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1 Vita e opere
Arthur Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788 in un'abbiente famiglia dedita al commercio.
Dopo il suicidio del padre, avvenuto nel 1805, la madre, scrittrice di romanzi d’avventura, si
trasferì con il giovane Arthur a Weimar. Schopenhauer si dedicò allora alla propria formazione
culturale, di carattere umanistico e scientifico. Studiò a Gottinga con un maestro di Kant, Schulze,
e a Berlino con il celebre teologo Schleiermacher. Nel 1813 si laureò a Jena con una tesi intitolata
“Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”.
Negli anni subito successivi alla laurea decise di trasferirsi a Dresda, dove collaborò con Goethe
allo sviluppo della teoria dei colori, componendo l'opera intitolata “Sulla vista e i colori” (1916).
Tra il 1814 e il 1818 scrisse il suo capolavoro, “Il mondo come volontà e rappresentazione”, che
però, inizialmente, si rivelò un grande insuccesso. Dopo questa delusione, decise di compiere un
viaggio in Italia, durante il quale visitò Bologna, Firenze, Venezia, Roma e Napoli.
Tornato in patria, insegnò come libero docente a Berlino, ma le sue lezioni erano deserte, perché
tutti andavano a seguire quelle di Hegel e dei professori di stampo hegeliano. L'epidemia di colera
del 1831 lo costrinse a lasciare Berlino, così si trasferì a Francoforte col suo cane, rimanendo fino
alla morte, sopraggiunta nel 1860. A Francoforte pubblicò “Sulla volontà nella natura” (1836) e
“I due problemi fondamentali dell'etica” (1841). Nel 1844 pubblicò una revisione de “Il mondo
come volontà e rappresentazione”, ma il successo giungerà soltanto nel 1851, grazie ad un’altra
sua opera, “Parerga e paralipomena”, un'insieme di saggi e trattazioni.
3 Il “velo di Maya”
Il punto di partenza della filosofia schopenhaueriana è un ripensamento della contrapposizione
kantiana tra fenomeno e noumeno. Se per Kant il fenomeno era l'unico oggetto della conoscenza e
il noumeno un concetto-limite che serviva per arginare le nostre pretese conoscitive, per
Schopenhauer il fenomeno è invece parvenza, illusione, sogno, ovvero ciò che nell'antica sapienza
indiana è chiamato “velo di Maya”, mentre il noumeno è una realtà che si cela dietro l'ingannevole
universo fenomenico, che deve essere scoperto dal filosofo. Schopenhauer riconduce il concetto di
fenomeno ad un significato estraneo allo spirito del kantismo (di tipo gnoseologico-scientifico) e
vicino alla filosofia indiana e buddista (di stampo orientalistico-metafisico).
Partecipe dell’entusiasmo romantico per la cultura orientale, egli affermò che “Maya, il velo
dell’illusione, ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né
che esista né che non esista, perché è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia,
che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure a una corda buttata per terra che egli
prende per un serpente”.
Inoltre, mentre per Kant il fenomeno era l'oggetto della rappresentazione, che esisteva fuori dalla
coscienza (anche se viene appreso tramite delle forme a priori), per Shopenhauer il fenomeno è
una rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza. Tant'è vero che egli crede di poter
esprimere l'essenza del kantismo con la tesi secondo cui “il mondo è la mia rappresentazione”. Per
Schopenhauer questo principio è simile agli assiomi di Euclide: ognuno ne riconosce la verità
appena lo intende, il merito della filosofia moderna consiste nell'averlo riportato alla luce.
La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la cui distinzione costituisce la forma
della conoscenza, ovvero il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto
esistono soltanto all'interno della rappresentazione, come due lati di essa, e nessuno dei due
precede o può sussistere indipendentemente dall'altro. Di conseguenza, se il materialismo è falso,
perché nega il soggetto riducendolo all'oggetto, anche l'idealismo (di Fichte) è al contempo errato
poiché compie il tentativo opposto, nega l'oggetto riducendolo al soggetto.
Shopenhauer, pur ammettendo, come il criticismo, che la nostra mente sia corredata di una serie di
forme a priori, ne riconosce soltanto tre (definite “principio di ragione”): spazio, tempo e causalità.
Tra queste la causalità è l'unica categoria, sia perché le altre si possono ricondurre ad essa, sia
perché la realtà dell'oggetto si risolve nella sua azione causale su altri oggetti. La causalità, come
afferma sin dallo scritto “Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”, assume
forme diverse a seconda degli ambiti in cui opera, manifestandosi come necessità fisica, logica,
matematica e morale, ovvero come un principio del divenire (che regola i rapporti fra gli oggetti
naturali), del conoscere (che regola i rapporti fra premesse e conseguenze), dell'essere (che regola i
rapporti spazio-temporali e le connessioni aritmetico-geometriche) e dell'agire (che regola le
connessioni fra un'azione e i suoi motivi).
Poiché le forme a priori, per Shopenhauer, sono simili a dei vetri sfaccettati attraverso cui la
visione delle cose si deforma, allora la rappresentazione sarà come una fantasmagoria ingannevole,
traendo la conclusione che la vita è “sogno”. Tra gli anticipatori di questa intuizione,
Schopenhauer cita i filosofi Veda (che considerano l'esistenza comune come una sorta di illusione
ottica), Platone (il quale dice spesso che «gli uomini non vivono che in un sogno»), Pindaro
(secondo cui «l'uomo è il sogno di un'ombra»), Sofocle (che paragona gli individui a «simulacri e
ombre leggere»), Shakespeare (il quale afferma che «noi siamo di tale stoffa, come quella di cui
son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno»), Calderón de la Barca (autore del
noto dramma La vida es sueño).
Ma al di là del sogno del fenomeno esiste la vera realtà, sulla quale il filosofo che è nell'uomo non
può fare a meno di interrogarsi. Infatti, l'uomo è un «animale metafisico», che, a differenza degli
altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e ad interrogarsi sull'essenza ultima
della vita. Ciò avviene proporzionalmente alla sua intelligenza.
4 Tutto è volontà
Shopenhauer si vanta di aver individuato quella via d'accesso al noumeno che Kant aveva
precluso. Ma se il noumeno si sottrae alla rappresentazione e al principio di ragione, qual'è il filo
d'Arianna che possa lacerare il velo di Maya?
Se noi fossimo soltanto conoscenza e rappresentazione, una sorta di testa alata senza corpo, non
potremmo uscire dal mondo fenomenico. Ma noi siamo anche corpo e, il proprio corpo, è il tramite
conoscitivo della volontà di vita, che ci permette non solo di vederci dal di fuori, come vediamo le
altre persone, ma di viverci anche dal di dentro, godendo e soffrendo. Proprio questo ci permette di
squarciare il velo del fenomeno e cogliere la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci su noi stessi,
scopriamo che la radice noumenica del nostro essere è la volontà. Più che intelletto o conoscenza,
noi siamo brama o volontà di vivere (Wille zum Leben), un impulso irrazionale che ci spinge a
vivere e ad agire. Il nostro stesso corpo non è altro che la manifestazione esteriore delle nostre
brame interiori: l'apparato digerente, ad esempio, serve per soddisfare il desiderio di nutrirci.
In generale, il mondo fenomenico è il modo in cui si manifesta la volontà nella rappresentazione
spaziotemporale. Il rapporto che sussiste tra volontà ed intelletto, tra volontà e corpo, in generale,
tra volontà e fenomeno, è lo stesso che intercorre tra padrone e servo, tra operaio e martello, tra
cavaliere e cavallo. Inoltre, per criterio analogico, egli sostiene che la volontà di vivere sarà
l'essenza segreta di ogni cosa (compresi gli oggetti inanimati, dove si manifesta inconsciamente), il
noumeno dell'universo.
8 La sofferenza universale
Poiché la volontà di vivere, perennemente insoddisfatta, si manifesta come una forza cosmica
(Sehnsucht, desiderio inappagato), il dolore non riguarda soltanto l'uomo, ma investe ogni
creatura, anche se l'uomo soffre più delle altre, in quanto ha maggiore consapevolezza e sente di
più la volontà. Tutto soffre, dal fiore appassito all'animale ferito, dal bimbo che nasce al vecchio
che muore. Per la stessa ragione il genio, avendo maggiori sensibilità rispetto agli uomini comuni,
è portato ad una maggiore sofferenza (più intelligenza avrai, più soffrirai). Il male non è solo nel
mondo, ma nel principio stesso da cui esso dipende. Dietro le "meraviglie del creato", per
Schopenhauer si cela un universo di "esseri tormentati e angosciati", pronti a divorarsi l'un l'altro.
Formica gigante d’Australia: “quando la si taglia in due, comincia una lotta fra la parte della
testa e quella della coda; quella ghermisce questa col morso, questa si difende validamente
pungendo quella; la battaglia dura di solito una mezz'ora, fino alla morte o fino a che i due
tronconi vengono trascinati via da altre formiche”.
L’individuo risulta essere soltanto uno strumento della specie, in quanto l’unico fine della natura è
quello di preservare e diffondere la vita e, con questa, il dolore. In tal modo, il filosofo perviene ad
una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tutta la storia del pensiero.
9 L’illusione dell’amore
Il fatto che alla natura interessi solo la sopravvivenza della specie trova una sua manifestazione
nell’amore. Se l'amore è così forte da fare di Cupido “il signore degli uomini e degli dei”, il suo
unico fine è l'accoppiamento. L'individuo è soltanto lo zimbello della natura, anche se crede di
realizzare, con l'amore, il proprio godimento e la propria personalità. Manifestazioni emblematiche
di tale essenza biologica dell’amore sono, per Schopenhauer, il caso della mantide femmina, che
divora il maschio dopo l’unione sessuale, e la constatazione che la donna, dopo aver procreato
perde ben presto bellezza.
Non c'è quindi amore senza sessualità. “Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire,
affonda sempre le sue radici nell'istinto sessuale”; “se la passione di Petrarca fosse stata appagata,
il suo canto sarebbe ammutolito”. L'amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come
"peccato" e “vergogna” in quanto ammette il maggiore dei delitti, ossia quello di generare altri
individui destinati a soffrire. “L'amore è costituito da “due infelicità che si incontrano, due
infelicità che si scambiano e una terza infelicità che si prepara”. L’unico amore di cui si può
tessere l’elogio è quello disinteressato della pietà (non quello generativo l’éros).
14 L'arte
La noluntas può essere momentaneamente raggiunta con l'arte, dato che non è sottoposta ai bisogni
della volontà, ai rapporti causali e spaziotemporali che sono alla base della conoscenza scientifica.
L’arte è una conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee, cioè a forme pure, a
modelli eterni. Ciò accade perché nell’arte questo amore e questa guerra diventano l’amore, la
guerra, ovvero l’essenza immutabile di tali fenomeni. Il soggetto che contempla le idee, non è più
l'individuo naturale sottoposto alle esigenze pratiche della volontà, cioè ai desideri e ai bisogni
quotidiani, ma il puro soggetto del conoscere, il puro occhio del mondo. Se per l'uomo comune, il
proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che
rivela il mondo. Di conseguenza, l'arte è catartica per essenza, in quanto l’uomo, grazie ad essa,
più che vivere contempla la vita, elevandosi al di sopra della volontà, del dolore e del tempo.
Anche nell'arte la volontà si rivela per vari gradi (gerarchia delle arti): nell'architettura, nella
scultura, nella pittura e nella poesia (che hanno rispettivamente per proprio oggetto le idee del
mondo inorganico, vegetale, animale e umano). Tra le arti spicca la tragedia, che costituisce
l’autorappresentazione del dramma della vita. La musica, invece, è considerata come
l'immediata rivelazione della volontà a se stessa, che non riproduce mimeticamente le idee come
le altre arti. La musica è quindi l'arte più profonda e universale (una metafisica in suoni), capace di
metterci in contatto, al di là della ragione, con le radici dell'essere.
Ogni arte, pur costituendo un appagamento solo temporaneo del piacere, è dunque liberatrice.
Comunque, l'arte non è una via per uscire dalla vita, ma solo un conforto alla vita stessa.
16 L'ascesi
Sebbene implichi un vittoria sull’egoismo, la morale rimane all’interno della vita e presuppone un
attaccamento ad essa. E' necessario liberarsi dalla stessa volontà di vivere. Questa liberazione si
raggiunge con l’ascesi. L’ascesi, nata dall’orrore dell’uomo per l’essere, secondo il filosofo è
l’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita e il volere stesso, si propone di
vincere il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere.
Il primo passo dell’ascesi è la castità perfetta, che libera dalla prima manifestazione della volontà
di vivere, cioè dall’impulso alla generazione e alla propagazione della specie. La rinuncia ai
piaceri, l'umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio e l’automacerazione, che sono le altre
manifestazioni dell'ascetismo, tendono tutte a liberare la volontà di vivere dalla sue catene.
Se tale volontà fosse raggiunta anche da un solo individuo, poiché è una sola, l’intero mondo
sarebbe redento. L'ascesi è quindi l'unico atto di liberà possibile per l'uomo. Infatti l’individuo,
come fenomeno, è un anello della catena causale ed è necessariamente determinato dal proprio
carattere. Ma quando riconosce la volontà come cosa in sé, egli si sottrae alla determinazione dei
motivi che agiscono su di lui come fenomeno. Quando succede ciò, l’uomo diviene libero, si
rigenera ed entra in quello stato che i cristiani chiamano “di grazia”.
Se per i cristiani l'ascesi si conclude con l'estasi dello stato di unione con Dio, nel misticismo ateo
di Schopenhauer, il cammino verso la salvezza mette capo al nirvana buddista. Il Nirvana è
l'esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo, ossia una negazione del mondo stesso. Se per
l’asceta il mondo è un nulla, analogamente il nirvana è un tutto, un oceano di pace.
Secondo alcuni critici l'ascesi orientalistica costituisce la parte più debole e contraddittoria del
sistema schopenhaueriano. Come si può ritenere che la volontà la cui essenza è appunto il volere,
ad un certo punto non voglia più se stessa? Inoltre la fuga ascetica della vita, che è un'esperienza
individuale e finisce con la chiusura dell'io in sé stesso, non contrasta forse con l'ideale etico della
pietà verso il prossimo che soffre?