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Biennio rosso (1919-1920)

1 La delusione della vittoria


Nonostante l’Italia fosse una delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, al termine del
conflitto rimase profondamente delusa, perché dopo aver sacrificato 680.000 uomini, uniti ad un
milione di feriti di cui la metà mutilati, non ottenne affatto gli esiti sperati.
La prima delusione si originò da un errato calcolo del governo italiano nel 1915, quando stipulò il
Patto di Londra, in quanto non pensava che la sconfitta austriaca avrebbe potuto portare ad un
completo disfacimento dell'Impero austro-ungarico, rimpiazzato da vari stati nazionali (Jugoslavia,
Polonia Cecoslovacchia, Austria ed Ungheria). L'Italia mirava semplicemente ad un arretramento
dell'Austria-Ungheria verso Est, in modo da poter ottenere ed amministrare nuove regioni, motivo
per cui, nel momento del Patto di Londra, decise di richiedere territori slavi come la Dalmazia.
Un altro problema per l'Italia fu quello sull'appartenenza della città di Fiume, rivendicata dalla
Jugoslavia. Alla conclusione della guerra, le truppe sotto il comando italiano occuparono Fiume
(ottobre 1918), mentre la popolazione manifestava la propria volontà di annessione all'Italia. Alla
Conferenza di Parigi, gli Alleati e soprattutto Wilson, rifacendosi al Patto di Londra, che assegnava
Fiume alla Iugoslavia, si opposero fermamente a tale richiesta. Questa decisione provocò
l'abbandono alla conferenza, il 24 aprile 1919, da parte della delegazione italiana in segno di
protesta. Tale atto arrecò ulteriori danni all'Italia, poiché continuò la spartizione dei vari territori,
come quelli tedeschi in Africa e le zone di influenza in Medio Oriente, senza tener minimamente
conto dell'Italia. Pertanto il regno di Vittorio Emanuele III si vide riconoscere il Trentino, l’Alto
Adige, l’Istria e Trieste, ma non la Dalmazia e Fiume.

2 D'Annunzio e la vittoria mutilata


A causa di queste delusioni D'Annunzio fece circolare un toccante slogan, atto a colpire
l'immaginazione degli italiani, soprattutto degli ex-combattenti. Quella ottenuta dal poeta sarebbe
stata una vittoria mutilata, ossia un trionfo privato, a causa dell'egoismo delle altre nazione, di
ogni profitto. Tuttavia, D'Annunzio non si limitò a coniare quel fortunato slogan, perché nel
settembre del 1919 passò all'azione ponendosi alla guida di alcuni reparti dell'esercito, circa 9.000
uomini, che si impadronirono con la forza, nonostante gli ordini contrari del governo, della città di
Fiume. La città divenne ben presto il rifugio e un punto di riferimento di influenti figure, simili a
quelle che avrebbero fondato, di lì a poco, il movimento fascista. Si trattava di personaggi
provenienti dai ceti medi, tra cui giovani, ex-ufficiali, ex-arditi, oppure truppe d'assalto che si
erano distinte per le loro qualità militari. Per questi, come per D'Annunzio o per i futuristi, la
guerra era stata un'esperienza appassionante ed avventurosa, che gli aveva permesso di mettersi
alla prova e di sperimentare nuove emozioni, ben lontane dalla monotonia della società industriale.
Ad essi D'Annunzio offrì una nuova avventura in nome dell'onore italiano infangato da Parigi.
Inoltre, amante dello spettacolo, a Fiume elaborò la coreografia che sarà poi ripresa dal fascismo.

3 La situazione economico-sociale
Gli effetti disastrosi della guerra si fecero sentire anche sotto il profilo finanziario. Le spese, nel
bilancio statale, erano passate dai 2 miliardi e 501 milioni del 1913-14 a 30 miliardi e 857 milioni
nel 1918-19, mentre il debito pubblico era salito vertiginosamente, dai 14.089 milioni di lire del
1910 a 95.017 milioni nel 1920. Ciò provocò un'enorme svalutazione della lira, infatti se nel 1914
un dollaro era quotato 5,18 lire, nel 1920 28,57 lire, che portò ad un rincaro dei generi importati
dall'estero, passando dal carbone, al grano (dato che un gran numero di contadini erano morti in
guerra). Per placare il malcontento popolare, il prezzo del pane era rimasto basso, ma ciò
continuava ad influenzare negativamente l'economia.
Vi era dunque una forte inflazione che divorava i redditi, le rendite e gli stipendi. I ceti più
scontenti erano quelli medi, posti tra la borghesia ed il proletariato, perché la guerra aveva
arricchito gli industriali mediante la produzione del materiale bellico ed in virtù delle commesse
statali, pertanto i ceti medi avevano visto l'accrescersi del divario che li separava dalla borghesia,
mentre quello che li distingueva dal proletariato era diminuito. Bisogna evidenziare come i vari
ceti risposero in maniera del tutto diversa alla crisi, infatti se la borghesia e le classi medie
reagirono negativamente perché persero potere in seguito alla svalutazione della lira, gli operai,
organizzati dai propri sindacati, seppero anche sfruttarla, in quanto riuscirono ad adeguare i propri
salari al costo della vita. Tuttavia, ad un numero sempre crescente di operai, l'azione sindacale non
bastò, così tra i proletari si diffuse la volontà di attuare una verso e propria rivoluzione socialista,
si diceva di “fare come in Russia”. Anche i contadini erano in fermento, i quali occuparono
progressivamente i territori di varie regioni, perché al momento della disfatta di Caporetto il
governo aveva promesso la distribuzione di terre, ma indugiava a mantenerla.
Queste azioni risultavano alquanto spontanee, perché l'attività organizzativa si era originata solo in
certe zone privilegiate, come la Valle Padana oppure le Puglie. Qui, dopo lotte e scioperi, i
sindacati erano riusciti a controllare il mercato del lavoro, il salario e le ore di lavoro.

4 Partito Popolare Italiano


All'indomani della guerra (nel gennaio del 1919) si originò in Italia un partito cattolico, chiamato
Partito popolare italiano, ad opera di Luigi Sturzo, un sacerdote di Caltagirone (Catania),
affiancato dal giovane trentino Alcide De Gasperi, che segnò il rientro a pieno titolo dei cattolici
sulla scena politica italiana.
Questo fatto accadde soprattutto perché si chiedeva una riforma elettorale che sostituisse il sistema
uninominale con un sistema proporzionale, capace di esprimere al meglio gli interessi del
popolo. Col sistema uninominale ciascun movimento presentava in ogni collegio elettorale un solo
candidato, così tra i vari personaggi aspiranti alla carica politica veniva eletto chi raggiungeva il
maggior numero di voti. Si trattava dunque di una gara tra i singoli individui che rispecchiava più
gli orientamenti dei singoli deputati che quelli degli elettori. Perciò il sistema adottato dal 1919, il
quale prevedeva che i candidati di ogni movimento fossero designati corrispondentemente alla
percentuale di suffragi ricevuti su scala nazionale, mise in crisi quello precedente e accrebbe
l'importanza dei partiti organizzati. Però il regime a suffragio semi-universale in vigore dal 1912
rischiava di far ottenere la maggioranza dei deputati ai socialisti, tanto nelle campagne quanto nelle
città. Per impedire un simile rischio i cattolici furono autorizzati dal Vaticano a costituire un loro
partito politico. Tuttavia, Sturzo non intendeva rivolgersi solo ai cattolici, ma a tutti coloro che si
riconoscessero negli ideali e nei fini del partito. Pur essendo anti-socialista il PPI non era affatto
conservatore o reazionario, anzi nelle intenzioni di Sturzo il partito doveva essere orientato in
direzione democratica, cioè si doveva rivolgere ai ceti deboli e poveri. Differentemente dai
socialisti, i popolari non volevano l'abolizione della proprietà private e la dittatura del proletariato
sulla borghesia, bensì una pacifica coesistenza delle varie classi sociali, nel rispetto dei diritti tutti.
Quindi il PPI doveva essere un partito aconfessionale, perché ispirato a principi cristiani e
interclassista, richiedendo, in rispetto del Parlamento, che lo stato non divenisse lo strumento di
dominio di una classe sulla altre, ma promuovesse il bene comune.

5 La nascita e la diffusione di nuove formazioni politiche


Oltre alla nascita del Partito Popolare italiano, l'Italia vide la formazione e l'ampia diffusione di
nuovi partiti di massa, i socialisti, ad esempio, nel 1919 arrivarono a 200.000 iscritti. Nelle
elezioni del '19 il Partito Socialista italiano divenne il primo schieramento politico con 156 seggi,
mentre i popolari ne conquistarono 100. Bisogna anche evidenziare come nel 1918-1920 si fosse
sviluppata una forte sindacalizzazione, in quanto il CGL (schieramento socialista) passò da
250.000 a 2.300.000 iscritti, mentre la CIL (di ispirazione cattolica) arrivò ad 1.600.000 membri.
Ma la novità, forse più rilevante, fu data dal fatto che i ceti medi cominciarono a muoversi e ad
organizzarsi, dato che il 1918 vide la nascita dell'Associazione Nazionale Combattenti, l'impresa
di Fiume mobilitò un imponente numero di militare e Mussolini nel 1919 fondò il movimento dei
Fasci di combattimento.

6 Occupazione delle fabbriche


I socialisti, rappresentati dal Partito Socialista Italiano, erano lacerati da una grave crisi interna,
così, affascinati dal modello russo, auspicavano che la rivoluzione avvenisse anche in Italia.
Tuttavia, il PSI non faceva nulla per organizzarla, inoltre quando, durante uno sciopero generale, i
lavoratori mostrarono di voler passare ai fatti, il partito rinviò l'insurrezione proletaria ad un'altra
occasione. La massima tensione venne raggiunta, nel settembre del 1920, quando gli operai
metalmeccanici occuparono circa 300 fabbriche del Nord Italia. Mentre la borghesia si faceva
prendere dal panico, il PSI dichiarò che tale occupazione non aveva risvolti politici e che si trattava
soltanto di una dura protesta sindacale, pertanto risultò una grave sconfitta per il proletariato.

7 L'ultimo governo Giolitti


Il rancore della borghesia riguardo l'occupazione delle fabbriche venne rafforzato
dall'atteggiamento dei governo, guidato, dal giugno del 1920, nuovamente da Giolitti (V governo).
Consapevole che una repressione violenta delle fabbriche non avrebbe fatto altro che aumentare le
tensioni, Giolitti decise di aspettare in modo che esse si potessero placare.
Per quanto riguarda la politica estera, nel novembre del 1920 riuscì attraverso il trattato di
Rapallo a liquidare la questione fiumana (Fiume fu riconosciuta città libera sia dall'Italia che
dalla Jugoslavia, mentre l'Istria si poté annettere all'Italia). Dinnanzi al rifiuto di D'Annunzio di
abbandonare la città (a dicembre), il governo dovette far intervenire l'esercito, tra sdegno dei
nazionalisti e degli ex-combattenti.
Giolitti volle anche affrontare la grave crisi finanziaria che il paese attraversava, abolendo il prezzo
politico del pane, stabilendo la nominativa dei titoli azionari ed aumentando la tassa di
successione. La neutralità dello stato riguardo l'occupazione delle fabbriche, la liquidazione della
questione di Fiume ed interventi finanziari, provocarono la netta ostilità della borghesia e dei ceti
medi, pertanto Giolitti, sempre più osteggiato dai conservatori, avrebbe potuto godere soltanto
dell'appoggio dei socialisti, i quali rifiutarono sempre di appoggiare il governo.
Nel maggio 1921 si tennero le elezioni politiche anticipate e Giolitti formò il cosiddetto Blocco
nazionale, ossia una lista di liberali e nazionalisti in cui inserì alcuni esponenti fascisti, che si
proponeva di raggruppare tutte le forze conservatrici del Paese. Con questa corrente, utilizzando
strumenti legali e politici, voleva sia sbarrare la strada ai cattolici e ai socialisti, sia moderare la
violenza del partito fascista. I risultati furono lontani dalle aspettative, in quanto il PSI pur
perdendo voti e seggi dopo la scissione del Partito comunista d'Italia, si confermò partito di
maggioranza relativo, mentre il PPI rispetto al 1919 ne ottenne un numero maggiore. Non essendo
riuscito ad indebolire il PPI e il PSI, inoltre avendo fallito l'obbiettivo di influenzare il fascismo,
Giolitti decise di dimettersi.
La questione dei socialismo
8 Benito Mussolini
Il fascismo fu un fenomeno estremamente complesso e difficilmente inquadrabile, inizialmente
antiborghese, antisocialista, anticlericale e antimonarchico, che per essere compreso al meglio
risulta indispensabile illustrare la figura di Benito Mussolini.
Direttore dell'Avanti! dal 1912 al 1914, Mussolini fu il leader dei socialisti massimalisti e venne
ispirato dalle teorie del filosofo francese Georges Sorel (autore delle Riflessioni sulla violenza),
secondo cui il proletariato sarebbe dovuto essere sempre pronto ad attuare la rivoluzione
anticapitalistica. Mussolini fu anche il vero artefice della settimana rossa, quella moltitudine di
scioperi che, nel giugno 1914, investirono la Romagna e le Marche.
Tuttavia, scoppiata la Grande Guerra i socialisti si schierano su posizioni neutraliste, mentre
Mussolini scelse la strada dell'intervento, perciò abbandonò l'Avanti! e fondò Il Popolo d'Italia.
Questo gesto provocò la sua espulsione dal partito socialista e lo obbligò a cercare una nuova
direzione politica. Prima di tutto la scelta dell'intervento lo fece riconciliare con l'idea di nazione e
di patria, disprezzate in virtù dell'internazionalismo proletario, inoltre l'andamento del conflitto e
la sconfitta a Caporetto lo portarono alla conclusione che la lotta di classe avrebbe danneggiato
gravemente la nazione all'interno dei propri confini, infine lo scoppio della rivoluzione bolscevica
in Russia, culminata in una guerra civile e nel terrore, lo portarono ad abbandonare l'idea di un
ribaltamento dell'ordine sociale e a valorizzare il ruolo della borghesia nello sviluppo economico
di un paese. Eppure, malgrado ciò e malgrado il fatto che, dal 1° agosto 1918, Il Popolo d'Italia
avesse cambiato il sottotitolo quotidiano socialista in quotidiano dei combattenti e dei produttori
(termine coinvolgente sia produttori sia lavoratori), Mussolini non aveva ancora abbandonato
del tutto i propri ideali socialisti.

9 Il programma dei fasci di combattimento


Il 23 marzo 1919 si costituirono a Milano i Fasci italiani di combattimento, destinati a
trasformarsi nel 1921 in Partito nazionale fascista. Come la falce ed il martello per i comunisti, il
fascio littorio, costituito da un insieme di bastoni e una scure, divenne il simbolo per eccellenza del
fascismo. Il fascio da impressione di unità, dunque di forza, infatti Mussolini in un occasione
affermò che si può spezzare facilmente un singolo bastone, ma non un insieme di bastoni ben
stretti e legati tra loro.
Questa formazione, ancora radicalmente di sinistra, espose il proprio programma su Il Popolo
d'Italia il 6 giugno 1919. I Fasci di combattimento, pur essendo straripanti di rivendicazioni sociali,
si proposero di valorizzare sia la nazione italiana nel mondo, sia la guerra rivoluzionaria. Pertanto
questo movimento aveva il fine di fondere il nazionalismo col socialismo, che erano sembrati dai
tempi di Marx e Mazzini del tutto antitetici, perché il secondo istigando la lotta di classe, avrebbe
potuto provocare il disfacimento della nazione.

10 Il fascino del modello fiumano


All'inizio del 1920 il movimento fondato da Mussolini attraversò una dura crisi, infatti alle elezioni
del 1919, le prime adottanti il sistema proporzionale, ottenne pochissimi consensi, nella stessa
Milano, roccaforte del movimento, si raggiunsero soltanto 5.000 voti, segno che il miscuglio tra
nazionalismo e socialismo non aveva colpito, mentre le masse avevano preferito votare PPI e PSI.
Ma questo progetto non era necessariamente da condannare, in quanto D'Annunzio stava portando
avanti un'operazione politica analoga (impresa di Fiume), nata da motivazioni strettamente
nazionali, ma caricatasi di aspirazioni verso il rinnovamento sociale. Nella Carta del Carnaro, una
sorta di costituzione promulgata da D'Annunzio nel settembre del 1920, la proprietà non era ne
abolita ne considerata come un semplice diritto, bensì promossa in nome dalla produttività, nel
contesto più generale dell'attività economica collettiva.

11 Lo squadrismo agrario
Nel 1921, dopo che era stato abbandonato il progetto d'annunziano (Natale 1920) e l'Italia aveva
visto la grande stagione delle agitazioni socialiste, culminata nello sciopero dei braccianti emiliani
e nell'occupazione delle fabbriche, vi fu una vera e propria svolta per il movimento fascista, che
divenne lo squadrismo fascista. Sin dall'inizio il movimento dei fasci di combattimento era stato
un fenomeno urbano che investì solo alcune importanti città, prima fra tutte Milano, inoltre
possedeva componenti sia nazionaliste sia antiborghesi. Invece, dalla fine del 1920, il movimento
accentuò il proprio nazionalismo a discapito di ogni rivendicazione socialista, in altre parole
da quel momento i fascisti videro il socialismo come un vero e proprio nemico della patria e si
allearono con la borghesia.
Nella seconda metà del 1920, due clamorose azioni divennero il simbolo del movimento fascista,
da una parte l'incendio dell'Hotel Balkan, sede di associazioni slavofile, il 13 luglio a Trieste,
dall'altra l'assalto al municipio di Bologna, per impedire l'insediamento della giunta comunale
rossa, causando 10 morti e circa 100 feriti, il 21 novembre. Questi eventi possono essere
considerati come l'inizio ufficiale dello squadrismo, un fenomeno che inizialmente investì le
campagne della pianura padana e della Puglia, zone in cui vi erano importanti movimenti sindacali
socialisti.
Inoltre il fascismo si alleò con i grandi agrari, che lo finanziarono, armarono e rifornirono di
mezzi, pertanto nella prima metà del 1921, una volta ottenuti i materiali bellici, iniziarono le prime
spedizioni punitive verso le organizzazioni rosse e bianche, cioè verso i socialisti e cattolici,
bruciando le Case del popolo, distruggendo sedi di riunione ed edicole, uccidendo i dirigenti più
determinati ed obbligando i rossi alle dimissioni.

12 Caratteristiche delle squadre d'azione


I fascisti erano composti per lo più da studenti, spesso minorenni (la maggiore età si raggiungeva
a 21 anni), ex-combattenti, appartenenti alla piccola borghesia, inquieta per la proprie sorti,
preoccupati dalla pressione proletaria da una parte e capitalistica dall'altra. Desiderosi di una
rivalsa, ora che il movimento fascista era divenuto in tutto e per tutto nazionalista e si opponeva
duramente al socialismo, la piccola-borghesia si era schierata assieme alla borghesia agraria contro
il comune nemico rosso. I giovani videro il fascismo come un'avventura per uscire dai canoni della
loro rigida educazione, mentre gli ex-combattenti, che avevano partecipato alla grande guerra per
lo più come tenenti o capitani, erano divenuti i leader del partito.
Il fascismo adottò tra i suoi stemmi le camicie nere (uniformi dei fanti d'assalto nella prima guerra
mondiale), indossate dai legionari di Fiume sotto il comando di D'Annunzio.
Le squadre d'azione adottarono nella loro lotta politica l'elemento della violenza organizzata,
perché nella prima guerra mondiale avevano maturato la consapevolezza che col nemico non si
potesse discutere, ma che esso andasse schiacciato con ogni mezzo. Queste violenze permisero agli
squadristi di imporsi, nel giro di un anno, agli altri movimenti come una forza travolgente. Ciò fu
possibile perché gli organi del governo non intervenivano, in quanto non vedevano di mal occhio
l'azione delle squadre fasciste, anzi ritenevano che si dovessero opportunamente utilizzare contro i
sovvertivi, per poi metterle da parte una volta ristabilito l'ordine sociale.

13 La nascita del Partito nazionale fascista


L'offensiva fascista si scatenò in tutta la sua violenza nel 1921, coinvolgendo specialmente la
Venezia-Giulia, la Toscana, le Puglie e la Valle Padana (particolarmente Reggio Emilia, Modena,
Bologna e Ferrara), provocando sia la distruzione di numerose associazioni avverse sia la morte di
77 uomini (dal 1/1/1921 al 7/4/1921) e il ferimento di 280 individui.
Va ricordato che il fascismo, sin dall'inizio, era sostanzialmente acefalo, cioè privo di una rigida
organizzazione e di una vera struttura gerarchica, realtà che emerse con chiarezza nel cosiddetto
patto di pacificazione, stipulato da Mussolini il 3 agosto 1921 a Montecitorio col PSI e con la CGL
(confederazione Generale del Lavoro), che avrebbe dovuto porre fine all'azione degli squadristi,
ma i ras, i capi delle squadre d'azione a livello locale, rifiutarono l'accordo e negarono che
Mussolini avesse l'autorità per stringerlo. Nell'estate del 1921 Mussolini (che aveva già assunto il
titolo di Duce) era sostanzialmente un primo tra pari, ma le vere guide del partito erano Balbo,
Grandi e Farinacci. Mussolini dovette ammettere la propria sconfitta e rassegnare le proprie
dimissioni, ma vennero respinte a causa del suo carisma e della sua notorietà a livello nazionale.
Fu allora che il movimento dei fasci si trasformò nel Partito nazionale fascista (11 novembre
1921), che costituiva un partito organizzato gerarchicamente, che abbandonava le tendenze
anticlericali e antimonarchiche tipiche del movimento dei fasci e delle corporazioni e che si
schierava totalmente su posizioni di conservatorismo sociale, di difesa ad oltranza, orientate verso
gli interessi dei borghesi e della proprietà privata.
I diritti dell'uomo del del cittadino
14 La marcia su Roma
Nel 1922 le violenze dello squadrismo continuarono, mentre Mussolini ottenne i consensi di
numerosi esponenti del governo, dell'esercito e delle attività economiche, che si rivolsero al Duce,
ritenuto capace di riportare le classi lavoratrici, i partiti ed i sindacati all'ordine. In altri termini vari
individui volevano sfruttare il fascismo per i propri intenti, senza mettere minimamente in conto
che, giunto al potere, potesse instaurare una dittatura.
Dinnanzi alle violenze fasciste il governo Facta rimase assolutamente inerte, per viltà e
irresolutezza, così, dimostratasi la totale impotenza dello Stato, il PNF preparò il colpo finale. I
capi del partito prepararono assieme a Mussolini la cosiddetta Marcia su Roma (28 ottobre), nella
quale circa 14.000 squadristi si accamparono in alcune località presso la capitale, mentre in
numerose città venivano pacificamente occupate le prefetture. Ciò era rischioso perché se lo stato
avesse risposto con le armi il Partito nazionale fascista sarebbe stato annientato, ma Mussolini
sapeva che Vittorio Emanuele III stava ricevendo pressioni da vari partiti affinché si formasse un
governo in cui i fascisti fossero presenti in gran misura. Alle 9 del mattino del 28 ottobre 1922,
quando ormai era chiara la dimensione assunta dalla mobilitazione delle squadre fasciste
convergenti su Roma, il presidente del Consiglio Luigi Facta si recò dal re per ottenerne la firma in
calce al decreto che istituiva lo stato d'assedio, ma quest'ultimo rifiutò di approvarlo, anzi offrì
allo stesso Mussolini l'incarico di formare il governo (29 ottobre).

15 Le elezioni del 1924


Giunto al potere Mussolini non cancellò immediatamente le strutture parlamentari, ma procedette
per gradi e si preoccupò di potenziare i legami con le forze che lo avevano appoggiato durante la
Marcia su Roma. Il primo consiglio esecutivo di Mussolini fu un governo di coalizione, poiché ad
esso parteciparono tre liberali, due popolari e due socialdemocratici. Per ottenere la fiducia della
borghesia eliminò due gravosi provvedimenti per tal classe, ossia l'innalzamento della tassa di
successione e la nominatività dei titoli azionari.
La conquista del governo da parte dei fascisti segnò un aumento delle violenze e delle
repressioni degli squadristi, infatti a Torino vennero uccise 11 persone (dicembre 1922), tra
gennaio e aprile arrestati 5.000 militanti comunisti, sciolte 500 amministrazioni comunali e 11
provinciali guidate da membri del PSI e PPI, licenziati 36.000 ferrovieri in seguito allo sciopero
dell'estate del 1922 ed abolita la festa dei lavoratori (1° maggio), sostituita dal Natale di Roma (21
aprile). Inoltre nel dicembre del 1922 venne istituito un Gran consiglio del fascismo, massimo
organismo direttivo del Partito nazionale fascista, direttamente dipendente dal capo del governo,
nel gennaio del 1923 creata la Milizia volontaria per la sicurezza dello stato (MVSS). Con tali
provvedimenti Mussolini si propose il compito di far entrare gli squadristi nel sistema dello stato.
La svolta decisiva si ebbe nel 1924, quando furono indette le elezioni generali, per le quali si
approvò la legge Acerbo, una speciale legge elettorale che accordava al partito che avesse riportato
il maggior numero di voti, purché non inferiore al 25%, i 2/3 dei deputati in Parlamento. Per
ottenere la maggioranza il PNF ricorse a brogli e violenze, denunciate da Giacomo Matteotti.

16 Il delitto Matteotti
Il capo del Partito socialista unificato, Matteotti, dopo aver denunciato le irregolarità delle
elezioni, venne rapito a Roma il 10 giugno 1924 e finito a pugnale. L'assassinio scosse
profondamente il paese, i fascisti si videro perduti ed il governo vacillò. I deputati dell'opposizione
abbandonarono l'aula di Montecitorio e si ritirarono sull'Aventino (uno dei 7 colli di Roma), dando
vita alla cosiddetta secessione dell'Aventino (in memoria delle secessioni plebee nell'antica
Roma), nella fiducia che il loro gesto servisse a scuotere il paese. Il sovrano invece non intervenne,
mentre Mussolini chiuse questo caotico periodo con il celeberrimo discorso tenuto alla Camera dei
deputati il 3 gennaio 1925, con il quale si assunse la responsabilità politica, morale e storica di
quanto era avvenuto in Italia negli ultimi mesi.

17 La distruzione dello stato liberale


A partire dal 1925 si cominciarono a sopprimere i caratteri liberali del paese in modo da rendere
più semplice il passaggio verso uno stato totalitario, infatti venne eliminato il maggior ostacolo per
l'assolutismo, ovvero la divisione dei poteri. Attraverso l'approvazione della legge sulle
prerogative sul Capo del Governo, il Parlamento cessò di esercitare qualsiasi potere effettivo, ma
il processo di totale cancellazione delle libertà personali trovò il suo culmine soltanto nel 1926,
quando vennero approvate le cosiddette leggi fascistissime, note anche come leggi eccezionali del
fascismo. Attraverso tali ordinamenti i partiti vennero messi fuorilegge, fu vietato promuovere
associazioni miranti a sovvertire l'ordine statale o persino a cancellare il sentimento nazionale,
venne soppressa la libertà di stampa mediante l'eliminazione delle riviste antifasciste ed il
controllo e la censura degli altri quotidiani, furono dichiarati decaduti dal loro mandato i deputati
aventiniani, si ripresero le persecuzioni e le aggressioni contro gli antifascisti, venne reintrodotta la
pena di morte (abolita nel 1870), lo sciopero fu dichiarato illegale, si istituì il confino di polizia, i
sindaci e i consigli comunali divennero potestà e consulta di nomina governativa. Infine con la
legge per la difesa dello Stato, promulgata il 25 novembre 1926, si creò un Tribunale speciale,
costituito da un generale e da 5 consoli della Milizia, atto a processare gli antifascisti, considerati
nemici del regime.

18 L'accordo con la Chiesa


Il fascismo originario era stato anticattolico e anticlericale, perché si considerava una vera e
propria religione. Ma la Chiesa aveva in comune con il fascismo tutti i nemici, dalla democrazia al
liberalismo, dal comunismo alla massoneria. Inoltre condividevano il bisogno di ordine, disciplina,
autorità, gerarchia, il sostanziale disprezzo e pessimismo sull'uomo come essere sociale, sempre
da guidare, correggere, costringere, limitare, la sfiducia per ogni forma di discussione e di ricerca,
per ogni atteggiamento che non fosse di obbedienza e di sottomissione. Il modello autoritario e
misticheggiante voluto da Mussolini corrispondeva a quello della Chiesa e sembrava il più idoneo
a riportare l'Italia ad una restaurazione precedente alla rivoluzione francese. In sostanza Chiesa e
regime si sfruttarono e rafforzarono a vicenda.
La mossa che costituì un enorme vantaggio per il Vaticano e un trionfo per Mussolini,
determinante nel successivo consenso degli anni Trenta, fu il Concordato del 1929. Già nel 1926
Rocco aveva preparato una riforma sulla legislazione ecclesiastica, inviata a tutti gli alti prelati, di
cui 10 cardinali e 127 vescovi risposero dichiarando la piena soddisfazione e gratitudine. Ciò
nonostante e benché nella commissione di studio ci fossero 3 monsignori in qualità di consiglieri
tecnici, il papa non accettò le leggi dallo Stato, perché auspicava ad un vero e proprio accordo che
rimettesse la Chiesa al centro della vita italiana, per instaurare omnia in Christo.
Le principali richieste della Chiesa erano l'assoluta sovranità dello Stato pontificio e l'abrogazione
delle Guarentigie, la legge che dal 1871 regolava i rapporti tra Stato e Chiesa, della quale tutti i
governi precedenti erano andati fieri come attuazione del principio libera Chiesa in libero Stato,
ma che non era stata mai riconosciuta dal Vaticano. Allora Mussolini accontentò il pontefice.
Il problema più grave sorse nel 1928, quando un decreto legge impose che le organizzazioni
giovanili di qualunque tipo (anche quelle dell'Azione Cattolica) facessero capo all'Opera nazionale
balilla. Così Pio XI interruppe le trattative e fece sapere a Mussolini di considerare la questione dei
giovani più importante di tutte le altre. Il duce si irritò ma dovette limitare il decreto solo ai 28.000
boy scout (sui 206.000 membri giovanili dell'Azione cattolica) in quanto organizzazione di tipo
semi-militare. La Chiesa aveva vinto, ma aveva preferito difendere la propria libertà, invece della
libertà.
I Patti, una serie di accordi che comprendeva un trattato per chiudere il problema del
riconoscimento fra Stato italiano e Stato del Vaticano (questione romana), la relativa convenzione
finanziaria e il Concordato vero e proprio, vennero firmati l'11 febbraio 1929 nel palazzo del
Laterano. Il trattato era formato da 27 articoli e il primo dichiarava la religione cattolica come
religione di Stato. L'Italia riconosceva l'esistenza e l'indipendenza dello Stato pontificio, che a sua
volta riconosceva il Regno d'Italia con Roma capitale. I cardinali erano equiparati ai principi del
sangue e le offese fatte al papa sarebbero state punite come quelle fatte al re. C'erano poi una serie
di benefici e garanzie.
I 45 articoli del Concordato regolavano i nuovi rapporti tra Stato e Chiesa, secondo cui agli
ecclesiastici erano garantiti vantaggi giuridici, economici, penali, militari e civili, il placet e
l'exequatur, ovvero l'assenso dello Stato agli atti dell'autorità ecclesiastica nazionale (I) e a quelli
della Santa Sede (II), venivano aboliti ma in compenso i vescovi avrebbero dovuto giurare di
rispettare e far rispettare dal clero il re ed il governo, il matrimonio religioso assumeva valore
civile e l'insegnamento della religione veniva reso obbligatorio e considerato fondamento e
coronamento dell'istruzione pubblica nelle scuole elementari e medie. In conclusione, il fascismo
ribaltava tutta la legislazione liberale e riconosceva alla Chiesa un potere sulle vite dei cittadini.
Quanto alla convenzione finanziaria in passato il Vaticano non aveva mai voluto incassare gli oltre
3 milioni l'anno previsti dalla legge delle Guarentigie. Adesso però chiedeva al regime fascista tutti
gli arretrati, con gli interessi, per l'esorbitante cifra di 3.160.501.112,76 lire. Alla fine la trattativa
venne chiusa con un miliardo in titoli al portatore e 750 milioni in contanti, ma lo Stato dovette
concedere una serie di vantaggi fiscali che alla lunga si riveleranno ben più onerosi. Per farsi
un'idea della cifra basta considerare che i depositi raccolti in tutte le 2.500 banche e casse rurali
cattoliche ammontavano a circa un miliardo. La convenzione finanziaria consentì alla Chiesa di
potenziare ed estendere il suo apparato di intervento nella società italiana e anche a livello
internazionale, mantenendosi su di un piano non secondario nel sistema finanziario italiano. II
Vaticano era ormai uno dei principali creditori dello Stato, in grado di condizionarlo anche
economicamente (nel dopoguerra non esiterà a fare pesare questo potere per favorire la vittoria
della Democrazia cristiana).
Concezione dello stato
19 La nazione e lo stato
Il cittadino italiano si ritrovò prigioniero, alla fine del 1926, di una rigida dittatura, che
puniva col confino, ogni critica o atteggiamento sospetto, oltre a reprimere col carcere e con
la pena di morte l'opposizione politica attiva (tra il 1926 e il 1943 15.000 italiani furono
condannati al confino, mentre coloro che furono puniti come sovversivi 114.000).
Questa concezione dello stato può essere chiaramente riassunta dall'articolo, redatto per metà da
Giovanni Gentile e per l'altra metà da Mussolini, chiamato Fascismo, pubblicato nel 1932 come
voce dell'Enciclopedia Italiana. Il punto centrale dell'opera, più volte ribadito, è che lo Stato è un
assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. In essa Mussolini volle precisare ciò
che distingueva il proprio movimento, ormai regime dal liberalismo e dal marxismo. Alla base
della propria concezione vi è il concetto di Nazione, che viene definita come l'insieme di coloro
che sono avviati dalla natura e dalla storia sulla stessa linea di sviluppo e di formazione spirituale,
come una coscienza o una volontà e, quello di Stato, che genera e fa esistere la stessa Nazione, ma
esso può esistere soltanto nella misura in cui i singoli individui accettano di subordinare l'interesse
personale a quello collettivo (negando l'individualismo liberale) e le classi accettano di collaborare
al posto di combattersi tra loro (rifiutando la lotta di classe marxista). Nel contempo Mussolini
esprime il rifiuto per la democrazia, perché le masse non sono capaci di autogovernarsi, mentre
gli stati e le nazioni possono sopravvivere soltanto se sono guidati da un élite, che possiede un
profondo senso degli interessi dello stato. Il Duce, ancor più del partito, assume la funzione di
guida, pertanto bisogna obbedirgli talmente ed essere convinti fiduciosamente della sua infallibile
capacità decisionale.
20 Mobilitazione delle masse e stato totalitario
La dittatura è la logica conseguenza di quest'impostazione, che porta le masse a perdere qualsiasi
potere reale, ma che, in modo innovativo e diverso rispetto agli altri regimi totalitari, le coinvolge e
le mobilita. De Felice fece proprio notare che se i classici regimi conservatori e autoritari tesero a
demobilitare le masse e ad escluderle dalla vita politica offrendo loro nuovi modelli sociali e valori
che eliminassero qualunque parentesi rivoluzionaria, il fascismo ha sempre cercato di far
credere alle masse di essere sempre mobilitate, di avere un rapporto diretto col capo e di
contribuire ad una rivoluzione che avrebbe scaturito un nuovo e più corretto ordine sociale.
In realtà il fascismo mirava ad avere un numero sempre maggiore di consensi, portando le masse
ad aderire completamente e sinceramente al regime, ai propri ideali e ai suoi intenti. Il Duce non
doveva essere visto come una sorta di nuovo zar di un di gregge debole, ma il condottiero di un
popolo forte che lo seguisse con un profondo entusiasmo. A tal fine si cercò di promuovere le
organizzazioni educative fasciste e di predisporre sempre e più imponenti raduni di massa, basati
sulle precedenti coreografie di D'Annunzio, che avessero il fine di toccare l'immaginazione ed il
cuore degli individui, trasformandoli in altrettanti convinti fascisti.

21 Il Duce, lo stato ed il partito


Uno dei tanti problemi che dovette affrontare fu quello riguardante i suoi problemi coi ras,
evidente quando affidò la segreteria del partito a Roberto Farinacci, uno dei capi dello
squadrismo più estremista e violento. Farinacci desiderava essere un personaggio di spicco tanto
quanto lo era Mussolini, per questo aspirava ad una diarchia tra Capo del Governo e segretario del
PNF, ma il Duce una volta rafforzato il proprio potere lo costrinse alle dimissioni (30 marzo 1926)
e lo sostituì con Augusto Turati. Turati portò avanti una sorta di epurazione del Partito
Nazionale Fascista, mediante l'espulsione, dall'inizio del suo incarico alla fine del 1927, di 2.000
dirigenti e 30.000 gregari, mentre tra gli anni 1928-1938 se ne aggiungeranno altri 100.000 circa.
Al contempo Mussolini ribadì l'assoluta supremazia dello stato sul partito, espressa con particolare
evidenza, il 7 gennaio 1927, quando precisò che il prefetto era la suprema autorità di una provincia
e che il federale (responsabile del PNF su base provinciale) gli doveva rispetto ed obbedienza.
All'interno del partito la democrazia venne cancellata in modo definitivo, infatti il Congresso del
1925 fu l'ultimo. Inoltre lo statuto, dell'8 ottobre 1926, abolì in modo definitivo il principiò
dell'elettività delle cariche federali, pertanto la loro scelta divenne prerogativa del solo Duce.
Risultò particolarmente evidente, anche all'interno dei confini dello stesso partito fascista, che per
far aderire un numero così elevato di individui al fascismo occorreva parlare alla fantasia e al
cuore della gente, in modo far accendere le emozioni necessarie ad entusiasmarla, pertanto non
bisogna affatto stupirsi che si sia diffuso con così tanto vigore il mito di Mussolini. Il culto della
personalità personalità di Mussolini non nasceva, almeno in teoria, da qualche particolare
megalomania, bensì da un particolare meccanismo che potesse sopprimere una qualsiasi, se mai
sarebbe potuta esistere, forma di concorrenza da parte delle altre personalità fasciste. Se negli
statuti del 1926 e 1929 Mussolini era visto come un semplicissimo primo gerarca del fascismo, in
quelle del 1932 e 1938, si considerò come l'unica carismatica e persino mistica figura che potesse
portare avanti il fascismo.

22 La costruzione di uno stato totalitario


In questo contesto, il partito, privato di qualunque autorità decisionale, si propose il compito di
propagandare il mito dell'infallibile, ovunque si potevano udire frasi come “Mussolini ha sempre
ragione”. Tali intenti si diffusero prevalentemente durante il periodo in cui fu segretario Achille
Starace (1931-1939), un personaggio privo di una qualunque e possibile qualità governativa, ma
avente il “merito” di obbedire ad ogni scelta decisionale di Mussolini. Quando Starace venne
nominato segretario del PNF nel 1931, Leandro Arpinati, sottosegretario agli interni, apostrofò il
Duce così: «Ma Starace è un cretino!». E Mussolini: «Lo so, ma è un cretino obbediente».
La nuova linea, inaugurata agli inizi degli anni Trenta, rigettò l'idea di considerare il fascismo
come un élite mirante ad educare gli italiani dall'esterno, infatti differentemente da Turati e da
Giurati che avevano chiuso le iscrizioni al partito, timorosi dell'assalto degli opportunisti, Starace
eliminò qualunque epurazione, chi avrebbe voluto divenire membro del PNF lo avrebbe potuto
fare, rendendo l'iscrizione persino obbligatoria ai pubblici funzionari. Fu così che il partito
raggiunse un numero di iscritti senza paragoni nel passato, quasi 30 milioni nel 1942, perché circa
il 61% degli italiani ne era membro. Come è stato evidenziato dallo storico Emilio Gentile,
queste operazioni erano volte ad aggregare intorno al fascismo il maggior numero possibile di
italiani, una fascistizzazione integrale della società italiana. Per raggiungere questo obbiettivo, i
fascisti si proposero di dominare le scuole educando i bambini ed i giovani al fascismo e ai propri
ideali, solo così si poteva sperare in un Italia globalmente fascista. Nel 1937 ogni settore educativo
divenne proprio del fascismo e tutte le associazioni giovanili fasciste si unificarono nella GIL,
Gioventù italiana del Littorio (che nel 1941 possedeva più di 8 milioni di membri). Analogamente
anche lo sport divenne prerogativa fascista, evidente dall'obbligo per gli atleti di dover compiere il
saluto romano sul campo.
Il fascismo, pur non essendo mai riuscito a dominare interamente lo stato, ebbe ambizioni
totalitarie non minori del regime comunista o del sistema nazionalsocialista. Mussolini ebbe dei
problemi a dominare completamente sull'Italia perché dopo la monarchia dovette fare i conti con la
Chiese e trovare una forma di coesistenza accettabile per entrambi.

23 L'uomo fascista e le leggi razziali


Vi fu un secondo mito, dopo quello dell'infallibile, che venne assunto dal fascismo, ossia quello di
Roma, mirante a trasmettere alla gente un vero e proprio sentimento nazionalista che la facesse
confluire la gente verso un unico ideale, la difesa della patria. La città di Roma avrebbe dovuto
acquisire la stessa potenza e grandezza che aveva avuto in età classica ed imporre la propria
egemonia verso tutte le altre genti. Nel 1935-36, agli occhi del popolo, questo miracolo parve
realizzatosi, in quanto l'Etiopia venne conquistata, mentre Vittorio Emanuele III fu proclamato
imperatore. Fu allora che Mussolini decise di accelerare l'operazione di creazione dell'uomo
nuovo fascista, in quanto non si poteva sperare di reggere o allargare un impero senza la
consapevolezza della propria superiorità e della propria grandezza. Gli italiani, essendo una razza
geneticamente superiore, avrebbero dovuto imporsi agli altri popoli, così nel 1938 vennero
proclamate le leggi razziali. Tuttavia in Italia non vi erano minoranze etniche significative per far
percepire agli italiani la loro superiorità razziale, allora Mussolini si scagliò contro gli ebrei, che
erano perfettamente integrati nella vita nazionale (molti dei quali avevano sempre sostenuto il
fascismo) e in numero quantomai esiguo, circa 45.000 su una popolazione di 46 milioni.
L'antisemitismo fascista fu dunque un fenomeno tardivo e poco rilevante, nonostante ciò le leggi
antiebraiche furono ugualmente pesanti ed umilianti. Attraverso tali leggi gli ebrei non potevano
più insegnare nelle scuole pubbliche, essere iscritti al PNF, prestare servizio militare e ricoprire
cariche pubbliche. Infine, con un editto del 17 novembre 1938 venne categoricamente impedito il
matrimonio di un cittadino italiano di razza ariana con una persona appartenente ad un'altra razza,
in modo da preservare le qualità degli ariani (europei bianchi).
Economia e società
24 La negazione della lotta di classe
Il fascismo, in virtù del proprio nazionalismo, rinnegò il principio marxista della lotta di classe e
sostenne, al contrario, che capitale e lavoro devono cooperare, come espresso nella Carta del
lavoro del 1927. Tuttavia, già nell'ottobre del 1925 si erano regolati questi rapporti tramite un
accordo che riconosceva il sindacato fascista come unico legittimo rappresentante del proletariato
e stabiliva illegale lo sciopero. Ciò fu poi integrato dalla legislazione sull’ordinamento corporativo
del 1934, con la quale datori e lavoratori di determinati settori venivano riuniti in corporazioni, atte
a stabilire pacificamente i rapporti delle parti sociali assumendo la nazione e il suo rafforzamento
come criteri. Ai lavoratori gli venne praticamente negata la possibilità di protestare. Il
corporativismo divenne un aspetto chiave del nuovo regime tanto che dal 1939 la Camera dei
deputati fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. In realtà, questo stato corporativo
non fu una terza via al comunismo e al capitalismo, come vollero far credere i fascisti, ma rimase
uno stato capitalistico, privo di organizzazioni sindacali (differentemente dai regimi liberali e
democratici).

25 La politica economica del regime


Il governo si propose il compito di dare stabilità e forza alla moneta in modo da arrestarne la
svalutazione, fissando il cambio con la sterlina (che nel 1919 era 1 sterlina = 36 lire) a quota 90 (1
sterlina = 90 lire), che comportò una limitazione del credito bancario, penalizzò le esportazioni e
diminuì i salari, garantì però il valore dei risparmi dei ceti medi ed abbassò i prezzi
d’importazione. Con la battaglia del grano lanciata dal duce nel 1926, lo stato mirava, nonostante
l’abbassamento dei prezzi del grano, al protezionismo (una politica economica che tende a
proteggere le attività produttive nazionali ostacolando la concorrenza di stati esteri) e al
raggiungimento dell’autarchia. La produzione aumentò notevolmente ma per fare ciò numerosi
terreni destinati all’allevamento o alla produzione di prodotti pregiati furono convertiti. Il prezzo
del grano rimase inoltre sempre alto, abbassando il consumo pro capite (ossia il consumo di grano
a persona).

26 Lo stato industriale e banchiere


La gravosa Crisi del 1929, colpì duramente anche l'Italia, che nel 1932 si ritrovò con un milione di
disoccupati. L'industria più colpita fu quella tessile, in quanto la produzione, fissata a 100 nel
1929, era scesa nel 1932 a quota 67,4. Allora si utilizzò una strategia simile a quella di Roosvelt
negli USA, ovvero il massiccio intervento dello stato in campo economico. Si avviò la bonifica
dell’agro Pontino (palude romana), si costruirono autostrade al Nord, furono creati l'IMI e l'IRI,
ossia l’Istituto Mobiliare Italiano (banca pubblica che sosteneva le imprese in difficoltà) e
l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (rilevava le aziende in difficoltà e ne assumeva la
gestione). Secondo lo storico Franco Gaeta l'IRI, cioè lo stato, verso la fine degli anni Trenta, era
in possesso del 44,5% dell'intero capitale azionario del paese. Lo stato esercitava dunque un
importantissimo ruolo sulle finanze dello stato.
In ogni caso, bisogna evidenziare come il regime fascista non fu assolutamente in grado di
preparare l'Italia a sostenere una guerra moderna, ne sotto il profilo economico ne sotto quello
militare, ciò provocherà la sua distruzione durante la Seconda guerra mondiale.

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