Sei sulla pagina 1di 96

1

COPIA PER VACCA ELEONORA vaccamariaeleonora@gmail.com

RIASSUNTO REALIZZATO DA FEDE/FANTABOSCO DEI RIASSUNTI

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GAJA ADINOLFI – INTRODUZIONE AL DIRITTO DELL’UE

CAPITOLO PRIMO

L’UE: ORIGINI ED EVOLUZIONE

DALLA CONCEZIONE DELL’EUROPA FUNZIONALE ALL’UE

Si è giunti alla nascita dell’UE così come modernamente intesa, attraversa una serie di
tappe che meritano una certa attenzione.

Infatti:

 Nel 1951, con la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio
(CECA), viene data la possibilità agli Stati membri di continuare la cooperazione
in altri campi. Viene in essere l’idea di un’Europa funzionale.
 Dopo la CECA, con i Trattati di Roma del 1957, sono nate altre due Comunità: la
Comunità economica europea (CEE), denominata CE, e la Comunità europea per
l’energia atomica (CEEA o EURATOM). Quest’ultima nasce con l’obiettivo di
contribuire allo sviluppo dell’uso pacifico dell’energia nucleare.
 La CECA si è estinta nel luglio 2002, poiché non è stato prorogato il termine di
scadenza previsto nel Trattato che l’aveva istituita.
 L’obiettivo centrale del Trattato CE era in origine quello di realizzare un
mercato comune, dove fosse assicurata la libera circolazione delle merci, con
l’eliminazione dei dazi doganali e di tutte le altre restrizioni al commercio fra
gli Stati membri. Ai cittadini di uno Stato membro erano conferite la libertà di
esercitare un’attività lavorativa in altri Stati membri e quella di prestarvi
servizi. Era, allo stesso modo, riconosciuta la libertà di trasferire capitali in tali
Stati in quanto funzionale allo svolgimento di attività economiche.

I Trattati istitutivi delle Comunità europee hanno subito numerose modifiche, oltre
che con i trattati per l’adesione di nuovi Stati membri, con ulteriori trattati. Il
Trattato sull’UE (TUE) adottato a Maastricht non si è limitato a modificare il
Trattato CE ma ha disciplinato la cooperazione fra gli Stati membri in alcune materie.
Inoltre, grazie ad esso, è stata creato l’UE, destinata a ricomprendere in un unico
2

quadro generale le varie forme di cooperazione poste in essere dagli Stati membri.
All’interno dell’UE, si distinguevano tre pilastri:

 Il primo, costituito dalle Comunità europee, era regolato dal Trattato CE e dal
Trattato EURATOM ed aveva ad oggetto le numerose materie di competenza
comunitaria.
 Il secondo pilastro, invece, regolato dal TUE, riguardava la politica estera e di
sicurezza comune
 Il terzo pilastro, infine, regolato dal TUE, concerneva la cooperazione di polizia
e giudiziaria in materia penale.

La volontà di semplificare il sistema ha portato ad elaborare un progetto secondo il


quale tutte le regole sarebbero state da un unico nuovo trattato, la Costituzione
europea, firmato dagli Stati membri del 2004. Tale progetto non ha trovato
realizzazione; è mancata la ratifica del nuovo trattato da parte di alcuni Stati membri
a causa del risultato negativo del referendum popolare svoltosi in Francia e nei Paesi
Bassi. A seguito del fallimento di tale progetto, gli Stati membri hanno deciso di
abbandonare l’idea di sostituire i Trattati in vigore con un nuovo testo e hanno
apportato, invece, modifiche ai Trattati in vigore. Sulla base di tale orientamento, è
stato concluso il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel
dicembre 2009. Il sistema dell’UE continua a fondarsi su due diversi Trattati ma si è
cercato di rendere la loro articolazione più lineare. Il Trattato sull’UE enuncia alcuni
diritti di fondamentale importanza, come la libertà, il rispetto per la dignità umana e
la democrazia. Il TFUE, invece, enuncia regole più dettagliate sul funzionamento delle
istituzioni e sulle competenze dell’Unione. Viene eliminata la struttura in pilastri e in
realtà non viene a determinarsi una vera e propria successione fra CE e UE ma le
funzioni che prima spettavano alla CE sono ora trasferite all’UE. L’Ue, dal canto suo,
finisce per rinnovarsi in maniera significativa:

 Le sue competenze normative vengono estese


 Viene modificato il suo sistema istituzionale
 Aumentano i poteri del Parlamento europeo
 Viene semplificata la procedura di adozione di atti.

Inoltre, nel rafforzamento dell’integrazione europea, ha avuto un ruolo di


fondamentale la Corte di Giustizia europea, che ha in primis creato un sistema di
tutela dei diritti fondamentali. Nonostante questi profondi cambiamenti, il processo di
3

integrazione non può dirsi concluso. Inizialmente, erano parte della CE, sei Stati;
successivamente, si sono aggiunti altri Stati membri, grazie ai trattati di adesione e
altri, stanno intrattenendo negoziati di adesione. Il Trattato sull’UE, infatti, prevede
che qualsiasi Stato europeo che rispetti i valori dell’UE e che si impegni a promuoverli
possa aderire, secondo un procedimento che attribuisce un ruolo alle istituzioni
politiche dell’UE e richiede la conclusione di un accordo soggetto alla ratifica di tutti
gli Stati membri. L’allargamento, senza dubbio, ha comportato comunque delle tensioni
a livello europeo nonché motivo di aggravamento delle difficoltà già presenti a livello
decisionale. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà nell’ottenere il voto unanime degli
Stati membri ai fini decisionali.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LA RIPARTIZIONE DEI POTERI SOVRANI FRA L’UE E GLI STATI MEMBRI

Nel Trattato sull’UE non figura il termine federale per designare lo stato attuale della
costruzione europea e nemmeno per indicare una sua possibile evoluzione. Questo
termine non era stato utilizzato nemmeno dalla Costituzione europea e dal punto di
vista giuridico, non avrebbe determinato conseguenze concrete. Rispetto al
federalismo così come modernamente inteso, l’UE non ha una funzione di governo
dell’insieme del territorio degli Stati membri o di parte di tale territorio ma svolge
principalmente una funzione di indirizzo della condotta degli Stati membri. Inoltre,
l’UE non dispone di un apparato centrale in grado di esercitare materialmente un
potere coercitivo nei confronti degli Stati membri. Neppure rispetto alle persone,
l’UE può esercitare direttamente dei poteri coercitivi. L’articolo 47 TUE enuncia che
l’UE ha personalità giuridica. Con il Trattato di Lisbona, infatti, l’UE ha acquisito la
personalità internazionale della Comunità , subentrando nei diritti e negli obblighi di
essa anche nei confronti degli Stati terzi. La circostanza che le funzioni di governo
del territorio spettino tuttora agli Stati membri implica che quando uno Stato
membro tenga un comportamento per dare attuazione ad una normativa dell’UE, tale
comportamento sia da ritenersi proprio dello Stato, anche se posto in essere al fine di
adempiere ad un obbligo derivante dalla partecipazione all’UE. Sul piano
internazionale, inevitabilmente, ciò comporta che è sempre allo Stato stesso che è
attribuito il comportamento di un suo organo. Benchè lo Stato membro sia, quindi,
responsabile di un suo comportamento, che costituisca la violazione di un obbligo
internazionale, ciò comporta il venire in essere talvolta della responsabilità dell’UE.
Ciò avviene quando l’obbligo internazionale sia posto anche all’Unione e la norma
europea vincoli il comportamento dello Stato membro, al punto da non lasciargli la
4

facoltà di tenere un comportamento che sia lecito sul piano internazionale. Quando,
invece, il comportamento è tenuto da un organo dell’UE, sarà responsabile l’UE della
violazione di un obbligo internazionale ad essa imposto. Ci si domanda, tuttavia, se in
questi casi, gli Stati membri concorrano o meno in termini di responsabilità: la
questione è, senza dubbio, controversa. Con il Trattato di Lisbona, sono state
introdotte nel Trattato sull’UE varie disposizioni che tendono a preservare le
competenze degli Stati membri. Si è, prima di tutto, chiarito che qualsiasi competenza
non attribuita all’UE nei Trattati appartiene agli Stati membri. Tale disposizione, ai
fini applicativi, ha però scarsa importanza dal momento che l’atto adottato dalle
istituzioni al di fuori delle competenze attribuite è illegittimo per vizio di
incompetenza. L’UE, inoltre, rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, compreso
il sistema della autonomie locali e regionali. Allo stesso modo, l’UE rispetta le funzioni
essenziali dello Stato, in modo tale da preservare un minimo di poteri agli Stati
membri. L’articolo 48 TUE ritiene che i Trattati modificativi potranno non solo
accrescere ma anche ridurre le competenze attribuite all’Unione nei Trattati. Il
merito del Trattato di Lisbona è stato comunque quello di garantire una quota di
poteri statali, così come dimostra la sentenza n.3047/1993 emessa dalla Corte
costituzionale tedesca. Essa ritiene che gli Stati membri siano padroni dei trattati in
quanto possono, esprimendo una volontà contraria all’atto di ratifica o di adesione, ai
trattati istitutivi, far venir meno la loro partecipazione all’Unione. Secondo la Corte
tedesca, uno Stato membro potrebbe provvedere in tal senso anche in modo
unilaterale. Tale orientamento trova oggigiorno conferma nell’articolo 50 del Trattato
di Lisbona, in cui si ritiene che ogni Stato membro possa decidere, conformemente
alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’UE. Ovviamente alla base del
recesso, vi deve essere un accordo che eviti in tutti i modi possibili, condizioni
pregiudizievoli per l’UE.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LA CITTADINANZA DELL’UNIONE

L’UE garantisce ai cittadini degli Stati membri, la cittadinanza europea. Presupposto


della cittadinanza europea, è la cittadinanza di uno Stato membro. Ovviamente la
cittadinanza europea si aggiunge a quella nazionale e non sostituisce quest’ultima. La
Corte ha affermato che uno Stato membro non può sindacare, ai fini dell’applicabilità
delle norme comunitarie sulla libertà di circolazione, la cittadinanza conferita da un
diverso Stato membro. Infatti, non spetta ad uno Stato membro limitare gli effetti
dell’attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un
5

requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza. Lo status di cittadino


dell’Unione comporta un insieme di situazioni soggettive che sorgono in base ai
Trattati istitutivi e alle relative norme di attuazione adottate dalle istituzioni. Si
pensi, ad esempio, al diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai Trattati e
dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. Al cittadino dell’UE sono poi
attribuiti diritti politici esercitabili sul territorio degli Stati membri diversi da quello
di nazionalità. L’articolo 22 TFUE conferisce al cittadino dell’UE il diritto di
elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede
nonché alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede. Il tutto
alle medesime condizioni dei cittadini di quello stesso Stato, seppur con la possibilità
che vengano adottate delle deroghe da parte del Consiglio. Per le elezioni del
Parlamento, è stabilito che l’elettore comunitario eserciti il diritto di voto nello Stato
membro di residenza qualora ne abbia espresso la volontà. Può essere espresso un solo
voto. E’ stata incentivata anche la partecipazione dei cittadini alla vita democratica
dell’UE, consentendo ad un numero di almeno 1 milione di cittadini dell’Unione di
invitare la Commissione a presentare proposte di atti normativi. La partecipazione dei
cittadini è incentivata anche dalla formazione di partiti politici a livello europeo, il cui
finanziamento è determinato da norme stabilite dal Parlamento europeo e dal
Consiglio. Spettano inoltre al cittadino dell’UE il diritto di petizione al Parlamento
europeo in merito a qualsiasi questione che rientra nel campo di attività dell’UE e che
lo riguardi direttamente. I cittadini dell’UE, infine, godono della tutela da parte delle
autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei
cittadini di detto Stato, qualora nello Stato terzo, lo Stato membro di nazionalità non
sia rappresentato. Questa possibilità presuppone il consenso dello Stato terzo.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco
6

CAPITOLO SECONDO

LE ISTITUZIONI POLITICHE

IL QUADRO ISTITUZIONALE DELL’UE

La struttura dell’UE si compone di vari organi che hanno il compito di realizzare i fini
dell’organizzazione, enunciati dal Trattato sull’UE. Ai principali organi dell’UE è
attribuita nel Trattato la qualifica di istituzione, che è riferita al Consiglio europeo, al
Consiglio, al Parlamento europeo, alla Commissione, alla Corte di giustizia, alla Banca
centrale europea e alla Corte dei conti. Tale qualifica comporta una serie di
prerogative di fondamentale importanza, fra cui la possibilità di proporre ricorsi
dinanzi alla corte di giustizia nei confronti di atti adottati da altre istituzioni. Alcune
istituzioni vengono indicate come istituzioni politiche, in maniera tale da poterle
contrapporre, per le loro funzioni, alle istituzioni giudiziarie. La funzione legislativa,
fra le istituzioni politiche, viene ripartita tra il Parlamento europeo e del Consiglio
mentre la Commissione detiene funzioni sia normative che di carattere esecutivo;
infine, il Consiglio europeo svolge essenzialmente un ruolo di indirizzo dell'attività di
altre istituzioni politiche. I vari Trattati, che hanno modificato il Trattato CE, hanno
innovato in modo significativo il sistema istituzionale, estendendo i poteri del
Parlamento europeo attraverso nuove procedure per l'adozione degli atti e
prevedendo la maggioranza qualificata, invece dell'unanimità, per l'approvazione di
gran parte delle delibere da parte del Consiglio. Per effetto di tali modifiche,
l'assetto istituzionale tende ad avvicinarsi sempre più al modello delle democrazie
rappresentative.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL CONSIGLIO EUROPEO

Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal
suo presidente e dal presidente della Commissione. Da sempre, tale organo si è
identificato come la sede nel cui ambito gli Stati membri provvedono ad un esame
periodico delle questioni pendenti di rilievo maggiore per lo sviluppo dell’Unione con la
7

finalità di delineare soluzioni complessive. Esso ha costituito la sede nell’ambito della


quale individuare compromessi politici che in altra sede non potevano essere raggiunti.
Tali funzioni sono ora delineate dal Trattato sull'Unione Europea, il quale indica che il
Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli
orientamenti e le priorità politiche generali. Ciascuno Stato membro può decidere se
partecipare al Consiglio europeo mediante il proprio Capo di Stato o mediante il
proprio Capo di governo. Ad esempio, l'Italia ha scelto di partecipare al Consiglio
europeo mediante il proprio Presidente del Consiglio dei ministri. La partecipazione del
Presidente della Commissione ha la funzione di porre in essere un raccordo fra il
Consiglio europeo e tale istituzione, cui spetta il potere di fare le proposte degli atti
normativi. Inoltre, se le questioni all'ordine del giorno lo richiedano, i capi di Stato o
di governo possono decidere di farsi assistere da un ministro mentre il Presidente
della commissione può farsi assistere da un membro della commissione. Inoltre,
partecipa ai lavori l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica
di sicurezza. La partecipazione di tale organo permette di assicurare il coordinamento
della sua attività con quella condotta dal Consiglio europeo in materia di politica
estera. Il Trattato sull'Unione europea prevede, infatti, che la rappresentanza
esterna dell'Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune è
assicurata dal presidente del Consiglio europeo, fatte salve le attribuzioni dell'alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Il Consiglio
europeo si riunisce di regola due volte a semestre su convocazione del presidente, il
quale può anche convocare una riunione straordinaria. Il presidente viene eletto dai
componenti del Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di 2 anni e
mezzo, rinnovabile una volta sola, e non può esercitare al tempo stesso un mandato
nazionale. Al presidente compete assicurare la preparazione e la continuità dei lavori e
facilitare la coesione e il consenso in seno al Consiglio europeo. Il ruolo del presidente
ha particolare rilevanza in quanto comporta l'attività di indirizzo del Consiglio
europeo, nonché la ricerca, in relazione alle questioni trattate, di soluzioni che
possano essere accettate dall'insieme degli Stati membri. Il Consiglio europeo non
esercita funzioni legislative e non adotta gli atti normativi previsti dai trattati
istitutivi. Esso esercita una notevole influenza sull'attività normativa dell'Unione.
L'attività di indirizzo svolta dal Consiglio europeo normalmente costituisce l'elemento
decisivo perché siano successivamente adottati atti normativi dell'Unione. Quanto
deliberato dal Consiglio europeo risulta dal comunicato finale di ciascuna riunione e da
eventuali risoluzioni o dichiarazioni. I trattati istitutivi prevedono l'adozione da parte
del Consiglio di particolari delibere, stabilendo le relative modalità di voto. Spetta al
Consiglio europeo il potere di adottare l'elenco delle formazioni del Consiglio e i turni
8

di presidenza, il potere di stabilire la composizione del Parlamento europeo e quello di


definire il sistema di rotazione fra cittadini degli Stati membri ai fini della nomina
della Commissione. Per l'adozione delle proprie delibere, il Consiglio europeo si
pronuncia, salvo i diversi casi stabiliti nei trattati, per consenso. Ciò significa che le
delibere sono prese senza voto quando non vi sia un'opposizione ad adottare un testo
concordato informalmente. Questo modo di deliberare presenta una certa flessibilità,
in quanto non esclude che siano manifestati dissensi da parte degli Stati membri
rispetto a certi punti. Qualora sia invece prevista dai trattati l'adozione da parte del
Consiglio europeo di delibere mediante votazione, si applicano in via di principio le
stesse regole, ai fini del raggiungimento dell'unanimità e della maggioranza qualificata,
prevista per le delibere del Consiglio; il presidente del Consiglio europeo e il
presidente della Commissione non partecipano al voto, per cui la delibera è adottata
solo dai governi degli Stati membri. L'attività del consiglio europeo conferisce
all'Unione una connotazione intergovernativa. Rispetto all'attività del Consiglio
europeo, non risulta significativo il ruolo dei parlamenti nazionali.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL CONSIGLIO

Il Consiglio rappresenta una replica minore del Consiglio europeo, dal momento che
esso esprime la volontà dei governi degli Stati membri ma si differenzia da
quest'ultimo per le funzioni che gli sono attribuite. Il Consiglio possiede anzitutto
una funzione normativa, che esercita insieme al Consiglio europeo, secondo varie
procedure. Nessun atto normativo può essere adottato in assenza di una delibera
favorevole da parte del Consiglio, tanto che il ruolo ricoperto da tale istituzione
risulta essere, sotto questo punto di vista, di fondamentale importanza. Inoltre, il
Consiglio ha poteri rilevanti nell'ambito dell'approvazione del bilancio dell'Unione
nonché nella definizione delle politiche e nel loro coordinamento alle condizioni
stabilite nei Trattati. Esso , inoltre, stabilisce lo statuto dei comitati previsti dai
Trattati e ha il potere di adottare raccomandazioni. Può esercitare funzioni esecutive
in casi specifici debitamente motivati nonché in materia di politica estera e di
sicurezza comune. Da un punto di vista strutturale, è composto da tanti membri quanti
sono gli Stati membri dell'Unione ed è anche esso espressione dei governi. Partecipa
alle riunioni del Consiglio, infatti, un rappresentante di ciascuno Stato membro che in
nome di esso, esercita il diritto di voto. Il Consiglio si riunisce in varie formazioni. Le
2 formazioni più importanti sono direttamente previste dal Trattato sull'Unione
9

europea: il Consiglio affari generali, che ha il compito di assicurare la coerenza dei


lavori delle varie formazioni e di garantire che sia dato seguito agli indirizzi del
Consiglio europeo e il Consiglio affari esteri, a cui spetta il compito di elaborare
l'azione dell'Unione in materia di politica estera. Alle riunioni di tali formazioni,
partecipano i ministri degli esteri degli Stati membri. L'elenco delle altre formazioni è
adottato dal Consiglio europeo in relazione alle materie oggetto delle competenze
dell'Unione. La composizione del Consiglio varia nelle sue diverse formazioni, che sono
stabilite in relazione alla materia che dovrà essere trattata. La presidenza delle varie
formazioni è esercitata secondo un sistema di rotazione paritaria fra gli Stati
membri, stabilito, a sua volta, con decisione a maggioranza qualificata, dal Consiglio
europeo. È previsto, al riguardo, che la presidenza sia esercitata da gruppi
predeterminati di Stati membri per un periodo di 18 mesi, secondo un sistema di
rotazione paritaria fra gli Stati membri che terrà conto delle loro diversità e
degli equilibri geografici dell'Unione.

Il Consiglio possieda a Bruxelles un proprio apparato amministrativo, chiamato


Segretariato generale, con circa 2000 dipendenti, che opera sotto la responsabilità
del Segretario generale nominato dal Consiglio stesso. Le delibere del Consiglio sono
adottate a maggioranza qualificata, eccetto i casi in cui Trattati prevedono
l'unanimità o la maggioranza semplice. La maggioranza qualificata è il meccanismo
prevalente, essendo stata introdotta in molti dei casi nei quali era in precedenza
richiesta l'unanimità. Il ricorso alla maggioranza semplice del Consiglio è previsto dal
Trattato istitutivo in pochi casi. Si pensi alle delibere con cui il Consiglio richieda alla
Commissione di presentare la proposta di un atto normativo. L'unanimità è tuttora
prevista per alcune categorie di delibere, in ragione della loro particolare rilevanza o a
causa della riluttanza di certi Stati nel rinunciare al potere di impedire l'adozione di
atti normativi relativi a determinate materie, riguardanti, ad esempio, la politica
estera e la sicurezza comune. L'articolo 48 TUE attribuisce tuttavia al Consiglio
europeo il potere di consentire al Consiglio di deliberare, in un determinato settore, a
maggioranza qualificata quando invece sia prevista dai Trattati l'unanimità. Ai fini del
raggiungimento dell'unanimità, è precisato che le astensioni dei membri presenti o
rappresentati non ostino all'adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è
richiesta l'unanimità. Ne risulta che nell'ipotesi di assenza, non si possa avere una
delibera unanime, salvo che ricorra l'ipotesi di una delega per il voto, che è ammessa
con il limite che ciascun membro del Consiglio possa ricevere delega da uno solo degli
altri Stati membri. Per l'adozione di delibere del Consiglio a maggioranza qualificata, è
applicato un complesso meccanismo che si fonda essenzialmente sull'attribuzione di un
10

peso differente al voto di ciascuno Stato membro. Tale meccanismo è stabilito da un


Protocollo allegato ai Trattati istitutivi che ha il fine di assicurare un passaggio
graduale dal sistema di voto stabilito prima dell'entrata in vigore del Trattato di
Lisbona al nuovo meccanismo previsto nei trattati. La maggioranza qualificata è
raggiunta in presenza di 260 voti. Il numero di voti attribuiti a ciascuno Stato non
corrisponde in modo rigoroso alla sua grandezza, sotto il profilo dell'entità della
popolazione. A partire dal 1 novembre 2014 ha trovato applicazione un nuovo sistema
di voto con cui viene eliminata l'attribuzione di un peso particolare a ciascuno Stato
membro, prevedendo che per maggioranza qualificata s'intenda almeno il 55% dei
membri del Consiglio, con un minimo di 15, rappresentanti Stati membri che
rappresentino almeno il 65% della popolazione dell'Unione. In sostanza, si prevede
quindi l'applicazione cumulativa di due criteri: il primo che pone sullo stesso piano
tutti gli Stati membri, basato su una percentuale e una soglia minima, e l'altro, detto
criterio del criterio demografico, collegato all'entità della popolazione. Per impedire
l'adozione di una delibera occorre l'opposizione di almeno quattro membri del
Consiglio. Ciò ovviamente tende ad attenuare il potere degli Stati membri più popolosi,
come la Germania, evitando che l’eccessivo numero di essi possa bloccare l'adozione di
un atto. In una decisione del Consiglio, entrata in vigore dello stesso giorno del
Trattato di Lisbona, si prevede che anche quando i voti contrari non siano
sufficienti per bloccare l'adozione di una delibera ma l’opposizione sia comunque
consistente, il Consiglio cercherà di raggiungere un più ampio consenso all'interno
del Consiglio. Quando il Consiglio non deliberi su proposta della Commissione, la
maggioranza richiesta sale al 72% ma la percentuale della popolazione rappresentata
resta del 65%. Si esige quindi in tal caso un consenso più ampio in considerazione del
fatto che quando il Consiglio non agisce su proposta della Commissione, il testo
potrebbe non avere tenuto conto dell'interesse generale dell'Unione, privilegiando
alcuni Stati membri. Responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio è il
Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri. È sempre
responsabile dell'esecuzione dei compiti che il Consiglio gli affida e può adottare
decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno. I rappresentanti
permanenti sono quelli che ciascuno Stato membro invia presso l'Unione. Il comitato è
detto COREPER. Esso non adotta formalmente atti. Il consiglio o il COREPER possono
decidere all'unanimità di seguire una procedura scritta. Il Consiglio si riunisce in
seduta pubblica quando delibera e vota su un progetto di atto legislativo. Ciascuna
riunione del Consiglio è suddivisa in due parti dedicate alle deliberazioni su atti
legislativi dell'Unione e alle attività non legislative. Il carattere pubblico delle riunioni
dedicate all'adozione degli atti costituisce un utile strumento di controllo da parte dei
11

cittadini circa la posizione assunta dai governi. Per le attività legislative è mantenuto
il modo di procedere che riflette in parte la tradizione di segretezza propria dei
negoziati internazionali fra governi. Infatti, si ritiene che sia molto più semplice
raggiungere soluzioni attraverso la discussione pubblica e perciò più libera. Tuttavia,
anche in questi casi, le difficoltà non mancano tanto che risulta essere
particolarmente difficoltoso dar vita ad una vera e propria discussione a causa del
numero elevato dei membri del Consiglio, dell'uso di una varietà di lingue e del fatto
che nell'atteggiamento dei ministri spesso prevalgono le preoccupazioni per le
conseguenze politiche che le delibere possono avere sul piano nazionale. In Italia, i
regolamenti parlamentari permettono alle Camere la possibilità di discutere gli atti
del Consiglio prima che siano adottati. La circostanza che il Parlamento partecipi alla
formazione delle scelte che il governo esprime nel Consiglio si ricollega al potere più
generale di indirizzo che nel sistema costituzionale italiano il Parlamento ha in materia
normativa. La legge n. 234/2012 prevede che i competenti organi parlamentari
possano formulare osservazioni e adottare ogni opportuno atto di indirizzo al governo
in merito ai progetti di atti dell'Unione e agli atti preparatori. È previsto dalla stessa
legge che il governo apponga in sede di Consiglio la cosiddetta riserva d'esame
parlamentare, qualora le Camere abbiano iniziato l'esame di un progetto o atto
preparatorio oppure quando, data l'importanza del progetto, il governo decida di
chiedere agli organi parlamentari di esprimersi. Nel caso venga apposta tale riserva, il
governo deve chiedere il rinvio della discussione o delibera del Consiglio al fine di
poter prendere atto della posizione delle Camere. Dal momento che, inoltre, l'attività
dell'Unione europea interessa in molti casi materie di competenza delle Regioni,
sussiste l'esigenza che anche quest'ultime possano influire sulla posizione espressa
dal governo in sede di Consiglio. L'articolo 117 comma 5° della Costituzione stabilisce
che le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipino alle decisioni dirette all'approvazione degli atti normativi
comunitari. In tali materie, tali enti concorrono alla formazione degli atti comunitari,
partecipando, nell'ambito delle delegazioni del governo, delle attività del consiglio e
dei gruppi di lavoro dei comitati del Consiglio e della Commissione europea, secondo
modalità da concordare in sede di conferenza Stato-regioni che tengano conto delle
particolarità delle autonomie speciali e garantiscano l'unitarietà della
rappresentazione della posizione italiana da parte del capo delegazione designato dal
governo. Inoltre, le Regioni e le Province autonome possono trasmettere osservazioni
al governo, ai fini della formazione della posizione italiana e possono richiedere la
convocazione della conferenza Stato regioni per cercare di raggiungere un'intesa
sotto questo punto di vista.
12

LA COMMISSIONE

La Commissione non è composta da rappresentanti dei governi degli Stati membri e ha


il compito di promuovere l’interesse generale dell’Unione, adottando le iniziative
appropriate a tal fine. La competenza di adottare atti normativi è limitata ai soli casi
stabiliti dai Trattati mentre molto più ampio è senza dubbio il potere di adottare
norme per effetto di deleghe contenute in atti legislativi dell’Unione. La
discrezionalità riservata alla Commissione, sotto questo punto di vista, è tuttavia
limitata, sia perché l’atto legislativo precisa gli obiettivi, il contenuto, la portata e la
durata della delega, sia perché il Parlamento o il Consiglio possono revocare la delega o
impedire, sollevando obiezioni, l’entrata in vigore dell’atto adottati dalla Commissione.
La Corte di giustizia, nel verificare che il potere di delega sia stato esercitato
correttamente, considera le caratteristiche della specifica materia che ne è oggetto.
Applicando tale criterio, la Commissione, secondo la Corte, non potrebbe adottare un
atto riguardante i poteri delle guardie di frontiera nella sorveglianza delle frontiere
marittime, poiché le disposizioni la cui adozione richiede scelte politiche rientranti
nelle responsabilità proprie del legislatore dell‘Unione non possono costituire oggetto
di una delega. Il più importante dei poteri della Commissione, rispetto all’emanazione
degli atti normativi, attiene all’elaborazione delle proposte. Un atto legislativo
dell’Unione, infatti, può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che
i Trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della
Commissione se i Trattati lo prevedono. La Commissione è, al tempo stesso, dotata di
poteri di coordinamento, di esecuzione e di gestione, alle condizioni stabilite dai
Trattati. Il Parlamento e il Consiglio stabiliscono preventivamente le regole e i principi
generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio
delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione. Tali modalità di controllo
sono poste in essere mediante comitati di espressione governativa. Poteri esecutivi
sono conferiti alla Commissione, in particolare riguardo alla politica della concorrenza,
agli aiuti di Stato alle imprese, alla gestione dei programmi di finanziamento da parte
dell’Unione. Talora poteri esecutivi sono affidati a enti specifici, quali l’Agenzia
europea dell’ambiente, aventi particolari competenze tecnico-scientifiche. Spettano
inoltre alla Commissione il compito di vigilare sul rispetto degli obblighi posti da norme
dell’Unione da parte degli Stati membri e quello di rappresentanza esterna
dell’Unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per gli altri
13

casi previsti dai Trattati. La Commissione spesso adotta le proprie delibere senza
voto. Se si procede al voto, le deliberazioni della Commissione sono prese a
maggioranza dei suoi membri. I membri della Commissione sono attualmente di numero
ari a quello degli Stati membri. Il TUE ha previsto che dal 1° novembre 2014 essa
dovrebbe essere composta da un numero di membri corrispondente ai 2/3 del numero
degli Stati membri, compresi il presidente e l’alto rappresentante dell’Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza. Tale regime richiederebbe di porre in essere
un meccanismo di rotazione paritaria fra gli Stati membri, che consenta di riflettere
la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri. E’ tuttavia previsto che il
Consiglio europeo, decidendo all’unanimità, possa modificare il numero dei commissari.

La Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza. Di fatto, tuttavia,


tale indipendenza non è sempre così netta. I commissari devono necessariamente
possedere una serie di requisiti, alquanto generici che lasciano notevole
discrezionalità agli Stati membri. La procedura di nomina è alquanto complessa. Il
Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, ex art.17 TUE, propone al
Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Il
candidato presidente è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che
lo compongono. Se tale maggioranza non viene raggiunta, il Consiglio europeo propone
un altro candidato. Il Consiglio, di comune accordo con il presidente eletto. indica le
altre persone da nominare, che sono selezionate sulla base delle proposte presentate
dagli Stati membri. Il Presidente e gli altri membri della Commissione, infine, sono
soggetti ad un voto di approvazione, da parte del Parlamento europeo. In seguito
all’approvazione da parte del Parlamento europeo, la Commissione è infine nominata dal
Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata.

Il TUE ritiene che la Commissione sia responsabile collettivamente dinanzi al


Parlamento. Il Parlamento, dal canto suo, può far decadere la Commissione con un voto
di censura, senza che ciò implichi un maggior ruolo dello stesso Parlamento per la
nomina della nuova Commissione, dato che anche per tale nomina si applica la
procedura descritta precedentemente. Il mandato della Commissione dura 5 anni. Il
presidente della Commissione definisce gli orientamenti della Commissione, nomina i
vicepresidenti, può costringere un membro della Commissione a rassegnare le
dimissioni e decide l’organizzazione interna della Commissione, attribuendo a ciascun
commissario uno o più settori di competenza.

L’apparato amministrativo della Commissione, situato prevalentemente a Bruxelles,


è articolato in:
14

 Segretario generale
 Direzioni generali
 Servizi
 Uffici.

La Commissione, infine, adotta il proprio regolamento interno al fine di assicurare il


proprio funzionamento e quello dei propri servizi.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL PARLAMENTO EUROPEO

Il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la


funzione di bilancio. Inoltre, svolge un ruolo di controllo politico sulle altre istituzioni
e esercita funzioni consultive, emettendo pareri. Infine, elegge il presidente della
Commissione.

Esso è composto da rappresentanti dei cittadini dell’Unione che sono eletti a suffragio
universale diretto, libero e segreto, per un mandato di 5 anni. Si tiene conto
dell’entità della popolazione di ciascuno Stato membro, ai fini della ripartizione dei
seggi. Il Parlamento non può essere composto da più di 750 membri (oltre al
presidente) e ciascuno Stato membro non può vedersi assegnati più di 96 seggi o meno
di 6 (trattasi del cosiddetto principio della proporzionalità degressiva). La
composizione del Parlamento è stabilita da una decisione adottata all’unanimità dal
Consiglio europeo con l’approvazione dello stesso Parlamento. Mentre i Trattati
istitutivi stabilivano originariamente che l’elezione del Parlamento europeo a suffragio
universale diretto si svolgesse secondo una procedura uniforme, le prime elezioni si
sono tenute nel 1979 in base ad una procedura che ciascuno Stato membro ha stabilito
e non si è giunti sinora ad adottare un sistema elettorale uniforme. L’articolo 223
TFUE prevede che il Parlamento elabori un progetto volto a consentire l’elezione dei
suoi membri secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri oppure secondo
principi comuni a tutti gli Stati membri. Spetta al Consiglio adottare all'unanimità,
previa approvazione del Parlamento, le disposizioni necessarie che entrano in vigore
previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle loro rispettive norme
costituzionali. Gli ostacoli principali nel giungere ad una procedura uniforme derivano
principalmente dalle diverse modalità con cui si svolgono nei diversi Stati membri, le
elezioni nazionali, regionali e locali. Alcuni principi comuni sono stati stabiliti dall'Atto
relativo all'elezione di rappresentanti nel Parlamento europeo a suffragio universale
diretto, adottato dagli Stati membri il 20 settembre 1976. È stato inoltre previsto
15

che la data dell'elezione del Parlamento europeo debba cadere entro uno stesso lasso
di tempo compreso fra la mattina del giovedì e la domenica immediatamente
successiva, con la precisazione che le operazioni di spoglio delle schede di voto
possono aver inizio soltanto dopo la chiusura dei seggi dello Stato membro in cui gli
elettori votano per ultimi. È stato imposto il divieto del cosiddetto doppio mandato,
per cui la carica di parlamentare europeo è incompatibile con quella di membro di un
Parlamento nazionale; l'elezione deve avvenire a scrutinio di lista o uninominale
preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale, mantenendo complessivamente
il carattere proporzionale del voto. Sono stati quindi stabiliti alcuni principi comuni
che da un lato tendono a favorire il sistema proporzionale anche se la perdurante
mancanza di una procedura uniforme ha come importante conseguenza che, essendoci
un distinto sistema elettorale in ciascuno Stato membro, non hanno rilievo eventuali
collegamenti tra partiti o candidati in Stati membri. I partiti attualmente costituiti a
livello europeo, oltretutto, si configurano piuttosto come organismi di collegamento
fra partiti politici che operano sul piano nazionale. Il Parlamento, inoltre, delibera a
maggioranza dei suffragi espressi a meno che non venga diversamente stabilito dai
trattati. Il regolamento interno del Parlamento stabilisce la procedura di nomina del
presidente e di 14 vicepresidenti, che compongono insieme l'ufficio di presidenza. È
prevista anche la costituzione di gruppi parlamentari secondo le affinità politiche. Per
la costituzione del gruppo occorre un numero minimo di 25 deputati eletti in almeno un
quarto degli Stati membri. All'interno di ciascun gruppo politico, la nazionalità
costituisce talora un fattore di divisione. Anche il Parlamento europeo ha un proprio
segretariato generale, con circa 5000 dipendenti che operano soprattutto in
Lussemburgo e a Bruxelles.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LE RELAZIONI FRA LE ISTITUZIONI POLITICHE

Fra le istituzioni politiche intercorrono numerose relazioni. Il rispetto dell'equilibrio


istituzionale comporta che un'istituzione eserciti le proprie competenze nel rispetto
di quelle delle altre istituzioni. Viene sanzionata qualsiasi eventuale violazione di
suddetta regola. Nell'esercizio delle competenze attribuite dai Trattati, le istituzioni
devono comportarsi nei loro rapporti reciproci secondo un principio di leale
cooperazione. Inoltre, lo stesso Trattato di Lisbona ha inserito nel TUE una
disposizione secondo cui ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le
sono conferite dai Trattati e le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione tra
di loro. Ad esempio, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione procedono a reciproche
16

consultazioni e definiscono di comune accordo le modalità della cooperazione. A tal


fine, le istituzioni concludono tra loro accordi, per integrare la disciplina contenuta nei
Trattati; tali accordi possono assumere carattere vincolante. Come si è visto, mentre
il Consiglio è diretta espressione dei governi degli Stati membri, nella Commissione
l'influenza degli Stati membri è meno diretta ma è pur sempre presente, anche se i
membri della Commissione sono tenuti a operare con indipendenza, senza ricevere
istruzioni dal governo. L'omogeneità politica fra le due istituzioni, assicurata
soprattutto dalla procedura di nomina della Commissione, si è manifestata ampiamente
nella prassi. In alcuni periodi, la Commissione è sembrata svolgere essenzialmente la
funzione di un segretariato del Consiglio; in altri, invece, la commissione ha avuto un
ruolo maggiormente propulsivo e talora conflittuale. La posizione assai variegata del
Parlamento europeo e la sua organizzazione secondo gruppi politici rendono questa
istituzione politicamente alquanto diversa dal Consiglio e dalla Commissione. Gli stessi
Trattati attribuiscono al Parlamento il potere di controllo sulla Commissione. Infatti,
lo stesso Parlamento può approvare una mozione di censura sull'operato della
Commissione e l'effetto di tale mozione di censura è che i membri della Commissione
si dimettono collettivamente dalle loro funzioni. Alcune mozioni di censura sono state
presentate ma mai nessuna è stata sino a questo momento approvata. L'attività di
controllo del Parlamento sulle altre istituzioni può esplicarsi in relazione anche alle
petizioni e alle denunce presentatevi dalle persone fisiche o giuridiche. Ogni cittadino
dell'Unione, nonché ogni persona fisica o giuridica che abbia la residenza o la sede
sociale in uno Stato membro, ha il diritto di presentare una petizione al Parlamento su
una questione che lo riguarda direttamente e che ovviamente riguardi anche una
materia che rientri nel campo di attività dell'Unione. Possono inoltre essere
presentate al Parlamento, da parte degli stessi soggetti, denunce di infrazione o di
cattiva amministrazione nell'applicazione del diritto dell'Unione. A seguito dell'esame
di tali denunce, il Parlamento può decidere di svolgere un'inchiesta, istituendo
un'apposita Commissione. La Commissione deve sottoporre al Parlamento europeo una
relazione generale annuale sull'attività dell'Unione e tale relazione non costituisce un
atto politicamente rilevante ma è comunque un utile mezzo per conoscere, anno per
anno, l'insieme delle attività dell'Unione. Il Parlamento esercita il potere di controllo
politico anche attraverso interrogazioni rivolte ad altre istituzioni. Le interrogazioni
si svolgono con richiesta di risposta orale e di dibattito e possono essere rivolte sia
alla Commissione sia al Consiglio. Inoltre, interrogazioni con richiesta di risposta
scritta possono essere poste, oltre che al Consiglio e alla Commissione, al presidente
del Consiglio europeo e all'alto rappresentante per la politica estera, nonché alla
Banca centrale europea. Le interrogazioni scritte e le relative risposte sono
17

pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea, in cui è pubblicato anche il


verbale delle sedute del Parlamento. Secondo quanto detto sino a questo momento, il
Parlamento non possiede strumenti significativi di controllo nei confronti delle altre
istituzioni politiche e in particolare nei confronti del Consiglio. Questa circostanza ha
determinato l'opinione dell'esistenza di un difetto di democrazia nell'ambito del
sistema dell'Unione. D'altronde, il funzionamento dell'Unione si fonda sulla
democrazia rappresentativa e il fatto che l'organo eletto a suffragio universale
diretto possieda ancora oggi poteri meno incisivi del Consiglio non giova all’attuazione
della democrazia rappresentativa. Vi è chi ritiene che il carattere democratico
dell'Unione sarebbe, tuttavia, salvaguardato indirettamente, attraverso la
responsabilità del governo di ciascuno Stato membro nei confronti dei rispettivi
parlamenti nazionali. La Corte di giustizia ha rilevato che esiste un fondamentale
principio della democrazia, secondo cui popoli partecipano all'esercizio del potere per
il tramite di un'assemblea rappresentativa. Nonostante siano state apportate nel
tempo varie modifiche ai Trattati al fine di accrescere i poteri del Parlamento
europeo, il ruolo determinante che il Consiglio detiene nei procedimenti normativi non
consente di dire che sia ancora stato costruito un sistema che risponda pienamente
all'esigenza della democrazia rappresentativa.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LE PROCEDURE PER L’ADOZIONE DEGLI ATTI NORMATIVI DELL’UNIONE

I Trattati istitutivi prevedono varie procedure per l’adozione degli atti normativi,
sulla base delle quali il ruolo delle situazioni politiche si articola diversamente,
riservando ad esse poteri più o meno significativi. Ogni disposizione dei Trattati che
attribuisce poteri normativi ad una certa istituzione indica quale procedura deve
essere seguita per l’adozione degli atti. In altre parole, la norma che conferisce il
potere, indica anche le modalità di esercizio dello stesso. L’articolo 48 par.7 TUE che
attribuisce al Consiglio europeo il potere di consentire l’adozione di atti secondo la
procedura legislativa ordinaria nei casi nei quali i Trattati prevedono il ricordo ad una
procedura speciale. Il TFUE prevede una procedura legislativa ordinaria, che consiste
nell’adozione congiunta di un atto da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su
proposta della Commissione. Tale procedura prende avvio con la presentazione al
Parlamento e al Consiglio da parte della Commissione di una proposta di atto
normativo. La procedura così avviata può prevedere sino ad un massimo di tre diverse
letture, da parte del Consiglio e del Parlamento. Nel corso della prima lettura, il
Parlamento adotta una posizione e la trasmette al Consiglio; se quest’ultimo approva
18

tale posizione, l’atto viene adottato nei termini risultanti dalla posizione stessa. Se,
invece, il Consiglio non approva la posizione del Parlamento europeo, esso adotta una
sua posizione e la trasmette al Parlamento. Si apre allora la seconda lettura, nel corso
della quale la posizione del Consiglio si trasforma in un atto quando il Parlamento
l’approvi oppure quando esso non si pronunci nel termine di 3 mesi dalla comunicazione
della stessa posizione. Se, invece, il Parlamento respinge tale posizione a maggioranza
dei membri che lo compongono, l’atto proposto si considera non adottato. Qualora il
Parlamento, sempre alla stessa maggioranza, abbia formulato emendamenti rispetto
alla posizione del Consiglio, quest’ultimo potrà adottare l’atto solo in un’ipotesi che si
verificherà difficilmente; quella in cui il Consiglio a maggioranza qualificata approvi
tutti gli emendamenti del Parlamento. Occorre tuttavia l’unanimità per gli
emendamenti rispetto ai quali la Commissione ha dato parere negativo. Quando il
Consiglio non accetti gli emendamenti, è convocato un comitato di conciliazione, che
riunisce i membri del Consiglio o i loro rappresentanti e altrettanti rappresentanti il
Parlamento europeo, con il fine di giungere ad un accordo su un progetto comune a
maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a
maggioranza dei rappresentanti il Parlamento europeo. Il comitato ha sei settimane di
tempo per approvare un progetto comune. Se non si riesce ad approvare il progetto,
l’atto si considera non adottato. Se invece il comitato approva un progetto comune, è
avviata la terza lettura nella quale il Parlamento e il Consiglio dispongono di un
termine, anch’esso di sei settimane, per adottare l’atto in questione in base al
progetto comune. Il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei voti espressi e il
Consiglio a maggioranza qualificata. Se non è così approvato, l’atto si considera non
adottato. Il ruolo della Commissione appare significativo in primo luogo in ragione del
suo potere di formulare la proposta dell’atto. Nella prassi, la Commissione elabora le
proprie proposte, tenendo conto delle prospettive che le proposte stesse hanno di
essere accolte da parte del Consiglio. Essa si avvale anche della collaborazione di
esperti che sono di regola funzionari degli Stati membri. La Commissione, inoltre,
esercita una certa influenza, in quanto essa può modificare la propria proposta in ogni
fase delle procedure che portano all’adozione di un atto dell’Unione. Si tratta di un
potere significativo, quando l’atto può essere adottato dal Consiglio a maggioranza,
perché allora il Consiglio può emendare la proposta solo deliberando all’unanimità. In
questo modo, la Commissione può, modificando la propria proposta, consentire
l’adozione di un atto da parte dl Consiglio a maggioranza. Un ruolo particolarmente
significativo può essere svolto anche nel comitato di conciliazione al fine di individuare
una soluzione accettabile sia dal Parlamento che dal Consiglio.
19

Nei casi specifici previsti dai Trattati, sono poi definite delle procedure legislative
speciali che prevedono l’adozione di atti da parte del Parlamento europeo con la
partecipazione del Consiglio o da parte di quest’ultimo con la partecipazione del
Parlamento europeo. L’ipotesi in cui un atto sia adottato dal Parlamento con la
partecipazione del Consiglio è prevista raramente e in genere per delibere di
carattere organizzativo. E’ invece frequente l’ipotesi in cui un atto del Consiglio sia
adottato con la partecipazione del Parlamento. Tale partecipazione può esplicarsi
attraverso due differenti modalità. La prima richiede l’approvazione da parte del
Parlamento ed è prevista per l’adozione di atti sulla base dell’articolo 352 TFUE e al
fine di stabilire una procedura elettorale uniforme. Il Parlamento, sotto questo punto
di vista, potrà, negando la sua approvazione, impedire l’adozione dell’atto ma non potrà
incidere altrimenti sul suo contenuto. La seconda modalità prevede che il Parlamento
sia soltanto consultato sulla proposta dell’atto, come previsto dall’articolo 113 TFUE.
La consultazione implica che il Parlamento abbia il potere di esprimere la sua posizione
in merito all’atto proposto solo attraverso un potere che non è vincolante. Il parere
incide generalmente poco sul contenuto dell’atto, anche perché quando esso giunge al
Consiglio di solito gli Stati membri hanno già provveduto a discutere ampiamente la
proposta, normalmente nell’ambito del Comitato dei rappresentanti permanenti. La
Corte di Giustizia ha valorizzato il ruolo consultivo del Parlamento, affermando che
quando i Trattati prevedono la consultazione obbligatoria, l’atto adottato dal Consiglio
in assenza del parere del Parlamento è illegittimo. Non è posto un termine al
Parlamento per fare il proprio parere anche se in virtù del principio di leale
cooperazione, non sono ammesse tempistiche troppo lunghe.

Trascorso un periodo ragionevole, il Consiglio può adottare l'atto. Il fatto che,


tuttavia, la Commissione possa modificare la propria proposta in quanto il Consiglio non
abbia deliberato, rischia di vanificare il parere espresso dal Parlamento sulla proposta
originaria. La Corte di giustizia ha dichiarato che l'obbligo di consultare il Parlamento
europeo durante il procedimento legislativo, comporta l'obbligo di una consultazione
ogni volta che l'atto adottato sia diverso quanto alla sua sostanza da quello sul quale il
Parlamento è stato già consultato. Non mancano i casi in cui Trattati istitutivi
prevedono che un atto sia adottato senza che sia richiesta la partecipazione del
Parlamento europeo. Talvolta è richiesto l’intervento del parere di un organo tecnico, il
Comitato economico sociale, composto dai rappresentanti dell'organizzazione dei
datori di lavoro, i lavoratori dipendenti e gli altri attori rappresentativi della società
civile, in particolare nei settori socioeconomici, civico, professionale e culturale.
20

Inoltre, è richiesta talvolta anche la consultazione di un organo di più recente


formazione, il Comitato delle regioni, che è composto da rappresentanti delle
collettività regionali e locali, le quali sono titolari di un mandato elettorale nell'ambito
di una collettività regionale e locale e politicamente responsabili dinanzi ai propri
elettori. Il numero di ciascuno dei componenti di tali organi è di 350. La loro
composizione è stabilita dal Consiglio all'unanimità su proposta della Commissione.
Ciascuno Stato membro provvede a proporre delle persone che sono quindi nominate
dal Consiglio per un periodo di cinque anni. Il Consiglio, il Parlamento e la Commissione
possono stabilire un termine, non inferiore mai ad un mese, entro il quale tali organi
devono emettere il loro parere. Trascorso inutilmente tale termine, si può non tenere
conto dell'assenza di parere. L’articolo 155 TFUE prevede una particolare modalità di
adozione degli atti dell'Unione, in virtù della quale gli accordi conclusi a livello
dell'Unione tra le parti sociali possano essere attuati mediante la decisione del
Consiglio su proposta della Commissione. Ciò implica che gli accordi vengano recepiti
all'interno di un atto dell'Unione, acquisendo così forza vincolante.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL FINANZIAMENTO DELL’UNIONE E LA PROCEDURA DI BILANCIO.

Il bilancio dell’UE, fatte salve alcune entrate, è finanziato integralmente tramite


risorse proprie. Risulta essere, infatti, corretto ritenere che l'Unione disponga di un
sistema di risorse proprie. Tale sistema è determinato con decisione adottata
all'unanimità dal Consiglio previa consultazione del Parlamento. Affinché tale decisione
entri in vigore occorre che esse ricevono l'approvazione degli Stati membri
conformemente alle rispettive norme costituzionali. La determinazione delle spese
dell'Unione avviene sulla base di un quadro finanziario pluriennale stabilito, per un
periodo di almeno cinque anni, dal Consiglio previa approvazione del Parlamento
europeo. Tale quadro fissa gli importi massimi annuali per ogni categoria di spesa che
corrisponde ad uno dei grandi settori di attività dell'Unione. Sulla base di ciò, viene
predisposto il bilancio annuale dell'Unione, adottato sulla base di una procedura
legislativa speciale. Tale procedura tende a consentire il raggiungimento di un accordo
fra il Consiglio e il Parlamento e si basa sulla necessità che il bilancio debba essere
adottato prima dell'inizio dell'esercizio finanziario. La procedura prende avvio con
l’elaborazione da parte di ciascuna istituzione di uno stato di previsione della spesa
per l'anno successivo. sulla base degli stati di previsione, la Commissione redige il
progetto di bilancio che comprende la previsione delle entrate e una previsione delle
spese. Il progetto viene così sottoposto al Parlamento e al Consiglio non oltre il 1
21

settembre dell'anno che precede quello di esecuzione del bilancio. In merito al


progetto, il Consiglio, entro il termine di un mese, adotta la propria posizione,
debitamente motivata, e la sottopone al Parlamento. Qualora quest'ultimo, entro 42
giorni dalla comunicazione, approvi la posizione del Consiglio o non deliberi, il bilancio
si considera adottato. Qualora invece il Parlamento adotti degli emendamenti, il
progetto è trasmesso al Consiglio e alla Commissione ed è convocato il Comitato di
Conciliazione. Se tuttavia il consiglio approva tutti gli emendamenti posti dal
Parlamento, il bilancio sarà adottato senza che sia necessario che il comitato si
riunisca. Se, invece, il Consiglio non approva tutti gli emendamenti, il comitato avvierà i
propri lavori con il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune, a
maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a
maggioranza dei rappresentanti del Parlamento europeo, entro un termine di giorni
dalla convocazione. Allorché il comitato di conciliazione pervenga ad un accordo su un
progetto comune, entro il termine di 14 giorni il Consiglio e il Parlamento lo approvano
oppure non riescono a deliberare o se una delle due istituzioni approva il progetto
comune mentre l’altra non riesce a deliberare , il bilancio si considera definitivamente
adottato in conformità del progetto comune. Se il comitato non raggiunge un accordo
su un progetto comune oppure l'accordo raggiunto nel comitato è respinto da
entrambe le istituzioni o è respinto dall’una mentre l’altra non delibera, oppure ancora
è respinto a maggioranza dal Parlamento e approvato dal Consiglio, la Commissione
deve presentare un nuovo progetto, rinviando così la procedura di adozione del
bilancio. Quando invece il Parlamento approva il progetto comune mentre il Consiglio l
respinge, il bilancio è adottato se il Parlamento conferma tutti gli emendamenti del
suo stesso adottati deliberando su ciascun emendamento, a una maggioranza molto
gravosa. Qualora certi emendamenti non siano confermati, il bilancio sarà votato
mantenendo il testo concordato nel comitato di conciliazione. Spetta al presidente
del Parlamento dichiarare che il bilancio è stato definitivamente adottato. La
Corte di giustizia ha il potere di vigilare affinché le istituzioni costituenti l'autorità di
bilancio rispettino i limiti della loro competenza. Qualora il procedimento di
approvazione del bilancio si protragga, l'approvazione potrà avvenire dopo il 1 gennaio
dell'anno al quale il bilancio si riferisce. È previsto che in tal caso l'Unione, sino
all'approvazione del bilancio, provveda alle spese mensilmente nell'ambito del 12º delle
somme stanziate dal precedente bilancio, salvo che il Consiglio autorizzi spese
superiori. Spetta alla Commissione provvedere in cooperazione con gli Stati membri
all'esecuzione del bilancio. Ogni anno la Commissione sottopone al Parlamento europeo
e al Consiglio, i conti dell'esercizio trascorso e una relazione di valutazione delle
finanze dell'Unione. In tale fase, il Parlamento, su raccomandazione del Consiglio ed
22

esaminata la relazione della Corte dei conti, dà atto alla Commissione dell'esecuzione
del bilancio, eventualmente presentando delle proprie osservazioni. Tale delibera è
detta atto di discarico e costituisce una forma di controllo politico sull'operato della
Commissione.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL CONTROLLO SUL’AMMINISTRAZIONE. LA CORTE DEI CONTI E IL


MEDIATORE.

La Corte dei conti ha la funzione di assicurare il controllo dei conti dell'Unione e si


compone di membri di numero pari a quello degli Stati membri, nominati per un periodo
di sei anni. Il Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo, adotta a
maggioranza qualificata l'elenco dei membri, scelti tra personalità con esperienza
specifica per la funzione, conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato
membro. Sostanzialmente, dunque, ciascuno Stato membro sceglie un membro della
Corte. I membri della Corte esercitano le loro funzioni in piena indipendenza,
nell'interesse generale dell'Unione e non sollecitano né accettano istruzioni del
governo né da alcun organismo. La Corte, nell'esercizio delle sue funzioni, viene
coadiuvata da circa 400 dipendenti e ha il compito di esaminare i conti di tutte le
entrate e le spese dell'Unione nonché di ogni organismo creato dall'Unione. Una volta
effettuato tale esame, presenta al Consiglio e al Parlamento europeo, una
dichiarazione in cui attesta l'affidabilità dei Conti e la legittimità e la regolarità delle
relative operazioni. Controlla, inoltre, la legittimità e la regolarità dell'entrata delle
spese ed accerta la sana gestione finanziaria. Redige, oltretutto, adottandola a
maggioranza, una relazione annuale dopo la chiusura di ciascun esercizio finanziario e,
sempre deliberando a maggioranza, adotta alcune relazioni speciali e alcuni pareri. Le
relazioni annuali vengono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea. Il
Parlamento europeo elegge, per la durata della legislatura, un mediatore, abilitato a
ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell'Unione o di qualsiasi persona fisica o
giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro e riguardanti casi di
cattiva amministrazione dell'azione delle istituzioni, degli organi e degli organismi
dell'Unione, salvo la Corte di giustizia dell'Unione Europea nell'esercizio delle sue
funzioni giurisdizionali. Nel caso in cui il mediatore, a seguito delle proprie indagini,
abbia constatato un caso di cattiva amministrazione, egli comunica il tutto
all'istituzione interessata e ha tre mesi disposizione per comunicargli il suo parere.
Trascorsi tre mesi, il mediatore trasmette una relazione al Parlamento europeo e
23

all'istituzione, all'organo e all’organismo interessati. È previsto anche che il mediatore


presenti una relazione annuale al Parlamento europeo sui risultati delle sue indagini.

IL SISTEMA EUROPEO DI BANCHE CENTRALI

LA BANCA CENTRALE EUROPEA

La BCE è un'istituzione e costituisce, insieme le banche centrali di tutti gli Stati


membri, il sistema europeo di banche centrali . Tale sistema ha il compito di sostenere
le politiche economiche generali dell'Unione, al fine di contribuire alla realizzazione
degli obiettivi di quest'ultima. Al Sistema europeo di banche centrali si affianca il
cosiddetto Eurosistema, che comprende la Banca centrale europea e le banche
centrali nazionali dei soli Stati membri la cui moneta è l'euro, le quali conducono la
politica monetaria dell'Europa. La Banca centrale europea opera attraverso un
Consiglio direttivo, comprendente i membri del Comitato esecutivo della banca
centrale europea nonchè i governatori delle banche centrali nazionali degli Stati
membri la cui moneta è l’euro. Il Comitato esecutivo è composto dal presidente, dal
vice presidente e da quattro altri membri, tutti nominati a maggioranza qualificata dal
Consiglio europeo, su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del
Parlamento europeo e del consiglio direttivo della Banca centrale europea. Il mandato
dei membri del Comitato esecutivo, che devono essere necessariamente cittadini di
uno Stato membro ed essere scelti fra personalità caratterizzate da una certa
esperienza professionale nel settore monetario e bancario, dura otto anni. Essi non
sono rieleggibili. Al Sistema europeo di banche centrali e in particolare alla Banca
centrale europea sono affidati compiti di grande rilievo, come, ad esempio, il fatto che
la Banca centrale europea abbia il diritto esclusivo di autorizzare l'emissione dell'euro
e che il Sistema europeo di banche centrali abbia il compito di definire e attuare la
politica monetaria dell'Unione nonché svolgere le operazioni relative ai cambi. La
stessa Banca centrale europea esercita una funzione normativa, potendo essa
adottare regolamenti e decisioni, nonché formulare raccomandazioni e pareri. Non è,
inoltre, soggetta ad un controllo da parte delle istituzioni politiche dell'Unione. La
Banca trasmette al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione, nonché al
Consiglio europeo, una relazione annuale sull’ attività del SEBC e sulla politica
monetaria dell'anno precedente e dell'anno in corso. Inoltre, su tale base, si tiene un
dibattito generale del Parlamento europeo. È stabilito che il presidente della Banca
centrale europea e gli altri membri del Comitato esecutivo possano, a richiesta del
Parlamento europeo o di propria iniziativa, essere ascoltati dalle Commissioni
24

competenti del Parlamento europeo a garanzia dell'indipendenza degli organi


finanziari. Il Consiglio ha senza dubbio importanti poteri in materia finanziaria. Tra
questi poteri, ricordiamo il potere di accertare l'esistenza di un disavanzo pubblico
eccessivo da parte di uno Stato membro nonché quello di infliggere eventualmente
ammende allo Stato che presenti tale disavanzo. Alcuni limiti all'esercizio da parte del
Consiglio dei propri poteri in materia di politica economica, sono stati introdotti con il
patto di stabilità, che pone agli Stati che adottano la moneta dei vincoli significativi in
relazione alla gestione della finanza unica. Per l'applicazione di questi meccanismi, è
stato istituito il cosiddetto semestre europeo, che prevede, nella prima parte
dell'anno, l'elaborazione da parte degli Stati di una serie di misure programmatiche
che devono essere sottoposte a controllo preventivo della Commissione. Nei successivi
sei mesi di ogni anno, gli Stati devono approvare le rispettive leggi di bilancio. Gli Stati
membri possano adottare un meccanismo di stabilità, possa concedere agli Stati che
accettano l’ euro, un'assistenza finanziaria qualora sia pregiudicata la stabilità della
zona euro nel suo insieme. Sulla base di questa nuova disposizione è stato anche
concluso un trattato che, pur dovendo configurandosi come un accordo fra Stati
separato dal sistema dell'Unione, coinvolge le istituzioni dell'Unione affidando alcuni
compiti alla Commissione, alla Banca centrale europea e alla Corte di giustizia. La
Corte di giustizia ha ritenuto che tale trattato sia conforme al diritto dell'Unione
tanto che non incide su competenze di carattere esclusivo e affida alle istituzioni dei
compiti che sono compatibili con quelli ad esse conferiti dai Trattati dell'Unione.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI POLITICHE PER LA POLITICA ESTERA E DI


SICUREZZA COMUNE.

L’articolo 31 TUE prevede l'unanimità per tutte le delibere fondate sul titolo V, fatte
salve le eccezioni previste dal Trattato ed esclude l'adozione di atti legislativi. Le
astensioni non impediscono l'adozione all'unanimità delle delibere. È previsto, sotto
questo punto di vista, l'istituto dell'astensione costruttiva: uno Stato membro può
motivare la propria astensione con una dichiarazione formale rispetto ad una
decisione, con la conseguenza che esso non è obbligato ad applicare la decisione ma
accetta che essa impegni l’Unione. Nei pochi casi in cui è previsto che il Consiglio
deliberi a maggioranza qualificata, è tuttavia stabilito che se uno Stato membro
dichiara che, per motivi di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una
decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si proceda alla votazione e della
questione può essere eventualmente investito il Consiglio europeo. Con il trattato di
25

Lisbona, alcune competenze specifiche sono attribuite all'alto rappresentante


dell'Unione per gli affari e la politica di sicurezza, al quale è stato affidato il compito
di guidare la politica estera e di sicurezza comune dell'Unione. Nell'esercizio delle sue
funzioni, egli si avvale del servizio europeo per l'azione esterna. L’alto rappresentante
è nominato dal Consiglio europeo, a maggioranza qualificata, con l'accordo del
Presidente della Commissione, senza che sia stabilita la durata del suo mandato.
Spetta al Consiglio europeo porre fine al mandato mediante la medesima procedura.
L'Alto rappresentante partecipa ai lavori del Consiglio europeo, presiede il Consiglio
nella formazione Affari esteri e contribuisce con le sue proposte all'elaborazione
della politica estera e di sicurezza e la attua in qualità di mandatario del Consiglio. Al
fine di garantire un accordo con la Commissione, l’alto rappresentante è anche uno dei
vicepresidenti della Commissione stessa. È stata istituita dal Trattato sull'unione,
l'Agenzia europea per la difesa che individua le esigenze operative e mette in atto
qualsiasi misura utile per settore. L’ Alto rappresentante deve regolarmente
consultare il Parlamento sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica
estera e di sicurezza comune e della politica di sicurezza e di difesa comune e lo
informa dell'evoluzione di tali politiche. Il Parlamento, infine, può rivolgere al
Consiglio, interrogazioni e raccomandazioni e tenere due volte all'anno un dibattito
sui progressi compiuti dall'attuazione della politica estera e di sicurezza comune,
compresa la politica di sicurezza e di difesa comune. Il Trattato di Lisbona ha
previsto la cosiddetta clausola di solidarietà, secondo cui gli Stati membri agiscono
congiuntamente nello spirito di solidarietà, qualora uno Stato membro sia oggetto di
un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo. In
questo modo, l'Unione mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, compresi i mezzi
militati messi a disposizione dagli Stati membri, per prestare assistenza allo Stato
colpito.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco
26

CAPITOLO TERZO

LE ISTITUZIONI GIUDIZIARIE

INTRODUZIONE

L’articolo 13 TUE annovera fra le istituzioni dell’UE, la Corte di giustizia dell’UE,


a cui è affidato il compito di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione
e nell’applicazione dei Trattati. Da un punto di vista strutturale, essa si articola in:

 Corte di Giustizia
 Tribunale
 Tribunali specializzati.

Sicuramente, la Corte, nel tempo, ha rivestito un ruolo determinante nello sviluppo


della Comunità. Ad esempio, a causa del difficile funzionamento dei meccanismi
decisionali nelle istituzioni politiche, la Corte ha provveduto a consolidarne i risultati,
andando spesso oltre e incidendo in modo significativo sul sistema delle fonti, sui
rapporti fra norme comunitarie e norme interne, sulla ripartizione delle competenze
fra Stati membri e UE. Più precisamente, sino a questo momento, la Corte ha cercato
di promuovere una forte integrazione fra gli Stati membri, sporgendo talora un ruolo
di supplenza nei confronti delle istituzioni politiche. Se una parte della giurisprudenza
della Corte ha dato luogo a critiche in alcuni Stati membri, nel complesso essa è stata
accolta favorevolmente, sia perché le soluzioni date dalla Corte rispondevano ad
esigenze largamente sentite sia perché ne è stata riconosciuta l'adeguatezza allo
sviluppo del sistema comunitario. Va, inoltre, sottolineato come si sia manifestato un
atteggiamento di timore nei confronti dell'attivismo della Corte, tanto che la Corte
non ha competenze relative alla politica estera e alla sicurezza comune, nonché in
riferimento agli atti adottati in base alle disposizioni che disciplinano tali materie.
Tale limitazione risponde alla volontà degli Stati membri di evitare un controllo da
parte della Corte rispetto a misure ritenute espressione di un potere discrezionale
statale. Spetta tuttavia alla Corte interpretare tale disposizione e quindi definire con
esattezza quali attività rientrano nell'ambito di tale deroga.
27

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LE REGOLE SULL’ORGANIZZAZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA, DEL


TRIBUNALE E DEI TRIBUNALI SPECIALIZZATI.

Il TUE prevede che la Corte di giustizia sia composta da un giudice per Stato membro
e il Tribunale da almeno un giudice per Stato membro. Ciò comporta che, mentre il
numero dei componenti della Corte è predefinito, il numero dei giudici del Tribunale
potrebbe essere aumentato attraverso la modifica dello statuto, in particolare
qualora il carico di lavoro lo renda necessario. I giudici della Corte di giustizia e del
Tribunale, nonché gli avvocati generali, sono scelti tra personalità che offrono tutte le
garanzie di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste dagli articoli 253 e
254 TFUE. Tali articoli prevedono che i giudici della Corte e gli avvocati generali
riuniscano le condizioni richieste per l'esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte
funzioni giurisdizionali o che siano giureconsulti di notoria competenza. Per i giudici
del Tribunale è invece posto un requisito un po' meno rigoroso, richiedendo che si
possiedano la capacità per l'esercizio di alte funzioni giurisdizionali. I giudici della
Corte e del Tribunale nonché gli avvocati generali sono nominati di comune accordo per
sei anni dai governi degli Stati membri. Ogni Stato membro, per nominare i propri
giudici, deve prima consultare un comitato, composto da sette membri tra i membri
della Corte di giustizia e del Tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali
nazionali e i giuristi di notoria competenza, uno dei quali è proposto dal Parlamento
europeo. Il comitato ha il compito di rendere un parere sull'adeguatezza dei candidati
all'esercizio delle funzioni di giudice e di avvocato generale della Corte di giustizia e
del Tribunale, prima che i governi degli Stati membri procedano con le nomine. Tale
procedura tende a verificare che i componenti designati possiedano le competenze
tecniche necessarie per lo svolgimento della loro funzione. La procedura di nomina
prospetta la questione dell'indipendenza dei giudici, tanto più che il loro mandato è
rinnovabile e in effetti è spesso rinnovato. I giudici, inoltre, devono giurare di
esercitare le loro funzioni in modo imparziale e secondo coscienza. Ciascun giudice,
tuttavia, sarà sensibile agli interessi dello Stato di appartenenza. Ovviamente la
misura in cui egli si preoccuperà di difendere gli interessi del proprio Stato di
appartenenza varierà non poco a seconda della sua personalità e delle circostanze. In
effetti, dunque, alla luce di tutto ciò, la questione dell'indipendenza assume rilievo
soltanto in poche cause. Accanto ai giudici, operano nella Corte di giustizia, gli
28

avvocati generali, che hanno l'ufficio di presentare pubblicamente, con assoluta


imparzialità e indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che richiedono il loro
intervento. Lo statuto prevede che qualora la Corte di giustizia ritenga che la causa
non sollevi questioni di diritto può, sentito l’avvocato, decidere senza le conclusioni di
quest'ultimo. La funzione dell'avvocato generale è quello di illustrare alla Corte, i
contenuti possibili della decisione e le relative implicazioni, indicando quella che
risulterebbe essere la soluzione preferibile. Gli avvocati generali sono attualmente
nove ma il Consiglio, su richiesta della Corte, può all'unanimità aumentarne il numero;
anche gli avvocati, inoltre, sono spesso sensibili agli interessi dello Stato membro
appartenenza. Presso il Tribunale, non vi sono avvocati generali ma uno dei giudici di
quest'organo può essere chiamato a svolgere tale funzione.

I giudici, nel loro ambito, designano il presidente della Corte o del Tribunale, il
cui mandato è triennale e rinnovabile. La Corte di giustizia opera normalmente in
sezione, composte da tre o cinque giudici. Attualmente, sono costituite otto sezioni,
per cui non è prevista alcuna specializzazione, nonché una grande sezione, composta da
15 giudici, a cui sono deferite le cause quando lo richieda uno Stato membro p
un'istituzioni dell'Unione che è parte in causa. In casi molto particolari, la Corte si
riunisce in seduta plenaria. L'attività della Corte è disciplinata, oltre che dalle
disposizioni dei Trattati e dallo statuto, anche dal regolamento di procedura, adottato
dalla stessa Corte ma sottoposto all'approvazione del Consiglio che delibera a
maggioranza qualificata. Anche il Tribunale si riunisce in sezioni e ha un proprio
regolamento di procedura, che è stabilito dallo stesso Tribunale di concerto con la
Corte di giustizia ed è quindi sottoposto all'approvazione del Consiglio. Il regolamento
indica, fra l'altro, in quali casi il Tribunale procede in seduta plenaria anziché in una
sezione e in quali è designato un avvocato generale. Il Tribunale in origine non era
previsto. È stato istituito nel 1989, al fine di alleviare il carico giudiziario della Corte,
che nel contempo era divenuto assai gravoso. Prima del trattato di Lisbona, il
Tribunale veniva denominato Tribunale di primo grado. Adesso, gli sono state
gradualmente assegnate competenze sempre più ampie, tanto che sono di sua
competenza, i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche, mentre sono di
competenza della Corte, i ricorsi presentati dalle istituzioni dell’UE e dagli Stati
membri. Precisamente, il Tribunale è competente a conoscere di tutti i ricorsi di
annullamento e di risarcimento del danno, fatti salvi i casi in cui i ricorsi siano
riservati alla Corte di giustizia oppure ad un tribunale specializzato. Sono di
competenza della Corte, invece, i ricorsi proposti da uno Stato membro contro un atto
oppure un'astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo, del Consiglio e di tali
29

due istituzioni, quando operano congiuntamente, nonché contro un atto o un’astensione


della Commissione relativi alla partecipazione di uno Stato membro ad una
cooperazione rafforzata già avviata. Inoltre, sono di competenza della Corte, i ricorsi
di legittimità e in carenza, proposti da un'istituzione dell'Unione contro un atto o
un'astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo, del Consiglio, di entrambe le
istituzioni che statuiscono congiuntamente o della Commissione, e da un’istituzione
dell'Unione con un atto o un'astensione dal pronunciarsi della Banca centrale europea.

L’articolo 256 par.3 TFUE prevede che possa essere affidata al Tribunale la
competenza ad esaminare questioni pregiudiziali sollevate dai giudici nazionali, in
materie specifiche determinate dallo statuto. Tuttavia, dal momento che vi è il rischio
che tali decisioni possano essere riesaminate dalla Corte, vi è il pericolo che si
prolunghi il tempo necessario per definire una questione sollevata dal giudice
nazionale. Inoltre, un altro inconveniente dell'attribuzione al Tribunale di questa
competenza, è nella circostanza che, quando la Corte non possa o non intenda
riesaminare la decisione del Tribunale, non per questo tale decisione vincolerebbe la
Corte qualora la stessa questione dovesse esserle sottoposta in una successiva
occasione. Pertanto, la decisione da parte del Tribunale della questione sollevata dal
giudice nazionale lascerebbe incerta la soluzione sul piano più generale. La possibilità
di impugnare le sentenze del Tribunale è riconosciuta, a certe condizioni, oltre che
alle istituzioni dell'Unione e agli stati membri, anche alle parti in giudizio. Le decisioni
del Tribunale saranno soggette ad impugnazione dinanzi alla Corte di giustizia per soli
motivi di diritto e alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo statuto. Lo statuto
consente l’ impugnazione, entro due mesi dalla notifica della decisione del tribunale, a
qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente nelle sue
conclusioni, agli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione, anche se non sono
intervenuti nel procedimento dinanzi al Tribunale e infine a coloro che sono
intervenuti nel giudizio per la parte della decisione che li riguarda direttamente.
L'impugnazione è ammessa se fondata su motivi relativi all’incompetenza del
Tribunale, a vizi della procedura dinanzi al Tribunale, recanti pregiudizio agli interessi
della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto dell’UE da parte del
Tribunale. Non può essere sollevato dinanzi alla Corte, da una parte del giudizio di
appello, un motivo che non era stato dedotto dinanzi al Tribunale, giacché questo
equivarrebbe a consentire di sottoporre alla Corte una controversia più ampia di quella
cui era stato investito il Tribunale. Quando l'impugnazione è accolta, la Corte annulla
la decisione del Tribunale. La Corte può statuire definitivamente nel merito, qualora lo
stato degli atti lo consenta oppure rinviare la causa al Tribunale affinché sia decisa da
30

quest'ultimo, in conformità con la decisione emessa dalla corte sui punti di diritto. La
soluzione del rinvio al Tribunale diviene necessaria quando si ritenga essenziale
procedere a nuovi accertamenti di fatto, come nel caso in cui ad esempio secondo la
Corte debba essere applicata una norma diversa da quella considerata applicabile dal
Tribunale e alcuni fatti non siano stati accertati da quest'ultimo in quanto rilevanti
soltanto secondo la norma successivamente indicata dalla Corte. Il Parlamento europeo
e il Consiglio possono istituire dei tribunali specializzati incaricati di conoscere in
primo grado alcune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche. La proposta di
istituire un tribunale specializzato può provenire dalla Commissione oppure dalla
Corte di giustizia. I membri dei tribunali specializzati sono scelti fra persone che
offrono tutte le garanzie di indipendenza e possiedono determinate capacità in merito
all'esercizio di funzioni giurisdizionali. Fino a questo momento, è stato istituito un solo
tribunale specializzato, ossia il Tribunale della funzione pubblica dell'Unione
europea, composto da sette giudici, competente a pronunciarsi sulle controversie fra
l'Unione europea e sui dipendenti. Le decisioni dei tribunali specializzati possono
essere impugnate dinanzi al Tribunale per i soli motivi di diritto o qualora il
regolamento sull'istituzione del tribunale specializzato lo preveda, anche per motivi di
fatto.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

I RICORSI PER INFRAZIONE

Una delle principali competenze della Corte di giustizia riguarda i ricorsi proposti nei
confronti di uno Stato membri per violazione di obblighi posti da norme dell’Unione. La
violazione può dipendere dal comportamento degli organi centrali dello Stato come da
quello di qualsiasi altro organo o anche di un ente pubblico territoriale;
particolarmente frequente è l’inadempimento dell’obbligo di attuare direttive. I
ricorsi possono essere proposti dalla Commissione oppure da un altro Stato membro.
Questa seconda ipotesi, tuttavia, si è verificata raramente. Per la Commissione, come
per gli Stati membri, proporre ricorso per infrazione è oggetto di una facoltà, di un
potere discrezionale. L’esistenza di una violazione di obblighi è spesso segnalata alla
Commissione da persone fisiche o giuridiche interessate. La Commissione presta per lo
più la sua attenzione alla tempestiva attuazione delle direttive e avvia un
procedimento solo in presenza di violazioni che essa considera sostanziali. Ciò significa
che lievi ritardi nell’inadempimento di obblighi oppure divergenze di contenuto di
scarso rilievo vengono di fatto tollerati. Il procedimento di cui all’articolo 258 TFUE
31

prende inizio con la contestazione dell’infrazione da parte della Commissione, che invia
allo Stato ritenuto inadempiente una lettera detta di intimazione o di addebito, dando
così avvio alla fase pre-contenziosa. A tale contestazione, lo Stato membro può
replicare con le proprie osservazioni. Una volta esaminate quest’ultime o una volta
superato il termine assegnato allo Stato per formularle, la Commissione, se intende
proseguire, procede ad emanare un parere motivato, in cui indica ciò che lo Stato
dovrebbe fare per porre fine alla violazione, stabilendo un termine per l’adempimento.
Qualora lo Stato in causa non si conformi entro il termine prefissato, a tale parere, la
Commissione può adire la Corte di Giustizia, proponendo un ricorso e dando così avvio
alla fase contenziosa del procedimento. La competenza a conoscere dei ricorsi per
infrazione spetta esclusivamente alla Corte di Giustizia. L’oggetto del ricorso,
ovviamente, è circoscritto dal procedimento precontenzioso. La Commissione, tuttavia,
può tener conto nel ricorso di fatti successivi al parere, quando essi sono della
medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e costituiscono uno stesso
comportamento. Nulla esclude, tuttavia, che la Commissione proceda ad un’ulteriore
contestazione avviando un nuovo procedimento.

Le lettere di intimazione sono inviate co la funzione di stimolare gli Stati membri ad


adempiere ai propri obblighi. Tali lettere e i pareri motivati non sono pubblicati. Il
ricorso alla Corte appare piuttosto per la Commissione un ultimo rimedio. La Corte ha
sottolineato che l’azione pe l’accertamento dell’inadempimento di uno Stato non va
esperita entro un termine predeterminato. Ciò comporta che la Commissione possa
valutare quali siano i mezzi ed il termine più appropriati al fine di porre fine ad
eventuali inadempimenti. La Commissione, infatti, dispone del potere di decidere
quando si debba eventualmente proporre un ricorso e non spetta alla Corte sindacare
tale decisione. Anche nel caso di ricorso proposto da uno Stato membro, ai sensi
dell’articolo 259 TFUE, è attribuito un ruolo alla Commissione, poiché lo Stato, prima
di proporre contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa
violazione degli obblighi derivanti dai Trattati, deve rivolgersi alla Commissione.
L’articolo 259 TFUE specifica che lo Stato può ricorrere alla Corte anche qualora la
Commissione non abbia formulato il parere nel termine di tre mesi dalla domanda. E’
implicito che lo Stato possa proporre ricorso alla Corte qualunque sia il contenuto del
parere. L’intervento della Commissione nel procedimento è tuttavia utile anche perché,
qualora essa escluda l’esistenza di una violazione, lo Stato che ha avviato il
procedimento può essere indotto a non proporre ricorso alla Corte. D’altra parte, nel
caso in cui la Commissione ritenga, invece, che la violazione sussista, ciò potrebbe
determinare lo Stato responsabile a porvi fine. Una sorta di procedura di infrazione
32

abbreviata è prevista dall’articolo 114, par.9, TFUE. Tale norma conferisce agli Stati
membri la facoltà di sospendere l’applicazione di misure di armonizzazione adottate
dall’Unione, applicando normative nazionali, giustificate da esigenze particolari.
Qualora uno Stato si avvalga di tale potere di deroga, la Commissione o un altro Stato
membro possono adire direttamente la Corte, nel caso in cui ritengano che ne sia
fatto un uso abusivo. Si prescinde, dunque, alla fase pre-contenziosa, in
considerazione della particolare urgenza di esperire il procedimento di infrazione. Se ,
a seguito di un ricorso per infrazione, la Corte abbia accertato la violazione di un
obbligo da parte di uno Stato membro, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti
che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta. La Corte ha indicato che tale
esecuzione deve essere iniziata immediatamente e deve concludersi entro termini il
più possibile ristretti. La pronuncia, ovviamente, comporta, per le autorità nazionali
competenti, l’assoluto divieto di applicare una disposizione nazionale dichiarata
incompatibile col Trattato e l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per
agevolare la piena efficacia del diritto comunitario. Più precisamente, spetta allo
Stato membro determinare le misure che consentano di assicurare la conformità agli
obblighi derivanti dai Trattati. Il vecchio Trattato CE non indicava, in passato, quali
rimedi potessero venire adottati nel caso di mancata esecuzione, da parte di uno
Stato membro, di una sentenza della Corte che ne avesse accertato la violazione di un
obbligo. La Commissione aveva più volte promosso nei confronti dello Stato
inadempiente un ulteriore procedimento, tendente ad accertare la violazione
dell’obbligo derivante dalla sentenza che aveva dichiarato l’infrazione. Il Trattato di
Maasticht ha delineato una procedura che si può concludere con l’inflizione di una
sanzione pecuniaria nei confronti dello Stato che non abbia posto fine alla violazione
accertata. La procedura è la seguente:

 La Commissione contesta l’infrazione


 Lo Stato può presentare osservazioni
 La Commissione stessa può adire la Corte.
 Nel ricorso, la Commissione richiede l’accertamento della violazione e precisa
l’importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello
Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze.
 Qualora la Corte riconosca che lo Stato membro in questione non si è
conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di
una somma forfettaria o di una penalità.
33

 La Corte ha osservato che le proposte della Commissione non possono vincolare


la Corte, dal momento che spetta a quest’ultima comminare il pagamento della
somma ma costituiscono una base di riferimento utile.
 La Commissione ha peraltro stabilito un complesso metodo di calcolo al fine di
determinare l’entità della sanzione, enunciandolo in una sua comunicazione. La
somma non ha la funzione di risarcire il danno arrecato dall’inadempimento. Si
intende che essa debba essere versata all’Unione, a cui è consentito di rivalersi
sui crediti dello Stato membro nei propri. Nel determinare l’entità della
sanzione, la Corte ha indicato che l’importo deve essere adeguato alle
circostanze e commisurato sia all’inadempimento accertato sia alla capacità
finanziaria dello Stato membro. L’entità della sanzione dipenderà dalla durata
dell’infrazione, dal grado di gravità e dalla capacità finanziaria dello Stato
membro di cui è causa.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

Uno specifico procedimento è stato previsto in base al Trattato di Lisbona per il caso
in cui l’inadempimento consista nell’omessa comunicazione, da parte di uno Stato
membro, delle misure di attuazione di una direttiva adottata secondo una procedura
legislativa. In tale ipotesi, la Commissione può, se lo ritiene opportuno, già nel ricorso
per l’inadempimento di tale obbligo, indicare l’importo della somma forfettaria o della
penalità da versare da parte di tale Stato che essa consideri adeguata alle
circostanze. In sostanza, quindi, la sanzione pecuniaria può essere anticipata al
procedimento di infrazione relativo alla violazione dell’obbligo di comunicazione. Una
particolarità di questa procedura consiste nel fatto che la Corte potrà comminare la
sanzione entro i limiti dell’importo indicato dalla Commissione. Ciò limita la
discrezionalità della Corte nello stabilire il livello adeguato della sanzione. I mezzi
giurisdizionali che l’ordinamento dell’Unione offre attualmente in caso di
inadempimento di obblighi da parte di Stati membri forniscono una tutela non del
tutto adeguata dei correlativi diritti.

Uno strumento che può risultare in concreto più efficace del procedimento di
infrazione consiste nella possibilità per le persone fisiche o giuridiche di rivolgersi ai
giudici nazionali, per far valere la responsabilità dello Stato inadempiente qualora
ricorrano le condizioni indicate dalla Corte di giustizia. Ciò è rilevante non solo ai fini
34

della tutela delle persone ma anche per l’incidenza che la proposizione di un numero
significativo di ricorsi può avere ai fini di indurre lo Stato di membro a provvedere
all’inadempimento. La responsabilità per danni dello Stato inadempiente sussiste
qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla
trasgressione. Essa, dunque, può sorgere anche quando la violazione dell’obbligo posto
dal diritto dell’Unione derivi da una sentenza emessa da un organo giurisdizionale
nazionale di ultima istanza che abbia violato in maniera manifesta tale diritto.

La violazione da parte di uno Stato membro di obblighi derivanti dalla sua


partecipazione all’Unione potrebbe produrre un danno per un diverso Stato membro.
In questo caso, lo Stato leso può agire dinanzi alla Corte di Giustizia per ottenere una
riparazione ma solo in virtù di un compromesso. Sostanzialmente, dunque, lo Stato
membro che ha prodotto il danno, potrà decidere se accettare o meno di sottoporsi al
giudizio della Corte. L’ordinamento europeo non prevede per gli Stati membri, la
possibilità di reagire ad un inadempimento di un altro Stato membro attraverso un
proprio inadempimento. Si pensi ad uno Stato membro che risponde ad una misura di
blocco delle importazioni adottata da uno Stato membro, adottando, a sua volta,
un’analoga misura restrittiva nei confronti delle merci provenienti dallo Stato
inadempiente. La Corte ha escluso che uno Stato membro, i cui diritti siano violati,
possa utilizzare contromisure nei confronti di altri Stati membri. La Corte ha messo in
luce la possibilità di adottare, per gli Stati membri, dei mezzi alternativi per far
valere la violazione degli obblighi da parte di uno Stato membro. Un’eventuale
contromisura finirebbe per incidere su situazioni soggettive di persone fisiche o
giuridiche alle quali non è imputabile alcun inadempimento. Le misure restrittive negli
scambi di merci fra Stati membri danneggerebbero gli interessi degli operatori
commerciali.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

L’IMPUGNAZIONE DEGLI ATTI DELL’UNIONE

Il TFUE prevede all’articolo 263 un sistema unitario per l’impugnazione degli atti delle
istituzioni dell’Unione, siano essi legislativi, esecutivi o dal carattere delegato. Sono
impugnabili gli atti legislativi, nonché gli atti adottati dal Consiglio, dalla Commissione,
dalla BCE, che non siano raccomandazioni o pareri e gli atti del Parlamento europeo e
del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.
Inoltre, il controllo di legittimità è esercitato anche sugli atti degli organi o organismi
35

dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. In questo


modo, in virtù di tale criterio, possono essere impugnati gli atti adottati da qualsiasi
istituzione, qualora siano produttivi di effetti giuridici. Il riferimento generico agli
organi e organismi, infatti, consente di estendere la possibilità di impugnazione anche
agli atti adottati dalle agenzie europee a cui talvolta viene conferita una limitata
funzione amministrativa. Come sottolinea la Corte, in una sua nota sentenza, sono
esclusi dalla possibilità di impugnazione, oltre agli atti preparatori, tutti gli atti che
non producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi del singolo,
come gli atti confermativi e gli atti di mera esecuzione, le semplici raccomandazioni e
pareri, nonché le istruzioni di servizio. Gli Stati membri e alcune istituzioni sono
legittimati ad impugnare qualsiasi atto. Essi perciò sono detti ricorrenti privilegiati.
Per essi, infatti, non occorre dimostrare l’esistenza di un proprio interesse
all’impugnazione. E’ ovvio, tuttavia, che un’istituzione non può impugnare un atto che
essa stessa abbia adottato. Uno Stato membro, invece, può proporre ricorso anche nei
confronti di un atto adottato dal Consiglio o dal Consiglio e dal Parlamento, con il
concorso del proprio voto. La Corte dei conti, la Banca centrale europea e il Comitato
delle Regioni possono proporre ricorsi soltanto per salvaguardare le proprie
prerogative.

Per la tutela delle prerogative, deve intendersi una situazione in cui l'istituzione o
l’organo ha visto leso il ruolo che gli spetta nel procedimento normativo, come quando,
ad esempio, è stato adottato un atto senza provvedere alla consultazione prevista
obbligatoriamente dai Trattati. Mentre è prevista l'impugnazione di atti del Consiglio
europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi, tale istituzione
non è legittimato ad impugnare atti delle altre istituzioni. Esiste una particolare
forma di ricorso di annullamento per violazione, mediante un atto legislativo, del
principio di sussidiarietà. Si tratta di ricorsi proposti da uno Stato membro o
trasmessi da quest'ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno
al nome del suo Parlamento nazionale o di una sua Camera. La legittimazione dello
Stato membro prevista dal Protocollo non aggiunge nulla a quanto già stabilito in via
generale dell'articolo 263 TFUE. Ciò che può avere rilevanza è invece l'aspetto
interno relativo alla possibilità che il governo sia vincolato a proporre il ricorso a
seguito di una richiesta del rispettivo Parlamento. Questo vincolo è previsto anche
dalla legge 234/2012 e prevede che il governo debba presentare senza ritardo alla
Corte di giustizia dell'Unione Europea, i ricorsi deliberati dal Senato o dalla Camera
dei deputati. È, inoltre, previsto che la Camera che ha deliberato il ricorso stia in
giudizio per mezzo di chi ne ha la rappresentanza. Il Trattato non prevede nulla in
36

merito alla legittimazione delle articolazioni interne degli Stati membri, in particolare
delle Regioni, a proporre ricorso di annullamento. La Corte ha negato che le Regioni
possano essere equiparate agli stati membri ai fini dell’impugnazione. Esse possono
agire in annullamento solo nella veste di persone giuridiche, dimostrando di possedere
i presupposti richiesti. Questa soluzione rende difficile la tutela diretta delle Regioni
nei confronti di atti dell'Unione, i quali possono limitare in modo significativo il loro
potere normativo. In questi casi, le Regioni potranno, piuttosto che intraprendere la
via dell'impugnazione dell'atto dinanzi al Tribunale, sollecitare il governo del
rispettivo Stato a proporre alla Corte un ricorso di annullamento. Anche le persone
fisiche e giuridiche possono impugnare atti dell'Unione. Una persona fisica o
giuridica può proporre, infatti, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti
che la riguardano direttamente e individualmente. Deve trattarsi di atti, ossia di
decisioni, che possono avere come destinatario una persona fisica o giuridica. Risulta
essere molto più complesso, invece, accertare i casi in cui un atto riguardi una persona
direttamente e individualmente. La Corte, a sua volta, ha ammesso che tali presupposti
sussistono quando l'atto di cui il soggetto non è destinatario, lo tocchi a causa di
determinate qualità personali o di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla
generalità e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari. La Corte, ad
esempio, ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da una ditta che aveva da lungo
tempo registrato un marchio e che si vedeva preclusa la possibilità di continuare ad
utilizzarlo a causa del regolamento comunitario che aveva proibito certe diciture sulle
etichette dei vini. In questo caso, la ricorrente aveva dimostrato l'esistenza di
particolari circostanze. Esistono dei casi in cui è ancora più evidente la circostanza
che la decisione adottata nei confronti di uno Stato membro colpisca direttamente e
individualmente una persona fisica o giuridica. Si pensi ad una decisione della
Commissione che dichiari illegittimo l'aiuto dato da uno Stato ad un'impresa e che
imponga di ripetere la somma versata. Non è difficile rilevare che l'impresa che ha
beneficiato dell'aiuto e che si vede costretta a restituirlo sarà direttamente e
individualmente interessata da tale decisione. A proposito dell'impugnazione di un
regolamento da parte di una persona fisica o giuridica, la Corte ha riconosciuto che,
sebbene l'impugnazione sia ammessa solo qualora la persona sia interessata non solo
direttamente ma anche individualmente da tale atto, tuttavia quest'ultimo requisito
deve essere interpretato alla luce del principio della tutela giurisdizionale. Si va,
dunque, tenendo conto delle diverse circostanze atte ad individuare un ricorrente.
Senza dubbio, il carattere effettivo della tutela giurisdizionale deve essere valutato
nel suo complesso, considerando i mezzi di ricorso offerti dal diritto dell'Unione ma
anche quelli presenti negli ordinamenti nazionali. Qualora non sia esperibile il ricorso
37

di annullamento per difetto dei presupposti richiesti dalla legge, le persone hanno la
possibilità di far valere l'invalidità degli atti dell'Unione davanti ai giudici nazionali ed
indurre quest'ultimi a rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale. In questo modo, viene
garantito il rispetto del diritto alla tutela giurisdizionale effettivo. Questo
orientamento è stato confermato anche nel TUE, in cui si sottolinea che gli Stati
membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare la tutela
giurisdizionale effettivo di settori disciplinati dal diritto dell'Unione. Quando un atto
non sia impugnabile da una persona fisica o giuridica, il diritto alla tutela
giurisdizionale deve essere garantito attraverso i mezzi assicurati dagli ordinamenti
nazionali. Più precisamente, la persona fisica o giuridica potrà impugnare il
provvedimento nazionale di esecuzione di un regolamento e far valere l'illegittimità di
quest'ultimo nel giudizio nazionale, sollevando una questione di validità. Il giudice
potrà sottoporre tale questione alla Corte con un rinvio pregiudiziale; questo
meccanismo consente di ottenere indirettamente un esame della validità dell'atto da
parte della Corte. La Corte ha però limitato la possibilità di ricorrere a tale
meccanismo di tutela, ritenendo che quando una persona sia legittimata a proporre
ricorso dinanzi al tribunale, una volta decorso il termine per impugnare l'atto, essa non
può più far valere l'illegittimità nell’ambito di un procedimento dinanzi al giudice
nazionale. Dunque, chi può impugnare direttamente l'atto ma non agisce sul termine
stabilito, si vede preclusa la possibilità di contestare la legittimità di tale atto davanti
al giudice nazionale. La Corte ha successivamente chiarito la portata di tale principio,
fornendo una formulazione meno rigorosa. Nonostante ribadisca che la persona che
avrebbe potuto impugnare direttamente l'atto non può, decorso il termine per
l'impugnazione, invocare l’invalidità nel giudizio nazionale, ha però affermato che ciò
non esclude che, in quel giudizio, il giudice decida d'ufficio di porre la domanda di
validità in via pregiudiziale. La Corte ha ritenuto ricevibile una domanda relativa alla
validità di una decisione poiché la questione non è stata formulata su richiesta del
soggetto che, pur potendo proporre ricorso di annullamento avverso la medesima, non
lo abbia fatto nei termini previsti dalla legge. Essa è stata proposta d'ufficio dal
giudice della causa principale. In secondo luogo, un’ ulteriore attenuazione della
portata del principio suddetto, risulta dalle recenti sentenze in cui, al fine di valutare
se una persona potesse invocare l'invalidità di un atto in un giudizio nazionale, la Corte
ha considerato se tale persona fosse incontestabilmente legittimata ad impugnare
l'atto. Tale orientamento non afferma che la preclusione opera solo quando la persona
sia destinataria dell'atto ma sembra voler ridurre il grado di incertezza che comporta
l'applicazione del principio. La preclusione a contestare la validità di un atto in un
giudizio nazionale è limitata alle sole ipotesi in cui non potevano sussistere dubbi circa
38

la legittimazione della persona ad impugnarlo. Sicuramente, l'esigenza di ottenere la


tutela giurisdizionale sul piano nazionale comporta per gli Stati membri l'obbligo di
ritenere ricevibile un ricorso anche se non lo sarebbe sulla base dell'applicazione delle
norme processuali nazionali. È stata presa in esame la sentenza Oleificio Borelli, in cui
la C di orte ha affermato che un giudice nazionale doveva considerare ricevibile il
ricorso proposto nei confronti di un atto nazionale non definitivo, anche se le norme
nazionali non lo prevedono in un caso del genere. La possibilità per le persone di agire
direttamente dinanzi al Tribunale nonchè quella di ottenere tutela dinanzi agli organi
giurisdizionali nazionali non si possono ritenere equivalenti, pe quanto riguarda il grado
di protezione offerto. Qualora la persona sia legittimata ad agire dinanzi al Tribunale,
essa potrà ottenere una pronuncia da parte di quest'ultimo ed eventualmente
impugnare tale sentenza dinanzi alla Corte. Se, invece, la persona può agire solo
dinanzi ai giudici nazionali, il grado di tutela è nettamente inferiore, dal momento che
la possibilità di ottenere da parte della Corte una pronuncia sulla validità di un atto
dell'Unione è meramente eventuale. Tale possibilità, infatti, dipende dalla
discrezionalità del giudice nazionale che potrà decidere se effettuare o meno un
rinvio pregiudiziale. Ai fini della ricevibilità di ricorsi presentati da persone fisiche o
giuridiche contro atti regolamentari che non comportano alcuna misura di esecuzione,
occorre senza dubbio dimostrare che l'atto impugnato riguardi direttamente e non
anche individualmente il ricorrente. Si dovrebbe agevolare la tutela nell'ipotesi in cui
essa non possa essere garantita a livello nazionale, come avviene quando manchi un
atto o un provvedimento nazionale di esecuzione. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che la
nozione di atto regolamentare non comprenda gli atti legislativi previsti in via generale
,ai fini dell'impugnazione degli atti da parte delle persone. Un'ulteriore novità
introdotta dal Trattato di Lisbona riguarda l'impugnazione degli atti riguardanti
le decisioni adottate nell'ambito della politica estera e di sicurezza comune.
L'incompetenza della Corte in merito alle disposizioni relative alla politica estera e di
sicurezza comune incontra ora ha due eccezioni:

-in primo luogo, la Corte può controllare il rispetto dell'articolo 40 TUE, il quale
riguarda le relazioni tra la politica estera e di sicurezza, nonché le altre politiche
dell'Unione.

- In secondo luogo, la Corte può pronunciarsi sui ricorsi riguardanti il controllo della
legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone
fisiche o giuridiche, adottate dal Consiglio nell'ambito della politica estera e di
sicurezza comune.
39

Con questi ricorsi, si è posto rimedio ad una situazione di lacuna nella tutela
giurisdizionale che si era evidenziata nella prassi. Infatti, è consentita l'impugnazione
diretta di tali atti, considerato anche che questi possono incidere in modo molto
significativo sui diritti delle persone, comportando una compressione dei loro diritti
fondamentali, come le misure che congelano beni di proprietà di persone sospettate di
terrorismo.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

Analizziamo ora gli aspetti di carattere procedurale relativi al ricorso di


annullamento. Particolarmente significativo è l'articolo 263, 6° comma, TFUE, il quale
prevede che il ricorso deve essere proposto entro due mesi a decorrere dalla
pubblicazione dell'atto, dalla sua notificazione al ricorrente o, in mancanza, dal giorno
in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza. La Corte, infatti, ha detto che, qualora
fosse provato che la data figurante sul numero non coincide con il giorno in cui il
numero stesso era effettivamente disponibile, si deve tener conto della data di
pubblicazione effettiva. Un principio fondamentale dell'ordinamento giuridico
comunitario esige che un atto emanato dalle pubbliche autorità non possa venir o posto
agli amministrati prima che questi abbiano avuto la possibilità di prenderne
conoscenza. Attualmente i ricorsi degli Stati membri, delle istituzioni e della Banca
Centrale europea sono proposti alla Corte, salvo alcune eccezioni, mentre quelli delle
persone fisiche o giuridiche sono diretti al Tribunale. Qualora fossero proposti ricorsi
per l'annullamento di uno stesso atto dinanzi ad istanze giudiziarie diverse
rispettivamente competenti, la Corte può sospendere il proprio procedimento. Lo
stesso può fare il Tribunale, che però può anche declinare la propria competenza,
finché la Corte possa statuire sui ricorsi medesimi. Viene quindi lasciato alle
istituzioni giudiziarie il compito di valutare, secondo propria discrezionalità, quale sia
la soluzione più appropriata, vagliando i diversi interessi in gioco.

La stessa disposizione prevede che quando uno Stato membro impugni un atto dinanzi
al Tribunale e un'istituzione impugni lo stesso atto dinanzi alla Corte, il Tribunale
declini la propria competenza finché la Corte possa statuire su tali ricorsi.
Generalmente, l'impugnazione di un atto non ha conseguenze sulla sua efficacia ma la
Corte può, qualora lo reputi opportuno, ordinare la sospensione dell'esecuzione
dell'atto impugnato. La legittimità di un atto dell'Unione può essere anche contestata
attraverso la procedura stabilita dall'articolo 277 TFUE, che concerne l'ipotesi in cui
il procedimento dinanzi ad un qualsiasi organo della Corte di giustizia dell'Unione
40

Europea metta in causa un atto di portata generale adottato da un'istituzione, organo


o organismo dell'Unione. In questo caso, può essere invocata l'inapplicabilità dell'atto,
sollevando in via incidentale un'eccezione di illegittimità. Prima delle modifiche
apportate dal Trattato di Lisbona, la disposizione si riferiva solo ai regolamenti. La
Corte, dal canto suo, aveva dato un'interpretazione ampia, ritenendo che essa
garantisca a qualsiasi parte il diritto di contestare, al fine di ottenere l'annullamento
di una decisione che la riguardi direttamente e individualmente, la validità di
precedenti atti delle istituzioni comunitarie, che costituiscono il fondamento giuridico
della decisione impugnata, qualora non avesse il diritto di proporre un ricorso diretto
contro tali atti, di cui essa subisce così le conseguenze senza poter chiedere
l'annullamento. Ovviamente questa tecnica diviene fondamentale in merito agli atti di
esecuzione, che potranno essere contestati deducendo l'illegittimità dell'atto sul
quale sono fondati. Rispetto ad un atto di portata generale, non dovrebbe essere
rilevante il fatto che la parte che faccia valere l'inapplicabilità, non abbia impugnato
tempestivamente. Questo accade perché non necessariamente una persona fisica o
giuridica poteva avere consapevolezza dell'interesse all'impugnazione di un atto di
portata generale prima che fosse adottato l'atto esecutivo che essa intende
contestare. Dal canto suo, invece, la Corte ha escluso che uno Stato membro
possa invocare l'eccezione di illegittimità rispetto ad una decisione della quale è il
destinatario e che non abbia impugnato entro i termini, dal momento che occorre
tener conto del fatto che i termini di impugnazione hanno come finalità la
salvaguardia della certezza del diritto, evitando la rimessa in discussione all'infinito
degli atti comunitari che producono determinati effetti giuridici. I motivi di
impugnazione invocabile sono enunciati dall'articolo 263 TFUE. Si parla di
incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei Trattati e di qualsiasi
regola di diritto relativa alla loro applicazione, di sviamento di potere. Si notano
tuttavia alcune sovrapposizioni, dato che un atto che sia viziato da incompetenza e che
non abbia rispettato le forme sostanziali sarà di regola un atto compiuto in violazione
dei Trattati. Le sovrapposizioni non comportano alcuna conseguenza in merito al fatto
che la presenza di uno qualsiasi fra i vizi elencati determina l'illegittimità dell'atto.
Proprio per questo motivo, dunque, alla violazione dei trattati si attribuisce un
significato residuale. Un atto dell'Unione, infatti, è illegittimo non solo quando violi
una disposizione dei Trattati istitutivi ma anche quando esso contrasti con un principio
generale o con regole di diritto internazionale generale vincolanti per l'Unione.
L'incompetenza può riferirsi sia a quella dell'Unione che a quella dell'istituzione che
ha adottato l'atto. Nella prima ipotesi, quando un atto sia adottato dal Consiglio con
voto unanime e comunque senza obiezioni circa la competenza dell'Unione, la Corte di
41

Giustizia difficilmente ravviserà un difetto di competenza. Quando per l'adozione di


un atto, occorra il parere del Parlamento e l'atto è stato adottato ingiustificatamente
senza tale parere, la Corte configura una violazione di forme sostanziali. Questo
concetto comprende in via generale i vizi del procedimento di formazione dell'atto.

Il riferimento al carattere sostanziale delle forme consente alla Corte di esercitare


una valutazione discrezionale circa l'esistenza di una violazione sufficientemente
importante da determinare l'illegittimità dell'atto. Con lo sviamento di potere,
invece, s'intende l'adozione di un atto che persegua un fine non consentito. Il
perseguire di siffatto scopo è in contrasto con le finalità di qualsiasi procedimento
d'assunzione, compreso quello del concorso interno, ed implica uno sviamento di
potere. La pronuncia che accoglie l'impugnazione provvede all'annullamento dell'atto.
Infatti, se il ricorso è fondato, la corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto
l'atto impugnato. L'istituzione, l'organo o l’organismo che ha emanato l'atto annullato
sono tenuti a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte di
giustizia comporta. L'annullamento dell'atto può essere totale o parziale, a seconda
dell'incidenza del vizio. La Corte, oltretutto, qualora lo reputi necessario, può
precisare gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi.
L'articolo 264 TFUE implica che l'annullamento può non avere un effetto
retroattivo completo. La Corte, infatti, può stabilire che l'illegittimità dell'atto opera
solo dalla data della sua sentenza oppure può indicare un diverso momento, precedente
la sua pronuncia, per quale gli effetti dell'annullamento iniziano a prodursi.
Conseguenza diretta di tale limitazione degli effetti retroattivi è che le persone non
potranno ottenere tutela in relazione a situazioni precedenti la data fissata dalla
Corte. L'articolo 264 implica, oltre al potere di limitare gli effetti retroattivi,
anche quello di statuire che le disposizioni di un atto annullato continueranno ad
avere effetto fino a che non sarà stato adottato un ulteriore atto. Questa prassi
si è consolidata al fine di evitare situazioni di vuoto normativo. Ovviamente si ricorre
a tale soluzione solo quando la Corte ritenga che l'interesse al mantenimento degli
effetti dell'atto sia particolarmente rilevante e i vizi riscontrati non siano tali da
ostare a questa decisione. La Corte, ad esempio, ha deciso di mantenere gli effetti
della direttiva sul soggiorno degli studenti, che era affetta da un vizio non
sostanziale, ritenendo prevalente l'interesse a non pregiudicare l'esercizio di un
diritto garantito dal Trattato, vale a dire il diritto di soggiorno degli studenti al fine
di conseguire una formazione professionale.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco
42

IL RICORSO IN CARENZA

La norma di riferimento è l'articolo 265 TFUE. Quest'ultima prevede un'ipotesi di


ricorso, nel caso di mancata attuazione, da parte delle istituzioni europee, di un
obbligo positivo ad esse posto. Più precisamente, questa disposizione si riferisce
all'ipotesi di un’ astensione che avvenga in violazione dei Trattati. Si tratta di un
mezzo che è stato esperito solo raramente con successo. Il caso di maggior rilievo in
cui ciò è avvenuto è stato quello dell'omissione da parte del Consiglio, accertata dalla
Corte su ricorso del Parlamento, concernente l'adozione di alcuni provvedimenti
nell'ambito della politica comune dei trasporti. Il ricorso è proponibile anche in
presenza di un espresso rifiuto ad agire da parte di un'istituzione. Inoltre, il
ricorso può essere proposto nei confronti del Parlamento, del Consiglio, del Consiglio
europeo, della Commissione, della Banca centrale europea, nonché di qualsiasi organo e
organismo dell'Unione. Legittimati a proporre i ricorsi sono le istituzioni dell'Unione,
gli Stati membri, nonché qualsiasi persona fisica o giuridica per contestare
un'istituzione, organo o organismo dell'Unione, di aver omesso di emanare nei suoi
confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere. Secondo la Corte, per
determinare la legittimazione delle persone fisiche e giuridiche a proporre un ricorso
in carenza, si potrebbe applicare un criterio analogo a quello stabilito per
l'impugnazione degli atti. Occorre perciò accertare che l'atto che l'istituzione
avrebbe dovuto adottare riguardi direttamente e individualmente il ricorrente.
Quell'orientamento è stato recepito dal Tribunale, il quale, ad esempio, ha ritenuto
ricevibile un ricorso in carenza proposto da una persona giuridica contro la
Commissione per il fatto che quest'ultima non abbia adottato una decisione che, pur
dovendo avere come destinatario uno Stato membro, interessava direttamente e
individualmente la persona giuridica ricorrente.

Un’ulteriore analogia fra il ricorso in carenza e quello di legittimità attiene al


requisito per il quale la carenza può riguardare l'omissione di atti che non siano
pareri o raccomandazioni. Tuttavia, per il ricorso in carenza, tale prerequisito
concerne solo i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche. Ne deriva che uno
Stato membro o un’istituzione potranno agire anche per fare dichiarare una violazione
da parte di un'istituzione dell'obbligo di emettere un parere previsto dal Trattato.
43

Perché il ricorso sia ricevibile occorre che l’istituzione, l'organo o l’organismo in causa
siano stati preventivamente richiesti di agire. Se allo scadere del termine di tre mesi
da tale richiesta, l'istituzione, l'organo o l’organismo non abbiano preso posizione, il
ricorso può essere proposto entro un nuovo termine di due mesi. Il procedimento
tende a far accertare la violazione dell'obbligo di pronunciarsi, da parte degli organi
giudiziari, con la conseguenza che l'istituzione, l'organo o l’organismo la cui astensione
sia stata dichiarata contraria ai Trattati, sono tenuti a prendere i provvedimenti che
l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea comporta .
L'attuazione da parte di un'istituzione politica di un obbligo di fare non è sempre
esigibile.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LA COMPETENZA IN VIA PREGIUDIZIALE

La Corte ha la competenza di decidere questioni deferitele da giudici nazionali,


affinchè essa interpreti norme dell’Unione europea oppure accerti la legittimità di
atti dell’Unione. Molto spesso accade che questioni di interpretazione e di legittimità
di norme dell’UE si presentino dinanzi ai giudici nazionali, i quali sono competenti a
decidere le cause fra persone fisiche o giuridiche, quelle fra tali persone e gli Stati
membri e anche le cause in materia contrattuale, fra le persone fisiche o giuridiche.
Fondamentale, al riguardo, è il contenuto dell’articolo 267 TFUE, il cui obiettivo è
quello di far sì che i giudici nazionali interpretino le norme dell’Unione e ne accertino
la legittimità in modo corretto. Ovviamente, tale procedimento richiede
necessariamente una forma di cooperazione, diretta a garantire la corretta
applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto comunitario nell’insieme degli
Stati membri fra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione delle norme
comunitarie, e la Corte.

Secondo l’articolo 267 TFUE, le questioni relative all’interpretazione di norme dell’UE


o all’accertamento della legittimità di atti delle istituzioni che occorre risolvere in un
giudizio possono essere sottoposte alla Corte da un qualsiasi giudice nazionale. Quando
si tratti di un giudizio pendente davanti ad un organo giurisdizionale nazionale, avverso
le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale
organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte. Quando il procedimento conduce
ad una sentenza impugnabile, la causa potrebbe essere eventualmente decisa dal
giudice dell’impugnazione senza che la questione, ad esempio, dell’interpretazione di
una norma dell’Unione assuma rilevanza; quando, invece, sia il giudice di ultima istanza
ad affrontare la questione ed egli la consideri rilevante, fondamentale diviene
44

l’intervento, in tal senso, della Corte. Si evita, oltretutto, attraverso il rinvio, che in
uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme
dell’UE. La violazione dell’obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza può
dar origine ad una responsabilità dello Stato membro per i danni causati alla parte del
giudizio. La nozione di organo giurisdizionale nazionale costituisce una questione di
diritto dell’Unione; spetta quindi alla Corte interpretarla. Nel concetto di giurisdizione
nazionale, non sono compresi, secondo la Corte, i tribunali arbitrali, la cui competenza
sia stata liberamente accettata dalle parti in luogo di quella dei giudici. Questa
soluzione limita in modo significativo l’attuazione del principio dell’uniformità
dell’interpretazione delle norme europee, dal momento che è deferita ad arbitri gran
parte delle controversie relative a contratti in materia commerciale. Inoltre, la
circostanza, evidenziata dalla Corte, che la domanda in via pregiudiziale possa essere
presentata dal giudice incaricato di controllare la decisione arbitrale non costituisce
una soluzione adeguata, anche a motivo del carattere solo eventuale di tale controllo e
della varietà dei sistemi di impugnazione dei lodi previsti negli ordinamenti nazionali.

Quando si parla, in ambito europeo, di organo giurisdizionale nazionale, va tenuto


presente che la Corte prende in esame non solo le caratteristiche strutturali
dell’organo che propone la questione, ma anche il tipo di attività svolta dall’organo nel
procedimento in cui la domanda è posta. Occorre, a tal fine, che si tratti di un
procedimento di natura contenziosa, tanto che i giudici nazionali possono adire la
Corte unicamente se dinanzi a essi sia pendente una lite e se essi siano stati chiamati
a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di
carattere giurisdizionale.

La Corte di giustizia ha ritenuto ammissibili, domande a titolo pregiudiziale postele


dalle corti costituzionali nazionali. A tal proposito, la Corte costituzionale italiana
aveva in un primo momento affermato di non essere legittimata a rivolgersi alla Corte
di giustizia date le profonde differenze fra il suo ruolo e quello degli altri organi
giurisdizionali nazionali. Recentemente, invece, la Corte costituzionale ha proposto
delle questioni in via pregiudiziale, modificando il proprio orientamento. Più
recentemente, la stessa Corte costituzionale ha proposto un rinvio pregiudiziale anche
in un caso in cui essa era investita di un giudizio incidentale di legittimità
costituzionale. Tale orientamento, senza dubbio, appare come una conseguenza del
principio per cui la Corte stessa costituisce una giurisdizione nazionale. Attraverso il
rinvio pregiudiziale, in un certo senso, viene a determinarsi un dialogo diretto fra la
Corte costituzionale e la Corte di giustizia, che diviene di fondamentale importanza ai
fini della tutela dei diritti fondamentali.
45

I giudici nazionali possono deferire questioni alla Corte di giustizia in qualsiasi


procedimento, anche nel caso in cui esso, ad esempio, abbia natura cautelare. I tempi
per ottenere una pronuncia della Corte in via pregiudiziale, tuttavia, spesso sono
parecchio lunghi (si stimano 16 mesi in media); tutto questo, certamente, fa si che un
giudice che non sia di ultima istanza, stenti ad avvalersi della facoltà di rivolgersi alla
Corte quando gli sia richiesto un provvedimento d’urgenza. Al fine di evitare altri
inconvenienti, derivanti dai tempi di attesa della pronuncia in via pregiudiziale, sono
state previste due corsie preferenziali, cui i giudici possono far riferimento al fine di
ottenere, da parte della Corte, una pronuncia più tempestiva.

 In primo luogo, la Corte può, su richiesta del giudice nazionale, decidere in base
ad un procedimento accelerato, qualora le circostanze comprovino l’urgenza
straordinaria di statuire sulla questione proposta in via pregiudiziale.
 In secondo luogo, per le questioni riguardanti determinate materie, il giudice
può chiedere che sia attivato un procedimento d’urgenza. Si pensi, ad esempio,
ai procedimenti riguardanti la potestà dei genitori e la custodia dei figli.

Sicuramente, negli ultimi anni, alcune tecniche, oltre che l’aumento del numero dei
giudici, ha contribuito notevolmente all’abbreviazione della durata del procedimento.

La questione a titolo pregiudiziale può avere ad oggetto l’interpretazione di


disposizioni dei Trattati e di atti delle istituzioni, degli organi e degli organismi
dell’Unione, compresi gli atti non vincolanti, come le raccomandazioni e gli atti
atipici, nonché gli accordi internazionali conclusi dall’Unione e gli atti adottati da
organismi previsti da tali accordi.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

La questione di validità può riguardare gli atti delle istituzioni, degli organi e
degli organismi dell'Unione. Non operano in proposito i criteri restrittivi relativi
all'impugnazione degli atti. Qualsiasi atto rilevante nel giudizio nazionale può essere
oggetto della questione. Non hanno, inoltre, alcuna rilevanza ai fini della proposizione
della domanda pregiudiziale, i termini per il ricorso di annullamento. Infatti, la
domanda può essere posta senza alcun limite temporale. Opera tuttavia la preclusione,
in relazione al rapporto tra impugnazione degli atti da parte delle persone e
contestazione della legittimità dell'atto in un giudizio nazionale. In una nota sentenza,
la sentenza TWD, la Corte ha escluso che la persona fisica o giuridica possa sollevare
in un giudizio nazionale la questione di legittimità di un atto che avrebbe potuto
impugnare. È inoltre rilevante come tale principio non implichi però un limite alla
46

facoltà del giudice di sollevare la stessa questione d'ufficio, a beneficio anche di


quella persona fisica o giuridica. L'articolo 267 TFUE impone ai giudici che emettono
sentenze non impugnabili, l'obbligo di proporre la questione. Rispetto alle questioni di
interpretazione, la Corte ha però riconosciuto l'esistenza di alcuni limiti
all'obbligo di rinvio. Una prima ipotesi in cui, secondo la sentenza CILFIT, il giudice
di ultima istanza può astenersi dal deferire alla Corte una questione di
interpretazione, è data dalla circostanza che la Corte abbia già chiarito il significato
della norma, in un'altra pronuncia: ciò sia quando la Corte si sia già pronunziata sulla
questione di interpretazione sollevata sia quando abbia definito una questione analoga.
Inoltre, la Corte si pone il problema se il giudice nazionale che applichi una norma
dell'Unione debba necessariamente effettuare un'interpretazione della stessa o se
certe norme risultino talmente chiare da non prospettare alcuna attività
interpretativa e quindi da non richiedere il rinvio pregiudiziale. Dal punto di vista
teorico, sarebbe difficile sostenere se il giudice non debba comunque procedere
all'interpretazione, ma la distinzione fra norme da interpretare e norme chiare ha la
funzione pratica di semplificare la decisione delle questioni giuridiche quando essa
appaia meno problematica. L'articolo 267, nella sua fattispecie, esclude che i
giudici di ultima istanza siano tenuti a deferire questioni di interpretazione alla
Corte di giustizia quando si tratti di questioni di agevole soluzione.

Quando si pone la distinzione fra norme da interpretare e norme chiare, sorge però
per l'interpretazione uniforme delle norme dell'Unione, il rischio che il giudice
nazionale invochi una pretesa chiarezza della norma per darne poi delle proprie
interpretazioni particolari. Nella sentenza CILFIT, la Corte, proprio per questo
motivo, ha cercato di introdurre alcune cautele per salvaguardare l'uniformità
dell'interpretazione.

Per quanto riguarda, invece, le questioni relative alla legittimità degli atti, la Corte
escluso che, rispetto all'obbligo del giudice di ultima istanza di proporre la questione,
possano operare dei limiti analoghi a quelli enunciati nella sentenza CILFIT, riguardo
all'interpretazione. Secondo la Corte, anche i giudici che non siano di ultima istanza,
possano esaminare la validità di un atto comunitario e, se ritengono infondati i motivi
di invalidità adotti dalle parti, possono respingerli, concludendo per la piena validità
dell'atto. In questo modo, non mettono in causa l'esistenza dell'atto comunitario. Al
contrario, essi non hanno il potere di dichiarare invalidi gli atti delle istituzioni
comunitarie. N.B Qualora un giudice non di ultima istanza ritenga che un atto
dell'Unione sia viziato, non potrà dichiarare l'invalidità ma dovrà necessariamente
47

proporre una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia affinché sia
essa a valutare la legittimità dell'atto.

Questa conclusione, difficilmente conciliabile con l'articolo 267 TFUE, è giustificata


dalla Corte sulla base di una considerazione generale, per cui l'esistenza di divergenze
fra i giudici degli Stati membri sulla validità degli atti comunitari potrebbe
compromettere la stessa unità dell'ordinamento giuridico comunitario ed attentare
alla fondamentale esigenza della certezza del diritto. Nell'indicare i giudici di ultima
istanza che possano decidere direttamente una questione di legittimità alla sola
condizione che la ritengano infondata, la Corte induce i giudici nazionali a orientarsi
nel senso della legittimità dell'atto, anche a prezzo di sacrificare il pieno rispetto
delle norme superiori dell'Unione con cui l'atto risulti essere contrastante. Infatti,
qualora il giudice nazionale nutra gravi dubbi sulla validità di una norma adottata da
un'istituzione, può sospendere l'esecuzione di un provvedimento nazionale adottato in
applicazione della norma comunitaria, sottoponendo poi alla stessa Corte la questione
di legittimità dell'atto dell'istituzione qualora ricorrano gli estremi dell'urgenza e sul
richiedente incomba al rischio di subire un pregiudizio grave e irreparabile.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

Dei criteri analoghi si applicano nel caso in cui il giudice nazionale intenda concedere
provvedimenti provvisori che modifichino o disciplinino le situazioni di diritto o i
rapporti giuridici controversi in ordine ad un provvedimento amministrativo nazionale
fondato sul regolamento comunitario che forma oggetto di un rinvio pregiudiziale per
accertamento di validità. I casi nei quali il giudice può sospendere l'applicazione di un
atto dell'Unione sono stati indicati in modo alquanto rigoroso. In ogni caso, il giudice
deve indicare, al momento di concedere il provvedimento provvisorio, i motivi per cui
ritiene che la Corte sarà indotta a constatare l'invalidità dell'atto dell'Unione. Il
giudice nazionale deve valutare la rilevanza della questione di interpretazione di
legittimità, dato che egli può sollevarla e addirittura, se trattasi di un giudice di
ultima istanza, è obbligato a farlo, soltanto qualora la reputi necessaria per emanare la
sua sentenza. Una questione può assumere rilevanza che quando il giudice debba
applicare una norma nazionale sulla cui interpretazione quella della norma dell'Unione
abbia una certa influenza.

Nella sentenza Foglia c. Novello I, la Corte ha rifiutato di rispondere a questioni


concernenti l’imposizione fiscale sui vini all’atto dell’importazione in Francia, che le
erano state poste da un giudice italiano al fine di valutare la conformità alle norme
comunitarie del comportamento di autorità francesi. Nella sentenza Foglia c. Novello
48

II, la Corte ha affermato che nel caso di questioni volte a consentire al giudice
nazionale di valutare la conformità col diritto comunitario di disposizioni di legge o
regolamenti di un altro Stato membro, la Corte deve vigilare in modo del tutto
particolare a che il procedimento di cui all’articolo 267 TFUE non venga utilizzato per
scopi non voluti dal Trattato. Sicuramente, al fine di ottenere un’interpretazione del
diritto comunitario che sia utile al giudice nazionale, occorre che quest’ultimo
definisca il contesto in fatto e in diritto in cui si inseriscono le questioni da esso
proposte o che spieghi le ipotesi in fatto su cui si basano suddette questioni.
Oltretutto, è importante che il giudice nazionale indichi le ragioni precise che l’hanno
indotto ad interrogarsi sull’interpretazione e sulla validità di determinate disposizioni
del diritto comunitario. Per facilitare una corretta formulazione delle questioni, la
Corte di giustizia ha adottato delle raccomandazioni, non vincolanti ovviamente,
dirette ad orientare i giudici nazionali attraverso una sintesi dei criteri enunciati nella
giurisprudenza.

Di centrale importanza è l’articolo 3 della l. n.204/1958, secondo cui gli organi della
giurisdizione ordinaria e speciale emettono ordinanza, con cui dispongono l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte di giustizia e sospendono il giudizio in corso.
L’ordinanza è inviata a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, alla cancelleria
della Corte di giustizia. Il rinvio può essere peraltro disposto dal giudice nazionale
anche d’ufficio. Si ritiene che debbono essere trasmessi alla Corte solo gli atti che
consentano alla stessa Corte di rendersi pienamente conto di quel che al giudice
nazionale occorre conoscere. Spetta, infatti, alla Corte di giustizia sulla base degli
elementi forniti dal giudice nazionale e sulla base della motivazione del provvedimento
di rinvio, gli elementi di diritto comunitario che necessitano di interpretazione.

L’ordinanza viene notificata a cura del cancelliere della Corte alle parti in causa, agli
Stati membri e alla Commissione, nonché all’istituzione, all’organo e all’organismo
dell’Unione che ha adottato l’atto in cui si contesta la validità o l’interpretazione. I
soggetti a cui l’ordinanza è notificata hanno il diritto di presentare alla Corte memorie
o osservazioni scritte nel termine di due mesi dalla notificazione.

Il giudice nazionale che abbia sollevato una questione di interpretazione o di


legittimità è vincolato dalla pronuncia della Corte. La sentenza indica l'orientamento
della Corte rispetto alle questioni sollevate dal giudice nazionale ed esso può ben
avere rilievo in ulteriori giudizi. Si pensi ad una sentenza della Corte che accerti
l’invalidità di un atto dell'istituzione. In questo caso, nonostante la sentenza abbia
come destinatario il giudice nazionale che si rivolge alla Corte, essa stessa
49

rappresenta per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto
non valido ai fini di una decisione che esso debba emettere. Si è spesso parlato di un
effetto generale delle pronuncia resa dalla Corte di giustizia a titolo pregiudiziale,
quasi a pretendere che essa risolva una volta per tutte le questioni decise. Tuttavia,
non esiste nei giudizi nazionali diversi da quello in cui sono state sollevate le questioni,
un vincolo del giudice ad attenersi alla soluzione data dalla Corte. Il giudice di ultima
istanza è liberato dall'obbligo di deferire una questione alla Corte qualora intenda
conformarsi a quanto già deciso dalla stessa Corte. Egli può sollevare nuovamente la
questione e così possono fare altri giudici. La Corte non si considera, d'altra parte,
formalmente vincolata dai propri precedenti. In alcune sentenze, è anche accaduto
che la Corte abbia limitato la portata nel tempo di una propria pronuncia
sull'interpretazione in ragione delle conseguenze cui essa avrebbe condotto. Si faccia
riferimento alla sentenza Defrenne II, in cui la Corte ha escluso che il principio
dell'eguaglianza di retribuzione fra uomo e donna potesse rimanere a sostegno di
rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della sentenza, ad
eccezione dei lavoratori che avessero già promosso l'azione giudiziaria o proposto un
reclamo equipollente. Oltretutto, è anche accaduto che la Corte abbia escluso che la
dichiarazione di illegittimità di un atto potesse valere in un giudizio nazionale in cui
era stata sollevata la questione. Tuttavia questa tecnica è stata profondamente
criticato dalla giurisprudenza più recente, anzitutto dalla Corte costituzionale italiana.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LE ALTRE COMPETENZE

Fra le altre competenze delle istituzioni giudiziarie assumono particolare rilievo quelle
riguardanti i ricorsi che possono essere proposti per far valere la responsabilità
extracontrattuale dell'Unione europea. Si pensi alle pretese di risarcimento dei danni.
Quando i ricorsi sono proposti da persone fisiche o giuridiche, essi devono essere
diretti al Tribunale. La responsabilità per danni cagionati dalle istituzioni o dalla banca
centrale europea o dai rispettivi agenti nell'esercizio delle loro funzioni sussiste in
base ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. La responsabilità può
essere causata da qualsiasi atto compiuto dall'Unione, anche da un atto normativo
purchè esso sia illegittimo. Ovviamente l'Unione è considerata responsabile solo
quando sussistono determinate condizioni, come la gravità dell'illecito quando si tratti
di un atto normativo in vista delle scelte di politica economica e la circostanza che sia
stata violata una norma superiore posta a tutela dei singoli. Ovviamente l'azione di
responsabilità non è proponibile nei confronti dell'Unione quando il danno derivi
50

dall'atto di uno Stato membro, anche se compiuto in esecuzione di una norma


dell'Unione. Per quanto riguarda il rapporto tra l'azione di responsabilità e
l'impugnazione degli atti con ricorso in carenza, in una sua nota sentenza, la Corte ha
enunciato che l'azione di danni è concepita dal Trattato come un rimedio autonomo,
dotato di una propria funzione che lo distingue dalle altre azioni riferibili e sottoposto
a condizioni di esercizio che tengono conto del soggetto specifico. Ciò fa sì che una
persona possa agire ai fini del risarcimento del danno anche quando non sia
legittimata ad impugnare l'atto che ha causato tale danno. Per quanto riguarda il
rapporto tra azione per danni e ricorso in carenza, la Corte ha escluso che costituisca
causa di irricevibilità il fatto che, in determinate circostanze, l'esercizio dell'azione
di danni possa avere conseguenze analoghe a quelle dell'azione per carenza. Spetta ai
giudici nazionali decidere le controversie relative ai contratti conclusi con l'Unione, a
meno che la Corte di giustizia non risulti competente a giudicare in virtù di una
clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto
privato, stipulato dall’UE o per conto di questa. Sono di competenza del Tribunale le
cause che le persone fisiche e giuridiche possono promuovere in base ai regolamenti
che attribuiscano una competenza giurisdizionale, anche di merito per quanto riguarda
le sanzioni previste nei regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento e dal
consiglio o dal Consiglio. Tra questi regolamenti assume particolare importanza il
regolamento 1/2003, in materia di concorrenza, il cui articolo 31 riguarda i ricorsi
avverso le decisioni con le quali la Commissione irroga un’ammenda o una penalità di
mora. La stessa disposizione indica che la Corte può estinguere, ridurre o aumentare
l’ammenda o la penalità di mora irrogata. Le sentenze della Corte di giustizia che
impongono obblighi pecuniari a carico di persone che non siano Stati hanno forza
esecutiva negli ordinamenti degli Stati membri con la semplice apposizione della
formula esecutiva e con la sola verificazione dell'autenticità del titolo.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

CAPITOLO IV

I CONFINI DEL DIRITTO DELL’UE

LA COOPERAZIONE RAFFORZATA

Non sempre le norme dell'Unione si applicano uniformemente a tutti gli Stati membri.
In alcuni casi, infatti, a seconda dello Stato membro, si applica una disciplina diversa.
Questo fenomeno si è verificato per la prima volta rispetto all'Accordo sulla politica
51

sociale. Le norme di tale accordo e quelle fondate sullo stesso erano da ritenere
norme comunitarie ma non applicabili al Regno unito. Il fenomeno si è poi esteso,
nell'ambito della circolazione delle persone, nei confronti della Danimarca,
dell'Irlanda e del Regno unito. Un meccanismo denominato cooperazione rafforzata,
introdotto dal trattato di Amsterdam, consente di realizzare un'applicazione
differenziata delle normative dell'Unione rispettando certe condizioni e seguendo una
particolare procedura. Tale meccanismo consente ad un gruppo di Stati membri,
almeno nove, di perseguire gli obiettivi dell'Unione che non possano essere conseguiti
entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme. Le istituzioni dell'Unione
sono utilizzate per attuare la cooperazione rafforzata, senza che gli Stati che
non sono coinvolti dalla cooperazione in questione possano partecipare alla
votazione delle delibere del Consiglio. Quando per l'adozione di una delibera sia
prevista la maggioranza qualificata, si fa riferimento all'articolo 238 TFUE. La
normativa così prodotta è considerata parte del diritto dell'Unione ma soltanto per gli
Stati che partecipano alla cooperazione rafforzata. L'avvio di una cooperazione
rafforzata presuppone la richiesta da parte di un congruo numero di Stati membri
e una delibera di autorizzazione, presa a maggioranza qualificata dal Consiglio
nella sua composizione ordinaria. Tale delibera è adottata su proposta della
Commissione, previa approvazione del Parlamento. Qualora la cooperazione rafforzata
riguardi la politica estera e di sicurezza comune, il Consiglio delibera l’avvio
all'unanimità su parere dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza e della Commissione, mentre la richiesta degli Stati membri è trasmessa al
Parlamento solo per conoscenza. Se la cooperazione rafforzata può incontrare
difficoltà all'avvio, essa non costituisce sempre una scelta attraente, quando alcuni
Stati membri sono considerati poco idonei a realizzare la cooperazione rafforzata ma
intendano comunque prendervi parte.

La cooperazione rafforzata deve essere aperta a tutti gli Stati membri, salvo il
rispetto delle eventuali condizioni di partecipazione, stabilite dalla decisione di
autorizzazione. È consentito a ciascuno Stato membro partecipare alla cooperazione
già avviata, fatto salvo il rispetto degli atti già adottati. Uno Stato potrà far parte di
una cooperazione rafforzata già avviata, attraverso una delibera di conferma da parte
della Commissione o, nel caso in cui la Commissione non sia favorevole, del Consiglio
nella composizione limitata agli Stati che partecipano alla cooperazione. Nel caso di
cooperazione rafforzata nel quadro della politica estera e di sicurezza comune, la
delibera di conferma è sempre adottata dal Consiglio nella composizione così limitata
e all'unanimità. Resta ferma la possibilità di un gruppo di Stati membri di instaurare
52

nuovi vincoli fra di loro al di fuori della cornice dell'Unione, senza quindi utilizzare le
istituzioni e produrre norme dell'Unione. Il Protocollo n.19 autorizza ora 25 Stati
membri ad attuare tra di loro una cooperazione rafforzata nei settori riguardanti le
disposizioni definite dal Consiglio che costituiscono l’acquis di Schengen. Il Regno
unito e l'Irlanda, peraltro, possono chiedere di partecipare in tutto o in parte alle
disposizioni suddette. Si tratta, in sostanza, di regole sulla circolazione delle persone
in buona parte già adottate, che non costituiscono diritto dell'Unione per il Regno
unito e l'Irlanda. E’ così posta in essere una cooperazione rafforzata del tutto
particolare, dal momento che l'avvio di essa è già deliberato in una disposizione dello
stesso valore dei Trattati, parte della normativa è già stata adottata e le modalità di
partecipazione degli Stati membri rimasti estranei alla cooperazione rafforzata non
sono quelle stabilite in via generale.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

ALTRI CASI DI APPLICAZIONE DIFFERENZIATA DELLA NORMATIVA


DELL’UNIONE

Molto spesso si ricorre a delle deroghe, per esentare uno o più Stati da alcuni obblighi
stabiliti nei Trattati. Un insieme ampio di deroghe è stato stabilito in tutti gli accordi
relativi all'adesione all'Unione di nuovi Stati membri, in modo tale da consentire agli
Stati aderenti di realizzare progressivamente l'adeguamento alle esigenze del
mercato comune e alle altre derivanti dai Trattati. Un insieme di norme , per esempio,
si applica solo agli Stati membri la cui moneta è l'euro. L'articolo 139 TFUE elenca una
serie di disposizioni dello stesso Trattato che non operano rispetto agli Stati membri
che non soddisfano le condizioni necessarie per l'adozione dell'euro. Tali Stati sono
chiamati Stati membri con deroga. Si pensi alla Danimarca e al Regno Unito.
Ovviamente, per poter adottare l'euro, sono necessari una serie di requisiti stabiliti
dall'articolo 140 TFUE. Si pensi all'assenza di un disavanzo eccessivo nel bilancio
pubblico o ad un tasso di inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri che hanno
conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi. Il Consiglio accerta, su
proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento, il rispetto di tali
criteri da parte di ciascuno Stato membro. A tal fine, delibera sulla base di una
raccomandazione presentata a maggioranza qualificata dei membri che rappresentano
gli Stati membri la cui moneta è l'euro. Un altro importante esempio di applicazione
differenziata di norme dell'Unione europea riguarda la Carta dei diritti fondamentali
che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. La Carta è applicabile a tutti gli Stati
membri dell'Unione anche se non produce i suoi effetti giuridici nei confronti della
53

Polonia e del Regno unito. Essa non estende la competenza della Corte di giustizia
dell'Unione Europea o di qualunque organo giurisdizionale della Polonia o del Regno
Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti, le disposizioni, le pratiche o l'azione
amministrativa della Polonia o del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà
e ai principi fondamentali che essa riafferma. Costituisce una forma significativa di
applicazione differenziata della normativa dell'Unione anche la cooperazione
strutturata permanente relativa alla difesa comune. Essa coinvolge soltanto gli Stati
membri che rispondano a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno
sottoscritto i beni vincolati in materia ai fini delle missioni più impegnative.
L'applicazione differenziata non si verifica soltanto quando è disposta dai Trattati.
Infatti, molto spesso, accade che atti normativi adottati dalle istituzioni dell'Unione
pongano regole che operano solo per uno o più Stati membri oppure che li esentano, in
tutto o in parte, dal rispetto di regole generali. Gli atti normativi che stabiliscono l’
applicazione differenziata possono trovano giustificazione nella diversità delle
situazioni di fatto che esiste fra gli Stati membri. L'applicazione di un atto normativo
a un solo Stato oppure una deroga per quello Stato possono costituire tecniche per
disciplinare situazioni diverse in modo equivalente. Un risultato analogo è talora
ottenuto attraverso una normativa applicabile in tutta l’UE ma i cui presupposti di
applicazione si realizzino solo per un certo Stato o al contrario non si realizzino per lo
stesso.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

L’IMPATTO DEL DIRITTO DELL’UNIONE OLTRE I PROPRI CONFINI

Concetti e istituti che si sono formati e sviluppati nell’ordinamento dell’UE


inevitabilmente influiscono su concetti e istituti propri degli ordinamenti nazionali.
Molte norme dell’UE offrono modelli che il legislatore nazione può seguire anche
quando non sia vincolato dal diritto dell’Unione nel regolare una materia. Molto si è
parlato della cosiddetta discriminazione a rovescio. E’ questo il caso in cui i cittadini
italiani godano di un trattamento meno favorevole di quello che è dovuto in Italia ai
cittadini degli altri Stati membri secondo la normativa europea. Nella sentenza Steen
II, la Corte di giustizia ha dichiarato che spetta al giudice nazionale, quando sia
chiamato a conoscere di una questione di diritto interno, stabilire se, alla luce di
quest’ultimo, vi sia una discriminazione e se e come tale discriminazione possa essere
eliminata. Il problema delle discriminazioni a rovescio si è presentato poco tempo dopo
davanti alla Corte costituzionale, a seguito del trattamento meno vantaggioso che i
54

cittadini italiani godevano rispetto ai cittadini di altri Stati membri in caso di impiego
quali lettori di lingue straniere nelle università. La Corte costituzionale ha posto fine
alla discriminazione, ritenendo che la connessione della situazione interna con una
situazione contemplata dal diritto comunitario sussisteva anche nell’ipotesi di identità
della situazione interna a una situazione rilevante per il diritto comunitario in quanto
determinata, nel territorio dello Stato italiano, dall’esercizio del diritto di libera
circolazione dei lavoratori all’interno dell’UE. In base a quanto detto dalla Corte
costituzionale, dunque, in base alla normativa dell’UE, non vi sarebbero mai
discriminazioni a rovescio. Secondo la Corte di giustizia, il diritto dell’UE non pone in
realtà obblighi rispetto al trattamento dei lettori se non per quel che riguarda i
cittadini di altri Stati membri o anche i cittadini italiani che abbiano già esercitato la
libera circolazione. E’ solo grazie al principio di eguaglianza stabilito dai diversi
ordinamenti nazionali che il trattamento posto in essere dalla normativa europea
finisce per essere applicato ad una categoria più ampia di soggetti. E’ stato preso in
esame, in ambito europeo, oltretutto, il caso riguardante la questione di legittimità di
una legge riguardante la produzione di paste alimentari, che poneva requisiti di qualità
per i produttori nazionali, penalizzandoli rispetto a quelli di altri Stati membri. la
Corte ha affermato l’illegittimità della legge per contrasto non con norme comunitarie
ma con i principi costituzionali di eguaglianza e di libertà di iniziativa economica.
Inoltre, l’articolo 32 della l.n.234/2012 afferma l’esigenza di assicurare la parità di
trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’UE
e non può essere previsto in ogni caso un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani.
Detto ciò, ci si domanda se, sulla base dell’articolo 18 TFUE (principio di non
discriminazione in base alla nazionalità), le norme dell’UE più favorevoli non debbano
essere applicate a tutti i cittadini degli Stati membri, anche a coloro che non hanno
ancora usufruito della libertà di circolazione.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco
55

CAPITOLO QUINTO

LE COMPETENZE NORMATIVE DELL’UE

IL FONDAMENTO DELLE COMPETENZE NORMATIVE DELL’UE: IL PRINCIPIO


DI ATTRIBUZIONE.

L’UE dispone delle competenze normative che le sono conferite dal TUE e dal TFUE.
Essa, in virtù del principio di attribuzione, può agire esclusivamente nei limiti delle
competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei Trattati per realizzare gli
obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei
Trattati appartiene agli Stati membri.

Generalmente, la disposizione che attribuisce la competenza indica anche la procedura


che deve essere seguita per adottare atti che attengono a quel particolare settore o
materia. La disposizione, inoltre, precisa anche quale atto normativo le istituzioni
possano adottare. Spesso, invece, è conferito il potere generale di adottare misure,
lasciando così alle istituzioni la scelta dell’atto normativo più adeguato. La
discrezionalità delle istituzioni nella scelta dell’atto non è illimitata, in quanto
comunque, nel caso in cui i Trattati non prevedano il tipo di atto da adottare, le
istituzioni devono stabilirlo di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e
del principio di proporzionalità. La scelta del fondamento giuridico di un atto spetta
alle istituzioni politiche dell’Unione e deve fondarsi su alcuni elementi di fondamentale
importanza, fra cui lo scopo e il contenuto dell’atto. Ovviamente la scelta del
fondamento giuridico comporta importanti conseguenze sul piano istituzionale, dal
momento che da essa dipende la procedura normativa e quindi il ruolo più o meno ampio
che il Parlamento avrà per l’adozione di un atto. Nell’individuazione del fondamento
giuridico si possono presentare delle situazioni problematiche quando un atto riguardi
più materie. In questo caso, secondo la Corte, è necessario stabilire quale sia
l’obiettivo prevalente dell’atto. Qualora ciò non fosse possibile, tuttavia, una volta
accertato che l’atto persegue contemporaneamente più obiettivi o che ha componenti
fra loro inscindibili, senza che uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta
rispetto all’altro, tale atto dovrà basarsi sui diversi fondamenti normativi
corrispondenti. Ovviamente tale circostanza può creare dei problemi quando le
56

procedure previste dalle rispettive norme siano incompatibili. Al fine di accertare la


compatibilità delle relative procedure, la Corte dà particolare rilievo all’esigenza che
non siano pregiudicati i poteri del Parlamento, escludendo la possibilità del doppio
fondamento, quando il cumulo di fondamenti normativi sia tale da pregiudicare i diritti
del Parlamento.

COMPETENZE ESCLUSIVE, COMPETENZE CONCORRENTI E COMPETENZE


PARALLELE.

Prima del Trattato di Lisbona, l'articolazione fra competente statali e comunitarie


aveva un'origine esclusivamente giurisprudenziale; a tal proposito, la Corte di
giustizia aveva elaborato il concetto di competenza esclusiva, riscontrabile nelle
materie della politica commerciale comune e della politica della pesca. In queste
materie, gli Stati membri avevano un potere di intervento molto limitato, tanto che
essi potevano adottare solo le norme di esecuzione di atti comunitari oppure norme
che le istituzioni dell'Unione avevano loro autorizzato ad emanare. Tutte le altre
materie di competenza della Comunità avevano invece un carattere concorrente con
quelle di competenza degli Stati membri, nel senso che quest'ultimi potevano in quelle
materie adottare qualsiasi norma nazionale con il solo limite generale della conformità
di tali norme agli obblighi comunitari. L'articolo 2 TFUE codifica quanto stabilito dalla
giurisprudenza della Corte, sottolineando che quando i Trattati attribuiscono
all'Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo l'Unione può
legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possano farlo
autonomamente solo se autorizzati dall'Unione oppure per dare attuazione agli atti
dell'Unione. Nelle materie di competenza esclusiva, non vi è soltanto la prevalenza
delle norme dell'Unione rispetto alle norme degli Stati membri, ma risulta illecita una
normativa nazionale adottata fuori delle due circostanze indicate. L'esistenza di una
competenza di carattere esclusivo restringe in modo molto rilevante i poteri degli
Stati membri da un punto di vista pratico, tanto da precludere sostanzialmente
l'attività normativa degli stessi, comportando così rispetto a materie di competenza
concorrente una situazione simile a quella che si verifica nei settori di competenza
esclusiva. La Corte, inoltre, tende a precisare che l'adozione di atti comunitari non è
di per sé decisiva ma il carattere esclusivo della competenza si desume dalla
disposizione del Trattato che la attribuisce. Considerato che il carattere esclusivo
non dipende dalla circostanza che il legislatore dell'Unione abbia adottato in quel
settore un atto normativo, sarebbe opportuno che, nelle materie di competenza
esclusiva, la disciplina dell'Unione fosse quantomeno più esaustiva per evitare il
rischio che si determini una situazione di vuoto normativo. Infatti, qualora l'Unione
57

non abbia ancora provveduto a disciplinare la materie di competenza esclusiva,


neppure gli Stati membri potrebbero provvedere. Al fine di evitare tale rischio, la
Corte ha tratto la conclusione dell'esistenza di una competenza esclusiva non dal
semplice fatto dell'entrata in vigore del Trattato ma dalla scadenza di determinati
termini posti per la realizzazione di taluni obiettivi da parte dello stesso Trattato. Si
pone, senza dubbio, l'esigenza che sia garantita da parte dell'Unione un'adeguata
disciplina delle materie di sua competenza esclusiva . In mancanza di una normativa
dell'Unione, l'eventualità che alcuni Stati membri ottengano l'autorizzazione ad
adottare norme interne potrebbe determinare una situazione di mancanza di
uniformità, tale da provocare conseguenze pregiudizievoli per il mercato comune e per
le relazioni commerciali fra Unione e Stati terzi. Sicuramente col trattato di Lisbona,
l'ambito delle competenze esclusive si è esteso in modo particolare. Il carattere
esclusivo della competenza, infatti, è attribuito, oltre che alle due materie già
indicate nella giurisprudenza della Corte, anche all'unione doganale, alla definizione
delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno nonché
alla politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l'euro. L’ individuazione
degli atti rientranti nell'ambito dell'Unione doganale e della politica monetaria non
dovrebbe incontrare particolari difficoltà, trattandosi di una materia ben delimitata
in relazione all'oggetto e avente contenuto essenzialmente tecnico. Riguarda la
politica commerciale, la Corte di giustizia ha ritenuto doveroso ricordare che l'atto
rientra nella competenza esclusiva in materia di politica commerciale comune prevista
dall'articolo 133 CE solo se verte specificatamente sugli scambi internazionali in
quanto stia sostanzialmente destinato a promuovere, facilitare o disciplinare gli
scambi commerciali ed abbia effetti diretti e immediati sul commercio o gli scambi dei
prodotti interessati. Quando i Trattati attribuiscono all'Unione una competenza
concorrente con quella degli Stati membri in un determinato settore, ovviamente
l'Unione e gli stati membri possono legiferare e adottare atti giuridicamente
vincolanti per quel settore. In una materie di competenza concorrente, dunque, sia
l'Unione che gli Stati membri possano adottare atti, ma non si precisa il rapporto tra
la competenza statale e quella dell'Unione. Tuttavia gli Stati membri esercitano la
loro competenza nella misura in cui l'Unione non esercita la propria. Sembrerebbe,
dunque, determinarsi la circostanza per cui in un settore di competenza concorrente,
la presenza di una normativa dell'Unione precluderebbe agli stati membri l'adozione di
un atto normativi o aventi ad oggetto la medesima materia. In realtà non è ragionevole
ritenere che il TFUE voglia escludere il potere degli Stati membri di legiferare nelle
materie di competenza concorrente una volta che l'Unione abbia adottato un proprio
atto, anzitutto perché la normativa nazionale può essere richiesta dallo stesso
58

Trattato ai fini dell'applicazione ed attuazione degli atti dell'Unione. Inoltre, se il


potere normativo statale fosse comunque escluso, nelle materie di competenza
concorrente, per il solo fatto dell'adozione di un atto normativo dell'Unione, il potere
degli Stati membri subirebbe una compressione analoga addirittura più significativa di
quella che incontra in relazione alle materie di competenza esclusiva. Infatti, il
Protocollo n.25 stabilisce che quando l'Unione agisce in un determinato settore, il
campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre solo gli elementi
disciplinati dall'atto dell'Unione e non pertanto l'intero settore. Diversamente da
quanto avviene nelle materie di competenza esclusiva, gli Stati membri possono, nelle
materie di competenza concorrente, adottare non solo norme di applicazione e di
attuazione di atti dell'Unione ma provvedere ad una normazione autonoma, finalizzata
all'adempimento di obblighi derivanti dalla partecipazione all'Unione, purché conforme
a tali obblighi. Dunque, alla luce di tale disciplina, gli Stati membri sono tenuti a
rispettare i requisiti minimi fissati dalla direttiva ma potranno anche stabilire sulla
base di norme interne con limiti più rigorosi. Il TFUE non elenca le competenze in
materia concorrente, in modo generale, ma si limita a indicare le principali a titolo
esemplificativo. Infatti, sottolinea che hanno carattere concorrente tutte le
competenze dell'Unione che non sono indicate come esclusive né quelle di natura
parallela. Il TFUE, a sua volta, individua una terza tipologia di competenze, le
cosiddette competenze parallele, in relazione ai settori nei quali l'Unione può svolgere
azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza
sostituirsi alla loro competenza in tali settori. In tali materie, rientrano la cultura, la
tutela della salute e l'istruzione. La differenza sostanziale rispetto alle materie di
competenza concorrente consiste nella preclusione per l'Unione a provvedere, in tali
materie, all'armonizzazione delle disposizioni degli Stati membri. Tuttavia
l'individuazione della nuova categoria delle competenze parallele non contribuisce a
chiarire in modo adeguato la ripartizione tra quest'ultime e le competenze
concorrenti, anche perché al fine di determinare l'effettivo contenuto che l’azione
normativa può assumere in una certa materia, occorre riferirsi alla disposizione del
TFUE che attribuisce il relativo potere normativo. Infine, va ricordato che alcune
materie sfuggono all'aspetto della ripartizione delle competenze stabilito dall'articolo
2 TFUE. In primo luogo, gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche
occupazionali secondo le modalità previste dal TFUE; in secondo luogo, l'Unione ha
competenza conformemente al Trattato sull'Unione europea per definire e attuare
una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una
politica di difesa comune. Ciò risponde all'orientamento dei governi, diretti a
riservarsi poteri più significativi in tali materie. Inoltre, l'articolo 40 TUE prevede
59

che l'attuazione della politica estera e di sicurezza comune lasci impregiudicata


l'applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni delle
istituzioni previste dai Trattati, per l'esercizio di tutte le altre competenze
dell'Unione; dall'altra parte, nell'esercizio di queste competenze, non può essere
pregiudicata l'azione dell'Unione in materia di politica estera e di sicurezza comune.
Ciò tende ad accentuare la separatezza delle regole sulla politica estera cercando di
evitare reciproche interferenze.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

L’ARTICOLO 352 TFUE E L’INTERPRETAZIONI DELLE DISPOSIZIONI CHE


CONFERISCONO POTERI NORMATIVI.

L’articolo 352 TFUE stabilisce che qualora ricorrano determinate circostanze, le


istituzioni possono adottare atti anche quando il rispettivo potere normativo non è
conferito dagli stessi Trattati di. La norma non conferisce ulteriori competenze ma
semplicemente ricorda che se l'azione dell'Unione risulta essere necessaria, nel
quadro delle politiche definite dai Trattati, per realizzare uno degli obiettivi stabiliti
nei Trattati, senza che quest'ultimi abbiano previsto il potere di azione richiesto a tal
fine, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa
approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Le misure a
cui si fa riferimento non possono riguardare la politica estera e di sicurezza comune
né comportare un'armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli
Stati membri nei casi in cui i Trattati la escludono.

Dall'interpretazione accolta dalla Corte discendono due ulteriori principi:

 In primo luogo, si ritiene che il ricorso a tale norma sia possibile solo quando
esiste una competenza ma non sono indicati i poteri per esercitarla. In altre
parole, si può fondare un atto sull'articolo 352 solo quando il potere di
adottarlo non sia conferito da una diversa disposizione del Trattato. Secondo la
corte di giustizia, l'esistenza di un potere normativo attribuito ad
un'istituzione da altre disposizioni del Trattato costituisce un presupposto
perché un atto possa legittimamente essere fondato su tale articolo.
Inoltre, è stato sottolineato che il valersi di suddetta norma come base legale
di un atto è ammesso solo quando nessun'altra disposizione del Trattato
attribuisca alle istituzioni comunitarie la competenza necessaria per
l'emanazione dell'atto stesso. In questo modo, la Corte vuole evitare che con il
60

ricorso all'articolo 352, sia riservato al Parlamento europeo un ruolo meno


rilevante di quello che gli spetterebbe sulla base di una diversa disposizione del
Trattato. Inoltre, il ricorso all'articolo 352 richiede l'adozione dell'atto
all'unanimità da parte del Consiglio, mentre una diversa disposizione potrebbe
prevedere la delibera a maggioranza qualificata.
 In secondo luogo, l'articolo 352 non potrebbe essere utilizzato per adottare
disposizioni che porterebbero una modifica del Trattato, che sfugga alla
procedura prevista nel trattato medesimo. In questo modo, la Corte, a suo
modo, vuole evitare che venga aggirata la procedura ordinaria di modifica dei
Trattati. Tale procedura prevede la ratifica del nuovo Trattato da parte degli
Stati membri, secondo le rispettive norme costituzionali, norme che possono
richiedere un coinvolgimento dei parlamenti nazionali o talora lo svolgimento di
un referendum popolare.

Ne deriva che, secondo la Corte, la possibilità di fondare un atto su tale disposizione


dipenderà anzitutto dall'estensione delle competenze disciplinatamente attribuite
all'Unione dal Trattato. La graduale attribuzione di ulteriori poteri normativi
attraverso i vari Trattati modificativi ha ridotto l'opportunità di ricorrere all'articolo
352. Nella prassi più recente, l'esigenza di ampliare l'azione della Comunità oltre
quanto previsto specificatamente nel trattato CE, si era posta soprattutto dopo la
fine del periodo transitorio stabilito per instaurare gradualmente il mercato comune.
Tale mercato ha come conseguenza che molte azioni degli Stati membri
risulterebbero essere scarsamente efficaci se intraprese singolarmente. Si pensi alla
politica dell'ambiente, come esempio dell'esigenza di uno sviluppo dell'attività
normativa della Comunità europea oltre quanto specificatamente stabilito nel Trattato
CE. Il testo originario del Trattato non conteneva alcuna disposizione che riguardasse
la tutela dell'ambiente, anche perché l'importanza del problema era scarsamente
avvertita negli anni ‘50. La libera circolazione dei fattori di produzione e delle merci
all'interno della Comunità aveva posto ciascuno Stato membro che intendesse
adottare misure rigorose per la tutela dell'ambiente di fronte al rischio che le
produzioni inquinanti, per evitare i costi necessari per conformarsi delle misure,
fossero trasferite nel territorio di altri Stati membri, con conseguenze fortemente
negative per l'occupazione dei lavoratori. Inoltre, le imprese che avessero mantenuto
la loro produzione nello Stato membro che adottava uno standard elevato di
protezione dell'ambiente si sarebbero trovate in una situazione di svantaggio
competitivo sul mercato rispetto alle imprese aventi sede in Stati membri che
61

adottavano requisiti meno rigorosi. Per combattere tali rischi, occorreva che la
Comunità predisponesse delle norme a tutela dell'ambiente, in modo tale da assicurare
che in ciascuno Stato membro fosse realizzato un certo livello di tutela. In sostanza,
era quindi necessario rinvenire nello stesso Trattato qualche elemento per affermare
una competenza della Comunità in proposito. La consuetudine di utilizzare l'articolo
308 del trattato CE, il cui testo corrispondeva all'attuale articolo 352 TFUE, è venuta
meno a seguito dell'obiezione formale espressa nel 1980 dal governo danese, che ha
da allora precluso l'uso di tale fondamento normativo per avviare nuove politiche
dell'Unione giacchè esso richiede l'unanimità del Consiglio. Riguardo la procedura
normativa, qualora il Consiglio adotti le disposizioni in questione secondo una
procedura legislativa speciale, esso delibera all'unanimità su proposta della
Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo; in questo modo, si vuole
evitare che l'adozione di atti fondati sull'articolo 352 prescinda dai requisiti stabiliti
in via generale. Un importante controllo sul rispetto delle condizioni stabilite ai fini
del ricorso all'articolo 352 è affidata ai parlamenti nazionali sulla base del
meccanismo stabilito dal Protocollo numero 2, relativo al controllo sull'applicazione
dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Il coinvolgimento dei parlamenti
nazionali è dovuto al fatto che qualora si prospetti un ricorso troppo ampio o
ingiustificato a tale disposizione, ne deriverebbe in definitiva una compressione delle
loro funzioni. Si può dunque ritenere che gli Stati membri che rifiutino in modo
sistematico l'uso di tale disposizione rispetto a materie che rientrano nella
competenza dell'Unione europea ai fini di realizzare i suoi obiettivi, potrebbero
violare l'obbligo di cooperazione imposto agli stessi Stati membri, che comprende
anche l'obbligo di facilitare l'Unione per l'adempimento dei suoi compiti e di astenersi
da qualsiasi misura che metta in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione.
Nonostante la sviluppo raggiunto dalla normativa dell'Unione, restano tuttora spazi
per trarre dall'articolo 352 dei poteri d’azione in settori non ancora disciplinati.
Sicuramente, l’ambito di applicazione di tale disposizione è oggi più esteso, tanto che
la norma si applica non più al solo funzionamento del mercato comune. Infatti, si apre
la possibilità di utilizzare l'articolo 352 come fondamento giuridico di atti normativi
che riguardino qualsiasi materia rientrante nell'ambito di applicazione dei Trattati.
Infine, va ricordato, l'articolo 372 non può essere applicato per il conseguimento di
obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

I PRINCIPI DELLA SUSSIDIARIETA’ E DELLA PROPORZIONALITA’


62

Nelle materie in cui l'Unione non dispone di una competenza esclusiva, il suo
potere normativo può essere esercitato in conformità al principio di sussidiarietà.
Infatti, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l'Unione interviene solo
se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possano essere conseguiti in misura
sufficiente dagli Stati membri, nella dimensione centrale, regionale e locale, ma
possono essere conseguiti meglio a livello di Unione. In alcuni ordinamenti, come quello
tedesco, il principio di sussidiarietà ha avuto un esito positivo nella sua applicazione,
mentre in altri ordinamenti con quello italiano, ha semplicemente avuto il ruolo di
valorizzare l'azione normativa regionale e locale rispetto a quella statale, sulla base
del fatto che le decisioni sono assunte dal governo più vicino ai cittadini.
Nell'ordinamento dell'Unione Europea, il principe assume un valore diverso. Esso
costituisce un limite alla possibilità dell'Unione di adottare atti normativi nelle
materie che non sono di sua competenza esclusiva. Tale principio non incide sui
rapporti fra Stato centrale o federale e regioni o Stati federali all'interno degli Stati
membri, dato che esso riguarda solo i rapporti fra l'Unione e gli Stati membri,
considerati in modo unitario, indipendentemente dalle loro suddivisioni interne. Il
principio di sussidiarietà non opera rispetto alle materie che rientrano nella
competenza esclusiva dello Stato. Per quanto riguarda quest'ultime, vale il principio
di proporzionalità che è applicabile a qualsiasi materia di competenza dell'Unione.
Quando la materia rientrano nella una competenza concorrente o parallela, il principio
della sussidiarietà e della proporzionalità cooperano entrambi nel senso di limitare
l'esercizio, da parte dell'Unione, della propria competenza normativa.

La proporzionalità riguarda sia l'esercizio di un'attività normativa dell'Unione sia


le modalità seguite per svolgerla. Il rispetto del principio di proporzionalità può
richiedere che il Consiglio non emani una normativa inutile oppure che esso adotti solo
un atto normativo che lasci maggiore libertà agli Stati membri, come la direttiva
invece di un regolamento oppure una direttiva che comporti un maggior spazio
discrezionale per gli Stati membri. Questo principio si è affermato nella
giurisprudenza anzitutto con riferimento alle limitazioni imposte alle persone fisiche e
giuridiche. Nella sentenza Hauer, la Corte ha considerato compatibile con il principio
di proporzionalità, il regolamento comunitario che stabiliva il divieto di piantare nuovi
vigneti poiché questo aveva un carattere solo temporaneo ed era giustificato da
obiettivi di interesse generale. Più recentemente la Corte, nell'esaminare la
legittimità del regolamento che limita il diritto di proprietà delle persone sospettate
di sostenere il terrorismo, ha richiamato la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo per affermare che, nonostante la discrezionalità che dev'essere
63

riconosciuta al legislatore europeo, deve sussistere un ragionevole rapporto di


proporzionalità dei mezzi impiegati e lo scopo perseguito. L'accertamento circa la
conformità di un'azione normativa ai principi di proporzionalità e di sussidiarietà può
non essere agevole in concreto. Il principio di sussidiarietà implica una valutazione
comparativa tra quello che gli Stati membri potrebbero fare per raggiungere un certo
obiettivo e quello che invece è in grado di realizzare allo stesso fine l'Unione
nell'esercizio delle sue competenze. L'attività normativa dell'Unione potrebbe essere
anche compatibile con il principio di sussidiarietà quando gli Stati membri si astengono
dal compiere quel che potrebbero fare in modo adeguato per realizzare l'obiettivo,
perché altrimenti questo non verrebbe raggiunto.

Nessuna istituzione vigila in modo continuo sul rispetto dei principi di sussidiarietà e
di proporzionalità. Tale compito spetta anzitutto alla Commissione nell'elaborazione
della proposta dell'atto normativo, nonché alle altre istituzioni o Stati membri ai quali
talora compete il potere di iniziativa. Il potere controllo è affidato anche ai
parlamenti nazionali, sul presupposto per l'adozione di un atto dell'Unione non
conforme al principio della sussidiarietà leda il potere di quest'ultimi, privandoli di
parte delle loro funzioni. È stata poi introdotta una procedura sulla base della quale
ciascun Parlamento può, entro otto settimane dalla data di trasmissione di un progetto
di atto legislativo dell'Unione, inviare alle istituzioni politiche un parere ed esporre le
ragioni per le quali ritiene che il progetto non sia conforme al principio della
sussidiarietà. Ciascun Parlamento nazionale dispone di due voti. Qualora i pareri
motivati rappresentino almeno un terzo dell'insieme dei voti il progetto deve essere
riesaminato. L'istituzione organo proponente può decidere di mantenere la proposta,
modificarla o ritirarla, ma se decide di mantenerla, deve motivare tale soluzione.

Una conseguenza ulteriore si produce nell’ipotesi in cui sia mantenuta, ai fini


dell'adozione della stessa, il ricorso alla procedura legislativa ordinaria. Qualora i
pareri motivati rappresentino la maggioranza semplice dei voti attribuiti al Parlamento
nazionale, il legislatore deve esaminare la compatibilità della proposta con il principio
di sussidiarietà prima della conclusione della prima lettura, tenendo conto delle ragioni
espresse e condivise dalla maggioranza in Parlamento nazionale. Se, a maggioranza del
55% dei membri del Consiglio o maggioranza dei voti espressi dal Parlamento europeo,
il legislatore ritiene che la proposta non sia compatibile con il principio di
sussidiarietà, la proposta legislativa non forma oggetto di ulteriore esame. Tale
procedura tende, quindi, qualora si manifesti con un'ampia opposizione dei Parlamenti
nazionali, a far esaminare preliminarmente da parte del Consiglio e del Parlamento
64

europeo, la questione della conformità dell'atto proposto al principio di sussidiarietà,


evitando che l'iter di approvazione possa proseguire nel merito prima di tale delibera.

Il Protocollo n.2, inoltre, richiede che i progetti di atti legislativi siano motivati con
riguardo ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità e accompagnati da una scheda
che consenta di valutare il rispetto di tali principi. L'obbligo di motivazione ha
carattere funzionale rispetto al controllo sulla conformità delle proposte di atti a tali
principi. Non è necessario che tale motivazione risulti espressamente nel testo
dell'atto adottato dalle istituzioni. Inoltre, tale Protocollo riconosce le forme di
controllo appena citate ma non dà un contributo significativo per superare eventuali
divergenze fra le istituzioni in tema di applicazione del principio di sussidiarietà.
Inoltre, all'interno dello stesso Protocollo, non si riscontrano precisazioni utili ad
individuare le concrete modalità di valutazione delle condizioni del principio. Il
carattere politico della valutazione relativa alla sussidiarietà ha suscitato dubbi in
merito all'idoneità della Corte di giustizia ad effettuare un adeguato controllo sulla
conformità degli atti a tale principio. In relazione alla giurisprudenza della Corte, un
atto potrebbe risultare illegittimo quando l'istituzione che lo ha adottato abbia
omesso di valutare il rispetto del principio oppure abbia, nel farlo, operato in modo
irragionevole, eccedendo quel che si potrebbe chiamare un suo margine di
apprezzamento per gli elementi più propriamente politici. In relazione
all'orientamento della Corte, nel senso di favorire l'integrazione europea, appare
comunque difficile che essa giunga alla conclusione che un atto sia stato adottato in
violazione del principio della sussidiarietà. Per le stesse ragioni è improbabile che la
Corte possa ritenere che un atto sia diventato incompatibile con il principio di
sussidiarietà, a causa di circostanze sopravvenute dopo la sua adozione. Il principio di
sussidiarietà è stato più volte invocato dalla Commissione nel proporre al Consiglio
l'abrogazione di atti precedentemente adottati. L’ iniziativa della Commissione ha
avuto lo scopo di prevenire il fatto che certi Stati esercitassero forti pressioni per
rinazionalizzare alcune materie. Sicuramente, il Consiglio può chiedere alla
Commissione, su iniziativa di uno o più rappresentanti degli Stati membri, di
presentare proposte per abrogare un atto legislativo. Questo accade quando un atto,
conforme al principio della sussidiarietà al momento della sua adozione, non soddisfi
più questo criterio a seguito di un mutamento delle circostanze o in secondo luogo, se
risultasse che certi atti, emanati prima dell'introduzione del principio di sussidiarietà
nel Trattato, possano davvero essere contrari al principio in esame. Una particolare
forma di controllo da parte dei parlamenti nazionali è prevista infine dal TFUE.
65

CAPITOLO SESTO

IL SISTEMA DELLE FONTI

INTRODUZIONE

Le fonti del diritto dell’UE comprendono i due Trattati istitutivi (TFUE e TFUE) e gli
altri atti ad essi equiparati, fra i quali la Carta dei diritti fondamentali, nonché i
principi generali, gli accordi che l’Unione conclude con Stati terzi o altre
organizzazioni internazionali, le norme di diritto internazionale generali vincolanti
l’Unione e gli atti normativi che le istituzioni adottano in base ai Trattati.

Gli atti normativi vincolanti dell’Ue, come regolamenti, direttive e decisioni, sono
delineati dall’articolo 288 TFUE. Il TFUE, più precisamente, definisce quali siano gli
atti che le istituzioni dell’UE possono adottare , senza enunciare alcuna gerarchia fra
di essi. Ciò non significa che tutti gli atti normativi abbiano il medesimo valore. Essi lo
hanno solo in via di principio. In particolare, un atto dovrà essere considerato
superiore ad un altro quando il secondo è emanato al fine di dare esecuzione al primo.
Nella sentenza Deutsche Tradax, ad esempio, la Corte di Giustizia, in merito al
rapporto fra due regolamenti del Consiglio in materia agricola, l’uno (quello di
esecuzione) destinato all’applicazione dell’altro e fondato su una disposizione di
quest’ultimo.

Gli articoli 289 e 290 TFUE pongono una distinzione fra gli atti legislativi, adottati
mediante procedure legislative e gli atti non legislativi, di portata generale, che
integrano o modificano alcuni elementi non essenziali dell’atto legislativo.
Sicuramente, in base a quanto stabilito dalla Corte in una sua recente pronuncia, le
misure di esecuzione non possono né modificare elementi essenziali di una normativa di
base, né completarla mediante nuovi elementi essenziali. L’articolo 290 prevede che gli
atti non legislativi possono essere adottati dalla Commissione su delega contenuta in
un atto legislativo; nel loro titolo, devono essere indicati quali atti delegati ed essi
sono subordinati all’atto legislativo che contiene la delega. L’atto legislativo deve
semplicemente delimitare gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega;
oltretutto, può stabilire alcune condizioni fra cui anche il potere del Parlamento
europeo o del Consiglio di revocare la delega. L’articolo 291 TFUE concerne invece
66

l’eventuale emanazione di atti normativi di esecuzione. Tale disposizione muove dalla


considerazione che siano gli Stati membri ad adottare tutte le misure di diritto
interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione ma
stabilisce che tali atti possano conferire alla Commissione, competenze di esecuzione,
allorchè siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione. Nel titolo dell’atto, deve
essere indicato che si tratti di atti di esecuzione.

Nell’ambito del diritto dell’UE, è possibile tracciare una gerarchia fra le fonti.
Sicuramente, al vertice della gerarchia fra le fonti, vi sono i Trattati e le norme in
essi contenute, che si pongono di conseguenza ad un livello superiore rispetto a quelle
prodotte dagli atti adottati dalle istituzioni. La stessa violazione dei Trattati
costituisce un motivo di impugnazione degli atti delle istituzioni. Si pongono in una
posizione intermedia fra i Trattati e gli atti delle istituzioni: i principi generali, gli
accordi generali, gli accordi internazionali che vincolano l’UE e il diritto
internazionale generale. Si tratta di fonti che sono subordinate ai Trattati ma
sovraordinate rispetto agli atti delle istituzioni, in quanto incidono sulla legittimità di
tali atti. Questi sono impugnabili quando non rispettino le regole relative
all’applicazione dei Trattati.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

I TRATTATI

Il Trattato dell’UE e il Trattato sul funzionamento dell’UE hanno la natura


giuridica di accordi internazionali ma operano sull’ordinamento dell’UE come l’insieme
delle norme situate al livello più elevato. E’ sicuramente corretto affermare i Trattati
siano degli accordi internazionali fa gli Stati membri ma assolvono anche una diversa
funzione; quella di costituire l’insieme delle norme fondamentali dell’ordinamento
dell’Unione. L’articolo 48 TFUE richiede, ai fini della revisione ordinaria dei Trattati,
che un accordo internazionale sia adottato da una conferenza dei rappresentanti dei
governi degli Stati membri e quindi sia soggetto alla ratifica da parte di tutti gli Stati
membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. Si sottolinea, dunque,
la necessità di subordinare la convocazione della conferenza ad una decisione
favorevole del Consiglio europeo, scelta comunque rimessa alla volontà degli Stati
membri; non è di grande rilievo nemmeno l’altro requisito stabilito dall’articolo 48 e
cioè la previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione. Infatti, ha
solo valore preliminare. La stessa norma prevede una procedura di modifica dei
67

Trattati, detta semplificata, la quale non può estendere le competenze attribuite


all’Unione nei Trattati. Anche per la revisione semplificata, occorre un accordo che
coinvolga tutti gli Stati membri. La modifica, infatti, deve essere adottata con una
decisione unanime del Consiglio europeo, che entra in vigore solo previa approvazione
degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.

La Corte ha ritenuto che la revisione del Trattato CEE incontri un limite di contenuto,
rispetto all’istituzione di un sistema giurisdizionale che pregiudichi l’articolo 164 del
Trattato e, più in generale, gli stessi principi fondamentali della Comunità. Secondo la
Corte, infatti, gli Stati membri non sarebbero più padroni dei Trattati.

Va ricordato che il TFUE non è gerarchicamente subordinato al TUE; i due Trattati,


infatti, hanno lo stesso valore giuridico. In materia di interpretazione delle norme
comunitarie, la Corte ritiene che ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata
nel proprio contesto e interpretata alla luce delle disposizioni del suddetto diritto,
delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui viene data
applicazione alla disposizione di cui trattasi.

Una conseguenza molto rilevante dell'uso, da parte della Corte di giustizia, di questo
metodo nell'interpretare il Trattato CE riguarda la ricostruzione di diritti e obblighi
per persone fisiche e giuridiche sulla base di disposizioni formulate con le regole di
comportamento per gli Stati membri o per le istituzioni. In particolare, una persona
fisica o giuridica potrebbe far valere dinanzi al giudice nazionale un diritto ricavato
da una di tali disposizioni dei Trattati istitutivi. In una sua nota sentenza, la Corte,
con riferimento alla disposizione del Trattato che vieta agli Stati membri di
introdurre nuovi dazi doganali che si applichino nei rapporti fra di loro, ha dichiarato
che il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emanate dagli Stati
membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei
diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano non solo nel caso in cui il
Trattatoli li menzioni , ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal
Trattato ai singoli, agli Stati membri e alle istituzioni comunitarie. Ovviamente la
Corte ha più volte ribadito la necessità di avere a che fare con disposizioni quanto più
chiare e precise, che non lascino spazio ad alcun dubbio.

Il Trattato CE sarebbe quindi idoneo a far sorgere diritti e obblighi per le persone
fisiche e giuridiche. La Corte di giustizia ha tuttavia configurato gli effetti diretti
come soltanto verticali, costruendo situazioni giuridiche attive di persone fisiche e
giuridiche nei confronti degli Stati membri, facendo riferimento anche agli enti
pubblici. Solo alcune disposizioni del Trattato, sempre secondo la Corte,
68

produrrebbero effetti diretti orizzontali, stabilendo obblighi di persone fisiche e


giuridiche nei confronti delle persone fisiche o giuridiche. La stessa Corte non ha
elaborato criteri per definire in quali casi si producano effetti diretti anche nei
rapporti tra persone fisiche e giuridiche. Il fatto che la disposizione del Trattato
produca effetti diretti rappresenta senza dubbio una garanzia minima, che non esime
gli Stati membri dell'eventuale obbligo di attuare, con provvedimenti normativi, tale
disposizione, in particolare rimuovendo norme nazionali confliggenti con essa. In
presenza di una legge nazionale che contrasti con la disposizione del Trattato avente
effetti diretti, anche se quest'ultima prevale sulla legge, devono essere emanate
disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da
modificare. O modificare. Esisterebbe altrimenti una situazione di fatto ambigua in
quanto mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità di fare
appello al diritto comunitario.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI

Alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea viene attribuito lo stesso
valore giuridico dei Trattati. Secondo il Trattato del 2004, mai entrato in vigore,
che si proponeva di dar vita ad una Costituzione europea, la carta di Nizza avrebbe
dovuto costituire la seconda parte della Costituzione. Il trattato di Lisbona invece ha
scelto la tecnica del rinvio alla Carta, che resta quindi uno strumento distinto dal TUE,
ma che assume lo stesso valore che avrebbe se fosse parte integrante dei Trattati.
L'interpretazione della Carta è soggetta a regole particolari. I diritti, le libertà e i
principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del
titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione. Non è
escluso che la Carta concede un livello più elevato di protezione. I diritti riconosciuti
dalla Carta e traggono origine delle tradizioni costituzionali comune di Stati membri
devono essere interpretati in armonia con suddette costituzioni. Ovviamente le
disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione
definite dai Trattati. Da questa disposizione, di cui all'articolo 6 comma 2° TUE, si
evince che la Carta di Nizza conferisce diritti soltanto nell'ambito delle materie di
competenza dell'Unione. L'articolo 51 ricorda che la Carta si applica sia alle
istituzioni, organi e organismi dell'Unione, sia anche agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell'Unione. In una sua nota sentenza, la Corte ha precisato
il campo di applicazione della Carta affermando che i diritti da essa garantiti devono
69

essere rispettati quando la normativa nazionale rientra nell'ambito di applicazione del


diritto dell'Unione europea. Al contrario, qualora la situazione giuridica non rientri
nella sfera di applicazione del diritto dell'Unione, la Corte non è competente al
riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono
giustificare tale competenza. In questa sentenza, la Corte ha ritenuto che la Carta si
applichi in relazione ad una normativa nazionale adottata in materia di IVA,
considerando che le sanzioni previste costituivano l'attuazione di una direttiva
dell'Unione.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

I PRINCIPI GENERALI

I principi generali assumono una significativa importanza nell’ambito della


giurisprudenza della Corte di giustizia. Il ricorso ai principi generali si è imposto nella
giurisprudenza in merito all'esigenza di integrare una disciplina settoriale come quella
contenuta nei Trattati. Oltre a costituire parametri per il giudizio di legittimità degli
atti delle istituzioni, i principi generali contribuiscono a dare elementi per
interpretare le norme europee e per integrarne il contenuto. La Corte di giustizia ha
voluto comunque, in materia, procedere con cautela, ricorrendo ai principi generali solo
in presenza di una disciplina della materia già risultante dagli atti delle istituzioni. Un
esempio di applicazione di un principio generale si ha in merito alla sentenza Krucken,
in cui la Corte ha affermato che il principio della tutela del legittimo affidamento è
parte dell'ordinamento giuridico comunitario e che il rispetto dei principi generali del
diritto comunitario si impone ad ogni autorità nazionale che deve applicare il diritto
comunitario. Nella sentenza Mangold, invece, la Corte ha considerato che il principio di
non discriminazione in ragione dell'età è un principio generale del diritto comunitario;
di conseguenza, il giudice nazionale deve applicarlo garantendone la piena efficacia ai
singoli. Nel ricostruire i principi generali tratti dagli ordinamenti degli Stati membri,
la Corte di giustizia non ha cercato di individuare un nucleo comune a tutti gli
ordinamenti, anche perché quest'operazione sarebbe stata troppo difficoltosa. Manca
del resto nella giurisprudenza un’analisi adeguata delle normative degli Stati membri.
La Corte appare piuttosto indirizzata a prendere ispirazione da alcuni ordinamenti
interni, in particolare da quello tedesco per delineare la regola che le appare più
adatta per le esigenze della decisione. La stessa Corte fa riferimento alla categoria di
norme ora in esame anche per apprestare la tutela dei diritti fondamentali nei
confronti degli atti delle istituzioni. Nella sentenza Hauer, i diritti fondamentali
costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce
70

l'osservanza. Nel garantire la tutela di tali diritti, la Corte è tenuta ad ispirarsi alle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e non potrebbe ammettere
provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle
costituzioni di ciascuno Stato. I trattati internazionali in materia di tutela dei diritti
dell'uomo possono allo stesso tempo fornire elementi di cui occorre tenere conto
nell'ambito del diritto comunitario. Fondamentale, sotto questo punto di vista, diviene
per la Corte il contenuto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo di cui tutti gli
Stati membri dell'Unione europea sono parti. Altrettanto importante è la Carta di
Nizza in cui è stabilito dei diritti fondamentali fanno parte del diritto dell'Unione in
quanto principi generali. Detto ciò, dati i presupposti appena esaminati possiamo con
certezza affermare che la tutela dei diritti fondamentali non è posta ad un livello
intermedio fra i Trattati e gli atti delle istituzioni ma, in quanto stabilita da una
disposizione del TUE, è collocato allo stesso livello dei Trattati.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

I REGOLAMENTI

Una regola che si applica a tutti gli atti, è quella della motivazione, ex art.296 TFUE.
La motivazione è generalmente formulata nel preambolo dell'atto, che costituisce un
elemento rilevante per l'interpretazione delle norme prodotte dallo stesso atto. Nella
motivazione degli atti, anche se la norma in esame non lo richiede, è normalmente
indicata la rispettiva base giuridica, che incide sia suo contenuto possibile dell'atto sia
sulla procedura richiesta per la sua adozione. I regolamenti sono la forma più completa
di normativa dell'Unione e sono definiti obbligatori in tutti i loro elementi nonché
direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. I regolamenti sono pubblicati
nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea ed entrano in vigore alla data da essi
stabilita oppure nel 20º giorno successivo alla pubblicazione. Il regolamento è definito
come un atto direttamente applicabile. Ciò significa che le disposizioni del
regolamento operano senza che occorra alcun atto di attuazione, da parte dell'Unione
o da parte dello Stato membro. Sempre in via generale, il regolamento è idoneo a far
sorgere, per le persone fisiche e giuridiche, diritti e obblighi nei loro rapporti con gli
Stati membri, le istituzioni dell'Unione o altre persone fisiche o giuridiche. Rispetto
ad alcuni regolamenti, vi può essere l’esigenza di una normativa di attuazione che
spetta in generale agli Stati membri emanare, a meno che non siano necessarie
condizioni uniformi di esecuzione. La normativa statale che sia comunque necessaria
per attuare il regolamento non deve tendere a sostituirsi ad esso, anche perché così
71

facendo metterebbe a rischio l'applicazione del regolamento con i tempi e le modalità


previste. Si manifesta quindi la differenza fra gli atti normativi direttamente
applicabili, ossia i regolamenti, e quelli che producono effetti diretti. Quest'ultimi
non vietano ma impongono l'emanazione di una normativa statale conforme, mentre gli
atti normativi direttamente applicabili implicano il divieto di emanare una tale
normativa statale. Il legislatore statale deve limitarsi ad adottare le norme di
attuazione che siano eventualmente necessarie e richieste. In virtù di quanto stabilito
dall'articolo 288 TFUE, il regolamento ha una sua portata generale; di conseguenza,
sono validi i regolamenti che si applicano in modo differenziato nell'ambito dell'Unione
europea. Questa prassi può trovare una giustificazione nel fatto che si potrebbe
giungere al medesimo risultato incidendo sul contenuto della disciplina propria
dell'atto. Nonostante il regolamento abbia per sua natura un carattere normativo, non
si può escludere che il regolamento possa riguardare individualmente alcuni soggetti
specifici. L'atto, in questo caso, potrebbe consistere in una somma di provvedimenti
individuali e rientrare piuttosto nella categoria di decisioni. L'identificazione di un
insieme di decisioni in luogo di un regolamento assume importanza ai fini dell'esigenza
di una notificazione ai destinatari. Riguardo invece la competenza ad emanare lo
stesso atto, la sua qualificazione presenta scarso rilievo, dato che il potere di
adottare decisioni può considerarsi implicito in quello di emanare regolamenti. La
circostanza che il regolamento sia ravvisato come un insieme di decisioni oppure che si
tratti di un regolamento che riguarda in modo specifico certe persone fisiche o
giuridiche incide poi sull'impugnabilità dell'atto.

LE DECISIONI

Le decisioni possono essere avvicinate ai regolamenti perché, se il regolamento ha


portata generale ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi, la decisione è definita
come obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria
soltanto nei confronti di questi. La decisione può avere per destinatari singoli
soggetti, come persone fisiche o giuridiche oppure Stati membri. Una decisione che
designa destinatari diventa efficace grazie alla notificazione; quelle che non designano
destinatari sono invece pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea.
Rispetto ai destinatari designati, le decisioni sono interamente obbligatorie. Quelle
che hanno per destinatari gli Stati membri non di rado impongono ad essi l'obbligo di
adottare provvedimenti normativi. Ci si domanda, che nel caso in cui una decisione
abbia per destinatari uno o più Stati membri, la stessa possa produrre effetti diretti.
72

Nei casi in cui le autorità comunitarie, mediante decisione, abbiano obbligato uno
Stato membro o tutti gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la
portata dell'atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la
sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come
norma di diritto comunitario. I requisiti per l'esistenza di effetti diretti delle
decisioni sono quegli stessi che la giurisprudenza ha definito a proposito degli effetti
diretti delle disposizioni del Trattato CE. Per quanto riguarda l'esistenza di eventuali
effetti diretti orizzontali delle decisioni, rispetto alle decisioni che hanno per
destinatari Stati membri, vale la stessa soluzione negativa che la Corte di giustizia ha
elaborato a proposito delle direttive. Diverso discorso si dovrebbe fare, invece, in
relazione alla possibilità di ricavare situazioni giuridiche attive di persone fisiche o
giuridiche da decisioni che hanno invece per destinatari le altre persone fisiche o
giuridiche. Le decisioni sono fonti di regole di diritto oggettivo che possono attribuire
nei confronti dei rispettivi destinatari anche situazioni giuridiche attive ad altre
persone fisiche o giuridiche.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LE DIRETTIVE

Nel TFUE, è previsto un atto normativo che può avere per destinatari soltanto gli
Stati membri. Si tratta della direttiva, che come tale risulta essere disciplinata
dall'articolo 288 TFUE, in cui si sottolinea che la direttiva è un atto che vincola lo
Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, fermo
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. In
merito alla loro efficacia, le direttive possono essere distinte in direttiva rivolta a
tutti gli Stati membri e direttive la cui efficacia è subordinata alla notificazione
agli Stati membri che ne sono destinatari. Quest'ultime sono pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea nella parte riguardante gli atti per i quali la
pubblicazione non è condizione di applicabilità. Le direttive che hanno per destinatari
tutti gli Stati membri, invece, sono soggette ad un regime identico a quello per i
regolamenti, dunque alla pubblicazione. Anche per le direttive è ammessa la possibilità
che la stessa direttiva stabilisca quando essa entri in vigore, ma non si tratta di
un'opportunità importante perché sempre dato agli Stati membri un termine di vari
mesi per provvedere all'attuazione. Secondo la definizione che ne scaturisce dal
TFUE, la direttiva dovrebbe lasciare agli Stati destinatari una certa libertà di scelta
delle modalità di attuazione. Ciò non esclude che le direttive possano anteporre
obblighi rispetto ai quali la libertà è limitata o addirittura inesistente, come nel caso
73

degli obblighi di non fare. Nella prassi, la libertà degli Stati destinatari è spesso
compressa anche rispetto all'insieme degli obblighi imposti dalla direttiva. Questa
prassi implica una limitazione dei poteri degli Stati membri che appare di dubbia
compatibilità con il TFUE nei casi in cui l'istituzione che ha emanato l'atto abbia il
potere di emanare unicamente direttive e non invece anche atti normativi più completi
come i regolamenti o le decisioni. Lo Stato membro deve provvedere a prendere tutte
le misure necessarie per attuare gli obblighi imposti dalla direttiva entro il termine
indicato nella stessa. La Corte ha aggiunto che allo Stato membro che beneficia
eccezionalmente, rispetto ad una direttiva, di un termine di trasposizione più lungo,
non è consentito adottare, durante il termine di attuazione della stessa direttiva,
misure incompatibili con gli obiettivi di quest'ultima. Dalla data in cui la direttiva è
entrata in vigore, i giudici degli Stati membri devono astenersi per quanto possibile
dall’ interpretare il diritto interno in modo da rischiare di compromettere
gravemente, dopo la scadenza del termine di attuazione, la realizzazione del risultato
perseguito dalla direttiva. Lo Stato membro emana le norme di attuazione ma ciò non è
necessario quando la normativa interna è già conforme a quanto prescritto. Rispetto
alle direttive in materia di politica sociale, il risultato da raggiungere potrebbe essere
ottenuto in modo efficace anche attraverso accordi conclusi dalle parti sociali,
qualora essi abbiano la portata generale richiesta della direttiva o siano integrati da
una normativa interna. Lo Stato membro è tenuto ad assicurarsi che le parti sociali
abbiano stabilito mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che lo
Stato membro interessato deve adottare le misure necessarie che gli permettano di
garantire in qualsiasi momento i risultati imposti dalla direttiva. L'obbligo di dare
attuazione alla direttiva con provvedimenti normativi non viene meno per il fatto che
ad alcune disposizioni di essa sia riconosciuto un effetto diretto. L’ esistenza di un
effetto diretto può tuttavia dar luogo anche a conseguenze negative per una persona
fisica o giuridica che si astenga dal farlo valere quando un termine nazionale di
prescrizione inizia a decorrere prima dell'approvazione della direttiva. Anche rispetto
alle direttive, i requisiti enunciati dalla Corte di giustizia perché si produca un effetto
diretto si ricollegano ai caratteri della chiarezza e della precisione, nonché
all'assenza di condizioni. La possibilità di ricavare effetti diretti dalle disposizioni
della direttiva è stata per la prima volta enunciata dalla corte di giustizia nella
sentenza van Duyn. Nella sentenza Ratti, l'effetto diretto è configurato come una
forma di sanzione dell'inadempimento dello Stato membro. Lo Stato membro che non
abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti in attuazione imposti dalla direttiva
non può opporre ai singoli l’ inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla
direttiva stessa. Come la Corte ha recentemente affermato, infatti, è opportuno
74

evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto
dell'Unione. Ciò ha come conseguenza che la direttiva produce effetti diretti soltanto
in relazione agli stati membri inadempienti. Ma vi è la conseguenza di maggior rilievo:
se è vero che l'effetto diretto è la sanzione dell'inadempimento di un obbligo da
parte di uno Stato membro, non si possono ricavare effetti diretti che comportino
situazioni soggettive passive per persone fisiche e giuridiche, poiché esse non sono
mai destinatarie dell'obbligo. In altre parole, deve essere data una soluzione negativa
alla questione degli effetti diretti orizzontali delle direttive. Un argomento che si
potrebbe addurre per giustificare la distinzione fra direttive e Trattati, tracciata
dalla Corte a proposito degli effetti diretti orizzontali è dato dalla circostanza che i
Trattati costituiscono l'insieme delle norme fondamentali dell'ordinamento
dell'Unione e appaiono quindi maggiormente idonei, rispetto ad un atto normativo che
è adottato da un'istituzione che ha come destinatari formali degli Stati membri, ad
apporre obblighi per persone fisiche o giuridiche. La soluzione negativa della questione
degli effetti diretti orizzontali delle direttive trova origine peraltro soprattutto per
ragioni di politica giudiziaria. È probabile che la Corte di giustizia abbia voluto limitare
la portata degli effetti diretti delle direttive in presenza di forti critiche sulla sua
stessa attività. Oggigiorno, prevale, da parte della Corte, senza dubbio, l’orientamento
per cui è da escludersi che una direttiva produca effetti diretti orizzontali.
Quest’ultima ritiene anche che le disposizioni chiare e precise di una direttiva possano
esser fatte valere nei confronti di una qualsiasi autorità statale e anche di un
organismo che sia stato incaricato, con atto di pubblica autorità, di prestare, sotto il
controllo di quest'ultima, un servizio di interesse pubblico e che disponga a tal fine di
poteri che oltrepassano quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra
singoli. Nella sentenza Marleasing, ad esempio, la Corte afferma che nell’applicare il
diritto nazionale, il giudice debba interpretarlo alla luce della lettera e dello scopo
della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima. E’ opportuno
rilevare, specie con riferimento a questo caso specifico, che l’esigenza di interpretare
la normativa nazionale in senso conforme alla direttiva può benissimo concernere una
normativa destinata ad essere applicata nei rapporti fra persone fisiche o giuridiche.
Tuttavia, non si può, sotto questo punto di vista, affermare l’esistenza di obblighi per
persone fisiche o giuridiche.

Le disposizioni di una direttiva che non hanno effetti diretti possono produrre un
secondo tipo di conseguenze giuridiche, queste soltanto nei rapporti fra una persona
fisica o giuridica e uno Stato membro. Tali conseguenze sono state delineate nella
sentenza Francovich. La Corte, infatti, ha in quell’occasione affermato una
75

responsabilità dello Stato che non abbia attuato la direttiva per i danni subiti dai
lavoratori a causa della mancata attuazione. Secondo la Corte, il diritto al
risarcimento è sottoposto a tre condizioni:

 La prima è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di


diritti a favore dei singoli.
 La seconda è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base
delle disposizioni della direttiva.
 Infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità fa la violazione
dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

E’ bene precisare che l’ipotesi presa in esame dalla Corte in questa sentenza è che la
disposizione della direttiva non abbia effetti diretti. Essa non attribuisce ai singoli un
diritto ma soltanto un’aspettativa, in quanto impone agli Stati membri di conferire
diritti ai singoli in attuazione della stessa direttiva. Nel caso della direttiva
riguardante l’insolvenza dei datori di lavoro, i lavoratori hanno il diritto ad ottenere un
risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario ma
deve essere fatto valere dinanzi al giudice nazionale nell’ambito delle norme del
diritto nazionale relative alla responsabilità. Alcuni aspetti della responsabilità sono
disciplinati dal diritto comunitario, altri dal diritto nazionale. La Corte ha
successivamente affermato l’esistenza di una responsabilità degli Stati membri pure
nel caso in cui l’inadempimento riguardi obblighi stabiliti da norme del Trattato CE o
da qualunque altra norma comunitaria e ciò anche se si tratta di norme produttive di
effetti diretti.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GLI ATTI NON VINCOLANTI

L’articolo 288 TFUE indica che le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti .
Le raccomandazioni possono essere rivolte da un’istituzione ad altre istituzioni, agli
Stati membri o anche ad altri soggetti. Se esse non hanno carattere vincolante, non
sono perciò giuridicamente vincolanti. Una raccomandazione, ad esempio, può essere
significativa per interpretare un altro atto normativo oppure la legge di uno Stato
membro che abbia inteso conformarsi alla raccomandazione stessa. Nella sentenza
Grimaldi, la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali siano tenuti a prendere in
considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie sottoposte
al loro giudizio.
76

I pareri, invece, sono diretti all’istituzione che li richiede ed esauriscono la loro


funzione all’interno del procedimento di formazione di un atto in cui si inseriscono.
Quando il Trattato prevede che un parere entri a far parte del procedimento, il
parere è obbligatorio, nel senso che l’atto non può essere emanato se l’istituzione che
ha richiesto il parere, non lo riceve. Il parere, tuttavia, non vincola nel merito le scelte
di chi lo riceve. L’articolo 218 par.11 TFUE prevede una forma particolare di parere
che produce altri effetti giuridici. Si tratta in realtà di una decisione della Corte di
giustizia che accerta, su richiesta del Consiglio, della Commissione, del Parlamento
europeo o di uno Stato membro, la compatibilità con i Trattati di un accordo
internazionale che l’UE intende concludere.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GLI ATTI ATIPICI

Alcune disposizioni dei Trattati conferiscono alle istituzioni il potere di adottare atti
diversi da quelli delineati in via generale. Tali atti sono definiti atti atipici. Fa questi
atti, particolarmente significativi sono gli accordi interistituzionali che intervengono
fra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione. L’eventuale carattere vincolante di
questi accordi pare dipendere non tanto dal loro oggetto quanto dall’intenzione delle
istituzioni che li concludono.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco
77

CAPITOLO VII

NORME DELL’UE E NORME ITALIANE

I RAPPORTI FRA NORME DELL’UE E NORME DEGLI STATI MEMBRI NELLA


PROSPETTIVA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

Nella giurisprudenza della Corte di giustizia, si è affermata la tesi della


preminenza delle norme comunitarie nei loro rapporti con le norme degli Stati
membri. La Corte ha elaborato la propria concezione dei rapporti fra norme
comunitarie e norme degli Stati membri soprattutto in due sentenze, entrambe rese a
titolo pregiudiziale su richiesta di giudici italiani. La prima è la sentenza Costa che
muove dalla considerazione che nell’istituire la Comunità europea, gli Stati membri
hanno limitato i loro poteri sovrani. Una volta effettuato un trasferimento di poteri
sovrani alla Comunità , gli Stati membri non possono più esercitare i propri poteri
originari in modo da contrastare le conseguenze del trasferimento da essi accertato.
La preminenza delle norme comunitarie sulle norme degli Stati membri non è
individuata in norme costituzionali di ordinamenti degli Stati membri ma è tratta dalla
costruzione della Comunità come ente superiore, le cui regole si impongono per forza
propria. Esse operano in ciascuno Stato membro, indipendentemente da qualsiasi
meccanismo di adattamento che sia stato eventualmente posto in essere nel rispettivo
ordinamento statale. Non incontrano, inoltre, nella loro applicazione, alcun ostacolo
nelle norme interne di qualsiasi rango. Si è giunti quindi a parlare di una concezione
monista della Corte, nel senso che, secondo la Corte, le prime operano per effetto
della loro appartenenza all’ordinamento comunitario e si integrano con le seconde,
prevalendo su di esse in caso di contrasto. E’ stata poi presa in esame la sentenza
Simmenthal del 1978, dove la Corte ha considerato i rapporti fra un regolamento
comunitario e una legge successiva italiana. Quest’ultima appariva contrastante con il
regolamento, in quanto esso non consentiva di percepire tasse per la visita sanitaria di
carni bovine al momento dell’importazione da un altro Stato membro, mentre la legge
italiana stabiliva che si continuasse a dover versare tasse. La Corte ha stabilito, in
questo caso specifico, che il regolamento, in quanto direttamente applicabile, prevale
sulla norma interna, anche successiva.

In ragione della prevalenza delle norme comunitarie sulle leggi interne successive,
deve essere superato il principio di common law, secondo il quale nessun
78

provvedimento cautelare potrebbe essere emanato nei confronti della Corona. A tal
fine, la Corte ha ritenuto che la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe
ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a
dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere
provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia
giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario. In una
situazione del genere, di conseguenza, il giudice è tenuto disapplicare la norma di
diritto nazionale che osti alla concessione di provvedimenti provvisori. L’obbligo di
applicare una norma dell’Ue a preferenza di una norma di diritto nazionale, con essa
contrastante, opera non solo in presenza di regolamenti ma anche di norme aventi
effetti diretti. In presenza di norme di diritto aventi efficacia diretta, anche un
divieto, contrastante con tali norme, posto attraverso un provvedimento
amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo, va disapplicato nella
valutazione della legittimità di un’ammenda irrogata per l’inosservanza del divieto, così
come stabilito nella sentenza Ciola. Nella sentenza Kapferer, invece, la Corte ha
ribadito che il diritto comunitario non impone di disapplicare le norme processuali
interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò
permetterebbe di accertare una violazione del diritto comunitario da parte di tale
decisione.

Quando la norma dell’UE non sia direttamente applicabile né produca effetti diretti,
l’organo dello Stato membro non si trova in presenza di una norma dell’UE suscettibile
di essere applicata a preferenza di una norma interna eventualmente contrastante. Il
contrasto può risultare soltanto apparente quando la norma interna sia suscettibile di
essere interpretata in modo da renderla conforme alla norma dell’Unione.
Un’interpretazione della norma nazionale in questo senso può essere imposta dallo
stesso ordinamento dello Stato membro.

Quando il contrasto fra norma interna e norma dell’Unione non sia superabile in via
interpretativa, mancano nell’ordinamento dell’Unione strumenti utili ad assicurare he
siano applicate le norme dell’Unione non direttamente applicabili o che non producano
effetti diretti e ad escludere l’applicabilità delle norme interne con esse contrastanti.
Spetterà quindi ad ogni Stato membro provvedere secondo le rispettive regole a
rimuovere le norme interne contrastanti e a porre in essere una normativa conforme
agli obblighi posti dal diritto dell’UE. Un’eventuale dichiarazione di illegittimità delle
norme interne soddisferebbe solo in parte l’esigenza del rispetto delle norme
79

dell’Unione, dal momento che gli obblighi derivanti da norme dell’Unione resterebbero
di regola inadempiuti. E’ bene ricordare che secondo il diritto dell’Unione, sarebbero
allora esperibili un procedimento di infrazione e nei casi in cui sia ammessa, un’azione
per far valere la responsabilità dello Stato membro. Si tratta tuttavia di rimedi non
sempre efficaci e che tendono solo ad attenuare le conseguenze della mancata
applicazione delle norme dell’Unione.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

LA PROSPETTIVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Per quanto riguarda il rapporto fra norme italiane e norme comunitarie,


particolarmente significativo è sicuramente l’orientamento assunto dalla Corte
costituzionale. Dopo una prima fase nella quale aveva negato la prevalenza delle norme
comunitarie sulle leggi, sostenendo che la violazione del Trattato, se importa
responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge con esso in
contrasto la sua piena efficacia, la Corte ha rinvenuto una ragione della prevalenza
nell’articolo 11 Cost. La norma indica che, quando ricorrano certi presupposti, è
possibile stipulare Trattati con cui si limita la sovranità ed è consentito darvi
esecuzione con legge ordinaria. La Corte, in poche parole, escludeva che una
prevalenza delle norme comunitarie rispetto alle leggi ordinarie potesse fondarsi
sull’articolo 11 Cost. E’ giunta, invece, alla conclusione opposta, nella sentenza
n.232/1975, ritenendo che le disposizioni di una legge che violano obblighi comunitari,
sono costituzionalmente illegittime per il contrasto con i principi enunciati dagli
articoli 249 e 234 del Trattato CE e per la conseguente violazione dell’articolo 11
della Costituzione. Con la sentenza n.170/1984, la Corte ha mutato nuovamente
indirizzo, continuando ad individuare nell’articolo 11 Cost, la ragione della preminenza
della normativa comunitaria. Secondo la Corte, più precisamente, il giudice deve
applicare il regolamento comunitario e non applicare una legge contrastante con lo
stesso regolamento. Tale legge ovviamente non è da considerarsi illegittima da un
punto di vista costituzionale. La ragione di questa soluzione sembra risiedere in una
sorta di riserva di campo che sarebbe garantita alla fonte comunitaria dall’articolo 11
Cost; ai regolamenti comunitari, sarebbe assicurato uno spazio proprio, nel cui ambito
la legge non potrebbe entrare.

La Corte costituzionale non ritiene di dover trarre dall’articolo 117 comma 1° Cost
conseguenze rispetto alla prevalenza delle norme dell’Unione nei confronti delle leggi
80

italiane. Infatti, è solo l’articolo 11 Cost la disposizione che ha permesso di


riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento. Si
deve desumere dall’articolo 11 Cost anche la conclusione per cui il giudice riconosce la
prevalenza del regolamento dell’Unione rispetto a qualsiasi legge contrastante. La
questione di legittimità costituzionale della legge diverrebbe allora irrilevante, perché
la legge stessa non dovrebbe essere applicata dal giudice laddove essa contrasti con il
regolamento.

Ovviamente l’esigenza di non applicare leggi interne contrastanti con la normativa


dell’Unione non opera soltanto rispetto ai regolamenti ma anche nei confronti di tutte
le norme che producono effetti diretti. Quando si è in presenza di direttive o
decisioni, aventi effetti diretti, il legislatore nazionale deve far sì che esista una
normativa interna conforme alle norme dell’Unione. In relazione a questa ipotesi,
dunque, l’articolo 11 Cost non può avere la funzione di garantire al legislatore
dell’Unione uno spazio proprio nel quale la normativa interna non interferisca, come
avverrebbe in presenza di regolamenti secondo la sentenza del 1984, ma piuttosto
assicura che fra norme che insistono in uno stesso campo prevalgano le norme
dell’Unione aventi effetti diretti e richiede che siano adottate norme interne ad esse
conformi. La successiva giurisprudenza, in un certo senso, si è allineata a quanto
sostenuto dalla Corte di Giustizia, ritenendo che non siano applicate norme nazionali
contrastanti con norme dell’Unione aventi effetti diretti. Secondo la Corte
costituzionale, quando invece la norma dell’Unione non è direttamente applicabile né
produce effetti diretti, il contrasto della legge con la norma dell’Unione non dà luogo
alla non applicazione della legge. Nella prospettiva della Corte costituzionale, resta in
questo caso la possibilità di trarre dagli articoli 11 e 117 Cost una ragione
dell’illegittimità costituzionale della stessa legge. Nella sentenza n.227/2010, la Corte
ha chiarito che quando una norma interna contrasti con una norma dell’Unione che non
sia direttamente applicabile né produttiva di effetti diretti non sussiste il potere del
giudice comune di non applicare la prima ma il potere-dovere di sollevare la questione
di legittimità costituzionale, per violazione degli articoli 11 e 117 comma 1° Cost.

Non solleva obiezioni, dal punto di vista del diritto dell’Unione, un’altra competenza
che la Corte costituzionale aveva rivendicato: quella di pronunciarsi in via principale su
ricorso del governo, ai sensi dell’articolo 127 Cost, qualora fosse fatto valere il
contrasto fra la delibera di un Consiglio regionale e una norma comunitaria, anche
quando questa fosse direttamente applicabile o producesse effetti diretti. Mediante
il suo intervento in tal senso, la Corte poteva impedire la formazione di una legge
81

regionale che violasse obblighi comunitari. Questo tipo di ricorso preventivo è stato
abrogato dalla legge costituzionale n.3/2001.

LA RILEVANZA DELLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI COME


STABILITA NELLA COSTITUZIONE.

La Corte costituzionale ravvisa il fondamento dell’applicabilità del diritto dell’UE


nell’articolo 11 Cost e nelle leggi di esecuzione del Trattato CE e dei successivi
trattati. Sotto questo punto di vista, la modifica dell’articolo 117 Cost non produce
conseguenze, dal momento che la disposizione, mentre richiede il rispetto della
normativa dell’Unione da parte delle leggi ordinarie, non provvede all’attuazione di
questa normativa, né esclude che tale attuazione incontri un limite nell’esigenza di
salvaguardare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Un aspetto
molto importante preso in considerazione dalla Corte riguarda la tutela dei diritti
fondamentali. Si pone il problema di accertare se e in quale misura, quando si tratti di
applicare una norma dell’Unione in Italia, alla tutela dei diritti fondamentali accordata
dall’ordinamento dell’UE, si aggiunga quella apprestata dalla Costituzione. Ci si
domanda, in un certo senso, in quali casi non debba essere applicata la norma
dell’Unione che non sia rispettosa del contenuto della tutela dei diritti fondamentali,
stabilita dalle norme costituzionali. Sicuramente la tutela dei diritti fondamentali si è
notevolmente sviluppata sul piano del diritto dell’UE, riducendo così le ipotesi in cui
non risultano adeguatamente tutelati diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
Nonostante il contributo della Carta di Nizza e del Trattato di Lisbona, la tutela dei
diritti fondamentali nel diritto dell’Unione potrebbe tuttora non soddisfare
pienamente quanto richiesto in proposito dalla Costituzione. Nel 1973, in una sua nota
pronuncia, la Corte è giunta alla conclusione di poter esaminare una questione di
legittimità costituzionale della legge di esecuzione di un Trattato in quanto su di essa
si fonda l’efficacia in Italia di un atto normativo dell’Unione e affrontare quindi la
questione della compatibilità dello stesso atto con i principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale. Se la Corte costituzionale accertasse che l’atto
dell’Unione è incompatibile, dovrebbe dichiarare illegittima la legge di esecuzione nella
parte in cui dà efficacia in Italia a tale atto.

La sentenza n.232 del 1989 della Corte costituzionale, invece, ricorda che la Corte
possa verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione,
se una qualsiasi norma del Trattato non venga in contrasto con i principi fondamentali
82

del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona
umana.

L’ATTUAZIONE DELLA NORMATIVA DELL’UNIONE

In Italia, le leggi di esecuzione dei Trattati hanno dato attuazione ad alcuni obblighi
posti in essere negli stessi Trattati. Esse inoltre possono essere considerate idonee a
giustificare l'applicabilità in Italia dei regolamenti dell'Unione. Si potrebbe dire lo
stesso per le norme dell'Unione aventi effetti diritti, ma per quest'ultime, quando
l'ordinamento contenga norme ad esse non conformi, una norma di rinvio come una
legge contenente l'ordine di esecuzione del Trattato, anche se determinasse le
necessarie modifiche dell'ordinamento interno, difficilmente potrebbe contribuire a
realizzare una situazione normativa di certezza quale dovrebbe esistere secondo la
giurisprudenza della Corte di giustizia. Per questo motivo, diviene necessario un atto
normativo di adattamento ordinario che anche se si limita ad esplicitare quanto già
potrebbe essere ricavato dalla legge di esecuzione. L’esigenza di provvedere con
specifici atti normativi nazionali di attuazione si pone per lo più con riferimento alle
direttive che lasciano salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma
dei mezzi per l'attuazione dei rispettivi obblighi. A causa delle direttive, in Italia,
l'attuazione è stata non di rado tardiva e carente. Il ritardo è dovuto principalmente
alla lentezza con cui sono stati approntati i disegni di legge governativi e quindi i
provvedimenti delegati, in caso di legge di delega. Una parte consistente del tempo,
inoltre, era dovuta alla lentezza dei procedimenti parlamentari. Una procedura per
rendere più veloce l’attuazione degli obblighi comunitari è delineata dalla legge La
Pergola. Questa prevedeva un provvedimento, detto legge comunitaria, che il
Parlamento avrebbe dovuto approvare ogni anno. Dopo, il ricorso alla legge
comunitaria è stato ribadito dalla legge n.11/2005 che ha sostituito la legge La
Pergola. Successivamente, è subentrata la legge n.234/2012 che ha, a sua volta,
sostituito la precedente normativa, prevedendo l'adozione, ogni anno, di due leggi
distinte:

- una legge di delegazione europea, che delega il governo ad attuare direttive e altri
atti dell'Unione europea

- una legge europea, con cui si provvede ad emanare disposizioni necessarie per
adeguare l'ordinamento italiano.
83

La legge n. 234 del 2012 è una legge ordinaria, non assistita da alcuna garanzia
costituzionale. Alcune indicazioni in essa contenute, pertanto, possono essere
modificate da leggi successive. Resta peraltro la possibilità per il legislatore di
provvedere all'approvazione di obblighi derivanti dal diritto dell'Unione al di fuori
della legge di delegazione europea e della legge europea, adottando le leggi distinte
per stabilire norme particolari o per delegare l’attuazione di certe direttive.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL RUOLO DELLA LEGISLAZIONE REGIONALE

Analizziamo ora il ruolo della legislazione regionale, nell’ambito dell’attuazione della


normativa europea. Con la riforma costituzionale del 2001, spetta al legislatore
statale individuare i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente.
L'eventuale determinazione, da parte del legislatore statale, di principi fondamentali
nelle materie di competenza concorrente impone alla regione di adeguare ad esse la
propria normativa, modificando se occorre quella già adottato. Nella prassi, i principi
fondamentali per l'attuazione delle direttive sono spesso indicati in maniera tale da
lasciare poco spazio al legislatore statale. Non si tratta di veri e propri principi
fondamentali, come stabilito dall'articolo 117 Cost, a proposito della competenza
concorrente delle Regioni e Province autonome. In relazione alla notevole incidenza
che la normativa statale assume nella prassi rispetto alla legislazione della regione, è
sicuramente conveniente per il legislatore regionale attendere, nelle materie di
competenza concorrente, l'emanazione della legge statale di attuazione della direttiva
prima di provvedere alla propria disciplina. L'articolo 117 comma 5° Cost stabilisce
che le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di
rispettiva competenza, provvedono all'approvazione degli atti dell'Unione europea, nel
rispetto delle norme di procedura stabilita dalle leggi dello Stato, che disciplina le
modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. Questa
disposizione è applicabile anche alle Regioni e alle Province autonome in caso di
competenza esclusiva ma anche quando esse siano dotate di competenza concorrente.
Non rileva in proposito quale sia la fonte della normativa dell'Unione. L'articolo 41
della legge numero 234/2012 dispone che lo Stato possa adottare provvedimenti di
attuazione. Essi si applicano a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per
84

l'attuazione della rispettiva normativa dell'Unione europea e perdono efficacia dalla


data di entrata in vigore dei provvedimenti di attuazione di ciascuna Regione e
Provincia autonoma. L'articolo 120 comma 2° Cost stabilisce il potere del governo di
sostituirsi alle Regioni e agli altri enti territoriali nel caso di mancato rispetto della
normativa comunitaria. Ciò deve essere inteso con riferimento alle violazioni di
obblighi derivanti dalla normativa dell'Unione. E’ poi la legge a stabilire le procedure a
garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. L'articolo 41 della legge
n.234/2012 prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli
affari europei assegni all'ente inadempiente un termine per provvedere. La procedura
si può concludere con la proposta delle opportune iniziative ai fini dell'esercizio dei
poteri sostitutivi da parte dello Stato.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

CAPITOLO OTTAVO

LE RELAZIONI ESTERNE DELL’UNIONE

INTRODUZIONE

Gli Stati membri dell’Unione hanno realizzato forme di coordinamento che coinvolgono
le istituzioni dell'Unione e comportano l'insorgere di diritti e obblighi per l'Unione sul
piano internazionale. Tali relazioni sono disciplinate dal diritto internazionale ma
norme dell'unione regolano la definizione delle rispettive competenze dell'Unione e
degli Stati membri, le procedure di formazione degli accordi dell'Unione e i loro
effetti nell'ordinamento dell'Unione, nonché le modalità per istituire rappresentanze
di Stati terzi presso l'Unione e dell'Unione presso Stati terzi e per svolgere rapporti
assimilabili a quelli diplomatici. Rispetto alle norme dell'Unione che riguardano la
stipulazione di accordi internazionali, l’ individuazione della natura giuridica di un atto
quale accordo internazionale deve essere fatta in base al diritto internazionale. In
alcuni casi, l'esistenza di un accordo internazionale può lasciare luogo a dubbi: in
particolare, in relazione a decisioni vincolanti adottate nell'ambito dell'organizzazione
internazionale, può essere controvertibile se il vincolo derivi dall'attribuzione di un
potere normativo all'organizzazione oppure dall'accettazione che lo Stato membro
dell'organizzazione o l’Unione manifesti rispetto a ciascuna decisione. Questo
problema è stato affrontato dalla Corte di giustizia per quanto riguarda le decisioni
adottate dal Consiglio dell'organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo
85

(OCSE). La Corte ha ritenuto che tali decisioni rientrino nella nozione di accordo
internazionale, con la conseguenza di estendere ad esse l'applicazione delle regole
relative alla stipulazione degli accordi stabilite dai Trattati.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

IL QUADRO DELLE COMPETENZE DELL’UNIONE RELATIVE ALLA


CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI

I Trattati contengono varie disposizioni che riguardano la competenza dell'Unione a


concludere accordi internazionali con Stati terzi o con organizzazioni internazionali.
La competenza esclusiva dell'Unione per la conclusione di accordi è più ampia della
competenza esclusiva per l'adozione di atti normativi. L'articolo 3 par2 TFUE ritiene
che l'Unione abbia competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali in
quanto tale conclusione sia prevista in un atto legislativo dell'Unione o sia necessaria
per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui
può incidere su norme comuni a modificarne la portata. Altrettanto importante è
l'articolo 216 par 1 TFUE. La norma in esame sottolinea che l'Unione possa concludere
un accordo con uno o più Paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i Trattati
lo prevedano o qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare uno
degli obiettivi fissati dai Trattati o sia prevista in un atto giuridico vincolante
dell'Unione o possa incidere su norme comuni o alterarne la portata. L'articolo 37 TUE
conferisce all'Unione una competenza generale a concludere accordi con gli Stati e le
organizzazioni internazionali nei settori di pertinenza. Alcune disposizioni del TFUE
riguardano la competenza dell'Unione a concludere accordi internazionali in materie
specifiche, come la politica commerciale comune o con riferimento agli accordi di
associazione.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GLI ACCORDI RELATIVI ALLA POLITICA COMMERCIALE

L’articolo 207 par.1 TFUE sottolinea che la politica commerciale comune è


fondata su principi uniformi, in particolare per quanto riguarda le modificazioni
tariffarie, la conclusione di accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di
merci e servizi e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, gli
investimenti esteri diretti, l'uniformazione delle misure di liberalizzazione, la
politica di esportazione e le misure di protezione commerciale, fra cui quelle da
86

adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni. La Corte ha dato alla nozione di


politica commerciale un'interpretazione estensiva. La stessa, infatti, è giunta sino ad
affermare che la competenza della comunità si estende agli aspetti definibili come
accessori. Anche se da un punto di vista logico, l'estensione della competenza
dell'Unione alle materie considerate accessorie può apparire non del tutto
giustificata, essa risponde all'esigenza di consentire una ripartizione di competenze
fra Unione e Stati membri, più razionale di quella che risulterebbe dalla distinzione
rigorosa per materie. La Corte ha dichiarato che solo la Comunità è competente a
stipulare gli accordi multilaterali relativi al commercio dei prodotti e quindi gli
accordi, allegati all'accordo istitutivo dell'Organizzazione mondiale del commercio,
sull'agricoltura, sull'applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie e sulle barriere
tecniche al commercio. Per quanto riguarda la proprietà intellettuale, rientrano nella
politica commerciale soltanto le disposizioni riguardanti il divieto dell'immissione in
libera pratica di merci contraffatte. La nozione di politica commerciale comune
incontra limiti in altre nozioni proprie del trattato CE. Si vorrebbe aggiungere che
anche in relazione a materie non regolate dai Trattati, quindi non rientranti nella
competenza degli Stati membri, la nozione di politica commerciale comune non
dovrebbe essere concepita come del tutto elastica. Gli Stati membri hanno trovato
comunque una via per assumere un proprio ruolo rispetto ad alcuni accordi sulla
politica commerciale, in particolare a quelli sulle materie prime. In alcune circostanze,
infatti, gli Stati membri possono far valere l'esigenza di partecipare al negoziato e
alla conclusione dell'accordo per la parte che eccede la competenza esclusiva
dell'Unione. La conclusione dell'accordo deve allora avvenire con la partecipazione sia
dell'Unione che degli Stati membri e in questo caso, si parla di accordi misti. Il ruolo
degli Stati membri dovrebbe essere limitato alla parte che eccede la materie di
competenza esclusiva dell'Unione, ma in pratica gli Stati membri utilizzano la presenza
di propri delegati negoziati per curare i rispettivi interessi circa l'insieme delle
questioni in esame. Si può dire che di solito è proprio quest'ultimo il fine effettivo
perseguito dagli Stati membri quando rivendicano la propria competenza su parte
dell'oggetto di un accordo. Secondo il parere 1/78, relativo all'accordo sulla gomma
naturale, gli Stati membri possono partecipare ai negoziati relativi agli accordi nella
materia, assumendo a proprio carico il finanziamento delle spese imposto dall'accordo.
La Corte ha così concluso: se il finanziamento dall'accordo spetta alla Comunità, le
decisioni saranno adottate secondo le procedure comunitarie. Se, invece, il
finanziamento spetta agli Stati membri, il tutto implica la partecipazione degli Stati a
questi congegni decisionali o il loro assenso circa le modalità di finanziamento in
progetto e di conseguenza la loro partecipazione all'accordo congiuntamente con la
87

Comunità. In questa ipotesi, non si può parlare di competenza esclusiva della


Comunità. Questa conclusione ha consentito agli Stati membri di partecipare
direttamente a molti negoziati. Anche per quanto riguarda l'accordo istitutivo
dell'Organizzazione mondiale del commercio, la Corte ha concluso nel senso di
considerare essenziale la partecipazione sia della Comunità che degli Stati membri.

GLI ACCORDI DI ASSOCIAZIONE

L’articolo 217 TFUE stabilisce che l’Unione può concludere con uno o più paesi terzi o
organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata
da diritti e obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari.
Generalmente, gli accordi sono misti, ossia conclusi anche con la partecipazione di
tutti gli Stati membri, in considerazione del fatto che ciascun accordo concernerebbe
in parte anche materie che non rientrano nella competenze dell’Unione. Se gli accordi
di associazione hanno un oggetto più ampio della politica commerciale comune, il
riferimento dell’articolo 217 TFUE ad azioni in comune e a procedure particolari
sembra caratterizzarli anche per l’esigenza che ciascun accordo di associazione
istituisca un organismo avente il compito di seguire l’attuazione dell’accordo e di
promuovere l’adozione di regole integrative. Tali organismi sono denominati consigli di
associazione. Esistono accordi di associazione stipulati anche con Stati non europei,
come le Convenzioni di Lomè, concluse dalla Comunità e dagli Stati membri con gli
Stati ACP.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GLI ACCORDI NELLE MATERIE DI COMPETENZA DELL’UE PER LE QUALI NON


ESISTONO DISPOSIZIONI SPECIFICHE.

L’articolo 3 par.2 TFUE codifica la competenza esclusiva dell’Unione in merito alla


conclusione di un accordo internazionale che può incidere su norme comuni o
modificarne la portata. Nel parere 2/91, la Corte si è soffermata sulla presenza di
norme comuni nell’ambito regolato dall’accordo, considerando che non esista una
competenza esclusiva della Comunità quando la normativa comunitaria contenga
soltanto prescrizioni minime, le quali non ostano all’adozione di norme nazionali
maggiormente protettive dei lavoratori. La Corte, invece, ha affermato la competenza
esclusiva in relazione alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura delle
sostanze pericolose, trattandosi di un settore già disciplinato da norme di diritto
comunitario. Nel parere 1/03 del 7 febbraio 2006, la Corte ha affermato che non è
88

necessario che sussista una concordanza completa fra il settore disciplinato


dall’accordo internazionale e quello della normativa comunitaria e che occorre
prendere in considerazione non solo le norme attuali di diritto comunitario riguardanti
il settore interessato ma anche la loro possibile evoluzione. La Corte ne ha tratto la
conseguenza dell’esistenza di una competenza esclusiva della Comunità a concludere
accordi sula giurisdizione e sul riconoscimento di sentenze straniere in materia civile,
anche in relazione ad aspetti non ancora regolati da norme comuni. Il carattere
esclusivo di questa competenza appare contestato in una dichiarazione degli Stati
membri allegata all’atto finale della Conferenza di Lisbona, secondo cui gli Stati
membri possono negoziare e concludere accordi con paesi terzi e organizzazioni
internazionali in determinati settori, purchè questi accordi siano conformi al diritto
dell’Unione. La Corte, inoltre, ha delineato l’esistenza di una competenza generale
della Comunità a concludere accordi in tutti i settori nei quali ha una competenza
concorrente ad adottare atti normativi.

La competenza della Comunità sarebbe data anche dal carattere necessario che
la conclusione dell’accordo da parte della Comunità avrebbe per realizzare un
obiettivo della stessa Comunità. Il requisito non è molto chiaro, dal momento che
sembra far dipendere l’esistenza della competenza da una valutazione del contenuto
dell’accordo e da una comparazione fra gli effetti che deriverebbero dalla conclusione
dell’accordo da parte della Comunità e gli effetti che risulterebbero invece da una
mancanza di accordo oppure da un’eventuale conclusione dello stesso da parte degli
Stati membri. Nella giurisprudenza successiva, la Corte ha inteso il requisito della
necessità nel senso che esso si riferisce all’ipotesi in cui la stipulazione di un accordo
internazionale sia necessaria per conseguire obiettivi del Trattato che non possono
essere raggiunti con l’adozione di norme autonome; la competenza diverrebbe allora
esclusiva.

L’articolo 3 par.2 TFUE stabilisce che l’Unione abbia competenza esclusiva a


concludere accordi internazionali quando la conclusione sia necessaria per consentirle
di esercitare le sue competenze a livello interno; l’articolo 216 par.1 TFUE, invece,
afferma che l’Unione è competente qualora la conclusione di un accordo sia necessaria
per realizzare nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai
Trattati. Le due disposizioni, a loro volta, prevedono un’ulteriore ipotesi di
competenza esclusiva dell’Unione a concludere accordi internazionali, quando tale
conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione.
89

LA PROCEDURA PER CONCLUDERE GLI ACCORDI DELL’UNIONE

L’articolo 218 TFUE regola in via generale la procedura per la conclusione degli accordi
internazionali da parte dell’Unione. L’atto iniziale è costituito da una raccomandazione
della Commissione al Consiglio in vista della negoziazione di un accordo. Quando
l’accordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente la politica estera e di
sicurezza comune, il potere di raccomandazione spetta all’alto rappresentante per gli
affari esteri e la politica di sicurezza. Il Consiglio autorizza con una decisione l’avvio
dei negoziati e definisce le direttive di negoziato. Designa, inoltre, il negoziatore, in
funzione della materia dell’accordo previsto. Il Consiglio, inoltre, può designare un
comitato speciale che deve essere consultato nella conduzione dei negoziati.

Nel corso della procedura, il Consiglio delibera di regola a maggioranza qualificata.


Provvede, invece, all’unanimità quando l’accordo riguarda un settore per il quale è
richiesta l’unanimità per l’adozione di un atto dell’Unione, per gli accordi di
associazione, per gli accordi di cooperazione con gli Stato candidati ad aderire
all’Unione, ect…

Un ruolo di fondamentale importanza nella conclusione degli accordi è attribuito


anche al Parlamento. Ciò non vale per gli accordi che riguardino esclusivamente la
politica estera e di sicurezza comune e per gli accordi in materia di politica
commerciale. Per gli altri accordi, il Parlamento esprime di regola un parere non
vincolante, che deve essere dato del termine che il Consiglio può fissare in funzione
dell'urgenza. In mancanza di parere entro detto termine, il Consiglio può deliberare.
Per altre categorie di accordi, il ruolo del Parlamento è assai più significativo, dato
che il Consiglio può deliberarne la conclusione solo previa approvazione da parte dello
stesso Parlamento. Sono compresi in questa categoria gli accordi di associazione,
l'accordo per l'adesione dell'Unione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, gli
accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l'Unione.

L'articolo 218, par.11, TFUE , a sua volta, ritiene che per verificare la compatibilità
dell'accordo con i Trattati è possibile istituire, prima della conclusione dello stesso
accordo, un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia. Uno Stato membro, il
Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della
Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i Trattati. In caso
di parere negativo della Corte, l'accordo previsto non può entrare in vigore, salvo
90

modifica della stesso o revisione dei Trattati. Nel caso in cui la Corte esprima parere
negativo, la via più semplice per concludere l'accordo non è il ricorso al procedimento
per emendare i Trattati ma quello di modificare il contenuto dello stesso accordo
rimuovendo le disposizioni che la Corte considera incompatibili con i Trattati stessi.
L'eventuale decisione del Consiglio di concludere l'accordo prima del parere è
illegittima e quindi impugnabile. Il fatto che il Parlamento europeo, il Consiglio, la
Commissione e ciascuno Stato membro abbia la facoltà di chiedere una pronuncia
preventiva della Corte sembra implicare che questi soggetti non possono, qualora non
si siano avvalsi di tale facoltà, far valere ulteriormente l'illegittimità della conclusione
dell'accordo, anche perché una volta concluso l'accordo una pronuncia nel senso
dell'illegittimità determinerebbe la violazione di obblighi internazionali da parte
dell'Unione europea. Il procedimento dinanzi alla Corte è stato più volte utilizzato
per definire le rispettive competenze della Comunità e degli Stati membri in
ordine alla conclusione di accordi. La procedura prevista deve essere applicata a
tutti i problemi che possono venir sottoposti sia al giudice nazionale che al giudice
comunitario, purché i problemi diano adito ad incertezze sulla validità formale o
sostanziale dell'accordo oppure sulla compatibilità tra accordo e Trattato. La Corte di
giustizia può essere a sua volta interpellata, sia in forza degli articoli 226 e 230 del
Trattato CE, sia via pregiudiziale, solo se la stipulazione di un accordo rientri nella
sfera di competenza della Comunità e se tale competenza sia stata esercitata secondo
le disposizioni del Trattato. Inoltre, si deve ammettere che la Corte può essere
interpellata a titolo preventivo. L'esigenza di determinare a chi spetti la competenza
per concludere un accordo si pone in relazione alle varie fasi per la sua formazione.
Prima di tutto, in merito alla negoziazione. La negoziazione è normalmente avviata
con un oggetto dalle parti definito. In relazione alla determinazione dell'oggetto di un
eventuale accordo, la Corte dovrebbe valutare se essa è in grado di pronunciarsi
secondo la procedura in esame; mentre per la valutazione del merito della
compatibilità di un accordo con i Trattati, occorrerà potere considerare nel suo
insieme un testo la cui definizione sia alquanto avanzata; per risolvere la questione
della competenza sarà sufficiente che l'oggetto sia indicato in modo sommario, anche
perché la Corte potrebbe limitarsi a prospettare diverse soluzioni del problema a
seconda dell'eventuale contenuto dell'accordo. Anche una volta adottato il testo
dell'accordo, resta la possibilità per la Corte di pronunciarsi prima che il consenso
della Comunità ad essere vincolata dall'accordo sia espresso. In altre parole persiste
sino alla delibera del Consiglio. Ovviamente, ai fini dell'utilizzazione della procedura
dinanzi alla Corte, occorre che vi sia una ragionevole prospettiva che l'Unione concluda
un accordo. La procedura non potrebbe essere attivata per contestare generalmente
91

la competenza degli Stati membri a concludere accordi. Un'eccezione è stata


configurata dalla Corte per il caso in cui si verta in materia di competenza esclusiva
della Comunità, ma questa non possa diventare formalmente parte dell'accordo, ad
esempio perché l'accordo è negoziato nell'ambito di un'organizzazione internazionale
che consenta soltanto agli Stati membri di divenire parti dell'accordo stesso. In
questo caso, secondo la Corte, la competenza esterna può essere esercitata per il
tramite degli Stati membri, agenti congiuntamente nell'interesse della comunità. La
procedura per la conclusione degli accordi delineata dall'articolo 218 dovrà allora
essere adattata: i negoziati saranno condotti dagli Stati membri congiuntamente, sulla
base di un'autorizzazione del Consiglio; saranno poi gli Stati membri a concludere
l'accordo, in conformità di una delibera del Consiglio, formalmente in nome proprio, ma
sostanzialmente quali rappresentanti dell'Unione. In questo caso, l'acquisizione di
diritti e obblighi sul piano internazionale da parte dell'Unione presuppone
un’accettazione o almeno la coscienza degli altri Stati parti dell'accordo rispetto alla
sostituzione dell'Unione alle parti apparenti.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GLI ACCORDI CONCLUSI DAGLI STATI PRIMA DI DIVENIRE MEMBRI


DELL’UNIONE

In questo caso, la norma di riferimento è l'articolo 351 TFUE. Può accadere che prima
di divenire membro dell'Unione, uno Stato potrebbe aver assunto a mezzo di accordi
con altri Stati, degli obblighi incompatibili con quelli risultanti da norme dell'Unione.
La norma vuole evitare che gli Stati membri si trovino di fronte alla necessità di
violare gli obblighi posti dall’ accordo e quelli derivanti dalla normativa dell'Unione.
Pertanto tale disposizione consente agli Stati membri di continuare a rispettare gli
obblighi posti da precedenti accordi, stabilendo che le disposizioni dei Trattati non
pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da Convenzioni concluse, anteriormente al
1 gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione,
fra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall'altra. Un principio
analogo dovrebbe valere rispetto agli accordi conclusi da Stati membri con Stati
terzi in materie che solo successivamente sono divenute di competenza esclusiva
dell'Unione. Secondo l'articolo 351 TFUE, gli Stati membri sono obbligati a ricorrere
a tutti i mezzi atti ad eliminare l'incompatibilità constatate fra accordi e Trattati. Ciò
dovrebbe implicare l’ obbligo di denunciare l'accordo qualora una denuncia sia
consentita e lo Stato membro non accetti le modifiche necessarie per rimuovere
l'incompatibilità. Solo dopo molti anni, tuttavia, la Commissione ha fatto valere
92

l'inadempimento dell'obbligo in questione da parte di alcuni Stati membri. Per le


materie in cui l'Unione assume una competenza esclusiva, si può verificare, rispetto
agli accordi conclusi precedentemente dagli Stati membri, che un accordo vincoli
formalmente gli Stati membri ma che questi operino sostanzialmente, quando attuino
l'accordo, per conto dell'Unione. Ciò è avvenuto prima dell'istituzione
dell'organizzazione mondiale del commercio, rispetto al GATT, nel cui ambito la
Comunità, una volta assunta competenza esclusiva in materia di politica commerciale
comune, aveva preso di fatto il posto degli Stati membri. Dall'entrata in vigore del
Trattato CE, più precisamente a partire dall'attuazione della tariffa esterna comune,
il trasferimento di poteri dagli Stati membri alla comunità si è concentrato in vari
modi nell'ambito del GATT ed è stato riconosciuto dalle altre parti contraenti. Si era
così verificato un fenomeno che è stato talora descritto come una successione dalla
Comunità agli Stati membri. In realtà una successione avrebbe comportato
l'assunzione della qualità di parte del GATT ma ciò non era possibile. Per quanto
riguarda gli accordi stipulati dagli Stati membri tra di loro, prima dell'entrata in
vigore dei Trattati, nei rispettivi confronti, non vi era motivo di prevedere un limite
all'efficacia delle norme dell'Unione. Tali accordi possono essere abrogati per effetto
dei Trattati, in quanto sulla loro base sia emanato un atto che ponga obblighi
incompatibili. L’ abrogazione generalmente è confermata dall'acquiescenza degli Stati
membri al momento dell'adozione di atti normativi che incidono sul contenuto di
accordi preesistenti.

https://www.facebook.com/fantaboscodeiriassunti.fantabosco

GLI ACCORDI MISTI

Quando l'oggetto di un accordo internazionale ricada in parte nella competenza


esclusiva dell'unione e in parte nella competenza propria degli Stati membri, occorre,
per concluderlo, la partecipazione sia dell'Unione che degli stati membri. È necessario,
dunque, un accordo misto. Lo stesso potrebbe valere quando l'oggetto rientri in parte
nella competenza esclusiva dell'Unione e in parte nella sua competenza concorrente e
gli Stati membri non consentano all’UE di esercitare la competenza esterna a
quest'ultimo riguardo. Se in questi casi l'accordo fosse stipulato soltanto dall'Unione,
l’accettazione dell'accordo sarebbe parziale perché essa varrebbe soltanto per le
materie di competenza esclusiva. Nel caso in esame, occorre, dunque, ai fini della
conclusione dell'accordo da parte dell'Unione, che l'accettazione dell'accordo da
parte dell'Unione sia accompagnata da quella degli Stati membri. La Corte ha ritenuto
necessaria una stretta collaborazione fra gli Stati membri e le istituzioni comunitarie
93

tanto nel processo di negoziazione di stipulazione, quanto nell'adempimento degli


impegni assunti. Diverso discorso potrebbe valere per le materie di competenza
concorrente. Quando l'Unione non è in grado di concludere l'accordo in riferimento a
queste materie, opera per gli Stati membri l'obbligo generale di collaborazione
stabilita dall'articolo 4 par 3 TUE e ciò potrebbe comportare l'esigenza di ratifica.
Quando è concluso un accordo misto, gli obblighi e diritti che spettano all'Unione e gli
Stati membri non sono sempre distinti sul piano internazionale. Generalmente
l'inadempimento di un obbligo da parte di uno Stato membro potrebbe giustificare
l'adozione di contromisure nei confronti dell'Unione, quindi pregiudicare il godimento
da parte di questa dei propri diritti. Quando vi sia un tale collegamento, si può
configurare un obbligo degli Stati membri di rispettare quanto stabilito dall'accordo.
Riguardo all'esecuzione di un accordo misto, può non essere agevole individuare quale
parte dell'accordo rientri nella competenza esclusiva dell'Unione e quale nella
competenza propria degli Stati membri. La distinzione deve essere tracciata sulla
base dei Trattati. Per quel che riguarda le materie che rientrano nell'ambito della
competenza concorrente, l'esecuzione potrebbe essere compiuta sia dall'Unione che
dagli Stati membri. Si tratterebbe di un accordo interno, in quanto non ha rilevanza
nei confronti degli Stati terzi. In mancanza di accordo interno oppure di indicazioni
che potrebbero derivare dalla distinzione fra obblighi sul piano internazionale,
l'esecuzione dell'accordo misto, nella parte di competenza concorrente, può essere
effettuata sia dall'Unione che dagli Stati membri. Questi tendono generalmente a
fare in modo che l'Unione possa provvedere all'esecuzione dell'accordo misto soltanto
nel campo della sua competenza esclusiva.

GLI EFFETTI CHE GLI ACORDI CONCLUSI DALL’UNIONE PRODUCONO


NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE

L’articolo 216 par 2TFUE stabilisce che gli accordi conclusi dall'Unione vincolano le
istituzioni dell'Unione e gli Stati membri. Più precisamente, va ricordato che
l'accordo, una volta concluso dall'Unione, produce effetti nell'ordinamento
dell'Unione, ponendo agli Stati membri e alle istituzioni dell'Unione l'obbligo di
attuarne le disposizioni. Tali effetti si producono in modo automatico a seguito
della conclusione dell'accordo. Analoghi effetti derivano da quegli accordi che
vincolano l'Unione senza essere dalla stessa conclusi. Si impone, a proposito degli
accordi dell'Unione, la questione dell'irrevocabilità delle relative disposizioni da parte
dei singoli, cioè dell'idoneità dell'accordo a produrre effetti diretti. In diverse
94

sentenze, la Corte ha affrontato questo argomento, precisando che dall'accordo


internazionale possono derivare anche obblighi per persone fisiche o giuridiche.

Per determinare l'esistenza di effetti diretti la giurisprudenza ha fatto riferimento a


quegli stessi elementi di chiarezza e precisione e del carattere incondizionato delle
disposizioni che la Corte ha ritenuto occorrenti per gli effetti diretti del Trattato,
delle decisioni e delle direttive. Particolarmente significativa è la sentenza Bresciani,
al riguardo, in cui la Corte ha ritenuto che la disposizione riguardante le tasse di
effetto equivalente ai dazi doganali, conferiva ai singoli cittadini degli Stati membri
della Comunità, a partire dal 1 gennaio 1980, il diritto di non corrispondere allo Stato
le tasse d'effetto equivalente a dazi doganali, diritto che i giudici nazionali devono
tutelare. Ne deriva che l'imprenditore aveva il diritto di ripetere le somme
indebitamente percepite per la visita sanitaria di pelli importate in Italia dal Senegal.
Per quanto l'effetto diretto sia ricollegato dalla Corte all'accordo e sia configurato
come un aspetto della sua interpretazione, la Corte ha prospettato che la disposizione
di un accordo sia invocabile dai singoli anche se non si ha nell'ordinamento dello Stato
terzo parte dell'accordo e ha anche escluso di dover tener conto dell'atteggiamento
tenuto dallo Stato terzo rispetto all'accordo. Dato che in molti ordinamenti statali gli
effetti dell'accordo sono subordinati all'emanazione di una normativa specifica per
eseguire lo stesso accordo e che i giudici dello Stato terzo potrebbero dare una
soluzione restrittiva circa l'invocabilità delle sue disposizioni, la Corte non ha voluto
limitare gli effetti diretti nell'ordinamento dell'Unione. L'assenza di reciprocità
deriverebbe solo dalla mancanza di rispetto degli obblighi posti dall'accordo. È
peraltro dubbio che spetti direttamente alla Corte e non alle istituzioni politiche,
trarre conseguenze dall'assenza di reciprocità se non esista una norma che lo
preveda.

Sotto questo punto di vista, significativo è il riferimento al GATT. La Corte ha escluso


che quest'ultimo produca effetti diretti, facendo valere i motivi di ordine generale,
come la flessibilità delle sue disposizioni, specie quelle relative alla possibilità di
deroghe ai provvedimenti ammessi in caso di difficoltà eccezionali. Le sue norme sono
inoltre sprovviste di carattere incondizionato. Il problema dell'esistenza di effetti
diretti si è quindi posto in relazione al nuovo GATT, cioè all'accordo istitutivo
dell’OMC. Questo accordo è caratterizzato da una minore flessibilità rispetto al
GATT, specie con riferimento alla nuova disciplina della procedura per la soluzione
delle controversie. Al fine di evitare che la Corte affermi che il nuovo accordo
produca effetti diretti e assuma per conseguenza un ruolo importante nella sua
interpretazione, nel preambolo è stata inserita la formula per cui l'accordo non può
95

essere invocato direttamente dinanzi all'autorità giudiziaria della Comunità e degli


Stati membri.

Alcuni accordi conclusi dall'Unione prevedono procedure per la produzione di norme


giuridiche. Sono infatti attribuiti a consigli di associazione, comitati misti o altri
organismi, poteri normativi per quella che è chiamata la gestione dell'accordo. Anche
tali atti sono efficaci nell'ordinamento dell'Unione. La circostanza che gli accordi
vincolanti l'Unione producano effetti nell'ordinamento dell'Unione implica che gli atti
normativi dell'Unione debbano conformarsi a tali accordi. Un atto normativo che non
rispetti gli obblighi posti dall'accordo deve quindi essere dichiarato illegittimo. La
validità degli atti emessi dalle istituzioni può essere influenzata da una norma di
diritto internazionale qualora tale norma sia vincolante per la Comunità e attribuisca ai
singoli cittadini di questa, il diritto di esigerne giudizialmente l'osservanza. Anche in
presenza di effetti diretti dell'accordo i singoli avrebbero titolo per far valere la
violazione, da parte di un regolamento, di un obbligo posto da un accordo. Questo
requisito non trova riscontro nella giurisprudenza della Corte. Appare del resto poco
comprensibile che si consideri necessario che produca effetti diretti la norma che
costituisce il parametro di legittimità dell'atto. La successiva giurisprudenza
sembrava aver implicitamente lasciato cadere il requisito in esame in una sua
pronuncia, dopo aver dichiarato che il GATT non costituisce effetti diretti, ha
affermato che la Germania non poteva far valere le disposizioni del GATT per
contestare la legittimità di talune disposizioni di un regolamento relativo al commercio
delle banane perché sono nell'ipotesi in cui la Comunità abbia inteso dare esecuzione
obbligo particolare assunto nell'ambito del GATT o in quella in cui l'atto comunitario
rinvii espressamente a precise disposizioni dell'accordo generale, la Corte è tenuta a
controllare la legittimità dell'atto comunitario di cui trattasi alla luce delle norme del
GATT. Per questa tendenza sembrerebbe risultare che le istituzioni dell'Unione non
sarebbero vincolate al rispetto di obblighi posti da accordi che non producono effetti
diretti. In una sua successiva pronuncia, la Corte ha ammesso che la legittimità di un
atto comunitario possa essere valutata in relazione ad un accordo, indipendentemente
dalla circostanza che l'accordo produca effetti diretti. Questa soluzione dovrebbe
valere in via generale perché la tesi che la norma-parametro sia rilevante solo se
produce effetti diretti appare difficilmente conciliabile col contenuto dell'articolo
216 par 2 TFUE che non traccia distinzioni in proposito. Possiamo concludere che
mentre gli accordi conclusi dall'Unione costituiscono un parametro di legittimità
degli atti delle istituzioni che ne sono vincolate, gli accordi sono a loro volta
96

subordinati ai Trattati, tanto che un accordo non può entrare in vigore quando la
Corte accerti che esso non sia compatibile con i Trattati.

LA RILEVANZA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE

Nonostante nei Trattati manchino riferimenti a fonti di diritto internazionale diverse


dagli accordi, è legittimo ritenere che anche per tale fonti valgano analoghi principi e
che secondo l'ordinamento dell'unione, le istituzioni dell'unione degli stati membri
sono tenuti al rispetto degli obblighi posti in essere dalle norme di diritto
internazionale generale. Dobbiamo sicuramente distinguere le norme preesistenti
rispetto all'entrata in vigore del Trattato e le norme successive che hanno scarsa
ragion d'essere, anche perchè le eventuali norme generali sopravvenute difficilmente
si potrebbero collegare alle scelte effettuate dagli Stati membri. Nei rapporti fra
Stati membri, le norme di diritto internazionale generale che non abbiano carattere
cogente sono derogabili a mezzo di accordi internazionali e quindi in base ai Trattati.
L'esistenza di una deroga dipende dal contenuto di un eventuale accordo concluso
dagli Stati membri fra loro. Quando si tratti di obblighi posti da una norma di diritto
internazionale generale nei confronti di Stati terzi, si prospetta un limite alla
legittimità degli atti normativi dell'Unione. In una sua pronuncia, la Corte ha
affermato che la Comunità è tenuta a rispettare le norme del diritto consuetudinario
internazionale quando adotta un regolamento che sospende le concessioni commerciali
conferite da un accordo o in forza di un accordo che aveva stipulato con un Paese
terzo. Ne deriva che le norme del diritto consuetudinario internazionale relative alla
cessazione e alla sospensione delle relazioni convenzionali a motivo di un cambiamento
fondamentale di circostanze, vincolano le istituzioni della Comunità e fanno parte
dell'ordinamento giuridico comunitario. È necessario che gli atti dell'Unione siano
conformi agli obblighi imposti dalle norme di diritto internazionale generale. Non
rileva, invece, la circostanza per cui la norma internazionale generale produca o meno
effetti diretti.

Potrebbero piacerti anche