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Roberto Diodato

L’ombra che sta al centro. Nota su alcuni autoritratti di Rembrandt


(ultima versione del draft pubblicato in seguito, in forma definitiva, in: AAVV, Il volto nel pensiero
contemporaneo, a cura di D. Vinci, Trapani, 2010)

No, Tempo, tu non ti potrai vantare che anch’io muti:


le piramidi che con nuova potenza torni a erigere
non mi sono per nulla nuove, neppure in nulla strane:
non sono che riallestimenti di un antico spettacolo.
brevi sono le nostre durate, e quindi noi ammiriamo
quanto da te ci è imposto, e che a dire il vero è vecchio.

ma preferiamo credere che esso nasca a nostro talento…1

Rembrandt attraverso i suoi numerosi autoritratti mostra il suo volto esposto alle cure del tempo, ai segni
indelebili del tempo che si incidono sulla pelle e nello sguardo, al punto che sembra dipingersi in prospettiva

di morte, con lo sguardo acceso su una soglia di disfacimento oltre la quale l’alterità è assoluta2. Emerge
così un tema assai semplice: che senso abbia, e se abbia senso, il primo dei versi del difficile sonetto di

Shakespeare, poiché se l’io parlante è l’io o lo implica, è chiaramente un verso dal significato assurdo3. Il
volto, e la nostra cara persona, subisce nel tempo, per l’opera del tempo, una metamorfosi incessante che può
essere letta a più livelli, un cambiamento che conduce alla morte del corpo organico, quell’animale che
siamo. Per cui la nostra identità altro non è che un’informazione, un codice, presumibilmente replicabile, che
garantisce entro certi limiti una relativa continuità biologica. Forse qualsiasi classificazione, costruzione di
insieme o criterio di identità è destinato a questo limite. Ho di fronte a me una fotografia che mi ferma sulla
soglia della scuola il primo giorno delle elementari: quale criterio di continuità psicologica potrebbe
permettere di affermare che quel bambino e chi sta ora scrivendo sono la stessa persona? Non c’è continuità
psicologica se non secondo gradi molto imprecisi, e la memoria, comunque discontinua e frammentata,
piuttosto che fondarla presuppone l’identità; perciò sembra che un sentiero continuo spaziotemporale possa
essere percorso solo da un corpo che muta, e che muta la sua materia: ma cosa riconosco di me nel corpo di

1 Si tratta dei primi otto versi di un celebre sonetto di Shakespeare (il CXXIII) citato da Giovanni Arpino nel suo
bellissimo Il sangue di una perla, in Rembrandt van Rijn, 1978: 7. L’originale recita
No, Time, thou shalt not boast that I do change:/Thy pyramids built up with newer might/To me are nothing novel,
nothing strange;/They are but dressings of a former sight./Our dates are brief, and therefore we admire/What thou
dost foist upon us that is old;/And rather make them born to our destre/Than think that we before have heard them
told.
2 Molti interpreti hanno collegato gli autoritratti di Rembrandt al senso del morire, a partire da Banfi (1931): 336-337. Tra gli altri,
esemplare, Rella 1998, pp. 58-64; assai suggestivo anche Bonafoux, 1985.
3 Ovviamente nel sonetto l’io parlante personifica l’amore, e quindi ciò che non muta è l’amore, e insieme la poesia
che lo rappresenta; le cose però, lo vedremmo se esaminassimo il sonetto, non sono così semplici, poiché la
questione che Shakespeare pone riguarda l’intreccio tra tempo e eternità.
quel bambino? E cosa riconosco di me nella sua mente? So allora che, precisamente, io sono e non sono il
volto fermato in quella traccia di luce. D’altro canto non appariamo semplici a noi stessi, e quando
cerchiamo cosa si celi oltre i nostri ricordi, le nostre percezioni, conoscenze, desideri… troviamo soltanto un
atto senza contenuto per il quale l’io o il sé sono mere etichette. Se siamo una storia, un processo ecc. se
siamo insomma una vita, allora persistiamo, e quindi mutiamo, nel tempo, ma quello che possiamo nominare
sostrato del mutamento è, se c’è, inafferrabile: può essere forse argomentato metafisicamente, ma è come
battere un pugno sul tavolo. Infatti, anche supponendo che le persone siano sostanze immateriali, o mentali,
semplici, concrete, che esistono necessariamente nel tempo e in modo contingente nello spazio, non
riusciremmo comunque ad affermare alcun criterio di identità diacronica di tali sostanze. Siamo di fronte, in
noi stessi, a un primitivo inoggettivabile, in-visibile solo nelle sue metamorfosi fenomeniche. L’autoritratto,
forse, è una ricerca di questo invisibile, che si dà nel volto appunto come non visibile. Una ricerca, non una
soluzione.

Ovviamente, l’autoritratto non è il ritratto4; sembra orientato alla domanda chi sono io, non chi sei tu. Il
modello dell’autoritratto non è di fronte al pittore, rispetto al quale il pittore possa affermare “questo è il tuo
(vero) volto”. Il modello non è “fermo”, in posa, impostata e imposta staticità alla quale si contrappone la
mobilità delle mani e dello sguardo del pittore. Più o meno di fronte al pittore c’è uno specchio che riflette il
suo volto: «La natura, con grande discrezione, tende a proteggerci da una eccessiva conoscenza visiva di noi
stessi, evitando di disporci in piena luce. Preferisce conservarci in ombra … Poiché ognuno rispetto a se
stesso, in quello spazio di trionfante trasparenza, occupa un punto oscuro, un luogo opaco; permane in una
condizione di invisibilità, sconosciuto a se medesimo» (Boatto 2005: 5-6). Il volto dal quale sembra
provenire quella specie di movimento immateriale senza contenuto che giustificherebbe l’uso del deittico io
(per sua natura non concettualizzabile), resta in ombra per la nostra vista, anche se può essere percepito dal
nostro tatto e udito per certi aspetti, ma come testa, come faccia, e forse, fenomenologicamente, come viso,

non propriamente come volto5. Una discontinua consapevolezza percettiva del nostro corpo accompagna la
discontinuità della nostra memoria di noi stessi e del mondo per noi, ma il fenomeno di tale consapevolezza
non appare, pur essendo ciò di cui ciascuno è certo. Il volto si pone allora come l’aura del viso, apparizione
unica di una lontananza prossima e inafferrabile: l’originalità, l’irripetibilità, l’unicità; si ricorderanno gli
esempi di Benjamin: «Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo
che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel
ramo» (Benjamin 1936; tr. it.: 25). Anche l’aura del viso certamente può putrefarsi, secondo diversi sensi: la
commercializzazione dell’anima, per dir così, forse più micidiale di quella dei corpi, l’indifferenza,

4 Su questo punto cfr. Boatto, 2005, pp. 5-9.


5 Come scrive giustamente Lévinas (1982): 89-90 «Non so se può parlare di “fenomenologia” del volto, poiché la
fenomenologia descrive ciò che appare. Allo stesso modo mi chiedo se si può parlare di uno sguardo rivolto verso il
volto, dato che lo sguardo è conoscenza e percezione […] Si può quindi dire che il volto non è “visto”: è ciò che non
può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero».
l’anestetizzazione, la riduzione all’essere seriale, alla pura ripetizione. Non la morte e il segno irreversibile
del tempo sul volto conducono, quindi, alla putrefazione dell’aura, possono anzi testimoniare la sua verità.

Se il mio volto, immediatamente, resta per me in ombra, può essere percepito per mediazione, grazie al
riflesso metaforico nello sguardo d’altri, grazie all’apparentemente meccanico e oggettivo riflesso nello
specchio o nell’immagine fotografica o cinematografica. Ciascuna di queste mediazioni implica problemi
complessi, ma per quanto riguarda l’io sociale tale complessità concerne i contenuti e non la questione
metafisica dell’identità, anche se forse il livello psicologico e sociale, il livello delle rappresentazioni
mediate del sé, determinante per la nostra vita etica e psichica, potrebbe essere l’unico ispezionabile
scientificamente. L’altro livello, quello della mediazione tramite dispositivo, esige l’indagine della natura del
dispositivo. Qui interessa soltanto lo specchio, il quale ovviamente non ci concede di vederci come gli altri ci
vedono, non solo perché produce ricomposizione rovesciata dell’asse simmetrico, ma perché lo sguardo che
mi vede specchiato è il mio sguardo. Ciò implica una sottrazione di oggettività, sono sempre e solo io che mi
vedo, e quindi mi sdoppio in vedente e veduto. Nel caso dell’autoritratto, allora «“Io sto dipingendo quel me
stesso su cui poso il mio sguardo” … Nell’autoritratto, il pittore si è caricato del compito, al limite della
scommessa intellettuale, di definirsi alla lettera e materialmente con le proprie mani. Al gesto conclusivo del
ritratto: “Questo sei tu” … fa riscontro nell’autoritratto un gesto maggiormente complicato e indiretto [che]
non significa tanto “Questo sono io”, una proposizione che attesterebbe la familiarità, la vicinanza e
l’appartenenza, quanto “Io sono quello”» (Boatto 2005: 8). Vedente e veduto si distanziano, si riflettono e si
ricompongono nel volto auto-ritratto, si reintrecciano, attraversando il movimento dello sguardo e delle
mani del pittore, in una cosa nuova. Abbiamo uno sdoppiamento della deissi, e un trapasso dal personale al
dimostrativo, il quale però rinvia circolarmente al personale dopo aver attraversato una distanza . Il deittico
non sopporta definizioni, si limita a mostrare la potenza di un atto, che è nel tempo e si dispiega in una
molteplicità: perciò la questione della natura dell’identità è qui inseparabile da quella del senso e dell’uso di
una parola – della particolare parola “io” – non traducibile in un elenco finito di significati. Ora nel
passaggio o transito che dallo sdoppiamento del volto termina al volto nuovamente ricomposto e
riconosciuto come sé e come altro da sé, accadono molte cose che appartengono al tempo dell’esercizio della
pittura. Almeno a una prima lettura appare che se l’attività del pittore risulta «coinvolta nella corsa scandita
dalle ore e dai giorni, ogni suo sforzo è teso a sottrarsi a essa, a tenerle testa, a sfuggire alla sua presa
distruttiva. Lo manifesta con pienezza il suo risalire la minuta corrente dei gesti per ritrovare ogni volta
l’immobilità dell’atteggiamento iniziale, la fermezza della positura che privilegia. Nel tempo irreversibile e
trascorrente, scommette su un istante significativo allo scopo di salvare e mettere in salvo la propria
immagine celebrata per sempre nell’accordo delle linee e dei colori. Non vuole che il suo volto segua nel
nulla tutte le cose» (ivi: 10-11). Talvolta, credo, accade così, ma forse non in tutti casi: certi autoritratti, e
quelli di Rembrandt in specie, non fermano un istante, non celebrano la propria immagine, non intendono
salvare nulla, poiché sanno che non è in potere della pittura, o del nostro talento, salvare alcunché dal nulla,
né del resto crearlo. Preferiamo credere che quanto è imposto dal tempo provenga dal nostro talento, ma se il
nostro grado di esperienza e di conoscenza è sufficiente, allora possiamo tentare di adeguarci al tempo e di
estendere l’istante della presenza in modo da renderlo accogliente al suo scorrere: possiamo cercare di fare
spazio al tempo, di renderci maschere adatte al suo spettacolo, di aprire al tempo la nostra breve durata, così
da ammirare la sua potenza costruttiva, e non – soltanto - distruttiva.

Simmel ha visto nei ritratti di Rembrandt il farsi spazio della forma del tempo, cioè della vita nel suo senso:
«In Rembrandt forma significa che una vita, che sgorga da un punto, l’ha fatto nascere come proprio risultato
o come il più chiaro momento visibile della propria totalità, esistente nella forma del divenire» (Simmel
1914; tr. it.: 42); come se quella sorta di vortice caotico che è la vita singolare, quella singolarità sintetizzata
dai deittici io-tu, estrema complessità di casi e di destini, concentrasse il proprio divenire in un punto che si
dà in pittura. Il contingente è trapassato e il necessario rappresentato: «Se ogni volto di Rembrandt ha il
fondamento essenziale di tutta la sua storia nella sua forma attuale, i singoli contenuti storici non sono
peraltro leggibili; ma muovendo dall’inizio della potenzialità di questo essere, una corrente del divenire è
approdata fino a questa attualità e l’ha determinata, in virtù della dinamica e della logica interna della vita»
(ibidem). La forma non è qui un principio di composizione dell’ente, quasi potesse essere una sua parte
immateriale, è piuttosto il movimento compiuto o perfetto, seppure provvisorio, della vita, movimento che
non può essere un istante, un immobile, un punto del divenire, ma la sua espressione nell’ordine del senso.
«Per opera – prosegue Simmel - di una tale esclusione dei singoli contenuti, e attraverso il farsi percettibile
del processo della vita – che in base alla sua potenza formatrice e alla sua ritmica, al suo tempo e alla sua
tonalità, doveva necessariamente produrre quella forma determinata -, cessa ogni coinvolgimento di dati
extra artistici: la storia dell’uomo, come qui si palesa, è completamente interna allo stesso fenomeno
artistico, che esprime la totalità della vita ed è, se così si può dire, il suo modo d’essere» (ivi: 42-43). Direi
allora che il corpo-immagine che è il dipinto espone la forma come materia nella sua essenza destinale. Ciò
accade nella trasvalutazione del corpo in immagine-corpo del dipinto, opera della pittura, ritorno della forma
al mondo attraverso la mente e il corpo del pittore, che compie l’esposizione della forma nell’immanenza dei
colori e delle figure. Questa affermazione implica una peculiare relazione forma-tempo-vita: non ci sono
forme solide dalla vita temporale estremamente breve, per cui la vita accadrebbe nel passaggio tra esse, così
che il fotogramma di tale istante di trapasso si darebbe in pittura. Com’è noto Simmel marca l’opposizione
tra intemporalità della forma e forma dinamica della vita, tra quel fenomenizzarsi della forma come figura
scissa dalla forza della vita che conduce all’esistenza ideale del ritratto rinascimentale, all’eterno presente
astratto del fenomeno bello, all’essenza dello spirito nella sua legalità immanente costituita dalla logica
astratta delle relazioni, e forma che pulsa non separata dalla vita per un differente rapporto col tempo e con la
forza, quella forma-forza che è «soltanto il momento della vita di volta in volta presente … il modo casuale –
purché il termine sia rettamente inteso -, in cui la sua essenza , ossia il suo divenire, si volge verso l’esterno»
(ivi: 45). In questo caso la contingenza e la necessità coincidono, la massa dei casi produce il destino, la vita,
che sola è reale, dà vita alla forma singolare, che non l’istanziarsi di un tipo, che non ripete nulla, ma
corrisponde alla «assoluta singolarità e unicità dell’esistenza» (ivi: 48). Singolarità e unicità della vita: non
possono certo essere dette nell’ordine del concetto, ma possono divenire pittura, ma anche in pittura non
possono essere rappresentate, cioè espresse secondo un complesso di qualità esposto in contenuti traducibili
quali significati. Si tratta piuttosto di rendere visibile “il processo stesso della vita”: «Il senso dell’
“individualità” delle figure di Rembrandt non è un essere qualitativo, diverso o particolare, individuabile nei
singoli contenuti, ma consiste nel fatto che in tali figure è visibile il processo stesso della vita: infatti
quell’essere è individualità assolutamente relativa e casuale» (ibidem). Ora il “relativo e casuale” va
interpretato: forse l’arte della pittura mostra il relativo e casuale nella forma della necessità; se fosse così non
saremmo distanti dalla teoria aristotelica della possibilità, che nella poesia tragica si costituisce come
somiglianza di verità, cioè costruisce la verità in immagine o l’immagine della verità come espressione di
una necessità che trapassa l’apparente contingenza del divenire. Simmel però rinvia al concetto spinoziano di
libertà: Rembrandt «ha mostrato come nell’immagine ideale di ogni uomo alberghino libertà e dominio di sé,
quando il momento colto per l’immagine si è realmente sviluppato dalla continuità della sua vita (in modo
corrispondente al concetto di libertà del suo contemporaneo Spinoza: esistere e agire ex solis suae naturae
legibus), quando si tratti di un “divenuto” che abbia concentrato in sé l’intero corso del proprio divenire e
che muovendo da esso – qualunque sia la quantità di elementi esterni e di passività che vi si è aggiunta –
possa divenire ed essere compreso. Certo il prezzo è la rinuncia ad attingere l’universalmente umano» (ivi:
54-56). Il rinvio è alla definizione 7 della prima parte dell’Etica, quindi alla necessità che finalmente, allo
sguardo della scienza intuitiva, si riconosce come libertà; si tratta allora di una struttura metafisica: nei
ritratti e autoritratti di Rembrandt il ritmo del movimento cosmico si singolarizza senza bloccarsi, piuttosto si
consolida provvisoriamente e struttura l’individualità. Ma se è così allora non è vero che si paghi il prezzo
della rinuncia a quanto ci sia di comune tra gli esseri umani, si rinuncia soltanto a una concezione astratta
dell’essere comune dell’uomo.

Per Focillon Rembrandt è autore di una «metafisica delle ombre» (Focillon 1936-2; tr. it.: 25), che è
«ricostruzione dello spazio per mezzo della geometria della luce» (ibidem). Questa metafisica delle ombre,
opera di una sorta di “chiromanzia indiretta “ che è insieme una grafologia, che si esprime per esempio in
una attenzione alla pesantezza della materia, alla carne del corpo e del mondo, come nel caso della Betsabea
del Louvre: «Tutta la sua forma respira dell’accattivante intimità della vita ordinaria, trasposta nelle quiete
regioni e nelle calde ombre delle figure dipinte. La sua carne non è esente dalla fatica, ma ha la tiepida
pesantezza, la pienezza della materia vivente e non di un volume teorico» (ivi: 26). Ma è soprattutto negli
autoritratti che una tale metafisica diventa problema conoscitivo: «Egli li dipinse o li incise non per un futile
compiacimento per la propria immagine, ma per la passione di conoscere, per raggiungere dietro le
diversità dei costumi, dell’attitudine, della luce, del momento della vita, quell’identità che incessantemente si
sottrae, quella fiamma unica che anche noi, maldestramente, cerchiamo di sorprendere nell’ignoto del nostro
specchio, nell’ignoto della nostra coscienza. Ci vantiamo di esserne padroni quando si tratta di ritratti altrui.
Davanti a se stesso Rembrandt vuole cogliere sia ciò che resta sia ciò che passa, l’evidenza e il mistero, la
luce sorella dell’ombra e l’ombra sorella del segreto» (ivi: 37). Anche per Focillon quindi il problema
conoscitivo qui in gioco riguarda l’identità, il tempo, e certamente la forma, anzi la vita propria delle forme
intese come espacement du temps: c’è forma solo nel tempo, un tempo che prende spazio, un punto di

intersezione che apre lo spazio del significato6. «La forma si significa», scrive Focillon in Vita delle forme7,
non rinvia ad altro da sé, è evento non decifrabile a partire da una biografia , da una abilità, nemmeno da
una volontà. Si tratta per Focillon di una vita, quella delle forme, «che non ha altro scopo all’infuori di se
stessa e del suo rinnovarsi» (Focillon 1934; tr. it.:12). La forma non proviene dalla storia, piuttosto la vita
delle forme apre la possibilità dei significati storici, esprime se stessa nella cosa che le opere sono, nelle loro
differenti singolarità, nella complicata differenza dei gesti e delle materie. In tal modo per Focillon «l’arte
diviene il mistero di una creazione senza creatore, di una moltitudine di forme autogenerantesi in un
movimento senza fine, in cui il cortocircuito tra eternità e finitezza come quello tra necessità e libertà
spingono i riferimenti filosofici di Focillon più verso il pensiero spinoziano che non, come sottolineato da
diversi critici, verso la durata bergsoniana» (Ferrari 2002: 77). Il rinvio a Spinoza mi pare appropriato, ma se
per Focillon gli autoritratti di Rembrandt esprimono correttamente la vita delle forme, abbiamo allora un
piccolo paradosso: proprio la ricerca dell’identità, di un permanere sfuggente ma preciso e potente quasi
fosse l’atto stesso della vita, nel e attraverso quel divenire delle forme che spaziano il tempo, è quanto cerca
di cogliere la mostra degli autoritratti. Si tratta sì di un cortocircuito tra eternità e finitezza, tra libertà e
necessità, ma è un incontro che forse non si compie mai perfettamente tra chi cerca di vedere e lo stesso che
si dà come visibile ricambiando lo sguardo nel riflesso specchiato, un intreccio che resta in ombra, un luogo
estetico informato dalla mano e dalla mente «che non è costituito da finzioni ma da presenze» (Focillon
1936-1: 100).

Al padiglione ungherese della Biennale di Venezia si trova in questo momento esposta l’opera Col Tempo di
Péter Forgács (il titolo è tratto dall’iscrizione presente in un dipinto di Giorgione), composta tra l’altro da
video di volti filmati, che appaiono nella cornice tipica del ritratto e sono visibili come ritratti, ma in
lentissimo movimento, immediatamente poco percepibile. Un capitolo dell’opera è però un “ritratto”

costruito con gli autoritratti di Rembrandt8 in modo da creare tra essi una trasformazione continua. Pittura in
movimento: da un autoritratto all’altro, il lento svolgersi della metamorfosi del volto, il dipanarsi di una

stessa vita, quasi raccontasse il lavoro del tempo su di essa. La riuscita dell’opera sembra presupporre9 una
qualche somiglianza tra i volti dipinti, l’assenza di soluzioni troppo marcate di continuità, e in effetti produce
una sensazione di notevole continuità, sembra apparire lo stesso volto “col tempo”. L’impressione della
somiglianza è invece negata da Pierre Sorlin, in qualità di spettatore della grande esposizione rembrandtiana
della National Gallery , a Londra nell’estate del 1999: «Da questi autoritratti sistemati uno di fianco all’altro
scaturisce molto velocemente una prima impressione: ci si trova in presenza di diversi individui … Se

6 Cfr. su questo tema il saggio di Federico Ferrari, Geometrie della luce e metafisiche dell’ombra, in Focillon 2002,
pp. 73-83.
7 Vita delle forme (1934), Einaudi, Torino 1990, p. 6.
8 In/between - Rembrandt-Morphs; l’opera è del 2006.
9 Ma forse il lavoro di morphing riesce a far apparire continuo anche il dissimile.
avessimo mai tentato di esaminare le nozioni di carattere personale, di identità, se ci fossimo domandati fino
a che punto la somiglianza è fondatrice del ritratto, l’opera di Rembrandt ci metterebbe in serio imbarazzo»
(Sorlin 2000; tr. it.:166-167). C’è e non c’è allora somiglianza: c’è “col tempo”, o meglio grazie
all’introduzione di un lento movimento (il tempo come numero del movimento secondo il prima e il poi:
concezione “volgare” del tempo) che evidenzia le analogie somatiche: si tratta sempre dello stesso corpo,
della stessa faccia, forse dello stesso viso; non c’è per via delle maschere che l’individuo di volta in volta
assume, per i modi con cui vuole presentarsi sulla scena del mondo: «Uno di essi – di questi individui,
scrive Sorlin – senza dubbio ha, quantitativamente, maggiore importanza; la sua maschera lo distingue
nettamente, la sua faccia è rotonda, ha la fronte larga, il naso forte, un mento sfuggente, occhi infossati e un
accenno di baffi, insomma niente in comune con quell’altro personaggio la cui capigliatura arruffata mangia
la parte alta del volto, né con quell’uomo dalle guance lisce, dal naso sottile, dagli occhi sporgenti o con
quello che sfoggia una leggera barba» (ibidem). Da un lato, “col tempo”, sfuggono letteralmente le
differenze, viene in primo piano la carne e il progressivo suo disfarsi, dall’altro, nell’osservazione di quelle
cose diverse che sono i diversi dipinti, emerge la finzione della pluralità dell’io, la molteplicità dell’essere
pubblico. In entrambi i casi restiamo in superficie: non emerge il volto, si pone tutt’al più un problema
psicologico (le rappresentazioni del sé) e un problema psicofisico (il divenire del corpo e quindi della
mente). Opportunamente però Sorlin rinvia anche a un livello diverso, colto da Jean Genet: «Genet, tuttavia,
affermava a più riprese che i volti dipinti da Rembrandt sono molto vicini gli uni agli altri … Genet non ha
torto quando percepisce, al di là delle numerose differenze che abbiamo rilevato, una certa parentela fra i
quadri» (ivi: 167). Si tratta infatti di quadri, innanzitutto, di risultati di un’operazione artistica di un certo
tipo, operazione che «attraverso una serie di variazioni, rendeva il simile differente» (ivi:170). E che d’altro

canto rendeva il differente simile. E’ la qualità di questa operazione10 allora, i problemi che pone e che

cerca di risolvere, che allora andrebbe esaminata11.

Forse nessuno come Jean Genet ha colto il senso della bellezza rembrandtiana. Il suo commento ai ritratti di
Margaretha De Geer, conservati alla National Gallery, può valere anche per alcuni degli ultimi autoritratti:
«Ma non riusciremo a sciacquar via la decrepitezza dal viso della signora Trip: lei non è che questa
decrepitezza, che si manifesta in tutta la sua forza […] Piacevole all’occhio o meno, la decrepitezza è.
Dunque è bella. E ricca di … Vi è mai capitato di avere una ferita, a un gomito ad esempio, e che si sia
infettata? Si forma una crosta. La sollevate con le unghie. Sotto la crosta, i filamenti di pus che la alimentano
sembrano non finire più … Caspita, tutto l’organismo lavora per questa ferita. Lo stesso vale per ogni
centimetro quadrato di un metacarpo o di un labbro della signora Trip. Chi poteva riuscire in una simile

10 «Entre le moi, vu dans le miroir, et le soi, lu dans le tableau, s’insèrent l’art et l’acte de peindre, de se depeindre»
P. Ricoeur (1987): 15.
11 In questa occasione non posso approfondire l’argomento; segnalo soltanto che, da questo punto di vista, il punto
di partenza essenziale per lo studio degli autoritratti è J. Bruyn, E. van de Wetering et al. (Stichting Rembrandt
Research Project), A Corpus of Rembrandt Paintings, vol. 4: The Selfs-Portraits, Springer, Dordrecht 2005. Per
quanto riguarda una sintesi delle interpretazioni filosofiche si veda il notevole saggio di M. Vozza, L’autoritratto
beffardo di Rembrandt, in AAVV, Ermeneutica e pensiero tragico. Studi in onore di S. Givone, il melangolo, Genova
2004, pp. 7-29.
impresa? Un pittore che ha inteso riprodurre solo ciò che è, e che dipingendolo con precisione non poteva
che riprodurne tutta la forza – ossia la bellezza? O forse un uomo che, avendo capito – a forza di riflettere? –
che tutto ha una sua dignità, deve applicarsi piuttosto a mostrare ciò che ne pare sprovvisto?» (Genet 1958;

tr. it.: 130-131)12. La dignità di ogni cosa, qualsiasi cosa o cosa qualsiasi, scuote e disarticola i cliché a
qualsiasi livello, a partire da quello percettivo (il più difficile da inceppare) e impone una letterale
distruzione delle gerarchie, sia nei contenuti che nelle materie che nelle forme; visione discontinua del
mondo, ricomposta da uno sguardo nuovo: «una mano vale quanto un viso, un viso quanto l’angolo di un
tavolo, l’angolo di un tavolo quanto un bastone, un bastone quanto una mano, una mano quanto una
manica… » (ivi: 136). Ora lo sguardo è, a prima vista, ciò di cui ci parlano innanzitutto gli autoritratti; si
tratta di uno sguardo incarnato, spesso in ombra nelle pieghe del viso, sovente dello sguardo di un
personaggio, talvolta di uno sguardo che vorrebbe sembrarci nudo e definitivo. In certi casi si tratta,
esplicitamente, dello sguardo di un pittore. Non sempre ma per lo più è uno sguardo che cerca l’incrocio
con lo sguardo dello spettatore ma non chiede una risposta.

Oltre allo sguardo, le mani; scrive ancora Genet: «Nel suo ultimo ritratto se la ride dolcemente. Dolcemente.
Sa tutto ciò che un pittore può imparare. E per prima cosa (o forse da ultimo) che il pittore è tutto nello
sguardo che va dall’oggetto alla tela, ma in particolare nel gesto della mano che va dalla piccola pozza di
colore alla tela. Il pittore è concentrato lì, nel tragitto pacato, sicuro, della mano» (ibidem). Forse non è vero,
o almeno io non credo, che Rembrandt se la rida dolcemente, nemmeno nel cosiddetto Autoritratto ridente
di Colonia e tanto meno negli ultimi grandi autoritratti di Londra e dell’Aja, ma è vero che alla fine è
concentrato sul rapporto tra lo sguardo e le mani. Ciò non vale solo per gli autoritratti della vecchiaia, vale
soprattutto per le opere incompiute che vengono trovate vicino al suo cadavere, Ritorno del figliol prodigo e
Simeone con il bambino: in entrambi lo sguardo non c’è più, e si è trasformato nelle mani, le mani del padre
e di Simeone: entrambi ciechi, il loro sguardo è diventato il tatto, le mani del padre sentono la disperazione e
il pentimento del figlio e trasmettono la gioia della riconciliazione, le mani enormi di Simeone accolgono
finalmente la salvezza nell’impotenza inerme del bambino; intuiamo «ciò che Rembrandt intende dire: esiste
un tipo di visione negata all’occhio che vede, che può tuttavia essere raggiunta attraverso il tatto e può
inondare l’occhio interiore di luce divina» (Schama 1999; tr. it.: 747). Non si tratta però, alla fine, di mani
che operano, che fanno, che dipingono: nell’anno stesso della sua morte Rembrandt si dipinge con le mani

giunte13, modificando una precedente versione, visibile ai raggi x, che ancora lo sorprendeva con il
pennello in mano . Anche qui, come in genere negli ultimi autoritratti, Rembrandt si espone «nella pennellata
tormentata e strascicata che descrive, senza alcun equivoco, il volto butterato e ispessito, l’impasto applicato
qua e là a suggerire le grinze e le borse della pelle sotto gli occhi e le guance» (ivi: 742), ma le mani non
sono giunte, come vorrebbe Simon Schama, in segno di preghiera, piuttosto disegnano, quasi in un unico

12 Cfr. anche il bellissimo Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali e buttato nel cesso
(Genet 1967).
13 Autoritratto con mani giunte, 1669, Londra, National Gallery.
grumo di colore, il tempo della quiete, la conclusione di un’opera del tempo alla quale si è fatto spazio.
Ancora una volta un piccolo paradosso: è pur sempre l’arte che opera! e quindi viene detto che sono lo
sguardo e la mano che dismettono se stessi: dicono di essere ormai natura, il fluire stesso della vita.

Come è noto «vita in stato di quiete» è il termine con cui Plotino definisce l’eternità (Enneadi III, 7, 11,
44), una quiete che indica l’intensità, la pienezza, quella plenitudo vitae ripensata da poi Boezio (De
consolatione philosophiae, V, 6) in un incrocio speculativo che avrà grande fortuna tra tradizione
neoplatonica e pensiero cristiano. Del resto anche per Tommaso d’Aquino l’atto nella sua purezza, l’esse, la
potenza creativa che abita l’intimità delle cose e di noi stessi e che sfugge alla presa del concetto, è ciò che è
quieto nell’ente (Summa Contra Gentiles, l. I, cap. XX, n. 27). Si tratta però di un convergere tra atto e
quiete non facile da comprendere. Ora Rembrandt, pittore attento alla lezione di Michelangelo, di Tiziano,
di Caravaggio non è pittore dello stilleven, non costruisce la quiete intensa di un effimero divenuto
“miniatura d’eternità”, impassibile al divenire e al suo dominio, al proprio stesso scomparire.
Rembrandt, forse consapevole di una identità più profonda tra i modi del pensiero e i modi dell’estensione,
dipinge una storia interna dell’umano, e anche le cose dell’antichità, di cui il suo studio era ingombro in
modo impressionante, quelle cose che continuamente Rembrandt acquistava e accumulava, sono intrise di
storia e di umanità. L’eternità rembrandtiana non ha nulla della quiete statica, della sottrazione del tempo e
del movimento; non è rappresentazione dell’istante che sfugge al fluire per la sua potenza d’essere, ma è
piuttosto una visione della necessità del divenire, cioè della libertà che il tempo concede: un abbandono,
consapevole, a quel senso del tempo che è eterno. Così Rembrandt ci dice, quasi sempre negli autoritratti
della maturità, quasi sempre nelle sue opere culminanti: La sposa ebrea, la Lucrezia di Washington, il
Ritratto di famiglia, Il ritorno del figliol prodigo, la contingenza dell’umano come potenza dinamica della
quiete. Ora alcuni autoritratti mostrano con precisione il significato metafisico del divenire e caricano di
senso il tempo, cioè si internano come contenuto nella forma del tempo descrivibile a livello riflessivo. A
questo livello il divenire è semplicemente l'annientarsi di quella unità dell'esperienza che è l'apparire di una
qualsiasi determinazione . L'affermazione di tale annientarsi è un plesso logico/fenomenologico: si dà
un'esperienza che non può essere interpretata che così (cioè: l'esperienza dello scomparire di un contenuto
determinato non può che essere l'annientamento dell'apparire di questo nell'unità dell'esperienza, in quanto se
tale determinazione può essere scissa dal suo apparire, l'apparire non può essere scisso da se stesso). Il
divenire è quindi affermazione dell’annullamento, cioè della presenza del nulla nella vita, struttura formale
di ciò che chiamiamo tempo, presenza che non si può stabilizzare, bloccare, processare in una sintesi e
nemmeno propriamente dire nella sua immanente verità. Ora se nonostante ciò la determinazione del tempo
è l’eternità, questa non soltanto non sopprime il tempo, ma ne è interpretazione: non istante riassuntivo
dell’accaduto, dell’accadere e dell’accadibile, non concentrazione panoramica in un luogo dello sguardo, o
idea, di passato, presente e futuro, non segno dell’altro dal tempo nella forma della legge o presente perfetto
e dinamico, piuttosto evoluzione imprevedibile, orizzonte di possibilità sospeso tra il doppio infinito del
passato e del futuro. Il tempo di Rembrandt, a me sembra, racconta la potenza letteralmente infinita del
possibile esistente nella quiete dell’atto. I celebri cerchi accennati nell’Autoritratto con tavolozza e pennelli

della Kenwood House, così variamente interpretati14, possono anche essere manifestazioni dell’eternità15 e

insieme manifestare la perfezione dell’abilità artistica16; ma se questo è vero, lo è in un senso particolare. I


cerchi sono incompiuti e opposti: si tratta di un’eternità sdoppiata e inconclusa, che apre uno spazio nel quale
si colloca la figura del pittore, il quale è ora, dopo notevoli pentimenti visibili in radiografia, in posa quasi
frontale con una luce forte che gli sbatte sul volto rendendolo nudo, in parte, ai nostri occhi, in parte
conservandolo nell’ombra. Ancora una volta il pittore ha smesso volontariamente di dipingere (le radiografie

mostrano una prima versione nell’atto di dipingere17). Non importa tanto che i cerchi accennati e inconclusi

con precisione siano mappe del mondo18 o simboli cabalistici19 o implichino una critica alla concezione

aristotelica del cosmo20, importa piuttosto che la perfezione eterna abbia fatto spazio al volto severo e
inerme di un pittore in stato di quiete che propone un evidente non finito come vertice e termine della sua
attività.

Effettivamente il dominio del possibile, in questo caso la realtà del potere nullificante del divenire o se
vogliamo la realtà del tempo, sembra apparire soprattutto negli ultimi autoritratti come prospettiva di morte.
Da questo punto di vista sarebbe a essi applicabile quanto scritto da Jeanne Hersch: «Il tempo non è reale per
l’uomo che con la morte. E’ la morte che differenzia gli istanti della vita e dà a ciascuno di essi il valore
bruciante di ciò che è unico e insostituibile. Porta tutta la benedizione di “una volta e mai più”. La morte dà
alla forza vitale la sua meta e i suoi limiti, e così è lei, insomma, che crea tutto questo. E’ perché c’è la morte
che sorge tutto ciò che è limitato, formato, compiuto, tutto ciò che è individualizzato, tutto ciò che è
indipendente – per limitarsi contro la morte ... Se no, la vita continuerebbe a scorrere, eternamente e in linea
diritta, indistinta e senza forma» (Hersch 1936; tr. it.: 70). Ma penso che questa sia solo una parte della
verità, perché la potenza del possibile, che precipita passato e futuro in un plesso costantemente in via di
elaborazione, coincidenza della necessità e della libertà, che consiste nel comprendere e nell’essere senza
residui quella stessa necessità come azione e laboratorio, è la vita stessa, ed è quindi forza, energia, progetto
di un avvenire non predeterminato. Ora questa vita dell’io non è determinabile in se stessa, non è oltre il
divenire e il tempo, ma raggiunge in certe pratiche una positività, una sorta di ostensione, prende insomma
un volto. Ma nella sua determinatezza questo volto non la espone in pura luce, dà conto di una possibilità
destinata a mutare: autoritratti all’apparenza molto, molto simili, eppure… Si osservino con attenzione,
lasciando di fronte a loro scorrere il tempo necessario, gli autoritratti quasi coevi di Washington e del
Metropolitan, certo diversi per molti aspetti, e soprattutto per un uso assai diverso del rapporto luce

14 Cfr. per una introduzione alle interpretazioni cfr. Chenault Porter 1988.
15 Cfr. Broos 1970.
16 Cfr. Moffit 1984.
17 Cfr. Bruyn J., van de Wetering E. et al. (2005): 565.
18 Cfr. Chapman 1990: 99-101.
19 Gli autori del Rembrandt’s Project ricordano al proposito de Beaufort 1957: 112-113.
20 Gli autori del Rembrandt’s Project ricordano al proposito van Gelder, 1956.
ombra21, ma non per il fatto di essere espressione di un differente personaggio. I mesi tra i 1659 e il 1660
portano sì mutamenti, ma non all’apparenza mutamenti sostanziali nella vita di Rembrandt, eppure lo
sguardo dell’autoritratto conservato alla National Gallery of Art di Washington è pieno di sofferenza: parla
della malinconia, porta un’immensa e fiera tristezza; è perciò uno sguardo di vita, che prova dolore per il
passato e per il passare. Un occhio illuminato, l’altro più profondo in ombra, il volto che ci guarda qualche
mese dopo, oggi dalle pareti del Metropolitan, vede invece, con tranquilla precisione e senza angoscia, il

nulla22: non c’è sofferenza, ricordo, attesa, ma solo comprensione priva di speranza, senza che del resto sia
questa, per Rembrandt, l’ultima parola.

Il chiasma tra opposti è detto, direi teoreticamente argomentato in pittura, nell’Autoritratto ridente di
Colonia, sul quale pure è stato scritto moltissimo. La critica per lo più oggi suppone che Rembrandt si sia

dipinto come Zeusi in quell’atto di ridere che lo porta alla morte 23 . La tesi concorrente 24 ravvisa
nell’Autoritratto ridente la rappresentazione di Democrito, secondo la celebre opposizione tra Democrito ed

Eraclito. Entrambe le tesi si appoggiano a solida documentazione. Il volto che compare a sinistra sul fondo25
potrebbe forse essere quello di Eraclito, preso da una scultura che Rembrandt possedeva. Ora credo che si
possa non scegliere tra queste ipotesi, e che Rembrandt si sia dipinto sia come Zeusi sia come Democrito.
Come Zeusi: il pittore maestro di illusione consapevole alla fine di non potere gareggiare con la vita, perché
non può creare la vita, e quindi ride di sé e della sua arte meravigliosa; come Democrito, che vede gli atomi
che corrono nel vuoto e il resto è nulla se non vanità umana. Ma anche come Zeusi e come Democrito
insieme, perché la vita di Rembrandt certo è stata così attraversata dal dolore e consapevole del proprio
destino di morte, eppure è anche stata così intensa, al limite delle possibilità dello sguardo umano e della sua
ricerca di verità. L’intensità della ricerca è, in questo caso, la pratica della pittura che costringe lo sguardo a
riflettere e la mano a comprendere oggetti e persone che non scorrono veloci e insignificanti, ma diventano

materia che risplende nell’ombra, cose che “sanguinano” per via della loro materialità26 senza riscatto, ed è
sguardo che riflette su se stesso, sul proprio volto cercando di toccarlo attraverso il pennello e il colore. Lo
specchio apre nel sentire il sentirsi, una specie di piega che interna lo sguardo in se stesso, quasi come se
rivolgessimo gli occhi a rovescio, verso il nostro interno, per ritrovare l’interno nell’esterno, per farli
coincidere. La piega del –si, questa ri-flessione che conduce all’apparenza è fatta, come sappiamo,
soprattutto di tempo, il tempo del farsi carico delle cose del mondo e di ciò che siamo, della nostra libertà e
della nostra necessità, di una contingenza che il volto autoritratto significa in molti modi. Gli autoritratti del
giovane Rembrandt, poco più che ventenne: quel volto stupito, letteralmente investito dall’ombra, annegato

21 Cfr. Bruyn J., van de Wetering E. et al. (2005): 502.


22 Certo farei fatica a dimostrarlo, si tratta solo di un’impressione che deriva da una prolungata osservazione.
23 Sulla scorta soprattutto di Blankert 1973. Considerazioni interessanti in Chapman 1990: 101-104.
24 Sostenuta tra gli altri in Stechow 1944. Wolfang Stechow interpreta la figura del Democrito dipinto come
“melanconico”; su questo tema e le sue ricadute in pittura cfr. Brandt 2000: 80-125.
25 Resta comunque interessante la suggestione di Bialostocki 1966, che vi ravvisa il volto di Terminus, dio della
morte, il cui motto è Concedo nulli.
26 Merleau-Ponty 1948; tr. it.: 66.
nell’ombra (autoritratto di Kassel, 1628ca.) decide altrettanto letteralmente, mentre ci guarda e ci chiede di
guardarlo, di gettarsi nell’ombra (l’autoritratto di Monaco, 1629); alla fine l’ombra è stata attraversata dando
luogo a molti ritratti di se stesso, a molti aspetti di un’unica singolarità che non ha ceduto (il suo volto?),
continuando a scegliere per «un punto del futuro che è il solo, in genere, a rendere la totalità, proprio in
quanto la interrompe» (Simmel 1916; tr. it.: 105). Ma non sono certo che questo punto sia, come vorrebbe
Simmel, la morte. piuttosto, credo, sia quella forma di sguardo che è stato chiamato sub specie aeternitatis:

sguardo capace di nutrire la vita, nonostante tutto.27

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27 «1669. Soixante-trois ans de deuil en deuil. Le 23 avril est mort Harmen Gerritszoon van Rijn, son père. En
dècembre 1635 est mort son premier fils, Rombertus; en Juillet 1638 est mort sa première fille Cornelia qui ne vécut
pas un mois. En Juillet 1640 est mort sa seconde fille, Cornelia elle encore, comme la mère de Rembrandt qui meurt
cette meme anneée en septembre à Leyde. Le 14 juin 1642 est mort à trente ans Saskia van Uylenburch, sa femme.
En novembre 1652 est mort le dernier de ses frères Adriaen comme cette meme année est mort son premier fils
d’Hendriekje. A la fin de julliet 1663 est mort cette Hendriekje Stoffelsdochter Jaegher désignée dans le testament
qu’elle fit établir en 1661 comme l’était Saskia dans un testament de 1642, par le meme mots juffrouw – madame – et
huisrouw – maitresse de maison, epouse – van Rembrandt. Le 4 septembre 1668 est mort à vingtsept ans Titus, son
fils» Bonafoux 1985: 128. Nonostante questo, è vero per Rembrandt, a mio avviso, quanto scrive Spinoza nella
proposizione 67 della quarta parte dell’Etica: «L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte e la sua
sapienza non è meditazione della morte, ma della vita».
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