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LA RAPPRESENTAZIONE ANTROPOMORFICA DI DIO. IL MIDRASH AGGADA TRA METAFORA E MITO. Maurizio Mottolese I. Nuovi approcci alla questione degli antropomorfismi Per quanto si rifugga oggi giustamente dalle facili contrapposizioni tra Atene e Gerusalemme, si deve riconoscere l’esistenza di elementi che permettono di misurare ancora e sempre uno scarto essenziale tra il lin- guaggio e il pensiero interni alla tradizione ebraica - Bibbia e giudaismo rabbinico — e quelli radicati nella cultura greco-occidentale (del logos filosofico, della riflessione metafisica). Esiste in particolare un aspetto del linguaggio che verifica la fenditura tra le due tradizioni, e mostra quindi le tensioni e i nuovi difficili equilibri prodotti dal loro incontro/scontro. Si tratta della possibilita di rappresentare il Divino stesso in immagini — figurazioni materiali, concrete — e quindi in genere nelle forme dell’ umano: nei cosiddetti «antropomorfismi». La Bibbia, come tutti sanno, é piena di descrizioni antropomorfiche di Dio, di attribuzioni al Dio unico e trascendente di connotazioni fisiche (le mani, gli occhi, la bocca), di atti e comportamenti (il camminare, sedere, parlare), di qualita caratteriali e passioni (ira, pentimento, misericordia), solitamente attribuibili solo ad un essere umano. Nella tradizione rabbini- ca tutte queste modalita rappresentative sono state recepite senza proble- mi, ¢ anzi potenziate. In particolare, nell’ Aggada Dio appare di volta in volta secondo figure dell’umano tanto mutevoli e varie, quanto disinibite e stupefacenti: rappresentazione, per i nostri occhi disincantati e scaltriti, di un Dio davvero troppo umano. Si pensi all’immagine di un Dio che visita Abramo sul suo letto di malato, dopo la circoncisione, che consola Isacco della morte del padre, che seppellisce Mos, che piange sulla distruzione del Tempio ed é in lutto per I'esilio di Israele, che accetta sor- ridendo la maturita e l’autonomia delle sue creature e spesso ne richiede l'aiuto, che studia la Tora nell’ accademia celeste, prega secondo il rituale € giudica in base alla legge rabbinica. Alcune volte, poi, lo stesso com- 2 LA RASSEGNA MENSILE DI ISRAEL portamento umano di Dio é sconcertante per la sua “debolezza” e la sua “jrragionevolezza”. Come & stato detto in riferimento alle parabole che paragonano Dio ad un re «di carne e sangue»: tali ritratti di Dio sono vividi, affreschi altamente particolareggiati di figure tumane riconoscibili, le quali agiscono frequentemente in modi sconvolgenti nel loro essere non-divini '. Solo in tempi recenti nell’approccio ai testi della letteratura ebraica si @ iniziato ad affrontare il problema dall’interno, cioé a partire dalla conformazione peculiare del linguaggio religioso ebraico, evitando di ricadere nell’ottica giudicante che assumeva sempre (e spesso in modo involontario) il metro e i criteri del logos filosofico. I] pensiero greco- ellenistico, in effetti, & entrato in modo determinante nel mondo ebraico solo nell’ Alto Medioevo, sotto spinte per lo pid esterne, ponendo per la prima volta le basi per un’autentica «filosofia ebraica» e innestando cosi prevedibili sconnessioni e conflittualita. In quest’ ottica la radicale affer- mazione fatta da Max Kadushin negli anni Cinquanta - secondo cui, solo liberandosi da influenze filosofiche, si pud riavvicinare |’ autentica espe- rienza rabbinica di Dio — potrebbe essere condivisa almeno per questo contesto pid ristretto: i rabbini e i filosofi semplicemente non abitavano lo stesso universo di discorso. Qualunque cosa dicano i rabbini, essi in effetti non qualificano 0 mitigano gli antropomorfismi biblici, né i loro. Il problema stesso dell’ antro- pomorfismo per loro non esisteva’: Non é qui il luogo per discutere le tradizionali letture filosofiche degli antropomorfismi giudaici (da Sa'adya e Maimonide alla Wissenschaft des Judentums), né per seguire Kadushin (0 Isaac Heinemann o la nuova ricerca sul pensiero ebraico affinata dall’ermeneutica e dal decostruzioni- smo) nel tentativo di rileggere il rabbinismo — con la sua essenziale antro- pomorfizzazione — come complesso organico e coerente. Vorrei solo far cenno al generale cambiamento di rotta che si rende oggi inevitabile per una comprensione del problema. E’ stato merito in particolare di David Stern riassumere con chiarezza il carattere inevitabilmente infruttuoso dell’ approccio classico alla que- 1. D. Stern, Midrash and Theory. Ancient Jewish Exegesis and Contemporary Literary Studies, Evanston Il, 1996, p. 74. Di notevole interesse per il nostro problema & il cap. IV: Midrash and Theology: The Character(s) of God. 2. M. Kadushin, The Rabbinic Mind, New York 1952 (rist, 1972), pp. 280-281. LA RAPPRESENTAZIONE ANTROPOMORFICA DI DIO stione dell’antropomorfismo, che vi leggeva essenzialmente due ordini di problemi: a. un problema di credenza (in quale idea metafisica di Dio cre- devano i rabbini, dato - 0 meglio, “dietro a” ~ il loro modo antropomorfi co di rappresentarlo?); b. un problema di linguaggio (come influisce sulla loro rappresentazione l'insufficienza ¢ Ia limitatezza del linguaggio?). In entrambi i casi, il linguaggio antropomorfico era “criticato” a priori a par- tire dal logos filosofico: come veicolo inadeguato (0 come schermo) di una credenza pitt “spirituale”, come stadio precedente al concetto, ecc. Ma il secondo ordine di problemi non sembra affatto essere stato per- cepito dai rabbini: non solo non ci sono segni di un’opposizione o di un imbarazzo rispetto all’uso dell’antropomorfismo (almeno finché la men- talita ellenistica non penetrd profondamente nella tradizione ebraica), ma non compare nemmeno un atteggiamento di deplorazione o di rassegna- zione rispetto a una presunta inadeguatezza del linguaggio. Al contrario, ci sono tutti i sintomi di un’estrema fiducia nel linguaggio, nel rabbini- smo classico e persino — cosa piuttosto peculiare — nella letteratura misti- ca. Quanto al primo ordine di problemi, il dibattito tra gli studiosi conti- nuer’ probabilmente senza fine, cosi come accade rispetto al mito greco: quando i rabbini mettevano in scena un Dio che ride 0 piange, un Dio iroso o pentito, un Dio seduto sul trono o alle prese con lo studio della Tora, ci credevano?* In realta, il problema della credenza — che investe questioni complesse di carattere psicologico, antropologico, forse prima che metafisico — seppure mai risolvibile, non sembra illuminare il cuore del problema; di piil, esso sembra nascere, almeno in parte, da una perce- zione ancora tutta filosofica della inaccettabilita della rappresentazione antropomorfica del divino. 3. Naturalmente, secondo la lettura “filosofica” tradizionale, queste immagini sareb- bero state intese dai rabbini stessi come mere allegorie. In una lunga indagine dei testi rabbinici, Marmorstein cered di dimostrare che il giudaismo rabbinico fu scisso in propo- sito tra due diverse prospettive: mentre la scuola di R. “Aqiva avrebbe avuto una imposta- zione letteralista rispetto agli antropomorfismi, la scuola di R. Ishmael sarebbe stata incli- ne a una prospettiva allegorista (cfr. Essays in Anthropomorphism. in The Old Rabbinic Doctrine of God. Hl, Oxford UP 1937). La possibilita di una tale suddivisione & stata con- testata da pitt parti, © sembra ormai improponibile. In una ricerca pil recente € piuttosto audace, J. Neusner ha cercato di dimostrare che 'impostazione che prendeva alla lettera le connotazioni: materiali di Dio fu dominante tra i rabbini e giunse al suo culmine nel Talmud babilonese (The Incarnation of God: The Character of Divinity in Formative Judaism, Philadelphia 1988: ma cfr. le riserve giustificate in D. Stern. cit., pp. 77-78),

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