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in Autunno
Lettera a una figlia che sta per nascere
Settembre
Mele
Vespe
Sacchetti di plastica
Il sole
Denti
Focene
Benzina
Rane
Chiese
La pipì
Cornici
Crepuscolo
Apicoltura
Sangue
Fulmini
La gomma da masticare
Calce
Vipere
Bocca
Dagherrotipo
Lettera a una figlia che sta per nascere
Ottobre
Febbre
Stivali di gomma
Meduse
Guerra
Le labbra pubiche
Letti
Dita
Foglie
Bottiglie
Campi di stoppie
Tassi
Neonati
Automobili
Solitudine
Esperienza
Pidocchi
Van Gogh
La migrazione degli uccelli
Petroliere
Terra
Lettera a una figlia che sta per nascere
Novembre
Lattine
Volti
Dolore
Crepuscolo
Telefoni
Flaubert
Vomito
Mosche
Perdono
Bottoni
Thermos
Il salice
Tazze del water
Ambulanze
August Sander
Comignoli
L’uccello rapace
Silenzio
Tamburi
Occhi
Karl Ove Knausgård
in Autunno
Illustrazioni di Vanessa Baird
Traduzione di Margherita Podestà Heir
Titolo dell’opera originale
OM HØSTEN
Illustrazioni di
VANESSA BAIRD
Ogni singolo giorno da quando sono nato il sole è lì, eppure non
ho mai conseguito nei suoi confronti una vera familiarità, forse
perché è così diverso da tutto ciò che conosciamo. È uno dei pochi
fenomeni del nostro mondo vitale a cui non possiamo avvicinarci,
altrimenti ne verremmo disintegrati, e non possiamo neppure inviare
sonde, satelliti né velivoli: anch’essi sarebbero annientati. Il fatto che
non ci sia neppure permesso di guardare il sole a occhio nudo senza
diventare ciechi o subire lesioni alla vista, a volte viene percepito
come una limitazione irragionevole, sì, quasi un’offesa: lassù, visibile
a tutti gli esseri umani e a tutti gli animali esistenti sulla terra, è
sospeso un enorme corpo celeste incandescente e noi non
possiamo neppure guardarlo! Ma è così. Se osserviamo il sole per
qualche secondo, la retina viene costellata da puntini neri e
tremolanti, mentre, se teniamo lo sguardo fisso su di esso, il nero si
espande sulla parte interna degli occhi come inchiostro su un foglio
di carta assorbente. Sopra di noi pende dunque una sfera infuocata
che non solo ci fornisce tutta la luce e il calore che abbiamo, ma che
rappresenta anche l’origine e la sorgente di tutta la vita, e al
contempo è assolutamente inavvicinabile e completamente
indifferente verso quanto ha creato. È difficile leggere della divinità
monoteista dell’Antico Testamento senza pensare al sole. Una delle
caratteristiche essenziali della relazione tra gli uomini e Dio è che gli
esseri umani non possono guardarlo direttamente, ma devono
chinare la testa. Nella Bibbia l’immagine stessa della presenza di Dio
è il fuoco, rappresenta il divino, ma è anche e sempre il sole poiché
tutte le fiamme e tutti i fuochi qui sulla terra sono sue propaggini. Dio
è il motore immobile, scriveva Tommaso d’Aquino e Dante, suo
contemporaneo, descriveva il divino come un fiume di luce e
conclude La Divina Commedia con un guizzo di Dio stesso, sotto
forma di un cerchio eterno e luminoso. In questo modo, gli esseri
umani, che, pur sotto il sole, erano senza la religione soltanto mere
creature arbitrarie, schiavi sottoposti a costrizioni, assunsero invece
un enorme significato, mentre il sole fu ridotto a una stella. Però,
mentre le concezioni della realtà subiscono ascese e cadute,
divampano e svaniscono, la realtà stessa è inflessibile, le sue
condizioni sono immutabili: l’alba sorge a est, lentamente il buio
cede terreno e, mentre l’aria si riempie del cinguettio degli uccelli, il
sole brilla alle spalle delle nuvole, che passano dal grigio al rosa al
bianco scintillante, mentre il cielo che fino a pochi minuti prima era
nerastro tende all’azzurro e i primi raggi colmano di luce il giardino.
È giorno. La gente va e torna dalle proprie faccende quotidiane, le
ombre si accorciano sempre più, poi si allungano sempre più
seguendo la rotazione della Terra. Quando ceniamo all’aperto, sotto
il melo, l’aria si riempie delle voci dei bambini, del tintinnio delle
posate, dello stormire delle foglie nella brezza leggera e nessuno si
accorge che il sole è proprio sopra il tetto della foresteria, non giallo
sfolgorante, ma arancione, e continua ad ardere silenzioso.
Denti
Nei giorni piovosi dell’autunno, quando il cielo era grigio scuro, gli
abeti lungo la via di un verde cupo e l’asfalto della strada nero,
mentre tutti gli altri colori erano affievoliti dalla luce trattenuta e
dall’umidità, la benzina, che giaceva a volte sulla strada, scintillava
nelle tonalità più belle e insolite. Era così diversa da tutto quello che
conoscevamo che poteva anche arrivare da un altro mondo. Un
mondo meraviglioso pieno di avventura, immaginavamo, cangiante e
munifico. Munifico perché il gioco cromatico della benzina, che
appariva e spariva in maniera apparentemente arbitraria, era
connesso ai posti più desolati e brutti. Non era possibile vedere
quell’iridescenza nei prati o nei campi, sugli scogli o sulle spiagge,
ma spuntava nei parcheggi, sulle strade sterrate o asfaltate, nei
porticcioli e nei cantieri edili. Sulla superficie giallo-grigia delle
pozzanghere resa opaca dalla polvere della ghiaia, la benzina
galleggiava di colpo, disgregata dall’acqua come da tutto il resto
presente nell’ambiente circostante, e immergendo la punta di un
bastoncino si creavano colori nuovi – porpora, viola, blu reale –
all’interno di disegni pieni di insenature e lagune, belli come
conchiglie o galassie. Quelle convoluzioni mutevoli, simili a miraggi,
erano un mistero in sé, erano come l’immagine di questo mistero.
Soprattutto perché tutti sapevano che in realtà la benzina non aveva
colore. Tutti l’avevano vista mentre con un imbuto veniva versata da
una tanica dentro il serbatoio rosso di una delle barche ormeggiate
ai pontili galleggianti. In quel momento la benzina era incolore e
trasparente, e faceva vibrare l’aria intorno a sé. E tutti noi eravamo a
conoscenza del suo enorme potere. I giganteschi escavatori che
ripulivano le aree fatte saltare con l’esplosivo, a cui bastava spingere
la benna dentro i massi e le macerie, sollevarli mentre procedevano
in retromarcia e poi scaricarli rumorosamente sul pianale di un
camion in attesa, andavano a benzina, e anche il camion che subito
dopo si immetteva pesante sulla strada andava a benzina e lo
stesso valeva per rimorchi, autobus, petroliere e aerei. I motoscafi
da competizione che sembravano quasi volare sulle onde al largo
dello stretto andavano a benzina e anche le auto da corsa, di cui
leggevamo, ma che non avevamo mai visto. Per non parlare delle
automobili dei nostri genitori, quei veicoli larghi che beccheggiavano
tutti i giorni sulle strade, delle moto e dei motorini che guidavano i
giovani. Spazzaneve, trattori, escavatori, motoseghe, motori
fuoribordo. Tutta la potenza e tutta la forza di cui eravamo circondati,
tutti i motori che tuonavano, ruggivano e martellavano,
consumavano benzina. Che venisse ricavata dal petrolio, che si
estraeva da giacimenti presenti nelle viscere della terra ed era
composto da materiale organico trasformato ai tempi in cui non
esistevano gli uomini, soltanto dinosauri, queste creature
gigantesche, ma semplici, e quando anche gli alberi e le piante
erano più grandi e più semplici, e che fosse la forza preistorica di
questa componente zoologica e biologica a svilupparsi intorno a noi,
aveva un senso – per tutti i bambini l’affinità tra escavatore e
dinosauro era scontata – ma così non era per la relazione esistente
tra la potenza e la bellezza misteriosa delle piccole iridescenze
tremolanti di molte pozzanghere degli anni settanta.
Rane
Mentre scrivo queste parole, fuori sta imbrunendo. Non si può più
distinguere il colore dell’erba o quello della parete di legno della casa
sul lato opposto, solo il muro intonacato riflette un po’ di luce ed è
biancastro. Il cielo sopra i tetti è più chiaro: è quaggiù, in basso,
dove il crepuscolo cala per primo. A una trentina di metri dietro i tetti,
lungo la strada che costeggia il cimitero, ci sono sette grandi alberi
con i loro rami sporgenti. Anche il più piccolo dettaglio di questo
reticolo formato dai rami risulta visibile sullo sfondo più chiaro.
Quando rivolgo nuovamente l’attenzione sull’erba, è già impossibile
vedere: il buio vi giace sopra come un piccolo lago. Al contempo è
come se emergessero le stanze della casa, la luce gialla che le
riempie brilla sempre più forte attraverso le finestre. Stasera, lì
dentro, ci sono sei bambini: la più piccola è appena andata a letto
con una bottiglia di latte tra le mani, sicuramente adesso dorme.
Quelli che hanno sei e sette anni probabilmente sono seduti sul letto
intenti a giocare con i loro iPad mentre commentano ad alta voce
quello che stanno facendo. Suppongo che i due che ne hanno otto, e
che poco tempo fa si sono arrampicati sul recinto in fondo al giardino
e da lì sono saliti su un albero, stiano guardando la tivù in soggiorno,
mentre quella di dieci anni, che è appena tornata dopo essere stata
da un’amica, si è sdraiata sul letto al primo piano per giocare a The
Sims. Che la luce all’esterno stia scemando è qualcosa a cui non
pensano. Per loro è una sera come tutte le altre, una di quella serie
infinita la cui somma costituisce la loro infanzia. Forse per un paio di
settimane saranno in grado di ricordarne qualche dettaglio, che per
cena c’erano le lasagne, per esempio, ma poi scomparirà per
sempre dalla memoria. Anche se non è sempre facile sapere che
cosa vi rimanga impresso. Nel fine settimana, mentre camminavo in
città con mia figlia di otto anni, lei ha cominciato a raccontarmi quello
che si ricordava di quando “era piccola”, così si è espressa. Erano
particolari minimi e attimi di cui non conosceva sempre l’origine, se
era Malmö, Stoccolma, Jølster o uno dei luoghi in cui siamo andati in
vacanza. Un parapetto con dietro il mare, un trenino che
attraversava un museo, la panchina di un bosco dove aveva
mangiato la merenda al sacco. Dell’appartamento di Malmö, dove ha
abitato da quando aveva un anno fino ai cinque, ciò che ricordava e
mi ha descritto era la scala che portava alla porta della veranda in
camera da letto, e una volta si era seduta lì.
Nell’arco di tempo che ho impiegato nello scrivere queste cose,
due madri sono passate da noi a prendere i rispettivi figli e
all’esterno il buio è totale: tutto è nero. L’unica cosa che è illuminata
sono le stanze che si aprono dietro le finestre, che da qui, nella
casetta in cui sono, paiono un acquario. Sotto il lampadario della
sala da pranzo vedo la testa del bambino di sei anni, è chino in
avanti, sicuramente sta guardando un episodio di una serie
televisiva sull’iPad. Quella di otto anni è appena andata in cucina e
dai suoi movimenti ho intuito che stesse spalmando qualcosa su una
fetta di pane. Tra poco mi alzerò per andare da loro, spegnere il
televisore nonostante le proteste, gli dirò di andare a lavarsi i denti e
alla fine leggerò per loro. Poi chiuderanno gli occhi e rimarranno
sdraiati al buio in attesa di prendere sonno, il ponte che li condurrà
nel domani, mentre io concluderò questo testo, su come lunedì 15
settembre 2013 qui, a Glemmingebro, è trascorsa l’ora del
crepuscolo.
Apicoltura
Dal momento che gli stivali di gomma seguono la forma del piede
e della parte superiore del polpaccio, come una specie di guaina,
quando rimangono inutilizzati sul pavimento dell’ingresso di primo
acchito potrebbero sembrare un piede e la parte inferiore di una
gamba, come se fosse stata amputata sotto il ginocchio. È un
qualcosa che hanno in comune con le giacche e le camicie appese,
che paiono anch’esse i corpi a cui fanno da fodera. Quando la sera
tardi o il mattino presto mi trovo nel corridoio dell’ingresso, è come
se l’impronta di tutta la famiglia fosse appesa ai ganci o per terra, al
buio, come una sorta di negativi. Mi capita allora di riflettere su come
sarebbe stata la vita se tutti fossero deceduti in un incidente e fosse
rimasto soltanto ciò che un tempo riempivano con i loro corpi. Per
quanto riguarda i miei stivali, in effetti è così dal momento che li ho
ereditati alla morte di mio padre. Lo spazio che un tempo veniva
colmato dai suoi piedi e polpacci è ora qui sul pavimento, attaccato
alla parete dell’ingresso. Non penso più a lui con la stessa
frequenza, ma lo faccio ogni volta che infilo i piedi in questi stivali,
che mi calzano come un guanto e con cui giro per il giardino. Di tutte
le cose che ha lasciato ne ho prese soltanto due, il binocolo e gli
stivali di gomma. Perché proprio queste due, non lo so. Forse
perché erano allo stesso tempo neutri e utili? Non avrei mai potuto
prendere né indossare il suo giaccone di pelle d’agnello, per
esempio, era troppo vicino a lui, era un’espressione così peculiare
della sua persona che non avrei voluto né potuto accollarmela,
invece gli stivali non esprimono l’individualità con la stessa valenza,
ma sono più simili per tutti. Non avrei potuto prendermi neppure i
suoi quadri, anch’essi gli erano vicini allo stesso modo, dal momento
che aveva scelto proprio quelli e provava piacere nel guardarli e
possederli, mentre il binocolo non presenta alcuna componente di
questa individualità, è soltanto un binocolo, fatto per ingigantire
qualcosa che si trova molto lontano, proprio come gli stivali sono fatti
per tenere fuori l’acqua. In questo sono perfetti. La superficie della
gomma, spessa e piuttosto rigida, è perfettamente liscia e questo
impedisce all’acqua di aderire, inoltre non presenta fessure né tagli
attraverso cui essa riesca a penetrare, così l’acqua o scivola verso il
basso finendo nel terreno o si posa impercettibilmente sulla gomma
stessa formando una patina di umidità, al contempo il gambale si
stringe in maniera così compatta intorno al polpaccio che l’accesso
alla parte interna dello stivale risulta sigillato. La felicità che ne
deriva, il fatto che lo stivale sia completamente impermeabile, può
essere davvero grande – basti pensare alla sensazione che si prova
quando camminiamo su un campo melmoso e il piede sprofonda,
ma nulla penetra all’interno, il fango trabocca intorno allo stivale,
mentre il piede rimane asciutto – e maestosa, in un certo senso. Sì,
non è forse questa sensazione di sovranità a scatenare una tale
gioia, quando attraversiamo una palude e magari guadiamo un
ruscello con indosso degli stivali robusti e impermeabili? Sentirsi
invulnerabili, sentirsi protetti, sentirsi un’entità autonoma del mondo?
Sì, oh sì, è proprio in questo che risiede la gioia verso le qualità
specifiche di un paio di stivali di gomma.
Meduse
È bello essere soli. È bello chiudersi la porta alle spalle e non stare
insieme agli altri per un po’. Non è sempre stato così. Da bambini
essere soli era un difetto o una carenza, spesso dolorosi. Se si era
soli, era perché nessuno voleva stare con quella persona o perché
non c’era nessuno con cui stare. L’assenza degli altri era
incondizionatamente negativa. Più persone era un bene, da soli non
lo era, questa era la regola. Eppure, non mi sono mai chiesto come
questo si applicasse a mio padre, che passava così tanto tempo in
solitudine. Era una creatura meravigliosa, ogni cosa in lui era come
doveva essere, non mi è mai venuto in mente che il suo stare per
conto suo potesse essere un difetto o una carenza, qualcosa di
doloroso. Non aveva amici, solo colleghi, e trascorreva la maggior
parte delle sere da solo nel soggiorno del seminterrato, dove
ascoltava la musica o si occupava della sua collezione di francobolli.
Evitava ogni forma di intimità sociale, non prendeva mai l’autobus,
non si tagliava mai i capelli dal barbiere, non era mai uno dei genitori
che avevano la macchina carica di bambini da portare alla partita di
calcio. Allora non ci avevo ancora fatto caso. Soltanto dopo la sua
morte, quando abbiamo trovato il suo diario, ho potuto vedere la sua
vita sotto questa luce. La solitudine lo interessava, ci aveva pensato
molto. “Sono sempre stato capace di riconoscere le persone sole,”
aveva scritto nel diario. “Non camminano come gli altri. È come se
dentro di sé non portassero nessuna gioia, nessuna scintilla, uomini
o donne che siano.” In un’altra parte ha scritto: “Sto cercando una
parola che sia l’opposto di solitudine. Mi piacerebbe trovarne una
che non sia amore, che è troppo compromessa e insufficiente.
Tenerezza, pace dell’anima e della mente, comunità?”. Comunità è
una buona parola. Rappresenta il contrario della solitudine. Non so
perché non l’abbia mai provata. È una delle sensazioni positive della
vita, forse la migliore. Ciononostante, faccio spesso come lui, mi
chiudo la porta alle spalle e sono solo. Non so perché mi comporto
così, è bello stare da soli, rimanere per qualche ora al di fuori di tutti i
legami complicati, tutti i conflitti piccoli e grandi, tutte le pretese e le
aspettative, tutte le volontà e i desideri che sorgono tra le persone e
che, già poco tempo dopo, diventano così strettamente intrecciati
che sia lo spazio d’azione sia quello di riflessione risultano
circoscritti. Se tutto quello che si agita tra le persone avesse un
suono, sarebbe paragonabile a un coro e al benché minimo
scintillare degli occhi si sarebbe levato un grande brusio di voci. Mio
padre doveva aver sentito anche questo, giusto? Magari in maniera
più forte di me? Perché si era messo a bere e il bere attutisce questo
coro e permette di stare con gli altri senza sentirlo. Sì, deve essere
così. Perché la frase con cui ha concluso questo passaggio del
diario, io non sarei mai stato in grado di scriverla. Ha scritto: “In
breve, ciò che ho appena cercato di dire in modo così goffo è che
sono sempre stato un uomo solo”. O invece, mi viene in mente
adesso con terrore, è forse il contrario? Forse questo coro non lo
sentiva davvero, non lo conosceva ed era per questo che non era
mai riuscito a legarsi, ma era rimasto sempre all’esterno a guardare
come gli altri fossero uniti da qualcosa che non considerava?
Esperienza
Dalla finestra della stanza in cui sto scrivendo, vedo la casa dove
abitiamo. Ha due comignoli: uno spunta dal tetto sopra la cucina,
l’altro dalla camera più lontana, che usiamo come studio e dove
scrivevo alcuni anni fa. I comignoli somigliano ai denti per il modo
con cui sbucano dal tetto e per il fatto che sono di un materiale
diverso, più duro, e poi perché soltanto questa parte superiore della
canna fumaria è visibile. Le canne fumarie proseguono all’interno del
tetto e del soffitto e si espandono nelle stanze sottostanti in modo
che, nella parte finale, in cucina e nello studio, formano un’intera
parete di mattoni. Attraverso queste cavità non passano i filamenti
nervosi, ma il fumo e, a differenza del dente, tutta la canna fumaria è
sempre aperta e in giornate come questa, dove il terreno è coperto
di brina quando ci alziamo e i vetri delle finestre hanno come dei
ricami di gelo lungo i bordi, il fumo sale lentamente dal comignolo e
si diffonde nell’aria, a volte quasi invisibile, come un fremito
nell’azzurro, a volte spesso e bianco come un cumulo di neve, dai
disegni strabordanti, a volte grigio e sottile, in un certo senso piatto,
come una pezza di tessuto estremamente delicato.
Il comignolo rappresenta anche una delle aperture della casa. Ma
mentre la porta è un’apertura per i residenti, siano essi adulti,
bambini, gatti o cani, e per tutti gli oggetti che questi abitanti portano
dentro e fuori la casa, e, mentre le finestre vengono spalancate per
cambiare l’aria, l’apertura del camino fa parte di un sistema chiuso, il
cui scopo è impedire che quanto circola al suo interno possa
penetrare nell’abitazione, e deve quindi rimanere separato. A
un’estremità di questo sistema c’è la stufa, che è uno spazio piccolo
e ignifugo, a cui si accede attraverso uno sportello. Si infila la legna,
che viene accesa, e quando brucia si chiude lo sportello in modo che
il fumo proveniente dal fuoco venga condotto verso l’alto attraverso
la canna fumaria, che è murata in un unico pezzo, e che, a
differenza delle altre stanze della casa, non subisce interruzioni tra
un piano e l’altro e ha una parte finale che emerge dal tetto, ed è
quella a cui pensiamo quando usiamo la parola “comignolo”.
Il comignolo non può mai essere visto per intero, a parte quando
brucia una casa e spesso la canna fumaria è l’unica parte che
rimane. Essa domina e controlla il fuoco anche se le fiamme fanno
del loro meglio per ridurla in cenere quando si sprigiona la loro
enorme forza, fiamme furiose per essere state soggiogate dalla
canna fumaria per tutti questi anni, come un figlio in affido, ci si
potrebbe immaginare, che dopo aver distrutto tutto quello che c’è
nella stanza si accanisce sul padre adottivo, quest’uomo ordinario e
noioso che parla soltanto dell’importanza di avere il controllo su se
stessi e sugli impulsi. Ma il fuoco fallisce nel suo tentativo di avere la
meglio sulla canna fumaria, non riesce neppure a scalfirne la
struttura, ma si estingue ai suoi piedi. Come trionfante, la canna
fumaria si erge verso il cielo dalle rovine nere e fumanti: finalmente
tutti possono vedere di cosa è capace.
L’uccello rapace
Dietro di me, nella stanza in cui sto scrivendo, c’è una batteria. In
essa c’è un che di infantile, dai nomi dei rispettivi tamburi – che
potrebbero essere stati inventati da un bambino, il tamburo più
grande si chiama grancassa, quello dal suono più brillante e che
rulla più a lungo si chiama rullante, poi ci sono i piatti e i due tom-
tom – alla cromatura luccicante e alle aspettative che crea, quando è
pronta, di picchiare, colpire e battere. Dal punto di vista visivo la
batteria è affine all’automobile americana, all’aspetto che avevano
negli anni cinquanta, sessanta e settanta, con le loro pinne, le
superfici dai colori vividi e le griglie luccicanti, e al tir, non quello
grigio e anonimo con il telone e il nome della ditta sulla fiancata, ma
quello elaborato, verniciato a spruzzo e con tanto di accessori
supplementari, queste meraviglie di veicoli, e anche forse ai
motoscafi da competizione con i loro scafi lucidi e i grandi motori
fuoribordo. Chi ha visto da piccolo la batteria di Roger Taylor dei
Queen con la sua miriade di tom-tom, la sua moltitudine di piatti e il
gong enorme e accattivante sullo sfondo, capisce cosa intendo dire.
Ciò che la batteria ha in comune con l’auto americana, il tir dello
scapolone e i motoscafi da corsa, oltre all’aspetto, che esercita una
forte attrazione sui bambini, è la promessa di velocità e, attraverso di
essa, di libertà. Però quello che tutti i bambini che cominciano a
suonare la batteria sperimentano ben presto è che questa promessa
non viene mai esaudita perché, se c’è qualcosa che caratterizza il
suonare la batteria, è lo statico. Suonare la batteria significa
esercitare l’arte della limitazione, rinunciare a ogni forma di
esagerazione e in maniera consapevole seguire la via della
parsimonia e della sobrietà. Di tutti gli strumenti è quello più
ascetico. Una batteria composta da molti elementi di percussione
fornisce soltanto più possibilità per fare la stessa cosa.
Chi scrive questo è un uomo bianco, di mezz’età con una sfera
interiore congelata, che cammina in modo rigido e leggermente
curvo in avanti, e che non gioca mai, non balla mai, non si avventura
mai nell’oscurità selvaggia e disinibita che prendendo esempio dai
Greci chiamiamo orfica, il cui ingresso è rappresentato dalla
ripetizione di ciò che è rituale, o in altre parole del ritmico. Il ritmo, il
colpo, la battuta, la trance. Il cuore, il sangue, il sacrificio.
I tamburi comprendono entrambe le possibilità, sia l’apollineo sia
l’orfico. Come fanno tutta l’arte, tutte le sue forme, tutti gli strumenti
musicali, ma nessuno in modo altrettanto semplice e fondamentale
come i tamburi. L’apollineo è presente nei colpi che suddividono e
sistematizzano il tempo, in intervalli più corti e più lunghi, è
matematica pura, del resto tutta la musica è sempre matematica. Le
percussioni devono avvenire con la massima precisione, come in un
orologio, e se si apre a un passaggio, per sottolineare
un’interruzione o un cambio di ritmo, bisogna sempre ritornare a
battere il tempo giusto. I percussionisti jazz, che hanno trasformato
in arte il suonare la batteria e i tamburi, hanno ribaltato questo
rapporto, in modo che i passaggi, lo stacco, per loro sono diventati
l’essenza stessa del suonare e mantenere il ritmo è semplicemente
qualcosa di cui si occupano ogni tanto, in via del tutto indicativa, un
po’ come un lavoratore che ha fatto carriera all’interno della ditta e
adesso in qualità di direttore non ha più bisogno di timbrare il
cartellino, ma lo fa comunque, in nome dei vecchi tempi. I
percussionisti jazz sono dei virtuosi, non c’è cosa che non sappiano
fare alla batteria, da soli rappresentano un’intera orchestra, ma ciò
che creano, la loro trasgressione, è più affine al gioco, al
destreggiarsi senza impegno tra tutte le possibilità esistenti,
l’apollineo, ciò che più rappresenta il nocciolo della musica, il suo
cuore nero, tanto semplice e primitivo come la linea orizzontale che
ipnotizza la gallina: non il ritmo che suddivide il tempo, ma il ritmo
che lo annulla. Il tempo è distanza e quando viene annullato non
siamo più nel mondo, ma una parte di esso. Era ciò che la musica di
Orfeo faceva alle donne che in una specie di trance o ebbrezza
collettiva gli staccarono la testa e gliela gettarono in mare, dove
lentamente andò alla deriva, sempre cantando.
Occhi
Non riuscirò mai a capire come funzionano gli occhi. Non riuscirò
mai a comprendere come il riflesso del mondo esterno, con tutti i
suoi oggetti e movimenti, riesca a scorrere attraverso gli occhi e a
venire proiettato sotto forma di immagini nell’oscurità del cervello. So
che gli occhi sono formati da un corpo vitreo, una camera anteriore e
una posteriore, e una serie di membrane. So che l’energia luminosa
viene trasformata in impulsi nervosi quando la luce incontra l’occhio,
grazie alla scomposizione di una sostanza chiamata rodopsina e che
questi impulsi sono lanciati lungo le vie neurali fino a raggiungere la
corteccia visiva del cervello, dove vengono ricostituiti come
rappresentazioni interne. Per via di questo processo, affinato alla
perfezione, ci sono infatti più di centoventi milioni di cellule visive
nella retina, sono in grado di vedere le mie figlie che giocano a
badminton sul prato durante una giornata estiva, calda e tranquilla di
luglio, circondate da piante verdi, cespugli e alberi immobili, sotto un
cielo azzurro e limpido, vedo sia i loro movimenti un po’ impacciati
sia le espressioni concentrate dei loro volti che di tanto in tanto si
dissolvono in risate o accuse. Grazie allo stesso processo ho potuto
anche vedere la neve che cadeva nel buio quando stamattina presto
me ne stavo davanti alla finestra della cucina aspettando che il caffè
finisse di filtrare, il modo in cui i fiocchi di neve, piccoli e granulosi,
seguivano ogni minimo movimento dell’aria e uno alla volta si
depositavano, sotto o tra i fili dell’erba, che adesso, qualche ora
dopo, quando la luce del sole lontano, fortemente attutita dalla coltre
di nubi, splende sul paesaggio, sono del tutto coperti di neve bianca.
Non riesco a capire come avvenga, ma potrei accontentarmi della
spiegazione che si tratta di pura meccanica e materialità, una
trasmissione di energia, una questione di atomi e fotoni, se non
fosse per il fatto che i miei occhi non ricevono soltanto la luce, ma la
emettono anche. Di che tipo di luce si tratta? Oh, è la luce che
proviene da dentro, quella che brilla in tutti gli occhi che vediamo,
noti o sconosciuti. Negli occhi di coloro che non conosciamo, per
esempio a bordo di un autobus stracolmo un pomeriggio d’autunno,
la luce è debole, pare più un barlume quasi impercettibile su quei
volti striati e ciò che rivela è quasi unicamente che sono vivi. Ma
nell’attimo in cui queste piccole lanterne di vita si girano verso di te e
tu ci guardi dentro, ciò che vedi è proprio quell’essere umano
preciso. Forse ci fai caso, forse no, nel corso di una vita fissiamo
migliaia di occhi, la maggior parte scivola via inosservata, poi di
colpo c’è un qualcosa, proprio in quegli occhi, qualcosa che vuoi e
per cui faresti quasi di tutto pur di stargli vicino. Che cosa è? Be’,
non sono di certo le pupille quello che stai guardando, né tantomeno
l’iride né la sclera. È l’anima, la luce arcaica che riempie gli occhi, e
questo guardare dentro gli occhi della persona che ami, quando
l’amore è al massimo della sua potenza, è la gioia più alta.