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GIOTTO

Pittore e architetto fiorentino, nato, secondo la tradizione, a Vespignano nel Mugello intorno al 1267, attivo tra la fine del Duecento
e la prima metà del Trecento. Artista-simbolo dell'intero Medioevo, G. conobbe particolare e vastissima fama anche presso i propri
contemporanei. Di tale fama sono anzitutto testimonianza le numerosissime citazioni e trattazioni che lo riguardano, presenti in
fonti letterarie e documentarie sin dai primi decenni del Trecento. Anche nella trattatistica - a partire da quella di stampo
umanistico e in seguito nella letteratura biografico-critica - la personalità artistica di G. fu costantemente presente agli intellettuali
del tempo, in quanto unanimemente riconosciuta come momento di snodo della cultura pittorica occidentale, in un'ottica
anticipatrice dei valori formali - ma anche ideali - del Rinascimento.

Le fonti

Celeberrima è, tra tutte le testimonianze antiche, la terzina che Dante Alighieri dedica al maestro nel canto XI del Purgatorio:
"Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura" (vv. 94-96). Ma essa non
è che la prima - allo stato delle conoscenze - menzione del pittore come assoluto protagonista e dominatore del panorama
figurativo del tempo, ruolo che egli si trovò a incarnare e simboleggiare con rapidità sorprendente. E proprio da questa terzina può
aver preso le mosse la tradizione che dalla fine del Trecento vuole G. allievo nella bottega di Cimabue (Salvini, 1938). Pur mancando
precisi riscontri di natura storico-documentaria, tale tradizione - non senza fondamento - ha conosciuto a livello storiografico una
durevole fortuna (v., tra gli altri, Previtali, 1967; Caleca, 1978; Bellosi, 1985).Virtualmente contemporanea al riconoscimento
dantesco, in quanto da collocarsi entro il 1313 (Gnudi, 1959; Hankey, 1991), è la notizia riportata nella Compilatio chronologica di
Riccobaldo da Ferrara, che riferisce dell'attività del maestro fiorentino ad Assisi, Rimini e Padova, definendolo pictor eximius. E ben
presto, nel corso del Trecento, si moltiplicano le citazioni che lo riguardano, da parte di cronachisti, letterati e artisti, da Giovanni
Villani ad Antonio Pucci, a Francesco Petrarca, a Giovanni Boccaccio (v.), da Franco Sacchetti a Cennino Cennini (v.). E proprio a
Boccaccio si deve forse la prima, meditata valutazione critica delle novità dell'arte giottesca, quando scrive che il pittore "ebbe uno
ingenio di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con
lo stile e con la penna e col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che
molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era
dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni che più a dilettar gli occhi
degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savi dipigneano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina
gloria dir si puote" (Decameron, VI, 5). Risaltano, in questa breve ma pregnante pagina di Boccaccio, due parametri interpretativi
fondanti: in primo luogo il riconoscimento dell'aderenza al reale della pittura di G. e, parimenti importante, la sottolineatura dello
spessore intellettuale del suo fare artistico, rivolto al soddisfacimento del senso estetico dei 'savi' del suo tempo (Stewart, 1983;
Ciccuto, 1991).Forse più 'tecnico', ma non per questo meno significativo, il giudizio di Cennino Cennini, pittore e trattatista
formatosi nella bottega di Agnolo Gaddi (v.); nel primo capitolo del Libro dell'Arte, la cui stesura si colloca nell'ultimo decennio del
Trecento, egli afferma infatti che G. "rimutò l'arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte più compiuta
che avessi mai più nessuno". L'icasticità delle parole di Cennino bene evidenzia il concetto che, per gli artisti delle generazioni
successive, l'opera di G. costituiva il culmine della modernità e della 'innovazione' nel fare artistico e, comunque, un picco di
eccellenza considerato inarrivabile. La stessa eccellenza è riconosciuta a G. da Petrarca, il quale registra anche, per il suo tempo, la
superiorità in senso qualitativo della pittura sulle arti plastiche (Rerum familiarium libri, a cura di V. Rossi, II, Firenze 1933, p. 39).
Così pure altri umanisti, come Pietro Paolo Vergerio (Epistolario, 1396) o Leonardo Bruni (Epistolarum libri VIII, ca. 1435), volendo
citare il nome di un pittore 'per eccellenza', pensano in primis a quello di G., anche nell'ambito di contesti speculativi non
direttamente inerenti le arti figurative (Baxandall, 1971; trad. it., p. 67ss.). Il maestro è ormai entrato a pieno titolo nel novero dei
massimi artisti del passato, divenendo un vero e proprio tópos umanistico, al pari di Fidia e Apelle. E con le parole dedicate a G. da
Filippo Villani (Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, a cura di G. Camilli Galletti, Firenze 1847, p. 35) si
definisce il binomio - da quel momento in poi inscindibile - tra il pittore e la 'gloria' da questi apportata alla città di Firenze e alla sua
identità storica (Venturi, 1925; Baxandall, 1971).E da questa stessa epoca le fonti cominciano a fornire anche qualche scarna notizia
sui dati biografici di G.; in particolare Giovanni Villani (Nuova cronica, XI, 12; 1340 ca.) riporta la data di morte del pittore, l'8
gennaio 1336, e la sua sepoltura, a cura del Comune di Firenze, in S. Reparata. Registrando la stessa data, Antonio Pucci
(Centiloquio, LXXXV, vv. 90-91; 1373) afferma che G. al momento della morte aveva un'età di settanta anni, fissandone quindi, sia
pure indirettamente, la nascita nel 1266-1267.Alla vigilia della nascita di una moderna storia dell'arte, Lorenzo Ghiberti
(Commentari) tracciò un profilo dell'attività di G., fondando la struttura di un primo, importantissimo corpus delle opere. Sul piano
critico, Ghiberti ne ribadì il ruolo di rinnovatore dell'arte pittorica ("Arrechò l'arte nuova, lasciò la roçeza de' Greci"), nel senso di un
misurato ed elegante naturalismo ("Vide Giotto nell'arte quello che gli altri non agiunsono. Arecò l'arte naturale e la gentileza con
essa, non uscendo dalle misure"). Tra le altre, viene nei Commentari ghibertiani riferita la tanto famosa quanto problematica
notizia relativa alla decorazione della basilica di S. Francesco in Assisi (v.), dove G. dipinse, secondo l'autore, "quasi tutta la parte di
sotto".Al 1530 ca. risale il Libro di Antonio Billi, che contiene un lungo elenco di opere riferite al maestro. Un ampio e dettagliato
catalogo dei dipinti giotteschi si ritrova anche nel testo dell'Anonimo Gaddiano, databile verso il 1540 (Firenze, Bibl. Naz.,
Magliabechiano, cl. XVII.17), che anticipa di circa un decennio la prima edizione delle Vite di Giorgio Vasari (1550). Anche nel testo
dell'Anonimo compare la notizia, evidentemente mutuata da Ghiberti, riguardante l'esecuzione da parte di G. di "quasi tutta la
parte di sotto" della basilica assisiate. In queste trattazioni appaiono ormai definitivamente stabilite le località in cui il pittore lasciò
tracce della propria attività: Assisi, Padova, Roma, Napoli e, naturalmente Firenze; non sempre, però, coincidono le indicazioni sulle

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opere realizzate e sulle loro collocazioni nei diversi ambiti monumentali. Fu Vasari, nelle Vite, a tentare la prima sistemazione
cronologica e critica del percorso giottesco, nella quale incertezza e problematicità appaiono evidenti dalle correzioni apportate
nella seconda redazione, del 1568. In particolare viene spostata la sequenza dei soggiorni romano e napoletano; nella prima
edizione, infatti, subito dopo l'attività assisiate G. si sarebbe recato prima a Roma e poi a Napoli, mentre nella seconda tra Assisi e
Roma si collocherebbe un periodo di lavori per Pisa, poi, appunto, il viaggio a Roma, subito dopo sarebbe stato attivo a Firenze e in
seguito ad Avignone, chiamato da papa Clemente V. Il soggiorno a Napoli si porrebbe nella parte finale dell'attività di G., nato,
secondo Vasari, a Vespignano nel 1267 e morto a Firenze l'8 gennaio 1336 (secondo lo stile fiorentino, in realtà 1337), data
quest'ultima che coincide con quella per la prima volta riportata da Giovanni Villani nella Nuova cronica. Ciò che fa del testo
vasariano un caposaldo della critica giottesca, più che nel giudizio storico complessivo sul maestro, risiede nel fatto che si tratta di
una prima vera e propria trattazione biografica completa. I riferimenti alle opere, elencate minuziosamente e in numero davvero
sovrabbondante, i diversi aneddoti riguardanti la vita dell'artista e, soprattutto, la costante affermazione della sua funzione di
caposcuola e guida della pittura italiana del Trecento, alla cui bottega si sarebbero formati tutti i maggiori artisti del tempo, hanno
fatto di Vasari il vero e proprio "codificatore della fama di Giotto e insieme del suo mito, e dei pregiudizi che graveranno per oltre
due secoli e mezzo sulla critica", per citare una attenta definizione di Salvini (1938, p. VII). Quanto il biografo aretino ritenesse
innovatrice l'arte di G. può essere evidenziato ricordando, tra i tanti possibili, un breve passo riguardante il polittico della cappella
Baroncelli in Santa Croce a Firenze, su cui egli poté leggere data e firma: "E perché in questa opera è scritto a lettere d'oro il nome
suo et il millesimo, gl'artefici che considereranno in che tempo Giotto, senza alcun lume della buona maniera, diede principio al
buon modo di disegnare e di colorire, saranno forzati averlo in somma venerazione" (Le Vite, II, 1967, p. 99). È evidente qui, tra
l'altro, la preoccupazione di Vasari di affrancare G. dal giudizio globale e profondamente negativo nei confronti dell'arte del
Medioevo, che l'autore mutua meccanicamente dalle ben più consapevoli e meditate considerazioni ghibertiane sull'arte dei 'greci';
ciò in quanto il pittore, nella costruzione storica vasariana, veniva considerato come l'ideale iniziatore - insieme a Cimabue e
Arnolfo di Cambio - di quella scuola toscana, anzi fiorentina, che avrebbe toccato con Michelangelo il culmine della sua espansione
e gloria. Sulla scia di Vasari si muove la maggior parte degli scrittori di cose d'arte del tardo Cinquecento e del Seicento, che non
apportano significativi contributi né alla visione critica dell'arte giottesca, né alla definizione del corpus delle opere. Un settore a
parte è costituito dai commenti che accompagnano le diverse edizioni delle Vite vasariane, ma che si limitano, nella maggior parte
dei casi, a chiosare il catalogo delle opere giottesche (Salvini, 1938). Si diffondono, peraltro, anche le trattazioni a carattere 'locale',
riguardanti cioè le vicende artistiche di singole città o aree territoriali, nel cui ambito vengono esaltate le 'glorie' cittadine, spesso
con accenti di esasperato campanilismo. A puro titolo esemplificativo di tale situazione si può ricordare, nell'ultimo quarto del
Seicento, la famosa polemica tra il bolognese Carlo Cesare Malvasia (1678) e il fiorentino Filippo Baldinucci (1681): il primo
assertore di una superiorità qualitativa e di una precedenza cronologica della scuola pittorica bolognese su quella fiorentina, il
secondo difensore del primato cimabuesco e giottesco, fortemente contestato dalle affermazioni di Malvasia (Previtali, 1964, p.
51ss.).Per gran parte del sec. 18° non si registrano interventi di significativo spessore critico nella letteratura giottesca sino a
quando, cioè, fu pubblicata l'edizione completa della Storia pittorica della Italia, del gesuita marchigiano Luigi Lanzi (1795-1796).
Questi stilò un corpus delle opere giottesche assai simile a quello elaborato dalla moderna storia dell'arte e, anche quando le
attribuzioni non appaiono più accettabili alla luce delle attuali acquisizioni critiche, ci si trova comunque di fronte a opere
direttamente segnate dalla lezione giottesca (Previtali, 1964, p. 133ss.). Altro merito innegabile di Lanzi fu quello di svincolare l'arte
di G. da una prospettiva a volte eccessivamente caratterizzata in senso campanilistico e quindi di rapportarla alle vicende generali
dell'arte italiana tra Due e Trecento, evidenziando in tal modo la complessa rete di collegamenti che univano la pittura giottesca ai
maggiori fenomeni figurativi del tempo, aiutato in ciò dalla sua vastissima conoscenza - verosimilmente di prima mano - delle
opere. Si attenuava così quella concezione quasi 'miracolistica' del fenomeno-G., a favore di una maggiore attenzione ai fatti del
divenire artistico nella sua interezza. L'opera di Lanzi segna di fatto uno spartiacque tra gli scritti storico-biografici che possono
essere ancora considerati 'fonti' - nella più ampia accezione del termine - per la vicenda giottesca e quelli di fatto già appartenenti
alla storia dell'arte intesa in senso storico-critico. Si assiste infatti nella letteratura artistica ottocentesca a un rapido moltiplicarsi di
interventi, che segnano altrettante tappe fondamentali nel percorso critico riguardante l'opera di Giotto. Basti qui ricordare i nomi
di Séroux d'Agincourt (1823), di Rumohr (1827-1831), di Ruskin (1854), di Crowe e Cavalcaselle (1864), non citando che i più famosi
autori fino alla metà del secolo ca., per sottolineare da un lato lo spessore problematico della vicenda critica, dall'altro la vastità del
panorama bibliografico. I due utili repertori di Salvini (1938) e De Benedictis (1973) hanno elencato, solo fino al 1970, poco meno di
duemila voci bibliografiche, e nell'ultimo venticinquennio si è assistito a un ulteriore, vastissimo incremento della letteratura
giottesca. Non appare possibile né, del resto, proficuo seguire in questa sede, sia pure a grandissime linee, il percorso critico di
questo fondamentale capitolo della pittura italiana; sarà quindi opportuno limitarsi a segnalare per ogni opera o problema gli
interventi più significativi e comunque quelli che hanno maggiormente contribuito al progresso delle conoscenze sulla vicenda
giottesca.

I documenti

In parallelo con le notizie riportate dalle fonti cronachistiche e/o letterarie del Trecento, il nome di G. compare in vari documenti
d'archivio, che forniscono testimonianze fondamentali soprattutto sui suoi soggiorni presso i più importanti centri artistici e
committenti dell'epoca (Previtali, 1967 [19933, p. 151ss.]).Risale al 1309 la prima menzione documentaria del maestro: si tratta di
una carta assisiate che attesta la restituzione di un prestito di ben 500 libbre di denaro cortonese, effettuata da Palmerino Guidi
anche a nome di G. ("pro se et Iocto Bondoni de Florentia") e che secondo Martinelli (1973), che l'ha pubblicata, e Brandi (1983)
può far ipotizzare una presenza del maestro ad Assisi, impegnato forse nella decorazione della cappella della Maddalena nella

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basilica inferiore. Del 1311 e 1312 sono due documenti fiorentini, nel primo dei quali G. si fa garante di un prestito, mentre il
secondo è il testamento di Ricuccio di Puccio del Mugnaio, il quale dispone dei lasciti in denaro con cui acquistare olio per
illuminare la croce dipinta in S. Maria Novella "per egregium pictorem nomine Giottum Bondonis, qui est de dicto populo Sancte
Marie Novelle" e una tavola raffigurante la Vergine Maria nella chiesa del convento dei Frati Predicatori di Prato, dipinta da G. e
commissionata dallo stesso testatore (Milanesi, in Vasari, Le Vite, I, 1878, pp. 394-395). Appare in questi documenti, come pure in
quello del 1309, il patronimico del pittore, 'di Bondone' con la notazione che egli faceva parte della parrocchia di S. Maria Novella.
Nel 1312, sempre a Firenze, G. stipula un contratto con Bartolo di Rinuccio, al quale noleggia un telaio per tessitura (telarium
Francigenum) e ancora fino al 1315 altri documenti attestano la presenza del maestro a Firenze. Particolare interesse riveste una
procura che G., nel dicembre del 1313, affida a un certo Benedetto di Pace affinché recuperi panni, biancheria da letto e masserizie
varie lasciati dal pittore nella casa di Lippa (o Filippa) da Rieti (o de' Ritis), vicino alla Torre dei Conti a Roma presso la quale egli
aveva soggiornato (Chiappelli, 1923, pp. 132-133).Seguono, fino al 1326, atti diversi, tutti stipulati a Firenze: acquisti di immobili,
donazioni, procure, contratto e assegnazione della dote per il matrimonio della figlia Clara (Previtali, 1967 [19933, pp. 152-153]), tra
i quali va segnalata l'iscrizione, nel 1320, del maestro alla Matricola dell'Arte dei Medici e degli Speziali, che solo da quella data
aveva aperto i propri ruoli anche ai pittori (Hueck, 1972). Per gli anni che vanno dal 1328 al 1333, senza interruzioni, i Registri della
Cancelleria Angioina di Napoli attestano a favore di G. pagamenti ed elargizioni da parte di re Roberto (Aceto, 1992).Si giunge così
al famoso documento del 12 aprile 1334, quando le autorità comunali di Firenze stabiliscono di "eligere et deputare dictum
magistrum Giottum in magistrum et gubernatorem laborerii et operis ecclesie Sanctae Reparatae, et constructionis et perfectionis
civitatis Flor(entiae), et fortificationis ipsius civitatis et aliorum operum dicti comunis" (Gaye, 1839, pp. 481-482). E, nello stesso
anno, al 18 luglio Villani annota (Nuova cronica, XI, 12) la fondazione del campanile di S. Reparata (S. Maria del Fiore). Ed è ancora
Villani (ivi) a registrare, come si è detto, l'8 gennaio 1336 (ma 1337) la morte dell'artista di ritorno da Milano, dove il Comune
fiorentino l'aveva inviato per prestare la sua opera presso Azzone Visconti. Al 1361-1362 ca. può essere, infine, datato (Hueck,
1977a) un altro importante documento, riguardante l'attività di G. a Roma. Si tratta del necrologio del cardinale Jacopo Stefaneschi,
presente nel Liber benefactorum della basilica di S. Pietro in Vaticano (Roma, BAV, Arch. del Capitolo di S. Pietro, H 56, c. 87r). Vi si
ricordano le opere commissionate per la basilica vaticana dal cardinale al maestro, con i compensi da questi percepiti. Come si
vede, si tratta di una situazione documentaria relativamente ricca, ma purtroppo assai carente di notizie che permettano di fondare
con un minimo accettabile di certezza storica una cronologia delle opere giottesche. Nel plurisecolare svolgersi della intricatissima
vicenda critica, si è quindi dovuto far ricorso all'analisi stilistica come unico, o quasi, strumento di ricostruzione del percorso
artistico di Giotto. E ciò con le conseguenti inevitabili disparità di giudizio che fanno della letteratura specifica un vero e proprio
percorso a ostacoli, che conduce verso traguardi a volte assolutamente in contrasto tra loro. Il problema degli esordi di Giotto.-
Nonostante l'intervento del maestro nella basilica di S. Francesco ad Assisi sia sistematicamente ricordato sin dalle fonti più antiche,
il dibattito sulla reale portata di tale intervento è diventato uno dei temi - se non il tema per antonomasia - di maggiore
controversia per la moderna letteratura critica giottesca. Ciò perché, tra l'altro, la basilica assisiate racchiude nella sua decorazione
pittorica una tale concentrazione di 'innovazioni' figurative da essere inevitabilmente considerata - anche al di là della sia pur
ineludibile testimonianza delle fonti - il punto cruciale del mutamento di rotta verificatosi nella pittura italiana tra gli ultimi decenni
del Duecento e gli inizi del Trecento. Purtroppo la genericità delle fonti, da Riccobaldo da Ferrara a Ghiberti e ai loro epigoni, non
consente di delineare un quadro storico fondato su dati relativamente certi: anzi, proprio l'affermazione di Ghiberti ("Dipinse nella
chiesa d'Asciesi nell'ordine de' frati minori quasi tutta la parte di sotto") è, per es., stata interpretata in modi contrastanti. C'è chi vi
ha riconosciuto - ed è la maggioranza degli studiosi - una citazione delle Storie francescane dipinte sullo zoccolo ('la parte di sotto')
delle pareti della basilica superiore e chi, per converso, ha interpretato la locuzione ghibertiana come un riferimento al transetto e
alle cappelle della basilica inferiore (Meiss, 1960; Smart, 1971).Vasari, nella seconda edizione delle Vite (1568), afferma che G. fu
chiamato ad Assisi "da fra' Giovanni di Muro della Marca allora Generale de' Frati di san Francesco, dove nella chiesa di sopra
dipinse a fresco, sotto il corridor[e] che attraversa le finestre, trentadue storie e fatti della vita di San Francesco, cioè sedici per
facciata, tanto perfettamente che ne acquistò grandissima fama" (Le Vite, II, 1967, p. 100). La menzione di fra Giovanni Mincio da
Muro (od. Morrovalle) costituisce un importante riferimento cronologico, poiché il personaggio in questione fu Generale
dell'Ordine dal 1296 al 1304 (Wadding, 1731, p. 348), date che generalmente sono state considerate gli estremi per l'esecuzione del
ciclo francescano; peraltro, anche questo riferimento è stato a volte oggetto di una serrata revisione critica, come si vedrà più oltre.
Nel testo vasariano, inoltre, si parla di trentadue scene della vita di Francesco, mentre in realtà esse sono soltanto ventotto. La più
probabile spiegazione di questa discrasia risiede forse nel fatto che Vasari, senza aver direttamente controllato la situazione in loco,
abbia per così dire 'aggiunto' alle Storie della basilica superiore quattro scene dipinte nel transetto sinistro della basilica inferiore,
raffiguranti tre miracoli post mortem e Francesco con la Morte (Scarpellini, 1982).Ma il problema critico della presenza di G. ad
Assisi e, quindi, del primo apparire della sua arte va ben oltre l'attribuzione, a volte contestata, del ciclo francescano: esso è infatti
inestricabilmente collegato anche al riconoscimento e alla definizione, laddove possibile, delle maestranze che eseguirono alcuni
riquadri delle Storie vetero e neotestamentarie che, su due registri, si dispiegano lungo le pareti della basilica superiore, giusto al
disopra delle scene francescane. All'altezza della terza campata a partire dal transetto si assiste infatti nella sequenza delle storie
vetero e neostamentarie a un netto cambiamento di stile che raggiunge nel c.d. dittico delle Storie di Isacco, nel secondo registro
della parete destra, il punto di massima evidenza. Le due scene in questione, Isacco che benedice Giacobbe e Isacco ed Esaù,
mostrano un trattamento assolutamente innovativo dello spazio e dei personaggi che vi agiscono. L'autore del dittico costruì infatti
uno spazio tridimensionale 'abitabile', perfettamente coerente dal punto di vista di un illusionismo prospettico affatto diverso dalle
soluzioni spaziali eminentemente 'di superficie' che caratterizzano le precedenti scene del ciclo. Anche a livello tecnico, peraltro, si
riscontra un momento di passaggio, poiché nelle Storie di Isacco fa la sua comparsa per la prima volta ad Assisi l'esecuzione

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dell'affresco a 'giornate', in sostituzione di quella a 'pontate' usata nelle Storie vetero e neotestamentarie che precedono il dittico.
Fu a partire dalla seconda metà dell'Ottocento che l'eccezionalità delle Storie di Isacco cominciò a essere riconosciuta a livello
critico, essendo state genericamente riferite in precedenza all'attività di Cimabue e della sua bottega. A sottolineare tale
eccezionalità furono soprattutto Crowe e Cavalcaselle (1864), con un generico riferimento a Gaddo Gaddi, e Thode (1885b), con
una decisa attribuzione a Giotto. Quest'ultimo, in particolare, riferì alla mano del maestro gli affreschi della terza e quarta campata,
della volta dei Dottori e della controfacciata, identificando nel naturalismo delle figure e nell'ispirarsi ai modelli dell'arte antica gli
elementi innovativi del loro stile. Nel contempo, venne riconosciuto un sia pur leggero stacco qualitativo tra le Storie di Isacco e le
seguenti scene vetero e neotestamentarie. Ma l'attribuzione a G. fu quasi da subito messa in discussione da Strzygowski (1888), che
sostenne la presenza negli affreschi biblici di tre pittori romani, Filippo Rusuti, Giovanni di Cosma e Pietro Cavallini: quest'ultimo
sarebbe stato l'autore delle Storie di Isacco. Proprio quel Pietro Cavallini (v.) che Vasari (Le Vite, II, 1967, p.185) aveva indicato
come allievo di Giotto e la cui cronologia relativa rispetto a quest'ultimo è, anch'essa, uno dei problemi più complessi della
questione critica generale. L'attribuzione al maestro fiorentino fu invece riconfermata da Zimmermann (1899), Hermanin (1902;
1924) il quale faceva però di G. un allievo di Cavallini, Toesca (1927; 1941; 1951), Longhi (1948), Bauch (1953), Gnudi (1958),
Bologna (1962; 1969a; 1969b), Gioseffi (1963), Previtali (1967), Boskovits (1971; 1981; 1983), Bellosi (1985) e molti altri, sia pure
con motivazioni e sfumature a volte assai diverse. Del tutto particolare è la posizione di Meiss (1960), il quale, negando a G. la
paternità del ciclo francescano, gli riconosceva invece quella delle Storie di Isacco.Si deve invece a Mather (1932) la codificazione
della denominazione Maestro di Isacco (v.) per indicare l'ignoto autore del dittico di affreschi, che lo studioso peraltro volle
identificare con il fiorentino Gaddo Gaddi (v.). Belting (1977) ha sottolineato la sostanziale novità delle Storie di Isacco da quanto le
precede nella decorazione della navata, soprattutto per ciò che riguarda la nitidezza della costruzione spaziale e l'originalità dei
riferimenti ai modelli dell'Antichità, negando espressamente che il responsabile di tali novità possa essere individuato in Giotto.
Anche l'ipotesi 'romana', a volte addirittura 'cavalliniana', ha avuto parecchi sostenitori dopo Strzygowski: da Brandi (1938-1939;
1983) a Battisti (1960), a Paeseler (1971), a Sindona (1975). La questione dei rapporti cronologici Giotto-Cavallini, troppe volte
frettolosamente risolta accettando acriticamente la notizia vasariana dell'alunnato del pittore romano presso il fiorentino, è un
altro dei più dibattuti nodi critici della questione giottesca. Una volta preso atto del fatto che Cavallini ha elaborato, nelle sue opere
maggiori, soluzioni spaziali e di resa plastica delle figure assolutamente innovative per il panorama del Duecento pittorico italiano e
che tali innovazioni non necessariamente derivano dalla lezione giottesca, quasi per una sorta di ineluttabile destino storico (o
storiografico), si deve porre mente alla situazione documentaria relativa al pittore romano, che, grazie a una nuova scoperta
(Barbero, 1989) e a una conseguente rilettura delle testimonianze già note, restituisce agli studi la figura di un artista di oltre un
ventennio più anziano di G. e che quindi potrebbe in qualche modo aver influito, anche indirettamente, sulla formazione di
quest'ultimo. È stato, inoltre, più volte sottolineato quanto le figure che animano i due affreschi con le Storie di Isacco appaiano
esemplate su modelli scultorei di evidente ascendenza arnolfiana (Gnudi, 1958; Pesenti, 1977), spiegando peraltro tutto ciò con il
riconoscimento di un generico influsso della lezione plastica dello scultore sui pittori attivi nelle due campate attigue alla
controfacciata e in primis su G., considerato comunque autore del dittico nella terza campata. Su questo specifico tema, gli studi di
Romanini (1983b; 1987; 1989) hanno radicalmente rovesciato la prospettiva di indagine, mettendo in evidenza alcuni dati di fatto
che rendono l'ipotesi di attribuzione giottesca sempre meno condivisibile. In particolare, la innegabile circostanza che la nitida e
coerentissima costruzione spaziale delle Storie di Isacco (l'edificio entro cui si svolgono gli accadimenti, la scansione dei piani in
profondità individuati da figure umane ed elementi strutturali sempre in reciproco rapporto spaziale) non ha precedenti nella
sequenza degli affreschi dell'aula assisiate e, soprattutto, non ha esiti di pari natura e livello qualitativo, neppure nelle scene
immediatamente successive (Uccisione di Abele, Storie di Giuseppe sulla parete destra, Presentazione al Tempio, Fuga in Egitto,
Gesù tra i dottori, Battesimo di Gesù, Andata al Calvario, Crocifissione, Compianto, Pie Donne al sepolcro, sulla parete sinistra, come
pure gli affreschi della controfacciata, Ascensione, Pentecoste, clipei con S. Pietro e S. Paolo, e la Volta dei Dottori, con le numerose
figure di santi nei sottarchi), che non riescono a riproporre un linguaggio spaziale paragonabile a quello delle Storie di Isacco. E
altrettanto avviene, in modo palese, anche nelle prime Storie del ciclo francescano, il cui autore, di conseguenza, mostra anch'egli
di essere impegnato in un analogo processo di apprendimento ed elaborazione di quei termini spaziali che il Maestro di Isacco
aveva introdotto nel cantiere assisiate, con tutta probabilità svolgendovi funzioni di direzione (Romanini, 1989, p. 9ss.).Se si
attribuiscono a G. tanto le Storie di Isacco quanto queste prime Storie francescane, non trova spiegazione l'arretramento linguistico
che caratterizza queste ultime dal punto di vista della resa spaziale nei confronti delle Storie di Isacco, a partire dal Dono del
mantello al povero, ove si osserva "la vicenda personale di un pittore che all'inizio non sa come maneggiare la nuova legge dello
'spazio ritrovato' (non esiste collegamento possibile tra l'incerto balbettio spaziale del S. Francesco che cede il mantello e la chiara
evidenza prospettica delle Storie di Isacco)" (Romanini, 1987, p. 8). O in scene come il Sogno del palazzo con le armi, in cui la figura
dormiente di s. Francesco e il cubicolo in cui giace sono molto lontani dalla razionale costruzione geometrica delle stanze entro cui
si svolgono le vicende di Isacco e dei suoi figli. In sintesi, se G. è l'autore delle Storie di s. Francesco, come è assai probabile che sia,
allora non può essere l'autore del dittico di Isacco. In quest'ottica, Romanini (1983b; 1987; 1989) ha proposto come soluzione a tale
impasse critica il nome di Arnolfo di Cambio (v.), l'unico artista del tempo, stante la sua formazione eminentemente di architetto e
scultore, capace di costruire spazi complessi e coerenti come quelli delle Storie di Isacco, ma soprattutto l'unico a presentare tali
stringenti affinità - anche da un punto di vista di resa di spazi, corpi e moti - con l'autore degli affreschi di Isacco ad Assisi da
risultarne un vero e proprio alter ego. Affinità come l'attenzione per la resa naturalistica della figura umana e per i dati 'scientifici'
della realtà (Romanini, 1987), la salda volumetria del modellato, l'ispirazione ai modelli dell'Antichità classica reinterpretati
attraverso valori linearistici di marca squisitamente gotica, la padronanza assoluta delle norme che regolano la costruzione di uno
spazio tridimensionale. Intorno al 1290, quindi, subito dopo la partenza dei pittori romani attivi nella navata, Arnolfo dovette

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passare per Assisi, chiamatovi forse da Niccolò IV, primo papa francescano e suo grande committente, dove eseguì il dittico delle
Storie di Isacco, segnando della propria arte innovativa il successivo svolgersi della decorazione nella basilica. Perché è innegabile
che le Storie di Isacco costituiscano l'inizio di un'epoca nuova nella pittura italiana di tardo Duecento, di cui G. fu nel corso del
secolo successivo l'indiscutibile protagonista. Gli ultimi affreschi vetero e neotestamentari, come pure la Volta dei Dottori, sono
opera di un nuovo gruppo di maestranze, che interpretano, senza comprenderla a fondo, la lezione spaziale delle Storie di Isacco. È
in quest'area della decorazione della basilica superiore che può essere riconosciuta la presenza del giovane G., attivo insieme a
maestri di diversa formazione, come i senesi Memmo di Filippuccio (v.; Previtali, 1967; De Benedictis, 1983) e Duccio di
Buoninsegna (v.; Bologna, 1962; 1983).

Il ciclo delle Storie di s. Francesco

Come si è accennato in precedenza, l'attribuzione a G. stesso delle Storie francescane è stata, da una parte abbastanza rilevante
degli studi specialistici, revocata in dubbio, a partire dagli inizi del 19° secolo. Fu, infatti, Witte (1821) il primo a respingere, su base
stilistica, la paternità giottesca del ciclo agiografico, seguito da Rumohr (1827-1831), che tolse dal catalogo del maestro anche gli
affreschi della cappella dell'Arena di Padova. Thode (1885b), invece, massimo studioso ottocentesco dell'arte francescana,
confermò con ampiezza di argomentazione l'attribuzione a Giotto. Sostanzialmente, la critica ottocentesca non accettò, se non in
casi sporadici, l'ipotesi negativa di Witte e Rumohr, cominciando a distinguere, nell'ambito del ciclo, le parti interamente spettanti a
G. da quelle riferibili all'intervento di aiuti, che peraltro già appariva agli studiosi del tempo piuttosto ampio (Crowe, Cavalcaselle,
1864). Se da un lato la maggior parte della critica del Novecento ha riconfermato la tradizionale attribuzione, dall'altro l'ipotesi di
Witte è stata ripresa da alcuni studiosi, soprattutto di area tedesca e anglosassone, come Aubert (1907), Wickhoff (1907) e, in
particolare, Rintelen (1912). Quest'ultimo sottolineava le diversità intercorrenti tra gli affreschi di Padova, capolavoro autografo di
G., e gli affreschi francescani di Assisi, da lui considerati 'apocrifi' e addirittura databili verso il terzo decennio del Trecento: sarebbe
stata soprattutto l'unitaria concezione spaziale di Padova a segnare la distanza dalle Storie francescane, caratterizzate da un
naturalismo sostanzialmente di superficie e da una concezione abbastanza disorganica dello spazio. Sulla scorta di tali giudizi e
senza reali novità di fatto si sono susseguiti numerosissimi interventi (per un'utile sintesi della questione: Scarpellini, 1982) volti a
espungere le Storie francescane dal corpus degli autografi giotteschi. Trattazioni particolarmente articolate, orientate in questa
direzione, sono tra le altre quelle di Offner (1939), Meiss (1960) e Smart (1971). Seppure argomentate in forme differenti, le tesi
esposte da questi studiosi presentano alcuni elementi comuni di fondo: anzitutto la costante sottolineatura della diversità tra il ciclo
francescano e le Storie di Isacco; poi la constatazione del fatto che lo spazio pittorico di Assisi presenta più di un punto di
divergenza con lo spazio dipinto degli affreschi di Padova; infine il riconoscimento di una disomogeneità stilistica e qualitativa nello
svolgimento dei murali assisiati, dovuta alla presenza di vari pittori, sia pure formatisi in un unico ambito figurativo. Se da un lato
alcune di queste argomentazioni - come la flagrante diversità tra le Storie di Isacco e quelle di s. Francesco, o la presenza di mani
diverse in queste ultime - sono oggi ancora ampiamente condivisibili e condivise (Belting, 1977; Romanini, 1987, 1989), dall'altro
appare assai arduo, se non addirittura insostenibile alla luce delle attuali conoscenze, espungere dal catalogo giottesco il ciclo
assisiate. Sempre più sporadici e tendenti a una scomparsa di fatto, sono stati nell'ultimo venticinquennio gli interventi limitativi
dell'attività di G. in Assisi (Cole, 1976b; Stubblebine, 1985), mentre gli studi più recenti si sono orientati verso la definizione di
aspetti specifici di tale attività. È stata in precedenza ricordata, per ciò che riguarda la cronologia del ciclo francescano,
l'affermazione di Vasari, secondo il quale G. fu chiamato a dipingere in Assisi da fra Giovanni da Morrovalle, generale dell'Ordine dal
1296 al 1304. Sulla plausibilità di queste date si registra un sostanziale consenso degli studi, fatta eccezione per complesse ipotesi di
retrodatazione che vorrebbero gli affreschi eseguiti nei primissimi anni dell'ultimo decennio del sec. 13° (Bellosi, 1985).L'iconografia
delle Storie di s. Francesco segue, nella scelta dei ventotto episodi, la narrazione della Legenda Maior di s. Bonaventura, a partire
dal 1266 unica biografia ufficiale ammessa dall'Ordine; anche i tituli che corrono lungo il margine inferiore delle singole scene
derivano dallo stesso componimento agiografico (per il testo dei tituli: Marinangeli, 1928; Scarpellini, 1982). Il ciclo ha inizio sulla
parete destra della navata, a partire dall'incrocio con il transetto, prosegue con due scene in controfacciata ai lati del portale
d'ingresso e si conclude sulla parete sinistra, accanto al transetto; l'affrescatura ebbe luogo secondo la sequenza logica della
narrazione (Tintori, Meiss, 1962, con interessanti osservazioni sulle 'giornate').Questi i soggetti degli affreschi: l'Omaggio di un
uomo semplice, il Dono del mantello al povero, il Sogno del palazzo con le armi, il Crocifisso parla al santo in S. Damiano, la Rinunzia
ai beni paterni, il Sogno di Innocenzo III, l'Approvazione della Regola, la Visione del carro di fuoco, la Visione dei troni, la Cacciata
dei diavoli da Arezzo, la Prova del fuoco dinanzi al sultano, l'Estasi di Francesco, il Presepe di Greccio, il Miracolo della fonte e la
Predica agli uccelli (in controfacciata), la Morte del cavaliere di Celano, la Predica dinanzi a Onorio III, l'Apparizione di Francesco al
Capitolo di Arles, la Stimmatizzazione, la Morte di Francesco, l'Apparizione del santo a frate Agostino e al vescovo Guido,
l'Accertamento delle stimmate, il Pianto delle Clarisse, la Canonizzazione di Francesco, l'Apparizione a Gregorio IX, la Guarigione del
ferito di Lérida, la Confessione della donna di Benevento, la Liberazione di Pietro d'Alife. Questi temi iconografici divennero da
subito il modello normativo per i vari cicli pittorici dedicati alla vita del santo, che a partire dagli inizi del Trecento cominciarono a
essere eseguiti sempre più di frequente, soprattutto in Italia centrale. Rispetto alle scene vetero e neotestamentarie dei registri
superiori, i riquadri che compongono il ciclo francescano di Assisi presentano una radicale diversità nella impaginazione della
parete. Gli episodi della vita del santo sono infatti disposti lungo le pareti della navata a gruppi di tre per parte in ognuna delle
quattro campate, eccezion fatta per la prima a partire dall'ingresso, dove se ne trovano quattro. Ogni 'trittico' di scene è racchiuso
da una incorniciatura architettonica dipinta, composta da colonnine tortili - due alle estremità e due a dividere le scene - di tipo
cosmatesco che sostengono un architrave con motivi a cassettoni e mensolette. Questi ultimi elementi, come pure i capitelli e le
basi delle colonnine, sono prospetticamente centrati sull'asse mediano dell'intero 'trittico' e non su quello delle singole scene, le

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quali, peraltro, sono regolate da un sistema spaziale autonomo rispetto all'incorniciatura complessiva. Esse si svolgono quindi 'al di
là' del piano individuato dalle quattro colonnine e dai cassettoni in scorcio dell'architrave, in una sorta di trompe-l'oeil, che
suggerisce un superamento della superficie parietale e, soprattutto, crea una relazione tra lo spazio dell'azione 'scenica' degli
affreschi e lo spazio 'reale' della navata. Si tratta di una soluzione decisamente innovativa, che ha comunque un sia pur meno
complesso precedente nella decorazione - purtroppo conservata solo per frammenti - delle pareti della navata di S. Cecilia in
Trastevere a Roma (Belting, 1977; Romanini, 1981). Regolate quindi da una visione prospettica autonoma rispetto all'incorniciatura
architettonica, le singole scene del ciclo elaborano al loro interno una concezione dello spazio - e delle figure umane che in esso
agiscono - che si presenta in costante perfezionamento. Dalle incertezze di collocazione spaziale dei personaggi nelle prime scene
(Omaggio di un uomo semplice, Sogno del palazzo con le armi) si passa a rapporti visivi tra ambiente architettonico della scena e
figure umane sempre più coerenti (Approvazione della Regola, Visione dei troni), fino a raggiungere livelli di elevata complessità in
scene come il Presepe di Greccio, con la famosa immagine del retro della croce dipinta inclinata in un ardito scorcio, o come
l'Apparizione al Capitolo di Arles, con la panca scorciata sulla destra, ove siedono tre frati raffigurati di schiena. E, ancora,
l'immagine del crocifisso in scorcio, stavolta visto di fronte, ritorna, dominante dall'alto dell'iconostasi, nella scena
dell'Accertamento delle stimmate. Nel complesso, quindi, il ciclo francescano di Assisi appare come l'opera di un maestro in
formazione che si misura con le possibilità di lettura e di elaborazione offerte da uno spazio pittorico inteso in senso illusionistico e
tridimensionale, sperimentando idee che nella stessa navata assisiate erano state, compiutamente e in altra direzione, messe in
atto dall'artista che aveva, circa un decennio prima, dipinto le Storie di Isacco. Per ciò che riguarda la complessa questione
dell'autografia del ciclo nella sua interezza, anche i più convinti assertori dell'attribuzione a G. hanno riscontrato un'ampia presenza
di aiuti, la determinazione delle personalità dei quali è arduo esercizio di filologia, a fronte di un relativamente più agevole
riconoscimento della presenza di un'unica personalità ideatrice e responsabile del progetto pittorico, che appare sempre più
difficile non identificare con il maestro fiorentino, se non postulando l'esistenza di un maestro altrettanto grande, attivo negli stessi
anni, ma che non avrebbe lasciato ulteriori tracce della sua arte. Il tema dei collaboratori del maestro, ad Assisi e altrove, è stato
ampiamente indagato (tra gli altri, Sirèn, 1917; Coletti, 1949; Meiss, 1960; Previtali, 1967 [19742]) e, nel caso specifico delle Storie
francescane, è stato più volte proposto il riferimento delle ultime scene, a partire circa dalla Morte del cavaliere di Celano, al
Maestro della S. Cecilia (v.), autore di una tavola con Storie della santa (Firenze, Uffizi), il quale dovette comunque sempre operare
seguendo le idee e i progetti giotteschi, se non disegni veri e propri approntati dal maestro.

Le prime opere su tavola

La ricostruzione delle origini del percorso stilistico di G. passa anche attraverso alcune opere su tavola che il maestro dovette
eseguire proprio intorno all'ultimo decennio del secolo, più o meno contemporaneamente, quindi, al ciclo francescano di Assisi. Tra
i primissimi dipinti su tavola riferibili a G. - e in assoluto una delle prime opere riconoscibili come autografe - è il famoso Crocifisso
di S. Maria Novella, ricordato come opera del maestro sin dal 1312 nel già citato testamento di Ricuccio di Puccio. Sostanzialmente
accettata anche da quasi tutta la critica moderna è l'autografia dell'opera, mentre per la datazione si oscilla tra la prima e la
seconda metà degli anni novanta del Duecento (Previtali, 1967 [19742]; Brandi, 1983). Assolutamente innovativa rispetto alla
tradizione precedente - quella di Giunta Pisano (v.) e Cimabue (v.) - è, nell'iconografia come nello stile, l'immagine del Cristo
crocifisso dipinto da G.: non più la figura della divinità, sia pure sofferente, bensì il corpo di un uomo "grande e quasi contadino"
secondo la icastica definizione di Brandi (1983, p. 65). In quest'opera il maestro introdusse, come personale elaborazione, lo
spostamento del corpo del Cristo verso destra, occupando quasi tutta la superficie del tabellone: non più, come nelle croci
cimabuesche, un corpo centrato sull'asse della croce e fortemente inarcato verso sinistra, segnato da un accentuato linearismo, ma
un'immagine grave, che è 'realmente' inchiodata allo strumento del martirio e da esso aggetta con tutta la sua fisicità e il suo peso.
G. colloca un Crocifisso dello stesso tipo, fingendone un'ardita inclinazione verso il basso, sull'iconostasi nella scena
dell'Accertamento delle stimmate ad Assisi; si tratta di un dipinto che presenta le stesse caratteristiche della Croce di S. Maria
Novella, assenti per contro nell'analoga immagine affrescata nella scena della Preghiera in S. Damiano, dove il tipo è ancora quello
arcaico di marca giuntesca e cimabuesca. La Croce di S. Maria Novella esercitò un influsso assai marcato sulla coeva produzione di
crocifissi su tavola, tanto che le sue innovazioni compositive apparvero fin da subito nelle opere di altri pittori, come per es.
Deodato Orlandi, che tra tutti costituisce un importante punto di riferimento per una datazione precoce del Crocifisso giottesco
(Previtali, 1967, p. 40ss.).A questo stesso giro di anni, ma probabilmente più spostata verso gli affreschi di Assisi, appartiene la
Madonna in trono con il Bambino e due angeli dell'antica chiesa fiorentina di S. Giorgio alla Costa (Firenze, S. Stefano al Ponte, Mus.
Diocesano). Le figure della Vergine e di Gesù mostrano una salda resa volumetrica e una precisa naturalezza dell'inserimento nello
spazio che lasciano pochi dubbi sull'autografia, pure negata da alcuni, tra cui Offner (1956), che la attribuiva, insieme alla Croce di S.
Maria Novella, a un vero e proprio alter ego di G., denominato appunto dallo studioso Maestro della Croce di S. Maria Novella. A
questa primissima fase della produzione giottesca su tavola è stata recentemente aggiunta una Madonna in trono con il Bambino
(già Roma, Casa Altieri) resa nota da Todini (1992). Lo studioso, dopo un radicale intervento di restauro, vi ha riconosciuto una
firma abbreviata di G. e la data 1297 in un'iscrizione pseudo-cufica lungo il bordo superiore del mantello della Vergine,
identificandola quindi con la tavola ricordata da Ghiberti, assieme a un crocifisso, in S. Maria sopra Minerva a Roma. Intorno al 1300
si colloca con tutta probabilità una tavola, in origine nella chiesa di S. Francesco a Pisa e ora a Parigi (Louvre), raffigurante la
Stimmatizzazione di s. Francesco e, nella predella, tre Storie della vita (Sogno di Innocenzo III, Conferma della Regola, Predica agli
uccelli), la cui attribuzione a G. in prima persona non è concordemente accettata, nonostante l'opera rechi la firma "Opus Iocti
florentini", con tutta probabilità la più antica conservatasi. Che G. - come altri pittori famosi del suo tempo - apponesse la propria
sottoscrizione a opere realizzate dalla bottega è del tutto verosimile; ma tale firma valeva da riconoscimento di paternità, per così

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dire, e da garanzia qualitativa, per dipinti di cui il maestro doveva aver controllato direttamente l'esecuzione, dopo aver
predisposto un disegno o un progetto di massima. Per la tavola del Louvre, Gnudi (1958) e Salvini (1952) pensano a una quasi totale
assenza della mano di G., mentre Offner (1939) la espunge tout court dal catalogo. Destino, questo, comune ad altre opere su
tavola, anche della maturità dell'artista. La tavola del Louvre presenta comunque tangenze tanto evidenti con le analoghe scene di
Assisi, non solo dal punto di vista iconografico, da permettere di pensare a un diretto intervento del maestro (Previtali, 1967
[19742]), comunque affiancato da aiuti (Brandi, 1983). Una replica di bottega dell'opera è conservata a Cambridge (Mass.) nel Fogg
Art Mus. (Previtali, 1967 [19742]).Riferibili all'attività del maestro nei primissimi anni del Trecento - e precedenti agli affreschi di
Padova - sono altri importanti dipinti su tavola: il polittico di Badia (Firenze, Uffizi, già nella Badia fiorentina), una figura di santo
francescano (Firenze, Coll. Berenson), la Madonna di Oxford (Ashmolean Mus.) e una Madonna con il Bambino, opera di bottega
ma direttamente modellata sugli autografi del maestro, già nella Coll. Contini-Bonacossi a Firenze (per una panoramica delle varie
posizioni sulle attribuzioni: Gnudi, 1958; Previtali, 1967 [19742]; Brandi, 1983; Bellosi, 1985).Questi dipinti su tavola costituiscono il
ponte tra gli affreschi di Assisi e la decorazione della cappella dell'Arena di Padova e mostrano il progressivo ampliamento della
concezione volumetrica della pittura giottesca, evidente soprattutto nel polittico di Badia, dove le figure dei personaggi (Madonna
con il Bambino al centro, tra i ss. Pietro e Benedetto a destra, Giovanni Evangelista e Nicola a sinistra) emergono con un plasticismo
saldo ed espressivo dal fondo oro degli scomparti, il cui spazio è di fatto interamente occupato dalle loro masse. Intorno al 1300, o
forse prima, G. fu a Roma, ma purtroppo del suo passaggio - senz'altro importantissimo per l'evoluzione delle componenti
classicheggianti della sua pittura - non restano che frammentarie testimonianze figurative, di cui si tratterà più oltre.

Gli affreschi della cappella dell'Arena a Padova

Tra tutte le opere di G., gli affreschi che ornano l'aula della cappella dell'Arena a Padova sono considerati unanimemente il capitolo
fondamentale e quello più largamente autografo della vicenda artistica del pittore. Anche la loro datazione è, rispetto a quella delle
altre opere maggiori, più agevolmente definibile grazie a una serie di testimonianze esterne che permettono di stringere in un
relativamente breve giro di anni la loro esecuzione. Il 6 febbraio 1300 il nobile patavino Enrico Scrovegni acquistò un terreno per
edificarvi una cappella privata da dedicare alla Vergine Annunciata (Tolomei, 1880, p. 30, doc. II). Nel 1302 ebbe probabilmente
inizio la costruzione, essendo in quell'anno divenuto patriarca di Aquileia Ottobono de' Razzi, il quale concesse allo Scrovegni
l'autorizzazione a edificare la cappella, che venne poi consacrata forse nel 1303, secondo quanto affermato da un'iscrizione perduta
(B. Scardeoni, De antiquitate urbis Patavii, Basel 1560, pp. 322-323), ma sicuramente prima del 1° marzo 1304, data di
promulgazione da parte di papa Benedetto XI di un'indulgenza per coloro che in spirito di umiltà avessero visitato "ecclesiam b.
Mariae Virginis de Caritate de Arena, civitatis Padue" (Le registre de Benoît XI, 1905, coll. 294-295, n. 435). Un'altra importante
testimonianza è del 9 gennaio 1305 (Ronchi, 1935-1936) e riporta la protesta dei frati del vicino convento degli Eremitani (Padova,
Arch. Com., Convento degli Eremitani, vol. 62, Orto et Forestaria, cc. 305-306) contro Enrico Scrovegni, il quale stava
progressivamente modificando l'edificio da un oratorio privato a una chiesa aperta al culto: la costruzione del campanile veniva in
tale ottica letta come un sorta di provocazione nei confronti della comunità degli Eremitani e come "atto culminante di una subdola
manovra" (Basile, 1992, p. 9). Questo stesso documento sembrerebbe contenere anche un'allusione agli affreschi di G., poiché tra
le opere fatte eseguire dallo Scrovegni si parla anche di "alia multa quae ibi facta sunt potius ad pompam, et ad vanam gloriam"
(Settis, 1979, p. 249; Basile, 1992, p. 19; per l'opinione contraria v., tra gli altri, Gnudi, 1958, pp. 244-245). Infine, il 16 marzo 1305
una delibera del Maggior Consiglio di Venezia approvò il prestito a Enrico Scrovegni "de pannis Sancti Marci", forse paramenti e/o
tovaglie d'altare, per la consacrazione di una cappella di sua proprietà in Padova, con ogni verosimiglianza da riconoscere con
quella dell'Arena, vista anche la vicinanza della data con la festa dell'Annunciata, il 25 marzo (Basile, 1992). Nel 1305, quindi,
l'edificio fu consacrato e, quasi certamente, anche la decorazione affrescata doveva essere se non del tutto completa, almeno a un
rilevante stadio di avanzamento. In tal senso un altro possibile termine ante quem è dato dall'evidente derivazione di alcune
miniature presenti negli antifonari della cattedrale di Padova dagli affreschi di G., databili secondo Bellinati (1967) entro il 1306;
termine che Flores d'Arcais (1974) ha però spostato al 1317, per alcuni manoscritti contenenti appunto le miniature esemplate sulle
opere giottesche (Padova, Bibl. Capitolare, A15, A16, B16) e a dopo questa data, per l'antifonario A14. La data di consacrazione, il
1305, appare al di là di tali considerazioni, come quella più probabile per l'esecuzione della maggior parte della decorazione.
Un'altra ipotesi, sostenuta in particolare da Gnudi (1958), amplia comunque al 1310 ca. l'arco cronologico entro cui gli affreschi
sarebbero stati eseguiti. La decorazione della cappella dell'Arena si svolge seguendo un complesso programma iconografico,
centrato sulle Storie della Vergine e di Cristo. La sequenza narrativa degli affreschi - sulla cui coincidenza con quella esecutiva
esistono diverse ipotesi (Romdahl, 1911; Battisti, 1960; Gioseffi, 1963; Previtali, 1967; Basile, 1992) - si svolge su tre registri e ha
inizio in quello superiore della parete destra a partire dalla zona absidale, per proseguire sulla parete sinistra, muovendo dalla
controfacciata verso l'abside, sempre dall'alto verso il basso. Lo stesso ordine viene seguito per gli altri due registri. I cicli
iconografici di cui si compone la decorazione sono le Storie di Gioacchino e Anna, l'Infanzia di Cristo e la Passione, per un totale di
trentasette episodi, escluso il Giudizio universale in controfacciata. Sull'arco absidale, poi, è dipinta, in alto, una figura dell'Eterno -
su tavola inserita nella muratura - tra le schiere angeliche, prologo celeste dell'Annunciazione che si trova proprio ai lati dell'arco,
con l'Angelo sulla sinistra dell'abside e Maria sulla destra. Nel registro inferiore si trovano la Visitazione e il Tradimento di Giuda;
nella parte bassa della parete sono due spazi architettonici illusivi, dipinti in prospettiva e privi di figurazioni, i famosi 'coretti'. Sulla
controfacciata campeggia il monumentale Giudizio universale, in cui compare il ritratto del committente, Enrico Scrovegni, che offre
il modellino dell'edificio alla Vergine. Da notare che il modellino mostra la presenza di un transetto, non esistente nell'edificio reale.
La volta a botte della cappella presenta, entro clipei su uno sfondo a cielo stellato, le figure a mezzo busto della Madonna con il
Bambino, del Cristo benedicente e di profeti e santi. Nella fascia inferiore delle pareti sono dipinte a monocromo quattordici figure

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allegoriche dei Vizi e delle Virtù, identificate dal nome in alto e, in origine, accompagnate lungo il margine inferiore da un'iscrizione
latina, probabilmente a carattere esplicativo sulla scelta della figura; infine, i riquadri con le Storie evangeliche sono accompagnati
da medaglioni che racchiudono scene e personaggi dall'Antico Testamento con esse in rapporto, nonché numerose figure di santi.
Si tratta dunque di un ampio programma che trae origine da diverse fonti, la principale delle quali è senz'altro da riconoscere nella
Legenda aurea di Jacopo da Varazze, ma per il quale anche gli scritti apocrifi del Protovangelo di Giacomo e del Vangelo dello
pseudo-Matteo hanno fornito soggetti per il ciclo della Vita di Cristo (Schlegel, 1957; Imdahl, 1980; Basile, 1992). L'aspetto
propriamente narrativo delle Storie neotestamentarie non esaurisce però i significati degli affreschi e dell'edificio della cappella
dell'Arena. Il complesso monumentale è stato infatti letto, nella sua totalità, come atto di riparazione ed espiazione compiuto dallo
Scrovegni per il peccato di usura, di cui sia Enrico stesso sia il padre Reginaldo si erano resi responsabili: ne sarebbe prova il gruppo
raffigurante l'Offerta della chiesa alla Vergine, nella zona inferiore del Giudizio, simboleggiante le restituzione da parte dello
Scrovegni dei beni disonestamente lucrati con l'usura (per una sintesi della questione, con la bibliografia precedente: Basile, 1992).
La cappella doveva poi probabilmente assolvere anche una funzione funeraria, destinata cioè a divenire cappella sepolcrale del
committente e della sua famiglia (Herzner, 1982; Basile 1992). Inoltre, significati allegorici riguardanti la decorazione nel suo
complesso, il Giudizio, le figure dei Vizi e delle Virtù sono stati più volte individuati e ricondotti a testi religiosi e non della più
svariata origine (Moschetti, 1904; Alpatoff, 1947; Imdahl, 1980) giungendo anche a identificarvi un percorso di tipo mnemotecnico
(Mieth, 1991), Oltre agli aspetti iconografici e/o iconologici, ciò che fa di questo complesso la più eclatante novità della pittura
trecentesca risiede nella visione spaziale che G. mette a punto nella progettazione di uno spazio pittorico strettamente raccordato
all'architettura e alla composizione della decorazione affrescata secondo una visione rigorosamente prospettica. I vari aspetti di
questa concezione spaziale sono stati ampiamente indagati, tra gli altri, da Hetzer (1941), Longhi (1952), White (1957; 1973),
Gioseffi (1963), Romanini (1965b), Euler (1967), Hueck (1977b). Costantemente rilevata dagli studi è la stringente aderenza della
prospettiva dipinta allo spazio architettonico, di cui sono clamorosa testimonianza i famosi 'coretti' dipinti ai lati dell'abside e
centrati otticamente sull'asse di questa, quindi dialetticamente posti in rapporto con lo spazio 'reale' dell'edificio. Di più: essi
fingono uno spazio 'reale', tanto che l'altezza delle volte a crociera che li coprono fa ipotizzare il loro pavimento all'altezza di quello
del presbiterio, da cui a essi si potrebbe 'illusivamente' accedere (Longhi, 1952). Un'assoluta novità, questa, nella pittura del
Medioevo, ma anche la prova della altrettanto assoluta padronanza teorica delle leggi ottiche, che G. mette magistralmente in
pratica, con diverse modalità, nell'unità della decorazione: "ornato pittorico e forme architettoniche concorrono ai medesimi scopi,
sono determinati dal medesimo modo di intendere e di servirsi dello spazio con precisi intenti figurativi" (Romanini, 1965b, p.
272).A questo proposito va osservato che a Padova la presenza di aiuti è più limitata che ad Assisi, ma soprattutto è rigorosamente
contenuta all'esecuzione materiale delle idee del maestro. Assoluta è infatti l'omogeneità compositiva degli affreschi, come pure la
coerenza del pensiero spaziale e del progetto pittorico, anche quando l'esecuzione poteva venir affidata a personalità diverse da
quella del maestro, come, per es., nel caso dell'Incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea o della Presentazione della Vergine
al Tempio (Toesca, 1941).Lo spazio dipinto da G. negli affreschi di Padova è uno spazio tangibilmente tridimensionale, così nelle
architetture - costruite nella maggior parte dei casi secondo i principi della prospettiva obliqua (White, 1957) - come nelle figure dei
personaggi. Queste ultime sono costruite come veri e propri solidi geometrici nello spazio: acquistano rilievo attraverso un
sapientissimo uso del chiaroscuro e delle linee di contorno che le sbalzano dal fondo, con quello che Brandi (1983) ha definito il
primo esempio di 'rilievo schiacciato' dell'arte italiana. Ombre profonde e alte lumeggiature segnano il plasticismo dei personaggi
della storia sacra con una monumentalità degna della statuaria antica, della cui lezione G. è sempre pienamente consapevole. Ma
temi nuovi segnano le rappresentazioni giottesche; si fa strada quello che è stato definito il 'tema dello sguardo', cioè la
caratterizzazione emotiva dei personaggi. Un esprimersi delle emozioni che raggiunge punte di intensa drammaticità, come nel
gruppo centrale Cristo-Giuda della scena della Cattura, o accenti di sottile tenerezza nel muto dialogo di affetti tra la Vergine e il
Bambino nella Natività. Gli affreschi di Padova segnano, sotto tutti questi punti di vista, un fondamentale punto di maturazione nel
percorso artistico di G., un punto, si potrebbe dire, 'di non ritorno', nel senso che dopo di esso non solo il maestro, ma l'intera storia
della pittura occidentale si troveranno a seguire una rotta evolutiva già tracciata nelle sue linee-guida fondamentali. Sempre per la
cappella dell'Arena G. eseguì una Croce dipinta sui due lati (Padova, Mus. Civ.), non necessariamente contemporanea agli affreschi,
ma forse databile all'epoca del suo secondo soggiorno a Padova (Sandberg Vavalà, 1929), se non addirittura dopo il 1317 (Gnudi,
1958; Volpe, 1971; Previtali, 1967 [19742]). Nella stessa città le fonti registrano un'attività di G. anche nella Basilica del Santo: scarsi
resti di affreschi nella prima cappella a destra dell'ambulacro e nella sala capitolare del convento antoniano sono testimonianza se
non della presenza del maestro in prima persona (Benati, 1995), almeno di suoi stretti collaboratori (Previtali, 1967 [19742]; Flores
d'Arcais, 1984; 1986). Non resta traccia di un ciclo a carattere astrologico, più volte ricordato dalle fonti (Riccobaldo da Ferrara;
Giovanni da Nono, Visio Egidii, ca. 1320), eseguito da G. nel palazzo della Ragione e di altre opere sparse per la città citate da
Ghiberti e da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 107).

I viaggi a Roma e a Rimini

In anni imprecisati - né del resto agevolmente precisabili - G. si recò a Rimini e, più di una volta, a Roma. Questi viaggi sono
concordemente ricordati dalle fonti, a cominciare dalle più antiche e, nel caso dell'Urbe, anche dalle due attestazioni documentarie
in precedenza citate, le quali però non si riferiscono al primo viaggio di G. a Roma, che certamente precedette il soggiorno
padovano. La prima opera romana che la storiografia, a partire dal secolo scorso (Crowe, Cavalcaselle, 1864; Müntz, 1881), riferisce
al maestro è l'affresco che fino alla fine del Cinquecento si trovava nella loggia delle Benedizioni dell'Aula Concilii al Laterano, e di
cui rimane oggi solo un frammento raffigurante lo stesso Bonifacio VIII tra due ecclesiastici, collocato sul terzo pilastro della navata
destra della basilica lateranense. Controversa è l'identificazione del soggetto iconografico dell'affresco, il cui aspetto originario è

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documentato da un disegno acquerellato della fine del Cinquecento (Milano, Bibl. Ambrosiana, F 227 inf.), che mostra nella parte
inferiore dell'affresco, perduta, un gruppo di fedeli che acclamano il pontefice, con ai lati dignitari e prelati della corte pontificia.
Tradizionalmente riconosciuta come raffigurante Bonifacio VIII che indice il Giubileo, e quindi riferita agli anni intorno al 1300, la
scena è stata anche letta come rappresentazione della presa di possesso del Laterano da parte del pontefice e quindi databile tra il
1295 e il 1297 (Maddalo, 1983; Aggiornamento scientifico, 1988). Controversa è anche l'attribuzione a G., avanzata da Alfonso
Ciacconio (Vitae et res gestae Pontificum Romanorum, II, Roma 1677, p. 304, fig.a) forse sulla base dell'indiretta testimonianza di
Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 106) e più volte riaffermata dalla critica (Müntz, 1881; Brandi, 1956; 1983; Vayer, 1971); Boskovits (1983)
ha avanzato per l'opera il nome di Pietro Cavallini, mentre altri pensano a un collaboratore romano di G. (Previtali, 1967 [19742];
Bellosi, 1985; Tomei, 1991) operante su progetto e indicazioni del maestro. Opportuna collocazione in questa fase troverebbe,
qualora suffragata da elementi più convincenti, l'attribuzione all'autografia di G. della Croce dell'Aracoeli (Roma, Mus. del Palazzo di
Venezia), che costituisce una testimonianza rara quanto precoce della presenza a Roma di questa tipologia, non particolarmente
diffusa nella tradizione locale (Toesca, 1966; Salvini, 1983; per ipotesi diverse: Bellosi, 1985; Tomei, 1991).A Roma, un'altra opera è
stata più volte riferita alla fase più precoce della pittura di G. (Toesca, 1904; 1941; Previtali, 1967): i tondi con profeti nel transetto
sinistro della basilica di S. Maria Maggiore, che sembrano meglio trovare la propria collocazione in un contesto pittorico di accento
romano-assisiate, segnato dalle Storie di Isacco della basilica superiore di S. Francesco (Romanini, 1987; 1989; Tomei, 1991).A
questi stessi anni, sempre cioè tra Assisi e Padova, sembrerebbe appartenere il Crocifisso del Tempio Malatestiano di Rimini, già
chiesa di S. Francesco. Si tratta di un'opera di straordinaria importanza e qualità, che accompagnava un ciclo di affreschi distrutti
verso il 1450 nel corso della costruzione del Tempio Malatestiano, raffiguranti forse Storie di s. Francesco (Benati, 1995). La tavola è
priva delle estremità dei bracci della croce, resecate in epoca imprecisata; la cimasa è stata identificata da Zeri (1957) in una
tavoletta raffigurante il Redentore benedicente, già nella Coll. Jekyll a Londra. Una datazione a ca. il 1300 è stata proposta da
Gioseffi (1961) e Previtali (1967), sulla base della constatazione dell'assenza nel Crocifisso riminese di echi degli affreschi padovani.
Una presenza precoce di G. a Rimini è stata ipotizzata anche da Conti (1981), che ha visto in un foglio miniato, firmato da Neri da
Rimini (v.) e datato 1300 (Venezia, Fond. Cini, 2030), elementi derivati da un Crocifisso giottesco, nelle figure della Vergine e di s.
Giovanni Evangelista raffigurati come 'dolenti', in un contesto iconografico incongruo. Questo foglio è poi divenuto, negli sviluppi
critici, un vero e proprio ante quem per il Crocifisso di Rimini (Mariani Canova, 1992; Benati, 1995). A una data più tarda, verso il
1310, pensano invece Brandi (1938-1939; 1983), Longhi (1948), Gnudi (1958), Volpe (1965), sia pure con motivazioni diverse,
mentre Bologna (1969a) pensa a una data intorno al 1317. Brandi, peraltro, ha espresso notevoli perplessità sulla autografia
giottesca della tavola, notandone le differenze, anche tipologiche, rispetto alla Croce di S. Maria Novella. Si tratta comunque di
un'opera che ha nella pittura di G. le sue radici più profonde e autentiche e che, insieme alle altre opere lasciate dal maestro a
Rimini (v.), diede impulso allo sviluppo di una scuola pittorica e miniatoria che fu fiorentissima per tutto il corso del Trecento.

La Madonna di Ognissanti

Una delle opere su tavola che con maggiore continuità e concordanza di opinioni, a partire da una prima citazione nel 1418, è stata
riferita all'autografia giottesca, è la Madonna in trono tra angeli e santi (Firenze, Uffizi), già nella chiesa fiorentina di Ognissanti (in
antico, dei Frati Umiliati). Si tratta di una grande pala (cm. 325204) caratterizzata da una monumentalità imponente e da un
senso della profondità che sembrano difficilmente collocabili nella pittura di G. prima degli affreschi di Padova, di cui anzi pare
ripercorrere gli indirizzi prospettici (Peroni, 1992). La figura della Vergine - un nitido solido geometrico perfettamente centrato e
collocato nello spazio senza la minima impressione di statica frontalità - è assisa su un trono coperto da un baldacchino di gusto
schiettamente gotico, i cui laterali sono dipinti con uno scorcio arditissimo, a testimoniare, in una fase successiva agli affreschi di
Padova, dell'interesse di G. per la soluzione dei problemi di resa tridimensionale dell'immagine dipinta. Sembra quindi del tutto
plausibile che l'esecuzione della Madonna di Ognissanti possa essere posta verso il 1310, anche considerando che intorno al 1309,
secondo il già ricordato documento assisiate, G. dovette operare nella chiesa di Assisi, mentre del 1311 è il documento che attesta
la presenza del maestro a Firenze (Brandi, 1983).

Il mosaico della Navicella

Nel corso di un secondo soggiorno romano con tutta probabilità G. eseguì - o quanto meno ideò e preparò per l'esecuzione -
un'opera tra le più famose dell'intero Medioevo occidentale, ovvero il mosaico raffigurante la Navicella degli apostoli nell'atrio
dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Essa fu commissionata al maestro dal cardinale Jacopo Stefaneschi, arciprete e munifico
benefattore della basilica, il quale versò a G. per l'esecuzione dell'opera 2200 fiorini, secondo quanto attestato dal già ricordato
necrologio dello Stefaneschi. Questi ne redasse anche il titulus in versi, scomparso, ma conosciuto attraverso trascrizioni antiche
(Tomei, 1989, p. 153; Köhren-Jansen, 1993, p. 15ss). Mancano dati certi sulla cronologia dell'opera, che è stata variamente datata
tra l'anno giubilare e il terzo decennio del Trecento; la notizia che l'opera fosse datata al 1298, accettata da Battisti (1960), risale al
sec. 17° e non conosce riscontri documentari di alcun genere. Ma il già citato documento del dicembre 1313 riguardante la
controversia tra G. e Filippa da Rieti (Chiappelli, 1923), presso la quale il maestro era stato a pensione a Roma, fornisce un termine
ante quem per ipotizzare un soggiorno a Roma intorno al 1311-1312 (Venturoli, 1969; Bologna, 1969a). Questa data potrebbe
venire anticipata alla seconda metà del primo decennio, tenendo conto del fatto che il già menzionato documento del 1309
pubblicato da Martinelli (1973) sembra suggerire (Brandi, 1983, pp. 115-116) la presenza di G. ad Assisi tra il 1307 e il 1308
impegnato probabilmente nella realizzazione degli affreschi della cappella della Maddalena nella basilica inferiore, dove si riscontra
la citazione letterale di una figura di pescatore già presente nel mosaico della Navicella (Aggiornamento scientifico, 1988, pp. 369-

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371).L'opera, più volte spostata e rimaneggiata, ebbe la sua collocazione attuale, nel portico di S. Pietro di fronte alla porta
d'ingresso della basilica, nel 1674, sotto papa Clemente X. Ma il mosaico era ormai divenuto nella sua totalità niente più di una
replica seicentesca. Essa raffigurava la barca degli apostoli sospinta dalla tempesta e, sulla destra, Cristo che salva Pietro dalle
acque; sulla sinistra un tratto di costa con una città turrita e un pescatore. Le scelte iconografiche dell'opera rimandano a prototipi
tardoantichi e paleocristiani, testimonianza dell'attenzione che G. in quegli anni, e soprattutto nei suoi soggiorni a Roma, riservava
alle testimonianze figurative del mondo antico, che massicciamente influirono sulle sue scelte stilistiche e iconografiche. Della
superficie musiva originale si conservano solo due frammenti con busti di angeli entro clipei, uno nelle Grotte Vaticane, l'altro nella
chiesa di S. Pietro Ispano a Boville Ernica (prov. Frosinone), enucleati dalla composizione trecentesca nel 1610, nel corso dei lavori
di ricostruzione della basilica vaticana. Nonostante esistano molte riproduzioni e repliche della Navicella, alcune delle quali di pochi
anni successive al mosaico giottesco (Körte, 1942; Köhren-Jansen, 1993), in nessun caso i due clipei superstiti vi compaiono, anche
se è quasi certo che essi facessero effettivamente parte dell'opera (Tomei, 1989); molto probabilmente essi dovevano fiancheggiare
l'iscrizione con il titulus, lungo il margine inferiore del mosaico. L'angelo di Boville Ernica si è conservato in condizioni di leggibilità
migliori di quello delle Grotte Vaticane e vi si riscontra anche una certa diversità di stile; ambedue comunque mostrano un
modellato plastico e una monumentalità di impianto che rimandano con evidenza a idee giottesche. Ma, come è stato più volte
osservato (tra gli altri, Brandi, 1983; Boskovits, 1983), la tecnica esecutiva del mosaico rimanda a quella in uso nelle botteghe
romane di tardo Duecento e, in particolare, a quella di Cavallini, che probabilmente dovette fornire il medium tecnico e i maestri
che materialmente realizzarono l'opera concepita da G., sulla base di disegni o cartoni da lui stesso approntati (Tomei, 1989;
1991).A una fase certamente successiva appartiene il polittico a due facce per l'altare maggiore della basilica di S. Pietro (Roma,
Mus. Vaticani, Pinacoteca), commissionato a G. dallo stesso cardinale Stefaneschi e ricordato dalle fonti assieme alla Navicella e agli
affreschi, perduti, per la tribuna (Ghiberti, Commentari; Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 106). La datazione, anche in questo caso assai
controversa, oscilla tra il 1300 e la fine del terzo decennio del secolo, estremi legati alle diverse ipotesi sul numero dei passaggi di
G. a Roma, anch'essi oscillanti tra due e quattro (per una sintesi della questione v. Aggiornamento scientifico, 1988, pp. 370-372). Il
dipinto raffigura sul recto, al centro S. Pietro in trono tra angeli, al quale il cardinale Stefaneschi inginocchiato a sinistra offre un
modellino del dipinto, mentre sulla destra, sempre inginocchiato, è raffigurato s. Celestino V che presenta un codice. Quattro figure
di santi sono disposte, due per lato, nei pannelli laterali; nella predella, di cui si conserva un solo pannello, tre busti di santi. Il verso
mostra al centro Cristo in trono benedicente tra angeli, con il committente inginocchiato; i pannelli laterali raffigurano la
Crocifissione di s. Pietro e la Decollazione di s. Paolo; nella predella, la Madonna in trono con il Bambino tra santi. Si tratta
comunque - e la critica è su questo punto sostanzialmente concorde - di un'opera segnata da una rilevante partecipazione della
bottega, eseguita sicuramente dopo il trasferimento dei papi ad Avignone come ampiamente argomentato da Kemp (1967) sulla
base di considerazioni liturgiche e iconografiche. Alla predella del verso del polittico si legano stilisticamente due figure di santi ad
Assisi (Coll. Fiumi-Sermattei della Genga), facenti forse parte delle scene commissionate dallo Stefaneschi e ricordate dal suo
necrologio, per Previtali (1967, p. 315) databili al terzo decennio, per Martinelli (1971) al quarto, in un tempo prossimo al soggiorno
napoletano del maestro. Nel Tesoro di S. Pietro si conserva, inoltre, un dipinto a tempera su rame, ma in origine su legno, che
Volbach (1979) ha proposto di identificare con quello posto più anticamente sull'altare maggiore di S. Pietro. L'opera, di evidente
qualità, anche se fortemente rimaneggiata, mostra caratteri dell'arte giottesca e si configura come, se non autografa, certamente di
bottega (Aggiornamento scientifico, 1988, p. 372).

Giotto nella basilica inferiore di Assisi

Dopo la conclusione dei lavori nella basilica superiore - e la partenza di G. -, la decorazione pittorica del S. Francesco di Assisi
proseguì nella basilica inferiore con l'affrescatura delle varie cappelle, nel frattempo costruite lungo la navata e alle estremità del
transetto. A questa fase dell'impresa assisiate, oltre a G., ritornato nel santuario francescano dopo i soggiorni a Roma, Rimini e
Padova, parteciparono altri pittori formatisi nella sua bottega, le cui personalità cominciavano più nettamente a distinguersi da
quella del maestro. Entro il primo decennio del Trecento dovettero essere affrescate la cappella della Maddalena e quella di S.
Nicola, mentre più tardi sembrano gli affreschi con Storie dell'infanzia di Cristo e due miracoli post mortem di s. Francesco nel
transetto destro e quelli della volta d'incrocio. Nella cappella della Maddalena, l'ultima del fianco destro della navata, che
sembrerebbe essere stata dipinta negli anni 1307-1308, secondo l'interpretazione del già ricordato documento del 1309 (Martinelli,
1973; Brandi, 1983), G., affiancato da diversi collaboratori, eseguì Storie della santa, di Lazzaro e di Marta, i quali compaiono, con il
Salvatore, anche in quattro tondi dipinti sulla volta a cielo stellato. Relativamente recente è una più attenta valutazione degli
affreschi di questa cappella, che mostrano l'intonazione più schiettamente giottesca dell'intera decorazione della basilica inferiore.
Sotto il profilo storiografico, coloro che ritengono G. autore delle Storie francescane della basilica superiore sono sostanzialmente
concordi (Gnudi, 1958; Previtali, 1967 [19742]; Bologna, 1969a; Scarpellini, 1982; Brandi, 1983; Bellosi, 1985) - con l'autorevole
eccezione di Toesca (1951) - nel riconoscere la mano del maestro almeno in alcune delle scene, tra le quali la Risurrezione di
Lazzaro, la Cena in casa del fariseo, il Noli me tangere. Si notano in queste scene elementi che G. aveva sviluppato, in un tempo
immediatamente precedente, negli affreschi della cappella dell'Arena, anche se la possente monumentalità dei murali di Padova
appare qui un po' alleggerita da un ductus più morbido e lineare. Per gli aiuti di G., probabilmente attivi anche nella cappella
padovana, sono state coniate le definizioni di Maestro delle Vele (v.) e Maestro della cappella di S. Nicola, derivate dagli affreschi
della basilica inferiore che a questi ignoti maestri vengono riferiti. Per Bologna (1969a; 1969b) sarebbe stato attivo nella cappella
della Maddalena un altro collaboratore di G., autore del polittico di S. Reparata. Anche la cappella di S. Nicola, situata all'estremità
del transetto destro, è stata, con varie oscillazioni, attribuita alla mano di G. e dei suoi collaboratori. Essa risulta già costruita alla
data del 6 marzo 1306 (Scarpellini, 1982, p. 309) ed è probabile che a quella data anche gli affreschi, raffiguranti Storie del santo

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eponimo e busti di santi entro cornici polilobate, fossero stati eseguiti. Si tratta di dipinti di marca decisamente giottesca, che
mostrano un accento più arcaico e un tono di esecuzione più debole rispetto al ciclo della cappella della Maddalena: per questo
motivo più arduo è il riconoscervi la mano di G. (Previtali, 1967 [19742]; Scarpellini, 1982); le indagini di Bonsanti (1983) hanno
comunque proposto interessanti argomentazioni per l'attribuzione al maestro di alcuni brani della decorazione. Accanto al Maestro
della cappella di S. Nicola, secondo Boskovits (1971), avrebbe operato un altro pittore, questo di formazione umbra, il Maestro
Espressionista di S. Chiara (v.), presente anche nella cappella della Maddalena. La volta dell'incrocio della basilica inferiore è
decorata, nelle quattro vele, da affreschi raffiguranti allegorie francescane che Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 101) per primo attribuì a
Giotto. Sostanzialmente accettata fino agli inizi del Novecento, tale attribuzione - come quella degli affreschi del transetto destro
con le Storie di Cristo e i Miracoli post mortem di s. Francesco - fu messa in dubbio da Venturi (1906), il quale 'creò' le due figure del
Maestro del volto oblungo e del Maestro nerastro, di formazione giottesca, poi sostituiti dal più plausibile Maestro delle Vele, al
quale da diversi studiosi è stato attribuito, tra le altre cose, anche il polittico Stefaneschi (per la vicenda storiografica v. Scarpellini,
1982, p. 266ss). A questo maestro - la cui identificazione con G. è stata ripresa senza troppo costrutto da Gosebruch (1969; 1986) -
vanno inoltre riferite le scene del transetto destro, ma non certo il polittico Stefaneschi. Ulteriori distinzioni sono state proposte
nell'ambito di questo gruppo di affreschi, all'esecuzione dei quali, secondo Previtali (1967 [19742]), sarebbe stata attiva un'altra
personalità artistica, così vicina al maestro - un vero e proprio alter ego - da meritare la definizione di Parente di Giotto, presente
anche nel polittico Stefaneschi. Altrettanto complessa è la datazione di questo gruppo di affreschi, a causa della molteplicità di
influssi da essi recepiti, che oscilla, nelle diverse ipotesi di definizione, tra il secondo e il quarto decennio (tra gli altri, Wulff, 1904;
Kleinschmidt, 1915-1928, II; Gnudi, 1958; Previtali, 1967 [19742; 19933]; Bologna, 1969b; Gosebruch, 1969; 1986; Brandi, 1983). Al
Parente di Giotto (Ragionieri, 19933) o a Stefano Fiorentino (v.; Zanardi, 1978; Boskovits, 1983; Volpe, 1983; Todini, 1986) sarebbe
da riferire un frammento di affresco a Budapest (Szépmuvészeti Múz.), tradizionalmente ritenuto proveniente da Assisi e già
attribuito a Giotto (Crowe, Cavalcaselle, 1864).

Giotto a Firenze: le opere in Santa Croce

Ghiberti, nei suoi Commentari, segnala ben quattro cappelle affrescate da G. nella chiesa francescana di Santa Croce a Firenze, che
le successive fonti cinquecentesche identificano con quelle dei Peruzzi, dei Bardi, dei Tosinghi-Spinelli, dei Giugni (Vasari, Le Vite, II,
1967, p.98), ma solo le prime due sono ascrivibili all'opera del maestro. Situate nel transetto destro l'una accanto all'altra, esse
costituiscono le più tarde, grandi testimonianze conservatesi della pittura giottesca a fresco, essendo del tutto scomparsi i murali
eseguiti dal maestro nel corso del soggiorno napoletano. Le stesse fonti ricordano anche quattro dipinti su tavola riferiti anch'essi a
Giotto. Gli affreschi della cappella Peruzzi - la prima opera fiorentina di G. che si trovi ancora nella sua collocazione originaria -
ebbero una fama grandissima in età umanistica e rinascimentale, tanto che Michelangelo ne copiò alcune figure; in essi si svolge un
programma iconografico dedicato alle Storie dei due s. Giovanni: tre episodi per il Battista (Annuncio a Zaccaria, Nascita e
imposizione del nome, Banchetto di Erode) e tre per l'Evangelista (S. Giovanni nell'isola di Patmos, Risurrezione di Drusiana,
Ascensione). Sulla parete di fondo vi è un'immagine dell'Agnello mistico, quasi interamente scomparsa, mentre nella volta erano i
simboli degli evangelisti entro clipei, di cui si conserva solo l'Angelo di Matteo. La leggibilità dei murali della cappella Peruzzi è stata
seriamente compromessa da una serie di eventi esterni - infiltrazioni d'acqua, scialbatura settecentesca e, nell'Ottocento,
asportazione dello scialbo e conseguenti, pesanti integrazioni pittoriche - ma anche dalla loro stessa natura, essendo stati eseguiti
da G. con un uso assai ampio della tempera (Tintori, Borsook, 1965).Che i murali della cappella Peruzzi precedano quelli della Bardi
è stato più volte riaffermato con argomenti stilistici difficilmente contestabili (Wulff, 1904; Offner, 1939; Toesca, 1941; 1951; Gnudi,
1958; Previtali, 1967 [19742]; Bologna, 1969a; Brandi, 1983), anche se non sono mancate opinioni contrarie (Tintori, Borsook, 1965;
Cole, 1976a; Stubblebine, 1985), mentre Gilbert (1968) ha ipotizzato, macchinosamente, una contemporaneità di esecuzione.
Neppure nel caso dei murali della cappella Peruzzi le datazioni sono concordi, anche se sembra ragionevole collocarli entro il
secondo decennio del Trecento. Agli ultimi anni del decennio li riferiscono, tra gli altri, Gnudi (1958) e Bologna (1969a; 1969b),
mentre Previtali (1967 [19742]) e Brandi (1983) li spostano intorno al 1311-1312, subito dopo la cappella della Maddalena ad Assisi.
La perdita di una parte della pellicola pittorica non consente di valutare a pieno la qualità del chiaroscuro e del plasticismo degli
affreschi della cappella Peruzzi, che comunque mostrano nella costruzione delle scene soluzioni spaziali modellate in funzione della
forma architettonica della cappella, alta e stretta, che avrebbe potuto impedire una veduta di insieme delle composizioni. G. allora
concepisce ampi riquadri dilatati illusivamente in altezza, nascondendo 'dietro' alle cornici superiori le sommità degli edifici
raffigurati nelle scene: edifici costruiti come ampie scatole spaziali 'aperte' che unificano i diversi momenti della narrazione. Un
polittico, attualmente conservato a Raleigh (North Carolina Mus. of Art, Kress Coll.) e raffigurante al centro il Redentore
benedicente tra la Vergine e s. Giovanni Evangelista, a sinistra, e s. Giovanni Battista e s. Francesco, a destra, è stato proposto
(Suida, 1931) come proveniente dalla cappella Peruzzi e quindi come una delle quattro tavole di G. ricordate da Ghiberti nella
chiesa di Santa Croce. Dubbiosi su questa identificazione si mostrano, peraltro, Schaffran (1953), Gnudi (1958), Previtali, (1967
[19742]). Agli scomparti di Raleigh si deve aggiungere (Bologna, 1969a) una tavola raffigurante S. Giovanni Battista che manda
ambasciatori al Cristo conservata a Dresda (Staatl. Kunstsammlungen, Gemäldegal. Alte Meister), probabilmente facente parte in
origine del verso dello stesso polittico, opera autografa di G., sia pure affiancato da collaboratori. Ipotesi questa contestata da
Brandi (1983, p. 130), il quale ammette per la tavola di Dresda solo un generico riferimento alla bottega. Nell'adiacente cappella
Bardi G. dipinse sette Storie di s. Francesco (Stimmatizzazione, Rinuncia agli averi, Apparizione al Capitolo di Arles, Conferma della
Regola, Prova del fuoco davanti al sultano, Esequie di Francesco, Apparizione al frate Agostino e al vescovo Guido), riprendendo, sia
pure con parecchie modifiche, temi iconografici dell'esordio assisiate. Se un termine post quem per la cronologia dei murali è dato
dalla presenza, sulla parete di fondo, della figura di S. Ludovico di Tolosa, canonizzato nel 1317, non altrettanto agevole è fissare la

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data della loro effettiva esecuzione. Come nei casi precedenti, le oscillazioni sono notevoli e vanno dal 1320-1326 a dopo il 1333,
anno del ritorno di G. da Napoli (Brandi, 1983), con ipotesi intermedie, intorno al 1328, come proposto da Bologna (1969a; 1969b)
e Venturoli (1969), o intorno al 1325 per Gnudi (1958) e Previtali (1967 [19742]).Negli affreschi della cappella Bardi G. crea
un'articolazione spaziale improntata a una semplicità estrema e pensata in termini rigorosamente prospettici. Qui, più che nella
cappella Peruzzi, è la figura umana a definire lo spazio e a essere protagonista dell'immagine: lo testimoniano, per es., gli scorci
portati al limite, con assoluta padronanza delle leggi della prospettiva, nei frati della scena delle Esequie di Francesco.
Sostanzialmente concorde è il riconoscimento dell'autografia giottesca; su quest'ultimo punto dissente Oertel (1953), attribuendo
gli affreschi a un seguace, come Maso di Banco (v.) o il Maestro di Figline (v.). Certo alcuni collaboratori parteciparono all'impresa,
ma totale è l'omogeneità stilistica, che Previtali (1967 [19742]) considera frutto della mutata composizione della bottega di G., a
quella data composta da pittori formatisi direttamente sotto la guida del maestro, quali Maso, Stefano Fiorentino (v.), Taddeo
Gaddi (v.).Nella stessa chiesa di Santa Croce, nella cappella Baroncelli, si conserva un polittico che reca la firma "Opus magistri Iocti"
e che presenta, su cinque scomparti, l'Incoronazione della Vergine tra angeli e santi; la cuspide centrale, mancante, è stata
riconosciuta da Zeri (1957) in una tavola raffigurante l'Eterno tra angeli, conservata nella Timken Art Gall. di San Diego, in California.
Anche qui la presenza di aiuti si mostra evidente, ma nella concezione di insieme altrettanto evidente è l'intervento diretto di G.,
probabilmente al suo ritorno dal soggiorno napoletano conclusosi nel 1333.

Altre opere su tavola

La fase dell'attività di G. e dei suoi collaboratori sin qui delineata è segnata anche dall'esecuzione di altri dipinti su tavola, in cui si
ripropone costantemente il problema della dimensione dell'autografia. Rarissime sembrano le opere interamente dipinte da G.; la
presenza di collaboratori nella fase esecutiva, nelle tavole come negli affreschi, è infatti pressoché costante, ma anche
assolutamente integrata nell'opera per mezzo di quelle che si potrebbero definire le direttive stabilite dal maestro per le
realizzazioni affidate alla bottega: la firma apposta da G. garantiva la rispondenza dell'opera a tali direttive. Intorno al 1310 si
colloca una tavola a cuspide, con la Dormitio Virginis (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), già nella chiesa di
Ognissanti, da dove venne tolta tra la prima e la seconda edizione delle Vite di Vasari, quindi tra il 1550 e il 1568 (Toesca, 1951;
Gnudi, 1958; Previtali, 1967 [19742]; Brandi, 1983; Boskovits, 1988).Opera tradizionalmente ritenuta di bottega (Previtali, 1967
[19742]; Brandi, 1983), con l'eccezione di Volpe (1971), che ne sottolineava la grandissima qualità e la riferiva a G. in prima persona,
è la Croce fiorentina di S. Felice in Piazza. Dopo il recente restauro, essa si trova al centro di un serrato dibattito critico che
coinvolge gran parte della produzione giottesca tra primo e secondo decennio. Attribuita infatti da Bonsanti (1992; 1994) al Parente
di Giotto, è stata da Boskovits (1993) ricondotta all'autografia del maestro. Sempre a cavallo tra questi due decenni sembra trovare
la sua giusta collocazione cronologica il polittico di S. Reparata (Firenze, S. Maria del Fiore), raffigurante sul recto la Madonna in
trono con il Bambino tra i ss. Eugenio, Miniato, Zanobi, Crescenzio, e sul verso l'Annunciazione tra i ss. Reparata, Giovanni Battista,
Maria Maddalena e Niccolò, la cui attribuzione oscilla tra il Parente di Giotto (Previtali, 1967 [19742]) e il maestro stesso (Boskovits,
1993).Nel Mus. Horne di Firenze si conserva uno scomparto di polittico raffigurante S. Stefano, che Longhi (1930-1931), seguito da
molti altri, aveva supposto facente parte di un polittico che comprendeva il S. Lorenzo e il S. Giovanni Evangelista a Senlis (Abbazia
di Chaalis, Mus. Jacquemart-André) e la Madonna con il Bambino a Washington (National Gall. of Art, Kress Coll.), databile al terzo
decennio del Trecento. Gordon (1989) ha messo in dubbio la validità di questo raggruppamento di opere, notando una diversità di
colore nella preparazione per il fondo oro: verde per le tavole di Chaalis e Washington e rosso per il S. Stefano del Mus. Horne.
Anche se non direttamente collegabili tra loro, queste tavole sono di schietta marca giottesca, e soprattutto il S. Stefano mostra
qualità plastiche e coloristiche tali da poter ragionevolmente essere considerato autografo (Previtali, 1967 [19742]; Brandi, 1983).In
una fase cronologicamente vicina si colloca un gruppo di tavolette con Storie cristologiche, in complesso riconosciute autografe,
suddivise in vari musei. Si tratta di una Natività e Adorazione dei Magi (New York, Metropolitan Mus. of Art), una Presentazione al
Tempio (Boston, Isabella Stewart Gardner Mus.), un'Ultima Cena, una Crocifissione, una Discesa al limbo (Monaco, Alte
Pinakothek), una Deposizione (Firenze, Coll. Berenson) e una Pentecoste (Londra, Nat. Gall.), che Bologna (1969b) ha identificato
con un polittico ricordato dal Vasari ("una tavola di man di Giotto di figure piccole"; Le Vite, II, 1967, p.113) a Borgo San Sepolcro.Un
altro grande polittico firmato da G. ("Opus magistri Iocti de Florentia"), e ampiamente eseguito da collaboratori (Toesca, 1941;
Gnudi, 1958; Previtali, 1967 [19742]) forse nel giro di anni del soggiorno napoletano, è quello conservato nella Pinacoteca Naz. di
Bologna, raffigurante la Madonna in trono con il Bambino tra i ss. Pietro, Michele, Gabriele e Paolo; nella predella sono invece il
Battista, la Vergine, il Cristo, S. Giovanni Evangelista e la Maddalena.

Giotto a Napoli

La fama di G. non poté non attirare l'interesse della corte angioina di Napoli, formidabile committente di opere d'arte, dove il
maestro giunse nel 1328, forse chiamatovi tramite il principe Carlo di Calabria, che si trovava a Firenze già nel 1326. Dall'8 dicembre
di quell'anno fino al 1333 G. - con le opere da lui intraprese - è ricordato in numerosi documenti di pagamento della cancelleria
angioina. Già ampiamente interpretati da Bologna (1969b), i documenti angioini sono stati oggetto di un'attenta revisione da parte
di Aceto (1992). Essi si riferiscono tutti a lavori in castel Nuovo, salvo il primo (8 dicembre 1328), che Aceto (1992, p. 59) mette in
riferimento con l'inizio della decorazione pittorica in S. Chiara, i cui lavori architettonici si erano conclusi proprio in quell'anno. Sono
questi, infatti, i due edifici napoletani interessati dalla presenza giottesca. Oltre ai documenti, altre fonti trecentesche ricordano il
passaggio di G. per Napoli; la più antica, l'Ottimo commento della Divina Commedia del 1334-1343, afferma che "fu et è Giotto in
tra li dipintori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a

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Padova, e i molte parti del mondo". A dopo il 1358 risale invece il ricordo degli affreschi di G. nella cappella regia in castel Nuovo
nell'Itinerarium Syriacum di Petrarca (Bologna, 1969b, p. 179ss.). Seguono, da Ghiberti in poi, costanti le citazioni delle opere
napoletane, ricordate anche da fonti locali, come una lettera del Summonte, datata 1524. Ed è Ghiberti a ricordare un ciclo degli
Uomini famosi nella sala maggiore di castel Nuovo (Joost-Gaugier, 1980), poi citato anche da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 109).Di
questo soggiorno napoletano rimangono purtroppo scarsissime tracce figurative, profondamente interpretate da Bologna (1969b),
il quale ha riconosciuto la mano del maestro in un unico frammento di affresco, raffigurante il Compianto sul Cristo morto, nel coro
delle Clarisse nella chiesa di S. Chiara. Presenze di aiuti di G., in particolare di Maso di Banco, sono state identificate negli affreschi,
anch'essi frammentari, della Cappella Palatina di castel Nuovo (Bologna, 1969b), probabilmente lasciati incompiuti a causa del
ritorno del maestro a Firenze. Nello stesso castel Nuovo sono documentati affreschi eseguiti da G. nella 'cappella segreta' (Aceto,
1992). Accanto al maestro e ai suoi aiuti provenienti da Firenze si formò ben presto un gruppo di collaboratori locali, tra cui
spiccano il Maestro di Giovanni Barrile, Roberto d'Oderisio e Pietro Orimina (Bologna, 1969b). Del ciclo con gli Uomini famosi non
rimane alcuna traccia e contraddittori sono anche alcuni aspetti della documentazione letteraria, tanto da indurre Aceto (1992) a
dubitare della sua effettiva pertinenza all'attività giottesca.

L'ultimo periodo fiorentino

L'unico documento conservato degli ultimi anni trascorsi da G. a Firenze dopo il soggiorno napoletano è la già ricordata nomina, del
12 aprile 1334, a capomaestro dell'Opera di S. Reparata e soprintendente delle opere pubbliche del Comune, documento integrato
dalla citata notizia riportata da Giovanni Villani, secondo la quale il 18 luglio dello stesso anno fu intrapresa la costruzione, sotto la
direzione di G., del nuovo campanile del duomo. Dell'attività del maestro in campo architettonico si tratterà più avanti, mentre per
ciò che riguarda la pittura si deve rilevare che relativamente poche sono le opere conservatesi a lui riferibili in questo giro di anni.
Oltre al già trattato polittico Baroncelli in Santa Croce, vanno ricordati gli affreschi della cappella del Podestà nel palazzo del
Bargello, raffiguranti Storie della Maddalena e il Giudizio universale, databili tra il 1333 e prima della fine del 1337, al tempo del
podestà Fidesmino da Varano; conservati in pessimo stato, essi sembrano genericamente riferibili alla bottega di G. (Previtali, 1967
[19742]; Brandi, 1983). Nella sala d'armi del Bargello una Madonna in trono con il Bambino richiama modi presenti nelle Madonne
del polittico di Bologna e di quello Baroncelli, analogamente a quanto avviene per una immagine della Madonna con il Bambino
affrescata nella chiesa fiorentina di S. Maria a Ricorboli (Previtali, 1967 [19742]; Brandi, 1983).Altri dipinti minori su tavola
mostrano, in questi anni, le caratteristiche delle opere tarde del maestro: una Crocifissione a Strasburgo (Mus. des Beaux-Arts) e
una a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), una Madonna con le sette virtù (già New York, Coll. Wildenstein) e un
Crocifisso dipinto nella chiesa di Ognissanti a Firenze, che Brandi (1983) accosta a quello padovano e Previtali (Previtali, 1967
[19742]) assegna al Parente di Giotto.Intorno al 1336 G. è a Milano, inviato dal Comune di Firenze presso Azzone Visconti; non vi
rimangono opere pittoriche che rechino tracce autografe del suo passaggio, anche se il suo influsso è ben visibile in un affresco con
la Crocifissione nella chiesa di S. Gottardo in Corte (Gilbert, 1977; Bandera Bistoletti, 1986).

Giotto architetto

Una ricostruzione dell'attività del maestro in campo architettonico può fondarsi solo sulle poche testimonianze contemporanee
relative all'Opera del duomo fiorentino, più sopra ricordate, e sulle notizie di Ghiberti e soprattutto di Vasari, che cita come opere
architettoniche di G. il castello dell'Agosta a Lucca, il disegno del sepolcro del vescovo Tarlati nel duomo di Arezzo, il campanile di S.
Maria del Fiore (Le Vite, II, 1967, pp. 107, 112-113, 114-115). A proposito di quest'ultimo, afferma Pucci, nel 1373, pochi anni dopo
la morte di G., che questi "condusse tanto il lavorio / che' primi intagli fé con bello stile" (Centiloquio, LXXXV, vv. 87-88).Per Nardini
Despotti Mospignotti (1885) il progetto originale, anzi autografo, di G. per il campanile sarebbe da riconoscere in un disegno
architettonico su pergamena, a quel tempo pressoché sconosciuto, conservato a Siena (Mus. dell'Opera della Metropolitana, nr.
154), la 'pergamena senese'. Ipotesi, questa, ben presto abbandonata dalla critica (Paatz, 1937; Salvini, 1938; Toesca, 1951), ma in
seguito ripresa con forza da Gioseffi (1963) e, ancora, respinta da Brandi (1983). Pur non essendo in alcun modo accettabile una
qualsivoglia autografia, probabilmente si tratta di un'elaborazione in qualche modo dipendente da un disegno giottesco perduto
(Ascani, 1989, con lo stato della questione). Per quanto riguarda le strutture effettivamente realizzate sotto il controllo di G., le
ipotesi vanno limitate alla zona inferiore dello zoccolo, con le sue incrostazioni marmoree, all'esterno, e all'altezza delle nicchie
all'interno (Kreytenberg, 1978). La prosecuzione dei lavori vide impegnati, dopo la morte di G., prima Andrea Pisano (v.) poi
Francesco Talenti (v.).Un'altra ipotesi attributiva proposta da Gioseffi (1963), il quale la riprese da Selvatico (1836), è quella che
vuole G. autore anche dell'architettura della padovana cappella dell'Arena. Questa, in effetti, dimostra una tale unitarietà nel
rapporto tra spazio architettonico e spazio pittorico da far pensare a un unico pensiero informatore del monumento nella sua
totalità (Romanini, 1965a; 1965b), per la cui realizzazione G. potrebbe aver fornito un progetto. Ciò anche se la cronologia interna
dell'opera del maestro non sembra consentire una sua effettiva presenza nel periodo di costruzione dell'edificio (Brandi, 1983;
Basile, 1992). Certo è che la cappella dell'Arena è caratterizzata da accenti architettonici di schietta impronta fiorentina e gotica,
che solo G. poteva, nei primissimi anni del Trecento, portare in Italia settentrionale (Romanini, 1965a; 1965b; 1983b); ciò grazie alla
sua diretta conoscenza sia delle precedenti esperienze architettoniche fiorentine di Arnolfo di Cambio sia della situazione della
Roma del 1300, dove nella cappella del castello Caetani a Capo di Bove era stato realizzato il primo esempio di 'cappella di palazzo',
distinta dal complesso abitativo vero e proprio, ma a esso strettamente pertinente (Righetti Tosti-Croce, 1983).Oltre un trentennio
più tardi, la presenza di G. a Milano presso la corte viscontea fu il tramite per la diffusione di ulteriori, nuove idee. In particolare,
nella chiesa di S. Gottardo in Corte, il campanile, che una lapide murata alla base dice eseguito da Francesco Pegorari da Cremona

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nel 1334 - la coincidenza di date con il campanile fiorentino non è senza significato -, costituisce il primo esempio in Italia
settentrionale di una struttura di questo tipo concepita come edificio a sé stante rispetto alla chiesa: come avviene, anche se con
varianti formali, nel campanile del duomo di Firenze. E, ancora, come nel campanile disegnato sulla pergamena senese, la torre di S.
Gottardo mostra una delle più antiche terminazioni a guglia presenti in Italia settentrionale (Romanini, 1972).A Firenze, oltre alla
fondazione del campanile, G. dovette curare, come soprintendente alle opere pubbliche del Comune, la costruzione del ponte alla
Carraia (Brandi, 1983), portato a termine nel 1336, con la spesa di venticinquemila fiorini d'oro (Giovanni Villani, Nuova cronica, XI,
12).Nel 1337, subito dopo il ritorno da Milano, G. concluse a Firenze la sua esistenza e il suo formidabile percorso artistico.

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