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MOUNIER E L’ANSIA PER L’UOMO

(pp.17-36)
Mounier nacque a Grenoble nel 1905 da una famiglia di origine contadina. Il padre lo avviò dopo il
liceo verso gli studi di medicina però Mounier dopo un ritiro spirituale nel 1924 decise di lasciare gli
studi di medicina e di iscriversi alla facoltà di filosofia.

Mounier terminò gli studi nel 1927 e subito dopo si trasferì a Parigi dove conobbe importanti filosofi
tra cui lo stesso Maritain e inoltre ebbe la possibilità di avvicinarsi alla filosofia realistica, ad un
orientamento apostolico e fu fortemente influenzato dalla crisi culturale e socio-politica del 1929 che
interessò la Francia e in generale tutta l’Europa. Difronte a questa crisi Mounier e altri giovani diedero
vita alla rivista Esprit nel 1932. Una rivista con la quale Mounier cercò di dare voce a tutte quelle
persone che stavano subendo una crisi spirituale. Questa rivista si diffuse ben presto in tutto il mondo
grazie anche all’appoggio di Maritain e inoltre influenzò diversi gruppi che premevano per
un’autonomia culturale e politica dell’Europa rispetto all’USA e l’URS (America e Russia). Tra
questi gruppi che furono stimolati dalla rivista di Mounier ricordiamo la rivista italiana “Cronache
Sociali”. L’obiettivo di tutte queste riviste, di questi gruppi era proprio quello di dare vita, di
recuperare una tradizione di libertà e di spiritualità alimentata dal Cristianesimo.

Mounier nel 1935 si sposa con Leclerq e dal 1936 al 1939 insegna filosofia a Bruxelles anche per
sostenere i costi della sua rivista. Nel 1939 scoppia la guerra e durante la seconda guerra mondiale
Mounier partecipò alla resistenza contro il nazi-fascismo e morì a soli 45 anni nel 1950 a causa di
problemi cardiaci.

Mounier fondò il personalismo comunitario cioè una corrente filosofica che non solo mette al primo
posto delle sue riflessioni la persona ma a differenza delle correnti filosofiche basate sul personalismo
il suo personalismo comunitario cerca di ridar vita ad un rinascimento della Francia e in generale
dell’Europa abolendo l’individualismo e il collettivismo per ridare voce alla persona, all’uomo visto
come soggetto di libertà teso alla comunità e aperto alla trascendenza. Quindi cerca di dar vita ad una
corrente filosofica che ridia dignità alla persona affinché l’uomo non venga più visto come uno
strumento ma come un vertice da cui partono tutte le strade del mondo. Quindi una difesa della
persona da ogni oppressione materiale, spirituale e culturale per giungere ad un vero e proprio
rinnovamento totale della civiltà. Mounier inoltre non parla solo di personalismo alla comunità ma
parla di personalismi cioè usa un termine al plurale in quanto secondo Mounier il personalismo
cristiano e quello agnostico e quindi i personalismi dei credenti e quello dei non credenti seppur
partino da punti differenti però entrambi cercano di ridare importanza e dignità alla persona quindi
entrambi si incontrano per affermare il primato della persona e della sua dignità. Nonostante Mounier
abbia dato vita ad una teoria della persona non ha mai definito cosa sia la persona perché per lui è
indefinibile, non è un oggetto ma un processo, un impegno, una presenza, una libertà, un rapporto
con gli altri, è un qualcosa in divenire, mai del tutto realizzato o compiuto e proprio per questo è
indefinibile e non può essere definita, non gli si può attribuire una definizione infatti per Mounier si
possono definire solo gli oggetti posti al di fuori dell’uomo e che l’uomo può porsi sotto gli occhi.
Quindi possiamo definire solo gli oggetti esterni all’uomo ma la persona è ciò che è presente in ogni
uomo, non è un oggetto esterno all’uomo ma fa parte dell’uomo, quindi non può essere definita. Per
Mounier la persona rappresenta il volume totale di ogni uomo ed è formata da 3 dimensioni spirituali:
lunghezza, larghezza e profondità. Porta l’uomo ad un equilibrio in lunghezza, larghezza e profondità.
Abbiamo una dimensione che sale dal basso e che incarna l’uomo in un corpo poi abbiamo una
dimensione che è diretta verso l’alto e che solleva l’uomo verso l’universale e poi abbiamo una
dimensione che è diretta verso il largo e porta l’uomo verso una comunione. Quindi possiamo
chiamare queste 3 dimensioni la prima incarnazione, la seconda vocazione e la terza comunione.
Queste 3 dimensioni possono essere messe in atto attraverso 3 esercizi: l’incarnazione attraverso
l’impegno, la vocazione attraverso la meditazione e la comunione attraverso l’esercizio della
spogliazione e se alla persona manca uno di questi esercizi è condannata all’insuccesso.

Analizzando queste 3 dimensioni singolarmente, partendo dall’incarnazione infatti Mounier nel suo
personalismo si allontana dall’unidimensionalità di tutte le correnti filosofiche secondo cui la persona
o è solo materia o è solo spirito e secondo Mounier invece la persona è sia materia che spirito, è
entrambe le cose, è sia anima sia carne, sia coscienza sia gesto, sia atto sia espressione quindi la
persona secondo lui non può essere solo spirito altrimenti non avrebbe nessun contatto reale con il
mondo e sarebbe priva di strumenti da utilizzare sul mondo stesso. E non è neanche solo materia in
quanto se lo fosse sarebbe una cosa senza libertà, senza iniziativa, senza impegno perciò si allontana
dallo stesso Cartesio che aveva separato la materia dallo spirito. Quindi Mounier afferma che non
posso pensare senza essere ed essere senza il corpo quindi siamo entrambe le cose, la persona è
formata sia dalla materia e sia dallo spirito.

La seconda dimensione della persona è la vocazione. Ovviamente secondo Mounier questa


dimensione acquista significato solo per il cristiano e quindi per il credente e attraverso essa
l’individuo riesce ad auto trascendersi per rispondere al piano di Dio e quindi grazie a questa
vocazione riesce ad avere un rapporto con l’assoluto. Queste 2 ultime dimensioni (incarnazione e
vocazione) si realizzano, trovano una più completa realizzazione ed espressione nella terza
dimensione della persona: la comunione. Infatti Mounier non concepisce la persona come un qualcosa
di solitario ma per Mounier la persona è in continua relazione con l’altro. La comunità quindi non
limita la persona ma permette ad essa di essere e di svilupparsi. Quindi la persona esiste solo grazie
al rapporto con gli altri, si conosce attraverso gli altri, si ritrova negli altri quindi è importante la terza
dimensione attraverso cui le altre 2 trovano il loro coronamento.

Sulla base di quanto detto possiamo dire che la persona per Mounier si realizza attraverso una
comunità e in particolar modo una comunità di persone cioè che quando la persona esce
dall’anonimato cioè quando una persona diventa qualcuno per una seconda persona e quindi quando
si crea un tu, un rapporto tra 2 persone. Quindi da questo capiamo che la comunità si crea grazie a
più persone e allo stesso tempo anche la persona non può esistere senza comunità, la persona assume
significato grazie alla comunità e in questa comunità il posto di ogni persona è autentico. Ogni
persona nella comunità non può essere interscambiabile, nessuno è subordinato all’altro o alienato
all’altro. Ognuno è unico ed è in relazione con l’altro, esiste per l’altro, al servizio dell’altro. Questa
comunità non distrugge i tratti specifici di ogni persona ma consente a quest’ultima di esprimere al
meglio i propri valori più autentici e profondi. A questo punto Mounier ha individuato diversi tipi di
comunità e quindi andare a vedere quali forme di comunità riescono ad integrare le persone e quali
invece non lo fanno.
Vediamo le diverse tipologie di comunità secondo Mounier: al livello più basso ci sono le comunità
dette masse o società impersonali, comunità cioè spersonalizzate, caratterizzate da anarchia e
tirannide in cui c’è un senso di anonimato e le forze della tirannide spesso approfittano di questo
anonimato per usarlo a proprio vantaggio e queste comunità sono tipiche delle società piccolo
borghese. A un gradino più elevato troviamo le società in noi altri tipiche delle società fasciste quindi
società in cui la comunità è assente proprio perché la massa è priva di personalità, è passiva, docile
ed è guidata da un uomo forte. Quindi c’è un forte individualismo, non si parla di un noi, è un'unica
persona che guida un’intera massa. A un livello superiore troviamo le società vitali in cui i valori
predominanti sono il piacere, la felicità e l’utilità. Queste società vitali sono quindi chiuse ed
egoistiche in quanto non sono guidate da un’autentica comunità spirituale. Quindi sono società
illusorie in quanto c’è solo un’esaltazione di forze vitali e non forze spirituali. Al quarto livello
troviamo una società razionale basata sia sulla concordia degli spiriti, sia sulla concordia dei
comportamenti però questa società razionale porta ad un compromesso, non porta ad un rapporto
interpersonale bensì porta ad un compromesso fra i vari egoismi che non mette in comunione gli
uomini ma li aizza gli uni contro gli altri. Questa società razionale è tipica delle nostre società e delle
democrazie borghesi.

Quindi sulla base di questi vari tipi di società di comunità, Mounier sottolinea che la comunità
autentica non esiste se non grazie all’unione di due persone cioè secondo lui la vera comunità è una
persona nuova che unisce diverse persone legandole nell’intimo. Da questo deduciamo che per parlare
di comunità non possiamo non parlare di persone e quindi dobbiamo necessariamente parlare di
comunità personalista che può essere definita anche come una persona di persone. Quindi questa
comunità personalista si realizza solo nella reciprocità delle persone, grazie al rapporto d’amore che
si crea tra due persone che va oltre ogni costrizione, ogni interesse vitale ed economico e che va oltre
ogni istituzione estrinseca. L’amore quindi è l’unità della comunità e senza esso la stessa persona non
può esistere.
LA SCELTA CULTURALE DELL’OCCIDENTE
(pp.23-51, 53-75)

Per definire il concetto di globalizzazione il filosofo francese Dortier ha utilizzato l’espressione di


“distruzione creatrice delle culture”, infatti la globalizzazione non è altro che un processo di sviluppo
capitalistico e di produzione di nuova ricchezza un processo che però distrugge i vecchi assetti
produttivi e di mercato producendo omogeneizzazione, differenziazione, ripiegamento identitario e
meticciato. Tuttavia, nonostante questa globalizzazione, le società contemporanee immerse in essa,
da lontano appaiono uniformi, tra loro somiglianti ma se le analizziamo da vicino in realtà ognuna di
loro ha una propria diversità culturale, perciò possiamo dire che le società occidentali contemporanee
attraverso questo processo di globalizzazione sono diventate multiculturali, multietniche e
multireligiose; si è venuta a creare così una cultura pluralistica. In generale questo multiculturalismo
da una parte presuppone una convivenza meccanica tra culture eterogenee tra di loro che non
comunicano per la loro eterogeneità ma dall’altro lato questo multiculturalismo si pone come una
pratica di dialogo culturale complesso e proprio per questo rimanda ad un apprendimento reciproco
fra culture diverse alla ricerca costante di compromessi ed intese. Inoltre è bene sottolineare che il
multiculturalismo non deve essere considerato l’opposto del pluralismo ma ne costituisce un
prolungamento e un arricchimento di quest’ultimo, per cui possiamo dire che il pluralismo della
tradizione liberale è una teoria che viene incorporata nei principi democratici di integrazione e di
inclusione della diversità, della differenza e dell’alterità, principi necessari di fronte ai mutamenti che
sono stati portati dal processo di globalizzazione. Quali sono questi mutamenti?
- con la globalizzazione si è passati dagli imperi multinazionali (ad es. l’ex Unione Sovietica)
agli stati democratici e multinazionali;
- è venuto meno il monopolio e l’identità della nazione a favore dei movimenti regionalistici,
femministi, omosessuali, ecologici, ecc…;
- negli anni ’90 le organizzazioni dell’ONU e dell’Unione Europea hanno sottolineato che la
diversità etnica e i diritti delle minoranze sono coerenti e anche la precondizione per
salvaguardare l’ordine internazionale e proprio per questo nel 2001 l’UNESCO ha pubblicato
la Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale affermando che la diversità culturale è
proprio il patrimonio comune dell’umanità e anche che è importante mettere a punto delle
politiche pubbliche che possano promuovere l’integrazione e la partecipazione di tutti i
cittadini per giungere alla coesione speciale, alla vitalità della società civile e alla pace.
Per tutti questi motivi presentati dall’UNESCO all’interno del pluralismo culturale si sente l’esigenza
di riconfigurare le istituzioni al fine di renderle ospitali verso le differenze e solo in questo modo si
potrà raggiungere l’uguaglianza e per raggiungere quest’ultima bisogna mettere in atto delle forme di
intersoggettività o giochi linguistici o sfere di riconoscimento aperte al dialogo e all’interpretazione
di tutti i partecipanti. Tuttavia il pluriculturalismo non deve essere inteso come coesistenza di più
comunità chiuse tra loro, ognuna con le proprie differenze ma per pluriculturalismo intendiamo
coniugare il diritto all’uguaglianza, al diritto alla differenza, all’appartenenza e il diritto di uscirne in
qualsiasi momento, una sfida questa che deve essere attuata in tutte le società multiculturali e
multietniche.

Senn ha sottolineato che con il diffondersi della globalizzazione si è intensificato il processo della
migrazione moltiplicando quasi ovunque la presenza di gruppi etnici e di comunità di immigrati,
gruppi cioè che esigono, dalle popolazioni che li hanno accolti, il rispetto delle proprie identità
culturali e per loro è importante avere un posto di lavoro, un’istruzione scolastica ma al tempo stesso
è importante anche che la loro storia sia riconosciuta, rispettata e che anche le loro feste religiose
vengano considerate festività ufficiali e per questi immigrati è anche importante sapere che i loro figli
vivranno in una società eterogenea e non in una società in cui si dovranno conformare ad una cultura
dominante. Cosa vuol dire non conformarsi ad un’unica cultura dominante? Significa disgregare
l’ordine sociale e politico di una società democratica e affinché ciò non avvenga è importante evitare:
- un multiculturalismo a mosaico, cioè la frammentazione di comunità divise da pareti
insormontabili;
- il liberalismo politico, cioè una strategia di neutralizzazione, di assimilazione e di
omogeneizzazione.
Ovviamente una strategia molto lontana dal concetto di democrazia creativa che elabora Dewey
secondo cui una società è democratica nel momento in cui riesce a tenere insieme culture diverse
all’interno di istituzioni da cui vengono riconosciute come una propria proiezione e un proprio
prolungamento. Tuttavia non possiamo dimenticare che in una qualsiasi società democratica fondata
sul pluralismo culturale è sempre presente una culturale dominante e tante culture dominate, cioè una
cultura ospitante e tante culture ospitate; nonostante ciò, in una società democratica si viene a creare
una vasta gamma di relazione fra tutte queste culture (dominante e dominate) che vanno dal dialogo
aperto alla ricerca del compromesso, da pratiche di armonizzazione all’intesa e all’adattamento
reciproco, utilizzando accordi informali e forme di negoziazione. Tutte queste azioni sottolineano il
fatto che nelle società democratiche non può certamente avvenire un’integrazione delle culture
dominate basata sulla semplice omologazione delle differenze culturali; inoltre per evitare
l’esclusione sociale di queste culture differenti e dominate, Gramsci e Arendt presentano una preziosa
lezione per le società democratiche.
Gramsci presenta il concetto di egemonia con cui traccia una distinzione tra il concetto di dominio,
che implica il ricorso alla forza e alla violenza, e il concetto di direzione intellettuale e morale che
invece richiede la costruzione di un’egemonia culturale; perciò per direzione intellettuale e morale
possiamo intere la capacità di aprirsi all’alterità e alla diversità quindi è importante che una società si
basi su questa egemonia culturale.
Hannah Arendt invece parla di ontologia della pluralità definendola come il nomos della Terra che è
radicata nel pensiero di ogni essere umano. La Arendt afferma che la sfortuna della culture dominate
nel non essere riconosciute dipende dalla perdita di una comunità politica che le esclude dall’umanità;
quindi la loro sfortuna non dipende dalla perdita di specifici diritti ma dalla perdita di una comunità
disposta e capace di riconoscere e riconoscere ogni loro diritto. Senza tale comunità, le culture diverse
perdono la dignità umana, vengono private anche di uno spazio pubblico in cui esprimere le proprie
opinioni e agire con gli altri, cioè uno spazio in cui le loro opinioni hanno un peso e le loro azioni
hanno un effetto. Quindi la cultura dominante verrà considerata democratica nei confronti delle
culture dominate solo se sarà in grado di instaurare dei rapporti con queste ultime che si basano su un
reciproco equilibrio riflessivo e questo può avvenire solo se la cultura dominante favorisce l’apertura,
la tolleranza, l’alterità, cioè essa potrà riconoscere le altre culture solo se sarà in grado di riconoscere
l’altro. Con questo concetto di equilibrio riflessivo ci rendiamo conto che la comprensione o il
riconoscimento delle altre culture non è un gesto di buona volontà ma implica una capacità di
ragionamento e di esame critico delle varie posizione diverse dalla propria. Questo confronto può
avvenire solo nella sfera pubblica in cui, grazie ad un esame critico, è possibile avere una traduzione
dei rispettivi linguaggi e persino un arricchimento dei vocabolari degli attori sociali e culturali. Quindi
da ciò capiamo che l’incontro di due gruppi di uomini può portare al loro allontanamento oppure al
venirsi incontro, scendere a patti; da ciò capiamo che il dono della cittadinanza non è un dono gratuito
ma agonistico in quanto la cittadinanza viene data agli altri affinché questi ultimi vengano riconosciuti
come uguali e diversi, altri che non fanno altro che lottare per il riconoscimento dei propri diritti e
questa cittadinanza viene data soprattutto per raggiungere un’alleanza tra cultura dominante e culture
dominate. Infine la cittadinanza non è un bene sociale che viene solamente redistribuito ma diventa
una posta in gioco attraverso cui la cultura dominante (la società democratica) riesce a trasformare il
pluralismo culturale in un valore, in una chance di allargamento della libertà di tutti e di ciascuno; in
questo caso perciò sarà prioritaria la presenza di una comunità politica, retta da istituzioni
democratiche che è chiamata a realizzare una politica del riconoscimento di culture estranee tra di
loro e che vogliono preservare il proprio modo di essere.

Abbiamo visto il pluralismo culturale a livello nazionale, sul piano internazionale, al giorno d’oggi,
stiamo assistendo ad un intreccio tra il pluralismo culturale e il pluralismo del mercato globale, cioè
il pluralismo culturale presente a livello internazionale sta scaturendo proprio grazie alla
congiunzione tra economia a cultura mentre nel passato, a differenza di oggi, per spiegare
l’evoluzione del concetto di modernità gli scienziati e i filosofi avevano postulato la presenza di un
modello universale di modernizzazione che si rifaceva alla cultura dominante e a cu tutti i popoli
avrebbero dovuto adattarsi; quindi tutte le culture dominate avrebbero dovuto adeguarsi per uscire da
una situazione di arretratezza e di sottosviluppo. Nel tempo ovviamente questa credenza si è rivelata
falsa in quanto in realtà esistono molteplici forme di modernità o di accesso alla modernità; infatti a
partire dal secondo dopoguerra c’è stata una rinascita economica dell’Oriente (Giappone, Taiwan,
Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Thailandia e Cina a partire dagli anni ’90) che fin a quel
momento era stato considerato inferiore rispetto al dominio europeo e statunitense. Per quanto
riguarda la Cina, la sua modernizzazione non ha seguito le norme del modello staliniano e neanche
le orme della rivoluzione industriale in Occidente bensì sulla rivoluzione industriosa e sulla sua base
rurale cioè una modernizzazione che si è rifatta alle origine della Cina risalenti al XVIII sec. Quando
i teorici cinesi affermavano già che il mercato è uno strumento del governo ma, nonostante ciò, non
bisogna fondare un mercato laissez faire in quanto esso avrebbe portato alla scomparsa di un’armonia
sociale tipica dell’ideale confuciano perciò la modernizzazione cinese è sembrata un tipo di modernità
del tutto originale, proprio perché non si è rifatta al modello Occidentale ma alle proprie origini. Di
fronte all’analisi della modernizzazione cinese, Arrighi ha elaborato la proposta politica di Beijing
Consensus, cioè una proposta politica attraverso cui la Cina si apre alle altre nazioni dando loro la
possibilità di giungere allo sviluppo economico, all’autonomia politica e alla preservazione del
proprio modo di vivere; quindi, secondo tale proposta, è importante congiungere l’economia e la
cultura, l’economia e la morale, concetti che l’Occidente aveva dissociato lungo la sua storia e che
invece la Cina invece ricongiunge; perciò sulla base di questo Beijing Consensus, la stessa Arrighi
sottolinea che la diversità culturale non deve essere più vista come un mezzo per raggiungere lo
sviluppo umano e per spiegare il multiculturalismo come affermava Senn ma come un fine in sé, in
quanto ciò che conta è conservare la propria diversità culturale. In questo modo la diversità culturale
diventa un concetto esogeno, un concetto esterno alla propria realtà e di conseguenza il problema
delle minoranze culturali viene cancellato, eliminato, non più preso in considerazione proprio perché
ognuno si sofferma sulla propria realtà ignorando tutte le altre. Questa rimozione, però, non è altro
che un monoculturalismo plurale attraverso cui viene meno il famoso equilibrio riflessivo visto
precedentemente e tutto ciò porta a dei disastri economici proprio perché non si considera più
l’alterità, non si considerano più le differenze culturali e quindi il pensiero di Arrighi non è corretto
e per evitare questi disastri economici è importante guardare il nesso tra economia e cultura nell’ottica
dello sviluppo umano, cioè considerare le differenze culturali come un mezzo per lo sviluppo umano
così come affermava Senn; in caso contrario si cadrebbe in un monoculturalismo plurale
rappresentato da stati culturalmente omogenei preoccupati solo di allontanare dalla propria realtà tutte
quelle realtà che considerano minaccianti per se stesse.

Il diritto ad avere diritti significa avere diritto ad appartenere all’umanità e proprio per questo è
importante che questo diritto venga garantito dall’umanità stessa. Per quanto riguarda il punto di vista
della Arendt, ella ha cercato di chiarire l’origine di tali diritti che un tempo era di tipo metafisico, cioè
diversi anni fa, nel secolo scorso, si pensava che l’essenza umana derivasse dalle leggi della natura o
dalla rivelazione divina o dalle tradizioni ereditarie e sulla base di questi fattori si includeva o si
escludeva al genere umano un gruppo piuttosto che un altro, un popolo o un individuo piuttosto che
altri. Invece a partire dal XX sec. la Arendt ha diffuso una prospettiva post-metafisica attraverso cui
ha affermato che l’appartenenza al genere umano non dipende dalle leggi della natura o da Dio o da
tradizioni ereditate ma tale appartenenza è sia trascendentale e sia storicamente determinata.
Trascendentale in quanto lo stesso genere umano si pone come idea regolativa dell’intera umanità e
attribuisce ad ogni umano un’idea di redenzione da qualsiasi forma di oppressione, sopraffazione e
violenza; inoltre il genere umano è storicamente determinato perché è un concetto che ha bisogno di
una continua lotta per i diritti. Nonostante le idee della Arendt, la prima contraddizione che ha
riguardato tali diritti umani si è avuta quando essi sono stati identificati con i diritti nazionali. La
nazionalizzazione dei diritti umani non ha fatto altro che confinare e circoscrivere tali diritti nei
confini di uno stato o di una nazione e in questi confini sono state confinate anche le lotte per questi
stessi diritti. Tutto ciò ha portato:
1) conquista di prima generazione, cioè tutti i diritti civili e politici necessari per regolare i
rapporti tra Stato e società;
2) conquista di seconda generazione, cioè diritti economici, sociali e culturali, vale a dire diritti
di cittadinanza in senso lato;
3) conquista di diritti relativi alla differenza dei sessi.
Tutti questi diritti vengono visti come delle opzioni, delle opportunità di scelta di cui ogni individuo
dispone, però affinché questa scelta sia fattibile è importante corrispondere un’offerta adeguata ad
ogni diritto affinché sia attuabile la facoltà di scegliere. Nonostante ciò, dopo il secondo dopoguerra,
molti individui si sono ritrovati sena patria e senza mondo e questo ha messo in crisi la nazionalità
dei diritti vista precedentemente, ha messo in crisi il concetto dei diritti nazionali secondo cui per
avere un posto nel mondo è necessario far parte di uno stato, di una comunità nazionale; al di fuori di
esse un individuo non ha né cittadinanza e né godimento dei diritti fondamentali (es. diritto alla vita),
per cui tali individui possono essere facilmente sacrificati. Tutto ciò non riguarda solo il passato ma
è ciò che si sta ripresentando sotto i nostri occhi, nella nostra epoca infatti tutta l’umanità è chiamata
a garantire il diritto ad avere diritti ma c’è una mancanza di strumenti politici adeguati che rendano
possibile tale compito. Perciò è importante al giorno d’oggi attuare una società democratica in cui
non è più ammissibile l’idea secondo cui un individuo possa essere sacrificato per il bene di pochi o
di molti, non sono più giustificabili meccanismi vittimari che portano l’altro ad essere escluso dalla
comunità e dallo stesso genere umano e quindi l’etica della democrazia è universalistica proprio
perché anti-sacrificale. Perciò non possiamo più far corrispondere la salvaguardia dei diritti del
mondo all’appartenenza di uno stato o di una nazione ma al fatto stesso di far parte del genere umano
e per far ciò è importante attuare una vera e propria una rivoluzione copernicana della nostra cultura
e ciò porta a due conseguenze:
- l’etica dell’ospitalità, cioè una universale accoglienza, vale a dire che si crea un mondo in cui
siamo tutti ospiti e nessuno servo o signore;
- l’universalismo democratico, cioè una società democratica che supera la prova dell’alterità e
quindi i diritti vengono visti come un bene comune e non come delle prerogative soggettive,
perciò siamo tutti uguali.
Solo in questo modo si potrà garantire la neutralità delle procedure e l’uguaglianza di tutti di fronte
alla legge, però è importante non dimenticare e riconoscere le differenze culturali non come se fossero
qualcosa di fisso e di immutabile ma come strutture articolate che dipendono da atteggiamenti e
tradizioni diverse.

La fida di questo universalismo democratico è quella di favorire in tutti gli individui una percezione
di se stessi come identità multiple, ad es. membri di una comunità culturale, cittadini di uno stato,
credenti di una particolare religione ecc… In questo modo i diritti umani non vengono più visti come
prerogativa di un unico individuo ma vengono uniti tutti come diritti di cittadinanza; inoltre i diritti
umani ricevono una luce nuova se vengono pensati in relazione a capacità umane che non devono
essere intese come potenzialità generali ma come delle possibilità per funzionare dette anche
capabilities. Nussbaum presenta proprio una lista di queste capacità che se vengono coltivate rendono
una vita degna di essere vissuta e tra questa lista ricordiamo la durata, la salute fisica, l’integrità fisica,
la possibilità di utilizzare i propri sensi, la propria immaginazione e il proprio pensiero in modo
informato; tra questa lista le capacità più importanti per Nussbaum sono la ragion pratica e
l’appartenenza. Per ragion pratica intendiamo essere in grado di capire ciò che è bene e ciò che è male
e anche impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita; mentre per
appartenenza intendiamo innanzitutto il saper vivere per gli altri e con gli altri e mostrare
preoccupazione per l’altro, impegnarsi anche in diverse interazioni sociali, in secondo luogo, invece,
intendiamo anche avere rispetto per se stessi e non essere umiliati, quindi farsi trattare come persona
dignitosa il cui valore è uguale a quello altrui. Dunque possiamo concludere affermando che pensare
ai diritti umani in termini di capacità combinate, da un lato ci porta a conoscere le condizioni di vita
reale delle persone al fine di mettere in atto delle azioni di aiuto più efficaci e portare gli altri a
sviluppare le proprie capacità, dall’altro invece si favorisce una lotta affinché questi diritti vengano
riconosciuti e applicati concretamente.

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