaiando allegramente, proprio
come fanno i miei cani selvatici, gli sciacalli, i dingo e tutti gli altri
ibridi.
Dopo che ho finito il rullino, la proprietaria di questa muta sel­
vaggia, la signora I. von Keiser, ex collaboratrice di Erich von Hol-
st, con un occhio sui suoi appunti mi racconta la storia per la quale,
in effetti, sono andato a trovarla:
Avevo una cucciolata di quattro fratelli, della quale però non po­
tevo occuparmi molto, essendomi presa una brutta influenza che
mi aveva costretto a letto per circa due mesi. Quando mi fui abba­
stanza ristabilita, ripresi le mie quotidiane passeggiate nel bosco
con i cuccioli che allora avevano appena dieci settimane. Accadde
il 15 gennaio, un freddo giorno d’inverno, con molta neve. Tutt’a
un tratto, i quattro cuccioli si misero a correre e ogni tentativo di
richiamarli risultò vano: erano scomparsi dalla mia vista. Natural­
mente, ci mettemmo subito a cercarli e trovammo anche le tracce,
ma non c’era nulla da fare, i miei mops erano scomparsi.
A questo punto, è utile sapere che tutti gli altri mops che la si­
gnora von Keiser aveva allevato nell’arco di venticinque anni, e che
nella fase dell’imprinting avevano sempre avuto sufficienti c o n ta tti
148
con le persone, erano stati sempre molto ubbidienti e non si erano
mai sognati di abbandonare la padrona. L’esempio più notevole di
fedeltà al padrone l’aveva dato il capostipite di questo allevamento
che, insieme ad alcuni cani da utilità, grossi e bene addestrati, par­
tecipò alla fuga dalla Prussia orientale. Egli fu l’unico che in tutte
le peripezie di quelle terribili settimane rimase attaccato con co­
stanza ferrea alla propria famiglia, e raggiunse la meta nella Ger­
mania occidentale!
Ma riprendiamo il racconto della signora von Keiser.
Insieme ad alcuni conoscenti e alla mamma dei cuccioli continuai
le ricerche anche il giorno successivo, ma la pioggia notturna aveva
cancellato le tracce. Soltanto nel pomeriggio, uno dei mops tornò
a casa, mentre gli altri continuavano a non farsi vedere. Per sei
giorni ci furono gelate e la temperatura scese fino a dieci gradi sot­
to lo zero, poi tornò la pioggia e la temperatura, almeno di giorno,
salì leggermente. Dalle orme riuscimmo a stabilire che due mops
vagabondavano insieme per i boschi circostanti, mentre il terzo gi­
rava per conto proprio, compiendo ogni giorno un tratto circolare
di circa cinque chilometri, che in parte correva parallelo a delle or­
me di volpe. Al nono giorno, dopo un faticoso inseguimento, due
automobilisti riuscirono a catturare i due che si muovevano in
coppia. Restò invece vano ogni tentativo di catturare l’ultima ca­
gnetta. Era molto scontrosa e prudente, non appena scorgeva in
lontananza una persona si nascondeva subito, e non finì in nessuna
delle trappole che avevamo predisposto. Alla sua ciotola del cibo,
che io mettevo sulla sua pista, si avvicinava fiutando fino a una di­
stanza di due metri, per poi riscomparire subito nel fitto del bosco.
Dopo quindici giorni, intorno alle cinque e mezzo del mattino, che
è Torà in cui di solito porto fuori i miei cani, sentii davanti a casa
dei forti mugolìi, il suono tipico che emettono i mops smarriti per
mettersi in contatto con i compagni. La transfuga era tornata
spontaneamente! Secondo le mie indagini, le bestie si erano nutri­
te di escrementi di capriolo e di lepre, che contengono entrambi
albumina, carboidrati e vitamina B.
Certo, i mops erano dimagriti. Il maschio, ad esempio, che pri­
lla della fuga pesava kg 5,800, era ridotto a 5,200, mentre sua so­
rella aveva perso 900 grammi e l’ultima cagna addirittura un chilo
149
e mezzo. Bisogna, però, valutare obiettivamente queste cifre: per i
loro standard, i mops devono avere un po’ di grasso sottopelle,
perché ciò gli conferisce un aspetto più infantile. Rispetto ai miei
snelli esemplari di dingo, avevano in effetti raggiunto soltanto le
condizioni fisiche proprie di un cane selvaggio. Secondo le osser­
vazioni fatte ih occasione di questo episodio, il mops sarebbe ad­
dirittura in grado di trascorrere tutta la vita allo stato libero. Le
fauci molto corte gli offrono scarse possibilità di catturare animali
vivi, ad esempio topi, ma essendo il cane anche un mangiatore di
carogne, riuscirebbe a sopravvivere ugualmente. Quindici giorni
di esistenza solitaria in balia del gelo, della pioggia e della neve
rappresentano comunque una bella prova di resistenza, di cui nes­
suno avrebbe ritenuto capace un cagnolino da grembo.
Per garantire la sopravvivenza dell’individuo anche in condizio­
ni sfavorevoli, esistono dunque sufficienti schemi motori fissi e
predisposizioni all’apprendimento. Di questi schemi fa parte anche
il comportamento d’espressione, del quale ho parlato a proposito
dei combattimenti rituali e delle lotte per la gerarchia. Esaminiamo
ora la questione un po’ più da vicino: dobbiamo, infatti, imparare a
capire il linguaggio del nostro amico se vogliamo renderci vera­
mente conto di quello che succede fra i cani. Inoltre, attraverso ta­
le linguaggio, il cane cerca di farsi capire anche da noi.
Nelle pagine precedenti mi sono espresso con un po’ di cautela
perché non sappiamo con esattezza fino a che punto questo com­
portamento espressivo sia innato, quanti di questi schemi motori
siano fissi, cioè ereditati, e quanti acquisiti, cioè frutto di apprendi­
mento. Inoltre, è possibile che alcuni siano basati su particolari di­
sposizioni all’apprendimento.
Di un’unica cosa si ha certezza: il cane è in grado d’imparare
diverse espressioni mimiche, ad esempio quella di un gatto con il
quale abbia convissuto, e anche quella dell’uomo. Impara perlo­
meno a capirlo, a distinguere i diversi significati di ogni sua singo­
la mossa. Inoltre, i cani che non vivono in gruppo sviluppano una
grande capacità d’imitare la mimica d’individui estranei alla loro
specie. Nel suo libretto sui cani, Konrad Lorenz ci ha descritto al­
cuni esempi sottolineando che, evidentemente, ci riescono meglio
i cani che, in conseguenza dell’addomesticamento, presentano un
comportamento espressivo mimico carente. Lorenz, dunque, par­
te dal presupposto che almeno l’elemento principale della mimica
150
canina consista di schemi motori fissi, che vengono compresi dai
conspecifici senza che questi debbano prima apprenderli.
Nel corso di un interessantissimo programma di esperimenti,
sono state mostrate immagini di vario tipo ad alcuni cuccioli di
scimmia allevati isolatamente per studiarne la reazione. Le imma­
gini di altre scimmie, dall’espressione pacifica, venivano osservate
con visibile interesse. Quando poi, all’improvviso, compariva il
muso cattivo e minaccioso di un capo-orda gli scimmiottini, pur
essendo del tutto inesperti, si rifugiavano impauriti e in preda al
terrore in un angolo della gabbia. Per quegli animaletti, grazie a
una forma di “comprensione innata”, la mimica della minaccia di
un loro simile era dunque chiaramente significativa.
L’etologia ci ha dimostrato con migliaia di esempi che il com­
portamento espressivo degli animali consiste quasi esclusivamente
- e l’eccezione conferma la regola - di schemi motori fissi, motivo
per cui viene compreso da tutti i conspecifici, indipendentemente
dall’esperienza, e scatena le reazioni corrispondenti. Possiamo
dunque accettare, senza eccessive restrizioni, il presupposto che
lo stesso valga per i nostri cani. Passiamo ora a esaminare il loro
linguaggio mimico.

Lespressione mimica
Come in tanti altri punti di questo libro, vorrei qui sottolineare
una cosa: io descrivo il repertorio originale del comportamento
espressivo così come è stato compilato in particolare da Schenkel,
sulla base delle osservazioni sui suoi lupi di Basilea. La maggior
parte dei nostri cani domestici dispone, invece, di una gamma
espressiva decisamente più ridotta, e difficilmente chi possiede un
cane potrà osservare nel suo terrier, nel suo barboncino o nel suo
Schnauzer tutto quello che descriverò in questo capitolo. Ho già
accennato al fatto che l’espressione dei discendenti dei cani di
Sant’Uberto, cioè di quelle razze selezionate in modo da ottenere
orecchie lunghe e pendenti, è quantomeno molto limitata. In mol­
ti altri cani sembra che la mobilità della muscolatura del muso sia
piuttosto ridotta, se non addirittura atrofizzata. Non sempre,
dunque, è stata la riduzione dell’istinto a impoverire il comporta­
mento espressivo. Ho già parlato dello sviluppo relativamente li­
151
mitato della mimica dei miei dingo, che ci ricorda come la ricchez­
za mimica di una specie animale dipenda fondamentalmente dal
livello del suo sviluppo sociale. Quanto più complesse, infatti, so­
no le relazioni fra gruppi conspecifici, tanto più esiste qualcosa
“da dirsi”. Soltanto con il mezzo di comunicazione più perfetto, il
linguaggio umano, il comportamento espressivo visivo può retro­
cedere in secondo piano, e per capire ciò basta confrontare il re­
pertorio mimico dell’uomo con quello dello scimpanzé.
Fra tutti i canidi sono i lupi a occupare il gradino più elevato
della scala della socialità, e a possedere il repertorio più vario del­
la mimica, sia del muso che del corpo.
E possibile notarlo soprattutto nelle stagioni fredde, quando i
lupi si radunano in branchi più numerosi e, quindi, una chiara
comprensione reciproca diventa particolarmente importante. Il
mantello invernale, costituito dai peli più lunghi che formano, so­
prattutto nella testa, delle zone variamente evidenziate, potenzia
le possibilità mimiche del lupo. A ciò si aggiunga il disegno del
muso, ad esempio la riga scura che dall’angolo esterno dell’occhio
raggiunge la base dell’orecchio, la chiazza, normalmente triango­
lare, al di sopra degli occhi, la riga sulla fronte che dalla nuca
giunge alla radice del naso. La maggior parte dei pastori tedeschi
selezionati in modo da conservare il colore tipico del lupo presen­
ta ancora distintamente questo disegno del muso, che ne sottoli­
nea l’espressione mimica. Nel regno animale, il colore e il disegno
del mantello non sono quasi mai un prodotto del caso, ma assol­
vono una funzione ben precisa, non solo nell’ambito dei rapporti
fra conspecifici - per farsi notare o per nascondersi - ma anche
nei conflitti con animali di specie diversa. Nella maggior parte dei
nostri cani la mancanza del disegno tipico del muso del lupo, do­
vuta al cambiamento di colore provocato dal processo di addome­
sticamento, contribuisce dunque a ridurre l’espressione mimica.
E significativo che per noi uomini, animali a prevalenza senso­
riale visiva, l’espressione degli occhi sia la caratteristica fondamen­
tale di tutta la mimica, e che la cosa più importante sia come uno
guarda. Il paradosso è che, pur intuendo immediatamente ogni
minimo cambio d’espressione negli occhi di un nostro simile, riu­
sciamo a descrivere una bocca che ride molto più facilmente di
uno sguardo sorridente. Ciò non dipende soltanto dal fatto che
nel primo caso si evidenzia visivamente una parte molto più gran­
152
de del volto, ma anche dal fatto che la sicurezza del nostro istinto
non ci fa ritenere necessario di dover analizzare tutti i particolari
che provocano una determinata espressione degli occhi.
Esistono cani che ci guardano direttamente negli occhi, tran­
quilli e rilassati, con lo sguardo aperto, cordiale, talvolta colmo di
aspettative, e cani che evitano timorosi il nostro sguardo. Questo
fatto, quando non sia condizionato da una particolare situazione,
può rivelarci molto sull’indole dell’animale. Se il nostro cane ha
commesso qualcosa che sapeva di non dover fare, consapevole
della propria colpa, evita il nostro sguardo. E un modo per dimo­
strare insicurezza, e noi possiamo capirlo perfettamente perché ci
comportiamo nello stesso modo. D’altronde, lo sguardo che si ri­
volge dritto ai nostri occhi, invece, dimostra sicurezza. Questo
senso di sicurezza esiste quando noi e il nostro cane c’intendiamo
e quando non ci sono motivi di conflitto. Mi riferisco qui a uno
sguardo normale, pieno di cordialità, perché vedremo che ne esi­
stono altri.
Un cane che non osa mai guardare dritto negli occhi almeno il
padrone, anzi, al minimo accenno di un contatto visivo distoglie
subito lo sguardo, magari continuando a spostarlo da un punto al­
l’altro, è un essere insicuro e con delle anomalie. Può darsi che la
predisposizione ereditaria abbia importanza ma, nella maggioran­
za dei casi, il problema è legato a un allevamento sbagliato, per
cui l’animale teme il padrone più che amarlo. Probabilmente è il
capro espiatorio dei suoi malumori, la vittima di un morboso au­
toritarismo. Troppo spesso un cane è lo specchio del carattere di
chi lo possiede. Anche in un branco di lupi il capro espiatorio,
che si trova all’ultimo gradino della gerarchia, si riconosce pro­
prio dallo sguardo sfuggente, mentre è l’individuo di rango più
elevato l’unico a potersi permettere di fissare dritto negli occhi
ogni conspecifico, dimostrando così la sua superiorità. Se un lupo
di rango inferiore osasse fare una cosa simile nei confronti di uno
di rango superiore, gli lancerebbe una provocazione bella e buo­
na, un po’ come accadeva in un lontano passato quando da uno
sguardo insistente poteva scaturire un duello.
Fissare un altro individuo negli occhi ha essenzialmente due
ragioni. La prima, come nel caso del lupo-guida, è legata al com­
portamento di aggressione e va interpretata come una provocazio­
ne, una dimostrazione di forza. Tale sguardo diventa facilmente
153
minaccioso e assume allora una strana fissità. L’attenzione è al
massimo, basta un movimento falso e la minaccia, che non si limi­
ta all’espressione degli occhi, si trasforma in un attacco fulmineo.
È possibile osservare quest’espressione di minaccia in cani rivali
che si studiano a vicenda, oppure negli uomini quando sono og­
getto di un’aggressione: al di sopra degli occhi la pelle si contrae
provocando un rigonfiamento molto simile a quello che si forma
sul nostro volto quando lo corrughiamo per accentuare lo sguardo
minaccioso.
Il tentativo di stabilire un contatto con gli occhi può, tuttavia,
anche esprimere affetto, come dimostrano i cani con cui abbiamo
una certa confidenza. Le coppie di cani che convivono si guarda­
no spesso in questo modo, soprattutto durante il periodo degli
amori. La fronte è distesa, l’espressione è amichevole e molto at­
tenta. In un cane adulto questo sguardo mi ricorda spesso l’e­
spressione dei cuccioli di quattro o cinque settimane che guardano
fiduciosi e cordiali i propri simili o le persone. Q uell’aria serena
sul musetto infantile ha lo scopo d ’inibire l’aggressività: nessun
animale anziano si sentirà provocato da quello sguardo fisso col­
mo di affetto e quindi reagirà al “prototipo infantile” nel modo
adeguato. Nella fase della socializzazione il piccolo deve poter
guardare i propri simili senza che questi s’infastidiscano. Lo sguar­
do del cucciolo è un altro esempio di come i modelli com porta­
mentali infantili rientrino nel repertorio di un’attività volta a in­
staurare legami sociali.
Preferisco descrivere le altre possibilità comunicative degli oc­
chi insieme all’espressione dell’intero muso, perché alla fine tutte
le componenti mimiche s’integrano in un’unica immagine globale.
Quando lo sguardo sicuro e baldanzoso del lupo-guida si trasfor­
ma in uno sguardo carico di minaccia, entrano in gioco anche altre
strutture mimiche. Sotto il rigonfiamento minaccioso della fronte,
gli occhi guardano sempre più dal basso verso l’alto, le labbra, te­
sissime, lasciano scoperti i denti, mentre intorno all’incisione na­
sale si formano varie pieghe. La muscolatura del collo s’irrigidisce.
L espressione minacciosa raggiunge la massima intensità quando
1 animale spalanca le fauci e, a quel punto, è già palese l’intenzione
di mordere.
Il cane di rango inferiore, oggetto della minaccia, esprime la pro­
pria disposizione alla fuga convertendosi in una maschera di paura:

154
la fronte si distende, appiattendosi, verso gli angoli degli occhi, l’at-
taccatura delle orecchie e la regione del collo. Di conseguenza, gli
occhi si trasformano in un paio di strette fessure, allungate verso
l’esterno. La bocca, tesa agli angoli, appare più larga. Come abbia­
mo già osservato nel contatto muso a muso, a proposito della sotto-
missione attiva, anche qui le orecchie si piegano aÙ’indietro fin qua­
si a scomparire nella pelliccia del collo. Ad aumentare l’espressione
d’insicurezza contribuisce talvolta un movimento incontrollato del­
la testa. Se il superiore continua a minacciare e a ringhiare con cre­
scente ferocia, lo stadio successivo è la fuga.
Schenkel ha riscontrato nei suoi lupi una tale variabilità d ’e­
spressione da arrivare al punto di dubitare della validità del princi­
pio degli schemi motori fissi applicato ai mammiferi. Viste le “pos­
sibilità, chiaramente illimitate, delle sfumature” del comportamen­
to espressivo, Schenkel non ha trovato più alcun nesso con le coor­
dinazioni ereditarie.
La mimica facciale sottolinea, essenzialmente, solo l’espressio­
ne che emerge dall’atteggiamento generale del corpo, ulteriormen­
te integrato dal movimento. Nel cane, 1’“espressione gestaltica”1
del corpo è un mezzo di comunicazione ancora più efficace dell’e­
spressione facciale. Dopo aver appreso nei capitoli precedenti co­
me si determinano e quanto sono importanti questi aspetti per la
convivenza del cane con i propri simili e con l’uomo, e poiché è
nostro desiderio capire il linguaggio del cane, ci soffermeremo bre­
vemente su questo argomento.

Possibilità espressive del corpo:


aggressività e dimostrazione di superiorità e di sottomissione

Continuiamo a esaminare l’aggressività, che rappresenta la


principale preoccupazione per molti proprietari di cani. Purtrop­
po, fra i nostri cani ce sono anche di tipi particolarmente aggressi­
vi, che si azzuffano con ogni simile che passa. I motivi che li spin­
gono a comportarsi così sono, in genere, diversi da quelli del “cane
cattivo”, come viene solitamente definito un cane con la tendenza
a mordere. Nella maggior parte dei casi, un attaccabrighe incallito
è il prodotto di u n ’educazione sbagliata da parte dell’uomo più
che di una morbosa predisposizione all’aggressività nei confronti

155
dei propri simili. In casi del genere, ho avuto modo di osservare co­
me il comportamento espressivo sia spesso ridotto, oppure, se è
completamente sviluppato, lo sia in una forma palesemente di­
scontinua e nervosa.
Nessun cane, tuttavia, rinuncerà mai al comportamento ag­
gressivo, ovviamente limitato alle situazioni che lo richiedono e in
giusta misura. Anche la nostra docile cagnetta diventa aggressiva
se un erotomane, prodotto di un allevamento eccessivamente se­
lettivo, vuole coprirla a tutti i costi sebbene lei non sia in calore. E
il nostro maschio è obbligato a manifestare un comportamento
minaccioso tutte le volte che un altro cane assume un atteggia­
mento provocatorio.
Nel cane il comportamento di minaccia è l’espressione più sug­
gestiva che conosca. L’animale solleva la testa, lo sguardo si fa
sempre più torbido ed ecco delinearsi la caratteristica mimica. La
coda si erge dritta, immobile, come il pennone di una bandiera.
La muscolatura delle gambe si tende finché i movimenti non di­
ventano spigolosi, rigidi, come se il cane camminasse sui trampoli.
Sulle gambe tese, il tronco fuoriesce più del solito, tanto che l’ani­
male sembra più alto, e i peli della schiena e della nuca si rizzano.
Il sollevamento di questi peli, di solito più lunghi degli altri, lo no­
tiamo in molti mammiferi e sempre con lo scopo d’ingrandire i
contorni dell’animale: un antichissimo sistema per impressionare
gli altri, che anche fra gli uomini ha conservato la sua validità, pur
assumendo, data la stazione eretta del bipede, una forma diversa.
Il quadrupede mostra all’avversario la parte più ampia, mentre
nell’uomo si amplia la parte frontale (ad esempio, si gonfia il tora­
ce e le braccia si piegano puntando le mani sui fianchi). L’assenza
del pelo che si drizza è compensata da piccoli accorgimenti nel­
l’abbigliamento: berretti di pelo d’orso, spalle imbottite e calzoni
alla scudiera sono strumenti di effetto, come il copricapo di penne
degli indiani sul sentiero di guerra e il cimiero degli antichi cava­
lieri. Questo bisogno d’imporsi fisicamente ha caratterizzato un
lungo periodo della storia della civiltà, interpretabile unicamente
con gli strumenti scientifici del biologo.
Quale ne sia lo scopo ultimo possiamo intuirlo facilmente guar­
dando i nostri cani. Innanzi tutto, vediamo come il cane che si sen­
te superiore fa mostra^ senza alcuna inibizione, non solo della pro­
pria capacità d’impressionare con la mole del corpo, ma anche del-
Tespressione di minaccia del muso, guardando fisso e dritto negli
occhi il rivale. Comincia così una sorta di duello incruento, basato
soprattutto sulla resistenza psichica. Spesso, le forme estreme della
minaccia e dell’esibizione di superiorità bastano a risolvere la que­
stione gerarchica. Secondo il noto gioco della sovrapposizione di
due diversi stati d’animo, il maschio più debole volta la testa evi­
tando lo sguardo del più forte, la sua espressione minacciosa si at­
tenua e le orecchie si abbassano alTindietro. I peli tornano ad ap­
piattirsi lungo la linea del dorso, la coda si abbassa, i muscoli si ri­
lassano, il cane si ripiega su se stesso, talvolta ritirando la coda fra
le gambe, e scappa. La perseveranza deiraltro neiratteggiamento
di minaccia e di superiorità è bastata a impaurirlo, perciò il com­
battimento non avrà luogo.
La minaccia e l’esibizione della forza servono, dunque, a evitare
una guerra armata, che potrebbe concludersi con il ferimento o
addirittura con l’uccisione di uno dei contendenti. Si tratta di mez­
zi di aggressione che vengono impiegati come ultima possibilità
prima di uno scontro cruento e, dal punto di vista della conserva­
zione della specie, costituiscono un importante dispositivo biologi­
co che impedisce un inutile spargimento di sangue.
Immaginiamo l’incontro di due cani in un territorio estraneo a
entrambi, una terra di nessuno. In questo caso, è assolutamente
giusto che il diritto di acquisire la zona sia riconosciuto al più for­
te, ma non avrebbe molto senso se questo volesse uccidere l’altro a
ogni costo. Nella maggior parte dei casi, infatti, il meno forte è un
individuo più giovane, le cui possibilità future devono mantenersi
integre. Prima o poi, anche l’animale risultato superiore invec-
chierà e, perciò, si ripresenterà la questione di occupare il territo­
rio, resosi di nuovo libero. L’ex rivale, che nel frattempo sarà di­
ventato più forte, prenderà il suo posto e, a sua volta, spaventerà e
caccerà ogni altro pretendente mediante un’incruenta guerra psi­
cologica.
Certo, può anche accadere che questa prova di forza basata sul­
le minacce e sull’esibizione della propria superiorità abbia un epi­
logo diverso: i due rivali si avvicinano sempre più, fino a sfiorarsi
con il pelo, la minaccia si trasforma in un’esplicita intenzione di
mordere, e i maschi, come esperti lottatori, si affrontano spalla a
spalla tentando di mettere a terra l’avversario con raffinati strata­
gemmi. Si spingono e si caricano, si fanno lo sgambetto, e ciascuno
mette in campo la propria forza fisica e l’abilità nel riuscire a schi­
vare i morsi dell’altro. Oltre al ringhio minaccioso, si sente il digri­
gnare delle mascelle che contribuisce, anche acusticamente, ad am­
pliare l’effetto. Molti cani iniziano a emettere ululati bellicosi, co­
me del resto fanno anche gli uomini nel combattimento corpo a
corpo. Nelle regole del gioco rientra anche l’insulto reciproco, che
caratterizza ogni lotta che si rispetti. Nei cani può assumere forme
tali da far credere alle nostre orecchie che i due si siano già mezzi
sbranati, mentre invece non si sono neppure fatti un graffietto.
Soltanto quando tutto questo si rivela insufficiente a rendere
insicuro uno dei due contendenti, costringendolo ad abbandonare
il campo, lo scontro diventa cruento. I denti puntano, di preferen­
za, alle zampe, al collo e alle orecchie. Nel tentativo di impedire
all’altro di mordere, anche le mascelle si scontrano e i cani si pro­
curano a vicenda ferite alle labbra e agli angoli della bocca. Dato
che i cani combattono in questo modo da tempi immemorabili, la
natura ha predisposto che questo genere di ferite si rimargini con
incredibile rapidità e facilità.
Nei combattimenti all’ultimo sangue, se dopo tutti questi preli­
minari non si è ancora giunti a nessuna decisione, i morsi mirano
soprattutto alla gola. Quelli dati ai lati del collo non sono, in gene­
re, molto efficaci perché i maschi selvatici hanno una folta criniera,
difficile da penetrare per i denti dell’avversario. Nella lotta combat­
tuta sul serio, non per gioco, al fine di eludere i colpi si cerca sem­
pre di offrire all’avversario le zone del collo, che fanno da scudo.
Così, nel combattimento spalla a spalla sulle quattro zampe, i cani
riescono a evitare i morsi alla gola. Per afferrare l’avversario alla go­
la, bisogna prima atterrarlo. Raggiunto l’obiettivo, diventa difficile
seguire la battaglia: i corpi dei due contendenti ruzzolano l’uno sul­
l’altro, i morsi sono inferii dove capita, in qualsiasi area del corpo si
trovi a portata di zanne. Il combattimento spalla a spalla può tra­
sformarsi anche in una lotta in cui i due cani si affrontano ergendo­
si sulle zampe posteriori e puntano quelle anteriori l’uno sulle spal­
le dell’altro. Il morso al collo si evita allontanando la gola, oppure
proteggendola con le fauci spalancate e la testa leggermente inclina­
ta verso il basso. Una modalità di lotta caratterizzata da grandi salti
l’ho potuta osservare molto bene nel combattimento fasullo prece­
dente l’accoppiamento di Sascha con la lupa di una conoscente.
Nonostante le mosse e le urla minacciose, che davano l’impressione
158
di un vero e proprio confronto, l’effetto generale era ovviamente
più giocoso di quello che normalmente si riscontra in due maschi
che si azzuffano sul serio. Tuttavia, anche nel caso di maschi, è dif­
ficile che si arrivi a delle ferite vere e proprie. Anche qui, la posizio­
ne eretta sulle due zampe posteriori è usata soprattutto per minac­
ciare e per esibire la propria statura. L’effetto consiste, appunto,
nelTesibire le proprie possibilità, nel sottolineare le proprie forze e,
soprattutto, nel dimostrare la propria superiorità anche psicologi­
ca: il cane osa esporsi molto, l’importante è l’espressione che riesce
a ottenere, e che non si misura in centimetri, ma in base alle energie
psicologiche. Il piccolo Sven, uno dei fratelli di Stina, che drizza il
pelo di fronte a Sascha, non lo impressiona certo per il trascurabile
aumento di statura che riesce a ottenere, ma per il coraggio che
esprime con questo comportamento provocatorio.
Abbiamo così analizzato, ancora una volta, il significato del
comportamento espressivo che si manifesta attraverso le strutture
fisiche ma che, in pratica, le utilizza soltanto per far conoscere la
natura e l’intensità di uno stato d’animo. Senza queste possibilità, i
conspecifici si avventerebbero semplicemente l’uno sull’altro per
finirsi a morsi il prima possibile, cosa che, come abbiamo visto, ai
fini della conservazione della specie va evitata. Di conseguenza, l’e­
spressione e la tecnica del combattimento si collegano all’atteggia­
mento aggressivo di fondo, formando così un sistema nel quale
s’inseriscono varie inibizioni, in virtù delle quali si opta per risolve­
re la questione della superiorità nel modo meno cruento possibile.
A tale scopo, quale estrema possibilità di dimostrare che ci si
sente sconfitti e che si è disposti alla resa, esiste un altro comporta­
mento espressivo straordinariamente efficace. Sappiamo che è il
morso alla gola a decidere l’esito della lotta. Come Konrad Lorenz
ha chiaramente evidenziato, molto spesso nel regno animale il ge­
sto di offrire all’avversario la parte più vulnerabile rivela un com­
portamento umile, un segno di sottomissione. Questo comporta­
mento stimola immediatamente nell’aggressore un’inibizione a uc­
cidere: questi, che solo pochi secondi prima era intento a colpire
proprio quelle parti vulnerabili, all’improvviso, vedendosele offer­
te dal conspecifico in maniera spontanea, si astiene dal farlo.
In questo modo, il combattimento selvaggio, e magari già san­
guinoso, s’interrompe di colpo non appena il perdente si butta a
terra sul dorso e, con le orecchie basse e gli occhi socchiusi, offre
la gola. Ringhiando, il vincitore incombe sul vinto - la gola del ne­
mico è davanti a lui, indifesa, un rapido morso basterebbe per fi.
nirlo - ma, per quanto forte sia l’eccitazione, non è in condizione
di colpire realmente, poiché il blocco degli schemi motori corri­
spondenti glielo impedisce.
L’effetto di quest’inibizione si riflette chiaramente nell’espres­
sione del vincitore, che non rivela trionfo ma una sottile tensione
interna, quasi un conflitto.
Questi non sa che fare, non riesce a superare il blocco che lo fre­
na, oscilla fra aggressività e mansuetudine. Se il cane che dichiara la
propria sottomissione si muove, l’aggressività del vincitore riemer­
ge. Se, invece, comincia a uggiolare sommessamente, il più forte
spiana la fronte, mentre i peli della linea dorsale si abbassano: resta
in bilico fra i due diversi stati d ’animo finché l’aggressività non si
placa, e a quel punto lo sconfitto può osare andarsene, con la coda
fra le gambe.
Un ampio repertorio di modelli comportamentali tendenti a ini­
bire l’aggressività è usato soprattutto quando, in una società piutto­
sto numerosa, si deve mantenere un ordinamento gerarchico, la cui
costituzione e coesione sono imposte e conservate con la lotta. In
altre parole, l’associazione di aggressività e di inibizioni ad aggredi­
re può trasformarsi in un meccanismo di coesione di gruppo. Que­
sto è il caso tipico dei lupi nordici, che durante le stagioni fredde si
riuniscono in branchi più grossi per fare fronte comune contro le
difficoltà della sopravvivenza in inverno, potenziando le loro forze.
I dingo che vivono a coppie non hanno bisogno di questo mec­
canismo, di conseguenza il freno inibitore dell’aggressività in loro è
molto meno sviluppato. Può darsi che, viste le loro condizioni di
vita, la lotta all’ultimo sangue sia un po’ più ammissibile. Infatti, se
tutti i territori del loro ambiente naturale sono occupati, il combat­
timento per conquistarne uno può concludersi con la morte del
più debole. Che senso avrebbe, d’altronde, se l’aggressore si sotto­
mettesse? Infine, è sicuramente meglio che sia il più forte a occu­
pare il territorio e a provvedere alla conservazione della specie. Se,
invece, ci sono degli altri territori liberi, non c’è bisogno di alcun
combattimento, si cerca solo di evitarsi civilmente.
I dingo sprizzano felicità da tutti i pori se, mentre sono impe­
gnati in una zuffa accanita, li dividiamo sollevandoli in aria a brac­
cia tese. Sono felici che qualcuno li abbia separati e mostrano chia­

160
ramente la loro riconoscenza. Occorre, però, stare attenti che cia­
scuno abbia un proprio territorio. Lasciandoli subito liberi, la lotta
riprenderebbe con la violenza di prima, e guai a chi osasse tratte­
nere un solo animale: l’altro lo farebbe a brandelli dalle nostre
braccia. Inoltre, in quel preciso istante, il cane trattenuto rompe
per sempre la sua amicizia con l’uomo. A me, purtroppo, è capita­
to con Luxl, quando si azzuffò con il figlio Motu, allora già adulto.
Dopo che li ebbi separati, mentre riportavo in casa Luxl, legger­
mente graffiato, Motu riuscì a svincolarsi e, saltandomi addosso,
riprese a mordere il suo nemico e padre. Stupidamente tentai di
proteggere Luxl stringendolo a me, gesto contrario a ogni buona
usanza dei dingo, e lui reagì mordendomi. La sua ostilità nei miei
confronti era ormai conclamata, tanto che mi morse anche il gior­
no dopo quando provai a dargli da mangiare. Pensate che, quando
l’avevo portato fuori dal canile, si era stretto a me tutto contento e
riconoscente, e aveva fatto di tutto per leccarmi il viso. Poi, però,
era bastato un comportamento sbagliato, durato una frazione di
secondo, per dare inizio a un’inimicizia destinata a durare fino alla
tragica fine del cane. Non potevo più azzardarmi a entrare nel suo
canile, al punto che, a distanza di un anno, mi ringhiava ancora
contro e drizzava il pelo se soltanto mi avvicinavo al cancello. Nei
confronti degli altri abitanti della casa continuò, invece, a essere
l’affettuoso e simpatico cane da grembo di sempre.
Restando in tema di aggressività, dal comportamento espressivo
siamo passati a esaminare il conflitto vero e proprio, considerando
però solo i maschi. Vediamo ora cosa succede fra le femmine.
Mentre per il maschio il comportamento aggressivo è legato
prevalentemente alla lotta per il territorio, nella cagna ricade quasi
esclusivamente nell’ambito della procreazione. Ovviamente, in un
animale che vive in branco ed è altamente socializzato non possia­
mo osservare questo tipo di comportamento nelle forme più estre­
me, come invece vediamo in molte specie animali che vivono in
greggi senza una precisa organizzazione sociale. Presso queste ulti­
me, di solito, i maschi s’impegnano in combattimenti rituali basati
perlopiù sul comportamento espressivo, le femmine invece si com­
battono senza inibizioni, e fra loro s’instaura una lotta cruenta, pri­
va di un corrispondente comportamento di espressione. Ciò si ri­
scontra soprattutto nelle specie animali in cui la cura della prole è
affidata in prevalenza o esclusivamente alle femmine.
In una vita socialmente organizzata esiste, naturalmente, un or­
dinamento gerarchico anche fra gli individui di sesso femminile,
in grado di funzionare senza che necessariamente si mordano a
morte. Le cagne devono, quindi, avere anch’esse un comporta­
mento di minaccia e di sottomissione. Nelle femmine, tuttavia,
compare di rado l'atteggiamento di esibizione della forza che pre­
cede il combattimento dei maschi, poiché sono più inclini a passa­
re direttamente dalle minacce ai morsi. Nelle cagne è ancora vivo
il comportamento primordiale di cui abbiamo parlato prima, in­
centrato sulla soppressione fisica deir avversario, che si manifesta
soprattutto quando è in gioco la scelta dello sposo o la sicurezza
della prole. Presso i lupi in questo periodo, che coincide con la
stagione calda, l’organizzazione del branco è comunque sciolta.
I Crisler, una coppia che ha vissuto nelle solitudini dell’Alaska
insieme a lupi addomesticati e in libertà, hanno avuto modo di fa­
re un’esperienza molto triste. Lady, una giovane lupa, viveva con
loro insieme al maschio Trigger. All’epoca degli accoppiamenti si
presentò una lupa selvatica che strinse amicizia con Trigger, il qua­
le si mise a corteggiarla. La cosa, ovviamente, non piacque affatto
a Lady. Una notte si scatenò un combattimento fra le due femmi­
ne e Lady rimase uccisa. Evidentemente, nelle femmine non esiste
nessun rituale, basato su un particolare comportamento di espres­
sione, che impedisca l’uccisione del conspecifico, come invece av­
viene fra i cani rivali, i cervi o, comunque, fra i maschi in lotta.
Da varie fonti sappiamo che i lupi possono uccidere un mem­
bro del branco, ma in questo caso non si scatena un vero e proprio
combattimento, bensì è l’intera banda che assale il condannato e
lo sbrana. Forse questo è il destino di animali ormai troppo vecchi
e non più in grado di assolvere i loro compiti in seno alla comu­
nità. Ciò che scatena quest’attacco collettivo è il comportamento
espressivo dell’animale che rivela il declino della sua forza vitale.
La comunità può sussistere soltanto se esiste una chiara comuni­
cazione. Quando un membro del branco non è più in grado di ga­
rantirla, diventa un corpo estraneo e soggiace alla dura legge che,
da sola, garantisce l’efficienza di un branco di lupi.
A questo punto, è il momento di raccontare la tragica fine di
Luxl, il mio maschio della Nuova Guinea, che dimostra in manie­
ra assai evidente la differenza fra il modo di combattere di una ca­
gna e quello di un maschio. Misi Luxl nel canile della figlia Suki,
162
mentre quest’ultima stava ancora allattando i suoi tre cuccioli, e la
cosa andò assolutamente liscia. Luxl si comportò con grande tat­
to, e anche nel periodo successivo giocò affettuosamente con i
piccini come se fossero suoi. Notai soltanto che li puniva molto
più raramente di quanto, in generale, fanno gli altri padri dingo.
Sotto questo profilo era più debole e riservato. Ben presto, poi,
Luxl si venne a trovare sotto il dominio di Suki. Faceva pena, e la
sua sottomissione si notava soprattutto quando si trattava del ci­
bo, che la cagna pretendeva tutto per sé.
I cuccioli cominciarono a diventare più indipendenti, e così
giunse per Luxl il momento di mettere finalmente i puntini sulle i
e mostrare chi fosse il capofamiglia. Un giorno maltrattò Suki al
punto di farla zoppicare per due giorni. Dopo questa zuffa, che
naturalmente fu accompagnata da grida selvagge, la cagna non
presentava ferite da morso - un maschio non morde mai una fem­
mina intenzionalmente e sul serio, piuttosto la carica e la schiaccia
- mentre Luxl aveva dei bei graffi lasciati dai denti della compa­
gna. Tuttavia, a Suki mordere non servì a nulla perché da quel
giorno in poi trotterellò dietro al suo padrone e signore con un’e­
spressione di massima devozione. Per quattro mesi tutto filò liscio,
poi ricominciò la lotta per il potere. Suki diventò sempre più sfac­
ciata e alla fine si rimise i pantaloni. I figli avevano sei mesi, e i due
maschi promettevano di diventare degli splendidi cani. Una sera,
sul tardi, udimmo di nuovo i ben noti latrati associati alla lotta per
il potere, che provenivano dal canile. “Ah” pensammo “adesso lui
gliele suonerà una volta per tutte, era proprio ora! ”. Vivendo insie­
me a dei dingo per molto tempo, si finisce per adottare delle cate­
gorie diverse da quelle dei proprietari dei miti cani domestici. Ci si
abitua alle loro rudi abitudini di vita, tant’è che sentire tutto quel
baccano nell’oscurità ci fece quasi piacere e pregustammo la sod­
disfazione di vedere, l’indomani, il buon Luxl mangiare in pace la
sua razione di cibo e Suki tornare a fare la cagna ragionevole.
Quando calò nuovamente il silenzio, andammo al canile per ac­
certarci che tutto fosse a posto. Già a una certa distanza, però, alla
luce della lampadina tascabile, vedemmo Luxl disteso vicino alla
porta del recinto e, avvicinandoci, scoprimmo che era compieta-
mente coperto di sangue. Aprimmo subito il cancello e il cane si
trascinò faticosamente fuori, fece qualche passo, poi stramazzò al
suolo, restando immobile anche quando lo portammo in casa. Ave­
va il corpo devastato dai morsi, e il sangue sgorgava a fiotti da
un’ampia ferita nella coscia posteriore. Si vedeva che soffriva terri­
bilmente, e perciò gli iniettammo un sonnifero e lo esaminammo
con attenzione.
Per quanto a malincuore, il risultato della visita non ci lasciò al­
tra scelta che fare l’ultima iniezione al nostro Luxl. Non c’era più
speranza, aveva profonde ferite anche alla gola, l’aorta era spezza­
ta, la trachea recisa, il sangue era penetrato nei polmoni... Suki lo
aveva letteralmente dilaniato. Per motivi sui quali si potrebbe di­
scutere a lungo, e che io perciò non voglio dare per scontati, Suki
non riconosceva più Luxl come suo maschio. Il giorno dopo esa­
minammo accuratamente la cagna: presentava solo un taglietto
nella zampa posteriore, nient’altro!
Dall’esito del combattimento, si può ricostruire come si svolse:
il maschio non aveva morso sul serio, nemmeno per difendere la
propria vita, forse aveva persino espresso la propria sottomissio­
ne, ma la cagna non ne aveva tenuto conto né l’aveva rispettata,
come di solito avviene fra cani maschi.
I nostri cani domestici non presentano più, in forma così com­
pleta, i modelli comportamentali qui descritti. Può, dunque, veri­
ficarsi quello che avviene quando la comunicazione non funziona
più: un conflitto contro tutte le regole, che si conclude con la mor­
te dell’individuo più debole. Anche in questo caso, l’inattivazione
dell’inibizione a uccidere può diventare fatale per il cane che am­
mette la propria inferiorità.
Tornando alla “sottomissione attiva” di Schenkel, che ha una
funzione di coesione nel gruppo, possiamo introdurre anche una
forma di “sottomissione passiva” nella quale il vinto si getta, o vie­
ne gettato, sul dorso. Anche quest’ultima forma si è certamente
sviluppata a partire dal comportamento infantile, e precisamente
dall’immobilità dei cuccioli mentre la madre, o all’occorrenza il
padre, esegue con la lingua i massaggi sul ventre necessari per far­
li urinare o evacuare. I cuccioli ricorrono al comportamento della
sottomissione passiva in ogni occasione, spesso anche urinando se
la situazione è particolarmente critica. Quando sono ancora molto
piccoli, mostrando la regione del ventre, suscitano nei conspecifici
adulti l’istinto di assistenza e protezione. In età più avanzata, il ge­
sto di offrire questa parte del corpo serve a frenare l’aggressività.
La sottomissione passiva vale anche nel rapporto con l’uomo, do­
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ve il cane impara che può suscitare delle reazioni simili alle cure
parentali, ovvero essere accarezzato. Di conseguenza, il cane inse­
risce nella sottomissione attiva l’originaria forma della sottomis­
sione passiva. Fra i miei cani è soprattutto Binna a buttarsi sul
dorso non appena qualcuno si mostra affettuoso con lei, oppure
quando vuole essere accarezzata.
Abbiamo solo accennato, ma senza approfondirlo, al modello
espressivo gestaltico della disposizione alla fuga, contrapposto al­
la minaccia e all’esibizione della forza. Vorrei ora tornare sull’ar­
gomento. Questo modello espressivo non esiste soltanto in quan­
to opposto all’espressione di un certo stato d’animo, ma anche co­
me forma espressiva autonoma. Mentre la minaccia evidenzia la
statura, la disposizione alla fuga determina un rimpicciolimento,
un farsi piccolo per la paura. Il cane si ripiega su se stesso, appiat­
tisce la coda fra le cosce, evita d’incontrare lo sguardo dell’avver­
sario. Quest’immagine avvilita il cane la offre non solo al conspe­
cifico che gli è superiore, ma anche all’uomo, e in tutte le situazio­
ni che gli incutono paura.
Come nell’esibizione di forza, anche nella disposizione alla fuga
notiamo l’importanza della posizione della coda. Un cane che di­
mostri la propria forza e superiorità porta la coda rigida e verticale,
quello che è inferiore l’abbassa, cioè la infila fra le gambe. Questi
gesti hanno un grande valore espressivo, costituiscono un evidente
segnale ottico, ma la loro origine è anche strettamente connessa al­
le strutture espressive legate all’olfatto. Le varie posizioni della co­
da mirano, infatti, a enfatizzare o a nascondere l’odore tipico del­
l’individuo. Nell’atteggiamento di sottomissione, le ghiandole della
regione anale vengono accuratamente nascoste in uno sforzo del­
l’animale di dissimulare il suo odore, quasi a negare la propria esi­
stenza. Il cane che si sente superiore tiene invece la coda sollevata,
permettendo che si percepisca la sua presenza anche con il naso.
Esiste, poi, un altro modello comportamentale molto noto, che
il cane attua mediante l’uso della coda, ovvero lo scodinzolare,
che esprime un’eccitazione gioiosa, la cui intensità è indicata dalla
frequenza del movimento. Il cane si avvicina a un suo simile sco­
nosciuto con la coda a riposo, leggermente ondeggiante, e così gli
comunica che non ha cattive intenzioni e che, anzi, sarebbe dispo­
sto a discutere pacificamente un accordo futuro. Se, avvicinando­
si, nota che si tratta di una graziosa cagnetta, si mette a scodinzo­
lare più in fretta, e ancora più rapidamente se si accorge che que­
sta è disposta all’amore. Anche la posizione della coda in attività è
importante. Se il cane non è sicuro del fatto suo, la coda è portata
leggermente verso il basso, nel caso dovesse malauguratamente ri­
tirarla fra le gambe. Se, invece, è molto sicuro di sé, il cane scodin­
zola con la coda alta, leggermente obliqua. Si tratta di un vero e
proprio barometro dell’umore. Un altro elemento chiave è l’odo­
re: il cane incline a essere socievole può permettersi di spargerlo
da ogni parte, poiché in quel momento è circondato da buoni
amici, di fronte ai quali può esporsi senza riserve.
A questo proposito, vorrei condividere una piccola curiosità
che mi è stata raccontata di recente. Un mio conoscente, grazie al­
la sua cagna, incontrando per strada un bassotto si accorse con
grande stupore che quest’inglese dalle orecchie pendenti non sco­
dinzolava solo da sinistra a destra, ma anche in tondo, come a de­
scrivere un cerchio con la punta della coda. La padrona del cane
spiegò al mio conoscente che quasi tutti i bassotti lo fanno, una
notizia che ha stupito anche me. E proprio vero che non si finisce
mai d’imparare!
Sull’espressione gestaltica del cane ci sarebbe molto altro da
dire. Ad esempio, che anche in questo caso, come nella mimica,
esistono delle sovrapposizioni. Citerò solo un caso. Abbiamo
spesso l’impressione che il corpo del cane, quando l’animale assu­
me un atteggiamento minaccioso, formi una gibbosità: il treno po­
steriore si abbassa leggermente, e anche la coda si trova in una po­
sizione non ben definita, oppure pende leggermente. Ciò significa
solo che il cane è in una disposizione aggressiva e impaurita allo
stesso tempo. “Minaccia avanti e fuga dietro” direbbe Lorenz. A
seconda del comportamento dell’avversario, l’una o l’altra delle
due disposizioni prenderà il sopravvento e si paleserà nel compor­
tamento d’espressione.

Lespressione acustica
Abbiamo esaminato l’espressione mimica e gestaltica del cane,
imparando anche qualcosa delle sue manifestazioni vocali. Finora
abbiamo considerato le orecchie soltanto un mezzo di espressione
visiva, mentre ora ci occuperemo della loro funzione peculiare.
166
Innanzi tutto, vorrei rivolgermi un momento a tutti quelli che
amano i cani. Come sapete, da alcuni anni si combatte una silenzio­
sa ma accanita lotta che ha per oggetto le loro orecchie. Per favore,
lasciate ai cani le orecchie che la natura gli ha dato! Io mi schiero
senza riserve dalla parte di quegli onesti zoofili che si battono con­
tro l’uso, insensato e innaturale, di mozzare le orecchie e la coda.
Hanno ragione, e a nulla servono le capziose argomentazioni sul­
l’insensibilità al dolore dei cuccioli e tutto il resto, addotte a soste­
gno di questa barbara usanza. Può darsi che l’uomo abbia il diritto
di regnare sulle creature di questa Terra, ma non avrà mai il diritto
di mutilarle. Sono disposto ad accettare l’allevamento di cani con le
gambe arcuate o il muso corto, perché in questo caso si sfruttano
comunque delle possibilità già presenti nel patrimonio genetico
ereditario. Non voglio con questo dire che l’esistenza di creature
deformate da un allevamento selettivo mi entusiasmi. So, però, che
a queste modificazioni della struttura fisica originaria del cane cor­
rispondono, nel patrimonio ereditario, analoghe modificazioni del­
l’indole e delle esigenze di vita, per cui la cosa è ancora accettabile.
Chi, invece, mozza coda e orecchie a un cane che è nato con una
sua precisa forma si rende colpevole di lesioni corporali, anche se il
cane, dal punto di vista giuridico, è soltanto una “cosa”. Spero che la
Protezione Animali, oppure il governo, trovino una soluzione lega­
le per porre finalmente fine a quest’usanza medievale. La Gran
Bretagna e qualche altro paese lo hanno già fatto.
Ogni veterinario sa che l’amputazione delle orecchie o della co­
da è accompagnata da dolore e da un periodo di sofferenza, duran­
te il quale la ferita si cicatrizza. Soltanto un brutale formalismo può
ancora sostenere, in nome delle prescrizioni degli standard, simili
lesioni psicofisiche che, come è stato dimostrato, provocano nei
primi mesi di vita un trauma insanabile, un’esperienza di autentico
terrore. A riprova di ciò, esistono numerose prese di posizione e
perizie di esperti. Fortunatamente, il buonsenso umano ha già rotto
le barriere del formalismo erette dai sostenitori degli standard, ot­
tusamente rispettosi della tradizione, e il numero di proprietari di
cani che rinunciano a quest’insensata misura è in costante aumento.
In questi ultimi anni ho già visto molti boxer, alani, pinscher e Sch­
nauzer senza le orecchie tagliate. Confrontandoli con esemplari
della stessa razza con le orecchie mozze, non si riesce proprio a ca­
pire perché ad alcuni cinofili piacciano simili mutilazioni.
167
Nei canidi, come in tutti gli altri animali, la forma dell’orecchio
si è sviluppata adattandosi alle funzioni vitali relative alla conser­
vazione della specie e perciò è, in senso biologico, funzionale. I
padiglioni auricolari hanno il compito di captare il suono e di lo­
calizzare la direzione e la distanza della sorgente sonora. La pre­
messa indispensabile è una sufficiente mobilità di questi “ricevito­
ri”. Un complesso meccanismo del cervello, simile a un computer,
calcola poi l’angolazione e l’intervallo con cui uno stimolo acusti­
co giunge alle due orecchie, e il risultato è l’informazione relativa
alla sorgente sonora. In questo, il nostro quadrupede ci supera di
parecchie lunghezze, non soltanto perché possiede dei ricevitori
ottimamente funzionali, ma anche perché possiede la facoltà di
percepire delle frequenze sonore che superano di molto le venti­
mila vibrazioni al secondo. Questo è il nostro limite di percezione
dei toni alti, ed è per questo che possiamo chiamare il nostro cane
con un fischietto a ultrasuoni senza disturbare l’orecchio umano.
Non c’è dunque da meravigliarsi che un cane, dotato di una si­
mile capacità acustica, sia particolarmente sensibile ai rumori. Non
mi riferisco ai cani che cominciano a mugolare appena captano i
suoni armonici superiori di uno strumento, che noi non avvertiamo
nemmeno, bensì ai nostri poveri cani di città. E stato già dimostra­
to che la capacità auditiva dei cani esposti all’insopportabile fra­
stuono delle grandi città è notevolmente diminuita. L’arrivo di uno
stimolo sonoro è connesso a una pressione sulla membrana del
timpano, e se questa supera una soglia tollerabile, col tempo si ha
una diminuzione della facoltà auditiva, come avviene quando un
suono a volume troppo alto viene ben presto percepito come un
dolore fisico. L’inondazione di rumori, cui siamo esposti, costitui­
sce già un serio pericolo per la nostra salute, a maggior ragione per
il cane, molto più sensibile ai suoni di noi.
Gli animali in grado di udire possiedono, di solito, anche una
voce che viene usata nei rapporti fra conspecifici. Le orecchie non
servono soltanto a scoprire la preda o i pericoli, ma anche a co­
gliere le varie espressioni vocali dei propri simili. Nel cane questo
tipo d’espressione è molto vario, come è naturale che sia in un
mammifero che vive in raggruppamenti sociali e che deve farsi ca­
pire anche a una certa distanza.
Pertanto, ogni cane sviluppa un registro di voce individuale, so­
prattutto per i suoni che servono come segnali di riconoscimento.
168
Tutti sappiamo che ogni cane abbaia in maniera diversa da un altro,
e qualche spiritoso ne ha approfittato per allestire delle orchestrine
di cani che eseguono abbaiando FraJMartino campanaro e cose del
genere.
L’abbaiare, e con questo termine intendiamo esclusivamente
dei suoni emessi in rapida successione, ovvero il latrare, secondo la
definizione degli specialisti, serve originariamente a esprimere sot­
tomissione, in un clima sia di amicizia che di paura. Abbiamo già
visto come un comportamento espressivo relativo a quest’ambito
possa essere usato, in maniera molto funzionale, nei confronti del­
l’uomo, ad esempio come invito al gioco. Molti cani, per indurre il
loro amico bipede a giocare con loro, assumono il tipico atteggia­
mento che usano anche fra i conspecifici: iniziano con un gesto
molto ostentato, gettandosi con il treno anteriore a terra, mentre
quello posteriore rimane sollevato, la coda è svettante, testa e occhi
sono rivolti alla persona che è oggetto del loro interesse. Dato che
noi uomini di solito siamo intenti in altre cose e spesso non ci ac­
corgiamo, o fingiamo di non accorgerci, dell’invito, il nostro cane
si aiuta con la voce e, per richiamare la nostra attenzione, comincia
ad abbaiarci la sua sottomissione.
Suppongo, quindi, che in questo modo l’abbaiare, abbastanza
raro fra conspecifici, sia diventato un segnale di comunicazione
con l’uomo. Il cacciatore che nel bosco perde ben presto di vista il
suo cane, già lanciato sulla pista della selvaggina, volendo sapere in
quale direzione continuare, dà molta importanza allo “scagnare”.
Questo fatto può avere indotto a selezionare delle razze canine
proprio in base alla voce bella e vigorosa che, come è stato dimo­
strato, è un carattere ereditario. In un cane questa qualità è ap­
prezzata anche nel caso in cui all’animale si affidi la custodia della
casa. I volpini di Pomerania, che non sono dei cani da caccia, sono
notoriamente degli ottimi abbaiatori, e sicuramente questa dote
sarà stata apprezzata dagli abitanti delle palafitte del Mesolitico nei
loro cani delle torbiere. Probabilmente ai nostri progenitori non
faceva piacere che degli estranei si avvicinassero furtivamente alle
loro capanne, proprio come a noi non piace che qualche ladrunco­
lo scavalchi la siepe del giardino. L’abbaiare, spesso noioso, del no­
stro cane è accolto allora come un’autentica benedizione.
A ogni modo, prima di prendere un cane, chi ha dei vicini do­
vrebbe assicurarsi che una spiccata predisposizione ad abbaiare
169
non dia troppo fastidio. Io raccomanderei caldamente di parlarne
prima con chi ci vive accanto. La legge, infatti, protegge il bisogno
di riposo dei nostri simili. Tuttavia, non lasciamoci intimidire se
dei vicini antipatici, che non sopportano i cani in generale o sem­
plicemente ritengono di aver motivo per non sopportare noi, mi­
nacciano di sporgere denuncia solo perché il nostro cane da guar­
dia abbaia brevemente un paio di volte al giorno, quando qualcu­
no attraversa il giardino per entrare in casa. Si può tranquillamen­
te ignorare queste manifestazioni di ostilità, nessun giudice si met­
terà dalla parte dell’accusatore. Al riguardo, esistono delle senten­
ze relative a casi precedenti che di solito le associazioni di alleva­
tori o animaliste conoscono bene, per cui in caso di dubbio ci si
può rivolgere a loro per un consiglio.
Esistono, poi, delle razze di cani, altrettanto belle e buone, che
tendono ad abbaiare pochissimo e che sono l’ideale per chi non
desidera avere noie con il vicinato. Come un tempo si selezionava­
no i cani in base alla potenza vocale e alla predisposizione ad ab­
baiare, oggi si selezionano, per altri scopi, anche dei cani silenzio­
si. Ce ne sono di particolarmente taciturni, ad esempio i levrieri.
Questi sono stati allevati come cani da seguito, che inseguono la
selvaggina su terreno scoperto, a vista, non con il naso, cioè, ma
con lo sguardo, che in loro è particolarmente acuto. La selezione è
stata realizzata in modo da ottenere un mantello dai colori vistosi
e dal pelo lungo e fluttuante, facilmente visibile da cavallo. Ab­
baiare richiede parecchio fiato e impone un notevole sforzo per i
polmoni, che andrebbe a scapito della velocità e, soprattutto, del­
la resistenza di questi longilinei cani da seguito. Sono, così, diven­
tati dei “cacciatori muti”, come si dice in linguaggio venatorio, e
lo sono tuttora, anche se qui da noi il gigantesco borzoi o il serico
afgano, devono accontentarsi di essere soltanto degli eleganti cani
da compagnia. Anche il dingo dev’essere stato in origine un “cac­
ciatore muto”, poiché neanche lui abbaia. E capace di emettere
dei singoli suoni secchi e brevi, ma lo fa soltanto quando vuole an­
nunciare un pericolo. Da me capita quando degli sconosciuti si
avvicinano troppo ai canili, ma a comportarsi così sono soprattut­
to i cani che vi sono nati. Spesso ho l’impressione che i dingo vo­
gliano imitare i miei ibridi di elkhound, che abbaiano a tutto volu­
me, soprattutto quando notano qualcosa che a loro avviso può mi­
nacciare le madri che allattano i piccoli.
170
Lo zoologo danese Alwin Pedersen, che si è occupato diffusa­
mente dei cani da slitta, afferma che il cane della Groenlandia
orientale, a differenza del cugino della Groenlandia occidentale,
non abbaia. “Dai cani della regione orientale non ho mai udito
suoni che avessero una pur vaga somiglianza con l’abbaiare. In si­
tuazioni in cui gli altri cani abbaiano, questi animali emettevano
un grido inarticolato, che di solito si trasforma in un ululato. In
generale, il normale e più frequente modo di esprimersi di questi
cani era proprio l’ululato”. Ciò corrisponde esattamente al com­
portamento dei miei dingo, i cui latrati, che ritengo frutto di imi­
tazione, si trasformano in ululati. Pedersen, tuttavia, afferma an­
che che i cani della Groenlandia orientale possono imparare ad
abbaiare se vivono fin da cuccioli fra i cani da slitta della regione
occidentale. I dingo invece non ne sono capaci.
Da queste osservazioni si deduce che nel cane domestico l’e­
missione fonica può essere modificata sia attraverso la selezione,
sia mediante l’apprendimento. A tale proposito, posso citare un
esempio davvero straordinario che, fra tutte le nostre razze cani­
ne, è unico, proprio come la coda girevole del bassotto. Il segugio
del Giura, di costituzione piuttosto snella e di colore rosso e nero,
classificato fra i segugi svizzeri ad arti brevi, viene definito hurleur,
cioè ‘urlatore’. Il capo delle guardie forestali Friess descrive così
la voce di questo cane durante la caccia: “È un vero e proprio ulu­
lato, prolungato e profondo, che, secondo la nostra esperienza,
interrompe e sostituisce la gola (così si chiama la voce in linguag­
gio venatorio) profonda e squillante della caccia normale, in parti­
colare quando ha trovato o perso la preda... Infatti, gli urlatori si
fermano, a volte si siedono, e comunque interrompono immedia­
tamente la corsa. Esaminano la tana o il giaciglio e la direzione
delle orme del selvatico, quindi si rimettono a ululare con il muso
rivolto al cielo. Soltanto allora riprendono a cacciare con la loro
voce normale, intercalandola più o meno spesso con dei suoni si­
mili all’ululato”.
Si tratta certamente di un’antica consuetudine dei lupi, che at­
traverso i millenni si è conservata in una forma particolare nel me­
todo di caccia tipico delle Alpi svizzere, unitamente al normale
“scagnare” dei cani da caccia. Fra i lupi, gli sciacalli, i coyote o i
dingo, l’ululato è un’emissione sonora che ha la funzione di indi­
care la posizione dell’individuo quando è separato dagli altri. In
171
questo modo, si riesce a sentirlo a una distanza molto maggiore di
quando invece l'animale abbaia o “scagna”, come il cacciatore de­
finisce l’abbaiare ritmico, molto distinto. L’ululato dei miei dingo
si sente a due chilometri di distanza, e certamente un cane è in
grado di sentirlo a una distanza ancora maggiore.
Se per un po’ di tempo nessuno si fa vedere davanti alla casa, i
miei dingo si mettono inevitabilmente a ululare. Attacca il primo e
subito dopo gli altri si uniscono al coro. Da lontano sembra di
sentire la sirena dei pompieri, e quando vivevamo ancora in mezzo
all’abitato più di un vicino è balzato giù dal letto temendo un in­
cendio. Basta, però, che io apra la finestra, e i cani si rendono con­
to della nostra presenza e smettono subito. Si mettono a ululare
anche quando saliamo in macchina e ci allontaniamo, oppure
quando prendiamo dei cani al guinzaglio e ce ne andiamo a pas­
seggio con loro.
Un amico, che aveva vissuto alcuni anni in Australia, volle a
tutti i costi prendersi uno dei miei dingo. Aveva un appartamento
piuttosto spazioso in un quartiere di Monaco, e poteva permetter­
si di sgomberare completamente una stanza, come gli avevo consi­
gliato sapendo per esperienza che, se lasciati soli, i dingo distrug­
gono l’arredamento. Il mio amico aveva un lavoro che per cinque
giorni la settimana lo costringeva a lasciare solo l’animale per otto
ore consecutive. Ancor più di molti cani domestici, i dingo hanno
un grande bisogno di compagnia, e se vengono lasciati soli s’intri­
stiscono e cominciano a ululare per richiamare il loro partner. An­
che se comprensibili, gli ululati del dingo servirono solo a fargli
pervenire una diffida dell’amministratore, inequivocabile e inop­
pugnabile. Il mio amico mi riportò il dingo e, per consolarsi, si
trovò una fidanzata.
Gli ululati sono contagiosi, ed Erik Zimen riesce a scatenare i
suoi lupi, imitandone con grande maestria l’ululato. Sa ululare an­
che come i dingo, e dalla mia finestra ha tentato d’istigare i miei a
farlo, ma loro non ci sono cascati. Sapevano bene che noi eravamo
lì, e poi perché avrebbero dovuto seguirlo? Sembra, dunque, che
vi siano delle precise differenze tra le due razze: i lupi si radunano
e ululano quando il branco è al completo. Questo coro di ululati è
diretto al branco vicino e significa: “Eccoci, questo è il nostro ter­
ritorio”. Riguardo ai dingo, invece, possono mettersi a ululare,
magari tratti in inganno da un lontano scampanio, solo perché
172
non hanno la certezza che ci sia qualcuno in casa, altrimenti non
ci badano.
Ho già accennato al fatto che alcuni cani reagiscono alla musi­
ca ululando. Il cane da pastore di un mio amico si mette a ululare,
invece, ogni volta che passa un aereo, e questo perché reagisce a
dei toni la cui frequenza gli ricorda evidentemente determinate
parti dello spettro dell'ululato canino: bisogna rispondere sempre
al richiamo del proprio simile!
Nella maggior parte dei nostri cani l’ululato ha perso molta del­
la sua importanza, sia perché ne è venuta meno la capacità, sia per­
ché non se ne capisce più il significato. I miei ibridi di elkhound
della prima generazione sono capaci di abbaiare e di ululare ugual­
mente bene. Le generazioni successive, selezionate nel senso del-
l’elkhound, oppure incrociate di nuovo con l’elkhound, non ulula­
no, ma si uniscono al coro di ululati dei dingo abbaiando, con un
effetto piuttosto sgradevole per le orecchie. Queste capacità sono
evidentemente di natura ereditaria. Soltanto l’intelligente Strixi si
è sforzato a lungo d’imitare l’ululato dei dingo, ma invano, riu­
scendo solo a mugolare penosamente. Da quando, nei miei canili,
“ululatori” e “abbaiatori” si bilanciano, Strixi è tornato alla sua
consueta espressione fonica. E interessante notare come Binna,
un’elkhound venuta a contatto con i dingo in età adulta, abbia im­
parato un ululato accettabile, anche se non molto convincente, im­
piegandovi però quasi tre anni! Questo è un altro esempio di
quanta cautela sia necessaria nel giudicare le capacità insite, o me­
no, in un cane in relazione al comportamento ereditario. I cani
hanno un’ottima capacità di apprendimento e sono molto portati
all’insegnamento. A mio avviso, molti dei nostri cani domestici agi­
scono anche in base a modelli comportamentali che forse non rien­
trano più nel loro patrimonio ereditario, bensì sono stati semplice-
mente osservati in altri cani.
Un suono che ascoltiamo poco volentieri nei nostri cani è il
ringhio. Tutti i cani sanno ringhiare, senza eccezione alcuna. Il
ringhio esprime una minaccia. Nei rapporti fra conspecifici, può
permetterselo solo il cane di rango superiore. Di fronte all’uomo,
invece, se lo permette ogni cane, il che sta forse a dimostrare
quanto questi animali considerino la nostra superiorità. A questo
punto, però, occorre fare una precisazione che riguarda ancora
una volta il problema, così importante, della neotenia. Se ci avvi­
173
ciniamo di soppiatto a una cuccia con dei cagnolini che abbiano
superato le tre settimane, se non hanno ancora avuto contatto con
l’uomo, li sentiremo ringhiare distintamente. Nel branco, i cuccio­
li occupano una posizione di privilegio, poiché gli è permesso rin­
ghiare, pur non essendo dei superiori. È, dunque, possibile che il
comportamento giovanile, che spesso si mantiene nei rapporti con
l’uomo, si manifesti anche in questo caso, indipendentemente dal
rango.
Un’altra emissione sonora che capita di sentire spesso è lo
sbuffo. Eisfeld, che consulto volentieri ogni volta che mi serve una
definizione chiara, lo descrive come un “abbaiare represso a muso
chiuso che potrebbe equivalere a uno sbuffo”. L’animale lo usa
quando un pericolo minaccia la prole e in ogni altro caso di eccita­
mento sgradevole. Nella vita allo stato di natura, il ringhio annun­
cia al conspecifico o ai conspecifici l’incombere di un pericolo; si
tratta, dunque, di un suono di avvertimento che, per non rivelare la
posizione di chi lo emette, non deve giungere troppo distintamente
all’eventuale avversario. Sentendo dei passi avvicinarsi alla nostra
casa, il cane, che prima riposava tranquillo vicino a noi, alza la te­
sta, drizza le orecchie e individua la direzione di provenienza,
emettendo il suo sbuffo di avvertimento prima di balzare sulle
quattro zampe. A questo punto, sicuro del fatto suo, comincia ad
abbaiare. Se riconosce i passi di un vicino che non sopporta per­
ché, ad esempio, gli lancia contro dei sassi, allo sbuffo segue il rin­
ghio e il nostro cane drizza i peli. In questo modo, sappiamo chi sta
passando in quel momento, anche senza guardare dalla finestra.
Quello che non dovremmo mai sentire da un cane adulto è
l’urlo acuto che accompagna un forte dolore fisico. Se a emetterlo
sono dei cuccioli che stanno giocando fra loro, di solito non è
molto indicativo, soprattutto quando sono sorvegliati dai genitori.
Il grido di dolore è un comportamento espressivo che inibisce
l’aggressività. Il cucciolo si rende ben presto conto che il fratello o
il padre lo lasciano non appena emette urla di dolore. Così, si met­
te a gridare a pieni polmoni, anche se ha soltanto il sospetto di po­
ter essere vigorosamente scosso o in qualche modo picchiato! In
casi del genere si può osservare, ad esempio, come il birboncello
tormenti il naso del padre con tutte le sue forze, per poi gettarsi
gridando sulla schiena per assicurarsi che la sua impudenza non
sarà punita.
174
Esaminiamo, infine, come ultimo comportamento espressivo,
il ben noto guaito. A mio parere, esso deriva dai suoni che il cuc­
ciolo emette fin dalla nascita. Alla fine della terza settimana di vita
è possibile riconoscere chiaramente il guaito e interpretarne il si­
gnificato. Il cane che guaisce vuole qualcosa. La gamma del suono
è piuttosto estesa, sia nello scopo, sia neirintensità, nel volume e
nella frequenza del tono. Sentiamo guaire i cuccioli che mendica­
no il cibo, come pure gli animali anziani che danno da mangiare ai
piccoli, anche se in quest’ultimo caso si tratta di una forma di ri­
chiamo. Sentiamo guaire il cane disteso ai nostri piedi, con la testa
fra le zampe, mentre ci rivolge uno sguardo come a dirci: “Dai,
usciamo, che fuori c’è bel tempo” oppure “Su, padrone, facciamo
la pace, non lo farò più”. Nelle relazioni tra conspecifici indica
uno stato d’animo cordiale che invita a un contatto più intimo, sia
nel gioco che nell’accoppiamento. Nel linguaggio corrente, il
guaito è usato nella sua accezione più negativa mentre, in realtà,
sintetizzando i suoi vari significati, si può dire che corrisponda a
un cortese “Prego!”.
Pur avendo fin qui tracciato un panorama delle varie possibi­
lità di espressione fonica, va detto che non è possibile analizzarle
tutte perché ciò richiederebbe una trattazione a parte. Ogni cane
possiede un proprio repertorio per esprimere con la voce soddi­
sfazione, disappunto o altri stati d’animo, magari emettendo una
specie di grugnito, oppure sospiri e sbuffi. Dal canto mio, penso
che i migliori strumenti per imparare a conoscere il linguaggio del
nostro cane siano la consuetudine e la capacità d’immedesimazio-
ne. Trattandosi di un animale molto sensibile, capace di reagire
agli umori più impercettibili, una pura e semplice descrizione del
comportamento non è sufficiente, ma può rappresentare soltanto
la base da cui partire per avvicinarci ancora di più al nostro cane.
L’ultimo tratto di questo cammino va percorso a tu per tu con lui
o lei, e questo perché i moti più intimi della psiche canina sono og­
gi, e saranno in futuro, difficilmente accessibili ai tentativi di og­
gettivazione degli scienziati. Inoltre, sono certo che in quest’ambi­
to molti aspetti si sviluppano proprio in virtù del rapporto fra uo­
mo e cane. Il cane è disposto a imparare per tutta la vita purché
l’uomo sia disposto a fare altrettanto, ed è vitale che quest’ultimo
non ceda alla tentazione di calare se stesso e il suo amico in un cli­
ché precostituito.
175
Ho spesso accennato all’importanza che hanno per il cane l’ol­
fatto e l’universo degli odori. La descrizione del comportamento
espressivo sarebbe incompleta se non considerassimo anche le
possibilità dell’espressione olfattiva, con tutte le sue implicazioni.
Dato, però, che questo tema assume nel cane adulto un’importan­
za molto maggiore che nel cucciolo, ne riparleremo in uno dei
prossimi paragrafi.
Soffermiamoci ancora sul cucciolo durante la fase dell’ordina­
mento gerarchico nel branco. È l’età delle birichinate e il nostro ca­
gnolino ci procura qualche grattacapo poiché manifesta la spiccata
tendenza ad andarsene per conto proprio, come farebbe normal­
mente insieme ai fratelli. In alcuni cuccioli, ad esempio i carlini
della signora von Keiser, questa inclinazione è ancora più precoce.
Ora l’animale comincia a interessarsi di tutto quello che si muove e
ha la forma, apparentemente accessibile, di una preda. Insidia, ov­
viamente senza il minimo successo, piccioni e passerotti, e si mette
a raspare con foga quando s’imbatte nella tana di qualche roditore.
Se ha avuto sufficienti occasioni di allenamento, padroneggia ben
presto la tecnica della caccia al topo. In questo caso, si tratta chia­
ramente di un modello comportamentale innato, presente in tutte
le specie affini al cane. Ad esempio, possiamo osservare il caratteri­
stico balzo sul topo, in cui il cane spicca un salto in alto ricadendo
poi sulle zampe anteriori in modo da schiacciare a terra con tutto il
suo peso il malcapitato, colto di sorpresa. Grazie a questo sistema,
aU’interno del nucleo familiare i cuccioli si procurano una preziosa
razione supplementare di cibo.
Adesso, è giunto il momento di cominciare a proporre dei gio­
chi organizzati che stimolino nel cucciolo la gioia d’imparare. I
modelli comportamentali sviluppati nel gioco, se osservati con at­
tenzione, possono dirci molto sulle qualità degli animali. Comin­
ceremo, dunque, da qui il nostro percorso educativo, facendo ca­
pire al cucciolo che desideriamo qualcosa da lui. L’animale è ora
in grado di capirlo perfettamente, a patto che non commettiamo
Terrore di arrabbiarci perché non fa subito le cose come voglia­
mo. A quest’età, il gioco ha un marcato carattere coesivo e, perciò,
è opportuno non irritarsi e non ostacolare con la propria impa­
zienza questa tendenza naturale.
Possiamo cominciare a inventare dei semplici esercizi di obbe­
dienza o di sottomissione, da praticarsi, preferibilmente, sempre
176
nello stesso momento della giornata e per la stessa durata, ad
esempio quindici minuti. Per insegnare al cucciolo il semplice co­
mando “Seduto! ”, pronunciando la parola eserciteremo una pres­
sione sul treno posteriore dell’animale, mentre con l’altra mano
gli accarezzeremo la gola o il petto, sia per evitare che si stenda,
sia per dimostrargli che siamo di buonumore e benintenzionati. Il
cucciolo si siede e riceve una lode, e a quel punto non ci sarà più
bisogno di ripetere l’esercizio in quella giornata. L’animale, infat­
ti, avverte la nostra soddisfazione per il modo in cui ha eseguito il
nostro comando, e ciò che facciamo successivamente assume il va­
lore di una ricompensa. Ripetere un esercizio più volte servirebbe
solo a renderlo insicuro, perché così avrebbe l’impressione che
glielo facciamo eseguire di nuovo perché non lo fa ancora bene.
Possiamo, invece, ripeterlo occasionalmente in un momento del
giorno non dedicato all’addestramento, oppure il giorno seguen­
te. Con lo stesso sistema, gli insegneremo altri ordini molto utili
come “Resta qui!”, “Cuccia!”, e così via. Mi limito solo a un ac­
cenno perché non è questa la sede adatta per parlare esaustiva-
mente dell’addestramento del cane.
Quello che c’interessa, invece - perché indicativo di un altro
aspetto del rapporto fra genitori e figli - è il fatto che l’amabile ob­
bedienza che i cani genitori ci dimostrano si trasmette automatica-
mente ai figli. Per spiegarlo, userò il seguente esempio.
Sascha è un cane straordinariamente ubbidiente ed è proprio
da lui che ho imparato il significato dell’espressione “amabile ob­
bedienza”. Se gli si dice, con voce pacata, di andare a cuccia, ci va,
ma con un’aria dignitosa e distaccata. Nei suoi gesti non c’è nulla
di quell’obbedienza servile che, purtroppo, si vede spesso nei cani
da pastore che, a tale proposito, Konrad Lorenz ha definito “ab­
bietti discendenti degli sciacalli”. Sascha è esattamente l’opposto,
ed esistono delle situazioni in cui sente che l’ordine di andare a
cuccia non è giustificato, ad esempio quando ha appena scovato
un meraviglioso legnetto e ce lo porge affinché glielo lanciamo.
Allora rivolge uno sguardo quasi interrogativo alla padrona, e tut­
to il suo atteggiamento sembra dire che è disposto a obbedire, se
così dev’essere, ma magari sarebbe meglio pensarci su un’altra
volta prima di escluderlo del tutto. Una volta che l’ordine gli vie­
ne ripetuto, trotterella a cuccia, lamentandosi di tanta incompren­
sione con un sospiro. E se la padrona è nervosa e lo sgrida perché
177
non ubbidisce subito, ciò che pensa gli si leggerà chiaramente “in
muso”: sa per esperienza che in certe occasioni chi ha più giudizio
lo adopera, ma la sua espressione dice tutto!
Ho già raccontato che Sascha ha avuto piena libertà di educare
la figlia Rana dall’ottava settimana in poi. Dal padre, la cagnetta
ha imparato anche la sottomissione, la fedeltà e l’obbedienza, ed è
molto affezionata a questo cane davvero notevole sotto ogni aspet­
to, tanto che, se a volte lui non è a casa, si sente perduta e lo aspet­
ta al cancello come un altro cane aspetterebbe il proprio padrone.
Al suo ritorno, la gioia di Rana è immensa. Per lei tutto quello che
Sascha fa o non fa è un riferimento per l’esistenza. Quando aveva
l’età di cui stiamo parlando, imitava diligentemente Sascha nell’e-
seguire gli ordini. Se si ordinava a Sascha di andare a cuccia, gli
trotterellava dietro e si stendeva accanto a lui. Se, invece, gli si or­
dinava di mettersi seduto, si sedeva anche lei vicino, e in questo
modo comandi quali “Qui!”, “Seduto!”, “Giù!”, “Va’ a cuccia” o
“Cuccia”, quest’ultimo per fare accucciare il cane nel posto in cui
si trova, sono diventati per lei così ovvi da rendere superfluo ad­
destrarla. Rana obbedisce allo stesso modo di Sascha, anche se
con maggior sottomissione e rassegnazione. Questo, però, sembra
essere legato alla sua giovane età, e infatti, col passare del tempo,
sta acquistando una sempre maggior consapevolezza anche per
quel che riguarda l’obbedienza.

La fase dell ordinamento gerarchico del branco


Per i cani selvaggi, diversamente da quanto avviene per i nostri
cani domestici, la procreazione è legata a determinati periodi, di
conseguenza anche lo sviluppo dell’età giovanile è, in linea di mas­
sima, predisposto in modo che la vera e propria infanzia termini
quando l’autunno annuncia l’approssimarsi dell’inverno. Verso
ottobre al massimo, i cuccioli dei lupi nordici raggiungono i cin­
que mesi, e quando i cuccioli degli sciacalli raggiungono quest’età,
cominciano le piogge. I grandi erbivori migrano, seguiti dai lupi al
Nord e dai felidi al Sud. Questi ultimi sono stati praticamente
sterminati nell’ambiente naturale dello sciacallo, costringendolo a
modificare notevolmente le sue abitudini di vita: un tempo, sulle
tracce dei leoni dell’Africa del Nord e dell’Asia, si spostava verso i
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pascoli invernali delle prede, ricavandone il nutrimento. Allora
spartiva con gli avvoltoi i resti dei pasti dei leoni, cosa che oggi fa
con i rifiuti dell’uomo, essendoglisi messo al seguito. Anche in
Australia, l’età dei cuccioli all’inizio dell’inverno si aggira intorno
ai cinque mesi: a quel punto, bisogna dire addio alla spensierata
vita infantile e al cibo procurato dai genitori. Ormai i lupetti de­
vono migrare per cacciare la preda insieme ai genitori, gli sciacalli
difendersi dagli avvoltoi e dai branchi estranei, i dingo lanciarsi
alTinseguimento dei veloci canguri. Ci si affaccia così alla dura
realtà della vita.
Fra i lupi, anche i figli dell’anno precedente tornano a unirsi in
branco con la famiglia. All’età di cinque mesi avevano giurato fe­
deltà al padre, ed è questa fedeltà a riportarli dai genitori anche
qualora durante l’estate abbiano perso del tutto o quasi i contatti.
E probabile che al branco si uniscano anche altri figli più anziani,
che nel frattempo non si siano sposati andando a formare un pro­
prio gruppo.
Dei raggruppamenti dei lupi allo stato libero conosciamo an­
cora troppo poco per stabilire con esattezza da dove provengano
gli individui che all’inizio dell’inverno si riuniscono in un deter­
minato branco. Proprio questa manifestazione di fedeltà, però, in­
duce a credere che le cose si svolgano così come le ho descritte.
Ovviamente, allo stato di vita naturale questo legame con i ge­
nitori cesserà quando il giovane lupo, nel frattempo cresciuto,
guiderà attraverso l’inverno i propri figli, diventando a sua volta
lupo-guida. Ritengo, tuttavia, possibile che un lupo si ricongiunga
ai genitori insieme alla nuova famiglia e, in tal caso, un branco ab­
braccerebbe ben tre generazioni.
Poiché nel prossimo capitolo esamineremo più a fondo questi
rapporti stagionali, abbandoniamo per ora l’argomento e conside­
riamo invece l’importanza che la dura realtà della vita assume nella
fase della costituzione gerarchica del branco. Per spiegarlo, farò un
paragone con la formazione di un artigiano: terminato il periodo
della scuola e quello successivo, in cui l’esercizio delle attività ma­
nuali è ancora un gioco, il cucciolo diventa un lavorante al quale è
già concesso di collaborare con il maestro, ovvero il capobranco,
per imparare gli ultimi segreti del mestiere. Se dopo tre mesi ha im­
parato abbastanza, come fanno tutti i bravi apprendisti, se ne va
per un certo periodo in altri paesi, dove lo incontreremo in seguito.
179
Fin dalla fase precedente la costituzione gerarchica del branco,
il cucciolo gioca alla muta con i fratelli, mentre il padre stesso, nel
condurre il gioco, s’inventa tutti i trucchi possibili per far sì che i
piccoli, in futuro, siano in grado di smascherare le astuzie della sel­
vaggina. Ora la vita della muta non è più soltanto un gioco e per la
prima volta s’insegue una grossa preda. Cacciarla non è facile. Se­
condo quanto testimonia Louis Crisler, i lupi Trigger e Lady, cre­
sciuti presso gli uomini, tentarono di andare insieme a caccia gros­
sa, ma lo fecero solo dopo essere venuti a contatto, all’età di otto o
nove mesi, con degli altri lupi con i quali fecero sicuramente questa
esperienza. Sono certo che dei lupi di cinque o sei mesi non tenta­
no nemmeno di avvicinarsi ad animali più grossi di loro e, proba­
bilmente, non lo farebbero nemmeno in seguito, se non lo imparas­
sero dai genitori o da altri lupi già esperti. Lo stesso capita ai nostri
cani. Un bel giorno un bravo animale viene indotto da un compa­
gno a vagabondare, ed è finita: fino a quel momento non aveva mai
osato attaccare una preda, ma da quel giorno in poi lo farà.
Fino a che punto l’arte della caccia si debba imparare è una
questione cui ho già accennato. Sicuramente, come dimostrerò in
seguito, la caccia ad animali relativamente piccoli non s’impara
dai genitori. La caccia grossa, invece, è probabilmente una forma
filogeneticamente più recente di procacciarsi il cibo, propria dei
lupi, i cui parenti più prossimi e più stretti, ovvero il coyote e lo
sciacallo, non sono, come è noto, dei cacciatori di grosse prede,
d’altronde, anche per quanto riguarda la struttura del corpo e il
comportamento sono tuttora più vicini alla forma originaria. Per
la caccia grossa non si è perciò ancora sviluppato un comporta­
mento istintivo corrispondente e, di conseguenza, si rende neces­
saria l’abile guida dei genitori già esperti.
So bene che, a questo punto, verrebbe da porsi la classica do­
manda: ma quali sono stati i primi genitori che hanno insegnato ai
figli, e loro da chi hanno imparato? Non è una domanda peregri­
na, perché dev’esserci stato un momento in cui si è “scoperto” di
poter cacciare grossi animali cooperando insieme. E, tuttavia, inu­
tile tentare di formulare delle teorie per stabilire se a essere assali­
to per la prima volta fu un giovane animale isolato dal gregge, o
uno anziano, magari ferito. In questo contesto, ciò che interessa
sottolineare è che, come si è ripetutamente osservato, negli anima­
li si possono sviluppare delle vere e proprie tradizioni, che si tra­
180
mandano di generazione in generazione. Ma per il momento fet
miamoci qui.
La tradizione della caccia grossa può essere trasmessa soltanto
se esistono le premesse descritte in precedenza: disciplina assolu­
ta, stretta cooperazione, riconoscimento di un capo esperto e,
quindi, fedeltà a questo capo. Trasmettere queste qualità essenzia­
li, attraverso il patrimonio ereditario, anziché dei modelli com­
portamentali innati relativi alla caccia grossa, si è rivelato decisa­
mente molto più vantaggioso. Se tutto fosse stato guidato dall’i­
stinto, infatti, si sarebbero dovute stabilire diverse forme di caccia
a seconda dei vari tipi di animale. Nell’habitat dei lupi esistevano
un tempo, oltre agli alci, alle renne, ai cervi e alle antilopi asiati­
che, tuttora esistenti, cavalli e bovini selvatici. Le cose si sarebbe­
ro, dunque, complicate perché si sarebbe dovuto sviluppare uno
schema innato per ogni specie animale, in modo che la vista, ad
esempio, di un cavallo selvaggio stimolasse il comportamento
istintivo per la caccia a questo animale, e così via. Se però i lupi di
una determinata regione si fossero specializzati esclusivamente in
una specie, alla scomparsa di questa, sarebbero morti di fame.
Pertanto, per cacciare grossi animali, la cui cattura è resa diffi­
cile dalla statura, dall’abitudine di vivere in gregge e dal compor­
tamento di difesa, la soluzione migliore, in termini di elasticità e
prospettive, era senz’altro quella basata sulla coesione sociale e
sulla trasmissione delle esperienze raccolte. Grazie alle ampie
possibilità di adattamento che offre, essa diventa una garanzia per
la sopravvivenza della specie, anche alle rigide temperature del­
l’inverno nordico. Tuttavia, fu proprio questo a risultare fatale al
lupo. La sua disponibilità nei confronti dell’ambiente gli fece in­
tuire subito che le grandi greggi raccolte dagli uomini forniscono
prede molto più facili da conquistare, e perciò attirò su di sé l’o­
dio del bipede umano al punto di essere etichettato come pericolo
per l’uomo - cosa che il lupo non è affatto - e di diventare una spe­
cie in via d’estinzione, per via dello sterminio perpetrato negli ultimi
decenni. Questo è il destino dei lupi, come pure dei dingo, divora­
tori di pecore.

181
Luomo come capobranco
L'organizzazione di un branco presuppone che gli individui gio­
vani, sotto il comando del lupo-guida, imparino come comportarsi
a caccia, come stanare la selvaggina e quale ruolo spetti a ogni ele­
mento, secondo una rigorosa disciplina. L'organizzazione del bran­
co consente di raccogliere esperienze attraverso la cooperazione.
Con queste basi, il cane giovane entra in un nuovo stadio del-
l’apprendimento. A quest’età l’azione comune, condotta sotto la
guida severa ma ambita di un’autorità, è prevista dalla natura e,
perciò, per il cucciolo rappresenta una necessità. Si aspetta qual­
cosa dall’uomo, che ai suoi occhi ha assunto la funzione di guida,
pur continuando a essere anche l’equivalente di un genitore e di
un amico. Infatti, poiché è sempre l’uomo a procurare il nutri­
mento, persiste il rapporto genitore-figlio. Il cane aspira a quest’a­
zione comune con l’uomo ed è disposto a collaborare con gioia se
precedentemente ha instaurato con lui un indissolubile rapporto
di fiducia. Se in questo periodo della sua vita, non offriamo al cuc­
ciolo nulla di simile e lo abbandoniamo a se stesso, gli impediamo
di svilupparsi come personalità sociale e di diventare un buon
partner per l’uomo.
A questo punto, occorre fare una netta distinzione fra gioco e
lavoro, tenendo però presente che quello che noi definiamo lavoro
per il cane è pur sempre un gioco, anche se finalizzato all’appren­
dimento. Mi spiego meglio: giochiamo pure con il nostro cane,
senza nessuno scopo preciso, liberi e spensierati, perché per lui è
un bisogno. Tuttavia, distinguendo chiaramente i due aspetti, cer­
chiamo anche di sostituire le esercitazioni della caccia in branco
con degli esercizi mirati. Ovviamente, ciò dipende da quello che il
nostro cane deve diventare, e in tal senso esistono vari programmi
di addestramento a seconda della specializzazione. Nel caso in cui
non debba diventare un cane da utilità perché è “soltanto” un deli­
zioso barboncino o un vispo fox terrier, dovremmo inventare qual­
cosa per sviluppare, con reciproca soddisfazione, le tendenze e le
predisposizioni che abbiamo ormai imparato a conoscere.
Mi viene in mente un barboncino, che non riuscirò mai a di­
menticare perché è stato la prova vivente di ciò che un intelligente
amico degli animali riesce a risvegliare nella psiche di un cane. Eb­
bi il piacere di conoscere, presso la sede della televisione austria­
182
ca, sia il padrone che il cane in questione. Rolf Kutschera, diretto­
re del Theater an der Wien, e il suo barboncino parteciparono al­
la mia trasmissione sui cani, offrendo un ottimo esempio di un sa­
no rapporto fra uomo e cane, che lui spiegò così: “Parto dal pre­
supposto che un cane è un essere fatto per imparare e che, se non
si tiene conto di questa esigenza, s’istupidisce e si atrofizza psichi­
camente. Giocando con il mio barboncino, non solo gli ho inse­
gnato, fin da piccolo, ogni possibile esercizio di bravura, ma sono
andato oltre. In passato avevo avuto un cane da pastore e sapevo
come si svolgeva l’addestramento di quella razza. Ciò che riesce a
fare un cane da pastore, mi sono detto, riuscirà a farlo anche un
barboncino. I fatti mi hanno dato ragione. Il barboncino ha impa­
rato con estrema facilità tutto quello che di solito esegue un cane
poliziotto, e per di più gli è piaciuto moltissimo”. Questo mi rac­
contò Rolf Kutschera nel corso dell’intervista, mentre il barbonci­
no, a conferma delle sue parole, mi leccava il viso. Era un cagnoli­
no molto cordiale, non mostrava il minimo timore di fronte ai ri­
flettori e alle telecamere, ed eseguiva tutti i suoi numeri senza far­
si pregare, anzi, a volte - cosa piuttosto notevole - senza che gli
fosse neppure richiesto esplicitamente. Si divertiva e basta!
Chi raggiunge un simile risultato riesce a dare un significato al­
la vita del proprio cane, consentendogli di sviluppare al massimo
le sue potenzialità. Questo tipo di sviluppo ha necessariamente
una portata molto maggiore dell’abilità che l’animale è in grado di
esibire, ma non è questo l’importante. Molto più importante è che
imparare tutti questi numeri, o i lavori che rientrano nell’adde­
stramento di un cane da utilità, promuovono a fondo l’attività ce­
rebrale. I centri superiori del cane, pur non raggiungendo le di­
mensioni che hanno nell’uomo, sono comunque capaci di notevo­
li prestazioni. Tale attitudine, però, va sprecata se manca l’eserci­
zio, che è la premessa essenziale affinché un cane trascorra la pro­
pria vita non soltanto secondo l’istinto, bensì con intelligenza.
Proprio in considerazione di ciò, un’altra importante premessa
è che l’animale si senta attaccato all’uomo, perché, apprezzando
la sua capacità d’insegnargli tante cose, lo ammira come capo­
branco. Questa libera interpretazione di ciò che il cane pensa del­
l’uomo non è affatto esagerata. A prescindere se si tratti di con­
specifici o dell’uomo, il cane si lascia impressionare più dalla su­
periorità psicologica che da quella fisica. Dei cani amici tra loro
misurano continuamente le proprie forze, ma non mettono mai in
discussione l'autorità. Sascha e Rana a volte si azzuffano con una
tale foga che agli occhi di un estraneo potrebbe sembrare una cosa
serissima. Rana mette volentieri alla prova la superiorità fisica del
maschio e lo provoca, tuttavia lo accetta incondizionatamente co­
me capo e, quando lui chiama, lei si precipita.
A volte capita che, tutta intenta a fare la smorfiosa davanti al
cancello dei dingo, Rana non si accorga neppure che Sascha la sta
aspettando davanti a casa. Se non basta che Sascha si diriga verso
di lei, facendole capire con il suo atteggiamento, ovvero rivolgen­
do il muso nella direzione desiderata, che la vuole portare via di lì,
allora si mette ad abbaiare con decisione contro un nemico imma­
ginario. Con questo trucco, riesce a richiamare Rana che, date le
circostanze, non abbandona l'amico e abbaia anche lei rabbiosa­
mente, guardandosi intorno nel tentativo d’individuare dove mai
si nasconda il fantomatico intruso.
Questo spirito di solidarietà nel pericolo si forma anch’esso du­
rante la fase dell’ordinamento del branco, in cui l’autodifesa è già
molto accentuata. Una lupa, da me allevata molti anni fa, manifestò
a quest’età una decisa tendenza a mordere persone a lei ignote o
poco conosciute. Non mi è difficile immaginare che la dedizione
incondizionata con cui un cane difende il proprio padrone nasca
proprio in questa fase. Se il giovane animale non impara adesso a
rispettare e ad amare l’uomo come autorità superiore, in seguito
non sarà in grado di fare del suo meglio per difenderlo.
Il giovane cane osserva con estrema attenzione il padrone, regi­
strandone la superiorità fisica ma, altresì, l’incoerenza o l’insicu­
rezza. Un cane sa percepire anche quando il padrone gli vuole di­
mostrare soltanto la propria forza fisica. Ne prende nota e al mo­
mento opportuno saprà dimostrarglielo. Se un cane ha un padro­
ne dall’animo rozzo, che basa la propria supremazia sulla forza
bruta, e quindi non trova in lui il “modello” superiore di un capo
intelligente, saggio e sicuro di sé, una volta adulto, riterrà proba­
bilmente che la sicurezza della propria esistenza può essere garan­
tita solo se lui stesso s’innalza a capobranco. A questo proposito,
vorrei ricordare che i giovani cani orfani hanno la capacità di so­
stituire le cure dei genitori perduti. Questa è, per l’appunto, una
situazione analoga. Di fronte a un padrone violento dominerà cer­
tamente la paura, poiché la superiorità fisica è percepita chiara-
niente dal cane, ma verrà il momento in cui l’animale riuscirà a di­
menticarla e lotterà con i denti per affermarsi.
La stessa cosa, anche se in maniera incruenta, si verifica nel ca­
so di cani allevati da affettuosissime vecchie signore, le quali non
desiderano altro che il bene del loro tesoro, e proprio per questo
commettono un errore dopo l’altro. Anche il più minuscolo cane
nano o da grembo ha un profondo bisogno di un grande maestro,
spesso in misura persino maggiore di qualche cane di grossa ta­
glia, e perciò in un clima di premure e di avvolgente affetto, così
apprezzato dal punto di vista umano, il cagnolino non trova nulla
che gli appaia degno di diventare il suo modello. Inevitabilmente,
tutti questi Fuffi e Cicci diventano dei veri e propri tiranni dome­
stici, che detengono il potere infischiandosene del resto.
Ci siamo, però, molto allontanati dal tema iniziale, cioè la cac­
cia collettiva dei lupi. Avevamo cominciato con l’osservare le ca­
pacità apprese e quelle innate nelle operazioni di caccia, un aspet­
to che ora andremo ad approfondire. Per quel che riguarda l’ap­
prendimento, può bastare ciò che abbiamo detto a proposito del­
la caccia grossa condotta da un intero branco di lupi. Vorrei sol­
tanto ricordare che nella caccia grossa non esistono morsi mortali
e mettere in relazione questo fatto con la possibilità, scoperta
piuttosto tardi, di cacciare della selvaggina di grandi proporzioni,
mi sembra abbastanza significativo. Il metodo per catturare dei
grossi animali è, secondo i nostri criteri, estremamente crudele: i
lupi che inseguono la selvaggina in fuga non si espongono al mini­
mo rischio e non assalgono la preda di fronte, bensì ai fianchi e al
ventre, squarciandone la cute addominale finché l’animale, esau­
sto, non cade. È possibile che i lupi assestino anche dei morsi alla
gola, ma soltanto quando non sussiste il pericolo di essere colpiti
dalle corna o dagli zoccoli della preda.
Se invece la preda è un animale di piccole dimensioni, le cose
cambiano. Ho già accennato al cosiddetto “balzo sul topo” come
comportamento innato. Ebbene, l’uccisione di una piccola preda
avviene con altrettanta precisione e abilità.
Un giorno, mi trovavo per caso alla finestra e osservavo le galli­
ne del vicino che razzolavano e becchettavano pacificamente sul
prato. All’improvviso, su tutto quel verde, schizzò un corpo fulvo,
un lampo luminoso sotto il sole che, con estrema precisione, si ab­
batté su una gallina senza darle il tempo di reagire. Gli altri polli si
185
dispersero fuggendo ad ali spiegate e schiamazzando per l’agitazio­
ne. Con la stessa rapidità con cui era arrivato, il fulvo predone
balzò via, tenendo tra le fauci la bianca preda a mo’ di trofeo. L’as­
salto, il morso alla gola e alla nuca, l’abbandono del campo, tutto si
era svolto in un baleno. Fu uno spettacolo davvero affascinante, la
cui brillante esecuzione mi entusiasmò. Un’azione così precisa po­
teva solo essere stata ottenuta dopo numerose prove.
In realtà, di prove non ce n’erano mai state. Si trattava della
prima gallina che Abo, un dingo maschio di sei mesi, catturava in
vita sua, ma che avrebbe inaugurato una lunga serie. Ero proprio
contento di aver assistito alla scena! Abo era cresciuto in casa, in­
sieme alla sorella Suki, e perciò era stato sotto controllo notte e
giorno. So con certezza che fino a quel momento, fatta eccezione
per alcuni topi, non aveva mai avuto occasione di catturare un ani­
male vivo. Aveva potuto osservare le galline da vicino, ma non im­
parare a ucciderne una, né fino ad allora gli era capitato di man­
giarne una morta. Com’era, dunque, possibile che il giovane ladro
di galline fosse così esperto nel mestiere? Istinto?
Se la cattura di un pollo, così come l’ho raccontata, si basasse
unicamente su schemi motori fissi, il cane dovrebbe possedere un
particolare istinto per ogni animaletto, un po’ come si è detto a
proposito della caccia grossa, in cui ogni preda richiede una diver­
sa forma di caccia e di uccisione. Non si può catturare una lepre
con la stessa tecnica con cui si abbattono un pollo o un topo. Una
caccia basata esclusivamente sull’istinto, se la può permettere sol­
tanto un predatore altamente specializzato, che si cibi di un unico
tipo di selvaggina. Il “balzo sul topo” si avvicina molto a una simi­
le concatenazione di schemi motori fissi, fra i cui elementi esisto­
no certamente poche - anche se relativamente poche - lacune da
colmare attraverso le coordinazioni acquisite, cioè mediante l’ap­
prendimento. A tali lacune si sopperisce con l’ausilio di preesi­
stenti disposizioni all’apprendimento. Ciò, ad esempio, avvalora la
supposizione che i canidi discendano da antichi mangiatori di to­
pi. Per quanto riguarda la caccia ad animali più grossi del topo,
come galline o lepri, se è probabile che gli schemi motori fissi rive­
stano una notevole importanza, è anche verosimile che qua e là si
aprano delle lacune decisive, le quali devono essere colmate per
adattare l’azione della cattura ai vari tipi di preda e alle diverse si­
tuazioni.
186
Non ho, però, risposto alla domanda su come Abo abbia impa­
rato a catturare un pollo con tanta precisione e abilità. La risposta
è: giocando con i suoi simili! Un esperimento molto rivelatorio è
stato condotto dallo studioso americano Fox, il quale ha allevato
separatamente sei cuccioli con il biberon, in modo che durante le
prime cinque settimane di vita non avessero alcun contatto con i
propri simili. Quando i cuccioli furono messi davanti all’immagine
di un cane, non ebbero nessuna reazione, poiché non gli diceva
proprio niente. In seguito, Fox fece giocare ogni cucciolo, per
trenta minuti esatti, con dei cuccioli allevati normalmente. Messi
di nuovo davanti all’immagine del cane adulto, i cuccioli tentarono
di mordere l’animale dipinto alla testa e alla nuca.
I cuccioli, cresciuti senza aver accesso ad alcun tipo di esperien­
za, avevano imparato in quel brevissimo lasso di tempo che, giocan­
do alla lotta, ci si agguanta alla testa e alla nuca. E evidente che, in
questo caso, si tratta di un apprendimento preadattato. La predi­
sposizione all’apprendimento, per la quale sono già previsti nel cer­
vello degli appositi “interruttori”, è però molto aperta. Con ciò vo­
glio dire che s’imprime un unico tipo di schema: ciò che si trova sul
collo ed è provvisto di occhi è la testa; afferrandola dietro, si riesce
a tenere fermo l’animale e ci s’impadronisce di qualcuno da scuote­
re (schema motorio fisso collegato con sensazioni di piacere). Non
dimentichiamo che il cane riconosce molto bene la nostra testa, e
che persino il cucciolo, per quanto piccolo, non appena è in grado
di vedere, capisce dove sono i nostri occhi e la nostra bocca, che su­
bito identifica con quella dei conspecifici. Osservare un pollo, an­
che solo per pochi minuti, è dunque sufficiente per capirne l’anato­
mia. La capacità di raggiungere con precisione l’obiettivo è frutto
dell’esercizio fatto giocando da cuccioli, come anche l’esperienza di
trascinare via una preda di notevoli dimensioni senza inciampare.
Ogni cucciolo sente il bisogno di trasportare degli oggetti piuttosto
ingombranti, come le nostre pantofole, un libro o una tovaglia, che
offrono ottime occasioni per allenarlo a sbranare la preda!
Forse, a tutto questo si aggiunge un’altra circostanza, che nel
caso di Abo è che tutto è andato magnificamente: basta immobiliz­
zare la preda, darle una rapida scrollata, e ci si porta a casa la galli­
na morta. Poiché le cose sono andate così bene, nel corso delle sue
ultime scorribande in paese Abo ha steso subito cinque polli uno
dopo l’altro - l’attivazione degli schemi motori fissi, soprattutto
187
quando si sono accumulati, è sempre accompagnata da un senso di
piacere.
Visto che siamo in argomento, passiamo ora a parlare dell’uti-
lizzo della preda. In primo luogo, è molto significativo che il botti­
no venga portato a casa. Questo, almeno, è il comportamento nor­
male. Chi toglie la gallina al cane da sotto il naso non fa che spin­
gerlo a essere più accorto in futuro e a cercarsi un nascondiglio
dove mangiarsela in pace. Avevo letto in un libro di Konrad Lo­
renz che è impresa assolutamente disperata far perdere a un dingo
l’abitudine di cacciare. Dal canto mio, non me ne sono mai mini­
mamente preoccupato, anzi, ho lodato Abo prendendogli il pollo
dalle fauci per poi restituirglielo più tardi. Cosi facendo, visto che
me li consegnavano puntualmente, ottenevo almeno di essere al
corrente del numero di polli abbattuti dai miei dingo. Inoltre, ave­
vo la possibilità di controllare se si trattava sempre di galline da
uova di prima qualità, come mi assicuravano i derubati.
Esaminiamo, ora, un altro schema motorio fisso, e precisamente
quello riguardante Tatto di spennare. Abo non aveva mai speri­
mentato prima nemmeno questo, eppure vi riuscì al primo colpo.
Si comincia strappando sistematicamente le penne dalla pancia.
Nel primo uccello che viene ucciso, il ventre è la prima cosa a esse­
re esaminata, almeno questo è ciò che ho osservato. Il cane la fiuta
e la tasta a lungo con il naso, il volatile viene rivoltato più volte e
ispezionato accuratamente. Alla fine, non c'è più dubbio che si
tratti proprio del ventre, il cui contenuto viene mangiato per pri­
mo. Ognuno ha i suoi gusti: per i cani, gli intestini ben ripieni sono
una prelibata leccornia!
Riassumendo, in un cane che viva allo stato selvaggio le capa­
cità esercitate durante i giochi dell’infanzia sono messe alla prova
in situazioni reali fra il quinto e il sesto mese. Una disponibilità al­
l’apprendimento particolarmente spiccata permette al giovane ca­
ne di continuare ad allenarsi e a perfezionare la sua capacità di
cacciare, affrontare o evitare un nemico, sotto la guida di un cane
anziano più esperto. Inoltre, consente di sperimentare i vantaggi e
le potenzialità delle azioni collettive, le attività più complesse con­
sentite dalla cooperazione e il mutuo soccorso che quest’ultima
offre, nonché di adattare la propria posizione in base alla superio­
rità psichica dell’animale-guida. Riconoscere un’autorità gli pro­
cura soddisfazione e sviluppa la sua fedeltà di gregario.
188
Nella vita di un cane che si avvia verso la maturità, questo è,
dunque, un altro periodo importante che, come tale, dev’essere ri­
spettato anche nella convivenza con l’uomo. L’uomo deve imperso­
nare il maestro esperto e sicuro di sé, grazie al quale le predisposi­
zioni dell’animale si svilupperanno nel modo più opportuno, man­
tenendo sempre un atteggiamento di apertura nei confronti del
mondo circostante che è quello del nostro amico a quattro zampe.
VI
Pubertà e maturità

Accogliendo la proposta dei cinologi Menzel, marito e moglie,


trattando del giovane cane è comunemente accettato parlare di
una fase di pubertà, che ha inizio alla fine del sesto mese e termi­
na col subentrare della capacità riproduttiva, che in molti nostri
cani compare fin dal settimo mese, rendendo così la fase puberale
molto breve. Nella mia Suki, ho potuto osservare il primo estro
vero e proprio - il calore della cagna - a sette mesi esatti, e ho al­
tresì constatato che a questa stessa età i maschi sono già in grado
di fecondare.
Esistono, tuttavia, molte razze i cui esemplari non raggiungono
la maturità sessuale prima degli undici o dodici mesi. Si dice che
non si dovrebbe far montare una cagna prima del quattordicesi­
mo mese, ma io penso che si possa aspettare tranquillamente il
ventesimo o il ventiquattresimo mese prima di farla accoppiare,
soprattutto se si tratta di una razza dalla struttura robusta, che de­
ve avere il tempo di “maturare”.
Sui problemi dell’allevamento tornerò in seguito, ora invece
vorrei soffermarmi sulla fase puberale, la cui durata è, come ab­
biamo visto, molto variabile. Sotto il profilo del comportamento,
non si riscontra nulla di nuovo. Pensiamo, ancora una volta, al
branco di lupi: i giovani cacciano in società con i genitori, con 1
quali rimangono fino a gennaio o febbraio. In questo periodo si
perfezionano e approfondiscono le esperienze compiute nella fase
precedente, quella dell’ordinamento gerarchico del branco.
191
In maniera analoga, anche il nostro rapporto con il cane non
subisce trasformazioni. Dobbiamo solo preoccuparci che esista un
buon affiatamento, che nel frattempo avremo esteso fino a far ese­
guire all’animale degli esercizi di sottomissione. Se pensiamo d’in­
traprendere un regolare addestramento del cane, e del suo istrut­
tore, cerchiamo di trovare il posto giusto, e lasciamo all’occhio
esperto dell’istruttore capo la decisione di quando iniziare. Ci so­
no cani che maturano prima, mentre altri hanno bisogno di più
tempo. L’esperto saprà darci consigli utili su cosa intraprendere
sin da subito e cosa rimandare, poiché a volte, proprio a quest’età,
un eccesso di addestramento e di lezioni può rivelarsi contropro­
ducente. L’ambizione di avere nel più breve tempo possibile un
cane perfettamente addestrato ed educato ha già rovinato molti
animali. La nostra prima virtù, nel rapporto con il nostro cane,
dovrebbe essere sempre la pazienza - pensiamo a quanta ne ha lui
con noi!

I controlli olfattivi
Poiché si avvicina l’epoca in cui il nostro maschio, alzando la
zampa, dimostra che sta diventando adulto, mentre la cagnetta sta
per entrare in calore per la prima volta, tratterò ora un tema stret­
tamente connesso a questi eventi, ovvero il comportamento d’e­
spressione relativo all’odore individuale. Nel cane, per la sua stessa
natura, queste “strutture d’espressione olfattive” rivestono un’e­
norme importanza, e a esse è in gran parte subordinato il compor­
tamento espressivo che abbiamo già descritto come “espressione
visiva” o “espressione ottica”.
L’organo interessato è il naso, di cui ho già spiegato il grado di
efficienza. Quando due cani, che non si conoscono, s’incontrano,
avanzano l’uno verso l’altro con il collo e la coda tesi orizzontal­
mente, tentando di percepire da lontano il rispettivo odore. Proce­
dendo in questo modo, si avvicinano gradualmente fin quasi a sfio­
rarsi con la punta del naso. Questo è il controllo “naso nasale”, ov­
vero quel fiutarsi naso a naso che si nota solo di rado fra cani che si
conoscono molto bene fra loro, poiché in questo caso sono per­
messi controlli molto più intimi. Tutto il corpo è teso in un atteg­
giamento che tiene a bada l’assalto: in questo modo, i cani sono si­
192
curi di non essere aggrediti di sorpresa e hanno tempo di studiare
la reazione e le intenzioni dell’altro. Se quest’ultimo, ad esempio
un maschio più anziano, dovesse assumere un atteggiamento poco
cordiale o addirittura rizzare i peli, c’è la possibilità di ritirarsi di
buon grado, non volendo raccogliere la provocazione. Se, invece,
l’altro è ben disposto e fa vedere, scodinzolando, di non avere in­
tenzioni nascoste, il contatto naso a naso introduce un cerimoniale
di convenevoli basati sulle strutture d’espressione olfattive.
Il contatto naso a naso si utilizza anche durante i preliminari
dell’accoppiamento, quando si sta lentamente preparando il calore
della cagna, oppure talvolta anche fra cani amici, che si avvicinano
frontalmente fino a toccarsi con la punta del naso. In questi ultimi
due casi, però, l’atteggiamento del corpo non tradisce tensione, co­
me di solito avviene fra cani sconosciuti, anzi, cominciano subito a
scodinzolare amichevolmente, mentre i movimenti sono spontanei
e rilassati. Un po’ come se si salutassero con un “Ciao, amico, ci
conosciamo già, il tuo naso non mi è nuovo! ”.
Per quanto il naso umano si differenzi da quello canino, il cane
sa riconoscerlo, e perciò quando il nostro animale tende il proprio
naso di fronte a noi, sappiamo che cosa vuole esprimere. Se du­
rante le nostre passeggiate incontriamo un cane che non mostra la
minima tendenza ad annusare nel modo sopra descritto il nostro
Rex o la nostra Fifì, essendo un animale sicuro della propria capa­
cità espressiva, vuol dire c’è qualcosa che non funziona. Si trat­
terà, probabilmente, di una bestia rozza e scortese, priva d’istinto.
Diversa è la situazione qualora un cane estraneo penetri nel giar­
dino affidato alla sorveglianza del nostro. In tal caso, si sorvola sui
saluti, perché occorre far capire all’altro in modo chiaro che lì
non c’è niente da cercare e, se necessario, sottolineare il concetto
mostrando i denti. La cosa funziona, infatti nessun cane combatte
volentieri in un territorio a lui estraneo. I cani delle grandi città,
che hanno una vasta esperienza, talvolta anche sgradevole, d’in­
contro con i loro simili, non sempre sono interessati a conoscere
nuovi cani. Distolgono lo sguardo e, all’improvviso, si mostrano
occupatissimi a fare qualcos’altro. Se il nostro è un cane cortese,
rispetterà quest’atteggiamento, ritirerà il suo saluto e proseguirà
per la sua strada, facendo finta di nulla. Per trarre delle conclusio­
ni sul comportamento istintivo del cane occorre, dunque, consi­
derare tutte le circostanze!
193
Dopo il controllo naso a naso, i cani procedono l’uno lungo l’al­
tro, scorrendo il naso fino all’estremità opposta del corpo. Ci tro­
viamo di fronte alle manifestazioni delle strutture d’espressione ol­
fattive, di cui ora ci occuperemo. Non partiremo, però, dall’estre­
mità posteriore dell’animale, bensì esamineremo prima le altre
possibilità.
Tra le strutture d’espressione olfattive che il cucciolo, nella
quarta settimana di vita, scopre nei fratelli, quelle relative alle zo­
ne del collo e della testa rivestono inizialmente un’importanza se­
condaria. E probabile che il cucciolo le esplori con particolare in­
teresse nella madre e un po’ più tardi nel padre, giocandoci insie­
me. Conosciamo già il gesto di affondare il naso fiutando fra il pe­
lo che ricopre queste parti del corpo, derivato direttamente da
quello del lattante.
Questo comportamento si manifesta, innanzi tutto, nei preli­
minari dell’accoppiamento, così come lo descrivono Seitz ed Ei-
sfeld, che inoltre ne sottolineano il carattere d’invito. Secondo
quanto ho potuto notare, anche il cucciolo più grandicello lo fa
con la mamma, e a volte la cosa può essere interpretata come un
invito al gioco. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non ve­
nisse da chiedersi: perché quelle della testa, del collo e delle spalle
sono le uniche zone interessanti per fiutare e affondare il naso?
Perché non altri posti, come la schiena o i fianchi?
Si potrebbe obiettare che si tratta di una questione puramente
accademica che noi, in quanto semplici proprietari di cani, non
siamo tenuti a risolvere. Tuttavia, questo problema ci riporta a un
modello comportamentale complementare, di cui senza dubbio ci
saremo occupati almeno una volta nella nostra carriera di proprie­
tari di cani, non senza un pizzico di disagio. A volte tale compor­
tamento ci sembra addirittura ripugnante, tanto da farci quasi
perdere la voglia e il piacere di possedere un cane. Chi ha una cer­
ta esperienza canina, avrà già capito che sto parlando di quella
strana abitudine dei cani di profumarsi collo, testa e spalle, con
sostanze fortemente odorose, un eufemismo per indicare freschi
lasciti di bovini, uomini, maiali e altri animali, il contenuto verde
acceso dello stomaco di un ruminante e talvolta persino la vernice,
ad esempio di uno steccato tinteggiato di fresco. Mi è capitato di
vedere una cagna strofinarsi contro un palo che era servito a pa­
recchi maschi per alzare la zampa. Osservai questo comportamen­
194
to per la prima volta in un cucciolo di poco più di tre mesi, cui era
stato dato - cosa per lui nuovissima - del pastone per cani. Ne
sottrasse un pezzo ai fratelli, lo gettò a terra e ci si strofinò il collo
e la testa più volte, e solo alla fine si decise a mangiarlo. Un cane
cui sia presentata una ciotola per il cibo diversa dalla solita, come
può capitare spesso in un allevamento numeroso come il mio, pri­
ma di cominciare a usarla la sfregherà con collo, testa e spalle.
L’ho visto fare anche con le ciotole dell’acqua.
Se i miei dingo dal bel pelo fulvo hanno il treno anteriore ver­
de vivo, la cosa non disturba troppo. Il prodotto dello stomaco
dei ruminanti, che viene presentato loro così com’è, senza essere
aperto, è una vera leccornia e costituisce la verdura più naturale
che si possa offrire a un cane. Quando, però, il nostro cane torna
a casa dalla passeggiata con il collo sporco di escrementi, la cosa
non è più tanto divertente. Purtroppo, l’unico rimedio è fare at­
tenzione che non succeda e gridargli un sonoro “No!” nelle orec­
chie, trascinandolo via tutte le volte che ci si accorge delle sue in­
tenzioni. Se invece il nostro animale si limita ad annusare l’angolo
di una casa o di una staccionata per poi strofinarcisi contro, la co­
sa, tutto sommato, è sopportabile, infatti - a meno che la staccio­
nata non sia verniciata di fresco - si tratta solo dei contrassegni
odorosi dei suoi simili, che il nostro naso non è comunque in gra­
do di percepire. Se invece il cane, dopo aver fiutato per terra
qualcosa di poco gradevole si ferma per toccarlo con la parte an­
teriore del corpo, piegandosi di lato, si consiglia d’intervenire!
Spesso, dopo essersi strofinato con il collo, da una parte e dall’al­
tra, il nostro amico continua a rotolarsi, completamente estasiato,
in quei profumi che risultano disgustosi anche alle nostre narici
sottosviluppate.
Dare leggeri colpi con il naso e annusare nel pelo di un con­
specifico potrebbe dunque voler dire: “Quale altro meraviglioso
profumo hai usato oggi?”. Personalmente, non conosco la ragione
per cui i nostri cani si profumano in questo modo. A volte penso
che il motivo potrebbe essere che una scia di profumo, così mera­
viglioso, fa risaltare l’aspetto del maschio. Un’altra più probabile
è, invece, che in questo modo l’odore individuale, ovvero quello
dell’animale predaceo, viene mascherato perché sia più facile 1 av­
vicinamento alla preda senza che questa se ne accorga. Ma non è
che una mera supposizione.
195
Chi vive con un cane per la prima volta non si abitua tanto facil­
mente all’idea che il suo caro animale dimostri un interesse così
spiccato per l’odore di quelle parti del corpo dei conspecifici - e
spesso, ahimè, anche del suo amico bipede! - su cui in genere si
preferisce sorvolare. Poiché la maggior parte dei libri sui cani cele­
bra l’animo meraviglioso di quest’animale, la sua fedeltà fino alla
morte, il suo irrefrenabile anelito a essere più abile dell’uomo, in­
somma, ne mette unicamente in risalto gli innegabili lati positivi, ri­
tengo giusto parlare anche dei lati che si potrebbero definire nega­
tivi. Questa definizione sarebbe, forse, appropriata nel caso in cui
un allevamento artificioso, dissennato e privo di scrupoli, trasfor­
masse delle creature sane e naturali in poveri esseri degni di com­
passione, rendendosi colpevole nei confronti della specie canina.
Ed è forse appropriata anche nel caso in cui il cane, a causa di una
mentalità e di un trattamento inflessibili, sia diventato un nevrotico
o sia ridotto a un asmatico ammasso di carne. Io, però, sono del pa­
rere che i modelli comportamentali naturali - che si sono formati
nel corso di milioni di anni e sono al servizio di una natura sociale
tanto evoluta da aver permesso un ottimo affiatamento con l’uomo
- non possano essere definiti negativi, anche se si manifestano se­
condo modalità che non sono di nostro gradimento.
Mi è capitato spessissimo di vedere delle persone, di solito mol­
to ragionevoli, mettersi a urlare a gran voce tirando il guinzaglio
perché al loro cane era saltato in mente di annusare la zona sotto la
coda del cane del vicino. A chi dimostra così scarsa comprensione
per il mondo canino, dovrebbe essere proibito per legge di avere
un cane! E mia precisa intenzione non risparmiare al lettore questo
importante, anzi fondamentale capitolo a proposito delle strutture
d’espressione olfattive, che costituiscono un elemento centrale nel­
la vita sociale del cane: per non far torto alla sua natura, dobbiamo
considerare senza preconcetti il significato autentico di questi gesti
e cercare di capirli, almeno per quanto è possibile farlo a degli es­
seri non osmatici come noi.
La natura, infatti, ha fatto sì che nei cani, intorno all’ano, si tro­
vino delle ghiandole cutanee che secernono sostanze odorose. Si
tratta delle ghiandole anali, perianali e del sacchetto dell’ano. Le
secrezioni di queste ghiandole noi non le percepiamo nemmeno,
mentre per il sensibile naso del cane hanno lo stesso valore che ha
per un doganiere il passaporto di una persona. Così come il passa­
196
porto serve a identificare un viaggiatore, un determinato odore
serve al cane per stabilire l’individualità di un conspecifico.
Il paragone è calzante anche sotto un altro aspetto. Se, infatti,
qualcuno ci chiede il passaporto o un altro documento, la prima
cosa che facciamo è assicurarci che si tratti di persona autorizzata
a farlo. Deve, dunque, prima qualificarsi, a meno che non indossi
un’uniforme. Il funzionario di polizia o il doganiere sono autoriz­
zati a compiere determinate operazioni di controllo e, durante l’o­
rario di servizio, godono di una speciale prerogativa sociale nei
nostri confronti.
Nella società canina il controllo di una certa secrezione ghian­
dolare costituisce una “prerogativa sociale”, che spetta in partico­
lare ai maschi di rango elevato. Essi sono autorizzati a controllare
e a farsi controllare senza limiti di sorta, tant’è che mostrano
ostentatamente la regione anale. Proprio come il doganiere si qua­
lifica per mezzo della divisa che indossa, il cane si qualifica per
mezzo dell’atteggiamento che assume. Presentando la regione
anale, dichiara la propria superiorità. Se l’altro cane l’accetta, lo
dimostrerà tendendo a nascondere la propria, altrimenti affron­
terà il conspecifico assumendo lo stesso atteggiamento.
Qui, pertanto, entrano in gioco anche delle strutture d’espres­
sione visive, anzi, all’inizio predominano addirittura, e dipende da
questo se ritenere lecito o meno annusare. Non possiamo stabilire
se l’odore individuale dica qualcosa di più di un semplice “Ecco­
mi qua” o se, ad esempio, non riesca anche a esprimere la colloca­
zione gerarchica dell’individuo. Visto però che, per dimostrare il
proprio grado, esistono dei segnali visivi così appariscenti, po­
tremmo forse dedurre che, in realtà, l’odore si limita a contraddi­
stinguere la singola individualità.
A ogni modo, come afferma Schenkel, il controllo anale è una
manifestazione molto efficace d’iniziativa sociale. Durante le no­
stre passeggiate abbiamo sufficienti occasioni di constatarlo: dopo
il controllo naso a naso, due cani maschi al primo incontro stabili­
scono un contatto fisico per approfondire la conoscenza recipro­
ca e per imprimersi nella memoria il rispettivo odore individuale.
Si annusano posteriormente con cura, poi fra i due animali s in­
staura una relazione e la conoscenza è fatta.
Soffermiamoci sull’immagine olfattiva. Certe ghiandole della re­
gione anale conferiscono un particolare odore anche agli escremen­
197
ti. Il nostro cane, annusando lo sterco di un suo simile, è in grado di
stabilire se ne conosce il produttore, e se si tratta di un maschio o di
una femmina. I cani, oltre a essere animali sociali, sono molto legati
al territorio. Per loro è, dunque, importante sapere chi sia stato nel
territorio da loro frequentato e quando. E noto che i cani sono in
grado di stabilire, in base all’odore, una successione cronologica.
Così, il mucchietto di sterco al margine della strada informa il no­
stro cane che il Fido del vicino oggi è stato portato fuori dal padro­
ne molto prima del solito. Per lui è una constatazione importantis­
sima. Le creature socievoli prendono volentieri nota d’informazioni
del genere. Anche la vicina di fronte, affacciata alla finestra, registra
che oggi abbiamo fatto la passeggiatina col cane alle due anziché al­
le tre, e immagina subito chissà cosa, perché dietro dev’esserci sicu­
ramente una ragione interessantissima. Da parte nostra, siamo per­
fino troppo pronti a bollare un comportamento del genere come
curiosità importuna. E probabile che lo sia, ma quest’atteggiamen­
to affonda le sue radici nel sano comportamento sociale dell’uomo.
All’epoca in cui si andavano sviluppando le strutture sociali umane,
tuttora esistenti, sapere cosa veniva compiuto e da chi, e quando e
dove, costituiva per la tribù un elemento vitale per assicurarsi la so­
pravvivenza. Sotto quest’aspetto, l’uomo si comporta ancora come
un membro dell’orda primitiva, proprio come il nostro cane, che ci
segue ubbidiente al guinzaglio ma, per quanto riguarda il compor­
tamento e le caratteristiche psicologiche, rimane un animale da
branco. Se in molti casi riusciamo a interpretare antropomorfica­
mente i suoi modelli comportamentali, ciò dipende dal fatto che
nel cane e nell’uomo esistono effettivamente delle strutture sociali
analoghe.
Il cane che già conosce l’odore individuale di un conspecifico
riesce a stabilire se l’amico ha percorso di recente via Roma anche
senza che qua e là ci siano i soliti mucchietti. Gli basta fiutare le
impronte di sudore delle zampe!
Questa traccia odorosa è lasciata dai duri tubercoli digitali che
contengono numerose ghiandole sudoripare capaci di un’abbon­
dante secrezione. Come chi s’interessa almeno un po’ di zoologia
sa bene, nel cane le ghiandole sudoripare della pelle sono atrofiz­
zate. Il cane suda soltanto sotto le zampe, il che, tuttavia, non è
sufficiente per mantenere costante la temperatura del corpo, per
cui l’animale deve regolarla ansimando, cioè respirando forte nella
198
caratteristica maniera a bocca aperta e lingua penzoloni. Un cane
che cammina, dunque, lascia dietro di sé una scia di odore che
non passa certo inosservata a un naso canino in buona salute. Il
nostro cane la segue fiutando per un tratto, dopo di che sa con
precisione che il Fido del vicino è passato di là una mezz’ora pri­
ma, per l’esattezza diretto a piazza Duomo. A questo punto sor­
gono due domande: un cane è in grado di stabilire una parentela
fra l’odore individuale anale e la traccia odorosa dei tubercoli di­
gitali? E da cosa riconosce la direzione di una pista?
Per rispondere alla prima domanda, è stato compiuto un sim­
patico esperimento che il grande promotore dell’etologia, Otto
Koehler, illustrò nel 1956 nell’ambito di un suo intervento al Con­
gresso Mondiale di Cinologia di Dortmund. A proposito dell’ad­
destramento basato sull’olfatto, messo a punto dai Menzel, marito
e moglie ed entrambi cinologi, Koehler riferiva quanto segue:
“Tutti i presenti, una decina di persone, furono invitati a racco­
gliere da terra una pigna di abete fra le molte sparse a terra, e a te­
nerla in mano per un minuto. Poi, dopo averla contrassegnata in
maniera quasi impercettibile, gli si chiese di gettarla di nuovo a
terra. Sul posto venne condotto un cane, che annusò uno di noi a
caso, sotto le ascelle. Il suo istruttore lo lasciò libero e al comando
“Cerca!” l’animale si mise a frugare fra le pigne finché non ne
scelse una che consegnò all’istruttore. Tutte le volte che l’esperi­
mento fu ripetuto, la pigna riportata era effettivamente quella get­
tata dalla persona che il cane aveva annusato. Un cane così adde­
strato riconosce, dunque, la parentela tra l’odore delle ascelle e
quello della mano di un uomo, una mirabile astrazione sensoriale,
di cui nessun essere umano sarebbe capace”.
Pertanto, possiamo senz’altro immaginare che l’odore indivi­
duale anale e il sudore delle zampe di un cane siano riconosciuti
come appartenenti allo stesso individuo. Non c’è bisogno di sof­
fermarci sui motivi per i quali questa facoltà assume un’importan­
za enorme nella vita di un branco di lupi.
Stabilire la direzione nella quale procede una pista presuppone
una capacità di astrazione non meno sorprendente. E risaputo che
l’odore tende a diffondersi, cioè si spande, poiché le molecole che
lo compongono si spostano dal punto in cui sono state emesse. Col
trascorrere del tempo, di queste labili tracce rimane sempre meno,
fino a un momento in cui la specificità dell’odore non è più perce­
199
pibile. Se però una pista presenta ancora molecole di odore in quan­
tità sufficiente, il cane che la sta seguendo e controllando col naso a
terra è in grado di riconoscere, dalla diminuzione dell’intensità, in
quale direzione si è mosso l’animale che l’ha preceduto: se segue la
pista in senso contrario, l’odore si attenua, se invece la segue nel
senso in cui si è creata, l’odore si fa più penetrante.
Questa piccola digressione sul lavoro su pista integra quanto
detto a proposito del gioco, e serve inoltre a chiarire quanto siano
importanti le strutture d’espressione olfattive per il cane, quale ani­
male da branco.
Per un maschio, tuttavia, la scoperta più eccitante è l’odore di
una cagna in calore. Che si tratti di un odore molto pungente, an­
che a distanza, lo sa bene chi possiede una cagnetta e abita in una
zona frequentata da vari cani. Ad esempio, di recente mi hanno
telefonato da un paese vicino per chiedermi se per caso qualcuno
dei miei cani mancasse all’appello, poiché improvvisamente ne
erano comparsi un bel po’ dalle loro parti, che nessuno aveva mai
visto prima. Mi sono venuti i sudori freddi perché la fuga di un
dingo solitamente coincide con un’autentica decimazione del pa­
trimonio avicolo locale, ed è chiaro che i miei dingo hanno gusti
raffinati, visto che, dai conti che mi arrivano, sembrano predilige­
re galline da uova molto costose e galli di razza. Sono corso a con­
tare i miei cani e con un sospiro di sollievo ho constatato che non
ne mancava nessuno. Allora la mia collaboratrice è andata a dare
un’occhiata nel paese in questione, e in effetti ha trovato una nu­
trita assemblea di maschi, tra cui ne ha riconosciuti un paio che
provenivano da paesi distanti parecchi chilometri.
La funzione dell’odore acre di una cagna in calore, per noi im­
percettibile, è evidente. Ancora una volta, è in gioco la conserva­
zione della specie, che è affidata prevalentemente alla riproduzio­
ne. Lestro di una cagna non deve passare inosservato, tanto più
che si verifica al massimo due volte all’anno e che, in genere, una
cagna contribuisce all’accrescimento della propria specie solo per
pochi anni. E fondamentale, quindi, che il segnale che il suo siste­
ma riproduttivo è pronto per la fecondazione sia percepito anche
a una certa distanza. Tutto quello che avviene in relazione all’odo­
re tipico dell’estro sarà trattato in uno dei prossimi paragrafi.
Per quanto riguarda il fiuto, resta ancora da dire che, nell’incon­
tro fra due cani che non si conoscono, non viene sondato soltanto
200
l’odore individuale anale, ma anche quello dei genitali, perché ave­
re a che fare con un maschio piuttosto che con una femmina fa una
grande differenza. Per concludere, consideriamo ora se, nella con­
vivenza fra cani, questo controllo ano-genitale, ovvero l’annusa-
mento reciproco delle parti posteriori, assolva un’altra funzione ol­
tre a quella d’individuare l’odore. Abbiamo già accennato alla pre­
sentazione spontanea di queste zone, che equivale a un’esibizione
di forza e di potenza. L’azione contraria, cioè il nasconderle, signifi­
ca umiltà e sottomissione, a volte persino paura, e anche in questo
caso i segnali ottici contribuiscono a integrare l’immagine olfattiva.
Il controllo effettuato su un membro del branco conosciuto da tem­
po diventa, pertanto, una dimostrazione di superiorità gerarchica,
un gesto prevalentemente simbolico, con il quale il capobranco ri­
badisce la propria autorità. I maschi che non occupano un rango
elevato non esercitano mai tale controllo, poiché non rientra tra le
loro prerogative. Nemmeno le cagne lo fanno, se non eccezional­
mente, ad esempio quando si tratta dei cuccioli che, ovviamente,
per tutto il periodo in cui rimangono nella cuccia, sono sottoposti a
continui e ripetuti controlli ano-genitali. Quando iniziano a scor­
razzare intorno a essa, gli stessi controlli sono effettuati dal padre,
in primo luogo per conoscere meglio i nuovi membri della famiglia,
quindi per dimostrare loro chi comanda. Papà cane, come sappia­
mo, è molto severo e dà molto peso alla disciplina.

Il biglietto da visita del cane: l’odore individuale


Fin qui abbiamo parlato del perché un cane abbia bisogno d’i­
dentificare l’odore dei propri simili e, per farlo, siamo partiti dal­
l’esperienza del cucciolo che, quale primo visibile segno della pro­
pria trasformazione in animale sociale, comincia a ispezionare ac­
curatamente madre e fratelli. Ora passeremo, invece, a esaminare
la funzione che assume per il cane il suo odore personale.
È opportuno cominciare dal controllo olfattivo che il cane ese­
gue sul proprio corpo e sui propri escrementi, liquidi e solidi. Chi
possiede uno o più cani potrà trarne spunti e suggerimenti utili.
Annusare il proprio corpo rientra fra le funzioni del comporta­
mento di pulizia o di ricerca di benessere, come sono comune­
mente definite dagli etologi tutte le azioni attraverso le quali 1 ani­
201
male si prende cura di sé. A tale proposito, noi uomini ricorriamo
al concetto più complesso d’igiene.
Sul comportamento di pulizia del nostro cane si potrebbero
scrivere interi volumi, tanti quanti ce ne vorrebbero per parlare
della nostra igiene. Se abbiamo un cane, dobbiamo preoccuparci di
quest’aspetto nell’interesse suo e anche nostro. Allo stato di vita na­
turale dei suoi antenati, tutto era più semplice ed era risolto al me­
glio dalla natura stessa. Poi, un giorno, arrivò l’uomo che, forte dei
suoi sistemi d’allevamento, con straordinaria ottusità modificò que­
sti animali, armoniosamente inseriti nel loro mondo e già provvisti
di tutto il necessario. Il castigo non si fece attendere: ora l’uomo de­
ve prendersi cura delle creature che ha ottenuto: tanto per citare un
esempio, è riuscito a dotare lo scottish terrier di una pelliccia che
arriva fino a terra ma, in preda all’impeto creativo, ha dimenticato
distillargli anche un comportamento che gli permetta di tenersi
pulito da sé. Pertanto, poiché nel migliore dei casi il cane dispone
di un comportamento ereditario per la cura della pelliccia tarato su
un tipo di pelo come quello del lupo, il proprietario di uno scottish
terrier, di un maltese o di un pechinese, deve darsi parecchio da fa­
re per tenere pulito il mantello del suo cane. Ammetto che si tratta
di una simpatica occupazione che, se bene impostata, può contri­
buire ad approfondire il legame di amicizia fra cane e padrone, o,
più spesso, padrona. La “pulizia sociale”, espressione con cui s’in­
dica due animali che si puliscono il pelo a vicenda, è uno dei modi
migliori per esprimere al partner il proprio affetto. Per chi ha abba­
stanza tempo e voglia di pulire e curare il mantello del proprio ca­
ne, dunque, farlo non presenta alcuna controindicazione, purché
evitiamo di assalire con pettine e spazzola un cagnolino appena ac­
quistato. Affidare a un altro la cura del proprio pelo implica, in
ogni caso, un’approfondita conoscenza e una fiducia reciproca. E
assolutamente necessario dare tempo al tempo, e instaurare gra­
dualmente e lentamente la consuetudine della pulizia sociale del
pelo e della pelle, dando al cane l’impressione di essere consapevo­
li del significato di queste operazioni. Di solito un cane viene acqui­
stato quando è ancora molto giovane, perciò aspettare un po’ non
pregiudicherà nulla, visto anche che il mantello a pelo lungo non è
ancora completamente sviluppato. Se, invece, si acquista un cane di
questo tipo già adulto, sarà opportuno riflettere su quanto detto so­
pra, soprattutto se, da questo punto di vista, l’animale segue la tra­
202
dizione degli avi: soltanto a un amico è concesso di ripulire il man­
tello di un compagno di branco!
Il cane da pastore, l’alano e il teckel a pelo corto, che normal­
mente stanno in giardino, il bracco tedesco, anch’esso a pelo cor­
to, che ogni giorno accompagna il cacciatore in riserva, hanno bi­
sogno della spazzola solo nelle grandi occasioni, perché per il re­
sto provvedono da sé. Un cane dairistinto ben sviluppato cura il
proprio pelo con attenzione, aiutandosi con l’olfatto, perché an­
nusandosi si accorge subito se nella sua pelliccia si annida dello
sporco. Il naso riesce a scovare anche la pulce che di solito, su un
cane dal mantello normale, non ha lunga vita, mentre in uno dal
mantello a pelo lungo e poco curato trova l’ambiente ideale per
prosperare. Bisogna, allora, ricorrere alle polverine e altri prodot­
ti specifici, che si trovano nei negozi specializzati.
Il naso interviene anche quando il cane si procura una ferita,
che infatti viene accuratamente annusata prima che la lingua, qua­
si una panacea, provveda a pulirla. Con un cane normale non si
deve correre dal veterinario per ogni minima sbucciatura: questi
piccoli incidenti si curano e si risolvono grazie all’azione disinfet­
tante della lingua. Si deve andare dal dottore soltanto per i tagli
che richiedono dei punti di sutura. Comunque, è sempre meglio
andare dal veterinario una volta di troppo che una di meno.
Nel controllo del proprio corpo, la regione dell’ano e dei geni­
tali è quella che viene ispezionata con maggior frequenza. Ci oc­
cuperemo ancora del significato che assume per un cucciolo la co­
noscenza del proprio odore. Il cane annusa la zona anale anche
quando in quella regione c’è qualcosa che non funziona come do­
vrebbe. I disturbi digestivi sono spesso denunciati dal fatto che
l’animale si annusa più del solito, e lo stesso vale per la presenza
di parassiti. In questo caso, a causa del prurito l’animale si strofi­
na per terra sollevando le zampe posteriori. Se ciò si verifica una
volta ogni tanto, il motivo è solo la pulizia, e a tale scopo un tap­
peto persiano annodato a mano è l’ideale.
Un’altra zona oggetto di frequenti controlli è quella genitale,
che pure dev’essere tenuta sempre pulita. Talvolta, però, accade
che il padrone, magari per ignoranza, impedisca all’animale di fiu­
tarsi in quel punto, e il motivo di tale comportamento resta per il
cane un vero mistero.
I cani uniscono l’utile al dilettevole. Nel loro sistema d infor-
203
mazione vi sono anche i prodotti del metabolismo, il che permette
loro di prendere due piccioni con una fava, risparmiando utili
energie. Di conseguenza, gli escrementi acquistano un’importanza
fondamentale, anche maggiore di quanto vorremmo. Purtroppo,
nel nostro mondo “civilizzato” non possiamo sempre tener conto
delle esigenze del cane, ma siamo costretti a imporgli molte cose
contrarie alla sua natura.
Preciso subito che quello che sto per dire appare ormai in for­
ma molto attenuata in alcune delle nostre moderne razze canine, e
sembra addirittura che alcuni esemplari abbiano perso del tutto
questi particolari istinti. I senatori di una cittadina svizzera hanno
dimostrato un notevole acume approvando una proposta di legge
in base alla quale si possono tenere solo cani dal comportamento
quasi umano, che non alzano la zampa e non lasciano dietro di sé
alcuna sporcizia. Le strategie di allevamento messe a punto dagli
uomini riescono ormai a fare di tutto, anche a selezionare cani che
non sono più tali. Sarebbe facile, di fronte a una cosa del genere,
fare leva sulla sensibilità degli zoofili per condannare vigorosa­
mente la creazione di mostri simili. L’esperienza, però, mi ha inse­
gnato a essere prudente. Mi viene da chiedermi, infatti, se sia più
sfortunato il cane che ogni momento si sente redarguire perché
desidera seguire i propri istinti, completamente sviluppati, oppure
quello che, non avendoli più, non entra in conflitto con le esigenze
della civiltà umana. Non mi sento di sostenere né l’una né l’altra
tesi, anche perché un tema così importante non può essere tratta­
to con superficialità. Affermare che, personalmente, preferirei un
cane normale, con istinti sani, non aiuta a risolvere il dilemma. Sa­
rebbe, invece, opportuno che etologi e veterinari, con una certa
esperienza in psichiatria canina, si riunissero non soltanto per di­
scutere, ma anche per compiere degli esperimenti. Fino a dimo­
strazione contraria, non potremo escludere del tutto la possibilità
che un cane privo d ’istinto rappresenti la soluzione del problema
“cane da città”.
Tornando, invece, al cane sicuro del proprio istinto e alle preoc­
cupazioni che talvolta ci procura, proviamo a spiegare il significato
e lo scopo del cerimoniale dell’urinazione e della defecazione.
Come ogni cinofilo sa, l’atto di alzare la zampa informa gli altri
cani delle proprie pretese territoriali, e dovendo essere ben notato,
occorre scegliere dei punti che attirino l’attenzione, come un ango­
lo della casa o del muro di cinta del giardino, oppure un albero del
viale. Questi punti devono essere contrassegnati in modo da non
sfuggire all’occhio, anzi al naso, di un maschio che si trovi a passa­
re di lì, e l’unico modo per farlo con precisione è, per l’appunto,
alzare la zampa.
Nei miei canili abbiamo allevato cani grandi e piccoli, e tutti al­
zano la zampa secondo l’usanza dei loro antenati. Non credo,
però, che un cane di grossa taglia s’imponga in misura maggiore
agli occhi, cioè al naso, degli altri cani, solo per il fatto di alzare la
zampa più in alto! L’ipotesi che la superiorità sia collegata all’altez­
za del contrassegno potrebbe sembrare logica, ma osserviamo un
momento cosa avviene all’interno di un branco di lupi. Gli indivi­
dui che occupano i gradini più bassi della gerarchia non alzano
neppure la zampa, almeno così mi ha detto Erik Zimen, il barbuto
ulupo-guida”. Questo gesto è prerogativa del più forte, del grande
capo. Il territorio di un branco di lupi viene contrassegnato dal ca­
po in persona. Il territorio dei vicini è anch’esso contrassegnato dal
loro capobranco, senz’altro grande e forte come il collega. Pertan­
to, se un lupo-guida colpisce il contrassegno territoriale lasciato da
un altro, si ha una sovrimpressione, cioè la sovrapposizione del
“timbro” odoroso di uno sull’altro, per cancellarlo.
Pertanto, per capire l’intera faccenda, basta osservare un ma­
schio che arriva in un territorio già marcato da un altro. Il nuovo
venuto ne prende possesso individuando i punti contrassegnati
dal predecessore e marcandoli a sua volta. Un maschio di piccola
taglia non rimane affatto impressionato dal fatto di essere stato
preceduto da un cane grosso, avrà solo qualche difficoltà ad alza­
re la zampa per centrare il punto esatto. Come ho già detto, si
tratta di modelli comportamentali ereditari, che risalgono a un’e­
poca in cui non c’era differenza di taglia. Non esiste un comporta­
mento relativo alla delimitazione del territorio che tenga conto di
tali differenze, l’unica cosa importante è riuscire a coprire i con­
trassegni del conspecifico precedente. Perciò, un San Bernardo si
limita ad alzare pigramente la zampa se il biglietto da visita prima
di lui è stato lasciato da un bassotto. Quest’ultimo, ripassando di
là il giorno dopo e accorgendosi dell’affronto subito, lo rinnoverà.
Due ore più tardi, ripasserà il San Bernardo che, a sua volta, mi­
rerà con la massima precisione per apporre di nuovo la sua firma
sullo stesso, identico punto.
Per il cane esistono soltanto conspecifici in generale, poiché
non ha consapevolezza delle differenze di taglia né dei risultati di
un allevamento selettivo. Un maschio della razza San Bernardo è
equivalente a un maschio della razza bassotto. Chi alza la zampa è
semplicemente un individuo maschio che avanza delle pretese di
territorio e di predominio, né più né meno. Se nel branco in cui
vive non è stata ancora chiarita la questione del comando, ogni
maschio proverà ad avanzare pretese. Pertanto, tutti i nostri cani
domestici manifestano, in tal senso, un atteggiamento da lupo-gui­
da. Solo nei villaggi dove i cani scorrazzano liberi giorno e notte è
possibile osservare delle strutture di tipo gerarchico. Lì, infatti, la
pretesa di dominare sugli altri può essere effettivamente imposta
con la lotta, e i cani formano un branco a struttura chiusa, nel ve­
ro senso dell'espressione.
A questo punto, il sistema relazionale fra uomo e cane presenta
però una lacuna. Agli uomini piace molto il ruolo di capobranco,
al punto di pretendere di ricoprire la posizione di lupo-guida e di
gestire il comando. Certo, quanto ad affermazione delle pretese
territoriali dobbiamo fare proprio pena al nostro amico, non es­
sendo neppure in grado di marcare il territorio! Passiamo indiffe­
renti davanti ai contrassegni altrui, senza nemmeno riconoscerli.
Come può un essere del genere pretendere il ruolo di lupo-guida e
proporsi come capobranco? Il nostro maschio si rassegna, ma si
sente obbligato, almeno in questo, a fare le nostre veci. Quanto
dev’essere comprensivo un cane per andare d’accordo con questo
strano bipede che è l’uomo!
Il nostro cane maschio sta per alzare la zampa contro la stac­
cionata verniciata di fresco del vicino. Per evitare noie, sul più bel­
lo lo strattoniamo via impedendogli di sopperire alla nostra caren­
za, che lui percepisce come un obbligo. Certo, in qualità di lupo­
guida ne abbiamo il diritto, ma come far tacere la propria coscien­
za di cane maschio se nessun altro provvede a fare ciò che va fat­
to? Che senso ha un lupo-guida che non può marcare il territorio,
prerogativa riservata soltanto a lui? Dobbiamo essere molto buoni
con i nostri cani, perché gli imponiamo questa e molte altre simili
incoerenze. Non smetto mai di stupirmi del loro spirito di adatta­
mento, dell’imperturbabilità con cui spesso sopportano il nostro
comportamento, contrario a ogni buona prassi canina.
I dingo hanno un repertorio di comportamenti espressivi mi­
206
mici piuttosto limitato, ma per me è sempre affascinante intuire
dalla loro espressione quello che pensano del sottoscritto. I ma­
schi dingo hanno una buona consapevolezza di sé e non amano le
imposizioni, anche se alla fine si riesce a dominarli senza proble­
mi. In altre parole, sono in grado di riconoscere il ruolo guida del­
l’uomo. Se un dingo vuole contrassegnare la gamba del tavolo nel
salotto buono, e gli arriva alle orecchie il mio divieto perentorio,
talvolta desiste, ma in questo caso si volta con calma e mi fissa ne­
gli occhi, quasi a dire “Questo qui dà i numeri, mi sa che non ha
tutte le rotelle a posto! Come si può, in effetti, proibire qualcosa
che deve essere fatto, senza possibile alternativa? Per fortuna, i
nostri pazienti cani domestici tollerano di buon grado, forse per
rassegnazione, il nostro fallimento nell’adempiere alle buoni pras­
si canine. Per i dingo, invece, la cosa è diversa, e la reiterazione di
un simile fallimento può provocare, un giorno o l’altro, la rottura
insanabile e definitiva di qualunque rapporto amichevole.
Il cerimoniale dell’urinazione, come viene definito Patto di uri­
nare a getto con la zampa sollevata, ci procura, dunque, qualche
fastidio, ma certamente anche il nostro cane ha i suoi problemi
per causa nostra, poiché spesso commettiamo delle incoerenze
che a lui risultano incomprensibili. E curioso che quasi tutti colo­
ro che hanno un cane considerino un fausto avvenimento la prima
volta che il loro giovane maschio alza la zampa: finalmente è adul­
to. Alcuni maschi sono, ovviamente, meno precoci di altri. In tal
caso, il padrone assume un’espressione preoccupata, roso dal
dubbio che il suo cane abbia qualcosa di anormale, e tira un so­
spiro di sollievo solo quando, compiuti i nove mesi, il suo cuccio­
lo si esibisce nell’atto: finalmente! Solo una settimana dopo, però,
eccolo lì a rimproverarlo perché ha alzato la zampa dove non gli
piace. Se questa è coerenza...
Ci sono anche delle cagne che sollevano la zampa. Di solito, si
tratta di animali anziani con uno spiccato senso del possesso terri­
toriale e del predominio. Si tratta però di eccezioni, una sorta di vi­
rago, probabilmente determinate da fattori ormonali. In generale,
soprattutto nel periodo degli amori, anche la cagna pratica il ceri­
moniale deirurinazione a getto, ma lo fa assumendo una posizione
che non si differenzia molto da quella solita. Il maschio se ne ac­
corge subito e, a sua volta, ricopre con il proprio contrassegno
quel determinato punto, segnalando così la propria presa di pos-
207
sesso. Talvolta, una cagna può voler marcare il territorio con un
contrassegno posto più in alto, e per far ciò, sposta in avanti una
delle zampe posteriori, sollevando tutto il treno come se volesse fa­
re la verticale. Maschi e femmine si scambiano così il loro odoroso
biglietto da visita per segnalare la propria presenza. In questo caso,
il cerimoniale delTurinazione assolve una funzione diversa da quel­
la che ha fra i maschi e, al momento opportuno, cioè quando la
femmina è entrata in calore, porta all’accoppiamento. Pur non es­
sendosi forse mai incrociati prima, il maschio e la femmina si cono­
scono già da tempo per via dei rispettivi contrassegni, e nella sta­
gione degli amori trovano la strada per ritrovarsi. Il maschio è, co­
sì, sempre al corrente dello stato fisiologico della sua “amica d’al­
bero”, e sa esattamente quando arriva il momento giusto per corre­
re da lei, approfittando di un momento di distrazione del padrone.
A sua volta, la cagna è in grado di stabilire se il maschio riceve i
suoi messaggi, e il suo livello di calore stimola il maschio a spargere
in giro più contrassegni. Nel caso lo vediamo fare questo, ed essere
sordo a ogni nostro richiamo, vuol dire che nelle vicinanze c’è o c’è
stata una cagnetta in calore. A quel punto, sarà meglio metterlo al
guinzaglio per evitare che scappi via.
Il liquido contrassegno odoroso serve, dunque, a delimitare il
territorio, a fare conoscenza, ad accoppiarsi, inoltre indica chi è il
capobranco e la sua posizione di privilegio sociale. In tal senso, la­
sciare dei contrassegni odorosi sollevando ostentatamente la zam­
pa posteriore diventa anche un segnale ottico, che permette al ma­
schio di dimostrare la propria superiorità. Quando una volta il pa­
dre di Sascha venne a trovarci, Sascha si trovava sul prato. Papà
Schlapp mosse alcuni passi verso il figlio, che quasi non riconosce­
va più, si fermò sullo spiazzo erboso, quindi alzò a titolo dimostra­
tivo una zampa, anche se lì non c’era proprio niente marcare: il
prodotto dei suoi sforzi servì solo a concimare il prato. Una volta
finito, andò dignitosamente incontro al figlio e accettò il contatto
naso a naso.
Tenere in casa un cane maschio non è certo un problema, poi­
ché gli si può insegnare a non sporcarla a un’età in cui non si so­
gna neanche lontanamente di poter lasciare dei contrassegni. Se
poi è venuto in casa nostra da piccolo, non ha nessun motivo di
marcare il territorio. La situazione, però, si ribalta in un lampo se
ci viene a trovare qualcuno accompagnato da un cane maschio. A
208
volte, per prudenza, preferiamo rinchiudere il nostro, per evitare
che si azzuffino. Il maschio estraneo entra nella stanza, annusa
dappertutto e si accorge subito del passaggio di un altro maschio.
La reazione è, pertanto, quella di sollevare la zampa. Il nostro af­
fabile conoscente ci racconta le prodezze del suo cane che, nel
frattempo, ha battezzato le gambe delle sedie, del tavolo e magari
anche lo spigolo dell’armadio, tanto per essere sicuro che, più tar­
di, il nostro cane riceva i suoi saluti. Dopo che il gentile ospite se
n’è andato, dobbiamo evitare a tutti i costi che il nostro amico en­
tri nella stanza, perché si sentirebbe obbligato a sistemare la fac­
cenda coprendo i contrassegni dell’altro. Allora, non ci resta che
sfregare a fondo tutti i punti colpiti con un sapone molto profu­
mato, o con dell’acqua e aceto o simili. Monsignor della Casa non
lo dice, ma dovrebbe essere previsto dal galateo che chi possiede
un cane maschio non debba mai portarlo in una casa dove ce n’è
un altro. E lo stesso vale per una cagna in calore.
Sulla funzione sociale degli escrementi liquidi non c’è altro da
aggiungere. Prima di passare a quelli solidi, che a loro volta rivela­
no l’odore individuale e fungono da biglietto da visita, soffermia­
moci un momento sul problema, già accennato, della pulizia di un
animale che vive in casa.
Citerò ancora una volta la mia problematica Stina. Sporcava in
casa e lo fa ancora oggi, e purtroppo non imparerà mai perché la
sua scontrosità glielo impedisce. Non c’è modo di far capire a
questo animale che non deve lasciare ricordini in mezzo alla stan­
za. La situazione è arrivata a un punto che non mi resta che rasse­
gnarmi, anche perché, se alzassi la voce, scapperebbe a nascon­
dersi, tutta impaurita.
Un modo per evitarlo ci sarebbe, ed è aprire la porta e chia­
marla in giardino. Quando lo faccio, lei si precipita fuori, poi ri­
torna, ma sempre quando le pare, anzi, per meglio dire, quando
anche Sascha e Rana vengono richiamati in casa. Stina vuole mol­
to bene a questi due grossi cani e li segue volentieri. Pertanto, sa­
rebbe relativamente facile aspettare il momento in cui Stina mo­
stra di voler sbrigare le proprie faccende e farla uscire per tempo.
Un risultato in tal senso, in effetti, l’abbiamo già ottenuto: Stina
non aspetta più di fare i propri bisogni fino a quando può rientra­
re in casa, ma talvolta li fa anche all’aperto. Il fatto è che, per ri­
solvere il problema alla radice, Stina dovrebbe essere 1 unico cane
209
della casa. Invece, uno come me, che ne tiene quaranta alla volta
e, a differenza delle persone normali, non vuole inserirli nel pro­
prio mondo, ma vuole studiarne il comportamento naturale, deve
rassegnarsi ad adattare la propria vita al mondo canino e non il
contrario. Inoltre, trovare il tempo e la voglia d’insegnare la puli­
zia a un cane, per di più così piccolo, dovendo pure giocare d’a­
stuzia, è una pia illusione!
L’esempio di Stina è molto indicativo perché racchiude in sé
quasi tutte le condizioni che impediscono a un cane di non spor­
care in casa. Delle incoerenze dell’uomo abbiamo già parlato. Bi­
sogna, poi, riconoscere che la mancanza di contatto fra uomo e ca­
ne complica decisamente le cose. Il comportamento di Stina nelle
prime settimane, in cui volevo farne un cane da grembo, si riscon­
tra piuttosto spesso nei cani che sono sottoposti a una tensione
psichica, e che si sentono di non riuscire ad affrontare la situazio­
ne che stanno vivendo. Analoghe situazioni di conflitto sono mol­
to spesso la causa prima del fatto che un cane sporchi in casa. Po­
trebbe essere che, così facendo, l’animale esprima una forma di
protesta?
Ciò risulterebbe incomprensibile se non sapessimo che l’odore
individuale è collegato agli escrementi e possiede una precisa fun­
zione nell’ambito della socializzazione. Un cane che non sparge il
proprio odore individuale, cioè il proprio biglietto da visita, su
tutto il territorio cui può accedere, ma lo limita alla propria casa, è
un animale schivo, che tende a rintanarsi nel suo guscio e che ha
paura dei contatti con l’esterno. Il peso di problemi irrisolti l’ha
reso insicuro, al punto che non osa più mescolarsi ai suoi simili,
nemmeno attraverso i contrassegni odorosi. Insomma, un ottimo
candidato al lettino dello psichiatra!
Nel 1957 A. Zweig ha descritto un caso del genere, che non è
certo isolato. Un maschio bastardo di cinque mesi, molto pulito in
casa, viveva da tre mesi felice e contento presso una coppia di spo­
si. Un giorno, un amico regalò loro una grossa bambola, con cui i
padroni si divertirono a giocare. Il cane diventò gelosissimo e ad­
dirittura strappò una scarpa alla bambola con un morso. La puni­
zione per questo segno di disprezzo per la proprietà dell’uomo
non si fece aspettare. Il cane ne restò molto colpito e, da quel mo­
mento, non mostrò più la propria gelosia, ma cominciò a fare i bi­
sogni in giro per la casa. Ogni volta erano sgridate, botte, il muso
210
dell’animale veniva avvicinato agli escrementi - un metodo per
me sbagliato - ma tutto si rivelò inutile. A quel punto, gli sconcer­
tati padroni decisero di provare con le buone. Il mucchietto di fe­
ci lasciato dal cane veniva spazzato via senza alcun castigo o altri
commenti, e l’animale riceveva una leccornia ed era trattato persi­
no più affettuosamente del solito. In breve tempo, il nuovo meto­
do diede ottimi risultati e da allora il cane tornò a essere un bravo
animale e non sporcò più in casa.
Non dobbiamo pensare che il cane volesse vendicarsi, oppure
attirare l’attenzione su di sé, perché, nonostante l’intelligenza che
gli attribuiamo, non è in grado di prevedere l’eventuale effetto di
una protesta. Per lui, come dimostra quest’esempio, la privazione
dell’amore delle persone che lo accudiscono è semplicemente un
duro colpo del destino, che può anche distruggerlo. L’animale fa
di tutto per dimostrare il suo amore, per chiarire la situazione e
diventa aggressivo contro la bambola che l’ha defraudato di quel­
lo dei padroni: più chiaramente di così non può esprimersi. Esse­
re punito per aver voluto sopprimere l’oggetto che s’interpone fra
lui e i suoi amici, per l’animale significa la fine e gli rende la situa­
zione insopportabile. Non riuscendo più a farsi capire dalla so­
cietà in cui vive, si ritrae in sé, dietro un muro di vetro che lo se­
para dagli altri. Solo lì osa manifestare il proprio io, costruire la
propria sfera di odori, un po’ come quegli infelici esseri umani
che si chiudono in se stessi e si limitano a parlare da soli o con
amici immaginari. L’odore individuale di un cane fa parte delle
sue possibilità di comunicare, del suo linguaggio. Il fatto che
esprima i propri bisogni fisiologici in casa deve, dunque, essere
valutato in maniera un tantino diversa dalla simpatica usanza ba­
varese di spalmare la maniglia della porta del vicino antipatico
con lo stesso prodotto.
Insomma, la pulizia del cane in casa dipende dall’intelligenza e
dalla coerenza del padrone. Chi punisce un cane perché non è puli­
to, dimostra di aver perso, almeno in parte, entrambe queste doti.
Esistono altri due motivi per cui un cane fa i suoi bisogni in ca­
sa: la paura e la gioia. Una grande paura può provocargli addirittu­
ra una scarica di diarrea. Capita spesso di osservare che un cane,
quando ha paura di un castigo o di altro, urina. Le nevrosi da pau­
ra non sono infrequenti, soprattutto nelle grandi città, la cui strut­
tura odierna si differenzia in maniera eclatante da quella che, origi-
211
nanamente, costituiva l’habitat naturale del cane. Il frastuono del
traffico, il sovraffollamento di uomini e di cani, l’eccesso di stimoli,
tutto questo è troppo da digerire per un cane cresciuto nella quiete
di un canile in campagna, e può provocargli delle turbe psichiche.
Ho già parlato delle pubblicazioni del veterinario viennese Ferdi­
nand Brunner, che ogni giorno viene a contatto con questo tipo di
problemi nel suo ambulatorio. I cani che gli arrivano sono creature
tormentate, che tremano tutte le volte che li si fa uscire in strada,
che si spaventano per tutto e urinano dalla paura, manifestando
una quantità di patologie di natura psichica, la cui descrizione ri­
sparmio volentieri al lettore. Mi limiterò a sottolineare un aspetto
che emerge abbastanza chiaramente dalle sue descrizioni, e che è
una sorta di accusa rassegnata: non servono né pozioni né pillole,
la colpa è sempre e comunque dell’uomo. Il medico può dare un
aiuto, anche notevole, ma tutta la sua scienza si rivela vana se l’uo­
mo non ascolta i suoi consigli e continua a considerare il cane come
un giocattolo, un articolo di lusso, uno status symbol, insomma un
oggetto.
Spero di essere riuscito a spiegare quanto sia sensibile la strut­
tura psichica del cane e come sia facile distruggere molto, o anche
tutto, se non si tiene sempre conto che il cane è un animale estre­
mamente sociale, al punto che il minimo disturbo o impedimento
del suo innato bisogno di un rapporto interpersonale può provo­
cargli delle turbe psichiche. Per alcuni aspetti è molto più svilup­
pato dell’uomo, oltre che molto più differenziato. In particolare,
ciò che gli manca è un cervello così evoluto da poter intuire e do­
minare, come fa l’uomo, i conflitti con la società cui appartiene.
Ed è per questo che ne viene maggiormente travolto.
A ciò si aggiunga un sistema nervoso duramente provato da un
allevamento troppo selettivo, spesso collegato a un indebolimento
generale della costituzione. Ciò significa che molti cani di razza
sono fisicamente e psichicamente troppo delicati e deboli. Infatti,
sono proprio questi cani che spesso cedono a emissioni improvvi­
se di urina per gioia o per paura. L’eccitazione emotiva, ad esem­
pio per il ritorno del padrone, sale al massimo provocando, so­
prattutto negli individui giovani, queste spiacevoli manifestazioni.
Occorrono pazienza e sensibilità, magari con l’ausilio di farmaci
calmanti. Di solito queste emissioni d’urina scatenate da un’emo­
zione spariscono quando il cane cresce e diventa più maturo. Pen­
212
sare di togliere questa brutta abitudine a suon di punizioni signifi­
ca danneggiarlo anche in modo permanente.
Lasciamo ora queste spiacevoli manifestazioni, che in fondo
esprimono tutte che non è lecito far vivere al nostro Fido una vita
“da cani”, e torniamo al quadrupede sano, dall’istinto integro.
Per lui deporre le feci non è un fatto banale, ma ha un significato
alquanto serio dal punto di vista sociale e comunicativo.
Già la scelta del posto può rivelarsi complessa al punto di ri­
chiedere tempo prima che il cane passi all’azione, cosa che talvol­
ta mette a dura prova la nostra pazienza. Tuttavia, sapendo quale
funzione supplementare abbia per un cane la defecazione, la cosa
non dovrebbe meravigliare. E interessante chiedersi, invece, cosa
vuol dire quando il cane, in particolare il maschio, si mette a ra­
spare vigorosamente con le zampe posteriori. Lo scopo non è cer­
to quello di seppellire, cioè di nascondere le feci, come si sente di­
re spesso, perché ciò andrebbe a contraddire tutto quello che ab­
biamo ormai imparato suH’importanza dell’odore individuale.
Inoltre, si dovrebbe poter vedere, almeno qualche volta, un cane
- oppure un lupo, uno sciacallo o un altro canide selvatico - che
riesce a ricoprire perfettamente i propri escrementi, cosa che in­
vece non succede mai, e contrasterebbe con il comportamento, ad
esempio, della volpe che, con grande abilità, pone il suo muc-
chietto di sterco sui tronchi d’albero perché possa essere avvistato
da lontano. Raspando, il cane vuole sicuramente lasciare un’im­
pronta più evidente, aggiungendo l’odore dei tubercoli digitali al
luogo in cui sono state deposte le feci, per ottenere un campo
odoroso ancora più intenso e vario. Il mio Strixi, il bastardo nero
di cui ho già parlato, essendo un individuo molto consapevole,
agisce in maniera assai rigorosa in queste faccende, e mi ha dimo­
strato che in questo comportamento istintivo subentrano alcune
componenti essenziali derivate dall’esperienza. L’intensità con cui
raspa non è sempre uguale e va da un accenno, eseguito rapida­
mente in uno o due movimenti, a un’attività continua, febbrile,
accompagnata da un gran polverone, che a volte viene ripetuta
dopo un attento esame del luogo. Il posto viene prima accurata­
mente annusato e se poi, per qualche ragione che sfugge ai nostri
sensi, è abbastanza importante, il maschio lo fiuta di nuovo fra
una raspata e l’altra, prima di decidersi a proseguire il cammino.
Queste differenze, evidentemente legate a particolari situazio­
213
ni, bastano da sole a dimostrare che il cerimoniale della defecazio­
ne implica comunque qualcosa di più che il semplice dare libero
corso agli stimoli fisiologici. Fra l’altro, un cane si mette a raspare
anche se prima non ha defecato, ad esempio in presenza di un al­
tro maschio con cui non sia in buoni rapporti. In questo caso, ra­
spare diventa una dimostrazione visiva a carattere decisamente
provocatorio, proprio come abbiamo visto per la zampa sollevata.
L’odore individuale del cane riveste, dunque, un’importanza
enorme all’intemo di un sistema di comunicazione non sempre fa­
cile decifrare, e un cane dagli istinti integri ne fa un uso molto
ponderato, poiché in esso è racchiusa una parte significativa della
sua esistenza.

Pubertà
La maggior parte di coloro che possiedono un cane col passare
del tempo crescono insieme a lui, accettandone più o meno ten­
denze e qualità, e viceversa. Tra cane e padrone si possono instau­
rare rapporti molto felici e armoniosi. La capacità d’adattamento
di un cane è, infatti, straordinariamente ampia, e a tale proposito
viene nuovamente da chiedersi se la perdita dell’istinto non rap­
presenti per lui una vera e propria fortuna, anche se, ovviamente,
è probabile che l’animale si trovi a disagio di fronte ai conspecifici
diversi da lui.
A tale proposito, vorrei raccontare una storia che illustra molto
bene quanto sia difficile decidere sull’opportunità o meno di far
convivere cani diversi. La storia, inoltre, è interessante perché ri­
guarda due fratelli dall’indole così diversa da non riuscire ad an­
dare d’accordo. Il caso di questi due fratelli così dissimili dimostra
anche come sia pressoché impossibile giudicare una data razza più
o meno istintiva di un’altra, poiché queste differenze possono ri­
scontrarsi persino all’interno della stessa cucciolata.
La mia storia comincia con una telefonata, che aveva per ogget­
to due maschi leonberger, fratelli della stessa cucciolata, vissuti fin
da piccoli in una casa con un enorme giardino, che più crescevano
e meno andavano d’accordo, azzuffandosi spesso e in maniera
sempre più seria. Dato che, nelle condizioni descritte, due maschi
dall’istinto integro dovrebbero convivere pacificamente, ipotizzai
214
che il problema fosse la differenza d’indole, e proposi di sottopor­
re gli animali a un test. Volendo, il lettore potrà ripetere l’esperi­
mento con il proprio cane.
Si sa che i cani hanno, tra i loro vari pregi, quello di fare incon­
trare le persone più diverse, e io sono grato a questi due leonber-
ger così diversi per avermi offerto l’occasione di conoscere perso­
nalmente il grande compositore Cari Orff. Dopo che il signore e
la signora Orff si furono accomodati nel mio soggiorno, intriso
dei più vari odori canini, fu fatto entrare il primo dei loro cani.
Asko fece esattamente quello che ci si aspetta da un cane adulto
in un ambiente estraneo: ispezionò con il naso ogni centimetro
quadrato del pavimento, dalla porta fino all’angolo della stanza da
cui lo osservavamo. Solo dopo aver terminato l’esame, si rivolse ai
suoi padroni, poi fu ricondotto fuori e venne il turno del fratello
Arras. Questi, senza guardare né a destra né a sinistra, si precipitò
verso i padroni manifestando la propria gioia per averli ritrovati,
poi si guardò un po’ in giro, ma senza particolare interesse, nono­
stante i vari odori di cani.
Questa semplice prova è molto eloquente: mentre l’interesse di
Asko era rivolto ai conspecifici, quello di Arras era diretto esclusi­
vamente all’uomo. Io, però, volevo capire anche quanto fosse pro­
fonda la differenza d’istinto fra questi due cani. Asko fu, allora,
messo accanto a un cucciolo: la cosa lo interessava molto ma, non
appena si accorse che il cucciolo aveva paura, si ritrasse e fece il
possibile per convincerlo delle sue buone intenzioni. Si sdraiò, sco­
dinzolò, lo invitò a giocare, il tutto in un modo che lasciava chiara­
mente intendere che non voleva spaventare il piccolino. Ogni suo
movimento erano assolutamente cauto. Quando, invece, insieme al
cucciolo mettemmo Arras, notammo l’esatto contrario. Questi si
comportò con un’assoluta mancanza di tatto nei confronti del pic­
colo: gli saltò addosso, tentò di afferrarlo con i denti, senza prestare
ascolto alle urla di paura dell’altro. Per mettere fine a questo spetta­
colo, di certo non piacevole, portammo subito via il cucciolo.
Anche in questo secondo esperimento, Asko aveva dimostrato
di possedere un istinto assolutamente integro, a differenza del fra­
tello Arras. Lungo la siepe del giardino degli Orff, eseguimmo gli
altri test cui i due fratelli furono sottoposti separatamente. In uno
di questi, la mia collaboratrice condusse all’esterno del giardino,
oltre la siepe, il cane da pastore Sascha, animale socievolissimo.
215
Mentre Arras, abbaiando con rabbia, si avventò contro il cancello
minacciando Sascha, Asko si comportò come vuole la natura cani­
na: si diresse lentamente verso la siepe, con il corpo che esprimeva
un atteggiamento neutrale, né di aggressività né di amicizia. Non
appena si accorse che neppure Sascha aveva cattive intenzioni, co­
minciò a scodinzolare e divenne sempre più cordiale, mostrando
chiaramente che sarebbe stato disposto a fare amicizia con quel
maschio sconosciuto al di là della siepe.
L’ultimo test fu eseguito con l’aiuto della cagnetta Rana, che al­
lora manifestava i primi sintomi dell’estro. Fu portata anche lei al
guinzaglio dietro la siepe. Arras, furioso e irruento, si precipitò al
cancello, esprimendo tutta la sua aggressività e scortesia, come pri­
ma aveva fatto con Sascha. Rana si spaventò e si mise a tirare il guin­
zaglio, ma nemmeno questo riuscì a impressionare Arras. Asko, in­
vece, si rallegrò della visita, lanciò una serie d’inviti al gioco e sicura­
mente si sarebbe anche messo a corteggiarla, mostrando ancora una
volta, in modo inequivocabile, il suo immutato repertorio istintivo.
Non c’era da meravigliarsi, dunque, che Arras e Asko non andasse­
ro d’accordo. A quell’epoca avevano solo undici mesi, ma si sentiva­
no abbastanza adulti per imporre il proprio predominio. Asko era
leggermente più robusto di Arras, ed era convinto di dover essere
lui il capo. Arras, invece, è, a detta dei suoi padroni, un gran dritto,
che sa accattivarsi la simpatia dell’uomo e, forte di questa protezio­
ne, non riconosce le prerogative del fratello. Si ripresenta, in questo
caso, il fenomeno descritto da Konrad Lorenz, per cui un animale
che ha una perdita d’istinto ha, però, maggiori possibilità d’appren­
dimento, e supplisce alla carenza diventando a volte superiore al
proprio simile, il quale, ovviamente, non lo capisce più. Si vengono,
perciò, a creare degli attriti che nei cani della taglia dei leonberger
assumono una gravità pari alle loro dimensioni. Mi è capitato di as­
sistere a una zuffa fra Asko e Arras, e devo ammettere che mi sono
sentito piegare le ginocchia, mentre ammiravo la signora Orff che,
con sprezzo del pericolo, riusciva a separare le due furie.
Gli Orff si trovavano di fronte a un dilemma: che fare con questi
cani? Il mio consiglio era scontato: mandare via Arras, il cane con
carenze istintive, e prendere al suo posto una cagna, ancora piccina,
per Asko. Con grande entusiasmo, raccontai alla coppia com’era af­
fascinante vedere Sascha allevare la figlioletta Rana, quanti bei mo­
menti di serenità mi avevano regalato, quanta gioia danno queste
216
esperienze di vita canina. Certo, era facile a dirsi, d’altronde Asko e
Arras non erano cresciuti a casa mia. Sì, sarebbe stato senz’altro ra­
gionevole disfarsi di Arras, ma come si fa a mandare via un cane che
si è visto crescere? Gli Orff non ce l’hanno fatta e hanno preferito
continuare a tremare quando i due fratelli si ringhiano contro. Ar­
ras, più astuto, è entrato troppo nel cuore dei padroni. Il comporta­
mento degli Orff, pur essendo contrario alla logica, dev’essere di
esempio a tutti noi. Per chi ama veramente gli animali, quella di
procurarsi un cane è una decisione irrevocabile, se non per cause di
forza maggiore. E di certo non è revocabile nel caso in cui un cane si
sviluppi in maniera diversa da quella che ci saremmo aspettati. For­
se un esperto conoscitore di cuccioli sarebbe stato in grado, quando
i fratelli arrivarono in casa Orff all’età di otto settimane, di rilevare
queste differenze d’indole e di consigliare i padroni su cosa fare.
Questo aspetto è importantissimo da un punto di vista etologico.
L’attrazione esercitata dal “prototipo infantile” dell’incantevo­
le cucciolo ha già reso infelici parecchi cani. Si segue un desiderio
spontaneo, poi, una volta che il cane è cresciuto, ci si accorge che
non è compatibile con la nostra situazione familiare e domestica.
A questo punto, però, è troppo tardi. Le tendenze moderne di de­
gradare il cane a bene di consumo sono inammissibili, ricordia­
mocelo sempre!
Non a tutti piace l’idea di far parte di un’associazione. Perso­
nalmente, però, ritengo che le associazioni di allevatori delle sin­
gole razze canine siano molto importanti e, anche se si è contrari
all’associazionismo, non bisogna sottovalutarne la potenziale uti­
lità. In un certo senso si tratta d’istituzioni sociali, perché, fra l’al­
tro, uno dei loro compiti è di preoccuparsi non solo che i cani sia­
no affidati alle persone giuste, ma anche che siano trattati nel ri­
spetto delle loro esigenze. Il proprietario di un cane ha sempre la
possibilità di chiedere un consiglio, e di condividere i propri pro­
blemi con altre persone esperte e allevatori, risparmiando a sé e al
proprio animale inutili sofferenze.
Un altro aspetto a mio avviso importante è che, come proprieta­
rio di uno o più cani, grazie alla consulenza di esperti nell’ambito
della propria associazione, si può anche mettere su un allevamento.
Innanzi tutto, è una cosa molto piacevole per il cane, poiché esalta
la vita allo stato naturale dell’animale, inoltre per il padrone è una
delle esperienze più belle che questa convivenza possa offrire.
217
La vita del cane, purtroppo, è molto limitata e, di solito, non su­
pera i quattordici anni. Questo è indubbiamente l’aspetto più triste
dell’amicizia fra uomo e cane, che induce non poche persone ad
accanirsi terapeuticamente sull’animale sofferente pur di non pri­
varsene. Un cieco egoismo li fa opporre ostinatamente al consiglio
del veterinario, facendogli scorgere in un paio di occhi fedeli che
trovano a malapena la forza di aprirsi e in scarsi segni di attività il
segnale di una possibilità di recupero. Ebbene, talvolta invece non
c’è nulla da fare, ed è contro natura pretendere che un cane ormai
senza forze continui a vivere. I lupi troppo anziani, ad esempio,
vengono sbranati senza pietà dal resto del branco: in tal modo, gli
si risparmia la sorte di un’esistenza incompleta. I mezzi oggi a di­
sposizione del veterinario sono così efficienti che il vecchio cane
passa a miglior vita senza neanche accorgersene.
Il fedele amico sopravviverà nella nostra memoria, e conti­
nuerà a vivere con noi attraverso i suoi figli. Osservando il mio Pa-
roo, mi sembra di avere ancora davanti agli occhi suo padre Abo e
allora quasi non provo più il senso di una perdita che all’epoca fu
molto dolorosa. Non a caso ho scelto di trattare i temi degli amori
e del parto alla fine del libro, proprio per risvegliare nel lettore
l’interesse e la voglia di avviare un proprio allevamento. Prima di
affrontare questo nuovo argomento, però, vorrei parlare di una fa­
se dello sviluppo del cane adulto che si ricollega al destino di Abo,
il mio primo dingo maschio.
Nei primi giorni successivi al parto della cagna, il maschio non
ha altro da fare che sorvegliare la cuccia. Ho già raccontato come
si comportò Abo quando la moglie Suki partorì per la prima volta.
Ardeva di curiosità ma, anche allora, non appena si avvicinavano
degli estranei la sua reazione era chiaramente quella di un cane da
guardia. Abo si mantenne molto cordiale nei nostri confronti an­
che quando Suki partorì per la seconda volta, e non fece mai obie­
zioni quando qualcuno prendeva i cuccioli per pesarli. Al terzo
parto di Suki, però, le cose cambiarono.
Era una bella domenica, e io stavo mostrando i miei cani ad alcu­
ni conoscenti, raccontando loro come nei confronti dell’uomo i din­
go abbiano una spiccata inibizione a mordere e che, quando un
estraneo li vuole toccare, fanno solo finta di morderlo, proprio vici­
no alla mano, schioccando la mascella in modo minaccioso. Raccon­
tavo anche che un bambino, una volta, aveva infilato il dito attraver­
218
so la cancellata. Abo l’aveva acchiappato, ma le mascelle erano ri­
maste rigide, lasciando un interstizio tale da consentire al piccolo di
sfilare il dito senza neppure sfiorare i denti. Avevo appena finito di
raccontare questo episodio quando Èva venne ad annunciarmi che
Suki aveva partorito. Con naturalezza entrò nel grande canile, ac­
colta all’ingresso da Abo che le saltò addosso scodinzolando nel so­
lito tentativo di leccarle il viso. Per rispondere al saluto, Èva s’in­
trattenne un momento a giocare con lui, poi fece per entrare nel ca­
panno. Non aveva ancora percorso cinque passi in quella direzione,
che Abo l’assalì alla gola, ringhiando rabbiosamente e rizzando il
pelo. Èva fece appena in tempo ad afferrarlo per un orecchio e a te­
nerlo fermo. Il canile però era sprangato dall’interno. Dopo qual­
che secondo di tentennamento, perché quanto accadeva era incom­
prensibile, scavalcai il recinto più in fretta che potei e aprii il cancel­
lo. Èva trascinò Abo fino alla porta, ma lui nel frattempo era riusci­
to a piantarle i denti nell’avambraccio, proprio sotto il gomito, con
una tale forza che nel respingerlo i quattro lunghi canini le provoca­
rono delle ampie ferite. Fu subito accompagnata all’ospedale e ora
porterà tutta la vita delle grosse cicatrici in ricordo di Abo, che da
quel momento si mostrò così rabbioso verso di lei che per motivi di
sicurezza fummo costretti a optare per la più triste delle soluzioni.
Scodinzolando amichevolmente, l’animale, che continuava a nutrire
fiducia nei miei confronti, si lasciò fare l’iniezione che gli procurò
un lungo e profondo sonno, dal quale non si risvegliò più.
Il problema era chiarire perché al terzo parto il maschio avesse
espresso una volontà difensiva così selvaggia. Probabilmente, fino
a quel momento l’attaccamento giovanile aveva inibito la disposi­
zione alla difesa nei nostri confronti. Nel frattempo, però, il cane
aveva raggiunto l’età di tre anni. Già da tempo avevamo notato
che Abo dimostrava un comportamento più posato, riservato e
adulto. Era dunque possibile che la disposizione alla difesa avesse
superato i limiti che fino ad allora erano stati rispettati. Da quan­
do si è verificato quell’episodio, prima di andare a vedere una
cucciolata, portiamo i dingo maschi al guinzaglio fuori dal canile,
cosa che d’altronde a loro fa sempre piacere. Fuori, al guinzaglio,
anche un dingo adulto è un animale socievole, dal momento che
non c’è nessun motivo di rompere la vecchia amicizia. Un com­
portamento sbagliato da parte dell’uomo non scatena 1 aggressi­
vità soltanto nei dingo, ma rende feroci persino i cani più docili!
219
All’inizio del terzo anno di vita la personalità del cane si tra­
sforma in maniera definitiva. L’animale è maturo, il suo sviluppo è
completo, insomma, riprendendo il paragone con l’artigiano, l’al­
lievo è diventato ormai un maestro.
Ciò appare in maniera evidente osservando ancora una volta le
condizioni di vita e di sviluppo dei lupi. Abbiamo già visto che un
lupo si crea una famiglia tutta sua non prima dei ventidue mesi di
età. La coppia, che ha circa due anni quando nascono i primi cuc­
cioli, si dedica all’allevamento dei figli e, a quanto pare, si riunisce
con i genitori in autunno solo eccezionalmente. Ciò che, invece, è
abbastanza certo è che in autunno la giovane coppia e i piccoli
formino un proprio branco. Quando i cuccioli si trovano nella fa­
se dell’ordinamento gerarchico, i genitori, che hanno due anni e
mezzo, devono essere dei capi saggi per la propria famiglia, mo­
strare la loro superiorità sotto ogni aspetto e rappresentare un
modello, proprio come dei maestri.
Non in tutti i cani è possibile riconoscere questa maturazione
della personalità, e ciò dipende soprattutto dalla misura in cui l’ere­
dità degli antenati sopravvive in loro oppure è stata schiacciata o in­
debolita dalle trasformazioni causate dall’addomesticamento. Co­
noscere il processo di maturazione che avviene nel terzo anno di vi­
ta può essere importante per indurci ad assumere il ruolo di genito­
ri con maggior avvedutezza. Dobbiamo abituarci al fatto che il no­
stro cucciolo è diventato un cane adulto. Pensiamo ai giovani che si
ribellano perché i genitori non vogliono rendersi conto che i loro fi­
gli si stanno facendo grandi. Anche qui c’è un parallelismo piutto­
sto evidente con i casi in cui non si è instaurato un solido rapporto
di fiducia fra cane e padrone. Il pericolo che un cane si rivolti con­
tro la continua repressione perpetrata ai suoi danni da un essere
umano, che è soltanto un tiranno, non un capobranco, socialmente
più elevato nella gerarchia, si acuisce. Chi, come me, ha avuto mo­
do di osservare la ribellione di un cane da pastore represso resta
colpito dallo spirito di lotta di un animale del genere. Per quanto
mi ripugni addestrare dei cani in modo che si trasformino in guar­
diani feroci, non ho potuto fare a meno di ammirare quell’animale
che, come ultima risorsa, difendeva con i denti il proprio diritto.
Il mio sforzo, nel corso di questo libro, è stato di mettere in ri­
salto la struttura psichica dell’animale da preda cane che, per la
sua stessa natura, è orientata a una pacifica coesione di gruppo, e
220
inoltre di dimostrare che per il mantenimento dell’ordine nella so­
cietà canina l’aggressività riveste un’importanza secondaria. Po­
trei raccontare moltissime storie di cani che, avendo avuto un nor­
male sviluppo giovanile, si adoperano con ogni mezzo a loro di­
sposizione per instaurare dei legami ed evitare l’aggressività, op­
pure di cani amici fra loro che mimano l’aggressività esagerando i
gesti e gli atteggiamenti e, perciò, la sdrammatizzano.
Tutti questi fatti parlano da soli ed evidenziano quanto debba­
no essere gravi i motivi che inducono un cane, normalmente so­
cializzato, all’aggressione. Io, però, so bene che i casi in cui i cani
diventano aggressivi verso l’uomo o i conspecifici non sono perlo­
più determinati dalla causa contingente, che in apparenza sembra
quella reale, bensì trovano la loro vera spiegazione in uno svilup­
po giovanile che non si è svolto secondo natura. A causa di ciò, la
soglia dello stimolo dell’aggressività può abbassarsi fino al punto
che anche degli avvenimenti relativamente marginali sono in gra­
do di scatenarla.
Nel terzo anno di vita, dunque, il cane ci presenta il bilancio
del suo sviluppo giovanile. Nell’ambito del comportamento socia­
le e della disposizione all’aggressività, intervengono certo anche
delle mutazioni ereditarie. Troppo spesso si sono selezionati i cani
proprio in virtù della loro aggressività. Qualunque cinofilo rab­
brividisce al solo pensiero che dei civili mitteleuropei provassero
piacere ad assistere a spettacoli organizzati in cui i cani si sbrana­
vano fra loro. Oggi la riproduzione di cani dalla spiccata aggressi­
vità non è consentita, perciò il pericolo di un potenziamento del­
l’aggressività è molto limitato. Personalmente, però, sono del pa­
rere che si faccia ancora troppo poco per analizzare a fondo le ba­
si ereditarie del comportamento sociale. Se le componenti istinti­
ve del comportamento sociale sono ridotte, non è detto che, con
uno sviluppo giovanile articolato in maniera razionale e finalizza­
to a un certo scopo, un cane debba diventare necessariamente un
delinquente, tuttavia la soglia dello stimolo dell’aggressività sarà
certamente più bassa.
Per chi ama i cani, la conclusione è una sola: tutto ciò che ri­
guarda il procurarsi, l’educare e l’allevare dei cani presuppone
un’assunzione di responsabilità.
Chi desidera un cane farà cosa saggia a riflettere a lungo, e a
soppesare le attitudini del cane che si dispone ad acquistare nspet-
221
to alle proprie! Allevare un cagnolino e inserirlo nella famiglia è un
gioco molto divertente, ma avrà un risvolto ancor più gratificante
se alla base ci saranno serietà e comprensione, molta pazienza e, in
misura ancora maggiore, senso della responsabilità.
Avere un cane significa tenere con sé per dieci o quindici anni
una creatura che raggiunge il massimo sviluppo, rispondendo al
tempo stesso alle nostre aspettative, soltanto se ha la possibilità di
diventare un membro della nostra famiglia a tutti gli effetti. Con
tutti i doveri che ciò comporta, ma anche i diritti. Chi considera il
cane soltanto una proprietà di cui disporre liberamente, non do­
vrebbe mai farsene uno.
Dell’ultimo punto, quello riguardante l’allevamento su più va­
sta scala, desidero accennare soltanto all’aspetto positivo. Chi de­
sidera assumersi la responsabilità verso un’altra vita, e sente piace­
re nel farlo, dovrebbe senz’altro mettere su un allevamento. A
maggior ragione, se non ha preoccupazioni di natura economica,
non dovrebbe pensarci due volte. È adatto a fare l’allevatore an­
che chi, proprio per il senso di responsabilità di cui sopra, possie­
de sufficiente autocontrollo e determinazione da lasciar vivere so­
lo gli individui migliori. Infine, a chiunque abbia sete d’imparare e
si sforzi sempre di conoscere ciò che di meglio offre questo setto­
re, direi persino che ha il dovere di contribuire alla continuazione
della specie canina.
I lettori concorderanno con me sul fatto che l’allevamento dei
cani deve essere affidato solo a persone dotate di senso di responsa­
bilità, e che bisogna fare il possibile per impedire che quest’attività
finisca nelle mani di speculatori e affaristi che producono cani come
merci, in canili di massa. Non è pessimismo il mio, ma consapevo­
lezza che anche in Europa siamo ormai arrivati a questo punto!

Accoppiamento e gravidanza
Come ho già detto in precedenza, una cagna di solito è dispo­
nibile per la riproduzione due volte in un anno. Evito di dilungar­
mi, in questa sede, sui processi fisiologici del ciclo semestrale che
portano alla formazione di ovuli fecondabili. Qui, il nostro inte­
resse è soprattutto rivolto ai sintomi dell’estro, che si manifestano
soprattutto attraverso il comportamento.
222
Osservando con attenzione la nostra cagnetta, già molto prima
che cominci l’estro vero e proprio notiamo un aumento visibile
dell’attività, un’irrequietezza che spesso si scarica nel gioco. A
volte si manifesta anche sotto forma di una leggera eccitabilità che
cresce in maniera esponenziale nella settimana che viene definita
di “pre-estro”. In particolare, aumenta la voglia di giocare che,
avendo due cagne in casa, può assumere aspetti inquietanti. Capi­
ta spesso che le cagne che convivono entrino in calore nello stesso
periodo, probabilmente per via di un “transfert di clima” (Stirn-
mung-sübertragung) che stimola l’attività ghiandolare reciproca.
Nella settimana del pre-estro, sono prodotte in abbondanza
quelle sostanze odorose sul cui effetto ad ampio raggio ci siamo
già soffermati. La nostra passeggiata quotidiana comincia ora a
presentare delle difficoltà, perché tutti i cani liberi del circondario
ci seguono senza darci tregua. La nostra cagna è contenta, ma ciò
non le impedisce di mostrare i denti quando i corteggiatori diven­
tano troppo insistenti. Il suo comportamento oscilla tra seduzione
e rifiuto del maschio, un comportamento che persino l’etologo, in
genere allergico a qualunque antropomorfismo, non esita a defini­
re civettuolo. Il comportamento della femmina accende ulterior­
mente il maschio, raggiungendo così il suo scopo.
Interessante e indicativo dell’elevato livello sociale del cane è il
fatto che i maschi in cerca d’amore, contrariamente a quanto si
pensi, non lottano per la femmina, bensì la corteggiano tutti insie­
me pacificamente, lasciando a lei l’ultima parola. Quante volte mi
è capitato di vedere dei maschi, malati d’amore, montarsi a vicen­
da, travolti dalla passione!
I cani che vivono in coppia, invece, manifestano in questo pe­
riodo le effusioni che abbiamo già avuto modo di commentare.
Proprio come gli uomini quando sono innamorati, i cani diventano
infantili e fanno un sacco di sciocchezze. Altri gesti comuni sono:
dare leggeri colpetti col naso, annusare il partner e, naturalmente,
ispezionare spesso i genitali.
Dopo il pre-estro, che dura all’incirca una settimana, con la
comparsa di perdite di sangue ha inizio l’estro vero e proprio. Una
cagna dall’istinto integro fa molta attenzione alla fuoriuscita di que­
ste gocce di sangue color rosso vivo, e le elimina con la lingua. Pur­
troppo, nella maggior parte delle nostre cagne questo istinto e
scomparso, con chiare conseguenze per le nostre abitazioni. A volte
223
l’accoppiamento con il maschio può avvenire anche durante le me­
struazioni, senza però che vi sia fecondazione degli ovuli. In genere,
la cagna respinge i tentativi di monta del maschio e vi si sottrae se­
dendosi a terra o premendo il treno posteriore contro una parete.
Chi possiede una cagna probabilmente conoscerà già quello a
cui va incontro. La prima domanda da porsi è se la cagna sia adatta
alla riproduzione. Per un animale di razza, la decisione si prende in
base agli standard. Se l'esito è negativo, il periodo successivo sarà
dei più duri, poiché avere in casa una cagna in amore è un vero tor­
mento. Per di più, bisogna stare continuamente all’erta per evitare
che la cara bestiola se la squagli e combini qualche guaio.
Ho già detto che i cani non possiedono uno schema innato per
valutare le dimensioni dei conspecifici. Se la nostra femmina di ala­
no s’imbatte in un pinscher nano maschio, passi, a patto che lei sia
esperta e semplifichi la vita al suo piccolo corteggiatore sdraiando­
si a terra. Se però è una femmina di bassotto a incontrare un cane
da pastore, la cosa diventa preoccupante. Non è una disgrazia irre­
parabile, come molti pensano, che una cagna sia coperta da un ma­
schio di razza diversa. La teoria che, in tal caso, la femmina è rovi­
nata per sempre è soltanto una sciocca superstizione che dovrebbe
essere morta e sepolta da tempo, mentre invece ricorre nelle do­
mande che ci si sente rivolgere più spesso. Tuttavia, se la cagna vie­
ne coperta da un cane che appartiene a una razza di taglia molto
superiore, la cosa cambia, perché al momento del parto insorgono
complicazioni tali da compromettere per sempre la capacità ripro­
duttiva dell’animale. In casi del genere dunque, bisogna assoluta-
mente e immediatamente correre alla clinica veterinaria o dal vete­
rinario di fiducia, al fine d’impedire lo sviluppo degli ovuli già fe­
condati.
Se invece la cagna è coperta da un maschio della sua stessa ta­
glia o di taglia inferiore, la si può far portare a termine la gravidan­
za, togliendole i cuccioli subito dopo il parto.
Tale azione non è affatto crudele come appare. Per casi del ge­
nere, la natura ha previsto una misura precauzionale. La vita allo
stato brado è idilliaca soltanto nelle favole romantiche, che ne esal­
tano la felicità e libertà. In realtà, le dure condizioni della vita natu­
rale spesso portano ad atti estremi come l’annientamento dei cuc­
cioli. Citerò qui l’esempio di Stasi, che smise addirittura di produr­
re latte perché i suoi piccoli non avevano abbastanza energia di su­
224
zione. Se i cuccioli non sono neppure in grado di succhiare, la pro­
duzione di latte e, di conseguenza, ogni istinto materno scompaio­
no ancor più facilmente. Il parto, in questo caso, rappresenta per
la cagna soltanto la conclusione della gravidanza, e l’animale ri­
prende la sua vita normale, come se nulla fosse accaduto, per en­
trare in un nuovo periodo di calore, una volta trascorsi sei mesi.
Quando il veterinario li narcotizza, i cuccioli praticamente non
se ne accorgono. In nessun caso è lecito tentare di affogarli o di
sopprimerli con sistemi del genere. La natura, infatti, ha predi­
sposto che i cuccioli abbiano una resistenza straordinaria contro
le influenze del mondo esterno. Addirittura, sono tarati per stare
parecchie ore senza nutrimento, una capacità che ci evita di sve­
gliare il veterinario nel cuore della notte. Deponiamo i cuccioli su
un panno morbido all’interno di una scatola da scarpe, che ripor­
remo in un luogo caldo ma abbastanza lontano dalla cagna, in
modo che non possa localizzarlo. I piccoli aspettano paziente-
mente dormendo fino al mattino successivo, senza essere tormen­
tati dalla fame o da altri bisogni. Se qualcuno ha qualche perples­
sità in proposito, pensi per un attimo ai neonati in clinica: anche
loro vengono separati dalla mamma e, di solito, sono lasciati senza
cibo per circa venti ore.
Mettiamo ora il caso che la nostra cagna sia adatta alla riprodu­
zione. Molte persone guardano a questa possibilità con un certo
scetticismo, perché pensano di non poter allevare dei cuccioli. In
genere, però, immaginiamo le cose più complicate di quanto in
realtà siano. Sciogliere queste perplessità è facile e io farò il possi­
bile per riuscirvi. Innanzi tutto, però, bisogna essere assolutamente
sicuri di riuscire a trovare una sistemazione per i cuccioli che na­
sceranno: in caso contrario, rischiereste di finire come me, che non
odio nessuno al punto di rifilargli uno dei miei animali selvaggi.
Partiamo dal presupposto che una persona ragionevole, pur
amando i cani, ne tenga uno solo, per poterne soddisfare le esi­
genze di spazio. Mi riferisco a persone che, in un monolocale, non
tengono un San Bernardo ma, al massimo, un bichon, un maltese
o qualunque altro cane nano. Dove c’è posto per una cagna, ce
n’è abbastanza anche per i suoi piccoli, magari per l’intera cuccio­
lata. Fino all’ottava o nona settimana di vita, lo spazio è più che
sufficiente! Come abbiamo visto, fino a quell’età le pretese terri­
toriali dei piccoli non vanno oltre la madre. Per chi, invece, avesse
225

L
delle riserve riguardo al parto, sarà molto utile quello che leggerà
nelle pagine seguenti. Premetto un’unica cosa: chi ha dei timori
fondati perché possiede una cagna che, a causa di una selezione
troppo rigida, è destinata a partorire con difficoltà, farà a bene a
rinunciare in partenza a mettere su un allevamento.
Chiarite queste premesse, posso garantire, con la coscienza tran­
quilla, molte ore di autentica gioia, perché assistere a una nascita e
seguire i rapporti fra madre e figli è uno degli aspetti più belli della
vita, già ricca di esperienze interessanti, di un allevatore di cani. Per
poter vivere questi momenti, però, occorre a questo punto far ac­
coppiare la nostra cagnetta con il maschio prescelto. Il periodo giu­
sto è facile da individuare poiché è compreso fra il nono e il tredice­
simo giorno dall’inizio della mestruazione, che normalmente dura
solo una settimana. Nella seconda settimana dell’estro, gli ovuli del­
la femmina sono quasi tutti maturi e, perciò, fecondabili. Di solito è
sufficiente un unico atto sessuale per fecondare più ovuli.
Non tutti gli ovuli sono fecondati contemporaneamente. Se il
momento della fecondazione è stato calcolato con esattezza, non è
esclusa la possibilità che gli ovuli giunti a maturazione due o tre
giorni dopo siano fecondati da quell’unico atto sessuale, essendo
questa la durata della vita degli spermatozoi. Nel caso in cui una
cagna venga coperta da due maschi diversi a distanza di pochi
giorni, il padrone riceverà una bella sorpresa: nella cuccia, accanto
ai piccoli di razza pura, troverà anche dei bastardi. E già successo
a molti, che erano convinti che la loro cagna, dopo aver concepito,
non fosse più fecondabile. I sintomi tipici dell’estro scompaiono
rapidamente dopo un atto sessuale che ha raggiunto lo scopo, tut­
tavia non è esclusa un’altra fecondazione, da parte di un secondo
maschio, degli ovuli che al momento del primo accoppiamento
non erano ancora maturi. Qualche cagna non disdegna di conce­
dersi di nuovo al maschio anche verso la fine dell’estro. La mia
elkhound Binna, ad esempio, ha offerto le sue grazie al mio Strixi
addirittura al diciottesimo dall’inizio delle mestruazioni, quando
non mostrava quasi più sintomi di calore e credevamo di non do­
ver più fare attenzione. Naturalmente da quell’accoppiamento
non nacquero dei figli, ma quest’eventualità non si può escludere
a priori. Chi non vuole che la sua cagna venga coperta farà bene a
sorvegliarla per almeno quattro settimane: la settimana di pre­
estro, la settimana delle mestruazioni, la settimana degli accoppia-
menti e la settimana di post-estro, perché in qualche caso non ci si
accorge subito dell’inizio delle mestruazioni.
Non dobbiamo scoraggiarci se, portando una femmina dal ma­
schio che abbiamo scelto per lei, questa mostra i denti al primo
incontro. D’altronde, da un animale di cui lodiamo le qualità psi­
chiche per altri aspetti, non possiamo aspettarci che accetti la no­
stra scelta incondizionatamente. Ho già ricordato come, allo stato
naturale, è la cagna a scegliere il pretendente. La nostra cagnetta
non sa nulla di pedigree e di vincitori di mostre, ha solo un sano
istinto per riconoscere un maschio “giusto”. Perciò, non è assolu­
tamente detto che debba concordare con le nostre considerazioni
razziali e pertanto, in certi casi limite, potrebbe anche che rifiutar­
si di accoppiarsi con il maschio che le abbiamo assegnato.
In genere, però, basta avere pazienza e lasciare alla cagna un
po’ di tempo per prendere confidenza con il maschio. Se questo è
un tipo in gamba, saprà corteggiarla in un modo tale che lei, com­
mossa dalla sua amabilità, non potrà che cedere. Se invece il ma­
schio non sa nulla di rituali amorosi, sarà bene che rinunciamo
noi a lui, anche se ha uno splendido pedigree. Infatti, quando il
comportamento istintivo in ambito riproduttivo appare carente è
opportuno riflettere su quelle che potrebbero essere le conse­
guenze di una selezione troppo superficiale. Un indebolimento
deiristinto in tal senso può trasformarsi, nelle generazioni succes­
sive, in una vera e propria incapacità riproduttiva, che alla fine ci
costringerebbe a far inseminare le nostre cagne artificialmente.
Forse a qualcuno la cosa non apparirà così grave, ma quello che è
veramente grave è che sono già moltissime le cagne che, a causa di
una simile mentalità radicata in molti allevatori, non sono più in
grado di partorire e per le quali bisogna ricorrere al taglio cesa­
reo. A questo punto, dico basta: un allevamento condotto contro
ogni principio biologico degenera nel maltrattamento degli ani­
mali, e questo è inaccettabile!
È piuttosto deprimente constatare come, purtroppo, la vita
amorosa per i nostri cani si sia impoverita. Conoscendo l’alto li­
vello di socialità di questi animali, ci si rende conto che il processo
riproduttivo per loro non può essere una questione limitata al pu­
ro atto sessuale. Quello che si vede nei canili dove i cani hanno la
possibilità di vivere secondo natura, cioè in coppia, non ha nulla
da invidiare a quella che è la nostra stessa immagine dell amore.
227

L ________________________
La differenza sta nel contenuto simbolico del nostro linguaggio,
che è un mezzo comunicativo molto più variegato rispetto al com­
portamento espressivo del cane. Tuttavia, ciò che si nasconde die­
tro, ovvero le sensazioni psichiche averbali, non credo sia molto
diverso da quello che proviamo noi.
Non lasciamoci trarre in inganno se la nostra cagna, intorno al­
l’undicesimo giorno del suo periodo di calore, si mette nella posi­
zione adatta per farsi montare dal maschio. Le cause di un com­
portamento espressivo così rozzo dipendono sia da una riduzione
degli istinti, sia dal fatto che una cagna, tenuta isolata durante tut­
to il periodo precedente, non è più in grado di dominare i propri
bisogni. Visto, però, che la cosa agevola i nostri sconsiderati pro­
positi, siamo tutti belli soddisfatti della nostra cagna. Anche il ma­
schio che monta con eccessiva disinvoltura una cagna è ritenuto
un bravo “stallone” da tutti quelli che di cani capiscono soltanto
quello che sta scritto sul pedigree.
Così facendo, sprechiamo l’opportunità di cogliere i primi se­
gnali della diminuzione d’istinto in ambito procreativo, che an­
nunciano futuri indebolimenti biologici, come una ridotta capa­
cità riproduttiva, difficoltà durante la gravidanza e il parto, perdi­
ta dell’istinto materno, e di conseguenza il nostro sistema d’alleva­
mento favorisce inevitabilmente degenerazioni di questo tipo.
E ovvio che, se possediamo una cagna di razza pura, dobbiamo
ponderare bene la scelta del maschio, ma che succede se poi stabi­
liamo che il cane adatto vive a duecento chilometri di distanza?
Chi di noi può permettersi di prendere una o due settimane di va­
canza per fare giocare insieme le due bestie qualche ora al giorno?
Sono difficoltà non sempre superabili. A volte, l’unica possibilità
è recarsi sul posto per un giorno o due con la cagna, per sbrigare
la faccenda con la massima rapidità. Nel caso di un’eventualità del
genere, tutti i padroni di cani dovrebbero sottoporre i propri ani­
mali, maschi e femmine a un test preventivo. Se il test è positivo,
cioè rivela un comportamento riproduttivo altamente disturbato,
bisogna fare appello a tutto il proprio senso di responsabilità per
impedire che questi problemi si trasmettano alla prole.
Per concludere, vorrei aggiungere che i sintomi negativi legati
all’ambito riproduttivo non vanno considerati come fatti isolati.
Un organismo non è fatto a compartimenti stagni, e qualunque
turba in un determinato ambito si ripercuote in tutto l’individuo.
228
La riproduzione costituisce una delle componenti principali, che
è intimamente connessa a tutte le altre. Un antico proverbio cine­
se dice: quando una foglia si muove al vento, tutto l’albero trema.
Durante il periodo dell’estro i modelli comportamentali sono
gli stessi che abbiamo osservato nei preliminari dell’accoppiamen­
to. Il maschio resta sempre a fianco della compagna ed entrambi
non trovano quasi più il tempo per mangiare, ma giocano, si az­
zuffano e si annusano tutto il tempo. A un certo punto, la cagna fa
capire di essere pronta: smette di scappare e di difendersi e resta
dritta sulle quattro zampe, con la coda spostata di fianco. Per il
maschio è il momento propizio per montarla. Con le zampe ante­
riori stringe la cagna, che rimane immobile, e affonda il naso nella
sua pelliccia, oppure appoggia la testa, con la bocca tesa e l’e­
spressione fissa, su un lato della sua groppa o sull’attaccatura del
collo di lei.
I cani non mantengono questa posizione a lungo, in genere
non più di un minuto. Poi il maschio scende, la cagna si volta ver­
so di lui, ma gli animali rimangono ancora uniti. Il fatto che conti­
nuino a stare attaccati per dieci o venti minuti spesso non viene
interpretato correttamente. Si tratta di un modello comportamen­
tale proprio di ogni canide, basato sulle peculiarità anatomico-fi­
siologiche dell’organo riproduttivo maschile. Nel pene dell’ani­
male, infatti, si trova un corpo cavernoso che si dilata per impedi­
re la fuoriuscita del membro durante il coito e impiega parecchio
tempo per tornare alle dimensioni normali. Gettare dell’acqua
fredda su due cani accoppiati, o fare altre stupidaggini del genere,
dimostra solo una deplorevole crudeltà.
Appena l’atto sessuale si è concluso, i cani si ripuliscono. Di
solito la cagna manifesta un atteggiamento divertito, caratterizza­
to da esagerati inviti al gioco e da salti grotteschi, mentre il ma­
schio mostra scarsa inclinazione a condividere l’esuberanza della
compagna.
Talvolta, è possibile osservare la monta di un maschio su una
femmina anche al di fuori del periodo dell’accoppiamento, senza
che ciò comporti l’erezione o il coito. Succede sempre quando si
mettono insieme un maschio e una femmina dando loro la possi­
bilità di stringere amicizia. Questa monta simbolica è la dimostra­
zione di una presa di possesso da parte del maschio, e del proprio
diritto coniugale di fronte a un individuo estraneo. Spesso, poi, 1
229
cani maschi si montano fra loro, e in tal caso si tratta di una dimo­
strazione di superiorità gerarchica.
Per le femmine dei nostri cani, così come per quelle di lupo e
di sciacallo, la gravidanza dura in media sessantatré giorni, con
oscillazioni comprese tra i cinquantanove e i sessantacinque gior­
ni. Finora, per quanto riguarda i miei dingo, ho registrato solo pe­
riodi di gravidanza di cinquantanove e di sessanta giorni, che sono
normali anche per molte nostre cagne domestiche.
Durante la prima metà della gravidanza non accade nulla di par­
ticolare. Soltanto verso la fine di questa prima fase, la cagna si pre­
para gradualmente ad affermare sul maschio il proprio predominio,
che si manifesterà ampiamente nella seconda parte della gravidan­
za. Il maschio è quasi sottomesso, si dimostra molto permissivo nei
confronti della compagna e la rispetta sempre. Tutti gli atteggia­
menti della cagna dimostrano consapevolezza e sicurezza di sé.
La superiorità della cagna è evidente soprattutto per ciò che ri­
guarda il cibo. Mentre prima il maschio faceva valere il proprio di­
ritto sul cibo e la cagna doveva accontentarsi di quello che le la­
sciava, adesso la situazione è capovolta. E necessario che sia così,
perché dalla quinta settimana di gravidanza in poi i feti crescono
piuttosto in fretta stimolando nella gestante il bisogno di un ade­
guato nutrimento. E una credenza sbagliata, ma molto diffusa, che
attraverso il processo di domesticazione i nostri cani siano diven­
tati perlopiù dei frugivori, che si cibino cioè solo di verdure e di
carboidrati. Almeno durante la gravidanza, bisognerebbe avere il
buonsenso di limitare i carboidrati, usandoli tutt’al più per inte­
grare il pasto, somministrando invece la carne, che è in realtà l’ali­
mento che più si addice al cane. Carne cruda, interiora crude, ma
non per la ragione che questo rende il cane feroce, come spesso si
sente dire. La carne cruda non rende un cane più feroce, lo fa solo
vivere sano. Soltanto un cane che si ciba di carne è attivo e in gra­
do di sviluppare al meglio tutte le sue potenzialità ed energie. I ca­
ni nutriti prevalentemente con cibo ricco di albumina diventano
ottusi, indifferenti, pigri, il loro comportamento appare indebolito
sotto tutti i punti di vista. Soltanto un cane nutrito nel modo giu­
sto sviluppa i modelli comportamentali che gli sono propri, ed è
questa la sede adatta per parlarne.
I cani di razza piccola o nana, con le mascelle corte e perciò con
denti poco sviluppati, non riescono certo a sbranare dei grossi pez-
230
zi di carne, come fanno i lupi. Per loro, quindi, dovremo procurar­
ci della carne più tenera, oppure dovremo tritargliela noi stessi. La
cagna gravida non può ingrassare per colpa di un’alimentazione a
base di carboidrati, perché questo non solo danneggia lo sviluppo
dei cuccioli, ma rende anche più difficile il parto. I feti che cresco­
no nel ventre materno devono sviluppare cartilagini e ossa, così co­
me muscoli, nervi e vasi sanguigni, tutte parti che non si formano
certo con i fiocchi d’avena, ma con le proteine, le vitamine e i sali:
dobbiamo, quindi, preparare un menù adatto. Le uova crude rap­
presentano un ottimo alimento integrativo, mentre un po’ di fega­
to di merluzzo o un preparato multivitaminico serviranno certa­
mente a colmare eventuali lacune di sostanze necessarie alla cresci­
ta e allo sviluppo. In questo periodo permetteremo alla cagna di
mangiare tutte le volte che lo desidera, in modo che non debba
riempirsi lo stomaco in un unico pasto. Nelle ultime settimane de­
ve comunque fare almeno tre pasti al giorno.
Nella seconda parte della gravidanza aumenta anche il bisogno
di riposo. Senza rinunciare alle consuete passeggiate, permettere­
mo alla cagnetta di rientrare quando ne ha voglia, perché solo lei è
in grado di stabilire di quanto moto ha bisogno. Il suo ventre si
arrotonda sempre più, ma è meglio evitare di tastarlo in continua­
zione per sentire se i piccoli si muovono, potremmo provocare lo­
ro delle lesioni, con conseguenze anche molto gravi. Se non siamo
sicuri che la cagna abbia concepito e vogliamo accertarcene, è me­
glio che ci rivolgiamo a un veterinario. Un altro sintomo di gravi­
danza è che, dopo la quinta o la sesta settimana, le mammelle s’in­
grossano e s’induriscono. Alcuni giorni prima del parto s’inturgi­
discono anche i capezzoli.
Durante le ultime settimane sopporteremo con pazienza l’ecci­
tabilità e il nervosismo della nostra cagnetta, sintomi che in gene­
re compaiono soprattutto in una primipara. Nelle gravidanze suc­
cessive, infatti, la cagna sa già cosa l’aspetta e perciò il suo com­
portamento è più rilassato. Quando le perdite, che inizialmente
sono inodori e incolori, cominciano ad assumere un colore verda­
stro, di solito significa che mancano soltanto poche ore. Chi si è
preoccupato di misurare la temperatura corporea, noterà anche
un abbassamento di uno o due gradi. L’inappetenza, che normal­
mente si manifesta nelle ultime ventiquattr’ore, è un altro sintomo
che il grande momento si sta avvicinando.
231

L _________________________
Nascono i cuccioli
Vorrei, innanzi tutto, descrivere per sommi capi lo svolgimento
di un parto normale e, per farlo, prenderò ad esempio quelli, av­
venuti tutti secondo le stesse modalità, delle mie dingo, che mi
hanno offerto più volte l’occasione di assistere e di fotografarne
ogni particolare. La natura ha preordinato un evento di tale im­
portanza in modo che proceda senza intoppi e si concluda nel mo­
do migliore. L’animale selvaggio è l’unico in grado di offrirci il pa­
radigma di ciò che è normale, perché la natura non ammette ano­
malie. Entro certi limiti queste possono sussistere ed essere conte­
nute grazie alla protezione e alla cura dell’uomo, ma quando sono
tali da rendere una cagna incapace di partorire, dovremmo arren­
derci anziché accanirci sui poveri animali.
Alcune ore prima del parto, la cagna dingo è tutta affaccendata
intorno alla cuccia dove partorirà, la raspa ed elimina eventuali re­
sidui di paglia o altro materiale. Il fondo della cuccia dev’essere li­
scio e ben pulito! Inizia, poi, la cosiddetta “fase della dilatazione”,
durante la quale il collo dell’utero si allarga. Anche una cagna din­
go è in grado di esprimere la sofferenza del travaglio: inarca la spi­
na dorsale, si contrae tutta, i muscoli s’irrigidiscono, il muso assu­
me un’espressione tesa. Negli intervalli fra le doglie, che durano
circa un minuto l’una e arrivano un paio alla volta, la cagna si lec­
ca la vulva e pulisce la zona circostante, riposandosi di tanto in
tanto. Tuttavia, non resta ferma per molto, e poco dopo salta di
nuovo in piedi e torna a occuparsi della cuccia. Questo gesto au­
tomatico e ossessivo di raspare il legno liscio della cuccia ci dimo­
stra ancora una volta, in maniera molto chiara, cosa sono le coor­
dinazioni ereditarie o schemi motori fissi: raspare interrompendo­
si ogni tanto per fiutare accuratamente ha senso solo sulla terra
nuda. Il carattere coatto di questo istinto è indicato anche dall’at­
teggiamento teso, dall’espressione fissa e assente del muso, accen­
tuata dagli angoli della bocca tirati all’indietro e, inoltre, dall’in­
sensibilità dell’animale ai nostri richiami.
Nei momenti d’intervallo fra le doglie, in cui non obbediscono
all’istinto di raspare, le mie femmine dingo sono molto amichevo­
li, ed esternano la loro gioia per la presenza dell’uomo poggiando­
gli la testa sulle ginocchia nel momento in cui sta per arrivarne
un’altra.
232
Una volta che è passata, la cagna si mette a cuccia per riposarsi
un quarto d’ora. Di tanto in tanto si risveglia dal suo sonno legge­
ro e solleva una delle zampe posteriori per controllare la dilatazio­
ne della vagina. A questo punto, bisogna fare molta attenzione se
non ci si vuole perdere la fase espulsiva: la zampa rimane alzata e
ci accorgiamo che, invece di fare il solito controllo, la cagna sta
leccando via la membrana che avvolge il cucciolo che sta venendo
alla luce. Di solito, quando il cucciolo atterra vicino alla mamma,
la membrana placentare è stata già completamente mangiata, tan­
ta è la rapidità e la precisione con cui tutto si svolge, anche per il
primo cucciolo del primo parto.
Faccio appena in tempo a scattare una fotografia della prima
nascita che, nei sette secondi necessari a ricaricare l’apparecchio,
la cagna ha già mangiato la placenta e reciso il cordone ombelica­
le a tre o a quattro centimetri dal ventre del cucciolo. Al secondo
flash, la cagna sta già leccando il cucciolo, tutto fradicio, che spa­
lanca la bocca, tira fuori la lingua ed emette il suo primo, profon­
do respiro.
Ora la cagna ha dieci o venti minuti di tempo per occuparsi del
cucciolo e riposarsi un po’. Il cucciolo sgambetta sulla sua pancia e
si attacca alla mammella. La cagna avverte un’altra spinta, cui se­
gue una seconda, raramente una terza, ed esce il secondo cucciolo.
Il parto di cinque o sei cuccioli non dura complessivamente più di
due ore.
Così si svolge un parto “ideale” per la specie canina. Ho letto
di parti che si svolgono in un tempo più breve, ma in quei casi c’è
qualcosa che non mi convince: la cagna ha troppo poco tempo
per riposarsi, per occuparsi dei cuccioli e per riprendersi un po’
fra una nascita e l’altra. Leccare un cucciolo per asciugarlo richie­
de almeno cinque minuti, così come per leccare il sangue fuoru­
scito e ripulire la vulva ci vuole un certo tempo. Di conseguenza,
l’eccessiva rapidità del parto non mi sembra particolarmente au­
spicabile per i nostri cani.
Dalla nascita del primo cucciolo a quella del settimo, la mia
elkhound Binna impiega per ogni parto quattro ore, cioè quasi il
doppio della durata del parto di una dingo. Solo quando il cuc­
ciolo è completamente uscito e giace accanto a lei, Binna lo libera
dalla membrana. Si può, quindi, osservare in ogni particolare co­
me fa a recidere il cordone ombelicale e a estrarre la placenta, e io
233
riesco a scattare più di una fotografia nel tempo in cui dura l’inte­
ra operazione. Tutto si svolge più lentamente a confronto di una
cagna selvatica. Binna è un animale addomesticato, pur se entro li­
miti tali da non compromettere l’integrità dell’istinto. Anche nelle
ore che precedono il parto, durante la fase della dilatazione, Binna
non esprime grandi sofferenze, anzi, ho l’impressione che sia an­
cora più rilassata di una dingo.
Eugen Seiferle, veterinario e specialista di cani dei più esperti,
scrive: “Per cucciolate piuttosto numerose, complessivamente la
fase espulsiva dura in genere da otto a dodici ore”, e aggiunge che
“l’intero parto deve concludersi al più tardi entro ventiquattr’o-
re”. Ecco, dunque, a che punto sono arrivati i nostri cani: la len­
tezza del parto è un indice evidente di quanto la forza vitale si sia
indebolita nei cani domestici.
Seiferle parla però di cucciolate piuttosto numerose. I conti so­
no presto fatti: se le mie dingo partoriscono sei piccoli in due ore,
in quattro ore ne partorirebbero dodici, quindi, aggiungendo
un’altra ora per la prestazione straordinaria, arriveremmo comun­
que a cinque ore, mai a otto o a dodici.
Esaminiamo ora la questione relativa al numero dei cuccioli.
Fra i canidi strettamente imparentati con i nostri cani domestici,
la media normale si aggira sui quattro o sei cuccioli. Se una cagna
ne sforna dodici, siamo tutti contenti, pensando di possedere un
animale straordinario, nonché un’ottima fattrice. La nostra smania
di record non si ferma di fronte a nulla, nemmeno alla violenza
perpetrata ai danni di una creatura: che senso hanno queste cuc­
ciolate da primato? Una cagna ha dieci mammelle, di cui il primo
paio è in genere quasi atrofizzato, dato che, fra i canidi da preda, il
numero originario d’individui per ogni cucciolata è andato dimi­
nuendo. Otto mammelle perfettamente efficienti bastano per un
numero normale di cuccioli, che comunque non dev’essere mai
superiore a otto. Un allevatore con un po’ di senso di responsabi­
lità dovrebbe escludere dalla riproduzione una cagna che partori­
sce più di otto piccoli per volta. A noi non interessa una riprodu­
zione di massa, vogliamo invece ottenere individui sani, secondo
natura. Per lo stesso motivo, è opportuno escludere dalla riprodu­
zione una cagna che partorisce per due volte consecutive da uno a
tre cuccioli soltanto, perché anche in questo caso c’è qualcosa che
non funziona.
Questa mia affermazione non è arbitraria. Io conduco degli
esperimenti dall’esito negativo praticamente certo, proprio per co­
noscere le cause che determinano questi difetti biologici e per evi­
tarli in futuro. Grazie a una selezione molto accurata, sono quindi
riuscito a ottenere una specie di dingo le cui femmine non partori­
scono mai più di due cuccioli alla volta. Ma non è tutto: queste ca­
gne incontrano notevoli difficoltà durante la fase della dilatazione,
e per partorire i due cuccioli spesso impiegano più di due ore! L’i­
stinto di una di queste cagne è talmente alterato che, nel recidere il
cordone ombelicale, la madre provoca delle lesioni alla cute addo­
minale del cucciolo. Un altro esempio di come in natura tutto si
compenetra. E chiaro che per me un risultato del genere basta e
avanza per porre fine all’esperimento. Posso, però, aggiungere
un’altra cosa: se esistesse uno standard anche per la razza dingo,
queste cagne, per la loro indole estremamente socievole, avrebbero
un ottimo punteggio! Sarebbe persino autorizzate alla riproduzio­
ne di questa razza minorata, tanto quello che avviene nella penom­
bra della cuccia e le urla di dolore che accompagnano le doglie nel­
la fase di dilatazione non sarebbero certo menzionati nel pedigree!
A ogni modo, passiamo oltre e soffermiamoci invece sugli altri
aspetti del parto. Innanzi tutto bisogna preoccuparsi della cuccia,
che bisognerà preparare una decina di giorni prima dell’evento,
per consentire alla cagna di abituarcisi.
La futura mamma si preoccupa quasi disperatamente di tenere
pulita la cuccia dove partorirà. In particolare, si assicura che sia ben
asciutta, perché niente nuoce ai cuccioli quanto l’umidità. Una vol­
ta una delle mie cagne si era intestardita a non voler mettere al
mondo e allevare i cuccioli nel capanno che era stato previsto allo
scopo: evidentemente, in quel momento le sembrava più giusto tor­
nare alle usanze degli antenati e scavare una fossa sotto il canile. E
questo, per di più, in pieno inverno, con una temperatura che, la
notte, scendeva a venti gradi sotto zero! La cosa non mi convinceva
molto: è vero che sono un fautore dell’allevamento secondo natura,
di una severa selezione e della conservazione del patrimonio istin­
tuale, ma quando fa freddo al punto che la mia barba si riempie di
ghiaccioli, sono più propenso a tradire anche un sano principio.
Decisi, dunque, d’interrare la tana scavata dalla mia cagna per
costringerla ad adattarsi al canile, ma quando mi trovai nel recinto
a riflettere su come eseguire il lavoro, patii tanto freddo che la so­
235

L
la idea di dover trascorrere un’altra ora nella neve, sul terreno ge­
lato, le assi ricoperte di ghiaccio e simili amenità invernali, mi par­
ve spaventosa. Decisi perciò di mantenere fede ai miei principi la­
sciando andare le cose per il loro verso, e mi tornai di corsa in ca­
sa, al caldo.
La cagna riuscì a fare di testa sua, cioè a partorire e ad allevare
i cuccioli nella tana scavata in terra. Premetto subito che tutto
andò benissimo. La brava mamma giacque per due giorni vicino ai
cuccioli come una chioccia con i pulcini. I piccoli si sentivano ug­
giolare vivacemente né più né meno degli altri che vengono al
mondo in una cuccia piena di comfort. Al terzo giorno, non aven­
do altro modo di accedere alla cuccia e volendo vedere che cosa la
cagna ci avesse regalato, schiodai un’asse del pavimento del canile.
I sei cuccioli, che da quel giorno in poi furono pesati regolarmen­
te, rispondevano a ogni migliore aspettativa, e sembravano sentir­
si molto più a loro agio nel gelido buco scavato in terra che nella
stanza riscaldata dove avveniva la pesa.
La madre aveva pensato a tutto, fin nei minimi dettagli. La fos­
sa nel terreno gelato era certamente più fredda della cassetta pre­
parata nel capanno, inoltre il mantello dei cuccioli era pieno di
sabbia, ma il posto era decisamente asciutto, e inoltre delle dimen­
sioni giuste per lei e i suoi piccoli, rispetto al capanno, troppo
grande. In un posto così ci si sente sicuri e protetti, si aderisce a
ogni lato e i cuccioli stanno bene, tutti vicini.
Nella scelta di una cuccia in cui partorire, ogni cagna ha le pro­
prie idee. Una volta ho portato una dingo prossima al parto in una
stanza non riscaldata dove la temperatura, misurata a terra, si ag­
girava intorno ai due gradi sotto zero. A disposizione c’era una
specie di stallo dalle robuste pareti, sufficientemente spazioso, che
già altre volte era servito ottimamente allo scopo. Vicino c’era una
cassetta di legno piatta, piena di segatura. Un dingo capisce subito
perché è lì. La mia cagna invece usò la segatura per deporre le feci
dopo averla interamente raspata fuori. Trovava che la cassettina
fosse proprio quello che ci voleva per dormire e partorire, e non si
schiodò da questa convinzione neanche quando ripristinai la di­
sposizione originale e rimisi la cagna sullo stallo. L’animale si rimi­
se subito al lavoro e ripulì la cassetta. Volendo vedere come si sa­
rebbe evoluta la cosa, le portai via la cassettina. La cagna, allora, si
accovacciò nell’angolo dove prima c’era la cassetta, ignorando,
236
con la cocciutaggine di cui soltanto i dingo sono capaci, tutti i
miei inviti e le mie indicazioni a occupare il pratico stallo dove già
altre cagne avevano partorito.
A questo punto fui costretto a cedere. La cagna riebbe la sua
cassetta, dove partorì tutta contenta. Feci un altro tentativo per
imporre la mia superiorità e, dopo averli pesati, misi i cuccioli nel
posto che avevo preparato per loro. La cagna, abituata a questi di­
spetti, con umiltà e pazienza prese un cucciolo dopo l’altro e lo ri­
portò nella sua cassetta. Poi si sdraiò anche lei vicino a loro e
chiuse gli occhi, facendo capire che voleva starsene finalmente in
pace e smettere di litigare con me.
La stessa cosa sarà capitata a chiunque abbia avuto a che fare
con una mamma cagna. Nonostante le nostre buone intenzioni, la
cagna insisterà per avere quello che ritiene giusto e opportuno. Se
sistemiamo i cuccioli nel luogo che abbiamo preparato anche per
cento volte, puntualmente lei li riporterà nella cuccia che ritiene
più adatta.
Non dovremmo essere più zelanti di una cagna sicura del pro­
prio istinto. Il nostro sistema di cura della prole, così asettico e per
molti aspetti eccessivo, ci ha instillato un mucchio d’idee esagera­
te, convincendoci di essere più in gamba della nostra cagna. Lei,
invece, sa benissimo di cosa hanno bisogno i suoi cuccioli, e perciò
non va tanto per il sottile. Il fatto di conoscere istintivamente le ne­
cessità dei piccoli è stato previsto dalla natura stessa in maniera
che non vi siano né eccessi né difetti. Ciò non esclude che, accanto
al patrimonio ereditario, anche l’esperienza non abbia la sua im­
portanza. Il cervello di un cane è abbastanza sviluppato da elabo­
rare, sulla scorta dell’esperienza e al di là delle inevitabili reazioni
istintive, altre conoscenze riguardanti la piccola massa uggiolante
che si agita all’interno della cuccia. Quasi tutte le cagne al loro pri­
mo parto sono eccitate, preoccupate, spesso addirittura troppo ze­
lanti. Nei parti successivi danno l’impressione di essere più rilassa­
te, più sicure di sé, e adempiono a tutte le funzioni con l’abilità che
deriva dalla routine. Proprio questo dimostra che nel cervello cani­
no si elabora qualcosa di più complesso della semplice manifesta­
zione d’istinti inconsci. La cagna impara che questo strano avveni­
mento non rappresenta un motivo di preoccupazione perché tutto
procede in modo spontaneo e le tensioni alla fine si placano ceden­
do il passo a un senso di benessere.
237
Prima, durante e dopo il parto, i processi ormonali hanno in­
nescato Tistinto associato alle cure parentali. Come sappiamo, si
tratta di una produzione di stimoli a livello del sistema nervoso
centrale, che hanno bisogno di essere scaricati. La cagna primipa­
ra non sa ancora che sono proprio i suoi cuccioli a convogliare su
di sé, scaricandoli, questi nuovi accumuli di pulsioni. La soddisfa­
zione dell’istinto, però, è accompagnata da un senso di piacere, e
questo la cagna che ha già partorito lo sa.
Quanto detto è utile a chiarire il concetto di “amore materno”
della cagna che allatta, nonché a evitare troppi sentimentalismi
davanti alla cuccia e a capire meglio, invece, l’esito dei modelli
comportamentali materni e infantili. L’armonia di questi due siste­
mi di comportamento così interdipendenti è già di per sé una cosa
straordinaria. Dobbiamo vedere i miracoli laddove effettivamente
accadono. Per me, comunque, questa “completezza biologica”
sintonizzata in ogni suo particolare, così come emerge dalla forma
funzionale della cuccia in cui avviene il parto, dal comportamento
innato di assistenza alla prole e dagli atteggiamenti infantili dei
cuccioli, è uno dei grandi prodigi che suscitano un senso di ammi­
razione tanto più profondo quanto più approfonditamente ne ve­
niamo a conoscenza.
Una cagna con la sua cucciolata è così espressiva, anche in sen­
so umano, che persino una persona che non ami particolarmente
gli animali riesce a commuoversi. Questo acme nella vita di una
cagna diventa anche per noi, cioè le persone su cui conta per esse­
re protetta, una grande, coinvolgente esperienza. Mai come in
queste settimane, la nostra cagna ci è vicina. A ciò si aggiunga il
nuovo miracolo della vita dei cuccioli e il loro avvincente processo
di sviluppo. Con questa mia testimonianza, spero davvero di esse­
re riuscito a incoraggiare qualche lettore a vivere queste esperien­
ze in prima persona.

La famiglia Björn
Non solo il paragrafo sul parto, ma l’intero libro sarebbe incom­
pleto se non raccontassi, a questo punto, un episodio breve, ma
molto indicativo, che ha per protagonisti il mio ibrido Björn e la
sua famiglia. Come ricorderete, Björn e sua sorella Bente sono nati
238
dall’unione fra la elkhound Binna e il dingo Aborigeno. Insieme a
loro vivevano i figli Baas e Baara, nati nello stesso canile, che nel
frattempo avevano raggiunto l’anno di età. Björn fu molto attento
nell’educare i figli, e così non si verificò il minimo conflitto quando
coprì Bente, mentre il figlio se ne stava in disparte, indifferente.
Anche quando, dopo appena due mesi, Baara entrò in calore e fu
anch’essa coperta dal capofamiglia come moglie aggiunta, Baas
non fece una piega.
Io, però, non mi sentivo troppo tranquillo: i quattro cani divi­
devano il medesimo, spazioso capanno, c’erano già stati degli
screzi fra Bente, in stato avanzato di gravidanza, e Baara in calore,
poiché tanto una cagna in calore quanto una gravida godono di
speciali privilegi. Come sarebbe andata a finire una volta che an­
che Bente avesse avuto i cuccioli?
Un giorno, arrivando col carretto del cibo, non vidi più Bente.
Dunque, eravamo a questo punto! Gettai nel recinto una grande
quantità di cibo il più in fretta possibile per evitare possibili liti,
ma non accadde nulla: Björn, Baas e Baara se ne stavano tranquil­
li in prossimità del cancello posteriore, e non si precipitarono a
quello principale per accaparrarsi la loro razione. A un tratto, vidi
spuntare la testa di Bente. Aveva partorito i suoi piccoli, che ora
sentivo uggiolare distintamente, non nel capanno, ma in una fossa
scavata lungo uno dei suoi lati, in parte interrata sotto la costru­
zione in pietra. Lentamente Bente uscì, ispezionò con calma ogni
pezzo di cibo, fiutandolo accuratamente, e scelse quello le sembrò
adatto. Portò, quindi, il cibo nella sua cuccia e soltanto allora gli
altri cani si avvicinarono per mangiare.
Per me quella fu un’incredibile lezione di comportamento so­
ciale all’interno di un nucleo familiare. Ma gli insegnamenti non
erano ancora finiti. Nei primi tempi, questo comportamento im­
prontato al rispetto per la cagna che allattava si ripetè in occasio­
ne di ogni pasto. Quando, dopo un paio di giorni, cominciò a pio­
vere, la mamma portò i piccoli nella cuccia, permettendo però a
Björn, Baas e Baara di dividerla con loro.
Tre settimane dopo, come di norma, i cuccioli mossero i primi
passi all’aperto. Non fu poca la mia meraviglia nel contare ben
nove cagnolini, un numero assolutamente fuori dall’ordinario, vi­
sto che fino ad allora Bente, come tutti gli ibridi, non aveva mai
avuto più di sei o sette cuccioli. Björn era pazzo per l’eccitazione
239

L
e, dopo un primo giretto, risospinse i suoi rampolli nel capanno.
Nonostante le difficoltà del terreno, piuttosto ripido, tutti i cuc­
cioli riuscirono a raggiungere in fretta il riparo della cuccia, supe­
rando a pieni voti un primo esame d’idoneità. Ben presto anche
loro uscirono all’aperto e, quando arrivavo col cibo, Björn faceva
attenzione che avessero la loro parte, e con occhiate eloquenti op­
pure mostrando i denti, teneva a distanza Baas e Baara perché non
disturbassero i cuccioli durante i loro primi tentativi di mangiare
da soli. Solo quando i cuccioli erano sazi, gli altri potevano avvici­
narsi al cibo. Ma neanche il padre mangiava prima!
Così passarono le prime settimane, mentre il ventre di Baara di­
ventava sempre più grosso. E una volta che anche lei avesse partori­
to, cosa sarebbe successo? Un paio di volte fui sul punto di togliere
la cagna dal recinto, ma alla fine rimasi fedele alla mia idea: volevo
vedere, una volta per tutte, se all’interno di una famiglia cresciuta
naturalmente si può arrivare a un livello di aggressività serio, oppu­
re alla soppressione della prole. Fino a quel momento, tutto era an­
dato molto meglio di quanto credessi.
Pertanto, continuai a restare fuori dal canile e a lasciare che i ca­
ni se la sbrigassero da soli. Due settimane prima del parto di Baara,
i rapporti di potere mutarono. Anche questa volta fu Björn a pen­
sarci. Come in precedenza Bente, adesso era la cagna gravida a do­
versi avvicinare per prima al cibo, quasi contemporaneamente ai
cuccioli. Bente aveva perso la sua posizione di privilegio e ora trat­
tava Baara molto gentilmente.
Baara partorì nel capanno e i suoi cuccioli giacquero nella stes­
sa cuccia in cui si trovavano i piccoli di Bente. Ai nuovi arrivati
non fu torto un pelo, e inoltre si svilupparono molto bene perché,
dopo il parto, Baara era la prima ad avere diritto al cibo, un privi­
legio garantito da Björn e dal figlio Baas. Dopo ventuno giorni an­
che i figli di Baara fecero la loro comparsa all’aperto.
A questo punto, qualcosa andò storto, ma la colpa non fu dei
cani. Evidentemente, in natura non è previsto che, all’interno di
uno stesso nucleo familiare, due cagne partoriscano a distanza di
appena due mesi. Come ricorderemo, a quest’epoca i cani selvati­
ci vivono a coppie. Di conseguenza, nel gioco i cuccioli non hanno
inibizioni nei confronti dei fratelli più giovani e inesperti. I cuc­
cioli di Bente facevano giochi adatti alla loro età, facendovi parte­
cipare anche quelli di Baara. Per i piccoli, però, ciò era troppo,
240
inoltre era cominciato a nevicare e così ogni giorno trovavo qual­
che cucciolo morto in giro. Dei cinque cuccioli di Baara soprav­
visse solo una femmina, probabilmente dotata di fortuna e di una
particolare resistenza. Di solito, i cuccioli nati dall’accoppiamento
fra padre e figlia - e in questo caso la figlia era a sua volta nata da
un accoppiamento tra fratelli - non possiedono una grande forza
vitale, e probabilmente fu anche questo a fare sì che solo un cuc­
ciolo riuscisse a superare tutte quelle dure prove. Comunque, la
morte dei cuccioli non rientra tra le considerazioni sul comporta­
mento sociale, poiché non si sarebbe verificata se Baara avesse
partorito almeno un mese prima.
Ancora oggi tutti i membri di questa famiglia continuano a con­
vivere pacificamente. I figli di Bente hanno già quasi otto mesi, la
piccola figlia di Baara sei, e tutto sembra svolgersi nel modo mi­
gliore. Björn, assistito da Baas, ha allevato i figli in modo da farne
dei disciplinati compagni di branco, e dal tetto del capanno guarda
orgoglioso la sua stirpe. Soltanto Bente ha il permesso di raggiun­
gerlo lassù, è un posto privilegiato.
Quando due dei giovani si accapigliano con foga eccessiva, il
capofamiglia interviene per riportare l’ordine. L’aggressività viene
scaricata tutta a piccolissime dosi, perlopiù negli eccessi del gioco.
In cinquanta metri quadrati vivono così quattordici cani in perfet­
ta armonia familiare, e mi sento di poter dire che nemmeno la
prossima cucciolata di Bente, che nel frattempo è stata di nuovo
coperta da Björn, riuscirà a rompere l’idillio.
Quello che ho appena raccontato non è un caso straordinario,
ma una realtà che riscontro quotidianamente in tutti i miei cani.
Ovunque si formino delle famiglie naturali, predomina un com­
portamento comunitario all’insegna del rispetto, caratterizzato da
molti elementi di coesione di gruppo. Volendone studiare l’ag­
gressività, ci si deve armare di santa pazienza, e anche allora si no­
teranno modelli comportamentali che perlopiù preludono a essa,
spesso in forma di semplici intenzioni, ma raramente di atteggia­
menti interpretabili come veri e propri conflitti. Il branco familia­
re deve la sua pacifica convivenza all’indole più genuina del cane,
caratterizzata da un bisogno innato di stabilire un contatto positi­
vo con gli altri - e tra questi altri, per fortuna, ci siamo anche noi.

241
Note

Capitolo II
1. Standard: descrizione che elenca le caratteristiche che devono com­
parire in ogni esemplare di una razza [N.d.T].
2. Neotenia: processo attraverso il quale alcune caratteristiche giova­
nili o infantili vengono mantenute nella vita adulta, realizzando, con spe­
ciali tecniche di allevamento, un’atrofia nello sviluppo [N.d.T].

Capitolo IV
1. Lett. ‘impronta', il termine è attualmente utilizzato in ambito bio­
logico in lingua originale [N.d.T].
2. L’hofwart era una razza di cani medievale, che ora si è di nuovo ri­
prodotta. Uhovawart è una razza molto di moda in Germania.
3. I. Eibl-Eibesfeldt, Amore e odio. Per una storia naturale dei com­
portamenti elementari, Adelphi, Milano 1971.

Capitolo V
1. Il termine Gestalt (‘forma’) è entrato di diritto nel lessico della psi­
cologia umana grazia alla scuola della Gestaltpsychologie (‘psicologia del-

243
la forma’). I suoi esponenti sostituirono all’antica teoria percettiva asso­
ciazionistica - secondo la quale esistono delle sensazioni elementari, suc­
cessivamente collegate fra loro mediante un’operazione di sintesi - l’ipo­
tesi che l’insieme percettivo (la forma) venisse colto globalmente, senza
analisi preliminari. L’estensione di tale teoria ai processi di apprendimen­
to mise in luce l’elemento intuitivo, cui l’etologia fa ampio ricorso per
spiegare e descrivere le manifestazioni intellettive degli animali [N.d.T].

244
Indice analitico

abbaiare 16, 74, 126, 148, 169-74, ammaestrare 119


184,216 apprendimento 17, 53, 72-3, 79-
accarezzare 14, 76, 84, 90-1, 99- 81, 101, 104, 107, 109, 111,
101, 165,177 118, 121, 133, 141, 146-7,
addestramento 86, 110, 118-9, 150, 171, 173, 182, 185-8,
121,140, 177, 182-3, 192, 199 216
addomesticamento 8-9, 20, 32, attestazione di attaccamento 128
35-6, 150, 152, 220 autodomesticazione 39-40
aggressività 36, 103, 138, 140, automatismo di suzione 64-5
143, 145-6, 154-5, 160-1, 164, autorità 102-3, 127-8, 145-6, 153,
174,216,219, 221,240-1 182, 184, 188,201
albini 35-39
albinismo 36, 39 balzo sul topo 176, 185-6
allattamento 66, 74, 139 bastardo 23, 26-7, 210, 213
allevamento 12, 16, 20, 24, 27, 29, biotono 53-8, 61
31,33-4 ,3 6 -8 ,4 0 ,4 9 , 52,54,
86, 100, 140, 144, 147, 149, calore 24, 53, 91, 123, 142, 156,
153,156, 167, 191,195-6,202, 191-3,200, 208-9, 223,225-6,
204,212,217-8, 220, 222, 228, 239
226-8, 235 cane da pagliaio 31
allevamento selettivo 36, 39, 167, cane delle torbiere 13
206 canis aureus 21

245
capacità di apprendimento 79, 81, dare la zampa 88, 132
173 degenerazione 25, 30, 49, 53
capacità olfattiva 72 disciplina 123-6, 128-30, 137,
capacità riproduttiva 191,224, 228 146-7, 181-2,201
cerimoniale di defecazione 204,214 disposizione alla fuga 154, 165
cerimoniale di urinazione 204, domesticazione 9, 26, 29-30, 37-
207-8 40, 230
coesione di gruppo 105, 138, 160,
220, 241 educatore 104-5, 111, 126, 128
colpetti col muso 128, 132 educazione 88, 90, 104, 111, 138-
colpetti di naso 90-3, 105, 223 41, 155
combattimento spalla a spalla 158 effusioni muso a muso 93, 131-2
comportamento di ricerca elkhound 8, 12, 14-7, 23-4, 31-2,
di benessere 201 5 6 ,9 1 ,9 4 , 130, 170, 173,226,
comportamento educativo 60 233,239
comportamento espressivo 88, 98, espressione acustica 166
130, 135, 150-2, 155-6, 159, espressione gestaltica 155, 166
161-2, 169,174-6, 192,228 espressione olfattiva 176
comportamento sociale 21, 67, estro 144, 191,223,227
107, 137-8, 198,221,239,241
contatti muso a muso 73, 93, 131- facoltà olfattiva 63
2,155 famiglia di cani 60, 110, 125, 139
contatti naso a naso 192-4, 197,208 far seguire una pista 115
controllo anale 197 fase delPordinamento gerarchico
controllo ano-genitale 122-3, 142-3, 146, 176, 178,
controllo genitale 201 220
controllo naso a naso 194, 197 fase di socializzazione 80, 85, 106
controllo olfattivo 201 fase di transizione 68-9, 76
coordinazioni ereditarie 72, 143, fase vegetativa 59
232 fedeltà di gregario 188
costituzione della gerarchia 111
cuccioli da latte 27 giacere a contatto 67
cure parentali 99, 165, 238 giochi di caccia 124
curiosità 73, 101, 107,218 giochi di lotta 109
giochi di monta 122

246
giochi di movimento 122 mutazioni del comportamento 8,
giochi di muta 123 1 1 ,2 4 ,2 6 ,3 1 ,3 4 ,3 6 , 37
giochi di ricerca 116 mutazioni della struttura fisica 31
guaire 51, 63, 66-7, 73-4, 106, 175 mutazioni d ’indole 31
mutazioni di statura 29-31
ibridazione 33-4, 37
ibrido 18, 23-5,32,57, 148, 170, neotenia 41, 98, 100-1, 173
173,238-9
imprinting 80-2, 85-6, 88, 103, obbedienza 111, 123-4, 176-8
105, 145, 148 odore individuale 192, 195, 197-9,
impronta 213 201,209-11,213-4
impulso ludico 77 olfatto 16, 62-3,70-1,73, 134,
incroci 2 2 ,2 5 ,3 5 ,3 7 -8 ,4 0 165, 176, 199,203
inibizione a mordere 218 ordine gerarchico 110, 135
istruttore 111-2, 119, 134, 192, 199
parto 27, 34, 36,44, 46-8,50,52-
latrare 169 8,61-2,68-9, 77, 139, 144,
lotta per gioco (vedi anche giochi 218-9, 224-228, 231-41
di lotta) 106, 109, 112, 158 pigmentazione 37-8
lotta sulle zampe posteriori 109 posizione a ciambella 96
lupo-guida 17, 103, 145, 153-4, posizione di agguato 112
179,182,205-6 possibilità espressive 33, 155
lupo indiano 20-1 potenziale comportamentale 23
predisposizione all’apprendimento
maturazione 72, 100, 129,220, 226 79, 141, 187
modelli comportamentali 9, 19, presa nuca-gola 110
22,2 4 -5 ,3 5 ,4 3 ,7 9 -8 0 , 98, pressione sulla mammella 64, 76,
101,103, 107-8, 110, 113,118, 88, 90
132,137-8, 142, 154, 160,164, prototipo infantile 98-100, 154,
173,176, 181, 196, 198,205, 217
229-30,238,241 pubertà 191, 214
mucosa pituitaria 72, 78 punire 122, 128, 131,210,213
mugolare 34, 168, 173
mutazioni del colore 8, 22, 31, raspare 176, 213-4, 232
37-8 ricerca su pista 117
rigoglio da bastardi 23 tabù arbitrari 126
ringhiare 106, 155, 173-4 test di indole 215-6
riporto 120, 129 tubercolo digitale 22

salto in alto 118 uggiolare 46, 48, 93, 160, 236-7,


schema di comportamento 65, 67, 239
76 ululare 34, 95, 109, 158, 171-3
schemi motori 51-2, 60, 72, 79,
107,113-4,118, 132, 143,146,
150-1, 155,160, 186-7,232
sciacalli 8-9, 20-2, 25-6, 31, 35,
44,6 9 , 8 3 ,9 2 ,9 6 , 147-8, 171,
177-9
scodinzolare 74, 165, 193,216
selezione 8, 17, 31, 40, 47, 56, 78,
142, 147, 170-1,226-7,235
selezione naturale 18-9, 45, 115
senso del sentimento 134-6
socializzazione 80, 85, 87, 102,
104-6, 111, 125, 128-9, 137-8,
154,210
sognare 95, 136
sottomissione 77, 84, 86, 88-9,
119, 125, 127-8, 130-2, 155,
159-60, 162-5, 169, 176,178,
192,201
spennare 188
starnuto di avvertimento 79
statura 18, 25-6, 29-32, 34-5, 40,
60, 112, 125, 159, 165, 181
strisciare in tondo 61
subordinazione 125
succhiare 47-8, 51-2, 55, 57, 62-7,
88, 90, 98,225

248
Indice

La mia “vita da cani”. Invece di uri introduzione 7

I. U n a c o s t a n t e n e l l a m o l t e p l ic it à

Problematica Stina 12
I progenitori dei miei cani: gli elkhound e i dingo 14
Lupi e sciacalli 20
I miei bastardi 23

II. I l p o l im o r f is m o d e l l a s p e c ie c a n in a

Caratteristiche delPallevamento:
differenze della mutazione 29
Mantello bianco e occhi rossi 35
L’individualità dei nostri cani 40
III. L e p r i m e s e t t i m a n e d i v it a

Un cagnolino incompleto? 44
I primi minuti di vita 46
II peso alla nascita 53
La fase vegetativa 59
Gli schemi motori 60
I sensi 61
La suzione 64
I cuccioli fra loro 66
La fase di transizione 68
L’olfatto 70
Coordinazioni ereditarie e apprendimento 72

IV. L ’ im p r o n t a p e r l a v it a

La fase dell’imprinting 80
L’imprinting nei confronti del conspecifico uomo 82
L’acquisto di un cucciolo 86
Qua la zampina! 88
I colpetti di naso 90
II sonno 93
Il “prototipo infantile” e il fenomeno della neotenia 98
La fase della socializzazione 102
L’inserimento nella comunità umana 103
Il gioco 106
La disciplina 124
V. S c u o l a e t ir o c in io

La fase dell’ordinamento gerarchico 142


L’espressione mimica 151
Possibilità espressive del corpo: aggressività
e dimostrazione di superiorità e di sottomissione 155
L’espressione acustica 166
La fase dell’ordinamento gerarchico del branco 178
L’uomo come capobranco 182

VI. P u b e r t à e m a t u r it à

I controlli olfattivi 192


II biglietto da visita del cane: l’odore individuale 201
Pubertà 214
Accoppiamento e gravidanza 222
Nascono i cuccioli 232
La famiglia Björn 238

Note 243
Indice analitico 245
EBERHARD TRUM LER
(Vienna 1923-1991) Viene considerato uno degli scienziati
più esperti sul mondo dei cani. Famosissimo allievo di Kon-
rad Lorenz, a lui dobbiamo la nostra conoscenza delle fon­
damenta dell’etologia canina. Nel 1969, insieme a Lorenz,
ha fondato la “Eberhard-Trumler-Station. The society for
pet research” . H a pubblicato numerosi libri, tra cui Ein
Hund wird geboren (1982), Das Jahr des Hundes (1984), Der
schwierige Hund (1986), Mensch und Hund (1988).

COVER DESIGN S A N D O K A N ^ ^ S T U D I O
IN COPERTIN A © NICH OLAS LEE

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