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Antonianum XCIV (2019) 841-879

«QUARE DUXISTIS HUC MULIEREM?»


CELESTINO V E LE DONNE

Summary. In analyzing the trial record of the canonization of Pietro del Morrone, the
Author concentrates on a specific aspect, rife with possibilities for further study, namely
the relationship of the miracle working hermit to the world of women. Enquiry into his
alleged hostility to women, which reveals rather that of the witnesses, ends up reinforcing
the image of Pietro as a man most chaste, triumphing over the devil that had misused a
woman in the attempt to bring about his fall. Moreover, not only Pietro does not appear
to have been marked by a hostility to women but nor were his close followers, at least not
the author of the Tractatus de vita et operibus atque obitu ipsius sancti viri.

Resumen. En el análisis de las Actas del proceso para la canonización de Pietro del
Morrone el autor se concentra sobre un aspecto específico, cargado de posibles y ul-
teriores estudios, como la relación del eremita taumaturgo con el universo femenino.
La presunta aversión, que revela más bien la visión de los testigos del proceso, acaba
por reforzar la imagen de Pietro como hombre castísimo, triunfador sobre el demonio,
que precisamente a través de la mujer hubiera querido hacerlo caer. Sin embargo, una
aversión como tal no sólo no parece que haya sido de Pietro, y ni siquiera de sus más
directos seguidores, cuanto menos no del autor del Tractatus de vita et operibus atque
obitu ipsius sancti viri.

Gli atti del processo informativo in partibus teso ad accertare la san-


tità di Pietro del Morrone che si tenne nel 1306-1307, sono tramandati
da un unico codice conservato a Sulmona: l’inchiesta, affidata da Cle-
mente V all’agostiniano Giacomo da Viterbo, arcivescovo di Napoli, e a
Federico Raimundi de Lecio, vescovo di Valva e Sulmona, mirava a con-
centrare l’attenzione su Pietro del Morrone monaco, non su papa Cele-
stino V e sulla sua abdicazione; in tal modo, se per un verso Clemente V
veniva così incontro alle richieste del re di Francia Filippo IV, per l’altro
finiva per aggirarle, iscrivendo nel catalogo dei santi Pietro del Morrone,
non Celestino V1.

  Sull’argomento, oltre le brevi osservazioni che ho formulato in F. Accrocca,


1

«Cum Baptista Iohanne eremi secreta petiit». A proposito del Corpus Coelestinianum,

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Il codice di Sulmona tradita, com’è noto, un testo mutilo. Delle


oltre trecento testimonianze che furono raccolte in origine ne restano
superstiti centodiciassette: di esse, ottantadue si devono a uomini e tren-
tacinque a donne; se si eccettua Maria, madre di donna Gentiluccia di
Sulmona, di settant’anni, le donne giungono a un’età massima di poco
superiore ai cinquant’anni; tranne tre, tutti gli uomini non superano
i sessant’anni di età. Pochi testimoni, dunque, furono in grado di dire
qualcosa di preciso sui primi passi dell’esperienza monastico-eremitica
di frate Pietro e sul suo stile di vita nell’eremo.
Sono i miracoli, oggetto dell’articolo terzo, a costituire la spina dor-
sale dei racconti dei testimoni: non poteva d’altronde essere altrimenti, vi-
sto che la santità rivelava il suo coronamento nella virtus signorum2. Paolo
Vian, Alessandra Bartolomei Romagnoli e, soprattutto, Alfonso Marini,

in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, 70 (2016) 197-208: 198 e nota 5, si veda ora
il documentato e ponderato saggio di P. Vian, sopra, in questo stesso fascicolo della
rivista. Piuttosto superficiale e impreciso M. Goodich, Vita perfecta: the Ideal of sain-
thood in the Thirteenth Century, (Monographien zur Geschichte des Mittelalters 25)
Stuttgart 1982, p. 138-139; grosse riserve di metodo (e sulla sua informazione: l’autore
non conosce per nulla la storiografia italiana sull’argomento) muove infatti all’autore
Glauco Maria Cantarella nella sua recensione in Cristianesimo nella storia, 5 (1984)
102-105; tali critiche restano invece solo adombrate nella recensione di Baudouin de
Gaiffier, in Analecta Bollandiana, 101 (1983) 206-207; più marginali, anche se ripetuti
e puntuali, i rilievi di Theo Jansen in Collectanea Franciscana, 53 (1983) 426-429. Per
le testimonianze del Processo, mi servo dei volumi: Il processo di canonizzazione di Cele-
stino V I, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, A. Marini, (Corpus Coelestinianum I/1)
Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2015; Il processo di canonizzazione di Celestino
V 2, a cura di A. Marini, (Corpus Coelestinianum I/2) Sismel-Edizioni del Galluzzo,
Firenze 2016 (da ora richiamati per titolo/numero di collana in corsivo). Non diremo
mai grazie abbastanza, per questi volumi, ai curatori Alfonso Marini e Alessandra Bar-
tolomei Romagnoli, studiosi tra i più costanti e competenti di cose celestiniane e – per
me – carissimi amici, ormai, di vecchia data. Premetto che adotto le forme grafiche
utilizzate nelle diverse edizioni.
2
  Ciò nonostante che, fin dagli inizi del XIII secolo e in particolare con Inno-
cenzo III e Gregorio IX, la Sede Apostolica fosse venuta elaborando una nuova teoria
della santità, sottolineando – sono esemplari, a questo proposito, le affermazioni di
Innocenzo III nella lettera di canonizzazione di Omobono da Cremona – il valore di
una vita santa: cfr. R. Paciocco, «Virtus morum» e «virtus signorum». La teoria
della santità nelle lettere di canonizzazione di Innocenzo III, in Nuova Rivista Storica,
70 (1986) 597-610.

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il quale più di altri ha lavorato sulla fonte, hanno analizzato gli Atti del
processo da molteplici punti di vista, motivo per cui credo sia superfluo da
parte mia ritornarvi. Preferisco invece concentrarmi su un aspetto specifi-
co sul quale sono possibili, a mio avviso, ulteriori approfondimenti, vale a
dire il rapporto di frate Pietro con l’universo femminile3.

Un atteggiamento di rigida repulsione verso le donne?


Dalle testimonianze risulta indubbiamente che Pietro del Morrone
appariva deciso nel voler evitare ogni tipo di contatto con le donne. A pri-
ma impressione sembra quindi difficile sottrarsi a un’immagine che Pao-
lo Vian ha qualificato come di «rigorosa severità»4. Dal proprio canto,
Alessandra Bartolomei Romagnoli ha tuttavia invitato a «distinguere tra
una rigorosa osservanza della prassi eremitica, che non tollera intrusioni
femminili nella propria inviolata solitudo, e un atteggiamento psicologico
di ripulsa, o comunque di censura, che in Pietro è del tutto assente»5. Al-
cuni episodi invitano a riflettere a riguardo, anche se una lettura sincronica
delle testimonianze afferenti ai singoli miracoli richiede forse di emette-
re giudizi meno recisi di quanto possa essersi fatto in passato. In effetti,
secondo Rainaldo di Gentile – il quale condusse Pietro, ancora all’inizio
della sua esperienza eremitica, sul monte Morrone, nella grotta dove prima
era stato un certo frate Flaviano da Fossanova –, l’eremita sarebbe stato
«infastidito dalla presenza degli uomini e soprattutto delle donne, la cui
vista fuggiva»6. A detta dell’anziano testimone (di cui però constateremo
in seguito la singolarità), malgrado avversasse apertamente il sesso fem-
minile, verso cui nutriva una repulsione senz’altro maggiore, a infastidire

3
  All’argomento dedica alcune dense pagine P. Vian, «Predicare populo in habitu
heremitico». Ascesi e contatto col mondo negli Atti del Processo di canonizzazione di Pietro
del Morrone, in Celestino V Papa Angelico, Atti del Convegno storico internazionale, L’A-
quila, 26-27 agosto 1987, a cura di W. Capezzali, L’Aquila 1988, p. 165-202: 191-197.
4
  Vian, «Predicare populo in habitu heremitico», p. 196.
5
  A. Bartolomei Romagnoli, Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone
tra oralità e scrittura, in A. Bartolomei Romagnoli, Una memoria controversa. Ce-
lestino V e le sue fonti, (Quaderni di «Hagiographica» 11) Firenze 2013, p. 67-99: 91.
6
  Test. XXIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 70: «… ipse frater Petrus, ex consor-
tio hominum et maxime mulierum, quarum visionem fugiebat, fastiditus …»; stesse
affermazioni nel Compendium, in Corpus Coelestinianum I/1, p. 78.

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Pietro non erano però solo le donne, ma in genere coloro che venivano a
violare la sua solitudine. Stessa cosa dichiara Pandolfo di Giovanni Palom-
bi di Sulmona, il quale afferma che egli «udì dire a frate Pietro che gli dava
molto fastidio la visita delle tante genti che si recavano da lui»7: e dunque,
uomini e donne, senza differenze!
Alessandro di Berardo, canonico di Valva e Sulmona – il quale, di-
chiarando di avere «quarant’anni e più» al momento in cui rese la sua
deposizione, doveva essere nato intorno al 1266 – rivelò lo stratagemma
cui fu costretto per portare alla presenza di Pietro sua nipote Francesca,
che aveva all’epoca circa sei anni e mezzo: quando aveva tre anni e mezzo,
la bambina era rimasta infatti ferita al piede mentre giocava con le sue
compagne8; dopo aver sperimentato vanamente per tre anni ogni rime-
dio medico, il canonico si decise infine a condurla da frate Pietro, del
quale era devoto, presso Santo Spirito di Sulmona, dove allora dimorava;

7
  Test. LXIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 156: «… addidit quod ipse testis au-
divit dici a dicto fratre Petro quod valde tedebat eum visitationis tantarum gencium
que ad eum accedebant».
8
  Test. XLIV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 102: «Dum enim ipsa puella cum aliis
puellis luderet, in iactu lapidis in ludo proiecti percossa fuit iuxta talum pedis sinistri,
ex qua percussione excrevit infirmitas dubitabilis perditionis membri predicti»; non è
molto frequente nelle fonti medievali il riferimento ai giochi dei bambini, come nota
E. Pásztor, Sant’Elisabetta d’Ungheria nella religiosità femminile del secolo XIII, in E.
Pásztor, Donne e sante. Studi sulla religiosità femminile nel Medio Evo, Presentazione
di M. Bartoli, (Religione e società. Storia della Chiesa e dei movimenti cattolici 37)
Roma 2000, p. 153-171: 156-157, nota 6; ricordano questo particolare anche Genti-
luccia di Berardo, madre della fanciulla (cfr. test. XLVIII, Corpus Coelestinianum I/2,
p. 112), e maestro Riccardo, chirurgo di Sulmona (cfr. test. L, Corpus Coelestinianum
I/2, p. 118). Secondo P. Golinelli, Celestino V. Il papa contadino, (Storia, Biografie,
Diari. Biografie) Milano 2007, p. 239, «il racconto ci dà un quadro realistico di vita
dell’infanzia nel Medioevo: un’infanzia che non fu solo, come voleva l’Ariès [il riferi-
mento è a Ph. Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime, Paris 1960], im-
balsamata nei modelli degli adulti, ma lasciata anche ai piccoli e non sempre purtroppo
innocui giochi dei bambini». Interessante anche quanto riferito da don Tommaso di
Nicolò di San Valentino, il quale vide Berengario di Balsorano «liberatum et sana-
tum, ludendo et ridam ducendo per totum Sanctum Valentinum cum aliis iuvenibus
de eodem loco Sancti Valentini» (test. CXXIV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 276):
cfr. quanto dicono in proposito anche don Gualtiero delle montagne di San Valentino
(test. CXVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 260) e Diotallevi di San Valentino (test.
CXXXVII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 294).

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tuttavia, «poiché il teste temeva di portare la bambina alla presenza del


frate, sapendo che lui aborriva davanti a sé la vista delle donne, la vestì
con abiti maschili»9. L’episodio è ben noto10, e certo non inconsueto
– soprattutto nell’agiografia monastica – è il caso del travestimento fem-
minile11; anche Gentiluccia, sorella del canonico e madre della bambina,
dichiarò che «temeva» di portarla da frate Pietro, «sentendo che lui
aborriva la vista delle femmine» e perciò «la vestì con abiti maschili»12.
Sia la madre che lo zio della bambina convergono dunque nella deci-
sione di travestirla; ciononostante, nella testimonianza dei due è possibile
cogliere una diversa sottolineatura: infatti, mentre il canonico dichiarò di
essere a conoscenza («sciens») della contrarietà di frate Pietro nei con-
fronti delle donne, sua sorella aveva solo sentito dire di tale contrarietà
(«senciens»). Peraltro, a portare la bambina dall’eremita non fu soltanto
lo zio canonico, ma anche sua madre e sua nonna Maria, come risulta dalla
stessa testimonianza delle due donne, confermata però anche da un chirur-
go di Sulmona, maestro Riccardo13. Maria, inoltre, riferì che frate Pietro

9
  Test. LXIV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 102: «… et quia testis ipse timebat ad
presenciam ipsius fratris puellam portare predictam, sciens eum feminarum aspectum
protinus abhorrere, puellam ipsam induit pannos viriles».
10
  Cfr. Goodich, Vita perfecta, p. 112; Vian, «Predicare populo in habitu
heremitico», p. 193 e nota 112; A. Marini, Pietro del Morrone monaco negli atti del
processo di canonizzazione, in S. Pietro del Morrone Celestino V nel medioevo monastico,
Atti del Convegno storico internazionale, L’Aquila, 26-27 agosto 1988, a cura di W.
Capezzali, L’Aquila 1989, p. 67-96: p. 78; Golinelli, Celestino V, p. 238-239. Goo-
dich (p. 112-113), anche se con riferimento più specifico a un episodio riferito nella
cosiddetta Autobiografia, parla di «sensual anxieties» da parte di Pietro, Marini di
«antifemminismo», mentre Golinelli (p. 239) ritiene che «qui la misoginia dell’ere-
mita è temperata dalla semplicità del suo animo, che si lascia ingannare da un semplice
travestimento».
11
  Si veda, in proposito, la bibliografia segnalata da Bartolomei Romagnoli,
Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone, p. 90-91, nota 86.
12
  Test. XLVIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 112: «… et quia testis ipsa cum
dicto Sir Alexandro et matre sua timebat ad presenciam ipsius fratris Petri puellam por-
tare predictam, senciens eum feminarum aspectum protinus abhorrere, puellam ipsam
induit pannos viriles».
13
  Cfr. Corpus Coelestinianum I/2: test. XLIX, p. 116; test. L, p. 118. Quest’ulti-
mo testimone, tuttavia, può solo asserire di aver udito («audivit») la cosa.

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evitava «per quanto poteva» la vista delle donne14. L’eremita, quindi, pur
cercando di limitare l’affluenza femminile, di fatto finiva per entrarne in
contatto; che poi le affermazioni della donna non fossero frutto di una
sua invenzione, credo basti per sostenerlo la testimonianza di Bartolomeo
da Trasacco15, il quale dichiarò anch’egli che Pietro «per quanto poteva
evitava i rapporti, i colloqui e la vista delle donne»16.
D’altro canto, tanto Vian quanto Bartolomei Romagnoli facevano
riflettere sul fatto che, dopo essere stato eletto papa, quando ormai non
era più vincolato alle leggi dell’eremo, frate Pietro permise anche alle
donne di avvicinarlo e toccarlo17. Per di più, in un miracolo riferito da
Bartolomeo da Trasacco, di cui ci resta fortunatamente memoria grazie
al Compendium parigino, si narra che dopo la rinunzia al pontificato,
passando per il casale detto di Donna Sassia, nella diocesi di Chieti, a
frate Pietro venne incontro, sulla via, «una donna che aveva con sé una
bambina»: dal testo non è chiaro se si tratti di madre e figlia. La fan-
ciulla, da quel che asserivano i suoi, aveva la mano sinistra contratta sin
dalla nascita, ma dopo che frate Pietro l’ebbe segnata, la parte malata
fu liberata all’istante18. Il miracolo non ha in sé, come si vede, nulla di
straordinario rispetto a tanti altri simili operati dall’eremita: il fatto è che
– stando almeno al racconto di Bartolomeo da Trasacco – nessuno ebbe
da eccepire che l’ex papa ormai ansioso solo di ritornare ai suoi eremi,
venisse avvicinato da una donna, la quale non dovette del resto superare
alcuna resistenza per ottenere il miracolo.

La frequenza delle donne negli eremi


D’altra parte è pure vero che, al pari degli uomini, anche le donne
collaborano alla costruzione dei diversi insediamenti: la sulmonese Ga-

  Test. XLIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 116: «… eo quod feminarum


14

aspectum in quantum poterat [frater Petrus] evitabat».


15
  Sull’importanza di questa testimonianza, cfr. Accrocca, «Cum Baptista
Iohanne eremi secreta petiit», p. 201-206.
16
  Corpus Coelestinianum I/1, p. 86: «… et quod mulierum consorcia, colloquia et
aspectus quantum poterat evitabat».
17
  Vian, «Predicare populo in habitu heremitico», p. 195-196; Bartolomei Ro-
magnoli, Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone, p. 91.
18
  Cfr. Corpus Coelestinianum I/1, p. 166.

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lizia, moglie di Giovanni Peloso, narra, ad esempio, che quando fu edi-


ficato Santo Spirito vide «quasi tutte le donne e gli uomini di Sulmona
e di diverse altre parti» portare lì «pietre, arena e calce»19; allo stesso
modo, Ricco del maestro Ruggero di Sulmona ricordò che «quando fra-
te Pietro fece fare il luogo di Sant’Onofrio vicino a Santo Spirito vicino
a Sulmona, tutti gli uomini e le donne che potevano da Sulmona e dagli
altri luoghi circostanti si recavano a quel luogo e si riteneva beato chi po-
teva portare là una pietra o altre cose utili alla costruzione del luogo»20.
Infine Gemma, figlia di Gualtiero di Pacentrano di Sulmona, asserì di
aver a sua volta portato pietre per la costruzione di Sant’Onofrio e di
Santo Spirito21.
Inoltre, diverse donne testimoniarono, a più riprese, di aver incon-
trato frate Pietro nei suoi eremi, senza accennare per questo ad alcuna
difficoltà da parte sua. Le donne di Sulmona, soprattutto, sembrano aver
avuto con lui una certa consuetudine: Catania, moglie di Giovanni di
Riccardo, asserì di averlo visto dimorare in eremi e luoghi montani e bo-
scosi, «presso i suoi luoghi di Santo Spirito e Orfente»22; la cognata di
Catania, donna Gemma, moglie del fu Panfilo di Riccardo, riferì che,
prima che frate Pietro fosse eletto papa, «per quasi quindici anni lo vide
in diversi eremitori, cioè nel Morrone e in Orfento»23; Agostina, moglie
di Giovanni, quarantenne, dichiarò che «da oltre vent’anni vide di tanto
in tanto frate Pietro in diversi eremi, cioè nella cella di Sant’Onofrio e

19
  Test. LXXXXIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 226: «… vidit ipsa testis quan-
do edificatus fuit locus Sancti Spiritus de Sulmona omnes fere mulieres et homines de
Sulmona et de diversis aliis partibus portantes ad locum ipsum et lapides et harenam
et calcem».
20
  Test. LXXXXIV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 216: «… dum faceret dictus
frater Petrus fieri locum Sancti Onufrii prope Sanctum Spiritum prope Sulmonam om-
nes homines et mulieres que poterant de Sulmona et de aliis locis circumadiacentibus
ad ipsum locum accedebant et beatum se tenebat qui unum lapidem vel alia faciencia
ad constructionem ipsius loci poterat illuc portare».
21
  Test. CI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 230.
22
  Test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 52.
23
  Test. XX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 62: «… antequam dictus frater Petrus
assumptus esset in papam, fere per quindecim annos vidit ipsum fratrem Petrum in
diversis heremitoriis, videlicet in Murrono et Orfente».

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in Santo Spirito di Sulmona e nel Morrone»24; Margherita, madre di


Nicolò Zaurello, sostenne che «sono già quattordici anni [a patire dun-
que dal 1292] che lo vide negli eremi, in carcere, con abito monastico
o eremitico, e più volte lo visitò presso Sant’Onofrio e Santo Spirito di
Sulmona»25; Sulmontina di Giovanni di Pietro addirittura prese a fre-
quentarlo fin da bambina: aveva quarantasei anni quando depose, ma
dalla prima volta che lei «lo vide negli eremi, cioè sul monte del Mor-
rone, in carcere con abito monastico o eremitico, e più volte lo visitò lì e
altrove» ne erano passati già «trentasei» (quindi dal 1270)26; Gentiluc-
cia di Berardo, sorella di ser Alessandro, «più volte nel corso del tempo
lo aveva visitato»27 negli eremi posti sulla Maiella; anche la madre di
Gentiluccia, Maria, la testimone più anziana di sesso femminile (set-
tant’anni), «più volte nel corso del tempo» l’aveva visitato negli stes-
si luoghi già menzionati dalla figlia28; Aldruda, moglie di Benedetto di
Tommaso, confermò quanto aveva dichiarato il marito29, e cioè che nei
quindici anni precedenti l’elezione al pontificato aveva visto frate Pietro
dimorare «in luoghi boscosi, aspri e duri, e condurvi una vita beata in
molte astinenze, digiuni e preghiere»30; anche Bartolomea, un tempo

  Test. XLII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 96: «… dixit quia interdum vidit a
24

viginti annis citra ipsum fratrem Petrum in diversis heremis, videlicet in Cella Sancti
Onufrii et Sancto Spiritu de Sulmona et in Murrono».
25
  Test. XLVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 106: «… dixit quod iam sunt anni
quatuordecim quod ista testis vidit eum in heremis, in carcere cum habitu monachali
vel heremitico et pluries ipsum visitavit apud Sanctum Onufrium et Sanctum Spiritum
de Sulmona».
26
  Test. XLVII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 108: «… dixit quod iam sunt anni
triginta sex quod ista testis vidit eum in heremis in monte videlicet de Murrone, in
carcere cum habitu monachali seu heremitico et pluries ipsum ibi et alibi visitavit».
27
  Test. XLVIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 112: «… dixit quod sunt anni
triginta quinque quod ista testis audivit dici eundem fratrem Petrum fuisse in here-
mis in monte videlicet de Magella in carcere cum habitu monachali seu heremitico et
pluries ipsum processu temporis visitavit in illis locis».
28
  Test. XLIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 114: «… pluries ipsum processu
temporis visitavit ibidem».
29
  Cfr. Test. LXVIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 154.
30
  Test. LX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 138: «… ipse testis vidit eum morari
per annos quidecim in heremis, ante apostolatum dicti fratri[s] Petri, in locis silvosis,
asperis et duris et ducere ibi vitam beatam in multis abstinenciis, ieiuniis et orationibus
usque ad assumptionem apostolatus eius».

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moglie del notaio Bonomo, lo aveva visto fin da quand’era dodicenne (al
momento della deposizione aveva trent’anni e i suoi ricordi risalivano a
diciotto anni prima) «presso la sua cella nei monti vicino a Sulmona»31;
Gentiluccia, moglie di Pietro di Baldovino, «più volte lo visitò» negli
eremi sul monte della Maiella32; Palma, madre dell’orefice Goffredo, lo
vide «in diversi eremi, cioè nel Morrone e nella Maiella e nella cella di
Sant’Onofrio, con abito eremitico»33.
Per contro, Angela di Giovanni di Pietro, originaria di Sant’Eufe-
mia, riferì che già ventiquattro anni avanti (quindi fin dal 1282) aveva
udito che frate Pietro era negli eremi sul monte della Maiella, ma «che
non poté visitarlo perché era donna e lui le evitava»34. Dopo aver ascol-
tato le testimonianze delle altre è però lecito chiedersi fino a che punto
Angela parlasse per esperienza diretta o non fosse invece stata condizio-
nata da quel che aveva già sentito dire.
L’impressione che se ne ricava è che la prudenza che frate Pietro cer-
tamente mantenne nei rapporti con le donne venga amplificata dal filtro
maschile, vale a dire che gli uomini siano stati portati piuttosto ad ac-
centuarla. Naturalmente, si potrebbe supporre pure il contrario, cioè che
siano le donne a stemperare l’avversione che l’eremita avrebbe nutrito
nei loro confronti; in ogni caso, la questione merita di essere affrontata.
Si prenda ad esempio la vicenda del miracolo di cui fu beneficia-
ria Trotta di Benedetto, originaria di Castel di Sangro, la quale avendo
«trent’anni o circa» all’epoca in cui rese la sua deposizione, era nata in-
torno al 127635. La donna raccontò di essere stata guarita da frate Pietro

31
  Test. LXXVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 174: «… a dicto tempore citra ipsa
testis vidit eum in dicto habitu apud cellam suam in montibus prope Sulmona».
32
  Test. LXXXVII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 198: «… dixit quod iam sunt
anni quadraginta quod eadem testis audivit dictum fratrem Petrum fuisse in heremis in
monte videlicet de Magella in carcere cum habitu monachali vel heremitico et pluries
ipsum visitavit».
33
  Test. CVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 240: «… dixit quod vidit ipsum fra-
trem Petrum in diversis heremis, videlicet in Murrone et in Magella et in cella Sancti
Onufrii cum habitu heremitico».
34
  Test. LXXXV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 194: «… dixit quod audivit dici,
iam sunt anni viginti quatuor, quod idem frater Petrus fuit in heremis, in monte vide-
licet de Magella, in carcere cum habitu monachali vel heremitico ipsumque visitare
nequivit propter aspectum muliebrem quem vitabat».
35
  Test. XIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 34.

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prima che questi fosse eletto papa, dopo essere rimasta priva del lume
degli occhi pressappoco per tre anni. Non è possibile determinare con
certezza quando avvenne il fatto, ma sembra potersi azzardare una data
vicina al 1294, dal momento che era ormai prossima al suo diciottesimo
anno di età. Trotta dichiarò di essersi recata da frate Pietro presso l’eremo
della Maiella «con un’altra moltitudine di genti». Questi, «richiesto da
conoscenti della teste» di pregare Dio per lei, «la benedisse con il segno
di croce», dopo di che Trotta cominciò subito a migliorare36. Francesco
Cavalerio, anch’egli di Castel di Sangro e che era stato tra coloro che ave-
vano accompagnato Trotta da frate Pietro, concordò con la deposizione
della donna, dichiarando che frate Pietro «la vide e la benedisse con il
segno di croce»37.
Al contrario, Roberto di Raone, concittadino degli altri due e «in
rapporti di amicizia» con frate Pietro giacché «lo vide moltissime vol-
te alla Maiella e a Santo Spirito di Sulmona», affermò che, in quanto
Trotta «non poteva accostarsi a frate Pietro perché era donna», fu lui
stesso a raccontare all’eremita la vicenda della povera disgraziata; fu al-
lora che Pietro, «quasi turbato», gli avrebbe risposto: «Come porta-
ste qui le donne? Sapete infatti che in questi luoghi le femmine non ci
devono stare». Promise comunque che avrebbe pregato Dio per la sua
guarigione, dopo di che il teste la vide guarita, capace di tornarsene senza
il bisogno di una guida38. Secondo Roberto di Raone, frate Pietro non

  Corpus Coelestinianum I/2, p. 34, 36: «… posuit fidem et devotionem in eo et


36

accedens cum alia multitudine gentium accedencium ad dictum fratrem Petrum pro
devotione quam habebant in eo, applicuit ad locum heremiticum suum de Magella. Et
rogatus dictus frater Petrus per notos ipsius testis ut precaretur Deum pro ipsa simul
cum alia gente, benedixit eam cum signo crucis. Qua benedictione per ipsam // testem
cum devotione recepta, statim videre cepit et de visu meliorabatur de hora in horam».
37
  Test. XV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 42: «… postquam dictus frater Petrus
vidit et benedixit ei per signum crucis, statim incepit videre».
38
  Test. XVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 42: «… dixit quod ipse testis, ante-
quam dictus frater Petrus fuit assumptus in papam, fuit cum eo amicabiliter conver-
satus et vidit eum pluribus vicis in Magella et Sancto Spiritu de Sulmona»; p. 44: «…
[Trocta] ducta fuit per matrem, que manuducebat eam de Magella, et cum non posset
accedere ad dictum fratrem Petrum, quia mulier erat, dictus testis, quia devotus erat
ipsi fratri Petro, narravit ei quomodo dicta Trocta mulier privata lumine manuducta
fuerat ad eum, ut liberaret eam. Qui respondit ipsi testi quasi turbatus dicens: “Quo-
modo duxistis huc mulieres? Scitis enim quod in [istis] locis femine stare non debent”.

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 851

avrebbe dunque neppure visto Trotta, operando il miracolo a distanza.


C’è tuttavia anche da dire che, secondo quest’ultimo testimone, la donna
sarebbe stata cieca per parecchi anni, a partire da quand’era ancora una
fanciulla, mentre la diretta interessata affermò che era rimasta priva della
vista solo per tre anni.

La vicenda esemplare della guarigione di Catania


Esemplare, in tal senso, è anche la vicenda di Catania, moglie del
notaio Giovanni di Riccardo (Ricciardo) di Sulmona, figlia di maestro
Benedetto di Sulmona, medico: a raccontare la storia che la vede pro-
tagonista di una guarigione miracolosa (anche in questo caso da una
perdita della vista) è lei stessa insieme a suo padre, maestro Benedetto,
e all’ottuagenario medico Rainaldo di Gentile di Sulmona39, zio – sem-
bra – del marito della donna, ma vi fanno riferimento anche molti altri
testimoni40. Non fu interrogato invece il notaio Giovanni, che al tempo
dell’indagine era già passato a miglior vita41. Il racconto di Catania è di
uno straordinario realismo e consente di cogliere aspetti concreti della
vita quotidiana: ella piombò infatti nel buio, restando cieca, mentre si

Et demum dixit ei: “Rogabo Deum pro ea”. Qui testis vidit dictam mulierem ambulare
libere et domum redire sine alterius ductione».
39
  Cfr., rispettivamente, test. XVIII, XIX, XXIII.
40
  Rinvio in proposito all’Indice dei nomi di persona e di luogo, in Corpus Coele-
stinianum I/2, p. 326, sub voce; l’elenco dei testimoni della vicenda viene riferito an-
che da Vian, «Predicare populo in habitu heremitico», p. 192, nota 108; Golinelli,
Celestino V, p. 228: quest’ultimo nota che «quello di Catania è il miracolo più ricco
di attestazioni durante l’inchiesta compiuta dall’arcivescovo di Napoli, Giacomo Ca-
pozio, e dal vescovo di Valva e Sulmona, Raimondo de Letto». Non sono d’accordo
con Golinelli quando afferma (p. 228) che esso «fu, probabilmente, uno dei primi
compiuti dal santo», poiché Catania lo dice avvenuto «quindici anni prima» della
sua deposizione («quindecim anni elapsi»), quindi nel 1291, «prima del papato di
frate Pietro» («ante papatum scilicet dicti fratris Petri») (test. XIX, Corpus Coelesti-
nianum I/2, p. 52); la data viene confermata anche da Rainaldo di Gentile di Sulmona
(«ante apostolatum dicti fratris Petri, iam sunt anni quindecim elapsi vel circa») (test.
XXIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 72).
41
  Dalla testimonianza di maestro Rainaldo risulta infatti che Catania era moglie
«quondam notarii Iohannis Riczardi» (test. XXIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 72).

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852 Felice Accrocca

trovava intenta a filare con altre donne del vicinato42; dolore e smarri-
mento furono tali che non era più capace di riconoscere nemmeno le
voci di quante le erano intorno, che invece le sembravano provenire dal
profondo. A chi le chiedeva cosa avesse, rispose che le doleva la testa,
quindi si fece condurre in casa da una bambina, dalla quale – una volta
all’interno – udì dire che il suo occhio sinistro sporgeva infuori più del
destro. Al momento della deposizione, Catania non ricordava più quanti
giorni restò oppressa dal dolore; disse soltanto che si trattò di «più gior-
ni» (circa nove, secondo il padre, circa otto secondo maestro Rainal-
do, otto per donna Gemma, cognata di Catania)43, durante i quali non
trovava nessun giovamento dalle cure che suo padre e gli altri medici di
Sulmona le prodigavano. Prese allora a diffidare delle terapie, riponendo
invece fiducia in frate Pietro, a motivo della sua fama pubblica, per i cui
meriti Dio operava miracoli44: «dum in ipsa devotione staret» ebbe nel
sonno una visione – che dobbiamo ritenere favorita dalla più ardente
devozione – nella quale un vecchio che stava presso l’altare della chiesa
di San Pelino, vicino Sulmona, le mostrò la «retta via» lungo la quale
s’incamminò.
Proprio tale visione consente l’emergere – nel racconto della donna
– della distanza che la separa dal marito. Di fronte alle sue insistenze af-
finché la portasse da frate Pietro, l’uomo si mostrò infatti alquanto infa-
stidito45; infine, si decise a legare la moglie su un cavallo e, benché molto
contrariato, a condurla dall’uomo di Dio in compagnia di altri uomini46.

  Nota tale aspetto di vita quotidiana anche Bartolomei Romagnoli, Il pro-


42

cesso di canonizzazione di Pietro del Morrone, p. 78 e nota 48; che Catania fosse intenta
a filare con le vicine quando perse la vista lo conferma anche maestro Rainaldo (test.
XXIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 72).
43
  Cfr. test. XVIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 50: «In qua cecitate fere per dies
novem vel circa existens…»; test. XXIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 72: «Stans au-
tem dicta Cathania per dies octo vel circa sic ceca…»; test. XX, Corpus Coelestinianum
I/2, p. 62: «... lumen amiserat et medicinis pocionata infra octo dies...».
44
  Test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 52, 54.
45
  Tale contrarietà risulta soltanto dalla testimonianza della donna; nulla si evince,
in proposito, da quella del padre di lei e di maestro Rainaldo.
46
  Secondo Catania, il gruppo degli uomini era costituito dal marito, da Rainaldo
di Gentile, Giacomo di Benvenuto, Angelo di Trani e da Niccolò del maestro Giovanni
(cfr. Corpus Coelestinianum I/2, p. 54); nell’elenco riferito dal padre di lei non compare

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 853

La donna riferisce solo di essere stata legata, senza darne alcuna ragione;
sarà suo padre, maestro Benedetto47, a chiarire che il marito vi fu costret-
to per timore che, stante la sua cecità, finisse per cadere dalla bestia: non
so se forzo la mano alle testimonianze, ma il silenzio di Catania – rima-
sta nel frattempo vedova – potrebbe anche voler manifestare una certa
qual sofferenza a riguardo; certo è che la donna non nutrì scrupoli nel
ricordare che prima dell’incontro con frate Pietro suo marito era stato
«molto dissoluto nella vita sua»48. Ebbene, proprio questo rimarcar-
ne la precedente dissolutezza potrebbe avere lo scopo di esaltare la sua
conversione a seguito del miracoloso intervento dell’eremita, poiché da
quel momento Giovanni «mutatus est in virum alterum»49; vero è che

Angelo di Trani (cfr. Corpus Coelestinianum I/2, p. 50), la cui presenza viene però con-
fermata da maestro Rainaldo (cfr. Corpus Coelestinianum I/2, p. 72).
47
  Test. XVIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 50: «… fecit eam poni in quodam
equo et ligari ita quod non caderet ex defectu luminis quo carebat».
48
  Test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 56: «valde dissolutus in vita sua»;
stessa affermazione alla p. 54, dove si precisa però che il notaio «erat homo dissolutus
valde in vita quoad Deum», nelle cose di Dio. Anche Benedetto, padre di Catania,
riferì che Giovanni «prius fuerat valde dissolutus in vita sua»; non omette neppure di
dire che anche la sua stessa figlia «honestius et sanius vitam suam ex illo tunc duxit et
ducit quam ante» (test. XVIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 50).
49
  Test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 56. L’espressione non è inconsue-
ta nelle fonti agiografiche; più volte la ritroviamo, ad esempio, nelle fonti relative a
Francesco d’Assisi, tanto in quelle cosiddette ufficiali quanto in quelle non ufficiali;
cfr. Thomas de Celano, Vita beati Francisci 26, 8: Francesco, dopo un’intensa espe-
rienza interiore, «recedente denique suavitate illa cum lumine, spiritu innovatus, iam
mutatus in virum alterum videbatur» (in Fontes franciscani, a cura di E. Menestò e S.
Brufani e di G. Cremascoli, E. Paoli, L. Pellegrini, Stanislao da Campagnola. Apparati
di G. M. Boccali, [Medioevo francescano. Testi 2] S. Maria degli Angeli-Assisi 1995,
p. 301). Legenda trium sociorum 12, 9: agli inizi del suo percorso, ancora in ricerca,
si ritirava a pregare in una grotta; «cum extra cryptam exibat, ad socium mutatus in
virum alterum videbatur» (Fontes franciscani, p. 1385). Thomas de Celano, Me-
moriale 87, 1: «Quando a priuatis redibat orationibus, quibus pene in uirum alterum
mutabatur» (in Thomas de Celano, Memoriale. Editio critico-synoptica duarum
redactionum ad fidem codicum manuscriptorum, curaverunt F. Accrocca - A. Horowski,
[Subsidia scientifica franciscalia 12] Roma 2011, p. 174, 175); tali affermazioni furo-
no poi letteralmente riprese da Bonaventura nella Legenda maior X, 4, 6 (in Fontes
franciscani, p. 865). Sui problemi relativi alle fonti agiografiche francescane, rinvio a F.
Accrocca, Un santo di carta. Le fonti biografiche di san Francesco d’Assisi, (Biblioteca
di Frate Francesco 13) Milano 2013.

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854 Felice Accrocca

il ritratto restituitocene dalla moglie è così realistico da far pensare che


ella soffrisse ancora del comportamento avuto in precedenza dall’uomo.
È possibile perciò che quel viaggio legata al cavallo sia stato avvertito
da Catania come un’aggravante ulteriore rispetto alle sue già precarie
condizioni di salute. La testimonianza della donna merita di essere citata
per intero. Svegliatasi dopo la visione, Catania

«pregò suo marito di condurla a frate Pietro. Suo marito, seccato da


queste preghiere ripetute molto spesso, quasi contro voglia, poiché sem-
brava che lui non avesse devozione in ciò dato che nella sua vita era un
uomo molto dissoluto rispetto a Dio, procurò i cavalli e un giorno la
pose legata su un cavallo e insieme con il maestro Rainaldo di Gentile
e Giacomo di Benvenuto e maestro Angelo di Trani e un certo Niccolò
del maestro Giovanni, la condusse a San Giovanni di Orfento, dove fra-
te Pietro allora dimorava. Quando il notaio Giovanni e i suoi compagni
si accostarono a quel luogo insieme alla teste, richiesero la presenza di
frate Pietro, e quando lo videro, frate Pietro sembrava quasi sdegnar-
si perché la donna si era recata in quel luogo, dato che si diceva avesse
proibito che nessuna donna andasse là. E il notaio Giovanni, marito
della teste, quasi irato verso frate Pietro per il fatto che rifiutava la pre-
senza di Catania, non gli si rivolgeva con la devozione con cui avrebbe
dovuto. Frate Pietro, chiamato a sé il notaio Giovanni, gli chiese quale
fosse la sua vita; e quello rispondendo disse: “Curiamoci soltanto di ciò
per cui siamo venuti, non chiedere della mia vita”. Ma lui disse: “Figlio
mio, bada a quello che ti dico”, e allora gli predicò e gli disse molte cose
intorno alle parole divine, e tanto si adoperò su queste con la grazia di
Dio, che il notaio Giovanni da quel momento fu mutato in un altro
uomo e poi fino alla sua morte fu persona di tanta astinenza e di tanti
digiuni e preghiere e così devoto a Dio, frequentando chiese di giorno e
di notte, e così volto ad altre opere buone, che tutti quelli che lo avevano
conosciuto se ne meravigliavano avendo visto che fino ad allora era stato
molto dissoluto nella sua vita»50.

  Test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 54, 56: «… roga[bat d]icta testis su-
50

pradictum maritum suum quod duceret eam ad dictum fratrem Petrum. Qui maritus
eius, repetitis sepe et sepius huiusmodi precibus infestatus, quasi invitus cum videretur
eum devocionem in hoc non habere eo quod erat homo dissolutus valde in vita sua
quoad Deum, procuravit equos et quodam die posuit eam in quodam equo ligatam et
una cum magistro Raynaldo de Gentili et Iacobo Benevenuti et magistro Angelo de

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 855

Ha ragione Alessandra Bartolomei Romagnoli quando afferma che


«il dialogo tra il notaio Giovanni e Pietro è uno dei momenti di più
intenso realismo del processo»51. L’eremita spostò l’attenzione dalla
moglie al marito: non era la donna, pur sofferente, la vera malata, ma
l’uomo; era lui, in realtà, ad essere bisognoso di cure e a lui frate Pietro
dedicò gran parte del tempo. Giovanni e Catania non avevano figli, o,
perlomeno, non avevano figli maschi, come si evince dalla testimonianza
di Gemma, moglie del fu Panfilo di Riccardo, fratello di Giovanni: infat-
ti, dopo la guarigione di Catania – quindi tra il 1291 e il 1294 –, fu lui ad
accompagnare l’infermo figlio di Gemma da frate Pietro.
Nella circostanza, il colloquio tra i due fu cordiale, come fra vecchi
amici: frate Pietro, vedendo Giovanni, ormai unito a lui «da devota fa-
miliarità, gli disse: “Giovanni, hai un figlio?”. Egli rispose: “Padre, non
ho un figlio, ma mio fratello ha un figlio che reputo mio; eccolo grava-
to da grande infermità, ti prego di aiutarlo»52. Panfilo, ormai defunto

Trano et quondam Nicolao de magistro Iohanne duxit eam ad Sanctum Iohannem de


Orfenta, ubi ipse frater Petrus tunc morabatur, et accedentes ipse notarius Iohannes et
predicti socii sui pariter cum ipsa teste ad locum predictum, petebant presenciam dicti
fratris Petri, et viso eo quasi dedignari videbatur idem frater Petrus quod ipsa mulier
accesserat ad locum ipsum, cum diceretur ipsum prohibuisse quod nulla mulier illuc
iret. Et quasi iratus dictus notarius Iohannes maritus ipsius testis erga dictum fratrem
Petrum eo quod recusabat presenciam ipsius Cathanie // loquebatur cum eo non cum
devotione qua loqui debebat. Quem notarium Iohannem dictus frater Petrus ad se vo-
cans petiit ab eo de vita sua qualis esset, qui respondens dixit: “Curemus modo de hoc
pro quo venimus, non petas de vita mea”. At ille dixit “Fili mi, attende que dico tibi”,
et predicavit ei tunc et dixit sibi plura de divinis verbis, per que cum gratia Dei tantum
operatus est, quod dictus notarius Iohannes ex illa hora mutatus est in virum alterum
et fuit postea usque ad mortem suam homo tan[te abs]tinentie et tantorum ieiunio-
rum et orationum et sic devotus Deo, frequentando ecclesias de die et de nocte et aliis
operibus bonis ita intendens, quod omnes qui noverant eum de ipso mirabantur cum
vidissent eum usque tunc fuisse dissolutum valde in vita sua».
51
  Bartolomei Romagnoli, Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone,
p. 94 e nota 97.
52
  Test. XX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 62: «Quem puerum cum portasset
ad locum Orfentis, ubi dictus frater Petrus morabatur, notarius Iohannes de Sulmona
cognatus ipsius testis qui cum ipsa ad dictum locum accessit, portavit dictum puerum
ad cellam dicti fratris [Petri], qui frater Petrus videns dictum notarium Iohannem, qui
alias sibi erat devota familiaritate coniunctus, dixit ei: “Iohannes, habes filium?”. At ille
respondit: “Pater, filium non habeo, sed frater meus filium habet quem meum reputo,

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nel 1306, era dunque ancora vivo quando avvenne il miracolo, ma affi-
dò ugualmente il proprio figliolo al fratello Giovanni, che certamente
era ormai in confidenza con Pietro: forse non credeva a sufficienza nelle
virtù dell’eremita di San Giovanni di Orfento, da ritenere quel pellegri-
naggio una perdita di tempo prezioso? Dal proprio canto, Giovanni non
aveva un figlio, ma riteneva come tale il nipote: si coglie, in quest’affer-
mazione, non solo un’evidente dolcezza verso il fanciullo, ma pure un
certo rimpianto per non averne a sua volta potuti avere.
È possibile – per non dire probabile – che prima della sua
conversione Giovanni incolpasse di ciò la moglie Catania: la sterilità,
quando si presentava, era sempre attribuita alla donna, che non di rado
finiva per essere accusata anche per non aver partorito un figlio maschio.
Esemplificativo di questa mentalità è l’episodio, narrato magistralmente
da Tommaso da Celano nel Tractatus de miraculis, della guarigione, da
parte di san Francesco, di un fanciullo deforme, figlio unico di una cop-
pia che viveva presso Scoppito, vicino ad Amiterno: ogni giorno i due
piangevano il fanciullo quasi «fosse una vergogna della loro famiglia».
«Perciò lo tenevano lontano dalla presenza dei parenti e dei vicini, per-
ché non lo vedessero, pieni di dolore e ancor più di vergogna. Oltre a ciò,
il marito, prostrato dal dolore, rimproverava alla moglie di non generare
figli come le altre donne, ma mostri, non paragonabili nemmeno alle
specie peggiori degli animali, e la tormentava con l’accusa che il giudizio
di Dio provenisse da una colpa di lei»53. Si tratta di un modo di pensare
che si è protratto a lungo in larghi strati della popolazione e, almeno
nell’Italia centro-meridionale, addirittura fino alla metà del Novecento.
Non sappiamo cosa Pietro abbia potuto intuire della situazione del-
la coppia. Certo è che, con dolcezza, egli seppe trasformare Giovanni
dall’essere un uomo dedito a crapule, miscredente, poco incline alle ope-

ecce eum magna infirmitate gravatus, rogo ut adiuves”. Qui respondit ei: “Non timeas,
quia Deus iuvabit et liberabit eum”».
53
  Thomas de Celano, Tractatus de miraculis 158, 1.4-5: «Apud Scopletum
in Amiterno, vir et uxor, unicum habentes filium, quotidie illum velut hereditarium
opprobrium deplorabant. […] Nam et a parentum atque vicinorum aspectibus, ne il-
lum cernerent, amovebant, satis dolore sed plus erubescentia sauciati. Proinde vir, do-
lore affectus, exprobrabat uxori quod non sicut caeterae mulieres filios procrearet, sed
monstra quaedam, quae nec erant brutissimis comparanda, torquens Dei iudicium ex
peccato provenire uxoris» (in Fontes franciscani, p. 734-735).

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 857

re buone54, in una persona diversa, votata ad astinenze e digiuni e alla


preghiera.
In effetti, le testimonianze di Catania e di maestro Rainaldo non
coincidono pienamente nel riferire ciò che accadde nell’eremo. Mentre
secondo la donna il marito fu il principale interlocutore di frate Pietro,
nel racconto di Rainaldo è egli stesso a balzare in primo piano inter-
loquendo con l’eremita, restando la figura di Giovanni confinata sullo
sfondo: in sostanza, si limita a portare alla moglie la croce di legno invia-
tagli da frate Pietro. Secondo Catania, non appena il gruppo raggiunse
l’eremo, subito richiese la presenza dell’uomo di Dio, il quale si mostrò
sdegnato per il fatto che ne facesse parte anche una donna, dal momento
che si diceva avesse interdetto quel luogo al sesso femminile55; fu allora
che Giovanni aggredì frate Pietro, ottenendo che quest’ultimo gli rivol-
gesse la propria attenzione.
Nulla dice invece Rainaldo circa il comportamento di Giovanni,
neppure delle sue iniziali resistenze. Catania, poi, avrebbe pregato non
solo il marito, ma lo stesso medico perché la conducessero da frate Pie-
tro56: certo è verosimile che la donna – direttamente o attraverso l’in-
tercessione del marito – possa essersi rivolta a maestro Rainaldo, consi-
derando la conoscenza che egli aveva da lunghissima data con l’eremita,
come rivela la sua testimonianza, certamente una delle più importanti di
tutto il processo57. Tuttavia, è sulla dinamica dell’incontro che si registra-
no le differenze maggiori: infatti, secondo Rainaldo, quando il gruppo
fu vicino all’eremo, gli uomini «non vollero che Catania si avvicinasse di
più al luogo» poiché frate Pietro «aveva in orrore la vista delle donne»;
la lasciarono perciò a una certa distanza insieme al resto del gruppo,

54
  Golinelli, Celestino V, p. 229, osserva che quella di questo marito, notaio e
miscredente, fu «figura probabilmente non rara nelle città del Medioevo, quando gli
uomini erano forse molto meno cristiani e creduloni di quanto l’ideologia cattolica
dominante e l’assoluta prevalenza delle fonti ecclesiastiche giunte a noi su quel periodo
storico ci hanno fatto credere».
55
  Test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 54: vedi testo citato sopra, nota 50.
56
  «[Cathania] rogavit maritum sum et ipsum testem, qui avunculus eius est,
quod portarent eam ad dictum fratrem Petrum, quod et fecerunt» (test. XXIII, Cor-
pus Coelestinianum I/2, p. 72).
57
  Ho rilevato l’importanza di tale testimonianza in Accrocca, «Cum Baptista
Iohanne eremi secreta petiit», p. 200-201.

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858 Felice Accrocca

mentre maestro Rainaldo e il notaio Giovanni si recarono dall’uomo di


Dio. Al vederli, questi si rivolse a maestro Rainaldo, che ben conosceva,
chiedendo perché si fossero recati da lui e non appena gli fu esposta la
situazione, disse: «“Perché avete condotto qui una donna? Non sapete
che faccio scacciare tutte quelle che vengono e che ho proibito che alcu-
na venga qui?”». Rainaldo, allora, lo pregò di guarire Catania dalla sua
cecità e Pietro rispose che certe cose erano non erano in suo potere, ma
di Dio; dopo un lungo colloquio, dette comunque al notaio Giovanni
«una piccola croce di legno perché la ponesse sugli occhi di Catania»58.
Le differenze in realtà sono tali che i racconti, piuttosto che contrad-
dirsi, finiscono per integrarsi vicendevolmente: Catania concentra l’at-
tenzione sul marito, ma è ben probabile che a fare da mediatore sia stato
invece Rainaldo, il quale conosceva Pietro da lungo tempo; al contrario,
fino a quel momento – stando a quanto afferma la moglie – Giovanni non
sembrava nutrire alcuna devozione. Nella sua deposizione, la donna collo-
ca Rainaldo sullo sfondo, cosa che quest’ultimo fa con Giovanni, tuttavia
la reazione del marito (testimoniata da Catania) non si comprenderebbe
senza la reazione di frate Pietro (riferita da maestro Rainaldo). Le due
deposizioni risultano invece incompatibili riguardo alla descrizione dei
movimenti di Catania: secondo maestro Rainaldo gli uomini del gruppo
le avrebbero impedito di avvicinarsi al luogo, mentre dalla testimonianza
della donna sembra potersi evincere che la stessa – almeno in un primo
momento – sia comparsa insieme agli altri alla vista di frate Pietro. È vero
inoltre che la descrizione dell’animato confronto che suo marito ebbe con
l’eremita è troppo viva e realistica per poterla mettere in dubbio: bisogna

  Test. XXIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 72: «… et cum essent prope locum, quia
58

dictus frater Petrus visionem mulierum horrebat, noluerunt ipse testis et predicti alii qui
cum eo iverant quod appropinquaret plus dicta Cathania ad locum, sed elevata de equo et
posita ibi prope locum ubi erat dictus frater Petrus, ipse testis et notarius Iohannes, maritus
dicte Cathanie, relicta dicta Cathania ibi cum predictis aliis, accesserunt ad dictum fratrem
Petrum. Quos dictus frater Petrus videns, petiit ab ipso teste, quia notus erat eius, quare
illuc accessisset. Et ipse testis ei exposuit conditionem dicti negocii totam, qua audita dixit
frater Petrus: “Quare duxistis huc mulierem? Nescitis quia facio omnes expelli que veniunt
et quod prohibui ullam huc venire?”. Quem fratrem Petrum ipse testis rogavit ut non ferret
mol[este], sed rogaret Deum pro ea quod per merita sua restitueret lucem. Qui frater Petrus
dixit: “Frater mi, ista sunt Dei et non mei”. […] dedit dictus frater Petrus ipsi notario Iohan-
ni unam crucem ligneam parvam ut eam imponeret oculis dicte Cathanie».

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 859

dunque supporre che ella poté almeno udire, se non anche vedere, quanto
accadde tra i due. D’altronde, lei stessa riferisce che sedette «ad aspettare
vicino al luogo dove stavano a parlare frate Pietro e il notaio Giovanni».
Solo Catania testimonia invece le visioni che ebbe antecedentemente e
nel corso della sua guarigione: la prima quando, divenuta cieca e non trovan-
do rimedio alcuno nelle cure che le prodigavano i medici, le sembrò di tro-
varsi nella chiesa di San Pelino vicino Sulmona, dove vide un vecchio presso
l’altare che le indicò la via lungo la quale camminare; come già detto, fu dopo
questa visione che chiese al marito di condurla da frate Pietro, trovandosi
di fronte alla sua resistenza. La seconda mentre si trovava presso l’eremo di
San Giovanni di Orfento, seduta in attesa di conoscere l’esito del confronto
tra il marito e l’eremita: fu allora che Catania cadde nel sonno e le apparve
frate Pietro «portato al suo cospetto da una grande quantità di uomini»,
il quale le faceva «il segno di croce come è fatto nel vangelo»59. Anche se
non si mostrano del tutto rispettose delle varie fasi del rito dell’incubazione,
entrambe le visioni di Catania lasciano emergere in modo evidente il nesso
intercorrente tra il sonno, il sogno e la guarigione60.

Il quadro che emerge dalla testimonianza delle donne


Quel che lascia emergere l’analisi della vicenda di queste due donne,
Trotta e Catania, è che nei loro racconti non si fa mai riferimento alle severe

59
  Cfr. test. XIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 54, 56.
60
  Cfr. Bartolomei Romagnoli, Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone,
p. 95-96; in generale, sui sogni, cfr. S. F. Kruger, Il sogno nel Medioevo, (Cultura e storia 11)
Milano 1996 e bibliografia ivi citata (il lavoro di Kruger, tuttavia, si rivela di non molta utili-
tà per il nostro argomento); sul rito dell’incubazione in area napoletana cfr. D. Mallardo,
L’incubazione nella cristianità medievale napoletana, in Analecta Bollandiana, 67 (1949) 465-
498: quest’ultimo tende a stemperare le affermazioni del Delehaye, il quale riteneva si fosse
«esagerata la diffusione nel mondo cristiano del rito dell’incubazione, specialmente nella
chiesa latina». Mi piace, a questo proposito, fare riferimento al miracolo operato da Chiara
su frate Stefano, che le fonti dicono impazzito e che lo stesso Francesco aveva inviato a Chiara
perché ella «facesse sopra de lui lo segno de la croce». L’episodio fu riferito al Processo di cano-
nizzazione da Benvenuta da Perugia (II, 15, in Fontes franciscani, p. 2465), la cui testimonianza
venne confermata da Filippa di Leonardo di Gislerio (III, 12, Fontes franciscani, p. 2470); in
seguito, fu ripreso nella lettera di canonizzazione da Alessandro IV, che vi accennò sinteti-
camente, tacendo il nome del frate (Clara claris praeclara, 58, Fontes franciscani, p. 2335) e
dall’autore della Legenda sanctae Clarae virginis (32, 4-7, Fontes franciscani, p. 2434).

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parole che frate Pietro avrebbe pronunciato in merito a una presenza femmi-
nile nell’eremo, come invece risulta dalla testimonianza che di quelle stesse
guarigioni dettero gli uomini. Ad esempio, in occasione della guarigione di
Trotta, frate Pietro avrebbe detto a Roberto di Raone: «Come portaste qui
le donne?»; a maestro Rainaldo, invece: «Perché avete condotto qua una
donna? Non sapete che faccio scacciare tutte quelle che vengono e ho proi-
bito che qui ne giunga qualcuna?». Secondo Roberto di Raone, Pietro nep-
pure avrebbe materialmente visto Trotta, ma su questo specifico punto la sua
versione viene smentita non solo dalla miracolata, ma anche da Francesco
Cavalerio. Dalla vicenda di Catania, certo emerge una reazione negativa di
Pietro alla sua apparizione, ma i toni con i quali viene riferito l’episodio sono
diversi a seconda che il narratore sia la donna stessa o maestro Rainaldo.
Qualcosa di simile si riscontra in occasione della guarigione di Eli-
sabetta, una fanciulla di Sulmona, raccontata da Rainaldo del notaio
Bonomo di Sulmona – un suo «consanguineo» – e dalla madre di lei,
Bartolomea, già moglie del notaio Bonomo61. Secondo Rainaldo, egli si
sarebbe recato da frate Pietro – il quale allora si trovava a Sant’Onofrio
– e gli avrebbe esposto la situazione in cui si trovava la sorella; Pietro
gli avrebbe quindi consegnato un’ostia da farle mangiare e una crocetta
di legno, che egli appese al collo della bambina, la quale fu guarita dal-
la frattura all’inguine che l’affliggeva62. Assai più dettagliata e precisa è
la deposizione di Bartolomea: ella, infatti, avrebbe chiesto in un primo
tempo al medico Rainaldo, suo vicino di casa, ma soprattutto amico e de-
voto di frate Pietro (probabilmente Rainaldo di Gentile, il teste XXIII),
di intercedere presso l’eremita, cui avrebbe voluto inviare la bambina,
ma l’eremita, «poiché quella fanciulla era femmina, non permise che gli
venisse portata»63. Fu solo allora che Rainaldo, consanguineo di Elisa-
betta, il quale si era a sua volta recato da frate Pietro con un suo bambino

  Rainaldo ed Elisabetta sono entrambi figli del notaio Bonomo, ma non della
61

stessa madre (Rainaldo, infatti, che con esattezza dice di essere «consanguineo» della
bambina, è più anziano di Bartolomea, madre di lei).
62
  Cfr. test. LXXV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 172, 174.
63
  Test. LXXVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 176: «Confidens autem dicta
dompna de devotione quam habebat ad dictum fratrem Petrum, rogavit quendam vic-
inum suum, qui vocabatur magister Raynaldus, medicus amicus et devotus dicti fratris
Petri, ut rogaret eum pro dicta filia sua quam intendebat mittere ad ipsum, et dictus
frater Petrus, quia illa puella femina erat, non permisit eam ad se portari».

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 861

infermo, parlò della sorella all’eremita, ricevendone non solo un’ostia e


una crocetta di legno, ma anche «due Pater noster di ossi»64.
Potrebbe, a questo punto, aprirsi tutta una discussione sull’effettiva
consistenza, non solo sul significato di questi Pater nostri – a proposito dei
quali si dibatté animatamente, ormai più di trent’anni or sono, nell’ambito
del terzo Convegno di studi celestiniani, tenutosi a L’Aquila nel 198865 –,
delle ostie, delle piccole croci o delle candele, ma anche sugli alimenti di
cui Pietro si serve per rendersi presente ai malati66. Paolo Golinelli parla
in proposito di «mezzi magici»67, tuttavia, a mio avviso ha ragione Ales-
sandra Bartolomei Romagnoli nel puntualizzare che «Pietro ha una forte
consapevolezza della differenza e circoscrive con decisione l’ambito del
proprio intervento»68. È comunque certo che l’invio di cibo ai malati da
parte di Pietro – che si tratti di pane69, di picza70, di frutti71 o di polvere di

64
  Test. LXXVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 176: «… frater Petrus dedit illi [sc.
Raynaldo] unam hostiam portandam dicte puelle filie testis ipsius ad comedendum et
unam cruciculam de ligno cum duobus Pater nostris de osse».
65
  Offre una sintesi di quella discussione Marini, Pietro del Morrone monaco, p.
83, nota 34 (più ampiamente, p. 82-83).
66
  Rinvio ancora a Marini, Pietro del Morrone monaco, p. 82-88; si veda pure Bar-
tolomei Romagnoli, Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone, p. 96-98.
67
  Cfr. Golinelli, Celestino V, p. 232-237 (si tratta del capitolo ottavo della par-
te III del volume): lo studioso rileva che «c’è sempre nei gesti e nei miracoli compiuti
da Pietro Celestino una grande concretezza, un’esigenza di materializzare i simboli,
renderli tangibili per una popolazione che non conosce le astrattezze, ma ha bisogno di
toccare, di vedere, di avere in mano qualcosa che rassicuri, dia la certezza di una grazia;
ma c’è anche, nella scelta di questi che abbiamo chiamato “mezzi magici”, il convergere
nell’azione del santo di tutta una cultura contadina ancestrale, che non ha probabil-
mente abbandonato le pratiche di guarigione popolari, fatte di legamenti, filatterie, cibi
e beveraggi particolari» (p. 236).
68
  Bartolomei Romagnoli, Il processo di canonizzazione di Pietro del Morrone, p. 97.
69
  Ricordato da molti testimoni: cfr. Corpus Coelestinianum I/2, test. XIV, p. 38;
test. XIX, p. 58; test. XXIII, p. 70; test. XL, p. 90; test. XLI, p. 92; test. LI, p. 122; test.
LV, p. 128; test. LXXVIII, p. 178; test. LXXXVIII, p. 202; test. LXXXXV, p. 220;
test. CII, p. 232; test. CXXVI, p. 284.
70
  Cfr. test. CXI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 252; test. CXXV, Corpus Coele-
stinianum I/2, p. 280.
71
  Pietro invia delle mele: cfr. Corpus Coelestinianum I/2, test. XL, p. 90; test. XLI,
p. 94; test. LXXVII, p. 178; o anche dei fichi: test. LX, p. 140.

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erbe72 – non rientrava nell’esercizio caritativo dell’eremita, e perché molti


di quei malati in realtà non ne avevano bisogno e perché «tante volte»
frate Pietro aveva preferito mandare loro del denaro. Quest’aiuto molto
più concreto è attestato, ad esempio, da Francesco di Giovanni di Rocca-
morice, il quale asserì di averlo visto «dare pecunia ai poveri, e ne diede
anche lui»73; lo stesso Francesco, inoltre, e – con eguali parole – Giovan-
ni di Riccardo detto Collo, di Sulmona, dichiararono che nei luoghi da
essi abitati i monaci morronesi erogavano «grande elemosina»74. A tale
riguardo, la testimonianza più dettagliata e precisa fu però quella di Bar-
tolomeo di Trasacco, il quale riferì che frate Pietro fu un uomo di somma
carità, tanto che, grazie alle elargizioni di molti suoi devoti, cercava di sov-
venire tutti coloro che si trovavano in difficoltà, sia che si rivolgessero a lui
direttamente sia perché era venuto a conoscenza delle loro necessità per

72
  Cfr. Corpus Coelestinianum I/2, test. XL, p. 90; test. XLI, p. 92, 94; test. LIX, p.
136 (si parla però solo di polvere – non polvere di erbe – che viene mescolata ai cibi);
test. LXXVIII, p. 178.
73
  Cfr. test. CXXV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 278: «multociens vidit eundem
dantem pecuniam pauperibus et sibi eciam dedit». Sul significato di pecunia, che non
stava a indicare solo il denaro contante, ma anche tutte quelle cose che gli uomini soleva-
no usare in luogo di esso, si veda la definizione che negli anni Quaranta del secolo XIII ne
avevano dato quattro maestri dell’Ordine minoritico (cfr. Expositio quatuor magistrorum
super Regulam Fratrum Minorum [1241-1242], accedit eiusdem Regulae textus cum
fontibus et locis parallelis, edidit p. L. Oliger, [Storia e Letteratura 30] Roma 1950, p.
141, r. 7-12; p. 142-143, r. 35-52) e le indicazioni offerte da Giovanni Boccali, in Expo-
sitio super Regulam Fratrum Minorum di Frate Angelo Clareno, a cura di G. Boccali, con
introduzione di F. Accrocca e traduzione italiana di M. Bigaroni, (Pubblicazioni della
Biblioteca Francescana Chiesa Nuova-Assisi 7) Assisi 1995, p. 379, nota 59.
74
  Cfr. test. LXXXIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 204; test. CXXV, Corpus
Coelestinianum I/2, p. 278. Quando si trovavano di fronte ai medesimi contenuti, il
notaio (o i notai) si serviva ovviamente di frasi già fatte, come mostra la sinossi che
segue e come si potrebbe documentare con esempi ulteriori:

Test. LXXXIX Test. CXXV


«… dixit quod ipse testis vidit plura loca «… dixit quod vidit plura loca edificata
edificata per eum, in quibus vidit et videt per eum, in quibus vidit et videt teneri
teneri et observari regulam fratris Petri et et observari regulam fratris Petri et vige-
vigere observanciam regularem, et ma- re observanciam regularem et magnam
gnam elemosinam fieri in locis ipsis per elemosinam fieri in locis ipsis per fratres
fratres commorantes in eis». commorantes in eis».

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 863

il tramite di altri. Aveva degli elenchi dei bisognosi che dimoravano negli
insediamenti vicini ai luoghi abitati dai suoi monaci: «fra quei poveri di-
stribuiva, come gli sembrava opportuno, quello che gli era stato piamente
donato, e si sforzava di farlo quanto più nascostamente poteva»75.
Quel che però ora interessa notare è che Bartolomea avrebbe voluto
inviare la figlia da frate Pietro e perciò chiese al medico Rainaldo, suo
amico e devoto, d’intercedere presso l’eremita; grazie alla deposizione
della donna, sappiamo però che questi e non frate Pietro si oppose al
fatto che la fanciulla venisse condotta nel romitorio, adducendo a mo-
tivo un presunto divieto imposto dall’uomo di Dio. Analoga situazione
possiamo riscontrare nella guarigione di Fiorenza, moglie del maestro
orefice Goffredo, avvenuta, per concorde attestazione, nel 129176. Se-
condo suo marito, la donna, tanto gravemente malata di tisi da temere
per la sua vita, fece chiamare il padre, il giudice Filippo di Sulmona, e
lo pregò insistentemente di recarsi da frate Pietro77; tale testimonian-
za concorda sostanzialmente con quella della madre di Filippo, donna

75
  In Corpus Coelestinianum I/1, p. 86: «Item dixit quod fuit homo maxime carita-
tis, pietatis ac misericordie ad proximos in tantum quod, cum sciebat aliquos necessita-
tem pati, studebat eis modo quo poterat subvenire; et de bonis, sibi a Deo collatis per pia
beneficia multorum devotorum suorum, multas elemosinas faciebat piis locis et pauperi-
bus personis vel ad se venientibus, vel quorum paupertas alias sibi notificabatur; et quod
ipse habebat in scriptis pauperes homines de castris seu villis circumadiacentibus locis, in
quibus manebat: inter illos pauperes ea que sibi pie dabantur, prout ei videbatur, distri-
buebat et hoc satagebat facere quantum oculcius poterat». Pietro, quindi, «habebat in
scriptis pauperes homines de castris seu villis circumadiacentibus locis, in quibus mane-
bat»: la forma dell’immatricolazione dei poveri fu un’istituzione antichissima praticata
nelle città e nelle campagne, vigente lungo tutto il Medioevo: cfr. M. Mollat, I poveri
nel Medioevo, Introduzione di O. Capitani, RomaBari 1982, p. 44-49; per quanto attiene
al rapporto monaci/poveri, cfr. M. Mollat, Les moines et les pauvres (XIe-XIIe siècles), in
Il monachesimo e la riforma ecclesiastica (1049-1122), Atti della quarta Settimana interna-
zionale di studio, Mendola, 23-29 agosto 1968, Milano 1971, p. 193-215.
76
  Cfr. Corpus Coelestinianum I/2, test. LXXXII, p. 188 (maestro Goffredo); test.
CIV, p. 236 (notaio Oddone); test. CV, p. 238 (donna Gemma); test. CVI, p. 242
(donna Palma).
77
  Test. LXXXII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 188: donna Fiorenza «fecit ad se
vocari patrem suum iudicem Philippum predictum eumque instanter rogavit ut ad ip-
sum fratrem accederet et eum rogaret ut eam haberet apud Deum suis sanctis precibus
et meritis commendatam».

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Palma, e del notaio Oddone di Sulmona78; più circostanziata e precisa


apparve invece Gemma, moglie del fu Benedetto di Angelo di Sulmona,
a dire della quale Fiorenza avrebbe chiesto più volte al padre di essere
portata dall’eremita, ma questi le avrebbe risposto: «Figlia, tu sai e ben
conosci che frate Pietro non vuole vedere femmine, e se anche volesse
vederle non potrei condurti da lui così aggravata; tuttavia vado da lui e
ti porterò qualcuna delle sue cose»79. L’eremita avrebbe poi dato al giu-
dice Filippo una croce e una tovaglia80, che distesa sulla donna produsse
il miracolo81. Fiorenza avrebbe quindi voluto recarsi di persona da frate
Pietro, ma suo padre le disse che frate Pietro non voleva vedere le donne:
certamente l’obiettivo del giudice era di dissuadere la figlia, le cui condi-
zioni di salute non permettevano che intraprendesse un simile viaggio;
per riuscire nell’intento, egli però non trovò mezzo migliore che porre
avanti l’avversione dell’uomo di Dio verso il sesso femminile.
Il giudice Filippo compare quale messaggero/mediatore anche nella
guarigione di Granata, moglie di un altro giudice, Leonardo di Sulmona.
La donna, contratta nelle braccia e nelle dita per quattro anni, vedendo
il miracolo che frate Pietro aveva compiuto su Catania prese a nutrire la
speranza d’essere anch’ella guarita: secondo suo marito Leonardo, Gra-
nata gli chiese allora di farla andare all’eremo di Sant’Onofrio, «ma suo
marito, temendo di essere rimproverato da frate Pietro poiché aborriva
la vista delle femmine, non volle portarvi sua moglie e neanche farla an-

  Cfr. test. CIV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 234; test. CVI, Corpus Coelesti-
78

nianum I/2, p. 240.


79
  Test. CV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 238: secondo Palma, donna Fiorenza
«rogavit patrem suum iudicem Philippum pluries quod eam portaret ad fratrem Pe-
trum predictum. Qui pater, videns quod ipsam amplius non poterat iuvare cum medi-
cinis, dixit dicte filie sue: “Filia, tu scis et bene nosti quod frater Petrus non vult videre
feminas et si vellet videre non possem te ducere sic gravatam ad eum, tamen vado ad
eum et aliquid portabo tibi de rebus suis”».
80
  Così attestano il notaio Oddone (test. CIV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 236),
donna Gemma (test. CV, Corpus Coelestinianum I/2, p. 238) e donna Palma (test. CVI,
Corpus Coelestinianum I/2, p. 240), mentre il marito, maestro Goffredo, parla soltanto di
«pannum unum de lino» (test. LXXXII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 188).
81
  Concordi, in ciò, tutti i testimoni: cfr. Corpus Coelestinianum I/2, test. LXXXII,
p. 188; test. CIV, p. 236; test. CV, p. 238; test. CVI, p. 240, 242. Secondo il notaio Od-
done e donna Gemma Fiorenza avrebbe poi avvolto la sua testa con la tovaglia prima di
uscir fuori di casa per mostrarsi ai vicini (cfr. p. 236, 238).

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 865

dare». Alla fine, vinto dalle insistenze delle moglie, egli pregò il giudice
Filippo, suo consanguineo, perché presentasse lui a frate Pietro la situa-
zione di Granata. Secondo quest’ultima, invece, dopo aver ottenuto dal
marito «di mandare un messaggero a frate Pietro, dal momento che lei
stessa non osava andare di persona per il fatto che lui non voleva vedere
le femmine, mandò il giudice Filippo»82. Come si vede, le testimonianze
divergono proprio riguardo al desiderio delle donne di recarsi da frate
Pietro e sull’avversione di quest’ultimo verso di loro.
Parimenti interessante è la testimonianza di Sinibaldo di Caramanico,
il quale narra la guarigione del figlio Matteo che, in seguito a una malattia,
aveva perduto la vista all’occhio destro: frate Pietro segnò il bambino con
una croce che poi dette al padre affinché gliela ponesse al collo; da quel
momento il piccolo riacquistò la vista83. Dalla deposizione della moglie
di Sinibaldo, Gentiluccia, che aveva udito Pietro e l’aveva visto dimorare
nella propria cella, veniamo però a sapere che anche lei si era recata insieme
con il marito a Sant’Onofrio, sebbene dal suo racconto si comprende che
nel momento in cui frate Pietro segnò il bambino era presente soltanto
l’uomo84. Pure donna Aulente, la quale dichiarò di aver visto Pietro «pri-
ma del papato presso la cella di Sant’Onofrio», accompagnò suo marito
Giacomo di Giovanni Cavatese di Sulmona nella speranza di ottenere la

82
  Test. XL, Corpus Coelestinianum I/2, p. 90: Granata, assicura Leonardo, «devo-
tione concepta ad fratrem Petrum de Murrone, a dicto viro suo petiit destinari ad eum.
Qui vir eius, timens obiurgari a dicto fratre Petro et quod feminarum aspectus abhorrebat,
dictam uxorem suam ducere noluit nec eciam destinare, tandem dicte dompne devictus
instancia dicto fratri Petro fecit exponi per iudicem Philippum consanguineum suum in-
firmitatem dompne supradicte sibique supplicari ut eidem in ipsa infirmitate remedium
adhiberet». Ecco invece la deposizione di Granata: «Cumque obtinuisset a iudice Leo-
nardo viro suo ad dictum fratrem Petrum mittere nuncium, cum ipsa personaliter ire non
auderet eo quod feminas videre nolebat, misit iudicem Philippum consanguineum suum
ad fratrem Petrum predictum» (test. XLI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 92).
83
  Cfr. test. LXXX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 184.
84
  Cfr. test. LXXXI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 184, 186. Gentiluccia, infatti,
«una cum Sinibaldo viro suo portavit eum [sc. Matheum] ad dictum fratrem Petrum
ad locum Sancti Iohannis de Orfento, sperantes per merita sancta fratris Petri prefati
dictum puerum restituendum ad visum. Cum fuisset dicto fratri Petro per dictum Si-
nibaldum patrem eius puer ipse presentatus ac supplicatum pro restitutione visus eiu-
sdem, dictus frater Petrus crucesignavit dictum puerum deditque patri crucem unam
parvam de ligno quam suspenderet ad gulam ipsius et remisit eum…» (p. 186).

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guarigione del figlio Giovannuccio, che aveva allora tre anni e dalla nascita
era rimasto muto: fu lei a descrivere il problema che affliggeva il bambino
a uno dei monaci, il quale poi lo riferì a frate Pietro che gli inviò un pezzo
di pane e alcuni Pater noster85. Che furono entrambi i coniugi a portare il
bambino dall’eremita venne ribadito anche dall’altro figlio, Iacono Falco86.
Don Gualtiero, delle montagne di San Valentino, riferì di aver udito
da Pietro, figlio di Benedetto di Roberto di San Valentino, «e anche
da suo padre e sua madre che per la forza di Dio e per i meriti del santo
uomo frate Pietro, al quale lo avevano portato, il loro figlio Pietro fu li-
berato da quell’infermità»; il miracolo si era verificato sedici anni prima,
nel 129087. Non pochi testimoni, inoltre, asserirono di aver visto grandi
moltitudini di uomini e donne accorrere ai luoghi impervi in cui Pietro
dimorava o dove si recava per celebrare messa88.
Galizia, invece, moglie di Giovanni Peloso di Sulmona, non fu pre-
sente quando il marito e il fratello di lui, don Francesco, portarono suo
figlio da frate Pietro a Santo Spirito, nel giorno in cui l’eremita cantava
messa a richiesta del popolo89; era presente però Imilia, figlia del fu Le-
onardo Accelli, la quale si era recata assieme al piccolo e a suo padre a
Santo Spirito dove avrebbe visto «frate Pietro che toccava il bambino

  Cfr. test. CII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 230, 232.


85

  Cfr. test. CIII, Corpus Coelestinianum I/2, p. 234.


86

87
  Cfr. test. CXVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 260: «… vidit postmodum illum
Petrum totaliter liberatum ab infirmitate predicta et audivit ab illo et eciam a patre et
matre sua quod Dei virtute et meritis dicti sancti viri fratris Petri, ad quem illum por-
taverant, dictus Petrus eorum filius liberatus est ab infirmitate predicta». Il fatto era
accaduto «iam sunt anni sexdecim».
88
  Pietro Grasso, notaio del re di Sicilia (test. VIII, Corpus Coelestinianum I/2, p.
18), parla di uomini e donne ormai avanti in età che salivano al luogo impervio dove
frate Pietro dimorava quasi fossero giovani; Benedetto di Tommaso di Sulmona (test.
LX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 140), recatosi a Sant’Onofrio con suo figlio Ni-
colò, vi trovò una tale moltitudine di uomini e di donne che a stento riuscì ad arrivare
con il bambino da frate Pietro; Giovanni di Riccardo detto Collo, di Sulmona (test.
LXXXIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 204, 206), vide frate Pietro celebrare messa
sul pianoro davanti al luogo di Santo Spirito di Valva, dove si era radunata una grande
moltitudine di uomini e di donne: lo stesso riferisce Benvenuta di Nicolò di Gualtiero
Mancini di Sulmona (test. CXXVI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 282).
89
  Cfr. test. LXXXXIX, Corpus Coelestinianum I/2, p. 226.

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 867

e lo benediceva col segno della croce»90. Gemma, figlia di Gualtiero di


Pacentrano di Sulmona, concordò su questo punto con Imilia «de verbo
ad verbum»91. Poco resta, purtroppo, del racconto di Nicolò di Berardo,
un costruttore di Sulmona, la cui testimonianza, per la perdita di due fo-
gli (ff. 57-58), s’interrompe all’inizio del terzo articolo; dal Compendium
veniamo però a sapere che egli «vide un muto e due donne infestate da
spiriti immondi accedere davanti a frate Pietro, che allora dimorava a
Santo Spirito di Valva. Furono tutti segnati da lui con il segno di croce
ed egli disse su di loro molte preghiere, e subito furono liberati dalle loro
infermità. Tanto il muto dalla nascita quanto le donne, iniziarono a gri-
dare e a dire Deo gratias»92.
Dall’esame delle testimonianze emerge dunque, con una certa chia-
rezza, una disparità di accenti nonché una sostanziale difformità riguardo
ai rapporti di frate Pietro con le donne, a seconda che a rendere la propria
deposizione fossero quest’ultime oppure degli uomini: ciò che in ogni caso
emerge con evidenza è che le espressioni più severe e dure contro il sesso
femminile sono tutte rintracciabili in deposizioni rese da maschi.

Il confronto con il Tractatus de vita et operibus atque obitu ipsius sancti viri
Interessante, in proposito, il confronto con il Tractatus de vita et ope-
ribus atque obitu ipsius sancti viri, come l’intitola il suo ultimo editore93,
più noto con il nome – in verità improprio – di Vita C assegnatogli alla
fine del XIX secolo dall’anonimo curatore che lo pubblicò nelle Ana-

90
  Test. C, Corpus Coelestinianum I/2, p. 228: «… vidit ibi dictum fratrem Petrum
tangentem ipsum puerum et benedicentem signo crucis».
91
  Test. CI, Corpus Coelestinianum I/2, p. 230.
92
  In Corpus Coelestinianum I/1, p. 156: «… dixit quod vidit quendam mutum
et duas mulieres spiritus immundos habentes in eis, qui et que accedentes ante dictum
fratrem Petrum, morantem tunc in loco Sancti Spiritus de Valva, fuerunt omnes signati
signo crucis per ipsum fratrem Petrum et super eos dixit orationes quamplures et statim
fuerunt de ipsis egritudinibus liberati. Et tam ille natus mutus quam mulieres ceperunt
clamare et dicere Deo gratias».
93
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V. (Peter von Morrone), hrg. von P. Herde,
(Monumenta Germaniae Historica. Scriptores Rerum Germanicarum. Nova series 23)
Hannover 2008; il testo del Tractatus [Vita C] è alle p. 101-222.

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lecta Bollandiana94. Quest’ultimo, che sappiamo essere stato François


van Ortroy, ne aveva fissato la stesura agli anni 1303-1306, anteriormen-
te, quindi, al processo informativo, del quale peraltro il testo tace del
tutto; in anni più vicini a noi, nel corso di uno dei Convegni aquilani
dedicati alla figura di Pietro del Morrone-Celestino V95, Eugenio Susi
ha invece ipotizzato che l’opera sia stata redatta tra il 1306 e il 1313, sia
perché alcuni passaggi della Vita C presupporrebbero il testo degli Atti
sia perché risulterebbero prive di consistenza altre motivazioni sulla base
delle quali il bollandista aveva ricavato la propria datazione. Da ultimo
Peter Herde, il quale nel 2008 ha curato una nuova edizione del testo, ha
ritenuto poco fondati gli argomenti di Susi96, anche in considerazione
del fatto che i tempi da lui valutati non avrebbero agevolmente consenti-
to lo svolgimento presunto97: egli ha finito così per optare a favore della

  Cfr. S. Pierre Célestin et ses premiers biographes, in Analecta Bollandiana, 16


94

(1897) 370-381; testo alle p. 393-458.


95
  Per quanto riguarda i primi sette convegni celestiniani, nati per impulso di Ra-
oul Manselli, poi giovatisi della direzione scientifica di Edith Pásztor, che di Manselli
fu assidua collaboratrice, rinvio a F. Accrocca, «Querebat semper solitudinem». Da
eremita a pontefice. Rassegna di studi celestiniani, in Archivum Historiae Pontificiae, 35
(1997) 257-287.
96
  Cfr., rispettivamente, S. Pierre Célestin et ses premiers biographes, in Analecta
Bollandiana, 16 (1897) 375-378; E. Susi, La Vita C: nuovi problemi, in Atti dei Con-
vegni celestiniani: VII. Celestino V tra storia e mito, L’Aquila, 30-31 agosto 1992; VIII.
Celestino V tra monachesimo e santità. Le fonti, L’Aquila, 9 ottobre 1993, a cura di W.
Capezzali, L’Aquila 1994, p. 139-163, part. 147-150; Die ältesten Viten Papst Cölestin
V., p. 40-44.
97
  Secondo Susi, infatti, «la Vita A, e soprattutto il famoso Prologus de miraculis,
che costituì uno degli elementi in base ai quali Van Ortroy collocò la composizione
della cosiddetta Vita C fra il 1303 e il 1306, dovrebbero essere stati redatti dopo il
concistoro avignonese del 1313» (La Vita C: nuovi problemi, p. 151); a giudizio di
Herde, invece, «eine solche Deutung erscheint allein wegen der Kürze der Zeit von be-
stenfalls zwei Wochen, die zur Herstellung dieser Texte zur Verfügung gestanden hätte,
sehr unwahrscheinlich, und zudem sagt der angeblich erfundene Prolog keineswegs
aus, Tommaso da Ocre habe eine Untersuchung über die fama sanctitatis Peter-Cöles-
tins einleiten wollen, sondern er bat lediglich um eine Liste von Wundern, die dieser
gewirkt hatte und die dann vermutlich von einem Notar und einem Mitbruder erstellt
wurde» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 42-43).

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 869

datazione proposta da van Ortroy, anche se non lo convince l’attribuzio-


ne dell’opera a Tommaso da Sulmona98.
Per quanto mi riguarda, contrariamente a ciò che asserii anni or
sono99, sono propenso a ritenere che se davvero l’autore del Tractatus
conosceva i risultati dell’inchiesta del 1306, in più occasioni ne avreb-
be fatto un utilizzo maldestro, in alcuni casi finendo per contraddire –
come si vedrà per la narrazione della guarigione di Catania – gli stessi
testimoni che deposero sotto giuramento; è dunque più facile supporre
che l’autore – il quale si servì pure dei risultati di un’inchiesta, qualunque
ne fosse l’origine100 – abbia avuto ricordi personali o memorie che pur
coincidendo in buona parte con le testimonianze del processo, in più
punti finivano per differenziarsene. In tal senso, ha ragione Peter Her-
de quando ritiene che la testimonianza del chirurgo Stefano, sulla quale
Susi si appoggia per sostenere la propria tesi, può essere giunta per altra
via anche all’autore del Tractatus, il quale ne ha però dato un racconto
non del tutto preciso101. Conto tuttavia di riprendere, in altro luogo e
con più ampiezza, la questione.

98
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 43-44.
99
  Cfr. Accrocca, «Querebat semper solitudinem», p. 272-273.
100
  Stando almeno ad attestazioni come le seguenti (non pretendo di essere esau-
stivo nei miei riferimenti): «Et hoc testantur notarius Gualterius, magister Simon,
Gualterius de Armeto, Iacobus frater eius et Madius de Lanzano» (Die ältesten Viten
Papst Cölestin V., p. 185, r. 25-27; Panfilo di Lanciano, protagonista della vicenda, «ut
sibi fides daretur in hiis, que dicere intendebat, iuravit ad santa dei evangelia nemine
cogente vel iubente, sed propria sua voluntate»: Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p.
184, r. 17-19); «Et hoc magister Dominicus et Gregorius et quamplures alii dicunt sic
fuisse» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 186, r. 11-12); «Et hoc testantur Fran-
ciscus de Termulis et Thomasius Sancti Viti et fratres eiusdem loci» (Die ältesten Viten
Papst Cölestin V., p. 187, r. 11-12); «Quod testificantur pater illius, Bartholus, Gentilis
et uxor dicti Leonardi» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 189, r. 2-3); «Et hoc te-
stantur dompnus Raynaldus et Franciscus de eadem terra et pene omnes homines illius
castri» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 190-191, r. 22-2); «Et hoc testantur Ri-
czardus, vir eius, et dompna Iacoba, mater sua, et Matheus Nubilus et quamplures alii»
(Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 196, r. 14-15); «Et hoc testantur pene omnes
homines de illo castro» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., r. 21-22).
101
  Cfr., rispettivamente, Susi, La Vita C: nuovi problemi, p. 147-149; Die ältesten
Viten Papst Cölestin V., p. 40.

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In ogni caso, che sia stata scritta prima o dopo il 1306, che si debba
a Tommaso da Sulmona o ad altri monaci, è indubbio che l’opera rifletta
il sentire comune di coloro che si erano riuniti intorno a Pietro e da lui
erano stati formati alla vita monastica. Ebbene, vediamo in quale modo
il Tractatus testifichi il rapporto intessuto da Pietro del Morrone-Cele-
stino V con le donne nelle diverse fasi della sua vita e poi nei racconti di
miracolo (non mi soffermo qui su quelli postumi).
Nel descrivere la misericordia mostrata dall’uomo di Dio verso po-
veri e indigenti, l’autore dice che per interposta persona Pietro inviava di
frequente elemosine «alle donne poverelle, che non potevano andare da
lui, e ad altre persone gravemente impedite»; cosa vuol dire però l’auto-
re quando specifica che le «donne poverelle» non potevano recarsi da
Pietro? Che esse non avevano accesso ai luoghi dov’egli abitava? Non
sembra, anche perché in questi o comunque nelle immediate vicinanze,
erano accolte pure donne che richiedevano una grazia per loro stesse o
altre persone; piuttosto, pare sia qui da intendere che tali donne – le
quali non sembrano poter contare sul sostegno di un uomo – non ave-
vano le possibilità economiche per intraprendere un viaggio tanto im-
pegnativo. Va del resto ricordato che quando ne aveva notizia, Pietro si
prodigava volentieri («letissime») in soccorso delle fanciulle povere in
procinto di sposarsi («nuptui tradendas»)102.
Trascorso non poco tempo nella cella di Orfento, Pietro cominciò
a pensare al modo in cui «potesse giovare maggiormente agli uomini
senza procurare loro tanta tribolazione e fatica». La sua cella, infatti, era
situata a cinque o sei miglia dal piano; stabilì perciò di ritornare presso
il monte Morrone e lì costruire una cella «nella quale tutti coloro che si
recavano da lui avrebbero potuto riceverne consolazione e trovare altre
cose necessarie per vivere», ciò che egli «faceva più per la salvezza e l’u-
tilità del prossimo che non per se stesso». Fece perciò erigere una nuova
cella nei pressi del monastero di Santo Spirito, distante circa due miglia
dal centro abitato e solo mezzo miglio dal monastero, che era stato di
nuovo ricostruito103; l’ansia pastorale di Pietro – cui l’agiografo dedica
in seguito uno specifico capitolo104 – lo spinse dunque a venire infine

102
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 117-118, r. 24-2.
103
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., capitolo 17, p. 128-129.
104
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., capitolo 21, p. 132-134.

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 871

incontro alle difficoltà della gente, ad agevolarla, non a fuggirla: «Come


gli uomini udirono che il padre santo sarebbe venuto lì, tanta moltitudi-
ne di uomini e di donne accorsero da ogni parte, di modo che non vi era
sentiero, strada, viottolo che non fosse pieno»105. Gli uomini di Sulmo-
na offrirono a Pietro ceri e lampade, mentre le nobili signore della città
gli fecero dono di una croce e di un turibolo d’argento106.
A prescindere dal fatto che l’autore del Tractatus non sembra mostra-
re alcun fastidio per l’accorrere delle donne, è interessante notare come
egli utilizzi il sostantivo «homines» per indicare l’umanità indistinta e
non soltanto il genere maschile. Né sembra alludere ad alcun divieto po-
sto alle donne di avvicinarsi a Pietro in quei momenti dell’anno durante
i quali questi usciva dal proprio raccoglimento, quando «parlava con
quelli che si recavano da lui e li consolava»107. In quei giorni, nell’im-
possibilità d’intrattenersi con i singoli a causa della gran folla che gli si
radunava intorno, Pietro era solito impartire a tutti la propria benedi-
zione affacciandosi da una finestra; quando invece «non vi era tanta fol-
la, li faceva venire separatamente, coloro cioè che erano venuti, così che
potessero parlare con lui»108. È credibile che una possibilità di colloquio
fosse allora concessa anche alle donne, sia pure con delle cautele in più?
Ciò non è detto espressamente, ma neppure viene espressamente negato.
Uomini e donne delle terre d’intorno, afferma l’agiografo, «sembravano
quasi tutti religiosi», a motivo delle sue esortazioni e del suo esempio.
Allorché l’uomo di Dio veniva però a conoscenza di qualche dissidio in-
sorto tra loro, «subito li mandava a chiamare perché si recassero da lui e
perché si emendassero delle cose che aveva udito dire di loro»109. Ancora
105
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 129, r. 8-11: «Cum auditu fuit ab hominibus,
quod pater ille sanctus illuc adveniret, tanta multitudo virorum et mulierum undique con-
currerunt, quod nulla via, nulla strata, nulla semita erat, que plena non esset».
106
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 129, r. 12-17.
107
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 122, r. 12-13: «… alii vero temporibus
loquebatur et consolabatur eos, qui ad se veniebant»; cfr. anche il capitolo 15, Die
ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 125-126.
108
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 122, r. 16-18: «Quando vero tanta mul-
titudo non erat, faciebat illos segregatim venire, scilicet qui ante venissent, ante cum eo
colloqium haberent».
109
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 133, r. 3, 7-9: «pene omnes religiosi
videbantur»; «statim ad illos mittebat, ut ad se venirent et ut de talibus, que audierat,
se emendare deberent».

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una volta l’autore del Tractatus non sembra porre alcuna specifica barrie-
ra nei riguardi del sesso femminile.
Di grande interesse, infine, sono le notazioni sulla santità di Pietro,
il quale «era simile agli apostoli», «equiparato ai martiri», «similmen-
te si univa ai confessori», anzi «possiamo anche dirlo in compagnia dei
vergini»110. Egli, infatti, «conservava una perfetta castità nel corpo e
nel cuore. Dalla sua infanzia, in verità, cominciò a servire Dio con gran-
dissima devozione e perciò il suo servizio fu a Dio gratissimo e accetto,
tanto che quando, ancora fanciullo, dimorava con sua madre, il Signore
operò attraverso di lui molti miracoli»111. E quando si passa a descrivere
il modo integerrimo in cui visse la propria castità, non c’è neppure un
minimo accenno a un suo possibile agire guardingo nei confronti delle
donne, come pure si legge di frequente nei testi agiografici.
Ha pienamente ragione, dunque Eugenio Susi – il quale, però, non
approfondisce con un’analisi del testo il contenuto di questa sua intui-
zione – quando afferma che «nella Vita et miracula sancti Petri scompare
quell’atteggiamento di “rigorosa severità” nei confronti delle donne, alle
quali Pietro, come riferiscono diversi testimoni, aveva interdetto l’ac-
cesso nei pressi del suo eremo»112. Quanto abbiamo sinora rilevato, in
effetti, trova conferma anche nei racconti di miracoli dei quali risultano
beneficiarie figure femminili. Così quella donna che in località «Casale
Novum», nei pressi di San Germano (l’attuale Cassino)113, non potendo
avvicinarsi a Pietro di ritorno ai suoi monti dopo la rinunzia al pontifi-
cato, scelse di precederlo e gli si parò davanti per mostrargli la figlia, la
quale aveva entrambe le mani paralizzate. Pietro fece sulla ragazza un
segno di croce e questa fu subito guarita. L’abate di Montecassino, che

  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 133, r. 18, 20, 22-23, 25: «similis erat
110

apostolis», «equiperabatur martiribus», «similiter et confessoribus se adiungebat»,


«cum virginibus etiam possumus dicere».
111
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 133-134, r. 26-4: «perfectam castitatem
corde et corpore conservabat. Iste vero a sua infantia deo devotissime cepit servire et
ita acceptum gratissimumque fuit deo suum servitium, quod etiam cum sua genitrice
adhuc puerulus commorando quamplurima miracula per eum deus ostendit».
112
  Susi, La Vita C: nuovi problemi, p. 153; la citazione che compare nel testo di
Susi corrisponde a Vian, «Predicare populo in habitu heremitico», p. 196.
113
  Sul toponimo, si vedano le considerazioni di Herde in Die ältesten Viten Papst
Cölestin V., p. 149, nota 180.

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era con Pietro, gettò dunque in terra due carlini d’argento chiedendo alla
giovane di raccoglierli, cosa che ella fece prontamente e in maniera tanto
efficace come se non fosse mai stata paralitica114. Ebbene, anche in questa
circostanza Pietro, che ormai aveva rinunciato al papato ed era desidero-
so di tornare alla vita di prima, non mostrò alcun segno di fastidio, né
tentò di evitare la donna115.
Interessante è poi vedere il modo in cui l’autore descrive la guarigio-
ne di Catania, sulla quale ci siamo già a lungo soffermati. Il primo dato
di rilievo è che nel Tractatus non si fa più parola di Rainaldo di Genti-
le di Sulmona, il quale invece – almeno secondo la deposizione resa da
lui stesso – era personaggio chiave nella vicenda, tramite tra la famiglia
della donna e frate Pietro. Nel testo agiografico, Catania si dice fosse
afflitta da una «grande infermità», «dai medici denominata ‘goccia
serena’»116. Dopo il consulto di molti dottori, tutti dimostratisi impo-
tenti, sopravvenne la disperazione; né il marito Giovanni né suo padre
Benedetto sapevano più che fare, perciò assecondarono immediatamen-
te e senza difficoltà la richiesta di Catania di essere portata dall’uomo di
Dio: «Udendo ciò, costoro la portarono alla cella del detto padre e la
lasciarono con gli altri compagni [di viaggio] fuori della cella, a distanza
di un tiro di sasso». Tutti, dunque, non solo la donna, restarono a poca
distanza dall’eremo, mentre Giovanni scendeva presso Pietro; questi gli
consegnò una piccola croce di legno da porre sugli occhi di Catania, che
non appena ebbe fatto così, riottenne all’istante – e perfettamente – la
vista. «E quella buona donna non cavalcando, ma a piedi volle far ritor-
no dalla cella di Orfento fino a Sulmona»117.
114
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 149, r. 1-13.
115
  Analoghe considerazioni propone Vian, «Predicare populo in habitu
heremitico», p. 195-196, a proposito di altre due guarigioni verificatesi dopo l’elezione
papale e la rinuncia, registrate negli Atti del processo di canonizzazione.
116
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 175, r. 13-14: «magna infirmitas advenit
in oculis suis, quam medici vocabant guttam serenam». In più occasioni l’autore descrive
la sintomatologia dei tribolati con termini che non compaiono nelle deposizioni testimo-
niali del processo e che risentono piuttosto l’influenza del volgare: si parla infatti ancora
di «gutta salsa» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 177, r. 19-20), «tinconem» (p.
187, r. 14), «nascitam» (p. 188, r. 9); Gemma «fuit trappa» (p. 196, r. 17).
117
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 176, r. 9-11: «Hoc isti audientes por-
taverunt illam ad cellam dicti patris, et dimiserunt illam cum aliis sociis extra cellam,
quantum iactus est lapidis»; p. 177, r. 11-12: «Et illa bona mulier non eques, sed pedes

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Se dal racconto del Tractatus scompare maestro Rainaldo, vi fa in-


vece la sua comparsa il padre di Catania, Benedetto, il quale, in realtà
– per concorde attestazione dei testimoni ascoltati al processo, oltre
che da egli stesso –, non era tra i membri del gruppo che si era recato
presso l’eremita: l’autore confonde forse Benedetto con Rainaldo, il
quale era comunque legato da parentela con la coppia? Certo è che
Catania viene qui qualificata «bona mulier», mentre non si trova più
traccia della resistenza di Pietro, come invece riferivano – ora in ma-
niera più cruda, ora più temperata – i racconti di maestro Rainaldo e
della stessa Catania.
Anche Palma, da lungo tempo vessata dal demonio, fu condotta da
un numeroso gruppo di uomini alla cella di Pietro, il quale pregò Dio per
lei118: la donna – per la misericordia di Dio e la forza della preghiera dell’e-
remita – fu liberata e se ne tornò in pace. Pure in questa occasione la fonte
non registra alcuna resistenza da parte di Pietro, per il fatto che una donna
era stata condotta presso di lui, che ancora una volta opera il miracolo, per
così dire, a distanza. Nell’eremo c’è quindi uno spazio che resta inviolabi-
le per le donne, ma nei loro confronti non si mostra nessuna repulsione.
Qualcosa di simile sembra potersi dire anche per la vicenda di una donna
di Penne, Civita, moglie di Riccardo di Giovanni Porfirio: rimasta cieca
per cinque anni, fu condotta dal marito alla cella di frate Pietro, presso S.
Giovanni di Maiella («apud Sanctum Iohannem de Orfente»): nulla si
dice di ciò che ivi avvenne, se non che la donna, ancor prima di far ritorno
a casa, riacquistò la vista. Di nuovo, anche in questa circostanza non si
registrano resistenze da parte dell’eremita per il fatto che una donna fos-
se stata condotta al suo eremo119; identica osservazione può farsi riguardo
a Gemma, un’incarcerata di Montebello di Bertona, nei pressi di Penne,
«trappa» ormai da diciotto anni, la quale, condotta a Santo Spirito di
Maiella fino alla cella dell’eremita, fu guarita per grazia di Dio e per la sua
gran devozione nei riguardi dell’uomo di Dio120.

voluit reverti a cella de Orfente usque Sulmonam». Cfr. tutto il capitolo 42 (si tratta
del primo tra i miracoli registrati nel Tractatus), p. 175-177, r. 11-12.
118
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., capitolo 46, p. 178, r. 9-14.
119
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., capitolo 74, p. 196, r. 7-15.
120
  Cfr. Die ältesten Viten Papst Cölestin V., capitolo 75, p. 196, r. 16-22. Sul feno-
meno della carcerazione femminile in area centro italica, rinvio agli studi di A. Benve-

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 875

Sembra quasi che l’autore del Tractatus voglia istituire un parallelo


– in alcuni casi neppure troppo velato – tra l’eremita e il Maestro divino
circa i loro rapporti con donne malate: Gemma, contratta per un tempo
di diciotto anni, può in qualche modo ricordare quella donna che si pre-
sentò davanti a Gesù nella sinagoga, la quale – narra l’evangelista Luca
(cfr. 13,10-13) – da diciotto anni «era curva e non poteva drizzarsi in
nessun modo» e ricevette, sebbene fosse di sabato, il dono della guari-
gione. In modo ancor più evidente, l’episodio del risanamento dell’emor-
roissa riportato nella redazione marciana richiama il racconto fatto da
una donna di Aversa la quale si fece portare dal proprio marito da frate
Pietro che, catturato nei pressi di Vieste, stava attraversando Capua per
essere condotto dal nuovo papa: ella aveva infatti perduto la vista e no-
nostante avesse speso molto in visite mediche, non ne aveva tratto alcun
giovamento. In cuor suo, credeva invece che se avesse potuto toccare il
santo sarebbe stata liberata dal proprio male e per raggiungere questo
fine confidava nell’aiuto di Guglielmo de l’Estendard. Ciò che avvenne
puntualmente: dopo che frate Pietro ebbe tracciato su di lei un segno di
croce, la donna riebbe di nuovo la vista. Non so quanto potesse esserne
consapevole la protagonista dell’episodio che riferì («retulit ore suo»)
quanto le era accaduto – di certo lo era ben più l’agiografo –, ma che un
legame vi sia tra i due racconti credo possa agevolmente arguirsi dalla
sinossi che segue:121

nuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale,
(Italia sacra. Studi e documenti di storia ecclesiastica 45) Roma 1990, il capitolo Cel-
lane e recluse, p. 305-402; G. Casagrande, Religiosità penitenziale e città al tempo dei
Comuni, (Bibliotheca seraphico-capuccina 48) Roma 1995, soprattutto il cap. I, Oltre
lo spazio istituzionale: il fenomeno della reclusione volontaria, p. 17-74; G. Casagran-
de - E. Rava, Santa Rosa e il fenomeno della reclusione volontaria a Viterbo, in Hagio-
logica. Studi per Réginald Grégoire, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, U. Paoli, P.
Piatti, II, (Bibliotheca Montisfani 31) Fabriano 2012, p. 1017-1032; R. Di Meglio,
Esperienze religiose femminili e reclusione urbana nel mezzogiorno medievale, in Ingenita
curiositas. Studi sull’Italia medievale per Giovanni Vitolo, t. I, a cura di B. Figliuolo - R.
Di Meglio - A. Ambrosio, Battipaglia (SA) 2018, p. 447-468.
121
Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 208-209, r. 20-6, la citazione evangelica
corrisponde al Vangelo di Marco 5,24-29.

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876 Felice Accrocca

Evangelium secundum Marcum Tractatus de vita et operibus


[…] Et abiit cum illo. Et sequebatur eum […] quando sanctus Petrus transibat per
turba multa et comprimebant illum. Et Capuam, fecit a viro suo Nicolao depor-
mulier, quae erat in profluvio sanguinis tari ad illum. Que amiserat lumen oculo-
annis duodecim et fuerat multa perpessa rum et in medicos multa expenderat, sed
a compluribus medicis et erogaverat omnia nichil profecerat. Dicens intra se, quod, si
sua nec quidquam profecerat, sed magis de- posset tangere sanctum Petrum, credebat se
terius habebat, cum audisset de Iesu, venit statim liberari. Et sperabat, quod dominus
in turba retro et tetigit vestimentum eius; Standardus adiuvaret illam, ut posset per-
dicebat enim: «Si vel vestimenta eius teti- venire ad tactum sancti patris. Quod fac-
gero, salva ero». Et confestim siccatus est tum fuit. Et facto signo sancte crucis lu-
fons sanguinis eius, et sensit corpore quod men oculorum recepit per misericordiam
sanata esset a plaga (5, 24-29). dei meritis sanctissimi patris121.

Che il Tractatus resti immune da quelli che potremmo definire pre-


giudizi antifemminili lo mostra con tutta evidenza anche la vicenda del
notaio Panfilo di Lanciano: costui, soffrendo «rupturam in dextro late-
re», si era recato da un medico di Guardiagrele, dove rimase per cinque
mesi senza però venire a capo di nulla. La cosa meravigliava lo stesso dot-
tore, poiché altri malati, con identica patologia, in due o tre mesi invece
guarivano. Panfilo cominciò allora a pensare di rivolgersi a frate Pietro e
alla fine si decise: un giovedì fece così voto di recarsi dall’eremita il sabato
seguente. Tuttavia, la mattina della partenza scoprì che era già guarito;
come stabilito, decise in ogni modo di avviarsi insieme a un compagno
alla volta dell’eremo dove, però, non riuscì a parlare con Pietro, se non
il giorno seguente, cioè di domenica. Avvicinandosi, gli s’inginocchiò
davanti, ma prima di poter dire qualcosa all’uomo di Dio, questi gli si
rivolse con tono di rimprovero. Il dialogo tra i due merita di essere ripor-
tato integralmente (traduco letteralmente, per mostrare anche lo stile
elementare dell’autore, fondato essenzialmente sulla paratassi):

«“Misero, tu hai una donna sposata e con lei commetti peccato. Perché
permetti che il diavolo possa ingannarti in tal modo? Hai fatto il male.
Fai penitenza per i peccati commessi”. Il notaio Panfilo gli rispose: “Pa-
dre santo, sono vere le cose che dici”. E cadde in terra e piangeva. E san
Pietro gli suggerì che non commettesse un tale peccato, perché non gli
era necessario, e aggiunse: “Tu hai una moglie buona e casta”. E il nota-
io Panfilo disse: “In nessun modo posso astenermi da quella [donna]”.
Allora san Pietro indietreggiò un pochettino e s’inginocchiò davanti

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«Quare duxistis huc mulierem?». Celestino V e le donne 877

all’altare e pregò. E ritornò di nuovo e gli disse: “Confida in Dio, e non


temere più per tale peccato”. E gl’impose una penitenza salutare. Licen-
ziato da lui, [il notaio Panfilo] fece ritorno e mai più – per intercessione
dei meriti del padre santo – ebbe colloqui con quella donna e giammai
ebbe a richiedere su tale faccenda»122.

Il santo – il quale, non sappiamo per quali vie, aveva avuto notizia
di quella relazione extraconiugale – si accorse dell’assoluta impotenza del
notaio a superare una debolezza che riteneva insanabile e perciò lo affidò
alla misericordia e potenza di Dio. In un primo momento Pietro ammonì
Panfilo, ma poi non proseguì nei rimproveri, non minacciò fulmini dal
cielo, non gli promise il fuoco eterno; avvertitane l’impossibilità d’impri-
mere alla vicenda un corso diverso – «Nullo modo posso me abstinere ab
illa», gli dice sconsolato il notaio –, affidò il peccatore alla misericordia
di Dio – «recessit aliquantulum et genuflexit ante altare et oravit». La
scelta, che caratterizzerà il suo breve pontificato, di dispensare a tutti il te-
soro della misericordia divina123, era dunque già iscritta nello stile pasto-
rale adottato quand’era ancora nell’eremo: la penitenza imposta all’uomo
non aveva alcun fine punitivo, ma unicamente medicinale («penitentiam
salutarem»), con l’obiettivo di ricondurlo su una via retta.
Nessuna condanna della malizia femminile compare inoltre sulle lab-
bra di Pietro: egli non diffida Panfilo dal cadere nei lacci tesi dalla donna
tentatrice, come si legge spesso in racconti analoghi, ma lo richiama alle
proprie responsabilità; era lui a mostrarsi debole commettendo un pecca-

122
  Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 185, r. 10-25: «“Miser, tu habes quan-
dam mulierem coniugatam et cum ea peccatum committis. Quare permittis te sic a
diabolo decipi? Male fecisti. Age penitentiam de commissis!” Cui notarius Pamphi-
lus respondit: “Pater sancte, vera sunt, que dicis.” Et cecidit in terram et plorabat. Et
sanctus Petrus suggessit eidem, ut tale peccatum non committeret, quia non erat sibi
necesse, et adiunxit: “Tu habes bonam uxorem et castam.” Et idem notarius Pamphilus
dixit: “Nullo modo possum me abstinere ab illa.” Tunc sanctus Petrus recessit aliquan-
tulum et genuflexit ante altare et oravit. Et adhuc rediit et dixit ei: “Confide in deo, et
ne timeas de cetero de tali peccato.” Et imposuit ei penitentiam salutarem. Qui licentia-
tus ab eo recessit et numquam ausus fuit de cetero intercedentibus meritis sancti patris
cum illa loqui muliere nec de tali umquam negotio requirere».
123
  Con tali parole l’autore descrive la decisione presa dal novello pontefice il gior-
no della sua incoronazione: «Et extunc thesaurum misericordie, quem illi Christus
commiserat, aperuit et de illo largissime omnibus vere penitentibus et confessis tri-

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to gratuito («non erat sibi necesse»), lui, che pure aveva una moglie buo-
na e casta. L’eremita riuscì, in tal modo, a far sì che Panfilo prendesse co-
scienza dei suoi doveri e reagisse da uomo adulto, non da bambino viziato,
diventando perciò capace d’imprimere alla propria vita un corso diverso.
Dopo quanto si è detto, stante il legame intercorso tra il santo ere-
mita e l’autore del Tractatus (quest’ultimo ebbe con Pietro lunga consue-
tudine di vita e da cui fu formato alla vita religiosa), è pensabile che tra i
due non vi fosse almeno una sintonia di fondo in merito al rapporto che
gli uomini votati a Dio dovevano intrattenere con le donne e con tutti
coloro che vivevano nel secolo? È certo che le donne non avevano la me-
desima libertà di movimento degli uomini all’interno dello spazio abi-
tato dai monaci e – tantomeno – dall’eremita, ma è pur vero che Pietro
del Morrone era un uomo del suo tempo e simili restrizioni si osservano
dappertutto, non solo nei suoi eremi; era del resto altrettanto vero che
negli spazi riservati alla clausura femminile il rapporto si rovesciava e le
restrizioni finivano per riguardare il mondo maschile.

Per una parola conclusiva


Le espressioni severe riguardo alle donne attribuite a Pietro del Mor-
rone nel corso del suo processo di canonizzazione provengono da testimo-
ni di sesso maschile e non sembra ci si allontani dal vero nel ritenere che
possano essere state da essi amplificate, al punto da essere piuttosto il frut-
to di una loro rappresentazione della società che non un reale riflesso dei

buit. Prima namque die sue coronationis hanc indulgentiam omnibus assistentibus et
confessis et vere penitentibus largitus est, ut a culpa et a pena essent omnibus absoluti.
Audientes, qui erant de longinquis provinciis, quod pater misericordiarum thesaurum
misericordie aperuerat, omnes concurrerunt, omnes de isto fonte bibere sitiebant. Et
sic in die octavo sue coronationis similem indulgentiam omnibus populis, qui adve-
nerant, condonavit» (Die ältesten Viten Papst Cölestin V., p. 139, r. 7-17). Sulla “Per-
donanza” indetta da papa Celestino V, cfr. Indulgenza nel Medio Evo e perdonanza di
papa Celestino, Atti del Convegno storico internazionale, L’Aquila, 5-6 ottobre 1984,
a cura di A. Clementi, L’Aquila 1987, in particolare il saggio di Pásztor, Celestino V
e Bonifacio VIII, p. 61-78: la studiosa effettua una fine analisi della lettera Inter sanc-
torum solemnia, un documento più noto che conosciuto, che sanciva l’indizione della
Perdonanza, individuandovi tre specifici influssi: della corte angioina; di una fonte non
identificabile con una cancelleria precisa; del papa o di qualcuno del suo ambiente.

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sentimenti dell’eremita verso il mondo femminile. Pietro, infatti, si mostra


sempre prudente con le donne, attenendosi a quelli che erano i canoni di
comportamento consueti stabiliti dalla società civile ed ecclesiastica, ma
non nutre alcuna avversione nei loro confronti. Ci si può perciò chiedere
se quando riferirono che Pietro non avrebbe neanche voluto vedere delle
donne, questi stessi testimoni non stessero in realtà rivelando una propria
concezione del ruolo femminile e dello spazio riservato all’altro sesso, rigo-
rosamente ristretto all’interno delle mura domestiche.
Va da sé che una tale, presunta avversione finisse per rafforzare an-
che l’immagine di Pietro uomo castissimo, trionfatore sul demonio, che
proprio attraverso la donna avrebbe voluto farlo cadere, ma che nulla in-
vece poté contro di lui. Tuttavia, una tale avversione non solo non sem-
bra essere stata di Pietro, ma neppure dei suoi più diretti seguaci, quanto
meno non dell’autore del Tractatus de vita et operibus atque obitu ipsius
sancti viri. Non v’è dubbio, perciò, che debba essere adeguatamente ridi-
mensionata! 124

Felice Accrocca *

*  Arcivescovo Metropolita di Benevento, già Docente di Storia della Chiesa me-


dievale presso la Pontificia Università Gregoriana (feliceaccrocca@libero.it).

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