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Che cosa può aver visto Dante negli ultimi due anni della sua vita, quando
si trovava a Ravenna? E come le opere possono aver ispirato il suo
Paradiso? Un itinerario dantesco a partire dalla mostra “Dante e le arti al
tempo dell'esilio”.
Quel che è certo, è che Dante non rimase insensibile all’arte ravennate:
è quanto cerca d’illustrare la mostra della chiesa di San Romualdo. La
Ravenna in cui il poeta si mosse era certo molto diversa rispetto alla città
ch’era stata capitale dell’Esarcato d’Italia: tuttavia, Dante poteva
comunque percorrere i grandi monumenti della Ravenna bizantina
osservando le loro magnifiche decorazioni, le opere d’arte che le
arricchivano, e magari ammirando anche le opere degli artisti
contemporanei che le chiese più recenti conservavano. Nel suo recente
L’Italia di Dante, l’italianista Giulio Ferroni, citando il Canto VI del
Paradiso, quello in cui il poeta incontra l’imperatore Giustiniano (“Cesare
fui e son Iustiniano / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro
le leggi trassi il troppo e ’l vano”), immagina proprio un Dante che, “certo
autorevolmente accompagnato”, entra a più riprese nella basilica di San
Vitale, “muovendosi tra le possenti volte e contemplando i mosaici,
illuminati come ora dalla luce naturale, pensando al canto VI del suo
Paradiso, forse allora già scritto o forse proprio qui ideato, di fronte al
corteo dell’imperatore, che, sulla parete laterale sinistra del presbiterio,
sembra come fissare chi guarda, da una illimitata insondabile distanza, dal
suo silenzio dorato affondato nell’oltretempo”. La figura di Giustiniano
era presente anche nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo: per Dante,
Giustiniano rappresentava “l’impero legittimo”, e quello stretto legame
tra potere temporale e potere religioso ch’emerge dai mosaici ravennati
riecheggia anche in Dante, cui era caro il concetto di accordo tra Chiesa e
Impero: un’idea per la quale l’artista poté trovare conforto, spiega Medica
facendo a sua volta riferimento agli studi di Pasquini, “anche in altri
mosaici cittadini come quello perduto dell’abside della chiesa di San
Giovanni Evangelista, dove sappiamo erano raffigurati Arcadio e Teodosio
II con le rispettive mogli, insieme alle immagini clipeate di Costantino il
Grande e degli imperatori della dinastia valentiniana-teodosiana associati
simbolicamente alla raffigurazione del Salvatore in trono, posto al centro
del catino absidale”.
A tutto ciò si può aggiungere anche l’effetto che lo splendore dei mosaici
antichi poté sortire su Dante, magari animando l’immagine del Paradiso
che il poeta si costruì nella mente. Ferroni ricorda che probabilmente nel
mausoleo di Galla Placidia, magari osservando la volta azzurra con le
stelle dorate che la punteggiano e la croce latina che risalta al centro della
calotta della cupola, il poeta “avrebbe trovato suggestioni per qualcuna
delle sue visioni paradisiache, per quei movimenti metamorfici di
immagini con cui cerca di figurare il paradiso” (Paradiso XXIII: “e così,
figurando il paradiso / convien saltar lo sacrato poema / come chi trova
suo cammin riciso”). Allo stesso modo, Dante avrà sicuramente visto le
immagini di Cristo in trono nelle varie chiese ravennati, come
Sant’Apollinare Nuovo o San Michele in Africisco (quest’ultima spogliata
della sua decorazione musiva a seguito dell’occupazione napoleonica: i
mosaici furono smontati e venduti, e un frammento con una testa di san
Michele, conservato al Museo di Torcello, è giunto a Ravenna per la
mostra di San Romualdo): immagini che, ha suggerito la studiosa Gioia
Paradisi, potrebbero esser messe in relazione con l’invettiva di san Pietro
contro la corruzione della Chiesa (Paradiso XXVII), nella quale si evoca
l’immagine del trono di Cristo vuoto che, per antitesi, richiama il suo
trionfo (“Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo
mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”).
Maestro del Coro degli Scrovegni, Madonna con Bambino e santi e quattro storie di
Cristo (prima metà del XIV secolo; tempera su tavola, 56 x 85 cm; Ravenna,
MAR - Museo d’Arte della Città di Ravenna)
Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al
Museo Nazionale di Ravenna
Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al
Museo Nazionale di Ravenna
L’Ultima cena del refettorio dell’abbazia di Pomposa, attribuita a Pietro da Rimini
Pietro da Rimini, Crocifissione (1330 circa; tavola, 24 x 16,6 cm; Città del
Vaticano, Musei Vaticani)
Non si tratta di un’opera che Dante vide (o almeno non possiamo certo
saperlo), ma è altissima testimone della cultura figurativa nella quale il
poeta era immerso. Una cultura figurativa nel novero della quale si può
anche far rientrare l’arte della decorazione miniata del libro, per la
quale, lo sappiamo per certo, Dante nutriva un certo interesse, e nel
settecentenario della scomparsa del poeta non manca mostra che non lo
rammenti (una rassegna al Museo Civico Medievale di Bologna, Dante e la
miniatura a Bologna al tempo di Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese, sempre a
cura di Massimo Medica, è espressamente dedicata a questo tema). E
nell’attività di rilancio culturale di Ravenna avviata dai Da Polenta, della
quale s’è detto in apertura, non mancarono commissioni riguardanti l’arte
della miniatura: tra le più rilevanti figurano gli antifonari oggi all’Archivio
Storico Diocesano, che rientra nel quadro di quelle operazioni “in linea
con il gusto artistico diffusosi in area padana tra Duecento e Trecento,
sempre in bilico fra spunti classicheggianti, reminiscenze bizantine e
novità gotiche” (così Paolo Cova). Gli antifonari erano destinati alla chiesa
di San Francesco: si tratta di cinque volumi risalenti al periodo 1280-1285,
e dunque a un momenti di poco successivo all’insediamento del vescovo
lavagnese Bonifacio Fieschi (nel 1276). Gli antifonari si devono al
Maestro di Imola, autore raffinato che ben conosceva la produzione
libraria toscana e che, al tempo delle opere ravennati, spiega Paolo Cova,
“doveva aver messo a punto un lessico prestigioso e narrativo,
caratterizzato da una maggiore tensione espressiva rispetto agli esiti
formali più tipici del ‘primo stile’, capace di adattarsi a una produzione
vasta e diversificata”. Nell’antifonario II l’artista dimostra caratteri di
grande raffinatezza, permeati da un sottile naturalismo e vicini alle novità
introdotte da Cimabue, rivelando come la miniatura fosse molto recettiva
nei confronti di ciò che andava producendosi nelle discipline pittoriche.
Dante, naturalmente, era aggiornato sui risultati della produzione libraria,
come s’apprende dal celebre passo su Oderisi da Gubbio nell’XI canto del
Purgatorio.
Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della
Passione di Cristo (1315-1320 circa; tempera e oro su tavola, 225 x 240 cm;
Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della Città)
Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della
Passione di Cristo, dettaglio
Maestro di Imola, Antifonario francescano n. II, santorale estivo (1280-1285;
membranaceo, 505 x 355 mm; Ravenna, Archivio Storico Diocesano)
Maestro veneziano-ravennate, Madonna in trono con Bambino (fine del XIII secolo;
marmo, 93,5 x 51,5 x 19,5 cm; Parigi, Louvre)
L'opera di Giotto che Dante Ecco come Dante venne prima condannato e
probabilmente vide: il Polittico poi riabilitato. La mostra del Museo del
di Badia Bargello