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Roberto Diodato

Mimesis del nulla. Velázquez, Las meninas o La famiglia reale.


(ultima versione del draft pubblicato in seguito, in forma definitiva, in: R. Diodato, Logos estetico,
Morcelliana, Brescia 2012, pp. 11-38)

Assenza più acuta presenza

Las meninas1 appare come una rappresentazione prospettica convenzionale di personaggi di corte2. Il centro
della tela sembra occupato dalla infanta Margherita, figlia di Filippo IV e di Mariana d'Asburgo. All'epoca
del dipinto Margherita ha cinque anni; andrà in sposa a suo cugino Leopoldo I d'Asburgo e morirà a Vienna
all'età di ventidue anni. Alla sua destra, inginocchiata, nell'atto di offrirle un buccaro rosso su un vassoio
d'argento, probabilmente pieno dell'acqua profumata che allora si beveva all'Escorial, è doña Maria
Augustina de Sarmiento; a sinistra dell'infanta si china verso di lei l'altra damigella d'onore, doña Isabel de
Velasco, figlia del conte di Colmenares. Alcuni critici suppongono che Isabel si inchini in modo deferente
verso l'infanta, in realtà essa non presta attenzione alla figlia del re, il suo sguardo è attratto da altro. Alla sua
sinistra c'è la nana di corte Mari-Bárbola (“entrò al servizio di palazzo nel 1651 e ricevette nel corso degli

anni vari favori, compresa una libbra di neve ogni giorno d'estate nel 1658”)3. Accanto a lei, simile a un
bimbo, c'è un altro nano, Nicolasito Pertusato, che tiene un piede sul dorso del cane in primo piano. Un poco
arretrato e spostato lateralmente rispetto a doña Maria Augustina c'è il pittore stesso, rappresentato nell'atto
di dipingere, con la tavolozza nella mano sinistra e il pennello nella destra; è pronto all'azione, forse l'ha
appena sospesa; si trova a una certa distanza dalla tela su cui sta lavorando. Questa tela occupa quasi l'intero
bordo sinistro del quadro. Dietro a doña Isabel si trova doña Marcela de Ulloa, addetta al servizio delle dame
della regina. Accanto a lei c'è un uomo, avvolto nella penombra, è probabilmente don Diego Ruiz de
Azcona, precettore dell'infanta. I due personaggi stanno conversando, ma lo sguardo dell'uomo sembra si sia
appena fissato su qualcosa. In fondo alla sala, nel vano di una porta aperta, si staglia la figura di José Nieto
Velázquez, maresciallo di palazzo e custode degli arazzi della regina. A fianco della porta, uno specchio
riflette i sovrani. I quadri appesi sulle pareti di fondo sono copie, probabilmente dipinte da Juan Bautista del


1Si vedano innanzi tutto le preziose raccolte di saggi: Las Meninas. Velázquez, Foucault e l'enigma della rappresentazione, a cura di
A. Nova, il Saggiatore, Milano 1997 (d'ora in poi LM) e Otras Meninas, a cura di F. Marías, Ediciones Siruela, Madrid 1995 (d'ora
in poi OM). Per la storia della critica è essenziale il volume di C. Kesser, Las Meninas von Vélazquez. Eine Wirkungs-und
Rezeptionsgeschichte, Reimer, Berlin 1994 che rende ragionato conto della imponente letteratura su Las Meninas (cfr. la bibliografia
alle pp. 203-229) e riproduce numerose interpretazioni pittoriche.
2Per la descrizione dei personaggi quasi tutti i commentatori dipendono da El Museo Pictórico y Escala Optica del Palomino, (cfr.
Acisclo Antonio Palomino de Castro y Velasco, El Museo Pictórico y Escala Optica (1715), El Parnaso español pintoresco laureado
(1724), Aguilar, Madrid 1947, pp. 920-923). Per ulteriori notizie, cfr. F.J. Sánchez Cantón, Las Meninas y sus personajes, Juventud,
Barcelona 1943; F. Calvo Serraller, Las Meninas de Vélazquez, Tf. Editores, Madrid 1995, pp. 19-23; C. Daudén Sala, La creación
de "Las Meninas" (Propriedad del Autor), Madrid 1996, pp. 45-55.
3Elisabeth du Gué-Trapier, Velázquez, Hispanic Society of America, New York 1948, p. 341.
Mazo, l'una di Minerva e Aracne di Rubens e l'altra forse4 della contesa tra Apollo e Marsia di Jordaens.
L'elenco dei personaggi rappresentati testimonia immediatamente e sotto un certo punto vista un minuzioso
realismo. Certo i contemporanei di Velázquez conoscevano anche il nome del cane in primo piano.
Quella che qui chiamerò interpretazione normale di Las meninas, cioè la più frequente e depositata, è detta

con chiarezza da Jonathan Brown5:

L'infanta è venuta a vedere l'artista al lavoro. Alcuni istanti prima che si aprisse il "sipario" ha chiesto un po'
d'acqua, che le viene ora data dalla damigella inginocchiata a sinistra. Proprio mentre questa porge alla
principessa un piccolo buccaro, entrano nella sala il re e la regina, la cui immagine riflessa è visibile nello
specchio appeso alla parete in fondo alla sala. Una per una, anche se non simultaneamente, le persone riunite
nella sala cominciano ad accorgersi della presenza dei sovrani. La damigella d'onore a destra, che li ha visti
per prima, comincia a far loro la genuflessione. Anche Velázquez si è accorto del loro ingresso e ha
interrotto il suo lavoro; egli comincia ad abbassare il pennello e la tavolozza. Mari-Bárbola, come
Velázquez, si è appena accorta dell'arrivo del re e della regina, ma non ha ancora avuto il tempo di reagire.
La principessa, che stava guardando il piccolo Nicolas Pertusato stuzzicare il cane, guarda improvvisamente
a sinistra verso i suoi genitori, benché la testa le rimanga voltata in direzione del nano. Di qui lo strano
contrasto fra la direzione dello sguardo e la posizione della testa. Infine Isabel de Velasco, che è intenta a
porgere l'acqua alla principessa, non si è ancora avveduta dell'arrivo della coppia reale, così come la
sorvegliante, momentaneamente impegnata in una conversazione con la guardia del corpo, la quale si è
invece appena accorta dell'arrivo di Filippo IV e Marianna. [...] Questa descrizione dell'azione non solo
spiega l'effetto di istantaneità e chiarisce le pose delle figure, ma conferma anche il fatto che lo specchio
sulla parete di fondo riflette le persone del re e della regina. Essi sono fisicamente presenti nella sala.

L'interpretazione normale sta alla base di alcune interessanti e differenti elaborazioni teoriche. Quelle, per
esempio, di Michel Foucault e di John Searle.
Il risultato ottenuto da Foucault è noto e teoreticamente rilevante, e ovviamente funzionale a una precisa
strategia: “Vi è forse in questo quadro di Velázquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione
classica e la definizione dello spazio che essa apre. Essa tende infatti a rappresentare se stessa in tutti i suoi
elementi, con le sue immagini, gli sguardi cui si offre, i volti che rende visibili, i gesti che la fanno nascere.
Ma là, nella dispersione da essa raccolta e al tempo stesso dispiegata, un vuoto essenziale è imperiosamente

indicato da ogni parte: la sparizione necessaria di ciò che la istituisce”6. Questa conclusione credo sia
piuttosto vera, ma per motivi differenti da quelli visti da Foucault, e con un senso diverso. È vera
l'indicazione di un vuoto essenziale, non la determinazione di tale vuoto: non si tratta precisamente della


4È l’opinione più diffusa, contestata da J. Brown, “Sobre el significado de Las Meninas”, in Imágenes e ideas en la pintura española
del siglo XVII, Alianza Editorial, Madrid 1980, p. 130. A suo avviso si tratterebbe non di Apollo e Marsia bensì di una copia del
Giudizio di Mida di Rubens.
5Ibid., pp. 120-121.
6M. Foucault, “Les suivantes”, in Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966 (LM, p. 32).
sparizione necessaria di ciò che istituisce la rappresentazione classica e la sua definizione dello spazio. Si
gioca senz'altro un problema, notevole, di ontologia, ma non primariamente una questione di
autoreferenzialità. L'elisione riguarda, per Foucault, insieme l'autore, il modello e lo spettatore, per cui la
rappresentazione può finalmente offrirsi come “pura rappresentazione”. Tale elisione è resa intelligibile da

“la più pallida, la più irreale, la più compromessa di tutte le immagini”7, che è però “il vero centro della
composizione”, ovvero lo specchio con il volto dei sovrani: “in esso si sovrappongono esattamente lo
sguardo del modello nel momento in cui viene dipinto, quello dello spettatore che contempla la scena e
quello del pittore nel momento in cui compone il suo quadro (non quello che è rappresentato ma quello che è

davanti a noi e del quale parliamo)”8 . Lo specchio rinvia di questi sguardi solo quelli assenti dalla
rappresentazione, poiché sia pittore sia visitatore (Diego Velázquez e José Nieto Velázquez) sono presenti
nel quadro, cioè nella realtà della sua illusione: lo specchio testimonia invece l'assente, inaccessibile eppure
“imposto da tutte le linee della composizione... il volto riflesso dallo specchio è al tempo stesso quello che lo
contempla, ciò che guardano tutti i personaggi del quadro sono ancora i personaggi ai cui occhi essi vengono

offerti come una scena da contemplare”9. Per Foucault, dunque, lo spettacolo che i personaggi dipinti
guardano, colti, pare, da improvviso stupore, sono i sovrani: “Ciò che in esso — nello specchio — si riflette
è ciò che tutti i personaggi della tela stanno fissando, lo sguardo dritto davanti a sé. [...] La prima occhiata
sul quadro ci ha insegnato di cosa è fatto questo spettacolo-a-fronte. Si tratta dei sovrani. Possiamo intuire la
loro presenza nello sguardo rispettoso del gruppo, nello stupore della bambina e dei nani [...] essi sono la più
pallida, la più irreale, la più compromessa di tutte le immagini: un movimento, un po' di luce basterebbe a
farli svanire. [...] Inversamente, nella misura in cui, situandosi all'estremo del quadro, sono ritirati in una

invisibilità essenziale, essi ordinano intorno a sé tutta la rappresentazione”10. I personaggi dipinti come reali
nello spazio illusorio del quadro inteso come finestra sul mondo sono colti dalla sorpresa dal loro avvento. Si
precisa così il senso dell'elisione che rende possibile la forma “pura” della rappresentazione classica:
esibizione dell'elisione di un centro simbolicamente sovrano della rappresentazione: “il duplice rapporto che
lega la rappresentazione al suo modello e al suo sovrano, al suo autore non meno che a colui cui ne viene

fatta offerta, tale rapporto è necessariamente interrotto”11.


Anche l'interpretazione di Foucault, dunque, legge la causa dello stupore che pare disegnarsi negli
atteggiamenti di alcuni personaggi dipinti nell'avvento improvviso dei sovrani svelato come immagine
riflessa dalla finzione dello specchio: una presenza assente che forma il senso della rappresentazione. Per il
motivo che si vedrà, questa interpretazione non è, almeno secondo certi criteri, sostenibile (il che non la
rende, ovviamente, meno interessante), però, per la sua forza speculativa, fa velo a altre considerazioni,
notevoli, portate da Foucault quasi di passaggio. In generale si tratta dell'accento posto sul rapporto


7Ibid., p. 30.
8Ibid., pp. 30-31.
9Ibid., p. 29.
10Ibid., pp. 23 e 30.
11Ibid., p. 32.
irriducibile e infinito da linguaggio a pittura, e della relativa funzione deittica del nome proprio, il quale
“permette di additare, cioè di far passare furtivamente dallo spazio in cui si parla allo spazio in cui si guarda,

cioè di farli combaciare comodamente l'uno sull'altro come se fossero congrui”12. In particolare si tratta,
oltre l'importante e facile rilievo della memoria di una Annunciazione presente nel gesto di offerta di doña
Maria Augustina de Sarmiento, dell'accento posto sull'ambigua oscillazione interno esterno rappresentata
dalla figura di José Nieto Velázquez, su cui dovremo ritornare. Un ulteriore punto di grande interesse è stato
denunciato da Joel Snyder: “Nell'analisi di Foucault c'è qualcosa di quasi teologico. Il punto di proiezione,
che è il primo principio, il sine qua non, della prospettiva del pittore, è, per definizione, un'unità assoluta.
Ma, nella lettura di Foucault, esso è anche una pluralità, un ‘triplo’. Il punto appartiene al re e alla regina, ma
anche all'autore di questo mondo dipinto e, infine, a ognuno di noi spettatori. Il fascino che questo quadro
esercita su di noi è intrinsecamente connesso, così ci dice Foucault, all'unità della sua trinità, e alla trinità

della sua unità”13.


A parere di John Searle lo specchio dipinto testimonia la presenza significativa dei sovrani, verso i quali gli
sguardi di alcuni personaggi dipinti si indirizzano. Tale presenza si colloca nel punto di osservazione
dell'artista, ceduto dall'artista ai sovrani. Anche l'eventuale spettatore è implicitamente invitato ad assumere
il punto di osservazione dei sovrani, a identificarsi con essi, poiché la lettura illusionistica del quadro implica
la coincidenza ideale tra punto di osservazione dell'artista e punto di osservazione dello spettatore.
Cerchiamo perciò noi stessi nello specchio, anche se vi troviamo soltanto i sovrani. A questa ipotesi se ne
somma un'altra, più arbitraria e interessante, relativa al soggetto del quadro a cui sta lavorando il pittore
dipinto: “che cosa sta dipingendo esattamente il pittore che vediamo sulla sinistra? È chiaro che sta
dipingendo noi, cioè Filippo IV e la sua reale consorte. [...] Ma che tipo di quadro sta dipingendo? Secondo
l'interpretazione canonica egli starebbe dipingendo una raffigurazione al naturale di ciò che noi vediamo
nello specchio, ma c'è un'obiezione che mi sembra abbastanza convincente. La tela su cui il pittore lavora è
troppo grande per un soggetto del genere. [...] Io penso che il pittore stia dipingendo la scena che osserviamo

noi, cioè Las meninas di Velázquez”14. Ora questa ipotesi rende esplicita, secondo Searle, una forma forte di
paradosso: l'artista non solo cede il proprio punto di vista a modello e spettatore, ma occupa un punto di vista
impossibile; il soggetto ipotizzato della invisibile tela dipinta costituisce infatti la coincidenza tra artista e
pittore dipinto: l'artista guarda dall'interno della rappresentazione il proprio punto esterno di osservazione.
Searle conclude quindi che Las meninas è costruito per esibire due paradossi posti a differente profondità. Il
primo livello è costituito dalla somma delle seguenti affermazioni: il quadro è dipinto dal punto di vista del
soggetto; gli spettatori coincidono con i sovrani; è impossibile che l'artista occupi il proprio punto di
osservazione. Il secondo livello si raggiunge con l'ulteriore ipotesi che il soggetto del quadro che il pittore
dipinto sta dipingendo sia lo stesso di Las meninas: “Il pittore dipinge la scena che vediamo, ma non può
dipingerla perché si trova in essa. Dal punto in cui si trova nel quadro, può dipingere e vedere una scena


12Ibid., p. 25.
13J. Snyder, “Las Meninas and the Mirror of the Prince”, Critical Inquiry, vol. XI, n° 11, 1985 (LM, p. 114).
14J. Searle, “Las Meninas and the Paradoxes of Pictorial Representation”, Critical Inquiry, vol. VI, n. 3, 1980 (LM, p. 43).
diversa, ma non la scena rappresentata in Las meninas”15. Scopo della costruzione dei paradossi sarebbe la
distruzione di un certo senso, semplice, della mimesis: “Pintura es arte que enseña a imitar con lineas y
colores”, scriveva Francisco Pacheco, maestro e suocero di Velázquez, nel suo Arte de la pintura; invece Las
Meninas mostrerebbe che la pittura non imita nulla, in quanto esibisce programmaticamente la rottura della

“connessione fra il soggetto del quadro e l'atto di dipingerlo”16. Tale rottura provoca una situazione di
autoreferenzialità e dunque un regresso all'infinito: “Qual è dunque il soggetto del quadro? Non solo una
scena, ma come la scena apparve o sarebbe potuta apparire alla coppia reale. Ma quale scena? La scena
comprendente Velázquez che dipinge la scena. E che scena sta dipingendo Velázquez? La scena

comprendente Velázquez”17. Come si vedrà, il primo livello, portante, di paradosso, non potrà essere
giustificato a livello di analisi della prospettiva. Ciò nonostante, ed è questo che importa, il duplice
paradosso inventato da Searle è interessante e significativo, se interpretato ed esteso a emblema di
condizione normale del lavoro filosofico.
L'interpretazione di Searle è pensata all'interno di coordinate teoriche di una teoria generale del significato e
relativamente a queste si pone il problema della traduzione di eventi fisici in eventi intenzionali.
Tralasciando i presupposti intrinseci a tale teoria, notiamo subito che Searle condivide con Foucault la
persuasione della presenza in qualità di modelli dei sovrani, deducendola dallo specchio dipinto. Questa
persuasione, e relativamente il senso paradossale del dipinto denunciato da Searle, è stata messa in

discussione da una lettura, compiuta da Joel Snyder e Ted Cohen e da altri18, più attenta alle leggi della
prospettiva e della riflessione. Tali leggi, accuratamente descritte in testi presenti nella biblioteca personale
di Velázquez, permettono alcune affermazioni: a) “il punto di fuga di Las meninas non si trova nello

specchio dipinto bensì sul gomito della figura che si staglia nel vano della porta aperta in fondo alla sala”19,
quindi: b) “Las meninas non ci mostra il punto di vista del re o della regina assenti; la scena rappresentata nel
quadro non è proiettata da un punto di vista posto direttamente di fronte allo specchio. Questo fatto, di per sé,

è sufficiente a invalidare gli argomenti addotti da Foucault e da Searle”20; c) “l'immagine visibile nello
specchio è un riflesso del doppio ritratto di Filippo IV e Marianna a cui il pittore raffigurato nel quadro sta

lavorando e che è nascosto alla nostra vista”21.


Cioè: secondo le leggi della riflessione lo specchio dipinto non riflette i sovrani che guardano il dipinto,
bensì i sovrani dipinti sulla tela alla quale il pittore dipinto sta lavorando. Perciò lo specchio non indica di
per sé la presenza reale dei sovrani, anche se non la esclude e anzi la suppone, in quanto i sovrani vengono
ipotizzati come modelli della tela che il pittore dipinto sta dipingendo. Resterebbe in ogni caso spezzata la


15Ibid., p. 45.
16Ibid., p. 46.
17Ibid., p. 47.
18Cfr. A. del Campo y Francés, La magia de Las Meninas. Una iconologia velazqueña, AZ Ediciones, Madrid 19894, p. 207.
19J. Snyder e T. Cohen, “Reflections on Las Meninas: Paradox Lost. Critical Response”, Critical Inquiry, vol. VII, n° 2, 1980 (LM,
p. 55).
20J. Snyder , op. cit. (LM, p. 120).
21Ibid.
connessione tra immagine riflessa dei sovrani e loro presenza davanti al piano del quadro, che giustifica
l'interpretazione che ho chiamato normale di Las meninas. Inoltre se la presenza fisica dei sovrani è
ipotizzabile solo in relazione alla loro funzione di modelli, ciò elimina la credibilità di un loro improvviso
ingresso nella sala, eventuale causa della sospensione dell'azione e della sensazione di stupore dipinta sui
volti dei personaggi. Questo sia detto, ovviamente, al di là di qualsiasi descrizione realistica del lavoro di
Velázquez, che quasi sicuramente non prevedeva la posa di modelli, e cioè dal punto di vista di una ricerca
di un qualche senso di Las meninas.

Tale senso è stato variamente declinato dalla critica più recente22, con risultati di grande interesse e
certamente imprescindibili. Si può dire quasi che ogni sentiero, relativamente al dipinto di Diego Velázquez
Las meninas, sia stato battuto con acribia: analisi geometrica, sociologica, iconologica, formale,
comparativa, storico-documentaria, ecc. Da tutto ciò, oppure parallelamente, sono emerse letture che hanno
dato risultati teoreticamente rilevanti, quali quelli, per esempio, di Svetlana Alpers e di Leo Steinberg, che
indicano rispettivamente in Las meninas la messa in scena di una ambivalenza programmaticamente non

risolta tra modelli alternativi di rappresentazione del mondo 23 , e Las meninas come specchio della

coscienza24. Tra i pochi luoghi normalmente accettati senza troppe discussioni dalla critica è l'atteggiamento
di stupore che esprimerebbero alcuni personaggi.
Il movimento e i volti di alcuni personaggi, dunque, sembrano esprimere una sensazione di stupore: i loro
volti portano iscritta l'interruzione di un movimento e l'improvvisa fissazione su qualcosa, qualcosa che
sembra avvenire e che li colpisce, una presenza di cui, nel qui e ora del quadro, si accorgono, e che a noi
spettatori resta preclusa. Sappiamo soltanto che lo specchio non è testimone di quella presenza, anche se il
dipinto sembra essere stato accuratamente costruito per indurci in errore. Interpretata come improvviso
ingresso dei sovrani, o come messa in scena concettuale: coincidenza spettatore-sovrano, pittore reale-
pittore dipinto, coincidenza impossibile di sguardi ecc. Si tratta forse di una presenza che deve rimanere
celata, il cui segreto deve essere custodito. Eviteremo di svelarlo, quindi.

In realtà non so se l'espressione dei personaggi, che in qualche modo "congela" l'azione narrata dal quadro25,
esprima veramente stupore; c'è qualche analogia tra l'espressione dell'infanta, quella di doña Isabel de
Velasco e quella della nana di corte Mari-Bárbola? Non è nemmeno chiaro se gli sguardi dei personaggi


22Ne dà un riassunto Fernando Marías nella sua Introducción a Otras Meninas, cit. (pp. 13-26).
23Cfr. S. Alpers, “Interpretation without Representation, or, The Viewing of Las Meninas”, Representations, 1, 1983 (LM, p. 100).
24“Noi siamo specchi messi l’uno di fronte all’altro, sé polari che riflettono senza fine l’uno la coscienza dell’altro: un infinito
proiettato non nel mondo esterno ma nella mente che si sa saputa”, L. Steinberg, “Velázquez's Las Meninas”, October, 15, 1981
(LM, p. 86). L’interpretazione di Steinberg ricorda quella “monadologica” proposta da Michail Alpatow nel 1935 (prima edizione in
russo, tr. it., “Las Meninas de Velázquez”, Revista de Occidente, XLVIII, 1953, pp. 35-68; Alpatow, per alcuni aspetti connessi al
modo di relazionare i personaggi e di fermare il movimento, avvicinava Las meninas a La ronda notturna di Rembrandt) e ripresa da
José Antonio Maravall, Velázquez e lo spirito della modernità, a cura di P.L. Crovetto, Marietti, Genova 1988, p. 100.
25Brown parla, seguendo Soehner (cfr. Halldor Soehner, “Las Meninas”, Münchner Jahrbuch der Bildenden Kunst, 16, 1965, p.
149), di “azione congelata”.
siano tutti orientati nella stessa direzione, o diano luogo a differenti sistemi26 di sguardi (guardano o no la
stessa cosa?). E poi, cosa è lo stupore? Già lo sappiamo, ma è bene riportarlo ora alla mente.

Lo stupore è esperienza di una visitazione non prevedibile27, la cui temporalità si sottrae alla preveggenza
della volontà. È risposta a qualcosa che improvvisamente animato, ci viene incontro (per cui l'essere colpiti è
quasi un “essere visti” da qualcosa improvvisamente animato, emergente e avanzante). Ciò che visita è il
qualcosa che appare, che in qualche modo si rende visibile, si espone, acquista una qualche peculiare
luminosità. Il qualcosa che appare, che può essere o non qualcosa di sempre visto, qualcosa di familiare,
suscita stupore di risposta quando appare nel suo essere-proprio-quel qualcosa (è marca della deissi). Siamo
in una provvisoria circolarità, forse non risolvibile: la luminosità è voce metaforica che indica la
manifestazione dell'essere proprio quel qualcosa, e insieme è il risultato di tale manifestazione, poiché il
“qualcosa” si illumina solo quando appare il suo essere proprio-quel-qualcosa. La luminosità del qualcosa
appare quindi solo nel movimento di una risposta; tale risposta ha la forma di una domanda non esplicita, di
un carattere originariamente interrogante: un essere chiamati a rispondere che implica attesa e stare in
guardia, salvaguardia, sguardo. La risposta all'evenienza è un andare incontro che implica il proprio
dell'essere di colui che risponde. Perciò nello stupore il vedere è costretto a diventare un guardare, e ciò che
costringe è la luminosità del qualcosa che rinvia il soggetto guardante a se stesso. Ma se nello stupore
l'essere proprio quel qualcosa del qualcosa si fa evidente, comunque tale evidenza è insieme una non
evidenza: è rilevazione di una unicità che in sé, nel suo contenuto, resta celata. È ciò che resta celato che si

illumina rimanendo celato, non dicibile, definibile o trattabile come tale: il punctum28: ciò che punge o
ferisce. La luminosità è un patire, una ferita, non in quanto tale, ma nella rappresentazione del suo senso:

nello stupore risuona il colpo, il pathos, il soffrire: ferita del desiderio, morte29; perciò lo stupore si trova

all'origine della domanda filosofica30. Essenzialmente segnata dalla dimensione della perdita, la domanda
filosofica non è primariamente domanda sull'essere (sull'imporsi dell'essere sul nulla), ma sul nulla:
dell'imporsi del nulla sull'essere. La domanda sull'unicità del qualcosa (l'essere proprio quel qualcosa) può
avvenire essenzialmente solo nella puntura della perdita, dello spegnersi, del dileguarsi.
Come è noto il nostro dipinto compare col titolo Las meninas sui cataloghi ottocenteschi, in particolare sul
catalogo del 1819 del Prado. Precedentemente, nell'inventario del 1734 delle opere dell'Alcázar di Madrid,


26Con molta acutezza Ruggero Eugeni ispeziona il meccanismo formale di istituzione del punto di vista iconico di Las Meninas,
evidenziando, tra l’altro, uno sdoppiamento dell’osservatore; cfr. “Sguardi, ruoli, posizioni”, in Analisi semiotica dell'immagine, ISU
Università Cattolica, Milano 1999, p. 111.
27Prendo spunto dal notevole libro di Silvano Petrosino, Lo stupore, Interlinea, Novara 1997, sul quale si può vedere la mia analisi
in Rivista di filosofia neoscolastica, 4, 1998, pp. 156-160.
28Se facciamo tesoro della lezione del Barthes della Camera chiara (tr. it. di R. Guideri, Einaudi, Torino 1980, p. 28).
29Qui mi allontano dalla lezione di Petrosino.
30Così, per esempio, in Heidegger; cfr. Che cos'è la filosofia? Scrive, commentando Aristotele e Platone: “Il provar stupore, in
quanto pathos, è l’arché della filosofia. [...] Di solito traduciamo pathos con passione, trasporto, ribollire di sentimenti. Ma è
strettamente connesso a paschein, che significa soffrire, subire, pazientare, sopportare fino alla fine, lasciarsi portare da, lasciarsi
determinare mediante” (tr. it. di C. Angelino, Il melangolo, Genova 1981, pp. 40-41).
veniva segnalato come “la Familia de Felipe IV”31. Spiega Ortega: “Quando in Palazzo si parlava del
quadro si era solito denominarlo la Famiglia. Il significato del termine non è stato inteso bene, non tenendo
in conto che le classi superiori dell'epoca usavano ancora il vocabolo ‘famiglia’ nel suo senso etimologico,
che deriva da famulus, servo; perciò non significava tanto l'unità di genitori e figli quanto piuttosto un'unità

di più ampio raggio in cui i servi trovavano un loro posto naturale”32. Forse Ortega ha ragione, e si potrebbe
ipotizzare che l'eventuale spettatore venga introdotto e compreso, grazie al gioco degli sguardi e alla

sovrapposizione dei punti di vista, nella famiglia reale33. Chi guarda Las meninas, dice Leo Steinberg, è
introdotto nella messa in scena, viene chiamato a far parte della famiglia. I personaggi dipinti rivolgono i
loro sguardi, sostiene Calvo Serraller, ai sovrani che si trovano di fronte al quadro al di là dello spettatore, il

quale si sente perciò coinvolto nella struttura del dipinto, quasi fosse dentro lo spazio dipinto34. A provocare
una tale sensazione sarebbe il gioco dello specchio, che ci induce a credere alla presenza dei sovrani di fronte

al quadro, alle nostre spalle35. Ma a questo punto è necessario compiere un passo ulteriore.
“Perché, fra i critici che si sono occupati di Las meninas, sono così in gran numero quelli che vorrebbero
farci mettere direttamente davanti allo specchio? Perché questi critici hanno sostenuto che il quadro è
proiettato dal punto di vista del re e della regina assenti, i quali compaiono nel quadro solo attraverso la loro
immagine riflessa dallo specchio sulla parete di fondo della sala? [...] Lo specchio è, ovviamente, centrato e

centrale; è il punto di fuga ad essere decentrato”36. Opportunamente Joel Snyder ha posto in rilievo che allo
specchio rinviano una tale quantità di indizi, mentre nulla invita lo sguardo verso il punto di fuga, anzi: “La
prospettiva in Las meninas non è affatto ovvia; essa va ricercata. [...] Il dipinto in lavorazione sulla tela [...]
ci impedisce di vedere - o forse più correttamente ci fa dimenticare - la parete sinistra della sala, nascosta
dietro di essa [...] Abolendo ogni possibilità di dare uno sguardo alla parte di sinistra, Velàzquez ha eliminato

uno fra gli indizi principali per scoprire il centro di proiezione”37. Forse si può ipotizzare un deliberato
inganno: “In Las meninas Velázquez ha fatto molto per distogliere la nostra comprensione da ciò che stiamo
vedendo: ha fornito un insieme di indizi che ci inducono ingannevolmente a credere di capire quel che ci
viene mostrato, di avere colto la verità della presentazione... Nella presentazione non c'è niente di illusorio,
eppure si crea di fatto un'illusione. Quest'illusione, però, non è nel quadro; è in noi, ed è l'illusione della

comprensione”38.


31Questo inventario non è però il più antico, anche se quelli precedenti offrono alcune difficoltà. Su questo cfr. F. Marías, El género
de Las Meninas: los servicios de la familia (OP, pp. 247-248). Sul “titolo” del dipinto, cfr. F. Calvo Serraller, op. cit., pp. 17-18.
32J. Ortega y Gasset, Carte su Velázquez e Goya, tr. it. di C.Vian, Electa, Milano 1984, p. 101.
33Questa interessante considerazione si trova nel libro di Alessandra Tarabochia Canavero, Vorrei parlarti del cielo stellato,
Simonelli, Milano 1999, pp. 252-253.
34Cfr. F. Calvo Serraller, op. cit., p. 38.
35Cfr. A. del Campo y Francés, La invención de Las Meninas, in AAVV, Vélazquez y el arte de su tiempo, V Jornadas de Arte,
Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Madrid 1991, p. 151.
36J. Snyder, op. cit. (LM, p. 122).
37Ibid., pp. 124-127.
38Ibid., p. 125.
Abbiamo notato che, per leggi catottriche, la superficie-specchio rifletterebbe non i reali presenti in qualità di
osservatori, bensì una porzione, probabilmente centrale, della tela che il pittore dipinto sta dipingendo. Ma:
“È stato suggerito che lo specchio riflette la parte centrale della tela alla quale l'artista sta lavorando. Ciò,
senza dubbio, non può essere. [...] In entrambi i casi [rispecchiamento dei sovrani presenti/rispecchiamento

dei sovrani dipinti] le immagini dello specchio sarebbero considerevolmente più piccole”39. Se si decide di
seguire certe leggi, insomma, bisogna andare fino in fondo: non solo lo specchio non può riflettere i sovrani-

osservatori-spettatori, ma nemmeno i sovrani dipinti sulla tela invisibile40. L'illusione è infine tagliata. “La
mia conclusione provvisoria - scrive Bo Vahlne - è che il re e la regina non siano fisicamente presenti nella
stanza, e che tuttavia la loro immagine che sembra un riflesso nello specchio sia stata collocata lì dall'artista

come una chiave astratta”41.


Cosa dice o iscrive, dunque, lo specchio, e perché riflette i sovrani? Certo pare impossibile rispondere. Si
deve comunque tenere fermo un dato: che in nessun caso Velázquez avrebbe potuto dipingere i sovrani senza

concordare con loro il progetto e la maniera42. Il re ha quindi voluto essere rappresentato in uno specchio, o

comunque ha accettato di essere rappresentato in quel modo insolito43, in relazione a un certo senso. Questo
senso potrebbe essere morale ed essenzialmente formativo: il dipinto, che si presenta immediatamente come
un ritratto dell'infanta Margherita, potrebbe essere una rappresentazione emblematica dello Specchio del

principe 44 . Altre tracce potrebbero invece spingere a dar credito alla famosa esclamazione di Luca

Giordano: “questa è teologia in pittura!”45, tra queste almeno la strategia dell'assimilazione del monarca a
Dio, così incisiva nella Spagna di Filippo IV. Lo specchio allora come spiritualizzazione del monarca.


39Bo Vahlne, “Velázquez' Las Meninas. Remarks on the Staging of a Royal Portrait”, Konsthistorisk Tidskrift, 51, 1982 (OP, pp.
166-167).
40Angel del Campo y Francés difende, con argomenti geometrici raffinati e diversi da quelli di Vahlne, un'analoga posizione (cfr. La
magia de Las meninas, cit., cap. IV, soprattutto pp. 209-214). Offre argomenti a sostegno della posizione opposta, che cioè lo
specchio dipinto raffiguri i sovrani dipinti sulla tela, Paolo Spinicci nel saggio “La filosofia nelle immagini: Las Meninas di
Velázquez e il concetto di raffigurazione”, pubblicato sulla rivista elettronica Le parole della filosofia, II, 1999, al sito
http://www.apl.it/sf/leparole.htm
41Ibid., p. 167.
42Cfr. J. Brown, op. cit., p. 142; Vahlne (OM, p.164). Juan Miguel Serrera insiste sulle frequenti visite del monarca all’“officina” di
Velázquez, riferendo le testimonianze di Francisco Pacheco nella sua Arte de la pintura (1649: si riferiscono perciò a un periodo
anteriore alla produzione di Las Meninas). Cfr. Juan Miguel Serrera, El palacio como taller y el taller como palacio. Una reflexión
más sobre Las Meninas (OM, pp. 231-246).
43Fernando Marías (OP, pp. 276-278) tenta di aggirare in modo originale questa opinione in base a un “pentimento” di Velázquez
relativo a una diversa collocazione del pittore dipinto che avrebbe “otturato il possibile riflesso” del ritratto dei sovrani nello
specchio, Velázquez avrebbe in tal modo tenuto celato il vero soggetto del quadro durante le frequenti visite dei sovrani allo scopo di
realizzare un “enigma” di “entretenimiento” per la corte e insieme un ritratto di un re ormai restio, da una dozzina d'anni, a farsi
ritrarre, riaffermando la sua funzione di “pittore del re”. Che tale “pentimento” ci sia davvero stato e quale misura abbia è però in
discussione (pareri tra loro differenti in G. McKim-Smith e R. Neumann, Ciencia e historia del arte: Velázquez en el Prado, Museo
del Prado, Madrid 1993, pp. 35-42 e pp. 102-103, e C.G. Pérez, Velázquez, Técnica y evolución, Museo del Prado, Madrid 1992, pp.
579-591).
44Come sostiene Snyder con dovizia di argomenti, e prima di lui Jan Ameling Emmens, in “Les Menines de Velázquez. Miroir des
Princes pour Philippe IV”, Nederlandische Kunsthistorisch Jaarboek, 12, 1961 (OM, pp. 43-66). Notevole la lettura iconologica dei
personaggi di Las Meninas compiuta da Emmens. Per una lettura, che individua un “horóscopo escondido”, della simbologia celata
in Las Meninas, cfr. A. del Campo y Francés, La magia de Las Meninas. Una iconologia velazqueña, cit., pp. 38-50.
45Secondo la testimonianza di Antonio Palomino: “y abiendo venido en estos tiempos Lucas Jordán, llegando a verla, preguntóle el
señor Carlos Segundo, viéndole como atónito: ¿Qué os parece? Y dijo: Señor, ésta es la Teologia de la Pintura” (El Museo
Pictórico y Escala Optica, cit., p. 922).
Alcuni interpreti46, forse opportunamente, si sono fatti sedurre da questa possibilità, ma ciò che conta, in
questo caso, non appartiene alla politica, è il senso ontologico dell'essere specchiato.
Lo specchio dipinto è davvero una chiave astratta, doppio della chiave dipinta che pende dalla cintura del
pitture dipinto, quasi a indicare che l'artista dispone della chiave del quadro. Ma se si tratta anche di una
celebrazione dell'arte, questa non va intesa come abilità costruttiva e capacità mimetica. L'arte da questo
punto di vista, come seconda natura, e l'artista come dio secondo, è da sempre condannata alla verità ideale,
alla non-realtà. Non altro che una sconfitta dell'arte, mi pare, esprimano i quadri appesi alla parete di fondo

della Famiglia reale, copie da Pallade e Aracne di Rubens e Apollo e Marsia di Jordaens47: è irrimediabile
la sconfitta dell'artista che vuole gareggiare in potenza creativa col dio, e la sconfitta consiste tra l'altro nella
mancata comprensione del senso e del potere dell'arte.
Sappiamo dunque che lo specchio dipinto ci inganna, e nella sua finzione non riflette nulla (e in realtà
assolutamente nulla, in nessun senso) che sia di fronte al quadro. Forse indica nei reali i destinatari di un
messaggio abilmente occultato con notevole sapienza tecnica e filosofica, un messaggio privato. Suppongo

che La famiglia reale sia stata pensata insieme da Diego Velázquez e dal suo amico Filippo IV48. Il sovrano
teneva moltissimo al dipinto: “Il re fece collocare la Famiglia nei suoi appartamenti privati, al piano terra
dell'ala settentrionale dell'Alcázar : qui, egli, ritirandovisi, poteva così contemplare questa utopia in totale
solitudine (all'ubicazione, peraltro, la tela deve la sua stessa sopravvivenza, essendo tale zona del palazzo

scampata all'incendio del 1734)”49. Forse il sovrano apprezzava il dipinto semplicemente perché questo
rappresentava la sua famiglia. Ma quella rappresentata non era tutta la sua famiglia. Filippo IV aveva sposato
nel 1615 Isabella di Borbone, che sarebbe morta nel 1643. Con lei aveva avuto due figli, Baldasar Carlos,
primogenito erede al trono, morto nel 1646, dieci anni prima della composizione della Famiglia, e Maria
Teresa, nata nel 1638 e ancora in vita all'epoca del dipinto. È parso strano che Maria Teresa non fosse

rappresentata50, e Bartolomé Mestre Fiol51 ha suggerito che sia essa l'invisibile spettatrice. In realtà manca
tutta la prima famiglia di Filippo IV, oltre a Maria Teresa, ovviamente mancano la prima moglie Isabella di
Borbone e il principe Baltasar Carlos. In ogni caso sembra difficile paragonare questa Famiglia con il tipo di

46Per esempio Victor I. Stoichita, “Imago Regis. Kunsttheorie und Königliches Porträt in ‘Las Meninas’ von Velázquez”, Zeitschrift
für Kunstgeschichte, 49, 1986 (OP, p. 200). Tra gli altri anche Jonathan Brown (op. cit., p. 121) segnala la “epifanía real” quale
fattore cruciale di Las Meninas. Sulla “sacralizzazione della monarchia” in Las Meninas, cfr. anche Juan Miguel Serrera, op. cit.
(OM, p. 245).
47Ovidio e Dante insegnano. Non mi convince dunque l’ipotesi, avanzata tra gli altri sia da Charles de Tolnay sia da Julián Gállego,
che possano essere interpretati come il trionfo dell’arte sull’abilità artigianale, e quindi come affermazione della pittura come arte
“liberale” e della sua superiorità sulle arti “servili” (cfr. Ch. de Tolnay, “Vélazquez’ Las Hilanderas and Las Meninas (An
Interpretation)”, Gazette des Beaux-Arts, XXXV, 1949, p. 36; J. Gállego, Diego Vélazquez, Anthropos, Barcelona 1983, pp. 137-
138).
48Già il Palomino scriveva: “Debió Don Diego Velázquez a Su Majestad tanto aprecio de su persona, que tenía con él confianzas
más que de Rey a vasallo, tratando con él negocios muy arduos; especialmente en aquellas horas más privativas, en que los señores,
y los demás áulicos están retirado” (El Museo Pictórico y Escala Optica , cit., p. 919). Cfr. J. Brown, op. cit., p.125; F. Calvo
Serraller, op. cit., p. 10.
49M. Marini, Velázquez, Electa, Milano 1997, p. 37.
50Per F.J. Sanchez Canton è “la grande assente” di Las Meninas (op. cit., p.28). L’autore suppone che l’assenza sia dovuta a cause in
senso lato “politiche”, o comunque a una eccessiva indipendenza di pensiero mostrata da Maria Teresa nei confronti del padre. Maria
Teresa nel 1660 andrà in sposa a Luigi XIV.
51“El cuadro en el quadro. Pacheco-Velázquez-Mazo-Manet”, Diputacion Provincial de Baleares-Instituto de Estudios Baleáricos-
Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Palma de Mallorca 1977, p. 111.
famiglia che, per vie storiche, sociali e culturali, prende forma solo successivamente, e che troviamo
rappresentata per esempio in La famiglia di Filippo V di Louis-Michel van Loo (1743) o La famiglia di
Carlo IV di Goya (1800).

Studi accurati52 hanno rilevato che la sala del dipinto corrisponde a un ambiente preciso dell'Alcázar,
ambiente che Velázquez ha voluto riprodurre minuziosamente, al punto da rendere riconoscibili per
grandezza e disposizione, a partire dagli inventari del tempo, persino i quadri visibili in scorcio sulla parete
di destra. La sala dipinta è la “pieza principal del cuarto del Príncipe”, fa parte dell'appartamento del principe
Baldasar Carlos. È ubicato al piano terra della facciata meridionale dell'Alcázar, sulla piazza d'Armi. Lo
stesso Velázquez, che aveva spesso ritratto il principe, aveva diretto i lavori che avevano modificato, tra il
1645 e il 1649, i suoi appartamenti. Baltasar Carlos doveva morire un anno dopo l'inizio dei lavori, all'età di
sedici anni. Difficilmente si può supporre una scelta casuale e non concordata col sovrano.

La figura di José Nieto Velázquez si staglia in una zona di luce oltre una porta53, si intravede una tenda, un
altro sipario, delle scale e uno sfondo luminoso. Tutto ciò rappresenta una soglia. Che ciò si debba accentare

lo dobbiamo a Picasso, alle sue numerose versioni di Las meninas54. Picasso ha progressivamente ridotto
l'importanza, apparentemente antagonista, dello specchio, che perde la sua funzione di "specchio"
diventando semplice cornice, o addirittura scomparendo, per far posto come vero centro del quadro: alla
porta e alla figura di José Nieto Velázquez. Avverte acutamente Hubert Damisch: “non si può ignorare che
quel personaggio, quel testimone, portava lo stesso nome del pittore poiché si tratta di don José Nieto
Velázquez, aposentador, o maresciallo di palazzo, al servizio della regina e incaricato di occuparsi della
collezione delle tappezzerie reali, così come il pittore del re era incaricato della collezione dei dipinti. Il fatto
che il nome corrisponda nel caso del pittore a quello del padre, e nel caso dell'aposentador a quello della
madre, è da mettere in rapporto con la simmetria delle funzioni che essi assumevano l'uno presso il re l'altro

presso la regina”55. Il doppio di don Diego Velázquez vede il quadro "a rovescio": la scena dipinta e il suo

reale modello. Il suo braccio, in cui si colloca il punto di fuga56, sembra57 aprire una tenda, che risponde
simmetricamente alla tenda dipinta nello specchio dipinto. Forse tiene aperta la tenda, cosa che apparteneva
precisamente alle sue funzioni, perché qualcuno possa passare, possa salire le scale e entrare nella luce. Si

52Cfr., per esempio, J.F. Moffitt, “Anatomía de Las Meninas: realidad, ciencia y arquitectura”, Boletín del Museo del Prado, VII, 21,
1986 (OM, pp. 172-173); J. Brown, op.cit., p. 130; A. del Campo y Francés, “El Alcazar de ‘Las Meninas’”, Villa de Madrid, 12,
1974, pp. 55-61 (e anche La magia de Las Meninas, cit., pp. 235-242).
53Su questa “porta” (che, al di là delle apparenze, sarebbe a doppio battente), cfr. l’analisi di A. del Campo y Francés, La magia de
Las Meninas, cit., soprattutto pp. 149-151 e dello stesso autore “Más sorpresas en Las Meninas”, Revista de Occidente, 123, 1973, p.
315.
54Sulle quali è interessante l’articolo di Nelson Goodman, “Variations on Variation - or Picasso back to Bach”, in N. Goodman–C.
Elgin, Reconceptions in Philosophy and Other Arts and Sciences, Routledge, London 1988, pp. 66-82.
55H. Damisch, L'origine della prospettiva, tr. it. di A. Ferraro, Guida, Napoli 1992, p. 448. Anche Norbert Elias richiama
l’attenzione sull’apparizione dell’aposentador, cfr. Engagement und Distanzierung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1986
(OM, p. 219). Victor Stoichita ricorda che “il primo ‘interprete’ a non farsi scrupolo di proporre un collegamento tra i ‘due
Velázquez’ è stato Goya”, cfr. L'invenzione del quadro, tr. it. di B. Sforza, il Saggiatore, Milano 1998, p. 255. Secondo André
Chastel, José Nieto Velázquez appare come “una specie di regista, che sorveglia il palcoscenico, pronto a tirare il sipario” (cfr. “La
figura nel riquadro della porta in Velázquez”, in Favole forme figure, Einaudi, Torino 1988, p. 200).
56Cfr. J.F. Moffitt, op. cit. (OM, p. 176).
57A parere di Angel del Campo y Francés (La magia de Las Meninas, cit., pp. 225-230, seguito in questo da Carlos Daudén Sala,
op.cit., pp. 24-25), la tenda visibile allo spettatore sarebbe a sua volta un riflesso prodotto da uno specchio retto da Nieto Velázquez.
pone così come emblema della funzione di apertura significata dalla "llave maestra... una llave capaz de
abrir todas las portas", chiave simbolica che pende dalla cintura del pittore dipinto, e massimo onore e gran
prestigio dell'aposentador nella complicata etichetta che regolava la vita di corte. Una chiave che poteva

aprire anche l'abitazione privata del re58.


Ovviamente le chiavi, oltre che aprire, possono chiudere, e perciò nascondere o celare alla vista, porre
ostacoli allo svelamento di ciò che è bene resti privato. Ora non credo che il centro immaginario, lo specchio,
e il punto di fuga, la porta e l'alter ego di Velázquez, uniti e separati dall'asse verticale del quadro che passa
per lo stipite sinistro della porta, siano in concorrenza. Lo specchio dice di un luogo non luogo, e lo specchio
dipinto dice un luogo fisico che dice di non essere un luogo fisico: indica uno spazio, ma uno spazio che non
c'è, luogo in cui il referto dei sensi, e massimamente della vista, è messo in dubbio. Si tratta di una spazialità
dissonante che si accosta alla temporalità dissonante di cui è indice l'incompiuto della mano destra del nano
Nicolasito Pertusato, vera irruzione del movimento in un tempo immobilizzato, La mano avvia una linea
dinamica che si acquieta proprio nel gomito di José Nieto Velázquez. Ciò che è visibile, in realtà, non c'è, e
qui si accenta: non c'è in realtà ciò che sembra contare di più, essere il soggetto della rappresentazione. E del
resto, la realtà di uno specchio dipinto in un dipinto non è, ontologicamente, una realtà "diminuita", posta
sulla strada dell'invisibile?. Ma scopo dell'arte non è quello di riprodurre il visibile.
Ma è possibile pensare sul serio di rendere visibile l'invisibile, senza fare la fine di Marsia e di Aracne? E
cosa sarebbe, propriamente, l'invisibile? Ora se l'invisibile ha a che fare, in qualche modo, col mistero della
verità, allora esso non è figurabile, pare cioè non poter essere limitato in figura, essere contenuto e essere
costretto in un contenuto. Lo stesso colpo, quella perdita assoluta che marca lo stupore come origine della
domanda di senso, se si può configurare come ricordo e quindi come memoria, nostalgia e pianto, non può
però prendere forma determinata al livello di un senso dicibile o raffigurabile, disegnabile o dipingibile,
perché è l'evento stesso che apre la ricerca del senso, e non, in nessun modo, nemmeno parziale, una risposta
a tale ricerca. Eppure se forse una tale rappresentazione si deve dare, e mi sembra in una sfida quasi suprema
con le possibilità del pensiero, si deve dare in pittura. Ora l'evento di una cosa che è senza tempo e senza
spazio e non potrà mai farsi presente, presentarsi, eppure è quella cosa, nella sua concretezza irrimediabile di
oggetto del desiderio e del rimpianto, come potrà essere soggetto di un dipinto, se non di un dipinto invisibile
(come potrà avvenire se non come pura apertura dello spazio della rappresentazione?). Il ricordo esplicito di
una annunciazione nell'offerta della menina all'innocenza dell'infanta, non sembra preannunciare l'avvento
dell'infigurabile nella figura? Una figura che resta, ovviamente, esclusa ai nostri sguardi. Non però a quello
del padre dipinto, se non si rovescia la raffigurazione dei sovrani cedendo all'illusione dello specchio, come
allo sguardo della madre dell'infanta non sfugge (un preannuncio di maternità, un'apertura) l'annunciazione.
Pochi, fragili, punti esterni appoggiano la mia supposizione: quale sia il modello, quale sia il soggetto della
tela invisibile; li ripeto. Si tratta di un dipinto pensato, insieme, da Diego Velázquez e da Filippo IV.
Ambientato con la massima cura possibile nell'appartamento del principe Baldasar Carlos, primogenito del


58Cfr. J. Brown, op. cit, p. 126.
re, erede al trono, morto molto giovane dieci anni prima. Il re farà portare il quadro nei suoi appartamenti

privati: "qui, egli, ritirandovisi, poteva così contemplare questa utopia in totale solitudine"59.
La presenza di ciò che non può essere presente, ma che più vive nel desiderio e nella memoria, e la morte, di
cui non si può avere propriamente esperienza, sono forse le strutture trascendentali dell'apprendre à vivre;
costituiscono tale apprensione nella forma di un segreto, cioè di qualcosa che non si può argomentare,
dimostrare, rendere pubblico, ma solo testimoniare. Ora la pittura può essere luogo esemplare del segreto, e
assumere una potente funzione filosofica. Ma forse mai quanto in Las meninas, o La famiglia reale,
propriamente mimesis del nulla.


59Carmelo Lisón Tolosana, che ha studiato analiticamente il rigido protocollo e i rituali della corte di Filippo IV, definisce la stanza
(“la pieza del despacho”) in cui il sovrano aveva fatto trasportare Las Meninas, “sancta sanctorum” del re (La imagen del rey.
Monarquía, realeza y poder ritual en la Casa de los Austrias, Espasa Calpe, Madrid 1991, p. 142). Cfr. anche F. Calvo Serraller, op.
cit., p. 27.

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