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CAPITOLO PRIMO
Si è giunti alla nascita dell’UE così come modernamente intesa, attraversa una serie di
tappe che meritano una certa attenzione.
Infatti:
Nel 1951, con la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio
(CECA), viene data la possibilità agli Stati membri di continuare la cooperazione
in altri campi. Viene in essere l’idea di un’Europa funzionale.
Dopo la CECA, con i Trattati di Roma del 1957, sono nate altre due Comunità: la
Comunità economica europea (CEE), denominata CE, e la Comunità europea per
l’energia atomica (CEEA o EURATOM). Quest’ultima nasce con l’obiettivo di
contribuire allo sviluppo dell’uso pacifico dell’energia nucleare.
La CECA si è estinta nel luglio 2002, poiché non è stato prorogato il termine di
scadenza previsto nel Trattato che l’aveva istituita.
L’obiettivo centrale del Trattato CE era in origine quello di realizzare un
mercato comune, dove fosse assicurata la libera circolazione delle merci, con
l’eliminazione dei dazi doganali e di tutte le altre restrizioni al commercio fra
gli Stati membri. Ai cittadini di uno Stato membro erano conferite la libertà di
esercitare un’attività lavorativa in altri Stati membri e quella di prestarvi
servizi. Era, allo stesso modo, riconosciuta la libertà di trasferire capitali in tali
Stati in quanto funzionale allo svolgimento di attività economiche.
I Trattati istitutivi delle Comunità europee hanno subito numerose modifiche, oltre
che con i trattati per l’adesione di nuovi Stati membri, con ulteriori trattati. Il
Trattato sull’UE (TUE) adottato a Maastricht non si è limitato a modificare il
Trattato CE ma ha disciplinato la cooperazione fra gli Stati membri in alcune materie.
Inoltre, grazie ad esso, è stata creato l’UE, destinata a ricomprendere in un unico
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quadro generale le varie forme di cooperazione poste in essere dagli Stati membri.
All’interno dell’UE, si distinguevano tre pilastri:
Il primo, costituito dalle Comunità europee, era regolato dal Trattato CE e dal
Trattato EURATOM ed aveva ad oggetto le numerose materie di competenza
comunitaria.
Il secondo pilastro, invece, regolato dal TUE, riguardava la politica estera e di
sicurezza comune
Il terzo pilastro, infine, regolato dal TUE, concerneva la cooperazione di polizia
e giudiziaria in materia penale.
integrazione non può dirsi concluso. Inizialmente, erano parte della CE, sei Stati;
successivamente, si sono aggiunti altri Stati membri, grazie ai trattati di adesione e
altri, stanno intrattenendo negoziati di adesione. Il Trattato sull’UE, infatti, prevede
che qualsiasi Stato europeo che rispetti i valori dell’UE e che si impegni a promuoverli
possa aderire, secondo un procedimento che attribuisce un ruolo alle istituzioni
politiche dell’UE e richiede la conclusione di un accordo soggetto alla ratifica di tutti
gli Stati membri. L’allargamento, senza dubbio, ha comportato comunque delle tensioni
a livello europeo nonché motivo di aggravamento delle difficoltà già presenti a livello
decisionale. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà nell’ottenere il voto unanime degli
Stati membri ai fini decisionali.
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Nel Trattato sull’UE non figura il termine federale per designare lo stato attuale della
costruzione europea e nemmeno per indicare una sua possibile evoluzione. Questo
termine non era stato utilizzato nemmeno dalla Costituzione europea e dal punto di
vista giuridico, non avrebbe determinato conseguenze concrete. Rispetto al
federalismo così come modernamente inteso, l’UE non ha una funzione di governo
dell’insieme del territorio degli Stati membri o di parte di tale territorio ma svolge
principalmente una funzione di indirizzo della condotta degli Stati membri. Inoltre,
l’UE non dispone di un apparato centrale in grado di esercitare materialmente un
potere coercitivo nei confronti degli Stati membri. Neppure rispetto alle persone,
l’UE può esercitare direttamente dei poteri coercitivi. L’articolo 47 TUE enuncia che
l’UE ha personalità giuridica. Con il Trattato di Lisbona, infatti, l’UE ha acquisito la
personalità internazionale della Comunità , subentrando nei diritti e negli obblighi di
essa anche nei confronti degli Stati terzi. La circostanza che le funzioni di governo
del territorio spettino tuttora agli Stati membri implica che quando uno Stato
membro tenga un comportamento per dare attuazione ad una normativa dell’UE, tale
comportamento sia da ritenersi proprio dello Stato, anche se posto in essere al fine di
adempiere ad un obbligo derivante dalla partecipazione all’UE. Sul piano
internazionale, inevitabilmente, ciò comporta che è sempre allo Stato stesso che è
attribuito il comportamento di un suo organo. Benchè lo Stato membro sia, quindi,
responsabile di un suo comportamento, che costituisca la violazione di un obbligo
internazionale, ciò comporta il venire in essere talvolta della responsabilità dell’UE.
Ciò avviene quando l’obbligo internazionale sia posto anche all’Unione e la norma
europea vincoli il comportamento dello Stato membro, al punto da non lasciargli la
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facoltà di tenere un comportamento che sia lecito sul piano internazionale. Quando,
invece, il comportamento è tenuto da un organo dell’UE, sarà responsabile l’UE della
violazione di un obbligo internazionale ad essa imposto. Ci si domanda, tuttavia, se in
questi casi, gli Stati membri concorrano o meno in termini di responsabilità: la
questione è, senza dubbio, controversa. Con il Trattato di Lisbona, sono state
introdotte nel Trattato sull’UE varie disposizioni che tendono a preservare le
competenze degli Stati membri. Si è, prima di tutto, chiarito che qualsiasi competenza
non attribuita all’UE nei Trattati appartiene agli Stati membri. Tale disposizione, ai
fini applicativi, ha però scarsa importanza dal momento che l’atto adottato dalle
istituzioni al di fuori delle competenze attribuite è illegittimo per vizio di
incompetenza. L’UE, inoltre, rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, compreso
il sistema della autonomie locali e regionali. Allo stesso modo, l’UE rispetta le funzioni
essenziali dello Stato, in modo tale da preservare un minimo di poteri agli Stati
membri. L’articolo 48 TUE ritiene che i Trattati modificativi potranno non solo
accrescere ma anche ridurre le competenze attribuite all’Unione nei Trattati. Il
merito del Trattato di Lisbona è stato comunque quello di garantire una quota di
poteri statali, così come dimostra la sentenza n.3047/1993 emessa dalla Corte
costituzionale tedesca. Essa ritiene che gli Stati membri siano padroni dei trattati in
quanto possono, esprimendo una volontà contraria all’atto di ratifica o di adesione, ai
trattati istitutivi, far venir meno la loro partecipazione all’Unione. Secondo la Corte
tedesca, uno Stato membro potrebbe provvedere in tal senso anche in modo
unilaterale. Tale orientamento trova oggigiorno conferma nell’articolo 50 del Trattato
di Lisbona, in cui si ritiene che ogni Stato membro possa decidere, conformemente
alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’UE. Ovviamente alla base del
recesso, vi deve essere un accordo che eviti in tutti i modi possibili, condizioni
pregiudizievoli per l’UE.
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LA CITTADINANZA DELL’UNIONE
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CAPITOLO SECONDO
LE ISTITUZIONI POLITICHE
La struttura dell’UE si compone di vari organi che hanno il compito di realizzare i fini
dell’organizzazione, enunciati dal Trattato sull’UE. Ai principali organi dell’UE è
attribuita nel Trattato la qualifica di istituzione, che è riferita al Consiglio europeo, al
Consiglio, al Parlamento europeo, alla Commissione, alla Corte di giustizia, alla Banca
centrale europea e alla Corte dei conti. Tale qualifica comporta una serie di
prerogative di fondamentale importanza, fra cui la possibilità di proporre ricorsi
dinanzi alla corte di giustizia nei confronti di atti adottati da altre istituzioni. Alcune
istituzioni vengono indicate come istituzioni politiche, in maniera tale da poterle
contrapporre, per le loro funzioni, alle istituzioni giudiziarie. La funzione legislativa,
fra le istituzioni politiche, viene ripartita tra il Parlamento europeo e del Consiglio
mentre la Commissione detiene funzioni sia normative che di carattere esecutivo;
infine, il Consiglio europeo svolge essenzialmente un ruolo di indirizzo dell'attività di
altre istituzioni politiche. I vari Trattati, che hanno modificato il Trattato CE, hanno
innovato in modo significativo il sistema istituzionale, estendendo i poteri del
Parlamento europeo attraverso nuove procedure per l'adozione degli atti e
prevedendo la maggioranza qualificata, invece dell'unanimità, per l'approvazione di
gran parte delle delibere da parte del Consiglio. Per effetto di tali modifiche,
l'assetto istituzionale tende ad avvicinarsi sempre più al modello delle democrazie
rappresentative.
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IL CONSIGLIO EUROPEO
Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal
suo presidente e dal presidente della Commissione. Da sempre, tale organo si è
identificato come la sede nel cui ambito gli Stati membri provvedono ad un esame
periodico delle questioni pendenti di rilievo maggiore per lo sviluppo dell’Unione con la
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IL CONSIGLIO
Il Consiglio rappresenta una replica minore del Consiglio europeo, dal momento che
esso esprime la volontà dei governi degli Stati membri ma si differenzia da
quest'ultimo per le funzioni che gli sono attribuite. Il Consiglio possiede anzitutto
una funzione normativa, che esercita insieme al Consiglio europeo, secondo varie
procedure. Nessun atto normativo può essere adottato in assenza di una delibera
favorevole da parte del Consiglio, tanto che il ruolo ricoperto da tale istituzione
risulta essere, sotto questo punto di vista, di fondamentale importanza. Inoltre, il
Consiglio ha poteri rilevanti nell'ambito dell'approvazione del bilancio dell'Unione
nonché nella definizione delle politiche e nel loro coordinamento alle condizioni
stabilite nei Trattati. Esso , inoltre, stabilisce lo statuto dei comitati previsti dai
Trattati e ha il potere di adottare raccomandazioni. Può esercitare funzioni esecutive
in casi specifici debitamente motivati nonché in materia di politica estera e di
sicurezza comune. Da un punto di vista strutturale, è composto da tanti membri quanti
sono gli Stati membri dell'Unione ed è anche esso espressione dei governi. Partecipa
alle riunioni del Consiglio, infatti, un rappresentante di ciascuno Stato membro che in
nome di esso, esercita il diritto di voto. Il Consiglio si riunisce in varie formazioni. Le
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cittadini circa la posizione assunta dai governi. Per le attività legislative è mantenuto
il modo di procedere che riflette in parte la tradizione di segretezza propria dei
negoziati internazionali fra governi. Infatti, si ritiene che sia molto più semplice
raggiungere soluzioni attraverso la discussione pubblica e perciò più libera. Tuttavia,
anche in questi casi, le difficoltà non mancano tanto che risulta essere
particolarmente difficoltoso dar vita ad una vera e propria discussione a causa del
numero elevato dei membri del Consiglio, dell'uso di una varietà di lingue e del fatto
che nell'atteggiamento dei ministri spesso prevalgono le preoccupazioni per le
conseguenze politiche che le delibere possono avere sul piano nazionale. In Italia, i
regolamenti parlamentari permettono alle Camere la possibilità di discutere gli atti
del Consiglio prima che siano adottati. La circostanza che il Parlamento partecipi alla
formazione delle scelte che il governo esprime nel Consiglio si ricollega al potere più
generale di indirizzo che nel sistema costituzionale italiano il Parlamento ha in materia
normativa. La legge n. 234/2012 prevede che i competenti organi parlamentari
possano formulare osservazioni e adottare ogni opportuno atto di indirizzo al governo
in merito ai progetti di atti dell'Unione e agli atti preparatori. È previsto dalla stessa
legge che il governo apponga in sede di Consiglio la cosiddetta riserva d'esame
parlamentare, qualora le Camere abbiano iniziato l'esame di un progetto o atto
preparatorio oppure quando, data l'importanza del progetto, il governo decida di
chiedere agli organi parlamentari di esprimersi. Nel caso venga apposta tale riserva, il
governo deve chiedere il rinvio della discussione o delibera del Consiglio al fine di
poter prendere atto della posizione delle Camere. Dal momento che, inoltre, l'attività
dell'Unione europea interessa in molti casi materie di competenza delle Regioni,
sussiste l'esigenza che anche quest'ultime possano influire sulla posizione espressa
dal governo in sede di Consiglio. L'articolo 117 comma 5° della Costituzione stabilisce
che le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipino alle decisioni dirette all'approvazione degli atti normativi
comunitari. In tali materie, tali enti concorrono alla formazione degli atti comunitari,
partecipando, nell'ambito delle delegazioni del governo, delle attività del consiglio e
dei gruppi di lavoro dei comitati del Consiglio e della Commissione europea, secondo
modalità da concordare in sede di conferenza Stato-regioni che tengano conto delle
particolarità delle autonomie speciali e garantiscano l'unitarietà della
rappresentazione della posizione italiana da parte del capo delegazione designato dal
governo. Inoltre, le Regioni e le Province autonome possono trasmettere osservazioni
al governo, ai fini della formazione della posizione italiana e possono richiedere la
convocazione della conferenza Stato regioni per cercare di raggiungere un'intesa
sotto questo punto di vista.
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LA COMMISSIONE
casi previsti dai Trattati. La Commissione spesso adotta le proprie delibere senza
voto. Se si procede al voto, le deliberazioni della Commissione sono prese a
maggioranza dei suoi membri. I membri della Commissione sono attualmente di numero
ari a quello degli Stati membri. Il TUE ha previsto che dal 1° novembre 2014 essa
dovrebbe essere composta da un numero di membri corrispondente ai 2/3 del numero
degli Stati membri, compresi il presidente e l’alto rappresentante dell’Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza. Tale regime richiederebbe di porre in essere
un meccanismo di rotazione paritaria fra gli Stati membri, che consenta di riflettere
la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri. E’ tuttavia previsto che il
Consiglio europeo, decidendo all’unanimità, possa modificare il numero dei commissari.
Segretario generale
Direzioni generali
Servizi
Uffici.
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IL PARLAMENTO EUROPEO
Esso è composto da rappresentanti dei cittadini dell’Unione che sono eletti a suffragio
universale diretto, libero e segreto, per un mandato di 5 anni. Si tiene conto
dell’entità della popolazione di ciascuno Stato membro, ai fini della ripartizione dei
seggi. Il Parlamento non può essere composto da più di 750 membri (oltre al
presidente) e ciascuno Stato membro non può vedersi assegnati più di 96 seggi o meno
di 6 (trattasi del cosiddetto principio della proporzionalità degressiva). La
composizione del Parlamento è stabilita da una decisione adottata all’unanimità dal
Consiglio europeo con l’approvazione dello stesso Parlamento. Mentre i Trattati
istitutivi stabilivano originariamente che l’elezione del Parlamento europeo a suffragio
universale diretto si svolgesse secondo una procedura uniforme, le prime elezioni si
sono tenute nel 1979 in base ad una procedura che ciascuno Stato membro ha stabilito
e non si è giunti sinora ad adottare un sistema elettorale uniforme. L’articolo 223
TFUE prevede che il Parlamento elabori un progetto volto a consentire l’elezione dei
suoi membri secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri oppure secondo
principi comuni a tutti gli Stati membri. Spetta al Consiglio adottare all'unanimità,
previa approvazione del Parlamento, le disposizioni necessarie che entrano in vigore
previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle loro rispettive norme
costituzionali. Gli ostacoli principali nel giungere ad una procedura uniforme derivano
principalmente dalle diverse modalità con cui si svolgono nei diversi Stati membri, le
elezioni nazionali, regionali e locali. Alcuni principi comuni sono stati stabiliti dall'Atto
relativo all'elezione di rappresentanti nel Parlamento europeo a suffragio universale
diretto, adottato dagli Stati membri il 20 settembre 1976. È stato inoltre previsto
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che la data dell'elezione del Parlamento europeo debba cadere entro uno stesso lasso
di tempo compreso fra la mattina del giovedì e la domenica immediatamente
successiva, con la precisazione che le operazioni di spoglio delle schede di voto
possono aver inizio soltanto dopo la chiusura dei seggi dello Stato membro in cui gli
elettori votano per ultimi. È stato imposto il divieto del cosiddetto doppio mandato,
per cui la carica di parlamentare europeo è incompatibile con quella di membro di un
Parlamento nazionale; l'elezione deve avvenire a scrutinio di lista o uninominale
preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale, mantenendo complessivamente
il carattere proporzionale del voto. Sono stati quindi stabiliti alcuni principi comuni
che da un lato tendono a favorire il sistema proporzionale anche se la perdurante
mancanza di una procedura uniforme ha come importante conseguenza che, essendoci
un distinto sistema elettorale in ciascuno Stato membro, non hanno rilievo eventuali
collegamenti tra partiti o candidati in Stati membri. I partiti attualmente costituiti a
livello europeo, oltretutto, si configurano piuttosto come organismi di collegamento
fra partiti politici che operano sul piano nazionale. Il Parlamento, inoltre, delibera a
maggioranza dei suffragi espressi a meno che non venga diversamente stabilito dai
trattati. Il regolamento interno del Parlamento stabilisce la procedura di nomina del
presidente e di 14 vicepresidenti, che compongono insieme l'ufficio di presidenza. È
prevista anche la costituzione di gruppi parlamentari secondo le affinità politiche. Per
la costituzione del gruppo occorre un numero minimo di 25 deputati eletti in almeno un
quarto degli Stati membri. All'interno di ciascun gruppo politico, la nazionalità
costituisce talora un fattore di divisione. Anche il Parlamento europeo ha un proprio
segretariato generale, con circa 5000 dipendenti che operano soprattutto in
Lussemburgo e a Bruxelles.
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I Trattati istitutivi prevedono varie procedure per l’adozione degli atti normativi,
sulla base delle quali il ruolo delle situazioni politiche si articola diversamente,
riservando ad esse poteri più o meno significativi. Ogni disposizione dei Trattati che
attribuisce poteri normativi ad una certa istituzione indica quale procedura deve
essere seguita per l’adozione degli atti. In altre parole, la norma che conferisce il
potere, indica anche le modalità di esercizio dello stesso. L’articolo 48 par.7 TUE che
attribuisce al Consiglio europeo il potere di consentire l’adozione di atti secondo la
procedura legislativa ordinaria nei casi nei quali i Trattati prevedono il ricordo ad una
procedura speciale. Il TFUE prevede una procedura legislativa ordinaria, che consiste
nell’adozione congiunta di un atto da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su
proposta della Commissione. Tale procedura prende avvio con la presentazione al
Parlamento e al Consiglio da parte della Commissione di una proposta di atto
normativo. La procedura così avviata può prevedere sino ad un massimo di tre diverse
letture, da parte del Consiglio e del Parlamento. Nel corso della prima lettura, il
Parlamento adotta una posizione e la trasmette al Consiglio; se quest’ultimo approva
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tale posizione, l’atto viene adottato nei termini risultanti dalla posizione stessa. Se,
invece, il Consiglio non approva la posizione del Parlamento europeo, esso adotta una
sua posizione e la trasmette al Parlamento. Si apre allora la seconda lettura, nel corso
della quale la posizione del Consiglio si trasforma in un atto quando il Parlamento
l’approvi oppure quando esso non si pronunci nel termine di 3 mesi dalla comunicazione
della stessa posizione. Se, invece, il Parlamento respinge tale posizione a maggioranza
dei membri che lo compongono, l’atto proposto si considera non adottato. Qualora il
Parlamento, sempre alla stessa maggioranza, abbia formulato emendamenti rispetto
alla posizione del Consiglio, quest’ultimo potrà adottare l’atto solo in un’ipotesi che si
verificherà difficilmente; quella in cui il Consiglio a maggioranza qualificata approvi
tutti gli emendamenti del Parlamento. Occorre tuttavia l’unanimità per gli
emendamenti rispetto ai quali la Commissione ha dato parere negativo. Quando il
Consiglio non accetti gli emendamenti, è convocato un comitato di conciliazione, che
riunisce i membri del Consiglio o i loro rappresentanti e altrettanti rappresentanti il
Parlamento europeo, con il fine di giungere ad un accordo su un progetto comune a
maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a
maggioranza dei rappresentanti il Parlamento europeo. Il comitato ha sei settimane di
tempo per approvare un progetto comune. Se non si riesce ad approvare il progetto,
l’atto si considera non adottato. Se invece il comitato approva un progetto comune, è
avviata la terza lettura nella quale il Parlamento e il Consiglio dispongono di un
termine, anch’esso di sei settimane, per adottare l’atto in questione in base al
progetto comune. Il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei voti espressi e il
Consiglio a maggioranza qualificata. Se non è così approvato, l’atto si considera non
adottato. Il ruolo della Commissione appare significativo in primo luogo in ragione del
suo potere di formulare la proposta dell’atto. Nella prassi, la Commissione elabora le
proprie proposte, tenendo conto delle prospettive che le proposte stesse hanno di
essere accolte da parte del Consiglio. Essa si avvale anche della collaborazione di
esperti che sono di regola funzionari degli Stati membri. La Commissione, inoltre,
esercita una certa influenza, in quanto essa può modificare la propria proposta in ogni
fase delle procedure che portano all’adozione di un atto dell’Unione. Si tratta di un
potere significativo, quando l’atto può essere adottato dal Consiglio a maggioranza,
perché allora il Consiglio può emendare la proposta solo deliberando all’unanimità. In
questo modo, la Commissione può, modificando la propria proposta, consentire
l’adozione di un atto da parte dl Consiglio a maggioranza. Un ruolo particolarmente
significativo può essere svolto anche nel comitato di conciliazione al fine di individuare
una soluzione accettabile sia dal Parlamento che dal Consiglio.
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Nei casi specifici previsti dai Trattati, sono poi definite delle procedure legislative
speciali che prevedono l’adozione di atti da parte del Parlamento europeo con la
partecipazione del Consiglio o da parte di quest’ultimo con la partecipazione del
Parlamento europeo. L’ipotesi in cui un atto sia adottato dal Parlamento con la
partecipazione del Consiglio è prevista raramente e in genere per delibere di
carattere organizzativo. E’ invece frequente l’ipotesi in cui un atto del Consiglio sia
adottato con la partecipazione del Parlamento. Tale partecipazione può esplicarsi
attraverso due differenti modalità. La prima richiede l’approvazione da parte del
Parlamento ed è prevista per l’adozione di atti sulla base dell’articolo 352 TFUE e al
fine di stabilire una procedura elettorale uniforme. Il Parlamento, sotto questo punto
di vista, potrà, negando la sua approvazione, impedire l’adozione dell’atto ma non potrà
incidere altrimenti sul suo contenuto. La seconda modalità prevede che il Parlamento
sia soltanto consultato sulla proposta dell’atto, come previsto dall’articolo 113 TFUE.
La consultazione implica che il Parlamento abbia il potere di esprimere la sua posizione
in merito all’atto proposto solo attraverso un potere che non è vincolante. Il parere
incide generalmente poco sul contenuto dell’atto, anche perché quando esso giunge al
Consiglio di solito gli Stati membri hanno già provveduto a discutere ampiamente la
proposta, normalmente nell’ambito del Comitato dei rappresentanti permanenti. La
Corte di Giustizia ha valorizzato il ruolo consultivo del Parlamento, affermando che
quando i Trattati prevedono la consultazione obbligatoria, l’atto adottato dal Consiglio
in assenza del parere del Parlamento è illegittimo. Non è posto un termine al
Parlamento per fare il proprio parere anche se in virtù del principio di leale
cooperazione, non sono ammesse tempistiche troppo lunghe.
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esaminata la relazione della Corte dei conti, dà atto alla Commissione dell'esecuzione
del bilancio, eventualmente presentando delle proprie osservazioni. Tale delibera è
detta atto di discarico e costituisce una forma di controllo politico sull'operato della
Commissione.
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L’articolo 31 TUE prevede l'unanimità per tutte le delibere fondate sul titolo V, fatte
salve le eccezioni previste dal Trattato ed esclude l'adozione di atti legislativi. Le
astensioni non impediscono l'adozione all'unanimità delle delibere. È previsto, sotto
questo punto di vista, l'istituto dell'astensione costruttiva: uno Stato membro può
motivare la propria astensione con una dichiarazione formale rispetto ad una
decisione, con la conseguenza che esso non è obbligato ad applicare la decisione ma
accetta che essa impegni l’Unione. Nei pochi casi in cui è previsto che il Consiglio
deliberi a maggioranza qualificata, è tuttavia stabilito che se uno Stato membro
dichiara che, per motivi di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una
decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si proceda alla votazione e della
questione può essere eventualmente investito il Consiglio europeo. Con il trattato di
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CAPITOLO TERZO
LE ISTITUZIONI GIUDIZIARIE
INTRODUZIONE
Corte di Giustizia
Tribunale
Tribunali specializzati.
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Il TUE prevede che la Corte di giustizia sia composta da un giudice per Stato membro
e il Tribunale da almeno un giudice per Stato membro. Ciò comporta che, mentre il
numero dei componenti della Corte è predefinito, il numero dei giudici del Tribunale
potrebbe essere aumentato attraverso la modifica dello statuto, in particolare
qualora il carico di lavoro lo renda necessario. I giudici della Corte di giustizia e del
Tribunale, nonché gli avvocati generali, sono scelti tra personalità che offrono tutte le
garanzie di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste dagli articoli 253 e
254 TFUE. Tali articoli prevedono che i giudici della Corte e gli avvocati generali
riuniscano le condizioni richieste per l'esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte
funzioni giurisdizionali o che siano giureconsulti di notoria competenza. Per i giudici
del Tribunale è invece posto un requisito un po' meno rigoroso, richiedendo che si
possiedano la capacità per l'esercizio di alte funzioni giurisdizionali. I giudici della
Corte e del Tribunale nonché gli avvocati generali sono nominati di comune accordo per
sei anni dai governi degli Stati membri. Ogni Stato membro, per nominare i propri
giudici, deve prima consultare un comitato, composto da sette membri tra i membri
della Corte di giustizia e del Tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali
nazionali e i giuristi di notoria competenza, uno dei quali è proposto dal Parlamento
europeo. Il comitato ha il compito di rendere un parere sull'adeguatezza dei candidati
all'esercizio delle funzioni di giudice e di avvocato generale della Corte di giustizia e
del Tribunale, prima che i governi degli Stati membri procedano con le nomine. Tale
procedura tende a verificare che i componenti designati possiedano le competenze
tecniche necessarie per lo svolgimento della loro funzione. La procedura di nomina
prospetta la questione dell'indipendenza dei giudici, tanto più che il loro mandato è
rinnovabile e in effetti è spesso rinnovato. I giudici, inoltre, devono giurare di
esercitare le loro funzioni in modo imparziale e secondo coscienza. Ciascun giudice,
tuttavia, sarà sensibile agli interessi dello Stato di appartenenza. Ovviamente la
misura in cui egli si preoccuperà di difendere gli interessi del proprio Stato di
appartenenza varierà non poco a seconda della sua personalità e delle circostanze. In
effetti, dunque, alla luce di tutto ciò, la questione dell'indipendenza assume rilievo
soltanto in poche cause. Accanto ai giudici, operano nella Corte di giustizia, gli
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I giudici, nel loro ambito, designano il presidente della Corte o del Tribunale, il
cui mandato è triennale e rinnovabile. La Corte di giustizia opera normalmente in
sezione, composte da tre o cinque giudici. Attualmente, sono costituite otto sezioni,
per cui non è prevista alcuna specializzazione, nonché una grande sezione, composta da
15 giudici, a cui sono deferite le cause quando lo richieda uno Stato membro p
un'istituzioni dell'Unione che è parte in causa. In casi molto particolari, la Corte si
riunisce in seduta plenaria. L'attività della Corte è disciplinata, oltre che dalle
disposizioni dei Trattati e dallo statuto, anche dal regolamento di procedura, adottato
dalla stessa Corte ma sottoposto all'approvazione del Consiglio che delibera a
maggioranza qualificata. Anche il Tribunale si riunisce in sezioni e ha un proprio
regolamento di procedura, che è stabilito dallo stesso Tribunale di concerto con la
Corte di giustizia ed è quindi sottoposto all'approvazione del Consiglio. Il regolamento
indica, fra l'altro, in quali casi il Tribunale procede in seduta plenaria anziché in una
sezione e in quali è designato un avvocato generale. Il Tribunale in origine non era
previsto. È stato istituito nel 1989, al fine di alleviare il carico giudiziario della Corte,
che nel contempo era divenuto assai gravoso. Prima del trattato di Lisbona, il
Tribunale veniva denominato Tribunale di primo grado. Adesso, gli sono state
gradualmente assegnate competenze sempre più ampie, tanto che sono di sua
competenza, i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche, mentre sono di
competenza della Corte, i ricorsi presentati dalle istituzioni dell’UE e dagli Stati
membri. Precisamente, il Tribunale è competente a conoscere di tutti i ricorsi di
annullamento e di risarcimento del danno, fatti salvi i casi in cui i ricorsi siano
riservati alla Corte di giustizia oppure ad un tribunale specializzato. Sono di
competenza della Corte, invece, i ricorsi proposti da uno Stato membro contro un atto
oppure un'astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo, del Consiglio e di tali
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L’articolo 256 par.3 TFUE prevede che possa essere affidata al Tribunale la
competenza ad esaminare questioni pregiudiziali sollevate dai giudici nazionali, in
materie specifiche determinate dallo statuto. Tuttavia, dal momento che vi è il rischio
che tali decisioni possano essere riesaminate dalla Corte, vi è il pericolo che si
prolunghi il tempo necessario per definire una questione sollevata dal giudice
nazionale. Inoltre, un altro inconveniente dell'attribuzione al Tribunale di questa
competenza, è nella circostanza che, quando la Corte non possa o non intenda
riesaminare la decisione del Tribunale, non per questo tale decisione vincolerebbe la
Corte qualora la stessa questione dovesse esserle sottoposta in una successiva
occasione. Pertanto, la decisione da parte del Tribunale della questione sollevata dal
giudice nazionale lascerebbe incerta la soluzione sul piano più generale. La possibilità
di impugnare le sentenze del Tribunale è riconosciuta, a certe condizioni, oltre che
alle istituzioni dell'Unione e agli stati membri, anche alle parti in giudizio. Le decisioni
del Tribunale saranno soggette ad impugnazione dinanzi alla Corte di giustizia per soli
motivi di diritto e alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo statuto. Lo statuto
consente l’ impugnazione, entro due mesi dalla notifica della decisione del tribunale, a
qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente nelle sue
conclusioni, agli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione, anche se non sono
intervenuti nel procedimento dinanzi al Tribunale e infine a coloro che sono
intervenuti nel giudizio per la parte della decisione che li riguarda direttamente.
L'impugnazione è ammessa se fondata su motivi relativi all’incompetenza del
Tribunale, a vizi della procedura dinanzi al Tribunale, recanti pregiudizio agli interessi
della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto dell’UE da parte del
Tribunale. Non può essere sollevato dinanzi alla Corte, da una parte del giudizio di
appello, un motivo che non era stato dedotto dinanzi al Tribunale, giacché questo
equivarrebbe a consentire di sottoporre alla Corte una controversia più ampia di quella
cui era stato investito il Tribunale. Quando l'impugnazione è accolta, la Corte annulla
la decisione del Tribunale. La Corte può statuire definitivamente nel merito, qualora lo
stato degli atti lo consenta oppure rinviare la causa al Tribunale affinché sia decisa da
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quest'ultimo, in conformità con la decisione emessa dalla corte sui punti di diritto. La
soluzione del rinvio al Tribunale diviene necessaria quando si ritenga essenziale
procedere a nuovi accertamenti di fatto, come nel caso in cui ad esempio secondo la
Corte debba essere applicata una norma diversa da quella considerata applicabile dal
Tribunale e alcuni fatti non siano stati accertati da quest'ultimo in quanto rilevanti
soltanto secondo la norma successivamente indicata dalla Corte. Il Parlamento europeo
e il Consiglio possono istituire dei tribunali specializzati incaricati di conoscere in
primo grado alcune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche. La proposta di
istituire un tribunale specializzato può provenire dalla Commissione oppure dalla
Corte di giustizia. I membri dei tribunali specializzati sono scelti fra persone che
offrono tutte le garanzie di indipendenza e possiedono determinate capacità in merito
all'esercizio di funzioni giurisdizionali. Fino a questo momento, è stato istituito un solo
tribunale specializzato, ossia il Tribunale della funzione pubblica dell'Unione
europea, composto da sette giudici, competente a pronunciarsi sulle controversie fra
l'Unione europea e sui dipendenti. Le decisioni dei tribunali specializzati possono
essere impugnate dinanzi al Tribunale per i soli motivi di diritto o qualora il
regolamento sull'istituzione del tribunale specializzato lo preveda, anche per motivi di
fatto.
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Una delle principali competenze della Corte di giustizia riguarda i ricorsi proposti nei
confronti di uno Stato membri per violazione di obblighi posti da norme dell’Unione. La
violazione può dipendere dal comportamento degli organi centrali dello Stato come da
quello di qualsiasi altro organo o anche di un ente pubblico territoriale;
particolarmente frequente è l’inadempimento dell’obbligo di attuare direttive. I
ricorsi possono essere proposti dalla Commissione oppure da un altro Stato membro.
Questa seconda ipotesi, tuttavia, si è verificata raramente. Per la Commissione, come
per gli Stati membri, proporre ricorso per infrazione è oggetto di una facoltà, di un
potere discrezionale. L’esistenza di una violazione di obblighi è spesso segnalata alla
Commissione da persone fisiche o giuridiche interessate. La Commissione presta per lo
più la sua attenzione alla tempestiva attuazione delle direttive e avvia un
procedimento solo in presenza di violazioni che essa considera sostanziali. Ciò significa
che lievi ritardi nell’inadempimento di obblighi oppure divergenze di contenuto di
scarso rilievo vengono di fatto tollerati. Il procedimento di cui all’articolo 258 TFUE
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prende inizio con la contestazione dell’infrazione da parte della Commissione, che invia
allo Stato ritenuto inadempiente una lettera detta di intimazione o di addebito, dando
così avvio alla fase pre-contenziosa. A tale contestazione, lo Stato membro può
replicare con le proprie osservazioni. Una volta esaminate quest’ultime o una volta
superato il termine assegnato allo Stato per formularle, la Commissione, se intende
proseguire, procede ad emanare un parere motivato, in cui indica ciò che lo Stato
dovrebbe fare per porre fine alla violazione, stabilendo un termine per l’adempimento.
Qualora lo Stato in causa non si conformi entro il termine prefissato, a tale parere, la
Commissione può adire la Corte di Giustizia, proponendo un ricorso e dando così avvio
alla fase contenziosa del procedimento. La competenza a conoscere dei ricorsi per
infrazione spetta esclusivamente alla Corte di Giustizia. L’oggetto del ricorso,
ovviamente, è circoscritto dal procedimento precontenzioso. La Commissione, tuttavia,
può tener conto nel ricorso di fatti successivi al parere, quando essi sono della
medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e costituiscono uno stesso
comportamento. Nulla esclude, tuttavia, che la Commissione proceda ad un’ulteriore
contestazione avviando un nuovo procedimento.
abbreviata è prevista dall’articolo 114, par.9, TFUE. Tale norma conferisce agli Stati
membri la facoltà di sospendere l’applicazione di misure di armonizzazione adottate
dall’Unione, applicando normative nazionali, giustificate da esigenze particolari.
Qualora uno Stato si avvalga di tale potere di deroga, la Commissione o un altro Stato
membro possono adire direttamente la Corte, nel caso in cui ritengano che ne sia
fatto un uso abusivo. Si prescinde, dunque, alla fase pre-contenziosa, in
considerazione della particolare urgenza di esperire il procedimento di infrazione. Se ,
a seguito di un ricorso per infrazione, la Corte abbia accertato la violazione di un
obbligo da parte di uno Stato membro, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti
che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta. La Corte ha indicato che tale
esecuzione deve essere iniziata immediatamente e deve concludersi entro termini il
più possibile ristretti. La pronuncia, ovviamente, comporta, per le autorità nazionali
competenti, l’assoluto divieto di applicare una disposizione nazionale dichiarata
incompatibile col Trattato e l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per
agevolare la piena efficacia del diritto comunitario. Più precisamente, spetta allo
Stato membro determinare le misure che consentano di assicurare la conformità agli
obblighi derivanti dai Trattati. Il vecchio Trattato CE non indicava, in passato, quali
rimedi potessero venire adottati nel caso di mancata esecuzione, da parte di uno
Stato membro, di una sentenza della Corte che ne avesse accertato la violazione di un
obbligo. La Commissione aveva più volte promosso nei confronti dello Stato
inadempiente un ulteriore procedimento, tendente ad accertare la violazione
dell’obbligo derivante dalla sentenza che aveva dichiarato l’infrazione. Il Trattato di
Maasticht ha delineato una procedura che si può concludere con l’inflizione di una
sanzione pecuniaria nei confronti dello Stato che non abbia posto fine alla violazione
accertata. La procedura è la seguente:
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Uno specifico procedimento è stato previsto in base al Trattato di Lisbona per il caso
in cui l’inadempimento consista nell’omessa comunicazione, da parte di uno Stato
membro, delle misure di attuazione di una direttiva adottata secondo una procedura
legislativa. In tale ipotesi, la Commissione può, se lo ritiene opportuno, già nel ricorso
per l’inadempimento di tale obbligo, indicare l’importo della somma forfettaria o della
penalità da versare da parte di tale Stato che essa consideri adeguata alle
circostanze. In sostanza, quindi, la sanzione pecuniaria può essere anticipata al
procedimento di infrazione relativo alla violazione dell’obbligo di comunicazione. Una
particolarità di questa procedura consiste nel fatto che la Corte potrà comminare la
sanzione entro i limiti dell’importo indicato dalla Commissione. Ciò limita la
discrezionalità della Corte nello stabilire il livello adeguato della sanzione. I mezzi
giurisdizionali che l’ordinamento dell’Unione offre attualmente in caso di
inadempimento di obblighi da parte di Stati membri forniscono una tutela non del
tutto adeguata dei correlativi diritti.
Uno strumento che può risultare in concreto più efficace del procedimento di
infrazione consiste nella possibilità per le persone fisiche o giuridiche di rivolgersi ai
giudici nazionali, per far valere la responsabilità dello Stato inadempiente qualora
ricorrano le condizioni indicate dalla Corte di giustizia. Ciò è rilevante non solo ai fini
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della tutela delle persone ma anche per l’incidenza che la proposizione di un numero
significativo di ricorsi può avere ai fini di indurre lo Stato di membro a provvedere
all’inadempimento. La responsabilità per danni dello Stato inadempiente sussiste
qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla
trasgressione. Essa, dunque, può sorgere anche quando la violazione dell’obbligo posto
dal diritto dell’Unione derivi da una sentenza emessa da un organo giurisdizionale
nazionale di ultima istanza che abbia violato in maniera manifesta tale diritto.
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Il TFUE prevede all’articolo 263 un sistema unitario per l’impugnazione degli atti delle
istituzioni dell’Unione, siano essi legislativi, esecutivi o dal carattere delegato. Sono
impugnabili gli atti legislativi, nonché gli atti adottati dal Consiglio, dalla Commissione,
dalla BCE, che non siano raccomandazioni o pareri e gli atti del Parlamento europeo e
del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.
Inoltre, il controllo di legittimità è esercitato anche sugli atti degli organi o organismi
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Per la tutela delle prerogative, deve intendersi una situazione in cui l'istituzione o
l’organo ha visto leso il ruolo che gli spetta nel procedimento normativo, come quando,
ad esempio, è stato adottato un atto senza provvedere alla consultazione prevista
obbligatoriamente dai Trattati. Mentre è prevista l'impugnazione di atti del Consiglio
europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi, tale istituzione
non è legittimato ad impugnare atti delle altre istituzioni. Esiste una particolare
forma di ricorso di annullamento per violazione, mediante un atto legislativo, del
principio di sussidiarietà. Si tratta di ricorsi proposti da uno Stato membro o
trasmessi da quest'ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno
al nome del suo Parlamento nazionale o di una sua Camera. La legittimazione dello
Stato membro prevista dal Protocollo non aggiunge nulla a quanto già stabilito in via
generale dell'articolo 263 TFUE. Ciò che può avere rilevanza è invece l'aspetto
interno relativo alla possibilità che il governo sia vincolato a proporre il ricorso a
seguito di una richiesta del rispettivo Parlamento. Questo vincolo è previsto anche
dalla legge 234/2012 e prevede che il governo debba presentare senza ritardo alla
Corte di giustizia dell'Unione Europea, i ricorsi deliberati dal Senato o dalla Camera
dei deputati. È, inoltre, previsto che la Camera che ha deliberato il ricorso stia in
giudizio per mezzo di chi ne ha la rappresentanza. Il Trattato non prevede nulla in
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merito alla legittimazione delle articolazioni interne degli Stati membri, in particolare
delle Regioni, a proporre ricorso di annullamento. La Corte ha negato che le Regioni
possano essere equiparate agli stati membri ai fini dell’impugnazione. Esse possono
agire in annullamento solo nella veste di persone giuridiche, dimostrando di possedere
i presupposti richiesti. Questa soluzione rende difficile la tutela diretta delle Regioni
nei confronti di atti dell'Unione, i quali possono limitare in modo significativo il loro
potere normativo. In questi casi, le Regioni potranno, piuttosto che intraprendere la
via dell'impugnazione dell'atto dinanzi al Tribunale, sollecitare il governo del
rispettivo Stato a proporre alla Corte un ricorso di annullamento. Anche le persone
fisiche e giuridiche possono impugnare atti dell'Unione. Una persona fisica o
giuridica può proporre, infatti, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti
che la riguardano direttamente e individualmente. Deve trattarsi di atti, ossia di
decisioni, che possono avere come destinatario una persona fisica o giuridica. Risulta
essere molto più complesso, invece, accertare i casi in cui un atto riguardi una persona
direttamente e individualmente. La Corte, a sua volta, ha ammesso che tali presupposti
sussistono quando l'atto di cui il soggetto non è destinatario, lo tocchi a causa di
determinate qualità personali o di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla
generalità e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari. La Corte, ad
esempio, ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da una ditta che aveva da lungo
tempo registrato un marchio e che si vedeva preclusa la possibilità di continuare ad
utilizzarlo a causa del regolamento comunitario che aveva proibito certe diciture sulle
etichette dei vini. In questo caso, la ricorrente aveva dimostrato l'esistenza di
particolari circostanze. Esistono dei casi in cui è ancora più evidente la circostanza
che la decisione adottata nei confronti di uno Stato membro colpisca direttamente e
individualmente una persona fisica o giuridica. Si pensi ad una decisione della
Commissione che dichiari illegittimo l'aiuto dato da uno Stato ad un'impresa e che
imponga di ripetere la somma versata. Non è difficile rilevare che l'impresa che ha
beneficiato dell'aiuto e che si vede costretta a restituirlo sarà direttamente e
individualmente interessata da tale decisione. A proposito dell'impugnazione di un
regolamento da parte di una persona fisica o giuridica, la Corte ha riconosciuto che,
sebbene l'impugnazione sia ammessa solo qualora la persona sia interessata non solo
direttamente ma anche individualmente da tale atto, tuttavia quest'ultimo requisito
deve essere interpretato alla luce del principio della tutela giurisdizionale. Si va,
dunque, tenendo conto delle diverse circostanze atte ad individuare un ricorrente.
Senza dubbio, il carattere effettivo della tutela giurisdizionale deve essere valutato
nel suo complesso, considerando i mezzi di ricorso offerti dal diritto dell'Unione ma
anche quelli presenti negli ordinamenti nazionali. Qualora non sia esperibile il ricorso
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di annullamento per difetto dei presupposti richiesti dalla legge, le persone hanno la
possibilità di far valere l'invalidità degli atti dell'Unione davanti ai giudici nazionali ed
indurre quest'ultimi a rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale. In questo modo, viene
garantito il rispetto del diritto alla tutela giurisdizionale effettivo. Questo
orientamento è stato confermato anche nel TUE, in cui si sottolinea che gli Stati
membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare la tutela
giurisdizionale effettivo di settori disciplinati dal diritto dell'Unione. Quando un atto
non sia impugnabile da una persona fisica o giuridica, il diritto alla tutela
giurisdizionale deve essere garantito attraverso i mezzi assicurati dagli ordinamenti
nazionali. Più precisamente, la persona fisica o giuridica potrà impugnare il
provvedimento nazionale di esecuzione di un regolamento e far valere l'illegittimità di
quest'ultimo nel giudizio nazionale, sollevando una questione di validità. Il giudice
potrà sottoporre tale questione alla Corte con un rinvio pregiudiziale; questo
meccanismo consente di ottenere indirettamente un esame della validità dell'atto da
parte della Corte. La Corte ha però limitato la possibilità di ricorrere a tale
meccanismo di tutela, ritenendo che quando una persona sia legittimata a proporre
ricorso dinanzi al tribunale, una volta decorso il termine per impugnare l'atto, essa non
può più far valere l'illegittimità nell’ambito di un procedimento dinanzi al giudice
nazionale. Dunque, chi può impugnare direttamente l'atto ma non agisce sul termine
stabilito, si vede preclusa la possibilità di contestare la legittimità di tale atto davanti
al giudice nazionale. La Corte ha successivamente chiarito la portata di tale principio,
fornendo una formulazione meno rigorosa. Nonostante ribadisca che la persona che
avrebbe potuto impugnare direttamente l'atto non può, decorso il termine per
l'impugnazione, invocare l’invalidità nel giudizio nazionale, ha però affermato che ciò
non esclude che, in quel giudizio, il giudice decida d'ufficio di porre la domanda di
validità in via pregiudiziale. La Corte ha ritenuto ricevibile una domanda relativa alla
validità di una decisione poiché la questione non è stata formulata su richiesta del
soggetto che, pur potendo proporre ricorso di annullamento avverso la medesima, non
lo abbia fatto nei termini previsti dalla legge. Essa è stata proposta d'ufficio dal
giudice della causa principale. In secondo luogo, un’ ulteriore attenuazione della
portata del principio suddetto, risulta dalle recenti sentenze in cui, al fine di valutare
se una persona potesse invocare l'invalidità di un atto in un giudizio nazionale, la Corte
ha considerato se tale persona fosse incontestabilmente legittimata ad impugnare
l'atto. Tale orientamento non afferma che la preclusione opera solo quando la persona
sia destinataria dell'atto ma sembra voler ridurre il grado di incertezza che comporta
l'applicazione del principio. La preclusione a contestare la validità di un atto in un
giudizio nazionale è limitata alle sole ipotesi in cui non potevano sussistere dubbi circa
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-in primo luogo, la Corte può controllare il rispetto dell'articolo 40 TUE, il quale
riguarda le relazioni tra la politica estera e di sicurezza, nonché le altre politiche
dell'Unione.
- In secondo luogo, la Corte può pronunciarsi sui ricorsi riguardanti il controllo della
legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone
fisiche o giuridiche, adottate dal Consiglio nell'ambito della politica estera e di
sicurezza comune.
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Con questi ricorsi, si è posto rimedio ad una situazione di lacuna nella tutela
giurisdizionale che si era evidenziata nella prassi. Infatti, è consentita l'impugnazione
diretta di tali atti, considerato anche che questi possono incidere in modo molto
significativo sui diritti delle persone, comportando una compressione dei loro diritti
fondamentali, come le misure che congelano beni di proprietà di persone sospettate di
terrorismo.
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La stessa disposizione prevede che quando uno Stato membro impugni un atto dinanzi
al Tribunale e un'istituzione impugni lo stesso atto dinanzi alla Corte, il Tribunale
declini la propria competenza finché la Corte possa statuire su tali ricorsi.
Generalmente, l'impugnazione di un atto non ha conseguenze sulla sua efficacia ma la
Corte può, qualora lo reputi opportuno, ordinare la sospensione dell'esecuzione
dell'atto impugnato. La legittimità di un atto dell'Unione può essere anche contestata
attraverso la procedura stabilita dall'articolo 277 TFUE, che concerne l'ipotesi in cui
il procedimento dinanzi ad un qualsiasi organo della Corte di giustizia dell'Unione
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IL RICORSO IN CARENZA
Perché il ricorso sia ricevibile occorre che l’istituzione, l'organo o l’organismo in causa
siano stati preventivamente richiesti di agire. Se allo scadere del termine di tre mesi
da tale richiesta, l'istituzione, l'organo o l’organismo non abbiano preso posizione, il
ricorso può essere proposto entro un nuovo termine di due mesi. Il procedimento
tende a far accertare la violazione dell'obbligo di pronunciarsi, da parte degli organi
giudiziari, con la conseguenza che l'istituzione, l'organo o l’organismo la cui astensione
sia stata dichiarata contraria ai Trattati, sono tenuti a prendere i provvedimenti che
l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea comporta .
L'attuazione da parte di un'istituzione politica di un obbligo di fare non è sempre
esigibile.
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l’intervento, in tal senso, della Corte. Si evita, oltretutto, attraverso il rinvio, che in
uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme
dell’UE. La violazione dell’obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza può
dar origine ad una responsabilità dello Stato membro per i danni causati alla parte del
giudizio. La nozione di organo giurisdizionale nazionale costituisce una questione di
diritto dell’Unione; spetta quindi alla Corte interpretarla. Nel concetto di giurisdizione
nazionale, non sono compresi, secondo la Corte, i tribunali arbitrali, la cui competenza
sia stata liberamente accettata dalle parti in luogo di quella dei giudici. Questa
soluzione limita in modo significativo l’attuazione del principio dell’uniformità
dell’interpretazione delle norme europee, dal momento che è deferita ad arbitri gran
parte delle controversie relative a contratti in materia commerciale. Inoltre, la
circostanza, evidenziata dalla Corte, che la domanda in via pregiudiziale possa essere
presentata dal giudice incaricato di controllare la decisione arbitrale non costituisce
una soluzione adeguata, anche a motivo del carattere solo eventuale di tale controllo e
della varietà dei sistemi di impugnazione dei lodi previsti negli ordinamenti nazionali.
In primo luogo, la Corte può, su richiesta del giudice nazionale, decidere in base
ad un procedimento accelerato, qualora le circostanze comprovino l’urgenza
straordinaria di statuire sulla questione proposta in via pregiudiziale.
In secondo luogo, per le questioni riguardanti determinate materie, il giudice
può chiedere che sia attivato un procedimento d’urgenza. Si pensi, ad esempio,
ai procedimenti riguardanti la potestà dei genitori e la custodia dei figli.
Sicuramente, negli ultimi anni, alcune tecniche, oltre che l’aumento del numero dei
giudici, ha contribuito notevolmente all’abbreviazione della durata del procedimento.
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La questione di validità può riguardare gli atti delle istituzioni, degli organi e
degli organismi dell'Unione. Non operano in proposito i criteri restrittivi relativi
all'impugnazione degli atti. Qualsiasi atto rilevante nel giudizio nazionale può essere
oggetto della questione. Non hanno, inoltre, alcuna rilevanza ai fini della proposizione
della domanda pregiudiziale, i termini per il ricorso di annullamento. Infatti, la
domanda può essere posta senza alcun limite temporale. Opera tuttavia la preclusione,
in relazione al rapporto tra impugnazione degli atti da parte delle persone e
contestazione della legittimità dell'atto in un giudizio nazionale. In una nota sentenza,
la sentenza TWD, la Corte ha escluso che la persona fisica o giuridica possa sollevare
in un giudizio nazionale la questione di legittimità di un atto che avrebbe potuto
impugnare. È inoltre rilevante come tale principio non implichi però un limite alla
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Quando si pone la distinzione fra norme da interpretare e norme chiare, sorge però
per l'interpretazione uniforme delle norme dell'Unione, il rischio che il giudice
nazionale invochi una pretesa chiarezza della norma per darne poi delle proprie
interpretazioni particolari. Nella sentenza CILFIT, la Corte, proprio per questo
motivo, ha cercato di introdurre alcune cautele per salvaguardare l'uniformità
dell'interpretazione.
Per quanto riguarda, invece, le questioni relative alla legittimità degli atti, la Corte
escluso che, rispetto all'obbligo del giudice di ultima istanza di proporre la questione,
possano operare dei limiti analoghi a quelli enunciati nella sentenza CILFIT, riguardo
all'interpretazione. Secondo la Corte, anche i giudici che non siano di ultima istanza,
possano esaminare la validità di un atto comunitario e, se ritengono infondati i motivi
di invalidità adotti dalle parti, possono respingerli, concludendo per la piena validità
dell'atto. In questo modo, non mettono in causa l'esistenza dell'atto comunitario. Al
contrario, essi non hanno il potere di dichiarare invalidi gli atti delle istituzioni
comunitarie. N.B Qualora un giudice non di ultima istanza ritenga che un atto
dell'Unione sia viziato, non potrà dichiarare l'invalidità ma dovrà necessariamente
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proporre una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia affinché sia
essa a valutare la legittimità dell'atto.
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Dei criteri analoghi si applicano nel caso in cui il giudice nazionale intenda concedere
provvedimenti provvisori che modifichino o disciplinino le situazioni di diritto o i
rapporti giuridici controversi in ordine ad un provvedimento amministrativo nazionale
fondato sul regolamento comunitario che forma oggetto di un rinvio pregiudiziale per
accertamento di validità. I casi nei quali il giudice può sospendere l'applicazione di un
atto dell'Unione sono stati indicati in modo alquanto rigoroso. In ogni caso, il giudice
deve indicare, al momento di concedere il provvedimento provvisorio, i motivi per cui
ritiene che la Corte sarà indotta a constatare l'invalidità dell'atto dell'Unione. Il
giudice nazionale deve valutare la rilevanza della questione di interpretazione di
legittimità, dato che egli può sollevarla e addirittura, se trattasi di un giudice di
ultima istanza, è obbligato a farlo, soltanto qualora la reputi necessaria per emanare la
sua sentenza. Una questione può assumere rilevanza che quando il giudice debba
applicare una norma nazionale sulla cui interpretazione quella della norma dell'Unione
abbia una certa influenza.
II, la Corte ha affermato che nel caso di questioni volte a consentire al giudice
nazionale di valutare la conformità col diritto comunitario di disposizioni di legge o
regolamenti di un altro Stato membro, la Corte deve vigilare in modo del tutto
particolare a che il procedimento di cui all’articolo 267 TFUE non venga utilizzato per
scopi non voluti dal Trattato. Sicuramente, al fine di ottenere un’interpretazione del
diritto comunitario che sia utile al giudice nazionale, occorre che quest’ultimo
definisca il contesto in fatto e in diritto in cui si inseriscono le questioni da esso
proposte o che spieghi le ipotesi in fatto su cui si basano suddette questioni.
Oltretutto, è importante che il giudice nazionale indichi le ragioni precise che l’hanno
indotto ad interrogarsi sull’interpretazione e sulla validità di determinate disposizioni
del diritto comunitario. Per facilitare una corretta formulazione delle questioni, la
Corte di giustizia ha adottato delle raccomandazioni, non vincolanti ovviamente,
dirette ad orientare i giudici nazionali attraverso una sintesi dei criteri enunciati nella
giurisprudenza.
Di centrale importanza è l’articolo 3 della l. n.204/1958, secondo cui gli organi della
giurisdizione ordinaria e speciale emettono ordinanza, con cui dispongono l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte di giustizia e sospendono il giudizio in corso.
L’ordinanza è inviata a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, alla cancelleria
della Corte di giustizia. Il rinvio può essere peraltro disposto dal giudice nazionale
anche d’ufficio. Si ritiene che debbono essere trasmessi alla Corte solo gli atti che
consentano alla stessa Corte di rendersi pienamente conto di quel che al giudice
nazionale occorre conoscere. Spetta, infatti, alla Corte di giustizia sulla base degli
elementi forniti dal giudice nazionale e sulla base della motivazione del provvedimento
di rinvio, gli elementi di diritto comunitario che necessitano di interpretazione.
L’ordinanza viene notificata a cura del cancelliere della Corte alle parti in causa, agli
Stati membri e alla Commissione, nonché all’istituzione, all’organo e all’organismo
dell’Unione che ha adottato l’atto in cui si contesta la validità o l’interpretazione. I
soggetti a cui l’ordinanza è notificata hanno il diritto di presentare alla Corte memorie
o osservazioni scritte nel termine di due mesi dalla notificazione.
rappresenta per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto
non valido ai fini di una decisione che esso debba emettere. Si è spesso parlato di un
effetto generale delle pronuncia resa dalla Corte di giustizia a titolo pregiudiziale,
quasi a pretendere che essa risolva una volta per tutte le questioni decise. Tuttavia,
non esiste nei giudizi nazionali diversi da quello in cui sono state sollevate le questioni,
un vincolo del giudice ad attenersi alla soluzione data dalla Corte. Il giudice di ultima
istanza è liberato dall'obbligo di deferire una questione alla Corte qualora intenda
conformarsi a quanto già deciso dalla stessa Corte. Egli può sollevare nuovamente la
questione e così possono fare altri giudici. La Corte non si considera, d'altra parte,
formalmente vincolata dai propri precedenti. In alcune sentenze, è anche accaduto
che la Corte abbia limitato la portata nel tempo di una propria pronuncia
sull'interpretazione in ragione delle conseguenze cui essa avrebbe condotto. Si faccia
riferimento alla sentenza Defrenne II, in cui la Corte ha escluso che il principio
dell'eguaglianza di retribuzione fra uomo e donna potesse rimanere a sostegno di
rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della sentenza, ad
eccezione dei lavoratori che avessero già promosso l'azione giudiziaria o proposto un
reclamo equipollente. Oltretutto, è anche accaduto che la Corte abbia escluso che la
dichiarazione di illegittimità di un atto potesse valere in un giudizio nazionale in cui
era stata sollevata la questione. Tuttavia questa tecnica è stata profondamente
criticato dalla giurisprudenza più recente, anzitutto dalla Corte costituzionale italiana.
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LE ALTRE COMPETENZE
Fra le altre competenze delle istituzioni giudiziarie assumono particolare rilievo quelle
riguardanti i ricorsi che possono essere proposti per far valere la responsabilità
extracontrattuale dell'Unione europea. Si pensi alle pretese di risarcimento dei danni.
Quando i ricorsi sono proposti da persone fisiche o giuridiche, essi devono essere
diretti al Tribunale. La responsabilità per danni cagionati dalle istituzioni o dalla banca
centrale europea o dai rispettivi agenti nell'esercizio delle loro funzioni sussiste in
base ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. La responsabilità può
essere causata da qualsiasi atto compiuto dall'Unione, anche da un atto normativo
purchè esso sia illegittimo. Ovviamente l'Unione è considerata responsabile solo
quando sussistono determinate condizioni, come la gravità dell'illecito quando si tratti
di un atto normativo in vista delle scelte di politica economica e la circostanza che sia
stata violata una norma superiore posta a tutela dei singoli. Ovviamente l'azione di
responsabilità non è proponibile nei confronti dell'Unione quando il danno derivi
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CAPITOLO IV
LA COOPERAZIONE RAFFORZATA
Non sempre le norme dell'Unione si applicano uniformemente a tutti gli Stati membri.
In alcuni casi, infatti, a seconda dello Stato membro, si applica una disciplina diversa.
Questo fenomeno si è verificato per la prima volta rispetto all'Accordo sulla politica
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sociale. Le norme di tale accordo e quelle fondate sullo stesso erano da ritenere
norme comunitarie ma non applicabili al Regno unito. Il fenomeno si è poi esteso,
nell'ambito della circolazione delle persone, nei confronti della Danimarca,
dell'Irlanda e del Regno unito. Un meccanismo denominato cooperazione rafforzata,
introdotto dal trattato di Amsterdam, consente di realizzare un'applicazione
differenziata delle normative dell'Unione rispettando certe condizioni e seguendo una
particolare procedura. Tale meccanismo consente ad un gruppo di Stati membri,
almeno nove, di perseguire gli obiettivi dell'Unione che non possano essere conseguiti
entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme. Le istituzioni dell'Unione
sono utilizzate per attuare la cooperazione rafforzata, senza che gli Stati che
non sono coinvolti dalla cooperazione in questione possano partecipare alla
votazione delle delibere del Consiglio. Quando per l'adozione di una delibera sia
prevista la maggioranza qualificata, si fa riferimento all'articolo 238 TFUE. La
normativa così prodotta è considerata parte del diritto dell'Unione ma soltanto per gli
Stati che partecipano alla cooperazione rafforzata. L'avvio di una cooperazione
rafforzata presuppone la richiesta da parte di un congruo numero di Stati membri
e una delibera di autorizzazione, presa a maggioranza qualificata dal Consiglio
nella sua composizione ordinaria. Tale delibera è adottata su proposta della
Commissione, previa approvazione del Parlamento. Qualora la cooperazione rafforzata
riguardi la politica estera e di sicurezza comune, il Consiglio delibera l’avvio
all'unanimità su parere dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza e della Commissione, mentre la richiesta degli Stati membri è trasmessa al
Parlamento solo per conoscenza. Se la cooperazione rafforzata può incontrare
difficoltà all'avvio, essa non costituisce sempre una scelta attraente, quando alcuni
Stati membri sono considerati poco idonei a realizzare la cooperazione rafforzata ma
intendano comunque prendervi parte.
La cooperazione rafforzata deve essere aperta a tutti gli Stati membri, salvo il
rispetto delle eventuali condizioni di partecipazione, stabilite dalla decisione di
autorizzazione. È consentito a ciascuno Stato membro partecipare alla cooperazione
già avviata, fatto salvo il rispetto degli atti già adottati. Uno Stato potrà far parte di
una cooperazione rafforzata già avviata, attraverso una delibera di conferma da parte
della Commissione o, nel caso in cui la Commissione non sia favorevole, del Consiglio
nella composizione limitata agli Stati che partecipano alla cooperazione. Nel caso di
cooperazione rafforzata nel quadro della politica estera e di sicurezza comune, la
delibera di conferma è sempre adottata dal Consiglio nella composizione così limitata
e all'unanimità. Resta ferma la possibilità di un gruppo di Stati membri di instaurare
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nuovi vincoli fra di loro al di fuori della cornice dell'Unione, senza quindi utilizzare le
istituzioni e produrre norme dell'Unione. Il Protocollo n.19 autorizza ora 25 Stati
membri ad attuare tra di loro una cooperazione rafforzata nei settori riguardanti le
disposizioni definite dal Consiglio che costituiscono l’acquis di Schengen. Il Regno
unito e l'Irlanda, peraltro, possono chiedere di partecipare in tutto o in parte alle
disposizioni suddette. Si tratta, in sostanza, di regole sulla circolazione delle persone
in buona parte già adottate, che non costituiscono diritto dell'Unione per il Regno
unito e l'Irlanda. E’ così posta in essere una cooperazione rafforzata del tutto
particolare, dal momento che l'avvio di essa è già deliberato in una disposizione dello
stesso valore dei Trattati, parte della normativa è già stata adottata e le modalità di
partecipazione degli Stati membri rimasti estranei alla cooperazione rafforzata non
sono quelle stabilite in via generale.
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Molto spesso si ricorre a delle deroghe, per esentare uno o più Stati da alcuni obblighi
stabiliti nei Trattati. Un insieme ampio di deroghe è stato stabilito in tutti gli accordi
relativi all'adesione all'Unione di nuovi Stati membri, in modo tale da consentire agli
Stati aderenti di realizzare progressivamente l'adeguamento alle esigenze del
mercato comune e alle altre derivanti dai Trattati. Un insieme di norme , per esempio,
si applica solo agli Stati membri la cui moneta è l'euro. L'articolo 139 TFUE elenca una
serie di disposizioni dello stesso Trattato che non operano rispetto agli Stati membri
che non soddisfano le condizioni necessarie per l'adozione dell'euro. Tali Stati sono
chiamati Stati membri con deroga. Si pensi alla Danimarca e al Regno Unito.
Ovviamente, per poter adottare l'euro, sono necessari una serie di requisiti stabiliti
dall'articolo 140 TFUE. Si pensi all'assenza di un disavanzo eccessivo nel bilancio
pubblico o ad un tasso di inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri che hanno
conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi. Il Consiglio accerta, su
proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento, il rispetto di tali
criteri da parte di ciascuno Stato membro. A tal fine, delibera sulla base di una
raccomandazione presentata a maggioranza qualificata dei membri che rappresentano
gli Stati membri la cui moneta è l'euro. Un altro importante esempio di applicazione
differenziata di norme dell'Unione europea riguarda la Carta dei diritti fondamentali
che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. La Carta è applicabile a tutti gli Stati
membri dell'Unione anche se non produce i suoi effetti giuridici nei confronti della
53
Polonia e del Regno unito. Essa non estende la competenza della Corte di giustizia
dell'Unione Europea o di qualunque organo giurisdizionale della Polonia o del Regno
Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti, le disposizioni, le pratiche o l'azione
amministrativa della Polonia o del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà
e ai principi fondamentali che essa riafferma. Costituisce una forma significativa di
applicazione differenziata della normativa dell'Unione anche la cooperazione
strutturata permanente relativa alla difesa comune. Essa coinvolge soltanto gli Stati
membri che rispondano a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno
sottoscritto i beni vincolati in materia ai fini delle missioni più impegnative.
L'applicazione differenziata non si verifica soltanto quando è disposta dai Trattati.
Infatti, molto spesso, accade che atti normativi adottati dalle istituzioni dell'Unione
pongano regole che operano solo per uno o più Stati membri oppure che li esentano, in
tutto o in parte, dal rispetto di regole generali. Gli atti normativi che stabiliscono l’
applicazione differenziata possono trovano giustificazione nella diversità delle
situazioni di fatto che esiste fra gli Stati membri. L'applicazione di un atto normativo
a un solo Stato oppure una deroga per quello Stato possono costituire tecniche per
disciplinare situazioni diverse in modo equivalente. Un risultato analogo è talora
ottenuto attraverso una normativa applicabile in tutta l’UE ma i cui presupposti di
applicazione si realizzino solo per un certo Stato o al contrario non si realizzino per lo
stesso.
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cittadini italiani godevano rispetto ai cittadini di altri Stati membri in caso di impiego
quali lettori di lingue straniere nelle università. La Corte costituzionale ha posto fine
alla discriminazione, ritenendo che la connessione della situazione interna con una
situazione contemplata dal diritto comunitario sussisteva anche nell’ipotesi di identità
della situazione interna a una situazione rilevante per il diritto comunitario in quanto
determinata, nel territorio dello Stato italiano, dall’esercizio del diritto di libera
circolazione dei lavoratori all’interno dell’UE. In base a quanto detto dalla Corte
costituzionale, dunque, in base alla normativa dell’UE, non vi sarebbero mai
discriminazioni a rovescio. Secondo la Corte di giustizia, il diritto dell’UE non pone in
realtà obblighi rispetto al trattamento dei lettori se non per quel che riguarda i
cittadini di altri Stati membri o anche i cittadini italiani che abbiano già esercitato la
libera circolazione. E’ solo grazie al principio di eguaglianza stabilito dai diversi
ordinamenti nazionali che il trattamento posto in essere dalla normativa europea
finisce per essere applicato ad una categoria più ampia di soggetti. E’ stato preso in
esame, in ambito europeo, oltretutto, il caso riguardante la questione di legittimità di
una legge riguardante la produzione di paste alimentari, che poneva requisiti di qualità
per i produttori nazionali, penalizzandoli rispetto a quelli di altri Stati membri. la
Corte ha affermato l’illegittimità della legge per contrasto non con norme comunitarie
ma con i principi costituzionali di eguaglianza e di libertà di iniziativa economica.
Inoltre, l’articolo 32 della l.n.234/2012 afferma l’esigenza di assicurare la parità di
trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’UE
e non può essere previsto in ogni caso un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani.
Detto ciò, ci si domanda se, sulla base dell’articolo 18 TFUE (principio di non
discriminazione in base alla nazionalità), le norme dell’UE più favorevoli non debbano
essere applicate a tutti i cittadini degli Stati membri, anche a coloro che non hanno
ancora usufruito della libertà di circolazione.
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CAPITOLO QUINTO
L’UE dispone delle competenze normative che le sono conferite dal TUE e dal TFUE.
Essa, in virtù del principio di attribuzione, può agire esclusivamente nei limiti delle
competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei Trattati per realizzare gli
obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei
Trattati appartiene agli Stati membri.
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In primo luogo, si ritiene che il ricorso a tale norma sia possibile solo quando
esiste una competenza ma non sono indicati i poteri per esercitarla. In altre
parole, si può fondare un atto sull'articolo 352 solo quando il potere di
adottarlo non sia conferito da una diversa disposizione del Trattato. Secondo la
corte di giustizia, l'esistenza di un potere normativo attribuito ad
un'istituzione da altre disposizioni del Trattato costituisce un presupposto
perché un atto possa legittimamente essere fondato su tale articolo.
Inoltre, è stato sottolineato che il valersi di suddetta norma come base legale
di un atto è ammesso solo quando nessun'altra disposizione del Trattato
attribuisca alle istituzioni comunitarie la competenza necessaria per
l'emanazione dell'atto stesso. In questo modo, la Corte vuole evitare che con il
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adottavano requisiti meno rigorosi. Per combattere tali rischi, occorreva che la
Comunità predisponesse delle norme a tutela dell'ambiente, in modo tale da assicurare
che in ciascuno Stato membro fosse realizzato un certo livello di tutela. In sostanza,
era quindi necessario rinvenire nello stesso Trattato qualche elemento per affermare
una competenza della Comunità in proposito. La consuetudine di utilizzare l'articolo
308 del trattato CE, il cui testo corrispondeva all'attuale articolo 352 TFUE, è venuta
meno a seguito dell'obiezione formale espressa nel 1980 dal governo danese, che ha
da allora precluso l'uso di tale fondamento normativo per avviare nuove politiche
dell'Unione giacchè esso richiede l'unanimità del Consiglio. Riguardo la procedura
normativa, qualora il Consiglio adotti le disposizioni in questione secondo una
procedura legislativa speciale, esso delibera all'unanimità su proposta della
Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo; in questo modo, si vuole
evitare che l'adozione di atti fondati sull'articolo 352 prescinda dai requisiti stabiliti
in via generale. Un importante controllo sul rispetto delle condizioni stabilite ai fini
del ricorso all'articolo 352 è affidata ai parlamenti nazionali sulla base del
meccanismo stabilito dal Protocollo numero 2, relativo al controllo sull'applicazione
dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Il coinvolgimento dei parlamenti
nazionali è dovuto al fatto che qualora si prospetti un ricorso troppo ampio o
ingiustificato a tale disposizione, ne deriverebbe in definitiva una compressione delle
loro funzioni. Si può dunque ritenere che gli Stati membri che rifiutino in modo
sistematico l'uso di tale disposizione rispetto a materie che rientrano nella
competenza dell'Unione europea ai fini di realizzare i suoi obiettivi, potrebbero
violare l'obbligo di cooperazione imposto agli stessi Stati membri, che comprende
anche l'obbligo di facilitare l'Unione per l'adempimento dei suoi compiti e di astenersi
da qualsiasi misura che metta in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione.
Nonostante la sviluppo raggiunto dalla normativa dell'Unione, restano tuttora spazi
per trarre dall'articolo 352 dei poteri d’azione in settori non ancora disciplinati.
Sicuramente, l’ambito di applicazione di tale disposizione è oggi più esteso, tanto che
la norma si applica non più al solo funzionamento del mercato comune. Infatti, si apre
la possibilità di utilizzare l'articolo 352 come fondamento giuridico di atti normativi
che riguardino qualsiasi materia rientrante nell'ambito di applicazione dei Trattati.
Infine, va ricordato, l'articolo 372 non può essere applicato per il conseguimento di
obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune.
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Nelle materie in cui l'Unione non dispone di una competenza esclusiva, il suo
potere normativo può essere esercitato in conformità al principio di sussidiarietà.
Infatti, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l'Unione interviene solo
se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possano essere conseguiti in misura
sufficiente dagli Stati membri, nella dimensione centrale, regionale e locale, ma
possono essere conseguiti meglio a livello di Unione. In alcuni ordinamenti, come quello
tedesco, il principio di sussidiarietà ha avuto un esito positivo nella sua applicazione,
mentre in altri ordinamenti con quello italiano, ha semplicemente avuto il ruolo di
valorizzare l'azione normativa regionale e locale rispetto a quella statale, sulla base
del fatto che le decisioni sono assunte dal governo più vicino ai cittadini.
Nell'ordinamento dell'Unione Europea, il principe assume un valore diverso. Esso
costituisce un limite alla possibilità dell'Unione di adottare atti normativi nelle
materie che non sono di sua competenza esclusiva. Tale principio non incide sui
rapporti fra Stato centrale o federale e regioni o Stati federali all'interno degli Stati
membri, dato che esso riguarda solo i rapporti fra l'Unione e gli Stati membri,
considerati in modo unitario, indipendentemente dalle loro suddivisioni interne. Il
principio di sussidiarietà non opera rispetto alle materie che rientrano nella
competenza esclusiva dello Stato. Per quanto riguarda quest'ultime, vale il principio
di proporzionalità che è applicabile a qualsiasi materia di competenza dell'Unione.
Quando la materia rientrano nella una competenza concorrente o parallela, il principio
della sussidiarietà e della proporzionalità cooperano entrambi nel senso di limitare
l'esercizio, da parte dell'Unione, della propria competenza normativa.
Nessuna istituzione vigila in modo continuo sul rispetto dei principi di sussidiarietà e
di proporzionalità. Tale compito spetta anzitutto alla Commissione nell'elaborazione
della proposta dell'atto normativo, nonché alle altre istituzioni o Stati membri ai quali
talora compete il potere di iniziativa. Il potere controllo è affidato anche ai
parlamenti nazionali, sul presupposto per l'adozione di un atto dell'Unione non
conforme al principio della sussidiarietà leda il potere di quest'ultimi, privandoli di
parte delle loro funzioni. È stata poi introdotta una procedura sulla base della quale
ciascun Parlamento può, entro otto settimane dalla data di trasmissione di un progetto
di atto legislativo dell'Unione, inviare alle istituzioni politiche un parere ed esporre le
ragioni per le quali ritiene che il progetto non sia conforme al principio della
sussidiarietà. Ciascun Parlamento nazionale dispone di due voti. Qualora i pareri
motivati rappresentino almeno un terzo dell'insieme dei voti il progetto deve essere
riesaminato. L'istituzione organo proponente può decidere di mantenere la proposta,
modificarla o ritirarla, ma se decide di mantenerla, deve motivare tale soluzione.
Il Protocollo n.2, inoltre, richiede che i progetti di atti legislativi siano motivati con
riguardo ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità e accompagnati da una scheda
che consenta di valutare il rispetto di tali principi. L'obbligo di motivazione ha
carattere funzionale rispetto al controllo sulla conformità delle proposte di atti a tali
principi. Non è necessario che tale motivazione risulti espressamente nel testo
dell'atto adottato dalle istituzioni. Inoltre, tale Protocollo riconosce le forme di
controllo appena citate ma non dà un contributo significativo per superare eventuali
divergenze fra le istituzioni in tema di applicazione del principio di sussidiarietà.
Inoltre, all'interno dello stesso Protocollo, non si riscontrano precisazioni utili ad
individuare le concrete modalità di valutazione delle condizioni del principio. Il
carattere politico della valutazione relativa alla sussidiarietà ha suscitato dubbi in
merito all'idoneità della Corte di giustizia ad effettuare un adeguato controllo sulla
conformità degli atti a tale principio. In relazione alla giurisprudenza della Corte, un
atto potrebbe risultare illegittimo quando l'istituzione che lo ha adottato abbia
omesso di valutare il rispetto del principio oppure abbia, nel farlo, operato in modo
irragionevole, eccedendo quel che si potrebbe chiamare un suo margine di
apprezzamento per gli elementi più propriamente politici. In relazione
all'orientamento della Corte, nel senso di favorire l'integrazione europea, appare
comunque difficile che essa giunga alla conclusione che un atto sia stato adottato in
violazione del principio della sussidiarietà. Per le stesse ragioni è improbabile che la
Corte possa ritenere che un atto sia diventato incompatibile con il principio di
sussidiarietà, a causa di circostanze sopravvenute dopo la sua adozione. Il principio di
sussidiarietà è stato più volte invocato dalla Commissione nel proporre al Consiglio
l'abrogazione di atti precedentemente adottati. L’ iniziativa della Commissione ha
avuto lo scopo di prevenire il fatto che certi Stati esercitassero forti pressioni per
rinazionalizzare alcune materie. Sicuramente, il Consiglio può chiedere alla
Commissione, su iniziativa di uno o più rappresentanti degli Stati membri, di
presentare proposte per abrogare un atto legislativo. Questo accade quando un atto,
conforme al principio della sussidiarietà al momento della sua adozione, non soddisfi
più questo criterio a seguito di un mutamento delle circostanze o in secondo luogo, se
risultasse che certi atti, emanati prima dell'introduzione del principio di sussidiarietà
nel Trattato, possano davvero essere contrari al principio in esame. Una particolare
forma di controllo da parte dei parlamenti nazionali è prevista infine dal TFUE.
65
CAPITOLO SESTO
INTRODUZIONE
Le fonti del diritto dell’UE comprendono i due Trattati istitutivi (TFUE e TFUE) e gli
altri atti ad essi equiparati, fra i quali la Carta dei diritti fondamentali, nonché i
principi generali, gli accordi che l’Unione conclude con Stati terzi o altre
organizzazioni internazionali, le norme di diritto internazionale generali vincolanti
l’Unione e gli atti normativi che le istituzioni adottano in base ai Trattati.
Gli atti normativi vincolanti dell’Ue, come regolamenti, direttive e decisioni, sono
delineati dall’articolo 288 TFUE. Il TFUE, più precisamente, definisce quali siano gli
atti che le istituzioni dell’UE possono adottare , senza enunciare alcuna gerarchia fra
di essi. Ciò non significa che tutti gli atti normativi abbiano il medesimo valore. Essi lo
hanno solo in via di principio. In particolare, un atto dovrà essere considerato
superiore ad un altro quando il secondo è emanato al fine di dare esecuzione al primo.
Nella sentenza Deutsche Tradax, ad esempio, la Corte di Giustizia, in merito al
rapporto fra due regolamenti del Consiglio in materia agricola, l’uno (quello di
esecuzione) destinato all’applicazione dell’altro e fondato su una disposizione di
quest’ultimo.
Gli articoli 289 e 290 TFUE pongono una distinzione fra gli atti legislativi, adottati
mediante procedure legislative e gli atti non legislativi, di portata generale, che
integrano o modificano alcuni elementi non essenziali dell’atto legislativo.
Sicuramente, in base a quanto stabilito dalla Corte in una sua recente pronuncia, le
misure di esecuzione non possono né modificare elementi essenziali di una normativa di
base, né completarla mediante nuovi elementi essenziali. L’articolo 290 prevede che gli
atti non legislativi possono essere adottati dalla Commissione su delega contenuta in
un atto legislativo; nel loro titolo, devono essere indicati quali atti delegati ed essi
sono subordinati all’atto legislativo che contiene la delega. L’atto legislativo deve
semplicemente delimitare gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega;
oltretutto, può stabilire alcune condizioni fra cui anche il potere del Parlamento
europeo o del Consiglio di revocare la delega. L’articolo 291 TFUE concerne invece
66
Nell’ambito del diritto dell’UE, è possibile tracciare una gerarchia fra le fonti.
Sicuramente, al vertice della gerarchia fra le fonti, vi sono i Trattati e le norme in
essi contenute, che si pongono di conseguenza ad un livello superiore rispetto a quelle
prodotte dagli atti adottati dalle istituzioni. La stessa violazione dei Trattati
costituisce un motivo di impugnazione degli atti delle istituzioni. Si pongono in una
posizione intermedia fra i Trattati e gli atti delle istituzioni: i principi generali, gli
accordi generali, gli accordi internazionali che vincolano l’UE e il diritto
internazionale generale. Si tratta di fonti che sono subordinate ai Trattati ma
sovraordinate rispetto agli atti delle istituzioni, in quanto incidono sulla legittimità di
tali atti. Questi sono impugnabili quando non rispettino le regole relative
all’applicazione dei Trattati.
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I TRATTATI
La Corte ha ritenuto che la revisione del Trattato CEE incontri un limite di contenuto,
rispetto all’istituzione di un sistema giurisdizionale che pregiudichi l’articolo 164 del
Trattato e, più in generale, gli stessi principi fondamentali della Comunità. Secondo la
Corte, infatti, gli Stati membri non sarebbero più padroni dei Trattati.
Una conseguenza molto rilevante dell'uso, da parte della Corte di giustizia, di questo
metodo nell'interpretare il Trattato CE riguarda la ricostruzione di diritti e obblighi
per persone fisiche e giuridiche sulla base di disposizioni formulate con le regole di
comportamento per gli Stati membri o per le istituzioni. In particolare, una persona
fisica o giuridica potrebbe far valere dinanzi al giudice nazionale un diritto ricavato
da una di tali disposizioni dei Trattati istitutivi. In una sua nota sentenza, la Corte,
con riferimento alla disposizione del Trattato che vieta agli Stati membri di
introdurre nuovi dazi doganali che si applichino nei rapporti fra di loro, ha dichiarato
che il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emanate dagli Stati
membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei
diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano non solo nel caso in cui il
Trattatoli li menzioni , ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal
Trattato ai singoli, agli Stati membri e alle istituzioni comunitarie. Ovviamente la
Corte ha più volte ribadito la necessità di avere a che fare con disposizioni quanto più
chiare e precise, che non lascino spazio ad alcun dubbio.
Il Trattato CE sarebbe quindi idoneo a far sorgere diritti e obblighi per le persone
fisiche e giuridiche. La Corte di giustizia ha tuttavia configurato gli effetti diretti
come soltanto verticali, costruendo situazioni giuridiche attive di persone fisiche e
giuridiche nei confronti degli Stati membri, facendo riferimento anche agli enti
pubblici. Solo alcune disposizioni del Trattato, sempre secondo la Corte,
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Alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea viene attribuito lo stesso
valore giuridico dei Trattati. Secondo il Trattato del 2004, mai entrato in vigore,
che si proponeva di dar vita ad una Costituzione europea, la carta di Nizza avrebbe
dovuto costituire la seconda parte della Costituzione. Il trattato di Lisbona invece ha
scelto la tecnica del rinvio alla Carta, che resta quindi uno strumento distinto dal TUE,
ma che assume lo stesso valore che avrebbe se fosse parte integrante dei Trattati.
L'interpretazione della Carta è soggetta a regole particolari. I diritti, le libertà e i
principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del
titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione. Non è
escluso che la Carta concede un livello più elevato di protezione. I diritti riconosciuti
dalla Carta e traggono origine delle tradizioni costituzionali comune di Stati membri
devono essere interpretati in armonia con suddette costituzioni. Ovviamente le
disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione
definite dai Trattati. Da questa disposizione, di cui all'articolo 6 comma 2° TUE, si
evince che la Carta di Nizza conferisce diritti soltanto nell'ambito delle materie di
competenza dell'Unione. L'articolo 51 ricorda che la Carta si applica sia alle
istituzioni, organi e organismi dell'Unione, sia anche agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell'Unione. In una sua nota sentenza, la Corte ha precisato
il campo di applicazione della Carta affermando che i diritti da essa garantiti devono
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I PRINCIPI GENERALI
l'osservanza. Nel garantire la tutela di tali diritti, la Corte è tenuta ad ispirarsi alle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e non potrebbe ammettere
provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle
costituzioni di ciascuno Stato. I trattati internazionali in materia di tutela dei diritti
dell'uomo possono allo stesso tempo fornire elementi di cui occorre tenere conto
nell'ambito del diritto comunitario. Fondamentale, sotto questo punto di vista, diviene
per la Corte il contenuto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo di cui tutti gli
Stati membri dell'Unione europea sono parti. Altrettanto importante è la Carta di
Nizza in cui è stabilito dei diritti fondamentali fanno parte del diritto dell'Unione in
quanto principi generali. Detto ciò, dati i presupposti appena esaminati possiamo con
certezza affermare che la tutela dei diritti fondamentali non è posta ad un livello
intermedio fra i Trattati e gli atti delle istituzioni ma, in quanto stabilita da una
disposizione del TUE, è collocato allo stesso livello dei Trattati.
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I REGOLAMENTI
Una regola che si applica a tutti gli atti, è quella della motivazione, ex art.296 TFUE.
La motivazione è generalmente formulata nel preambolo dell'atto, che costituisce un
elemento rilevante per l'interpretazione delle norme prodotte dallo stesso atto. Nella
motivazione degli atti, anche se la norma in esame non lo richiede, è normalmente
indicata la rispettiva base giuridica, che incide sia suo contenuto possibile dell'atto sia
sulla procedura richiesta per la sua adozione. I regolamenti sono la forma più completa
di normativa dell'Unione e sono definiti obbligatori in tutti i loro elementi nonché
direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. I regolamenti sono pubblicati
nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea ed entrano in vigore alla data da essi
stabilita oppure nel 20º giorno successivo alla pubblicazione. Il regolamento è definito
come un atto direttamente applicabile. Ciò significa che le disposizioni del
regolamento operano senza che occorra alcun atto di attuazione, da parte dell'Unione
o da parte dello Stato membro. Sempre in via generale, il regolamento è idoneo a far
sorgere, per le persone fisiche e giuridiche, diritti e obblighi nei loro rapporti con gli
Stati membri, le istituzioni dell'Unione o altre persone fisiche o giuridiche. Rispetto
ad alcuni regolamenti, vi può essere l’esigenza di una normativa di attuazione che
spetta in generale agli Stati membri emanare, a meno che non siano necessarie
condizioni uniformi di esecuzione. La normativa statale che sia comunque necessaria
per attuare il regolamento non deve tendere a sostituirsi ad esso, anche perché così
71
LE DECISIONI
Nei casi in cui le autorità comunitarie, mediante decisione, abbiano obbligato uno
Stato membro o tutti gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la
portata dell'atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la
sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come
norma di diritto comunitario. I requisiti per l'esistenza di effetti diretti delle
decisioni sono quegli stessi che la giurisprudenza ha definito a proposito degli effetti
diretti delle disposizioni del Trattato CE. Per quanto riguarda l'esistenza di eventuali
effetti diretti orizzontali delle decisioni, rispetto alle decisioni che hanno per
destinatari Stati membri, vale la stessa soluzione negativa che la Corte di giustizia ha
elaborato a proposito delle direttive. Diverso discorso si dovrebbe fare, invece, in
relazione alla possibilità di ricavare situazioni giuridiche attive di persone fisiche o
giuridiche da decisioni che hanno invece per destinatari le altre persone fisiche o
giuridiche. Le decisioni sono fonti di regole di diritto oggettivo che possono attribuire
nei confronti dei rispettivi destinatari anche situazioni giuridiche attive ad altre
persone fisiche o giuridiche.
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LE DIRETTIVE
Nel TFUE, è previsto un atto normativo che può avere per destinatari soltanto gli
Stati membri. Si tratta della direttiva, che come tale risulta essere disciplinata
dall'articolo 288 TFUE, in cui si sottolinea che la direttiva è un atto che vincola lo
Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, fermo
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. In
merito alla loro efficacia, le direttive possono essere distinte in direttiva rivolta a
tutti gli Stati membri e direttive la cui efficacia è subordinata alla notificazione
agli Stati membri che ne sono destinatari. Quest'ultime sono pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea nella parte riguardante gli atti per i quali la
pubblicazione non è condizione di applicabilità. Le direttive che hanno per destinatari
tutti gli Stati membri, invece, sono soggette ad un regime identico a quello per i
regolamenti, dunque alla pubblicazione. Anche per le direttive è ammessa la possibilità
che la stessa direttiva stabilisca quando essa entri in vigore, ma non si tratta di
un'opportunità importante perché sempre dato agli Stati membri un termine di vari
mesi per provvedere all'attuazione. Secondo la definizione che ne scaturisce dal
TFUE, la direttiva dovrebbe lasciare agli Stati destinatari una certa libertà di scelta
delle modalità di attuazione. Ciò non esclude che le direttive possano anteporre
obblighi rispetto ai quali la libertà è limitata o addirittura inesistente, come nel caso
73
degli obblighi di non fare. Nella prassi, la libertà degli Stati destinatari è spesso
compressa anche rispetto all'insieme degli obblighi imposti dalla direttiva. Questa
prassi implica una limitazione dei poteri degli Stati membri che appare di dubbia
compatibilità con il TFUE nei casi in cui l'istituzione che ha emanato l'atto abbia il
potere di emanare unicamente direttive e non invece anche atti normativi più completi
come i regolamenti o le decisioni. Lo Stato membro deve provvedere a prendere tutte
le misure necessarie per attuare gli obblighi imposti dalla direttiva entro il termine
indicato nella stessa. La Corte ha aggiunto che allo Stato membro che beneficia
eccezionalmente, rispetto ad una direttiva, di un termine di trasposizione più lungo,
non è consentito adottare, durante il termine di attuazione della stessa direttiva,
misure incompatibili con gli obiettivi di quest'ultima. Dalla data in cui la direttiva è
entrata in vigore, i giudici degli Stati membri devono astenersi per quanto possibile
dall’ interpretare il diritto interno in modo da rischiare di compromettere
gravemente, dopo la scadenza del termine di attuazione, la realizzazione del risultato
perseguito dalla direttiva. Lo Stato membro emana le norme di attuazione ma ciò non è
necessario quando la normativa interna è già conforme a quanto prescritto. Rispetto
alle direttive in materia di politica sociale, il risultato da raggiungere potrebbe essere
ottenuto in modo efficace anche attraverso accordi conclusi dalle parti sociali,
qualora essi abbiano la portata generale richiesta della direttiva o siano integrati da
una normativa interna. Lo Stato membro è tenuto ad assicurarsi che le parti sociali
abbiano stabilito mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che lo
Stato membro interessato deve adottare le misure necessarie che gli permettano di
garantire in qualsiasi momento i risultati imposti dalla direttiva. L'obbligo di dare
attuazione alla direttiva con provvedimenti normativi non viene meno per il fatto che
ad alcune disposizioni di essa sia riconosciuto un effetto diretto. L’ esistenza di un
effetto diretto può tuttavia dar luogo anche a conseguenze negative per una persona
fisica o giuridica che si astenga dal farlo valere quando un termine nazionale di
prescrizione inizia a decorrere prima dell'approvazione della direttiva. Anche rispetto
alle direttive, i requisiti enunciati dalla Corte di giustizia perché si produca un effetto
diretto si ricollegano ai caratteri della chiarezza e della precisione, nonché
all'assenza di condizioni. La possibilità di ricavare effetti diretti dalle disposizioni
della direttiva è stata per la prima volta enunciata dalla corte di giustizia nella
sentenza van Duyn. Nella sentenza Ratti, l'effetto diretto è configurato come una
forma di sanzione dell'inadempimento dello Stato membro. Lo Stato membro che non
abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti in attuazione imposti dalla direttiva
non può opporre ai singoli l’ inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla
direttiva stessa. Come la Corte ha recentemente affermato, infatti, è opportuno
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evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto
dell'Unione. Ciò ha come conseguenza che la direttiva produce effetti diretti soltanto
in relazione agli stati membri inadempienti. Ma vi è la conseguenza di maggior rilievo:
se è vero che l'effetto diretto è la sanzione dell'inadempimento di un obbligo da
parte di uno Stato membro, non si possono ricavare effetti diretti che comportino
situazioni soggettive passive per persone fisiche e giuridiche, poiché esse non sono
mai destinatarie dell'obbligo. In altre parole, deve essere data una soluzione negativa
alla questione degli effetti diretti orizzontali delle direttive. Un argomento che si
potrebbe addurre per giustificare la distinzione fra direttive e Trattati, tracciata
dalla Corte a proposito degli effetti diretti orizzontali è dato dalla circostanza che i
Trattati costituiscono l'insieme delle norme fondamentali dell'ordinamento
dell'Unione e appaiono quindi maggiormente idonei, rispetto ad un atto normativo che
è adottato da un'istituzione che ha come destinatari formali degli Stati membri, ad
apporre obblighi per persone fisiche o giuridiche. La soluzione negativa della questione
degli effetti diretti orizzontali delle direttive trova origine peraltro soprattutto per
ragioni di politica giudiziaria. È probabile che la Corte di giustizia abbia voluto limitare
la portata degli effetti diretti delle direttive in presenza di forti critiche sulla sua
stessa attività. Oggigiorno, prevale, da parte della Corte, senza dubbio, l’orientamento
per cui è da escludersi che una direttiva produca effetti diretti orizzontali.
Quest’ultima ritiene anche che le disposizioni chiare e precise di una direttiva possano
esser fatte valere nei confronti di una qualsiasi autorità statale e anche di un
organismo che sia stato incaricato, con atto di pubblica autorità, di prestare, sotto il
controllo di quest'ultima, un servizio di interesse pubblico e che disponga a tal fine di
poteri che oltrepassano quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra
singoli. Nella sentenza Marleasing, ad esempio, la Corte afferma che nell’applicare il
diritto nazionale, il giudice debba interpretarlo alla luce della lettera e dello scopo
della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima. E’ opportuno
rilevare, specie con riferimento a questo caso specifico, che l’esigenza di interpretare
la normativa nazionale in senso conforme alla direttiva può benissimo concernere una
normativa destinata ad essere applicata nei rapporti fra persone fisiche o giuridiche.
Tuttavia, non si può, sotto questo punto di vista, affermare l’esistenza di obblighi per
persone fisiche o giuridiche.
Le disposizioni di una direttiva che non hanno effetti diretti possono produrre un
secondo tipo di conseguenze giuridiche, queste soltanto nei rapporti fra una persona
fisica o giuridica e uno Stato membro. Tali conseguenze sono state delineate nella
sentenza Francovich. La Corte, infatti, ha in quell’occasione affermato una
75
responsabilità dello Stato che non abbia attuato la direttiva per i danni subiti dai
lavoratori a causa della mancata attuazione. Secondo la Corte, il diritto al
risarcimento è sottoposto a tre condizioni:
E’ bene precisare che l’ipotesi presa in esame dalla Corte in questa sentenza è che la
disposizione della direttiva non abbia effetti diretti. Essa non attribuisce ai singoli un
diritto ma soltanto un’aspettativa, in quanto impone agli Stati membri di conferire
diritti ai singoli in attuazione della stessa direttiva. Nel caso della direttiva
riguardante l’insolvenza dei datori di lavoro, i lavoratori hanno il diritto ad ottenere un
risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario ma
deve essere fatto valere dinanzi al giudice nazionale nell’ambito delle norme del
diritto nazionale relative alla responsabilità. Alcuni aspetti della responsabilità sono
disciplinati dal diritto comunitario, altri dal diritto nazionale. La Corte ha
successivamente affermato l’esistenza di una responsabilità degli Stati membri pure
nel caso in cui l’inadempimento riguardi obblighi stabiliti da norme del Trattato CE o
da qualunque altra norma comunitaria e ciò anche se si tratta di norme produttive di
effetti diretti.
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L’articolo 288 TFUE indica che le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti .
Le raccomandazioni possono essere rivolte da un’istituzione ad altre istituzioni, agli
Stati membri o anche ad altri soggetti. Se esse non hanno carattere vincolante, non
sono perciò giuridicamente vincolanti. Una raccomandazione, ad esempio, può essere
significativa per interpretare un altro atto normativo oppure la legge di uno Stato
membro che abbia inteso conformarsi alla raccomandazione stessa. Nella sentenza
Grimaldi, la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali siano tenuti a prendere in
considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie sottoposte
al loro giudizio.
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Alcune disposizioni dei Trattati conferiscono alle istituzioni il potere di adottare atti
diversi da quelli delineati in via generale. Tali atti sono definiti atti atipici. Fa questi
atti, particolarmente significativi sono gli accordi interistituzionali che intervengono
fra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione. L’eventuale carattere vincolante di
questi accordi pare dipendere non tanto dal loro oggetto quanto dall’intenzione delle
istituzioni che li concludono.
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CAPITOLO VII
In ragione della prevalenza delle norme comunitarie sulle leggi interne successive,
deve essere superato il principio di common law, secondo il quale nessun
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provvedimento cautelare potrebbe essere emanato nei confronti della Corona. A tal
fine, la Corte ha ritenuto che la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe
ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a
dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere
provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia
giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario. In una
situazione del genere, di conseguenza, il giudice è tenuto disapplicare la norma di
diritto nazionale che osti alla concessione di provvedimenti provvisori. L’obbligo di
applicare una norma dell’Ue a preferenza di una norma di diritto nazionale, con essa
contrastante, opera non solo in presenza di regolamenti ma anche di norme aventi
effetti diretti. In presenza di norme di diritto aventi efficacia diretta, anche un
divieto, contrastante con tali norme, posto attraverso un provvedimento
amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo, va disapplicato nella
valutazione della legittimità di un’ammenda irrogata per l’inosservanza del divieto, così
come stabilito nella sentenza Ciola. Nella sentenza Kapferer, invece, la Corte ha
ribadito che il diritto comunitario non impone di disapplicare le norme processuali
interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò
permetterebbe di accertare una violazione del diritto comunitario da parte di tale
decisione.
Quando la norma dell’UE non sia direttamente applicabile né produca effetti diretti,
l’organo dello Stato membro non si trova in presenza di una norma dell’UE suscettibile
di essere applicata a preferenza di una norma interna eventualmente contrastante. Il
contrasto può risultare soltanto apparente quando la norma interna sia suscettibile di
essere interpretata in modo da renderla conforme alla norma dell’Unione.
Un’interpretazione della norma nazionale in questo senso può essere imposta dallo
stesso ordinamento dello Stato membro.
Quando il contrasto fra norma interna e norma dell’Unione non sia superabile in via
interpretativa, mancano nell’ordinamento dell’Unione strumenti utili ad assicurare he
siano applicate le norme dell’Unione non direttamente applicabili o che non producano
effetti diretti e ad escludere l’applicabilità delle norme interne con esse contrastanti.
Spetterà quindi ad ogni Stato membro provvedere secondo le rispettive regole a
rimuovere le norme interne contrastanti e a porre in essere una normativa conforme
agli obblighi posti dal diritto dell’UE. Un’eventuale dichiarazione di illegittimità delle
norme interne soddisferebbe solo in parte l’esigenza del rispetto delle norme
79
dell’Unione, dal momento che gli obblighi derivanti da norme dell’Unione resterebbero
di regola inadempiuti. E’ bene ricordare che secondo il diritto dell’Unione, sarebbero
allora esperibili un procedimento di infrazione e nei casi in cui sia ammessa, un’azione
per far valere la responsabilità dello Stato membro. Si tratta tuttavia di rimedi non
sempre efficaci e che tendono solo ad attenuare le conseguenze della mancata
applicazione delle norme dell’Unione.
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La Corte costituzionale non ritiene di dover trarre dall’articolo 117 comma 1° Cost
conseguenze rispetto alla prevalenza delle norme dell’Unione nei confronti delle leggi
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Non solleva obiezioni, dal punto di vista del diritto dell’Unione, un’altra competenza
che la Corte costituzionale aveva rivendicato: quella di pronunciarsi in via principale su
ricorso del governo, ai sensi dell’articolo 127 Cost, qualora fosse fatto valere il
contrasto fra la delibera di un Consiglio regionale e una norma comunitaria, anche
quando questa fosse direttamente applicabile o producesse effetti diretti. Mediante
il suo intervento in tal senso, la Corte poteva impedire la formazione di una legge
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regionale che violasse obblighi comunitari. Questo tipo di ricorso preventivo è stato
abrogato dalla legge costituzionale n.3/2001.
La sentenza n.232 del 1989 della Corte costituzionale, invece, ricorda che la Corte
possa verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione,
se una qualsiasi norma del Trattato non venga in contrasto con i principi fondamentali
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del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona
umana.
In Italia, le leggi di esecuzione dei Trattati hanno dato attuazione ad alcuni obblighi
posti in essere negli stessi Trattati. Esse inoltre possono essere considerate idonee a
giustificare l'applicabilità in Italia dei regolamenti dell'Unione. Si potrebbe dire lo
stesso per le norme dell'Unione aventi effetti diritti, ma per quest'ultime, quando
l'ordinamento contenga norme ad esse non conformi, una norma di rinvio come una
legge contenente l'ordine di esecuzione del Trattato, anche se determinasse le
necessarie modifiche dell'ordinamento interno, difficilmente potrebbe contribuire a
realizzare una situazione normativa di certezza quale dovrebbe esistere secondo la
giurisprudenza della Corte di giustizia. Per questo motivo, diviene necessario un atto
normativo di adattamento ordinario che anche se si limita ad esplicitare quanto già
potrebbe essere ricavato dalla legge di esecuzione. L’esigenza di provvedere con
specifici atti normativi nazionali di attuazione si pone per lo più con riferimento alle
direttive che lasciano salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma
dei mezzi per l'attuazione dei rispettivi obblighi. A causa delle direttive, in Italia,
l'attuazione è stata non di rado tardiva e carente. Il ritardo è dovuto principalmente
alla lentezza con cui sono stati approntati i disegni di legge governativi e quindi i
provvedimenti delegati, in caso di legge di delega. Una parte consistente del tempo,
inoltre, era dovuta alla lentezza dei procedimenti parlamentari. Una procedura per
rendere più veloce l’attuazione degli obblighi comunitari è delineata dalla legge La
Pergola. Questa prevedeva un provvedimento, detto legge comunitaria, che il
Parlamento avrebbe dovuto approvare ogni anno. Dopo, il ricorso alla legge
comunitaria è stato ribadito dalla legge n.11/2005 che ha sostituito la legge La
Pergola. Successivamente, è subentrata la legge n.234/2012 che ha, a sua volta,
sostituito la precedente normativa, prevedendo l'adozione, ogni anno, di due leggi
distinte:
- una legge di delegazione europea, che delega il governo ad attuare direttive e altri
atti dell'Unione europea
- una legge europea, con cui si provvede ad emanare disposizioni necessarie per
adeguare l'ordinamento italiano.
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La legge n. 234 del 2012 è una legge ordinaria, non assistita da alcuna garanzia
costituzionale. Alcune indicazioni in essa contenute, pertanto, possono essere
modificate da leggi successive. Resta peraltro la possibilità per il legislatore di
provvedere all'approvazione di obblighi derivanti dal diritto dell'Unione al di fuori
della legge di delegazione europea e della legge europea, adottando le leggi distinte
per stabilire norme particolari o per delegare l’attuazione di certe direttive.
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CAPITOLO OTTAVO
INTRODUZIONE
Gli Stati membri dell’Unione hanno realizzato forme di coordinamento che coinvolgono
le istituzioni dell'Unione e comportano l'insorgere di diritti e obblighi per l'Unione sul
piano internazionale. Tali relazioni sono disciplinate dal diritto internazionale ma
norme dell'unione regolano la definizione delle rispettive competenze dell'Unione e
degli Stati membri, le procedure di formazione degli accordi dell'Unione e i loro
effetti nell'ordinamento dell'Unione, nonché le modalità per istituire rappresentanze
di Stati terzi presso l'Unione e dell'Unione presso Stati terzi e per svolgere rapporti
assimilabili a quelli diplomatici. Rispetto alle norme dell'Unione che riguardano la
stipulazione di accordi internazionali, l’ individuazione della natura giuridica di un atto
quale accordo internazionale deve essere fatta in base al diritto internazionale. In
alcuni casi, l'esistenza di un accordo internazionale può lasciare luogo a dubbi: in
particolare, in relazione a decisioni vincolanti adottate nell'ambito dell'organizzazione
internazionale, può essere controvertibile se il vincolo derivi dall'attribuzione di un
potere normativo all'organizzazione oppure dall'accettazione che lo Stato membro
dell'organizzazione o l’Unione manifesti rispetto a ciascuna decisione. Questo
problema è stato affrontato dalla Corte di giustizia per quanto riguarda le decisioni
adottate dal Consiglio dell'organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo
85
(OCSE). La Corte ha ritenuto che tali decisioni rientrino nella nozione di accordo
internazionale, con la conseguenza di estendere ad esse l'applicazione delle regole
relative alla stipulazione degli accordi stabilite dai Trattati.
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L’articolo 217 TFUE stabilisce che l’Unione può concludere con uno o più paesi terzi o
organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata
da diritti e obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari.
Generalmente, gli accordi sono misti, ossia conclusi anche con la partecipazione di
tutti gli Stati membri, in considerazione del fatto che ciascun accordo concernerebbe
in parte anche materie che non rientrano nella competenze dell’Unione. Se gli accordi
di associazione hanno un oggetto più ampio della politica commerciale comune, il
riferimento dell’articolo 217 TFUE ad azioni in comune e a procedure particolari
sembra caratterizzarli anche per l’esigenza che ciascun accordo di associazione
istituisca un organismo avente il compito di seguire l’attuazione dell’accordo e di
promuovere l’adozione di regole integrative. Tali organismi sono denominati consigli di
associazione. Esistono accordi di associazione stipulati anche con Stati non europei,
come le Convenzioni di Lomè, concluse dalla Comunità e dagli Stati membri con gli
Stati ACP.
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La competenza della Comunità sarebbe data anche dal carattere necessario che
la conclusione dell’accordo da parte della Comunità avrebbe per realizzare un
obiettivo della stessa Comunità. Il requisito non è molto chiaro, dal momento che
sembra far dipendere l’esistenza della competenza da una valutazione del contenuto
dell’accordo e da una comparazione fra gli effetti che deriverebbero dalla conclusione
dell’accordo da parte della Comunità e gli effetti che risulterebbero invece da una
mancanza di accordo oppure da un’eventuale conclusione dello stesso da parte degli
Stati membri. Nella giurisprudenza successiva, la Corte ha inteso il requisito della
necessità nel senso che esso si riferisce all’ipotesi in cui la stipulazione di un accordo
internazionale sia necessaria per conseguire obiettivi del Trattato che non possono
essere raggiunti con l’adozione di norme autonome; la competenza diverrebbe allora
esclusiva.
L’articolo 218 TFUE regola in via generale la procedura per la conclusione degli accordi
internazionali da parte dell’Unione. L’atto iniziale è costituito da una raccomandazione
della Commissione al Consiglio in vista della negoziazione di un accordo. Quando
l’accordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente la politica estera e di
sicurezza comune, il potere di raccomandazione spetta all’alto rappresentante per gli
affari esteri e la politica di sicurezza. Il Consiglio autorizza con una decisione l’avvio
dei negoziati e definisce le direttive di negoziato. Designa, inoltre, il negoziatore, in
funzione della materia dell’accordo previsto. Il Consiglio, inoltre, può designare un
comitato speciale che deve essere consultato nella conduzione dei negoziati.
L'articolo 218, par.11, TFUE , a sua volta, ritiene che per verificare la compatibilità
dell'accordo con i Trattati è possibile istituire, prima della conclusione dello stesso
accordo, un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia. Uno Stato membro, il
Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della
Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i Trattati. In caso
di parere negativo della Corte, l'accordo previsto non può entrare in vigore, salvo
90
modifica della stesso o revisione dei Trattati. Nel caso in cui la Corte esprima parere
negativo, la via più semplice per concludere l'accordo non è il ricorso al procedimento
per emendare i Trattati ma quello di modificare il contenuto dello stesso accordo
rimuovendo le disposizioni che la Corte considera incompatibili con i Trattati stessi.
L'eventuale decisione del Consiglio di concludere l'accordo prima del parere è
illegittima e quindi impugnabile. Il fatto che il Parlamento europeo, il Consiglio, la
Commissione e ciascuno Stato membro abbia la facoltà di chiedere una pronuncia
preventiva della Corte sembra implicare che questi soggetti non possono, qualora non
si siano avvalsi di tale facoltà, far valere ulteriormente l'illegittimità della conclusione
dell'accordo, anche perché una volta concluso l'accordo una pronuncia nel senso
dell'illegittimità determinerebbe la violazione di obblighi internazionali da parte
dell'Unione europea. Il procedimento dinanzi alla Corte è stato più volte utilizzato
per definire le rispettive competenze della Comunità e degli Stati membri in
ordine alla conclusione di accordi. La procedura prevista deve essere applicata a
tutti i problemi che possono venir sottoposti sia al giudice nazionale che al giudice
comunitario, purché i problemi diano adito ad incertezze sulla validità formale o
sostanziale dell'accordo oppure sulla compatibilità tra accordo e Trattato. La Corte di
giustizia può essere a sua volta interpellata, sia in forza degli articoli 226 e 230 del
Trattato CE, sia via pregiudiziale, solo se la stipulazione di un accordo rientri nella
sfera di competenza della Comunità e se tale competenza sia stata esercitata secondo
le disposizioni del Trattato. Inoltre, si deve ammettere che la Corte può essere
interpellata a titolo preventivo. L'esigenza di determinare a chi spetti la competenza
per concludere un accordo si pone in relazione alle varie fasi per la sua formazione.
Prima di tutto, in merito alla negoziazione. La negoziazione è normalmente avviata
con un oggetto dalle parti definito. In relazione alla determinazione dell'oggetto di un
eventuale accordo, la Corte dovrebbe valutare se essa è in grado di pronunciarsi
secondo la procedura in esame; mentre per la valutazione del merito della
compatibilità di un accordo con i Trattati, occorrerà potere considerare nel suo
insieme un testo la cui definizione sia alquanto avanzata; per risolvere la questione
della competenza sarà sufficiente che l'oggetto sia indicato in modo sommario, anche
perché la Corte potrebbe limitarsi a prospettare diverse soluzioni del problema a
seconda dell'eventuale contenuto dell'accordo. Anche una volta adottato il testo
dell'accordo, resta la possibilità per la Corte di pronunciarsi prima che il consenso
della Comunità ad essere vincolata dall'accordo sia espresso. In altre parole persiste
sino alla delibera del Consiglio. Ovviamente, ai fini dell'utilizzazione della procedura
dinanzi alla Corte, occorre che vi sia una ragionevole prospettiva che l'Unione concluda
un accordo. La procedura non potrebbe essere attivata per contestare generalmente
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In questo caso, la norma di riferimento è l'articolo 351 TFUE. Può accadere che prima
di divenire membro dell'Unione, uno Stato potrebbe aver assunto a mezzo di accordi
con altri Stati, degli obblighi incompatibili con quelli risultanti da norme dell'Unione.
La norma vuole evitare che gli Stati membri si trovino di fronte alla necessità di
violare gli obblighi posti dall’ accordo e quelli derivanti dalla normativa dell'Unione.
Pertanto tale disposizione consente agli Stati membri di continuare a rispettare gli
obblighi posti da precedenti accordi, stabilendo che le disposizioni dei Trattati non
pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da Convenzioni concluse, anteriormente al
1 gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione,
fra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall'altra. Un principio
analogo dovrebbe valere rispetto agli accordi conclusi da Stati membri con Stati
terzi in materie che solo successivamente sono divenute di competenza esclusiva
dell'Unione. Secondo l'articolo 351 TFUE, gli Stati membri sono obbligati a ricorrere
a tutti i mezzi atti ad eliminare l'incompatibilità constatate fra accordi e Trattati. Ciò
dovrebbe implicare l’ obbligo di denunciare l'accordo qualora una denuncia sia
consentita e lo Stato membro non accetti le modifiche necessarie per rimuovere
l'incompatibilità. Solo dopo molti anni, tuttavia, la Commissione ha fatto valere
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L’articolo 216 par 2TFUE stabilisce che gli accordi conclusi dall'Unione vincolano le
istituzioni dell'Unione e gli Stati membri. Più precisamente, va ricordato che
l'accordo, una volta concluso dall'Unione, produce effetti nell'ordinamento
dell'Unione, ponendo agli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione l'obbligo di
attuarne le disposizioni. Tali effetti si producono in modo automatico a seguito
della conclusione dell'accordo. Analoghi effetti derivano da quegli accordi che
vincolano l'Unione senza essere dalla stessa conclusi. Si impone, a proposito degli
accordi dell'Unione, la questione dell'irrevocabilità delle relative disposizioni da parte
dei singoli, cioè dell'idoneità dell'accordo a produrre effetti diretti. In diverse
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subordinati ai Trattati, tanto che un accordo non può entrare in vigore quando la
Corte accerti che esso non sia compatibile con i Trattati.