Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
ASPETTI DI UN PROBLEMA
2. Fatti e valori
4. Verità e princìpi
DETERMINARE LA FELICITÀ
9. Egoismo e altruismo
10. L’utilitarismo
B. SINOSSI
© RIPRODUZIONE RISERVATA
A. PER UN’ANALITICA DELLA FELICITÀ
La ricerca del bene o di un più generale che cosa devo fare ci occupa
l’esistenza. Le risposte che diamo sono molteplici: si è identificato il bene con
la felicità e questa con le determinazioni più varie: successo, vita familiare, vita
politica, piacere; si è negato che il bene sia un’egoistica ricerca della felicità e
si è detta buona una vita altruistica, a volte persino dimentica di sé.
A seconda delle esperienze e del grado di riflessione a cui siamo giunti
diamo la nostra risposta. Nella congerie di risposte che giungono da più parti si
tende a sentenziare con il pensiero dominante dell’ultimo secolo – che il bene è
relativo – che, perciò, ciascuna posizione è inevitabilmente inconciliabile con le
altre[1].
Ma le opposizioni sono soltanto apparenti e, quando vengano pensate fino in
fondo, trovano ragione risolutiva nella dinamica propria della vita. Il modo di
scelta e di individuazione del bene coincide con ciò che da sempre la vita fa.
Questo saggio si prefigge di mostrare come l’individuazione del bene per la vita
coincida con ciò che la rende una vita buona, che la rende tale, vita, al meglio.
Tutti gli sforzi che possiamo fare mirano ad assecondarci. Ed è questo che si è
inteso nell’antichità fino ad oggi con «vita secondo natura», cioè secondo la
natura della vita; o con l’esortazione paradossale a diventare ciò che si è.
Ma poiché ciascuno è diverso saranno beni per ciascuno cose differenti e già
in partenza potrebbe sembrare negata la possibilità di un ipotesi non
relativistica. In realtà se ci soffermiamo su come il bene si dia all’uomo e questi
lo conosca non dovrà passare molto per rendersi conto dell’impossibilità di
questa concezione semplicistica. Ma semplicistico è stato il cambio di categorie
che ha conosciuto il Novecento e di cui tanta parte della cultura non si è
avveduta e ancora non si avvede. Disperatamente si è passati dall’Essere, o
Dio, al Nulla, dall’eterno al transeunte, dal trascendente all’immanente,
dall’assoluto al relativo, dall’immortalità alla mortalità (dell’anima), dall’anima
al corpo, dallo spirito alla carne, dalla morale all’immoralità, dalla verità alla
falsità, dall’unità al caos, dalla fede alla sfiducia.
Il maggior referente teorico di questa svalutazione è stato sicuramente
Nietzsche, nel quale però non si presenta nella forma di un mero
capovolgimento, quale è stato recepito dalla cultura a lui successiva. Tanto che
seguendo il filo dei suoi pensieri è talvolta possibile giungere a conclusioni
opposte, e giammai perché, come da luogo comune, abbia detto tutto e il
contrario di tutto[2].
ASPETTI DI UN PROBLEMA
2. Fatti e valori
4. Verità e princìpi
Se si presta attenzione al modo del nostro vivere, alla dinamica propria della
vita, si può cominciare a notare come in realtà ciò che crediamo frutto di una
scelta, o comunque demandato all’arbitrio della coscienza, sia la struttura di
ogni scelta. La confusione concettuale della quale disponiamo è un tutt’uno con
la concezione relativista; è questa sicuramente l’oppio ad ogni sforzo del
pensiero. La classica e apparentemente insolubile contrapposizione tra
epicureismo od edonismo e stoicismo è resa possibile da una certa specifica
miopia di entrambe le posizioni. Ciascuna coglie un aspetto della realtà della
vita; potremmo dire che ciascuna si riferisca a cose diverse e che, perciò, sia
stato impossibile intendersi. Si tratta di innalzarsi ad un orizzonte comune che
racchiuda e renda ragione delle due diverse e parziali prospettive.
Riducendo a paradigma le posizioni di Epicuro e Seneca, possiamo affermare
che il primo identifichi la felicità con il piacere[13], mentre il secondo con la
virtù[14].
La filosofia epicurea con la dottrina sul piacere pone per la prima volta con
forza l’accento sul carattere interessato dell’agire, del quale spesso e volentieri
si è stati dimentichi, fino al punto che ancora alla fine dell’Ottocento le parole
di Nietzsche sulla volontà di potenza, come ciò che la vita è, hanno potuto far
gridare allo scandalo, scintille di quella crisi che ancor oggi ci coinvolge e alla
quale abbiamo dato il nome di nichilismo.
L’attenzione su questo aspetto fondamentale è posta in questi termini: «il
piacere [è] principio e fine della vita felice»[15]. Questa formulazione-intuizione
è un tutt’uno con il credere che il piacere sia dunque il motivo del nostro agire:
«ad esso ci riconduciamo nel giudicare»[16]. Seneca, invece, nell’opporsi ad
Epicuro afferma bensì che alla virtù possa accompagnasi il piacere, ma che
questo non sia il motivo di quella: la virtù può anche essere priva di piacere[17]
e può altrimenti essere vista come una limitazione alla vita dedita al
piacere[18]. Nelle due posizioni piacere e virtù vengono messe sullo stesso
piano e quindi viene contrapposto ciò che in realtà non può esserlo.
Infatti, senza piacere non si dà vita: l’attività che la vita è, è tale perché il
mondo non le è indifferente, e questa non indifferenza la possiamo pensare
solo in termini di piacere e dolore. Il piacere rende conto di qualsiasi atto in
quanto carattere originario della vita, senza del quale essa non ci sarebbe. Il
piacere è senz’altro principio della vita se lo intendiamo in senso ontologico.
Nondimeno il piacere non è fine della vita, se non in senso ontico, nel
significato cioè in cui lo intende Seneca, come questo o quel piacere
determinato, sottolineando: «anche se la virtù procurerà piacere, non è per
questo che la si cerca»[19]. Seneca ci tiene a puntualizzare che la virtù non è
ricercata per il presunto tornaconto del piacere, ma per se stessa. Non gli pare
corretto individuare il piacere con un motivo, ma, nell’opporsi a ciò,
contrappone piacere e virtù, riconoscendo nel piacere tutt’al più un
«accessorio»[20] della virtù, un carattere inessenziale della vita. Seneca, così
come Epicuro, confonde i significati ontologico ed ontico, e nell’affermare l’uno
nega l’altro. Nella nostra esposizione dovranno iniziare a chiarsi questi due
differenti significati.
La felicità è ciò che ci guida, ma è allo stesso tempo ciò che scopriamo nel
suo esserne guidati. Non è qualcosa di noto per cui le scelte vengano fatte nel
tentativo di realizzarlo, ma ciò che ci presenta il da farsi, con cui in parte
coincide. A guidare è dunque la felicità perché con il da farsi essa consiste nelle
sue ragioni.
Si fa un alcunché e si sa di essere felici per delle ragioni: è possibile
descrivere il proprio stato rendendone conto attraverso di esse, nel porre in
relazione. Si comprende il proprio essere non semplicemente perché esso si dà,
ma perché si dà in svariate forme e circostanze. Comprenderlo significa legarle
in una trama della comprensione. Non significa però che discendano l’una
dall’altra linearmente: esse sono parte di me come ciò che io sono: quelle che
esse sono tra di loro sono il modo in cui sono. Se le passioni sono il modo in cui
qui ed ora il mondo non mi è indifferente, la felicità è il modo in cui il mondo
non mi è indifferente. La felicità consiste in ciò che vale. La comprensione in cui
si compie la felicità ha con sé le ragioni di fatti e valori, del nostro essere, del
nostro (voler) essere. Nella comprensione della felicità individuiamo i valori.
Il piacere e la felicità non sono dunque l’oggetto e il fine della vita. Piacere e
felicità non sono oggetto di scelta: il primo è la condizione perché ci sia scelta,
la seconda è ciò che determina il contenuto specifico di ogni singola scelta. Noi
iniziamo a conoscere la nostra felicità fin dal nostro primo apparire e in ogni
momento un suo lembo con il nostro vivere ci viene svelato. Ciò che ci rende
felici è ciò che ha valore. Ma i valori non sono tali perché ci rendano felici, bensì
la felicità ci indica dove questi siano, che cosa essi siano. Agendo infatti non si
cerca di attuare una felicità conosciuta, perché nell’agire, a contatto con gli
eventi, sempre scopriamo noi stessi ed il mondo: di volta in volta anticipiamo
nel cammino del piacere quel piacere sommo che è la felicità. Ma così come
ogni evento è un accesso al mondo, così a renderci la nostra felicità sono i
valori: essi non sono arbitari, non sono frutto di un qualche piacere o di una
qualche visione del mondo intesi come preferenza arbitraria, bensì sono frutto
delle esperienze concrete di noi stessi e del mondo in base a cui
continuamente scegliamo e agiamo. Non sono una preferenza nostra dopo aver
conosciuto i fatti, ma il modo concreto in cui i fatti si rivelano: la conoscenza
del valore è conoscenza del fatto. Solo nel sapere come una cosa è stata ed è
posso avere a che fare propriamente con quella cosa – posso essere nei
confronti di quella cosa ciò che devo essere. In questo dover essere consiste la
felicità, nell’ineluttabilità dell’essere stato, non raggiungibile da nulla al mondo
se non dal pensiero del mondo che il mondo conosce. La felicità risiede sempre
nel passato, nella comprensione dell’essere stato, che guida l’aver da essere e
nell’attuarlo rivela quel nuovo nella cui comprensione risiede la nuova
determinazione della felicità. Vi è di certo una discrasia tra l’essere stato e
l’aver da essere che determina l’intera dinamica qui descritta, ma lungi
dall’avere a che fare con la legge di Hume: al contrario, è logicamente
necessario passare dall’essere al non essere, proprio perché ciò che è non può
essere altrimenti, ed in questo senso deve essere ciò che è.
Seguendo la logica che ci ha condotto fin qui, non è neppure corretto
affermare che «il fondo della virtù è ottenere un piacere, e non un piacere
qualsiasi, ma il più voluttuoso di tutti»[22]. La scelta ontica di questa o quella
determinazione è indifferente al piacere: quando raggiunge la massima
consapevolezza essa non ammette possibilità, l’unica cosa da farsi non è un
certo piacere, bensì quella cosa da farsi. Se ci sforziamo di tenere distinti i due
piani, quello ontico e quello ontologico, sempre di più ci accorgiamo che non lo
si fa (il da farsi) perché ci si sentirà bene, ma lo si farà e ci si sentirà bene. Se si
ragiona in termini di piacere si perde di vista la concretezza della situazione.
Non si fa qualcosa per provare piacere, piuttosto per provare il piacere di fare
quella cosa. Il piacere di fare quella cosa è tanto poco un piacere, quanto
piuttosto quella cosa stessa che ha da farsi. Il piacere scompare in quella cosa,
esso mostra il suo carattere ontologico. Non vado a visitare Parigi perché mi dà
piacere, altrimenti per provarlo potrei rimanere sul divano di casa e leggermi
un libro. Non cerco quindi il piacere, neppure un certo piacere come quello di
muovermi o, più precisamente, di viaggiare, sia pure in una metropoli europea.
Io voglio andare a Parigi. Il piacere coincide esattamente con l’andare a Parigi e
non c’è nessun rapporto di causa ed effetto tra l’andare a Parigi e il piacere di
andarvi, non v’è punto rapporto. Dire: “vado a Parigi perché mi piace” è, da un
punto di vista ontologico-trascendentale, una tautologia che come tale non
fornisce indicazioni; onticamente invece significa che non mi metto in viaggio
per nessun altro motivo se non il viaggio stesso. È da questa mancata
distinzione che sorti molti equivoci.
9. Egoismo e altruismo
10. L’utilitarismo
B. SINOSSI
[17] Cfr. SENECA, De vita beata, trad. it. Sulla felicità, Rizzoli, Milano, 2000, 47.
[18] Ivi, 49.
[19] Ibidem.