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PATRIMONIALI
Dal danno morale al danno biologico
alla luce delle storiche pronunce
giurisprudenziali
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One
3 DANNI NON PATRIMONIALI
Sommario:
1. Il contenuto del danno non patrimoniale, prima della pronuncia della C. Cost. n. 233 del 2003
2. (Segue) Il contenuto del danno non patrimoniale, dopo la pronuncia della C. Cost. n. 233 del 2003
3. I l danno da lesione di interessi costituzionali o esistenziale prima della sentenza della C. Cost. n. 233 del
2003
4. ( Segue) Il danno esistenziale o da lesione di interessi costituzionali, dopo la sentenza della C. Cost. n. 233
del 2003
5. Il danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione, Sezioni Unite, dell’11 novembre 2008
6. ( Segue) La liquidazione del danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione, Sezioni Unite,
dell’11 novembre 2008
7. Il danno morale soggettivo ex art. 185 del Codice penale
8. (Segue) La prova del danno morale
9. (Segue) La liquidazione del danno morale
10. (Segue) La liquidazione del danno morale in caso di lesione della reputazione
11. (Segue) Il risarcimento del danno morale per le lesioni subite da un congiunto
12. Il danno biologico
13. (Segue) La liquidazione del danno biologico
14. (Segue) La liquidazione del danno biologico e le c.d. «tabelle»
15. Le micropermanenti
16. (Segue) L’art. 139, D.Lgs. 7.9.2005, n. 209 e l’art. 5, L. 5.3.2001, n. 57
17. Il risarcimento del danno in caso di morte: il danno morale
18. (Segue) Il risarcimento del danno morale iure proprio
19. (Segue) Il risarcimento del danno morale al nascituro
20. (Segue) Il risarcimento del danno biologico, iure hereditario
21. (Segue) Il risarcimento del danno biologico iure proprio
22. (Segue) Il danno da perdita del rapporto parentale, come danno esistenziale o da lesione di un interesse
costituzionalmente rilevante
23. Il danno non patrimoniale degli artt. 89 del Codice di procedura civile e 598 del codice penale
24. I casi di espresso riconoscimento del danno non patrimoniale nella legislazione successiva al codice:
l’art. 2, L. n. 117 del 1988
25. (Segue) Il danno non patrimoniale per l’eccessiva durata del processo (art. 2, L. n. 89 del 2001)
26. Violazione delle regole sul trattamento dei dati personali
27. Il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale
28. Casi particolari di risarcimento del danno non patrimoniale: la lite temeraria
29. (Segue) Il danno da vacanza rovinata
30. (Segue) Il diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione cautelare ex art. 314 c.p.p
31. (Segue) Il diritto morale d’autore
32. (Segue) La riparazione prevista dall’art. 12, L. n. 47 del 1948
33. La risarcibilità del danno non patrimoniale in favore di una persona giuridica
34. Legittimato passivo
35. Concorso di colpa della vittima
36. Danno non patrimoniale e svalutazione monetaria
37. Risarcimento in forma specifica e pubblicazione della sentenza
Autori
Codice civile commentato a cura di G. Bonilini, M. Confortini, C. Granelli
I commenti costantemente aggiornati, sono quelli pubblicati nella III Edizione 2009 del volume Codice Civile
Ipertestuale.
Bibliografia
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Testo di legge
Codice Civile
Note:
[1] La Corte Costituzionale, con sentenza 12-26 luglio 1979, n. 87 (Gazz. Uff. 1° agosto 1979, n. 210), ha dichiarato non fondata la
questione di legittimità del presente articolo in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost.; con sentenza 30 giugno-14 luglio 1986, n. 184 (Gazz. Uff.
23 luglio 1986, n. 35 - Prima serie speciale), ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità del presente
articolo in riferimento all'art. 2 Cost., all'art. 3, primo comma, Cost., all'art. 24, primo comma, Cost. e all'art. 32, primo comma, Cost. La
stessa Corte, con sentenza 24-27 ottobre 1994, n. 372 (Gazz. Uff. 2 novembre 1994, n. 45 - Prima serie speciale), ha dichiarato non
fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità del presente articolo in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost.; con sentenza
30 giugno-11 luglio 2003, n. 233 (Gazz. Uff. 16 luglio 2003, n. 28 - Prima serie speciale), ha dichiarato: a) non fondata, nei sensi di cui in
motivazione, la questione di legittimità del presente articolo, in riferimento all'art. 3 Cost.; b) inammissibile l'ulteriore questione di legittimità
del presente articolo, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
1. Il contenuto del danno non patrimoniale, prima della pronuncia della C. Cost. n. 233 del 2003
A causa della clausola limitativa prevista, l'art. 2059 è stato più volte sottoposto a denunce di
incostituzionalità. In questo modo, le pronunce della Corte costituzionale che sono seguite hanno forgiato
la nozione di danno non patrimoniale (Monateri, Bona, Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999,
14).
Si è ritenuto che l'espressione danno non patrimoniale sia ampia e generale, e tale da riferirsi senza
ombra di dubbio a qualsiasi pregiudizio che si contrapponga in via negativa a quello patrimoniale
caratterizzato dalla economicità dell'interesse leso ( C. Cost. n. 88/1979). Successivamente, si è ristretto
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notevolmente l'ambito di operatività dell'art. 2059, affermandosi che l'art. 2059 attiene esclusivamente ai
danni morali soggettivi, che consistono nell'ingiusto perturbamento dello stato d'animo del soggetto offeso
( C. Cost. 14.7.1986, n. 184). Secondo tale ricostruzione i danni non patrimoniali si identificano con i
danni morali puri, non suscettibili di valutazione secondo criteri oggettivi ed uniformi. Tale specie di danno
può essere rappresentata dai patemi e dai perturbamenti d'animo, ma non dal danno alla salute. Il
risarcimento del danno non patrimoniale viene pertanto a ricoprire la funzione di un pretium doloris , per
chi ha subito sofferenze morali derivanti da fatti particolarmente offensivi ( C. Cost. 14.7.1986, n. 184). In
seguito, l'impostazione della pronuncia C. Cost. 14.7.1986, n. 184 è stata decisamente respinta: si è
ricompreso il danno biologico subito dai congiunti della vittima nell'ambito dell'art. 2059 ( C. Cost.
27.10.1994, n. 372); si è sottolineato che per danno non patrimoniale deve intendersi ogni danno non
suscettibile direttamente di valutazione economica ( C. Cost. 22.7.1996, n. 293). Si è, così, sostenuto
che nella categoria del danno non patrimoniale deve essere ricondotto sia il danno morale soggettivo sia il
danno alla salute, intendendo con l'espressione danno morale il dolore, il patema d'animo, lo stato
d'angoscia transeunte, mentre, per danno alla salute si intende una vera e propria patologia del soggetto (
C. Cost. 22.7.1996, n. 293). Secondo tale ricostruzione, il risarcimento del danno morale, non essendo
assistito dalla garanzia dell'art. 32 Cost., può essere discrezionalmente limitato dal legislatore; mentre, il
risarcimento del danno alla salute, essendo tutelato a livello costituzionale, è risarcibile, attraverso
un'interpretazione analogica dell' art. 2043, anche nel caso in cui il fatto illecito non sia qualificato come
reato.
In questo modo, la categoria del «danno non patrimoniale» ha finito per avere soltanto un valore più che
altro dogmatico e classificatorio, senza però alcun riscontro a livello codicistico (Bona, Danno morale e
danno esistenziale, in Il danno alla persona, Torino, 2000, 74; Monateri, Bona, Oliva, 16).
Una tale impostazione ha poi trovato conferma anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, la quale
ha sottolineato come il danno non patrimoniale ed il danno morale siano nozioni distinte: il primo
comprende ogni conseguenza pregiudizievole di un illecito, che, non prestandosi ad una valutazione
monetaria di mercato, non può essere oggetto di risarcimento, bensì di riparazione, mentre il secondo
consiste nella c.d. pecunia doloris ( C. 2367/2000; C. 10606/1996; T. Bergamo 24.2.2003).
Il danno morale concerne soltanto il dolore, il patema d'animo, le sofferenze ed è sottoposto ai limiti
indicati nell'art. 2059; mentre, tutti gli altri tipi di danno devono essere risarciti come species di danno
ingiusto ex art. 2043 (Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. Sacco, Torino, 1998, 16). In tale
contesto si colloca l'elaborazione della categoria del danno esistenziale, in cui si riconducono tutti i danni
derivanti dalla lesione di situazioni riconosciute a livello costituzionale.
Secondo la giurisprudenza nel nostro ordinamento non esiste l'autonoma categoria del danno
2. (Segue) Il contenuto del danno non patrimoniale, dopo la pronuncia della C. Cost. n. 233 del
2003
La C. Cost. 11.7.2003, n. 233, attraverso il richiamo al diritto vivente (in modo particolare, C.
8828/2003; C. 8827/2003), ha operato una vera e propria "svolta" nel sistema del danno alla persona,
ricomprendendo nell'ambito dell'art. 2059, attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata della
norma, ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti alla persona. Tale
ripensamento ha poi trovato recente completamento e specificazione negli arresti della C., S.U.,
26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U., 26972/2008 (sulle quali si veda il
par. 5). In ogni caso, la C. Cost. 11.7.2003, n. 233 esclude che l'ambito di operatività dell'art. 2059 possa
essere circoscritto al solo danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell'animo
determinato da fatto illecito, integrante gli estremi del reato. Nell'ordinamento attuale, in cui ha una
posizione preminente la Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, il danno non
patrimoniale viene inteso nella sua accezione più ampia di danno comprensiva di ogni ipotesi di lesione di
interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica. Tale concezione è testimoniata
anche dai numerosi provvedimenti legislativi che riconoscono il risarcimento del danno non patrimoniale
anche al di fuori dell'ipotesi di reato, nel caso di compromissione di valori personali: art. 2, L. 13.4.1988, n.
117, riguardante il risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale,
cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art. 29, 9° co., L. 31.12.1996, n. 675, riguardante la raccolta
dei dati personali; art. 44, 7° co., D.Lgs. 25.7.1998, n. 286, riguardante gli atti discriminatori per motivi
razziali, etnici o religiosi; art. 2, L. 24.3.2001, n. 89, riguardante il mancato rispetto del termine ragionevole
di durata dei processi. A favore di tale interpretazione vi è anche l'evoluzione giurisprudenziale, la quale,
per garantire l'integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in
senso strettamente economico, ma anche nei valori propri della persona, ha previsto il risarcimento del
danno biologico. Tale danno è sempre stato tutelato in virtù del collegamento tra l' art. 2043 e l'art. 32
Cost., e non già nell'art. 2059, al solo fine di sottrarre il risarcimento al limite posto dall'art. 2059, secondo
la ricostruzione della C. Cost. 14.7.1986, n. 184 il danno biologico, in quanto costituito da due
componenti, di cui l'una di natura strettamente psicofisica e l'altra che influisce sulle attività relazionali del
soggetto, deve essere necessariamente personalizzato, poiché un certo tipo di danno può avere influito
sugli aspetti relazionali di un soggetto in una certa misura, mentre su di un altro soggetto l'incidenza può
essere diversa; esso deve essere, pertanto, valutato caso per caso ( T. Cassino 22.6.2016). Si esclude
Sulla base di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 il danno non patrimoniale, ivi compreso
il danno morale soggettivo, è sempre risarcibile, anche a prescindere dal limite derivante dalla riserva di
legge correlata all'art. 185 c.p. (dunque, anche in assenza di un'ipotesi di reato), allorché si sia in presenza
di un'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito ( C. St.,
16.9.2011, n. 5166).
I doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la relativa violazione, ove cagioni la
lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad
un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 ( C., ord., 4470/2018).
In questo modo, la Corte costituzionale, attraverso il richiamo al diritto vivente, delinea un sistema di
danno alla persona, incentrato sul sistema bipolare del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale;
quest'ultimo, a sua volta, caratterizzato per la presenza, al suo interno, di una trilogia (Busnelli, Chiaroscuri
d'estate. La corte di cassazione e il danno alla persona, in DResp, 2003, 829): danno morale soggettivo,
inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima del reato; danno biologico, inteso
come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona,
conseguente ad un accertamento medico - legale; infine, il danno (spesso definito in dottrina ed in
giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti
alla persona. All'interno dell'art. 2059 è, pertanto, individuabile una duplice struttura ed una duplice
funzione: la prima, punitiva e/o afflittiva, sottoposta ai presupposti dell'art. 185 c.p., che disciplina i soli
danni morali da reato; la seconda, tipicamente compensativa, che consente di risarcire, sulla base degli
elementi costitutivi previsti dall' art. 2043, i «danni non patrimoniali», che, anche in assenza di un reato,
derivino dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (Procida Mirabelli di Lauro,
L'art. 2059 va in paradiso, in DResp, 2003, 834).
L'evoluzione di tale orientamento e il suo punto d'arrivo sono puntualmente ricostruiti in C. 15481/2013,
secondo cui assume rilievo essenziale, non solo in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale,
ma anche, e prima ancora, ai fini della esperibilità dell'azione di responsabilità, l'indagine se il diritto
oggetto di lesione sia riconducibile a quelli meritevoli di tutela secondo il parametro costituzionale.
3. Il danno da lesione di interessi costituzionali o esistenziale prima della sentenza della C. Cost.
n. 233 del 2003
Il danno esistenziale è stato ideato per sopperire alle lacune del sistema risarcitorio che non era in
grado di tutelare gli attributi ed i valori della persona, nel caso in cui l'illecito non integrasse gli estremi del
reato, così da permettere la risarcibilità del danno morale, oppure allorché non integrasse una lesione
della salute, suscettibile di giustificare il risarcimento del danno biologico ( C. 15449/2002). Nella
categoria del danno esistenziale sono stati ricondotti tutti i danni derivanti dalla lesione di situazioni
riconosciute a livello costituzionale; tale pregiudizio è distinto dal danno biologico, in quanto non comporta
un'alterazione dello stato di salute o l'insorgere di una malattia; il danno esistenziale, invece, senza ridursi
al mero patema d'animo interno, richiama disagi e turbamenti di tipo soggettivo, i quali incidono
negativamente su tutte le attività attraverso le quali il soggetto esplica la propria personalità ( C.
9009/2001). Il danno esistenziale causa un'alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di vita
che si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato, alterando le normali attività
quotidiane e provocando uno stato di malessere psichico diffuso che, pur non sfociando in una vera e
propria malattia, provoca, tuttavia ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle normali occupazione,
depressione ( A. Milano 14.2.2003; T. Milano 21.10.1999). Il fondamento normativo del danno
esistenziale, prima del nuovo assetto delineato dalla C. Cost. 11.7.2003, n. 233, è individuato attraverso
uno schema simile a quello adottato inizialmente per il danno alla salute: il combinato disposto dell' art.
2043 con una norma della Carta Costituzionale ( C. 9009/2001; C. 7713/2000; T. Venezia 27.9.2000;
T. Milano 8.6.2000). Secondo questa ricostruzione, la lesione di un diritto costituzionalmente protetto,
anche in presenza di una norma come l'art. 2059, sarebbe comunque risarcibile in base al combinato
disposto dell' art. 2043, e della norma che si assume di volta in volta violata.
È individuata una precisa differenza tra il danno esistenziale ed il danno morale: il danno morale si
manifesterebbe su un piano puramente interno (sensazioni, disagi, turbamenti, ansie), mentre il danno
esistenziale avrebbe ad oggetto "il fare", prospettandosi per la vittima la necessità di adottare nella vita di
tutti i giorni comportamenti diversi dal passato. Il danno esistenziale costituirebbe una rinuncia ad un
facere , ad una attività positiva, mentre il danno morale costituirebbe una mera sofferenza soggettiva,
interiore, inesprimibile, un pati. In tal modo, danno esistenziale e danno morale riguarderebbero due aree
di pregiudizio ben distinte: nel primo caso sarebbe presente una modificazione della realtà esterna,
nell'altro verrebbe in rilievo una sofferenza di carattere emotivo (Ziviz, Chi ha paura del danno
esistenziale?, in RCP, 2002, 815). È, tuttavia, sottolineato il rischio che si venga a creare una
sovrapposizione tra danno morale e danno esistenziale e di compiere così una duplicazione risarcitoria,
liquidando due volte lo stesso pregiudizio: il "non fare" rappresenta una conseguenza della sofferenza
morale, che deve essere valutata al momento della liquidazione del danno morale (Navarretta, Il danno
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AGGIORNATO Non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del danno biologico e di una ulteriore
somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, rappresentati dalla
sofferenza interiore ( C., Ord., 20286/2019).
Il pericolo di una duplicazione di risarcimento tra danno morale e danno esistenziale è sottolineato anche
dalla giurisprudenza antecedente alla pronuncia della C. Cost. 11.7.2003, n. 233 ( T. Roma 7.3.2002),
nonché dalla giurisprudenza richiamata dalla stessa C. Cost. 11.7.2003, n. 233 come diritto vivente (
C. 8828/2003; C. 8827/2003).
L'art. 2059 ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti
alla persona; in tale ambito deve essere collocato oltre al danno morale soggettivo (inteso come
transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima) ed al danno biologico anche il danno esistenziale
o da lesione di interessi di rango costituzionale ( C. Cost. 11.7.2003, n. 233; C. 8828/2003; C.
8827/2003). Si esclude che, nel caso di lesione di valori personali di rilievo costituzionale, il risarcimento
del danno non patrimoniale possa essere soggetto al limite derivante dalla riserva di legge di cui all'art.
185 c.p. Una lettura della norma costituzionalmente orientata rende inoperante il limite di cui all'art. 2059
se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti: il rinvio ai casi in cui la legge
consente la riparazione del danno non patrimoniale deve essere riferito, dopo l'entrata in vigore della
Costituzione, anche alle previsioni di quest'ultima, in quanto il riconoscimento nella Costituzione dei diritti
fondamentali della persona non aventi natura economica, ne impone, necessariamente, la tutela ed in tal
modo configura un caso determinato dalla legge di riparazione del danno non patrimoniale ( C.
8828/2003; C. 8827/2003). Il danno non è ravvisabile nella lesione dell'interesse costituzionale protetto,
non è in re ipsa , ma deve consistere in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma
personale; inoltre, il pregiudizio alla sfera personale derivante dalla lesione di un interesse di natura
costituzionale deve essere, da chi lo invoca, allegato e provato secondo le regole ordinarie AGGIORNATO ( C.
3720/2019; C. St. 28.6.2019, n. 4454). Il giudice, pertanto, non può stimarlo e liquidarlo d'ufficio. Il
danneggiato deve quantomeno allegare le conseguenze sfavorevoli causate dalla lesione dell'interesse
costituzionalmente protetto ( C. 13546/2006; T.A.R. Campania 13.5.2011, n. 915; Cons. Giust. Amm.
Sic. 18.11.2016, n. 401). È, comunque, ammissibile il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni,
sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire ( C. 8828/2003; AGGIORNATO
C. St. 7.2.2019, n. 910 ). L'art. 2059, secondo una sua lettura costituzionalmente orientata che ne
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comporta l'applicabilità anche nel processo amministrativo, non disciplina un'autonoma fattispecie di
illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi
non patrimoniali, tra cui va annoverata la necessità, anche in caso di lesione di diritti costituzionali
inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, che la lesione sia grave e che il danno non sia futile (
C. St. 26.5.2017, n. 2486). Ad esempio, il disagio psico-fisico conseguente alla mancata utilizzazione di
un'area comune condominiale non è in re ipsa, potendosene ammettere il ristoro solo in conseguenza
della lesione di interessi della persona di rango costituzionale o nei casi espressamente previsti dalla
legge, ai sensi dell'art. 2059, e sempre che si tratti di una lesione grave e di un pregiudizio non futile ( C.,
ord., 17460/2018).
Di recente si è sottolineato che mentre il danno morale ha natura emotiva e interiore, ed il danno
biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il
danno esistenziale deve essere inteso come ogni pregiudizio, oggettivamente accertabile, provocato sul
fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte
di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno ( C., S.U.,
6572/2006; C. St. 10.5.2017, n. 2159; C. St. 4.11.2016, n. 4628; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I,
21.11.2016, n. 2679). Deve escludersi, tuttavia, che il danno c.d. esistenziale sia integrato non già in
presenza di uno "sconvolgimento esistenziale" bensì del mero "sconvolgimento dell'agenda" o nella mera
perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, e in particolare da meri disagi, fastidi,
disappunti, ansie, stress o violazioni del diritto alla tranquillità ( C., ord., 2056/2018; C., ord.,
27229/2017). Con riguardo al diritto di autodeterminazione, è stato ravvisato un danno ex art. 2059
laddove vi sua stata mancanza di consenso all'esecuzione di un intervento chirurgico a prescindere dalla
lesione incolpevole della salute del paziente, quando questi l'avrebbe rifiutato se edotto al riguardo,
trovandosi del tutto impreparato di fronte alle inattese, perché non conosciute, conseguenze dell'intervento
( C. ord. 31234/2018).
Il danno esistenziale, spesso, ha riguardato anche le conseguenze di lesioni di dubbio riferimento a precisi
valori costituzionali, come ad esempio, nel caso, di disagio o stress per contravvenzioni illegittime (
G.d.P. Bologna 8.2.2001), per sospensione dell'attività aeroportuale ( G.d.P. Milano 23.7.2002), per
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Si è però anche affermato che l'atipicità dell'illecito aquiliano è limitata al risarcimento del danno
patrimoniale, mentre per il danno non patrimoniale non esiste un'astratta categoria di «danno esistenziale»
risarcibile, poiché la risarcibilità è limitata ex art. 2059 ai soli casi previsti dalla legge, per essi intendendosi
sia i casi da questa espressamente previsti sia quelli di lesione di specifici valori della persona umana
garantiti dalla costituzione ( C. 23918/2006). Tuttavia, incorre nella violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c., il giudice di merito che, a fronte di una
domanda di risarcimento del danno esistenziale provocato dall'altrui condotta e conseguente alla
lamentata lesione del bene salute, statuisca sul danno morale conseguente alla ritenuta commissione di
una fattispecie di reato, in tal modo attribuendo al danneggiato un bene non richiesto ( C. 20198/2016).
5. Il danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione, Sezioni Unite, dell'11 novembre
2008
Le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U.,
26972/2008 , "ripensano" il danno non patrimoniale in modo unitario ed onnicomprensivo delle precedenti
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6. (Segue) La liquidazione del danno non patrimoniale dopo le pronunce della Cassazione,
Sezioni Unite, dell'11 novembre 2008
Sebbene il danno non patrimoniale rappresenti una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di
danno biologico e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del
contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la
liquidazione del danno risarcibile. Orbene, è erronea la sentenza che, facendo riferimento alle predette
sottocategorie, abbia risarcito due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli. Se, invece, facendo
riferimento alle tradizionali locuzioni, il giudice ha preso in esame pregiudizi concretamente diversi, la
pronuncia non può considerarsi erronea in diritto ( C. 2413/2014).
In tema di danno non patrimoniale, la natura unitaria dello stesso deve essere intesa come unitarietà
rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione
economica. In tale ottica, "natura unitaria" sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e
nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello
alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della
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riservatezza o del rapporto parentale; "natura onnicomprensiva" sta, invece, a significare che, nella
liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le
conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare
duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia
minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti c.d. "bagattellari". L'accertamento e la liquidazione del
danno non patrimoniale costituiscono, pertanto, questioni concrete e non astratte ( C. 26805/2017).
La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva, ovvero tale da coprire l'intero
pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati
singolarmente per un aumento dell'anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale
costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale,
continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in
esame dal Giudice al fine di dare concreto contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile. In
tal senso, si rivela erronea la sentenza del Giudice del merito che a tali sottocategorie abbia fatto
riferimento ove, attraverso il ricorso al danno biologico ed al danno morale, siano state risarcite due volte
le medesime conseguenze pregiudizievoli ( C. 687/2014).
Il danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non suscettibile di divisioni in ulteriori sottocategorie
(art. 2059). Pertanto, in presenza di una lesione di diritti inviolabili, come quello alla salute, il risarcimento
dovrà essere commisurato al peggioramento della qualità della vita effettivamente dimostrato dalla vittima,
mentre non trova più spazio la risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o sofferenza d'animo, il quale
perciò non rientra tra le conseguenze dannose che possano formare oggetto di prova ( C. St. 10.1.2014,
n. 46).
Come è noto l'art. 2059 prevede che il danno non patrimoniale sia risarcibile soltanto «nei casi
determinati dalla legge»; in tale ambito, l'ipotesi tradizionalmente più rilevante (almeno fino alla svolta
operata dalla C. Cost. 11.7.2003, n. 233) è rappresentata dall'illecito penale, in virtù del disposto dell'art.
185 c.p., 2° co., il quale dispone che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non
patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole.
In questa fattispecie, il risarcimento del danno viene pertanto a ricoprire la funzione di un pretium
doloris, per chi ha subito sofferenze morali derivanti da fatti particolarmente offensivi; infatti, come
sottolinea la relazione al codice (Relazione al Re Imperatore sul libro "Delle Obbligazioni", n. 273): «nel
caso di reato è più intensa l'offesa all'ordine giuridico, e maggiormente sentito il bisogno di una più
energica repressione anche con carattere preventivo».
In materia di conseguenze dannose di un illecito penale (nella specie, episodio di estorsione), il diritto al
risarcimento del danno morale consistente nel turbamento e nella sofferenza patiti dalla vittima sussiste e
va riconosciuto in rapporto al grado ed alla capacità di resistenza che ci si può attendere da un soggetto
medio, non assumendo rilievo la circostanza per cui, in considerazione del particolare coraggio della
vittima, il fatto non le abbia impedito di denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine ( C., ord.,
18327/2017).
Spetta al giudice investito della domanda risarcitoria accertare, incidenter tantum e secondo la legge
penale, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, indipendentemente dalla norma penale cui
l'attore riconduce la fattispecie; accertamento che è logicamente preliminare all'indagine sull'esistenza di
un diritto leso di rilievo costituzionale (cui sia eventualmente ricollegabile il risarcimento del danno non
patrimoniale, secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 sostenuta dalla
giurisprudenza di legittimità ormai consolidata) potendo quest'ultimo venire in rilievo solo dopo l'esclusione
della configurabilità di un reato; accertamenti, entrambi, preliminari alle indagini in ordine alla sussistenza
in concreto del pregiudizio patito dal titolare dell'interesse tutelato ( C. 9445/2012).
Il danno morale soggettivo è un danno in re ipsa , in quanto l'unico presupposto per la risarcibilità è la
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Nel caso in cui il risarcimento sia richiesto da una persona diversa dalla vittima del reato è, tuttavia,
necessaria la prova del danno, la quale può essere data per presunzioni dimostrando, ad esempio, il
legame di coniugio, di parentela oppure la convivenza (Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja,
Branca, sub artt. 2043-2059, Bologna-Roma, 1993, 1227). In questo caso la prova è richiesta per non
allargare troppo la cerchia degli aventi diritto e per evitare speculazioni.
Si tende, inoltre, ad escludere il risarcimento del danno morale alla vittima nel caso in cui risulti con
assoluta certezza, sulla base delle risultanze medico legali, la sua totale ed assoluta incapacità di
percepire il dolore ( C. 4970/2001). È legittimo il ricorso alla presunzione semplice, intendendosi con ciò
la sufficienza della prova dell'esistenza del fatto base, della ragionevole desumibilità da tale fatto noto di
quello ignoto secondo una verificata regola di esperienza, della conseguente esenzione della parte
dall'onere di provare il fatto rilevante ma ignoto in assenza di prova contraria ( C. St. 5.3.2015, n. 1099).
Il danno morale, pur non essendo mai in re ipsa per il solo fatto della lesione d'un diritto, nondimeno può
essere provato in via presuntiva e di massime di comune esperienza ( C. 26751/2017). In materia di
responsabilità civile della P.A. (da ritardo a provvedere) ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale,
ed in particolare di quello esistenziale, la sussistenza del pregiudizio ex art. 2059 (che deve attenere ad
interessi di rilievo costituzionale, almeno nei casi di fattispecie non esplicitamente contemplate da leggi di
settore) può esser verificata secondo criteri logico giuridici basati sull'id quod plerumque accidit, con
possibile ricorso a stime presuntive ed equitative ( T.A.R. Abruzzo 26.3.2015, n. 234; T.A.R. Abruzzo
14.1.2015, n. 10). La categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059, pur nei casi in cui la sua
applicazione consegua alla violazione di diritti inviolabili della persona, costituisce pur sempre un'ipotesi di
danno conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell'integrale allegazione e prova in
ordine alla sua consistenza e riferibilità eziologica alla condotta del soggetto indicato come autore
dell'illecito ( C. 16659/2017; C. St. 15.9.2015, n. 4286).
Sulla liquidazione del danno morale dopo le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008;
C., S.U., 26973/2008; C., S.U., 26972/2008 , si veda il par. 6. In ogni caso, prima di tali arresti, si è
affermato che la liquidazione del pregiudizio morale sfugge necessariamente ad una valutazione analitica,
restando affidata ad apprezzamenti equitativi ( C. 6993/1998; C. 2677/1998; C. 5944/1997); La
valutazione equitativa, rimessa al prudente apprezzamento del giudice, deve ispirarsi alla considerazione
di tutte le concrete circostanze della fattispecie, in modo da adeguare il risarcimento al caso particolare e
da renderlo il più possibile rispondente a criteri di equità. Tale valutazione deve, inoltre, rispettare
l'esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell'equivalente
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pecuniario, cosicché questo non si riduca a mera espressione simbolica ( C. 2272/1998; C. 4671/1996;
C. 23/1988). L'esigenza di garantire uniformità di trattamento ha portato, nel caso di fatto che costituisca
reato di lesioni colpose, ad effettuare la liquidazione in una frazione - solitamente da un terzo alla metà -
dell'importo liquidato a titolo di danno biologico ( C. 490/1999; C. 475/1999; C. 134/1998). Tale
liquidazione risponde all'esigenza di evitare liquidazioni ogni volta diverse, imprevedibili, suscettibili quanto
meno di apparire arbitrarie ( C. 134/1998). Il criterio della frazione del danno biologico è legittimo soltanto
se avviene nella effettiva considerazione di ogni aspetto del caso concreto, il quale poi abbia, riscontro, sia
pur sintetico nella motivazione della sentenza, e, perciò, al di fuori di ogni automatismo ( C.
20814/2004; C. 8169/2003; C. 10725/2000; C. 475/1999). Nella liquidazione equitativa del danno
morale, comunque, il giudice non è tenuto ad adottare il sistema della frazione dell'importo liquidato a titolo
di danno biologico, ben potendo basarsi su criteri correlati esclusivamente alle particolarità del caso
concreto ( C. 748/2000). Particolare rilevanza, quindi, è attribuita alla gravità del reato ( C.
14752/2000; C. 5366/1998; C. 2272/1998) ed alla entità delle sofferenze patite dalla vittima ( C.
10405/1998; C. 5366/1998; C. 2272/1998); in alcuni casi si è fatto riferimento anche ad altri elementi
della fattispecie, tra cui l'età, il sesso, il grado di sensibilità del danneggiato o altre situazioni personali in
grado di incidere sulla sofferenza conseguente all'illecito ( C. 14551/2009; C. 3357/2009; C.
5944/1997), il dolo oppure il grado di colpa dell'autore dell'illecito ( C. 13336/1999), la realtà
socioeconomica in cui vive il danneggiato ( C. 1637/2000); il grado di parentela con la vittima (nel caso in
cui si agisca in seguito al suo decesso) ( C. 2112/1980; T. Piacenza 11.5.1989); la capacità finanziaria
del danneggiante ( T. Roma 27.3.1984).
Per C. 19211/2015 l'equità deve intendersi nel significato di adeguatezza e di proporzione, assolvendo
alla fondamentale funzione di garantire l'intima coerenza dell'ordinamento, assicurando che casi uguali
non siano trattati in modo diseguale. Devono, dunque, essere prese in considerazione tutte le circostanze
concrete del caso specifico, onde ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, escludendo
qualsiasi duplicazione risarcitoria.
La scelta del criterio da impiegare nel caso concreto dovrebbe dipendere anche dalla funzione che si
vuole accordare al risarcimento del danno morale (Franzoni, Il danno alla persona, Milano, 1995, 673): se
si assegna un ruolo punitivo e dissuasivo al danno morale, ai fini della liquidazione, dovrà essere tenuto in
particolare considerazione la gravità del reato e soprattutto l'intensità dell'elemento soggettivo; infatti, se si
gradua il quantum di risarcimento del danno morale in funzione del grado di colpa del responsabile, si
assegna necessariamente al risarcimento una funzione punitiva (Rossetti, 1120); se, invece, si assegna
una funzione prevalentemente riparatoria al risarcimento del danno morale, assumerà maggior rilievo il
dato relativo alle condizioni socio - economiche in cui vive il danneggiato, nonché il dolore patito dalla
vittima ed il grado di sensibilità della stessa.
In materia risarcitoria il criterio della realtà socioeconomica in cui vive il danneggiato, non è fonte in
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Ai fini della liquidazione del danno morale, deve essere segnalato anche l'orientamento che prende in
considerazione il dato della pena astrattamente comminabile per quel fatto di reato, convertita in una
somma di denaro sulla base dell'art. 135 c.p. In questo modo si desume dall'entità della pena l'entità delle
sofferenze patite ( C. 1164/1998; P. Monza 19.12.1992).
10. (Segue) La liquidazione del danno morale in caso di lesione della reputazione
Per la liquidazione del danno morale, nel caso di lesione della reputazione, sono presi in considerazione
- generalmente - tre criteri: 1) gravità del fatto; 2) estensione della diffamazione; 3) qualità del soggetto
leso. Il criterio della gravità del fatto si riferisce sia all'addebito particolarmente infamante, sia alla
situazione prodottasi a seguito dell'attribuzione diffamatoria (Ricciuto, Zeno Zencovich, Il danno da mass
media, Padova, 1990, 90).
L'onore e la reputazione costituiscono diritti inviolabili della persona, la cui lesione fa sorgere in capo
all'offeso il diritto al risarcimento del danno, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o
meno un reato, sicché ai fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con
colpa ( C. 25423/2014). Se, tuttavia, in concreto il comportamento lesivo non sia stato percepito da
nessuno, non rimane integrato un danno civilisticamente risarcibile ( C., ord., 14680/2018).
Il criterio dell'estensione dell'addebito diffamatorio tiene in considerazione la diffusione del mezzo con cui è
C. 24474/2014: nella diffamazione a mezzo stampa, il danno alla reputazione, di cui si invoca il
risarcimento, non è in re ipsa, ma richiede che ne sia data prova, anche a mezzo di presunzioni semplici.
(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di condanna al risarcimento dei danni, richiesta da un
noto giornalista, di cui in un articolo di stampa si insinuava che fosse fra i clienti di una casa di
appuntamenti, ritenendo lecito presumere che la pubblicazione di tale notizia avesse inciso sui sentimenti
degli stretti congiunti di quest'ultimo, così pregiudicandone, per un non breve periodo di tempo, la serenità
ed i rapporti familiari). Il danno non patrimoniale da lesione della reputazione, alla stregua degli altri danni
da lesione di diritti fondamentali, è un tipico danno-conseguenza e, perciò, non coincide con la lesione
dell'interesse (ovvero non è in re ipsa); deve, pertanto, essere allegato e provato da chi chiede il relativo
risarcimento ( C., ord., 9385/2018). AGGIORNATO Il danno alla reputazione è da considerare in maniera
unitaria, non potendosi distinguere tra reputazione personale e reputazione professionale duplicando così
le voci di danno ( C. ord. 4815/2019; C. 4617/2019).
Alcune volte per liquidare il danno morale sono presi in considerazione anche altri criteri quali, i
destinatari della notizia diffamatoria, le modalità di presentazione della notizia lesiva, l'autorevolezza della
casa editrice, il grado della colpa dell'autore ed il suo prestigio. Per quanto riguarda il criterio dei
destinatari dell'informazione, tale parametro dovrebbe trovare applicazione soprattutto quando i destinatari
della notizia lesiva dell'altrui reputazione sono coloro nell'ambito dei quali il soggetto svolge la propria
azione o è maggiormente conosciuto, sicché il giudizio o la stima negativa prodottasi incide direttamente
sulla personalità del soggetto leso (Ricciuto, Zeno Zencovich, 109). Il riferimento ai destinatari
dell'informazione viene utilizzato spesso quando il soggetto diffamato è un uomo politico e la notizia viene
pubblicata su un quotidiano vicino all'area elettorale di appartenenza del personaggio.
In merito all'azione risarcitoria conseguente alla pubblicazione di articoli denigratori, aventi contenuto
politico, si rileva come il diritto di critica politica può contemplare, anche in ragione della forte animosità
Tale criterio può essere applicato anche al professionista o all'imprenditore qualora la notizia
diffamatoria venga diffusa negli ambienti economici da lui frequentati ovvero nell'ambito della clientela
attuale o potenziale dell'imprenditore stesso (Ricciuto, Zeno Zencovich, 109).
In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la liquidazione del danno
morale va necessariamente operata con criteri equitativi, il ricorso ai quali è insito nella natura del danno e
nella funzione del risarcimento, realizzato mediante la dazione di una somma di denaro compensativa di
un pregiudizio di tipo non economico ( C. 25739/2014). Il risarcimento del danno morale sofferto dal
soggetto diffamato a mezzo stampa può essere ridotto, nel caso in cui pubblicazione su cui sono apparsi
gli articoli offensivi è diffusa prevalentemente in un'area geografica in cui la vittima non ha alcun centro di
interessi ( T. Palermo 11.6.2002). Spesso si tiene conto anche del particolare risalto dato dalla notizia
diffamatoria nel quotidiano: più la forma è eclatante, più la notizia lede la personalità morale ( T. Torino
18.5.1996); in alcuni casi, si è attribuito rilievo all'importanza della casa editrice e al prestigio dell'autore
dell'illecito ( A. Milano 23.12.1986; T. Roma 31.10.1991), nonché al particolare momento storico in cui
è avvenuto il fatto ( T. Napoli 28.10.1987).
11. (Segue) Il risarcimento del danno morale per le lesioni subite da un congiunto
Nel caso di lesioni gravi ma non letali, l'orientamento prevalente, fino ad alcuni anni or sono tendeva a
non riconoscere il risarcimento del danno morale ai congiunti ( C. 11414/1992; C. 6854/1988). Le
argomentazioni utilizzate per escludere la legittimazione dei congiunti al risarcimento nel caso di lesioni
non mortali si basavano sul fatto che le sofferenze dei familiari non erano ritenute conseguenze immediate
e dirette dell'evento lesivo primario causato dall'illecito e quindi erano considerate irrisarcibili, ai sensi dell'
art. 1223; infatti, nel caso di lesioni, il danno morale dei prossimi congiunti della vittima era considerato
conseguenza mediata ed indiretta del fatto illecito ( C. 6854/1988). Inoltre, era evidente il timore che,
concedendo il risarcimento del danno non patrimoniale ai prossimi congiunti del danneggiato, si sarebbe
giunti ad un ampliamento immotivato delle richieste di risarcimento del danno non patrimoniale, in netto
contrasto con la limitazione posta dalla legge (A. Milano 11.5.1973).
Contro l'orientamento che tendeva a negare la risarcibilità del danno morale agli stretti congiunti in caso
di lesioni personali, anche gravissime, del danneggiato vi è stata una decisa presa di posizione a favore
della risarcibilità del danno morale ai congiunti del leso, ad opera di alcune corti di merito ( A. Venezia
11.2.1993; T. Verona 15.10.1990; T. Milano 18.6.1990). Il ragionamento seguito da tali corti è stato
incentrato sul fatto che non vi è alcuna differenza tra il dolore patito dai congiunti in caso di morte del loro
caro, rispetto al caso di lesioni gravi di quest'ultimo; talvolta, infatti, le sofferenze in caso di conseguenze
permanenti all'integrità psicofisica dello stesso possono essere anche maggiori. In modo particolare, si è
sottolineato l'irrazionalità del riconoscere il risarcimento per la morte di un congiunto, e negarlo, invece, nel
caso in cui il congiunto sia sopravvissuto, ma in condizioni di totale invalidità per gravissime infermità
permanenti, che lo abbiano ridotto a corpo inerte, bisognoso dell'assistenza diretta e continua della moglie.
Tale dolore, infatti, è destinato a rimanere sempre attuale per tutto il resto della vita ed è persino maggiore
del dolore in caso di morte, inizialmente più intenso, ma destinato a placarsi con il tempo ( T. Brescia
26.10.1988). Le argomentazioni espresse dalla giurisprudenza di merito, in precedenza richiamate, sono
state recepite di recente anche dalla Suprema Corte ( C. 22909/2012; C. 469/2009; C. 13358/1999;
C. 4852/1999; C. 4186/1998), la quale è giunta a riconoscere la risarcibilità dei danni morali anche ai
prossimi congiunti della vittima di lesioni colpose. Secondo la Corte, infatti, il danno morale dei congiunti
della vittima di una lesione rientra nell'ambito dei danni riflessi, i quali sono sempre risarcibili quando sono
conseguenza normale ed ordinaria del fatto. Si è, inoltre, specificato che la legittimazione al risarcimento
del danno morale in caso di lesioni non mortali non si esaurisce soltanto nei rapporti familiari, potendo
trarre fonte anche da altri rapporti, come ad esempio dalla convivenza more uxorio; allo stesso modo, la
mera titolarità di un rapporto familiare non determina automaticamente il diritto al risarcimento, essendo
necessario di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura la lesione
subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento ( C., S.U.,
9556/2002).
Il soggetto che agisca in giudizio per chiedere "iure proprio" il risarcimento del danno subito a seguito della
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morte di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale lamenta un pregiudizio concernente
un interesse giuridico diverso sia dal bene salute di cui è titolare e la cui tutela trova ratio nell'art. 32 Cost.,
sia dall'interesse all'integrità morale, la cui difesa si rinviene nell'art. 2 Cost. In tal senso, infatti, si rileva
che l'interesse fatto valere attiene all'intangibile sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito
della famiglia, nonché all'inviolabile libertà di piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona
umana all'interno della famiglia, così come intesa e tutelata dagli artt. 2, 29 e 30 Cost. Tale interesse di
rilievo costituzionale, non avente natura economica, può essere oggetto di una riparazione ai sensi dell'art.
2059, senza il limite ivi previsto in correlazione dell'art. 185 c.p. Di talché, è corretta la decisione del
Giudice con cui, da un lato, si è negato alla madre della vittima di un incidente stradale il risarcimento del
danno biologico, stante l'assenza di un effettivo pregiudizio alla salute della medesima e, dall'altro lato, si
è, invece, incluso nel danno non patrimoniale lo stato di prostrazione provato da quest'ultima per tale
avvenimento luttuoso, provvedendo alla liquidazione del relativo risarcimento ( C. 2557/2011).
Dall'azione di disconoscimento di paternità discendono sofferenze morali lesive della dignità e ablative
dell'appartenenza al contesto familiare in cui il soggetto ha vissuto per lungo tempo. Ne consegue che non
può mettersi in discussione che un disconoscimento che avvenga dopo molti anni, sia destinato ad
incidere negativamente nelle relazioni sociali di chi tale disconoscimento abbia subito danneggiando
profondamente il risvolto sociale della propria dignità personale. Trattasi dunque di una lesione dalla quale
discende il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, comprensiva non solo del c.d. danno morale
soggettivo, inteso quale sofferenza contingente e turbamento d'animo transeunte, determinati da fatto
illecito integrante reato, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente
alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di
valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p.
( C. 16222/2015).
Il danno dei congiunti della vittima di lesioni personali va liquidato tenendo conto di tutte le circostanze del
caso concreto e senza alcun automatismo, pertanto è illogico ed erroneo il criterio di liquidazione del
danno in esame che quantifichi il pregiudizio in misura pari ad una frazione del danno non patrimoniale
patito dalla vittima primaria ( C. 9231/2013; C. 22909/2012). È risarcibile il danno del coniuge del
soggetto rimasto infortunato in conseguenza di un sinistro stradale, il quale, al fine di prestare assistenza a
questi, abbia dovuto abbandonare completamente e quotidianamente le occupazioni domestiche ( C.
24471/2014).
La sofferenza patita dal prossimo congiunto di persona ferita in modo non lieve costituisce un danno non
patrimoniale risarcibile, il quale, consistendo in un moto dell'animo, difficilmente può essere provato in
concreto con le prove cosiddette storiche, di talché deve farsi ricorso alle cosiddette prove critiche, prime
tra tutte la prova presuntiva ( C. 17058/2017).
È stata riconosciuta, nell'alveo dei medesimi valori costituzionali, la risarcibilità del pregiudizio per
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Gli artt. 138 (danno biologico per lesioni di non lieve entità) e 139 (danno biologico per lesioni di lieve
entità) c. ass. priv. specificano che il danno biologico consiste nella «lesione temporanea o permanente
all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza
negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato,
indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». La novità rispetto
alle precedenti definizioni (art. 5, L. 5.3.2001, n. 57; art. 3, D.L. 28.3.2000, n. 70) è rappresentata dal fatto
che per potersi avere un danno biologico, rilevante ai fini della normativa, non basta che la menomazione
della salute sia suscettibile di accertamento medico legale, ma è anche necessario che lesione all'integrità
psicofisica abbia ripercussioni negative sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della
vita del danneggiato.
Il danno biologico è sempre stato tutelato in virtù del collegamento tra l' art. 2043 e l'art. 32 Cost., e
non già nell'art. 2059, al solo fine di sottrarre il risarcimento al limite posto dall'art. 2059, secondo la
ricostruzione della C. Cost. 14.7.1986, n. 184; tuttavia, in base all'interpretazione costituzionalmente
orientata dell'art. 2059, il danno biologico deve essere tutelato ex art. 2059 ( C. Cost. 11.7.2003, n. 233;
C. 8828/2003; C. 8827/2003).
In tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell'integrità psicofisica del
soggetto sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente, quest'ultima è
suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia,
l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne
consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione
di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti
comporterebbe la duplicazione dello stesso danno ( C. 26897/2014).
L'accertamento in un minore in età infantile che lo stato di invalidità permanente alla persona cagionato da
responsabilità medica (nella specie sordità causata da non tempestiva diagnosi di meningite, stimata
La liquidazione del danno biologico deve tenere conto della lesione dell'integrità psicofisica del soggetto
sotto il duplice aspetto dell'invalidità temporanea e di quella permanente, quest'ultima è suscettibile di
valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non
abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il
danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello
temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe
la duplicazione dello stesso danno ( C. 3806/2004). Il risarcimento del danno biologico deve rispettare il
principio dell'"uniformità di base" e della "flessibilità". Con il criterio dell'uniformità di base si vuole
assicurare che gli esiti di identiche lesioni, in soggetti di uguale età, siano liquidati in modo uguale; con il
criterio della flessibilità si sottolinea l'esigenza di adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso
concreto, a seconda dell'effettiva incidenza della lesione sull'attività della vita quotidiana del danneggiato (
C. Cost. 14.7.1986, n. 184; C. 2008/1993; C. 357/1993). Il risarcimento del danno biologico è
subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico fisica medicalmente accertabile (art. 2059) ( C.
St. 13.12.2017, n. 5866).
Al fine di effettuare una liquidazione del danno rispettosa di tali principi sono stati elaborati metodi
diversi: il metodo equitativo puro; il criterio tabellare o genovese; il criterio a punto elastico, o pisano; il
sistema a punto variabile. Il ricorso all'equità pura è un «non criterio», in quanto, in questo caso, il giudice
è svincolato da qualsiasi parametro di riferimento, affidandosi soltanto al buon senso, all'equità del caso
concreto (Rossetti, 495). In questo modo, indubbiamente, è ben soddisfatto il principio della flessibilità, in
quanto il giudice riesce a personalizzare il danno, tenendo in considerazione tutte le peculiarità del caso
concreto. Tuttavia, così facendo si rischia di sacrificare inevitabilmente il principio dell'uniformità,
consentendo comportamenti arbitrari dell'organo giudicante, con conseguenti immotivate disparità di
trattamento [Giannini, Criteri pratici per la liquidazione del danno biologico: confronto tra metodo pisano e
metodo genovese, in DPA, 1988, 281; Oliva, La liquidazione del danno biologico: alla ricerca del giusto
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Il sistema del triplo della pensione sociale, inizialmente, è stato ritenuto ammissibile anche dalla S.C. (
C. 5380/1994; C. 2150/1989; C. 102/1985), la quale, in seguito, ha, mutato orientamento,
escludendo che il danno biologico possa essere liquidato con un criterio che si riferisce al pregiudizio
patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale ( C.
10482/2004; C. 101/1999; C. 11974/1998; C. 10897/1998; C. 357/1993). Senza dubbio più
flessibile è il metodo elaborato dalla scuola pisana che permette al giudice di tenere in considerazione
tutte le peculiarità del caso concreto. Tale sistema si basa su un valore monetario del punto d'invalidità,
ricavato sulla media delle liquidazioni giudiziarie avvenute; tale valore viene moltiplicato per il numero dei
punti d'invalidità, con la possibilità per il giudice di aumentare o di diminuire il valore del punto sino alla
metà, al fine di adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto ( A. Roma 2.7.1986; T. Milano
21.5.1987; T. Pisa 16.1.1985; T. Pisa 28.6.1984; T. Pisa 19.5.1982). Dal sistema elaborato dalla
scuola pisana è stato tratto il metodo che attualmente ha il maggior seguito: la liquidazione secondo il
sistema del punto variabile. Seguendo questo criterio, ad ogni punto d'invalidità corrisponde un valore
monetario, che cresce con l'innalzarsi dell'invalidità e diminuisce con l'innalzarsi dell'età del danneggiato.
Sulla base di questi principi il Tribunale di Milano, nel 1995, ha elaborato una tabella in cui, per ogni punto
d'invalidità e per ogni fascia di età del danneggiato è indicato l'ammontare complessivo del risarcimento
dovuto. Successivamente, tale criterio ha avuto una rapidissima espansione, che lo ha reso il criterio più
diffuso.
Ai fini della liquidazione del danno biologico per lesioni di non lieve entità, l'art. 138 c. ass. priv., prevede la
predisposizione di un'unica tabella nazionale sia delle menomazioni all'integrità psicofisica, comprese tra i
dieci ed i cento punti, sia del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità comprensiva
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dei coefficienti di variazione corrispondenti all'età del soggetto leso (previsioni già contenute nell'art. 23, 4°
co., L. 12.12.2002, n. 273, abrogato dall'art. 354 cod. ass. priv.). Sull'art. 139, riguardante la liquidazione
del danno biologico per lesioni di lieve entità, si veda il par. 15.
Sulla base del criterio del punto variabile, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari, molti uffici
giudiziari si sono dotati di "tabelle" nelle quali è indicato l'ammontare complessivo del risarcimento dovuto
per ogni grado di invalidità e per ogni fascia di età del danneggiato. La liquidazione del danno biologico
basata sul punto variabile è attualmente il criterio che meglio garantisce il rispetto dei principi
dell'uniformità di base e della flessibilità. Viene fornito, infatti, un parametro per tutti i casi analoghi, al fine
di evitare disparità di trattamento, consentendo così la prevedibilità delle decisioni giudiziarie; inoltre, una
liquidazione basata sul punto variabile rimane pur sempre un criterio di riferimento, non vincolante per il
giudice, così da permettergli di tenere adeguato conto delle circostanze concrete che acuiscono o
alleviano la compromissione della salute (Rossetti, 521).
La liquidazione del danno biologico effettuata sulla base delle "tabelle" elaborate nei diversi uffici
giudiziari si basa sul potere del giudice di far ricorso al criterio equitativo previsto dall' art. 1226 ( C.
10482/2004; C. 4112/2001; C. 4852/1999). Poiché l'equità va intesa anche come parità di trattamento,
la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione all'integrità psico-fisica presuppone
l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni
normative, vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano, da modularsi a
seconda delle circostanze del caso concreto ( C., ord., 30379/2017; C. 17678/2016). La liquidazione
del danno compiuta in base a tale criterio non si sottrae al vaglio proprio di ogni giudizio di merito e
pertanto deve essere adeguatamente motivata ( C. 4112/2001). In modo particolare, il giudice che ha
adottato la tabella deve dare conto di come nel caso di specie è avvenuta la personalizzazione del
risarcimento. Infatti, l'adozione della cosiddetta tabella non esonera il giudice dalla dovuta
personalizzazione dei valori dei punti al caso concreto, nonostante che la tabella sia costruita in genere
con riferimento ai parametri dell'età e del grado di invalidità del soggetto leso, in quanto ciò attiene ad
un'evoluzione e perfezionamento della prima fase operativa, e cioè l'individuazione di parametri il più
possibile uniformi tra casi astrattamente simili, ma non incide sull'opera di personalizzazione del parametro
al caso concreto (seconda fase) ( C. 16525/2003; C. 6023/2001; C. 10725/2000; C. 4852/1999). Il
Giudice, infatti, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle
quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il
parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione
ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'id quod plerumque
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accidit, dando adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state
considerate ( C. 3505/2016). Quando la tabella suggerisce per una certa menomazione un grado di
invalidità, quale, ad esempio, del 50%, questa percentuale indica che l'invalido, a causa della
menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona
sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere ( C., ord., 10912/2018).
All'esito della necessaria fase della "personalizzazione", comunque, il giudice può riscontrare che il valore
indicato dalle tabelle relative ai punti di invalidità si adatta perfettamente al caso concreto, secondo il suo
equo apprezzamento ( C. 10725/2000; C. 4852/1999; C. 4801/1999). La parte che in sede di
legittimità lamenti una incongrua applicazione delle tabelle utilizzate per la liquidazione del danno
biologico, non può limitarsi ad una generica denuncia del vizio relativamente al valore del punto preso in
considerazione, ma deve dare conto delle tabelle invocate, indicando in quale atto sono state prodotte
oppure producendole nel giudizio di legittimità ( C. 13676/2007). In materia di liquidazione del danno non
patrimoniale, l'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità inferiore a
quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere in
sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta e
specificamente dibattuta nel giudizio di merito ( C. 892/2014). AGGIORNATO In ogni caso, le tabelle
costituiscono un criterio-guida e non una normativa di diritto ( C., ord., 1553/2019).
In materia di risarcimento danni, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola,
secondo la quale il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto
dell'insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio
l'autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all'integrale riparazione
secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di
liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni
personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso
concreto e della reale entità del danno (nella specie, relativa ad una azione risarcitoria promossa dagli
eredi di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico per esposizione a fibre di amianto, la S.C., nel
rigettare il ricorso, ha ritenuto corretta la decisione della corte territoriale, la quale, ai fini della
determinazione della misura del danno esistenziale, aveva tenuto conto delle ripercussioni
"massimamente penalizzanti" della malattia sulla vita del danneggiato ed aveva valorizzato la penosità
della sofferenza, le quotidiane difficoltà, le cure estenuanti e l'assenza di ogni prospettiva di guarigione,
quantificando il risarcimento in misura doppia al danno biologico) ( C. 9238/2011). Il danno non
patrimoniale che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale, deve essere risarcito quando sia
conseguenza, come nel caso di dequalificazione professionale del lavoratore subordinato, di una lesione
in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti. La sussistenza di
tale danno può essere provata anche a mezzo di presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in
via esclusiva il proprio convincimento ( C. 22288/2017). È stato invece ritenuto palesemente non
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meritevole di tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, il pregiudizio consistente in disagi,
fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita
quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale e che ogni persona, inserita nel complesso sociale,
deve accettare, in virtù del dovere di convivenza, un grado minimo di tolleranza ( C. 12518/2018; C.
10596/2018).
15. Le micropermanenti
L'art. 139 cod. ass. priv. ricalca in parte l'art. 5, L. 5.3.2001, n. 57 (articolo abrogato dall'art. 354 cod. ass.
priv., con la decorrenza indicata dall'art. 355 del medesimo decreto), disciplinante il risarcimento delle
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Allo stesso modo dell'art. 5, 4° co., L. 5.3.2001, n. 57 (come modificato dall'art. 23, L. 12.12.2002, n.
273 ), l'art. 139, 3° co., cod. ass. priv. prevede che «l'ammontare del danno biologico liquidato può essere
aumentato dal giudice in misura non superiore ad un quinto con equo e motivato apprezzamento delle
condizioni soggettive del danneggiato». Con tale disposizione il legislatore ha voluto seguire le indicazioni
della Corte di Cassazione, che da tempo ha sottolineato la necessità della "personalizzazione" del valore
dei punti adottati per la liquidazione del danno alla persona (Ponzanelli, La nuova disciplina delle
micropermanenti, in DResp, 2001, 455; Gussoni, Danno biologico e micropermanenti: ambiguità dell'art. 5
della l. 5 marzo 2001, n. 57 e difficoltà applicative. Prime considerazioni, in AGCSS, 2001, 357; AA.VV., La
liquidazione del danno alla salute, in Bargagna, Busnelli (a cura di), La valutazione del danno alla salute,
Padova, 2001, 757).
I profili di sospetta illegittimità costituzionale appena indicati, sono stati invocati anche con riguardo agli
artt. 138 e art. 139 cod. ass. priv.; in particolare, si dubita che il sistema previsto per il risarcimento delle
micropermanenti e delle macropermanenti sia effettivamente in grado di reintegrare in modo pieno il danno
alla salute patito dal danneggiato; tali dubbi sono amplificati dalle limitazioni previste per il giudice alla
facoltà di personalizzare il risarcimento rispetto alle condizioni soggettive del danneggiato (Chindemi, Il
risarcimento del danno non patrimoniale nel nuovo Codice delle assicurazioni: risarcimento o indennizzo,
in RCP, 2006, 551). Pare, inoltre, che sia effettuata una discriminazione tra vittime con lesioni gravi e
danneggiati con lesioni meno gravi, allorché per le macropermanenti è previsto, quale margine per la
personalizzazione, soltanto un 10% in più rispetto ai danni di lieve entità (Bona, Risarcimento del danno,
procedure di liquidazione e azione diretta nel "Codice delle assicurazioni": prime riflessioni critiche, in
RCP, 2005, 1181).
L'art. 2059 non indica i soggetti legittimati ad agire per il risarcimento del danno; tuttavia, essendo il
danno non patrimoniale risarcibile soltanto nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi del reato, è
evidente che titolare dell'azione, in via immediata, è la persona ingiustamente offesa dal reato (Petrelli, Il
danno non patrimoniale, Padova, 1997, 327; Scognamiglio, Danno morale, 317).
In caso di morte del soggetto passivo del reato è, però, necessario individuare i soggetti che possono
legittimamente richiedere il risarcimento, nonché il titolo in base al quale essi agiscono e cioè se gli aventi
diritto al risarcimento agiscano iure proprio ovvero iure hereditatis. A tal proposito, è consolidato
l'orientamento, secondo il quale il risarcimento del danno non patrimoniale, sofferto in vita da persona
deceduta in conseguenza di lesioni provocate dall'altrui fatto illecito, e dopo apprezzabile lasso di tempo
dalle lesioni subite, si trasmette per via ereditaria ai prossimi congiunti, che abbiano agito in qualità di eredi
e nei limiti della relativa quota ( C. 1704/1997; C. 8177/1994; T. Massa 19.12.1996). È innegabile,
infatti, che nell'arco di tempo intercorso fra l'ictus e la morte, il soggetto leso, specialmente se in stato di
coscienza, soffre intensamente dal lato fisico e psichico e, pertanto, appare incontestabile che, nel tempo
in cui resta in vita, acquista il diritto al risarcimento del danno morale verso il danneggiante, diritto che
entra a far parte del suo patrimonio e che, alla sua morte, si trasmette agli eredi secondo le comuni regole
della successione mortis causa ( T. Genova 9.7.1992). Il diritto al risarcimento del danno morale si
trasmette agli eredi anche se la vittima dopo la lesione non ha più riacquistato conoscenza ( C.
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Costante, invece, la negazione di un diritto risarcibile (e trasmissibile agli eredi) in caso di decesso
immediato o che segua alle lesioni dopo un brevissimo lasso di tempo ( C. ord. 32372/2018; C.
17320/2012; C. 12236/2012; C. 2654/2012; C. 26972/2008; C. 3760/2007; C. 517/2006; C.
7632/2003; C. 4729/2001; C. 491/1999; C. 5136/1998; C. 1704/1997; C. 12299/1995; C.
10628/1995; C. 11169/1994).
In contrasto con il suddetto orientamento, C. 1361/2014 ha statuito che la perdita della vita va ristorata a
prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte cd. immediata o
istantanea, senza che assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un
apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento né il criterio dell'intensità della sofferenza subita
dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine,
sollecitando così un intervento delle Sezioni Unite.
In caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale "da uccisione", proposta iure proprio dai
congiunti dell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale,
rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può
costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia
proposta dal nipote per la perdita del nonno ( C. 29332/2017). Secondo un altro orientamento, tuttavia,
l'uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727, una conseguente sofferenza morale in
capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il
superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere
valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima
e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia
causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo ( C., ord., 3767/2018).
È irrilevante il fatto che il de cuius abbia o non abbia promosso la causa nel tempo in cui era in vita
(Franzoni, Il danno alla persona, 630; Scognamiglio, 321, 324): l'avere o non avere promosso la lite ha
conseguenze solo sul piano giudiziale, nel senso che, con la morte della parte, troveranno applicazione le
regole sulla successione a titolo universale nella causa (Franzoni, Il danno alla persona, 630).
È, altresì, ininfluente che il reato di lesioni colpose non sia punibile perché assorbito nel reato più grave
di omicidio ( C. 8177/1994). Il danno morale che la vittima di un sinistro subisce nell'apprezzabile lasso di
tempo tra la lesione e la conseguente morte, è un danno nel quale i fattori della personalizzazione
debbono valere in un grado assai elevato e, per questa ragione, non può essere liquidato attraverso
l'applicazione di criteri contenuti in tabelle, che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi, sono
predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità temporanee o permanenti di soggetti
che sopravvivono all'evento dannoso ( C. 11003/2003); nella liquidazione di tale pregiudizio, il giudice
deve tenere conto delle effettive sofferenze patite dall'offeso, della gravità dell'illecito di rilievo penale e di
tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso concreto (
C. 7632/2003; C. 3414/2003).
Ai fini della configurabilità del diritto al risarcimento del danno catastrofale, ovvero dello sconvolgimento
psichico patito da chi si trovi a cogliere, anche per un periodo di breve durata, il momento terminale della
propria esistenza, assume rilievo non tanto la durata, quanto la effettiva esistenza di un tale pregiudizio
AGGIORNATO ( C., Sez. lavoro, 8580/2019). In tal senso, deve ritenersi non condivisibile la pronuncia del
Giudice di merito che pur riconoscendo lo stato vigile della vittima nei momenti conseguenti al sinistro,
escluda tuttavia la lucidità della stessa, in quanto non in grado di stabilire un contatto con i sanitari,
soprattutto in caso di reciprocità di tale difficoltà, dovuta alla circostanza che la vittima non comprenda e
non parli la lingua italiana ( C. 5866/2015).
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Ai congiunti della persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito altrui spetta anche il risarcimento
del danno non patrimoniale per le sofferenze ed i patimenti da loro sofferti, in seguito alla morte del
congiunto. In questo caso, essi agiscono iure proprio, facendo valere un diritto autonomo che nasce in
conseguenza della morte della persona colpita dell'illecito e che prescinde, dunque, dalla loro qualità di
eredi ( C. 1704/1997).
È indiscusso che tra i legittimati a richiedere il risarcimento vi possa essere anche il convivente more
uxorio , purché sia dimostrata la stabilità e la durevolezza del rapporto ( C. 2988/1994; T. Roma
9.7.1991); infatti, anche la convivente more uxorio della vittima di un omicidio viene lesa, per effetto della
morte dell'uomo con cui stabilmente conviveva, non già in una mera e semplice aspettativa priva di tutela
giuridica, bensì in un fondamentale e inviolabile diritto, quale è quello alla solidarietà sociale di cui all'art. 2
Cost. ( A. Milano 16.11.1993). In particolare, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla morte di
una persona in favore del convivente more uxorio di questa va riconosciuto a condizione che venga
fornita, con qualsiasi mezzo, la prova dell'esistenza e della durata di una comunanza di vita e di affetti e di
una vicendevole assistenza morale e materiale, cioè di una relazione di convivenza avente le stesse
caratteristiche di quelle dal legislatore ritenute proprie del vincolo coniugale ( C. 13654/2014).
Il risarcimento del danno morale può essere accordato ad un coniuge per la morte dell'altro coniuge,
anche se vi era uno stato di separazione personale, purché si accerti che l'altrui fatto illecito, ha provocato,
nel coniuge superstite, quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte
di una persona più o meno cara ( C. 10393/2002; in senso contrario T. Casale Monferrato 5.6.1997;
T. Venezia 22.1.1994). Si è, tuttavia, affermato il risarcimento dei danni morali per i nipoti che perdono i
nonni non conviventi in un incidente stradale, anche se non si prova il "turbamento" derivato dalla morte
del congiunto, tenendo in considerazione il legame affettivo basato una frequentazione in atto e sulla
consapevolezza della presenza di una persona cara ( C. 15019/2005). Con riguardo alla morte di uno
zio, si è ritenuto che il semplice stato di nipote " ex sorore " o " ex fratre ", pur potendo far supporre un dato
emotivo per la morte del congiunto, non autorizza una valutazione della sofferenza del superstite ad un
livello apprezzabile in sede giudiziaria. Ne consegue che la condizione di prossimo congiunto, ai fini di tale
legittimazione sostanziale, non è solo uno dei parametri valutativi concorrenti all'accertamento di una
Particolarmente dibattuta è la possibilità di annoverare tra i sopravvissuti il nascituro che agisca nei
confronti del terzo responsabile della morte di un genitore, avvenuta anteriormente alla sua nascita.
L'orientamento giurisprudenziale contrario alla risarcibilità del danno morale del nascituro sottolinea come
dal principio che la personalità giuridica non preesiste alla nascita discende altresì che le disposizioni di
legge, che, in deroga al principio generale previsto dall' art. 1, 1° co., prevedono la tutela dei diritti del
nascituro (ad es. artt. 462 e 784), sono da considerare disposizioni di carattere eccezionale e come
tali di stretta applicazione; pertanto, poiché nessuna norma prevede la tutela del nascituro per diritti
derivanti da obbligazioni extracontrattuali, ne conseguirebbe l'irrisarcibilità di tale danno ( C. 3467/1973).
Inoltre, si è sostenuto che anche al di là dell'assenza di una disposizione normativa ad hoc, appare arduo
riconoscere al concepito quella capacità di sofferenza che costituisce il presupposto indispensabile per la
liquidazione della c.d. pecunia doloris ( T. Monza 28.10.1997; nello stesso senso anche T. Casale
Monferrato 11. 11. 1998; T. Lecce 2.2.1960). In senso opposto, si è ritenuto che, trattandosi di danno
futuro con caratteri permanenti, ben si può ammettere la tutela risarcitoria del nascituro ( C. pen.
13.11.2000; A. Genova 5.3.1988; T. Monza 8.5.1998).
La soluzione favorevole a riconoscere una tutela risarcitoria del nascituro è indubbiamente da preferire
in quanto esprime maggiore attenzione alla tutela della persona e dei suoi diritti inviolabili che, attraverso
la lettura costituzionale dell' art. 1, 2° co., possono essere riconosciuti anche al nascituro (Franzoni, Il
danno alla persona, 635); inoltre, l'orientamento favorevole è coerente con l'indirizzo giurisprudenziale che
riconosce la legittimazione ad agire ai figli in tenera età: in entrambi i casi siamo in presenza di sofferenze
ed angosce che saranno avvertite dal soggetto nel futuro quando, crescendo, percepirà tutti i riflessi
psicologici del tragico evento (Petrelli, 388).
Agli stretti congiunti della vittima può essere riconosciuto un risarcimento del danno biologico iure
proprio, qualora si dimostri che l'infortunio mortale ha causato a un familiare una lesione dell'integrità
psicofisica della persona in senso patologico (infarto da shock o uno stato di prostrazione tale da spegnere
il gusto di vivere). Tale danno presenta lo stesso presupposto del danno morale, e cioè il turbamento
dell'equilibrio psichico, che però in persone predisposte (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.),
anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un
trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non
semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento ( C. Cost.
27.10.1994, n. 372). Esistono, infatti, gli strumenti per definire il confine tra patema d'animo e danno
biologico da morte del congiunto non solo nei casi più eclatanti (ad es. l'infarto), ma anche nelle diagnosi
di malattie fino a non molti anni fa relegate nell'ambito di disturbi dell'umore e sottovalutate nella loro
rilevanza personale e sociale (es. depressione) ( T. Trento 19.5.1995). Al riguardo, la consulenza
tecnica, pur avendo, di regola, la funzione di fornire al giudice una valutazione relativa a fatti già acquisiti al
processo, può legittimamente costituire ex se, fonte oggettiva di prova, qualora si risolva non soltanto in
uno strumento di valutazione, ma altresì di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente
attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche ( C. 881/2002). Il risarcimento del danno biologico
iure proprio può essere liquidato anche per l'aggravamento di una precedente condizione patologica ( C.
1442/2002).
Presso la giurisprudenza di merito, si è affermato che la morte di un congiunto, cagionata dal fatto
illecito di un terzo, ledendo diritti inviolabili riconosciuti e garantiti ai familiari a livello costituzionale,
determina in capo a questi un danno ingiusto, qualificabile come esistenziale e risarcibile ex art. 2043 (
T. Palermo 8.6.2001; T. Firenze 21.2.2001; T. Torino 8.8.1995). Una siffatta ricostruzione ha trovato
riscontro anche da parte della C. Cost. 11.7.2003, n. 233, attraverso il richiamo al diritto vivente ( C.
8828/2003). In tal modo, il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto, derivante dalla definitiva
perdita del rapporto parentale, si distingue sia dal bene salute, sia dall'interesse all'integrità morale. Il
risarcimento spetta iure proprio ai congiunti della vittima, in quanto subiscono la lesione dell'interesse
costituzionale alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che riguarda
la vita familiare ( C. 12124/2003). La sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo va
apprezzata nell'immediatezza dell'illecito, ma anche nel tempo, sotto il profilo delle sue ricadute, dinamico-
relazionali, consistenti nel peggioramento delle condizioni ed abitudini, interne ed esterne, di vita
quotidiana ( C., ord., 7249/2018; C. 9231/2013). In tema di illecito istantaneo ad effetti permanenti, la
lesione dell'integrità psichica che si sostanzi in un danno morale da patema d'animo non costituisce
conseguenza di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella già manifestatasi con l'esaurimento
dell'azione del responsabile che abbia determinato il danno (nella specie, danno da inquinamento), bensì
un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto, sicché è dalla data dell'esaurimento della
condotta illecita che decorre il termine di prescrizione del diritto al risarcimento di tutti i danni ( C.
9711/2013). La perduta o ridotta o modificata possibilità di intrattenere rapporti sociali in conseguenza di
una invalidità permanente costituisce una delle "normali" conseguenze delle invalidità gravi, nel senso che
qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali (
C. 7513/2018). Con riguardo alla prova del pregiudizio, il danno non patrimoniale da uccisione di un
congiunto non coincide con la lesione dell'interesse protetto, e quindi con l'evento morte in sé e per sé
considerato, ma consiste in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale,
costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle
reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono
nell'ambito del nucleo familiare ( C. 13546/2006; C. 4186/2004; C. 4118/2004; C. 8828/2003). La
prova del danno esistenziale da uccisione dello stretto congiunto può essere data anche a mezzo di
presunzioni, le quali, anzi, assumono «precipuo rilievo» ( C. 13546/2006). Il danno ingiusto parentale
conseguente alla morte del congiunto deve essere collocato all'interno dell'art. 2059 e non potrà essere
limitato alla sola "societas" stabilizzata con vincolo matrimoniale, dovendo essere estesa anche quando a
richiedere il risarcimento siano i "nuovi parenti" di situazioni di vita in comune ( C. 15760/2006). È
sottolineato il pericolo di una sovrapposizione con il danno morale: costituisce indebita duplicazione di
risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita
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del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita, e quella che
accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita, altro non sono che componenti del complesso
pregiudizio, che va integralmente ma unitariamente ristorato ( C., S.U., 26975/2008; C., S.U.,
26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U., 26972/2008; C. 238/2017). Il giudice può anche
riconoscere il danno da perdita del rapporto parentale unitamente al danno morale soggettivo; tuttavia, nel
liquidare quest'ultimo deve tenerne conto del rischio di una duplicazione del risarcimento ( C.
8828/2003).
23. Il danno non patrimoniale degli artt. 89 del codice di procedura civile e 598 del codice penale
L'art. 89, 2° co., c.p.c. prevede che «il giudice, in ogni stato dell'istruzione, può disporre con ordinanza che
si cancellino le espressioni sconvenienti ed offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre
assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto,
quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa».
L'art. 598 c.p., dopo aver previsto al 1° co., la non punibilità delle offese contenute negli scritti o nei
discorsi delle parti o dei patrocinatori nei procedimenti davanti all'autorità giudiziaria o amministrativa
quando le offese riguardano l'oggetto della causa o del procedimento, al 2° co. dispone che «il giudice,
pronunciando sulla causa, può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la
cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive e assegnare alla persona offesa una somma a
titolo di risarcimento del danno non patrimoniale».
La portata applicativa dell'art. 598 c.p. è differente rispetto a quella dell'art. 89 c.p.c., in quanto
nell'ipotesi prevista dall'art. 598 c.p., il danno non patrimoniale può essere accordato in caso di offese
contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro difensori nei procedimenti
davanti all'autorità giudiziaria o amministrativa, quando le offese riguardano l'oggetto della causa o del
ricorso amministrativo; l'art. 89 c.p.c. si riferisce, invece, soltanto alle espressioni sconvenienti ed
offensive, contenute in scritti presentati ed in discorsi pronunciati davanti all'autorità giudiziaria civile, che
non riguardano l'oggetto della causa (Petrelli, 223). L'art. 598 c.p. è autonomo rispetto all'art. 185 c.p.,
24. I casi di espresso riconoscimento del danno non patrimoniale nella legislazione successiva al
codice: l'art. 2, L. n. 117 del 1988
Nella legislazione successiva al codice si rinviene un notevole ampliamento dei casi di espresso
riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale, in relazione alla compromissione di valori
personali: art. 2, L. 13.4.1988, n. 117, sul risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione
della libertà personale, cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art. 29, 9° co., L. 31.12.1996, n. 675,
riguardante la raccolta dei dati personali; art. 44, 7° co., D.Lgs. 25.7.1998, n. 286, riguardante gli atti
discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2, L. 24.3.2001, n. 89, riguardante il mancato rispetto
del termine ragionevole di durata dei processi. L'espressa previsione del risarcimento del danno non
patrimoniale, in tali provvedimenti legislativi, testimonia chiaramente come il legislatore, ancor prima della
"svolta" operata dalla C. Cost. 11.7.2003, n. 233, fosse consapevole che la lesione di valori personali,
come quelli che vengono in rilievo nelle fattispecie in precedenza ricordate, determina un danno non
patrimoniale che deve essere risarcito a prescindere dall'esistenza di un reato.
Con riferimento alla legge sulla responsabilità dei magistrati, l'art. 2, L. 13.4.1988, n. 117 dispone che
«chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento
giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero
per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche
di quelli non patrimoniali che derivino dalla privazione della libertà personale». La disposizione ha
collegato l'obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale alla privazione della libertà personale dovuta
a colpa grave del magistrato, svincolando, in tal modo, il risarcimento dal reato, in quanto il
comportamento colposo non corrisponde ad alcuna fattispecie penale (Cricenti, Il danno non patrimoniale,
Padova, 1999, 249). È previsto anche che il provvedimento del magistrato sia stato emesso con dolo,
fattispecie nella quale, indubbiamente, ricorrono gli estremi del reato. Il legittimato passivo dell'azione
risarcitoria è lo Stato e non l'autore dell'illecito, il quale risponde solo in sede di rivalsa, ed entro
determinati limiti; da ciò si evince che, in questo caso, la funzione del risarcimento del danno non
patrimoniale è prevalentemente satisfattiva rispetto al torto subito, mentre la funzione punitiva passa in
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25. (Segue) Il danno non patrimoniale per l'eccessiva durata del processo (art. 2, L. n. 89 del
2001)
L'art. 2, L. 24.3.2001, n. 89, prevede l'equa riparazione del danno patrimoniale o non patrimoniale,
subito per effetto della violazione dell' art. 6 CEDU , sotto il profilo del mancato rispetto del termine
ragionevole della durata del processo. Ai sensi dell'art. 6, par. 1, Conv. eur. dir. uomo ogni persona ha
diritto alla trattazione della sua causa equamente e pubblicamente ed entro un termine ragionevole davanti
ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, che deciderà sia dei suoi diritti e dei suoi
doveri di carattere civile sia della fondatezza di ogni accusa in materia penale che gli venga rivolta. Il
danno non patrimoniale, previsto dalla L. 24.3.2001, n. 89, è stato, così, completamente svincolato
dall'illecito penale ed è stato collegato direttamente alla violazione di un diritto fondamentale dell'uomo; il
diritto alla riparazione, infatti, deriva da una attività lecita, qual è l'attività giudiziaria, la quale non diviene
illecita per il solo fatto del protrarsi in modo eccessivo ( C. 11987/2002). Il diritto all'equa riparazione per
la non ragionevole durata del processo non ha natura risarcitoria, bensì indennitaria ( C. 14885/2002),
tuttavia, tale natura non esclude che l'istante debba ugualmente fornire la prova della sussistenza sia del
danno patrimoniale che di quello non patrimoniale ( C. 2382/2003; C. 13422/2002; C.
11987/2002). Con riferimento al danno non patrimoniale, tale prova può essere agevolata dal ricorso a
presunzioni e a «ragionamenti inferenziali», circa gli effetti che la pendenza di un processo civile, penale e
amministrativo provoca nell'uomo medio ( C. 11987/2002). Occorre, comunque, che siano allegati gli
elementi costitutivi del pregiudizio e che siano dedotte le circostanze di fatto o quelle notorie da cui
desumere presuntivamente la sua esistenza, secondo una valutazione tipicamente di merito che può
essere censurata in cassazione solo per eventuali difetti di motivazione ( C. 1148/2003).
Si è, tuttavia, affermato che il danno non patrimoniale sofferto dalla parte per l'eccessiva durata del
processo, pur non essendo insito nella violazione del termine ragionevole, costituisce una conseguenza
della violazione che si verifica normalmente secondo l'« id quod plerumque accidit »; esso non necessita
pertanto di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso ed il giudice deve ritenerlo sussistere ogni
qualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere
che tale danno sia stato subito dal ricorrente ( C., S.U., 1339/2004; C., S.U., 1338/2004; C.
12242/2009; C. 10412/2009; C. 19666/2006; C. 7145/2006; C. 15093/2004). Ai fini dell'equa
riparazione non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al
periodo eccedente il termine ragionevole di durata ( C. 13061/2008; C. 14/2008). Ai fini della
legittimazione di una persona giuridica, è necessario allegare che l'incertezza sull'esito delle vicende
processuali ha determinato un pregiudizio sui diritti immateriali dell'ente, quali quello all'esistenza,
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L'ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del
perdurare dell'incertezza sull'assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si
sostanzia il danno non patrimoniale per l'eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in
presenza di una originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze. In tal caso, invero,
difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato
di disagio ( C. 14607/2017). Il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai parametri
elaborati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene, in misura
ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di
positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dare conto ( C. ord. 27352/2018). AGGIORNATO Nel caso di
danno non patrimoniale derivante dall'esecuzione di un contratto di appalto pubblico, comportante il
giudizio di conto, non è competente la Corte dei Conti bensì il giudice ordinario ( C., S.U., 486/2019).
Parte della dottrina ritiene che la generica richiesta di risarcimento del danno includa anche la richiesta
di ristoro del danno morale (Monateri, 305).
L'art. 18, L. 31.1231996, n. 675, relativa al trattamento dei dati personali, dispone che «chiunque cagiona
danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell' art. 2050».
Il successivo art. 29, 9° co., prevedeva la risarcibilità del danno non patrimoniale nei casi di violazione
dell'art. 9; di recente, la L. 31.12.1996, n. 675 è stata sostituita dal D.Lgs. 30.6.2003, n. 196 , il cui art. 15
riproduce, nella sostanza, le disposizioni appena richiamate. La previsione è di notevole importanza,
tenuto conto che nella maggior parte delle ipotesi, il danno derivante da illecito o scorretto trattamento di
dati personali consiste in un danno non patrimoniale o comunque non facilmente comprovabile nella sua
consistenza patrimoniale (Lucchini Guastalla, Trattamento dei dati personali e danno alla riservatezza, in
RCP, 2003, 650; Roppo, La responsabilità civile per trattamento di dati personali, in DResp, 1997, 664;
Ziviz, Trattamento dei dati personali e responsabilità civile: il regime previsto dalla L. 675/1996, in RCP,
1997, 1305). Tali danni saranno stimati e liquidati secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza con
riferimento alle lesioni dell'onore e della reputazione (Franzoni, Dati personali e responsabilità civile, in
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Di conseguenza, si può ritenere che la previsione del risarcimento del danno non patrimoniale, nella L.
31.12.1996, n. 675, stia a manifestare come, anche prima della pronuncia della C. Cost. 11.7.2003, n.
233, fosse chiaro che al fine di apprestare una tutela risarcitoria appropriata ai diritti della personalità, è
necessario svincolare il risarcimento del danno non patrimoniale dall'esistenza di un reato.
Le sentenze C., S.U., 26975/2008; C., S.U., 26974/2008; C., S.U., 26973/2008; C., S.U.,
26972/2008, nel ridisegnare l'assetto del danno non patrimoniale, hanno confermato che anche in caso di
inadempimento contrattuale può sorgere il diritto alla riparazione del danno non patrimoniale. È
necessario, tuttavia, che vi sia stata la lesione di diritti inviolabili della persona e che il contratto tenda alla
realizzazione anche di interessi non patrimoniali.
28. Casi particolari di risarcimento del danno non patrimoniale: la lite temeraria
Vi sono ipotesi nelle quali, a prescindere dall'esistenza di un reato o (seguendo le indicazioni della C.
Cost. 11.7.2003, n. 233) dalla lesione di un interesse costituzionalmente rilevante, è controverso se si
possa risarcire il danno non patrimoniale, attraverso un'interpretazione estensiva dei casi determinati dalla
legge, di cui all'art. 2059, come ad esempio nell'ipotesi della lite temeraria.
In tale fattispecie, le argomentazioni favorevoli alla risarcibilità del danno non patrimoniale sono tratte
dalla generica previsione del «risarcimento dei danni», contenuta nell'art. 96 c.p.c. e negli articoli
corrispondenti del codice di procedura penale ( artt. 427, 542), e dal fatto che i pregiudizi conseguenti
alla responsabilità processuale aggravata sono necessariamente di carattere non patrimoniale (Bonilini,
361; Perfetti, Prospettiva di una interpretazione dell'art. 2059, in RTDPC, 1978, 1069). Nel silenzio della
giurisprudenza sul punto, parte della dottrina (Franzoni, Dei fatti illeciti, 1176) ha individuato nella
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Il danno esistenziale può originare da un'ipotesi di responsabilità processuale laddove l'altrui temeraria
iniziativa processuale abbia determinato un'effettiva compressione dei diritti della personalità del
danneggiato ( T. Bologna 27.1.2005).
Il danno da vacanza rovinata consiste nel pregiudizio risentito dal turista per non aver potuto godere
pienamente del viaggio organizzato come occasione di svago e/o di riposo (Guerinoni, L'interpretazione
della Corte di Giustizia riguardo al danno da "vacanza rovinata", in RCP, 2002, 363); si intende così un
pregiudizio di natura prettamente non patrimoniale, che non si traduce in una perdita economica, né in
termini di danno emergente né in termini di lucro cessante, bensì in disagio, stress, sofferenza per non
aver potuto godere del riposo che si era immaginato. La circostanza che il danno da vacanza rovinata si
qualifichi come "non patrimoniale" e che derivi da un inadempimento contrattuale ha fatto sorgere problemi
circa la sua risarcibilità.
Per non lasciare senza ristoro tali pregiudizi, la giurisprudenza si è sforzata di individuare un riferimento
normativo, in base al quale poter liquidare il danno non patrimoniale da vacanza rovinata; tale riferimento è
stato individuato nell'art. 13, 1° par., Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio (CCV), il
quale dispone (nella versione italiana non ufficiale) che «l'organizzatore di viaggi risponde di qualunque
pregiudizio causato al viaggiatore a motivo dell'inadempimento totale o parziale dei suoi obblighi di
organizzazione» ( T. Torino 28.11.1996). Di recente, la Corte di Giustizia ( C. Giust. CE 12.3.2002) ha
ammesso il risarcimento del danno da vacanza rovinata e ne ha ravvisato il fondamento nella direttiva
13.6.1990, n. 90/314/CEE, disciplinante i contratti di viaggio concernenti pacchetti turistici «tutto
compreso». Secondo la Corte di Giustizia, infatti, l'art. 5, direttiva 13.6.1990, n. 90/314/CEE riconosce
implicitamente l'esistenza di un diritto al risarcimento dei danni diversi da quelli corporali, tra cui il danno
morale, di conseguenza il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante
dall'inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio tutto
compreso. Riconoscono il risarcimento del danno da vacanza rovinata, richiamandosi espressamente alla
sentenza della C. Giust. CE 12.3.2002 anche T. Roma 26.11.2003; T. Roma 19.5.2003. Si tratta di
uno dei "casi previsti dalla legge" nei quali, ai sensi dell'art. 2059, il pregiudizio non patrimoniale è
risarcibile, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della Direttiva 13.6.1990, n. 90/314/CEE
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( C. 17724/2018). Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata è integrato dal pregiudizio conseguente
alla lesione dell'interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di
piacere e di riposo, tanto più grave ove si tratti di viaggio di nozze e come tale di occasione irripetibile; ed il
turista-consumatore ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da parte dell'organizzatore o del
venditore, anche se la responsabilità sia ascrivibile ad altri prestatori di servizi ( T. Reggio Emilia
13.2.2013). Con riguardo al nesso di causalità, è stato ritenuto sussistente il danno da vacanza rovinata in
conseguenza di un sinistro occorso alla vigilia della partenza ( T. Reggio Emilia 30.3.2016)
AGGIORNATO nonché il pregiudizio subito a seguito della perdita del bagaglio ( C. 4996/2019). In ogni caso, il
danneggiato ha l'onere di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del
pregiudizio, in base alla disciplina codicistica del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale (
C. 12143/2016). Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata richiede la verifica della gravità della
lesione e della serietà del pregiudizio patito dall'istante, al fine di accertarne la compatibilità col principio di
tolleranza delle lesioni minime, e si traduce in un'operazione di bilanciamento demandata al prudente
apprezzamento del giudice di merito ( C., ord., 6830/2017).
30. (Segue) Il diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione cautelare ex art. 314 c.p.p
L'art. 314 c.p.p. prevede il diritto ad un'equa riparazione a favore di chi abbia subito ingiustamente un
periodo di custodia cautelare; allo stesso modo, l'art. 643 c.p.p. dispone il diritto alla riparazione del danno
a favore di chi, prosciolto in sede di revisione, abbia subito una ingiusta detenzione. Entrambe le
disposizioni nel prevedere il diritto alla riparazione a favore di chi abbia subito una ingiusta detenzione
utilizzano criteri diversi: l'art. 314 c.p.p. impiega l'espressione "equa riparazione", lasciando così intendere
che la determinazione del quantum sia rimessa al potere discrezionale del giudice, anche se l'art. 315
c.p.p. fissa il limite massimo di un miliardo di lire. L'art. 643 c.p.p., invece, prevede che la riparazione «sia
commisurata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali
e familiari derivanti dalla condanna». Tuttavia, in virtù del richiamo previsto dall'art. 315, 3° co., c.p.p.,
l'ammontare dell'equa riparazione, di cui all'art. 314 c.p.p. può essere determinata facendo riferimento al
numero di giorni di detenzione oppure alle conseguenze personali e familiari della stessa (Cricenti, 250).
Le ipotesi previste dagli artt. 314-643 c.p.p. non possono essere annoverate tra i casi determinati dalla
legge di cui all'art. 2059, in quanto l'obbligo dello Stato di riparare il danno da ingiusta detenzione non ha
un carattere risarcitorio. La riparazione per ingiusta detenzione, infatti, è un istituto diverso dal risarcimento
del danno, scaturendo da un rapporto di solidarietà civile nei confronti della vittima ( C. pen. 22.1.2004;
C. pen. 31.5.1994); inoltre, il diritto alla riparazione prescinde dall'accertamento di eventuali profili dolosi
o colposi nella condotta del magistrato e si basa unicamente sui dati obiettivi contemplati nelle rispettive
norme ( A. Milano 29.11.2000).
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Anche se si deve escludere che gli artt. 314-643 c.p.p. rientrino nei casi previsti dalla leggi di cui all'art.
2059, non si può negare che esistano legami tra la riparazione ed il danno non patrimoniale. Tale rapporto,
infatti, risulta evidente dalla formulazione dell'art. 643 c.p.p. (applicabile anche all'art. 314 c.p.p., in virtù
del richiamo dell'art. 315, 3° co., c.p.p.), il quale facendo riferimento alle conseguenze personali e familiari
della condanna, esprime un inequivocabile rinvio a riflessi negativi, tipicamente non patrimoniali patiti dal
soggetto che ha subito l'ingiusta detenzione [Cricenti, 255; Ziviz, Il danno non patrimoniale, in Cendon (a
cura di), La responsabilità civile, VII, Torino, 1998, 299].
È stato riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale, derivante dal modificato regime di vita e dalla
privazione della libertà personale in un caso di riparazione ex art. 643 c.p.p. ( A. Genova 7.2.2003).
Il diritto morale d'autore consente all'autore dell'opera, anche dopo la cessazione dei diritti di
sfruttamento, di rivendicare la paternità dell'opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o
altra modificazione dell'opera stessa, che possa essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione.
Al riguardo, l'art. 168, L. 22.4.1941, n. 633, conferisce indirettamente, in base al rinvio contenuto nell'art.
158, il potere di richiedere il risarcimento del danno, senza però che sia specificato se si tratta di soli danni
patrimoniali oppure anche di danni non patrimoniali. Si è riproposto così il già indicato problema, e cioè se
la formulazione generica della norma fosse idonea a legittimare il risarcimento del danno non patrimoniale.
Parte della dottrina ha ritenuto che l'esistenza di un generico rinvio al risarcimento del danno, sarebbe
stata di per sé sufficiente a far rientrare tale ipotesi nei casi previsti dalla legge cui rinvia l'art. 2059
(Bonilini, 358; Perfetti, 1067; Ravazzoni, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962, 129). Si
è sostenuto, infatti, che trattandosi di un bene di natura morale vi doveva essere una corrispondente tutela
anche per i danni di natura non patrimoniale (Ravazzoni, 129).
Tale problema, tuttavia, anche prima della pronuncia della C. Cost. 11.7.2003, n. 233, ha sempre
avuto una scarsa importanza in quanto, identificandosi il diritto morale d'autore con l'onore e la
reputazione di chi ha la paternità di una opera dell'ingegno, la violazione normalmente si realizza
attraverso la consumazione di un reato.
L'art. 12, L. 8.2.1948, n. 47, l. sulla stampa, prevede che «nel caso di diffamazione commessa col
La norma non rappresenta una duplicazione del risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto la
riparazione prevista è una sanzione civilistica che presenta una finalità esclusivamente punitiva,
rafforzativa della sanzione penale ( C. 14485/2000). Tale riparazione consegue al reato di diffamazione a
mezzo stampa e pertanto presuppone l'accertamento degli elementi costitutivi di tale reato, che può
essere compiuto anche dal giudice civile ( C. 14485/2000; T. Venezia 29.2.2000). Essendovi un
collegamento indefettibile tra la riparazione prevista dall'art. 12, L. 8.2.1948, n. 47 ed il reato di
diffamazione a mezzo stampa, può essere condannato alla riparazione soltanto il soggetto responsabile
del reato stesso ( C. 9672/1997). Di conseguenza, si esclude che la sanzione possa essere applicata nei
confronti del direttore responsabile della pubblicazione ove a suo carico risulti una responsabilità a norma
dell'art. 57 c.p., per omesso controllo (colposo) sul contenuto dello stampato da lui diretto, e non un
concorso (doloso) nel reato di diffamazione ( C. 14485/2000). La satira costituisce una modalità corrosiva
e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all'obbligo di riferire
fatti veri, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto.
Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni anche
lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione della critica e
non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto
interessato ( C., ord., 6919/2018).
In tema di diritto alla riservatezza, dal quadro normativo e giurisprudenziale nazionale (artt. 2 Cost., 10 e
97, L. 22.4.1941, n. 633) ed europeo (artt. 8 e 10, 2° co., CEDU e 7 e 8 della c.d. "Carta di Nizza"), si
ricava che il diritto fondamentale all'oblio può subire una compressione, a favore dell'ugualmente
fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza dei seguenti specifici presupposti: 1) il contributo arrecato
dalla diffusione dell'immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l'interesse effettivo ed
attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e
delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali); 3) l'elevato grado di notorietà del
soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese; 4) le modalità
impiegate per ottenere e nel dare l'informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non
eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni
personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva
informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in
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modo da consentire all'interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico. (Nella specie
la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d'appello che aveva respinto la domanda di
risarcimento del danno avanzata da un noto cantautore, a seguito della trasmissione su una rete
televisiva, ad oltre cinque anni dall'accaduto, delle immagini relative al suo rifiuto di rilasciare un'intervista
accompagnate da commenti denigratori) ( C. 6919/2018).
33. La risarcibilità del danno non patrimoniale in favore di una persona giuridica
In passato, è stata particolarmente dibattuta la possibilità di riconoscere il risarcimento del danno non
patrimoniale in favore di una persona giuridica. La soluzione del problema dipende dalla nozione di danno
non patrimoniale che si vuole accogliere (Franzoni, Dei fatti illeciti, 1204); infatti, se si identifica il danno
non patrimoniale con un'alterazione dello stato d'animo del soggetto, si deve concludere che soltanto alle
persone fisiche spetta il risarcimento per i danni morali subiti.
Se, invece, come fa la giurisprudenza più recente, non si circoscrive l'ambito di applicazione dell'art.
2059 al solo danno morale c.d. subiettivo, cioè al dolore ed alla sofferenza, ma si ritiene che il danno non
patrimoniale ricomprenda ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica, si possono
risarcire anche le persone giuridiche, che, in quanto tali, non provano le sofferenze ed i dolori espressi
dalla tradizionale nozione di danno morale ( C. 2367/2000; C. 12951/1992; C. 7642/1991).
In questo modo, anche le persone giuridiche possono subire un danno non patrimoniale, potendo
questo configurarsi in effetti pregiudizievoli, che a prescindere dalla sensibilità e percezione psicologica del
danneggiato, si risolvono in un'aggressione a beni immateriali, di cui anche l'ente personificato può essere
titolare (Bianca, La responsabilità, in DC, 1994, V, 169, nt. 165). Diventa, così, irrilevante il fatto che la
persona giuridica, in quanto entità astratta, sia per sua natura insensibile, perché ciò che viene in rilievo ai
fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, è la lesione della sfera di dignità, di rispettabilità e di
credibilità nei confronti dei consociati (Franzoni, Dei fatti illeciti, 1205).
Legittimato passivo è il soggetto che ha compiuto il fatto e le persone che debbono rispondere del fatto
altrui, secondo le norme sulla responsabilità civile. In questo caso bisogna far riferimento agli artt. 2048,
2049 e all' art. 2054, 3° co.
In giurisprudenza si è affermato che la sussistenza di specifici elementi di colpa addebitabili al
domestico o al commesso autore del comportamento dannoso e la propagazione della responsabilità al
padrone o al committente legittimano il danneggiato, ricorrendone gli ulteriori presupposti, alla domanda di
risarcimento del danno morale nei confronti di entrambi i responsabili, restando del tutto indifferente, a tal
fine, sia l'autonomia delle azioni colpose dei diversi soggetti sia la differente normativa che configuri le loro
responsabilità ( C. 75/1983). Inoltre il padrone o il committente rispondono delle conseguenze giuridiche,
compreso il risarcimento del danno non patrimoniale anche nel caso in cui sia rimasta ignota la persona
fisica autrice dell'illecito ( C. 12023/1995; C. 12951/1992; C. 222/1985). Anche nel caso di danno
cagionato da un minore di 14 anni è risarcibile il danno non patrimoniale ( C. 6651/1982). Inoltre, perché
sussista la diretta responsabilità dello Stato verso i terzi, per l'attività colposa o dolosa di pubblici
dipendenti è necessaria la riferibilità della detta attività allo Stato, perché diretta al perseguimento dei suoi
fini istituzionali, ancorché con abuso di potere. Tale riferibilità deve essere esclusa, allorché l'attività trovi
nell'esplicazione della pubblica funzione solo l'occasione del suo manifestarsi per finalità estranee a quelle
dell'ufficio o, addirittura, contro la P.A. ( C. 9935/1993), oppure per fini egoistici e privati ( C. 485/1985).
Si è affermato che il risarcimento del danno non patrimoniale è suscettibile di riduzione nel caso di
concorso di colpa del danneggiato ( C. 3079/1955). La riduzione trova applicazione anche nel caso in cui
il danneggiato sia un soggetto incapace ( C. 1442/1983).
In giurisprudenza si ritiene che il ristoro del danno non patrimoniale integri un debito di valore,
suscettibile come tale di rivalutazione, con la conseguenza che, ai fini della liquidazione del danno da fatto
illecito, devono essere considerate alla stessa stregua tutte le partite che, costituiscono il danno risarcibile,
tenendo conto della svalutazione monetaria anche con riferimento ai danni cosiddetti morali ( C.
3675/1984). Nel caso in cui per liquidare il danno morale siano utilizzati valori monetari propri del tempo
della decisione, la somma non deve essere rivalutata ( C. 14930/2000). Oltre alla rivalutazione monetaria
possono essere computati anche gli interessi per il pregiudizio che il danneggiato dimostri di avere
sopportato per la ritardata effettiva percezione del suo credito( C. 9376/1997). Gli interessi compensativi
Si ritiene che la lesione cagionata dal danno morale non possa essere riparata in forma specifica, dal
momento che non è possibile creare una situazione identica a quella che precede il fatto (Bonilini, 439). La
pubblicazione della sentenza anche se rende più completo e satisfattivo il ristoro, tuttavia non ripara
integralmente il danno non patrimoniale (Scognamiglio, Il risarcimento del danno in forma specifica, in
RTDPC, 1957, 335).
In giurisprudenza si è affermato che nella determinazione del danno non patrimoniale arrecato alla
reputazione va considerato anche il risarcimento in forma specifica tramite pubblicazione della sentenza
penale, il quale diminuisce il quantum residuo di danno da risarcire per equivalente ( A. Napoli 12.6.1992;
T. Milano 27.5.1985).
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