TESTIMONIANZA DI UN LETTORE in A.R.Gentilini (a c. di), Dino Campana alla fine del secolo, Bologna, Il Mulino, 1999 (pp.51-62) E d o a r d o S a n g u in e ti
TESTIMONIANZA DI UN LETTORE
[...] se la mia testimonianza come si addice
ai processi - anche se questa non è una sede processuale - consiste in testimonianza a favore o contro, io propongo la mia come a favore, toccando due soli punti che però mi sembrano quelli nodali e anche quelli forse meno vo lentieri, per certi riguardi, affrontati, ma in qualche modo imprescindibili. Il primo è proprio la questione del rapporto biografia-opera: questione estremamente spinosa che si tende volentieri, ed è comprensibile, in qualche modo ad accantonare; poesia e follia è un binomio sul quale è molto facile perdersi davvero, o per eccessi di en tusiasmo di fronte a una sorte di sacralità delirante o per un imbarazzo che ripiega nettamente sul versante lettera rio (dell'uomo non vogliamo sapere nulla, stiamo ai testi, il resto è pura confusione e caos). Nel ’69 io parlavo dell’opportunità di ridimensionare il mito di un Rimbaud italiano che circondava Campana, ma dicevo anche che lo preferivo in ogni caso ad un ec cesso di riduzione letteraria sul quale poi si è molto, e a mio parere troppo, insistito. Non voglio affrontare una questione, diciamo così, diagnostica nei confronti di Campana, che non solo non sarebbe nelle mie competen ze, ma poi non sarebbe di grande interesse, voglio però fare un paio di osservazioni minime al riguardo. Ci sono due sintomi, ,che, per quello che noi sappiamo, sono quelli con* cui Campana paga la propria sofferenza esi stenziale, sono la caffeinomania e la pulsione al vagabon daggio. Questi sono, come dire, gli argomenti accusatori da un punto di vista di rigore medico, confessati da Campana stesso, anzi è lui la fonte poi di queste indica zioni, e intorno ai quali argomenti si è avuto vario com mento. Voglio prestare un minimo di attenzione alla caf- feinomania, che naturalmente oggi farà sorridere, nella cultura della droga in cui ci troviamo, ma credo siajnolto opportuno leggere con cautela e con senso storico certe categorie che noi possiamo, oso dire dobbiamo, non più condividere - credo che si possa leggere tranquillamente Freud con un certo distacco di fronte a certe considera zioni intorno all’isteria, anche perché quell’isteria di cui parlava Freud non si trova più, e probabilmente non si trova più nemmeno la caffeinomania di cui fu indiziato Campana, ma non per questo mi pare ci sia molto da sorridere Il mate di Pampa, nei Canpi, appàrtiene un poco a questo ambito. Ma in sostanza c’è un tipo di dia gnosi che Campana interiorizza e subisce, diciamo pure subisce, ma l’interiorizza, perché fa parte di una cultura d’epoca alla quale non si sottrae né ha la possibilità di sottrarsi. Allora io credo che valga la pena di accogliere, non su un piano di analisi psicocritica, legata così ad at tenzioni biografiche o appunto psicologica o psichica o psichiatrica, quella sorta di autodiagnosi che Campana formula quando si presenta come un nevrastenico. Anche questa parola evidentemente noi non useremmo più clini camente, e ce ne potremmo avvalere, al più, con qualche rischio metaforico. Ma se optiamo per la scrittura di un nevrastenico, assumendola come una sorta di chiave di uno statuto psichico che si riflette nella pagina, anzi che è nella pagina, allora il divorzio o la delicata relazione tra biografia e testo può ricomporsi proprio perché mette l’accento su una modalità dello stile, una modalità dicia mo, se volete, di percezione e non sopra un accidente eventualmente accantonabile della figura dello scrivente. Se dovessi indicare un archetipo, che non è una fonte ma potrebbe benissimo esserlo, penserei a qualcosa di si mile all’uomo del sottosuolo, per capirci, all’uomo malato e maligno che soffre di fegato e che da questa sorta di condizione deduce poi una modalità di comportamento molto più, perché questo poi ci interessa, molto più scrit torio, ripeto, che esistenziale. Vorrei, - il fatto di parlare da testimone mi esime da argomentazioni documentarie ma qualche minima citazione ci vuole - vorrei leggere due passi appena della Giornata di un nevrastenico pro prio come esempi di modalità scrittoria:
* (Caffè) È passata la Russa. La piaga delle sue labbra ardeva
nel suo viso pallido. È venuta ed è passata portando il fiore e la piaga delle sue labbra. Con un passo elegante, troppo sem plice troppo conscio è passata. La neve seguita a cadere e si scioglie indifferente nel fango della via. La sartina e l’avvocato ridono e chiaccherano. I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città. Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremo riposare in sogni bian chi ancora. C’è uno specchio avanti a me e l’orologio batte: la luce mi giunge dai portici a traverso le cortine della vetrata. Prendo la penna: scrivo: cosa, non so: ho il sangue alle dita: scrivo: «l’amante nella penombra si aggraffia al viso dell’amante per scarnificare il suo sogno... ecc.».
Vi leggerò ancora le ultime righe di questa Giornata
di un nevrastenico:
Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce
sanguina, poi l’ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dol cezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall’ombra sotto un lampione s’imbianca un’ombra che ha le labbra tinte. O Sa tana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria!
Ecco, questa nevrosi da sottosuolo la proporrei come
una chiave di lettura per Campana e il finale, con la deri vazione da Les litanies de Satan baudeleriane, può jcon- giungere, diciamo così, in quello strano rimescolarsi che certamente è la tanto problematica cultura di Campana, ripeto, non tanto come fonti ma come archetipi, Baudelai re e Dostoevskij. Mi pare un bell’impasto in ogni caso; e aggiungo che nel Fascicolo marradese, in prima stesura, questa Giornata di un nevrastenico si chiudeva con l’ap parizione della «troia notturna», in questo modo però: «[...] (Cazzottaste voi mai una troia notturna in fondo ad un vico gridando: perché perché vuoi tu dall’ombra pa rermi) (mostrarmi) (il cadavere di Ofelia? E la cazzotto)». Questo finale va tenuto presente perché, qui espunto, è però rivelatore di un elemento grottesco e teppistico che è fortissimo in Campana, una sorta, così mi piacerebbe Allora dire, se non vi pare abusiva l’espressione, di orfh_ smo teppistico: questa è una formula che mi pare pratica- b ilen ch e permette di contenere ogni spinta verso tenta zioni di sublimazione. Ma quello su cui volevo mettere l’accento è l’altro sintomo evidentemente: per usare espressioni che Cam pana impiega parlando al Pariani, «smania di instabilità», «mania di vagabondaggio». Ora, basta scorrere, prima che le pagine, l’indice dei Canti, per trovarsi ossessiva mente dinanzi a viaggio, ritorno, promenade o petit^pro- menade, viaggio in montagna, Viaggio a Montevideo, Pas seggiata in tram in America e ritorno, e poi Ritorno nella sezione de La Verna: «[...] Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua poesia di mo vimento, [...] O pellegrino, o pellegrini che pensosi anda te! [...]». I Canti sono in qualche modo un rendiconto di anni di pellegrinaggio e, per usare l’espressione che troviamo ancora in Pampa, si fondano sopra il mito dell’errante, anzi come dice Campana a poche righe di distanza del- l’«eternoj errante» (Wanderjahre):
[...] Che cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano le nuvole
e le stelle, fuggivano: mentre che dalla Pampa nera scossa che sfuggiva a tratti nella selvaggia nera corsa del vento ora più forte ora più fievole ora come un lontano fragore ferreo: a trat ti alla malinconia più profonda dell’errante un richiamo:... dalle criniere delTerbe scosse come alla malinconia più profonda del l’eterno errante per la Pampa riscossa come un richiamo che fuggiva lugubre. [...].
Ora, la poesia del movimento, per usare proprio
l'espressione «la poesia di movimento» di Campana, non è soltanto del soggetto, è delle cose perché solita in vaga bondaggio, le nuvole, il vento, la pampa, le stelle: n<p è soltanto l’errante, sono tutte le realtà che, evocate, sono colte in una sorta di infrenabile dinamismo. Ma più im portante anche qui è, direi, cercare di individuare, una volta assunta la centralità di questo sintomo, quello che può essere il modulo giacente in una sorta di archetipo. Allora utilizzerei il titolo di un libro uscito l’anno scorso, il saggio di Patrizio Collini Wanderung: il viaggio dei ro mantici, per fornire questa formula: e in particolare, pos sono servire le pagine che sono dedicate al Lenz di Bùch- ner. Non discuto anche qui di fonti, tomo a dire si tratta di modelli. Nella cultura romantica muore il viaggio, si li quida l’idea di un itinerario, di una organizzazione razio nale per cui ci si muove per andare da un luogo verso una meta. U viaggio dei romantici non è più viaggio, c’è una frattura in qualche modo storica, comincia un errare che può essere un euforico immergersi nel mondo, nella natura, una continua scoperta, esplorazione, ma che porta in sé immediatamente (e il Lenz in questo senso è al soli to estremamente profetico) i tratti nevrotici che sempre più diventeranno forti. Allora, questa che per l’ultimo germano di cui stiamo discorrendo va bene che abbia eti chetta gotica, è poi quella che in termini appunto alla Rimbaud potremmo chiamare la storia di un «bateau ivre», questo è il modello: ubriaca magari di caffè o di mate al massimo, un’ebrezza un po’ all’italiana quella di cui soffre Campana, ma in ogni caso con questa pulsione errabonda, la sua scrittura assume, e assume sempre più evidentemente, un andamento errabondo. Non è questio ne solo di una tematica contefiuSstica, di viaggi, di ritor ni, di promenade ecc. di cui è piena la scrittura campania- na e con addensamento nella costruzione dell’opera: è che la scrittura assume questo andamento, si fa errabon da la sintassi, è la forma delTerranza, dell’instabilità che organizza il discorso. Allora non è più il voyageur o pro- meneur, e nemmeno il flàneur quello che è in causa: è una nevrosi jimbulatoriì-gratpita che proprio passa sulla pagina, che architetta il discorso (anche Whitman, se vo lete, può entrare in giuoco e giustificare in maniera meno romantica forse di quanto il sangue terminale del co lophon possa suggerire una cosa di questo genere) per’ar rivare poi ai giorni nostri, senza nessun abuso, ad un’idea di esperienza della scrittura on thè road. che finalmente è l’ultimo anello di questo grande mito romantico e dei suoi eccessi, fino a modellizzare veramente comportamen ti alternativi, socialmente deplorati o deplorevoli, e pro prio significativi per questo. In questo itinerario prendono significato allora, come percorse da questa erranza, tutte le infinite figure femmi nili di cui sono pieni i Canti, alte e basse, e propriamente chimeriche, che spuntano da ogni angolo dell’erranza, le matrone, le femmine, le troie, le regine, le ancelle, le pas seggiatrici, le ruffiane, le sacerdotesse, le cariatidi, le zin gare, le fanciulle, le sartine, le ostesse, le prostitute.^ L'anima di questo Faust «giovane e bello» credo trovi il suo emblema più significativo in un passo molto breve, quando ci sono le ragazze della «leggera» che, mi pare, potrebbero essere indicate come una sorta di forma me dia di quella costellazione campanìana Chimera-Ofelia- troia, e che naturalmente è logico trovare là dove si va in America, e si torna, in tram:
[...] il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola
terribilmente [...],
[...] C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, sia
mo della leggera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che importava in fondo! Ballasse ^il bastimento, ballasse fino a Buenos-Aires: questo dava allegria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffo e sornione! Non so se fosse la bestialità irritante del mare, il disgusto che quel grosso bestione col suo riso mi dava... basta: i giorni passavano. [...]. Dall’altro lato di questa erranza, gli altri punti capitali sono i sosia di Campana e qui basta citare due figure che, calcolatamente certo, appaiono l’una subito prima del viaggio in tram e l’altra subito dopo: il Russo e Rego lo. Il Russo, a proposito dell’erranza della penna: «[...] Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta, scri veva. La penna scorreva strideva spasmodica: [...]»; e an cora poche righe, le ultime, di Regolo:
Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mo
struosa assurda ragione e ci lasciammo stringendoci semplice- mente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo, senza ac corgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi li beramente ci abbandonammo all’irreparabile.
Ecco, quest’errare vagabondo, se ha una meta, è l’ir
reparabile, esiste per^un naufragio. Il secondo punto che tratterò molto più brevemente, è un punto che per sé è non meno sgradevole ormai di quello del rapporto follia e scrittura ed è la querelle, pro prio cui alludevo prima, impostata da Contini tra il visivo e il veggente. Dirò subito che, a mio parere, l’errore, come si dice volgarmente, è nel manico e vi spiegò per ché: Contini cercava di estrarre criticamente da questo anarchico - parola di Contini - da questo bohémien - sempre di Contini - quell’uomo d’ordine che era in lui: questa era la preoccupazione continiana e che Contini non è riuscito a risolvere. Contini muoye da Rimbaud, anzi, dal Rimbaud di Soffici, più particolarmente, per dire la celebre proposizione che vi sentirete rileggere per la millesima volta: «Campana non è un veggente o un vi sionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa». Quan do sistema in volume definitivamente i propri scritti, Contini addita in nota l’opinione di Montale del 1942 per cui le corna di questo dilemma non sarebbero affatto in conciliabili e questa soluzione, per cui le due cose vengo no conciliate, tende a diventare quella prevalente, e serve se non alti;o ad accantonare un poco la questione, che rappresenta una sorta di impasse. Le corna di questo di lemma, in realtà, si possono accantonare perché non è un dilemma, ma non nel senso di una composizione, ma per ché, io suggerirei, e spero non vogliate prendere questa come una questione di vana logomachia, sono possibili tre soluzioni e non due, perché non è la stessa cosa il veggente e il visionario. E allora direi così: Campana non è un visivo, Campana non è nemmeno un veggente, ma Campana è visionario, che è un’altra cosa. Non avrà delle illuminazioni, diciamo così, ma ha delle allucinazio ni, è un nevrotico, non ha vedute né rivelazioni, ma ha delle apparizioni; la scrittura di Campana è una scrittura per apparizioni. Quando dico Campana non dico tutto Campana, na turalmente, parlo di quel Campana che ci importa, che ci sta a cuore, che egli viene costruendo nell’opera secondo una progressione non meccanica né inerte, e piuttosto complessa. Allora, cosa faceva Contini? Contini prendeva, se ricordate, proprio l’inizio de La Notte, la prima pagi na, per dimostrare che Campana era un visivo - e già questo è una campionatura da prendersi con molta caute la - sceglieva cioè il momento proprio d’avvio di Campa na, quando Campana comincia - parlo dell’architettura non della cronologia - la sua erranza, e dunque bisogna procedere cauti, e non di meno questa pagina che do vrebbe dimostrare quella che Contini chiama «la fe^e» di Campana - crede nel veduto, nella cosa vista per pòi ca ricarla indebitamente, come dice Contini, questo sarebbe il suo sbaglio «d’oscurità indecifrabile» per estrarre «figu razioni» - e questo mi piace invece, «figurazioni» perché parola di Campana, precisamente visionaria - ha già un andamento comunque di tipo allucinatorio, fin dall’inizio, con quel ricordo che ha già una strategia tutt’altro che mimetico-registratoria, ma al contrario proprio di stacco immediato verso una apparizione: * Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refri gerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plum bee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di ado lescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.
Ecco: «[...] e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta
lp zingare e un canto, da la palude afona una nenia,| pri mordiale monotona e irritante: [...]». Qui attacca Campa na, nel momento in cui il visivo cessa e, scusate l’elemen tarità della cosa, è all’ascolto, è per un suono che si ha uno stacco netto: «[...] e del tempo fu sospeso il corso» non depone affatto verso una visività che poi Contini in qualche modo corregge quando dice: «Non siamo di fronte a un quadro [...]» ma per quello sgangheramento, se volete diciamo pure dérèglement, del tempo e dello spazio che qui si manifesta per accidente in questa forma, ma che altrove comincerà sempre più a sabotare la strut tura dei Canti nell’erranza in tempi e spazi che non sono più piegati a quell’«orrore della ragione» di cui parlava Campana nel passo che vi ho citato a proposito di Rego lo. La nevrosi errante di Campana scardina spazio e tem po e la «mostruosa assurda ragione» è quella che invece viene respinta. Parlare di un visionarismo espressionista per Campana mi parrebbe la soluzione cEe finalmente scioglie quell ingombrante ostacolo e quel falso problema e - questo lo accenno appena - aiuta anche di fronte al l’abitudine ormai troppo convalidata, secondo me, di concepire l’espressionismo secondo categorie di stile, se condo modalità pluristilistiche, plurilinguistiche che ci è stata solennemente trasmessa, puntare su quello che l’espressionismo significa secondo me molto più corretta- mente cioè verso un’ottica di deformazione, di visionarie tà e finalmente, al limite, di astrazione. Allora, ancora in omaggio, abusivo questa volta, alle modalità gotiche che si addicono a un germano, io utiliz zerei con grande spregiudicatezza una espressione con nessa alla poetica di Webern, quella della «Klangfarben- melodie» (della melodia timbrica, ma che in tedesco dice sempre qualcosa di più, felicemente) per quell’idea dei colori del suono. E i colori di Campana sono precisamen te dei colori che hanno una loro dimensione visiva, da ot tica visionaria perché sono davvero «Klangfarben», sono veramente colori.di suono e allora, l’ultima citazione - lo so che è banale^quello che vi cito, ma se vogliamo pren dere un campione di Campana è inevitabile leggere un tratto di Genova - là dove Campana per così dire è più Campana, e non si potrebbe confonderlo in nessun modo - come potrebbe accadere per l’inizio de La Notte con qualche prosa frammentistica d’epoca - questo passo in vece che solo Campana avrebbe potuto scrivere: Per i vichi marini nell’ambigua/ Sera cacciava il vento tra i fanali/ Preludii dal groviglio delie navi:/ I palazzi marini avevan bianchi/ Arabeschi nell’ombra illanguidita/ Ed andavamo io e la sera ambigua:/ Ed io gli occhi alzavo su ai mille/ E mille e «mille occhi benevoli/ Delle Chimere nei cieli: .../ Quando,/ Melodiosamente/ D alto sale, il vento come bianca fìnse una vi sione di Grazia/ Come dalla vicenda infaticabile/ De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale/ Dentro il vico marino in alto sale, .../ Dentro il vico ché rosse in alto sale/ Marino l’ali rosse dei fanali/ Rabescavano l’ombra illanguidita, .../ Che nel vico marino, in alto sale/ Che bianca e lieve e querula salì!/ «Come nellali rosse dei fanali/ Bianca e rossa nellombra del fa nale/ Che bianca e lieve e tremula salì:...»/ Ora di già nel rosso del fanale/ Era già l’ombra faticosamente/ Bianca .../ Bianca quando nel rosso del fanale/ Bianca lontana faticosamente/ L’eco attonita rise un irreale/ Riso: e che l’eco faticosamente/ E bianca e lieve e attonita salì...