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A CURA DI: Rosita Castelluzzo

La caccia alle Streghe è un fenomeno perpetuato per un lungo periodo che va


dal 1500 al 1700, raggiungendo il suo acme nei cento anni che vanno dal 1550 al
1650. Questa datazione lascia stupiti i più, dal momento che, generalmente, si è
soliti ritenere questo avvenimento proprio del periodo medievale. In realtà,
prima di giungere alla sua forma più cruda, è necessario palesare una serie di
tappe e accadimenti che hanno portato a un progressivo passaggio dal lecito
all’illecito e a un conseguente inasprimento delle pene. Nell’immaginario
collettivo la caccia alle Streghe risulta come una repressione a danno di donne
che hanno stretto un patto col demonio, e nella maggior parte delle menti si
delinea l’immagine vulgata di una teoria di donne a cavallo di scope alate, che
vola verso un luogo prefissato nel buio della notte, con conseguente rogo, pena
comminata per il reato da parte di quelli che sono esponenti ecclesiastici.
Vedremo come questo sia da smentire.
Bisogna innanzitutto recedere alle origini dei concetti di magia e stregoneria, che
sono alquanto diversi dalle concezioni contemporanee. In genere si tende ad
accostare i due termini in un confronto oppositivo; sebbene entrambe abbiano a
che fare con la manipolazione del reale mediante contatti col sovrannaturale, il
discrimen tra le due è dato dalle diverse finalità: mentre la magia è volta ad
meliorandum, la stregoneria ad nocendum. Effettivamente chi si serve della prima è
il mago, il quale termine si fa risalire a una traslitterazione del termine greco
màgos, con il quale ci si riferirebbe alla casta sacerdotale dello zoroastrismo
propria dell’ultimo periodo dell’impero persiano, alla quale afferirebbero anche i
Re Magi delle Sacre Scritture; mentre invece, chi si serve della seconda sono
streghe e stregoni, la quale etimologia, anche secondo l’ Etymologiae di Isidoro di
Siviglia, è originata dal termine latino, stryx, con il quale si nominava una figura
demoniaca mitologica, dalle fattezze di un uccello rapace, la quale si cibava di
sangue e carne umana. Nell’immaginario collettivo contemporaneo, grazie anche
a fiabe, racconti e trasposizioni cinematografiche, si è venuto a creare un
dualismo tra quella che oggi è definita magia bianca, ovvero “buona”, e magia nera,
ovvero “cattiva”. In passato, soprattutto alle origini e dopo l’errata traduzione
delle Sacre Scritture, non c’è testimonianza di questo discrimine, anzi, dalle
normative di epoca romana e dalle interpretazioni delle Sacre Scritture vediamo
come non esistano leggi anti-stregoniche, ma anti-magiche.
Da esodo 22, 17 viene tradotto “Non lascerai vivere i malefici”, tale sentenza sarà
abusata per giustificare le persecuzioni negli anni a venire. In realtà nel testo ebraico il
termine utilizzato è mekeshefah, che sta a significare “l’avvelenatore”; nella traduzione
greca troviamo il termine pharmakous, che più o meno mantiene lo stesso significato,
considerando che il termine pharmakon in greco è vox media, in quanto sta a designare
un veleno o il suo antidoto, e, ancora, ad Atene, con il termine pharmakon si indicava
una sorta di vittima sacrificale, da esiliare dalla città mediante la prassi
dell’ostracismo, e testimonianza della forte valenza del termine è data anche dal Fedro
platonico, in cui a essere definito pharmakos è Socrate, costretto al suicidio, ma anche
dal momento in cui egli agisce come un mago, che cura con il pharmakon, il quale, nel
suo caso, è la parola; anche in latino il termine manterrà la stessa accezione, in quanto
verrà reso con veneficos sive venficas. Fin qui filerebbe tutto liscio, se il termine
mekeshefah non fosse stato reso in latino, oltre che col termine più appropriato veneficus,
col termine maleficus, per il quale vengono a confondersi due piani terminologici
diversi. Il termine maleficus avrà tanta fortuna da far sì che nel IV secolo andasse a
sostituire il termine magus, annullando dunque quella valenza di magia come arte e
sapienza, che è possibile rintracciare all’interno del termine inglese witchcraft, nella
radice del quale, *witch, si nasconde il significato di <<sapienza>>, e craft avrebbe lo
stesso significato del termine latino ars. Vediamo dunque come una cattiva traduzione
dei libri sacri abbia portato alla conoscenza di un messaggio deviato dall’originale.
Anche la Lex Cornelia o Lex de sicariis et veneficiis, dell’81 a.C., promulgata da Silla,
poneva come soggetti alla pena sicari e venefici. La legge mirava a colpire coloro che
uccidevano con mezzi infami od occulti, perciò venivano accomunati il sicario, la
quale arma del delitto era la sica, il pugnale, e l’avvelenatore, che colpiva mediante
veneficium, veneficio che poteva avvenire mediante veleni, statuine di cera o legature.
La possibilità di nuocere da lontano mediante mezzi occulti porterà Augusto a
promulgare nell’8 d.C. la Lex crimen maiestatis, la quale si proponeva di perseguire
qualsiasi attentato contro la maestà, che inizialmente era rappresentata dallo Stato e
che in seguito coinciderà con la persona dell’imperatore; chiunque si macchiasse di
tale crimine incorreva nella pena capitale per vivi crematio, ovvero rogo. Abbiamo
visto come non esistessero leggi anti-stregoniche, infatti, dal momento che la stryx
veniva considerata un essere mitologico, risultava non perseguibile penalmente. In
realtà nel primo diritto romano anche a coloro che si macchiavano di maleficio la
pena veniva comminata soltanto nel momento in cui il maleficio fosse andato a buon
fine, altrimenti si parlerà di tentativi di maleficio innocui. Si dovrà aspettare il tardo
diritto romano per avere un cambiamento, nel momento in cui si sviluppa una sorta
di isteria a seguito di vari tentativi di far fuori l’imperatore a distanza o attraverso
mezzi magici.
Da qui al periodo della caccia alle Streghe il cammino è lungo, ma ogni tappa è importantissima
per gli sviluppi e gli esiti che potremmo personalmente evincere dall’analisi dei processi perugini
e umbri contenuti nel saggio di Ugolino Nicolini, dal titolo La stregoneria a Perugia e in Umbria nel
Medioevo. Se le prime leggi romane prevedevano una sanzione soltanto a maleficio conseguito,
vediamo come nell’alto medioevo questo muta. Una testimonianza è la legge dei Franchi Salii, la
quale presenta un capitoletto, intitolato De maleficiis, in cui si raccomanda di comminare una pena
in pagamento di solidi a coloro che somministrino una pozione a qualcuno, affinché muoia, sia che
ci riescano o meno e a coloro che commettano un maleficio mediante legature o che aiutino una
donna ad abortire. In un altro passo, intitolato invece De herbiugium, ci si riferisce a un qualche
costume di uso germanico, secondo il quale le donne, con ruolo sacerdotale-profetico,
utilizzassero un calderone, cosa che ha avuto vasta risonanza nell’immaginario fiabesco della
strega, sempre accompagnata da paiolo e sostanze da farvi bollire dentro; in questo capitoletto si
commina una pena in solidi a chiunque chiami qualcuno strioporcio, ovvero portatore di calderone,
e non possa provarlo, a chiunque chiami una donna stria e non ne abbia le prove e, infine, una
strega che mangi un uomo e sia provato, sarà soggetta al pagamento di una pena di poco
maggiore di quelle somministrate per i sopracitati reati. Emerge quindi un elemento che sarà
importante nei processi perugini, l’accusa di essere strega è così infamante, da essere sanzionata di
poco meno che l’essere realmente strega, e tale accusa, vedremo, basterà a intentare un processo.
Da sottolineare è anche l’utilizzo del termine stria, dal momento che questo non appartiene al
mondo germanico, che generalmente utilizza masca. Fin qui vediamo come le pene irrogate siano
abbastanza leggere, consideriamo che al X secolo risale il Canon Episcopi, che sanzionava in modo
lieve la cavalcata delle donne verso il luoghi prescelti per i sabba. E quindi come si spiega la dura
repressione che da lì a qualche secolo si sarebbe avuta?
Innanzitutto si deve dare un valore ponderante alla diffusione della magia colta nella
società. Ciò avviene con l’introduzione di testi tradotti dall’arabo e dall’ebraico, in un
momento di espansione geografica, data dalla rivoluzione commerciale a opera delle
colonie di Genova, Pisa e Venezia e dalle crociate. Assieme alle innovazioni tecniche,
provenienti dal mondo arabo, giungono anche testi di filosofia naturale, nei quali si
parla spesso anche di magia bianca. Secondo questa la manipolazione degli elementi
della natura aiuterebbe a comprendere meglio il funzionamento dell’universo,
immaginato come un insieme di rispondenze. Assieme ai testi di magia bianca, però,
giungono anche quelli di magia nera e si perviene alla conclusione che così come è
possibile manipolare le sostanze per fare del bene, è possibile farlo con intento nocivo.
Si trattava in ogni caso di magia colta, in quanto si presupponeva indispensabile la
conoscenza del latino, lingua di traduzione dei trattati. Pian piano vediamo un
inasprirsi delle pene e una progressione dal lecito all’illecito, per cui rituali, che prima
erano considerati accettati, quale le Sortes Apostulorum, divengono banditi.
Nello stesso momento in cui dilaga l’interesse per il demoniaco, si sviluppano i
movimenti ereticali, quale quello dei Catari, per il quale Innocenzo III indirà una
crociata nel 1209, che avrà fine soltanto nel 1244. Internamente si occupano della
repressione Domenicani e Francescani, gli ordini mendicanti diventano infatti riserve di
personale specializzato ed, essendo in rapporto di linea diretta con il pontefice,
andranno a sostituire in tale ruolo inquisitorio i vescovi. La pena comminata per l’eresia
era il rogo, tutto ciò si deve a una rinascita del diritto romano, che risulta essere
perfettamente funzionante in caso di eresia; basti pensare che nel 1199, con la Vergentis
in senium, Innocenzo III equiparò il crimine di eresia al crimen maiestatis, per cui, essendo
Dio considerato la maestà suprema, chiunque si fosse macchiato di eresia si sarebbe
macchiato di reato di lesa maestà e sarebbe incorso nella stessa pena in cui incorrevano
gli attentatori dell’imperatore, con ciò si spiega il motivo per cui la pena comminata agli
eretici fosse il rogo. In realtà, un passaggio importante all’interno di questo percorso è
anche l’evoluzione del concetto di eresia; di fatti, per tutto il 1200 l’eresia è un crimine
che riguarda il pensiero, un crimine di coscienza, ovvero la convinzione di cose non
riconosciute dalla dottrina cattolica, perciò non si può parlare propriamente di pratiche
o atti eretici.
È all’indomani del 1244 che si avvia una fase di inquisizione anti-catara, volta a stanare
residui di tale dottrina, ma, dal momento che ci si accorge che la crociata di Innocenzo
III aveva avuto un buon effetto di “pulitura”, ci si volge a indagare pratiche di folklore,
che avevano attecchito presso i non catari. E da questo momento inizia una serie di
corrispondenze col Pontefice, a cui si chiede se dovessero essere da considerare eretiche
anche tali usanze. Dobbiamo aspettare il 1322 per avere una svolta nella vicenda; Papa
Giovanni XXII interroga l’Università di Parigi se una serie di pratiche, le quali in
comune avevano l’utilizzo di oggetti sacri per i loro rituali, dovessero essere da
considerare eretiche. A un assenso dell’Università, per la prima volta si comincia a
ipotizzare che anche una pratica possa essere eretica e non soltanto un pensiero, ma col
presupposto che in utilizzo vi siano degli oggetti sacri.
È in Francia, per mano di Filippo il Bello, che si aprono i primi processi in cui anche la
magia viene intesa come eresia: uno degli inquisiti è Bonifacio VIII, sebbene morto, il
quale si accusa di aver stretto un patto col diavolo, che gli avrebbe concesso il perpetuo
accompagnamento di un demone familiare; un altro processo vede sotto accusa il
vescovo di Troyes, questa volta il processo intentato è un processo di magia, in quanto il
vescovo avrebbe battezzato delle immagini, per poi farle distruggere, col fine di ledere a
distanza al sovrano. Vediamo, soprattutto in quest’ultimo processo, che vi è l’utilizzo di
un sacramento, quale il battesimo e l’infrazione della lex crimen maiestatis. Questi
processi aprono un riconoscimento più ampio all’estensione del concetto di eresia, che
va, da questo momento in poi, a coinvolgere anche i malefici. Qui si nasconde uno dei
presupposti per la caccia alle Streghe, se le pratiche magiche non fossero considerate
eretiche, di fatti, la pena comminata per il reato di stregoneria non sarebbe il rogo.
Il periodo che va dal 1300 al 1400 è un secolo di assestamento per quelle che sono le
basi delle persecuzioni stregoniche. Di fatti, l’incremento del tema del patto col diavolo
dà il via alla riconsiderazione del Canon Episcopi, desumendo che anche maghi, streghe
e stregoni possano dare origine a una nuova setta, sacrilega, ereticale e perciò
perseguitabile. E la credenza del patto col diavolo è necessaria per dare il via alla
persecuzione, in quanto consente di bypassare ciò che era stato teorizzato e portato
avanti da Sant’Agostino, ovvero l’impossibilità che queste donne volassero ai raduni
notturni, in quanto il volo sarebbe stato soltanto immaginario, dato da un
abbindolamento mentale del demonio; adesso si sostiene che il volo non sia
immaginario, ma reale, dal momento in cui vi è la possibilità di stringere un patto col
demonio. Importante per la divulgazione del crimine di stregoneria è anche l’inizio
della trattativa dell’argomento, una delle opere fondamentali è il Malleus maleficarum; la
stesura di tale opera ottiene l’avallo di Innocenzo VIII e Trevor Roper, uno studioso
contemporaneo, si interrogò, in un suo saggio degli anni ’60 del 1900, proprio su come
un Papa così colto come Innocenzo VIII, avesse potuto dare il via libera a tale opera.
Qui è celato l’ultimo tassello mancante per la ricostruzione dei passaggi che portarono
alla caccia alle Streghe: il revival della cultura classica, chi l’apprezzava e la studiava,
infatti, trovava nei classici un riscontro di ciò di cui si accusavano le streghe moderne. I
processi dell’Italia centrale rappresentano una cartina di tornasole, dai quali si
evincono l’assorbimento e la risonanza dei classici.

I PROCESSI PERUGINI
A nostra disposizione, per la disamina del fenomeno, abbiamo la fortuna di possedere
alcuni processi, svoltisi nel contado di Perugia e dintorni, nel periodo che va dal 1347 al
1501; com’è palese già dalla datazione, siamo in largo anticipo, almeno per i primi, sul
momento di acme delle persecuzioni, che, ricordiamo nuovamente, va dal 1550 al 1650. I
processi presentatici dallo studioso medievista Ugolino Nicolini sono otto, sette
perugini più uno bolognese, che ci preoccuperemo di analizzare a parte, diverso non
soltanto per il luogo geografico, ma anche per la struttura. I processi perugini sono
importantissimi dal momento che giocano d’anticipo sul periodo maggiormente
interessato dal fenomeno delle persecuzioni, il primo processo, intentato nel 1347 a
Riccola Pucci, rappresenta probabilmente la più antica documentazione d’Italia
sull’argomento, ma, soprattutto, ci permettono di tastare con mano come si svolgeva
realmente un processo, come erano redatti gli atti, da chi era svolto il processo, quali
erano i capi di accusa e le pene comminate, e non meno importante è la possibilità di
accedere al laboratorio della strega o dello stregone. Innanzitutto, prima di addentrarci
nella valutazione delle carte, c’è da focalizzare l’attenzione sul ruolo che rivestirono i
predicatori degli ordini mendicanti, quali Bernardino da Siena, Giacomo della Marca e
altri predicatori francescani dell’Osservanza, nelle zone interessate.
I due frati avevano ben noti i mezzi e gli usi delle streghe, soprattutto, ricordiamo
l’importanza del riuso delle fonti classiche, tuttavia molto spesso nelle prediche di
Bernardino da Siena vi era un monito per i sacerdoti ignoranti e facilmente abbindolabili,
affinché si guardassero bene dal cedere agli imbrogli di streghe e stregoni che tentavano
di ottenere da loro oggetti sacri per i loro riti e per le loro messe nere, che a quanto pare
non sono un’invenzione moderna. Anche Giacomo della Marca nelle sue prediche non si
astiene dal riportare testimonianze sulle pratiche magiche in Umbria. Se pensiamo però
che i giudici dei processi umbri fossero ecclesiastici ci sbagliamo, di fatti, nonostante la
presenza di penitenziali venerandi, quale quello di S. Eustizio di Norcia, databile almeno
all’XI secolo, nel quale si presentano per la prima volta la terminologia che ritroveremo
all’interno degli atti processuali, i processi in questione si reggono su una legislazione
civile laica. I processi sono diretti e le sentenze sono emanate da magistrati laici, podestà
e capitani del popolo. E per quanto riguarda Perugia è possibile stabilire il momento di
fondazione della giurisdizione laica e l’estromissione del tribunale dell’Inquisizione dai
processi per magia e stregoneria; questa si fa risalire al 1263, anno in cui oggetto di un
processo sono due donne, accusate di “operaverunt malis contrea fidem catholicam et tenorem
statutorum Perusii”.
Al 1342 risale l’aspetto definitivo della legislazione perugina, redatto in volgare, in
questo, importante per comprendere la portata del fenomeno e il modus operandi dei
giudici perugini, si stabilivano le pene da somministrare. Da sottolineare il fatto che
nessuno degli imputati veniva condannato a morte, ma che la pena consisteva nel
pagare “400 libbre de denare per ciascuna fiada”, dove con “fiada” si intendeva
generalmente ogni tentativo e capo d’accusa; la pena di morte giungeva soltanto nel
momento in cui la “multa” non veniva soluta entro il periodo prestabilito, che
generalmente era abbastanza breve, in relazione alla somma, che spesso ammontava
anche a migliaia di libbre, e alle condizioni economico-sociali degli imputati.
STRUTTURA DEI
PROCESSI

I processi perugini vedono una struttura ricorrente, possiamo notare una prima parte in
cui si puntualizzava di agire in nomine Domini, in seguito, mediante un’ inchoatio, veniva
presentato l’imputato o l’imputata e in una seconda parte si esponevano i capi d’accusa
e la sanzione stabilita. Gli atti processuali sono redatti in modo bilingue, di fatti,
nonostante quello utilizzato sia un latino medievale ormai corrotto, per cui l’uso delle
desinenze è spesso irregolare e la struttura del testo contiene molte ripetizioni, il notaio,
i giudici, il podestà si esprimono in quello che è possibile definire un registro linguistico
più elevato, rispetto al volgare in cui si esprimono gli imputati in qualche raro momento
in cui viene riportata qualche frase

PROTAGONISTI DEI
PROCESSI PERUGINI
RICCIOLA DI PUCCIO DA PISA
Protagonista del primo processo è Riccola di Puccio da Pisa, questa viene definita “mulierem male coversationis, vite
et fame, affacturatricem, veneficam et incantatricem et invocatricem malorum immundorum spirituum, esercitante inlicitas
et reprobas et nocivas facturas, venefitia, incantationes, coniurationes, indivinationes, invocationes immundorum et
malignorum spirituum ad nocendum aliis”, tali connotazioni saranno propri di tutti gli imputati perugini. Riccola
viene accusata di aver avuto a che fare con demoni e aver ottenuto mediante loro la capacità di ledere mediante
fatture, veleni e legature. Importante in questo processo è che Riccola agisce sotto commissione, di fatti ogni qual
volta che essa perpetra il reato lo fa sotto richiesta e a scopo di lucro, abbiamo a che fare con quella che oggi
definiremmo una libera professionista. Riccola agisce varie volte; la prima delle quali viene accusata di aver
preparato una fattura che avrebbe sortito effetto di discordia tra due coniugi, a favore della stessa figlia del
coniuge in questione. E nell’atto processuale vi è la descrizione del rituale: oggetto principe del rituale è un uovo
di gallina nera, che, dopo essere stato cotto, Riccola “incanta” e “congiura”, rivolgendosi a vari demoni; dopo
aver fatto ciò, divide l’uovo in due parti e ne dà metà a una gatta e metà a un cane, pronunciando la iattura, per la
quale tra Intendolo e Cecola, i due coniugi, intercorresse lo stesso “amore” che vi era tra la gatta e il cane.
L’eredità della preparazione di rituali per creare discordia tra una coppia giungono dalla cultura classica, è
rintracciabile anche nel V Epodo di Orazio, in cui le protagoniste si stanno accingendo a preparare un filtro
d’amore; anche lì vi è la descrizione di preparazione della pozione. La nostra Riccola compie più volte questo
reato, in vari modi, dal filtro si passa alla polvere, composta con molte erbe diverse, in grado anche questa di
provocare la discordia di chi la calpesti o la beva, verso la determinata persona nominata nella formula di
incantesimo. Nella parte conclusiva del processo è espresso che Riccola è “sponte confexa” e vengono nominate
tutte le sue vittime, infine viene emanata una pena di 1200 libbre, in realtà dovrebbe essere l’esito della
ripetizione del reato per tre volte, anche se, da quel che sembra, Riccola agisca più di tre volte. Purtroppo per
l’inquisita la faccenda si conclude con un rogo dovuto all’insolvenza.
GIACOMO NICOLO’ CERVI DA PISA

Come Riccola anche Giacomo di Nicolò Cervi da Pisa agisce da professionista salariato,
fingendosi in grado di saper liberare, mediante rituali particolari, soggetti indemoniati;
anche qui vengono nominati gli oggetti utilizzati, ampolle, e stoffe nere spacciate per
serpenti. Vediamo che in questo caso Giacomo pagherà la sua pena con la pubblica
fustigazione. Ciò che colpisce dei processi perugini è che gli imputati, oltre ad essere
connotati con termini riferenti al campo semantico della magia e della stregoneria e a
macchiarsi delle scelleratezze che poi compiranno le streghe a noi più prossime,
vengono processati anche per capi d’accusa che poco hanno a che fare con la stregoneria
e il veneficio.
CATERINA DI GIORGIO DA MODRUS

Caterina di Giorgio da Modrus è definita anche homicidam e furem, quindi assassina e


ladra. Nel suo processo abbiamo l’esempio di come sia stata importante la risposta
dell’università di Parigi al quesito di Giovanni XXII: Caterina crea le sue fatture
utilizzando oggetti sacri avuti da un qualche prete, per due delle sue fatture utilizza
delle ostie, per un’ altra un cero benedetto. Dopo questi capi d’accusa abbiamo quelli
per furto e omicidio.
SANTUCCIA
Uno dei più particolari processi riportatici, assieme a quello di Filippa, che esamineremo
a seguire, è quello di Santuccia, forse soprannominata così a causa della sua dedizione
alla santocchieria, rea anch’essa di aver utilizzato un oggetto sacro in un suo rituale; per
questo processo, mancante della sentenza di condanna, il Nicolini ci fornisce due
testimonianze coeve non interdipendenti, la prima, redatta in volgare, è estrapolata
dall’opera di un cronista cittadino, Graziani, la seconda dal De sortilegiis di Giacomo
della Marca. Quella in volgare racconta di come Santuccia fosse stata recata sul luogo
dell’esecuzione e dell’arrivo di san Giacomo. La predica del frate francescano è molto
forte, Santuccia viene definita diabolica vetula, a differenza del Graziani che si limita a
identificarla come un’ indivina da Nocea, quasi a sottolineare fosse una cosa comune in
quel periodo e in quel luogo essere designati “indovini”. In realtà sappiamo quanto sia
rinomata la zona interessata da questi processi, è proverbiale il fascino sinistro dei monti
Sibillini e la natura diabolica del versante orientale del Vettore e del luogo chiamato
Lago di Pilato, inteso anche come porta dell’Averno, risale al XIV secolo. Frate Giacomo
della Marca tende invece a sottolineare la natura diabolica di questa vetula, macchiatasi
di aver ucciso cinquanta bambini e di averne bevuto il sangue, estratto dall’orecchio e di
aver compiuto un maleficio con un’ostia consacrata, ottenuta mediante
l’abbindolamento diabolico di un sacerdote. L’utilizzo di parti di corpi di bambini
giunge dalla Roma antica, anche nell’Epodo di Orazio per il filtro preparato da Canidia
e le sue compagne occorre muoia un bambino e il diffuso uso della prelevazione di parti
di salma si evince anche dalla novella di Telifrone, in cui vi è la necessità di vegliare una
salma e proteggerla dall’arrivo di eventuali megere.
FILIPPA DELLA PIEVE
Il processo in cui meglio confluiscono tradizione classica e “innovazione” medievale è quello di Filippa della Pieve: Filippa viene
nominata, oltre che con gli stessi termini connotativi riferiti alle suddette Riccola e Caterina, augoriolam magicam, elementorum
turbatricem, l’essere turbatori degli elementi era punibile con la decalvatio già nella legislazione salica, potatricem sanguinis puerorum,
ma soprattutto stregam; il termine stregam e stregonem ricorrono solo in due dei processi perugini, in questo di Filippa e in quello
di Gniagne Mei da Cibottola. Il processo di Filippa è significativo perché è presente anche l’accusa di divulgazione della materia,
già nell’ Asino d’oro di Apuleio, Fotide, ancella di Panfile, aveva appreso dalla padrona l’arte magica; qui si dice che Filippa l’
avesse appresa anni prima da una certa Clarutia, sappiamo quanto sia un tassello importante l’accusa di divulgazione, grazie al
passaggio del sapere di tale arte era infatti possibile indottrinare altra gente e creare una setta ereticale e quindi da perseguire. In
questo processo si palesa la presenza dell’unguento, già presente nella fonte classica sopracitata, capace di trasformare la strega e
trasportarla dove ella voleva, e il testo riporta le parole pronunciate dalla Filippa, “Diaulo ad te me do in anima et in corpo,
portame dove io te dirrò”, e mediante l’unguento, Filippa con le sue compagne, si ritrova a bere il sangue di un bambino e ancora
a disseppellire la di lui salma, lacerarla e separare la carne dalle ossa, per crearne delle candele. La Nostra si macchia di
istigazione alla lussuria smodata e, a dispetto degli altri inquisiti, che avevano preparato filtri per creare discordia o fare
innamorare qualcuno, le sue legature spesso portano alla morte: una delle sue vittime è Geronimo di Bartolomeo, ridotto ad
nichilum dopo aver calpestato un involucro da lei fatturato; nella descrizione di preparazione di una pozione d’amore si apre uno
scorcio orripilante, in cui sono esplicitate le modalità mediante le quali l’oggetto in questione, un certo Iacobo, sarebbe caduto
innamorato: dapprima sono elencati tutti gli ingredienti utilizzati dalla strega per creare una legatura sulla quale Iacobo sarebbe
dovuto inconsciamente passare: tre lombrichi, capelli di bambini, corda dell’impiccato, un uccello notturno morto mediante il
fuoco e semi-combusto; in seguito si tende a puntualizzare che, oltre al transito sulla legatura, Filippa avrebbe nascosto nel cibo e
nella bevanda del suddetto un intruglio di sperma, sangue mestruale e valeriana, che lo avrebbe legato a lei indissolubilmente e si
racconta la modalità di coltura di tale erba. Quest’ultima parte, riguardante il rituale della coltura è particolarmente interessante,
la precisione del giorno, del momento propizio sembra ricordare la perizia della maga della Colchide e sembra un momento quasi
staccato dalle rozze descrizioni prima fatte. Un altro elemento importante in questo processo è il ruolo che riveste la luna,
sappiamo che a questa, nominata Ecate, chiedeva aiuto Medea, “Tu dea triforme, che consapevole delle mie imprese mi vieni in
soccorso e sei maestra nell’arte che incanta…”, e sempre a lei faceva invocazione Circe, davanti a questa Filippa si volge denudata
e invoca il diavolo durante un rituale di guarigione di una ragazza, che lei stessa prima aveva fatto ammalare. Alla fine del
processo troviamo la sentenza della pena, consistente in una somma da pagare di quattromila libbre, somma che incorrerà in
un’insolvenza e porterà Filippa a essere arsa. Tra tutti i processi perugini questo di Filippa è quello più vario in fattore di capi
d’accusa e soprattutto gioca un ruolo di avanguardia nella delineazione della figura della strega moderna e del repertorio magico
e stregonico a cui oggi ci si riferisce.
MARIANA DA SAN SISTO

Di fatti, nonostante sia nel processo di Mariana da San Sisto che compaia la concezione
di un raduno di scelerate, alla quale la processata ci si reca dopo essersi cosparsa di un
unguento e aver recitato la, poi resa nota, formula “Unguento, menace a la noce de
Menavento sopra l’acqua et sopra al vento”, anche in Filippa si delinea l’idea di un
concilio di streghe che operano con fine comune e in gruppo. Vedremo come l’idea del
sabba sarà perseguita anche in uno dei processi modenesi, portato avanti in quel caso
dalla Santa Inquisizione, in cui l’accusata è una vecchia vedova, Orsolina “la rossa di
Gaiato”, accusata di recarsi “in striazzo” in volo, non trascurabile, in questo caso è la
pena comminata, Orsolina vivrà il resto dei suoi giorni relegata in casa sua, ottenendo la
salvezza della vita, cosa di cui non godranno le imputate umbre, nonostante i processi
modenesi si svolgano in un periodo che va dal 1539 al 16034, il secolo più interessato
dall’efferatezza della caccia alle Streghe.
BELLAFIORA EBREA

Tra tutti i processi perugini, l’unico imputato assolto per mancanza di prove necessarie
è Bellafiora ebrea, tutti gli altri, come abbiamo visto incorrono o nella pena della vivi
crematio, causa insolvenza, o nella pubblica fustigazione.

IL PROCESSO
BOLOGNESE
CATERINA DA BOLOGNA

Diverso, non molto per i capi di accusa, i quali sono ricorrenti, ma soprattutto per la struttura, è il
processo bolognese, posto in una seconda appendice dal Nicolini, in cui, oltre all’inquisita principe,
Caterina da Bologna, fattucchiera e adultera, troviamo il di lei amante, Cristoforo Perini da Milano.
Il processo bolognese presenta una struttura ben scandita, sebbene manchi del ritmo incalzante dei
processi perugini. Questo si divide in tre parti, le prime due riferenti soltanto a Caterina, la seconda
anche a Cristoforo. Ogni parte è scandita in una presentazione dell’accusato e dei capi d’accusa, in
un’intentio, un’inchoatio, un’excusatio cum confessione, nella quale l’imputato si scusa e si confessa
reo, una promissio, che riporta la promessa di rispettare le istanze del giudice, una monitio, in cui vi
è il monito del giudice e poi la sentenza. Singolare, oltre alla struttura del processo, è che il giudice
non si limita a definire i testimoni “honestes, veridices et fidedegnes homines et persones”, ma qui vi è
una sezione, l’inductio testium, in cui figurano proprio i nomi dei testi e i loro mestieri. Abbiamo
quindi una struttura più vicina a quella che ci aspetteremmo oggi. Una considerazione rilevante è
che Caterina verrà assolta, nonostante i capi d’accusa non fossero tanto diversi da quelli perugini e
nonostante il processo sia più giovane di quello di Matteuccia da Todi di solo un anno. Lampante è
quindi la differenza di clima tra le due aree interessate, data da una serie di fattori, quali la
presenza martellante dei predicatori degli ordini mendicanti, l’aura di magia che ammantava i
monti e le campagne umbre in una delle due aree; il clima di più ampio respiro dovuto alla
presenza dell’Università di Bologna e la presenza più forte del tribunale dell’Inquisizione nelle
zone del modenese, del bolognese e del ferrarese, che mitigava l’efferatezza e la precipitazione con
cui il più delle volte agivano i tribunali laici locali.
Sebbene Muratori si riferisca alla magia come un insieme di “frodi, o biasimevoli
sciocchezze” che avevano preso piede a causa di “ignoranza e malvagia cupidità”,
bisogna essere consci che la credenza di fenomeni dovuti all’intercessione del
sovrannaturale è un qualcosa che pervade la storia in tutti i suoi periodi, abbiamo visto
come le fonti classiche ci parlino di stryges, unguenti, trasformazioni e fenomeni
paranormali, come nel medioevo siano state create delle leggi anti maleficio, come le
peggiori persecuzioni siano avvenute in un arco di tempo che è fuori dal periodo
definito medievale e soprattutto vediamo come ancora oggi esistano consuetudini
popolari legate a qualcosa che altro non è retaggio di tali credenze. Ancora oggi sembra
di poter di distinguere due tipi di magia, una che passa per via palese e che è spesso
oggetto di demonizzazione, l’affidarsi a cartomanti per la lettura di tarocchi e
previsioni del futuro; l’altra che passa ormai inosservata, perché consistente in pratiche
ormai radicate nel nostro quotidiano, che sono considerate al massimo superstizioni.
La differenza che intercorre tra la formula di guarigione utilizzata da Filippa e quella
utilizzata da chi oggi in alcuni paesi della Sicilia si preoccupa di “sburdiri u malocchiu”,
per preservare da eventuali iatture o più spesse volte utilizzato per far cessare un mal
di testa dovuto a maledizioni, è che la strega utilizza una mistura fatta da elementi
particolari, prelevati in modo deprecabile, e che si consacra alla luna, lo “stregone”
contemporaneo utilizza una mistura fatta di acqua, sale e olio e si consacra a Dio o a un
Santo. Vediamo dunque come, non essendo riusciti nell’intento di eradicare alcune
prassi, si è cercato di conciliare il pagano col sacro.
Ma soprattutto è palese come la stregoneria sia un fenomeno sociale che ha agito su
quella che è stata definita da Fernand Braudel la “longue durée”, ovvero il paradigma
della lunga durata; molti studiosi si sono lanciati nello studio di processi per stregoneria
conservati negli archivi di luoghi dei quali si voleva ricostruire una storia antropologica,
culturale, sociale: uno degli esempi è il saggio di Le Roy Ladurie, Montaillou, che ha
rappresentato un esempio di “histoìre globale”, infatti, partendo dalle carte dei processi
inquisitori, Ladurie ha ricostruito la storia di un paesino occitanico del 1300.
Possiamo dunque sostenere che la magia e la stregoneria sono due facce della stessa
medaglia, agenti su lungo periodo e che la caccia alle Streghe ne rappresenta un
determinato momento; qualora si trattasse di un fenomeno economico potremmo
utilizzare i due termini oppositivi utilizzati da Pierre Chaunu, uno degli storici del Les
Annales: si potrebbe definire, col termine di structure il fenomeno sociale della
stregoneria, e con quello di conjoncture l’avvenimento della caccia alle Streghe, perché
possibile da delimitare mediante precise coordinate geo-storiche
FINE

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