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“Sai quel che hai tu veduto?


Il Graal e lo spazio-tempo del Medioevo nel cinema

In un suo vecchio libro – Come si fa una tesi di laurea, 1977, ma poi più
volte ristampato, anche in anni recenti – Umberto Eco dispensava come
primo consiglio in assoluto quello di non scegliere un argomento troppo
esteso, panoramico: “La prima tentazione dello studente è quella di fare una
tesi che parli di molte cose (…) O farà una piatta rassegna di nomi e di
opinioni correnti, o darà alla sua opera un taglio originale e verrà sempre
accusato di omissioni imperdonabili”. Bene: questa tentazione l’ho avuta
anch’io. Appena saputo della partecipazione insieme ad “Angolo Giro” (a
proposito: che nome … panoramico!) a questo convegno, mi è subito
passata per la testa l’idea di parlare di cinema e medievo, un tema che mi è
sembrato adattissimo per offrire un punto di vista sui rapporti fra medioevo
reale e medioevo fantastico: nella storia del cinema, infatti, ci sono film
realisti che parlano di medievo reale e film fantastici che parlano di
medioevo fantastico, ma anche film realisti che parlano di medievo
fantastico e film fantastici che parlano di medievo reale. Il fatto è che di
questi film – mi appoggio a una fonte molto attiva in questo campo, la
sezione del sito internet “Storia medievale. Dai castelli ai monstra” dedicata
appunto al cinema – ce ne sono tantissimi: “Questo sito presenta film sul
medioevo cronologico, ma anche sul medioevo immaginario, fantasy e di
«atmosfera», oltre che film che contengono archetipi medievali”, per un
totale di oltre 2800 schede (ma il repertorio è in costante aggiornamento),
dal 1895 ad oggi. Dunque un caso perfettamente esposto ai rischi evocati da
Eco, tanto più che qui non si tratta di fare una tesi ma una semplice
conferenza.
Scartato subito dunque il proposito “panoramico”, la seconda ipotesi è
stata quella di concentrarmi su alcuni topoi medievali e comparare film che
li hanno affrontati in modo diverso: personaggi come San Francesco
d’Asssisi o Giovanna d’Arco, situazioni esemplari come le Crociate o le
lotte fra dinastie di potenti, adattamenti di classici della letteratura come il
Decamerone di Boccaccio. Ma anche questa idea a una prima esplorazione
si è rivelata scivolosa, perché la scelta dei suddetti topoi non è poi così
semplice se si vuole evitare di adagiarsi sui luoghi comuni, sugli stereotipi
intorno al medioevo o, rovescio della medaglia, sui contro-stereotipi che
sono nati sovente come per tamponare gli effetti dei primi ma, altrettanto
sovente, hanno finito per condividerne la sorte. Oppure, anche qui lavorare
d’accetta rischiando di lasciare troppa libertà al personale arbitrio.
Apro una parentesi per osservare che sarebbe bello occuparsi, in questo
contesto, anche del problema specifico degli stereotipi sul medioevo. Infatti
il medioevo di cui noi qui parliamo, che è per lo più il medioevo raccontato
dalla cultura diffusa – letteratura, arti figurative, cinema naturalmente, e TV,
fumetti, videogiochi, giochi di ruolo – è infarcito di stereotipi e false
immagini le cui caratteristiche fondamentali – precisa il professor Antonio
Brusa – “sono due: da una parte c’è la loro grandissima diffusione, la loro
pervasività; dall’altra, il fatto che sono, per la maggior parte, di origine
accademica. Non sono prodotti spontanei di una società ignorante”, passano
perfino – o soprattutto – nell’insegnamento scolastico, e per questo si sono
radicati a fondo e faticano a morire (Brusa ha anche compilato un prontuario
dei luoghi comuni più diffusi sul medioevo, dimostrando come la messa a
punto della storiografia li abbia sconfessati. E, in un certo senso, il primo
stereotipo medievale è … il Medioevo, in sé: noi di solito lo nominiamo
senza rendercene conto come se fosse un’epoca compatta, omogenea, il che
naturalmente non è vero). Fra l’altro non di rado i tentativi di rimediare ai
danni degli stereotipi hanno prodotto, come ho già accennato, dei falsi
vaccini, dei contro-stereotipi che a loro volta hanno finito per consolidarsi
con effetto boomerang: così che il medioevo, se non è più l’epoca dei
“secoli bui”, diventa la cornucopia di tutti i beni del mondo e venire, se non
è più solo il periodo di papi e imperatori, diventa solo quello di “Bodo il
contadino” (Brusa punzecchia un famoso saggio pubblicato nel 1924 dalla
storica britannica Eileen Power, la cui formula è comunque tuttora molto
imitata nelle varie “vite quotidiane ai tempi di”). Intrappolato fra l’incudine
e il martello, il medioevo diventa così un “oggetto intenzionale”, il prodotto
di processi di “rabberciamento utilitaristico” (Umberto Eco, ancora lui) tesi
a mostrarlo come meglio conviene o ad utilizzarlo quale contenitore per
riempirlo di considerazioni che in realtà riguardano spesso più il nostro
presente che il medioevo stesso. Anzi addirittura secondo il medievista
Giuseppe Sergi (L’idea di medioevo) “la nostra cultura diffusa mostra di non
aver bisogno del medioevo qual è realmente, bensì di un medioevo
inventato: quello che si è consolidato attraverso i secoli nell’immaginario
collettivo”. Il cinema entra in questo meccanismo da par suo e, raccogliendo
gli stereotipi sul medioevo, tende sovente a riprodurli, a rimaneggiarli, a
deformarli ulteriormente (abbastanza famoso, per fare un solo esempio, il
caso di Francesco giullare di Dio di Roberto Rossellini, che fu bersagliato
dalla critica di ogni orientamento per l’uso “disinvolto” delle fonti).
Oltretutto, come ha cercato di dimostrare Matteo Sanfilippo in un suo studio
di alcuni anni fa, significativamente intitolato Il medioevo secondo Walt
Disney. Come l’America ha reinventato l’Età di Mezzo, il cinema
hollywoodiano, filtrando una sorta di schizofrenia con cui la cultura USA ha
guardato al passato medievale europeo, a cavallo fra un certo disprezzo
mutuato dal Mark Twain di Un americano del Connecticut alla corte di Re
Artù (1889, un romanzo dove l’autore usa il medioevo per dipingere un
Vecchio Continente arretrato, superstizioso e non all’altezza dei suoi stessi
ideali, contrapponendolo alla intelligenza pragmatica e moderna del suo
esemplare connazionale) e un’inconfessata ammirazione per le eccellenze
umanistiche, artistiche e spirituali, ne ha formalizzato una propria
“versione”, spettacolare e talvolta anche un po’ bracconesca, che data la
pervasività della macchina filmica d’oltreoceano si è spalmata un po’
dappertutto.
Ecco allora la terza, e definitiva, ipotesi: visto che i luoghi comuni sono
sempre dietro l’angolo, tanto vale prenderne uno, e per giunta parecchio
abusato da un po’ di anni a questa parte - il Graal – e lavorare su questo. E
qui, appena chiusa la parentesi sugli stereotipi, devo aprirne subito un’altra
per dire due parole su quel che è diventato quasi un’icona del medioevo
(almeno di un certo medioevo). Intanto, cos’è il Graal? Nelle letterature e
nell’iconografìa cavalleresche, il Graal è un oggetto, di varia foggia (calice
per lo più, ma anche vaso, vassoio, pietra), ma comunque sovrannaturale,
dotato di straordinari poteri: di nutrimento materiale, di illuminazione
spirituale, di protezione, di redenzione. Rappresenta in un certo senso il
Cristo morto per gli uomini (anche perché, nella versione calice, sarebbe
quello usato da Gesù nell’Ultima Cena e/o che ne avrebbe contenuto il
sangue raccoltovi da Giuseppe d’Arimatea). La sua ricerca simboleggia un
cammino trascendente verso la purificazione, e la sua presenza in misteriosi
riti coincide con la condizione invernale di una civiltà sterile, dove il
peccato individuale, metaforizzato nella malattia o nella ferita di un
regnante (Re Pescatore o Re Magagnato), si stende come un sudario sulla
comunità intera (la Landa o Terra Desolata): così il Graal è allo stesso
tempo un talismano che consente la guarigione e una sacra reliquia che apre
la mente e il cuore al mistero della fede. È quanto impariamo seguendo i
racconti sugli eroi che avranno successo nella ricerca, come Gawain o
Galahad, oppure che riusciranno a capire il significato autentico del Graal, a
compenetrarne la verità, come Parsifal. D’altronde siamo nel regno degli
archetipi narrativi assoluti, quelli che Jorge Luis Borges definiva in un suo
testo famoso “i quattro cicli”, le quattro storie che da sempre ci raccontiamo
e “per tutto il tempo che ci rimane” continueremo a raccontarci: la storia di
una città assediata e difesa da uomini coraggiosi, la storia di un ritorno, la
storia del sacrificio di un dio, e appunto la storia di una ricerca, dal Vello
d’Oro a Moby Dick passando per il Graal; con la differenza, dice Borges,
che nel mondo moderno, essa “è condannata all’insuccesso (…) Siamo così
poveri di coraggio e di fede che il lieto fine ormai altro non è che una
lusinga industriale” (Jorge Luis Borges, “I quattro cicli”, in L’oro delle tigri,
1972).
La vicenda di questo mito letterario esplode a cavallo fra XII e XIII
secolo, quando in un periodo di poco più di cinquant’anni vengono prodotti
diversi testi in versi e in prosa, tra i quali si annoverano alcuni capolavori
come Perveval ou le Conte du Graal di Chrétien de Troyes (incompiuto, ma
sottoposto poi a più tentativi di compimento da altri scrittori), Parzival del
tedesco Wolfram von Eschenbach, l’anonimo Queste del Saint Graal.
Caratteristica importante di questo corpus è la disarmonia delle diverse
narrazioni, spesso incoerenti fra loro, a tal punto che c’è che è arrivato a dire
che esse sembrerebbero redatte quasi apposta per contraddirsi a vicenda. I
racconti intorno al Graal si intrecciano spesso con quelli del ciclo arturiano,
e la grande tradizione prosegue fino alle soglie del Rinascimento, per
concludersi con Thomas Malory (La morte d’Arthur, 1485). Rimasto in
sordina per qualche tempo, il mito torna in auge nell’Ottocento grazie
soprattutto ad Alfred Tennyson e Richard Wagner. Secondo la studiosa
americana Jessie L. Weston, autrice nel 1920 di una celeberrima indagine
etnologica sul Graal, le radici del mito affonderebbero in un passato molto
remoto, tra le religioni pagane del mondo tardo-antico ed in ancor più
antichi riti di fertilità che mettono in relazione la salute della terra, e quindi
della comunità, con il vigore del suo reggente: quelle medievali non
sarebbero altro che “cristianizzazioni” di tutto questo materiale remoto (la
ipotesi di Weston sarà alla base di un caposaldo della poesia novecentesca
come The Waste Land di Thomas S. Eliot, e peraltro gli studi sui rapporti fra
miti pagani e miti cristiani continueranno anche dopo di lei).
È venuto fuori il nome di Richard Wagner. Il titolo di questo mio
intervento è un verso del Parsifal, la sua ultima opera (andò in scena nel
teatro di Bayreuth nel 1882 - l’anno seguente morì il compositore - anche se
la sua genesi risale a circa trentasette anni prima, ed anche se i temi
graaliani Wagner li aveva già trattati nel Lohengrin). La domanda viene
posta a Parsifal che, assistendo al rito del Graal, ma non potendone ancora
“tecnicamente” capire il significato (pur essendo in qualche modo
predestinato a capirlo), resta attonito davanti a quel che vede e, a tale
domanda, muto. L’oggetto che sta al di sotto del titolo – lasciando perdere la
scadente qualità grafica, che qui non ha comunque grande importanza -, e
che potrebbe assomigliare ad un calice, è in realtà uno degli apparecchi che
ha costellato la cosiddetta storia del precinema, cioè la pletora di invenzioni
ed esperimenti coi quali è stata lastricata la strada al cinématographe dei
fratelli Lumière. Si chiama zootropio (letteralmente “motore della vita”), o
meglio questo è il nome col quale l’americano William E. Lincoln lo
brevettò nel 1867 riprendendo un’idea originaria del matematico inglese
William George Horner, che nel 1834 aveva pubblicato un articolo per
spiegare il funzionamento di quello che lui aveva invece chiamato
daedaleum: la parte superiore è una vaschetta che può ruotare sul proprio
asse; all’interno, lungo la circonferenza, è alloggiata una striscia di carta con
disegnate le successive fasi di un soggetto in movimento; se si fa ruotare la
vaschetta e si osservano le figure attraverso le fessure, che funzionano da
interruttori fra una immagine e l’altra, per il principio della persistenza
retinica il movimento si ricostruisce, e si assiste in pratica ad un micro-
disegno animato. Questo oggetto è quindi una specie di metafora del
complesso rapporto fra il Graal/epitome del medievo ed il cinema: il cinema
funziona come un Graal per il Graal, come il Graal è al tempo stesso
contenitore e dispensatore; soltanto che fra i due momenti, il momento in
cui il cinema accoglie il medievo (con le sue fonti storiche, i suoi stereotipi
e via dicendo) e il momento in cui lo redistribuisce in foggia di film,
avvengono quei processi di “rabberciamento utilitaristico” lamentati da Eco;
il cinema “centrifuga” gli ingredienti medievali e lo spettatore, messo di
fronte al risultato, ha tutto il diritto di restare, come Parsifal, muto e attonito
alla domanda: “Sai quel che hai tu veduto?”. Un medioevo attendibile o un
medioevo inverosimile, un oggetto reale o un oggetto intenzionale, un’idea
di medioevo corretta oppure strumentale? D’altra parte sarebbe aleatorio
pretendere che il cinema debba presentare necessariamente una veridicità
storica – e documentalmente verificabile – dei fatti più o meno storici che
mette in scena: è quasi superfluo notare come la priorità del cinema non sia
questa, ma soprattutto come muovendo da una stessa fedeltà filologica si
possa arrivare a conclusioni molto diverse (lo storico francese Marc Ferro,
autore del libro Cinema e storia. Linee per una ricerca, cita ad esempio
Alexandr Nevskij di Sergej Ejsenštejn e Andrej Roublev di Andrej Tarkovskj
per indicare che le due opere “pur percorrendo lo stesso itinerario storico
dicono cose esattamente contrarie (…) così l’ideologia del film,
indipendentemente dalla sua storicità, attraverso la rappresentazione
permette ogni tipo di compromesso, qualsiasi sovversione”); e come
vedremo fra un po’, non è raro che la scelta di “lasciare il maggior margine
di manovra alla fantasia” (Vito Attolini) finisca per far intravedere più
“realtà” di quanto non ne erompa da ricostruzioni pretenziosamente
attendibili ma poi culturalmente ed intellettualmente sterili. Resta il fatto
che, facendo continuo appello all’immaginazione e, come aveva compreso
molto bene Charles Baudelaire ascoltando il preludio del Lohengrin (che
Wagner identificò con la discesa del Graal) avvolto dalla “sensazione dello
spazio esteso fino agli ultimi limiti concepibili”, quelle del Graal sono
vicende nelle quali la visione ha un peso determinante.
Ho citato il Parsifal di Richard Wagner, e ho citato anche The Waste
Land di T. S. Eliot: si tratta di due capolavori moderni (quarant’anni esatti li
separano: il poema di Eliot è infatti del 1922) che in un certo qual modo
hanno traghettato il mito del Graal nella modernità, ma, in un certo qual
modo, lo hanno traghettato anche verso il cinema. Vorrei dire qualcosa su
questo punto, a partire dalla curiosa osservazione che, nella sentita necessità
di plasmare le istanze etiche ed estetiche dell’arte sulla modernità incipiente
a cavallo dei secoli XIX e XX, riportando alla ribalta la figura dell’artista
marginalizzata dalla pragmatica borghese, si siano aperte due opposte vie di
“bonifica della sensibilità dell’insieme sociale, secondo alcuni atrofizzata
per sovraccarico dalla modernità, secondo altri, proprio in quanto sensibilità
plasmata dal moderno, avvilita dalla tradizione” (Gilberto Pellizzola): e,
paradossalmente, due protagonisti «reazionari» come Wagner ed Eliot, che
hanno perseguito la prima ipotesi (“l’arte si attesta in una separazione dal
mondo, alla quota eletta dell’esempio individuale o elitario, al limite della
testimonianza nel martirio”, Pellizzola), sono tra coloro che, alla modernità
dell’arte – e non ultime proprio delle arti multimediali – hanno offerto
strumenti di capitale importanza.
Di un legame fra Wagner e il cinema si parla spesso, e del resto ci sono
ottime ragioni per farlo. La prima ragione è che, come si sa, Wagner col suo
Wort Ton Drama era alla ricerca di una forma d’arte totale, capace di
mettere insieme tutte le altre arti, ma non per via di semplici accostamenti
e/o giustapposizioni (questo in fondo avveniva, nel melodramma, fin
dall’Orfeo di Claudio Monteverdi); dai suoi scritti, in particolare L’opera
d’arte dell’avvenire (1849), erompe l’intento di costruire, attraverso il
potere amalgamante della musica, qualcosa in cui le varie arti si integrino e
sostengano a vicenda per approdare a una sorta di sublimazione, qualcosa in
cui venga a cadere la separazione fra arti del tempo e arti dello spazio (“Il
tempo, figliolo, qui diventa spazio”, è un altro verso del Parsifal); modello
ideale, visto come un vero e proprio paradigma dell’unità originaria di
suono, parola, gesto, la tragedia greca (Emanuele Quinz). Il cinema, con le
sue opportunità tecnologiche, si candida perciò come ideale continuatore di
questo sogno di fusione delle arti: così si è aperta quasi una vulgata che
vede in Wagner un cineasta ante litteram, nelle sue indicazioni sceniche la
prefigurazione della sintassi cinematografica, nelle sue visioni delle sfide
quasi impossibili per il teatro ma quanto meno allettanti per il cinema. Di
certo c’è che il cinema – e non soltanto, come viene ovvio pensare, il grande
cinema tedesco degli anni Dieci/Venti, ancora fresco di ricordi bayreuthiani
(Cosima, la moglie di Wagner, dopo la morte del compositore si occupò di
far osservare a Bayreuth la più stretta osservanza delle sue prescrizioni per
la messa in scena), ma tanto cinema fantasy e di fantascienza a venire – ha
fatto tesoro delle lezioni di Wagner, compresa quella musicale (l’utilizzo del
leitmotiv, anche se spesso frainteso, ridotto a pura e semplice funzione
“segnaletica”), e spesso si è cimentato con i suoi temi (ad esempio la saga
dei Nibelunghi), anche se Parsifal di Hans Jurgen Syberberg (1982) rimane
a tutt’oggi l’unico caso di trasposizione integrale di un’opera di Wagner per
il grande schermo. La cosa interessante nel rapporto fra Wagner e il cinema
è che a un certo momento è diventato un rapporto a doppio senso: ovvero i
registi interessati alla messa in scena delle opere di Wagner hanno
cominciato a guardare alle nuove tecnologie del cinema, quelle digitali,
come a degli utili supporti per la realizzazione delle scene più ardue; ma,
cosa ancora più interessante, alla grammatica della visione cinematografica
che ormai ha permeato il nostro sguardo, come a una soluzione di tipo
estetico a problemi di tipo pratico. Delphine Vincent (Università di
Friburgo) cita alcuni casi di allestimenti wagneriani nei quali il rischio di
“cadere nel ridicolo” - ad esempio sfoggiando nel Siegfried un Fafner “di
cartapesta” di fronte a spettatori avvezzi a effetti speciali tonitruanti, e più in
generale a un “orizzonte d’attesa profondamente mutato dall’immaginario
del cinema” - è stato arginato ricorrendo ad ellissi di tipo squisitamente
cinematografico: il mostro appare come una “cosa” morfologicamente
indefinibile e con-fusa col paesaggio nel progetto di Otto Schenk per il
Metropolitan Opera House di New York (1986), mentre in quello di Harry
Kupfer per Bayreuth (1988) si ricorre al concetto di fuori-campo, esibendo
del mostro soltanto delle generiche grinfie incombenti dall’alto e lasciando
il resto della sua “immensità” alla fantasia del pubblico.
Per quanto riguarda Thomas Eliot, la prima cosa a colpire, almeno me, è
il suo non eccelso interesse per il cinema, soprattutto tenendo conto del fatto
che egli non è stato soltanto un grande poeta e drammaturgo, ma anche un
importante critico e polemista; e che ha vissuto la storia del cinema quanto
basta per averne visto le diverse facce, da semplice intrattenimento di fiera a
grande business, da fenomeno di costume a vera e propria arte; ma dai suoi
scritti, al di là di alcune allusioni piuttosto generiche, la settima arte non
esce appunto come qualcosa degna di particolari attenzioni. Non è però di
questo parere il professor David Trotter (università di Cambridge), secondo
il quale anzi da lettere, saggi e poesie di Eliot si rileverebbero sufficienti
tracce di una “preoccupazione” costante per il cinema e della relativa
influenza sulla sua scrittura. Secondo Trotter la “dieta visiva” di Eliot – lo
studioso fa riferimento soprattutto al periodo pre-Waste Land, cioè quando il
cinema era muto: e la cosa è significativa poiché egli sostiene che l’avvento
del sonoro abbia in parte frenato la sperimentazione linguistica intorno allo
specifico cinematografico offrendo ai cineasti “una scelta facile per dire
piuttosto che mostrare” – sarebbe stata quella di uno spettatore
assolutamente medio: film di cowboys, cinegiornali, slapstick comedy:
“Suppongo che The Simpson, 24, Flashforward, The Office, e soprattutto i
video pop potrebbero essere considerati l’equivalente odierno di una simile
dieta visiva”, ha scritto in un articolo; ci sarebbe da obiettare sul fatto di
mettere sullo stesso piano serial piuttosto dozzinali in quanto a qualità
cinematografica, benché di notevole successo, come quelli su elencati, e I
Simpson, che sono invece un prodotto molto superiore alla media sia dal
punto di vista propriamente cinematografico che da quello dell’uso e
dell’intreccio di vari linguaggi, di referenti culturali, di citazioni (cfr.
Pierluca Marchisio, Guido Michelone, I Simpson. L’allucinazione di una
sit-com, Roma, Castelvecchi, 1999); o dei video pop (immagino che Trotter
voglia intendere in particolare quelli musicali), scorrendo la cui ormai più
che dignitosa avventura si incontrano, accanto a innumerevoli realizzazioni
banali e di maniera, intuizioni folgoranti dalle quali ha imparato ad attingere
anche il cinema “vero” (cfr. Domenico Liggeri, Musica per i nostri occhi.
Storie e segreti dei videoclip, Milano, Bompiani, 2007: dove, en passant, si
ribadisce l’importanza delle idee di Wagner per i linguaggi audiovisivi e si
conclama nel videoclip, in quanto opera sintetica e sinestetica per
eccellenza, una realizzazione del pensiero wagneriano ancora più efficace di
quella avvenuta nel cinema). Per altro non è forse superfluo ricordare, a
proposito dei gusti cinematografici di Eliot, la sua grande ammirazione per
Groucho Marx: fra il 1961 e il 1964 i due diedero vita anche ad un breve
carteggio che cominciò quando Eliot scrisse a Groucho per chiedergli
nientemeno che una foto autografa, e si concluse di fatto con la scomparsa
del poeta (della quale Groucho si rattristò affermando “Era una brava
persona, e questo è il miglior epitaffio che un uomo possa avere”); in una
lettera al fratello Gummo, Groucho, raccontando di una serata in casa Eliot,
rimarca il fatto che “Tom” apparisse più interessato a parlare di Animal
Crackers e Una notte all’Opera che non di Assassinio nella cattedrale e La
terra desolata (Groucho Marx, O quest’uomo è morto, o il mio orologio si è
fermato. Il meglio del meglio di Groucho. A cura di Stefan Kanfer, Torino,
Einaudi, 2001). Questa posa da fan è bizzarra se si pensa che, se una vera
“preoccupazione” arrivava ad Eliot dal cinema, era quella legata al suo
dilagare come oggetto di consumo culturale, e agli effetti sociali che ne
sarebbero potuti derivare. In un articolo dedicato all’attrice di music hall
Mary Lloyd (pubblicato sulla rivista The Dial nel 1922, tre mesi dopo la
prima uscita di The Waste Land, ma scritto nove anni prima, secondo una
nota dell’autore), Eliot, partendo dal presupposto che proprio il music hall
fosse uno spettacolo nel quale la “classe operaia” potesse trovare momenti
di socialità e persino di espressione e rispecchiamento della dignità della
propria vita, ravvisava nel cinema una forma di intrattenimento
sovraeccitata ed ipnotica al tempo stesso, oltre che priva di qualunque
possibilità di interazione; e così vaticinava un rapporto quasi diretto fra
questo nuovo divertimento e un processo di decadenza morale che avrebbe
investito la classe operaia stessa, come già aveva travolto la borghesia:
“Quando ogni teatro sarà stato rimpiazzato da cento cinema, quando ogni
strumento musicale sarà stato sostituito da cento grammofoni, quando ogni
cavallo sarà stato rimpiazzato da cento utilitarie, quando un semplice
congegno elettrico avrà permesso a ogni bambino di ascoltare, prima di
andare a dormire, le sue favole attraverso un altoparlante, quando la scienza
applicata avrà costruito ogni cosa possibile con i materiali di questa terra per
rendere la vita il più interessante possibile, non ci si dovrà sorprendere che
la popolazione dell’intero mondo civilizzato segua rapidamente il destino
dei melanesiani” (poche righe più sopra Eliot aveva citato un libro nel quale
lo psicologo W.H.R. Rivers denunciava le nefaste conseguenze della
civilizzazione sugli abitanti dell’arcipelago Oceanico, a rischio di morire “di
pura noia”). Si può ascoltare, in queste poche righe, la voce dell’Eliot
tradizionalista, per non dire conservatore, inquietato da quel “sovraccarico
di modernità” che invade le società e imprigiona gli uomini nell’angustia di
un presente secolarizzato: e tuttavia non si gli può negare una certa lucidità
nella percezione dell’impatto che il cinema avrà sulla ridefinizione degli
spazi urbani e delle forme di socialità (lo spiega benissimo Gian Piero
Brunetta nel suo Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spettatore
cinematografico): e magari corre ricordare che, in quegli stessi anni, anche
Luigi Pirandello, scrivendo i Quaderni di Serafino Gubbio operatore
(1925), vedrà nel cinema la metafora della meccanizzazione del mondo e
degli uomini.
Per tornare a questioni più tecniche, a conti fatti Trotter conclude che
“l’intelligenza di Eliot del linguaggio del cinema era assolutamente up-to-
date e molto più sofisticata di quella di scrittori notoriamente cinefili, come
ad esempio Franz Kafka” (che era un avventore da un film al giorno ma, e
lui stesso ne era turbato, incapace di assumere una distanza critica da quel
che vedeva sullo schermo e di controllare le proprie reazioni emotive): così
non è un caso se possiamo intravedere nella poesia di Eliot, in particolare
proprio ne La terra desolata, giustapposizioni e cesure, panoramiche e “voci
fuori campo”, e se la prassi intertestuale appare molto prossima a tradurre
sulla pagina le invenzioni linguistiche che i primi grandi artefici del
montaggio, come David W. Griffith e Sergej Ejsenštejn, avevano introdotto
nella coscienza estetica moderna. E, come per Wagner, anche per Eliot
possiamo dire che a un certo momento il rapporto con il cinema prende ad
invertirsi: il metodo compositivo utilizzato da Eliot per La terra desolata, da
egli definito “mitico” o intertestuale (“un modo di controllare, ordinare, dare
forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la
storia contemporanea”), grazie al quale frammenti testuali e culturali – dalla
citazione letterale alla mimesi parodica – di varia natura e provenienza
diventano come dei fattori di compresenza che determinano una sorta di
uscita dalla storia e di entrata in una sospensione temporale (sospensione,
ma dinamica), verrà in qualche modo riassorbito dalla post-modernità, dove
l’intertestualità diviene quasi una cifra pur se portata spessso alle estreme
conseguenze per via di esasperazione, da una parte, di sfrontatezza
dall’altra; in effetti se Eliot usa in modo superbo la parodia (in origine la
prima e la seconda sezione del Waste Land avrebbero dovuto intitolarsi, con
una citazione dall’ultimo romanzo di Charles Dickens, Lui rifà la polizia
con varie voci), in ambito post-moderno sarà molto più apprezzato il
pastiche, il mescolarsi di modelli e di loro imitazioni, di citazioni e pseudo-
citazioni, in modo incongruo. Del resto, come sostenne in un ormai lontano,
ma attualissimo e bellissimo saggio, Franco Moretti. “The Waste Land e
l’impianto mitico che ne costituisce l’ossatura, sono prodotti culturali
decisamente provvisori, instabili e approssimativi. E la ragione è che Eliot
ha tentato col Waste Land di risolvere nell’ambito letterario dei problemi
che avrebbero invece richiesto l’istituzione di nuovi sistemi estetici e
culturali. Eliot cerca cioè di ottenere con la poesia quei risultati che saranno
raggiunti solo con la cultura di massa”; risultati che consistono nel ritrovare
una forma di sintonia fra i segni del mondo ed il loro valore, un codice che
permetta di assimilare fra loro codici diversi e di “appaesare” l’uomo
all’interno di quel “panorama di futilità e anarchia che è la storia
contemporanea” (Franco Moretti, “Dalla terra desolata al paradiso
artificiale”, 1980, cfr. bibliografia). Questo ci porta direttamente – e
finalmente, qualcuno dirà! – al primo film.
Monty Python e il Sacro Graal (Monty Python And The Holy Grail)
Gb, 1974, col., 90’
Regia: Terry Gilliam, Terry Jones

Lungi da me l’idea di stabilire paragoni fra il capolavoro di Eliot e il


modesto film dei M.P.: come ho già detto prima, Eliot usa la parodia con
genio ed intuito, e a scopo moralistico, il gruppo inglese invece si butta a
capofitto nel pastiche, con beata e incosciente allegria, e col movente di
smitizzare i luoghi comuni medievali, soprattutto l’idea di un medioevo
nobile ed aulico. Ma, secondo l’ipotesi di Franco Moretti che abbiamo
appena vista – e che per me è del tutto plausibile -, un film come quello dei
M.P. è un prodotto tipico di una civiltà dove la cultura intera è già come
apparecchiata sul medesimo piano, dove sugli scaffali delle librerie, come
sui cartelloni dei teatri, come nei palinsesti delle televisioni generaliste, tutto
convive con tutto e non c’è alcun bisogno di un codice di isomorfismo,
quello che Eliot ha cercato e trovato ma, come sostiene Moretti, non gli ha
potuto garantire ciò che la cultura della sua epoca non era ancora pronta ad
accettare.
I Monty Python usano il cinema (con abbondanti debiti alla loro
pregressa esperienza televisiva, cosa di cui il film soffre molto in quanto alla
fine si presenta come un susseguirsi di episodi slegati, privi di una struttura
drammatica vera) per mettere alla berlina sia il medioevo che il cinema sul
medioevo con le sue pretese – qualsiasi esse siano. I primi dieci minuti sono
un chiaro avvertimento agli spettatori: nulla può essere preso sul serio. E
quando finalmente, dopo la gag iniziale dell’errore del proiezionista (come a
dire che in fondo un film vale l’altro) e la sequela di titoli di testa sbagliati
e/o assurdi, il film comincia, l’assunto viene ribadito: l’insufficienza del
budget a disposizione viene “cavalcata” … abolendo i cavalli! Artù e il suo
scudiero si presentano mimando l’azione del cavalcare, e il rumore degli
zoccoli (procurato dallo scudiero con due noci di cocco), come dei bambini.
Le finte cavalcate percorrono il film e, insieme ad una presenza costante del
“basso materiale corporeo” (e qui c’è una certa contraddizione: volendo
giocare all’antimedioevo i M.P. usano ed abusano proprio di uno degli
stereotipi sul medioevo, quello della sporcizia dominante), lo tengono, per
quel poco che si può, insieme. Le varie incursioni metanarrative e gli
anacronismi (a un certo punto compare uno storico moderno per aggiornare
gli spettatori sui prossimi sviluppi della trama, ma viene ucciso, chiamando
così in causa anche la polizia per le indagini), i codici linguistici adottati (ci
sono diversi siparietti a disegni animati creati da Gilliam) si trascinano in
definitiva stancamente, pur non mancando una certa cura visiva che guarda
ai cineasti preferiti di Gilliam (Walerian Borowczyk e Pier Paolo Pasolini) e
alla pittura di Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio: il tutto è
peraltro molto appesantito, nella edizione italiana, da un doppiaggio
stravagante che mette in bocca ai personaggi accenti dialettali e ingaggia fra
i prestavoce Oreste Lionello e Pippo Franco, col chiaro intento di
agganciare il film ai “boccaceschi” di moda all’epoca nei cinema nazionali
(e, forse, di italianizzare un umorismo ritenuto un po’ troppo “british”?).
Ricordiamo che, nel proseguio della sua carriera solista, Terry Gilliam si
appoggerà spesso a stilemi medievali e tornerà sul tema del Graal nel 1991
con La leggenda del Re Pescatore.

Perceval (Perceval le gallois)


Francia, 1978, col., 138’
Regia: Eric Rohmer

Col film di Rohmer facciamo un giro proprio di 360°, nel senso che se
l’operazione dei Monty Python voleva essere dissacrante, quella del regista
francese mira invece ad una idealizzazione, non tanto del medievo di per sé,
quanto piuttosto di una certa idea che il medievo è riuscito a trasmettere
attraverso la letteratura cortese, e di tale medesima letteratura. È perciò da
qui che bisogna partire per inquadrare questo che Paolo Mereghetti ha
felicemente definito “un film impossibile ma una scommessa vinta”: in
particolare dal poema di Chrétien de Troyes che secondo Rohmer per certi
versi precorre il romanzo moderno, ed ha già ben definiti i caratteri del
bildungsroman; del resto Rohmer, che era laureato in letteratura francese e
l’ha anche insegnata, ha dichiarato: “Credo che dopo quest’opera del XII
secolo non sia stato più inventato nulla che abbia profondamente sconvolto
il genere letterario”. Dunque Rohmer ha preso il testo di Chrétien e,
mantenendo la sua struttura poetica in versi ottonari, l’ha usato come
sceneggiatura, limitandosi a ridurlo a dimensioni ragionevoli per un film (il
poema consta di oltre 9.000 versi) e a tradurlo in un francese più accessibile
al pubblico medio contemporaneo, senza tuttavia snaturarne il tono e la
bellezza. Questi versi vengono “detti” dagli attori, spesso in terza persona
(come se essi descrivessero le azioni che compiono da fuori sé stessi), con
una recitazione anti-naturalistica e straniante: più che personaggi essi sono
quasi delle “funzioni”, il che aiuta a mantenere la qualità archetipica del
testo e la sospensione spazio-temporale della messa in scena. Vi sono inoltre
come dei commentari, tratti dalle parti descrittive del testo, ed essi sono
salmodiati su musiche dei secoli XII e XIII a creare dei veri e propri
recitativi i cui protagonisti sono i narratori, ora contadini, ora scudieri, ora
coristi; in questi intermezzi costoro additano e preparano le scene a venire.
Arriviamo così al secondo dato significativo del film, appunto la messa
in scena. Rohmer si è appoggiato figurativamente all’iconografia dell’epoca:
ci sono inquadrature che sembrano strappate dalle miniature dei codici
medievali, per quel che riguarda sia la composizione del quadro che forme e
colori, e addirittura la qualità prospettica: “Lo spazio romanico, quello delle
miniature o dei bassorilievi, è uno spazio curvo a due dimensioni. Le forme
si piegano sempre ai contorni della cornice, che si tratti della calligrafia
della lettera iniziale o del tutto sesto del timpano. Tale curvatura del piano
verticale contro cui urta il realismo fondamentale della ripresa fotografica,
l’ho trasposta sul piano orizzontale. È la terza dimensione che ho cercato di
‘curvare’, ma in modo dinamico, non più statico”. Convinto che lo sguardo
dell’obiettivo avrebbe alterato quello “autentico” del medioevo (“All’inizio
volevo girare in scenari naturali ma mi è parso impossibile rappresentare, ad
esempio, un cavaliere davanti a un albero, perché l’albero che avrei avuto
non sarebbe mai stato quello che poteva essere nel medioevo. Sarebbe stato
un albero fotografato, e confondere la visione fotografica e quella medievale
mi urta, anche se è prassi corrente al cinema”), Rohmer ha fatto un’altra
scelta coraggiosa: quella di voltare le spalle a qualsiasi forma di realismo, o
di interpretazione realistica, in favore di una messa in scena teatrale, dove
gli alberi stilizzati sono alti quanto una persona e le torri dei castelli quanto
una stanza; e dove lo spazio è organizzato come nel teatro medievale.1
E l’organizzazione dello spazio è il terzo punto qualificante del lavoro di
Rohmer, che del resto non a caso definì il cinema come “arte dello spazio” e
scrisse un celeberrimo saggio su questo problema nel cinema di Murnau.
Qui il termine di riferimento è il dramma liturgico medievale nella sua fase
più evoluta, quando le esigenze di complessità della narrazione (e quelle di
accoglienza del pubblico) comportarono la necessità di uscire dalla chiesa –
dove le prime embrionali rappresentazioni si svolgevano – per occupare gli
spazi aperti al suo esterno. Qui non abbiamo tempo per aprire un discorso
sulla morfologia del dramma liturgico, ci basta ricordare che la sua “scena”
veniva strutturata in mansions, in “dimore”, stazioni ognuna delle quali era
deputata a rappresentare un luogo della narrazione e lungo le quali l’azione
drammatica si spostava seguendo una contrazione spazio-temporale. Ed è
proprio così che Rohmer ha messo in scena il suo Perceval: all’interno di
una pianta ellittica (la disposizione delle mansions ad arco, piuttosto che in
linea retta, di fronte al pubblico, è testimoniata da alcune fonti), con le pareti
rivestite da un ciclorama che raffigura l’orizzonte, Perceval in pochi attimi
percorre chilometri di spazio ed ore di tempo; non ci sono stratagemmi né
cinematografici (stacchi, dissolvenze), né teatrali in senso moderno (sipari,
palchi rotanti), spazio e tempo sono a loro volta “funzioni” e al pubblico del
film sono richieste la stessa partecipazione e la stessa accettazione di precise
convenzioni che erano richieste al pubblico dei drammi liturgici medievali.
“Meglio essere onesti falsificando spudoratamente che fintamente
realistici e fotografici, per raggiungere lo spirito, l’essenza di un tempo così

1
Nota a margine: nel 1981 Emme Edizioni ha pubblicato La leggenda di Perceval, un
libriccino per ragazzi tratto dal film di Rohmer per la cura di Anna Maria Tatò e con le
illustrazioni di Virginie Thevenet che riprendono le immagini del film; dalle miniature
medievali alla pellicola, dalla pellicola alla stampa tipolitografica, curioso andirivieni per
questa iconografia graaliana.
altro e lontano”, ha scritto Stefania Conte sintetizzando lo spirito con cui
Rohmer ha affrontato – e vinto – la sua sfida: alla fine Perceval le gallois è
un film in qualche modo “storico”, perché si presenta come un’operazione
di mediazione culturale, condotta con pari dedizione al rigore della ricerca e
al “gusto della bellezza”.

Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac)


Francia, 1974, col., 85’
Regia: Robert Bresson

Terzo film, e nuovo giro di vite: con Robert Bresson scompare


l’idealismo e torna a focalizzarsi sul mito, o comunque su quel che del mito
ci è stato trasmesso dalla cultura diffusa, uno sguardo critico e disincantato,
senza analisi psicologiche, affondato nella stessa materia dura e asciutta che
il maestro francese ha sempre cercato per dispiegare attraverso il cinema il
suo “materialismo metafisico”. Il tema di Lancelot du Lac è la cavalleria,
ovvero una sorta di oggetto intenzionale al quadrato, un oggetto intenzionale
dentro all’oggetto intenzionale che è il medioevo. Come ha spiegato Ulisse
Sansò in un articolo, a partire dalle considerazioni che Jean Flori,
eminentissimo studioso della questione, premette al suo celebre testo
Cavalieri e cavalleria nel Medioevo (1998), l’idea di cavalleria si è
costituita nel tempo sulla base della sua narrazione nelle varie chanson des
gestes e delle successive interpretazioni letterarie di queste: un’idea i cui
“contatti con la realtà storica si sono via via assottigliati, perdendosi quasi
del tutto, fino al tentativo di recupero della storiografia contemporanea”
(tentativo di cui è parte anche il rimettere in equilibrio il rapporto tra le fonti
narrative e le fonti di archivio vero e proprio, un equilibrio sbilanciato a
favore di queste ultime, con apparente piena ragione, ma anche con
sostanziali preconcetti). Così la cavalleria ha finito per trasmettersi, più che
per i suoi concreti valori storici, come “arte di apparire” fornendo “agli
intellettuali ad essa contemporanei e successivi un eccezionale vestito per
l’archetipo di eroe o per la sua ombra che, secondo Gustav Jung, popolano
l’inconscio collettivo dell’umanità fin dai suoi albori” (Sansò, corsivi
dell’autore. La saga di Guerre stellari dimostra come questi archetipi si
possono applicare benissimo a situazioni diverse da quelle di partenza).
In Lancelot du Lac è come se tutto si ribaltasse: il Graal, lungi dall’essere
il fulcro della guarigione, è l’origine di un tracollo morale e valoriale. Artù
ha mandato Lancillotto a cercarlo, ma egli torna sconfitto (il Graal lo ha
trovato il predestinato Parsifal che però si è eclissato). La Tavola Rotonda è
quasi spopolata, e Artù nomina tristemente i cavalieri caduti nel corso di
quella che si è rivelata una ricerca lunga e avida di sangue: ai cavalieri
rimasti che gli domandano cosa fare, che gli chiedono un compito, il re non
trova di meglio che rispondere di aspettare, esercitarsi e pregare. Sul tutto
grava l’adulterio, l’amore impossbile fra Lancillotto e la regina Ginevra, che
il cavaliere vorrebbe, ma non riesce a troncare. E alla fine è questa la molla
che fa scatenare una lotta intestina tra i cavalieri, anche se una buona spinta
è fornita da Mordret, il nipote di Artù, che cerca di soffiare sul fuoco di odi
e risentimenti latenti a proprio vantaggio. Nei titoli di testa Bresson
suggerisce la tesi che troppi cavalieri si siano mossi alla cerca del Graal
attirati più dal potere del talismano che dal valore spirituale della Sacra
Reliquia, e che il loro orgoglio si sia tradotto in una specie di maledizione.
Alla fine i cavalieri feriti a morte si accasciano l’uno sull’altro: un cumulo
di armature come fossero quasi scatole vuote di conserva, la cavalleria
appunto come arte dell’apparire svuotata di sostanza dalle offese della storia
sul suo mito. Oppure una versione tragica del Cavaliere inesistente di Italo
Calvino, una “inesistenza munita di volontà e coscienza”, una perfezione
formale che si regge solo su sé stessa (incarnata da Lancillotto), ma non
trova, come nel testo calviniano, il proprio contraltare di “esistenza priva di
coscienza, ossia di identificazione generale col mondo oggettivo” e,
soprattutto, non trova la propria sintesi, il soggetto nel quale le due
condizioni “lottano all’interno della stessa persona” (e infatti Parsifal nel
film non c’è). Nell’opera di Bresson i gesti e le parole sono come disseccati,
immersi nel rumore continuo e molesto di ferraglia delle armature e dei
nitriti nevrotici dei cavalli, e anche l’impianto iconografico appare come un
affresco scolorato dal tempo. Ancora una volta, l’ennesima, a me viene in
mente la situazione individuata da Giorgio Agamben nel presepe, la
situazione di una favola o di un mito che si destano dall’incanto per entrare
nella storia.

Excalibur (Excalibur)
USA, 1981, col., 140’
Regia: John Boorman

Come avete potuto constatare abbiamo incontrato fin qui modi molto
diversi di accostarsi al medioevo e di presentarlo sul grande schermo: la sua
dissacrazione in chiave comica fatta dai Monty Python, l’excursus filologico
di Rohmer, la demistificazione – ma stavolta in una prospettiva seria ed
intellettualistica - di Bresson. Nella prima parte della conferenza ho citato il
libro di Matteo Sanfilippo sulla “reinvenzione” dell’età di mezzo compiuta
dal cinema hollywoodiano: mi sembra quindi giusto dare spazio a un tipico
prodotto di quella matrice (anche se Boorman è inglese e il film è stato
girato in Irlanda), un vero kolossal medievale, che ha avuto peraltro il
merito – se vogliamo ritenerlo tale –, insieme ad alcuni film coevi (Conan il
barbaro di John Milius, 1982, Krull di Peter Yates, 1983), di aprire la strada
ad un ethos che, staccandosi dalle ultimissime propaggini degli stilemi degli
anni Cinquanta e Sessanta, ha insegnato molto a un certo cinema fantastico
e fantasy più in generale (e infatti Boorman progettava, già mentre si
occupava di Excalibur, di portare sullo schermo Il Signore degli anelli,
progetto al quale poi rinunciò perché ritenuto troppo costoso).
Il film di Boorman è in pratica un adattamento della Morte d’Arthur di
Malory, ovvero di un testo già in odore di “autunno del medioevo” (proprio
come lo intendendeva Johan Huizinga nel suo celebre libro: un periodo di
transizione, nel quale tuttavia era pressocché impossibile scorgere motivi di
vera cesura, e quindi dividere rigidamente il medioevo dal rinascimento ):
nel suo impianto, diciamo così concettuale, però accoglie le suggestioni
etnologiche di Jessie Weston (anzi, secondo lo storico del cinema e dello
spettacolo Stefano Socci, addirittura del maestro di Weston, James George
Frazer, se è vero che Artù appare “simile al re del bosco di Nemi come lo
ritrae Frazer, insonne e perennemente in guardia, con una spada sguainata
nella mano destra”2). Anche se è lo spettacolo, l’enterteinment, ad essere al
centro degli interessi della produzione, questo lungometraggio ha tuttavia
diversi argomenti di interesse dal punto di vista col quale abbiamo qui
esaminato il problema del medioevo al cinema. Intanto è molto evidente la
condizione a-storica della narrazione: il medioevo di Excalibur è un tempo
sospeso che, come dice Sanfilippo traendo le conclusioni del suo studio
sulla reinvenzione hollywoodiana dell’età di mezzo, “prevede elementi
eterodossi rispetto alla tradizione e alla storia europea. La raffigurazione di
quest’età immaginaria non richiede eccessiva cura dei particolari” pur non
escludendo a priori “un certo grado di correttezza filologica, in particolare
se questa è funzionale alla spettacoloarità” (pag. 184). Nel film di Boorman
questa “eterodossia” è evidente nell’impianto visuale, ricalcato
sull’immaginario medievale romantico e preraffaelita, ma non senza qualche
dettaglio di glamour quasi post-moderno, come nella musica, che a parte
brani originali di Trevor Jones (il fortunato compositore inglese cominciò la
sua carriera proprio con Excalibur) è affidata a Richard Wagner e Carl Orff
(l’ab-uso dei Carmina Burana di Orff in svariati contesti pseudo-medievali
diventerà in seguito un tormentone); un palcoscenico senza alcuna pretesa di
realismo, ma neanche di verosimiglianza in fondo, sul quale si muovono i
protagonisti assoluti, anche in questo caso i cavalieri.
Qui lo stereotipo dominante è quello della violenza, del disordine, della
guerra: all’interno di questo scenario buio e caotico la cavalleria viene vista
come un corpus di valori che però vi sembrano ineluttabilmente legati: “Un
altissimo ideale (desumibile dai dialoghi dei cavalieri), nato dalla guerra (la
parte iniziale del film, dove Artù diviene cavaliere e re), che lontano dalla
guerra appassisce (la parte centrale, col tradimento di Lancillotto e la caduta
2
“In questo bosco sacro cresceva un albero intorno a cui, in ogni momento del giorno, e
probabilmente anche a notte inoltrata, si poteva vedere aggirarsi una truce figura. Nella
destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno come se temesse a
ogni istante di essere assalito da qualche nemico. Quest’uomo era un sacerdote e un
omicida; e quegli da cui si guardava doveva prima o poi trucidarlo e ottenere il sacerdozio
in sua vece”. James George Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1890-
1915).
del regno) e solo con la guerra può rinascere (la parte finale, con la grande
battaglia)” (Ulisse Sansò). Per quanto lontano da esso sul piano estetico, il
film di Boorman si avvicina a quello di Bresson in questa visione del mito
della cavalleria come arte dell’apparenza: addirittura, dice Sansò, i dialoghi
fra i cavalieri, che parrebbero provenire direttamente dai manuali del XII
secolo, costituiscono una sorta di “seconda armatura”. E nella scena dove
Lancillotto sogna di combattere, nudo, con la propria armatura, vuota, torna
il discorso sul rapporto fra il primato di volontà e coscienza e le pulsioni del
mondo oggettivo inquadrato da Calvino.
Come ho accennato prima citando Socci, Boorman tratta i temi arturiani
in un’ottica “pagana”: il mito viene spogliato della sua “cristianizzazione” e
ricondotto al suo luogo primordiale, là dove trae origine la corrispondenza
magica fra la salute del regnante e quella della sua terra; il calice e la lancia,
così come la spada nella roccia, sono simboli sessuali. Il tempo di Excalibur
è un tempo fiabesco, ed anche qui, come in Lancillotto e Ginevra, emerge il
problema di come e dove individuare il confine che separa il mito dalla
storia. In questo caso ci aiuta una dichiarazione di Boorman che Giovanni
Grazzini, recensendo il film alla sua uscita in Italia, riportò attribuendone la
fonte a generiche “interviste”: “Siamo tutti stanchi della troppa democrazia
che ci circonda” (Il Cinemondo, vol. 6, pag. 124). Questa “confessione” del
regista, anche se così decontestualizzata andrebbe presa con le pinze per non
derivarne conclusioni affrettate e superficiali3, illumina Excalibur di una
luce molto eliotiana. Eliot quando scrive The Waste Land considera il suo
tempo “un mucchio di immagini frante dove il sole batte” e, negli anni
immediatamente successivi alla pubblicazione del poemetto, comincia una
meditazione intorno alle potenzialità salvifiche di sistemi culturali chiusi
che esigono il sacrificio dell’individualismo moderno, un “riassorbimento
con forti tratti mistici entro una totalità vincolante” che, al caro prezzo di
approssimarsi ambiguamente alle filosofie totalitarie del Novecento, ha
tuttavia la fascinazione del sentirsi “immersi in un’aria gravida di destino”,
dentro “un’aura simbolica, significante, che sembrava irrimediabilmente
perduta” (Franco Moretti, cit.).

Nel film di Andrej Tarkowskij Andrej Roublev (1969), ambientato nella


Russia del XV secolo, in una sequenza si vede l’immagine luminosa di
alcuni cavalieri in movimento, ma a testa in giù, comparire sul muro di una
stanza buia, per la sopresa di chi la contempla. Si tratta naturalmente del
principio della camera oscura: la luce del sole, incontrando degli oggetti, ne
proietta l’immagine se viene convogliata all’interno di un ambiente buio per
3
Il giornalista Boris Sollazzo, durante un breve colloquio con Boorman in occasione del
Premio internazionale Filmcritica Maestri del Cinema 2005, lo ha definito “un anarchico
conservatore (…) a metà tra il superominismo e una disperata richiesta di giustizia e libertà
(…) l’imperialismo buono, il conservatorismo (davvero) compassionevole, l’ansia di
democrazia soffocata dal potere. Che spesso si traduce in una irrimediabile nostalgia del
passato” (su www.omero.it/rivista ).
il tramite di una piccola apertura. Il fenomeno, notato in embrione già da
Aristotele, sarà studiato da Ruggero Bacone nel XIII secolo, ove verrà poi
sfruttato dagli astronomi per osservare comodamente le eclissi solari. Grazie
agli esperimenti successivi di Leonardo Da Vinci, Gerolamo Cardano e
Giambattista Della Porta la camera oscura sarà perfezionata e diventerà, da
una parte un apparecchio utilissimo ai pittori per l’osservazione della natura
e la sua riproduzione, dall’altra un vero e proprio spettacolo. Ho pensato di
concludere questa mia conferenza riprendendo la citazione della sequenza di
Tarkovskij fatta da Laurent Mannoni, collezionista, ricercatore e direttore
del Museo del Cinema di Parigi, nel suo bellissimo libro La grande arte
della luce e dell’ombra. Archeologia del cinema, perché in essa, dentro al
cinema sul medioevo, possiamo vedere il cinema del medioevo. Che cosa
significa questa curiosa affermazione?
Vi ho parlato prima, per informarvi circa la natura dell’oggetto che fa da
“copertina” al mio intervento, di storia del precinema: adesso ho usato una
espressione diversa per identificare la stessa disciplina, cioè archeologia del
cinema. In questa disciplina vi sono due correnti di pensiero: una che cerca
di rintracciare nella storia, un po’ warburghianamente direi, segni e sintomi
di un desiderio di immagini e di rapporto con le immagini che, quasi senza
rendersene conto, ha indirizzato l’evoluzione di “mentalità e modalità della
visione e della percezione” verso la costruzione di “quella cittadinanza
comune e quell’habitat senza i quali certo il cinema non avrebbe potuto
svilupparsi”; attraverso il contatto con una serie di scoperte e invenzioni
inerenti l’ottica, la fisica della luce, la fisiologia della visione, la gente si è
come preparata, con la camera oscura, la lanterna magica, il mondo nuovo e
via dicendo, ad accogliere al momento giusto il cinema; Gian Piero Brunetta
in un suo testo, anche questo mirabile, riunisce significativamente queste
avventure sotto al titolo di Il viaggio dell’icononauta. L’altra corrente di
pensiero, a dire la verità molto meno frequentata (anche perché molto meno
affascinante e poetica), si può riassumere benissimo col pensiero di C. W.
Ceram, famoso archeologo temporaneamente imprestatosi al precinema:
“Per la storia non ha importanza che si «verifichino» delle scoperte casuali,
bensì ha importanza che queste scoperte divengano efficaci”, motivo per cui
non ha senso tentare di rintracciare prodromi del cinema nelle ombre cinesi,
nei fregi egizi o nel mito della caverna di Platone, vezzi dettati dalla nostra
“propensione verso le teorie meccanicistiche dell’evoluzione, secondo le
quali la storia della civiltà umana non è che un progresso ininterrotto
attraverso cinque millenni” (per inciso, secondo Ceram le scoperte efficaci
per l’avvento del cinema si concentrano in un periodo compreso fra il 1792
– invenzione della retroproiezione mobile – e il 1888 – presentazione dei
primi lavori crono-fotografici di Jules Marey).
La verità, inutile dirlo, sta proprio nel mezzo: il cinema è una macchina
complessa e non è fatto soltanto di tecnica o soltanto di immaginazione, e
non è fatto nemmeno soltanto di tecnica e immaginazione. Lo studio delle
fonti delle breve ma intricata storia del cinema è difficile quanto lo studio di
quelle medievali: la filologia del cinema è una materia ancora giovane (e
paradossalmente vede giorno per giorno, con la diffusione delle tecniche
digitali, ridursi il proprio campo di ricerca) e il restauro di un film spesso è
più arduo di quello di un affresco del Trecento; come ha detto qualcuno, per
un ragazzo di sedici anni Il settimo sigillo di Ingmar Bergman ha già l’alone
di un reperto preistorico, appunto archelogico. Anche il cinema, come il
medioevo, non di rado diviene un oggetto “intenzionale” più che reale, se ne
parla per scopi e ragioni che lo riguardano, in sé e per sé, relativamente.
Anche il cinema, come il medioevo, ha prodotto i suoi stereotipi e ne è poi
diventato vittima più o meno consenziente (a proposito di queste ultime
considerazioni, esiste un aureo e gustoso libretto scritto da Maurizio Porro e
Giuseppe Turroni molti anni fa – 1979 – e che sarebbe bello fosse ripreso e
aggiornato: Il cinema vuol dire …, catalogo ragionato di decine di luoghi
comuni cinematografici che hanno, o comunque hanno avuto nel loro tempo
e per qualche tempo, il potere di evocare nel pubblico un immaginario
condiviso e di far scattare un rapporto intellettuale ed emotivo). Medievo e
cinema sono forse più prossimi di quanto pensiamo?

23 marzo – 14 giugno 2011

Abstract per la “committenza”

A bordo del Graal come di una specie di macchina del tempo, un piccolo
viaggio fra gli archetipi e gli stereotipi, le idealizzazioni e le dissacrazioni, i
rimaneggiamenti e gli sguardi critici, con cui il cinema ha raccontato, spesso
più come un oggetto intenzionale che reale, il medioevo.

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