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[Riassunto del corso tenuto da M.Simonetti 1997-1998.

Appunti miei corretti fino a


Clemente da Fulvio]

Alessandria

L’unicità dell’esperienza; nota su “alessandrinismo”


Il nostro corso parte da Filone d’Alessandria, ebreo del I secolo. Perché? Per il fatto
innegabile che Alessandria d’Egitto dei secoli I-III è stata un’esperienza unica e
irripetibile che ha influenzato in modo decisivo tutti i concetti fondamentali della
dottrina cristiana. Ad aggiungere incredibilità, sta il fatto che, per i pochi documenti in
nostro possesso, quell’Alessandria sembra nascere all’improvviso e già da subito
compiuta.
Con il nome di “alessandrinismo” è passata alla storia una serie di opere letterarie
accomunate da alcune specificità stilistiche (come il gusto per l’erudizione, cfr. Catullo
o Properzio). In campo teologico, esistono ovviamente grandi diversità sui contenuti,
ma punti di contatto sulla forma (estremamente colta, ricercata fino alla voluta
oscurità).
L’Alessandria cristiana dei primi tre secoli, di fatto sarà l’interfaccia della pagana.
Si tratta di un’interpretazione del cristianesimo volutamente elitaria e al massimo
livello. Qualcuno sostiene che Origene sta alle sacre scritture come Plotino sta a
Platone. Dalla stessa definizione di “scuola” appare il preteso esclusivismo.

Alessandria pagana: preliminari schematici


Fondata da Alessandro Magno, da subito la città più importante d’Egitto e poi
d’oriente grazie soprattutto ai Tolomei; il Museo e la Biblioteca erano le testimonianze
di una politica culturale veramente avveniristica.
L’influsso sul clima culturale fu imponente: Alessandria era la città colta per
eccellenza, sia al suo interno che al suo esterno. E con il cristianesimo non si interruppe
il pregiudizio. Due esempi di questa superiorità strutturale e della autoconsapevolezza:
∑ ad Alessandria, si sapeva la vera etimologia di “ebionita”, dalla parola ebraica
“poveri”1
∑ ad Alessandria, il libro di Baruc è citato sempre correttamente, senza confonderlo
con Geremia2

Alessandria giudaica
Fin dalla fondazione della città, la minoranza ebraica era cospicua e influente:
numericamente c’erano più giudei a Alessandria, che a Gerusalemme; minoranza
distribuita in tutti gli strati sociali, ma con un’incidenza notevole sull’amministrazione
della cosa pubblica. Agli alti livelli, l’influenza fu molto alta, ma quasi sempre
unidirezionale, con l’influenza greca sui giudei.

1
*?
2
*?
Il giudeo ellenismo: fenomeno generalizzato e fenomeno letterario
Nasce qui. Spesso non c’è chiarezza su questo fenomeno. La diaspora, infatti, non
ebbe un’unica direzione. Giudeo ellenismo non è quindi un fenomeno limitato ad
Alessandria; è piuttosto il caso generalizzato di giudei che, vivendo a stretto contatto
con il mondo ellenistico, ne vengono influenzati nel pensiero e nella vita.
Il contesto in cui si parla di questo fenomeno è quello letterario. In questo caso,
l’unico che conosciamo è ad Alessandria e ha il nome principe di Filone e altri nomi
minori, spesso sconosciuti (3Mac, Sap, Aristobulo...). Non conosciamo un solo giudeo
che scriva in greco, che non sia di Alessandria (con l’eccezione particolare di Flavio
Giuseppe).
Possiamo affermare con sicurezza questa unicità alessandrina? No, ma possiamo dire
che se fenomeni analoghi sono avvenuti altrove, debbono essere stati molto minori, dato
che nessuno si è preso la briga di darne testimonianza fin nei secoli antichi.
Da segnalare, comunque che proprio questo marcato giudeo ellenismo (= giudei che
si esprimono in greco), ha permesso ad Alessandria che gli scontri fra cristiani
(giudaizzanti vs. gentili), siano stati molto meno conflittuali che altrove.

I compromessi del mondo giudaico ellenizzato


Il dramma del giudeo fuori Gerusalemme, alle prese con i vincoli della propria
formazione (abitudini alimentari, per es.). L’identità totale fra osservanza e identità
etnica aveva permesso di sopravvivere anche in esilio. E ora?
Non crediamo che in Palestina l’ellenismo non sia penetrato (cfr. M. Hengel 3), ma
ovviamente in misura molto minore. Possiamo distinguere tre atteggiamenti di fondo
fra gli ebrei alessandrini:
1. La completa ellenizzazione.
2. Il fondamentalismo più o meno radicale.
3. La fascia intermedia, per noi più interessante, tra cui Filone.
Di questa ultima, fanno parte soprattutto elementi di fascia sociale medio alta, che
cercano di accettare gli influssi culturali mantenendo insieme l’attaccamento alla
Scrittura. Di essa possiamo individuare i principali strumenti per tentare questa
sussistenza del giudaismo nel mondo ellenistico:
∑ la traduzione dei LXX (II-I a.C. è completa); da questo punto di vista, è da
immaginare l’imbarazzo del giudeo che portava un’idea di Dio a 180° da quella
del platonismo o dello stoicismo che da secoli interpretavano filosoficamente i
miti cosmogenetici;
∑ il grande progetto, di cui conosciamo Filone, ma che ebbe inizio prima dell’era
cristiana, di interpretazione allegorica dell'antico Testamento. La prima
testimonianza la lettera dello pseudo Aristea4; Aristobulo stesso deve essersi
adoprato per un compito simile. Progetto adottato da Filone e che si interromperà
soprattutto per motivi politici.

3
M. Hengel, *?
4
104-103 a.C.: riguarda la formazione leggendaria della LXX: è la prima interpretazione allegorica
(di cui sappiamo), dei precetti alimentari giudaici! E’ il primo tentativo di vanificare tabù e liberare
l’ebreo che può rimanere ebreo senza l’osservanza letterale della scrittura.
Filone: il tentativo di una conciliazione fra due mondi

La figura di Filone

La finalità e la destinazione delle sue opere


La finalità apologetica, a lungo sostenuta, è improbabile. Il greco che conosce da
secoli Platone, Aristotele e gli stoici, non sa che farsene di Filone, non è nulla di nuovo.
In realtˆ La destinazione degli scritti di Filone è all’interno della comunità giudaica.
Filone polemizza spesso con quei giudei che allegorizzano a tal punto il testo
scritturistico da dimenticare o negare il senso letterale. Egli propone come alternativa
una via media: interpretazione allegorica, ma con il chiaro intento di salvare la lettera,
ove sia possibile; ne consegue che Abramo era sì un’allegoria, ma non era un
personaggio inventato!
Limitare i danni: questo è l’intento di un Filone che si rivolge ad ebrei praticanti fin
da giovani l’educazione greca.

Il risultato del tentativo filoniano; fattori politici


L’iniziativa era chiaramente elitaria, fatta da un’élite per un’élite. Siamo ai tempi di
Tiberio, di Caligola e Claudio. Con Nerone ci si incamminerà verso la guerra giudaica,
la distruzione di Gerusalemme, le rivolte fino alla diaspora definitiva del 136. Il
risultato finale sarà un completo ripiegamento dei giudei (e della loro cultura) su se
stessi. Sopravviverà solo il fariseismo rabbinico, con il conseguente rifiuto più totale di
ogni apertura, specie quella del giudaismo alessandrino.
Filone si salverà solo perché i cristiani ne fecero un “collega” (Girolamo). Filone fu
letto con attenzione dai cristiani di Alessandria (cfr. Clemente Alessandrino che lo cita
spesso, od Origene stesso): Filone fu letto almeno fino al IV secolo, con un’influenza
ovviamente enorme, tanto da poter essere considerato all’inizio della stessa riflessione
cristologica alessandrina.

Filone fuori di Alessandria


Per Spicq, l’autore di Eb conosceva necessariamente Filone. Per qualcun altro, Paolo
e/o Giovanni sono stati influenzati dal loro illustre contemporaneo. Simonetti è
abbastanza scettico su questa ipotesi. Solo la tradizione alessandrina si rifà
coscientemente ed esplicitamente a Filone.

Filone è soprattutto esegeta (“dogmatico”)


Filone non presenta una riflessione organica: fForse sono esistite anche una o due
sue opere a carattere sistematico, ma gli interventi sul tema che a noi interessa sono
dislocati non sistematicamente, in contesti e in corrispondenze scritturistiche diverse. I
problemi per noi che tentiamo di ricostruire aspetti specifici del suo pensiero sono
ovvi, e riguardano l’attendibilità delle nostre conclusioni (che estrapolano frasi dal loro
contesto) e l’autorità dei nostri interventi (che cercano una coerenza che l’antichità non
ha mai elevato a valore).
Ne consegue una variegatissima rosa di giudizi sull’opera di Filone. Autori molto
importanti lo giudicano fondamentale per tutta la filosofia dei duemila anni seguenti,
altri autori di uguale livello lo giudicano un ripetitore di banalità. Di fatto, il giudizio
che possiamo esprimere con sicurezza è che Filone era tributario del proprio ambiente.
Spieghiamolo con un esempio: da Filone sappiamo l’esistenza dei “terapeuti”; Filone
non era uno di loro, ma li stimava; i terapeuti non hanno lasciato nulla di scritto;
sappiamo che interpretavano allegoricamente la Bibbia; quanto di Filone è di
derivazione terapeuta?
E’ un problema irrisolvibile. A noi comunque interessa in parte, in quanto ci preme
soprattutto ciò che sta scritto, al di là della sua genesi, per l’influsso che ha avuto sul
cristianesimo successivo.

La dottrina del Logos

Il Dio di Filone
Il logos è un intermediario fra il mondo e un Dio assolutamente e completamente
trascendente. Si tratta dsi una concezione conosciuta da secoli dai platonici e a cui la
riflessione testamentaria stava giungendo (Sapienza e letteratura parabiblica).
Filone lo ripete ovunque nelle proprie opere: Dio è al di sopra di ogni conoscibilità
umana. .
Interessante è l’utilizzo che fa del passo di ell’Esodo 33,18-23, in cui a Mosè è
negata la vista di Dio: il passo serve per spiegare una concezione di Dio; in Filone il
punto di partenza scritturistico sarà sempre reinterpretato filosoficamente (soprattutto
platonicamente), sfruttando lo strumento dell’allegoria. Filone peraltro nega
recisamente che i passi in cui si parla di una visione di Dio vadano intesi letteralmente,
e ne propone una interpretazione spiritualizzante, nel senso di "percezione intelletuale":
ÓOtan ou'n ajkouvsh/" ojfqevnta qeo;n ajnqrwvpw/, tou'to givnesqai novei
cwri;" fwto;" aijsqhtou': nohvsei ga;r to; nohto;n eijko;" movnon
katalambavnesqai. Phgh; de; th'" kaqarwtavth" aujgh'" qeov" ejstin: w{sq Æ
o{tan ejpifaivnhtai yuch/', ta;" ajskivou" kai; perifanestavta" ajktivna"
ajnivscei.
De mutatione nominum, 6:
In De mutatione nominum 7ss, Filone usa espressioni quali “natura incorporea”,
“Dio sommo bene”, “dopo l’Essere”, “Dio Essere Assoluto”, assumendo le categorie
proprie della speculazione ellenistica.
Mh; mevntoi nomivsh/" to; o[n, o{ ejsti pro;" ajlhvqeian o[n, uJpÆ
ajnqrwvpou tino;" katalambavnesqai. o[rganon ga;r oujde;n ejn eJautoi'"
e[comen, w/| dunhsovmeqa ejkei'no fantasiwqh'nai, ou[tÆ ai[sqhsin -
aijsqhto;n ga;r oujk e[stin - ou[te nou'n. Moush'" ou\n oJ th'" ajeidou'" fuvsew"
qeath;" kai; qeovpth" - eij" ga;r to;n gnovfon fasi;n aujto;n oiJ qei'oi crhsmoi;
eijselqei'n, th;n ajovraton kai; ajswvmaton oujsivan aijnittovmenoi - pavnta
dia; pavntwn ejreunhvsa" ejzhvtei to;n tripovqhton kai; movnon ajgaqo;n
thlaugw'" ijdei'n.
De mutatione nominum, 7
E’ da ricordare che la tradizione platonica era bipartita: da una parte l’identificazione
di Dio con l’essere, dall’altra il Dio così trascendente da andare oltre l’essere (Plotino),
tanto che di Lui possiamo dire solo ciò che non è. E’ la stessa concezione che traspare
dall’Io-sono dell’Esodo: il rapporto Dio-mondo non può essere immediato. Anche nel
mondo ebraico era un problema che stava sorgendo 5. Cfr. M. Pesce e il suo libro sul
ruolo degli angeli nell’AT.

L’idea di “mediazione”
Le potenze
Dio è inconoscibile, ma non è inerte. Le sue opere possono essere conosciute, e
addirittura attraverso di esse, si può arrivare ad una certa conoscenza dell’operatore. Nel
De Abraham 121, Filone precisa come le due potenze più antiche dell’Essere siano
quella creatrice, chiamata “Dio”, e quella regale, chiamata “Signore”. Per mezzo di
esse, Dio governa e amministra il mondo.
Siamo ancora al margine di un’idea di mediazione; le potenze infatti sono ancora “di
Dio”, non sono distinte “da Dio”.
ÆAllÆ e[stin, wJ" a[n ti" ejgguvtata th'" ajlhqeiva" iJstavmeno" ei[poi,
path;r me;n tw'n o{lwn oJ mevso", o}" ejn tai'" iJerai'" grafai'" kurivw/
ojnovmati kalei'tai oJ w[n, aiJ de; parÆ eJkatevra aiJ presbuvtatai kai;
ejggutavtw tou' o[nto" dunavmei", hJ me;n poihtikhv, hJ dÆ au\ basilikhv.
Prosagoreuvetai de; hJ me;n poihtikh; qeov", tauvth/ ga;r e[qhkev te kai;
diekovsmhse to; pa'n, hJ de; basilikh; kuvrio", qevmi" ga;r a[rcein kai; kratei'n
to; pepoihko;" tou' genomevnou.
De Abrahamo, 121

Il logos
Nel De migratione Abraham 6, commentando Gen 28,17, Filone afferma che
l’abitazione di Dio è il Logos, “il più antico degli esseri che hanno ricevuto la
6“.
Dio si è servito del Logos per creare e amministrare il mondo. Siamo di fronte ad
una serie di mediazioni svelate: Dio vuole creare il mondo (potenze di Dio) e si serve
del Logos “come di uno strumento per dare coesione/coerenza/consistenza alle cose da
lui portate a compimento”.
Si tratta di un concetto di origine chiaramente stoica: l’universo come un tutto
organizzato in virtù del Logos.
Mh; qaumavsh/" dev, eij nou' to;n lovgon ejn ajnqrwvpw/ kevklhken oi\kon:
kai; ga;r to;n tw'n o{lwn nou'n, to;;n qeovn, oi\kon e[cein fhsi; to;n eJautou'
lovgon. Ou| th;n fantasivan oJ ajskhth;" labw;n a[ntikru" oJmologei' o{ti Oujk
e[sti tou'to allÆ h] oi\ko" qeou', i[son tw'/ oJ tou' qeou' oi\ko" oujk e[sti tou'to
tw'n eij" dei'xin ejrcomevnwn h] sunovlw" piptovntwn uJpÆ ai[sqhsin, oujk
e[stin ajllÆ ajovrato", ajeidhv", yuch/' movno" wJ" yuch/'
katalambanovmeno". Tiv" a]n ou\n ei[h plh;n oJ lovgo" oJ presbuvtero" tw'n
gevnesin eijlhfovtwn, ou| kaqavper oi[ako" ejneilhmmevno" oJ tw'n o{lwn
kubernevth" phdalioucei' ta; suvmpanta, kai; o{te ejkosmoplavstei
crhsavmeno" ojrgavnw/ touvtw/ pro;" th;n ajnupaivtion tw'n ajpoteloumevnwn
suvstasinÉ
De migratione 4b-6

5
*?
6

Il Logos
Il termine e le sue matrici
“Il più antico degli esseri che hanno ricevuto la genesi”. ma cosa significa? Il verbo
greco ha più di un significato. Nascere? Divenire? Essere? Chi è il Logos? Filone pensa
ad un Logos personale?
Letteralmente il vocabolo è traducibile con “parola”, discorso interno ed esterno;
Tertulliano ne capisce la densità e propone due parole affiancate: ratio et sermo. Per
comodità, è stato sempre assunto nel senso di parola creatrice (di Dio), sulla scia della
Genesi.
Il termine è però prettamente filosofico, anzi stoico. A differenza dell’universo a due
livelli dei platonici, gli stoici concepivano una specie di Deus sive natura: Dio è la
realtà. E’ estranea allo stoicismo l’idea di un demiurgo o mediatore che plasma o ordina
(solo nell’ordine ebraico cristiano si parla di creazione!) il mondo o la materia
facendone un cosmo; eppure, per lo stoicismo la realtà è pervasa da un’intelligenza che
è Dio stesso e in cui convergono due idee che il platonismo teneva separate: Dio e
l’anima del mondo. Lo stoicismo le identifica nell’idea di , per cui il mondo ha
coesione, vitalità e, al livello più alto, razionalità. Il è proprio il
Logos, lo spirito divino che permea tutto l’universo dando razionalità al cosmo (nella
grecità, razionalità e divinità saranno sempre sinonimi).
Tornando a Filone, egli recupera molto da questa concezione del Logos (anche nella
terminologia), ma essendo il più alto degli esseri che hanno ricevuto la genesi, è distinto
da Dio, e la rilevanza di questo dato non è poca.
Il richiamo al logos giovanneo è evidente.
[Ne ho perso un pezzo].
Cosa dire, però? Forse che esisteva un patrimonio comune di origine stoica
rielaborato platonicamente? Il problema è che la sola attestazione di ciò è in Filone.
Filone forse è stato il primo a tentare questa conciliazione dei fondamenti stoici in
chiave platonica (e giudaizzante).
Generazione e creazione; il logos né generato, né ingenerato
Leggendo Quis rerum divinarum haeres sit, 205-206, si può notare l’imprecisione
terminologica su alcuni vocaboli determinanti per la successiva tradizione cristiana.
Filone non distingueva, ad esempio, fra creazione e generazione, dando adito così a
molti equivoci.
Tw/' de; ajarcanggevlw/ kai; presbutavtw/ lovgw/ dwrea;n e[dwken
ejxaivreton oJ ta; o{la gennevsa" pathvr, i{na meqovrio" sta;" to; genovmenon
diakrivnh/ tou' pepoihkovto". oJ dÆ aujto;" iJkevth" mevn ejsti tou' qnhtou'
khraivnonto" aijeiv pro;" to; a[fqaron, presbeuth;" de; tou' hJgemovno" pro;"
to; uJphvkoon. ÆAgavlletai de; ejpi; th/' dwrea/' kai; semnunovmeno" aujth;n
ejkdiegei'tai favskwn: Kagw; eiJsthvkein ajna; mevson kurivou kai; uJmw'n,
ou[te ajgevneto" wJ" oJ qeo;" w]n ou[te genhto;" wJ" uJmei'", ajlla; mevso"
tw'n a[krwn, ajmfotevroi" oJmhreuvwn, para; me;n tw/' futeuvsanti pro;"
pivstin tou' mh; suvmpan ajfhniavsai pote; kai; ajposth'nai to; gegono;"
ajkosmivan ajnti; kovsmou eJlovmenon, para; de; tw'/ fuvnti pro;"
eujelpistivan tou' mhvpote to;n i{lew qeo;n periidei'n to; i[dion e[rgon. ÆEgw;
ga;r ejpikhrukeuvomai ta; eijrhnai'a genevsei para; tou' kaqairei'n polevmou"
ejgnwkovto" eijrhnofuvlako" aijei; qeou'.
Quis rerum divinarum haeres sit, 205-206
Interessante è che, ad un certo punto, egli afferma che la natura dell’intermediario è
così mediana, da essere né generato, né ingenerato. Il suo stesso costitutivo proprio è di
dare collegamento tra le due dimensioni. E’ ovviamente ambiguo il modo di esprimersi
di Filone: quale tertium può mai essere dato? Qual è la natura del Logos? come rendere
questa sua “intermediarietà assoluta”? Eppure, cfr. al proposito la riflessione successiva
o i passi collegati di Eb.
Alcuni testi significativi
∑ Quod deus sit immutabilis, 176: il Logos sostituisce la pagana
Coreuvei ga;r ejn kuvklw/ lovgo" oJ qei'o", o}n oiJ polloi; tw'n ajnqrwvpwn
ojnomavzousin tuvchn: ei[ta ajei; rJevwn kata; povlei" kai; e[qnh kai; cwvra"
ta; a[llwn a[lloi" kai; pa'si ta; pavntwn ejpimevnei, crovnoi" aujto; movnon
ajllavttwn ta; parÆ eJkavstoi", i{na wJ" miva povli" hJ oikoumevnh pa'sa th;n
ajrivsthn politeiw'n a[gh/ dhmokrativan.
Quod Deus sit immutabilis, 176

“Il logos divino danza in un cerchio che la maggior parte degli uomini chiama
fortuna”. Si arriva ad una identificazione del logos con lLa .era un Si trattava
diun personaggio assolutamente preminente nella cultura pagana greca, superiore
persino a Zeus. Per gli stoici, essa diveniva (provvidenza). Filone completa
quindi il pensiero: il Logos è il governo stesso di Dio, indecifrabile per l’uomo, ma
che non è ugualmente una cieca casualità. Tutto il rapporto Dio-uomo viene così a
assommarsi nel Logos.
∑ De Plantatione, 8-9: il Logos come forza che rende stabile e unito l’universo

“Nessun elemento della materia solida è così forte da portarsi il carico del mondo.
Ma è il Logos eterno di Dio che sostiene nel modo più potente e più stabile il mondo
(>E’ lui che stando teso al centro tra le estremitˆ assicura il corso della natura,
tenendo insieme tutte le parti e tenendole strettamente unite, perchŽ o gennhsa pathr
ha fatto di lui il legame che non pu˜ essere spezzato di tutto l’universo....”)
Notare ancora il concetto di “generazione” e del logos (ma Filone non fa gran
distinzione tra genesi e gennesi). Interessante qui il concetto generale ben chiaro: Il
logos la forza che rende stabile l’universo, impedendo la disgregazione dei suoi
componenti. Concetto di origine stoica: il logos ekthikos, la forza elementare
dell’universo.
∑ De somnis I, 229: a proposito della lotta notturna di Giacobbe (> 7). La distinzione

Si tratta di una distinzione anche in Gv. Il primo è il Dio sommo, il secondo è il
Logos, (detto) il più antico (perchŽ la prima fra tutti gli esseri creati), che partecipa
in modo speciale alla divinità, ma che è ad un livello subordinato rispetto al primo.
7
Si fa notare che non dice “nel mio luogo”, ma “nel luogo di Dio”: questo fa sorgere il problema: si
tratta di due dei? Il problema risolto attraverso la distizione tra “Dio” con e senza articolo. Come al
solito la forte affermazione di carattere teologico scaturisce dalla citazione e interpretazione filologica
del dato scritturistico, secondo le regole dell’antichitˆ (particolarmente in ambito alessandrino, anche se
hanno la tendenza poi ad spingersi molto oltre).
∑ De opificio mundi, 24-25: il mondo intelligibile è il Logos stesso
La distinzione fondamentale è di stampo platonico, dove il Logos è lo stesso
mondo delle idee (Platone non aveva mai chiarito il rapporto fra dio, il demiurgo e il
mondo delle idee >8). In secondo luogo, l’uomo è immagine di Dio, ma se l’uomo è
un parte del mondo, tutto il mondo è a immagine di Dio (il Logos).
∑ L’allegoria delle leggi III, 95-99: il Logos come ombra di Dio (Bezalele >9)
Il concetto di ombra un concetto molto forte e molto importante: ombra e
immagine vanno sempre insieme (cfr. Origene). L’uomo creato a immagine di Dio
in realtˆ creato ad immagine del Logos. Abbiamo una doppia rispecchiatura: l’uomo
immagine del logos, il logos immagine di Dio. Dio è paradigma della sua immagine
e l’immagine è paradigma per tutto il mondo.
∑ De somnis II, 244 ss: il rapporto Logos - Sapienza
A proposito dell’Eden e dei fiumi che lo bagnano. (>L’Eden viene identificato
con la Sapienza, irrigata dalla Parola (logos) di Dio. La Parola deriva dalla
Sapienza). Si tratta di un rapporto spinoso nella riflessione di Filone (e anche per
molto tempo in quella cristiana): cfr. Pro 8, questo personaggio quasi distinto da
Dio, suo attributo che partecipa della creazione delle cose e assiste JHWH nella
direzione del mondo. Il Logos greco da una parte e la sapienza veterotestamentaria
dall’altro, ambedue con funzione cosmologica: confusione? Ripetizione? Cfr. pure
gli studi di Dodd: la Sapienza è l’Eden e qui scaturisce il fiume che è il Logos; il
Logos è il , ma la Sapienza sta a monte. Filone non armonizza molto
bene questi concetti: altre volte, infatti, la Sapienza appare come una ,
mentre è il Logos ad avere maggiore autonomia. In genere, Filone “risolve”
preponendo la Sapienza al Logos.
Nota sull’origine della parola
“Logos” è in genere considerata parola di stampo puramente ellenistico; ma “logos”
è pure concetto tipicamente giovanneo, quindi veterotestamentario, ovviamente
influenzato dai concetti giudaici di “dabar” e “sapienza”. “Parola” quindi, è anche
concetto veterotestamentario, anche se non può essere tradotto in “logos” senza tener
conto del contesto stoico e platonico. Nasce qui l’aggancio al problema del IV vangelo
e della comunità in cui è nato e a cui era destinato...

8
Questo problema viene invece risolto da Filone con questa identificazione: il logos realizza il
mondo che crea sulla base delle idee che ha dentro di sŽ; esso quindi il luogo delle idee, in definitiva
identificato con esse. Il concetto sarˆ poi ripreso da Origene: il logos come systema theorematon; questi
autori cercano di dare del logos un’immagine il meno antropomorfa possibile.
9
Ancora una volta si parte dal procedimento filologico per arrivare al senso nascosto. Bezaleel il
costruttore del santuario, e il suo nome significa “ombra di Dio”; questo sufficiente a Filone per
dedurre il resto. Chi dice che l’interpretazione arbitraria, non ha capito nulla da un punto di vista
storico. In questo caso ci si basa sull’interpretazione etimologica del nome. Per un antico si tratta di un
procedimento perfettamente legittimo; il nome esprime qualcosa della realtˆ significata; nomina sunt
significantia rerum (anche se alcune filosofie lo ritenevano assolutamente arbitrario: epicurei, e in parte
aristotelici; e tra i Padri: Agostino e Gregorio di Nissa).
I primordi dell’Alessandria cristiana: lo pseudo Barnaba
Non sappiamo assolutamente nulla dell’origine dell’Alessandria cristiana, di questo
unicum della nostra storia.
Il primo nome di cui sappiamo storicamente qualcosa (oltre al misterioso Apollo), è
Basilide, 140 d.C.! Sappiamo dell’esistenza di un “vangelo degli egiziani” e che era
conosciuto il “vangelo degli Ebrei”, ma considerazioni a partire da questi dati scadono
in inevitabili (e inutili) generalizzazioni. Spicq ipotizza la nascita di Eb in Egitto, ma
con scarsa solidità argomentativa.

Introduzione all’opera
Testo non scritto dall’apostolo Barnaba, risalente agli inizi del II secolo, sicuramente
dopo il 70. (>Sembra conoscere i Vangeli. Stile epistolare: caratteristica delle prime
generazioni; ma si tratta di un trattato).
Il significato fondamentale di quest’opera è il paolinismo portato quasi
all’esasperazione (con l’eccezione del piccolo catechismo sulle due vie): Paolo aveva
sostenuto l’importanza dell’interpretazione spirituale della lettera giudaica; l’autore di
quest’opera arriva a negare il valore letterale della legge mosaica, fin dall’inizio.
Tradizionalmente, questo testo è considerato alessandrino proprio per la ricchezza
dell’esegesi allegorica. Ma non bisogna cadere in facili semplificazioni: Alessandria ha
fatto grande uso dell’allegoria, ma non l’ha certamente inventata; cfr. già Paolo o
Giovanni; in più, dal punto di vista strettamente tecnico, l’allegoria dello pseudo
Barnaba è diversa dall’allegoria alessandrina. Barnaba fa grande uso
dell’interpretazione che i moderni definiscono “tipologica” (e che Simonetti considera
un tipo di esegesi allegorica e non un’ulteriore distinzione). Gli alessandrini “classici”,
sulla scia di Filone, preferiranno altri allegorismi (cosmologici, psicologici...), di cui
non c’è traccia in Barnaba.
Anche l’origine alessandrina di questo testo è stata recentemente messa in dubbio da
Brigent (>Prigent?) che la collocherebbe più ad est, forse in Siria. Ma la discussione è
molto aperta (e basata su argomentazioni comunque molto fragili). L’ipotesi
alessandrina ha ripreso oggi corpo, alla luce di due fattori: il luogo dove più è
conosciuta e stimata nell’antichità questa lettera è Alessandria (con Origene ha rischiato
di entrare nel canone); le parole iniziali, poi, contengono una distinzione fra e
tipica in Alessandria, come gradini successivi dell’itinerario spirituale (cfr.
gnosticismo).

L’interesse dell’opera
Il motivo per cui ci interessiamo a quest’opera così controversa è precisamente
questo: se è una lettera di matrice alessandrina, siamo di fronte ad una concezione
cristologica con caratteristiche diverse dalle linee fondamentali della cristologia
alessandrina. Il filo rosso che congiunge Filone fino a Cirillo (V secolo) è evidente (il
Logos!), ma se Barnaba è alessandrino, allora noi abbiamo un parallelo a questa
corrente; che sia stata sconfitta o se ne siano perse le tracce, poco importa.
Il pericolo forte per lo studioso di oggi, infatti, è quello di ricostruire la storia di un
ambiente fondandosi su una serie di dati solo scritti; nell’antichità, però, scriveva solo
una minoranza molto stretta di persone. L’interazione con le classi più basse della
società era solo per via orale. Il rischio è quello di non riconoscere più quali erano i veri
rapporti di forza. Trovare un’alternativa alla corrente Filone-Valentino-Clemente-
Origene, può aiutarci a eludere questo rischio.

La cristologia dello pseudo Barnaba


Il Cristo di cui si parla è sempre il Cristo incarnato, a cui fanno riferimento una
quantità di passi dell’AT (tutti gli animali con valore espiatorio, Giosuè che porta gli
ebrei nella terra promessa, la stessa terra promessa, Mosè con le braccia alzate durante
la battaglia contro gli Amaleciti...).
Pur essendo un testo di cristologia comunque alta, molto tangenziale è l’idea del
Cristo preesistente. Alcuni testi:
∑ XIX, 7:...il tuo Dio...Egli non venuto a chiamare secondo persona, ma quelli che lo
Spirito ha preparati.
Chiaramente Egli si riferisce a Cristo, identificato con Dio. In altri passi
chiamato Figlio di Dio, ma in senso generico. Nello stesso periodo a Roma (IClem,
Pastore di Erma) in scritti ufficiali Cristo non mai definito Dio 10.
∑ V, 5; VI, 11-12: la citazione di Gen 1, 27
 è sia il Padre che il Figlio. Filone aveva spiegato il plurale della frase
divina riferendosi agli angeli; Barnaba lo spiega riferendosi al Figlio, che è quindi
preesistente all’incarnazione con funzione cosmologica. Poco più avanti, la
redenzione è chiamata anche “nuovaa creazione” (), il cui protagonista è
sempre lo stesso, il Figlio di Dio, che ci dona come una “nuova figura” ()
∑ VII, 3; XI, 9: 
è uno dei concetti più complicati della teologia; qui non è mai nel senso
di “spirito santo”. Qui, pur nella genericità tipica di tutta la prima generazione
cristiana, è la divinità di Cristo che riempie il suo corpo. Si tratta di una concezione
che avrà grande fortuna poggiando su due testi fondamentali: Rm 1 (e
), e Gv 4,24: Dio è Spirito11.

Conclusione
Questo testo è molto importante per quello che non dice: non c’è alcun riferimento al
Logos! Brigent deduce da questo la sua non alessandrinità. Simonetti opera il
ragionamento esattamente inverso: è cristologia alta e manca il Logos. E se fosse
davvero alessandrino?
Potrebbe significare una presa di posizione negativa nei confronti della teologia del
Logos. Se l’opera fosse alessandrina, c’erano ambienti di cristologia alta, che non si
rionoscevano nella linea poi divenuta dominante. L’assenza del termine logos potrebbe
essere d’altra parte una chiara presa di posizione antignostica, cos“ come il Pastore in
ambiente romano.

10
Tutti i commentatori mettono in evidenza il presunto carattere giudeocristiano dello
pseudoBarnaba (secondo la definizione di Danielou: perchŽ presenta elementi giudaizzanti, nello stile
di pensiero). Ma nei confronti del giudaismo, la posizione di totale rottura. Non si pu˜ definirlo
giudeocristiano.
11
Di origine stoica: il soffio divino che pervade l’universo. Lo spirito visto come una potenza, una
facoltˆ operativa di Dio. Lo Spirito come sostanza di Dio: Tertulliano lo assume addirittura con la
sfumatura materialistica propria degli stoici (lo spirito, a modo suo, corpo).
Gnosi e cristianesimo

La chiesa di Alessandria: la scarsità di notizie

I primi nomi del cristianesimo alessandrino (140-160 d.C.)


I primi nomi di cui siamo in possesso sono tutti esponenti gnostici: Basilide,
Valentino (Tolomeo, Eracleone...). Il primo rappresentante di una chiesa cattolica,
anche se tutt’altro che purificata da elementi gnostici, è Clemente, mentre il primo
vescovo veramente rappresentativo è Demetrio. Fino a questi due personaggi, abbiamo
solo dei nomi senza la minima consistenza storica. Non può essere casuale, anche
perché sappiamo che fino al II secolo Alessandria era dominata dagli gnostici (anche se
non condividiamo la tesi di Bauer, secondo il quale fino al II secolo Alessandria non
aveva una chiesa cattolica, ma solo una chiesa gnostica).

La struttura e l’organizzazione della chiesa primitiva


Intorno al 140 (quando cominciamo ad avere notizie attendibili su Alessandria), ad
Antiochia si era stabilita la prassi dell’episcopato monarchico già da 20 anni. La chiesa
di Roma arriva a questo con Vittore alla fine del II secolo, ma senza passare per
l’esperienza del collegio dei presbiteri.
Alessandria ha una particolarità che la rende diversa: il suo vescovo è l’unico della
cristianità di cui sappiamo che avesse giurisdizione su altri vescovi (quelli del resto
d’Egitto), mentre ovunque il vescovo era designato dal basso; in più, fino al IV secolo
almeno, il vescovo di Alessandria era nominato da un collegio di presbiteri. La
convergenza di questi fatti ci permette di ipotizzare una struttura ecclesiale istituzionale
debolissima, almeno fino a Demetrio, anche più debole di Roma stessa (dove la Pasqua
era ancora celebrata in date diverse!)
Molti sono i problemi irrisolti della funzione e della prassi sacramentale e giuridica
del collegio dei presbiteri. Oggi si investiga sulle cosiddette “chiese domestiche”, ma
l’unica cosa veramente probabile era la grande debolezza e frammentarietà, se non una
frattura fra ceto e ceto.

Il 
In Clemente alessandrino non abbiamo la minima allusione ad alcunché di
strutturato; l’unico rapporto conosciuto è quello fra il maestro e il discepolo, sulla scia
delle scuole filosofiche (rapporto quindi molto stretto, con una comunanza di vita
prolungata. Cfr. il ruolo dei nelle lettere paoline).
E’ ipotizzabile che ad un certo punto, la figura del vescovo abbia assorbito quella del
maestro. (Cfr. la condanna di Origene e l’allontanamento di Clemente)
E’ interessante notare come nel periodo che ci interessa, queste piccole comunità
“autonome” (non strutturate) all’interno di Alessandria, contemplassero una simbiosi
praticamente perfetta fra “gnostici” e “cattolici” (secondo un vocabolario evidentemente
anacronistico). Cfr. l’aiuto che, secondo Eusebio, Origene riceveva da una matrona
romana che ospitava presso di sé anche un intellettuale gnostico (“Paolo”?) Interessante
è poi vedere il potere che avevano le donne (ricche) negli ambienti cristiani, tanto che
sarà questa una delle accuse mosse dallo stesso Porfirio ai cristiani. Il motivo di questo
fatto è da cercare nel fatto che nel ceto dominante (e ricco), furono molto più numerose
le donne che gli uomini ad aderire al cristianesimo.

Le caratteristiche della gnosi alessandrina

Il contesto
Ambiente ecclesiale gerarchicamente debolissimo, forti tendenze centrifughe,
ambienti dominati dagli gnostici. Ma com’era possibile la convivenza così stretta? Uno
dei motivi sta nel fatto che, mentre il marcionismo ha un giorno esatto di nascita (e di
condanna da parte della chiesa), con gli gnostici le cose erano molto diverse: essi non
tendevano ad allontanarsi dalla chiesa, ma a riflettere nella chiesa un livello superiore di
dottrina e di insegnamento; cfr. la stessa apertura dello pseudo Barnaba (I,2-6). Ireneo
lo dice chiaramente nelle sue opere quanto fosse difficile mettere con le spalle al muro
gli gnostici. La dottrina gnostica era sfuggente, esoterica; godeva di molto peso
l’argomentazione personale e le possibilità economiche. Cfr. Plotino che, pur di manica
larghissima con la provenienza dei suoi discepoli, scrive contro gli gnostici (e gnostici
cristiani) anche nelle sue Enneadi. Tertulliano sconsiglia ai cristiani di dialogare con gli
gnostici, perché la loro cultura era troppo superiore.
Non si possono quindi studiare i primi secoli della chiesa distinguendo nettamente
fra ortodossia e eresia, poiché si cadrebbe in rappresentazioni delle comunità troppo
caricaturali. E lo gnosticismo non fu nemmeno un’eresia cristologica, ma stava ad un
livello ancora più fondamentale: era l’atteggiamento del cristiano verso l’AT che viene
rifiutato con l’infinita serie di conseguenze sulla dottrina e sulla vita cristiana. Senza
contare la concezione cosmologica...
Simonetti è comunque fra la corrente (oggi minoritaria) che considera lo gnosticismo
un fenomeno nato nel cristianesimo (e non fuori), pur con forti tendenze sincretiste,
agonizzante fino alla riscoperta dei documenti di Nag-Hammadi.

La cristologia gnostica
La visione gnostica era marcata da un forte dualismo con decisa avversione per la
materia. Rifiutavano il Dio creatore dell’AT, secondario rispetto al Dio giusto del NT,
ignoto, buono, che solo Cristo ha rivelato quando è disceso sulla terra.
Troviamo la stessa distinzione presente fuori dallo gnosticismo, fra una cristologia
alta e una bassa; l’impostazione preferita è la prima, anche se non mancano esempi
della seconda (cfr. Carpocrate di Alessandria). Il rappresentante più valido per
comprendere la cristologia gnostica è, insieme a Basilide, Valentino, la tendenza più
vicina al cristianesimo cattolico.

Valentino
Se fosse veramente gnostico o no, la discussione è tuttora aperta. Come per Basilide,
possediamo pochissimi frammenti, quasi sempre per tradizione indiretta, attraverso gli
scritti polemici degli antignostici. Al di là di ogni supposizione, il fatto che fosse
considerato gnostico da Ireneo, da Clemente, dallo pseudo Ippolito e da quasi la totalità
degli autori antichi, Origene compreso, da Roma ad Alessandria ed Antiochia, dovrebbe
quanto meno insospettirci prima di avanzare ardite supposizioni.
Noi possediamo nove frammenti di Valentino, di lunghezza diversa e di argomento
vario. Interessante è comunque che, al di là delle ovvie difficoltà di recezione e
tradizione dell’antichità riguardo ai testi polemici, Nag Hammadi ha mostrato la
sostanziale fedeltà di Ireneo nelle sue accuse alla scuola di Valentino. Basarsi sulla sua
testimonianza per ricostruire il pensiero di Valentino non è poi così infondato 12. D’altra
parte anche Tertulliano e Origene, diversissimi per pensiero ed aree geografiche,
concordano nei giudizi con Ireneo13.
Valentino faceva parte della comunità cristiana di Roma, godendo di un notevole
prestigio, al punto che per poco non ne diventa vescovo.
Alcuni testi per capire i tratti fondamentali
∑ frammento 1: concetto gnostico la creazione di Adamo ad immagine degli Arconti,
che non sono spirituali, ma di sostanza inferiore. Nascostamente Sophia inserisce
un seme spirituale in Adamo. Gli arconti si spaventano di fronte alla inattesa
superioritˆ di Adamo, e lo nascondono (per Simonetti: lo coprono con un corpo
materiale).
∑ Dallo Pseudo-Ippolito, Refutatio VI, 42: una cristologia alta, basata sul Logos.
Non si parla però di una dottrina che attribuisce a Gesù il carattere di “Logos”,
quanto piuttosto del Logos come entità divina personale sussistente distinta dal Dio
solo, storicamente definita in Gesù. (Valentino certamente cristiano. Ma non
sufficiente che Cristo venga definito “logos” per avere una dottrina del logos:
occorre che questo logos venga definito come entitˆ sussistente, distinta dal Dio
uno.)
∑ Dagli Stromata di Clemente, IV, 89-90: la concezione platonizzante della creazione
I due livelli della realtà, l’immagine inferiore al modello... Il demiurgo gnostico
classico, inferiore al Dio Padre Creatore. Il mondo materiale molto inferiore all’eone
vivente, il pleroma gnostico, il mondo divino da cui è precipitato il creato dopo il
peccato di Sofia che ha provocato la rottura e la creazione del mondo espulso dal
pleroma, a imitazione del quale il Logos plasma il demiurgo stesso 14. In più, tutto il
discorso sincretico sul nome e sul rapporto tra fede e gnosi.
12
Sono soprattutto gli studiosi tedeschi a dubitare sistematicamente delle fonti antiche, tentando di
rimettere in discussione tutte le categorie giˆ acquisite (bisogna pur vendere nuovi libri). Cf.
Markschiess [?] su Valentino, e Lšhr [?] su Basilide. La tendenza fondamentale di questi studiosi nega
il carattere gnostico di questi due. Alcuni loro discepoli sarebbero stati certamente gnostici, e per questo
combattuti dai polemisti, che avrebbero proiettato sui maestri le tendenze estreme dei discepoli. NB:
Basilide 140; Valentino pi tardi (nel 160 ancora a Roma). In particolare Markschiess esamina i
frammenti che con sicurezza si possono attribuire a Valentino: sette su nove, abbastanza ridotti di
dimensioni. Essi sarebbero spiegabili in termini non gnostici. Poi passa ad esaminare la notitia di
Ireneo: essa non riguarda per˜ Valentino, ma la sua scuola. La notizia propria di Valentino presentata a
parte in termini pi ridotti. Markschiess la svaluta completamente. Per cui pu˜ concludere che Valentino
era un pensatore cristiano, con due discepoli gnostici: Tolomeo ed Eracleone. Prima di questi studi, giˆ
su Eracleone erano stati avanzati dubbi sul suo reale gnosticismo, da parte di studiosi americani e
tedeschi; gli americani influenzati da Hans Jonas. Lo gnosticismo di Eracleone sarebbe stato un
travisamento di Origene. Simonetti invece non eccessivamente pessimista sulla validitˆ della
documentazione antica (e decisamente pi pessimista sull’attendibilitˆ della pretesa critica tedesca).
13
La sua Notitia stata dimostrata attendibile prima della seconda guerra mondiale e poi dal
rinvenimento dei testi di Nag-Hammadi. La nuova tendenza forse una conseguenza dello sviluppo della
ricerca su Nag-Hammadi. I testi si sono rivelati tardivi: dalla terza generazione gnostica in poi.
Certamente non si tratta di testi autentici: sono traduzioni in copto, peraltro abbastanza maldestre. Un
solo testo gnostico completo è autentico: l’Epistola di Tolomeo a Flora. Questo pu˜ aver influenzato a
retrodatare l’origine dello gnosticismo vero e proprio.
La mediazione, il mito cosmologico e escatologico
Filone si basava sul concetto della mediazione del Logos. Qui, quella logica si trova
alla massima generalizzazione in ambito ormai cristiano. Alla creazione e provvidenza,
gli gnostici aggiungono il tema del riscatto e della frattura sanata. Cfr. l’interessante
lavoro di B. Aland sulla nascita dei sistemi gnostici a partire dal paradosso del peccato
presente nel mondo divino, che lo espelle da sé facendolo divenire spirituale e creatore.;
le sue radici già nel concetto paolino di “chenosi”. (Cos“ il sistema gnostico si
configura come una trasposizione paradossale dell’Incarnazione. Ges incarnato offre il
punto di partenza per una riflessione sul mondo divino che si abbassa fino all’uomo).

Il ruolo degli eoni


[Cfr. Pelland sulla struttura del pleroma valentiniano con i diversi livelli e
personaggi su una scala di emanazione dall’Abisso]. Cfr. Orbe: si tratta di “funzioni”,
veri e propri “attanti”, funzioni narrative non necessariamente personaggi. Abbiamo da
una parte un Dio assolutamente trascendente e dall’altra un mondo creato; in mezzo il
Logos, di cui i 5 personaggi di Valentino possono essere considerati funzioni
attanziali15.
In Valentino, è chiaro molto più che in Filone, la personificazione del mediatore.
Dio resta sempre al di là, solo il Logos può darci la chiave di accesso 16. (E solo la forza
della controversia ariana farà accantonare questa cristologia).
Una delle conseguenze di questa impostazione, sarà l’astrazione completa del Dio
Sommo, al punto che Mario Vittorino dirà che il Padre è Deus in potentia e il Figlio è
deus in acto! L’”infinito” è un concetto che, applicato a Dio, risulterà positivo solo
dopo Plotino; l’alfa di  è privativa anche in Aristotele; quando quindi gli gnostici
diranno che Dio è , sarà per dare a Dio la possibilità dell’azione (e quindi il
Logos). Dio diviene cio capace di operare solo autogenerandosi, circoscrivendosi,
dandosi una definizione. Il primo principio chiamato anche “pre-padre”; perchŽ essere
padre giˆ una determinazione: la sua autodefinizione il logos.

Il nocciolo cristologico del contrasto gnosi-cristianesimo


L’impostazione cristologica basata sul logos fondamentalmente continua tra Filone
e gli gnostici. Ci sono anche punti di contatto con il cristianesimo: sono gli gnostici i
primi a valorizzare il quarto vangelo. Anche per Valentino il logos Cristo (seppure
sdoppiato in Cristo e Salvatore).
La differenza fondamentale nel rapporto con il pensiero cristiano della grande chiesa
consiste nel fatto che, per lo gnosticismo, il mondo materiale esiste solo in funzione del
14
Il mondo un prodotto impuro, ma plasmato dal Logos, attraverso Sophia, per cui con una sua
dignitˆ. Dio resta invisibile, ma una sua certa visibilitˆ permane nel mondo, e coopera alla fede
(contrapposta a gnosi: conoscenza inferiore e imperfetta, propria degli psichici; questa distinzione, che
permane in Clemente e Origene, assunta dagli gnostici come ontologica, non solo assiologica).
15
Leggendo Tolomeo rileviamo l’articolazione molto complessa della mediazione, che sconcerta
Ireneo e Tertulliano, ma non Clemente e Origene: trenta e pi eoni. Orbe ha chiarificato che i cinque
nomi di Valentino sono funzioni attanziali del Logos: l’Intelletto l’unico che conosce il Padre rivolto
verso Dio, e in quanto rivolto verso l’esterno si chiama Logos; in quanto funge da immagine, si chiama
Anthropos, in quanto redentore si chiama Cristo e Salvatore.
16
Il rapporto tra Dio e l’uomo si esaurisce quindi tutto nel Logos: si apre la strada ad una
concezione del Logos come potenza operativa di Dio, che dominerˆ il campo teologico per tutto il II-III
secolo.
recupero della scintilla del divino in esso precipitata per il peccato di Sofia, e che in
esso sta maturando; il mondo materiale è comunque destinato alla corruzione finale.
Ne consegue che l’incarnazione di Cristo assume via via (nelle due visuali) diversi
significati; l’assioma fondamentale infatti diceva che ciò che non è stato assunto, non è
stato sanato17; da esso i cristiani ne deducevano la necessità di parlare di Cristo come
uomo integrale; dall’altra parte nascono i problemi del docetismo di varia natura e
validità di attribuzione.
Il Cristo valentiniano, da questo punto di vista, non è un Cristo apparente 18, bensì un
Cristo immateriale, fatto di una sostanza spirituale particolarissima, visibile e capace di
patire e soffrire. Si tratta di un pensiero tutt’altro che banale o semplice...
Una reazione vera e propria ad Alessandria contro lo gnosticismo sarà solo alla fine
del II secolo19; la scelta sarà diversa dall’occidente, dove ci si scaglierà contro le
strutture mitologiche; lo scontro avverrà invece sui due concetti fondamentali:
∑ la distinzione dei due dei (e la svalutazione dell’AT);
∑ la concezione cosmologica (e soteriologica), che comprendeva non solo la
svalutazione del mondo, ma anche l’universalitˆ della salvezza.

La scuola di Alessandria

La struttura

La testimonianza di Eusebio e l’ipotesi di Bardy


L’opinione vulgata viene da Eusebio, di una chiesa di Alessandria immaginata come
scuola teologico filosofica cristiana, caratterizzata da una (successione di
maestri), controllata dallo stesso vescovo. I nomi tramandatici sono quelli di Panteno,
Clemente, Origene, Eracla, Dionigi, Achille... fino a Didimo il cieco nella seconda meta
del IV secolo.

17
Gregorio di Nazianzo: aproslepton aterapton [?]; l’assioma generalizzato e indiscusso
nell’antichitˆ. Cristo ha assunto ci˜ che ha redento e viceversa. L’origine l’assioma filosofico “simile a
simile”: ci pu˜ essere rapporto solo tra entitˆ analoghe.
18
Nella notizia di Ireneo sui basilidiani leggiamo “non ha patito lui, ma un certo Simone di Cirene;
questo stato crocifisso per ignoranza”, che ha ricevuto conferma da due testi di Nag Hammadi. E’ stato
Orbe a far notare la particolaritˆ della concezione valentiniana; bisognerebbe per˜ intendersi sul termine
“docetismo”: un corpo reale la sostanza pneumatica di Valentino? Estratto 58 da Teodoto, 280-81.
Descrive l’incarnazione. Scende come Salvatore dal Pleroma; assume prima gli elementi spirituali, che
gli vengono da Sofia; poi l’elemento eletto (gnostici), e l’elemento chiamato (psichici); l’elemento
psichico viene dal Demiurgo; la componente psichica era invisibile, ma era necessario anche un corpo
“di sostanza psichica invisibile, giungo nel mondo sensibile per potenza di divina preparazione”. Per
questo Orbe afferma che non si tratta di vero docetismo; Simonetti preferisce un’accezione pi larga del
termine, in cui rientra anche la dottrina di Valentino.
19
Per quel che ne sappiamo, la diffusione dello gnosticismo fu favorita dalla struttura sociale debole
della Chiesa di Alessandria, frammentata in circoli e gruppuscoli. A un certo punto si comincia a
rendersi conto dell’incompatibilitˆ del sistema gnostico con il cristianesimo, e si organizza pertanto la
controffensiva. Il grave limite delle nostre conoscenze che possediamo soltanto le poche fonti scritte;
quasi nulla della discussione orale. Evento tragico, sapendo di una discussione pubblica tra Origene e
un Valentiniano.
L’opinione che trova ancora sostenitori 20, è stata recentemente impugnata da Bardy 21,
per il quale, basandosi sulle stesse testimonianze di Eusebio, Origene era stato fin da
giovanissimo (a causa di una persecuzione che aveva disperso i presbiteri), maestro dei
catecumeni; a causa della forma del suo insegnamento e dell’accorrere di molti pagani,
egli avrebbe in un secondo tempo diviso la scuola in una parte puramente catechetica e
un’altra aperta anche ai non cristiani22. Se così fu, non fu la prima scuola di “filosofia
cristiana” (cfr. Giustino a Roma). Simonetti concorda con questa ipotesi, intendendo
per scuola di Alessandria una vera scuola pubblica d’impostazione cristiana, in stretto
rapporto con il vescovo della città23.

Due note importanti


4. Che Origene sia stato discepolo di Clemente, non ha nessun sostegno nei testi; egli
nomina spesso Panteno, ma mai colui che sarebbe stato il suo predecessore nella
successione24.
5. Non siamo sicuri del fatto che ad Alessandria ci fosse un vescovo fin dagli inizi della
scuola. Clemente non parla in una sola riga di rapporti strutturali, ad eccezione
della relazione maestro - discepolo.

Il rapporto con la struttura ecclesiale


Abbiamo in un primo tempo insegnamenti di natura privata (Panteno e
probabilmente Clemente, forse suo discepolo).
Poi abbiamo Origene, che ci tiene molto ad essere considerato
(in reazione a Clemente?); non nomina mai Clemente;
sappiamo che alla fine dell’opera di Clemente, si sta affacciando una prima debole
struttura ecclesiastica, con l’avvento del vescovo Demetrio.
Demetrio è colui che compatta la comunità cristiana, così come Vittore a Roma.
Prima non era possibile un’opera simile, poiché mancavano personaggi della statura di
un Clemente o di un Origene (il cui precettore era un ricco gnostico convertito), capaci
di dare spessore culturale ad una comunità fino ad allora indifesa culturalmente e
dottrinalmente. Il processo che Demetrio intraprende grazie soprattutto a Clemente e
Origene sarà lo stesso che porterà poi all’allontanamento e alla condanna dei due
pensatori, ad opera dello stesso Demetrio.

20
Mehat, Rizerio e altri.
21
BARDY G., “?” Recherches de Sciences RŽligieuses
22
Affidando ad Eracla la scuola catechetica vera e propria, e tenendosi il livello superiore, in cui
c’erano probabilmente pochi allievi, e non si faceva distinzione tra cristiani e pagani. Sul metodo di
insegnamento di Origene, cf. l’orazione di Gregorio il Taumaturgo, come ringraziamento al termine del
curriculum.
23
Bardy sostiene che la scuola controllata dal vescovo comincia solo quando Origene sdoppia la
scuola catechetica. In questo modo anche la scuola superiore era sotto il controllo del vescovo. La
successione dei vescovi dopo Origene (tutti ex maestri della scuola) mostra che a partire da Origene c’
veramente una scuola con rapporti molto stretti con l’episcopato (Atanasio mette Didimo a capo della
scuola).
24
Secondo Bardy gli insegnamenti di Panteno e Clemente erano semplici insegnamenti privati; non
c’ nessuna prova che Origene abbia frequentato Clemente; Eusebio riferisce di una citazione di Panteno
da parte di Origene, ma nessuna di Clemente; se non ne cita mai gli scritti forse perchŽ ritiene
Clemente eccessivamente aperto allo gnosticismo?
Clemente
Alcune spigolature. Indicativo l’obiettivo posto sin dall’inizio degli Stromata:
camminare “verso la perfezione del vero gnostico”. “Gnostico” inizialmente indicava
una setta precisa identificata da Ireneo; poi si generalizzò e divenne indicativo di
un’intera corrente di pensiero. Clemente si propone una speculazione parallela a quella
dello gnosticismo, in quanto è il cristiano il vero gnostico. (Per alcuni sta qui il
probabile dissenso di Origene, che forse non gradiva che fossero portati contenuti
antignostici in linguaggio gnostico).
Cfr. gli estratti da Teodoto: Clemente parla (e pensa?) come uno gnostico,
riprendendo le distinzioni fondamentali fra e , con una forte distinzione:
per gli gnostici, gli uomini spirituali lo sono per natura; per Clemente, invece, la
distinzione dipende esclusivamente dall’impegno personale. Origene, per contro,
eliminerà il vocabolo , sostituendolo con (“perfetto”).
Possiamo vedere come un forte elemento di continuità nei pensatori alessandrini fin
da Filone sia proprio l’elitarietà 25.

Opere
Già i nomi delle due opere principali di Clemente sono indicativi:
(“tappezzerie”) e (“schizzi”, di cui non abbiamo
praticamente nulla): opere slegate, programmaticamente di argomento vario; oggi le
chiameremmo miscellanee. Lo sforzo da parte nostra di ritrovare l’unitarietà è
ovviamente enorme. Sono comunque opere che nascono in margine all’insegnamento
della scuola e che, forse ci rivelano anche qualcosa del metodo di lavoro di Clemente.
Per di più, gli Stromata riguardano la formazione del vero gnostico; la cristologia
c’entra solo tangenzialmente.

La cristologia
I testi sono dagli Stromata, quando non diversamente indicato; la numerazione è
quella di Steiling: libro, paragrafo ed eventuale sottoparagrafo.
∑ IV, 155, specie 2 ss: “Il Dio indimostrabile non può essere oggetto di scienza...”
Notiamo la fittissima trama di citazioni sempre su due versanti misti: da un lato la
letteratura greca classica (Clemente è l’autore antico che più cita da essa), dall’altro
la scrittura. Cfr. ancora una volta quanto detto sull’ambiente alessandrino.
“... il figlio, invece, è sapienza, scienza e verità e offre la possibilità di
descrizione...”
Il concetto fondamentale è la distinzione fra Dio e il Logos, impostata sulla base
della distinzione platonica unità-molteplicità, (che corrisponde a perfezione-
imperfezione); il Padre unitˆ (non numerica, ma assoluta); il Figlio numericitˆ e
molteplicitˆ. Ma si opera una radicale revisione del pensiero platonico: il logos in
posizione intermedia tra l’assolutezza del Padre e la molteplicitˆ del mondo. Il logos
non unitˆ come unitˆ Dio, nŽ molteplicitˆ alla stessa maniera del mondo. Si
riecheggia Filone in perfetta unitˆ di pensiero 26. (Si noti l’espressione “l’intelletto il
25
Ecco perchŽ tra l’altro il vescovo deve liberarsi di questi maestri, che vengono a costituire
un’alternativa in seno alla comunitˆ al vescovo e al suo potere.
26
Al tempo di Clemente Filone giˆ stato ripudiato dai giudei (fallimento dell’esperimento giudeo-
ellenistico) ed conosciutissimo da Clemente e praticamente assimilato dai cristiani (Girolamo lo
inserisce nel De Viris Illustribus).
luogo delle idee”, che riprende una idea filoniana: l’identificazione del nous
platonico col logos stoico, e quindi il suo legame col mondo delle idee.) Anche in
Clemente, platonico e Logos Stoico coincidono.
∑ IV, 156: i nomi di Cristo
Ancora una contrapposizione fra la trascendenza assoluta di Dio e il Figlio
preesistente (altrove definito come Logos), che è sapienza, scienza e verità; sono
quelli che Origene definirà : per articolare un discorso su Cristo si scelgono
i tanti appellativi di Cristo stesso nell’AT e soprattutto nel NT.
Questi nomi diversi davano l’idea del diverso modo dell’operato di Cristo nel
mondo: creazione, governo, redenzione, giudizio... Essi rivelano la molteplicità nel
Figlio, e quindi la sua possibilità di essere oggetto di scienza. Questa molteplicità,
però, si unifica nel Figlio che è insieme uno e molteplice. Cfr. gli gnostici e il
sistema di Valentino in cui l’unità del personaggio è presupposta ma non è mai
chiarita: tutti questi modi di essere di cui parla anche Clemente, sono uno nel Figlio,
irriducibile ad un limite definito come le singole parti; nessuno di questi appellativi,
cioè, circoscrive il Figlio che è ognuno di questi, ma non si identifica con nessuno di
essi.
Il Figlio, quindi, non è uno in quanto uno (come ), ma non è nemmeno
molteplice delle singole parti; è uno come unione di tutte le singole parti. E’ ancora
una volta il Logos come intermediario per eccellenza, ontologicamente mediatore. E
Cristo è mediatore già prima dell’incarnazione.
Il tema della mediazione resta filo rosso della cristologia alessandrina, almeno fino
alla crisi ariana e al rapporto di subordinazione che l’idea della mediazione lascia
trasparire.
Potremmo immaginare che se Clemente dovesse rappresentare Dio, il Padre sarebbe
un punto, mentre il Figlio sarebbe un circolo intorno al punto: l’assoluta misteriosità
non rappresentabile e l’assoluta perfezione rappresentabile, in cui principio e fine (alfa
e omega) coincidono.

Il rapporto generazione del Logos - incarnazione


Il Logos esiste ab aeterno nel Padre, come sapienza, razionalità, potenza; in un
secondo momento, il Logos viene esteriorizzato come entità divina distinta dal padre
(anche se non separata), in funzione della creazione del mondo. E’ uno schema
presupposto anche in Giustino e espresso in molti latini (Tertulliano e Ippolito, tra gli
altri).
Questo schema sarà completamente superato da Origene: l’eternità non è un tempo
che si prolunga, ma un essere al di là; è un controsenso immaginare in Dio un prima e
un poi. Fra Giustino e Origene sta Clemente.
Il logos impersonale, il logos esteriorizzato, il logos come anima mundi. Alcuni
come Lilla distinguono in Clemente con chiarezza questi tre stadi. Simonetti è del
parere che non si possa distinguere, in quanto non conosciamo passi in cui si presenti un
momento senza l’altro (o gli altri). E se di Clemente non abbiamo più molto, sappiamo
invece che Origene gli è molto debitore.
Fozio dirà che Clemente distingue un logos immanente nel padre e un logos cristo
generato. Come interpretare? Ario radicalizzerà alcune di queste posizioni, arrivando
all’eresia senza bisogno di distinguere due logos... (In questo senso, Ario costituisce
una radicalizzazione del pensiero alessandrino; sembra che anche lui abbia distinto un
logos interno, immanente nel Padre, e un logos esteriorizzato. in Cristo. In questo modo
per Ario, Dio assolutamente completo, indipendentemente da Cristo. Questo
certamente inconcepibile per Clemente: si veda il passo seguente).
∑ V,37-38
Siamo di fronte all’interpretazione allegorica della veste del sommo sacerdote,
così come ci è raccontata nell’AT: un genere letterario classico per un teologo
alessandrino. Cfr. soprattutto 38,7: il significato simbolico della lamina d’oro con il
tetragramma sacro: “è detto nome di Dio perché il Figlio agisce quando vede la
bontà del Padre”. Ancora una volta l’intermediarietà del Figlio che quando agisce
non fa che rivelare la bontà del padre. Cristo è nome di Dio in quanto attraverso la
sua azione rivela la bontà del Padre, rivela il Padre. In Pedagogo 1,57,2 sta
un’interessante definizione del Figlio come  del Padre (volto), primo e
prima di tutta la creazione (Col 1,1527).
Cristo immagine del Dio invisibile; (il punto fondamentale è l’invisibilità di Dio in
quanto Padre) nella tradizione asiatica si sottolinea Cristo che rivela il Padre in quanto
uomo, attraverso il suo essere uomo; nella tradizione alessandrina il Cristo è immanente
con el’incarnazione, ma è Logos (nome, volto), già da prima.
Ma dire “immagine invisibile” non è una contraddizione? Per Origene arriverà ad
essere quasi un ossimoro. Il Logos attraverso la sua opera creativa esplicita la sua
immagine (posizione che troverà la sua espressione piena in Ilario). Attraverso la sua
opera, il Logos manifesta l’esistenza di Dio; cfr. i rimandi platonici dalla creatura al
creatore (La contemplazione del mondo indirizza alla conoscenza di Dio; cf. 1Tm 5: un
solo mediatore tra Dio e gli uomini).
Occorre capire ben la pesantezza di queste considerazioni. Per Agostino, Cristo è
mediatore in quanto è uomo, oltre che contemporaneamente e perfettamente Dio. Per
Alessandria, la mediazione è già in Dio, prima dell’incarnazione; già in Dio sta il punto
di raccordo fra Dio e l’uomo. Tra Clemente e Origene da una parte e Agostino
dall’altra, sta la controversia ariana e l’eliminazione dello schema teologico
fondamentale per i secoli dal II alla prima metà del IV; schema che prevedeva tre
livelli: il Padre, il mondo e in mezzo il Logos come operatore di un collegamento
altrimenti impossibile. Si tratta di uno schema intrinsecamente subordinato che portato
alle estreme conseguenze, sarà all’origine delle grandi controversie. Quando lo schema
crolla sotto le spinte eretiche, Agostino riuscirà a ricuperare il concetto della
mediazione spostandola sull’incarnazione, riducendo così di molto l’estensione rispetto
al concetto originario alessandrino.
Lo schema teologico a tre livelli, comunque, pur se famosissimo ad Alessandria, era
patrimonio comune di tutta la antichità; verrà meno solo dopo Nicea, Costantinopoli e
la vera e propria rivoluzione ariana e antiariana. Il paradosso della controversia ariana
che porta ad esaltare la perfetta divinità di Cristo, ha come risultato la diminuzione della
sua azione: per Origene, infatti, è il Logos il Dio salvatore e Creatore; il Padre e lo
Spirito c’entrano, ma solo marginalmente (tanto che la redenzione è detta pure seconda
creazione). Dopo i grandi concili, l’azione ad extra è sempre dei tre. Il figlio vede
diminuito l’aspetto cosmologico, che si stacca irrimediabilmente da quello
soteriologico. Ad Alessandria, di fatto, Cristo aveva in sé la funzione della seconda e
della terza ipostasi plotiniana.
27
uno dei passi costitutivi della cristologia. Non c’ autore del II, III o IV sec che non
lo citi e interpreti.
∑ V,16
la contemplazione del Logos, verità, idea, pensiero di Dio. E’ un bell’esempio del
modo di procedere di Clemente: l’apertura verso la filosofia greca è la più forte;
Origene avrà molte più remore del suo predecessore. Negli Stromati si passa
continuamente e sistematicamente da una fonte all’altra, dalla scrittura a (quasi
sempre) Platone. E la riflessione di quest’epoca è totalmente cristocentrica; cfr.
Agostino, si nota come là dominasse molto più il teocentrismo (anche dopo la
controversia ariana).
∑ V,104
Citazione di Eraclito, sulla scia della teologia del Logos. Di fatto, qui Clemente
dà ragione agli autori moderni che leggono tutta l’attività intellettuale dell’uomo
come ermeneutica (cfr. Ebeling e la sua storia del dogma).
∑ VII,7
“Il Figlio è l’attività del Padre”. Cfr. Mario Vittorino. Il figlio fu anche
consigliere del Padre prima della creazione (Pro 8). Il Logos è potenza di Dio (1Cor
1,24) e sapienza di Dio dovrebbe essere chiamato il maestro di tutte le creature.
Clemente tende ad interpretare il cristo “maestro” soprattutto in termini didascalici,
segno evidente dell’imbarazzo di questi scrittori di fronte al tema della “sapienza di
Dio”. Le difficoltà maggiori venivano dall’interferenza dei concetti di Logos (greco)
e di sapienza (biblico). Cfr. Pro 8 e Gv 1. Dire che il Figlio era potenza di Dio non
dava problemi (era colui che era in grado di interpretare il padre), ma nella Sap
dell’AT e nel Logos del NT sono presenti gli stessi attributi cosmologici: come
parlarne? Giocando soprattutto sulla lingua madre greca, si finirà per preferire
l’impostazione giovannea, limitando al suo significato letterale:
l’incarnazione di Cristo diventerà modello di comportamento e di comportamento
universale (antignosticismo estremo).
∑ Estratti di Teodoto
Clemente vi ha inserito alcune chiose, dal linguaggio così gnostico, da trarci in
inganno fino ad oggi; il frammento VII è comunque unanimemente considerato
clementino. Si parla degli esseri celesti che sono senza forma, senza figura e senza
corpo. Ma il Logos sappiamo che ha una forma propria e un corpo in proporzione
alla sua superiorità sugli altri esseri. E’ interessante la precisazione, per quanto
sconcertante: il Logos ha una sua  o non potrebbe operare, ma qui si va
oltre: si parla di un “corpo in proporzione”. E’ un concetto particolare di corporeità,
concetto limite. Clemente è infatti un platonico: la corporeità è legata non ad
un’imperfezione, ma ad una mancanza di completa perfezione; la corporeità è un
concetto relativo in funzione della preminenza sugli esseri, secondo una struttura a
catena. Origene, insistendo su questo schema, affermerà che ogni creatura in quanto
creata (anche le intelligibili), ha un suo corpo; ne consegue che proprio in questo, il
Logos ha il limite della sua perfezione rispetto al Padre. Il Logos è quindi corporeo
non primariamente nel senso di munito di un corpo, ma nel senso di limitato rispetto
alla perfezione del Padre.
Origene

Introduzione
Secondo Balthasar, non sarà mai possibile sopravvalutare l’opera di Origene e la sua
influenza sulla storia della teologia cristiana. La grande riscoperta degli ultimi 50 anni è
stata proprio l’opera del grande alessandrino; oggi è quasi “di moda”. Il volume che ha
dato la svolta agli studi origeniani risale agli anni ‘30, opera di Volker. Prima di questo,
Origene era semplicemente l’autore del De Principiis, padre di tutte le eresie possibili e
immaginabili. Si tratta di una visione completamente errata anche a partire da ciò che
sappiamo dell’intenzione di Origene stesso: esegeta della sacra scrittura e
, come amava definirsi.
Volker è stato il primo a parlare di lui come di un “maestro di spiritualità”, a portare
l’attenzione sul valore delle sue omelie e i suoi commentari. Intuizione ripresa in
seguito dai giovani De Lubac e Daniélou, nel movimento di riscoperta dell’importanza
dello studio dell’esegesi patristica, fino a 50 anni fa completamente trascurata.

Testi

Il nodo: la non corporeità di Dio


∑ Commento a Ct 2,9 [?]
Il testo non ha niente a che vedere con il versetto a cui è collegato. Si tratta di una
confessione di fede platonica: questo mondo visibile ci mostra il mondo invisibile;
da ciò che vediamo quaggiù possiamo salire in alto. La struttura dell’universo
platonico è completamente accolta da Origene, tanto che possiamo dire che tutta
l’attività di Origene è stata finalizzata al passaggio dal primo al secondo livello
(esegesi, vita spirituale, cristologia...). In questo senso, riflessione e senso ascetico
sono la stessa cosa per lui.
Il punto fondamentale è ancora una volta l’assoluta incorporeità di Dio: la differenza
è che tutti lo hanno detto e pensato, ma nessuno con la stessa forza del grande
alessandrino: “Dio è natura intellettuale” (probabilmente ).
Per quanto riguarda l’affermazione di Gv 4,24, è da ricordare il senso comune stoico
di “spirito” non necessariamente come antitetico al corpo. La “corporeità” di Dio, poi,
concetto che resiste almeno fino al IV secolo (Origene vi annovera oltre a Teofilo e
Cassiano, pure Melitone di Sardi), affondava in una interpretazione facile di Gen 1,27.
Al di là della splendida (e unica) teologia di Ireneo che aggirerà il problema
dell’armonia fra Gen 1 e Gen 2, vedendo nel Verbo Incarnato la vera immagine di Dio,
la controversia fra Alessandria e Antiochia era sempre molto viva. Origene, di fatto,
rifiutando le posizioni più comuni (l’immagine è il corpo, l’immagine è l’anima, ma
pure essa in un certo senso “corporea”), sa di porsi in una posizione di minoranza. La
scrittura, per di più, non afferma mai che Dio sarebbe .
Ma procediamo con ordine, partendo, come Origene stesso, dalla base fondamentale
del Cristo Logos mediatore.

Il Logos mediatore: le 


∑ De Principiis I,2,1
Dopo aver distinto fra la divinità e l’umanità in Cristo, passa ad analizzare il
significato di “unigenito Figlio di Dio”. Tutto il capitolo, infatti, è un esame dei
fondamentali nomi con cui viene chiamato Cristo.
Il tema delle  (come tradurlo? Forse il meno inadatto è “rappresentazioni”)
è fondamentale in Origene. Cfr. a Gv 1-2. Per Origene, esse puntualizzano il modo
diverso con cui Cristo esplica la sua azione nel mondo.
∑ Commento al Ct II,9
La sapienza multiplex fit varietate intellectum, sed subiacenti ()
unitate. “Varietate intellectum” è la traduzione latina del termine greco .
Cristo qua deus ha una varietà di manifestazioni, ma è in sostanza uno; la varietà
delle rappresentazioni non danneggia l’unità (posizione antignostica). Sono ancora le
a caratterizzare lo stesso rapporto fra il Padre e il Figlio: il primo è infatti
monade semplice, mentre il secondo è molteplicità (cfr. Plotino). Tutta l’opera divina
nel mondo è opera di Cristo ed è molteplice (creazione, provvidenza, redenzione...)
Alcune sono pertinenti a Cristo Dio (tra cui Imago che per Origene è il
Cristo Logos), altre a Cristo in quanto incarnato. Origene ha anche cercato in esse una
graduatoria non sempre chiara, ma che stabilisce certamente la superiorità di e
.

La generazione spirituale ab aeterno


Cristo è stato generato dal Padre. Il pericolo evidente in affermazioni come questa è
l’analogia con la generazione animale. Origene, perciò insiste sempre molto sul
carattere spirituale di questa generazione. L’analogia preferita diventa allora quella
mentale: il Figlio procede dal Padre sicut mentem ex voluntas. Il Figlio è immagine
personalizzata della volontà operatrice del Padre. Il Padre, allora, è Dio in quanto
ripiegato perfettamente su si Sé. Il Figlio lo è in quanto aperto verso di noi.
La speculazione trinitaria anteriore (Teofilo) differenziava due momenti nella
generazione del Figlio: l’immanenza nel Padre ab aeterno () e la
processione in una persona in vista della creazione (). Origene supera
quest’idea con l’assoluta coeternità del processo di generazione.
∑ De Principiis I,2,6
Pensare emanazioni che dividono Dio Padre nella sua essenza e nella sua natura
incorporea sono solo sciocche illazioni, empie fantasticherie. Come la volontà
procede dall’intelletto senza separazione, così il Padre genera il Figlio, immagine
visibile del Dio invisibile. Si tratta di una generazione assolutamente incorporea per
non correre il rischio di pensare un sostrato corporeo divisibile (Tertulliano parlerà
del Figlio come portio et summa Patris!)
Così procedendo, però, Origene si ritrova senza un termine per definire l’unità nella
Trinità. Pensa allora allo Spirito come ad un sostrato partecipato da Padre e da Figlio,
ovviamente nell’assoluta incorporeità.
∑ De Principiis IV, alla fine, sulla ricapitolazione
Il Padre è Padre pur essendo indivisibile; non ha emanato perché, nella filosofia di
Origene, è un processo che implicherebbe corporeità. In Dio, di conseguenza, non si
può ammettere un prima e un poi, poiché il tempo non esiste se non nella creazione.
Il Figlio, in quanto Dio, è fuori dalla creazione, la sua generazione è fuori dal tempo;
ne consegue che il figlio è coeterno al Padre, e che la generazione è veramente ab
aeterno. Si tratta di affermazioni da completare con il passo seguente.
∑ Commento a Geremia IX,4: “non c’è stato tempo in cui il Figlio non esisteva”
Il Salvatore è splendore e irradiazione della gloria. Il Figlio, cioè, non è solo
generato dall’eternità, ma è sempre generato, continua in lui l’irradiazione della luce
del Padre. E’ come un fluire di vita divina che da sempre e in ogni istante del
presente e del futuro passa dal Padre al Figlio.
Si tratta di una delle due affermazioni che saranno poi utilizzate contro Ario, che
sosteneva l’esatto contrario, abolendo il primo “non”. E’ un testo che abbiamo solo
in traduzione latina dell’opera di Origene, ma non è rilevante l’intervento di Rufino.
Si tratta piuttosto di un’espressione platonica presa a prestito da Origene; cfr.
Alcinoo XIV,3, dove si usa questa affermazione in riferimento al mondo (il grande
problema della cosmologia platonica riguardava proprio l’eternità del mondo: posto
che non finirà mai, è iniziato o no?). Origene riprende il concetto in ambito
cristologico: il mondo a cui si riferiscono i platonici è ovviamente l’iperuranio, ma
già Filone aveva mostrato come, di fatto, fosse il Logos stesso il mondo delle idee.
Su questa strada, Origene arriverà a descrivere Cristo come
: complesso di rappresentazioni. (Il salto rispetto a
Clemente è abissale, e risente sicuramente del progresso delle scuole di filosofia:
Origene spiega la scrittura come un filosofo spiegava i testi di filosofia).

Il rapporto con il tema polemico della controversia monarchiana


Si tratta di un tema a cui Clemente è stato completamente estraneo (e con il
monarchianesimo si inseriscono pure i modalisti e gli adozionisti).
∑ Commento a Gv X,246
La posizione dei monarchiani affermava che “sono uno numericamente non solo
per e . Con certezza, possiamo dire che Origene non accetta che
Padre e Figlio siano uno per (da intendere come l’individualità del
Padre, del Figlio e dello Spirito).
∑ frammento dal commento ad Eb
Cristo come “” (emanazione; cfr. il tema della Sap). “C’è comunione
di sostanza fra Padre e Figlio (communio substantiae). ?
Sulla base di testi come questi, Wolfson e con lui alcuni importanti autori, affermano
che per Origene, Padre e Figlio sono uno in quanto all’ due in quanto
all’ In altri testi, si identificherebbe questa con lo Spirito. Non
possiamo però fare finta che non esistano anche chiare affermazioni contrarie:
∑ Sulla preghiera, XV,1
“... se il Figlio è per e ...”
∑ Commento a Gv II,149
I monarchiani si agganciavano all’analogia della luce per mostrare la non
distinguibilità assoluta fra Padre e Figlio [Ne ho perso un pezzo]. Crouzel ne
conclude che la ricerca in Origene di cosa sia ousia è deludente, arrivando anche ad
evidenti contraddizioni.
Di fatto, quanto alla terminologia, l’unica sicurezza sembra essere :
l’individualizzante. Forse Origene è il primo a fare di questo termine l’uso tecnico che
poi si imporrà nella tradizione teologica (anche se Marcello d’Ancira per esempio lo
attribuisce a Valentino).
Aristotele, tra l’altro aveva distinto l’come essenza individuale di un ente
(rifiutando le idee platoniche come sostanze universali reali), e poi una seconda 
come ciò che è comune fra gli esseri di una specie e un genere.
∑ Commento a Gv XIX,6; XX,153
Il Figlio partecipa della natura del Padre. Cristo è naturaliter unito al Padre.
Origene commenterà tre volte Gv 10,30 e tre volte non fa ricorso al concetto di
o di natura. Sembra strano. Solo una volta, commentando il Ct, parla
dell’amore che lega Padre e Figlio. La spiegazione migliore sta forse in Contra
Celsum 8,12: il Padre e il Figlio sono due e uno .
Quando cioè Origene prospetta l’unità, lo fa in chiave dinamica (una volontà, una
potenza, un’operazione...) Origene del resto è come ipnotizzato da Gv 4,24. Conosce
bene la posizione stoica di un Dio corporeo, platonicamente inaccettabile. Sta qui la
riluttanza per un’unità statica, per non arrivare a pensare una sostanza divisibile, da cui
“nasce” il Figlio come un corpo da un corpo. Solo nel IV secolo, dopo la teorizzazione
delle “sostanze puramente spirituali”, allora le frasi delle citazioni seguenti non daranno
più scandalo.

Il concetto di “natura”
∑ De Principiis I,1,5
“Fra le realtà spirituali, cioè incorporee (!), cosa è superiore se non Dio?”
∑ De Principiis I,1,9
Sia Padre che Figlio sono (nella traduzione di Rufino) “naturae intellectuales”.
∑ De Principiis II,3,1
Le creature create da Dio, spirituali, sono naturae intellectuales. Lo stesso
termine è utilizzato per indicare Dio stesso.
∑ De Principiis III,6,7
“Dio ha creato due nature generales: la natura corporea e quella incorporea.
Ambedue possono subire mutazione. La seconda, invisibile, muta per disposizione
d’animo, in quanto dotata di libero arbitrio. La natura corporea riceve invece
mutamento nella sostanza per cui qualsiasi cosa Dio voglia modificare, usa questa
natura pronta a tutto... secondo quanto richiedono meriti e demeriti...”.
Si tratta di un passo che sembra oscuro. Una specie di presentazione filosofica della
cosmologia origeniana: Dio ha creato gli esseri razionali, intelligenti e liberi;
nell’interpretazione vulgata di questo passo di Origene, si afferma che questi esseri si
sarebbero allontanati e avrebbero peccato (sia gli angeli, come gli uomini e i demoni,
anche se in diverso grado e modo). Per il recupero di questi esseri (la cui pena è sempre
pedagogica), Dio avrebbe creato la materia corporea dalla infinita capacità di
trasformazione, secondo la disposizione spirituale di queste creature. Il corpo sarebbe
quindi direttamente in relazione alla condizione spirituale e caratterizzato da un’estrema
mutabilità.
Alla base sta un preciso concetto filosofico di “materia” di origine stoica:
(assoluto privo di qualità), l’assolutamente indeterminato, il
sostrato comune e unico per tutti gli esseri. La caratterizzazione dei singoli avviene
mediante le qualità le (da ricordare che per gli stoici la materia assoluta è
un’astrazione, non esiste).
Origene reinterpreta platonicamente questo concetto di materia, immaginando due
materie generali differenziate per il libero arbitrio (quello che i medievali diranno
principium individuationis), l’una al servizio dell’altra.

L’unità in Dio
La conclusione provvisoria a cui si giunge è che non si distingue un essere dall’altro
se non per le qualità. Il salto decisivo lo si fa ritornando a Dio che è natura
intellectualis: il sostrato allora è sempre lo stesso anche fra creatura e Dio: tra Dio e la
sua creatura c’è cioè una certa parentela ().
∑ De Principiis III,1,13
“Ha creato incorruttibile la natura intellettuale e a Lui affine”. Si tratta di
un’affermazione che fece scandalo al tempo della controversia origeniana. In cosa si
differenzia Dio dalle creature? Per il fatto che solo Dio (Padre Figlio Spirito)
ha(nno) il possesso sostanziale del bene.
∑ De Principiis I,5,3
“Il bene è sostanziale nel Figlio, nello Spirito, oltre che nel Padre”
∑ De Principiis I,5,5
“Eccetto Padre Figlio Spirito, nulla è immacolato per natura”. La coincidenza fra
bene ed essere è totale e solo Dio ha l’essere di per sé...
∑ Commento a Gv II, 94ss
Gv 1: Senza di lui è stato fatto (il nulla, il male, il peccato, il non-essere).
Altrove arriva a dire che il peccatore in quanto tale è il non-esistente.
∑ Commento a Gv II,17
Il Padre è , il Figlio è . Dio è : all’infuori di Lui tutti coloro
che sono partecipi, sono : di questi, il più grande è il Figlio.
∑ Commento a Gv II,73
“Tutto è stato fatto per mezzo di lui”. Anche lo Spirito? Siamo persuasi che
esistono 3 , di cui solo il Padre è ingenerato; ne consegue che è più
consono pensare che lo Spirito Santo abbia una posizione preminente su tutto ciò che
è stato fatto in base alla mediazione del Logos. Il Figlio, allora, è Dio per
partecipazione, solo che la ’ del Figlio è privilegiata, perché deriva dal
Padre direttamente (per questo si dice che è generato); tutto quello che segue è
tramite il Figlio. (Da ricordare sempre che Origene è un propositivo, non un
assertivo! La problematicità è un suo tratto caratteristico).

L’incarnazione
Tutte le storture sulla ricezione di Origene nascono dal De Principiis, o perché
sopravvalutato, o perché considerato un manuale. In realtà, Origene dedica al tema
dell’incarnazione “solo” il VI libro, in cui tratta un solo problema: l’unione delle due
dimensioni in Cristo. Accenni marginali sono per il fine dell’incarnazione (ma non per
questo ne svaluta il valore!)
∑ De Principiis II,6 // I,2
“Due in Cristo”.
Cfr. quanto appena detto sulla cosmologia origeniana e sulle nature create. Le nature
intellettuali sono di pari dignità in quanto tutte libere. Una ha aderito in modo
particolare e indissolubile al Logos. Quando cioè il Logos si è incarnato, questa natura
razionale è divenuta la sua anima. (ovviamente è presupposta la preesistenza delle
anime ai corpi).
L’incarnazione avviene allora in due momenti: atemporalmente, questa creatura
intellettuale aderisce al Logos; temporalmente, diventa la sua anima.
(Il problema dell’origine dell’anima è ancora aperto ai tempi di Origene. Fino al IV
secolo, non si sceglierà ancora fra preesistenza, creazione insieme al corpo o
trasmissione per generazione. Origene fra i primi, Clemente fra i secondi, Agostino fra i
terzi. La scelta di Origene è soprattutto antignostica per salvaguardare la giustizia
divina).
Si tratta di una dottrina contestata da subito anche in Alessandria. Forse poggia qui la
dottrina che seguirà, dello schema cosiddetto Logos-Sarx, per reazione. In Origene,
invece, è l’anima che media: in quanto creatura è rivolta alla materia, in quanto
intellettuale è in grado di unirsi al Logos.
Origene concepisce quest’unione in un modo così stretto, da arrivare ad alcune
conclusioni sorprendenti (e avveniristiche).
∑ De Principiis II,6,3
Si tratta della formulazione quasi tecnica della communicatio idiomatum che
Antiochia rifiuterà ancora per molto tempo.
Questo modo di concepire l’incarnazione, però, poneva anche il grosso problema
della libertà dell’anima: come è libera l’anima unita a Cristo? Origene risponde che
potrebbe anche staccarsi dal Logos, ma:
∑ De Principiis II,6,5-6
Il ferro è capace di accogliere il caldo e il freddo; ma se il ferro sta in mezzo al
fuoco come può accogliere il freddo? Così l’anima unita al Logos.
Per quanto riguarda la finalità dell’incarnazione, come dicevamo, Origene non
l’affronta sistematicamente, ma molti spunti posso rivelarsi interessanti. Il punto di
partenza è assolutamente antignostico: Cristo non ha redento una parte, ma tutto
l’uomo.
∑ Foglio 6-7 della discussione con Eraclide
Discorso in chiave platonica, a partire da un’antropologia tripartita. Strano. Per
paolo, lo spirito è dono battesimale, quasi sempre tipico solo del cristiano; non
appartiene a tutti gli uomini. E’ una forza, un carisma, un dono. Per Origene, invece,
si tratta di una parte costitutiva di ogni uomo (più o meno il ), egemone
sull’anima. In Origene sono allora possibili due concezioni di spirito. A partire da
questa universalità, si aggancia la prospettiva cosmica della redenzione.
∑ Commento a Gv I
“Non solo per gli uomini, ma per ogni creatura dotata di Logos... è morto per tutti
all’infuori che per Dio... neppure gli astri sono impuri agli occhi di Dio”.
Il punto nodale sarà: anche per il diavolo? Da qui la dottrina dell’apocatastasi, nel
tentativo di superare la dialettica fra giusto e buono.
∑ De Principiis III,6,5
“Anche l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, ma la distruzione sarà non in
relazione alla sostanza, ma all’inclinazione (di inimicizia). Sarà distrutto non per non
essere più, ma per non essere più nemico”.
Si tratta del punto che sappiamo essere stato più fortemente contestato fin dall’inizio.
Per questo fu accusato anche presso Fabiano, vescovo di Roma. Secondo testimonianze
indirette, forse avrebbe ritrattato queste affermazioni, ma sembra molto difficile. Per
Origene, il bene è infinitamente più forte del male; da qui non si può non arrivare
all’apocatastasi.
L’unica ipotesi plausibile di difesa è la successione infinita di , che sfuma
l’ambivalenza del giudizio e della fine.
Sul modo dell’incarnazione, è esemplare per lo stesso uomo; alcuni testi sulla morte.
∑ Commento a Gv VI,284-285; 273
La morte è espiazione (soprattutto), e vittoria sui demoni e riscatto. Con una
precisazione fondamentale: Cristo è il sacrificio (Eb): in quanto Dio è sacerdote, in
quanto uomo è vittima.
∑ Commento a Mt XVI,8
Gesù ha dato la sua anima come prezzo del riscatto, al diavolo. (Tralasciamo il
problema esegetico di 1PT che parla non di anima, ma di sangue come prezzo del
riscatto). Diavolo, che però viene così ingannato. Si tratta di una tradizione
antichissima, forse risalente addirittura al NT.

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