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Lezione 1: Diritto del lavoro subordinato (28-03-2018)

La disciplina del rapporto di lavoro subordinato é formata da regole legislative e contrattuali. Le fonti sono
quindi la legge, il contratto collettivo o individuale ed un insieme di regole che governano la relazione fra il
datore di lavoro, imprenditore o meno. Qualora il datore sia un imprenditore egli esercita un’attività
economica organizzata volta a produrre beni e servizi. Dal punto di vista tecnico-giuridico tutta questa
disciplina, che è molto varia, che si occupa della maternità, della malattia, dei licenziamenti, delle garanzie
dei redditi retributivi, dei trasferimenti, dei trasferimenti d’azienda. Questa disciplina dal punto di vista
tecnico deve essere imputata a qualcuno, che deve applicarla.
Pertanto la disciplina si impronta su due problemi fondamentali: da un lato l’analisi, conoscenza ed
esposizione delle regole a cui le parti si devono attenere, e dall’altro l’individuazione del termine
d’imputazione, cioè della fattispecie, che ha il compito di delineare l'ambito di applicazione di determinate
regole. E siccome il diritto si applica a fatti umani, descrive le caratteristiche più significative del fatto al
quale si vuole che la disciplina si applichi.
Il diritto del lavoro è il diritto dei lavorati subordinati, ma non solo. Il diritto del lavoro è il diritto del
rapporto di lavoro e il rapporto di lavoro è la relazione che si instaura qualora le parti stipulino un contratto
di lavoro subordinato. Si tratta di un contratto tipico che pertanto trova un disciplina nel codice e che é stato
ricavato dalla realtá sociale, in quanto funzionale a consentire lo svolgersi dei rapporti di produzione tipici
dell’economia capitalista. Tali rapporti implicano la presenza di un proprietario dei mezzi di produzione,
rappresentati dalle aziende, dalle macchine necessarie a produrre, e di collaboratori, in quanto lo stesso non
sarebbe in grado da solo le funzioni di produrre beni e servizi, altrimenti si tratterebbe di un cd lavoratore
autonomo. Questo rapporto di fonda sull'art. 41 che riconosce che l’iniziativa economica privata é libera.
Quindi il contratto di lavoro subordinato è funzionale a consentire lo svolgimento di questo tipo di rapporto
di produzione in cui ci sono soggetti che svolgono attività economiche organizzate che non riescono a far
fronte da soli e hanno bisogno di collaborazione STABILE e VINCOLATA. Tale collaborazione si svolge
dentro l’organizzazione del datore di lavoro, controparte contrattuale, che fa si chi vi collabora, a prescindere
dalle sue specifiche competenze, si sottoponga ad obblighi di obbedienza. Questi obblighi anche detti ti
subordinazione sono rappresentati da un vincolo contrattuale,
Vediamo la stessa situazione dal punto di vista del lavoratore, che ha la necessità di stabilire come occupare
il suo tempo, visto che puó scegliere che tipo di attività fare. Il lavoratore che sceglie di lavorare per mezzo
del lavoro subordinato, ha una serie di vantaggi e di limiti riespetto al lavoro autonomo, visto che la cessione
di parte delle sue libertá permette una maggiore sicurrezza: retributiva, di stabilitá del posto, di natura
previdenziale; ma d'altra parte limita la libertá personale non potendo scegliere a che ora alzarsi la mattina,
come vestirsi a lavoro, durante quali ore lavorare, quante pause fare. La descrizione normativa della
fattispecie che stiamo cercando di analizzare è contenuta nel Codice Civile all'art. 2094, il quale quando
descrive la figura del lavoratore subordinato e dell’imprenditore ha in mente l’impresa del ’42, dove la
collaborazione dentro l’impresa si poteva svolgere solo in determinate maniere, in terminati modi, che erano
perfettamente riconoscibili, avevano una fisionomia, un’identità molto precisa. Era una struttura fortemente
gerarchizzata, in cui i margini di libertà ed autonomia del collaboratore (che fosse operaio, impiegato,
dirigente, meccanico) erano estremamente limitati, in quanto le attivitá erano ripetitive, standardizzate, non
richiedendo un alto contenuto professionale e con poco spazio all’iniziativa individuale.
Secondo il Codice “é imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine
della produzione o dello scambio di beni e servizi”. Inoltre afferma all'art. 2086 che “l’imprenditore è il capo
dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. L'impresa é ancora oggi un settore
molto gerarchico essendo ancora dominata da logiche di profitto, perció il diritto del lavoro ha anche il fine
di attenuare i rapporti di gerarchia. La gerarchia non é solo fra l’imprenditore ed i suoi collaboratori ma
anche tra questi ultimi, e discendono dal modo in cui sono organizzati i rapporti produttivi. Poi secondo il
2087 “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo l’esperienza
tecnica, sono necessarie a garantire l’integrità fisica e la personalità morale del collaboratore”. In ogni caso
se l'art. 2094 fotografava in maniera perfetta il rapporto organizzativo all'interno dell'impresa del 42, oggi
tale descrizione appare sfumata perché i rapporti organizzativi sono mutati e si sono evoluti.
Dal punto di vista del lavoro invece in base all’art 2094 “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga
mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore. L’oggetto della prestazione è quindi la collaborazione, cioè
il fatto di lavorare con altri individui. Si tratta comunque di una collaborazione interna all'azienda e non al
suo esterno, che dev'essere duratura e continuativa. L’interesse che ha il datore di lavoro è un interesse
organizzativo, che si manifesta nel potere di impartire direttive (o istruzioni) a lavoratore riguardanti il modo
in cui il lavoro dev'essere svolto, da cui deriva un dovere di obbedianza nei confronti delle stesse, cosí come
previsto dall'art. 2104. Tale art. infatti prevede che: “il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione
nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”
Il contratto di lavoro subordinato è cosí lo strumento che consente a qualcuno di comandare e a qualcun altro
che deve obbedire all’interno di una società formata da persone libere e uguali. L’unica cosa che legittima
uno ad esprimere un potere di comando su un altro è il fatto che quest’altro lo voglia, entro dei limiti
consentiti, visto che ad es. uno non può dare il consenso a farsi mutilare.

Lezione 2 (09.04.18)
Il lavoro subordinato è un lavoro ETERODIRETTO diversamente dal lavoro auotonomo, perché se anche in
quest'ultimo colui che esegue il lavoro deve attenersi alle istruzioni della controparte, tale potere istruttuorio
si limita all’indicazione dell’oggetto della prestazione di lavoro, gli strumenti di cui avvalersi per svolgere
questa prestazione di lavoro. I collaboratori di cui avvalersi per svolgere questa attività di lavoro sono decisi
liberamente dal lavoratore autonomo. Questo non succede nel rapporto di lavoro subordinato, in cui tutti
questi aspetti CD ORGANIZZATIVI sono stabiliti già dal datore di lavoro che ha questo potere di decisione,
che è appunto il potere direttivo. Ora perché il lavoratore possa dirsi subordinato non é importante che il
datore eserciti in concreto questo potere dato che in molti casi non accade e cioé quando il lavoratore sa bene
che lavoro deve compiere, ma l'importante é che il lavoratore subordinato sia obbligato a rispettare le
direttive che il datore di lavoro impartisce.
La disciplina codicistica del 42 sul lavoro subordinato rispecchiava la realtá dell'epoca dove il lavoro
dipendente era essenzialmente quello della grande impresa, in particolare manifatturiera, in cui il lavoro era
prestato all’interno di organizzazioni, che tendenzialmente erano attività di taglia medio grande che
adoperavano lavoratori, generalmente poco qualificati e privi di autonomia in organizzazioni produttive
fortemente gerarhizzate. Vi era dunque una distinzione radicale tra lavoratori autonomi e subordinati, dato
che in base all’art. 2222 é autonomo il lavoro prestato senza vincolo di subordinazione, come il lavoro
dell’artigiano, del commerciante, dell’agricoltore o coltivatore diretto oppure il lavoratore esercente attività
libero professionali nel senso delle arti liberali e cioè i medici, gli avvocati, ingegneri, quelli che chiamiamo
diciamo generalmente liberi professionisti. SI trattava di due figure sociali molto tipizzate, molto ben
riconoscibili, e solo al lavoratore dipendente venivano riconosciute una serie di tutele inderogabili: i limiti
all’orario di lavoro, le ferie, tutele contro i licenziamenti, in parte per la concorrenza, una serie di benefici, di
vantaggi che riguardavano le attività fisica, le assicurazioni sugli infortuni. Tutte queste tutele non erano
invece riferibili al lavoratore autonomo, in quanto si trattava di tutele di cui non aveva bisogno visto che la
loro esistenza dipendeva proprio della necessita di tutelare coloro che si trovavano sotto la dipendenza di un
altro soggetto. E queste tutele sono riconosciute dall'art. 2087 che dispone che “L’imprenditore è tenuto ad
adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la
tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.” Questa
norma poteva avere senso solo per il lavoratore dipendente perché solo questo è inserito nell’organizzazione
rispetto alla quale può trovarsi esposto a pericoli per la sua integrità fisico-morale.
Ora finquando il sistema socio-produttivo ha mantenuto questo assetto, il problema della subordinazione era
un problema pratico di scarso rilievo, proprio perché non c’era nessun subordinato che chiedeva di avere la
qualificazione del rapporto col rapporto di lavoro subordinato, nessuno perché tutti quelli che lavoravano in
forma subordinata avevano contratti di lavoro subordinato. Il problema cominció a nascere quando inizió a
crearsi una sorta di frattura tra le regole legali e la realtá pratica. La realtà regolata infatti inizió a modificarsi,
e cioè cambiarono sostanzialmente i modi di produrre, cambió l’impresa, che divenne sostanzialmente meno
gerarchizzata, con maggiori spazi di autonomia lasciati ai singoli, soprattutto la maggiore innovazione
tecnologica, cominció ad ospitare al suo interno masse di lavoratori che non erano più lavoratori poco o nulla
qualificati, ma lavoratori spesso di grande qualificazione, e cosí cominció a cambiare la loro figura. Dinnanzi
ad un lavoratore qualificato e specializzato se il datore di lavoro continua a mantenere quel potere di ingerirsi
nella prestazione lavorativa, però si capisce che questo potere di gestione deve comunque garantire al
lavoratore l'autonomia di cui ha bisogno per lo svolgimento dei propri compiti. Lo stesso asse della
produzione comincia a spostarsi dalla grande impresa alla piccola o media impresa, soprattutto impresa di
servizi.
Insomma ad un certo punto, inizia a farsi strada questa idea per cui il lavoro dipendente non fosse l’unico
tipo di lavoro che può essere utilizzato dall’imprenditore, per far funzionare bene l’impresa. Nel frattempo,
nel mentre che si affermava questa idea, che è appunto figlia delle trasformazioni produttive, il diritto del
lavoro si evolveva e diventava sempre più costoso e sempre più pesante per l’impresa, in particolare dopo
l’entrata in vigore della Costituzione. D’altra parte invece il lavoro autonomo rimane nel suo ambito a costo
legale zero, dato che al lavoratore autonomo la legge non gli comminava tutele inderogabili.
E allora per un datore, se ha la possibilitá di contrattare con un lavoratore autonomo, almeno nei casi
consentiti dalla legge, puó essere piú conveniente rispetto ad un lavoratore dipendente, come nel caso di un
addetto alle vendite. Cosí i datori si chiedero se questa possibilità fosse ammessa, cosí in seguito alle prime
contestazioni la Cassazione piú volte affermó e ribadí che ogni prestazione di lavoro può essere svolta o in
forma di lavoro subordinato e in forma autonoma. Dipende tutto da il modo con la quale questa prestazione è
dedotta in contratto, e quest'ultimo si fa in un modo o nell’altro a seconda degli interessi che si devono
soddisfare, se il potere è di restare al lavoro di comando si fa i l contratto di lavoro subordinato, se non c’è
questo interesse si fa un contratto di lavoro autonomo. Allora per quale motivo vi puó comunque essere
interesse a stipulare coi lavoratori un contratto di lavoro subordinato? Perché evidentemente si ritiene che
l’impresa funziona meglio se si fanno dei contratti di lavoro subordinato, dato che senza di questo ogni volta
che il datore pretenderà di esercitare un potere di comando, si troverà uno che gli dice “ma io non sono
obbligato ad obbedire a te perché ho fatto un contratto di lavoro subordinato, se vuoi che io faccia questa
cosa che mi chiedi devi aspettare che io ti dica si”. Mentre il succo del lavoro subordinato invece è che il
datore di lavoro non ha bisogno di ascoltare il consenso del lavoratore ogni volta che pretende di ingerirsi
nella sua prestazione. Poi il lavoratore ovviamente mi può dire no ma è inadempiente e io posso reagire con
gli strumenti contro l’inadempimento. Diverso é il caso del lavoratore autonomo in quanto questo si obbliga
al compimento di una o piú prestazioni, mentre non si mette a disposizione del datore cosí come fa il
dipendente. Tuttavia anche se formalmente il lavoratore autonomo non é subordinato al datore, nella pratica
la situazione é ben diversa, visto che puó accadere che mano a mano che la prestazione si svolge il lavoratore
che non ha vincoli di orari poi di fatto li rispetta, di fatto va a lavorare tutti i giorni alla stessa ora, non se ne
va mai prima di un’altra ora, di fatto lavora per tot giorni alla settimana, di fatto viene pagato a certe cadenze
mensili, settimanali, al pari di quello che succede con il lavoro dipendente. Perció qual è la conseguenza che
si trae se i poteri di comando formalmente inesistenti di fatto ci sono e di fatto il lavoratore da segno di questi
poteri di comando? Dal punto di vista giuridico quello che succede è che il contratto è stato fatto in un modo,
ma le parti si sono comportate diversamente. VI é stata quindi una modificazione del rapporto contrattuale
iniziale e potrebbe accadere anche che il contratto che vale è quello modificato successivamente, e questo
non dipende dal consenso delle parti, ma dall'essere inseriti in una determinata organizzazione produttiva,
che per funzionare necessita che si lavori in un certo modo.
Infatti, non è che esiste la subordinazione perché esiste nel codice il contratto di lavoro subordinato, è
esattamente l’opposto, esiste nel codice il contratto di lavoro subordinato perché nella realtà dei rapporti
sociali ci sono delle persone che lavorano in forma subordinata e lavorare in forma subordinata è il modo con
il quale tipicamente si sta dentro l’organizzazione produttiva, Cosí un lavoratore autonomo che si ritrovi a
lavorare all'interno di un impresa potrebbe trovarsi nella condizione di subordinazione che è il presupposto
per il riconoscimento di una serie di vantaggi di matrice inderogabile, ma senza avere i vantaggi che sono
invece dalla legge collegati al contratto di lavoro subordinato. Questo lavoratore allora potrebbe andare dal
lavoratore per richiedere anch'egli le tutele del dipendente visto che egli é comunque assoggettato ad un
potere di vigilanza, disciplinare e gerarchico, anche se non presente nel contrattto. Infatti se deve rispettare
gli orari di lavoro ed é trattato esattamente come tutti i tuoi lavoratori dipendenti, pretenderá la retribuzione
per malattia, il trattamento di fine rapporto, ecc. Il datore potrebbe benissimo negare queste garanzie non
fondandosi in un contratto, e allora il lavoratore autonomo potrebbe andare a chiedere tutela dal giudice. E
che conseguenza trae il giudice? Che il contratto, avendo una certa forma, si è con il passare del tempo
modificato nel suo contenuto, è nato come un contratto di lavoro autonomo ed è diventato un contratto di
lavoro subordinato e quindi gli riconosce tutte le tutele che competono al lavoratore dipendente.
Ora questa situazione ad un certo punto della nostra storia economica comincia a diventare patologica. Infatti
il legislatore nel 1973 normalizza l’idea per cui si potesse stare dentro l’impresa anche con forme diverse
dalla subordinazione, diventando oggetto di una previsione legale. In tale contesto il legislatore riformó il
processo del lavoro estendendo l’art. 409 cpc anche in presenza di una prestazione d'opera prevalentemente
professionale di carattere continuativo coordinato col il committente, anche se non subordinato. I
collaboratori coordinati e continuativi come dice l’art 409 sono quei soggetti che fanno un contratto, non di
lavoro subordinato, ma che (in base al punto 3 di questo art.) fa si che intrattengano rapporti di
collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente
personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto
delle modalita' di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza
autonomamente l'attivita' lavorativa. Questo comma non essendo riferibile ai lavoratori subordinato, allora si
dice che si riferisca a quelli autonomi. Peró dobbiamo chiederci che figura intenda il legislatore del 73
quando parla di collaboratore coordinato e continuativo? Egli infatti non si riferiva al lavoratore autonomo
tipico, come l’artigiano, il commerciante, il coltivatore diretto, il medico professionista, l’avvocato, il
geometra, l’ingegnere, ma si riferiva invece a figure molto minori ed atipiche, come quelli che fanno la
manutenzione ai software, che fanno attività di formazione in grandi centri formativi, che fanno piccole
consegne a domicilio, che guidano auto mezzi o autoveicoli dell’impresa per fare appunto piccoli servizi di
trasporto, che curano gli archivi o aspetti particolari dell'amministrazione, giardinieri, il piccolo contabile.
Sono tutte persone che non sono identificabili con il professionista con il suo studio o l’artigiano con la sua
bottega. Sono figure senza particolari mezzi tecnici, senza particolari conoscenze, e soprattutto che non
riescono a lavorare in forma completamente autonoma, nel senso che hanno bisogno di qualcuno che li metta
in contatto con una certa organizzazione, perché se io ad es. faccio il giardiniere all’interno di un grande
albergo che ha un resort, io devo andare lì, é lì c’è la mia attività di lavoro, gli strumenti del lavoro, che sono
offerti dall'organizzazione stessa. Non posso comunque decidere di lavorare agli orari che voglio, visto che
devo lavorare quando c’è la clientela, quando l’attività è aperta. La mia attività insomma non è un’attività
completamente libera, ma si deve coordinare con quella del mio committente e soprattutto è un’attività
continuativa, perché l’attività di manutenzione richiede una ripetizione di comportamenti che si
programmano nel tempo.
Ora normalizzata l’idea, molte imprese pensarono di aver trovato l’oro di Colombo, in quanto accadeva che
le imprese contrattassero ampiamente con lavoratori in modo coordinato e continuativo cosiché questo
svolgesse un lavoro analogo a quello del subordinato ma senza avere le sue tutele. I lavoratori cosí
cominciarono ad agire in giudizio, in particolare una volta che il rapporto si scioglieva, e se riuscivano a
dimostrare che in realtá il loro era un rapporto di dipedenza, per il datore c’erano tutte le differenze
retributive da pagare, le indennità, i risarcimenti. Era cosí diventato un affare andare in causa contro datore di
lavoro. Per ovviare a questi problemi, il legislatore ha iniziato a riconoscere ai collaboratori che non erano
subordinati, e cioè ai collaboratori coordinati e continuativi, una serie di tutele che non erano le stesse del
lavoro dipendente, ma che si avvicinassero alle stesse così che non ci fosse più una cosí radicale disparitá di
trattamento. Ora l’idea, che era un’idea buona che è stata sviluppata fino alle estreme conseguenze con il
jobs act era quella di rendere queste differenze di tutele il meno vistose possibile, così che diventasse meno
conveniente agire in giudizio da giudice per richiedere che il proprio rapporto fosse riqualificato come di
subordinazione.
Una delle differenze maggiori erano sul fronte previdenziale, perché se il lavoratore dipendente aveva una
tutela previdenziale molto forte con contributi obbligatori in larga parte a carico del datore di lavoro, il
lavoratore autonomo invece non aveva nulla di tutto ció. Cosí nel 1995 la prima cosa che si fece fu quella di
creare presso l’INPS una gestione separata, e quindi diversa sia rispetto alla gestione dei dipendenti sia a
quella degli artigiani e commercianti, che alla gestione coltivatori diretti (che sono le gestioni fondamentali).
Pertanto venne creata dentro l'INPS una cassa separata dentro l’IMPS destinata a raccogliere i contributi che
per la prima volta diventano obbligatori anche per quei collaboratori coordinati e continuativi di cui
all’articolo 409 del codice di procedura civile. Tali contributi sono posti a carico del datore per 2/3 e a carico
del lavoratore per 1/3. Quindi si impongono a carico dei datori di lavoro, in parte anche dei lavoratori in
proporzione dei due terzi e di un terzo, due terzi a carico del datore di lavoro e un terzo a carico del
lavoratore, il pagamento di una quota contributiva. In origine la quota contributiva èra veramente bassa, pari
al 10%, mentre il lavoro dipendente pagava il 33% dei contributi. Poi ci si è resi conto subito che il 10 % era
da morti di fame e che non garantiva se non pensioni di fame, e cosí questa percentuale di contributi venne
innalzata nel tempo e oggi siamo quasi equiparati al lavoro dipendente, e questo toglie quella convenienza
per il datore a reclamare la qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato.
Poi oltre a questo nel tempo sono state estese le tutele sugli infortuni sul lavoro, un minimo di tutela di
malattia anche se riconosciuta solo per il caso di ricovero ospedaliero. Poi nel 2003 sulle collaborazioni
coordinate e continuative il legislatore innesta una nuova figura che sostanzialmente le assorbe quasi tutte, e
che é rappresentata dalle collaborazioni coordinate e continuative a progetto. In questo modo il legislatore
richiede un ulteriore requisito e cioé che non si tratti di una collaborazione generica, pur cui io non posso
assumere un soggetto per fare genericamente il giardiniere, ma é necessario che la prestazione sia rapportata
alla realizzazione di un progetto specifico, cioè di un’attività che dev’essere fisicamente individuata, che
deve avere un inizio e una fine. Perció se voglio assumere un giardiniere dovró determinare la prestazione,
che potrá essere ad es. la potatura completa del giardino.
Poi aggiunge sempre nel 2003 la riforma Biaggi 276/03 del mercato legislativo, 276 del 2003 che, agli
articoli 61 e ss, dedica 10 articoli alle collaborazioni coordinate che non sono più continuative
semplicemente, ma continuative a progetto, ed in tal caso aggiunge una serie di tutele che si sforzano di
avvicinare il collaboratore coordinato e continuativo a progetto al lavoratore dipendente. Non ci riesce peró
in maniera completa e quindi continua ad essere conveniente utilizzare i collaboratori coordinati e
continuativi a progetto, dato che si abusava di queste figure, e cioé si faceva un uso improprio, così che nel
2012 con la riforma Fornero si cerca di ridurre il consumo dei collaboratori coordinati e continuativi, e cosí
viene introdotta una presunzione di collaborazione a progetto, che poi divenne una presunzione di
subordinazione, a beneficio delle cosiddette partite IVA.
L'art. 69-bis del d.lgs. 276/03 (riforma Biagi), come modificato dalla riforma Fornero (l.92/2012) ha stabilito
una nuova disciplina per le "prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini
dell'IVA" (imposta sul valore aggiunto sono considerate). Si tratta dunque di soggetti generalmente i
professionisti ed lavoratori autonomi e quindi coloro che svolgono un lavoro completamente autonomo come
gli avvocati, mentre il collaboratore coordinato e continuativo non ha necessità di avere una partita IVA e
infatti viene pagato come un lavoratore dipendente con busta paga. Il professionista rilascia infatti una fattura
quando ottiene il pagamento e quindi è un soggetto tenuto a riscuotere l'IVA e poi a versarla allo Stato. La
nuova discplina si applica in tal mmodo in relazione al lavoro autonomo non coordinato. Questa riforma in
modo da combattere l'abuso delle collaborazioni rese da titolari di partite iva, fonda una presunzione che puó
comportare la trasformazione del rapporto di lavoro autonomo in una collaborazione coordinata e
continuativa a progetto, o addirittura se l'attivitá non é riconducibile ad un progetto specifico, in un contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Si tratta comunque di una presunzione relativa, dato che in
base alla stessa norma questa non si applica qualora sia fornita prova contraria da parte del committente.
La presunzione opera qualora vi siano almeno due dei requisiti per cui:
a) la collaborazione con lo stesso committente deve avere una durata complessiva superiore a otto mesi
annui per due anni consecutivi.
b) il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al
medesimo centro d'imputazione di interessi, deve costituire più dell'80% dei corrispettivi annui
complessivamente percepiti dal collaboratore nell'arco di due anni solari consecutivi;
c) il collaboratore deve disporre di una postazione fissa di lavoro in una delle sedi del committente.
E allora in presenza di questi elementi, il lavoratore deve aver diritto ad ottenere tutti i benefici propri del
collaboratore coordinato e continuativo, oppure del lavoratore subordinato se il progetto manca.
Uno dei decreti attuativi del cosiddetto jobs act, all'art. 2 del decreto numero 81, è stato molto più radicale,
visto che ha affermato che a partire dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro
subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro
esclusivamente personali, continuative e le cui modalita' di esecuzione sono organizzate dal
committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.Tutta la disciplina del lavoro a progetto
viene abrogata e quindi si porta sostanzialmente a compimento quel processo di cui ci siamo detti. Cioè,
sostanzialmente, si opera una equiparazione verso l'alto di molte di quelle figure che un tempo era
contrattualizzate in forma della collaborazione coordinata e continuativa, equiparandole sostanzialmente al
lavoro dipendente.
Oltre ai lavoratori coordinati e continuativi altri soggetti a cui vengono negate queste tutele sono
rappresentati dai lavorati irregolari CD. IN NERO, che sono dei veri lavoratori subordinati, ma non
figurano in nessuna delle denunce che il datore di lavoro è obbligato a fare agli enti di previdenza, e dunque
spesso non riceve dal datore di lavoro tutti i benefici che gli spetterebbero inderogabilmente in quanto
lavoratore dipendente. Pertanto anche questo lavoratore può avere interesse a convenire il datore di lavoro
davanti ad un giudice per reclamare l'applicazione delle tutele che gli spettano in quanto lavoratore
dipendente, ma per farlo deve riuscire a dar prova della subordinazione.

Lezione 3
Una volta entrato in vigore il Jobs Act, ci si è chiesti: ma in che rapporto sta questa disposizione (art 2) con
l'art. 2094 c.c, che definisce il lavoro subordinato e che dice che il lavoratore subordinato è colui che
collabora nell'impresa, svolgendo il proprio lavoro rigorosamente personale? Infatti le collaborazioni
coordinate e continuative dell'art. 409 cpc sono collaborazioni di carattere prevalentemente, e non
esclusivamente personale. Perció art.2 del d.lgs. 81/2015, prende una fetta delle collaborazioni coordinate e
continuative, e cioè quelle svolte in forma rigorosamente personale, e stabilisce che quando la prestazione di
collaborazione svolta in forma personale è etero-organizzata (cioè organizzata dal datore di lavoro anche con
i tempi e i modi di lavoro) si applica la disciplina del lavoro subordinato.
In tal caso secondo una prima dottrina dobbiamo dire che si tratta di figure che non sono di lavoro
dipendente, ma alle quali si applica la disciplina del lavoro dipendente. Ma c'é anche un'area rappresentata
dalle collaborazioni coordinate e continuative non rigorosamente personali e soprattutto non organizzate dal
datore di lavoro in relazione ai luoghi e ai tempi di lavoro, a cui non si applica l'art. 2. Un'altra corrente
invece afferma che l'art. 2 costituisca una specificazione (o aggiornamento) dell'art. 2094, e quindi si
riferirebbe proprio a lavoratori subordinati.
Oggi, in quanto non piú conveniente, un datore di lavoro non ha piú interesse a fare una collaborazione
coordinata e continuativa quando sa che se questa è organizzata da lui gli deve applicare comunque lo statuto
del lavoratore dipendente. Allo stesso modo il lavoratore non subordinato che lavora in questo modo non ha
nessun interesse a chiamare in causa il datore di lavoro, perché ha già diritto ad avere la protezione uguale
identica a quella del lavoratore dipendente.
Il comma 2 dell'art. afferma inoltre che la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con
riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni
sindacali comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche
riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed
organizzative del relativo settore;
b) alle collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le quali e' necessaria l'iscrizione in
appositi albi professionali;
c) alle attivita' prestate nell'esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e
controllo delle societa' e dai partecipanti a collegi e commissioni;
d) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e societa' sportive dilettantistiche
affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate agli enti di promozione sportiva
riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n.
289.
Cosa sta ipottizando il legislatore? Sta ipotizzando che ci siano delle collaborazioni che abbiano tutte le
caratteristiche del comma 1, tuttavia a queste collaborazioni non si applica tutto il diritto del lavoro
subordinato. E questa estensione non ci sarebbe in quanto il contratto collettivo preveda delle specifiche
discipline in ragione delle particolarità della organizzazione produttiva. In questo caso qui dovremmo avere
un contratto collettivo che è autorizzato dalla legge a fare una cosa che normalmente non potrebbe, ossia
sottrarre una parte di prestazioni di lavoro che sono subordinate allo statuto protettivo del lavoro dipendente.
Quindi si pongono dei problemi anche se accettiamo la teoria per cui l'art. 2 si riferirebbe a lavoratori
subordinati. E allora é necessario che lo stesso contratto collettivo preveda specifiche tutele. Il legislatore
infatti non puó semplicemente dire che tali lavoratori esclusi non siano subordinati, quando in realtá lo sono
perché glielo impedisce la Costituzione, sia perché tratterebbe in forma dispari situazioni uguali, sia
soprattutto perché starebbe togliendo il potere al giudice di dire quello che è nella realtà, cioè un rapporti di
lavoro subordinato, ed in tal caso si violerebbe l'art. 24 che dice che la tutela dei diritti si svolge davanti al
giudice, che ha anche il potere di qualificare le diverse situazioni giuridiche. Ora se noi ci prendiamo questa
disposizione la quale dice che le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi possono non vedersi
applicata la disciplina del lavoro dipendente, abbiamo un contratto collettivo che sta eccedendo i propri
limiti, facendo una cosa che neanche la legge potrebbe fare. Ma siccome la legge lo autorizza a farlo, noi ci
dobbiamo chiedere se la legge sia costituzionale o meno.
Allora se il comma 1 è interno alla subordinazione, di conseguenza nel comma 2 il contratto collettivo non
sarebbe abilitato a sottrarre una parte di rapporto di lavoro subordinato dall'applicazione della relativa
disciplina, e allora la norma di legge che lo abilita a farlo dovrebbe essere dichiarata come norma
incostizionale. Se invece il comma 1 si riferisce non alla subordinazione, ma ad una parte delle
collaborazioni coordinate e continuative, allora quel comma 2 lo si potrebbe salvare, perché non starebbe
vietando al giudice di qualificare le prestazioni come di lavoro subordinato, ma starebbe dicendo che una
parte delle collaborazioni che non sono subordinate sono sottratte all'equiparazione e siccome l'equiparazione
è fatta dalla legge, la legge può anche disporre che una parte sia sottratta ma a condizione che vi siano dei
requisiti di ragionevolezza che qua la norma specifica dicendo che devono essere delle esclusioni dovute alle
particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore.

Lezione 4 (11/04718)
In relazione al numero dei lavoratori in Italia, la maggioranza é formata da lavoratori subordinati, che sono
17 milioni, mentre quelli autonomi si aggirano intorno ai 5 milioni. Il diritto del lavoro, di matrice legale o
sotto forma di contrattazione collettiva, si applica solo ai lavoratori subordinati. Il diritto del lavoro cosí
continua a non occuparsi di questa quota di 5 milioni di lavoratori autonomi, che non sono degli
imprenditori, e che sono costituite in larghissima parte da: artigiani, commercianti e in parte minore
coltivatori diretti. Oltre questi 3 gradi di categorie c'era una quota minore di lavoratori non subordinati dei
quali il diritto del lavoro è stato costretto a occuparsi, questi lavoratori sono perlopiù collaboratori coordinati
continuativi, che per un certo tratto sono stati collaboratori coordinati a progetto, compresi fra 1 milione/2
milioni di persone. Questi lavoratori, che appartengono a categorie variegate, esprimono bisogni di tutela che
sono molto simili a quelli dei lavoratori dipendenti. Sono dei soggetti sostanzialmente deboli sul mercato,
ossia vivono con redditi molto bassi e in una condizione di permanente precarietà legata al fatto che hanno
rapporti, prevalentemente, con committenti determinati che sono chiaramente delle imprese. La condizione
di debolezza di questi soggetti è legata al fatto che, contrariamente agli altri lavoratori autonomi (artigiani e
commercianti e non parliamo dei liberi professionisti) che hanno rapporti multipli sul mercato – che questo
costituisce la sicurezza di questi soggetti – cosicché se si perde un cliente si ha la facoltà di acquisirne altri
di clienti, i collaboratori coordinati e continuativi hanno, generalmente, dei committenti unici, o dei
committenti in numero molto limitato, da cui dipendono.

Attività minori: Oltre a queste categorie, vi erano anche delle attività che, per lunghissimo tempo, e in
modo costante nella prassi delle relazioni sociali, erano confinate nell'area del lavoro nero, come:
- materia di insegnamento complementare, che sarebbero le lezioni private sostanzialmente, e nessuno ha
mai assunto regolarmente il professore per farsi dare ripetizioni; piccolo giardinaggio nelle abitazioni;
l'attivita delle domestiche; i servizi di babysitting.
Per queste attività la Riforma Biagi 276/2003 aveva coniato una particolare forma contrattuale che si
definiva lavoro accessorio, dove i lavoratori che non si specificava se fossero subordinati, autonomi o
appartenenti ad una categoria sui generis, ricevevano per la prima volta una tutela di natura previdenziale.
Questi lavoratori avevano diritto a una tutela previdenziale che era quella dei contributi con gestione
separata, ma dovevano essere remunerati non con pagamento in contanti, bensí mediante la consegna di
buoni o voucher. L'accordo funzionava sostanzialmente in questo modo: si andava da tabaccaio, si
comprava un certo numero di buoni che avevano un valore nominale di 10 euro ciascuno e poi anziché
pagare il lavoratore con soldi lo si pagava con i buoni a seconda del numero di ore che si aveva lavorato; il
lavoratore, ritornava dallo stesso tabaccaio, dove il committente aveva comprato il buono, gli riconsegnava il
buono e il tabaccaio gli pagava non l'intero valore del buono, ma 8 euro, mentre della parte trattenuta una
percentuale minore la tratteneva il tabaccaio, mentre un altra percentuale la versava una parte all'INPS e una
parte all'INAIL. Le percentuali erano il 13% all'INPS il 7% all'INAIL e l'1% il tabaccaio.
Quando entra in vigore il Jobs Act nel 2015, dl 81 del 2015, la forma del contratto viene confermata. Nel
2016 viene approvato il referendum con la proposta di abrogazione di questa figura, perché si era fatto un
certo abuso, alla fine tutti venivano pagati con questi voucher, c'era stata una statistica che dava numeri
impressionanti di utilizzazione di questi voucher, non coincidenti con l'estensione del fenomeno, perché ci si
immaginava che nella realtà sarebbero stati utilizzati marginalmente. Il problema infatti é che venivano
utilizzati non solo per prestazioni di carattere accessorio, ma anche per remunerare lavoratori che invece
sarebbero dovuti essere assunti regolarmente. Per scongiurare il referendum, la normativa fu abrogata e
sostituita da una nuova normativa che perde il nome di lavoro accessorio e si ritorna a una forma di tutela
attuativa che è quella del lavoro occasionale.
La nuova disciplina che è del 2017 prevede due ipotesi: 1) la prima è quella dell'utilizzazione di queste forme
di lavoro minore da parte di persone fisiche che operano non in qualità di imprenditore e nemmeno in qualità
di professionisti che sono per esempio capi famiglia o delle persone che hanno bisogno sostanzialmente di
collaborazione, ossia di qualcuno che ad es. lo aiuti a portare su dei mobili (per intenderci) o a fare un
piccolo trasloco. Se la persona opera in questo modo, la modalità di pagamento di questa prestazione avviene
per il tramite del cosiddetto blocchetto famiglia, che è un blocchetto di voucher di lavoro nominale di 10 ore
ciascuno, con una funzione molto simile ai vecchi voucher, e dove un'ora di lavoro vale 10 euro lordi, di cui
8 euro netti vanno al lavoratore, come minimo della prestazione di un ora. Poi se il soggetto prende di piú, ad
es. 20 euro all'ora, gli dovranno essere dati due voucer. Il blocchetto famiglia si acquista dalla concessionaria
autorizzata e gestita dall'INPS, ed é formato da buoni numerati volti ad evitare frodi. Dato che si tratta di
prestazioni richieste da una persona fisica che le utilizza, l'utilizzazione è limitata alle categorie classiche
dell'insegnamento complementare, lavori di giardinaggio, assistenza familiare dei figli, attività di badante.
Dei due euro di trattenuta una parte va all'INPS, una quota minore va all'INAIL e una quota ancora più
piccola va al concessionario per la gestione del servizio. Vi son dei limiti all'uso di questi buoni, e cioé:
- che ogni lavoratore, impegnato in questa attività, non riceva compensi superiori a 5.000 euro annui, anche
se provenienti da piú committenti,
- che ogni committente non dia allo stesso lavoratore un compenso che sia superiore a 2.500 euro;
- che ogni committente non abbia collaboratori di tipo occasionale che determinano una spesa annua da parte
sua superiore a 5.000 euro, perché in tal caso opera la conversione in contratto di lavoro subordinato.
2) Se ad avvalersi del lavoro occasionale, non coordinato e continuativo, è o un'impresa o professionista,
ente pubblico o un'associazione, allora il pagamento non può avvenire con il blocchetto famiglia ma con
apposito contratto che ha una forma semplificata di contratto con prestazione occasionale e sono assoggettati
sostanzialmente agli stessi limiti. E con questo il discorso sulla subordinazione lo abbiamo completato.

Ora dobbiamo capire in che modo opera la qualificazione del rapporto, perció torniamo sul terreno della
fattispecie dell'art.2094 che rappresenta la chiave di accesso alle tutele del lavoratore dipendente, ed infatti
ogni persona che intende reclamare il diritto all'applicazione dello statuto del lavoro collettivo di lavoro
dipendente, essendo in questo negato, se agisce in giudizio deve dimostrare che possiede tutti i requisiti
previsti dall'art.2094, e l'elemento fondamentale, nella fattispecie dell'art.2094 del c.p.c è l'etero-direzione,
ossia l'assoggettamento del lavoratore a poteri direttivi da parte del datore di lavoro. Per dimostrarlo la
giurisprudenza trova una serie di indici sintomatici della subordinazione, come:
- l'osservanza di fatto da parte del lavoratore di un certo orario di lavoro, il cui inizio e conclusione
dell'orario é sempre alla stessa ora, identica a quella di chi lavora come dipendente, o che il lavoratore debba
giustificare le proprie assenze;
- la ricorrenza di modalità di pagamento fisse del compenso;
- la sussistenza di ordini e direttive sul modo in cui la prestazione deve essere eseguita, impartiti dal datore di
lavoro, di cui normalmente la prova avviene con lettere circolari o di avvisi che il datore di lavoro fa a tutto il
personale, inserendo anche il collaboratore coordinato e continuativo, stabilendo i turni di servizio e che
comprendono anche i lavoratori in forma coordinata e continuativa;
- la volontà cartolare, ossia quello che le parti si sono dette nello stipulare il contratto, cioè il suo contenuto:
Normalmente quando qualcuno viene assunto come lavoratore dipendente, il contratto è molto scarno,
quando si fa, ha la forma di una proposta unilaterale fatta dal datore di lavoro nella cosiddetta lettera di
assunzione che contiene pochissime indicazioni. Viceversa quando il contratto è in forma coordinata e
continuativa, quando il contratto è un contratto autonomo normalmente le parti se lo fanno per iscritto,
sebbene non sia obbligatorio farlo per iscritto e si dilungano molto, usano grandi cautele nel precisare che la
prestazione di lavoro è a carattere autonomo è esclusa ogni forma di subordinazione, è esclusa ogni forma di
vincolo di orario, presenza, giustificazione dell'assenza. Queste dichiarazioni, contenute nella scheda
contrattuale sul quale il rapporto si forma non hanno peró valore hanno ai fini della qualificazione del
rapporto perché iIl potere di qualificare gli atti non è delle parti, che possono si esprimere le opinioni che
vogliono, ma quello che conta è ciò che ne pensa il giudice, che qualifica il contratto andando a vedere qual è
la vera natura del rapporto che le parti stesse hanno instaurato tra loro.
Ed evidentemente se il giudice ritiene che il programma contrattuale ha avuto una esecuzione difforme
rispetto alla volontà espressa nel contratto medesimo, fa prevalere il tipo negoziale che le parti hanno
effettivamente dato vita. La volontà cartolare ha comunque un VALORE SUSSIDIARIO, perché la
giurisprudenza la recupera, nei casi che rimangano dubbi, il caso abbastanza riscontrabile nella prassi attuale
dei cosiddetti Pony Express.
I Pony Express coloro che muniti di motorino, bicicletta, o anche a piedi, fanno piccole consegne per conto
di grosse società di spedizione. Non erano particolarmente diffusi in passato perché tutte le consegne erano
affidate a Poste Italiane. Adesso Poste Italiane ha lasciato spezio ad altre imprese, e vi sono anche grandi
imprese nel mercato come SDA, Bartolini che costituiscono realtà economiche importantissime, perché
adesso viaggiamo ad una velocità che impone ritmi molto rapidi. Anche Poste Italiane ha cercato di
adeguarsi, fornendo servizi in qualche modo analoghi a questi operatori. Comunque in origine quando questi
servizi hanno cominciato a sorgere, i datori affidavano le consegne non ai dipendenti, ma ad un numero
molto ampio di persone, e molto più ampio rispetto alle necessità. Erano dei collaboratori autonomi
coordinati continuativi, ma che al tempo poco importava, perché la tutela dei Co.Co.Co era nulla dal punto di
vista legislativo se non per la parte riguardante l'applicazione delle norme sul processo del lavoro e delle
denunce e transazione. Questi lavoratori erano obbligati a stare a disposizione, dotati di una ricetrasmittente e
avevano fatto una forma contrattuale molto ingegnosa perché il contratto escludeva che loro avessero
obbligo di risposta. In teoria dovrebbe trattarsi di un modo folle di organizzare la propria attività
imprenditoriale, perché se devo fare una consegna urgente e chiamo una persona che non è obbligata a
rispondere, se egli non risponde e la consegna non la faccio, colui che non riceve la prestazione entro i tempi
potrá chiedere il risarcimento del danno da ritardo. E nonostante l'assenza dell'obbligo di risposta, questi
imprenditori garantivano la consegna del pacco in tempi molto rapidi. Ma questo modo di organizzare
l'impresa riusciva a funzionare correttamente in quanto gli imprenditori disponevano di un numero così
ampio di persone che si erano impegnate a effettuare questo servizio che qualcuno non rispondeva c'era
sempre qualcun altro che avrebbe dato risposta positiva, ed in tal caso egli si prendeva un compenso che non
era una retribuzione, ma era commisurato al valore della consegna senza nessun'altra garanzia.
Il caso divenne celebre perché la Corte D'Appello, in seguito alla pronuncia della pretura di Milano, disse
che queste figure integravano la fattispecie del lavoro subordinato. Il fatto é che si tratta di situazioni molto
dubbie, dato che mancavano un vincolo di orario, un vincolo di risposta alla chiamata ed un dovere di
obbedienza. Erano casi dubbi ancora perché non si riusciva a dimostrare che la prestazione di lavoro
autonomo si era svolta in maniera subordinata, e la giurisprudenza quando permane un DUBBIO
normalmente fa prevalere la VOLONTÄ CARTOLARE, ossia la volonta delle parti espressa nel contratto.

Vicenda costitutiva del contratto Risolti i problemi di qualificazione ci addentriamo sulle vicende del
contratto di lavoro subordinato. A partire dalla vicenda costitutiva.
Punto primo, la tutela del lavoratore dipendente non si spinge fino a richiedere che il contratto sia stipulato in
una forma particolare. Sebbene sarebbe stato opportuno che nel diritto del lavoro il contratto di lavoro
subordinato dovesse essere fatto in forma scritta a pena di nullità, in realtà invece il legislatore ha optato per
un contratto a forma completamente libera, con alcune eccezioni, rappresentate: dal contratto di
arruolamento marittimo, che secondo l'art.388 del codice della navigazione, deve essere fatto con atto del
notaio, il contratto di arruolamento dell'agente dell'Aria che deve essere fatto in forma scritta e poi una serie
di contratti atipici, il contratto di lavoro a tempo determinato deve essere stipulato in forma scritta, il
contratto di formazione lavoro deve essere fatto in forma scritta, il contratto di lavoro part time prevede la
forma scritta, il contratto di somministrazione di lavoro deve essere fatto in forma scritta.
Che il contratto non si debba fare in forma scritta per gli altri casi non significa che non esistano degli
OBBLIGHI DI DOCUMENTAZIONE dell'accordo. Il contratto ci deve essere e se non è fatto in forma
scritta, è fatto in forma orale, oppure per comportamentii concludenti, che succede abbastanza regolarmente,
che il lavoratore inizi a lavorare e il datore di lavoro inizi a retribuirlo, prima ancora della stipula del
contratto. In qualsiasi modo il contratto venga stipulato per il datore di lavoro esistono degli obblighi di
documentazione, perché a partire dal 1997 D.L. 152/97 ha stabilito che il datore di lavoro entro 5 giorni
dall'assunzione, debba comunicare per iscritto al lavoratore una serie di dati inerenti al contratto che ha
stipulato, cioè se applico il contratto collettivo quale contratto collettivo applico, l'orario di lavoro, quando
c'era il libro paga matricola il numero di iscrizione della propria matricola, l'indicazione specifica per esteso
delle parti, dell'imprenditore e del lavoratore. Ora, questo non è il contratto, ma è la comunicazione
unilaterale che il datore di lavoro deve fare al lavoratore e la cui mancanza è sanzionata sul piano
amministrativo dato che sará soggetto a sanzione amministrativa onerosa.
Poi entro 24h dall'assunzione, il datore di lavoro deve dare comunicazione agli enti di previdenza, oggi basta
la comunicazione a uno solo degli enti o all'Inps o all'Inail, e anche questo obbligo è pesantemente
sanzionato, e la sanzione cresce sulla base dei giorni di ritardo di inadempimento. A partire dal 2008 il datore
di lavoro deve iscrivere tutti i dati inerenti la prestazione di lavoro di quel lavoratore cioè data di assunzione,
retribuzione erogata, data di sospensione del lavoro, in un documento informatico detto “Libro Unico del
Lavoro” (mentre in passato c'erano dei registri cartacei che si chiamavano Libri paga e matricole, in cui il
datore di lavoro annotava con la penna la data di iscrizione di assunzione, il nome del lavoratore, non
alterabili le date della acquisizione della manodopera). Oggi il Libro del Lavoro serve al Ministero del
Lavoro per effettuare le ispezioni e le verifiche sulla regolarità dell'assunzione del lavoratore, soprattutto
sulla regolarità della posizione previdenziale degli stessi. É un apparato di garanzia che si manifesta
dall'inizio della prestazione.
Ora, il rapporto di lavoro nasce da contratto, e tuttavia il contratto di lavoro subordinato é un contratto
particolare. Infatti se normalmente in un contratto sono presenti due momenti - e cioé da una parte
contrattano sulla possibilità di costituire o meno il rapporto, ossia di creare il vincolo obbligando una parte
nei confronti dell'altra; mentre dall'altra contrattano su come il rapporto dovrá essere regolato - nel contratto
di lavoro subordinato invece é presente solo il momento costitutivo ma non quello regolamentativo. Il
momento della regolamentazione quasi non c'é in quanto nella disciplina del contratto di lavoro opera un
larghissimo apparato di norme inderogabili provenienti o dalla legge o dalla contrattazione collettiviva. Per
cui le parti normalmente, a meno che non intendano pattuire in meglio rispetto a quello che dice la legge e il
contratto collettivo, non provvedono a dettare loro il regolamento contrattuale.

Invalidità del contratto di lavoro: la disciplina dell'invalidità del contratto di lavoro consta di una
normativa speciale data dall'art.2126, fatta di un gioco di regole eccezioni. L'art.2126 esordisce con una
formula derogatoria rispetto alle regole comuni dell'invalidità, perché stabilisce che la nullità o
l'annullamento del contratto di lavoro non producono effetto per il periodo durante il quale il contratto ha
avuto esecuzione. Nullità e dell'annullabilità invece di regola privano il contratto medesimo di effetti, quindi
se applicassimo le regole in materie di nullità o annullabilità nel contratto di lavoro subordinato quello che
dovremmo ottenere è che il lavoratore dovrebbe restituire la retribuzione ricevuta,ma allora vi sarebbe un
ingiustificato arricchimento del datore, e quindi il lavoratore potrebbe rivalersi sul datore per il tempo
effettivamente lavorato. Con il risultato che ad es. se io ho, avessi lavorato un mese, in forza di un contratto
nullo e se in questo mese fossi stato assente 20 giorni per malattia, io mi potrei rivalere sul datore di lavoro
per ingiustificato arricchimento, solo dei giorni in cui ho lavorato effettivamente.
Ma dato che l'art.2126 stabilisce che la nullità e l'annullamento del contratto non producono effetto per il
periodo durante il quale il contratto ha avuto esecuzione, se questo viene annullato o dichiarato nullo, il
lavoratore continua ad avere diritto alla retribuzione. Peró cosa succede in tutti i contratti in cui è richiesta
una forma particolare ab substantiam, la cui mancanza causa nullità del contratto? Il lavoratore che ha
stipulato un contratto viziato nella forma non perde diritto alla retribuzione, pur non trattandosi di una
sanatorio visto che il contratto resta nullo o annullabile, ed é solo il lavoratore che matura il diritto alla
retribuzione. Tuttavia l'annullamento o dichiarazione di nullitá fa si che non ci siano più vincoli per il futuro,
cioè quel datore di lavoro non è più obbligato a mantenere il servizio di lavoratore e il rapporto cessa non
con un atto di licenziamento ma perché è venuto meno il vincolo, quindi il lavoratore non ha diritto al
licenziamento e il datore di lavoro non ha necessità a licenziare il lavoratore. Questa è la regola che è stata
posta, che è un'eccezione rispetto alla regola generale.
Poi lo stesso art.2126 introduce un'eccezione all'eccezione, che è un ritorno alla regola sostanzialmente,
perché dice che salvo che la nullità non derivi da illiceità dell'oggetto o della causa. Infatti se deriva da una
di queste due cause l'annullamento e la nullitá producono i loro effetti normali, e cioé privano il contratto di
tutti i suoi effetti ed in tal caso al lavoratore non rimangono altri strumenti se non la clausola generale di
ingiustificato arricchimento, e pertanto egli deve restituire la retribuzione. L'esempio piú classico di nullitá
del contratto per illiceità dell'oggetto e della causa è dato dal contratto di meretrice, dato che se io faccio un
contratto per un lavoratore affinché si prostituisca questo ha chiaramente una causa illecita, idem se io
assumo una serie di lavoratori per fare rapine, il cui oggetto é completamente. In questi casi non avrebbe
azione di ingiustificato arricchimento perché secondo il broccardo latino: “In pari causa turpitudinis melior
est condicio possidentis”, e cioé in una situazione di eguale illiceitá (cd turpitudine) é migliore la condizione
di chi possiede. La formula considera che chi ha ricevuto un pagamento e non é tenuto a restituiro si trova in
una situazione favorevole rispetto a chi lo ha effettuato, il quale in tal caso per l'ordinamento giuridico non
puó invocare la turpitudine della sua azione per ottenere la restituzione. Perció se io faccio un contratto di
lavoro illecito e non ho pagato, la mia controparte non ha azione per richiedere il corrispettivo, mentre se ho
pagato non posso richiedere la restituzione. Un altro caso tipico di lavoro con causa illecita, era il contratto di
lavoro fatto con promessa di adozione, che faceva si che io lavoravo per te e tu in cambio mi promettevi che
mi avresti adottato.
L'art.2126 precisa ulteriormente che se il lavoro é stato prestato con violazione di norme poste a protezione
del lavoratore, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione (e quindi non all'arricchimento ingiustificato).
Quindi se anche il contratto ha causa o oggetto illecito, ma questo deriva dalla violazione di norme poste a
protezione del lavoratore, allora quel lavoratore ha ugualmente diritto alla retribuzione

Lezione 5 (12/04/18)
Una sentenza del tribunale di Milano che si è pronunciata sul ricorso di 6 fattorini chiamati ryders di una
piattaforma digitale che si sostanzia in una serie di servizi di mediazione che consegnano pasti a domicilio.
La vicenda somiglia a quella dei cd pony express, il cui problema consisteva nella difficoltá se qualificarlo o
meno come lavoro subordinato e applicare la relativa disciplina tipica della subordinazione. Vi erano state
delle pronunce contrastati in primo grado e poi in appello. Questa vicenda gli somiglia abbastanza. È
organizzato in questo modo: i fattorini si rendono disponibili per l’azienda cioè la piattaforma digitale e se
chiamati si recano nel ristorante da cui il cliente prenota e si occupano della consegna a domicilio, venendo
pagati dalla piattaforma. La retribuzione arriva a 4 euro a consegna o 5 euro all’ora. Ieri abbiamo detto che il
valore di un’ora di lavoro era di 10 euro lordi. In Italia il costo lavorativo per un’ora è di 26 euro, tra i più
bassi in Europa. Qui abbiamo compensi veramente bassissimi, e soprattutto il problema dal punto di vista
della tutela dei lavoratori è il fatto che questi venissero obbligati a sottostare a un servizio di
geolocalizzazione, rispetto al quale l'azienda si era giustificata semplicemente affermando che il sistema
operava in maniera istantanea con dati non memorizzabili, e quindi utile semplicemente al fine di consentire
al cliente di conoscere lo stato del proprio ordine, proprio come avviene nei trasporti di merci tramite
corriere o posta e all’azienda per potersi tutelare in caso di eventuali lamentele di inadempimento della
consegna o ritardi della stessa. Il tribunale di Milano ha dichiarato questi rapporti di tipo subordinato.
La differenza rispetto al caso dei pony express degli anni 80 e della differenza anche rispetto agli attuali
fattorini a domicilio (quelli che consegnano la pizza per intenderci) è che non si capisce quale sia il datore di
lavoro. Questa entità come FOODORA O UBER che applicano servizi privati di trasporto sono i loro datori
di lavoro? Oppure può essere il cliente che chiede il pasto o il ristorante che eroga il pasto? Fino ad ora i
giudici italiani hanno detto che il datore di lavoro è la piattaforma sebbene sia un datore di lavoro
‘dematerializzato’. L’art 2094 ha creato delle problematiche nella interpretazione della applicazione della
fattispecie perché è stato concepito in un’epoca in cui l’organizzazione del lavoro era diversa basata sulla
manifattura. Queste morfologie non sono le stesse che il legislatore del ’92 dovette valutare.

Torniamo ai problemi concreti sulla stipulazione del contratto di lavoro, ed oggi parliamo dell’età
all’accesso al lavoro, cioè la capacità giuridica e d’agire del lavoratore.
In base al diritto privato la capacità giuridica (art 1 cc) è l'idoneità del soggetto ad essere titolare di diritti e
obblighi. Essa si acquista al momento della nascita (articolo numero 1 del codice civile). Ogni persona fisica
quindi possiede tale capacità per il solo fatto di esistere, a prescindere dalla durata della sua esistenza. Il
principio secondo cui con la nascita si acquista la capacità giuridica ha però delle eccezioni. Infatti anche il
concepito, ossia l'essere umano di cui si attende la nascita, è titolare di diritti. Il nostro codice civile prevede
la possibilità di indicare quest'ultimo in un testamento, quale erede o beneficiario di una donazione.
La capacità di agire (art 2 cc) invece è l'idoneità del soggetto a esercitare i diritti e ad assumere gli
obblighi di cui è titolare. La capacità di agire si acquista con il compimento del 18° anno di età ma, a
differenza della capacità giuridica, può subire delle limitazioni.
Ma esistono anche singole eccezioni, alla discipllina di questi articoli, ed una delle quali riguarda i rapporti
di lavoro stipulabili dai giovani. A partire dall’età di 16 anni (fino ad allora i bambini e gli adolescenti hanno
l’obbligo di frequenza scolastica, mentre fino a 18 anni hanno l’obbligo di formazione) i giovani possono
stipulare contratti di lavoro efficaci con il consenso dei rappresentanti legali. Vi sono peró a loro volta due
eccezioni, visto che: gli apprendisti che possono iniziare già a 15 anni un rapporto di lavoro; vi sono anche
particolari lavori svolti nell’ambito dell’arte, spettacolo, pubblicità in cui si può anticipare l’età, é logico
infatti che un ragazzo di 16 anni non sia idoneo a fare una pubblicità dei pannolini. Questa eccezione della
normativa generale della capacità di agire si chiama capacità giuridica speciale. Tutti gli accordi stipulati da
giovani in riferimento ai loro rapporti di lavoro sono validi e vanno quindi esaminati a priori con attenzione.

Al contratto di lavoro subordinato può accedere un patto di prova che è un elemento accessorio che fa si che
le parti si accordino in modo che l'assunzione non sia definitiva sin da principio, permettendogli cosí di
sperimentare che vi sia un reciproco gradimento. Il datore di lavoro puó pertanto valutare se la prestazione
lavorativa è di suo gradimento e se il lavoratore soddisfa tutti i requisiti da lui richiesti per la sua
organizzazione produttiva. Entrambe le parti possono durante il periodo di prova sciogliersi dal rapporto di
lavoro senza dare motivazione, preavviso o sottostare a nessuna disciplina protettiva.
Sono previste però una serie di cautele, ossia: 1. la forma ab substantiam per iscritto altrimenti il patto si da
per non apposto. 2. la sottoscrizione del patto prima dell'assunzione, in quanto se viene fatto in corso d'opera
é nulla. La legge prevede che le parti possano accordarsi circa il periodo minimo della durata della prova,
mentre non su quello massimo. Vengono previsti anche nei contratti con persone disabili, nei contratti di
apprendistato e nei contratti di lavoro a termine. Il periodo di prova più è lungo e più danneggia il lavoratore
perché lo pone in una situazione di incertezza e precarietà.
Questo è terreno sia delle parti ma anche dei contratti collettivi, che prevedono periodi differenziati per le
diverse professionalità; tendenzialmente più è alto il livello di inquadramento del lavoratore più è lungo il
periodo di prova. Ben si capisce il perché: se io ho in prova un lavoratore che deve fare attività di
manovalanza sono capace subito io datore di lavoro di verificare o meno se il lavoratore in prova è capace di
eseguire quella mansione richiesta. Viceversa se devo assumere un lavoratore a cui richiedo particolari
mansioni tecniche ho bisogno di tempo per vederlo all’opera. Si va dagli 8 giorni per le qualificazioni più
basse e sino ai 6 mesi per le qualifiche dirigenziali. Per evitare che il lavoratore si esponga al pericolo di
essere licenziato la legge stabilisce comunque che decorsi 6 mesi si applica la tutela prevista contro i
licenziamenti. Il lavoratore di fronte al licenziamento durante il periodo di prova ha pochissime forme di
tutela a meno che non dimostrari che sia dovuto a motivo illecito, perché in tal caso si considera illegittimo
(ad es. estorsione, appartenenza di genere, politica, religiosa, sindacale) ed il lavoratore puó ottenere una
declaratoria di nullità del licenziamento. Un altra ipotesi classica é quella in cui il periodo di prova non sia
stato sufficiente a verificare le competenze del lavoratore non permettendogli il superamento della stessa.

Per quanto riguarda invece il tema dell’oggetto del contratto di lavoro subordinato, secondo l'art. 2094 é
rappresentato della collaborazione, ma dobbiamo chiarire di cosa si intende. Al riguardo c'é da dire che il
lavoratore subordinato non viene assunto per svolgere un’attività definita una volta per tutte bensì per una
serie di compiti detti mansioni, che corrispondono, dal punto di vista dell’organizzazione dell’impresa, ad
una posizione di lavoro esistente nella stessa e funzionale allo svolgimento dei bisogni dell’impresa.
Il principio della suddivisone del lavoro è nato per evitare diseconomie all'interno del'impresa, e fa si che
diversi lavoratori svolgano diverse funzioni limitate, a seconda della loro posizione all'interno della stessa,
per cui avremo: un fattorino, un impiegato amministrativo, un autista, un venditore, etc.
Queste funzioni vengono individuate e separate in base ad una scienza organizzativa, onde evitare che i
lavoratori svolgano poche attività, perché sarebbe ad es. controproduttivo che persona che in un bar faccia
solo il caffè, e che i compiti siano troppi diversi tra loro, perché questo comprometterebbe la buona riuscita
degli stessi. Perció le mansioni devono essere omogenee.
Quindi il contenuto della collaborazione, oggetto del contratto, sono le mansioni, ossia una pluraitá di
compiti, che possono avere carattere manuale o intellettuale, tra cui rientrano anche quelle di controllo. In
ogni caso, il datore di lavoro deve avere il potere di specificare di volta in volta quali sono le richieste in base
alle esigenze organizzative, ed è questo che lo differenzia dal contratto di lavoro autonomo, visto che
quest'ultimo viene contrattualizzato per svolgere un determinato incarico, per garantire un certo risultato. E
questo implica che il committente del lavoratore autonomo non possa ingerirsi all'interno della sua attività.
manuali, utilizzano strumenti, utilizzano chiavi, avvitatori elettrici, avvitatori a mano, bulloni e quant'altro.
Pertanto, l'oggetto del contratto di lavoro è funzionale a consentire il soddisfacimento delle esigenze
dell'imprenditore, che é titolare di un diritto di libertà garantito dalla Costituzione all'art.41, e cioé la libertà
di iniziativa economica che implica che l'attività economica dell'imprenditore sia svolta da lui con le
modalità che più gli aggradano, senza possibilità di imposizioni esterne, men che meno da parte di chi è
assunto per lavorare alle dipendenze di un determinato imprenditore.
La somma delle mansioni che mettono capo al contratto di lavoro, è detta qualifica. Per cui se io assumo una
persona che deve stare in cucina a cucinare dei cibi, questo avrá la qualifica del cuoco. Tanto è vero che
l'art.96 delle disposizioni preliminari del codice civile al 2° comma stabilisce che l'imprenditore deve far
conoscere al lavoratore la qualifica che gli è assegnata in base alle mansioni per le quali è stato assunto.
Le qualifiche sono poi tra loro raggruppate ulteriormente in una entità concettuale che si chiama categoria. Il
nostro codice civile conosce quattro categorie di inquadramento contrattuale, cioé operai, impiegati,
funzionari (anche detti “quadri direttivi“), e dirigenti. Ogni categoria é formata da diverse qualifiche, e
ogni qualifica é formata da diverse mansioni.
L'impresa ha una struttura gerarchica, é cioè una catena di comando con doveri di obbedienza, necessari al
funzionamento della stessa. E allora é necessario che le diverse posizioni di lavoro siano graduate secondo
un criterio che è di valore o di importanza, dato che ad es. all'interno di un'impresa areonautica, il pilota ha
un importanza ben maggiore di quella di una hostess. La loro retribuzione é cosí proporzionata al valore del
loro lavoro, che è determinato dai contratti collettivi, che stabiliscono qual è la denominazione e la
consistenza delle diverse posizioni di lavoro all'interno di ogni organizzazione imprenditoriale. Lo fanno in
modo tipico naturalmente, perchè il contratto collettivo riguarda non l'impresa singola, ma categorie di
imprese che appartengono ad un certo settore merceologico. Quindi la contrattazione collettiva dice quali
sono le posizioni di lavoro genericamente intese all'interno di tutte le organizzazioni possibili di quella
categoria. Quindi nel caso del commercio ci sarà la descrizione di tutte funzioni del commesso, poi ci sarà la
specificazione del commesso ai banchi, del commesso agli scaffali, del commesso da cassa ecc.
E la misura della retribuzione è un valore che è prettamente di mercato. Cioè sulla base delle valutazioni che
sul mercato ha quella particolare professionalità, cioè la capacità di svolgere quel tipo di compiti, si
determina la retribuzione che compete a ciascun lavoratore.

Ora passiamo ai poteri dell'imprenditore in rapporto ai doveri del lavoratore. E dobbiamo dire che si ha
lavoro subordinato quando il datore di lavoro ha il potere di ingerirsi nello svolgimento della prestazione.
Questo potere, che costituisce una posizione soggettiva attiva del datore, é detto direttivo, ed è
complementare all'individuazione dell'oggetto contratto. Allo stesso corrisponde una situazione soggettiva
speculare negativa del lavoratore, che è una situazione di soggezione, contrassegnata dal dovere di
obbedienza. L'art 2104 afferma infatti che “il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla
natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione
nazionale". Quindi il lavoratore deve svolgere le proprio attività in modo dilingente. Ora ogni debitore deve
adempiere diligentemente in base all'art. 1176, ma in tal caso si tratta di una diligenza speciale, qualificata e
specificata da altri fattori, che rappresentano i tre criteri di commisuraione della stessa, per cui la diligenza
dev'essere rapportata alla natura della prestazione, all'interesse dell'impresa (o meglio dell'imprenditore) e
all'interesse superiore della produzione nazionale.
In relazione al primo paramentro é logico che l'esattezza dell'adempimento vada rapportato al tipo di attività
dovuta. Per quanto riguarda il secondo parametro, rappresentato dall'interesse dell'impresa, che in realtà è un
interesse dell'imprenditore, dobbiamo dire che si tratta di un'interesse imminentemente organizzativo, visto
che il datore non ha interesse solo a ricevere una prestazione che sia esatta dal punto di vista quantitativo e
qualitativo, ma anche che il lavoratore si comporti in modo tale che la sua prestazione sia proficuamente
integrabile all'interno dell'organizzazione. La sua attività dev'essere anche organizzabile, concetto che si
definisce in base all'art. 2094, dato che il contenuto della subordinazione è la collaborazione e collaborare
significa lavorare con altri, per cui un soggetto per essere diligente dev'essere in grado di lavorare bene sia da
solo che con gli altri colleghi. Poi c'è il terzo parametro che è abbastanza desueto faceva si che per essere
bravi lavoratori non solo bisognava soddisfare l'interesse dell'imprenditore, ma bisognava far si che l'Italia
diventasse un paese più ricco e potente.

Lezione 6 (16/04/18). Obbligazioni accessorie.


Le parti del contratto in forza del contratto prendono l’una nei confronti dell’altro l’obbligo di eseguire le
prestazioni principali naturalmente perché questo qualifica il contratto. Peró dal contratto possono nascere
anche prestazioni accessorie (o accidentali), consistenti sostanzialmente in obblighi di protezione, che
richiedono che il lavoratore oltre che eseguire la prestazione debba comportarsi in un certo modo. Se io
infatti chiamo un imbianchino che mi dipinge la camera perfettamente ma poi mi distrugge un lampadario,
egli sará tenuto a rispondere, e si tratterá di responsabilità contrattuale proprio perché il danno è stato
eseguito per disattenzione nella esecuzione della prestazione. Questo obbligo di proteggere il mio patrimonio
è un obbligo che deriva direttamente dal contratto stipulato. Questa persona non è adempiente nei miei
confronti sebbene abbia completamente svolto la prestazione principale.
Due obblighi di protezone che gravano sul lavoratore solo disciplinati dall'art 2105 cc, intitolato obbligo di
fedeltá, secondo cui “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in
concorrenza con l'imprenditore, ne' divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione
dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Tali obblighi pur non essendo di
natura extracontrattuale, hanno una struttura simile alla responsabilitá extracontrattuale, che si fonda sulla
violazione del dovere del neminem laedere. Cioè non ledere a qualcuno, che è un obbligazione negativa
generale. Quindi hanno struttura negativa e il dovere è quello di non svolgere attività in concorrenza con il
datore di lavoro. Il lavoratore non deve svolgere ne lui direttamente, ne per interposta persona attività che sia
in concorrenza con il datore di lavoro.
In ogni caso l’art 2105 si riferisce all’ipotesi di concorrenza lecita, e non a quella sleale, che al contrario é
disciplinata dal codice in un art. che non centra nulla col rapporto di lavoro, cioé l’art 2598, che sancisce che
compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i
nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o
compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un
concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a
determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale
direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e
idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
Ora al lavoratore non solo è vietata la concorrenza sleale ma anche la concorrenza leale, e la ragione per cui
al lavoratore è vietato e deve sopportare questo sacrificio è dovuta al fatto che egli entra dentro l’impresa e
serve anche a tutelare la posizione dell'imprenditore. La rinuncia di una serie di libertá da parte del lavoro
subordinato giustifica quella serie di tutele di cui gode rispetto al lavoratore autonomo.
Il divieto di attività concorrenziale leale nasce con la stipulazione del contratto di lavoro e cessa con la
cessazione del contratto di lavoro. La concorrenza sleale è invece vietata sempre. Alle parti è consentito di
prolungare il divieto di concorrenza anche oltre la cessazione del rapporto di lavoro attraverso un patto di
non concorrenza, che per essere valido richiede una serie di requisiti, e cioé: la forma scritta ab sustantiam
per la validitá dello stesso; il fatto che la sua durata non sia superiore a tre anni per la generalità dei
dipendenti, e cinque anni per i dipendenti di categorie dirigenziali. La disparitá di trattamento é dovuta al
fatto che il dirigente è capace di un attività concorrenziale ben più pericolosa per il datore di lavoro, visto che
il suo compito é quello di organizzare e strutturare il processo produttivo. Il dirigente sostanzialmente impara
a fare l’imprenditore e quindi potrebbe rifarlo, e cioè clonare la stessa attività con esiti che sono pericolosi
per l’imprenditore da cui dipende,. Altri requisiti per la validitá del patto sono rappresentati dalle
delimitazioni di luogo e di oggetto della concorrenza cioè occorre individuare le attività che sono vietate,
visto che in nessun caso il lavoratore si può impegnare a non svolgere qualsiasi attività lavorativa. Infine
perché il patto sia valido questo deve prevedere un equo compenso, che va misurato anche sulla base della
retribuzione del lavoratore. Il compenso non puó comunque arrivare aall'ammontare dell'intera retribuzione.

Collegata al divieto di concorrenza è la disciplina delle scoperte e invenzioni del lavoratore, di cui la legge
distingue tre tipi di invenzioni, ossia:
1) Le invenzioni di servizio sono quelle realizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro in cui l’attività
inventiva costituisce oggetto del contratto ed è specificamente retribuita, come accade, ad esempio, per le
prestazioni lavorative rese da coloro che sono impiegati negli uffici di ricerca e sviluppo. Il diritto a
brevettare tali invenzioni spetta in via originaria al datore di lavoro, senza che sia riconosciuto alcun ulteriore
compenso economico al lavoratore, il quale ha peró diritto a vedersi riconosciuta la paternità dell’opera.
2) Le invenzioni aziendali, invece, sono quelle realizzate nell’esecuzione di un apposito contratto di lavoro,
nel quale, tuttavia, non è prevista un’esplicita retribuzione per l’attività inventiva. Anche in tali casi il diritto
al brevetto spetta al datore di lavoro ma il lavoratore è titolare, oltre che del diritto a vedersi riconosciuta la
paternità dell’opera, anche di quello a percepire un equo premio, calcolato tenendo conto delle mansioni,
della retribuzione, dell’eventuale contributo dell’organizzazione aziendale all’invenzione, dell’importanza
dell’invenzione.
3) Le invenzioni occasionali, infine, sono quelle che, pur rientrando nel campo di attività del datore di
lavoro, non sono, tuttavia, oggetto del contratto di lavoro. Laddove esse siano sviluppate dal lavoratore, ad
esso spetterà, oltre al diritto di paternità dell’invenzione, anche il diritto di sfruttamento economico della
stessa, permanendo, in ogni caso, in capo al datore di lavoro un diritto di prelazione per l’uso
dell’invenzione, l’acquisto del brevetto o la brevettazione all’estero.

Secondo un obbligo di riservatezza elencato dall’art 2105 c.c il lavoratore non deve divulgare all’esterno
dell’impresa notizie che riguardano l’organizzazione produttiva, i processi produttivi e i modi di produzione.
Cioè è un obbligo di riservatezza questa volta. Ora parte di queste notizie che riguardano il tipo di
organizzazione con il quale si produce, gli strumenti che si utilizzano, le materie prime che si utilizzano
sono generalmente ricoperte da un obbligo di riservatezza che non è segreto industriale. Cioè il divieto di
divulgare segreti industriali che fra l’altro è sanzionato penalmente dal nostro codice è una cosa fatta tutta
diversa rispetto all’obbligo di riservatezza. Certo che il lavoratore non deve rivelare segreti industriali, il
punto è che il lavoratore non deve rivelare neanche cose che non sono segreti industriali, non deve rilevare
all’esterno nulla che riguarda i metodi di organizzazione della produzione, perché se cosi facesse questo
sarebbe un comportamento che viene meno a un obbligo di protezione che il lavoratore ha nei confronti del
datore di lavoro. E con questo abbiamo esaurito l’aspetto che riguarda la definizione che riguarda gli
obblighi del lavoratore.
Vi sono ancora altri obblighi del lavoratore, tanto per iniziare ha l’obbligo di prendersi cura degli strumenti
di lavoro che gli vengono affidati, dei colleghi e di se stesso, utilizzando tutte le cautele antinfortunistiche
predisposte dal datore. Per cui la prestazione esatta del lavoratore è tale quando non solo è esattamente
eseguita la prestazione nei confronti del datore di lavoro, ma anche quando nei confronti degli altri colleghi il
lavoratore ha assunto un comportamento che dal punto di vista organizzativo è stato un comportamento
rispondente al datore di lavoro.

Lezione 7 (17/04/18) La possibilità di mutare le mansioni del lavoratore e i limiti stabiliti dalla legge
Al datore di lavoro compete, come esplicazione del potere direttivo, il c.d. ius variandi, ovverosia il diritto di
adibire il lavoratore alle mansioni che, di volta in volta, risultano più aderenti alle concrete e mutevoli
esigenze organizzative e produttive dell'azienda. Tale potere, tuttavia, può essere esercitato entro limiti
inderogabili sanciti dalla legge. Quindi il contratto riconosce al datore di lavoro un potere da questo punto di
vista eccezionale, cioè che fa eccezione alla regola tradizionale per cui il contratto si pattuisce
consensualmente e si modifica consensualmente; riconosce il potere eccezionale di modifica delle mansioni,
cioè il datore di lavoro sulla base del contratto, quindi sul consenso del lavoratore dato all'inizio, al momento
in cui il rapporto si costituisce una volta per tutte, acquisisce il diritto di spostare il lavoratore - ove
naturalmente questo risponda all'interesse del datore - anche a mansioni diverse da quelle di assegnazione.
Prima di vedere la disciplina legale é necessario capire quali siano gli spostamenti ammissibili, dato che il
lavoratore è in ogni caso assunto per svolgere determinate mansioni che rispondono ad una certa qualifica,
che a sua volta corrisponde ad una sua certa posizione all'interno dell'organizzazione produttiva. Gli
spostamenti di mansioni sono ammissibili in almeno tre direzioni:
A) Verso il basso: per cui il lavoratore assunto per svolgere mansioni di un certo tipo che rispondono ad una
certa qualifica e quindi rispondono ad una certa posizione lavorativa può essere adibito a mansioni di uno o
più livelli inferiori. Sono stato assunto per fare il cuoco, faccio di volta in volta l'aiuto cuoco o il lavapiatti.
B) Con mansioni di pari livello, e quindi poste su un piano di equivalenza ( su un livello orizzontale): cioè
si occupano di posizioni di lavoro diverse da quella di partenza per la quale si è stati assunti, ma che nel
sistema di inquadramento professionale sono poste allo stesso livello, cioè sono valorizzate allo stesso modo.
Per cui ad es. sono cuoco e vado a fare il capo sala, cioé il capo di tutti i camerieri.
C) Verso l'alto: per cui sono stato assunto per svolgere mansioni di un certo livello e mi viene richiesto di
svolgere da parte del datore di lavoro dei compiti superiori, che corrispondono ad una posizione più elevata
della gerarchia professionale e quindi un livello di inquadramento di retribuzione più elevato.
In ogni caso da parte del datore di lavoro deve sussistere un interesse a spostare il lavoratore in mansioni
inferiori, superiori od equivalenti.
Per quanto concerne i limiti legali, questi sono cambiati nel corso del tempo dato che la disciplina positiva
ha avuto almeno tre versioni. Iniziamo dalla prima che è quella storica del codice civile del 1942.
1) Nel 1942 l'art.2103 c.c. stabiliva che il lavoratore doveva compiere le mansioni di assunzione, ma al
datore era conferito il potere di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle di assunzione, purché fosse
salvaguardata la posizione del lavoratore nella sua sostanza. Erano consentiti gli accordi individuali
modificativi anche in peius delle mansioni, qualora venisse salvaguardata questa posizione, si trattava peró di
un limite molto generico che creava dei dibattiti in dottrina e giurisprudenza, perché se c'era chi riteneva che
potesse anche essere un livello inferiore e chi non lo riteneva possibile. Inoltre ,succedeva molto di frequente
che il datore ordinasse al lavoratore l'adibizione a mansioni inferiori in violazione della regola stabilita
dall'art.2103 dell'epoca, cioè anche senza salvaguardare la sua posizione professionale sostanziale in azienda,
e il lavoratore normalmente subiva questo spostamento aveva timore di ripercussioni disciplinari.
2) Quando poi nel 1970 entró in vigore lo statuto dei lavoratori la disciplina degli spostamenti fece un
enorme saltó di qualit´dato venne sancito che il lavoratore debba essere adibito: a) alle mansioni per le quali
era stato assunto; b) o a mansioni corrispondenti alla qualifica superiore eventualmente acquisita; c) o a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Si vietava cosí l'adibizione a mansioni inferiori.
Nell'art.2103 era cosi possibile solo lo spostamento a mansioni caratterizzate dall'equivalenza
professionale, o a mansioni superiori. Si sono peró scontrate diverse teorie sul significato della formula
dell'equivalenza professionale, di cui la teoria predominante CD conservativa affermava che erano
equivalenti non solo quelle appartenenti a qualifiche del medesimo valore e che avevano la stessa
retribuzione, ma anche quelle che consentivano al lavoratore di non disperdere il guadagno professionale che
aveva acquisito. Era quindi necessario in questa fase perché un lavoratore potesse essere spostato dii
mansione che si rispettasse l'interesse della conservazione del patrimonio professionale del lavoratore, ossia
che non si disperdesse il patrimonio di conoscenze acquisite si intendeva tutelare questo interesse. Per cui
le mansioni, diciamolo così, erano equivalenti quando fra le mansioni di partenza e le mansioni diverse vi
fosse un contenuto omogeneo, che il lavoratore comunque sia potesse utilizzare le capacità professionali che
aveva, in modo da non disperderle. Un'altra teoria più progressista invece addirittura riteneva che le
mansioni nell'ottica dell'art.2103 sarebbero state equivalenti quando le nuove mansioni si ponevano in una
scala di sviluppo professionale del lavoratore. In tal caso lo spostamento di mansione poteva essere ammesso
solo al fine di migliorare la professionalità del lavoratore. Non in funzione conservativa di quello che già
sapeva, ma addirittura di migliorare il bagaglio professionale per arricchirlo sul mercato del lavoro.
La nuova formulazione dell'art.2103 stabiliva comunque che le mansioni equivalenti dovessero essere pagate
quantomeno allo stesso modo. Aggiungeva inoltre che ogni patto contrario era nullo, cioè nemmeno con il
consenso del lavoratore sarebbe stato possibile che fosse adibito a mansioni inferiori.
Questa formula molto rigida dell'art.2103 è stata contemporaneamente un limite alla possibilità del datore di
lavoro di impiegare il lavoratore in maniera flessibile in virtú delle mutevoli esigenze dell'impresa, che in più
occasioni richiedevano che il lavoratore fosse adibito a svolgere mansioni diverse. Era una rigiditá un po'
irragionevole, perché si davano dei casi in cui ad es. era il lavoratore stesso ad avere un genuino interesse a
svolgere mansioni meno che equivalenti, addirittura talora delle mansioni che erano di livello inferiore;
poteva infatti accadere che un lavoratore potesse preferire delle mansioni inferiori perché che stava
svolgendo comportavano una responsabilità che non era in grado di sostenere, oppure poteva accadere che il
datore dovendo sopprimere una mansione superiore, il lavoratore che si trovava nella stessa avrebbe
ricoperto volentieri una inferiore pur di non essere licenziato se fosse stato possibile.
Per questo nel corso degli anni di applicazione dell'art.2103 un po' la legge e un po' le interpretazioni
giurisprudenziali hanno cercato di attenuare il rigore della disposizione dell'art.2103 prevedendo una serie di
ipotesi nelle quali sarebbe stata possibile l'adibizione a mansioni meno che equivalenti, che sono rimaste
anche dopo la modifica del Jobs Act (dlgs. 81/2015).
Prima ipotesi, introdotta dalla legge stabiliva che la donna lavoratrice, nel periodo di gravidanza fino a 7
mesi dalla nascita del bambino, se le condizioni di lavoro sono pregiudizievoli per la salute sua e del
bambino, va essere adibita ad altre mansioni, e se non ce ne sono ulteriori equivalenti, anche a m. inferiori.
Seconda ipotesi, sanciva che se il lavoratore che si infortunava o diventava invalido a causa del lavoro, e la
menomazione gli rendeva impossibile lo svolgimento delle mansioni d'assunzione, prima di essere licenziato
il datore di lavoro aveva il dovere di posizionare il lavoratore in qualsiasi altra posizione anche di livello
inferiore, ma in modo permanente. Quindi il datore di lavoro sostanzialmente pagava molto una prestazione
che valeva relativamente poco.
Terza ipotesi era quella della impresa che fosse stata in una condizione di crisi economica tale da averla
indotta ad aprire una procedura di licenziamento collettivo cosí da ridurre il personale. La legge sul
licenziamento collettivo prevede che questo possa essere attuato solo dopo una fase di consultazione con il
sindacato e quindi all'interno della stessa, tramite accordo sindacale, si sarebbe potuto pattuire la adibizione
dei lavoratori che avrebbero perso il posto, anche a mansioni inferiori. Era peró un ipotesi limitata perché si
riferiva solo ad ipotesi di licenziamento collettivo, non ad ipotesi di licenziamento per motivi aziendali; due,
l'adibizione a mansioni inferiori non era mai possibile per accordi individuali, ma solo se c'era un accordo
collettivo con il sindacato che autorizzava tale adibizione.
Mentre l'accordo individuale non sarebbe stato possibile, stando alla disciplina di legge visto che non erano
ammessi patti contrari, per cui per superare questo ostacolo bisognava che il datore durante un
licenzialmento collettivo, licenziasse il lavoratore che voleva riassumere a titolo di licenzialmento
individuale per verificato motivo oggettivo, per poi poterlo riassumere con un nuovo contratto con la
previsione di mansioni inferiori. Ma con un danno per il lavoratore stesso, perché se veniva licenziato e
riassunto a mansioni inferiori perdeva l’anzianità di servizio: cioè riprendeva un rapporto nuovo.
Ovviamente il licenziamento deve essere giustificato, perché se fosse ingiustificato chiaramente non sarebbe
stato ammesso.
Nelle ipotesi in cui vi fosse una menomazione fisica del lavoratore per una causa non derivante dal lavoro,
come ad es. una caduta in moto, in ipotesi come queste la legge non autorizzava il datore di lavoro ad adibire
il lavoratore a mansioni inferiori e quindi non dava diritto alla conservazione del posto se c'era possibilità di
accedere a mansioni inferiori. Allora la giurisprudenza, molto opportunamente, aveva ritenuto che quando il
lavoratore si trovava in questa posizione non c'era più la professionalità da tutelare, perché il lavoratore
l'aveva già persa per un fatto estraneo al datore di lavoro. E allora non essendoci più la professionalità da
tutelare, i giudici ritenevano possibile lo spostamento a mansioni inferiori.
Nello stesso testo dell'art.2103 era anche disciplinata la vicenda dello spostamento a mansioni superiori,
che non coincide con la promozione, che puó essere disposta consensualmente con l'accettazione del
lavoratore e che fa si che questi venga retribuito maggiormente, in quanto nello spostamento a mansioni
superiori non viene disposta una promozione ma vi é solo un mutamento di fatto delle mansioni. L'art.
prevedeva cosi due forme di tutela del lavoratore in relazione a questa fattispecie: a) dal primo minuto di
adibizione a mansioni superiori quel lavoratore avrebbe dovuto essere pagato in modo corrispondente alle
mansioni superiori. b) inoltre qualora il datore di lavoro non avesse avuto intenzione di promuovere, e
tuttavia l'adibizione a mansioni superiori fosse durata per un periodo uguale o superiore a tre mesi o al
periodo inferiore stabilito dai contratti collettivi, la legge stabiliva che l'assegnazione diveniva definitiva. Da
quel momento in poi quello è un lavoratore equiparabile ad uno che è stato promosso, pur non essèndo una
promozione, visto che è la legge che gli dà una qualifica equiparabile alla promozione. Vi doveva comunque
essere il consenso del lavoratore, ma questo si presupponeva dato che era lui che chiedeva il consolidamento
della qualifica superiore. Ma era ammesso che il lavoratore, pur decorso il periodo di tre mesi, ritornando
alle mansioni di originaria adibizione senza pretendere lui stesso l'assegnazione della qualifica superiore,
manifestasse legittimamente un consenso contrario rispetto a quello che la legge gli garantiva.
A questa regola qua facevano eccezione le molte ipotesi in cui l'adibizione a mansioni superiori fosse stata
richiesta dalla necessità di sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ove
l'adibizione a mansioni superiori non dava diritto al consolidamento della qualifica.
3) Nel 2015, assecondando un moto di arretramento della tutela degli interessi del lavoratore e
contemporaneamente di ampiamento degli spazi lasciati al datore di lavoro, l'articolo 2103 è stato
modificato, con il d.lgs. 81/2015. I limiti si sono infatti allentati, dato che l'art. è stato modificato in senso
più favorevole per le esigenze dell'impresa. Il nuovo testo, che prima era formato da due commi mentre ora
da otto, stabilisce che:
Art.2103 c.c.: il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali sia stato assunto o a quelle
corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero - qua invece
cambia, laddove prima la formula era "ovvero alle mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte" –
a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte. Qui cambia il sistema, e cambia effettivamente di molto. Mentre prima, il fatto che fossero diverse
mansioni, quelle di partenza, quelle di destinazione, rientrassero nello stesso livello, fossero pagate allo
stesso modo, non era garanzia di equivalenza, perché l'equivalenza richiedeva qualcosa di più, ossia che nelle
nuove mansioni il lavoratore conservasse il patrimonio conoscitivo acquisito nelle vecchie; adesso questa
regola non c'è più: tutte le mansioni rientranti nelle diverse qualifiche che il sistema di inquadramento
professionale pone sullo stesso livello retributivo sono da considerare equivalenti.
può darsi anche che il lavoratore spostato continuamente da una mansione all'altra, stiamo ipotizzando un
lavoratore tappabuchi che di norma non succede, di norma lo stesso datore di lavoro non ha interesse a
spostare un lavoratore a destra e a manca perché così uno finisce che non sa fare più niente. Però potrebbe
darsi di un lavoratore spostato più volte nella sua vita lavorativa che alla fine egli abbia di volta in volta
imparato, disperso, imparato, disperso. Cosa che prima non poteva succedere, il che da effettivamente al
datore di lavoro uno spazio che è notevolmente più ampio a livello di manovra. E questo diciamo che è uno
spostamento in orizzontale, poi domani vedremo che sono possibili anche delle ipotesi di spostamento verso
il basso in modo molto più ampio rispetto a prima, non solo nelle ipotesi legislative che abbiamo esaminato,
che sono rimaste anche nel nuovo sistema, ma anche come potere generico di adibizione a mansioni inferiori.

Lezione 8 (18/04/2018)
Un'altra espressione tipica dei poteri direttivi del datore é la possibilità di trasferimento del lavoratore per
scelta unilaterale del datore stesso, che puó avere diverse varianti e in base alle stesse si originano diversi
problemi e profili di tutela del lavoratore dipendente.
La forma piú innoqua di trasferimento é quella per cui un lavoratore che opera all'interno di un unita
produttiva in un determinato ufficio venga spostato all'interno della stessa in un altro ufficio. Si tratta dunque
di uno spostamento fisico all'interno della stessa unita produttiva. Tale ipotesi crea meno problemi perché
rientra nei poteri del datore, che decide in che ufficio assegnarlo, di quali strumenti dotarlo, con chi farlo
lavorare. In questi casi infatti la legge non prevede forme di tutela del lavoratore
Un altra forma di trasfermiento é quella dello spostamento del lavoratore in un altra unita produttiva, ma in
via temporanea, che é detto trasferta. Però questo spostamento, che può avere anche una durata temporale
apprezzabile, per cui può durare anche più giorni o più settimane al limite, è destinato a terminare col rientro
del lavoratore in sede. Anche qui, i problemi di tutela sono esigui e vi fa fronte la contrattazione collettiva
prevedendo delle forme di rimborso spese qualora il lavoratore ne debba affrontare per il fatto di dover
svolgere la prestazione fuori dal luogo di lavoro (quindi ci sono spese di viaggio, di vitto e altre indennità
variamente connesse al rischio).
Una terza ipotesi, detta trasfermiento, é lo spostamento definitivo da un unita produttiva ad un altra, che
richiede forme di tutela maggiori, perché si tratta di uno spostamento apprezzabile dal punto di vista
geografico, visto che l'azienda puó trovarsi in un altro comune, provincia o addirittura regione, e che pertanto
comporta uno sradicamento permanente del lavoratore dell'ambiente nel quale si trovava. In tal caso le forme
di tutela sono date sia dalla legge sia dalla contrattazione collettiva. L'art. 2103 cc, che da questo punto di
vista non é cambiato un granché nel tempo, sancisce che "il lavoratore non può essere trasferito da un'unità
produttiva all'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive". In presenza di
ragioni organizzative il lavoratore é tenuto a rispettarle, perché queste sono legittime e non un capriccio del
datore.
Quindi laddove la legge riconosce l'esistenza di poteri direttivi, che nascono dal contratto, nel limitarli
esplicita che questi poteri possono essere esercitati solo per ragioni che attengono all'organizzazione del
lavoro. Quindi, il trasferimento del lavoratore è legittimo se ed in quanto serva al datore di lavoro non come
persona ma all'organizzazione di lavoro diretta dal datore di lavoro; ci devono essere delle esigenze che
devono essere organizzative, tecniche o produttive: ad es. all'interno di un'unità produttiva c'è l'incremento di
produzione e quindi ti sposto lì; organizzative, devo chiudere un reparto e aprirne un altro oppure
depotenziare un reparto e potenziarne un altro e l'esigenza organizzativa mi impone di spostarti lì; esigenze
tecniche, devo fare un ampliamento, manutenzione macchinari e ho bisogno di fermare una parte dell'azienda
e ti sposto dall'altra. Queste esigenze devono essere comprovate, dice la legge, che significa che devono
essere effettivamente sussistenti, e non solo enunciate dal datore. Pertanto se il lavoratore le richiede o ne
contesta l'esistenza il datore di lavoro deve essere in grado di dimostrare che esistono. Comunque queste
esigenze non devono necessariamente sussistere in entrambe le unità produttive, di partenza e di
destinazione.
Per quanto riguarda la nozione di unita produttiva questa corrisponde secondo la giurisprudenza ad un
reparto autonomo dell'azienda idoneo a fornire un bene o servizio in forma completa. Se invece abbiamo più
punti vendita che mettono però tutti capo alla stessa struttura, perché sono tutti nello stesso comune, perché
sono complementari l'uno all'altro, perché vendono gli stessi prodotti, si può dire che la somma di tutti questi
fa un'unità produttiva, allora lo spostamento dall'uno all'altro non è trasferimento e non richiede la necessità
di ostendere le ragioni tecniche, organizzative o produttive.

Ora, il lavoratore che riceve l'ordine di trasferimento è obbligato a rispettarlo perché é nei poteri el datore di
lavoro. Il lavoratore peró può dubitare che ci siano le comprovate ragioni tecniche, organizzative o
produttive, che sia fatto per danneggiarlo, o che non sia lui il destinatario del provvedimento, ed in questi
casi la legge specifica che se non ci sono le comprovate esigenze tecniche, organizzative o produttive, il
provvedimento di trasferimento è invalido, cioè non idoneo a creare vincolo, non crea l'obbligo del
lavoratore di eseguire l'ordine. Il lavoratore ha sempre di fronte agli ordini emessi dal datore dei quali dubita
la legittimità: dar esecuzione all'ordine di trasferimento o resistere; Peró se il lavoratore non vuole rischiare
di esser licenziato gli conviene prima dar esecuzione al trasferimento, perché il rifiuto di intercorso
trasferimento è un atto di insubordinazione, e poi discutere eventualmente della legittimità o meno
dell'ordine davanti a un giudice. Mentre si trova in una posizione molto piú svantaggiosa il lavoratore che
non ottemperi e che faccia ricorso in sede di impugnativa del licenziamento, perché nel frattempo è fuori
dall'azienda perché è stato licenziato. Nel pubblico impiego, è proprio la legge a dire che il lavoratore che
rifiuta l'ordine di trasferimento legittimamente impartito deve essere licenziato, è causa di licenziamento; i
codici disciplinari del settore privato talvolta lo prevedono, talvolta no, il punto comunque è che si tratta di
un atto di insubordinazione al quale il datore di lavoro potrebbe reagire con una sanzione disciplinare.
Vi sono alcune ipotesi particolari, che sono quelle del dirigente di RSA, che può essere disposto solo previo
nulla osta della organizzazione sindacale di appartenenza. Allo stesso modo non può essere trasferito senza il
suo consenso il lavoratore che assiste un parente portatore di handicap grave, cioè i fruitori della legge 104,
così come non può essere disposto il trasferimento di un lavoratore che è stato chiamato a svolgere funzioni
pubbliche elettive: se io mi candido a fare il sindaco e sono eletto e, durante il periodo di sospensione dal
lavoro, il datore di lavoro decide di assegnarmi a nuova sede, quando rientro devo rientrare nello stesso
luogo in cui ero quando sono stato chiamato ad esercitare queste funzioni pubbliche elettive.

Il lavoratore che subisce un trasferimento illegittimo ha un onere: se vuole contestarlo in giudizio, deve fare,
entro 60 gg dal momento in cui ha ricevuto la comunicazione del trasferimento, un atto di impugnazione (che
è un atto stragiudiziale che non si fa davanti al giudice e che non è necessario che si faccia per il tramite di
un avvocato), in forma scritta, che deve indirizzare al datore di lavoro, nel quale esprime banalmente e nelle
formule che lui ritiene più idonee, purché comprensibili, la volontà di non accettare il trasferimento, di
contestare il fondamento del provvedimento di trasferimento. Poi, fatto quest'atto di contestazione, segue
l'ordine del datore di lavoro (perché questo è consigliabile fare) e, a quel punto, ha la possibilità di agire in
giudizio, in tal caso, depositando davanti al giudice un ricorso, nel termine di 180 gg dal momento in cui ha
fatto l'impugnazione. Esattamente la stessa disciplina che vedremo meglio quando parleremo di
licenziamenti e questo serve a consentire al datore di lavoro di sapere, con ragionevole sicurezza, che i
provvedimenti di contestazione ci siano; cioè una volta trasferito il lavoratore, decorsi 60gg senza che questi
abbia fatto nulla, il datore di lavoro è sicuro che quel provvedimento di trasferimento è diventato
inoppugnabile. Questo procedimento è stato introdotto nel 2010, mentre prima il lavoratore poteva svegliarsi
anche a distanza di molti anni, nel limite della prescrizione, e contestare un provvedimento di trasferimento e
il datore di lavoro trovarsi esposto ad un'azione risarcitoria, quando era passato un tempo molto lungo.

Un’altra espressione del potere direttivo del datore di lavoro è rappresentata dall’esercizio del c.d. potere di
vigilanza (o controllo). In particolare, questa forma di influenza dell’imprenditore si può realizzare sia
attraverso il classico controllo rivolto ad accertare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa, sia
attraverso un tipo di attività di sorveglianza finalizzata ad assicurare l’integrità del valore patrimonio
aziendale. In effetti il lavoratore nella maggior parte dei casi, essendo integrato in un’impresa, entra sovente
a contatto con materiali e merci (anche preziosi) che sono di proprietà dell’imprenditore e che, pare
legittimo, prevedere dei meccanismi per favorirne la conservazione.
Il potere di controllo é complementare a quello di direzione, perché questo non avrebbe senso se non avesse
il potere di controllare che gli ordini che sono stati impartiti, siano stati eseguiti correttamente. Esso é
funzionale alla tutela dell'organizzazione produttiva, in cui si è dunque soggetti a poteri di controllo sia da
parte del datore di lavoro che dai superiori gerarchici.
Ai fini di proteggere il patrimonio aziendale, l’imprenditore ai sensi dell’art. 2 della L. n. 300/1970 (c.d.
Statuto dei lavoratori) può avvalersi di guardie giurate, cioè di personale in divisa e munito di arma da fuoco
(così come previsto dagli artt. 133 e ss. del TULPS. Si pensi ad esempio al personale in servizio presso
alcune banche). Il ricorso a questo tipo di controllo è tassativamente vincolato alla tutela del valore dei beni
presenti nell’azienda e, pertanto, le guardie non possono accedere ai locali dove si svolge l’attività lavorativa
se non per particolari e motivate esigenze e, allo stesso tempo, non possono contestare ai lavoratori nessun
loro comportamento che non sia riferito alle esigenze di tutela del patrimonio posseduto dall’imprenditore.
Quindi queste guardie particolari giurate addette alla tutela del patrimonio aziendale, non si devono occupare
dei lavoratori, nel senso che non possono andare dal lavoratore e dirgli "ti ho visto che stai lavorando male"
oppure "ti ho visto che non stai lavorando" o "ti ho visto che stai fumando". L'unica cosa che possono fare è
intervenire sul lavoratore se scoprono che questo sta danneggiando il patrimonio economico aziendale, cioè
si sta appropriando di qualcosa che è del datore di lavoro, altrimenti non possono avere nessuna interferenza
con chi lavora, proprio perché le funzioni sono diverse. Tanto è vero che le guardie particolari giurate stanno
sempre fuori dal luogo di lavoro, è molto raro che siano all'interno dello stesso, stanno sempre fuori,
all'ingresso. Ovviamente il datore di lavoro non può usare le informazioni che eventualmente abbia acquisito
da queste guardie particolari giurate, se riguardano i lavoratori; percbé se fa ció le può essere sospesa la
licenza dal questore o revocata dal prefetto nei casi più gravi. Quindi la vigilanza non si può fare con guardie
particolari giurate.
Nell’ottica di tutelare la libertà e la dignità dei lavoratori, gli artt. 2 e 3 individuano specifici limiti in ordine
ai soggetti abilitati ad esercitare il potere di controllo sugli stessi. Oltre al datore di lavoro ed ai superiori
gerarchici, i quali per definizione sono chiamati ad esercitare il potere in esame, il controllo può essere
esercitato anche da altri dipendenti, purché il loro nominativo e le loro specifiche mansioni siano
preventivamente comunicati ai lavoratori interessati. Normalmente questa incombenza spetta ai capireparto o
ai capiufficio che devono, per contratto, sovrintendere all'attività lavorativa altrui, cioè controllare se i
colleghi lavorano bene e se eseguono le direttive che gli sono impartite. Il controllo occulto, effettuato cioè
da persone non identificate dal lavoratore come controllori, è dunque vietato in quanto ritenuto lesivo della
personalità del lavoratore. Il personale addetto alla vigilanza non può controllare i comportamenti del
lavoratore estranei allo svolgimento della prestazione lavorativa e non può accedere in locali frequentati dai
lavoratori per scopi diversi dallo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio, gli spogliatoi).
Un'altra disposizione che riguarda la stessa materia, cioè i controlli, è l'art. 4 (di recente riformato)
concernente i controlli a distanza. Mentre il controllo effettuato dal personale di vigilanza è un controllo
definito "in presenza", perché la persona che ti controlla ti vede e ti controlla fisicamente, i controlli a
distanza (detti anche "controlli remoti") sono dei controlli in cui il controllore è distante dal controllato, ed
avvengono tramite la CD apparecchiatura audiovisiva di controllo. Strumento fondamentale per lungo
tempo, simbolo di questo potere di controllo sono state le videocamere, ma oggi esistono forme molto più
sofisticate di controllo, di geolocalizzazione di tutti i tipi, soprattutto legate all'uso di nuove tecnologie.
L’art. 4 st. lav. vieta espressamente l’utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di
controllo a distanza dell’attività lavorativa. Tale divieto trova la propria ratio nella potenzialità lesiva di tale
forma di controllo della dignità e della riservatezza del lavoratore a causa della sua tendenziale continuità e
pervasività. Nel divieto è ricompresa qualsiasi forma di controllo a distanza che sottragga al lavoratore, nello
svolgimento delle sue mansioni, ogni margine di spazio e di tempo nel quale egli possa essere
ragionevolmente certo di non essere osservato, ascoltato o comunque “seguito” nei propri movimenti. Il co. 2
del medesimo art. 4 consente espressamente l’utilizzo di apparecchiature quando, pur comportando
indirettamente un controllo sull’attività lavorativa dei dipendenti, esso sia richiesto da esigenze
organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro. Il controllo, in questo caso, non è l’obiettivo
primario del datore di lavoro che installa l’apparecchiatura, ma costituisce un’inevitabile conseguenza
dell’utilizzo dell’apparecchiatura medesima. In questa prospettiva, il controllo è legittimo solo se
“preterintenzionale”, e cioè se costituisce la conseguenza non voluta e non prevista dell’utilizzo
dell’apparecchiatura.
In base alle esigenze organizzative può essere opportuno che il datore sappia se il lavoratore é fermo o in
movimento, perché magari é bloccato in mezzo al traffico o fermo per un altro motivo. Oppure esigenze di
sicurezza: esistono particolari macchinari pericolosi che è più opportuno vengano controllati a distanza per
cui c'è una telecamera che ti fa vedere in ogni momento cosa sta facendo il macchinario. Ora il macchinario
può essere manovrato anche dal lavoratore, il lavoratore vi può intervenire per effettuare delle manutenzioni
o per sbloccarlo; la telecamera, in questo caso, punta su quel contesto e fotografa anche il lavoratore,
mostrando quello che sta facendo. Quindi qua, dallo strumento deriva anche la possibilità che il lavoratore
sia controllato, ma lo scopo dello strumento non è il controllo del lavoratore ma che in quell'area si lavori in
condizioni di sicurezza e quindi che in ogni momento il processo produttivo sia monitorato perché pericoloso
per l'uso di agenti chimici, esplosivi e quant'altro.
Oppure per ragioni di sicurezza del patrimonio aziendale: Spesso nei supermercati, nelle gioiellerie ci sono le
telecamere, che non sono lì per controllare chi ci lavora ma per ragioni di sicurezza evitando cosí i furti, e
tuttavia, se qualcuno lavora in quei contesti, c'è la possibilità che pure lui sia controllato, che cada nel raggio
visivo della telecamera.
In ogni caso, ai fini della legittimità del controllo, è necessario che l’utilizzo delle apparecchiature idonee al
controllo sia oggetto di uno specifico accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza
di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede
l’Ispettorato del lavoro dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
Dice la legge: "Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al
rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli
strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno
2003, n. 196" (decreto sulla privacy). Per cui se io ti doto di pc, con accesso libero alla rete, posto che questo
mi consente di verificare che accessi hai fatto, se hai acceduto a siti per ragioni tue personali (hai acquistato
scarpe, letto giornali.. e io lo posso sapere), queste informazioni le posso usare anche ai fini disciplinari, a
condizione però che quando ti ho dotato dello strumento (pc), ti ho detto "guarda che hai anche la possibilità
di utilizzarlo per scopi extra lavorativi e io sono in grado di controllare se lo fai". Se c'è stata questa
informazione, le informazioni raccolte possono essere utilizzate dal datore a tutti i fini del rapporto di lavoro.

Vi sono poi le visite personali di controllo (art 6), consistenti sostanzialmente in delle perquisizioni che
riguardano la persona e le pertinenze, cioè la borsa per esempio, si discute se possa esser considerata tale la
vettura e quant'altro. Le visite sulla persona del lavoratore sono ammesse solo laddove indispensabili ai fini
della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime
o dei prodotti (art. 6 st. lav.). Al di fuori della tutela del patrimonio aziendale, le visite di controllo sui
lavoratori sono, dunque, vietate.
Al fine di tutelare la dignità e la riservatezza del lavoratore tali visite possono essere effettuate solo all’uscita
dei luoghi di lavoro e con l’applicazione di sistemi di selezione automatica (come con sentinelle d'allarme),
al fine di evitare discriminazioni. Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personale, nonché le
relative modalità, devono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali
oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In mancanza di accordo, su istanza del datore di
lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro. Qualora richiesta dal lavoratore dev'essere rispettata l'omogeneità
di genere: per cui gli uomini perquisiscono agli uomini, e le donne alle donne. se devo effettuare una
perquisizione su un uomo farla effettuare da un uomo, se devo effettuare una perquisizione su una donna
farla fare da una donna
Tuttavia anche nelle ipotesi in cui il datore puó legittimamente imporre le visite personali di controllo, non
ha poteri coercitivi sul lavoratore che può sottrarsi alla perquisizione, ma in tal caso il datore può reagire sul
piano disciplinare, perché è un atto di insubordinazione, visto che il potere di controllo è un potere che deriva
dal contratto e, essendoci le condizioni e i limiti molto rigorosi che la legge stabilisce, il lavoratore è tenuto a
farsi controllare. Se peró il datore abbia la certezza che il lavoratore ha sottratto un bene, può sollecitare
l'intervento della polizia giudiziaria la quale ha, invece, poteri coercitivi e che potrà effettuare la
perquisizione solo su ordine motivato dell'autorità giudiziaria.

Un ulteriore potere di vigilanza del datore é rappresentato dagli Accertamenti sullo stato di salute. In base
all'art.5: sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia
o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato
soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo
quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del
lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.
In ogni caso possono sussistere due tipi di controlli, e cioé:
1) Controlli che derivano dalla denuncia dello stato di malattia proveniente dal lavoratore: per cui la
legge, in prima battuta, impedisce al datore di lavoro di effettuare questi controlli personalmente o per
mezzo di personale da lui pagato; per cui la visita di controllo è attivata con specifica richiesta inoltrata in
via telematica all’INPS, che lo effettuano nel giorno stesso in cui il datore di lavoro lo richiede.
2) Controlli che derivano da una richiesta del datore di lavoro, fondata sul timore che il lavoratore non
sia più idoneo alla prestazione lavorativa: in questi casi, la stessa prestazione di lavoro potrebbe essere
pregiudizievole per lo stato di salute del lavoratore e il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a
risponderne in via risarcitoria. La legge riconosce questo diritto di controllo ma impedisce il controllo
diretto; per cui il datore di lavoro deve rivolgersi alle commissioni mediche presso le ASL.

D’altra parte, il lavoratore è tenuto ad una serie di obblighi:


- deve comunicare immediatamente al datore di lavoro lo stato di malattia, per esigenze organizzative
dello stesso; ma non è specificata la forma di tale comunicazione.
- successivamente ha un obbligo di certificazione: per cio è necessario che il medico attesti lo stato di
malattia. In passato, il certificato medico indicava da una parte la diagnosi+prognosi (attestazione che veniva
inviata all’ente di previdenza: in questo caso non si pongono problemi di privacy, perché l’INPS deve
effettuare la visita) e dall’altra la sola prognosi (attestazione volta al datore). Oggi i documenti informatici
consentono direttamente al medico di inviare sia all’INPS sia al datore con PEC il certificato medico.
- deve rendersi reperibile per essere visitato in apposite fasce orarie (dalle 10 alle 12; dalle 17 alle 19; e nel
pubblico impiego: dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18). Il lavoratore ammalato non è obbligato a stare in casa:
dato che esistono patologie che non lo obbligano a stare in casa (come la frattura al braccio); cosí la
previsione delle fasce orarie non sono misure punitive ma organizzative: in quanto si vuole evitare che i
medici del lavoro si adoperino per la visita senza trovare mai il lavoratore. Questo dovere ha implicazioni
sui rapporti con l’ente di previdenza: visto che il lavoratore assente dalle visite di controllo perde, per i
primi 10 giorni, il trattamento di malattia. Prima era previsto che, dall’ 11° giorno in poi, il lavoratore
avrebbe perso il 50% del trattamento di malattia: ma la Corte Costituzionale ha stabilito che il lavoratore
debba essere trovato assente ad una seconda visita, perché scatti questa sanzione ulteriore Il medico che si
reca al domicilio del lavoratore è un pubblico ufficiale: come per le visite personali di controllo, non
sussistono poteri coercitivi, cosicchè, se il lavoratore di sottrae al controllo, sarà imputato solo di un illecito
sul piano contrattuale.
- sussiste poi un dovere di diligenza allargato, che impone al lavoratore di non tenere di comportamenti
imprudenti ed in contrasto con le esigenze di guarigione.

In relazione ai comportamenti incompatibili con la malattia accusata: il datore di lavoro può effettuare
delle indagini, anche avvalendosi di agenzie investigative, per verificare che la malattia accusata sia vera o
falsa. Il datore di lavoro non può obbligare il lavoratore a sottoporsi alla visita medica, ma può
legittimamente verificare che siano stati tenuti comportamenti incompatibili con lo stato di malattia
accusata, perché in loro presenza si aprirà un procedimento disciplinare; e se il lavoratore impugna
l’eventuale sanzione disciplinare, l’investigatore assoldato dal datore di lavoro potrà essere chiamato a
testimoniare in processo.

Lezione 9 (23/04/2018)
Quanto al potere disciplinare (o sanzionatorio) anch’esso è complementare al potere di direzione, e
costituisce un diritto potestativo del datore di lavoro, che gli consente di reagire immediatamente
sanzionando l’altrui inadempimento. É un potere disciplinare del datore di lavoro non esiste in nessun
altro rapporto contrattuale.
Dal punto di vista del lavoratore, il riconoscimento del potere disciplinare al datore di lavoro, cioè il potere
di reagire con immediatezza, cioè senza il passaggio preventivo dal giudice, che è invece organo di tutti gli
altri rapporti contrattuali che accertano l’avvenuto inadempimento, l’esistenza di questo potere per il
lavoratore si traduce in questo: e cioè nell’accettazione consapevole e volontaria (in quanto stipula il
contratto di lavoro) di subire una potenziale ingiustizia. Il lavoratore quando accetta di sottoscrivere un
contratto di lavoro subordinato, e cioè decide che i suoi interessi corrispondano esattamente a quel tipo di
schema che risponde alla figura del contratto di lavoro subordinato, accetta, fra le altre cose, anche di essere
punito dal datore di lavoro senza che prima questa punizione sia vagliata da un organo giurisdizionale con le
garanzie di imparzialità e di difesa tipiche della giurisdizione.
Una ingiustizia temporanea, naturalmente, perché poi il sacrificio delle ragioni di difesa del lavoratore non si
spinge mai fino ad impedire al lavoratore di contestare la sanzione disciplinare, visto che la contestazione
puó essere fatta davanti al giudice ma in via posticipata, e nel senso che il lavoratore deve accettare la
sanzione anche se ingiusta e successivamente potrá recarsi dinnanzi al giudice per far valere le proprie
ragioni. Capita spesso che le sanzioni discipinari siano ingiuste, perché il procedimento all’esito del quale
vengono adottate è molto imperfetto, dovendo essere molto rapido, avendo come autore il datore di lavoro.
Nel rapporto di lavoro sussiste certamente il diritto al risarcimento del danno del datore di lavoro, in qualità
di controparte che subisce l’inadempimento; ma egli, ulteriormente ed eccezionalmente, ha il potere di
punire il lavoratore inadempiente, per uno scopo di tutela dell’organizzazione produttiva, cioé per
mantenerla in funzione in modo che tutti i collaboratori sappiano di non poter tenere un comportamento
come quello sanzionato: per ottenere questo risultato non è possibile aspettare la lentezza della tutela
giudiziaria. Pertanto Sanzione ≠ Risarcimento del danno. Ad es. Ritardo: fra gli obblighi di diligenza,
sussiste quello di arrivare a lavoro puntuali. Barista arriva in ritardo di un’ora dall’apertura dell’esercizio
commerciale: la prima fascia oraria di apertura è quella più redditizia; il datore di lavoro può, certamente,
chiamare il lavoratore davanti al giudice per ottenere il risarcimento del danno e può, preventivamente,
irrogare una sanzione (es. rimprovero scritto) che é una cosa diversa dal risarcimento poiché non ha una
funzione riequilibrativa del patrimonio. La sanzione disciplinare non ripara il danno che il datore
subisce: possono esservi addirittura dei casi in cui l’inadempimento non arreca alcun danno al lavoratore (es.
il barista non si reca a lavoro e viene sostituito dal collega: egli viene comunque sanzionato).
La legge presuppone questa situazione, ma si sforza di correggerla attenuando il sacrificio per il lavoratore,
facendo in modo che il giudizio dal quale deriva la sanzione disciplinare possa permettere il più possibile di
far valere le ragioni di difesa del lavoratore; e lo fa in tre modi:
1) Stabilendo dei presupposti sostanziali, in presenza dei quali il potere è tecnicamente esercitato. Per cui il
datore di lavoro puó esercitare il potere di cui dispone solo se si verificano determinati presupposti, ossia
fatti di inadempimento rispetto agli obblighi contrattuali. In presenza degli stessi il potere disciplinare può
essere eventualmente esercitato. In forza di quanto previsto dall'articolo 2106 del codice civile, “quando il
lavoratore viola il dovere di diligenza, il dovere di obbedienza o l'obbligo di fedeltà, il datore di lavoro può
irrogare nei suoi confronti delle sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione e in conformità a
quanto stabiliscono i contratti collettivi”. Si tratta quindi di un potere facoltativo, salvo ipotesi particolari in
cui c’è l’obbligo per il datore di lavoro di reagire, per esempio è obbligato a sanzionare il lavoratore quando
si pone un problema di tutela di un altro lavoratore: se la condotta del lavoratore è quella ad es. di chi
molesta un collega, qui il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere, perché tra gli obblighi del datore di
lavoro c’è quello di mantenere un luogo di lavoro sano sotto tutti i punti di vista, qui non ha più la facoltà di
sanzionare ma l’obbligo di sanzionare il lavoratore molesto.
2) Stabilendo dei limiti sostanziali all’esercizio del potere, oltre i quali la reazione del datore di lavoro non
può legittimamente andare. I primi si rinvengono innanzitutto nell'articolo 2106 del codice civile, in forza del
quale le sanzioni devono essere proporzionate all'infrazione commessa. Perché siano proporzionate vi
dev'essere indicazione delle possibili infrazioni e a ciascun gruppo di queste infrazioni si collega una
sanzione, cioè un tipo di reazione che il datore di lavoro può adottare. Assolvono inoltre la funzione
fondamentale di rendere noto al lavoratore quali sono le conseguenze alle quali può andare incontro se
mantiene comportamenti in violazione dei suoi doveri. In mancanza di contratti collettivi il datore di lavoro
deve individuare lui stesso dei criteri di commisurazione delle sanzioni.
Altri limiti sostanziali sono posti, poi, dallo statuto dei lavoratori, che all'articolo 7 vieta di adottare sanzioni
che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro(eccezion fatta per il licenziamento disciplinare);
inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la
sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.” Un altro limite sostanziale attiene alla
recidiva, ne parlerò tra un po’, ma nell’art.7 il quale dice che non si può tener conto a nessun effetto delle
sanzioni disciplinari già adottate decorsi 2 anni dalla loro adozione. La recidiva è un elemento che può
aggravare una certa condotta solo se il fatto è stato commesso entro due anni; decorsi i quali la fedina
disciplinare del lavoratore torna pulita.
3) e stabilendo anche dei limiti procedurali, in modo che l'esercizio del potere discipinare tenga conto degli
interessi del lavoratore, garantendo un minimo di difesa allo stesso. Sono stabiliti interamente dall'articolo 7
dello statuto dei lavoratori. Tale norma, innanzitutto, impone al datore di lavoro la creazione di un codice
disciplinare, sancendo che le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni che le possono generare
e alle procedure con le quali si procede alla loro contestazione devono essere portate a conoscenza dei
lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile a tutti. Fa eccezione a questa regola di affissione il
pubblico impiego, perché nel pubblico impiego l’affissione può essere sostituita dalla pubblicazione sul sito
istituzionale (una forma di affissione in forma elettronica). Ogni amministrazione che abbia un sito
istituzionale anziché affiggere fisicamente su carta il codice disciplinare, può inserire un link all’interno del
sito istituzionale con su scritto con evidenza che si tratta del codice disciplinare.
Tali norme, inoltre, devono applicare quanto gli eventuali accordi e contratti di lavoro stabiliscono in materia
“ove esistano”, ma tale termine ha creato un dibattito in dottrina, in quanto secondo una prima corrente tale
espressione signficherebbe ove il datore di lavoro applichi il contratto collettivo, mentre per un altra ove ci
sia un contratto collettivo per quel settore, ma in quest'ultimo caso con l’effetto che anche se il datore di
lavoro non lo applica è tenuto comunque a richiamare il codice disciplinare del contratto collettivo. Per cui
se il datore di lavoro è tenuto ad applicare un contratto collettivo, è anche tenuto a farsi un codice
disciplinare che rispetti quello che dicono i contratti collettivi, tanto è vero che la prassi è in questo senso.
Il secondo importante limite procedurale posto dall'articolo 7 è rappresentato dal divieto per il datore di
lavoro di adottare qualsivoglia provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli prima
contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. A tal riguardo si sottolinea che il lavoratore al quale
sia contestata un'infrazione può farsi assistere dinnanzi al datore di lavoro da un rappresentante
dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato (nello Statuto dei lavoratori infatti non è
ammesso farsi difendere da un avvocato). La norma in commento stabilisce, poi, che i provvedimenti
disciplinari più gravi del semplice rimprovero verbale possono essere applicati solo dopo che siano trascorsi
cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che li ha causati.
Non deve passare un tempo eccessivamente lungo, tra il fatto e la contestazione perché secondo le
interpretazioni dottrinali la contestazione deve comunque essere caratterizzata dall'IMMEDIATEZZA. La
ragione per cui deve essere immediata è fondamentalmente questa: la funzione di contestazione è quella di
dare al lavoratore la possibilità di difendersi, più la contestazione arriva tardi, rispetto al momento in cui il
datore di lavoro è venuto a conoscenza del fatto, più il lavoratore ha difficoltà a difendersi, perché la distanza
temporale dal momento in cui il fatto sarebbe stato commesso rende più difficile ricordare, complica diciamo
l’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, oltre a poter ingenerare nel lavoratore stesso l’idea che
il datore di lavoro abbia deciso di soprassedere rispetto al potere disciplinare. Si tratta di privare il potere
disciplinare del tratto poliziesco: il lavoratore non deve vivere in uno stato d’ansia prolungato rispetto alle
conseguenze che possono derivare da un comportamento che egli abbia mantenuto sul luogo di lavoro.
Tant’è vero che alcuni codici disciplinare dei contratti collettivi si occupano di fissare dei limiti temporali
entro cui quali la contestazione di addebito deve essere elevata, normalmente stabiliti in 20-30 giorni. Se il
datore di lavoro supera questo termine la contestazione disciplinare non può più essere elevata e il lavoratore,
anche qualora abbia commesso il fatto, non può più essere sanzionato. Ove i contratti collettivi non
intervengano a fissare una data, il problema si pone perché c’è una inevitabile discrezionalità da parte del
giudice, il quale è chiamato ad accertare se la contestazione è stata fatta in ritardo, si trova a dover valutare
una serie di elementi: la complessità degli accertamenti che è richiesto che il datore di lavoro faccia, se c’è
un adempimento direttamente percepibile oppure un inadempimento che ha richiesto una attività di indagine
da svolgere a cura del datore di lavoro (ad es. un lavoratore che sia rimasto assente con un certificato medico
che poi abbia mantenuto un comportamento incompatibile con la condizione di salute richiede accertamenti
di una certa complessità, rispetto ad un semplice ritardo del lavoratore che è accertabile immediatamente), e
poi anche un altro elemento che i giudici valutano per stabilire se l’indebito è stato contestato con più o meno
immediatezza, è la complessità dell’organizzazione aziendale: più l’azienda è complessa nei suoi processi
più si tollerano tempi più lunghi, fermo restando che non possono essere mesi, per intenderci. Il termine
dilatorio inizia a decorrere dal momento in cui l’azienda ha conosciuto il fatto di inadempimento, non dal
momento in cui il fatto è stato posto in essere.
La contestazione disciplinare deve essere specifica: per cui nella descrizione del fatto che si contesta al
lavoratore, il datore di lavoro si deve sforzare di essere il più specifico possibile. Non sono ammesse
contestazioni di carattere generico perché il lavoratore deve essere messo in condizione di difendersi e la
difesa la si può fare solo se mi dici le cose che ho effettivamente fatto, e quindi mi devi indicare le
circostanze di tempo, di luogo e di modo con cui io avrei commesso il fatto. Deve essere completa: cioè il
tema decidendum del procedimento disciplinare, e poi del futuro processo di impugnazione della sanzione,
viene fissato dalla contestazione di addebito. Se la contestazione di addebito contiene certi fatti la sanzione
non può essere legata ad altri fatti che non son stati contestati. Naturalmente si possono aggiungere elementi
di contorno, però i fatti principali devono essere interamente contenuti nella contestazione di addebito.
La tempestività è richiesta non solo rispetto alla contestazione di addebito ma anche rispetto all’adozione
della sanzione. Anche qui i contratti collettivi talora si preoccupano di stabilire entro quanto la sanzione deve
essere adottata, in altri casi è il giudice che deve valutare. Tendenzialmente non sono ammessi tempi lunghi
perché, se passa molto tempo senza che il datore di lavoro adotti la sanzione, quello che si presume è che egli
abbia rinunciato ad adottarla o comunque abbia accolto le giustificazioni del lavoratore, e a quel punto non
c’è più inadempimento e quindi non c’è più sanzione.
Questo art. 7 ci dà anche una idea di quale sia la tipologia delle sanzioni:
1. La minore è il rimprovero verbale, per cui non è necessaria nessuna procedura;
2. La censura, altrimenti detto rimprovero scritto, che invece richiede una contestazione di addebito,
con difesa, termini ecc.;
3. La multa, cioè la sottrazione di ore di retribuzione;
4. La sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
Nel pubblico impiego gli interessi sono molto diversi, cioè il datore di lavoro pubblico e il datore di lavoro
privati, sebbene siano assoggettati alle stesse regole, sono due datori di lavoro profondamente diversi: il
datore di lavoro privato è essenzialmente libero, libertà controbilanciata dal principio di responsabilità
perché ognuno è libero di fare quello che vuole, ma se fa quello che vuole male fallisce. Nelle pubbliche
amministrazioni invece dove non vi è un principio di responsabilità, il datore di lavoro pubblico che non è
assoggettato a nessuna regola di responsabilità non ha neanche il vantaggio di essere libero: il datore di
lavoro pubblico è obbligato invece a funzionare bene, la regola è che deve essere efficiente ed imparziale
(art. 97 Cost.). Per cui, mentre il datore di lavoro privato è libero di adottare o meno le sanzioni disciplinari,
se le adotta la sua organizzazione sarà efficiente se non le adotta sarà meno efficiente, il datore di lavoro
pubblico che invece è obbligato ad essere efficiente per Costituzione non è libero di adottare o non adottare
le sanzioni disciplinari. Ci sono molti casi in cui la legge gli impone l’obbligo di adottare delle sanzioni
disciplinari oltre ad esserci un procedimento che è molto formalizzato a garanzia dei lavoratori.

Il processo disciplinare termina o con l’adozione della sanzione o con un provvedimento del datore di lavoro
il quale ritiene di non dover adottare nessuna sanzione. Al proscioglimento è equiparata la mancata adozione
di qualsiasi decisione da parte del datore di lavoro per un lasso di tempo apprezzabile.
Ora noi supponiamo che termini con l’adozione di una sanzione disciplinare; ed in tal caso il lavoratore non
si può sottrarre all’applicazione della sanzione disciplinare. Cosí quando abbia la convinzione che la
sanzione disciplinare sia stata male irrogata, o perché il fatto non sussiste, o perché la sanzione difetta di
proporzionalità, o perché sussistendo l’una e l’altra tuttavia il datore ha saltato uno o più elementi della
procedura, per esempio il codice disciplinare non è stato affisso, oppure non si è rispettato il termine di 5
giorni, oppure non si è fatta la contestazione dell’addebito , quando anche il lavoratore abbia la certezza che
la sanzione sia stata male irrogata egli la deve subire, ma puó comunque reagire nelle forme previste dalla
legge, e queste sono essenzialmente sono due:
A) la via giurisdizionale, e cioè impugnare la sanzione davanti al giudice, cosí che possa valere tutti i vizi
che ritiene vi siano stati o nel procedimento o nella sostanza nell’adozione della sanzione. Tuttavia, i
procedimenti disciplinari hanno un infimo valore dal punto di vista economico-patrimoniale e questo limita il
loro ricorso,.come per le sanzioni cd. conservative cioè rimprovero scritto, rimprovero orale, la multa, salvo
quando si tratti di licenziamento Quando c’è di mezzo un rimprovero scritto praticamente non c’è valore
monetario, quando c’è un multa il valore monetario è 4 ore di retribuzione e sono pochi spiccioli, quando vi è
di mezzo una sospensione sono 10 giorni al massimo di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sempre
valore molto basso. E tuttavia il processo davanti al giudice nel quale si contesta una sanzione disciplinare è
un processo a tutti gli effetti.
B) la legge prevede poi un'altra via di risoluzione delle controversie in cui vengono in rilievo queste ed è una
via stragiudiziale, che è fuori dal processo, prevista dall'art. 7. Infatti il lavoratore al quale sia stata inflitta
una sanzione disciplinare, entro i successivi venti giorni (e salve analoghe procedure previste dai contratti
collettivi di lavoro nonché ferma restando la possibilità di adire l'autorità giudiziaria) può promuovere la
costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato tramite l'ufficio provinciale del lavoro, anche per
mezzo dell'associazione alla quale egli sia iscritto o conferisca mandato. Il collegio che si forma è composto
da un rappresentante per ciascuna parte e da un terzo membro scelto di comune accordo o, ove non sia
possibile, dal direttore dell'ufficio del lavoro. Fino alla pronuncia del collegio la sanzione disciplinare resta
sospesa. L'articolo 7 stabilisce poi che se il datore di lavoro non provvede entro dieci giorni dall'invito
rivoltogli dall'ufficio del lavoro alla nomina del proprio rappresentante in seno al collegio, la sanzione
disciplinare irrogata non ha effetto, mentre se egli adisce l'autorità giudiziaria la sanzione resta sospesa sino a
che il giudizio non sia definito. Con questo abbiamo esaurito il potere disciplinare.

Lezione 10 (24/4/2018)
La disciplina del pubblico impiego ha delle particolarità, che tengono conto della diversa natura del datore di
lavoro. Il datore privato si muove nella cornice del principio di libertà di iniziativa economica dettato all’art.
41 Cost. che è molto ampio, di iniziare e svolgere ,di cessare in tutto o in parte l’attività economica. E questa
libertà è controbilanciata da una regola di responsabilità perche l’imprenditore rischia del suo e se gestisce
male questa libertà, ci rimette. I datori di lavoro pubblici invece, le pubbliche amministrazioni sebbene
abbiano la stessa disciplina del datore privato, non hanno questa regolamentazione. Cioè non si muovono
secondo canoni di libertà perché sono al contrario non libere ma funzionalizzate ad uno scopo che la legge
prevede che è quello di soddisfare l’interesse pubblico. E perciò vi sono regole di funzionamento: deve
trattare in modo tendenzialmente uguale tutti i lavoratori e funzionare secondo criteri di efficienza.
Per esempio il caso della modifica delle mansioni, noi sappiamo che nell’impiego privato il datore di lavoro
che adibisse il lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori a sei mesi, questa diventa definitiva. Nel
pubblico impiego questa regola non funziona perché dovendo essere imparziale la pubblica amministrazione
non può a sua iniziativa adibire un lavoratore ad una mansione superiore, perché l’avanzamento di carriera
secondo la legge nel pubblico impiego deve svolgersi secondo le forme del pubblico concorso.
Ora anche nell’ambito delle sanzioni disciplinari esiste una regolamentazione diversa fra privato e pubblico,
visto che esistono una serie di ipotesi non presenti nel settore privato in cui per legge il datore di lavoro
pubblico è obbligato ad adottare le sanzioni. In secondo luogo nell’ambito della PA obbligatoriamente le
sanzioni disciplinari devono essere somministrate da un organismo che si chiama ufficio per i procedimenti
disciplinari, cui spetta la contestazione dell’addebito fino all’adozione della sanzione. Nell’ambito delle PA
la legge non ha riprodotto il divieto di adottare misure che comportano modificazioni definitive del rapporto
di lavoro e soprattutto non prevede gli stessi diritti sostanziali previsti nell’art.7 dello statuto dei lavoratori.
Nel pubblico impiego vi sono ipotesi di sospensione molto lunghe, e si arriva anche a sei mesi.

Adesso vediamo dalla posizione attiva del datore di lavoro e passiva del lavoratore, alle posizioni passive del
datore e attive del lavoratore, cioè retribuzione a prestazioni accessorie. Il datore di lavoro ha tra le
obbligazioni fondamentali quella di retribuire e accanto a questa ha l’obbligo di proteggere il lavoratore.
Dice l’art.2087 cod.civ. che l’imprenditore ha l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le
misure che secondo l’esperienza e la tecnica sono necessarie e indispensabili per tutelare l’integrità fisica e
la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Ora questa è una norma di grande potenzialità interessante che nonostante sia una norma datata è costruita in
modo tale da consentire la sua permanente attualità; tanto è vero che sotto questa disposizione generale è
fiorita negli anni tutta una disciplina che si chiama di carattere prevenzionistico che riguarda l'igiene e la
sicurezza sul lavoro. A partire dal 1996 in Italia su spinta derivante dalla legislazione comunitaria il
legislatore italiano è stato costretto ad adottare una disciplina di legge oggi contenuta nel decreto 81 del 2008
una disciplina estremamente dettagliata ed avanzata in materia di tutela della sicurezza e igiene del lavoro,
che stabilisce in maniera minuziosa per ogni singola lavorazione nei singoli minimi particolari quali sono i
doveri del datore di lavoro volti a garantire che il lavoratore non subisca pregiudizi durante lo svolgimento
dell'attività lavorativa, per cui ci sono disposizioni che stabiliscono ad es. la distanza che deve osservare il
lavoratore dal computer le pause per garantire al lavoratore di potersi muovere, come maneggiare le sostanze
chimiche, cosí come un apparato procedurale che obbliga il datore di lavoro per certi settori a dotarsi di un
medico competente ad avere un piano di sicurezza sul lavoro per far fronte ad eventuali situazioni impreviste
a dare e impartire ai suoi dipendenti una formazione specifica che consenta al lavoratore di far fronte a una
situazione di pericolo, ad avere dei lavoratori che possano occuparsi della sicurezza sul lavoro. Poiché il
lavoro è personale, la persona perde qualcosa, ossia salute, visto che essenzialmente viene pagato per
consumarsi, e una volta consumato non gli rimane nulla e dovrebbe smettere l'attività lavorativa e avere di
fronte a se ancora una prospettiva di vita il più possibile sana, allora il datore di lavoro tende a mettere in
conto queste cose, mentre normalmente alle misure che invece tendono a proteggere i lavoratori in via
preventiva ci pensa la legge di derivazione comunitaria che ha obbligato il datore di lavoro ad adottare una
serie di misure che dovrebbero il più possibile, neutralizzare l'effetto usura.
Le misure contenute nell'art. 2087 in caso di violazione sono pesantemente sanzionate oltre alla previsione di
richieste risarcitorie da parte dei lavoratori in caso di danni alla loro mobilità psicofisica. Le espressioni
“misure secondo l'esperienza e la tecnica” contenute nell'art. 2087 hanno generato la contrapposizione di due
posizioni dottrinali:
- di cui una lettura massimalista obbligava il datore di lavoro a dotarsi dell'ultima tecnologia esistente sul
mercato, cioé se in Giappone qualcuno avesse inventato un particolare filtro, una particolare mascherina, un
particolare tipo di occhiali in grado di schermare i raggi UV, il datore si sarebbe dovuto munire di
quell'attrezzatura, che era peró infinitamente costosa e molto difficile da recuperare, ed era quindi una lettura
che comportava una penalizzazione eccessiva per i datori di lavoro che non potevano mai stare tranquilli,
perché magari oggi si comprava le ultime costosissime tecnologie sul mercato ed il giorno dopo ne uscivano
delle nuove che richiedevano un nuovo acquisto.
- mentre l'altra lettura si fonda sul principio dell'esigibilità, e che permette al datore di lavoro di liberarsi del
suo obbligo alla sicurezza se adotta delle misure standard.
Se non ottempera ai suoi obblighi di sicurezza il lavoratore ha innanzitutto ha delle tutele indirette, visto che
vi sono particolari organismi di diritto pubblico di vigilanza ai quali il lavoratore si può rivolgere facendo
delle segnalazioni che comportano normalmente accertamenti e sanzioni al datore di lavoro. Oltre a questo il
lavoratore ha a disposizione tutti gli strumenti che servono a garantire la tutela giurisdizionale dei diritti.
L'art. 2087 pone degli obblighi in capo al datore di lavoro e correlativamente dei diritti in capo al lavoratore.
Il lavoratore che si accorge di lavorare in un ambiente che non è sicuro perché non ha adottato tutti gli
strumenti per garantire la sicurezza può chiedere al datore di lavoro di adempiere e qualora non lo faccia
convenirlo davanti al giudice, chiedendo che il giudice accerti che il datore di lavoro è inadempiente e quindi
lo condanni ad adempiere. Il lavoratore ha peró anche una via che gli permette di autotutelarsi anzi che
eterotutelarsi, ossia l'eccezione di inadempimento, per cui il lavoratore può rifiutarsi di adempiere fino a
quando il datore di lavoro non adempia ai suoi obblighi. È peró una forma di tutela pericolosa, accettabile
solo in situazioni di immediata emergenza come quando il lavoratore avverta una fuga di gas nel luogo in cui
lavora. Mentre in situazione piú dubbie dove il lavoratore non puó aver modo di sapere se quelli sono gli
standard idonei, egli rischia con tale condotta di compiere un atto di insubordinazione e quindi rischiare il
licenziamento.
Ci sono poi delle situazioni di pericolo che non sono tanto legate agli adempimenti del datore di lavoro
rispetto alle dotazioni strumentali, ma ipotesi in cui il lavoratore che ritenga che sia stata lesa la sua
personalità o dignità morale; del lavoratore che è costretto a stare in un ambiente di lavoro in cui deve subire
delle angherie, inumanità, che alla fine minano la sua salute psicologica e lamenti di subire comportamenti
vessatori da parte dei colleghi o del datore di lavoro; i suddetti comportamenti rientrano nello spettro
dell'articolo 2087 e il datore di lavoro risponde sia quando i comportamenti mobbizzanti siano compiuti da
lui stesso che dai propri dipendenti, se non è intervenuto, per rimuovere le situazioni di pericolo, visto che é
tenuto a garantire un ambiente il più possibile sereno ed esente da rischi.

Lezione 11 (27/4/18)
Affronteremo il tema delle interposizione illecita di manodopera. Sotto il profilo prettamente giuridico,
giuslavoristico, il lavoro è quello che viene prestato dal lavoratore. Può essere un lavoro subordinato,
autonomo, ma l'oggetto é la prestazione lavorativa. Sotto il profilo economico il lavoro è uno dei fattori della
produzione, così come i macchinari che organizza l'imprenditore. Sotto il profilo sociologico il lavoro
rappresenta dignità, che va oltre una prestazione lavorativa in grado di soddisfare dal punto di vista
economico non solo la mia persona e famiglia, ma anche esigenze dal punto di vista professionale, di crescita
umana e via dicendo. Ragion per cui esistono diverse definizioni di lavoro. Ë peró chiaro cosa non può
essere il lavoro, e cioé una situazione di cortesia, per cui un amico mi chiede un aiuto e io svolgo una
prestazione lavorativa , di cortesia, e lo aiuto a spostare mobili.
In tempi abbastanza recenti Papa Francesco ha detto che il lavoro non può essere una merce, ma tale con tale
formula non ha fatto altro che citare la convenzione OIL 1919, che per prima ha fatto tale riconoscimento.
Quindi si, sotto il profilo economico, il lavoro è un fattore di produzione come una macchina ma il lavoratore
non può essere trattato come una macchina, perchè ci sono dei diritti inviolabili in gioco che la macchina
ovviamente non ha. La legge infatti vuole evitare fenomeni di CAPORALATO, che è un sistema informale
di organizzazione del lavoro agricolo temporaneo, svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro (squadre)
di dimensione variabile (da pochi individui a diverse centinaia). Questo si fondava sulla capacità del
"caporale" di reperire la manodopera a basso costo, per le prestazioni agricole presso i proprietari terrieri e
società agricole. Il caporale agisce come mediatore illegale di manodopera e gestore dei lavori secondo le
richieste dell'imprenditore agricolo. Il caporale ingaggia per conto del proprietario i braccianti e stabilisce il
loro compenso del quale tiene per sé una parte che gli viene corrisposta sia dal proprietario che dai braccianti
reclutati. Dalla seconda metà del '900, con lo sviluppo del diritto del lavoro, la pratica del caporalato è
progressivamente emersa come attività della criminalità organizzata volta all'elusione della disciplina sul
lavoro, mirante allo sfruttamento illegale e a basso costo di manodopera agricola. I salari elargiti ai lavoratori
('giornate') sono notevolmente inferiori rispetto a quelli del tariffario regolamentare e spesso privi di
versamento dei contributi previdenziali. Si tratta di un fenomeno problematico che si verifica
prevalentemente nel sud Italia, e che fa si che i lavoratori che lavorano per il datore, formalmente non sono
assunti e quindi non assume nessuna responsabilità nei loro confronti.

Un altro fenomeno é il CD contratto interinale (ossia ad interim, e cioè provvisorio) che è una particolare
forma di lavoro caratterizzata dalla presenza di tre soggetti coinvolti nel rapporto: l’Agenzia interinale
somministratrice, il lavoratore, l’azienda utilizzatrice. Il lavoratore viene assunto dall’Agenzia interinale che
provvede a somministrarlo (cioè a metterlo a disposizione) per un determinato periodo di tempo ad
un’impresa che ne fa richiesta. Questa potrebbe essere considerata una forma di Interposizione, di utilizzo
del lavoro come se fosse una merce, ma tutti noi ormai pensiamo che fenomeni di questo tipo siano leciti. La
somministrazione è un istituto contrattuale che trova piena legittimità nel nostro ordinamento giuridico e
nessuno lo mette più in discussione, in quanto deriva da esigenze derivamenti un bilanciamento degli
interessi, in quanto bisogna considerare anche gli interessi del datore, di organizzarsi in modo libero e questo
puó cosí portare ad un utilizzo di forza lavoro assunta e retribuita da un altro soggetto giuridico. Gli art. che
hanno reso necessarui il bilanciamento sono il 35 per il lavoratore quando sancisce che la repubblica tutela il
lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, ed il 41 quando stabilisce che l'iniziativa economica privata è
libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana". Allora non dobbiamo prendere alla lettera l'affermazione di non trattare il
lavoro come una merce, perché ciò che conta è che il lavoro si è tutelato anche in queste forme e
applicazioni.

LA SOMMINISTRAZONE DI LAVORO: Il pregresso divieto di interposizione di manodopera e le


garanzie per l’appalto lecito (L. n. 1869/1960).
L’interposizione di manodopera è un’antica prassi, volta a liberare i datori di lavoro dalla propria
responsabilità giuridica ed economica nei confronti dei lavoratori, scaricandola su altri soggetti (intermediari
o interposti) così da potersi assicurare manodopera in maniera meno costosa e più flessibile. Questo
fenomeno è definito nel linguaggio del legislatore del 1960 come interposizione.
Divieto di interposizione. La cattiva immagine lasciata nella storia dai raggiri e dagli abusi di intermediari e
reclutatori (che scomparivano quando dovevano adempiere agli obblighi nei confronti dei lavoratori) hanno
spinto il legislatore italiano a porre un divieto di interposizione per via della compressione della tutela dei
lavoratori e per la mercificazione della loro essenza. Il sistema della L. n. 1369/1960 vietava quella
condizione in cui un committente, imprenditore o non imprenditore, si rivolgeva ad un altro soggetto, detto
interposto, per richiedere la fornitura di un certo numero di lavoratori assunti e retribuiti direttamente da
questo, ma operanti alle dipendenze del primo. L'interposto si rivelava un fantoccio che, privo di garanzie di
solidità economico-finanziaria, lucrava sull'attività interpositoria (facendo pagare un prezzo anche ai
lavoratori). Era così vietata la fornitura di manodopera, con sanzioni sia sul piano civile sia penale in caso di
violazione. La sanzione civile stabiliva che, eliminato lo schema dell'interposto, i lavoratori fossero
considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dirette di chi ne avesse effettivamente utilizzato le prestazioni,
tutelando gli interessi individuali, personali e patrimoniali del lavoratore coinvolto nella fattispecie
interpositoria. Con la sanzione penale (contravvenzione) si garantiva l'interesse pubblico all'inderogabilità
delle norme protettive poste a tutela del lavoratore subordinato.
L’appalto lecito. Oltre alla fattispecie vietata della mera interposizione fittizia, la legge del 1960
disciplinava anche quella dell’appalto “lecito”, in cui il fornitore non conferiva solo la manodopera
all’utilizzatore, ma apportava un complessivo servizio o un’opera compiuta, con l’utilizzo di una propria
organizzazione di mezzi, strumenti e personale gestiti a proprio rischio. Dunque l’elemento che
contraddistingueva l’appalto lecito era l’apporto di strutture materiali da parte dell’appaltatore, senza il quale
la fornitura era limitata solo al personale , quindi illecita. Successivamente si sono diffusi appalti a basso
impiego di strutture materiali e con prevalente apporto del fattore lavoro portando a considerare quale
elemento di liceità il fatto che l’appaltatore organizzasse i fattori produttivi e dirigesse i lavoratori impiegati.
Garanzie per i lavoratori nell’appalto lecito. Tale tipologia di appalto lecito era comunque accompagnata
dalla garanzia di solidarietà tra appaltante e appaltatore per i crediti dei lavoratori impiegati da quest’ultimo
nell’appalto, e da un vincolo di parità di trattamento retributivo e normativo dei lavoratori dipendenti
dell’appaltatore pari a quello riconosciuto ai dipendenti dell’appaltante. Il legislatore però non era favorevole
al decentramento produttivo, dunque lo scopo era quello di utilizzare il lavoro dell’appaltatore, per il minor
costo. Entrambi i tipi di appalto sono stati riformati dal legislatore.
La legittimazione della somministrazione di lavoro. Dapprima la L. n. 196/1997 (c.d. Pacchetto Treu) e
poi il D. Lgs. 276/2003, a determinate condizioni e con precisi vincoli garantistici, hanno reso legittima la
interposizione vietata dalla legge del 1960, attraverso la abrogazione di quest’ultima.
La triangolazione consentita assume il nome di “somministrazione di lavoro” ed è quella situazione in cui il
somministrante (agenzia per il lavoro) resta datore di lavoro e assume gli obblighi retributivi e contributivi,
l’utilizzatore esercita i poteri direttivi nei confronti dei lavoratori e corrisponde al somministrante un
compenso globale. Si realizza così una scissione tra la titolarità formale del rapporto di lavoro (in capo al
somministrante) e l’utilizzo del rapporto di lavoro (da parte dell’utilizzatore). I soggetti coinvolti sono tre:
agenzia fornitrice, utilizzatore e lavoratore e i contratti sono 2, uno di fornitura stipulato dall’agenzia con
l’utilizzatore e uno di lavoro subordinato stipulato dall’agenzia con il lavoratore.
I vantaggi di tale triangolazione sono diversi. L’utilizzatore non deve effettuare la ricerca e formazione del
personale, non deve gestire il rapporto dal punto di vista amministrativo, può sperimentare il lavoratore per
un periodo superiore a quello del periodo di prova, alla cui scadenza può “restituire” il lavoratore all’impresa
di somministrazione senza dover ricorrere a procedure di licenziamento, o può assumere il lavoratore alle
proprie dipendenze se convinto. L’agenzia riceve un profitto per l’attività imprenditoriale di ricerca,
selezione, formazione.
La disciplina della somministrazione di lavoro. È quindi lecita la somministrazione che rispetta i limiti e le
condizioni previste dalla disciplina della somministrazione di lavoro, pena l’imputazione del rapporto in
capo all’utilizzatore. Pertanto in primo luogo possono svolgere attività di somministrazione, cioè fornitura
professionale di manodopera solo soggetti autorizzati dal Ministero del lavoro, a condizione che siano in
grado di garantire una solidità economica, finanziaria e organizzativa. Ed in secondo luogo la fornitura di
lavoro può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato. Quest’ultima tipologia è stata molto
contestata, ed è stata abrogata dal Governo di centro sinistra, ma la legge Finanziaria per il 2010 (L. n.
191/2009,emanata dal Governo di centro destra) ha legittimato tale tipologia, nei casi originariamente e
tassativamente previsti dall’art. 20 del D. Lgs. n. 276/2003.
Requisiti del contratto. Per il contratto di somministrazione sono previsti precisi requisiti di forma (l’atto
scritto ad substantiam) e di contenuto (i c.d. elementi obbligatori: estremi dell’autorizzazione dell’agenzia,
numero dei lavoratori da somministrare, causali giustificative, eventuali rischi per la salute dei lavoratori...).
Tutte le informazioni che riguardano il contratto di somministrazione devono essere date dall’agenzia al
lavoratore al momento della stipulazione del contratto di lavoro subordinato o al momento dell’invio presso
l’utilizzatore a pena di sanzione amministrativa. L’utilizzatore ha l’obbligo di comunicare ai sindacati il
numero e i motivi del ricorso alla somministrazione in occasione di ogni fornitura e ogni dodici mesi.
Divieti di somministrazione. La somministrazione è vietata: 1) per la sostituzione di lavoratori in sciopero;
2) per le unità produttive e per le mansioni interessate, nei 6 mesi precedenti, dai licenziamenti collettivi o
integrazioni salariali; 3) per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.
La L. n. 191/2009 ha consentito la stipula del contratto di somministrazione anche quando sono stati
effettuati licenziamenti collettivi di lavoratori che svolgevano gli stessi compiti contenuti nel contratto di
somministrazione, se la somministrazione è diretta a sostituire i lavoratori assenti o se viene conclusa
prevedendo l’utilizzo di lavoratori in mobilità assunti dal somministratore con un contratto di lavoro a
termine di durata non superiore a 12 mesi, oppure se ha una durata iniziale non superiore a 3 mesi.
Incentivi. Tale legge ha inoltre previsto degli incentivi per i lavoratori assunti dall’utilizzatore al termine
della somministrazione: 1200 euro per ogni lavoratore intermediato che viene assunto con un contratto a
tempo indeterminato o contratto a termine di durata non inferiore a 2 anni, con esclusione della
somministrazione di lavoro e del contratto di lavoro intermittente; 800 euro per ogni lavoratore intermediato
che viene assunto con contratto a termine di durata compresa tra 1 e 2 anni, con esclusione della
somministrazione di lavoro e del contratto di lavoro intermittente; tra i 2500 e i 5000 euro per l’assunzione,
con contratto a tempo indeterminato, di inserimento al lavoro o a termine non inferiore a 12 mesi, dei
lavoratori disabili iscritti nelle liste speciali, che abbiano particolari caratteristiche e difficoltà d’inserimento
nel ciclo lavorativo ordinario.
Il contratto di lavoro subordinato. Accanto al contratto di somministrazione (a termine o tempo
indeterminato) stipulato tra l’agenzia autorizzata e l’utilizzatore troviamo il contratto di lavoro subordinato
tra agenzia e lavoratore, che non è collegato con il primo. Il contratto di lavoro subordinato, a prescindere
dalla natura o dal termine della somministrazione, può essere stipulato a tempo pieno o parziale, a tempo
determinato, prorogabile con il consenso del lavoratore, o a tempo indeterminato, con diritto del lavoratore,
per i periodi in cui resta in attesa di assegnazione, ad una più ridotta “indennità di disponibilità”.
Rapporto tra lavoratore e utilizzatore. I lavoratori somministrati sono alle dipendenze dell’agenzia,
titolare del contratto di lavoro, ma essi svolgono la propria attività lavorativa sotto la direzione ed il controllo
dell’utilizzatore. E’ sull’agenzia che gravano in favore dei lavoratori gli obblighi retributivi e contributivi,
previdenziali ed assistenziali, ma vi però una obbligazione solidale sussidiaria dell’utilizzatore, che
comunque è contrattualmente tenuto a rimborsare all’agenzia i costi da questa sostenuti per i lavoratori.
Potere direttivo, disciplinare. Jus variandi. Per quanto riguarda l’esercizio dei poteri tipici del datore di
lavoro, si ha una divisione tra il potere direttivo e di controllo, che spettano all’utilizzatore ed il potere
disciplinare che resta in capo all’agenzia. In caso di jus variandi da parte dell’utilizzatore, quest’ultimo ha
l’obbligo di una immediata comunicazione scritta all’agenzia; in mancanza l’utilizzatore dovrà corrispondere
al lavoratore le differenze retributive o il risarcimento del danno eventualmente dovuti.
Parità di trattamento. L’art. 23, 1° comma, prevede la regola della parità di trattamento riconoscendo che il
lavoratore somministrato ha diritto ad un “trattamento economico non inferiore a quello dei dipendenti di
pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte”.
Deroga per i lavoratori svantaggiati. Una deroga all’obbligo di applicare ai lavoratori somministrati un
trattamento economico e normativo non inferiore a quello dei dipendenti dell’utilizzatore è prevista per i
lavoratori svantaggiati, cioè quei soggetti che trovano particolari difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, a
condizione però che vengano assunti dall’agenzia di somministrazione per almeno 6 mesi con un piano
individuale di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro.
Tutela della salute e sicurezza. Salvo diversa previsione contrattuale, l’agenzia di somministrazione deve
addestrare i lavoratori ed informarli sui rischi generali per la loro sicurezza e salute, mentre tale obbligo
ricade sull’utilizzatore per i rischi specifici, cioè quelli relativi alle mansioni a cui verranno adibiti. Gravano
sull'utilizzatore nei confronti dei lavoratori somministrati tutti gli obblighi di sicurezza e protezione
individuati dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Gli enti bilaterali del settore. A causa della sua originaria opposizione alla legittimazione della
somministrazione di lavoro, il sindacato, ha condizionato l’introduzione di tale istituto alla previsione di
alcune garanzie e vantaggi in favore dei lavoratori somministrati. Sono stati così disciplinati 3 enti bilaterali
(Formatemp, Ebitemp, Ebiref) che offrono ai lavoratori particolari modalità formative e forme di sostegno al
reddito per i periodi di inattività.
I risvolti giuslavoristici dell’appalto lecito. Diversa dall’ipotesi di mero conferimento di personale diretto e
coordinato dall’utilizzatore – ipotesi ieri vietata, oggi consentita a precise condizioni – è l’ipotesi
dell’appalto genuino in cui è l’appaltatore ad apportare e coordinare gli strumenti produttivi e personale con
assunzione del rischio imprenditoriale.
L’originaria diffidenza legislativa. Nei confronti dell’appalto lecito, che determina un decentramento della
produzione, il legislatore è rimasto per diverso tempo diffidente. A partire dagli anni ’80 però si riconosce la
convenienza delle operazioni di esternalizzazione di segmenti produttivi. Per cui il legislatore ha pensato di
ampliare la fattispecie lecita e di attenuare i vincoli in precedenza previsti.
La puntualizzazione della fattispecie. L’art. 29 del D. Lgs. n. 276/2003 ha precisato che si può di
considerare legittimo anche il solo esercizio dei poteri datoriali nei confronti dei lavoratori (da parte
dell’appaltatore), pur in assenza di un apporto di strumentazioni (e quindi solo in presenza di obbligazioni di
facere, e mai di dare); per contro è illecito l’appalto se i lavoratori sono diretti e coordinati dall’appaltante.
Sussisteva dunque una presunzione assoluta di illegittimitá qualora il datore fornisse al lavoratore la
strumentazione di cui aveva bisogno per lo svolgimento delle proprie prestazioni. Un appalto di pulizia è, ad
es., legittimo se è la ditta di pulizie a dirigere e coordinare i lavoratori; è illegittimo se tali poteri sono
esercitati dall’appaltante; se i lavoratori sono “inviati” all’utilizzatore da un soggetto autorizzato a svolgere
attività di somministrazione la fattispecie è considerata legittima somministrazione di manodopera.
Il superamento della presunzione. Il legislatore del 2003 ha inoltre abrogato l’art. 1 della L. n. 1369/1960,
secondo cui l’appalto era considerato illecito quando la proprietà dei capitali, delle macchine e delle
attrezzature impiegate nell’appalto era del committente-appaltante. Oggi macchine e attrezzature di proprietà
dell’appaltante possono essere noleggiate dall’appaltatore, purché quest’ultimo sia l’organizzatore dei fattori
produttivi.
Il superamento della parità di trattamento. È scomparso l’obbligo di parità di trattamento dei lavoratori
impiegati dall’appaltatore rispetto a quelli dipendenti dall’appaltante.
L’appalto non genuino, cioè privo dei requisiti previsti all’art. 29, è punito con la stessa sanzione penale
contravvenzionale della somministrazione non autorizzata. In più il lavoratore può chiedere la costituzione di
un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del committente che ha utilizzato effettivamente la
prestazione.
Un altro strumento di uso flessibile della forza lavoro che rientra nello schema della triangolazione lecito è
quello del comando o distacco. Questa figura comporta che il dipendente di un datore venga dislocato presso
un altro, con assoggettamento al comando ed al controllo di quest’ultimo. Questa non è altro che un’ipotesi
di fornitura lecita di manodopera non esercitata professionalmente (necessaria invece per la
somministrazione lecita). Dunque il distacco è quella somministrazione posta in essere temporaneamente da
un datore di lavoro qualunque (non una agenzia autorizzata) per soddisfare un proprio interesse; in caso di
distacco non corrispondente al tipo legale descritto è prevista la stessa sanzione civile prevista per la
somministrazione illecita e per l’appalto non genuino: imputazione del rapporto in capo all’effettivo
utilizzatore. Nel distacco vi é il permanere della titolarità del rapporto e dell’obbligo retributivo e
contributivo in capo al primo datore, anche se il lavoratore distaccato viene assoggettato al potere direttivo,
di controllo ed eventualmente disciplinare del secondo. Questo istituto é inoltre posto in essere non da
un’agenzia autorizzata, e in base all’art. 30 del D. Lgs. n. 276/2003 non è applicabile alle pubbliche
amministrazioni. Elementi di continuità con il passato, indispensabili per la liceità del distacco, sono:
- la presenza dell’interesse proprio del datore distaccante - se il distacco perseguisse l’interesse
dell’impresa del distaccata rio si avrebbe una somministrazione non autorizzata.
- la temporaneità del distacco, cioè non definitività.
Sanzioni per distacco illecito. Il distacco che non rispetta tali requisiti configura un’ipotesi illecita di
decentramento produttivo ed è punito con la stessa sanzione della somministrazione illecita: su domanda, il
lavoratore interessato può ottenere l’imputazione del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore.
Limiti al potere di distacco. A tutela del lavoratore distaccato sono poi previste 2 regole che corrispondono
a due limiti imposti al potere del distaccante:
- il distacco che comporta un mutamento di mansioni deve avvenire col consenso del lavoratore interessato;
- il distacco deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive
quando comporta un trasferimento ad una unità produttiva che si trova a più di 50 km da quella in cui il
lavoratore è adibito.

Lezione 12 (2/5/2018)
Un altro tema è la retribuzione, che costituisce un'altra obbligazione fondamentale del datore di lavoro,
riconosciuta all'art. 2094 quando afferma che il lavoratore è colui il quale si obbliga mediante retribuzione. Il
contratto di lavoro è perció un contratto a prestazioni corrispettive, e con causa onerosa, ragion per cui non è
possibile che un lavoratore si obblighi senza che dall'altra parte non ci sia un obbligo di retribuzione in modo
da fare una liberalità nei confronti del datore di lavoro, salvo che non vi siano condizioni e rapporti la
giustifichino: quindi rapporti di carattere familiare, dei religiosi nei confronti della chiesa, oppure oggi il
rapporto di lavoro nelle associazioni di volontariato. Ora solo in questi casi la causa del contratto potrá essere
gratuita.
La retribuzione, per il fatto di essere la controprestazione in un contratto di lavoro subordinato ha una sua
disciplina, che non vale per il compenso che viene dato ai lavoratori che non siano dipendenti; La
retribuzione deve essere accompagnata dalla consegna di un documento che è il cedolino paga CD busta
paga, che un tempo conteneva anche monetariamente la retribuzione, mentre oggi viene pagata normalmente
tramite accredito bancario. Questo cedolino contiene l'esposizione analitica riguardante le generalità del
datore di lavoro, del lavoratore, i dati anagrafici dell'uno e dell'altro, l'ammontare della retribuzione che
viene pagata, quali sono le trattenute e a chi sono fatte, tutti elementi che sono contenuti analiticamente nella
busta paga, che deve essere obbligatoriamente consegnata al lavoratore e se non gli viene consegnata il
datore di lavoro viene sanzionato.
La retribuzione rappresenta l’oggetto del contratto, ed è in larga parte sottratta alla libera determinazione, e
ció costituisce una limitazione dei poteri delle parti, che hanno solo la possibilità di determinare la misura
della retribuzione quando, rispettino i minimi stabiliti dai contratti collettivi, e cioé quando prevedano una
disciplina in melius rispetto al contratto collettivo.
La retribuzione è disciplinata anche dell'art. 36 della Costituzione, che sancisce che il lavoratore ha diritto ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a
sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. In Italia non esiste una legislazione sui minimi
contrattuali/retributivi, dato che uno spunto é presente solo a proposito dell'ipotesi marginale del lavoro
accessorio, dove le modalità di pagamento con il libretto famiglia sono tali per cui c’è un’indicazione del
valore minimo della prestazione. Noi questa cosa qui non ce l’abbiamo, ma abbiamo un altro tipo si
meccanismo per garantire i salari, che é molto più ingegnoso ed aderente alla realtà, perché il nostro art. 36
Cost. stabilisce non quale deve essere la misura della retribuzione, ma i criteri per determinarla, che essendo
generali, sono rimasti attuali poiché dotati di grande flessibilità e adattabilità ai diversi contesti, sia di
mercato di lavoro all’interno del Paese, sia di redditività di imprese, sia di valore della prestazione di lavoro
e inquadramento del lavoratore. Perché l’art. 36 individua i parametri della proporzionalità e sufficienza.
In ogni caso quando il giudice debba stabilire la retribuzionr minima il riferimento ai contratti collettivi non è
comunque obbligatorio, dato che si puó attenere anche a parametri più affidabile. Ci sono state decisioni dei
giudici in tal senso, argomentando che il contratto collettivo nazionale di categoria stabiliva delle condizioni
uguali per tutti ma ci sono dei contesti particolari, in cui il costo della vita è particolarmente basso, in cui ha
il lavoratore ha la possibilità di soddisfare in forma non mercificata i suoi bisogni, attingendo della natura,
coltivando l’orto, allevando gli animali, e quindi applicando delle riduzioni rispetto ai parametri dei contratti
collettivi. Ma son state delle decisioni sporadiche.
Nel 1948 l’idea che forse aveva il legislatore costituente, era quella di spingere il legislatore ordinario ad
adottare una legislazione sui minimi salariali, come esiste in altri Paesi d’Europa come Inghilterra. Ora,
questa previsione costituzionale non è mai stata attuata se non in piccola parte, e cioè nella parte che riguarda
le integrazioni dei redditi che spettano ai familiari, perché i lavoratori che hanno carico di famiglia ricevono
non solo la prestazione retributiva a carico del datore di lavoro, ma anche l’integrazione a carico dell’INPS,
che in passato si chiamava “ assegni familiari”, e che erano una somma più o meno elevata a seconda del
numero di figli a carico del lavoratore, e che avevano come scopo quello di integrare la retribuzione, perché
l’art. 36 dice che la retribuzione deve essere proporzionata e sufficiente a garantire una esistenza libera e
dignitosa anche alla famiglia del lavoratore, e siccome questa funzione era demandata allo Stato, per una
parte se n’è fatto carico personalmente.
Mai è entrata in vigore in Italia una legge sui minimi salariali, anche perché i sindacati erano contrari in
quanto temevano che sarebbe stato depotenziato il loro ruolo, che è appunto quello di contrattare in luogo dei
lavoratori la misura della retribuzione. Temevano inoltre che se una legge stabilisse che la retribuzione è tot.
euro all’ora, questo avrebbe condizionato la determinazione della misura della retribuzione, perché i datori
avrebbero potutoo rifiutare di contrattare a misure della retribuzione superiori ai minimi. Il problema era
sorto perché se fin dove c’era la contrattazione collettiva non c’era alcun problema sostanzialmente, ma
rimanevano problemi nei casi dove non si applichi il contratto collettivo.
Cosí ad es. se ci fosse stata un’impresa metalmeccanica della provincia di Cagliari che non applicava il
contratto collettivo dei metalmeccanici perché era fuori del tutto dal sistema contrattuale ed un lavoratore
avesse adito un giudice per vedersi applicare una retribuzione proporzionata e sufficiente, il giudice si
sarebbe richiamato al contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, non poteva riferirsi al contratto
aziendale di altra impresa metalmeccanica che opera nel settore. Il contratto collettivo nazionale, applicava la
voce minima della retribuzione, perché queste sono determinate attraverso un valore tabellare, ossia un
valore presente in delle tabelle. Le retribuzioni “tabellari” corrispondono al minimo che spetta al lavoratore,
al di sotto del quale il datore di lavoro non può scendere. Ma la retribuzione che poi il lavoratore percepisce,
non è quasi mai quella tabellare, perché gli stessi contratti collettivi stabiliscono una serie di voci aggiuntive
della retribuzione, che prendono vari nomi perlopiù con carattere indennitario, per cui chi lavora alla cassa
ha ad es. oltre alla retribuzione tabellare, una maggiorazione che è l’indennità di cassa, che compensa il
maggior rischio che deriva dal maneggiare denaro, di poterlo perdere, o di essere esposti a furti e rapine. Poi
vi sono gli scatti di anzianità e poi ci sono gli incrementi per lavoro straordinario, e poi c’è la voce
“retribuzione aziendale”, che è quella pattuita nei contratti aziendali, sotto forma di premi di produzione che
a fine anno vengono erogati e possono avere un diverso ammontare a seconda dell’andamento dell’impresa. I
giudici però quando applicano l’art. 36, non applicano alcuna indennità del contratto collettivo, ma
determinano semplicemente la retribuzione applicando il minimo tabellare.
In ogni caso l’applicazione dell’art. 36 può avvenire in due diversi contesti:
- quando le parti non stabiliscono la retribuzione e si fa il conttratto collettivo, con la consapevolezza che sua
oneroso, dato che la stessa non puó mancare in quanto elemento costitutivo del contratto, si applica l'art.
2099, che sancisce che in mancanze di regole di contratto collettivo o di accordo tra le parti, la retribuzione é
determinata dal giudice tenuto conto del parere delle associazioni professionali qualora venga fornito. Tale
art. rappresenta una deroga all’art. 1418 cc, visto che un elemento essenziale del contratto e cioé l'oggetto
manca e viene integrato dal giudice, mentre in base a quest'altro art. il contratto dovrebbe essere nullo
quando manchi uno degli elementi dell’art. 1325, in quanto contratto con oggetto indeterminato e
indeterminabile. Ma l’art. 2099 pone invece una deroga, affidando il compito di determinare la retribuzione
al giudice, sentito ove occorra il parere delle associazioni professionali, ma siccome il parere delle
associazioni professionali è normalmente consegnato ai contratti collettivi, qui abbiamo una sorta di
legittimazione di quella operazione della giurisprudenza che, per determinare la misura della retribuzione ex
art. 36, la ricava dai contratti collettivi.
- quando invece le parti stabiliscono la retribuzione ma questa é inferiore ai minimi tabellari del contratto
collettivo, non puó applicarsi il 2099 visto che siamo in presenza di una pattuizione, ragion per cui si applica
il 1419.2 inerente le nullitá parziali, secondo cui la nullità di singole clausole non importa la nullità del
contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative. Per poterlo applicare é peró
necessaria una forzatura perché la nullitá di elementi essenziali del contratto, quale é la retribuzione,
dovrebbe comportare la nullitá dell'intero contratto. Cosí se accettiamo questa forzatura, una volta dichiarata
nulla la retribuzione si puó tornare ad applicare il 2099, consentendogli di integrare il contenuto del contratto
inserendoci una clausola retributiva rispettosa del parametro dell’art. 36 Cost.
Il codice si occupa anche del modo in cui la retribuzione dev’essere corrisposta, stabilendo che dev’essere
pagata secondo le modalità in uso nel luogo in cui si svolge la prestazione di lavoro. Il che per lunghissimo
tempo ha significato che la retribuzione dovesse essere pagata sul luogo di lavoro, e dunque non sul
domicilio del datore di lavoro (come dovrebbe essere la regola per le obbligazioni pecuniarie), ma appunto
sul luogo in cui la prestazione era eseguita, anche eventualmente in luoghi diversi dall’impresa, se quelle
sono le modalità. Oggi questa è una regola desueta perché la retribuzione viene normalmente corrisposta con
accredito su conto corrente, se non è corrisposta a mano (raramente).
In passato quando si utilizzava la modalità di corresponsione attraverso assegno i contratti collettivi
stabilivano delle modalità di facilitazione per l’incasso, perché al lavoratore dovevano essere accordati dei
permessi che gli consentissero di andare a incassarsi l’assegno in banca, e le banche tempo fa lavoravano
solo la mattina e non erano aperte il sabato e la domenica. Oggi si paga con bonifico perché la tendenza è
quella alla de materializzazione dei pagamenti, ed il problema può dirsi risolto. Ma sia che si paghi con
assegno, con bonifico, in contanti o come si vuole, la corresponsione della retribuzione dev’essere
accompagnata da un documento consegnato al lavoratore, e cioé il cedolino paga, convalidato dall’ente di
previdenza (normalmente l'INAIL), che il lavoratore deve sottoscrivere per ricevuta. Alla regola della
corresponsione accompagnata da cedolina paga, fanno eccezione due rapporti. Uno è il rapporto dei
lavoratori domestici, l'altro é quello dei dirigenti. (quest'ultima categoria ha infatto meno tutele legali
rispetto al lavoratore dipendente).
Poi la legge prevede delle altre disposizioni sulla commisurazione della retribuzione e si può distinguere tra
retribuzione commisurata per tempo (la retribuzione a tempo), che è la più diffusa (un tot. ad ora,un tot. a
giorno, a settimana, mese) e retribuzione determinata a cottimo, di cui quest'ultima fa riferimento non tanto
al tempo di lavoro, quanto al rendimento del lavoratore, che viene remunerato in base alla quantità di
attività/operazione che riesce a compiere in una determinata unità di tempo. È tipica ad esempio nelle catene
di montaggio, in cui il lavoratore percepisce una retribuzione che non è fissa, basata cioè sul numero di ore
lavorate (come quella di un normale impiegato che se lavora 8 ore tutti i giorni, tutti i giorni sarà pagato quel
tanto), ma al numero di pezzi che in ogni ora è riuscito a completare. Questa modalità di pagamento non
trasforma comunque il lavoratore subordinato in lavoratore autonomo, come un muratore che più metri di
casa costruisce più lo pagano. Si tratta di un lavoratore dipendente, che ha un certo orario di lavoro, però se
in quell’orario di lavoro compie più o meno operazioni, la retribuzione sarà conseguente al numero delle
stesse. Nella retribuzione a tempo si paga il tempo che il lavoratore sta a disposizione del datore, qualsiasi
cosa faccia, cosicché se per un caso qualsiasi il lavoratore non potesse lavorare (perché manca la luce o
perché non riceve informazioni dagli altri uffici o reparti che gli devono passare informazioni) o facesse
pochissime attività, sarebbe pagato allo stesso modo di quando lavora intensamente.
Le tariffe di cottimo sono stabilite dai contratti collettivi, ed in ogni caso non è possibile una retribuzione
interamente determinata a cottimo, in cui cioè il lavoratore non riuscendo a compiere neanche una
operazione, magari per un evento a lui non imputabile, non è pagato per nulla, perché nella pattuizione della
retribuzione a cottimo bisogna prevedere un minimo fisso che spetta al lavoratore per il solo fatto di essere a
lavoro. Vi sono poi delle ipotesi in cui il pagamento a cottimo è vietato. La prima ipotesi è l’apprendistato,
visto che il fine del contratto é che impari l’attività di lavoro, e dato che ciò implica fare cose che non si
conoscono, si capisce che per il lavoratore sarebbe estremamente sconveniente.
Il cottimo è invece obbligatorio in due ipotesi. La prima riguarda il lavoro a domicilio, svolto a casa del
lavoratore. Sono lavori prevalentemente manifatturieri, oggi poco diffusi, è il caso di chi confeziona abiti in
casa propria con materiali ordinati dalla casa madre. E’ chiaro che il lavoratore che sta a casa sua non è
controllabile, per cui necessariamente dovrà essere pagato a cottimo, cioè in base al numero di capi
confezionati. Il cottimo è poi obbligatorio quando il lavoratore non riesce a determinare da sé, i tempi e ritmi
di lavoro, tipicamente la catena di montaggio. È obbligatorio nel senso che, se la catena di montaggio va ad
un certo ritmo, il lavoratore è obbligato a rendere in un certo modo, e dunque la legge vuole che sia pagato
sotto questa forma, che tendenzialmente garantisce delle retribuzioni maggiori per i dipendenti, perché
dovendo lavorare più intensamente il datore di lavoro si vede assicurato un certo rendimento che prescinde
dalle volontà del singolo lavoratore e dalle possibilità di controllo del datore.
Per quanto riguarda invece la natura di quello che viene corrisposto qui la grande distinzione, prevista nel
codice, è tra retribuzione in denaro (oggi assolutamente prevalente) e retribuzione in natura (ormai desueta).
La retribuzione in natura era la retribuzione in uso in certi settori tipicamente agricoltura o pesca, in cui il
lavoratore dipendente veniva pagato con una parte dei prodotti (agricoli o ittici). In ogni caso si prevedeva
che la quota maggiora dovesse essere corrisposta in denaro.
Oggi forme di retribuzione in natura non ve ne sono più, ma possono essere considerate tali ad es. alcuni
benefici erogati ai lavoratori che non consistono in denaro. Ad es. avere a disposizione un’automobile con
dei buoni che consentono di rifornire il carburante, o avere a disposizione un telefonino, o alloggio, o vitto e
alloggio. Sono tutte forme di retribuzione in natura sotto forma di benefits, ma che sono naturalmente diversi
dalla corresponsione di denaro. Sono forme che vanno a comporre la retribuzione, per cui quando in
tribunale si valuta se la retribuzione è adeguata dovrà tenersi conto anche di tali forme di retribuzione. Per
cui se il contratto collettivo dice che la retribuzione dev’essere 1500 euro, il datore potrebbe pattuire
legittimamente in moneta una retribuzione di 1200 e pagargli in aggiunta l’affitto di casa, e dunque nella
valutazione della retribuzione sufficiente bisognerebbe metterci dentro anche quest’ultima. Una forma
particolare di pagamento in natura è rappresentata dalla partecipazione agli utili d’impresa, oggi per lo più si
realizza attraverso assegnazione di titoli di partecipazione al capitale sociale.
Normalmente la retribuzione viene corrisposta a mese con la regola della cosiddetta “post numerazione” cioè
che prima si lavora e poi si viene retribuiti. In alcuni settori è previsto che la retribuzione possa venire pagata
ogni settimana o ogni 15 giorni però la regola è la “mercificazione” della retribuzione. Quando hai
dipendenti devi pagare alla fine del mese o entro quindici giorni dalla fine del mese e queste sono le voci di
retribuzione cosiddetti “corrente”.

Lezione 13 (13/5/18).
Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), disciplinato dall'articolo 2120 del Codice Civile, nasce nel 1942
come Indennità di Anzianità. Assume la nuova denominazione nel 1982 quando il legislatore, nel tentativo di
eliminare la giungla dei differenti calcoli dell'Indennità di Anzianità a seconda della posizione lavorativa,
risistema la normativa creando un sistema unico per tutti. Il TFR fa parte delle cosiddette retribuzioni
differite: il lavoratore percepisce infatti tale somma solo al termine della propria carriera lavorativa.
Secondo la disciplina previgente al 1982 si trattava di una somma di rigorosamente di denaro, che spettava al
lavoratore in ogni ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro, per cui cessato il rapporto di lavoro, il
lavoratore aveva diritto a percepire una somma che era pari all’ultima retribuzione, moltiplicata per il
numero di anni di servizio. Poi nel 1982 venne modificato perché costituiva un limite all’avanzamento di
carriera del lavoratore, visto che l’ultima retribuzione si ripercuoteva per tutta la carriera lavorativa. Per cui,
se le ultime retribuzioni erano più elevate, il datore di lavoro sborsava delle somme più elevate, e questo
finiva per essere un freno per l’imprenditore nell’accordare avanzamenti di carriera a persone che erano
“medio-anziane”.
Cosí in seguito alla riforma il “trattamento di fine rapporto”, il calcolo del TFR, che spetta al datore di
lavoro, e che è disciplinato nel medesimo articolo 2120 cc, fa si che ogni anno solare il datore di lavoro
debba dividere la retribuzione annua (composta dalle somme delle varie retribuzioni mensili che devono
uguagliare o superare i 15 giorni) per il divisore 13,5. Da questa divisione si avrà la quota TFR per
quell'anno. L'anno successivo il datore di lavoro deve ricalcolare la somma annua e aggiungere a questa le
somme dell'anno precedente rivalutate. La rivalutazione degli anni precedenti è compiuta aggiungendo 1,5%
del TFR dell'anno considerato e il 75% dell'incremento ISTAT (aumento dell'indice dei prezzi al consumo
per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno
precedente). La somma del TFR dell'anno corrente e dei vari TFR rivalutati degli anni precedenti darà il TFR
complessivo da corrispondere al dipendente al termine del rapporto lavorativo.
Inoltre, la legge si è preoccupata in tutti i modi di incentivare il risparmio previdenziale cioè di fare in modo
che gli stessi lavoratori destinassero una parte dei loro redditi a integrare la pensione pubblica. Per questo è
stato creato il sistema di previdenza complementare, per consentire una integrazione della pensione pubblica.
La legge ha stabilito che i neoassunti, a partire dal 2006, entro 6 mesi dal momento in cui sono stati assunti,
devono come prima cosa scegliere che cosa fare del loro tfr, dato che hanno due alternative:
1) o destinare il tfr, che di anno in anno matura, ai fondi di previdenza complementare col risultato che alla
fine del rapporto di lavoro, quel lavoratore non riceverà il tfr ne nessuna sommà dal datore, mentre le somme
di denaro verrano ricevute una volta che il soggetto andrá in pensione e la fonte delle stesse sará proprio il
fondo. La pensione "complementare" si costruisce, attraverso la sottoscrizione di fondi pensione, che
costituiscono una specie di cassa comune-salvadanaio in cui confluiscono i contributi versati dai diversi
iscritti, che vengono gestiti in modo professionale e nel rispetto di precise regole d'investimento (ed il fatto
che queste somme vengano investite permette ai lavoratori di puntare ad una pensione maggiore). Si applica
il meccanismo della previdenza complementare anche quando il lavoratore non faccia una scelta entro 6 mesi
2) oppure, in alternativa, potrà scegliere di non destinare il tfr al fondo di previdenza complementare
chiedendo che gli sia invece erogato direttamente dal datore di lavoro.
Il tfr è un diritto di credito che il lavoratore matura alla fine della sua carriera, cioè quando finisce il rapporto
di lavoro nasce il credito. Prima di allora, non ha diritto a percepire il tfr perché il rapporto non è ancora
cessato. Ma la legge ha previsto delle ipotesi in cui è possibile, per il lavoratore, ottenere una anticipazione
del tfr: ai lavoratori che hanno almeno 8 anni di anzianità di servizio, presso lo stesso datore di lavoro, è
consentito chiedere al datore di lavoro una anticipazione in misura non superiore al 70% del tfr fino a quel
momento maturato, a condizione che venga chiesto per: - acquisto della prima casa per sé o per i figli;
- necessita di sottoporsi a terapie mediche presso strutture sanitarie pubbliche
- se si tratta di lavoratori che hanno diritto ai congedi di maternità o di paternità, per avere una fonte di
reddito ulteriore rispetto a quelle che paga l inps in occasione dell’assenza dal lavoro in concomitanza con la
nascita dei figli; - per sostenersi durante il periodo di formazione.
In tali casi il datore di lavoro è obbligato a soddisfare la richiesta del lavoratore nel rispetto di due limiti volti
ad evitare che debbe sborsare contemporanemente somme eccessive: ossia il 10% degli aventi diritto e non
più del 4% di tutti i lavoratori presenti in azienda. A quel punto, il lavoratore percepisce in anticipo il tfr e
quindi una somma gli sarà decurtata a monte. Se si è fatta la scelta di destinarla al fondo di previdenza
complementare, la stessa anticipazione può essere richiesta al fondo di previdenza complementare.
Inoltre, la legge che ha istituito il tfr ha stabilito un “Fondo Garanzia” che si sostituisce al datore di lavoro
tutte le volte in cui questi, a causa di insolvenza oppure fallimento, non è in grado di pagare il tfr. In tal caso,
il lavoratore si può rivolgere all’inps, che gli paga subito tutto il tfr e anche, eventualmente, le ultime 3
mensilità di retribuzione se il datore fosse stato insolvente anche per quelle. Poi, il fondo di garanzia, che è
un pezzo dell’inps diciamo, si sostituisce al lavoratore nel credito dei confronti del datore di lavoro.

Lezione 14 (di diritto del lavoro 07/05/2018)


L'art 36 C ai commi 2 e 3 sancisce che “la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
La costituzione quindi pone una riserva di legge a proposito di un aspetto particolare della disciplina dell’
orario e cioè la fissazione della durata massima. Tale disciplina costituzionale é peró chiaramente incompleta
e necessita di integrazioni legali.
In epoca fascista era sancita una durata massima della giornata lavorativa in 8 ore giornaliere, settimanale in
48 ore, ma solo per gli impiegati, e vi era un periodo di ferie retribuito, limitato a due settimane.
Poi abbiamo avuto un periodo di un certo attivismo del legislatore negli anni novanta, soprattutto con il
pacchetto Treu , che era il d.lgs 196/1997 fino a quando una direttiva comunitaria impone a tutti gli stati
membri di uniformare la disciplina dell’ orario di lavoro. In Italia è attuata col dlgs 66 / 2003, ancora in
vigore nonostante é stati oggetto di successive modifiche.
Il dlgs non parla della durata massima dell'orario giornaliero in modo da garantire la massima flessibilitá,
occupandosi cosí occupa dell’orario normale e massimo settimanale, ossia considerando anche il lavoro
straordinario. L'orario gionaliero é peró tutelato indirettamente dalla disciplina dei riposi giornalieri, visto ce
si stabilisce che il lavoratore ha dritto ad avere un periodo di riposo fra la fine di un turno di lavoro e l’inizio
di quello successivo pari a 11 ore e, quando la giornata lavorativa comporta un’ applicazione al lavoro di più
di 6 ore consecutive, il lavoratore ha diritto ad una pausa di almeno dieci minuti, durante la quale il
lavoratore deve poter consumare il pasto. Perció vusti che é previsto un riposo di 11 ore, allora la durata
massima della giornata lavorativa é di 13 ore, a cui si devono detrarre 10 minuti qualora ricorrano le
condizioni per la pausa.
Mentre, in relazione all’orario normale settimanale la legge lo fissa in 40 ore, cosí se il datore vuol far
lavorare un lavoratore 13 ore al giorno, questi dovrá lavorare 3 giorni per un totale di 39 ore. Tuttavia, i
contratti collettivi possono stabilire che la durata di 40 ore settimanali sia un limite da calcolare non per ogni
singola settimana, ma come periodo medio in un arco temporale che può arrivare fino ad un anno. Ció
permette in alcune settimane, di superare il limite. La durata massima settimanale é invece di 48 ore, visto
che queste comprendono lo straordinario. Se si applica il contratto collettivo invece bisogna guardare al
periodo complessivo della somma di settimane prevista dallo stesso, e se nel complesso si superano le 40 ore
settimanali, quelle eccedenti saranno da considerarsi strordinario. Tuttavia la legge sancisce che, in presenza
di comprovate esigenze organizzative, i contratti collettivi possano superare le 48 ore settimanali, condizione
che in altre settimane dello stesso periodo considerato che può essere di 4 / 6 mesi, si vada al di sotto. Il
lavoro straordinario ha due imiti: non più di 8 ore la settimana e comunque non più di 250 ore annue.
Il lavoro straordinario deve essere compensato a parte con una maggiorazione, ragion per cui nella busta
paga, debbono essere indicati distintamente le ore di lavoro normale e le ora di lavoro straordinario. I
contratti collettivi stabiliscono percentuali di maggiorazione diverse a seconda dei settori, della quantità di
lavoro straordinario, cioè lo straordinario dopo la ventesima ora , lo straordinario dopo la quarantesima ora,
lo straordinario dopo la centesima ora, Questo é dovuto al fatto che, più si fa lavoro straordinario più il
lavoro è faticoso. I contratti collettivi distinguono normalmente le maggiorazioni a seconda che il lavoro
straordinario sia diurno, notturno, in giornata festiva, o dominicale.
La legge inoltre afferma che se l’orario di lavoro straordinario, non è previsto come obbligatorio dal
contratto collettivo, per il suo compimento è necessario il consenso del lavoratore
Quanto al riposo settimanale, riposo settimanale costituisce un periodo di 24 ore consecutive fra la fine di un
turno di lavoro e l’ inizio di quello successivo, 24 ore di seguito, che si cumulano alle 11 ore di riposo
giornaliero, per un tempo pari a 35 ore. Ma è anche possibile che questo periodo sia considerato come media,
per cui ci possono essere benissimo periodi di lavoro supponiamo di 10 giorni consecutivi a condizione che
poi uno si faccia 2 giorni di riposo settimanale. La legge diceva prima di regola cade di domenica, in quanto
giornata festiva nella cultura cattolica, ma neanche in passato c'era un obbligo in tal senso.
VI sono poi i riposi annuali: ossia le ferie. La legge dice che si ha diritto come minimo a 4 settimane di ferie
che non sono 28 giorni di lavoro, visto che vanno esclusi i giorni non lavorativi. In ogni caso i contratti
collettivi di norma prevedono periodi più lunghi di queste 4 settimane lavorative. In relazione alle ferie vige
il principio di introannualità delle ferie, per cui ogni mese lavoratore matura un dodicesimo delle 4
settimane di ferie e queste si godono nello stesso anno, ma se non si riesce a goderle nello stesso anno,
possono essere godute nei 18 mesi successivi, e se non ce la faccio neanche l’ anno successivo ho altri 6 mesi
dell’ anno dopo. Le ferie sono stabilite come principio generale dal datore di lavoro, cosí tenuto conto degli
interessi del lavoratore, per evitare frazionamenti eccessivi la legge, integrata variamente dai contratti
collettivi, prevede una serie di disposizioni di maggiore favore per il lavoratore. Di norma si prevede che una
parte di ferie sia scelta da lavoratore, in genere il 50% se le sceglie il lavoratore e l’ altra metà le sceglie il
datore di lavoro.
La legge prevede un'altra disciplina particolare a proposito delle ferie, cioè che il lavoratore e il datore di
lavoro non si possono accordare per monetizzare le ferie di cui il lavoratore non abbia goduto, ed in tal caso
le perde, a meno che, attenzione, non succedano una serie di episodi che possono essere :
1) il rapporto di lavoro si è interrotto, per cui se il lavoratore viene licenziato e ha ancora delle ferie maturate
e non godute ha diritto di essere remunerato perché era impossibilitato a godersi le ferie, motivo per cui la
remunerazione non é comunque ammessa se il lavoratore ha scelto deliberatamente di non godere delle ferie
prima dell’ interruzione del rapporto.
2) se il lavoratore alla fine comunque sia, non c’è dimissione, non c’è licenziamento, non c’è interruzione del
rapporto ma scadono semplicemente i 18 mesi successivi alla maturazione delle ferie, in tal caso, ha diritto
ad essere indennizzato qualora provi che il datore di lavoro gli ha impedito di godere delle ferie, cioè deve
dimostrare di avere, prima che scadessero i 18 mesi uno chiesto di dargli le ferie, e due che il datore di lavoro
non te le ha concesse.
Lezione 15 (08/05/2018) Conservazione del posto di lavoro.
Sospensione del rapporto di lavoro. Durante un rapporto di lavoro è possibile che l'obbligazione oggetto
del contratto divenga impossibile a causa del lavoratore o del datore: si ha in tal caso sospensione del
rapporto di lavoro. In ogni caso la formula “sospensione del rapporto di lavoro” è impropria perchè anche se
discipline come la malattia, la gravidanza che legittimano il lavoratore a non lavorare fanno si che questi
comunque abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro, dobbiamo dire che non si sospende tutto il
rapporto tra loro, ma solo l'obbligo di prestare la propria prestazione lavorativa e in certi casi l'obbligo del
datore di remunerare il lavoratore. Ma ci sono una serie di obblighi accessori che non si sospendono, come
l'obbligo di rimanere riservati, che é certamente sono sospesi durante il periodo di malattia o di gravidanza.
A differenza di quanto accade solitamente nel diritto privato, se l'impossibilità di lavorare è temporanea, non
c'è risoluzione del contratto e inadempimento ma, entro certi limiti, il lavoratore mantiene il posto di lavoro.
La legge e i contratti collettivi regolano le situazioni in cui questa tutela ha luogo. Il lavoratore ha diritto al
mantenimento del posto di lavoro e di tutela economica in caso di infortunio, malattia, gravidanza e
puerperio, per un periodo totale detto di comporto. Superato tale periodo il datore di lavoro può licenziare il
lavoratore. La durata massima del periodo di comporto è determinata dalla contrattazione collettiva. Il
comporto è "secco" quando riguarda un periodo omogeneo da non superare, e "per sommatoria" quando
riguarda una pluralità di periodi. Per capire la differenza: supponiamo che un contratto collettivo stabilisce
un periodo di comporto secco pari a sei mesi e il lavoratore rimane assente in un anno per cinque mesi; poi
torna a lavorare per qualche giorno e si riammala, avrebbe diritto ad altri cinque mesi potendo continuare
all'infinito, cosa che non accade in quello per sommatoria
Se il datore licenzia il lavoratore per superamento del periodo di comporto quando in realtá non è superato,
magari per errore di calcolo, si ha licenziamento ingiustificato. Se invece il datore di lavoro licenzia il
lavoratore a causa della malattia si ha licenziamento nullo, perchè contrario alla disposizione costituzionale
che garantisce il diritto alla salute e alla disciplina che stabilisce il diritto alla conservazione del posto. Se
ancora il datore di lavoro intima il lavoratore durante il periodo di malattia un licenziamento che con la
malattia non ha nulla a che vedere, ossia per un motivo che ci sarebbe anche in mancanza della stessa (come
crisi aziendale; soppressione di un intero reparto) in tal caso il licenziamento, pur valido, è
temporaneamente inefficace e inizierá ad avere effetto alla fine del periodo di malattia. Fa eccezione la sola
ipotesi di licenziamento per gravissimi motivi cd “per giusta causa”, e dovuto a mancanze che la legge
definisce “tanto gravi” da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, ragion per cui in
tal caso il licenziamonto ha effetto immediato. Es. il lavoratore durante il periodo di malattia svolge attività
di concorrenza, rivela un segreto industriale.
Quanto a disciplina, sia la conservazione del posto di lavoro, sia la conservazione del reddito sono variabili a
seconda delle ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro. Le ipotesi più tipiche e più rilevanti sono quelle
correlate alla malattia o infortunio e di gravidanza e maternità.
Malattia: la legge stabilisce all'art. 2110 che, in caso di malattia, il lavoratore ha diritto alla conservazione
del posto di lavoro per un periodo determinato dai contratti collettivi o, in mancanza, dal giudice secondo
equità. E il giudice per stabilirlo secondo equità guarderà ai contratti collettivi. Il datore, al quale il
lavoratore lo richieda tempestivamente prima del periodo di comporto, deve assegnare tutte le ferie e i
permessi residui tali da dare più spazio al lavoratore, in modo che ad es. se questo ha fatto alcuni mesi di
malattia e non é ancora guarito del tutto possa riprendersi. Il secondo aspetto attiene alla remunerazione: di
cui l'art 2110 stabilisce che se esistono forme equivalenti di previdenza, il datore di lavoro non è obbligato a
pagare la remunerazione. Nel nostro ordinamento la maggioranza dei lavoratori ammalati ricevono
un'indennità dall'INPS pari al 60 % della retribuzione, erogata a partire dal quarto giorno di assenza per un
periodo massimo di 180 giorni . Ne sono esclusi gli impiegati per i quali la legge del 1924, addossa l'onere
retributivo interamente a carico del datore di lavoro. Se non esistono forme equivalenti di previdenza, il
contratto puó stabilire che il datore di lavoro debba in tutto in parte la retribuzione. Nella generalità dei casi i
contratti collettivi intervengono in funzione aggiuntiva perchè impediscono di licenziare il lavoratore perchè
è malato, in base ad un dovere di solidarietà in capo al datore di lavoro, e possono anche sancire un obbligo
del datore di pagare il 100% della retribuzione nei primi tre giorni (ossia nel CD periodo di carenza di
malattia) e poi di integrare fino al 100% la retribuzione che non viene versato dall'ente di previdenza.
Siccome l'ente di previdenza versa solo il 60%, il datore dovrà completare con il restante 40%. Il lavoratore
si prende tutto lo stipendio, quindi il rischio della malattia è interamente addossato ad altri, e il datore dato
che non riceve la prestazione é anche obbligato a sostituirlo.
Dalla malattia comune di cui abbiamo parlato, si distinguono le CD malattie particolari, ossia quelle di
natura professionale e gli infortuni sul lavoro, che hanno la particolarità di essere o in occasione di lavoro o a
causa di lavoro, e sono episodi interni all'occupazione. Qui i trattamenti dall'ente di previdenza che in tal
caso é l'INAIL garantiscono una maggiore tutela per il lavoratore, infatti pur essendo comunque presente il
periodo di carenza, per cui l'ente inizia ad erogare la retribuzione a partire dal quarto giorno, se per i primi 90
giorni il lavoratore riceve indennitá pari al 60% della retribuzione, a partire dal novantunesimo é pari al 75%
e sono erogate fino alla completa guarigione. Se il lavoratore non guarisce puó essere licenziato ma solo a
condizione che non sia possibile reintegrarlo nella organizzazione produttiva. Al lavoratore spetta la
pensione a carico dell'ente di previdenza.
Per quanto riguarda la maternità, la lavoratrice da due mesi prima della data prevista del parto a tre mesi
dopo, è obbligata a non andare a lavoro, e il datore di lavoro è obbligato a non farla lavorare, altrimenti
sarebbe soggetto a sanzione di carattere penale. La lavoratrice in questa ipotesi ha diritto all' 80% della
retribuzione dal primo giorno a carico dell'ente di previdenza e i contratti collettivi pongono il differenziale
del 20% a carico del datore di lavoro. Abbiamo quindi un periodo di congedo obbligatorio che è un periodo
di 5 mesi cd. mobile perchè la lavoratrice, se riesce ad ottenere un certificato medico che attesta la
compatibilità, può ottenere che questo periodo di 5 mesi sia modulato un mese prima dalla data del parto a
quattro mesi dopo; esso può avere una durata variabile perchè può condizionare la specificità del lavoro. La
lavoratrice può anche ottenere, in particolare se si tratta di lavori gravosi, sempre tramite certificato medico,
di avere un'anticipazione del periodo di astensione che diventa quindi più lungo. La legge ha stabilito un
divieto assoluto di licenziamento per qualsiasi motivo che non sia la giusta causa per le lavoratrici dal
momento in cui la gravidanza è accertata dal certificato medico, fino al compimento di un anno di età del
bambino, e se il licenziamento viene intimato in quel periodo, anche se derivanti da fatti che legittimerebbero
il datore di lavoro a licenziarla, esso è comunque nullo.
Nei tre mesi successivi alla nascita del bambino il padre può usufruire, tutte le volte che sussistano gravi
ragioni per cui la madre non possa. Finito il congedo obbligatorio, la madre e il padre del bambino possono,
a loro scelta, per soddisfare non più l'esigenza biologica (rimettersi dalla gravidanza che è un fatto che prova
sia psicologicamente che fisicamente) ma per esigenza personale e per desiderio di stare vicino al nascituro,
astenersi per un periodo ulteriore, i cd. “congedi di maternità/paternità” che, sommato fra i genitori può
essere pari a dieci mesi, nel quale ne possono fruire ciascun genitore per cinque mesi ciascuno; se invece ne
fruisce da solo uno dei due genitori perchè solo uno lavora, allora è pari a sei mesi, durante il quale c'è
l'obbligo di conservazione del posto e il datore di lavoro non può licenziarti. Inoltre c'è una quota minore di
conservazione del reddito perchè al lavoratore o alla lavoratrice spetta solo il 30% a carico dell'ente di
previdenza.

Nell’ipotesi in cui un evento esterno (come un incendio o terremoto) o una scelta dell’imprenditore
(come la necessita di ristrutturare gli impianti) incida sulla possibilità dell’impresa di continuare a
produrre in tutto o in parte, vi é l’esigenza di sospendere temporaneamente l’attività produttiva, e il
datore ha in genere tre possibilità: 1) licenzia il personale in tutto o in parte quando vi sia una
ragione genuina; in questo caso bisogna che ci sia il preavviso, se si tratta di licenziamenti collettivi
e bisogna attuare una procedura lunga, complessa e costosa, dato che il datore viene chiamato a
pagare delle tasse ingenti.
2) sospende l’attività produttiva e lascia a casa i lavoratori, senza adottare alcun provvedimento di
recesso. La conseguenza é che il datore di lavoro non usufruirebbe delle prestazioni dei lavoratori,
ma dovrebbe pagarli ugualmente, o meglio dovrebbe corrispondere un risarcimento del danno per
la mancata prestazione, commisurato alla retribuzione che il lavoratore non ha potuto avere per il
fatto di non esser stato messo nella condizione di lavorare. Perció questa situazione puó essere
praticabile solo se dura poco
3) illustra ad ogni lavoratore la situazione dell’azienda, e a questo punto o si provvede al
licenziamento o si mette in atto una sospensione consensuale del rapporto di lavoro. Dunque in
questo caso di tratta di sospensione consensuale del rapporto, che presente altro tipo di
inconveniente visto che il lavoratore si deve fidare, deve credere che il datore di lavoro abbia la
reale necessità di sospendere i rapporti di lavoro.
È stata poi prevista la la Cassa Integrazione Guadagni che fa una cosa che il diritto generale dei
contratti non consentirebbe, in quanto derogatorio alla disciplina generale, ossia permettere al
datore per scelta unilaterale di lasciare a casa i lavoratori, prevedendo al contempo che a questi
spetti una percentuale dello stipendio, ed infatti ogni lavoratore percepisce una remunerazione senza
lavorare pari all’80% della retribuzione entro un certo massimale che può arrivare fino a 1300€. Si
tratta di uno strumento a sostegno del reddito del lavoratore per le ipotesi che altrimenti sarebbero
di disoccupazione, non totale, ma parziale; e si applica solo in presenza di CD “Cause Integrabili”,
che sono cause che giustificano l’integrazione salariale e sono diversificate a seconda delle
tipologie di interventi della Cassa Integrazione Guadagni. Sono due gli interventi, uno “Micro” che
è quello che fa in gestione ordinaria, e l’altro “Macro” che è quello che fa in intervento
straordinario.
La differenza riguarda le cause, per l’intervento ordinario (Micro) sono ammesse le imprese anche
molto piccole con almeno 5 dipendenti e l’intervento è consentito in presenza di due causali,
situazioni aziendali non imputabili all’imprenditore o agli operai (es. incendio, alluvione, terremoto)
oppure situazioni temporanee di mercato. Riguardano delle situazioni che sono circoscritte e
marginali e a comprova c’è la durata, per cui l’intervento può essere autorizzato per periodi non
superiori alle 13 settimane eventualmente prorogabili a non più di 52 settimane. Il datore di lavoro
verificatosi il fatto, fa domanda all’INPS che verificherà effettivamente le condizioni dello stabile
se ci dovessero essere i presupposti autorizza l’intervento della Cassa Integrazione. Il datore di
lavoro in attesa della risposta dell'ente dal primo giorno che manda a casa i lavoratori inizia a
pagare solo l’80% della retribuzione, e in anticipo rispetto all’ente di previdenza l’integrazione
salariale. Dopo la verifica, e se interviene, il datore di lavoro conguaglia con l’ente di previdenza le
somme che ha anticipato. Se viceversa viene accertato che non ci sono i presupposti, la disciplina
non opera, e allora il datore di lavoro ritorna debitore, e sarà costretto a pagare anche quel 20%
mancante.
L’intervento straordinario (“Macro”) riguarda invece situazioni in cui la sospensione dell’attività
produttiva ha una dimensione maggiore e riguarda fenomeni strutturali. Le cause sono: Situazione
di crisi aziendale, per cui il datore di lavoro per superare questa crisi è costretto a intervenire e ad
usufruire della Cassa Integrazione Guadagni per un periodo che non può eccedere i 12 mesi. Altra
situazione, è l’esigenza di ristrutturazione, riorganizzazione dell’impresa, condizione da ricondurre
ad una scelta volontaria dell’imprenditore, non è un fatto esterno. L’intervento è ammissibile per un
periodo massimo di ventiquattro mesi. Terza causale è la decisone dell’imp renditore di stipulare un
"contratto di solidarietà", una ruduzione degli orari di lavoro che riguarda tutti i lavoratori con previsione che
la quota di salario corrispondente alle ore lavorate, dico ai lavoratori che da domani al posto di lavorare 8 ore
si lavora 4 ore, questi perdono 4 ore di stipendio ma l’80% di queste sono pagate dall’INPS per mezzo della
Cassa Integrazione Guadagni.
In questo caso il programma può durare fino a 36 mesi.

Lezione 16 (09/05) Divieti di discriminazione”e il principio di “Parità di trattamento”.


Le norme a tutela del lavoro e gli stessi contratti collettivi, rivolgendosi potenzialmente a tutti i lavoratori,
producono un primo effetto di eguagliamento della posizione dei lavoratori. Quanto detto, tuttavia, non copre
l’intera area della gestione dei rapporti di lavoro: alcune situazioni gestionali, infatti, non vengono regolate in
modo specifico dalla legge o dai contratti collettivi, rimanendo sottoposte all’esercizio di un potere
unilaterale del datore di lavoro.
L’esistenza di un diritto di parità di trattamento omnibus, ossia riguardante tutti gli aspetti del rapporto di
lavoro, è stata a lungo affermata da una parte della dottrina e della giurisprudenza:
•una sentenza della Corte costituzionale (1989) sembrò affermare, pur con una motivazione abbastanza
oscura, proprio il principio di parità di trattamento omnibus.
•alcune pronunce di Cassazione, prendendo alla lettera la sentenza della Corte, giunsero a ritenere
sindacabile anche i sistemi di inquadramento previsti dai contratti collettivi.
Questo orientamento (poi abolito), predisponendo la possibilità per il giudice di entrare nel merito di
qualsiasi differenziazione, rischiava di mettere in discussione gli stessi assetti della contrattazione collettiva,
cosa questa che portò ad una sorta di ribellione nei confronti di queste prime sentenze. La Corte di
Cassazione, quindi, si riassettò, nel senso di negare l’esistenza di un diritto alla parità di trattamento, ritenuto
non deducibile dai principi costituzionali.
Posta l’acquisita inesistenza di una regola generale di parità, l’ordinamento è rimasto attestato su un fronte
meno ambizioso, vale a dire quello non della parità ma della non discriminazione. La regola che ha ad
oggetto il divieto di discriminazioni, infatti, si limita a comportare che non è possibile fondare
differenziazioni di trattamento basandosi su determinati fattori specificatamente individuati. I trattamenti
praticati in ambito lavoristico, infatti, sono per definizione differenziati, e quindi, in senso letterale,
discriminatori . La discriminazione quindi diviene illecita qualora si basi su determinati fattori, sui quali
l’ordinamento, in relazione alla protezione di dati beni fondamentali, non consente che si possano istituire
differenziazioni di trattamento. In questo modo l’ordinamento dispone una protezione nei confronti dei beni
ritenuti di essenziale valore costituzionale, a tutela della dignità della persona.
Si fa poi riferimento ai diritti di libertà, considerato che numerosi fattori di discriminazione corrispondono
non soltanto a meri modi di essere della persona (es. razza), ma all’esercizio di libertà costituzionalmente
garantite (es. libertà associativa).
Quanto alla sanzione applicabile in caso di violazione dei divieti, essa si concreta in un’irrimediabile illiceità
che, qualora riguardi atti negoziali, non può che risolversi nella nullità dei medesimi. Potendo la
discriminazione essere perpetrata anche attraverso semplici comportamenti, le leggi più recenti hanno
espressamente riconosciuto alla vittima della discriminazione anche l’eventuale risarcimento dei danni (non
patrimoniali) patiti.
Le misure vengono quindi adottate chiamando in campo tutti i rami dell’ordinamento: Civile,
Amministrativo, Penale. Di cui il primo in relazione alle invalidità degli atti negoziali del datore come
assunzioni e licenziamenti quando siano discriminatori in modo che non producano effetti (in tal caso dove il
lavoratore ha un interesse oppositivo la nullitá funziona bene). Questo sistema ha peró il limite di non
tutelare il lavoratore quando la discriminazione si traduce nella mancata concessione di qualcosa cui il
lavoratore avrebbe avuto diritto, in particolare in relazione all’assunzione o all'aumento retributivo.
Quando l’art 15 dello statuto dei lavoratori si occupa delle discriminazioni attuate per il tramite di una
omissione per es la mancata assunzione solo per questa ipotesi la legge ci ricollega una sanzione penale
perché nessun altro rimedio nè la nullità né un’azione di adempimento potrebbe far ottenere al lavoratore il
bene cui ambisce. Invece nelle ipotesi diversi dalla discriminazione attuata per il tramite di omissioni il
rimedio della nullità può operare se per es il lavoratore è trasferito da un posto per ragioni discriminatorio ha
diritto a tornare nel posto di partenenza perché una volta che dichiari nullo l’atto di trasferimento tu il diritto
lo hai già perché te lo dà il contratto che integrato con l’art 2103 stabilisce che non si possa essere trasferiti
se non per certe ragioni e quindi se non ci sono le ragioni hai diritto a tornare dove eri.

Lezione 17
Con il termine rinuzie si fa riferimento a quegli atti unilaterali recettizi con i quali i lavoratori rinunciano ad
alcuni dei loro diritti. Le transazioni, invece, sono quei contratti con i quali i lavoratori e i datori di lavoro
pongono fine a una lite attuale o ne prevengono una potenziale facendosi reciproche concessioni.
In forza di quanto disposto dall’articolo 2113 del codice civile, tuttavia, le rinunzie e le transazioni non
sempre sono valide. In particolare, le rinunzie e le transazioni sono invalide (senza specificare il tipo di
invalidità) quando hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro che derivano da disposizioni inderogabili
di legge e di contratti o accordi collettivi e concernono i rapporti indicati dall’articolo 409 del codice di
procedura civile.
Il lavoratore che intenda far valere l’invalidità delle rinunce o delle transazioni ha un onere di impugnazione,
entro 6 mesi che decorrono dal momento della cessione del rapporto sia che la rinuncia o la transazione
siano state fatte durante il rapporto o una volta cessato.
L’invalidità sancita dall’articolo 2113 del codice civile conosce comunque delle eccezioni, sancite dalla
stessa norma. Gli atti di rinunzia o transattivi, infatti, sono sempre validi se conclusi presso le sedi di
certificazione o in fase di conciliazione, sia essa giudiziale, che amministrativa, che sindacale. Alla base di
tale eccezione c’è il fatto che, nei casi con riferimento ai quali essa opera, il lavoratore dovrebbe essere
consigliato in maniera adeguata, con conseguente superfluità della tutela prevista in generale per le rinunce e
le transazioni. La disciplina dettata dall’articolo 2113 c.c., poi, non trova applicazione con riferimento ai
negozi estintivi del rapporto di lavoro, come le dimissioni, le risoluzioni contrattuali e le rinunce ad
impugnare un licenziamento.
Anche se non é specificata la natura in dottrina é pacifico ritenere che ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di
annullabilità. Del resto, da un lato, si prevede l’onere dell’impugnazione e, dall’altro, si riserva quest’ultima
al solo lavoratore. Di conseguenza, pur se dopo che sia intervenuta nei termini l’impugnazione stragiudiziale,
l’azione giudiziale può essere proposta nel termine di prescrizione quinquennale. Inoltre, la sentenza con la
quale viene decretata l’invalidità di una rinunzia o di una transazione, ha natura costitutiva.
Le rinunce e le transazioni riguardano il passato, sono accordi con le quali le parti rinunciano a diritti che
hanno già acquisiti, ad esempio il diritto vedersi remunerato lo straordinario già fatto, vedersi remunerate
prestazioni di lavoro già eseguite. Situazione completamente diversa è quella in cui o lavoratore e il datore di
lavoro pattuiscono invece un diverso trattamento per il futuro, se ad esempio stabilissero che d’ora in avanti
la retribuzione che era stata pattuita di 1500 €, prevista dal contratto collettivo, d’ora in avanti sarà di 1400€,
questa non é una rinuncia, non é una transazione, questo é un modo di regolare il rapporto del futuro
difforme dalla disciplina del contratto collettivo e dalla legge, la sanzione se la norma violata é una norma
inderogabile sarà la nullità, la sostituzione automatica della clausola oppure se la norma violata é il c.c. sarà
la disapplicazione della disciplina del contratto individuale difforme e l’applicazione del cc.Con questo
termina il discorso sulle rinunce e sulle transazioni.

C’é un altro aspetto particolare da affrontare, che attiene a un aspetto particolare della retribuzione che
riguarda il regime della prescrizione e della decadenza. Gli istituti della prescrizione e della decadenza, nel
diritto del lavoro, sono normati in maniera peculiare rispetto a quanto avviene negli altri rami del diritto, in
ragione della particolare natura del rapporto che ispira la relativa disciplina.
La prescrizione é un istituto giuridico del diritto generale delle obbligazioni che si concreta nella perdita del
diritto a causa del mancato esercizio del diritto medesimo, ingiustificato per un certoperiodo di tempo, volto
alla certezza dei rapporti giuridici. Tempo di prescrizione ordinario è di 10 anni, ma l’ordinamento prevede
anche termini più brevi, di cui quella più comune è di 5 anni (poi ci sono prescrizioni anche di un anno o
due). In particolare si prescrivono in 5 anni tutte le somme che devono essere corrisposte con cadenza pari o
inferiore all’anno, nonché é soggetto alla prescrizione breve di 5 anni anche l’obbligo di pagare il trattamento
di fine rapporto. La retribuzione é normalmente di periodicità mensile, e quindi rientra nei presupposti della
prescrizione breve.
Oltre che estintiva del diritto la prescrizione puó essere presuntiva, che si basa su un meccanismo di
presunzione di soddisfazione del diritto, nel senso che il diritto non si é esistinto ma che si presume che ci sia
stato il pagamento stesso del diritto. La prescrizione presuntiva ha termini minori, e cioé: 1 anno per tutte le
somme che devono essere corrisposte con periodicità non superiore al mese; 3 anni per tutte le somme che
devono essere corrisposte con periodicità superiori al mese ma
pari o inferiori all’anno.
La disciplina della prescrizione cambia a seconda che sia estintiva o presuntiva, perché nel primo caso non é
ammessa prova contraria, mentre la prescrizione presuntiva deve essere provata, per cui il creditore sfiderà il
debitore a giurare. Davanti al giudice il creditore dovrà presentare il titolo, il contratto in questo caso, e
dichiarare di non essere stato pagato, a questo punto l’onore della prova spetta al debitore che dovrà
dimostrare di avere pagato per liberarsi dall’obbligo di pagare, altrimenti il debitore se non riesce a dare la
dimostrazione che pure abbia pagato sarà condannato a pagare un’altra volta.
Il debitore che eccepisce la prescrizione presuntiva, dovrà sostenere di avere pagato, il creditore che voglia
vincere questa prescrizione presuntiva dovrà deferirai il giuramento (mezzo di prova), se il debitore giura la
controversa termina, altrimenti la prescrizione presuntiva non opera più e sarà condannato a pagare.
Se il debitore giura il falso commette un reato, nel processo penale se il lavoratore riesce a dimostrare che il
datore di lavoro ha giurato il falso (difficile) si costituisce parte civile per il risarcimento per il giuramento
falso, gli spetteranno tutte le retribuzioni che avrebbe conseguito se il datore di lavoro non avesse giurato il
falso, motivo per il quale lo strumento della prescrizione presuntiva é molto difficile da utilizzare.
Per quanto concerne il dies a quo, l’art. 2935 del codice civile che tratta appunto la decorrenza della
prescrizione “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
A tal proposito la Corte Costituzionale ha più volte ribadito con un ampia giurisprudenza in materia
l'illegittimità degli art. 2948 comma 4, art. 2955 comma 2 e 2956 comma 1 del codice civile, limitatamente
alla parte in cui consentono il decorso della prescrizione al diritto della retribuzione durante il rapporto di
lavoro. La consulta sostiene, attraverso un interpretazione estensiva dell'ultimo comma dell'articolo 36 della
Carta Costituzionale (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata
massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie
annuali retribuite, e non può rinunziarvi”), che al pari delle diritto alle ferie ed al riposo settimanale il
lavoratore non possa rinunciare alla propria retribuzione. Pertanto i termini di prescrizione per far valere il
diritto alla retribuzione non possono farsi decorrere durante il rapporto di lavoro, ma solo a seguito di
cessazione dello stesso. La Corte, infatti, ha ritenuto che il lavoratore, per paura di essere licenziato, potrebbe
essere indotto a non esercitare il proprio diritto, così che qualora la prescrizione si facesse decorrere durante
il periodo di lavoro, produrrebbe l'effetto che l'art. 36 ha inteso precludere evitando per l'appunto qualsiasi
tipo di rinuncia da parte del lavoratore. Su tali premesse la Corte Costituzionale ha, dunque, differito al
momento della cessazione del rapporto sia la prescrizione estintiva sia quella presuntiva.
Va precisato che soltanto i crediti retributivi che godono di garanzia costituzionale decorreranno quindi dalla
cessazione del rapporto, tutti gli altri diritti del lavoratore di natura non retributiva, o non avente il carattere
della periodicità infrannuale, e comunque non riconducibili nell'alveo dell'art. 36 della Costituzione, quali ad
esempio il diritto alla qualifica superiore o il diritto al risarcimento del danni ex art- 2116 del codice civile
per omesso versamento dei contributi previdenziali, potranno estinguersi per prescrizione in costanza di
rapporto di lavoro subordinato.
Ma bisogna fare attenzione anche agli art.18, 13 e 15 dello statuto dei lavoratori, concernenti una serie di
tutele rigide di matrice inderogabile. La Corte Costituzionale ñe poi reintervenuta sulla disciplina della
prescrizione, restringendo il campo di applicazione ai soli lavoratori dipendenti da piccole imprese con poca
stabilità del posto di lavoro, quindi assolutamente esclusi i dipendenti pubblici e i dipendenti di grandi
imprese. La prescrizione non è rilevabile d’ufficio, e va eccepita nella prima difesa, quando ci si costituisce.

I crediti retributivi del lavoratore sono assistiti da un privilegio generale mobiliare, che é una garanzia molto
forte, titolo di prelazione molto forte, gli concede la preferenza su tutti gli altri creditori del datore di lavoro.
Un’ altra particolare garanzia (di cui abbiamo già parlato) è il Fondo di Garanzia che paga il trattamento di
fine rapporto, quando non sia in grado di pagare il datore di lavoro e paga anche le ultime tre mensilità di
retribuzione che il datore di lavoro non abbia corrisposto. I crediti di lavoro sono parzialmente incedibili,
parzialmente impignorabili, parzialmente insequestrabili, parzialmente incompensabili, sono cedibili,
pignorabili, sequestrabili in misura non superiore a 1/5 dello stipendio, a meno che non si tratti di crediti
alimentari perché in questo caso la misura sarebbe superiore.

Lezione 18: lavoro a termine


Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato, nel quale esiste una durata ben precisa
stabilita con una data che indica la fine del rapporto. I limiti e la durata massima del contratto a tempo
determinato sono stati modificati con il Jobs Act del 2014, con il quale è stato stabilito che questi tipo di
rapporti di lavoro possono durare fino ad un massimo di 36 mesi. Alla scadenza il contratto di lavoro a tempo
determinato si risolve automaticamente.
È importante sottolineare che il lavoratore a tempo determinato ha gli stessi diritti di quelli assunti a tempo
indeterminato che svolgono la stessa attività o che abbiamo lo stesso inquadramento contrattuale. Gli
spettano quindi le ferie, la gratifica natalizia, la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni
altro trattamento in atto nell’impresa, a meno che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del
contratto. L’azienda deve anche rispettare il principio di non discriminazione, impartendo al lavoratore ad
interim una formazione specifica in materia di sicurezza che gli permetta di esercitare al meglio la mansione
per la quale è stato assunto. Gode inoltre del medesimo trattamento previdenziale e degli stessi diritti in caso
di malattia, infortunio, maternità ecc. Ecco perché è necessario conoscere ciò che prevede la legge, al fine di
fare una giusta valutazione del contratto proposto, o per capire cosa fare in caso di licenziamento.
La stipula del contratto Il contratto a termine può essere stipulato per ragioni di ordine tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro, tranne il primo che
può essere siglato anche in assenza di tali motivazioni e per una durata massima di dodici mesi. Non si può
invece assumere lavoratori a termine determinato per sostituirne altri in sciopero, per le aziende che abbiano
effettuato licenziamenti collettivi nei sei mesi precedenti l’assunzione, per le società ammesse alla Cassa
Integrazione Guadagni e per quelle che non rispettano le normative sulla sicurezza sul lavoro.
La forma Il contratto di lavoro a tempo determinato, ai fini della sua validità, richiede la forma scritta. La
mancanza di tale requisito formale rende nullo il contratto e il rapporto si considera a tempo indeterminato
sin dal suo sorgere. La sanzione della conversione del rapporto è esplicitamente prevista dal decreto
legislativo. Entro 5 giorni dall’inizio della prestazione, copia dell’atto scritto deve essere consegnata al
lavoratore. In tale copia, così come sull’originale, l’atto dovrà riportare l’indicazione del termine di durata
del contratto, attraverso l’apposizione di una data finale oppure individuando il momento di cessazione degli
effetti del rapporto in relazione a un evento specifico, nonché l’indicazione dei motivi che hanno consentito
l’apposizione del termine alla durata del contratto.
Durata del contratto Il Jobs Act stabilisce che il lavoro a tempo determinato può durare fino a un massimo di
36 mesi. È possibile superare il limite dei 3 anni? Su questo argomento è intervenuto direttamente una
circolare emessa dal Ministero del Lavoro, la n. 18/2014 (relativa al dl n. 34/2014 convertito dalla legge n.
78/2014). Innanzitutto, i 36 mesi vengono indicati dal Ministero come un limite insuperabile, anche in caso
di primo contratto. Non sono previste, quindi, deroghe di alcun tipo, e l’arco temporale deve ricomprendere
eventuali proroghe e rinnovi. Per il resto nella circolare viene ribadito che per la legittima instaurazione del
rapporto è sufficiente indicare un termine nell’atto scritto, che risulti direttamente o indirettamente. Al di là
della possibilità di assunzione senza causa giustificatrice, però, il Ministero sottolinea come indicare la le
assunzioni di carattere sostitutivo o di stagionalità.
Assunzioni e proroghe L’assunzione deve poi risultare da atto scritto (una copia del quale deve andare al
lavoratore entro cinque giorni dalla stipula) che specifichi il motivo del temp ragione che ha portato alla
stipula del contratto possa essere “opportuno” in alcuni casi, come ad esempio pero determinato; quando tali
spiegazioni non sono presenti, il contratto si considera a tempo indeterminato. Se però il contratto è inferiore
a dodici giorni, la forma scritta non sarà necessaria. Il termine finale del contratto può essere prorogato una
sola volta se esso è inferiore a tre anni o nel caso sussistano ragioni oggettive. In ogni caso, la durata
complessiva del rapporto (durata iniziale più la proroga) non può superare i 3 anni. Per quanto riguarda il
primo contratto di lavoro a termine di durata non superiore a dodici mesi, stipulato in assenza delle ragioni di
ordine tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, non può essere prorogato. Quando il rapporto di
lavoro supera i 3 anni, compresi di proroghe e rinnovi, esso diventa a tempo indeterminato a partire dalla
scadenza dell’ultimo termine. Due eccezioni riguardano i dirigenti e i lavoratori del settore del trasporto
aereo per i quali le regole del contratto a termine sono differenti: massimo 5 anni per i primi, da 4 a 6 mesi
per i secondi. Se il lavoratore viene riassunto con contratto a termine entro 60 o 90 giorni dalla scadenza, a
seconda che il primo contratto fosse di durata rispettivamente inferiore o superiore a 6 mesi, il secondo
contratto viene considerato a tempo indeterminato.
Limiti del contratto a tempo determinato Il contratto a termine non può riguardare più del 20% dei
lavoratori a tempo indeterminato risultanti nell’anno in cui si effettua l’assunzione. Ciò significa che le
aziende con 20 dipendenti fissi potranno assumere 4 persone a tempo determinato, mentre i datori di lavoro
con fino a 5 dipendenti potranno stipulare 1 solo nuovo contratto a termine. Ma come comportarsi se
applicando il calcolo percentuale si ottiene un numero decimale? In quel caso, spiega il Ministero, il datore
di lavoro potrà arrotondare la cifra per eccesso, ma solo se il decimale è uguale o superiore a 0,5. Tra le altre
precisazioni, il dicastero ha elencato in quali casi non si applica il tetto, come per le assunzioni nel settore
della ricerca e quelle di carattere sostitutivo o stagionale.
Categorie speciali Alcune categorie contrattuali sono dotate di una specifica disciplina e non risentono delle
norme sui contratti a termine. Tali categorie sono: contratto di lavoro temporaneo, di inserimento, di
apprendistato, tirocini, stage, lavoro “extra”, dirigenti e rapporti di lavoro tra datori di lavoro agricoli ed
operai assunti a tempo determinato.
Licenziamento Il lavoratore assunto a tempo determinato non può essere licenziato prima della scadenza del
termine se non per giusta causa (Art.18). Nel caso in cui questa non ci fosse, il lavoratore avrà diritto ad un
risarcimento, pari a tutte le retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore fino alla scadenza inizialmente
prevista, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore lavorando presso un altro datore di lavoro
nel periodo considerato.

Lezione 19: Trasferimento d'azienda


Il trasferimento d’azienda – o di suo ramo, situazioni parificate ai sensi dell’art. 2112 co. 5 c.c. – è vicenda
che involge in via diretta l’impresa ed, in via diretta, i suoi lavoratori. Tra le questioni più interessanti che la
fattispecie pone vi è quella relativa alla possibilità che l’operazione si presti a manovre dilatorie da parte del
cedente che scelga di esternalizzare la produzione in spregio alle regole, procedurali e sostanziali, che la
legge prevede in materia. In tal modo, infatti, si c’è il rischio che i diritti garantiti ai lavoratori vengano
pregiudicati.
Tra le menzionate regole un ruolo essenziale è svolto dall’art. 2112 c.c. e dall’art. 47, l. 29 dicembre 1990,
n. 428. Mentre quest’ultimo prevede un obbligo (ed il relativo procedimento) di informazione e
consultazione dei sindacati in caso di cessione di azienda o suo ramo, il primo sancisce quali sono i diritti
che i prestatori hanno diritto a conservare nell’ambito di tale procedura negoziale.
2. La disciplina: ragioni e critiche.
L’esigenza di una disciplina che preveda una serie di garanzie per i lavoratori ceduti si spiega proprio in
ragione di tale loro posizione nell’ambito della vicenda negoziale. Il trasferimento d’azienda interviene tra
due parti, cedente e cessionario, che negoziano mediante “qualsiasi operazione” traslativa (art. 2112 co. 5
c.c.). Si ritiene che non sia necessario il consenso dei lavoratori alla cessione. Essi, quindi, vengono ceduti.
La disciplina interna è stata fortemente influenzata dal diritto comunitario, nello specifico dalle direttive
77/187/CE del 14 febbraio 1977, 98/50/CE del 29 giugno 1998 e dir. n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001.
In dottrina, tuttavia, alcuni ritengono che una vera tutela dei lavoratori esiga il consenso di questi alla
cessione, vale a dire l’applicazione della disciplina dell’art. 1406 c.c. e ciò quantomeno in caso di cessione
del ramo di azienda. Questa costituisce, infatti, la vicenda che più facilmente si presta a manovre fraudolente.
3. Prosecuzione del rapporto lavorativo, licenziamento, dimissioni.
Una prima garanzia che l’art. 2112 c.c. prevede è la prosecuzione del rapporto di lavoro tra il cessionario ed
il prestatore ceduto e la conservazione dei relativi diritti per quest’ultimo (co. 1). Si tratta di una disciplina
favorevole al lavoratore che deve essere coordinata con quanto previsto dal successivo co. 4: vale a dire che
“il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento“. Lo stesso co. 4 prevede, però,
il diritto al lavoratore di dimettersi se le condizioni in cui opera peggiorano e che questo recesso ha gli
effetti dell’art. 2119 c.c., vale a dire che tale modifica costituisce una “giusta causa” ai sensi di tale ultima
disposizione. In sostanza il lavoratore assunto a tempo indeterminato ha diritto all’indennità di preavviso ex
art. 2118 co. 2 c.c. e può recedere senza preavviso (in caso di rapporto a termine serve il preavviso). Si
ritiene che la modifica in pejus debba intervenire entro tre mesi dalla cessione (stante il disposto dell’art.
2112 co. 4 c.c.) mentre il recesso può essere esercitato anche oltre detto termine.
Il recesso del lavoratore rappresenta l’unico rimedio che questi ha per sottrarsi ad una cessione svantaggiosa
ma si tratta di un rimedio debole visto che comporta la cessazione del rapporto di lavoro. Egli, infatti, può
solo scegliere tra conservare un occupazione che è peggiorata a causa di una cessione in cui non ha avuto
alcun ruolo; ovvero sciogliere questo rapporto.
4. Trattamento economico e normativo.
L’art. 2112 co. 3 c.c. si occupa del trattamento economico e normativo che spetta al lavoratore in caso di
cessione di azienda. Le situazioni che possono verificarsi sono le seguenti:
a) il cessionario non applica alcun contratto collettivo nella propria azienda. In questo caso ai lavoratori
ceduti si applicano quelli già applicati dal cedente.
b) il cessionario applica dei contratti collettivi. Questi si applicano anche ai prestatori ceduti solo se di pari
livello rispetto a quelli che applicava loro il cedente.
5. Regime di solidarietà per i crediti da lavoro.
L’art. 2112 co. 2 c.c. prevede la responsabilità solidale di cedente e cessionario per i crediti “che il lavoratore
aveva al tempo del trasferimento”. La formulazione originaria della disposizione circoscriveva questo regime
ai soli crediti conosciuti dall’acquirente o risultanti dal libri aziendali o dal libretto di lavoro ed è stata
novellata dall’art. 47 co. 3 l. 428/90. Tale modifica ha anche escluso dal regime i crediti derivanti dal rapporti
già cessati all’atto della cessione; oggi, quindi, la solidarietà varrebbe solo per quelli derivanti da rapporti
pendenti in questo momento (Cass. 12/4/2010, n. 8641). In ogni caso il lavoratore può liberare il cedente con
apposito meccanismo di cui all’art. 2112 co. 2 c.c..

Lezione 20: cause di cessazione del rapporto di lavoro subordinato.


Anche il rapporto di lavoro ha una fine come è chiaro. Un contratto può essere sia a tempo indeterminato
(cioè che non fissa una data di estinzione) sia a tempo determinato (cioè che prevede un data in cui si
estinguerà). Se per il contratto a tempo determinato possiamo prevedere che la sua cessazione è
corrispondente alla data stabilita da esso per l'estinzione, medesima cosa non è possibile per il contratto a
tempo indeterminato che, come detto, per sua stessa natura non fissa un data di fine rapporto. Di qui la
previsione di varie cause di estinzione che si possono distinguere in due gruppi:
Naturali: Si pensi alla morte del lavoratore che fa cessare, chiaramente, il contratto (non vale lo stesso per il
datore di lavoro, dove il rapporto continua se l'azienda sopravvive e non ci sia una stretta correlazione tra
lavoro e datore, si pensi ad una badante).
Prodotte dalla volontà delle parti: E in questo caso possiamo avere: Risoluzione Consensuale: Cioè la
volontà di entrambe le parti di far cessare il rapporto. Recesso Unilitare: Che possono essere sia le
Dimissioni se è la volontà del Lavoratore ad essere manifestata oppure il Licenziamento se invece è la
volontà del Datore di Lavoro.

Risoluzione Consensuale: non era originariamente prevista da alcuna norma. È stata regolamentata solo con
la Riforma Fornero (Legge 92/2012) che ha previsto che l'atto di risoluzione consensuale deve essere
convalidato dalla Direzione Territoriale del Lavoro. Il Legislatore conferma la sua diffidenza nella
volontarietà da parte del lavoratore (che potrebbe essere condizionato dal datore di lavoro) di far cessare il
rapporto di lavoro e pertanto, attraverso una procedura più complessa, cerca di certificare che davvero ci sia
tale volontà. In realtà la Risoluzione Consensuale è meno frequente delle altre forme.
Recesso unilaterale. Due sono le norme del Codice Civile in materia di recesso e sono l'articolo 2118
(applicabile solo al contratto a tempo indeterminato) e il 2119 (che è applicabile anche ai contratti a termine).
L'articolo 2118 c.c. (rubricato "Recesso dal contratto a tempo indeterminato") stabilisce che ciascuno dei
contraenti può recedere liberamente. Si stabilisce così un regime di libera recedibilità cioè che non c'è
obbligo di motivazione per il recesso né bisogna usare una qualche particolare forma di volontà (recesso ad
nutum). L'unica forma di obbligo è il preavviso (la cui durata è prevista dai contratti collettivi o dagli usi). Se
il preavviso non è concesso il datore dovrà comunque corrispondere al lavoratore una indennità (Indennità di
Preavviso) equivalente alla retribuzione spettante per il periodo coperto da preavviso.
È interessante segnalare che nel caso in cui avvenga in questo periodo un rinnovo contrattuale dei contratti il
lavoratore ha diritto alla maggiorazione del nuovo contratto. Ci si può domandare in caso di assenza del
preavviso e senza neppure la corrispensione della retribuzione il licenziamento non diventi illegittimo il
recesso. Il licenziamento è valido infatti è stato stabilito che il preavviso è un obbligo accessorio che non
incide sulla libertà del recesso. Possiamo vedere che l'articolo 2118 c.c. soffre della presunzione da parte del
legislatore che entrambe le parti, lavoratore e datore di lavoro, siano poste sullo stesso piano. Nella realtà
però sappiamo che il lavoratore è comunque in una posizione di soccombenza.
L'articolo 2119 c.c. (rubricato "Recesso per giusta causa") disciplina la Giusta Causa, che costituisce una
delle motivazioni che rendono legittimo il licenziamento (e le dimissioni). Essa è in sostanza una causa
talmente grave che non permette la prosecuzione del rapporto di lavoro neppure per il tempo previsto dal
preavviso. A seconda della tipologia contrattuali possiamo avere due casi:
Tempo Determinato: È possibile il recesso prima della scadenza del termine (ante tempus).
Tempo Indeterimanto: È possibile recedere senza preavviso. Anche il lavoratore può chiaramente recedere
per giusta causa (Dimissioni per Giusta Causa) in questo caso ha diritto ad una indennità che è pari a quella
del mancato preavviso prevista dall'articolo 2118 c.c. secondo comma (si veda anche il caso del
Trasferimento d'Azienda all'articolo 2112 c.c. secondo comma dove anche in questo caso è possibile il
recesso per giusta causa se le condizioni lavorative a seguito del trasferimento sono totalmente mutate).
Dimissioni del lavoratore. Le Dimissioni, a differenza del licenziamento che ha trovato un sua ulteriore
regolazione in diverse altre leggi, sono ancora regolate dal sistema previsto dal Codice Civile. È richiesta una
convalida da parte della Direzione Territoriale del Lavoro (prima prevista solo per le lavoratrici ma poi la
Riforma Fornero l'ha estesa a tutti). L'allargamento della convalida a tutti i lavoratori è stato previsto per
contrastare il fenomeno delle cosidette Dimissioni in Bianco dove il lavoratore, pressato dal datore di lavoro,
era spinto a formulare le proprie dimissioni preventive (spesso al momento stesso dell'assunzione) per poi
essere datate al momento necessario da parte del datore di licenziarlo. In realtà già con la legge 247/2007 si
cercò di porne un argine attraverso la previsione di un modulo con data certa (valida solo per 15 giorni poi
sarebbe scaduto). Anche questa previsione fu aggirata con la Risoluzione Consensuale in Bianco e pertanto
alla fine il sistema del modulo fu abrogato. Come detto la Riforma Fornero ha previsto questo sistema di
convalida per tutti gli atti di volontà del lavoratore (quindi, come detto, anche per la Risoluzione
Consensuale oltre che per le Dimissioni) tuttora vigente. Da ricordare sono le novità introdotte dal decreto
legislativo 14 settembre 2015, n. 151 attuativo dello Jobs Act che ha introdotto modalità semplificate ed
uniche, esclusivamente telematiche con appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro, per
effettuare le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro al fine di contrastare l'illegittima
prassi delle “dimissioni in bianco”.
Licenziamento. Il regime di libera recedibilità (soprattutto al latere datoriale) ebbe un freno nel 1966. Il
Parlamento, infatti, in 15 Luglio di quell'anno emanò la legge 604/66 tuttora vigente che solennemente
all'articolo 1 proclamava che in caso di contratto a tempo indeterminato (e solo in questo caso) il
licenziamento doveva avvenire solo a seguito di giusta causa o per giustificato motivo. Nasce così un regime
di vincolatività del recesso e si ha quindi un ribaltamento totale rispetto al vecchio regime.
Ci si può domandare se i due regimi siano tra loro compatibili. La risposta è che non lo sono e che il regime
vincolistico ha sostituito quello della libera recedibilità del licenziamento. Esistono però alcune categorie di
lavoratori dove il regime vincolistico non è applicabile e pertanto permane la libera recedibilità (recesso ad
nutum). Esse sono: Dirigenti. Lavoratori Domestici. Sportivi Professionisti. Lavoratori che hanno maturato
l'Età Pensionistica. Lavoratori in Prova (salvo non abbiano superato i sei mesi dall'assunzione in Prova, in
questo caso vige anche per loro un regime di recedibilità vincolata). La Giusta Causa rinvia all'articolo 2119
del Codice Civile. Il Giustificato Motivo, che si divide in Giustificato Motivo Soggettivo e Giustificato
Motivo Oggettivo, è nozionizzato dall'articolo 3 proprio della legge 604 del 1966.
Regole sostanziali (condizioni di legittimitá). Un Licenziamento è Legittimo solo in presenza di Giusta
Causa o di Giustificato Motivo (Soggettivo o Oggettivo) ma cosa significano queste tre nozioni ç?
Per la nozione di Giusta Causa dobbiamo rifarci a quanto già detto esaminando l'articolo 2119 c.c. a cui tra
l'altro la legge 604/66 stessa rinvia. Una causa talmente grave che impone l'immediato recesso. Come
avevamo precisato nel regime precedente alla 604, cioè di libera recedibilità, trovarsi nel caso di giusta causa
significava semplicemente recedere senza l'obbligo del dare preavviso. Dopo la 604 e con la nascita del
regime vincolistico la nozione di Giusta Causa non è solo l'esonero del preavviso ma anche condizione di
validitá del licenziamento (il licenziamento sarebbe illegittimo in assenza di giusta causa).
La nozione di Giustificato Motivo Soggettivo invece è quella di un notevole inadempimento da parte dal
lavoratore che non si può sanzionare diversamente. Va segnalato che sia per la Giusta Causa sia per il
Giustificato Motivo Soggettivo rivela il comportamento del lavoratore e quindi è una reazione a tale
comportamento non per questo entrambe le nozioni sono comunemente definite come Licenziamenti
Disciplinari cioè punitivo del comportamento del lavoratore.
Il Giustificato Motivo Oggettivo invece presenta la caratteristica che in questo motivo non rientra in alcun
modo il comportamento del lavoratore. Esso è legato infatti a ragioni inerenti l'attività, la produttività,
l'organizzazione del lavoro e al regolare svolgimento di esso (Licenziamento per Ragioni Economiche). È un
concetto che la norma ci fornire molto vuoto e che è la Giurisprudenza ad aver riempito di contenuti. Non
basta che ci sia l'avvenimento della situazione perché ci sia licenziamento ma che tale lavoratore non sia
collocabile in altra attività lavorativa anche in mansioni minori (obbligo del repescage), Il licenziamento è
visto come estrema ratio. Nell'ultimo periodo si fanno rientrare in questa categoria anche i fenomeni che
influenzano il rendimento del lavoratore come l'infortunio o la disabilità a patto che sia sempre soddisfatto
l'obbligo del repescage.
Impugnazione del licenziamento. Un Lavoratore può, logicamente, impugnare il licenziamento tenendo
conto però dei termini di decadenza dell'impugnazione. C'è un doppio termine di decadenza per
l'impugnazione del licenziamento. L'articolo 6 della legge 604 impone che dal momento della ricezione della
comunicazione in forma scritta del licenziamento il lavoratore ha 60 giorni per impugnarlo altrimenti decade.
Lo può impugnare con qualsiasi atto scritto anche extragiudiziario che sia in grado, però, di far comprendere
la volontà di impugnare il licenziamento al datore di lavoro. L'atto può essere redatto anche con l'ausilio di
un sindacato. Dal 2010 è stato introdotto un ulteriore termine di decadenza di 180 giorni che è quello del
deposito presso il Tribunale del Lavoro del ricorso, e quindi per avviare il processo, avente per contenuto i
motivi della richiesta di dichiarazione di illegittimità del licenziamento.
Licenziamento collettivo. Nel 1966 e negli anni successivi si riteneva che, di fatto, i licenziamenti collettivi
fossero impossibili se si voleva evitare la creazione di un impatto sociale. Si attivava il meccanismo della
Cassa Integrazione e Guadagni Straordinaria (come riformata negli anni 70') che tamponava i licenziamenti
di massa. Quando la Corte di Giustizia Europea ammonì l'Italia per il non recepimento della direttiva sui
licenziamenti collettivi, l'Italia decise di adottare una norma in materia. Con la legge 223/91, che rimodella
anche il sistema della Cassa Integrazione e Guadagni Straordinaria per portarla a una normalità d'uso, viene
disciplinata anche la materia dei licenziamenti collettivi che possono avvenire, in base ad essa, per due
motivi:
•per messa in mobilità, disciplinato dall'articolo 4;
•per riduzione personale, disciplinato dall'articolo 24.
La procedura di entrambe i motivi è però unica e ha come fine il licenziamento.
L'articolo 4 (Procedura per la dichiarazione di mobilità) è legato alla Cassa Integrazione e Guadagni
Straordinaria. Se nell'attuazione del programma ci sono dei lavoratori (anche uno) sospesi che non servono
più all'azienda (in esubero) possono essere licenziati seguendo la procedura di cui al comma 2 e seguenti.
L'articolo 24 (Norma in materia di riduzione del personale) è dedicata alle aziende con più di 15 dipendenti
(anche questa si collega alla Cassa Integrazione) che in conseguenza di una riduzione o trasformazione
intendono licenziare almeno 5 dipendenti nell'arco di 120 giorni (il motivo è irrilevante essendo parte della
libertà di iniziativa economica di cui all'articolo 41 della Costituzione). C'è bisogno quindi di un elemento
casuale che è la riduzione o trasformazione dell'attività o del lavoro (una scelta organizzativa) e di
un elemento quantitativo, cioè che effettui almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni. Anche in questo
caso si segue la procedura all'articolo 4.
La procedura è volta ad attivare un confronto con le parti sindacali sia di informazione che di consultazione.
Bisogna informare infatti dell'intenzione di attivare la procedura di licenziamento collettivo le RSA o l'RSU.
In seguito si procede ad un confronto tra le parti. È questa la fase sindacale in cui il datore di lavoro e i
sindacati possono raggiungere un compromesso: in caso contrario si apre un ulteriore fase amministrativa in
cui le parti discutono davanti alla Direzione Territoriale del Lavoro. L'obiettivo è sempre quello di favorire
un accordo, ma non c'è un obbligo affinché questo avvenga e il datore non è comunque obbligato a seguire
quanto proposto dai sindacati. Finita la procedura si può:
1.non aver raggiunto un accordo: il datore eserciterà il suo potere di recesso attraverso la comunicazione
scritta di licenziamento con il relativo preavviso. Il datore però non è libero di licenziare a sua scelta ma
dovrà seguire dei criteri stabiliti dall'articolo 5: esso prevede innanzitutto i criteri da seguire
obbligatoriamente possano essere previsti dagli stessi contratti collettivi. In caso di mancanza si dovrà
procedere guardando ai seguenti criteri legali: a) i carichi di famiglia; b) l'anzianità; c) l'esigenza tecnica,
produttiva ed organizzativa.
1.aver raggiunto un accordo: si può avere o il salvataggio parziale dei lavoratori (e per coloro che vanno
licenziati si applicano comunque i criteri dell'art. 5 anche se sono meno di cinque) o il salvataggio totale.
L'articolo 4 comma 11 prevede la possibilità, in questi casi di accordi, di poter derogare anche all'articolo
2103 del Codice Civile che generalmente è inderogabile per via della nullità degli atti o patti contrari. È
possibile pertanto un demansionamento e quindi il lavoratore, pur di conservare il posto di lavoro, può essere
collocato a diversa mansione rispetto alla precedente.
Tutele Applicabili in caso di Illegittimo Licenziamento: hanno subìto, possiamo dire, tre fasi storiche
segnate da tre diverse riforme, ognuna delle quali ha creato un diverso regime di tutele. L'ultima riforma, il
Jobs Act del 2015, ha dato vita a quello che si suole definire il Contratto a Tutele Crescenti, unica forma
contrattuale a tempo indeterminato, con un sistema di Tutele che vanno a mutare in base a dei parametri che
dipendono anche dal tempo in cui si è legati lavorativamente con l'azienda, oltre che dalla diversità delle
forme di licenziamento.
Le Tutele Previste della Legge 604 e dall'Articolo 18 "Old Style". Fino al 1966, anno dell'introduzione
della legge 604, esisteva il regime del Codice Civile della libera recedibilità. Pertanto non esisteva neppure
una normativa in materia sulla dichiarabilità dell'illegittimità del licenziamento e quindi non poteva esserci
tutela per il lavoratore.Con la riforma iniziò a comparire una normativa in materia di illegittimità del
licenziamento; di conseguenza apparve anche una forma di tutela da tale illegittimità, la cosiddetta Tutela
Obbligatoria, prevista dall'articolo 8 della legge 604.
Il suddetto articolo impone al datore di lavoro, che ha commesso un illegittimo licenziamento, la
riassunzione entro tre giorni. Si noti l'utilizzo del verbo riassumere che, a differenza di reintegrare,
presuppone che il vecchio rapporto di lavoro sia cessato e quindi il lavoratore venga riassunto da capo. Ne
deduciamo che, seppure sia illegittimo, il licenziamento ha causato l'estinzione del rapporto di lavoro.
Alternativamente al lavoratore verrà corrisposta un'indennità risarcitoria che va dalle 2.5 alle 6 mensilità.
Data la scarsca tutela per il lavoratore inizialmente vi é stata l'introduzione dell'articolo 18 che possiamo
definire "vecchio stile": visto che quello attuale é stato modificato dalla Legge Fornero. La prima
formulazione di questo articolo infatti introduceva una Tutela Reale. Per i lavoratori che lavoravano presso
imprese rientranti nei requisiti dimensionali di cui al medesimo articolo (imprese con più di 15 lavoratori - 5
se agricola - nella stessa unità produttiva, oppure imprese con più di 15 lavoratori - 5 se agricole - dislocati in
diverse unità produttive ma sempre nel medesimo comune, oppure imprese con più di 60 dipendenti a livello
nazionale) prevede il reintegro (e si noti qui il verbo reintegrare che, a differenza del verbo riassumere,
presuppone che il rapporto di lavoro non sia mai terminato e che quindi il lavoratore ritorni al proprio posto
di lavoro come se non ci fosse mai stato licenziamento – era inoltre disposto in aggiunta un risarcimento
che deve essere come minimo di 5 mensilità e rapportato alle mensilità perse durante il periodo
dell'illegittimo licenziamento. Restava comunque in vigore la Tutela Obbligatoria per i lavoratori di imprese
che non rientravano nei requisiti dimensionali dell'articolo 18.
La Riforma Fornero e il Nuovo Articolo 18: Il sistema subisce una radicale rivoluzione nel 2012 con la
Legge Fornero (92/2012), che pone fine al regime di duplice Tutela (Obbligatoria e Reale) per dar vita ad
una frazionamento della Tutela Reale. Si dava così concretezza al principio della flessibilità in uscita, già
desiderato della Riforma Biagi ma non riuscito proprio perché l'allora Governo Berlusconi trovò come
ostacolo il "tabù" del'art. 18.
Tale riforma ha previsto 4 tutele differenti. 1) Tutela Reale Forte (Reintegro e Risarcimento) Ai sensi del
comma 1, 2, 3, nel caso di nullità del licenziamento (discriminatorio, un anno dalle pubblicazioni
matrimoniali, primo anno di vita del figlio, o comunque nei casi in cui la nullità è prevista per legge) e di
inefficace perché compiuto in forma orale, il lavoratore ha il diritto di reintegro nel posto lavorativo e il
risarcimento del danno subito dedotto dell'aliunde perceptum (cioè del guadagnato in altro lavoro). Al
reintegro è possibile sostituire su richiesta del lavoratore una indennità sostitutiva di 15 mensilità. Solo
questa, Fascia di Tutela è applicabile in tutti i casi di licenziamento. Le Fasce 2, 3 e 4 sono attivabili solo ai
lavoratori facenti parte di un unità produttiva superante i limiti dimensionali di cui al comma 8 (unità
produttive con più di 15 dipendenti / 5 se agricole, le unità produttive con meno di 15 dipendenti / 5 se
agricole se l'azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti / 5 se agricola suddivise in più unità e
le aziende con più di 60 dipendenti a livello nazionale).
2) Tutela Reale Debole (Reintegro e Risarcimento Limitato) Ai sensi del comma 4 chi è licenziato per motivi
disciplinari (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) ma tale licenziamento è illegittimo poiché vi è
insussistenza del fatto contestato oppure la sanzione prevista dal codice disciplinare o dai contratti collettivi
per questa fattispecie è una sanzione conservativa, il lavoratore ha diritto al reintegro e ad un risarcimento
del danno subito, che non può comunque superare le 12 mensilità, sottratto dell'aliunde perceptus e l'aliunde
percepiendum (cioè quello che con normale diligenza avrebbe guadagnato se avesse lavorato). Ai sensi del
comma 7 si attua la medesima disciplina nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
illegittimo poiché violi l'articolo 2110 del codice civile che prevede per alcune inidoneità fisiche (infortunio,
malattia, gravidanza e puerterio) vi è la conservazione del posto oppure per manifesta insussistenza del fatto
posto a motivazione del licenziamento oggettivo. In tutti i casi al reintegro è sempre possibile chiedere in
sostituzione l'indennità sostitutiva di 15 mensilità.
3) Tutela Risarcitoria Forte Ai sensi del comma 5 in tutti i casi in cui non si rientri nelle altre tre fasce, al
lavoratore spetterà il solo risarcimento tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24 mensilità ma non il
reintegro.
4) Tutela Risarcitoria Debole Ai sensi del comma 6 nei casi di inefficacia per mancanza di motivazioni o per
violazione delle procedure di cui all'articolo 7 dello Statuto (licenziamento disciplinare: giusta causa e
giustificato motivo soggettivo) e all'articolo 7 della legge 604/66, al lavoratore spetterà solo il risarcimento
tra le 6 e 12 mensilità ma non il reintegro. A queste tutele si somma la Tutela Obbligatoria di cui all'articolo 8
della 604 per tutti i lavoratori che non entrano nelle tutele dell'articolo 18 per i requisiti dimensionali.
Rimane in ultimo da segnalare una questione giurisprudenziale sorta in seguito alla Riforma Fornero.
Secondo alcuni infatti la suddetta riforma non si applicherebbe nel caso dei dipendenti pubblici pertanto per
questa categoria (e solo per questa) resterebbero in piedi la Tutela Reale dell'articolo 18 "old style".
Il Jobs Act e il Contratto a Tutele Crescenti. Con il Jobs Act del Governo Renzi e in
particolare dal decreto legislativo 23/15, la materia è stata cambiata in alcuni punti. Ai sensi
dell'art. 1 le nuove disposizioni si applicano alle categorie degli operai, impiegati o quadri,
assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 (data
dell'entrata in vigore della legge). Si applica anche nei casi di conversione, sempre dopo il 7
marzo, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo
indeterminato. Ai sensi dell'articolo 9 rientrano nel campo di applicazione anche i datori di
lavoro non imprenditori, invece, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica,
sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.
Il decreto si presenta come forma esclusiva di disciplina della tutela dal licenziamento
illegittimo in questo campo di applicazione pertanto, pur esistendo ancora l'art. 18, lo stesso
non può essere applicato (rimane ancora in vigore per gli assunti precedentemente alla data di
entrata in vigore del decreto legislativo 23/15, 7 marzo 2015, e per i dipendenti pubblici. Va
inoltre segnalato che tale disciplina si attua anche alle unità produttive inferiore ai requisiti
dimensionali di cui all'articolo 18 dello Statuto superando il doppio binario. Possiamo
individuare anche in questo caso quattro fasce di tutela a seconda dei vari casi di illegittimità.
1.Tutela Reale Forte (reintegro e risarcimento): ai sensi dell'art. 2, nei casi in cui
licenziamento è illegittimo poiché: attuato per motivi discriminatori a norma dell'arti. 15 dello
Statuto; in forza di altra legge che ne dispone in quel caso la nullità; intimato in forma orale;
perché vi è un difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica
del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4 comma 4 e 10 comma 3 della legge 68/99, al
lavoratore spetta il reintegro (entro 30 giorni il lavoratore deve tornare nel posto di lavoro
altrimenti decade dal diritto) e una indennità non inferiore alle 5 mensilità (calcolata in base
all'ultima percepita per il calcolo del TFR) sottratta dell'aliunde perceptus. Il lavoratore potrà
chiedere al posto del reintegro una indennità sostitutiva di 15 mensilità.
2.Tutela Reale Debole (reintegro e risarcimento) Ai sensi dell'art. 3.2, nei casi in cui il
licenziamento per motivi disciplinari sia illegittimo poiché è dimostrata l'insussistenza del fatto
cagionante, al lavoratore spetta il reintegro (entro 30 giorni il lavoratore deve tornare nel posto
di lavoro altrimenti decade dal diritto) e un'indennità non superiore alle 12 mensilità (calcolata
in base all'ultima percepita per il calcolo del TFR) sottratta dell'aliunde perceptus e dell'aliunde
percepiendum.
3.Tutela Risarcitoria Forte Ai sensi dell'art. 3-1, nei casi in cui il licenziamento per giusta
causa che per giustificato motivo (soggettivo e oggettivo) sia illegittimo, al lavoratore spetta
una indennità pari a due mensilità (calcolata in base all'ultima percepita per il calcolo del TFR)
per ogni anno di lavoro svolto la quale indennità non potrà essere inferiore alle 4 mensilità e
superiore alle 24 mensilità.
4.Tutela Risarcitoria Debole Ai sensi dell'art- 4, in caso di violazione del requisito
motivazionale di cui all'art. 2.2 della l. 604/66, oppure per violazione delle procedure per il
licenziamento disciplinare di cui all'art. 7 dello Statuto, al lavoratore spetta una indennità pari
ad una mensilità (calcolata in base all'ultima percepita per il calcolo del TFR) per ogni anno di
lavoro svolto la cui indennità non potrà essere inferiore alle 2 mensilità e superiore alle 12.
Ai sensi dell'art. 5 è concesso al datore di revocare il licenziamento entro 15 giorni dall'inizio
dalla comunicazione al datore dell'impugnazione e il rapporto si ritiene ripreso senza soluzioni
di continuità.
Interessante è l'articolo 6 che introduce la possibilità di una conciliazione extra giudiziaria nei
casi di licenziamento illegittimo che prevedono la tutela reale. Il datore di lavoro può offrire al
lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un indennità di
ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni
anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità,
mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L'accettazione dell'assegno in tale
sede da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la
rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta.
Ai sensi dell'articolo 9, regime semi-particolare hanno le piccole imprese (non raggiungenti i
limiti dimensionali dell'articolo 18 dello Statuto per i quali non si attua la tutela reale limitata
(art. 3 c. 2) e la tutela indennitaria sia massima (art. 3 c. 1) che minima (art. 4 c. 1) sia per la
conciliazione (art. 6 c. 1) è dimezzata e non può superare le 6 mensilità.
L'articolo 10 tocca il tema licenziamento collettivo come disciplinato dagli articoli 4 e 24 della
legge 23 luglio 1991, n. 223. Se è intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica la
tutela reale piena di cui all'articolo 2 del decreto. Se è, invece, in violazione delle procedure
richiamate all'articolo 4 comma 12 della 223/91, o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5
comma 1, sempre della 223/91, si applica il regime di tutela indennitaria massima di cui
all'articolo 3 comma 1 del decreto.
In ultimo, il legislatore all'articolo 11 esclude il rito speciale del lavoro di cui ai commi 48 a 68
dell'articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92 per tutti i casi di licenziamento illegittimo
contemplati.
Per concludere possiamo analizzare le analogie e le differenze tra il Regime dell'articolo 18 e il
nuovo Contratto a Tutele Crescenti:
•la Tutela Reale Forte rimane inalterata: medesimi casi medesime sanzioni;
•la Tutela Reale Debole viene circoscritta al solo caso di licenziamento disciplinare illegittimo
per motivazioni insussistenza. Le sanzioni sono pressoché identiche. Non sono più contemplati i
casi in cui il licenziamento sia spropositato rispetto alle sanzioni previste dal codice disciplinare
o dei contratti collettivi che prevedono sanzioni conservative e nei casi di insussistenza delle
motivazioni per giustificato motivo oggettivo. Entrambe queste forme sono assorbite dalla
fascia della tutela risarcitoria forte;
•la Tutela Risarcitoria Forte mantiene il ruolo di fascia omnicomprensiva dei casi non previste
dalle altre fasce;
•la Tutela Risarcitoria Debole non contempla più le procedure di cui all'articolo 7 della 604/66
mantiene inalterati gli altri casi;
•le indennità sono calcolate per anni di lavoro e non più a discrezione del giudice;
•al datore è dato modo di non subire il reintegro cercando mediazione in via conciliare entro 15
giorni;
•le organizzazioni di tendenza entrano per previsione di legge nell'applicazione delle tutele qui
previste.

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