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Arthur Schopenhauer (1788-1861)

1 Vita e opere
Arthur Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788 in un'abbiente famiglia dedita al commercio.
Dopo il suicidio del padre, avvenuto nel 1805, la madre, scrittrice di romanzi d’avventura, si
trasferì con il giovane Arthur a Weimar. Schopenhauer si dedicò allora alla propria formazione
culturale, di carattere umanistico e scientifico. Studiò a Gottinga con un maestro di Kant, Schulze,
e a Berlino con il celebre teologo Schleiermacher. Nel 1813 si laureò a Jena con una tesi intitolata
“Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”.
Negli anni subito successivi alla laurea decise di trasferirsi a Dresda, dove collaborò con Goethe
allo sviluppo della teoria dei colori, componendo l'opera intitolata “Sulla vista e i colori” (1916).
Tra il 1814 e il 1818 scrisse il suo capolavoro, “Il mondo come volontà e rappresentazione”, che
però, inizialmente, si rivelò un grande insuccesso. Dopo questa delusione, decise di compiere un
viaggio in Italia, durante il quale visitò Bologna, Firenze, Venezia, Roma e Napoli.
Tornato in patria, insegnò come libero docente a Berlino, ma le sue lezioni erano deserte, perché
tutti andavano a seguire quelle di Hegel e dei professori di stampo hegeliano. L'epidemia di colera
del 1831 lo costrinse a lasciare Berlino, così si trasferì a Francoforte col suo cane, rimanendo fino
alla morte, sopraggiunta nel 1860. A Francoforte pubblicò “Sulla volontà nella natura” (1836) e
“I due problemi fondamentali dell'etica” (1841). Nel 1844 pubblicò una revisione de “Il mondo
come volontà e rappresentazione”, ma il successo giungerà soltanto nel 1851, grazie ad un’altra
sua opera, “Parerga e paralipomena”, un'insieme di saggi e trattazioni.

2 Le radici culturali del sistema


Numerosi furono gli influssi culturali di Schopenhauer: Platone, per la teoria delle idee come
forme eterne ed immutabili, sottratte alla transitorietà dolorosa del nostro mondo; Kant, da cui
derivò l'impostazione soggettivistica della gnoseologia; l’Illuminismo, per quanto concerne il
filone materialistico e quello dell'ideologia, da cui ereditò la tendenza a considerare la vita psichica
e sensoriale in termini di fisiologia del sistema nervoso; in particolare, dell'Illuminismo Voltaire,
da cui riprese lo spirito ironico e brillante e la tendenza demistificatrice nei confronti delle
credenze tramandate; il Romanticismo, da cui trasse l'irrazionalismo, la grande importanza
attribuita all'arte e alla musica, il tema dell'infinito e del dolore. Tuttavia, mentre il Romanticismo
mostrò apertamente una tendenza ottimistica, tentando di riscattare il negativo attraverso il
positivo (Dio, la storia, il progresso), Schopenhauer apparse assolutamente pessimista.
Un ruolo decisivo nella riflessione di Schopenhauer lo ebbe anche la critica rivolta all’idealismo
romantico, definito come una filosofia dell’Università e presentato come una posizione farisaica,
che non è al servizio della verità, ma del potere e del successo, tentando di giustificare
sofisticamente le teorie utili alla Chiesa e allo Stato. Se a Fichte e Schelling egli riconobbe un
certo ingegno, anche se male impiegato, Hegel, disprezzato prevalentemente per la tendenza a
divinizzare lo Stato, venne descritto come un “sicario della verità”, “un ciarlatano pesante e
stucchevole”. La filosofia shopenhaueriana oppose al razionalismo universale hegeliano il tema
dell'irrazionalità del reale.
Inoltre, Schopenhauer fu il primo filosofo occidentale a tentare il recupero di alcuni motivi del
pensiero dell'antico Oriente. Da esso riprese un prezioso repertorio di immagini e di espressioni
suggestive. Fu un ammiratore della sapienza orientale ed un profeta del suo successo in Occidente.

3 Il “velo di Maya”
Il punto di partenza della filosofia schopenhaueriana è un ripensamento della contrapposizione
kantiana tra fenomeno e noumeno. Se per Kant il fenomeno era l'unico oggetto della conoscenza e
il noumeno un concetto-limite che serviva per arginare le nostre pretese conoscitive, per
Schopenhauer il fenomeno è invece parvenza, illusione, sogno, ovvero ciò che nell'antica sapienza
indiana è chiamato “velo di Maya”, mentre il noumeno è una realtà che si cela dietro l'ingannevole
universo fenomenico, che deve essere scoperto dal filosofo. Schopenhauer riconduce il concetto di
fenomeno ad un significato estraneo allo spirito del kantismo (di tipo gnoseologico-scientifico) e
vicino alla filosofia indiana e buddista (di stampo orientalistico-metafisico).
Partecipe dell’entusiasmo romantico per la cultura orientale, egli affermò che “Maya, il velo
dell’illusione, ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né
che esista né che non esista, perché è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia,
che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure a una corda buttata per terra che egli
prende per un serpente”.
Inoltre, mentre per Kant il fenomeno era l'oggetto della rappresentazione, che esisteva fuori dalla
coscienza (anche se viene appreso tramite delle forme a priori), per Shopenhauer il fenomeno è
una rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza. Tant'è vero che egli crede di poter
esprimere l'essenza del kantismo con la tesi secondo cui “il mondo è la mia rappresentazione”. Per
Schopenhauer questo principio è simile agli assiomi di Euclide: ognuno ne riconosce la verità
appena lo intende, il merito della filosofia moderna consiste nell'averlo riportato alla luce.
La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la cui distinzione costituisce la forma
della conoscenza, ovvero il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto
esistono soltanto all'interno della rappresentazione, come due lati di essa, e nessuno dei due
precede o può sussistere indipendentemente dall'altro. Di conseguenza, se il materialismo è falso,
perché nega il soggetto riducendolo all'oggetto, anche l'idealismo (di Fichte) è al contempo errato
poiché compie il tentativo opposto, nega l'oggetto riducendolo al soggetto.
Shopenhauer, pur ammettendo, come il criticismo, che la nostra mente sia corredata di una serie di
forme a priori, ne riconosce soltanto tre (definite “principio di ragione”): spazio, tempo e causalità.
Tra queste la causalità è l'unica categoria, sia perché le altre si possono ricondurre ad essa, sia
perché la realtà dell'oggetto si risolve nella sua azione causale su altri oggetti. La causalità, come
afferma sin dallo scritto “Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”, assume
forme diverse a seconda degli ambiti in cui opera, manifestandosi come necessità fisica, logica,
matematica e morale, ovvero come un principio del divenire (che regola i rapporti fra gli oggetti
naturali), del conoscere (che regola i rapporti fra premesse e conseguenze), dell'essere (che regola i
rapporti spazio-temporali e le connessioni aritmetico-geometriche) e dell'agire (che regola le
connessioni fra un'azione e i suoi motivi).
Poiché le forme a priori, per Shopenhauer, sono simili a dei vetri sfaccettati attraverso cui la
visione delle cose si deforma, allora la rappresentazione sarà come una fantasmagoria ingannevole,
traendo la conclusione che la vita è “sogno”. Tra gli anticipatori di questa intuizione,
Schopenhauer cita i filosofi Veda (che considerano l'esistenza comune come una sorta di illusione
ottica), Platone (il quale dice spesso che «gli uomini non vivono che in un sogno»), Pindaro
(secondo cui «l'uomo è il sogno di un'ombra»), Sofocle (che paragona gli individui a «simulacri e
ombre leggere»), Shakespeare (il quale afferma che «noi siamo di tale stoffa, come quella di cui
son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno»), Calderón de la Barca (autore del
noto dramma La vida es sueño).
Ma al di là del sogno del fenomeno esiste la vera realtà, sulla quale il filosofo che è nell'uomo non
può fare a meno di interrogarsi. Infatti, l'uomo è un «animale metafisico», che, a differenza degli
altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e ad interrogarsi sull'essenza ultima
della vita. Ciò avviene proporzionalmente alla sua intelligenza.

4 Tutto è volontà
Shopenhauer si vanta di aver individuato quella via d'accesso al noumeno che Kant aveva
precluso. Ma se il noumeno si sottrae alla rappresentazione e al principio di ragione, qual'è il filo
d'Arianna che possa lacerare il velo di Maya?
Se noi fossimo soltanto conoscenza e rappresentazione, una sorta di testa alata senza corpo, non
potremmo uscire dal mondo fenomenico. Ma noi siamo anche corpo e, il proprio corpo, è il tramite
conoscitivo della volontà di vita, che ci permette non solo di vederci dal di fuori, come vediamo le
altre persone, ma di viverci anche dal di dentro, godendo e soffrendo. Proprio questo ci permette di
squarciare il velo del fenomeno e cogliere la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci su noi stessi,
scopriamo che la radice noumenica del nostro essere è la volontà. Più che intelletto o conoscenza,
noi siamo brama o volontà di vivere (Wille zum Leben), un impulso irrazionale che ci spinge a
vivere e ad agire. Il nostro stesso corpo non è altro che la manifestazione esteriore delle nostre
brame interiori: l'apparato digerente, ad esempio, serve per soddisfare il desiderio di nutrirci.
In generale, il mondo fenomenico è il modo in cui si manifesta la volontà nella rappresentazione
spaziotemporale. Il rapporto che sussiste tra volontà ed intelletto, tra volontà e corpo, in generale,
tra volontà e fenomeno, è lo stesso che intercorre tra padrone e servo, tra operaio e martello, tra
cavaliere e cavallo. Inoltre, per criterio analogico, egli sostiene che la volontà di vivere sarà
l'essenza segreta di ogni cosa (compresi gli oggetti inanimati, dove si manifesta inconsciamente), il
noumeno dell'universo.

5 Dall'essenza del mio corpo all'essenza del mondo


Ma come si arriva ad affermare che la volontà è l'essenza del mondo intero?
Quando io vivo il mio corpo smetto di usare spazio, tempo e causalità. In tal modo mi privo del
principio di separazione, del principium individuationis, che consiste nell’apparato di forme
attraverso cui il soggetto si rappresenta gli oggetti e che considera i fenomeni come una
molteplicità di cose separate e distinte. Per questo l’essenza che riscontro nel mio corpo non è più
soltanto “del mio corpo”, perché ha perso i limiti dell’individualità ed è corretto parlare di
“fenomeni” al plurale (in quanto spazio e tempo distinguono le cose molteplici che riscontriamo in
ambito fenomenico), e di “noumeno” al singolare (perché in quest’ambito non operano spazio e
tempo). Perciò, una volta individuata la volontà come essenza noumenica del mio corpo, so che
essa deve essere anche l’essenza profonda dell’intera realtà.
L’io, per Schopenhauer, non è la coscienza della metafisica tradizionale, un principio astratto e
universale come la Ragione degli idealisti o il soggetto trascendentale di Kant, piuttosto la
coincidenza di coscienza, volontà e corpo.

6 Caratteri e manifestazioni della volontà di vivere


Essendo transfenomenica, la volontà rappresenta caratteri contrapposti a quelli del mondo della
rappresentazione, sottraendosi alle forme di quest’ultimo (spazio, tempo e causalità).
Il termine volontà indica, non il suo aspetto cosciente, che è soltanto una manifestazione
secondaria, ma il concetto di energia o impulso. La volontà primordiale è quindi:
inconscia, essendo attribuita anche ai vegetali e alla materia inorganica; unica, poiché esistendo
oltre lo spazio e il tempo, si sottrae al principium individuationis, che afferma che dove ci sono io
non ci sei tu e quel che ora sono io non è quel che ero in passato o quel che sarò in futuro (la
volontà è in una quercia come in un milione le querce); eterna e indistruttibile, dato che esiste al
di fuori dal tempo (un principio senza inizio ne fine); incausata, ossia senza un perché e senza uno
scopo, configurandosi come una forza cieca e libera, dato che noi possiamo ricercare la ragione
delle varie manifestazioni della volontà, ma non della stessa volontà (io voglio perché voglio);
senza meta oltre se stessa, cioé la vita vuole la vita e la volontà vuole la volontà.
Miliardi di esseri non vivono che per vivere e continuare a vivere, ecco l’unica volontà crudele del
mondo, anche se gli uomini hanno cercato di nasconderla creando un Dio al quale finalizzare la
loro vita e in cui trovare un senso per le loro azioni. Ma Dio, non può esistere e l’unico assoluto è
la volontà stessa, i cui caratteri sono quelli che i filosofi hanno sempre attribuito a Dio e con cui i
Romantici hanno caratterizzato l'infinito.
La volontà di vivere si manifesta nel mondo fenomenico, inizialmente oggettivandosi in un
sistema di forme immutabili, aspaziali e atemporali, ovvero le idee, definite archetipi del mondo
(fase I), poi oggettivandosi nei vari individui del mondo naturale, che non sono altro che la
moltiplicazione delle idee (fase II). Tra gli individui e le idee esiste un rapporto di copia-
modello, per cui gli esseri risultano riproduzioni dell'unico prototipo originario che è l'idea.
Il mondo delle realtà naturali si struttura in una serie di gradi dell'oggettivazione della volontà,
disposti in ordine ascendente. Il basso è costituito dalle forze generali della natura, mentre quelli
superiori sono dati dalle piante e dagli animali. Questa piramide cosmica culmina nell'uomo, nel
quale la volontà diventa completamente consapevole. Ma ciò che essa acquista in coscienza,
perde in sicurezza: come guida della vita, la ragione è meno efficace dell’istinto, per questo
l’uomo è un animale malaticcio.

7 Dolore, piacere e noia


Nel mondo empirico tutti gli esseri fenomenici si rivelano in perpetua lotta tra loro, senza pietà e
in tutti i gradi dell'esistenza. Dire che l’essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a
dire che la vita è dolore per essenza. Volere significa desiderare, ossia trovarsi in uno stato di
tensione per la mancanza di qualcosa che si vorrebbe avere. Il desiderio risulta per definizione
assenza, vuoto, dolore. Poiché nell'uomo la volontà è più cosciente, quindi più affamata rispetto
agli altri esseri, l’uomo risulta il più bisognoso e mancante tra loro, destinato a non trovare mai un
appagamento definitivo. Ad esempio, se una pecora e una donna perdono il loro figlio, dopo poco
tempo questo fatto verrà dimenticato dall'animale, che continuerà a vivere come in precedenza, ma
rimarrà nei ricordi dell'umana, che ne soffrirà a lungo.
Ciò che gli uomini chiamano godimento fisico o gioia psichica, per Schopenhauer non è altro che
una momentanea cessazione del dolore, un momentaneo appagamento di un bisogno preesistente.
Il piacere, che non può esistere senza un precedente dolore, non costituisce che uno stato negativo.
La stessa cosa non vale per il dolore, uno stato positivo e universale che non può essere ridotto ad
una cessazione di piacere, infatti un individuo può sperimentare una catena di dolori, senza che
questi siano preceduti da altrettanti piaceri.
Accanto al dolore e al piacere, Schopenhauer, pone la noia, che subentra quando viene meno
l'aculeo del desiderio. "La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore
e la noia, passando attraverso l'intervallo fugace e illusorio del piacere".

8 La sofferenza universale
Poiché la volontà di vivere, perennemente insoddisfatta, si manifesta come una forza cosmica
(Sehnsucht, desiderio inappagato), il dolore non riguarda soltanto l'uomo, ma investe ogni
creatura, anche se l'uomo soffre più delle altre, in quanto ha maggiore consapevolezza e sente di
più la volontà. Tutto soffre, dal fiore appassito all'animale ferito, dal bimbo che nasce al vecchio
che muore. Per la stessa ragione il genio, avendo maggiori sensibilità rispetto agli uomini comuni,
è portato ad una maggiore sofferenza (più intelligenza avrai, più soffrirai). Il male non è solo nel
mondo, ma nel principio stesso da cui esso dipende. Dietro le "meraviglie del creato", per
Schopenhauer si cela un universo di "esseri tormentati e angosciati", pronti a divorarsi l'un l'altro.
Formica gigante d’Australia: “quando la si taglia in due, comincia una lotta fra la parte della
testa e quella della coda; quella ghermisce questa col morso, questa si difende validamente
pungendo quella; la battaglia dura di solito una mezz'ora, fino alla morte o fino a che i due
tronconi vengono trascinati via da altre formiche”.
L’individuo risulta essere soltanto uno strumento della specie, in quanto l’unico fine della natura è
quello di preservare e diffondere la vita e, con questa, il dolore. In tal modo, il filosofo perviene ad
una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tutta la storia del pensiero.

9 L’illusione dell’amore
Il fatto che alla natura interessi solo la sopravvivenza della specie trova una sua manifestazione
nell’amore. Se l'amore è così forte da fare di Cupido “il signore degli uomini e degli dei”, il suo
unico fine è l'accoppiamento. L'individuo è soltanto lo zimbello della natura, anche se crede di
realizzare, con l'amore, il proprio godimento e la propria personalità. Manifestazioni emblematiche
di tale essenza biologica dell’amore sono, per Schopenhauer, il caso della mantide femmina, che
divora il maschio dopo l’unione sessuale, e la constatazione che la donna, dopo aver procreato
perde ben presto bellezza.
Non c'è quindi amore senza sessualità. “Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire,
affonda sempre le sue radici nell'istinto sessuale”; “se la passione di Petrarca fosse stata appagata,
il suo canto sarebbe ammutolito”. L'amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come
"peccato" e “vergogna” in quanto ammette il maggiore dei delitti, ossia quello di generare altri
individui destinati a soffrire. “L'amore è costituito da “due infelicità che si incontrano, due
infelicità che si scambiano e una terza infelicità che si prepara”. L’unico amore di cui si può
tessere l’elogio è quello disinteressato della pietà (non quello generativo l’éros).

10 Il rifiuto dell’ottimismo cosmico


Uno degli aspetti più interessanti della filosofia di Schopenhauer è la critica delle varie menzogne
(o ideologie) con cui gli uomini tentano di celare la cruda realtà del mondo. Shopenhauer ha fatto
della tecnica dello “smascheramento” uno degli aspetti principali del suo filosofare, tanto da
venir considerato tra i “maestri del sospetto” della cultura moderna, insieme a Nietzsche, Freud e
Marx. Schopenhauer smarschera la filosofia accademica di Stato, affermando che chi viene pagato
per pensare non può certo filosofare liberamente, ma deve riflettere secondo le idee e i pregiudizi
di chi lo paga. Polemizza contro le occulte ambizioni di denaro, potere e gloria degli intellettuali
“inseriti” e smentisce le teorie sulla razionalità dell'essere e sulla felicità dell'esistenza umana.
“Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di
martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi
di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per
nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l’occhio nella torre
della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch’egli con l’intendere di qual sorte si questo
meilleur des mondes possibile. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da
questo mondo reale? […] Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò
davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per
un’impresa siffatta”.
Questo tipo di polemica trova uno dei suoi bersagli preferiti nell’ottimismo cosmico, che circola
in buona parte nelle filosofie e nelle religioni occidentali dell'epoca e che interpreta il mondo
come un organismo perfetto, governato da un Dio, oppure da una Ragione immanente (Hegel). In
realtà, questa visione, pur essendo “consolatrice” (da ciò la sua persistenza nei secoli), risulta
palesemente falsa, poiché la vita è un’esplosione di forze sostanzialmente irrazionali, e lo stesso
mondo, anziché essere il regno della logica e dell’armonia, è il teatro dell’illogicità e della
sopraffazione. Tutto ciò è verificabile nella “legge della giungla”, dove sopravvive il più forte.
Contestando le religioni che egli definisce “metafisiche per il popolo”, e i sistemi
provvidenzialistici, Schopenhauer perviene ad abbozzare le linee di un ateismo filosofico che sarà
ripreso in forma originale da Nietzsche.

11 Il rifiuto dell’ottimismo sociale


Un’altra menzogna contro cui Schopenhauer si scaglia di frequente è la tesi sulla bontà e
socievolezza dell’uomo. Infatti, la regola dei rapporti umani è costituita dal conflitto e dal
tentativo di sopraffazione reciproca. Regola che, pur assumendo mille forme, è sostanzialmente
la medesima. “Vi è dunque nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il momento
propizio per scatenarsi e infuriare contro gli altri”. “Le disgrazie altrui suscitano spesso una
malcelata soddisfazione nel nostro feroce istinto egoistico, mentre ogni vantaggio del prossimo,
anche piccolo, ci infastidisce e ci irrita, spingendoci talora a comportarci come quel carceriere
che quando scoprì che il suo prigioniero era riuscito faticosamente ad addomesticare un ragno e
ne traeva diletto, subito lo schiacciò”.
Di conseguenza, riprendendo una corrente di pensiero che va dagli atomisti ad Hobbes,
Shopenhauer afferma che se gli uomini vivono insieme, non è per simpatia o innata socievolezza,
ma per bisogno. E se esiste qualcosa come lo Stato e le sue leggi non è certo per l’intrinseca
“eticità” umana (definite fandonie degli idealisti), ma solo per una necessità di difesa e di
regolamentazione degli istinti aggressivi degli individui.
Anche Gobineau aveva definito l’uomo come l’animale cattivo per eccellenza, perché è l'unico che
faccia soffrire gli altri al solo scopo di far soffrirli.
Per queste tesi, Schopenhauer talora è stato accusato di “misantropismo”. Quando gli venne
chiesto se era misantropo, lui rispose che non lo era, ma che auspicava ad una via di liberazione.
La pittura del mondo, come inferno di egoismi, è finalizzata a favorire la scelta della via etica
della “pietà”. Infatti, solo chi ha la sensibilità di avvertire come i rapporti umani avvengano, per
lo più nell’orizzonte dell’ingiustizia, può sentire il desiderio interiore di quei “fiori
dell’eccezione”, che sono la giustizia e l’amore.

12 Il rifiuto dell’ottimismo storico


Un altro aspetto della dottrina di Schopenhauer (che lo contrappone all’intera cultura
ottocentesca), è la polemica contro ogni forma di storicismo.
Schopenhauer ridimensiona radicalmente la portata conoscitiva della storia, affermando che essa
non è una vera e propria scienza, in quanto, anziché procedere per concetti e leggi generali, è
costretta a limitarsi alla catalogazione dell’individuale. Perciò risulta inferiore anche all’arte e
alla filosofia, che mirano alle strutture universali e permanenti, risultando più profonde e veritiere.
Infatti, gli storici, a furia di studiare gli uomini, finiscono per perdere di vista l’uomo, cadendo
nell’illusione che gli uomini mutino di epoca in epoca. In realtà, se noi siamo in grado di procedere
oltre le apparenze, non possiamo far a meno di scoprire, che non vi è nulla di nuovo sotto il sole, e
che al di là del miraggio del tempo e della storia, il destino dell’uomo presenta, nei suoi caratteri
essenziali (nascita, sofferenza e morte), dei tratti immutabili. Il solo modo proficuo di occuparsi di
storia è quello di risalire dalla storia alla filosofia della storia. Dallo studio degli avvenimenti
del passato risulta evidente la costante uniformità e ripetitività della storia, nella quale non
cambia l’essenza delle cose, ma solo la loro facciata superficiale. Di conseguenza, il compito vero
della storia è quello di offrire all’uomo la coscienza di sé e del proprio destino.

13 Le vie della liberazione dal dolore


Schopenhauer, riprendendo le tendenze pessimistiche d'Oriente (“esistere è soffrire”), di Platone
(“è meglio non essere nati piuttosto che vivere”), di Calderon de la Barca (“il delitto maggiore per
l'uomo è di essere nato”), della tradizione biblico-cristiana (“non c'è nulla sotto il sole”, “tutto è
vanità”, “la vita è una valle di lacrime”), afferma che l’esistenza, in virtù del dolore che la
compone, risulta una cosa tale che si impara poco per volta a non volerla.
Si potrebbe pensare che Schopenhauer metta capo ad una “filosofia del suicidio universale”, ma in
realtà egli rifiuta il suicidio. In posizione anti-stoica, il filosofo condanna questa pratica perché il
suicidio non è una negazione della volontà di vivere, piuttosto una sua forte affermazione, poiché
il suicida vuole la vita ed è solo scontento delle condizioni che gli sono toccate, per cui al posto di
negare la volontà, sceglie di negare la vita. Inoltre, attraverso il suicidio viene soppressa
unicamente la manifestazione fenomenica, il corpo, l'oggetto della volontà, mentre come cosa in sé
la volontà di vivere continua ad esistere, in quanto pur morendo in un individuo, rinasce in altri
mille (analogamente al sole che, tramontato da un lato, risorge dall'altro).
Di conseguenza, la vera risposta al dolore del mondo non consiste nell'eliminazione di una o più
vite, ma nella liberazione dalla stessa volontà di vivere (come hanno fatto alcuni individui
eccezionali, come geni dell'arte, eremiti o santi). Il filosofo propone allora un iter salvifico, alla
fine del quale, l'uomo si potrà liberare della voluntas (causa di dolore) giungendo alla noluntas
(negazione progressiva di sé stessa). Le tappe per sfuggire alla volontà di vivere sono: l'arte, la
morale e l'ascesi.

14 L'arte
La noluntas può essere momentaneamente raggiunta con l'arte, dato che non è sottoposta ai bisogni
della volontà, ai rapporti causali e spaziotemporali che sono alla base della conoscenza scientifica.
L’arte è una conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee, cioè a forme pure, a
modelli eterni. Ciò accade perché nell’arte questo amore e questa guerra diventano l’amore, la
guerra, ovvero l’essenza immutabile di tali fenomeni. Il soggetto che contempla le idee, non è più
l'individuo naturale sottoposto alle esigenze pratiche della volontà, cioè ai desideri e ai bisogni
quotidiani, ma il puro soggetto del conoscere, il puro occhio del mondo. Se per l'uomo comune, il
proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che
rivela il mondo. Di conseguenza, l'arte è catartica per essenza, in quanto l’uomo, grazie ad essa,
più che vivere contempla la vita, elevandosi al di sopra della volontà, del dolore e del tempo.
Anche nell'arte la volontà si rivela per vari gradi (gerarchia delle arti): nell'architettura, nella
scultura, nella pittura e nella poesia (che hanno rispettivamente per proprio oggetto le idee del
mondo inorganico, vegetale, animale e umano). Tra le arti spicca la tragedia, che costituisce
l’autorappresentazione del dramma della vita. La musica, invece, è considerata come
l'immediata rivelazione della volontà a se stessa, che non riproduce mimeticamente le idee come
le altre arti. La musica è quindi l'arte più profonda e universale (una metafisica in suoni), capace di
metterci in contatto, al di là della ragione, con le radici dell'essere.
Ogni arte, pur costituendo un appagamento solo temporaneo del piacere, è dunque liberatrice.
Comunque, l'arte non è una via per uscire dalla vita, ma solo un conforto alla vita stessa.

15 L'etica della pietà


L'etica, differentemente dalla contemplazione estetica, implica un impegno nel mondo a favore
del prossimo. Essa è un tentativo di superare l'egoismo e di vincere la lotta incessante tra gli
individui, che costituisce l'ingiustizia e che rappresenta una delle maggiori fonti di dolore. Pur
riconoscendo, come Kant, che il disinteresse formi il cuore della moralità, diversamente da questo
filosofo, Schopenhauer sostiene che l'etica non nasca da un imperativo categorico dettato dalla
ragione, ma da un sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze altrui.
Non basta sapere che tutti soffrono, dobbiamo sentire questa verità nel profondo del nostro essere.
In luogo della modalità conoscitiva egoistica del principium individuationis, subentra quella
conciliante ed unificante del Tat Twam Asi, “questo sei tu” (ripresa dai testi indiani Upanishad).
Pertanto, la moralità produce la conoscenza, non viceversa, dato che, come afferma Wagner,
attraverso la compassione conosciamo.
La morale si concretizza in due virtù cardinali, ossia nella giustizia e nella carità (o agàpe). La
giustizia, che è un primo freno all'egoismo, ha un carattere negativo, poiché consiste nel non fare
il male e nel riconoscere agli altri ciò che siamo pronti a riconoscere a noi stessi. La carità, invece,
si identifica con la volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo. Diversamente dall'eros
che, essendo egoistico e interessato, è un falso amore, l'agàpe, essendo disinteressato, è un vero
amore. Ai suoi massimi livelli, la pietà consiste nel far propria la sofferenza di tutti gli esseri sia
presenti che passati e nell’assumere su di sé il dolore cosmico.

16 L'ascesi
Sebbene implichi un vittoria sull’egoismo, la morale rimane all’interno della vita e presuppone un
attaccamento ad essa. E' necessario liberarsi dalla stessa volontà di vivere. Questa liberazione si
raggiunge con l’ascesi. L’ascesi, nata dall’orrore dell’uomo per l’essere, secondo il filosofo è
l’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita e il volere stesso, si propone di
vincere il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere.
Il primo passo dell’ascesi è la castità perfetta, che libera dalla prima manifestazione della volontà
di vivere, cioè dall’impulso alla generazione e alla propagazione della specie. La rinuncia ai
piaceri, l'umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio e l’automacerazione, che sono le altre
manifestazioni dell'ascetismo, tendono tutte a liberare la volontà di vivere dalla sue catene.
Se tale volontà fosse raggiunta anche da un solo individuo, poiché è una sola, l’intero mondo
sarebbe redento. L'ascesi è quindi l'unico atto di liberà possibile per l'uomo. Infatti l’individuo,
come fenomeno, è un anello della catena causale ed è necessariamente determinato dal proprio
carattere. Ma quando riconosce la volontà come cosa in sé, egli si sottrae alla determinazione dei
motivi che agiscono su di lui come fenomeno. Quando succede ciò, l’uomo diviene libero, si
rigenera ed entra in quello stato che i cristiani chiamano “di grazia”.
Se per i cristiani l'ascesi si conclude con l'estasi dello stato di unione con Dio, nel misticismo ateo
di Schopenhauer, il cammino verso la salvezza mette capo al nirvana buddista. Il Nirvana è
l'esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo, ossia una negazione del mondo stesso. Se per
l’asceta il mondo è un nulla, analogamente il nirvana è un tutto, un oceano di pace.
Secondo alcuni critici l'ascesi orientalistica costituisce la parte più debole e contraddittoria del
sistema schopenhaueriano. Come si può ritenere che la volontà la cui essenza è appunto il volere,
ad un certo punto non voglia più se stessa? Inoltre la fuga ascetica della vita, che è un'esperienza
individuale e finisce con la chiusura dell'io in sé stesso, non contrasta forse con l'ideale etico della
pietà verso il prossimo che soffre?

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