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Le opere che Dante vide a

Ravenna, tra mosaici bizantini e


capolavori di scuola giottesca
di Federico Giannini, Ilaria Baratta , scritto il 14/06/2021, 13:34:33
Categorie: Opere e artisti

Che cosa può aver visto Dante negli ultimi due anni della sua vita, quando
si trovava a Ravenna? E come le opere possono aver ispirato il suo
Paradiso? Un itinerario dantesco a partire dalla mostra “Dante e le arti al
tempo dell'esilio”.

“Esistono indubbie consonanze tra i decori musivi della città adriatica e le


sfolgoranti visioni del sacrato poema: luce e colori giocano in entrambi i
casi un ruolo primario come mezzi espressivi necessari a rappresentare
l’indescrivibile, dando corpo a immagini incorporee e infondendo un
movimento fittizio a ciò che in definitiva è immobile ed eterno”: a
ipotizzare in questi termini i legami tra i tesori artistici antichi di
Ravenna e le immagini del Paradiso di Dante Alighieri (Firenze, 1265 -
Ravenna, 1321) è la studiosa Laura Pasquini, autrice nel 2008 di un
denso saggio sulle iconografie dantesche con particolare riferimento a
Ravenna. La città adagiata sulle rive dell’Adriatico, com’è noto, fu l’ultimo
approdo del Sommo Poeta: qui Dante si spense nel 1321, dopo esservi
giunto probabilmente nel 1319, anche se non è nota con certezza la data
del suo trasferimento dalla Verona di Cangrande della Scala. La scelta di
una città piccola e allora marginale come era Ravenna, nota Massimo
Medica, curatore della bella mostra Dante e le arti al tempo dell’esilio
(Ravenna, chiesa di San Romualdo, dall’8 maggio al 4 luglio 2021), è
motivata da diversi fattori. Intanto, quello politico: Ravenna era governata
dai Da Polenta, famiglia di fede guelfa. C’erano poi ragioni prettamente
pratiche: il signore di Ravenna, Guido Novello da Polenta (Ravenna,
1275 circa - Bologna, 1333), aveva garantito incolumità a Dante e alla sua
famiglia, tanto più che la città viveva all’epoca un momento di grande
tranquillità.

Probabilmente, c’erano anche ragioni culturali: il grande studioso Marco


Santagata ha spiegato, nel suo recente Dante. Il romanzo, che Ravenna era
priva di una vera corte, e il governo della città era piuttosto esercitato da
una sorta di “famiglia” nei confronti della quale i vincoli di fedeltà di
stampo feudale si mescolavano “ambiguamente ai rapporti di dipendenza
retribuiti”, ma che comunque riconosceva i meriti culturali e artistici più
che altrove. “Da questo punto di vista”, spiega Santagata, “anticipa in
piccola misura ciò che succederà nelle corti vere e proprie, che
considereranno la presenza di letterati e intellettuali un valore di per sé (e
perciò anche un motivo di investimento economico”. Questo può forse
essere anche il motivo per cui Guido Novello non è mai nominato nel
Paradiso (a Ravenna, Dante avrebbe scritto gli ultimi tredici canti della
Divina Commedia): dettaglio “significativo del fatto che il rapporto con quel
signore”, si legge ancora in Santagata, “si collocava a un livello che poteva
prescindere sia dagli smaccati encomi cortigiani profusi per Cangrande, sia
dalle più eleganti attestazioni di riconoscenza rilasciate ai Malaspina”.
Boccaccio addirittura arrivava ad affermare che fosse stato lo stesso Guido
Novello a chiamare Dante a Ravenna, con un gesto proprio da signore
mecenate rinascimentale, quindi piuttosto lontano dalla mentalità del
tempo: in realtà non sappiamo con precisione come si verificò
l’avvicinamento.

Quel che è certo, è che Dante non rimase insensibile all’arte ravennate:
è quanto cerca d’illustrare la mostra della chiesa di San Romualdo. La
Ravenna in cui il poeta si mosse era certo molto diversa rispetto alla città
ch’era stata capitale dell’Esarcato d’Italia: tuttavia, Dante poteva
comunque percorrere i grandi monumenti della Ravenna bizantina
osservando le loro magnifiche decorazioni, le opere d’arte che le
arricchivano, e magari ammirando anche le opere degli artisti
contemporanei che le chiese più recenti conservavano. Nel suo recente
L’Italia di Dante, l’italianista Giulio Ferroni, citando il Canto VI del
Paradiso, quello in cui il poeta incontra l’imperatore Giustiniano (“Cesare
fui e son Iustiniano / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro
le leggi trassi il troppo e ’l vano”), immagina proprio un Dante che, “certo
autorevolmente accompagnato”, entra a più riprese nella basilica di San
Vitale, “muovendosi tra le possenti volte e contemplando i mosaici,
illuminati come ora dalla luce naturale, pensando al canto VI del suo
Paradiso, forse allora già scritto o forse proprio qui ideato, di fronte al
corteo dell’imperatore, che, sulla parete laterale sinistra del presbiterio,
sembra come fissare chi guarda, da una illimitata insondabile distanza, dal
suo silenzio dorato affondato nell’oltretempo”. La figura di Giustiniano
era presente anche nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo: per Dante,
Giustiniano rappresentava “l’impero legittimo”, e quello stretto legame
tra potere temporale e potere religioso ch’emerge dai mosaici ravennati
riecheggia anche in Dante, cui era caro il concetto di accordo tra Chiesa e
Impero: un’idea per la quale l’artista poté trovare conforto, spiega Medica
facendo a sua volta riferimento agli studi di Pasquini, “anche in altri
mosaici cittadini come quello perduto dell’abside della chiesa di San
Giovanni Evangelista, dove sappiamo erano raffigurati Arcadio e Teodosio
II con le rispettive mogli, insieme alle immagini clipeate di Costantino il
Grande e degli imperatori della dinastia valentiniana-teodosiana associati
simbolicamente alla raffigurazione del Salvatore in trono, posto al centro
del catino absidale”.

A tutto ciò si può aggiungere anche l’effetto che lo splendore dei mosaici
antichi poté sortire su Dante, magari animando l’immagine del Paradiso
che il poeta si costruì nella mente. Ferroni ricorda che probabilmente nel
mausoleo di Galla Placidia, magari osservando la volta azzurra con le
stelle dorate che la punteggiano e la croce latina che risalta al centro della
calotta della cupola, il poeta “avrebbe trovato suggestioni per qualcuna
delle sue visioni paradisiache, per quei movimenti metamorfici di
immagini con cui cerca di figurare il paradiso” (Paradiso XXIII: “e così,
figurando il paradiso / convien saltar lo sacrato poema / come chi trova
suo cammin riciso”). Allo stesso modo, Dante avrà sicuramente visto le
immagini di Cristo in trono nelle varie chiese ravennati, come
Sant’Apollinare Nuovo o San Michele in Africisco (quest’ultima spogliata
della sua decorazione musiva a seguito dell’occupazione napoleonica: i
mosaici furono smontati e venduti, e un frammento con una testa di san
Michele, conservato al Museo di Torcello, è giunto a Ravenna per la
mostra di San Romualdo): immagini che, ha suggerito la studiosa Gioia
Paradisi, potrebbero esser messe in relazione con l’invettiva di san Pietro
contro la corruzione della Chiesa (Paradiso XXVII), nella quale si evoca
l’immagine del trono di Cristo vuoto che, per antitesi, richiama il suo
trionfo (“Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo
mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”).

Basilica di San Vitale. Foto Finestre sull’Arte


L’imperatore Giustiniano e il suo corteo, mosaico nella basilica di San Vitale

Il mausoleo di Galla Placidia. Foto Comune di Ravenna


La volta del mausoleo di Galla Placidia. Foto Finestre sull’Arte
Sala della mostra Dante e le arti al tempo dell’esilio. Foto Finestre sull’Arte
Maestranze bizantine di San Michele in Africisco, Testa dell’arcangelo Michele (VI
secolo; frammento musivo dalla chiesa bizantina di San Michele in Africisco a
Ravenna, pietre naturali e paste vitree, 36,5 x 24 cm; Torcello, Museo di
Torcello). Foto di Francesco Bini

All’epoca in cui Dante era a Ravenna, ricorda ancora Massimo Medica, i


Polentani avevano promosso una serie di restauri e rifacimenti delle
antiche chiese al fine di assegnare un “nuovo volto alla Ravenna bizantina,
come segno tangibile delle nuove forze in atto” (così Fabio Massaccesi),
operazione che richiamò in città una gran mole di artisti e artigiani, tanto
che Giorgio Vasari, nelle sue Vite, arrivò ad affermare che Dante avrebbe
fatto da tramite per far giungere Giotto a Ravenna: “venendo agli orecchi
di Dante poeta fiorentino che Giotto era in Ferrara, operò di maniera che
lo condusse a Ravenna, dove egli si stava in esilio, e gli fece fare in S.
Francesco per i Signori da Polenta alcune storie in fresco intorno alla
chiesa, che sono ragionevoli”. La notizia di un Giotto chiamato a Ravenna
su intercessione di Dante non è ovviamente riscontrabile, ed è probabile,
spiega Medica, che nacque per via della corposa presenza in città di opere
di artisti giotteschi. Ne è un chiaro esempio lo splendido dossale (una
Madonna con Bambino e santi e quattro storie di Cristo, peraltro sottoposta a un
intervento di restauro e pulitura in occasione di Dante e le arti al tempo
dell’esilio) che Federico Zeri nel 1958 e Alberto Martini nel 1959 ascrissero
al Maestro del Coro degli Scrovegni, artista attivo a Padova nella prima
metà del Trecento. Opera di chiara impostazione bizantineggiante nella
ieratica, solenne e frontale Madonna col Bambino, e caratterizzata però da
elementi d’osservanza giottesca nelle quattro storie di Cristo (la Natività,
l’Adorazione dei Magi, la Crocifissione e la Resurrezione) che affiancano il
trono, potrebbe esser stata realizzata in un periodo situabile tra il 1317 e i
primi anni del decennio successivo (il termine a quo, ovvero il 1317, è
motivato dalla presenza di san Ludovico di Tolosa ai piedi della Vergine: il
santo francese fu canonizzato nell’aprile di quell’anno da papa Giovanni
XXII). La presenza di santi francescani e l’antica presenza ravennate di
quest’opera, oggi conservata al MAR - Museo d’Arte della Città di
Ravenna, lasciano supporre che sia stata realizzata per la chiesa di Santa
Chiara, legata ai Da Polenta.

“Un ciclo di affreschi trecenteschi attribuito a Pietro da Rimini”, ricorda la


storica dell’arte Giorgia Salerno, “decorava l’abside della chiesa,
testimonianza della presenza di maestranze giottesche in una Ravenna
che, memore dei fasti tardo-antichi e bizantini, sotto il potere di Ostasio
di Bernardino Da Polenta e grazie all’attività degli ordini francescano e
domenicano è alla ricerca di una nuova luce. Non è dunque da escludere la
chiesa di Santa Chiara come luogo d’origine della tavola del Maestro del
Coro”. La tavola è dunque un attestato dell’interesse per le arti nutrito dai
Da Polenta (peraltro molto devoti a san Francesco), e del resto la loro
magnificenza, rammenta la studiosa, era stata citata anche da Dante stesso
nel canto XXVII dell’Inferno (“Ravenna sta come stata è molt’anni /
l’aguglia Da Poeltna la si cova / sì che Cervia la ricuopre co’ suoi vanni”).

Il summenzionato Pietro da Rimini (documentato dal 1324 al 1338) era


presente a Ravenna quando Dante era in città: sappiamo dai documenti
che il pittore fu impiegato a più riprese in imprese decorative nelle chiese
cittadine (per esempio in San Francesco e nella stessa Santa Chiara: gli
affreschi di quest’ultima oggi sono conservati nel Museo Nazionale di
Ravenna), e probabilmente a lui si devono anche gli affreschi del refettorio
dell’abbazia di Pomposa, risalenti al 1318, e anch’essi forse ammirati da
Dante. Non è noto se il Sommo Poeta fece in tempo a veder terminati gli
affreschi di San Francesco, di cui oggi sopravvivono pochi lacerti
(curiosamente, Pietro da Rimini vi dipinse anche un Sogno di Innocenzo III
nel quale la figura che veglia il papa in passato venne interpretata come un
improbabile ritratto di Dante Alighieri), ma di sicuro i caratteri di ciò che
Dante poté osservare sono simili a quelli che Pietro da Rimini dimostra in
una tavoletta (databile al 1330 circa) dei Musei Vaticani, una Crocifissione
di composta drammaticità che Cesare Gnudi aveva avvicinato ai modi
palesati dai dolenti degli affreschi di San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo,
largamente attribuiti a Pietro da Rimini, e tra le opere che Dante forse
poté ammirare se si ammette una datazione attorno al 1320. Il motivo del
san Giovanni seduto nella Crocifissione rimanda peraltro alla figura di san
Giuseppe negli affreschi di Santa Chiara. Non sembrano esserci grossi
dubbi sul fatto che Dante frequentasse la chiesa, o comunque la
conoscesse. “Le monache di Santa Chiara di Ravenna”, hanno scritto
Andrea Emiliani, Giovanni Montanari e Pier Giorgio Pasini
nell’introduzione di un volume interamente dedicato agli affreschi della
chiesa ravennate, erano note a Dante “non solo perché esse sono nella
direzione spirituale degli stessi frati francescani con cui Dante, dal 1318 al
1321, deve avere avuto familiare consorzio, ma perché commissionano a
Pietro da Rimini quei cicli pittorici tanto affini al ‘visibile parlare’
(Purgatorio X 95) del Poeta stesso del Paradiso coi quattro Dottori, nella
volta, associati ai quattro Evangelisti; e coi dodici Santi e Sante, nei
medaglioni dell’arco trionfale, spartiti in sei e sei per parte, con una
gerarchia sempre reminescente degli stessi archetipi imaginico-creativi
che reggono l’immaginario poetico dell’Alighieri ‘Theologus dogmatis
expers’ (Giovanni del Virgilio) non solo nel ciclo del Sole, col coro dei
Dodici Dottori, ma in tutto il Paradiso”.

Maestro del Coro degli Scrovegni, Madonna con Bambino e santi e quattro storie di
Cristo (prima metà del XIV secolo; tempera su tavola, 56 x 85 cm; Ravenna,
MAR - Museo d’Arte della Città di Ravenna)
Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al
Museo Nazionale di Ravenna
Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al
Museo Nazionale di Ravenna
L’Ultima cena del refettorio dell’abbazia di Pomposa, attribuita a Pietro da Rimini
Pietro da Rimini, Crocifissione (1330 circa; tavola, 24 x 16,6 cm; Città del
Vaticano, Musei Vaticani)

La scena artistica ravennate al tempo era comunque dominata dagli artisti


riminesi: un altro pittore che Dante può aver visto è Giuliano di Martino
da Rimini, meglio noto semplicemente come Giuliano da Rimini
(documentato dal 1307 al 1323), altro grande artista della scuola giottesca
riminese, di cui il Museo della Città di Rimini conserva, in deposito dalla
Fondazione Cassa di Risparmio (che lo acquistò nel 1996 in un asta da
Christie’s), un sontuoso trittico con Incoronazione della Vergine, angeli, santi e
scene della Passione di Cristo, “sofisticata tessitura di elementi giotteschi,
bizantini e gotici” (così Alessandro Giovanardi), riferibile a un periodo
compreso all’incirca tra il 1315 e il 1320. La storia documentaria di questo
trittico comincia molto tardi (nel 1857, con una descrizione di Gaetano
Giordani che la vede nella sontuosa collezione del marchese Audiface
Diotallevi, noto soprattutto in quanto possedette la Madonna Raffaello
che da lui prende nome, la Madonna Diotallevi), ragion per cui non
conosciamo l’originaria provenienza dell’opera: l’ipotesi del succitato
Massaccesi secondo cui il trittico proverrebbe dalla scomparsa chiesa di
San Giorgio in Foro a Rimini al momento sembrerebbe essere la più
plausibile secondo gli orientamenti della critica. L’opera è uno degli apici
della scuola riminese del Trecento: l’Incoronazione della Vergine nello
scomparto centrale, sormontata dai due tondi con l’Annunciazione, è
affiancata dalle figure dei santi (Caterina d’Alessandria, Battista, Giovanni
e Andrea) secondo il modello della deesis (“intercessione”) per cui i santi
procedono verso la scena centrale, ed è chiusa in alto dalle cuspidi con le
scene dell’Incoronazione di spine, della Crocifissione e del Compianto, a creare
un’opera densa di sofisticati significati liturgici e teologici (per esempio, il
significato eucaristico dell’angelo che raccoglie il sangue di Cristo nella
scena della Crocifissione, o le due montagne dietro alla scena del
Compianto, derivanti, spiega Giovanardi, dalla simbologia pasquale
ortodossa, e che significano “lo sconvolgimento del creato successivo alla
morte del Redentore, testimoniato dai Vangeli e da moltissimi brani della
liturgia bizantina e latina, indicando il duplice, opposto passaggio sia
verso la morte e l’Ade, sia verso la Resurrezione e l’Ascensione”), cui fa
pari l’eccezionale valore artistico.

Non si tratta di un’opera che Dante vide (o almeno non possiamo certo
saperlo), ma è altissima testimone della cultura figurativa nella quale il
poeta era immerso. Una cultura figurativa nel novero della quale si può
anche far rientrare l’arte della decorazione miniata del libro, per la
quale, lo sappiamo per certo, Dante nutriva un certo interesse, e nel
settecentenario della scomparsa del poeta non manca mostra che non lo
rammenti (una rassegna al Museo Civico Medievale di Bologna, Dante e la
miniatura a Bologna al tempo di Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese, sempre a
cura di Massimo Medica, è espressamente dedicata a questo tema). E
nell’attività di rilancio culturale di Ravenna avviata dai Da Polenta, della
quale s’è detto in apertura, non mancarono commissioni riguardanti l’arte
della miniatura: tra le più rilevanti figurano gli antifonari oggi all’Archivio
Storico Diocesano, che rientra nel quadro di quelle operazioni “in linea
con il gusto artistico diffusosi in area padana tra Duecento e Trecento,
sempre in bilico fra spunti classicheggianti, reminiscenze bizantine e
novità gotiche” (così Paolo Cova). Gli antifonari erano destinati alla chiesa
di San Francesco: si tratta di cinque volumi risalenti al periodo 1280-1285,
e dunque a un momenti di poco successivo all’insediamento del vescovo
lavagnese Bonifacio Fieschi (nel 1276). Gli antifonari si devono al
Maestro di Imola, autore raffinato che ben conosceva la produzione
libraria toscana e che, al tempo delle opere ravennati, spiega Paolo Cova,
“doveva aver messo a punto un lessico prestigioso e narrativo,
caratterizzato da una maggiore tensione espressiva rispetto agli esiti
formali più tipici del ‘primo stile’, capace di adattarsi a una produzione
vasta e diversificata”. Nell’antifonario II l’artista dimostra caratteri di
grande raffinatezza, permeati da un sottile naturalismo e vicini alle novità
introdotte da Cimabue, rivelando come la miniatura fosse molto recettiva
nei confronti di ciò che andava producendosi nelle discipline pittoriche.
Dante, naturalmente, era aggiornato sui risultati della produzione libraria,
come s’apprende dal celebre passo su Oderisi da Gubbio nell’XI canto del
Purgatorio.
Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della
Passione di Cristo (1315-1320 circa; tempera e oro su tavola, 225 x 240 cm;
Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della Città)
Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della
Passione di Cristo, dettaglio
Maestro di Imola, Antifonario francescano n. II, santorale estivo (1280-1285;
membranaceo, 505 x 355 mm; Ravenna, Archivio Storico Diocesano)
Maestro veneziano-ravennate, Madonna in trono con Bambino (fine del XIII secolo;
marmo, 93,5 x 51,5 x 19,5 cm; Parigi, Louvre)

È infine interessante citare il caso singolare d’un’opera d’arte del tempo di


Dante che fu reimpiegata secoli dopo per la sua sepoltura. Si tratta di
una Madonna in trono con Bambino in marmo oggi conservata al Louvre: è
opera di un maestro veneziano-ravennate educato su modelli bizantini,
come attesta la frontalità del gruppo, ma non priva di valori volumetrici
che sono più affini alla scultura romanica di area padana, come quella di
Benedetto Antelami. Una commistione che rende quest’oggetto
particolarmente interessante, benché non sappiamo dove si trovasse in
origine. Pare però, secondo un’ipotesi formulata nel 1921 da Corrado
Ricci, che fosse questa la Madonna col Bambino che sormontava l’originario
sepolcro di Dante, in una cappelletta a fianco della basilica di San
Francesco a Ravenna, nel luogo dove oggi troviamo la tomba dantesca
attuale, progettata nel 1780-1781 dall’architetto Camillo Morigia. Proprio
Morigia rimosse la Madonna dalla cappella antica, sistemandola nel nuovo
edificio delle scuole pubbliche dell’attuale via Pasolini. Dopo la rimozione
si persero le tracce dell’opera, fino al 1860, anno in cui fu acquistata dal
collezionista francese Jean-Charles Davillier: in seguito, nel 1884, il rilievo
marmoreo, assieme a molte altre opere della collezione Davillier, entrò a
far parte delle collezioni del Louvre a seguito di donazione. E, come
ricordato, fu Ricci a identificarla con la Madonna che un tempo adornava
la cappella funeraria del poeta.

Un’opera, insomma, pregna di significato e di suggestioni: è ponte tra il


momento in cui Dante era in vita e visitava le chiese di Ravenna, e la
celebrazione post mortem del poeta, con i vari e ripetuti pellegrinaggi dei
grandi personaggi (letterati, artisti... ) che si recavano con passione a
Ravenna per ricordare Dante sulla sua tomba. Un culto che prendeva
vigore proprio poco dopo la ricostruzione del sepolcro a opera di Morigia,
e che vede uno dei momenti primi e più elevati in Foscolo, nelle Ultime
lettere di Jacopo Ortis. Il personaggio foscoliano non fece in tempo a vedere
la Madonna di marmo (per pochi anni), ma la passione che ispirerà il suo
gesto estremo costituisce uno dei più alti omaggi che la letteratura ha
riservato al Sommo Poeta: “Sull’urna tua, Padre Dante! Abbracciandola,
mi sono prefisso ancor più nel mio consiglio. M’hai tu veduto? m’hai tu
forse, Padre, ispirato tanta fortezza di senno e di cuore, mentr’io
genuflesso, con la fronte appoggiata a’ tuoi marmi, meditava e l’alto
animo tuo, e il tuo amore, e l’ingrata tua patria, e l’esilio, e la povertà, e la
tua mente divina? e mi sono scompagnato dall’ombra tua più deliberato e
più lieto”.

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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L'opera di Giotto che Dante Ecco come Dante venne prima condannato e
probabilmente vide: il Polittico poi riabilitato. La mostra del Museo del
di Badia Bargello

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