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Raffaele Cantone

Enrico Carloni
Corruzione
e anticorruzione
Dieci lezioni
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione digitale 2018
da prima edizione in “Serie Bianca” ottobre 2018
Ebook ISBN: 9788858833308
In copertina: © 123RF.
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Corruzione e anticorruzione
Introduzione

Perché un altro libro sulla corruzione? Sono alcuni anni che l’argomento
incuriosisce, anche a livello mediatico, e c’è quindi un fiorire di articoli,
interviste, interventi di vario tipo e di libri che ne hanno trattato anche da vari
punti di vista, religioso, etico, giuridico, non mancando di leggerne le
conseguenze sul piano sociale ed economico.
E anche la mia voce in questo ideale dibattito non è mai mancata, anzi. E
allora perché intervenire ancora?
La risposta è che questo libro vuole occuparsi del tema sotto una diversa
prospettiva, ed è per ciò che l’ho voluto fortemente, proponendolo alla casa
editrice.
Sono passati più di quattro anni da quando sono stato nominato presidente
dell’Autorità nazionale anticorruzione e il mio viso e il mio nome sono
divenuti abbastanza noti; quasi sempre quando si cita l’Autorità vengo
indicato anche io, come si trattasse di una sorta di “binomio indissolubile”.
Dal mio punto di vista, ho vissuto questo periodo sovrapponendo quasi
del tutto vita personale e impegno professionale e dedicando al progetto, così
come mi era capitato quando da magistrato mi ero occupato di antimafia,
tutte le mie energie fisiche e psicologiche. Di più non sarei riuscito a dare e a
fare.Eppure, mi rendo molto spesso conto che, quando parlo con le persone,
sono in molti a non aver chiaro ciò che davvero faccio.
Tanti cittadini si sentono in dovere di venire a salutarmi e a incitarmi
anche quando faccio una passeggiata per strada. Sento anche da questi
comportamenti che finalmente molte persone hanno capito che la corruzione
è davvero un problema grave per il nostro Paese; però, molti di coloro che mi
si avvicinano accompagnano all’incitamento, alle congratulazioni, agli
auguri, alle manifestazioni di vicinanza una sorta di invito, assolutamente in
buona fede, “Arrestateli tutti”.
Nei primi tempi a qualcuno ho provato a spiegare che non possiamo
arrestare nessuno perché non è questo il nostro compito. Mi rendo però conto
che dietro questa frase, in apparenza semplicistica, che qualcuno potrebbe
considerare persino populista e giustizialista, vi è una forte e sincera richiesta
di giustizia, forse persino di rivalsa sociale, nei confronti di chi si è arricchito
sfruttando una posizione pubblica che avrebbe dovuto, invece, essere
utilizzata nell’interesse di tutti.
A costoro mi piacerebbe spiegare cosa facciamo davvero, cosa è la
prevenzione della corruzione e perché, da magistrato che sa bene quanto è
importante la fase repressiva, la ritengo indispensabile quanto arrestare un
corrotto o un corruttore e forse persino di più, perché con questa attività si
può lavorare (e mi illudo sia possibile riuscirci) per porre le basi per
migliorare la nostra società, senza dover pensare che per farlo dobbiamo
riempire le carceri o immaginare una qualche sorta di vendetta sociale.
E allora eccola una prima ragione che a me pare più che sufficiente per
scrivere questo libro: parlare non della corruzione ma dell’anticorruzione, di
cosa è, di quali obiettivi si propone, di quanto è importante il momento
repressivo ma anche attuare la trasparenza nelle attività amministrative,
riorganizzare l’amministrazione in una logica di maggiore razionalità ed
efficienza, impedire i conflitti di interesse, stimolare la collaborazione dei
tanti funzionari onesti e chiedere ai cittadini, alle associazioni, ai giornalisti
di essere i veri controllori dell’operato dell’amministrazione pubblica.
Ammetto, però, che accanto a questo motivo, per me assolutamente
prevalente, ve ne è anche un altro, meno importante ma non irrilevante.
In questi quattro anni non ho incontrato – ovviamente – solo cittadini
plaudenti e volti amici; ma ho sentito anche tanta (per fortuna non tantissima)
ostilità. Non mi ha meravigliato, so bene che il consenso unanime non è, né
può essere, un obiettivo in una democrazia e che le critiche anche dure e i
diversi punti di vista sono non solo fisiologici ma, per quanto qualche volta
dolorosi, necessari e utili.
Questa sensazione, del resto, l’avevo già avvertita da pm; un’avversione
spesso ostentata non solo da parte dei camorristi e delle loro famiglie, nei cui
occhi leggevo persino, in qualche caso, odio, ma anche di tutto un mondo che
ne condivide mentalità, valori e soprattutto interessi economici.
L’ostilità che ho percepito in questo lavoro è molto diversa e non mi
permetterei certo di paragonarla a quella del passato; meno evidente, molto
più paludata, spesso accompagnata da sorrisi, strette di mano e persino finte
affettuose pacche sulle spalle.
Spesso non in mia presenza, ne hanno dette di tutti i colori: che l’Autorità
anticorruzione è il problema, non la corruzione; che siamo noi che, con
spirito da gendarmi o come grandi inquisitori, “blocchiamo” il Paese con
inutili tentativi di arginare un fenomeno che non c’è o che comunque è
marginale; e che di certo facciamo più danni noi che “quattro pidocchi” che
qualche funzionario pubblico intasca per far muovere le pratiche.
Sarebbe da manichei pensare che tutti coloro che hanno una diversa
opinione su come affrontare (o non affrontare) la corruzione siano nel torto;
in questo campo ci sono fior fiore di intellettuali e studiosi che non sono certo
tifosi della corruzione e del malaffare e che hanno idee alternative e visioni
probabilmente molto più lungimiranti della mia.
Con costoro, però, mi piacerebbe confrontarmi provando a partire dai
fatti, non dalle sensazioni o persino da luoghi comuni; tante volte ci sono stati
contestati ritardi, omissioni, eccessi di burocratizzazione su vicende nelle
quali non avevamo avuto ruolo alcuno oppure avevamo fatto l’opposto di
quanto ci veniva imputato, eppure eravamo noi i colpevoli.
In altri casi, invece, le “accuse” partivano da fatti veri e avevamo
sbagliato noi nell’azione (tante volte è capitato) oppure (cosa per molti
aspetti, persino, peggiore) non eravamo riusciti a spiegare il senso di quello
che avevamo fatto o volevamo fare.
Anche in questa prospettiva, forse, può essere utile provare a dare una
chiave di lettura di cosa è il sistema dell’anticorruzione e di quello che, sul
piano internazionale, è diventato, con luci e ombre, il modello italiano del
contrasto a questo cancro.
Il rischio, però, di un libro scritto solo da me su quello che è e fa
l’anticorruzione nella sua parte di prevenzione era quello di fornire una
visione riduttiva perché le riflessioni non potevano non essere interessate e
molto probabilmente anche autoreferenziali.
Ed è per questo che ho proposto a Enrico Carloni, un professore
universitario grande esperto della materia, con cui abbiamo scritto su
questioni giuridiche e che pure collabora in tante iniziative con l’Autorità
anticorruzione, di voler provare a riflettere con me di questi temi per scrivere
un piccolo saggio a quattro mani.
Non ho affatto la presunzione di affermare che in questo modo la
ricostruzione dei fatti sia diventata oggettiva o imparziale; su molte questioni
con Enrico abbiamo un comune sentire, ma ovviamente lui è portatore di una
visione più distaccata, capace di leggere il tutto in una chiave sistemica e in
quella chiave provare a dare una lettura razionale, ma anche critica, del
complessivo impianto normativo.
Il libro è il frutto di un vero confronto, prima sulle idee generali e poi
sulle singole parti che formano l’ideale sistema dell’anticorruzione; solo in un
secondo momento abbiamo cominciato a scrivere, scambiandoci appunti in
un lungo colloquio, spesso a distanza, che è durato parecchi mesi.
Il testo si articola come se si trattasse di lezioni perché l’obiettivo era
provare a spiegare, con un linguaggio il più possibile divulgativo, istituti
spesso citati anche dalla stampa senza che di essi si sappia davvero molto (il
Foia, il whistleblower, il pantouflage, il Piano della prevenzione, l’agente
provocatore, il Daspo ecc.). Il tutto, però, senza rinunciare alla precisione dal
punto di vista giuridico.
Per me questo lungo confronto e la successiva scrittura del libro sono stati
un’occasione di grande arricchimento e approfondimento e, perché no?,
anche di nuovo studio di tanti istituti di cui mi occupo ogni giorno, forse con
un po’ di routine, senza più pormi (come è, invece, sempre necessario) le
giuste domande.
Grazie anche al prezioso e continuo confronto con i responsabili della
casa editrice, Alessia Dimitri e Donatella Berasi, e ai loro utilissimi consigli,
spero che siamo riusciti nell’impresa e che chi leggerà il libro si possa fare
una propria idea dell’anticorruzione, della sua utilità e di come essa abbia
bisogno di un lavoro che duri a lungo e che trovi la piena collaborazione
degli amministratori pubblici e dei cittadini, perché persegue un obiettivo
davvero ambizioso: dare un contributo per cambiare in meglio il Paese.
Raffaele Cantone
1.
Che cosa è la corruzione?

1.1 Una premessa


Scrivere di (e sulla) corruzione presuppone, sul piano metodologico,
rispondere a una domanda solo in apparenza banale: che cosa è la corruzione?
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un vasto dibattito che ha
avuto al centro questo fenomeno sociale e criminale, come non accadeva dai
tempi di Mani pulite. Vi partecipano gli opinionisti, gli intellettuali, il mondo
associativo, la società civile, la politica e anche (non poco) parlamento e
governo, i quali sono riusciti, nella legislatura 2013-2018, a mettere in campo
importanti novità legislative.
Anche il governo Conte ha dedicato al tema una parte del cosiddetto
contratto di governo: contrastare la corruzione è una priorità, per cui si sono
studiate possibili nuove (e ulteriori) soluzioni, anche a livello normativo. E il
dibattito di questi anni si è giovato, in modo forse inatteso, di un interlocutore
di eccezionale autorevolezza, il pontefice, papa Francesco; tante volte ne
aveva parlato da vescovo di Buenos Aires e ancor di più lo sta facendo dal
soglio di Pietro, invertendo così una tradizione di sostanziali silenzi della
Chiesa romana sull’argomento.
Sono divenute celebri alcune espressioni con cui Bergoglio ha
stigmatizzato questo male, giungendo a un’affermazione che, per una
religione come quella cattolica che fa del perdono il suo fulcro, potrebbe
persino suonare paradossale e cioè che “il peccato si può perdonare, la
corruzione no!”.
E qui torna la domanda di partenza: che cosa è la corruzione?
Il cittadino comune che sente pronunciare questa parola, magari nel corso
di un servizio del telegiornale, la assocerà (quasi) certamente al pagamento di
una “mazzetta” o di una “tangente” e davanti ai suoi occhi e nella sua mente
passeranno le immagini di episodi (purtroppo) famosi della storia del nostro
Paese, di arresti o sequestri di denaro relativi a qualche famoso ex politico,
imprenditore o burocrate.
Siamo sicuri che il significato cui pensa il cittadino sia lo stesso di cui si
preoccupa il papa o di cui si occupano la politica, i media e la società civile?
E ancora: nel dibattito sul tema a volte si è giunti a conclusioni che hanno
finito per (o che, nel futuro, potranno) influenzare persino le scelte del
legislatore, in particolare, a titolo esemplificativo, sul livello di corruzione nel
nostro Paese, sull’esistenza di una sorta di specificità negativa italiana o sulla
sostanziale sovrapposizione del fenomeno in esame con quello mafioso.
Si tratta di affermazioni che, a forza di essere state tante volte sentite e
altrettante volte ripetute, sembrano essere divenute verità indiscusse (una
sorta di mantra) e che, invece, non lo sono o, quantomeno, non lo sono nella
loro assolutezza.

1.2 Alla ricerca del significato


Una prima (e solo per alcuni versi inattesa) sorpresa viene dalla
consultazione di un qualunque dizionario.
Il termine “corruzione” è polisemico o polisemantico, cioè dai plurimi
significati, e quello a cui ha pensato il nostro ipotetico telespettatore non è
neanche il principale.
Il vocabolario Treccani individua quattro diverse definizioni, ricomprese
sotto due macrocategorie, la prima delle quali legge il termine come una
conseguenza negativa di un’azione materiale o anche di un evento naturale,
per cui esso potrà significare decomposizione, disfacimento, putrefazione se
riferito soprattutto a oggetti (ad esempio l’acqua o un cadavere) e
degenerazione con riferimento perlopiù a un insieme di cose o a un concetto
di carattere più generale (ad esempio, i costumi, la società, la classe politica).
Nella seconda macrocategoria la parola viene intesa come un’operazione
di induzione di altri al male e comprende sia il caso in cui al male sia
condotta una persona (l’esempio presente nel vocabolario è la “corruzione di
un minorenne”, un reato del Codice penale che puniva, in passato, il
commettere atti di libidine su una persona minore di sedici anni o in sua
presenza e oggi invece punisce il compiere atti sessuali in presenza di un
minore di quattordici anni), sia il caso di nostro più diretto interesse e cioè un
delitto contro la pubblica amministrazione, consistente nel dare o promettere
denaro o altri vantaggi a un soggetto che rivesta una carica pubblica.
Non molto diverso è l’esito della consultazione dell’altrettanto famoso e
autorevole dizionario Devoto-Oli, che individua due ambiti semantici
principali corredati da alcuni lemmi che risultano utili alla comprensione del
significato. Secondo una prima possibile lettura, il vocabolo deve essere
inteso come degenerazione spirituale e morale, depravazione, totale
abbandono della dignità e dell’onestà; esemplificando questi termini, il
vocabolario indica esplicitamente fra i casi di corruzione quello del
minorenne di cui si è già detto poco sopra e quello del funzionario pubblico,
uniti evidentemente dal tratto comune della degenerazione spirituale e
morale.
Una seconda lettura intende la parola in senso più squisitamente materiale
e cioè come inquinamento, ammorbamento, disfacimento, putrefazione e la
considera riferibile sia a cose specificamente identificabili (un cadavere o un
corso d’acqua) sia a concetti più astratti e generici (i costumi o la società).
Il significato, fra quelli indicati, oggetto del nostro interesse è
evidentemente quello che si riferisce al comportamento del funzionario
pubblico che trae benefici dallo sfruttamento illecito della sua carica e della
sua funzione.

1.3 La corruzione nella storia


Una seconda (anche questa solo per alcuni versi inattesa) sorpresa viene
dalla constatazione che l’individuazione come illecita e punibile di una
condotta di tal tipo risale alla notte dei tempi e non si tratta affatto, quindi, di
un reato tipico del nostro secolo.
Non esistono, a quanto è dato sapere, ricerche storiografiche sulla
corruzione, se non con riferimento ai tempi più recenti, ma si può
ragionevolmente ipotizzare che essa sia stata punita (e anche gravemente)
quantomeno da quando i popoli dell’antichità organizzarono forme di
governo che prevedevano la delega di poteri a persone rivestite di funzioni
autoritative e con la possibilità loro riconosciuta di gestire risorse di proprietà
della comunità.
Ne abbiamo certamente traccia nel periodo della Roma repubblicana (più
di duemila anni fa quindi), che aveva già assoggettato gran parte dell’Europa
e dell’Asia Minore e che si avviava a diventare impero. Di quel delitto si
macchiavano soprattutto i governatori inviati nelle province che, forti della
loro carica, si arricchivano facendosi versare denaro e ricevendo doni
sontuosi dai ricchi provinciali che, così, non pagavano le pesanti imposte del
governo centrale.
Il caso più noto è quello di Verre, nobile romano insignito di varie
cariche, fra cui quella di propretore della Sicilia, con vasti poteri
amministrativi e giurisdizionali, che esercitò per un periodo più lungo di
quello previsto e che si macchiò di ruberie e corruzioni di ogni genere.
È una vicenda, questa, diventata tanto emblematica che, di recente, uno
storico l’ha riletta in una nuova chiave, evidenziando non poche similitudini
con l’attualità: Verre utilizzò la corruzione non solo come uno strumento di
arricchimento personale ma anche di accrescimento del suo potere politico,
attraverso una sorta di voto di scambio ante litteram. E il processo ai suoi
danni, che si celebrò nel 70 a.C., divenne il trampolino per un giovane e
valente avvocato della provincia laziale, chiamato a sostenere, nel foro di
Roma, la pubblica accusa: Marco Tullio Cicerone da Arpino.
Da quel processo Cicerone ricavò una delle sue opere letterarie più
importanti, le orazioni In Verrem (cioè, contro Verre, opera divenuta famosa
come le Verrine), da cui ancora oggi vengono tratte tante versioni su cui si
cimentano gli studenti dei licei, ma soprattutto gli procurò quella notorietà
che gli consentì un importante cursus honorum, culminato con il
raggiungimento della carica prestigiosissima di senatore. Verre fu condannato
a pagare tre milioni di sesterzi (anche se le corruzioni a lui imputabili
ammontavano, secondo Cicerone, a ben cento milioni di sesterzi!) e scampò
alla pena detentiva andando volontariamente in esilio, probabilmente nella
Gallia, dove morì senza far più ritorno a Roma.
A distanza di più di un millennio, sempre limitandosi a ricordare vicende
famose, nella ricca Firenze squassata dalle contese fra Guelfi e Ghibellini, la
corruzione non solo era ancora presente ma era considerata particolarmente
grave.
Di essa si fa menzione nell’opera letteraria per eccellenza della lingua
italiana, la Divina Commedia. Dante incontra i corrotti nella quinta bolgia del
settimo cerchio dell’Inferno e li addita con l’appellativo di “barattieri”,
considerandoli rei di aver usato le loro cariche per arricchirsi attraverso la
compravendita di provvedimenti, permessi e privilegi. Cita alcuni che si
erano macchiati di questo grave crimine, nomi che a noi ovviamente dicono
poco o nulla, ma che all’epoca erano stati importanti amministratori. A
costoro viene riservato un supplizio dolorosissimo: devono restare totalmente
immersi nella pece bollente e se provano a fuoriuscire anche solo con la testa,
i malebranche, demoni alati neri, armati di bastoni uncinati, li straziano
costringendoli a rientrare nella pece.
L’assenza di ricerche storiografiche non ci consente purtroppo di capire
se e quanto le norme punitive abbiano consentito in alcuni periodi, se non di
sconfiggere, quantomeno di marginalizzare la corruzione. Possiamo, anche in
questo caso, ragionevolmente immaginare che ci siano stati tempi in cui il
contrasto è stato più duro ed efficace (coincidenti presumibilmente con quei
momenti in cui le istituzioni pubbliche operavano con più forza e
autorevolezza) e altri nei quali, al contrario, il fenomeno veniva
maggiormente tollerato o, addirittura, in parte legalizzato.
Di questa ultima opzione abbiamo prova certa se pensiamo ad alcuni
periodi bui del passato meno recente, in cui pratiche che oggi
considereremmo certamente corruttive erano non solo considerate lecite, ma
persino, in qualche modo, promosse e incentivate. Ci riferiamo, ad esempio,
alla compravendita delle cariche pubbliche, una prassi che nei secoli XIV e
XV ha consentito a coloro che si erano arricchiti con il commercio di
accedere a funzioni che in passato erano state riservate solo agli aristocratici
di nascita.
Del resto, in una sua fase, persino la Chiesa cattolica considerò leciti
comportamenti di tal tipo, come quando consentì, dietro laute offerte,
l’acquisto delle indulgenze plenarie per evitare l’inferno e ottenere l’accesso
al paradiso, una pratica corruttiva che fu una delle principali cause del più
grande scisma della modernità: la Riforma protestante di Lutero.

1.4 La corruzione dell’era moderna: un delitto divenuto universale


Nell’attualità è possibile affermare, senza tema di smentita, che la
corruzione, insieme a pochi altri reati, è un comportamento illecito punito in
quasi tutte le legislazioni dei Paesi del mondo, ovviamente con le differenze
fisiologiche proprie dei singoli ordinamenti giuridici, e in alcuni Paesi con
pene gravissime che possono arrivare a quella capitale.
La novità dei nostri anni è l’interesse internazionale per il fenomeno,
nella coscienza di un danno che esso reca non solo alle singole società e Stati
ma anche alla comunità internazionale, un danno che va ben oltre quello
arrecato alle finanze pubbliche del singolo Paese.
È un dato che, fra l’altro, smentisce il luogo comune di una specificità
italiana in materia, come se solo noi fossimo appestati da questo male, quasi
considerati (e spesso proprio da noi stessi) antropologicamente i più corrotti.
Tutte le principali organizzazioni internazionali hanno messo al centro del
loro interesse la corruzione come reato da contrastare, al pari di altri grandi
fenomeni criminali, quali la tratta, il commercio degli stupefacenti, le
organizzazioni mafiose ecc.
Lo ha fatto per prima l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico) che ha promosso la stesura di una convenzione sulla
corruzione nelle transazioni internazionali, approvata il 17 dicembre 1997 a
Parigi, e poi ratificata da tantissimi Paesi, fra cui l’Italia (con la legge 29
settembre 2000, n. 300).
Si è poi avviato sulla stessa strada il Consiglio d’Europa che ha adottato
due convenzioni, rispettivamente il 27 gennaio e il 4 novembre 1999, che
dettano norme per il contrasto alla corruzione in campo penale e in quello
civile. Le convenzioni sono state ratificate a Strasburgo da tutti i 42 Stati che
fanno parte del Consiglio d’Europa (l’Italia le ha ratificate con le leggi 28
giugno 2012, nn. 110 e 112) e prevedono anche l’istituzione di un organismo,
il Greco (acronimo che sta per Groupe d’États contre la corruption), con il
compito di monitorare l’implementazione delle politiche anticorruzione.
Infine, il 31 ottobre 2003 a Merida (in Messico), anche l’Onu ha adottato
una convenzione divenuta nota con l’acronimo Uncac (United Nations
Convention Against Corruption), ratificata da moltissimi Stati (al momento
103) e ovviamente anche dal nostro Paese (con la legge 3 agosto 2009, n.
116).
In tutti i preamboli di questi atti viene stigmatizzata, senza mezzi termini
e con parole inequivocabili, la particolare dannosità della corruzione.
Secondo la convenzione Ocse, “il fenomeno della corruzione nelle
transazioni economiche internazionali rappresenta un ostacolo rilevante allo
sviluppo sostenibile e all’affermazione della democrazia. Il suo effetto può
essere devastante per la crescita economica provocando anche distorsioni
della libera concorrenza. La lotta alla corruzione rappresenta una delle
principali sfide per la crescita globale”.
Secondo le convenzioni di Strasburgo, “la corruzione rappresenta una
minaccia per la preminenza del diritto, la democrazia e i diritti dell’uomo, che
mina i princìpi di corretta amministrazione, di equità e di giustizia sociale,
distorce la concorrenza, ostacola lo sviluppo economico e mette a repentaglio
la stabilità delle istituzioni democratiche e le fondamenta morali della
società”.
Infine, secondo l’Uncac gli Stati parte della convenzione sono
“preoccupati della gravità dei problemi posti dalla corruzione e dalla
minaccia che essa costituisce per la stabilità e la sicurezza delle società,
minando le istituzioni e i valori democratici, i valori etici e la giustizia e
compromettendo lo sviluppo sostenibile e lo stato di diritto”.

1.5 Che cos’è la corruzione oggi


Le convenzioni internazionali, potendo far tesoro dell’elaborazione
effettuata in materia dalla legislazione di quegli Stati che da sempre
puniscono la corruzione, ne forniscono anche una definizione.
Nelle intenzioni dei promotori delle convenzioni, le indicazioni date
dovrebbero rappresentare un modello a cui tutti i Paesi aderenti dovrebbero
riferirsi, nella costruzione del reato punibile nel proprio ordinamento interno,
in modo da ottenere una tendenziale uniformità di disciplina.
La convenzione Uncac indica quali sono i caratteri strutturali
indispensabili perché vi sia ipotesi delittuosa: da un lato, il fatto “di
promettere, offrire, concedere a un pubblico ufficiale, direttamente o
indirettamente, un indebito vantaggio per se stesso o per altra persona o
entità, affinché compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle
sue funzioni ufficiali”, dall’altro lato, il fatto “per il pubblico ufficiale di
sollecitare o accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio
per se stesso o per un’altra persona o entità, affinché compia o si astenga dal
compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali” (art. 15).
In maniera molto simile il comportamento viene descritto negli articoli 2
e 3 della convenzione penale di Strasburgo, mentre nell’articolo 2 della
medesima convenzione civile si opta per una definizione nella sostanza
identica ma in una forma diversa, più sintetica e senza distinguere il
comportamento del soggetto pubblico da quello del privato (“il fatto di
sollecitare, offrire, dare o accettare, direttamente o indirettamente, una
provvigione illecita o altro indebito vantaggio, ovvero promettere tale
indebito vantaggio, in modo tale da pregiudicare il normale esercizio di una
funzione o il comportamento regolamentare di colui che beneficia della
provvigione illecita o dell’indebito vantaggio o della promessa di tale
vantaggio”).
L’articolo 1 della convenzione Ocse di Parigi, invece, invita gli Stati
aderenti a introdurre una fattispecie di reato, assente in quasi tutte le
legislazioni nazionali, la cosiddetta corruzione internazionale, per poter
punire, anche nel proprio ordinamento, i medesimi comportamenti corruttivi
posti in essere nei confronti dei pubblici ufficiali nazionali quando siano
rivolti a pubblici ufficiali stranieri.
È un’esigenza che nasce dalla considerazione del rischio sempre più alto
di corruzione nelle transazioni internazionali, soprattutto riferite agli Stati
poveri economicamente ma molto ricchi di materie prime, necessarie per le
attività industriali dei Paesi economicamente più avanzati.
Che cos’è la corruzione oggi, dunque? In primo luogo, a ben vedere la
fattispecie corruttiva finisce per essere una sorta di patto o contratto – non
dissimile dal punto di vista della struttura da un qualsiasi contratto in cui due
o più parti si accordano su prestazioni reciproche –, ma evidentemente con un
oggetto illecito (pactum sceleris), in quanto il patto in esame verte
sull’esercizio illecito di un potere pubblico e non di un diritto o una facoltà
del privato.
Questo tratto comunque pattizio o contrattuale spiega anche perché la
corruzione è un reato di non facile individuazione. Dato che entrambi i
partecipi al crimine hanno raggiunto l’obiettivo (quello che nei contratti leciti
si definisce l’idem velle), non hanno alcun interesse a far emergere l’illecita
pattuizione, anche perché entrambi sono identicamente puniti.
In secondo luogo, seppur costruita come un patto, la corruzione
presuppone però, sempre, quantomeno dal lato del pubblico funzionario, un
abuso di potere per il fine di un profitto personale; il soggetto pubblico, cioè,
strumentalizza il suo potere e la sua funzione per ottenere un vantaggio
personale per sé o per altri.
Una peculiarità, questa, che, a ben vedere, già emergeva dal sapiente
ritratto di Dante della figura dei “barattieri”.
Questa necessaria caratteristica impone alle legislazioni dei singoli Stati
di prevedere, nel proprio sistema, figure di reato che puniscano non solo la
pattuizione corruttiva ma anche quegli abusi di potere che possono essere
preparatori della successiva corruzione; in questa prospettiva la convenzione
Uncac prevede espressamente, ad esempio, la punizione dell’abuso di ufficio
(art. 19).
Il reato, così come strutturato, si caratterizza, inoltre, per una duttilità
assai utile in quanto consente di punire sia la piccola corruzione (la “mancia”
data, ad esempio, all’agente per evitare una contravvenzione al codice della
strada) sia il grande episodio di corruttela (la complessa operazione di
pagamento di tangenti occultate come provvigioni per intermediazione per
ottenere una grande commessa nazionale e internazionale), sia il singolo
evento (la corruzione occasionale) sia quella divenuta abituale in certi
contesti (la cosiddetta corruzione sistemica o ambientale).
1.6 La corruzione nella visione antropologica di papa Francesco e della
Chiesa cattolica
Se la corruzione come “reato universale” indica un contratto illecito
intercorso fra un soggetto che esercita un potere pubblico e un privato, che
presuppone comunque una strumentalizzazione di una funzione pubblica per
fini privati, la parola, forse anche per il suo carattere polisemico, viene spesso
utilizzata, anche nel dibattito pubblico, con un significato in tutto o in parte
diverso, anche quando viene associata all’idea di un comportamento illecito.
Senza alcuna pretesa di esaurire tutti i possibili utilizzi alternativi del
vocabolo, è naturale partire da come il termine viene declinato dal papa.
Di recente, a margine di un grande evento internazionale organizzato in
Vaticano sul tema (il primo della storia!), il papa ha anche fatto sapere che sta
facendo studiare agli esperti del diritto canonico la possibilità di prevedere
per il reato corruttivo la più dura delle sanzioni della religione cattolica: la
scomunica.
E ancora, in uno scritto dedicato ai giovani e al loro futuro, li ha
testualmente invitati a “non abituarsi alla corruzione, perché quello che
lasciamo oggi, domani si ripresenterà, finché ci faremo l’abitudine e anche
noi diventeremo ingranaggio indispensabile”. Non è semplice sintetizzare le
riflessioni di papa Francesco, che parla dell’argomento ormai fin dagli anni
novanta e gli ha dedicato anche uno scritto molto ispirato, con una
prospettiva filosofica e teologica che va molto al di là della ricostruzione in
termini giuridici della fattispecie.
Quando parla di corruzione, il papa si riferisce anche al funzionario
pubblico che mette in vendita la sua funzione e i suoi poteri, tanto da
qualificare l’utile che gliene deriva con un’espressione molto felice: “pane
sporco”.
Ma il suo approccio al tema appare soprattutto di tipo antropologico,
attento, più che al fenomeno in sé, nella logica di pastore delle anime,
all’uomo corrotto.
L’essere umano ha una relazione con Dio, con il suo prossimo, con il
creato, con l’ambiente in cui vive; se rispetta queste relazioni è onesto, e si
assume responsabilità con rettitudine di cuore per il bene comune; se invece
subisce una caduta, cioè si corrompe, queste relazioni si lacerano e, come
conseguenza della caduta, deriva una condotta antisociale, tanto forte da
sciogliere la validità dei rapporti e quindi i pilastri su cui si fonda una società.
La corruzione spezza la coesistenza fra persone e la vocazione a
svilupparla sostituendo il bene comune con un interesse particolare che
contamina ogni prospettiva generale.
In questa innovativa chiave di lettura si valorizza anche una diversa e mai
evidenziata chiave etimologica della parola. Il corrotto è soggetto dal cor
ruptum, dal cuore rotto, infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un
corpo che in natura entra in un processo di decomposizione ed emana cattivo
odore.
Il corrotto non può poi essere perdonato perché non chiede perdono; non
ha necessità di andare oltre, di cercare piste al di là di se stesso; è stanco,
sazio e pieno di sé, in quanto la corruzione ha alla sua origine una stanchezza
della trascendenza, come l’indifferenza. Si tratta di riflessioni profonde che
vanno ben oltre quello che può essere il nostro limitato campo di indagine e
che tendono a preoccuparsi della corruzione dell’uomo in sé, anche se non
svolge funzioni in alcun modo connesse al potere pubblico.
L’interesse del papa si concentra, in questa prospettiva, anche sulle
deviazioni di chi con i paramenti sacerdotali rappresenta la Chiesa e
amministra i sacramenti (la cosiddetta corruzione religiosa), tanto da dar
luogo a un fenomeno di vera “corrosione” del sistema, parola quest’ultima
utilizzata come sinonimo di quella di nostro interesse, da uno dei cardinali
che più sta studiando e approfondendo le parole papali in materia.

1.7 La corruzione istituzionale


Nei dibattiti pubblici, che si sviluppano sui media tradizionali e su quelli
di ultima generazione, ascoltando gli opinionisti più o meno esperti in
materia si coglie immediatamente che la parola corruzione è utilizzata con un
significato molto più ampio (e generico) di quello che stiamo delineando.
Si cita quel termine ma in realtà ci si riferisce a una vasta e variegata serie
di comportamenti non corretti e dannosi per lo Stato e le istituzioni
pubbliche, che comprendono, a titolo puramente esemplificativo, l’evasione
fiscale, le truffe e tutti quei raggiri posti in essere ai danni della comunità
pubblica, come i comportamenti dei cosiddetti furbetti del cartellino.
Questa impostazione ha una sua ragion d’essere poiché l’illegalità diffusa
costituisce l’humus ideale al verificarsi dei fatti di corruzione vera e propria.
In un contesto caratterizzato dal sistematico mancato rispetto delle regole,
sarà persino naturale che un privato pensi di ottenere un provvedimento
pubblico o un comportamento a lui favorevole dando o promettendo qualcosa
al suo interlocutore istituzionale.
Una visione di questo genere confonde sul piano metodologico cause ed
effetti e soprattutto fa rientrare il fenomeno corruzione, dai tratti ormai ben
delineati anche a livello internazionale, in un coacervo di più generiche e
distinte illegalità che, per loro eterogeneità, risultano difficili da contrastare
con strategie mirate. Analoga ma molto più profonda e fondata è l’analisi di
quegli studiosi con un approccio sociologico ed economico, che spostano il
fuoco dell’attenzione dal comportamento illecito del singolo pubblico
dipendente a quello più ampio che concerne il più vasto contesto sociale.
In questa prospettiva, in contrapposizione alla corruzione-reato, o
soggettiva, si parla di corruzione istituzionale, o oggettiva, che, a prescindere
da comportamenti di singoli, si manifesta come una degenerazione del
sistema delle istituzioni pubbliche.
A questa ipotesi può essere ricondotta anche quella che gli economisti
definiscono come la “cattura” dei governanti e dei regolatori da parte dei
governati e dei regolati, attraverso fenomeni di lobbismo non disciplinato
dalle norme o attraverso l’influenza rilevante di gruppi imprenditoriali forti
sulle attività amministrative e legislative, fatti che di per sé potrebbero anche
non costituire reato.
La corruzione istituzionale si caratterizza sia con un grave disordine
normativo – ovvero con il moltiplicarsi di leggi e norme di difficile non solo
lettura ma anche reperimento (tanto da riecheggiare il famoso detto di Tacito,
corruptissima re publica plurimae leges) – sia attraverso leggi che finiscono
per favorire la corruzione (si è coniata, riprendendola dal titolo di un famoso
libro che si occupava della vicenda del Mose di Venezia, la felice espressione
“corruzione in nome della legge”).
Anche la corruzione istituzionale, però, più che una forma ulteriore di
corruzione, rappresenta uno dei suoi principali fattori di diffusione.

1.8 La corruzione amministrativa, come maladministration


Con l’entrata in vigore delle norme in materia di prevenzione della
corruzione, numerosi e autorevoli studiosi hanno delineato una nozione di
corruzione amministrativa, più estesa di quella “penale”, riconducibile in
sostanza alla maladministration.
Traccia di questa nuova ipotesi di corruzione si ritroverebbe in quelle
norme che, ad esempio, affermano che si può parlare di corruzione anche a
fronte di “situazioni rilevanti più ampie della fattispecie penalistica”, che
comprendono “non solo l’intera gamma dei delitti contro la pubblica
amministrazione”, ma anche le situazioni in cui “a prescindere dalla rilevanza
penale venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione a causa
dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite” (ecco la definizione di
maladministration).
La nuova legislazione, in verità, non introduce una nuova nozione di
corruzione, concetto il cui significato resta saldamente ancorato alla già più
volte richiamata definizione penalistica di scambio fra atti e/o funzioni con
una utilità, ma modifica l’approccio complessivo, perché amplia il campo di
intervento: se prima era circoscritto a sanzionare specifiche condotte
individuali, ora è rivolto a questioni preliminari, aspetti organizzativi,
regolazione e procedimentalizzazione di specifiche attività e così via.
Questo “ampliamento” è frutto della diversa logica della prevenzione
rispetto alla repressione: un mutamento di prospettiva in virtù del quale
diventano rilevanti situazioni in cui il rischio è meramente potenziale, il
conflitto di interesse “apparente”, ma in presenza delle quali è necessario
porre in essere misure di “allontanamento” dal rischio, con scelte che talvolta
prescindono dalle condotte individuali.
Il nuovo sistema, proprio perché interessato a prevenire e non a
sanzionare, mira a intervenire anche su ciò che “può accadere” e non guarda
(solo) a ciò che è accaduto, si rivolge all’organizzazione e non solo
all’azione: il focus si sposta dalla patologia dell’illecito alla presenza di un
rischio, e la strategia di contrasto si rivolge ai conflitti di interesse, da evitare,
conoscere, controllare, mettere in trasparenza.
E in questa funzione (e solo in questa) tale nozione, pur non creando una
nuova ipotesi di corruzione, conserva una sua validità.

1.9 Dalla corruzione all’“anticorruzione”


La corruzione è diventata un reato universale e potremmo persino
azzardare a dire espressione di una sorta di diritto naturale, riconosciuto in
tutto il pianeta. L’obiettivo di tale riconoscimento, perseguito con grande
intensità da parte delle organizzazioni internazionali, non è ovviamente fine a
se stesso; lo scopo ultimo, molto più ambizioso, è di provare a individuare
una strategia il più possibile universale di contrasto. Riconosciuta
l’indiscussa gravità e dannosità del male, bisogna poi lavorare per individuare
rimedi ugualmente indiscussi e, se possibile, allo stesso modo universalmente
riconosciuti e riconoscibili.
L’obiettivo, in astratto da nessuno messo in discussione, in concreto è
molto più difficile da declinare, come ha dimostrato la lettura delle
convenzioni internazionali.
Precise nell’individuazione di quali debbano essere i fatti perseguibili e
allo stesso modo della necessità che siano puniti con norme penali adeguate
ed efficaci, restano, invece, non poco generiche quando si tratta di indicare
strategie di contrasto diverse da quelle tradizionali di tipo repressivo, e cioè
quelle di tipo preventivo, perché non esistono modelli generalmente condivisi
e perché, interferendo le politiche dell’anticorruzione con le scelte politiche
di fondo dei singoli Paesi, prevalgono le specificità sui momenti di più ampia
condivisione.
Basti qui citare le previsioni della più importante delle già citate
convenzioni, quella Uncac che dedica un intero capitolo (il secondo) alle
misure preventive, senza però riuscire a dire molto su quali debbano essere
previste, preoccupandosi, di fatto, più dei fini che non dei mezzi.
Il primo paragrafo dell’articolo che apre il capitolo dimostra quanto si è
assunto, stabilendo testualmente che “Ciascuno Stato […] elabora o applica,
conformemente ai princìpi fondamentali del proprio sistema giuridico, delle
politiche di prevenzione della corruzione efficaci e coordinate che
favoriscano la partecipazione della società e rispecchino i princìpi di stato di
diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità,
di trasparenza e di responsabilità” (art. 5).
Nelle altre norme che fanno parte del capitolo si resta sostanzialmente sul
generico prevedendo la creazione di un organismo deputato a occuparsi della
prevenzione (art. 6), della necessità di adottare pratiche trasparenti sul
reclutamento dei dipendenti (art. 7), dell’opportunità di adottare codici di
condotta per i pubblici ufficiali (art. 8), dell’esigenza di procedure chiare e
trasparenti per gli appalti pubblici e la gestione delle finanze pubbliche (art.
9), della necessità di adottare criteri di trasparenza nella gestione delle attività
(art. 10), del bisogno di prevedere norme che consentano il coinvolgimento
del settore privato nelle strategie anticorruzione (art. 11) e dell’opportunità di
favorire la partecipazione attiva della società civile.
Saranno quindi i singoli Stati a dover individuare quale sia la migliore
strategia preventiva e lo faranno tenendo conto delle specificità ordinamentali
e giuridiche dei singoli. In questa ampia facoltà di scelta delle modalità (di
quello che i giuristi definiscono il quomodo), in Italia le difficoltà
nell’individuare i rimedi dipendono anche dalla criticità nel definire una
nozione per tutti condivisibile di corruzione.
Solo nel 2012, nell’ambito di una legislatura caratterizzata
dall’emergenza economica e con un governo tecnico considerato di salute
nazionale, si è individuata una prima strategia di prevenzione della
corruzione che, non avendo un modello internazionale generalmente
condiviso, ha peculiarità e specificità tali da essere ormai riconoscibile, anche
a livello internazionale, come “modello italiano”.
L’idea su cui tanto si dirà nelle pagine che seguono è di una strategia che
ponga al centro dell’attenzione l’amministrazione, individuando nuovi attori
dell’anticorruzione che si aggiungono all’attore principale da sempre in
campo in materia, e cioè l’autorità giudiziaria.
2.
Quanta corruzione c’è e come misurarla

2.1 La misurazione della corruzione fra analisi sommarie e leggende


metropolitane
Qual è la dimensione del fenomeno corruzione in Italia? Nel dibattito
pubblico vengono riportati dati tra loro molto diversi, che paiono a volte
“drammatizzare” il quadro mentre altre volte sono ottimistici, quasi
assolutori.
Questa variabilità di opinioni riflette la difficoltà della quantificazione,
innanzitutto perché c’è un’elevata “cifra oscura” (la differenza, cioè, tra la
corruzione emersa e quella che resta sommersa). Così come è difficile capire
se c’è stata corruzione, è altrettanto difficile “misurarla”.
La consistenza stessa del “danno” da corruzione non è semplice da
valutare, e le stime appaiono spesso approssimative: è diffusa l’idea che la
corruzione in Italia abbia un “costo” di 60 miliardi di euro annui, una stima
che però, per quanto ricorrente in vari documenti ufficiali, è frutto di una
valutazione troppo sommaria per essere affidabile.
La storia di questo numero è solo in parte nota: nasce da un’analisi della
World Bank, che quantificava a livello mondiale il valore del costo delle
tangenti nel 3% del Pil. Nel 2010, nel suo discorso pubblico in occasione
dell’inaugurazione dell’Accademia internazionale anticorruzione, il
segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon “consolidò” il dato a livello
globale, individuando in 1000 miliardi il costo mondiale della corruzione.
Proiettando questa percentuale sul Pil del nostro Paese, si è giunti alla
stima di 60 miliardi che, già citata, sia pure in forma dubitativa, nel rapporto
2009 dell’ufficio allora incaricato di seguire le politiche anticorruzione (il
Saet, il Servizio anticorruzione e trasparenza) è stata poi, come una sorta di
leggenda metropolitana, veicolata in interventi istituzionali, dai vertici della
Corte dei Conti e da esponenti del mondo politico e istituzionale.
Da allora, quasi carsicamente, i 60 miliardi ritornano nel dibattito
politico: una cifra “mitica” utile per immaginare tagli di spesa pubblica cui
attingere per politiche di sviluppo. Si tratta però, in ogni caso, di un ipotetico
“Pil” della corruzione, che non è possibile tradurre in termini di spesa (per
fare un esempio, non raccoglie solo i maggiori costi di un’opera pubblica, ma
anche la “mazzetta” per ammorbidire un controllo in campo ambientale, o per
favorire un trattamento sanitario anticipato, e così via).
Spesso poi ci si chiede se l’Italia sia davvero un Paese molto corrotto, o
se si tratti di un luogo comune. È senz’altro vero che la storia italiana, anche
recente, è attraversata da numerosi episodi di corruzione – grande (basti
pensare a inchieste come Mafia Capitale, Expo, Mose) e piccola (ne è piena
la cronaca locale, ad esempio il recente scandalo marchigiano relativo alle
assunzioni in Sanità) –, ma è anche vero che la presenza di indagini
giudiziarie indipendenti ha permesso di portarla alla luce, come sicuramente
non avviene in Paesi meno liberi del nostro.
Gli scandali che interessano la politica e la burocrazia vengono disvelati
dalla magistratura ma poi resi di pubblico dominio dalla stampa, in un
circuito a volte non privo di effetti distorsivi (basti pensare al differente
risalto che determinati giornali danno alle notizie che riguardano personaggi
pubblici di diverso orientamento politico). Eppure, comprendere l’effettiva
consistenza della corruzione sarebbe molto importante perché non solo
consentirebbe di capire, al di là di ogni possibile strumentalizzazione, quanto
come Paese siamo effettivamente corrotti, ma anche di avere contezza
effettiva di dove essa si annida e come si manifesta, per poter poi sviluppare
strategie mirate di contrasto e prevenzione.

2.2 La difficoltà di quantificare la corruzione


La corruzione così come l’abbiamo intesa e definita è un reato e come
tale dovrebbe poter essere misurata attraverso le cosiddette statistiche
giudiziarie. Esistono, infatti, dati che vengono normalmente diffusi su quanti
furti d’auto, rapine, omicidi, aggressioni ci sono stati in un certo periodo, in
un determinato contesto territoriale e con quali modalità.
Queste informazioni provengono soprattutto dalle denunce presentate dai
cittadini e/o dalle indagini delle forze di polizia. I dati in questione, attraverso
una banale operazione aritmetica, vengono conteggiati così da ottenere un
quadro sostanzialmente attendibile, con un limitato scostamento fisiologico,
riferito ai reati che non sono denunciati e che quindi non emergono dalle
indagini.
Questo metodo, molto elementare ma difficilmente contestabile, non si
può però applicare utilmente alla corruzione perché, se nei reati sopra indicati
vi è una vittima che ha interesse a presentare denuncia, nel delitto di cui ci
occupiamo manca una vittima (o, meglio, la vittima è lo Stato e le istituzioni
pubbliche) ed esso è strutturato come un contratto illecito (il cosiddetto
pactum sceleris).
I partecipi del patto non hanno (quasi mai) interesse a denunciarlo perché,
essendo entrambi punibili, la denuncia si trasformerebbe nella confessione di
un reato; è, inoltre, oltremodo difficile che possano essere altri a denunciare
una mazzetta; l’esperienza consolidata dimostra che quasi mai degli estranei
vengono messi a conoscenza di fatti di corruzione e comunque non è detto
che gli eventuali terzi a conoscenza, non essendo vittime del reato, abbiano
interesse a farlo. La quantificazione della corruzione a mezzo denunce si
rivelerebbe, in conclusione, decisamente inidonea a fornire un quadro
attendibile sui numeri reali.
L’assenza di denunce ovviamente non significa che non vi siano processi
(e condanne) per corruzione; anzi, nel nostro Paese, in cui vi è una
magistratura indipendente ed efficiente, sono frequenti le indagini per tale
delitto che coinvolgono, anche, esponenti di vertice dell’amministrazione
burocratica e politica.
Le indagini, però, come tante volte hanno spiegato magistrati inquirenti
ed esponenti della polizia giudiziaria, non nascono quasi mai da denunce per
corruzione e quasi sempre, invece, rappresentano un’evoluzione, anche
casuale, di investigazioni nate ad altri fini e con altri obiettivi.
Ovviamente, le condanne irrevocabili per fatti di corruzione
rappresentano un dato quantitativo indiscutibile (l’unico oggettivamente
certo) sulle corruzioni verificatesi nel Paese. Sennonché, le sentenze di
condanna restituiscono un quadro decisamente in controtendenza rispetto
all’idea di un Paese corrotto.
Aprendo l’anno giudiziario 2017, l’allora primo presidente della
Cassazione Giovanni Canzio, nel fornire i numeri dei processi dell’anno
precedente, ha riferito che quelli per corruzione giunti all’esame della
Cassazione erano appena lo 0,5% del totale. Ha aggiunto, però, nella sua
ampia e documentata relazione, che quella percentuale non era attendibile
come espressione della corruzione effettiva.
A questi dati, che qualcuno definisce di “corruzione reale”, fanno
riferimento coloro che negano che il nostro sia un Paese più corrotto di altri.
Di recente li ha utilizzati, ad esempio, a questo fine, il noto e autorevole
editorialista del “Corriere della Sera” Angelo Panebianco, e a questi dati
facevano riferimento i due rapporti del Saet inviati al parlamento del 2009 e
del 2010 (e ancora reperibili sul sito del parlamento), in cui si giungeva alla
conclusione “della complessiva integrità ‘del sistema’ PA [italiana],
diversamente da quanto affermato da qualche ‘professore della questione
morale’”.
Un’affermazione non solo troppo ottimistica ma anche troppo severa nei
confronti di chi (per fortuna) denuncia l’esistenza della corruzione!

2.3 Perché i dati giudiziari sono poco significativi


L’autorevole considerazione dell’allora primo presidente della Corte di
Cassazione circa l’inidoneità dei dati giudiziari per misurare l’effettiva
corruzione è condivisa dalla quasi totalità degli addetti ai lavori ed è
soprattutto corroborata da una serie di argomenti.
Una prima considerazione riguarda lo iato che esiste, per quasi tutti i
reati, fra quelli commessi e quelli giudiziariamente accertati.
Se, ad esempio, volessimo sapere quanti sono i furti d’auto nel nostro
Paese e ci limitassimo alle sentenze di condanna, penseremmo che si tratti di
un reato inesistente o di fatto debellato; è noto, infatti, che gli autori scoperti
di questo delitto sono un’infinitesima percentuale di quelli reali.
Se in materia abbiamo dati attendibili, è perché possiamo contare sulle
denunce, anche quando i relativi processi penali si chiudono (come quasi
sempre accade) con un’archiviazione in quanto gli autori del reato sono
ignoti.
Si è già detto, però, che in materia di corruzione non vi sono numeri di
denunce attendibili e comunque è ancora più difficile, come avviene per i
furti, che le denunce possano riferirsi a soggetti non identificati; non vi è, in
conclusione, un numero di denunce che, aggiungendosi alle condanne, possa
consentire di individuare un dato attendibile. D’altro canto, le stesse sentenze
di condanna per corruzione dimostrano inequivocabilmente la loro intrinseca
inattendibilità a fornire un quadro affidabile dei numeri.
Le indagini giudiziarie che poi sfociano nelle sentenze fanno spesso
venire alla luce, una volta avviate, vicende corruttive che si sono snodate nel
corso di tanti anni.
A titolo esemplificativo, le indagini che hanno riguardato il Comune di
Roma, divenute famose come quelle di Mafia Capitale, hanno consentito di
accertare che il gruppo criminale individuato (non interessa, ai nostri fini,
verificare se sia mafioso o meno) aveva da molto tempo monopolizzato un
settore dei pubblici appalti, connessi ai servizi sociali da parecchi anni,
pagando tangenti o stipendiando funzionari pubblici.
Allo stesso modo, le indagini sul Mose di Venezia hanno fatto emergere
tangenti pagate da anni, in qualche caso versate sotto forma di emolumenti
periodici, come se si trattasse di veri e propri stipendi. Eppure, quei reati non
erano emersi fino alle indagini giudiziarie; erano occultati, così come lo sono
potenzialmente tutti quelli per i quali non saranno avviate delle indagini.
Le stesse statistiche giudiziarie, del resto, finiscono per essere la riprova
dell’insufficienza del valore probante delle sentenze di condanna.
Un interessante ed esaustivo studio, condotto dal giudice Piercamillo
Davigo (uno dei magistrati simbolo di Mani pulite) e dalla professoressa
Grazia Mannozzi, ha messo a confronto le notizie di reato per fatti corruttivi,
relativamente agli anni 1983-2002, individuando tre periodi: il primo, fra il
1983 e il 1991, in cui le notizie di reato (a livello nazionale) erano davvero
scarse, fra le 300 e le 500 (e di poco superiori sono i numeri delle persone
denunciate); il secondo, dal 1992 al 1996, in cui crescono significativamente,
raddoppiando o triplicando, e soprattutto aumentano le persone denunciate
(che vanno dai circa 1000 del 1992 ai quasi 3000 del 1994 e 1995 e circa
2000 nel 1996); il terzo, dal 1997 al 2002, in cui le notizie di reato
diminuiscono di nuovo (poco sopra le 600), sebbene restino numerose le
persone denunciate.
Il periodo 1992-1996 coincide con Mani pulite, periodo in cui, secondo
tutti gli analisti, non si registrò tanto un’impennata improvvisa dei fatti
illeciti, quanto una maggiore capacità di portare alla luce i fatti corruttivi.
Lo studio esamina poi anche le condanne, con un approccio che consente
un effettivo paragone; verifica, cioè, i fatti di corruzione commessi dal 1983
al 2002 per i quali è intervenuta sentenza definitiva, in relazione al luogo del
commesso reato e in rapporto soprattutto alla popolazione residente nei 26
distretti di Corte d’Appello del Paese, individuando il tasso di condanne per
100.000 abitanti.
Il risultato è sorprendente (solo per i non addetti ai lavori): in soli quattro
distretti è superato, per l’intero ventennio, il numero di 10 condannati su
100.000 abitanti (in particolare Lecce, Milano, Torino e Napoli), il che
comporta, comunque, un tasso di condanne annuo per 100.000 abitanti di per
sé insignificante. I dati di tutti gli altri distretti sono inferiori, con tre distretti
(Cagliari, Caltanissetta e Reggio Calabria) addirittura al di sotto di una sola
condanna, in vent’anni, per 100.000 abitanti.
Ora, a meno di non voler ritenere che in alcune zone del Paese hanno
individuato antidoti magici contro la corruzione, è evidente che le sentenze di
condanna dipendono da troppe variabili e non consentono quindi di
fotografare con attendibilità il fenomeno.

2.4 La quantificazione attraverso la percezione della corruzione


I limiti dei dati giudiziari giustificano l’esigenza di ricorrere a un diverso
percorso per capire la dimensione e l’incidenza dei reati di corruzione.
L’indice più spesso utilizzato quando si cerca di “quantificare” la
corruzione presente in un Paese è quello di “corruzione percepita”, noto con
l’acronimo Cpi (Corruption Perception Index), elaborato da un’importante
associazione non governativa: Transparency International.
Questo indice internazionale riscuote grande successo a livello mediatico
e dal 1995 rende pubblica ogni anno una classifica della corruzione
‘‘percepita’’ in tutto il mondo, nella quale l’Italia non occupa mai posizioni
confortanti, tanto da dar fiato a quelle voci che abbiamo definito come
“drammatizzanti”.
Gli Stati vengono classificati sulla base dei dati che emergono da indagini
realizzate intervistando interlocutori qualificati come, ad esempio, esperti e
operatori economici, oltre che comuni cittadini. I sistemi utilizzati per la
rilevazione, malgrado resti riservato il campione degli intervistati, vengono
considerati attendibili soprattutto perché divenuti con gli anni molto rodati.
Il “sondaggio”, in estrema semplificazione, funziona così: si chiede al
campione intervistato se pensa che il suo Paese sia corrotto e in base alle
risposte viene individuato il punteggio; quasi sempre agli intervistati viene
anche chiesto se hanno avuto conoscenza diretta (per motivi personali o per
quanto riferito da terzi) di fatti di corruzione e anche coloro che ritengono il
Paese molto corrotto non sono quasi mai in grado di indicare vicende
effettive di corruzione.
Nel 2017, alla Nuova Zelanda è spettato il primo posto come nazione
meno corrotta, con un punteggio di 89 e alla Somalia il centottantesimo,
ultimo tra i Paesi analizzati, con un punteggio di 12.
L’Italia occupa la cinquantaquattresima posizione (alle sue spalle solo
sette Stati europei: Slovacchia, Croazia, Grecia, Romania, Montenegro,
Ungheria e Bulgaria); dopo un peggioramento progressivo (passando dalla
trentesima posizione del 1997 alla sessantanovesima nel 2014, che
significava l’ultimo posto in Europa), nell’ultimo triennio ha guadagnato ben
quindici posizioni.
Un miglioramento, questo, frutto forse dell’impatto che hanno avuto le
misure di prevenzione della corruzione, ma anche riforme importanti, e
percepite come tali, nell’ottica del contrasto del malaffare (in materia di
trasparenza, whistleblowing, sequestro dei beni dei corrotti ecc.). Una serie di
interventi che hanno dato la “percezione” di una politica anticorruzione in
azione e destinata a impattare sul fenomeno corruttivo.
Come c’è, in sostanza, una corruzione percepita che non coincide
esattamente con quella effettiva, c’è un’anticorruzione percepita: la
credibilità delle politiche di prevenzione e delle organizzazioni chiamate a
realizzarle è già un elemento significativo nel contrastare la corruzione.
Questo indicatore non è solo quello più noto in Italia, ma anche il più
utilizzato a livello internazionale: di fatto, ci sono numerosi indicatori volti a
“misurare” la corruzione, ma è come se ce ne fosse uno solo (appunto il Cpi),
dato che è l’unico che entra nel dibattito pubblico ed è quello a cui più di tutti
fanno riferimento gli operatori economici.
Percezione o meno che vi sia, l’effetto è dunque terribilmente reale: la
corruzione non è solo un male, ma è anche un costo. È dunque naturale che,
nelle strategie di investimento, le imprese guardino anche ai costi occulti in
cui incorreranno se decidono di operare in un certo Paese: se in Paesi in via di
sviluppo il costo-corruzione può essere ampiamente compensato dai costi
molto bassi del lavoro o da altri fattori, ciò evidentemente non accade per un
Paese industrializzato come l’Italia. Se dovessimo quantificare il costo
complessivo della corruzione, dovremmo mettere nel conto anche i mancati
investimenti (in primis quelli esteri) e quindi l’effetto “deterrente” della
corruzione rispetto alle dinamiche di sviluppo, e non solo i costi direttamente
legati all’aumento della spesa pubblica.
Il problema della “percezione” è che, da un lato, non si può prescindere
da indicatori sintetici, efficaci, utili per una comparazione tra i diversi Paesi,
come il Cpi, dall’altro, va preso atto della sua oggettiva e fisiologica
imprecisione: la percezione è qualcosa di soggettivo, che dipende – oltre che
dal campione scelto per effettuare il “sondaggio” – anche dal risalto che viene
dato a scandali che interessano amministrazione e politica.
C’è un rapporto che rischia di essere perverso tra scandali, tam tam
mediatico, capacità di soffiare sul fuoco dell’indignazione popolare e
corruzione percepita: un circolo vizioso che bisognerebbe interrompere,
utilizzando dati più obiettivi.
Pur con questi limiti, non è corretto il tentativo di sminuire o persino
annullare il valore del ‘‘sondaggio’’ di Transparency. A parte il fatto che si
tratta di un’attività ormai rodata da decenni, di condiviso utilizzo a livello
internazionale, è rappresentativa di un aspetto da non sottovalutare anche ai
fini del nostro discorso: l’indice fotografa, infatti, il grado di fiducia dei
cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche. E la fiducia nelle istituzioni
contribuisce a porre le premesse per eventuali dinamiche di corruzione.
Ma soprattutto, pur trattandosi di un indice soggettivo, esso trova
numerose conferme da altri dati e indicatori. Ad esempio, l’andamento
dell’indice di corruzione riflette in modo impressionante l’indice di crescita
dei diversi Paesi, come ha riscontrato l’economista Paul Ormerod
analizzando i dati disponibili relativi al tasso di crescita e confrontandoli con
quelli desumibili dal Cpi di Transparency International.

2.5 Gli altri modi per misurare la corruzione


Nello scenario internazionale per la misurazione della corruzione ci si
basa anche su altri criteri che non utilizzano direttamente dati numerici ma
indicatori, distinti a loro volta in soggettivi (sempre basati sulla percezione, e
quindi su interviste a interlocutori più o meno qualificati, ma per questi vale
quanto detto per l’indice Cpi) e oggettivi.
Gli indicatori oggettivi sono numerosi e di varia tipologia: sono oggettive
le misurazioni frutto di indagini statistiche volte a far emergere dirette
esperienze di corruzione (le cosiddette statistiche di “vittimizzazione”, utili a
comprendere quante vittime di reato vi siano anche al di là dei soli dati
giudiziari, un’indagine tipica di reati per i quali le denunce sono
percentualmente ridotte rispetto ai casi, come avviene per esempio per molti
reati a sfondo sessuale), così come lo sono gli indicatori che possiamo
ricavare dal raffronto tra costi sostenuti e opere pubbliche realizzate.
Quanto alle statistiche, l’Istat ha introdotto per la prima volta,
nell’indagine sulla sicurezza dei cittadini 2015-2016, una serie di quesiti sulla
corruzione da cui emergono informazioni molto utili per comprendere il
fenomeno e non solo per valutare in termini assoluti il numero. In base ai dati
raccolti con tecniche che usano un campione molto esteso, nel rapporto del
2017 si arriva a stimare che, nel corso della vita, il 7,9% delle famiglie sia
stato direttamente coinvolto in eventi corruttivi.
I dati sono molto dettagliati sia su base territoriale, sia su modalità e
dinamiche della corruzione e confermano quella grande variabilità di
situazioni tra zone del Paese già emersa in un’altra importante indagine che
aveva combinato campionamento statistico e indicatori di percezione
realizzata dall’Università di Goteborg per l’Unione europea.
L’indicatore complessivo (7,9%) è frutto infatti di situazioni come quella
del Lazio, dove si ha il risultato peggiore (17,9%) e quella, la migliore, della
Provincia autonoma di Trento (2%).
La situazione è molto diversificata anche in base agli ambiti (ad esempio
quello lavorativo, per l’accesso o le dinamiche di carriera
nell’amministrazione, dove il dato è particolarmente alto) o ai settori: è
diffusa la corruzione in ambito sanitario o per l’accesso ai benefici
assistenziali e ai sussidi pubblici; emergono dinamiche che sono purtroppo
note, come la richiesta (molto elevata in Puglia, Basilicata, Sicilia e Lazio) di
effettuare una visita privata prima del trattamento nella struttura pubblica.
Una corruzione, questa, particolarmente insidiosa anche perché a subirla
sono persone in situazione di disagio e povertà: la corruzione è tutt’uno con
quegli ostacoli all’uguaglianza che la Repubblica avrebbe il compito di
rimuovere.
L’analisi statistica è preziosa anche se corre il rischio (per quanto si possa
sempre cercare di correggere alcune distorsioni con tecniche statistiche) che
gli intervistati possano essere “omertosi” o omissivi ed è un un’analisi molto
costosa che si presta male a comparazioni tra periodi (a meno che le indagini
non siano continue e sulla base di criteri costanti) e soprattutto tra Paesi.
Un approccio diverso, e non meno utile, è quello degli indicatori
“indiretti”.
Un esempio intuitivo: se rifare una soletta di asfalto ha un certo costo
“per chilometro”, data la spesa dovremmo disporre di un determinato
quantitativo di nuovo asfalto; il fatto che a parità di costo la realizzazione sia
inferiore può nascondere dei “costi occulti”, e quindi la corruzione. In questo
caso l’indicatore è oggettivo, in quanto basato su dati indiscussi, ma è
comunque indiretto (in statistica si parla di “proxi”) anche se efficace;
nessuno può “vedere” il vento, ma anche se la finestra è chiusa capiamo se il
vento c’è guardando se le chiome degli alberi si muovono.
Il problema delle “proxi” è che non osservano direttamente il fenomeno e
quindi il valore non è assoluto, per quanto esistano tecniche statistiche per
irrobustirlo (tanto più quanti più parametri diversi riusciamo a mettere in
relazione); il costo apparentemente adeguato può essere, ad esempio, frutto di
una strategia di elusione dei controlli, data dal ridurre lo spessore della soletta
di asfalto (che poi durerà molto poco) rispetto a quanto previsto; d’altra parte
un costo apparentemente sproporzionato può avere motivazioni fondate
(pensiamo al diverso costo dell’asfalto capace di resistere a temperature
elevate).
Interessante in questa prospettiva è lo studio di uno dei maggiori esperti
in materia, Alberto Vannucci, secondo il quale il costo di una serie di lavori
pubblici, nel momento in cui le inchieste sono al loro apice (come durante il
periodo di Mani pulite) e quindi il rischio collegato alla corruzione è alto, si
abbassa radicalmente, anche nell’ordine del 40%, per poi risalire
progressivamente.
Da qui l’idea di alcuni autori, a partire dallo stesso Vannucci, secondo cui
il costo reale della corruzione potrebbe a ben vedere essere ancora superiore a
quella cifra apparentemente esagerata (i 60 miliardi annui) di cui si è detto
prima.

2.6 Quali “misurazioni” servono davvero


Misurare la corruzione non solo è utile a capire se e quanto siamo corrotti
e ad attribuire la vittoria nel derby fra catastrofisti e negazionisti ma serve
anche (e soprattutto) a direzionare le strategie di contrasto. Del resto, è molto
più complesso fare battaglie al buio contro un nemico così difficile da
afferrare, per cui è necessaria una conoscenza profonda dei fenomeni. Non ci
basta sapere che la popolazione è ammalata, abbiamo bisogno di capire di
quale malattia, per sviluppare le adeguate terapie di cura.
Ecco che allora l’indice di Transparency diventa doppiamente
inappagante: oltre a scontare i difetti propri della “percezione” risulta poco
utile, proprio per quei caratteri che ne costituiscono i punti di forza, a partire
dall’essere così sintetico.
Si rivelano molto più utili gli altri strumenti di misurazione: le indagini
statistiche aiutano a guidare le strategie di prevenzione, indicando le aree
geografiche, i settori con maggiore corruzione, le dinamiche del fenomeno.
Nella predisposizione dei piani di prevenzione ciò può essere decisivo: la
ricorrenza di certe criticità in sanità, ad esempio, giustifica una particolare
attenzione al settore e alle sue specificità nel Piano nazionale anticorruzione.
I dati sarebbero, peraltro, indispensabili anche alla politica poiché a lei
spetta individuare le risposte di sistema che toccano questioni e opzioni
politiche di fondo; per fare un esempio: definire regimi di “esclusiva” per i
medici che operano nella sanità pubblica, regolare adeguatamente il regime
dell’intra moenia e così via, per evitare che la dinamica corrotta sia di fatto
istituzionalizzata. I dati realmente utili per le politiche di prevenzione non
sono tanto quelli che consentono di “misurare” il fenomeno quanto quelli
capaci di allertare rispetto alla presenza di “rischi”.
Su questi sta, ad esempio, lavorando l’Autorità nazionale anticorruzione
(Anac), adottando un approccio molto diffuso che funziona essenzialmente
come l’accensione di una spia di allarme (le cosiddette “red flags”),
paragonabile alle spie del cruscotto di un’automobile, utili sia a chi guida e
cioè a chi governa l’amministrazione, sia ai meccanici, cioè ai controllori,
come strumento per direzionare l’attività.
Un meccanismo non molto diverso dall’“antiriciclaggio” del settore
bancario: se si fanno transazioni in contanti al di sopra di un certo importo, il
sistema bancario accende delle spie. Anche se l’operazione non viene
impedita, il movimento di denaro sarà “attenzionato” e si potrà intervenire
con controlli mirati.
Altri sistemi di controllo e “alert” automatici funzionano allo stesso modo
come, ad esempio, in materia di contrasto del terrorismo, delle frodi
nell’utilizzo dei fondi europei e così via.
Quanto più si dispone di banche dati e sistemi informatici interconnessi,
tanto più diventa relativamente facile costruire meccanismi più o meno
semplici, ma comunque automatici, di alert, cui possono seguire le adeguate
risposte ed eventualmente si possono elaborare algoritmi in grado di profilare
in modo più sofisticato le diverse situazioni di rischio. In alcune esperienze di
altri Paesi troviamo “red flags” espressamente rivolte a svelare situazioni di
conflitto di interesse: proprietà azionarie proprie e di parenti o congiunti,
attività svolte al di fuori del servizio e così via, possono essere tracciate
rivelando situazioni di rischio.
In Italia una strategia del genere è stata avviata dall’Anac nel campo dei
contratti pubblici, partendo da una serie di comportamenti anomali, come ad
esempio la tendenza a ricorrere ad affidamenti di appalti con procedure meno
garantite o in via diretta.
La riprova della bontà della strategia è venuta dalla constatazione che
queste anomalie sono state poi riscontrate in uffici coinvolti in indagini per
corruzione; gli uffici del Comune di Roma interessati dagli arresti di Mafia
Capitale mostravano dati incongrui rispetto a una serie di indicatori, come
l’eccessiva frequenza ad affidamenti senza gara o il ripetersi di proroghe;
analizzare queste dinamiche conforta sull’utilità degli indici di misurazione
del rischio e aiuta ad affinarli ulteriormente.
In prospettiva, per affrontare in modo sistematico e continuativo questo
cancro che attanaglia molti Paesi del mondo, bisognerà preoccuparsi anche di
elaborare altri indici, capaci di misurare l’efficienza e l’efficacia delle misure
preventive approntate; ne serviranno soprattutto due.
Il primo è statico (e formale) ed è capace di verificare l’adempimento
delle misure previste dalle leggi. In Italia, ad esempio, è obbligatorio per tutti
gli enti pubblici dotarsi di piani di prevenzione della corruzione e rendere
trasparenti alcuni dati relativi alla propria attività amministrativa.
L’indice dovrà limitarsi a verificare il tasso di adeguamento: l’Anac ha
già avviato analisi a campione, che hanno dato risultati confortanti e in
miglioramento di anno in anno.
Più complesso, ma tanto più rilevante, è lo sviluppo di un indice
‘‘qualitativo’’, capace di dar conto dell’efficacia delle misure di prevenzione
messe in campo, per accertare se producano risultati concreti o si limitino a
un adempimento formalistico, burocratico.
Si parli di sicurezza sul lavoro, ambientale o di altri settori, la
prevenzione si scontra sempre con lo stesso problema, vale a dire la difficoltà
di ‘‘misurare’’ gli effetti delle procedure attivate: perché la mera circostanza
che non si sia verificato l’evento che, in via di prevenzione, si intendeva
evitare non costituisce (o quantomeno non da sola) una prova di efficienza.
Se in un’amministrazione non emergono fatti di corruzione, non si potrà
automaticamente attribuirne il merito alle misure preventive; la mancata
emersione può essere indice non della loro inesistenza, ma conseguenza
dell’incapacità degli organi investigativi di individuarli, della “capacità
criminale” dei soggetti coinvolti nella dinamica di corruzione.
Per questo bisogna lavorare in una diversa prospettiva, considerando il
mancato verificarsi dell’evento delittuoso solo uno (e non il principale) degli
elementi da valutare e, al tempo stesso, tenendo presente l’evoluzione della
vita amministrativa dell’ente a seguito dell’adozione delle misure preventive,
per accertare se i fattori di rischio esistenti ex ante si siano successivamente
modificati e attenuati.
3.
La corruzione nel Codice penale

3.1 Repressione della corruzione e Codice penale


Per molti anni nel nostro Paese si è provato a contrastare la corruzione
con un approccio quasi esclusivamente di tipo repressivo; affrontandola, cioè,
con il (solo) diritto penale, che costituisce il diritto punitivo per eccellenza di
tutti gli Stati e che, per sua natura, interviene dopo che il fatto da punire si è
verificato.
In tal modo, si riteneva di poter conseguire anche un effetto preventivo,
sia pure indiretto, quello che i penalisti definiscono “general preventivo”:
dato che la condanna dei responsabili di un reato rappresenta una sorta di
monito per tutti gli altri cittadini, dovrebbe indurli a evitare di commettere gli
stessi crimini.
Le norme di nostro interesse sono contenute nel Codice penale (noto
come “Codice Rocco” dal nome del ministro della Giustizia che lo fece
promulgare); un testo che, seppur tecnicamente ben scritto, risale però al
1930 e risente, in molti suoi aspetti, della cultura fascista dell’epoca,
soprattutto laddove vengono affrontati le tematiche e i rapporti dei cittadini
con l’amministrazione.
Nel corso degli anni, ovviamente, il codice è stato ripetutamente
modificato per adeguarlo alla nuova realtà sociale, politica ed economica,
anche (e più volte) nella parte relativa ai reati in materia di corruzione.
Il parlamento ha apportato le ultime (e plurime) modifiche sull’argomento
negli anni 2014-2015 per dare una risposta anche simbolica all’indignazione
dell’opinione pubblica, scossa da arresti e indagini per gravi episodi di
malaffare amministrativo.
E non sono da escludere ulteriori interventi, già annunciati nel
programma del governo Conte e ribaditi quando vi sono stati altri arresti e
indagini.
Per comprendere come funziona la repressione penale, bisogna partire
dall’esame delle norme del codice dedicate a tali reati per poi verificare come
vengono concretamente applicate, così da individuarne gli eventuali punti di
forza o aspetti critici.

3.2 Le vittime della corruzione


Pur essendosi susseguiti numerosi emendamenti alla normativa penale
sulla corruzione, essi non hanno mai messo in discussione il quadro dei
riferimenti generali.
Nel codice, i reati di cui ci stiamo occupando sono rimasti inquadrati, così
come lo erano nel testo originario del 1930, tra i delitti contro la pubblica
amministrazione e, in particolare, tra quelli dei pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione.
Questa collocazione non è un dato solo formale, in quanto aiuta a
individuare quello che gli studiosi del diritto penale chiamano il “bene
giuridico tutelato” e cioè quella entità, materiale o astratta, che si vuole
preservare con la previsione della più grave delle sanzioni previste
dall’ordinamento giuridico, ossia la sanzione penale.
Il bene tutelato viene unanimemente identificato, in questo caso,
nell’imparzialità e nel buon andamento dell’amministrazione, valori che, con
l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, hanno lì trovato anche un
solido fondamento, tanto da essere esplicitamente citati nell’articolo 97.
Calando questa indicazione nel concreto, significa che il soggetto che
riveste una pubblica funzione e riscuote una tangente per compiere un atto
assume un comportamento che finisce per danneggiare (soprattutto) il
corretto andamento e l’imparzialità dell’azione dell’amministrazione cui
appartiene.
Ciò significa anche che la “vittima” del reato va identificata nella
pubblica amministrazione. Questa impostazione appare del tutto
insoddisfacente e frutto di una visione limitativa del fenomeno, in linea con
una concezione dei rapporti fra amministrazione, cittadini e sistema
economico non più attuale.
Pensare, infatti, che la corruzione sia solo un fatto di (sia pur grave)
infedeltà verso l’amministrazione pubblica non tiene, ad esempio, conto di
quale sia oggi la concezione di questo crimine, anche sul piano
internazionale. La convenzione di Merida del 2003, ad esempio, considera il
delitto come una minaccia alla stabilità e alla sicurezza delle società, alle
istituzioni e ai valori democratici, con il rischio di compromissione dello
sviluppo sostenibile e dello Stato di diritto.
Del resto, l’esame delle vicende corruttive, così come sono emerse dalle
tante indagini giudiziarie, dimostra chi sono le vittime e quali i danni di
questa grave forma di malaffare. Chi paga una tangente per vincere un
appalto danneggia senza dubbio l’amministrazione pubblica, ma ancor di più
mette in discussione la libera competizione fra imprese e le regole della
concorrenza; vince non perché presenta l’offerta migliore o ha il migliore
know how, ma perché ha barato, pagando chi poteva farlo vincere. E se la
mazzetta per vincere l’appalto viene versata a un politico per finanziare la sua
campagna elettorale, diventa anche un vantaggio competitivo nei confronti di
quei politici o partiti che non l’hanno ottenuta e incide, quindi, sulle regole di
funzionamento del sistema democratico.
Questi comportamenti, infine, minano soprattutto la fiducia nelle
istituzioni e nei suoi rappresentanti; se i cittadini giungono a considerare il
proprio sistema economico e politico corrotto non avranno alcuna fiducia nei
confronti delle proprie istituzioni di riferimento e potranno loro stessi essere
indotti a utilizzare mezzi e strumenti illeciti per ottenere quanto loro spetta o
si prefiggono di ottenere.

3.3 Gli “attori” della corruzione


Dato che i reati di corruzione si strutturano come un patto, come un
contratto illecito, va da sé che gli autori di questi reati siano almeno due, che
si possono definire come corrotto (il funzionario pubblico che riceve la
tangente; questa è la cosiddetta corruzione passiva) e corruttore (il privato
che la paga; questa è la cosiddetta corruzione attiva).
Per questa sua caratteristica, dal punto di vista del diritto penale il reato di
corruzione viene definito “necessariamente plurisoggettivo”, che richiede,
cioè, ontologicamente la partecipazione di più di una persona, e “bilaterale
perfetto”, nel senso che a essere puniti nello stesso modo sono entrambi i
partecipi.
Questo non vuol dire che il reato non possa essere commesso da più di
due persone; due è solo il numero minimo, perché le combinazioni possibili
nella pratica possono portare a ritenere responsabili più individui; si pensi, ad
esempio, al caso di più imprenditori che partecipano, in associazione, a una
gara d’appalto e che pagano, pro quota, una mazzetta a ciascun componente
della commissione di gara che individua il vincitore; il rapporto illecito resta,
quindi, bilaterale fra due centri di interessi, ma gli autori del reato sono
molteplici.
Finora abbiamo indicato il corrotto come un funzionario pubblico; in
realtà, secondo il Codice penale, per poter essere autore del reato costui non
deve solo essere legato all’amministrazione pubblica, ma deve svolgere una
specifica funzione.
Il corrotto può essere, in primo luogo, un pubblico ufficiale, una qualifica
che compete, secondo quanto prevede il Codice penale, a chi esercita una
pubblica funzione legislativa, giudiziaria e amministrativa.
Se è sufficientemente chiaro chi svolge la funzione legislativa (ad
esempio i parlamentari o i consiglieri regionali che hanno il potere di
approvare le leggi) e quella giudiziaria (gli appartenenti all’ordine
giudiziario, in primis i magistrati, ma anche i cancellieri ecc.), lo è meno con
riferimento a chi esercita la funzione amministrativa, perché
nell’amministrazione pubblica rientrano numerose attività e quindi tante
funzioni.
Per questa ragione il medesimo codice fornisce gli elementi per
restringere il campo, prevedendo quando la funzione può essere considerata
tale (e cioè quando è disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti
autoritativi) e, soprattutto, quali attività comprende (in particolare, la
formazione e la manifestazione della volontà dell’amministrazione) e con
quali poteri (autoritativi e certificativi).
Il pubblico ufficiale è, in pratica, colui che svolge nell’amministrazione le
funzioni oggettivamente più rilevanti ed è l’attività in concreto che permette
di qualificarlo come tale, più che il rapporto intercorrente con
l’amministrazione. In questo senso un pubblico ufficiale può essere un
dirigente o il funzionario di un ministero o di un ente locale, il sindaco di un
Comune o persino il funzionario che svolge una funzione in presenza di una
sua nomina irregolare o viziata da illegittimità.
Di corruzione può rispondere, sia pure con un trattamento sanzionatorio
attenuato, anche l’incaricato di pubblico servizio, colui, cioè, che svolge
funzioni minori nell’amministrazione (non avendo cioè il potere né di
manifestare la volontà dell’ente, né di svolgere attività autoritative o
certificative) ma sempre con un ruolo di concetto; non è passibile di questa
imputazione chi, dipendente dell’amministrazione, si occupa di mansioni
meramente materiali (ad esempio, un inserviente).
Autori del reato, invece, potranno essere – in base a una disposizione
inserita nel 2000 nel Codice penale – soggetti che operano nell’Unione
europea (i componenti della Corte di giustizia, i funzionari dell’Unione
europea ecc.) o in altri organismi internazionali (i giudici della Corte penale
internazionale), che, in assenza di tale disposizione e per il fatto di operare
comunque all’estero, avrebbero difficilmente potuto essere considerati, per il
nostro ordinamento, pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.
Sono parificati ai pubblici ufficiali o agli incaricati di pubblico servizio, a
seconda delle mansioni in concreto svolte, alcuni soggetti che operano in
contesti internazionali (i membri della Commissione, i parlamentari europei
ecc.) nonché i funzionari di Stati esteri o di altre organizzazioni
internazionali. Questi ultimi, in particolare, non potranno essere incriminati
per i fatti di corruzione da loro commessi all’estero (su cui potranno
procedere gli Stati per cui operano) ma potranno esserlo, quali corruttori, quei
cittadini italiani che offriranno loro un’utilità, per procurarsi un indebito
vantaggio in operazioni economiche o per ottenere o mantenere un’attività
economica o finanziaria.
Quest’ultima ipotesi (nota come “corruzione internazionale”) consente, in
pratica, alla nostra giustizia penale di perseguire le attività di mercimonio
illecito per ottenere, ad esempio, da parte di cittadini italiani (soprattutto
imprenditori) commesse economiche all’estero, in una prospettiva di
protezione soprattutto delle economie dei Paesi poveri, molto esposti a
rischio corruttivo.
L’altra parte del rapporto corruttivo (il corruttore, cioè colui che paga),
invece, non deve avere alcuna veste giuridica e potrà essere, quindi,
“chiunque”. Lo abbiamo indicato più volte genericamente come “privato”,
anche se è opportuno precisare che si tratta di chiunque sia estraneo allo
svolgimento di quella specifica attività amministrativa. È quindi certamente
configurabile un’ipotesi di corruzione quando l’utilità sia, ad esempio, offerta
da un altro pubblico agente, fuori dall’esercizio della sua funzione: si pensi a
un impiegato del Comune, preposto a un altro compito, che paghi una
mazzetta a un suo collega per ottenere un vantaggio personale.
Il privato viene punito dal nostro codice con la stessa pena in astratto
applicabile al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio che è
destinatario della proposta corruttiva; il giudice in concreto potrà graduare
per le due parti del rapporto illecito diversamente la pena, ma è l’astratta
identità di pena che consente di qualificare il reato in esame come “bilaterale
perfetto”.
3.4 La “prestazione” del corrotto
Come in tutti i contratti, anche nella corruzione chi paga lo fa per ottenere
qualcosa in cambio.
Per il Codice Rocco, lo scambio diveniva corruzione quando aveva come
oggetto un “atto” e prevedeva due fattispecie di reato: una più grave, se
l’oggetto era costituito da un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione
cosiddetta propria), e una meno grave, se l’oggetto era un atto d’ufficio, e
cioè un atto legittimo che avrebbe potuto comunque essere ottenuto dal
privato (corruzione cosiddetta impropria).
La corruzione si distingueva in “antecedente” e “susseguente” a seconda
che la contropartita fosse versata prima o dopo il compimento dell’atto. E
solo nel caso della corruzione impropria, quella susseguente (consistente,
cioè, nell’accettazione di una retribuzione per un atto già compiuto) era
punita meno gravemente dell’antecedente, perché l’utilità consegnata non
aveva svolto alcuna funzione nella motivazione del compimento dell’atto
stesso (si pensi al caso del funzionario che dopo aver rilasciato una
concessione edilizia accetta un regalo fattogli, magari anche per gratitudine,
dal privato).
Questa costruzione, oltre che macchinosa, era apparsa anche inadeguata
rispetto a ipotesi di scambi illeciti che non riguardavano singoli atti. Era,
infatti, emersa più volte dalle indagini la figura del funzionario a libro paga (o
asservito o a disposizione), cioè colui che si pone al servizio di un soggetto
esterno all’amministrazione, ottenendo un vantaggio, spesso continuativo
(una sorta di stipendio), a prescindere dal compimento di uno specifico atto,
ma manifestando una generica disponibilità ad assecondare eventuali
richieste.
Per punire questa forma di corruzione e semplificare il sistema dei reati,
la legge Severino ha riscritto integralmente la norma che puniva la corruzione
impropria e introdotto al suo posto la “corruzione per l’esercizio delle
funzioni”.
Con questa nuova incriminazione l’oggetto del reato non è più l’atto ma
l’esercizio delle “funzioni” o dei “poteri”, ovvero l’insieme delle prerogative
del funzionario pubblico; si tratta di un concetto molto ampio che consentirà
di continuare a punire quei comportamenti che rientravano nella pregressa
formulazione della corruzione impropria oltre a quelli prima non previsti di
asservimento delle funzioni. Resta, invece, autonomamente punibile, come
corruzione propria, il patto illecito che ha a oggetto un “atto contrario ai
doveri di ufficio”.
Nel concetto di atto contrario sono ricomprese, in primo luogo,
l’omissione di un atto che si aveva l’obbligo di compiere o la sua adozione
oltre i tempi previsti dalla legge (si pensi, ad esempio, al funzionario che si fa
pagare per omettere un controllo doveroso, ad esempio di tipo ambientale,
fiscale, sulla sicurezza del lavoro ecc. in un’impresa o per effettuarlo in
ritardo, consentendo al controllato di regolarizzare la sua situazione) e
l’emanazione di un atto illegittimo, perché in contrasto a norme giuridiche (si
pensi all’attribuzione di un appalto a un soggetto che non aveva i titoli per
ottenerlo, a una concessione o un’autorizzazione a un soggetto sfornito dei
presupposti ecc.).
Vi rientrano anche l’adozione di un atto formalmente legittimo, cioè
rispettoso delle norme, ma finalizzato a favorire o danneggiare unicamente
una parte (si pensi al caso del funzionario che paghi ai fornitori le fatture per
prestazioni effettivamente erogate all’amministrazione, ma utilizzando tutte
le risorse disponibili a favore di un unico fornitore, senza pagare gli altri) o,
anche, quei comportamenti che, pur non traducendosi in un atto formale,
determinano conseguenze per l’amministrazione (ad esempio, lo spostamento
di una pratica in modo da renderla introvabile o per consentire il suo esame in
anticipo, senza rispettare il criterio cronologico).
Le due ipotesi di corruzione, punite in modo molto diverso, sono
accomunate nel caso in cui siano connesse allo svolgimento di un’attività
giudiziaria.
Il codice tiene conto della particolare delicatezza e rilevanza di questa
attività: con una riforma del 1990 ha introdotto l’autonoma fattispecie di
“corruzione in atti giudiziari”, che prevede la stessa sanzione sia quando
l’oggetto del mercimonio sia un atto contrario ai doveri d’ufficio sia quando
lo siano l’esercizio dei poteri e delle funzioni.
Per attività giudiziaria si intende quella connessa a un procedimento
giudiziario civile, penale o amministrativo e il patto è illecito quando è
funzionale a favorire o a danneggiare una parte del processo (intendendosi
come tale anche il pm nel processo penale). È corruzione, quindi, l’attività
del magistrato che accetta una “mazzetta” per scarcerare un imputato o per
assolverlo o per dar ragione a una delle parti in un processo civile o
amministrativo, ma anche quella del cancelliere a cui viene fatto un regalo
per modificare i criteri di assegnazione delle pratiche e, persino, quella del
testimone che prende del denaro per raccontare il falso.

3.5 La “controprestazione” del corruttore


Se chiedessimo a persone comuni quale sia l’oggetto della prestazione del
corruttore, probabilmente quasi tutti la identificherebbero nella “mazzetta” o
nella “tangente”, per indicare denaro o altri oggetti di valore, oggetti che
molto spesso rappresentano in effetti il corrispettivo illecito.
Il codice, invece, perché sia configurato il reato in esame, ritiene
sufficiente che la contropartita consista in una “utilità”, parola che indica,
secondo la giurisprudenza, “vantaggi, patrimoniali o non patrimoniali, idonei
a soddisfare un bisogno umano e consistenti in una cosa o in un servizio”.
Un concetto, quindi, ben più ampio di quello inteso nel sentire comune,
nel quale è possibile far rientrare un’offerta di un incarico importante o di un
posto di lavoro o persino di una prestazione sessuale che, pur non essendo un
bene di natura patrimoniale, rientra nell’idea di un quid idoneo a soddisfare
un bisogno umano.
Sfogliando i repertori di giurisprudenza, è lungo l’elenco di possibili casi
di “utilità”: gioielli, orologi, viaggi, automobili, cavalli da corsa, casse di
frutta, ceste di pesce, voti alle elezioni, promozioni nella carriera, vacanze
esotiche, pernottamenti in alberghi di lusso, pagamento di escort, operazioni
gratuite in cliniche private ecc.
Inoltre, anche qui certamente in contrasto con quanto probabilmente molti
ritengono, perché sia commesso un fatto di corruzione (tecnicamente sia
“consumato”) non è affatto necessario il conseguimento del profitto illecito
da parte del corrotto ma basta la sola accettazione della promessa, che fra
l’altro può riguardare un’utilità da dare anche a terzi (ad esempio posti di
lavoro a un congiunto del corrotto o denaro versato a suoi amici o sodali).
La ragione di questa scelta legislativa è chiara: con l’accettazione della
promessa di una retribuzione il soggetto che riveste una funzione pubblica ha
già violato il suo dovere di fedeltà alle istituzioni!
Cosa accade se, una volta accettata la promessa di un corrispettivo,
quest’ultimo, come normalmente accade, consegue davvero?
La giurisprudenza ritiene che, nel caso di dazione successiva, a questo
momento vada ancorata la “consumazione” del reato che può protrarsi fino a
quando la dazione non si esaurisce completamente, con la conseguenza che è
dall’ultimo versamento che comincia a decorrere il termine di prescrizione
del reato.
Qualora invece un’offerta corruttiva del privato (o un’analoga richiesta
del pubblico agente) non sia accolta, il fatto non resta senza sanzione ma sarà
punito come istigazione alla corruzione con una pena ridotta (di un terzo)
rispetto a quella della corruzione consumata.

3.6 Ipotesi analoghe alla corruzione: la concussione e l’indebita induzione


Accanto alle ipotesi di corruzione vera e propria vanno annoverate altre
tipologie di rapporti illeciti che si presentano con alcune analogie: hanno
anch’essi carattere bilaterale, hanno a oggetto l’esercizio di attività pubbliche
e, dal punto di vista dell’agente pubblico, si caratterizzano come sfruttamento
illecito della funzione svolta.
Ci riferiamo, in particolare, alla concussione che nel Codice Rocco era il
reato più grave fra quelli dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione.
Nella sua formulazione originaria, puniva il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della loro qualità o dei loro
poteri, costringevano o quantomeno inducevano una persona a dare o a
promettere a lui o a un terzo denaro o altra utilità.
Il comportamento dell’agente pubblico si caratterizzava, quindi, per una
sorta di sopraffazione del privato e si distingueva, almeno in astratto, dai fatti
corruttivi i quali prevedono una situazione di sostanziale parità fra le parti.
La prevaricazione poteva avvenire attraverso due diverse modalità.
In primo luogo, attraverso la “costrizione”, un concetto che evoca una
vera e propria violenza o minaccia messa in atto; esempio tipico, tratto dalla
casistica giudiziaria, è quello dell’agente di polizia che, nel controllare uno
straniero e scoprendolo non in regola con il permesso di soggiorno, minaccia
di espellerlo se non gli darà una somma di denaro.
In alternativa, attraverso l’“induzione”, una parola che si riferisce a quei
comportamenti che, pur non consistendo in una minaccia, inducono o
sollecitano, anche larvatamente, il privato a una dazione (“ti faccio capire che
sarebbe meglio che”, “provo a convincerti che è meglio che ti regoli in un
certo modo”). Un esempio tipico, tratto anch’esso dalla casistica, è quello
dell’ispettore amministrativo che controllando un cantiere, dopo aver fatto
notare il mancato rispetto della normativa in materia di infortuni, racconta di
gradire molto le vacanze al mare e poi accetta la promessa da parte del
controllato di regalargli un soggiorno marino.
In entrambe queste situazioni, il privato, nella formulazione del Codice
Rocco, non era correo ma vittima del pubblico agente e quindi non punibile e
per tale ragione la concussione si qualificava come reato “plurioffensivo”, in
quanto due erano le parti offese: l’amministrazione pubblica e il soggetto
prevaricato.
Gli organismi internazionali (in particolare il Greco), che più volte
avevano esaminato la disciplina normativa italiana, avevano criticato
l’equiparazione contenuta nella norma fra costrizione e induzione,
comportamenti oggettivamente fra loro diversi, perché solo nel primo caso vi
era una effettiva sopraffazione del pubblico ufficiale.
Proprio a seguito di tali rilievi, la legge Severino ha estrapolato
dall’originaria ipotesi di concussione l’induzione e ha creato un nuovo reato
(“induzione indebita a dare o promettere utilità”) che punisce questa
condotta, posizionato nel codice dopo quelli di corruzione, quasi a voler
individuare una forma intermedia fra corruzione e concussione.
Nell’induzione, infatti, il privato diventa punibile proprio perché non
destinatario di violenza o minaccia (per cui il reato diventa come quelli
corruttivi “necessariamente plurisoggettivo”) ma, a differenza del corruttore,
con una pena inferiore a quella del pubblico agente, perché egli non si trova
in posizione di parità, in quanto comunque destinatario di un comportamento
di abuso di funzioni o di poteri.
Attualmente, quindi, il rapporto illecito fra privato e pubblico agente può
estrinsecarsi attraverso tre ipotesi di reato (concussione, indebita induzione e
corruzione) che, se in astratto appaiono chiaramente distinte, nella pratica,
soprattutto in quelle vicende borderline in cui non vi è una minaccia esplicita,
danno filo da torcere ai giudici che se ne devono occupare, anche per le
differenze non solo di trattamento di pena ma soprattutto per le conseguenze
molto diverse per chi paga o promette.

3.7 Le conseguenze sanzionatorie


Se i reati in materia di corruzione sono stati oggetto di significativi
mutamenti nel corso degli anni, non minori sono stati i cambiamenti sul piano
sanzionatorio, per apprezzare i quali è utile paragonare la disciplina esistente
prima del 1990 (anno in cui vi fu una prima riforma in materia) con quella
odierna, frutto di interventi, stratificatisi nel tempo.
Per farlo prenderemo in considerazione le pene principali (cioè quelle
detentive e pecuniarie), quelle accessorie (che conseguono, cioè, a una
condanna e incidono su poteri e facoltà del condannato) e quelle patrimoniali
(ci si riferisce, in particolare, alla confisca, tecnicamente qualificabile come
una “misura di sicurezza patrimoniale”).
Nel testo ante riforma del 1990, esistevano solo tre reati fra quelli oggetto
del nostro interesse e il più grave era la concussione, per la quale era stabilita
la reclusione da 4 a 12 anni e una multa non inferiore a 600.000 lire; seguiva
la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (cosiddetta propria), punita
con la reclusione da 2 a 5 anni e con multa da 600.000 lire a 4 milioni;
chiudeva la corruzione per atto di ufficio (cosiddetta impropria) punita, se
antecedente, con la reclusione fino a 2 anni e la multa da 100.000 lire a 2
milioni e, se susseguente, con la reclusione fino a 1 anno e la multa fino a
600.000 lire.
Quanto alle pene accessorie, era prevista una disciplina speciale per la
sola concussione, ovvero l’interdizione dai pubblici uffici (pena, questa, che
priva il condannato del diritto di elettorato e di eleggibilità e, soprattutto, di
ogni pubblico ufficio) perpetua, se veniva inflitta una pena superiore a 3 anni,
o temporanea (e cioè per 5 anni) nei casi di una pena meno grave.
Questa disposizione non era, però, applicabile alla corruzione, per la
quale valeva la norma generale propria di tutti i reati che comportava, cioè,
l’interdizione perpetua nel solo caso di condanne superiori a 5 anni e quella
temporanea (per la durata di 5 anni) nel solo caso di condanna alla reclusione
non inferiore a 3 anni.
Dal 1981 nel Codice penale era stata introdotta una nuova pena
accessoria: l’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione, che
conseguiva alla condanna per alcuni reati (fra cui concussione e corruzione
propria e impropria) quando venivano commessi in danno o a vantaggio di
un’attività imprenditoriale; era il giudice a poter modulare la durata di questa
pena da un minimo di 1 anno fino a un massimo di 3.
Non era prevista, invece, alcuna speciale ipotesi di confisca. Per questi
reati si applicava la norma generale del codice che prevedeva casi di confisca
facoltativa (delle cose che sono servite o destinate a commettere il reato o che
rappresentano il profitto o il prodotto di essi) e obbligatoria (delle cose che
costituiscono il prezzo del reato).
Il commento sull’impianto sanzionatorio è fin troppo agevole. Coerente
con la posizione culturale del legislatore del codice secondo cui la corruzione
era un comportamento di sola (sia pur grave) infedeltà del funzionario, i reati
venivano puniti in modo decisamente non rigoroso, a eccezione della
concussione, in cui, però, la vittima non era solo l’amministrazione ma anche,
e soprattutto, il privato.
Le due ipotesi di corruzione erano punite, infatti, in modo oggettivamente
non grave, anzi quella impropria con pene irrisorie – non essendo nemmeno
previsto un minimo, il giudice avrebbe potuto partire, in base ai princìpi
generali, da 15 giorni di reclusione –, soprattutto se paragonate a quelle di
altri reati (il furto pluriaggravato era punito con la reclusione da 3 a 10 anni).
La possibilità concreta, inoltre, di applicare, per gran parte dei casi in cui
si giungeva a condanna, la sospensione condizionale della pena (istituto che
consente di sospendere l’efficacia di pene entro 2 anni e di dichiararle estinte
se non viene commesso altro reato entro 5 anni) rendeva il carico
sanzionatorio reale ancora meno afflittivo.
E le stesse pene accessorie (molto importanti perché consentono di
espellere dal sistema amministrativo ed economico corrotti e corruttori) erano
poco efficaci; quella dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici scattava
per la corruzione solo con pene di almeno 3 anni, quella perpetua nei casi,
numericamente molto limitati, di una pena pari al massimo previsto.
Oggi la situazione è radicalmente cambiata, per vari interventi legislativi,
l’ultimo dei quali risale al 2015.
In primo luogo, sono aumentate le ipotesi di reato e quindi la piramide
sanzionatoria, con riferimento alle pene principali, prevede più gradini. Al
più alto resta la concussione, punita con la reclusione da 6 a 12 anni; seguono
la corruzione in atti giudiziari con la reclusione da 6 a 12 anni, l’induzione
indebita con la reclusione da 6 a 10 anni e 6 mesi e, infine, la corruzione
propria da 6 a 10 anni e quella per l’esercizio delle funzioni da 1 a 6 anni.
Quanto alle pene accessorie, è stata introdotta una regola speciale
sensibilmente più rigorosa per l’interdizione dai pubblici uffici che diventa
perpetua nei casi di condanna per concussione, corruzione per atto contrario
ai doveri di ufficio e corruzione in atti giudiziari; diventa temporanea (e cioè
per 5 anni) nei casi in cui, per effetto di circostanze attenuanti, ne viene
inflitta una inferiore a 3 anni. L’incapacità a contrattare con la pubblica
amministrazione può essere oggi applicata fino a 5 anni.
Di rilievo sono anche le novità in materia di misure patrimoniali. Fin dal
2000 è stata prevista un’ipotesi speciale di confisca obbligatoria a seguito di
condanna per tutte le ipotesi di corruzione, concussione e indebita induzione
di quei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato. E la misura
viene resa ancora più efficace con la previsione della confisca per
equivalente: se non vengono reperiti nel patrimonio i beni che sono il profitto
e il prezzo del reato, la misura potrà colpire altri beni trovati nella
disponibilità del condannato per un valore corrispondente al prezzo o al
profitto del reato.
Dal 2015 è stata introdotta, in aggiunta alla confisca, un’ulteriore
sanzione patrimoniale, la riparazione pecuniaria: con la sentenza di condanna,
per tutte le ipotesi di corruzione, concussione e indebita induzione, il giudice
ordina di versare una somma di denaro pari a quanto indebitamente ricevuto
dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, in favore
dell’amministrazione di appartenenza.
È evidente come in poco più di vent’anni sia completamente cambiato
l’impianto sanzionatorio, oggi molto più rigoroso su tutti e tre i fronti delle
possibili pene (principali, accessorie e patrimoniali). L’aumento delle pene
principali è molto vistoso soprattutto per le ipotesi di corruzione (quella
propria ha visto la triplicazione del minimo della pena; quella per l’esercizio
delle funzioni, che copre anche la precedente ipotesi di impropria, vede come
minimo della pena quella che era il massimo per la corruzione susseguente),
rendendo di fatto molto più difficile l’applicazione anche della sospensione
condizionale della pena.
Se è vero che si è attenuata (forse eccessivamente e in modo non del tutto
razionale) la forbice tra le sanzioni previste fra i reati (il minimo della pena
della concussione è identico a quella della corruzione propria; il massimo
della pena della corruzione in atti giudiziari è solo leggermente inferiore a
quella dell’induzione indebita), l’operazione complessiva non può che essere
salutata con favore, perché chiaramente adegua le sanzioni a una diversa idea
di pericolosità dei comportamenti corruttivi. E anche per le pene accessorie e
le sanzioni patrimoniali, vi è oggi un set di interventi che consente una più
coerente afflittività dell’impianto.
La repressione, certo, è solo un tassello della politica legislativa di
contrasto alla corruzione, ma è un tassello importante e poter contare su un
impianto oggettivamente migliore è un validissimo punto di partenza.
4.
L’accertamento dei fatti di corruzione

4.1 La necessità di una repressione efficace


In una strategia di contrasto della corruzione, poter contare su un’efficace
attività repressiva è indispensabile; rinunciare a questa opzione o
sottovalutarne l’importanza porterebbe qualunque politica messa in campo al
sicuro fallimento. Qualsiasi presidio alternativo, per quanto necessario,
risulterebbe insufficiente se non si fa di tutto per punire, e in modo adeguato,
il numero più alto possibile di coloro che commettono i reati in discussione.
L’idea della sostanziale impunità di un comportamento finisce, infatti, per
essere un indiretto ma purtroppo sicuro incentivo a mantenerlo.
Il primo presupposto per un’efficace repressione è avere un armamentario
di norme punitive adeguato. È un’indicazione che, per quanto sembri
evidente, viene esplicitamente ribadita dalle convenzioni internazionali in
materia, a partire da quella di Merida, poiché non tutti gli Stati hanno già
legislazioni all’altezza della sfida.
Come abbiamo visto, fin dalla sua emanazione il nostro Codice penale
aveva previsto più disposizioni in materia che, nella loro formulazione
originaria, risentivano del contesto socio-culturale dell’epoca e che sono poi
apparse, a un certo punto, inadeguate ad affrontare efficacemente le moderne
forme in cui il crimine in esame si manifesta.
Si tratta di disposizioni che avevano comunque consentito, all’inizio degli
anni novanta del secolo scorso, la più importante attività repressiva della
corruzione della storia repubblicana, con l’avvio di Tangentopoli, o Mani
pulite, che portò all’individuazione di responsabilità, e conseguenti condanne,
di personaggi di primissimo piano delle istituzioni, della politica e del mondo
economico.
Quei reati nel corso degli ultimi anni sono stati modificati, sia nel
contenuto sia nelle sanzioni, proprio nella prospettiva di renderle più efficaci;
modifiche opportune, ma che non hanno certo un’efficacia taumaturgica.
Le norme penali, infatti, anche se ben scritte, devono poi in concreto
essere applicate e in molti settori esse si rivelano insufficienti, da sole, ad
affrontare fenomeni criminali soprattutto se diffusi (si pensi alla scarsa
applicazione delle pur gravi sanzioni previste per i furti, un crimine
caratterizzato da un enorme divario tra i fatti commessi e quelli puniti).
Anche in materia di corruzione la normativa penale ha dimostrato di non
essere in grado di far emergere una parte consistente dei fatti illeciti
commessi. Delle ragioni abbiamo già parlato quando ci siamo occupati dei
criteri di misurazione della corruzione, un reato che, per il fatto di non avere
una vittima e di essere strutturato nella forma di un patto, è particolarmente
difficile da aggredire.
Le pur indiscusse oggettive difficoltà non sono, però, ostacoli
insormontabili e non giustificano a priori la pessimistica idea che sia
impossibile scovare e condannare corrotti e corruttori, come dimostrano, fra
l’altro, le tante (forse, non ancora sufficienti) indagini che quasi
quotidianamente gli uffici giudiziari del Paese portano meritoriamente a
termine.
In questo capitolo, cercheremo a capire come nascono e si sviluppano le
indagini in materia, indicando anche quali sono gli strumenti utilizzati per
questa opera “maieutica” e provando a ipotizzare alcune modalità che
potrebbe essere utile introdurre.

4.2 La corruzione “episodica”


Prima di tutto, bisogna comprendere come si manifestano, in concreto, i
fatti corruttivi, perché le tecniche investigative da utilizzare devono essere
specificamente calibrate. Siccome abbiamo descritto il comportamento
punibile in termini di patto illecito, si potrebbe pensare che la corruzione si
manifesti sempre come uno scambio, un do ut des, fra due soggetti, uno che
paga o promette e l’altro che riceve o accetta la promessa, al massimo con la
variante di più partecipi.
Questa struttura riproduce l’ipotesi classica cui ha pensato il legislatore
del Codice penale e nella pratica rimanda al caso di una persona (un comune
cittadino o un imprenditore) che in un rapporto con l’amministrazione
pubblica, per aggirare o superare un ostacolo burocratico, offre al suo
interlocutore, che impersona in quel momento l’amministrazione, una
mazzetta, che viene accettata.
È questa una forma di corruzione che possiamo definire “episodica” o –
mutuando una felice definizione del procuratore della Repubblica di Roma,
Giuseppe Pignatone – “pulviscolare”. A titolo esemplificativo, pensiamo a
quelle ipotesi di scambio di (anche) modeste somme di denaro o altre utilità
con singole condotte attive o omissive del pubblico funzionario, quali la
tolleranza della violazione edilizia, dell’occupazione abusiva del suolo
pubblico o l’emanazione di atti amministrativi, quali autorizzazioni o
concessioni.
In questa tipologia rientrano anche quei casi (purtroppo frequenti) di
corruzione connessi all’attività impositiva tributaria, del pagamento di una
(anche modesta) somma di denaro al funzionario deputato all’accertamento
che non rileva volontariamente una (anche non importante) evasione o non
esercita l’attività esecutiva.
In questi episodi sono quasi sempre coinvolte persone che occupano ruoli
non elevati nell’amministrazione e, sull’altro versante, privati cittadini o
imprenditori medio-piccoli che hanno fra loro cementato, anche
occasionalmente, legami fiduciari diretti; il pagamento della tangente avviene
quasi sempre senza alcuna intermediazione e riguarda contesti amministrativi
– caratterizzati da cattiva amministrazione, assenza di controlli e, soprattutto,
tempi lunghi nell’assunzione delle decisioni – nei quali il comportamento
illecito del funzionario può passare persino inosservato.
Questo schema si presta, ovviamente, anche per fattispecie più rilevanti,
sia sotto il profilo delle utilità versate sia sotto quello delle attività
amministrative promesse (si pensi all’aggiudicazione di importanti commesse
pubbliche a seguito del pagamento di una tangente al commissario di gara).
Secondo gli addetti ai lavori, questa tipologia corruttiva sarebbe
numericamente significativa al punto che la si può considerare, sempre
ricorrendo a un’espressione del procuratore Pignatone, una sorta di “rumore
di fondo della corruzione”.
Il rapporto fiduciario tra le parti, infatti, diventa talmente intenso che il
pagamento della mazzetta viene vissuto quasi come se fosse un
comportamento normale (“così fan tutti”); lo dimostra la casistica giudiziaria,
dalla quale cogliamo un caso emblematico. Subito dopo i primi arresti per
Mafia Capitale, mentre ancora nel municipio di Roma erano presenti tanti
investigatori per proseguire le indagini, venne arrestato in flagranza, non
lontano dalla sede comunale, un impiegato mentre intascava una mazzetta,
versata da un imprenditore. Un comportamento così incauto da apparire
incomprensibile, se non letto nella logica dei due: per loro era un fatto
normale, quasi fisiologico, di cui, quindi, nemmeno ci si preoccupava!

4.3 La corruzione “organizzata”


Ben diversa dalla forma classica, di tipo episodico, è quella, emersa
soprattutto negli ultimi anni, che possiamo definire corruzione “organizzata”,
che presenta una situazione più complessa e variegata, in cui il pagamento del
pubblico funzionario è un (quasi sistematico) criterio di conduzione di affari
o di attività economiche e imprenditoriali. Essa presuppone l’esistenza di una
sorta di struttura che fornisce ai suoi adepti veri e propri “servizi”, quali la
soluzione di problemi burocratici e amministrativi o l’acquisizione di
occasioni di lavoro, soprattutto nel settore degli appalti, contando su referenti
presenti in vari contesti, in particolare nell’amministrazione pubblica ma, in
qualche caso, anche nel mondo giudiziario.
Il politico o il funzionario amministrativo, quasi sempre di alto livello, in
questo caso sono retribuiti (o stipendiati) a prescindere dal compimento di atti
specifici, sulla scorta di una loro disponibilità a comportamenti futuri e non di
rado persino la loro elezione o nomina viene favorita nella logica degli
interessi dell’organizzazione criminale.
Il contesto amministrativo di riferimento potrà anche essere caratterizzato
dal pieno rispetto delle regole formali e gli atti amministrativi redatti, almeno
nei loro aspetti estrinseci, potranno apparire corretti e legittimi, anche se
costruiti proprio per favorire qualcuno (nel mondo degli appalti, si parla, ad
esempio, di “bandi su misura” o di “abiti sartoriali”, per indicare quegli atti di
gara predisposti con caratteristiche tali che potrà vincerli solo un soggetto).
In questa situazione si attenua quell’alterità dei ruoli che caratterizza la
corruzione classica, sostituita dall’adesione a un’unica organizzazione
illecita: i funzionari pubblici e i corruttori non appaiono più parti
contrapposte, ma protagonisti di un unico progetto che, fra l’altro, assume
spesso i caratteri di un programma indeterminato e seriale di attività illecite.
Una caratteristica ulteriore di questa forma di nuova corruzione è che
quasi mai la tangente viene versata direttamente dal soggetto che ha interesse
all’atto amministrativo. Dell’incombenza si occupano i cosiddetti
“faccendieri” o “facilitatori”, che fanno da intermediari tenendo i rapporti con
il pubblico funzionario, remunerato non necessariamente (solo) con somme
di denaro, ma spesso (anche) con promesse di incarichi, consulenze,
avanzamenti di carriera o posti di lavoro per i famigliari.
È una tipologia scolpita dalle parole del giudice che si è occupato del caso
Mose, secondo il quale quello da lui valutato è un “meccanismo [che] arriva
al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori, senza che sia
possibile individuare sempre il singolo atto specifico contrario ai doveri
d’ufficio”, che si fonda su un rodato rapporto fra imprenditori e politici: i
parlamentari devono garantire il flusso di finanziamenti, i politici locali il
tempestivo rilascio delle autorizzazioni, l’imprenditoria il versamento di
tangenti.
La corruzione organizzata era già emersa durante il periodo di
Tangentopoli: allora le organizzazioni di riferimento erano i partiti politici (di
maggioranza ma anche di opposizione) che decidevano persino quali opere
costruire e chi se ne dovesse occupare, ripartendosi, a volte con rigidi criteri
proporzionali, le tangenti versate all’unico “collettore”, referente di tutti.
Questa ricostruzione è stata confermata di recente da una ricerca
dell’autorevole Fondazione Res che, dopo aver esaminato sentenze definitive
e autorizzazioni a procedere, ha evidenziato come una parte significativa dei
proventi corruttivi fosse finita alla politica e che numerose erano state anche
le condanne per finanziamento illecito ai partiti.
Più di recente, con la crisi dei partiti e lo spostamento del potere
amministrativo alla burocrazia, la corruzione organizzata ha cambiato veste:
non è più funzionale agli interessi dei partiti ma all’arricchimento e al
rafforzamento di autonome organizzazioni criminali di cui fanno parte
imprenditori, faccendieri e in qualche caso anche mafiosi. Ne è la prova il
moltiplicarsi, in sede giudiziaria, delle contestazioni del delitto di
associazione a delinquere accanto alla corruzione e lo afferma, anche in
questo caso, la ricerca della Fondazione Res, che evidenzia “una
strutturazione attraverso reti associative volte all’utilizzo per fini privati della
corruzione” e “una progressiva crescita della corruzione politica a livello
locale e regionale”.
Esempio emblematico di questa tipologia è Mafia Capitale, vicenda in cui
un’organizzazione criminale (qui importa poco stabilire se mafiosa o meno) è
riuscita a far confluire gran parte degli appalti relativi ai servizi sociali del
Comune di Roma a (finte) sue cooperative, “stipendiando” funzionari
comunali, consiglieri comunali e regionali, per garantire che il sistema non
avrebbe avuto intoppi.

4.4 La corruzione “mafiosa”


Proprio la vasta eco mediatica dell’inchiesta su Mafia Capitale ha posto,
soprattutto per i non addetti ai lavori, il tema del rapporto tra mafia e
corruzione come se si trattasse di una novità di questi anni, quando si sa che
nei territori ad alta presenza mafiosa da sempre si utilizza tale metodo.
Le organizzazioni mafiose, infatti, hanno bisogno di intrattenere rapporti
con le istituzioni per rafforzare il controllo sul territorio, per gestire le risorse
pubbliche, per ampliare l’indispensabile consenso sociale e considerano
preferibile “coinvolgere” con logiche collusive l’apparato burocratico e
politico piuttosto che impiegare il classico assoggettamento fondato su
intimidazione e minaccia; il funzionario o il politico corrotto resta più fedele
all’organizzazione di quello intimidito, perché, essendo coinvolto negli affari,
ne trae un vantaggio e diventa ricattabile, in quanto complice.
Per dimostrare che non parliamo di novità, basta ricordare la figura del
“ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra”, operativo già negli anni ottanta
e incarnato dal poi pentito Angelo Siino, che aveva il compito di provvedere
a fissare e pagare le tangenti sugli appalti banditi dalla pubblica
amministrazione; o il cosiddetto tavolino a tre gambe (camorristi, politici e
imprenditori) per la spartizione degli appalti post-terremoto del 1980 in
Irpinia; o, infine, il legame spartitorio, gestito dalle locali cosche della
’ndrangheta, di subappalti ed estorsioni connessi alla costruzione di alcuni
tratti della famigerata autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Negli ultimi anni, il rapporto mafia-corruzione si è certamente evoluto, in
primo luogo perché le organizzazioni criminali stanno ampliando i settori di
loro interesse, occupandosi, ad esempio, della sanità (strategica sia per gli
aspetti economici sia perché consente di cementare un legame fortissimo con
i cittadini e le istituzioni) o della gestione degli immigrati (in cui
confluiscono ingenti somme di denaro, gestite spesso con logiche tipicamente
emergenziali), ambiti nei quali la loro penetrazione è frutto di rapporti
corruttivi con gli amministratori pubblici.
In secondo luogo, il metodo corruttivo è diventato il classico strumento di
infiltrazione delle mafie nelle zone di più recente insediamento, spesso fra le
più ricche del Paese: piuttosto che esportare l’arma della violenza o il
controllo militare del territorio, che in quei contesti potrebbe non attecchire,
le mafie hanno preferito l’“avvicinamento” o il “coinvolgimento” dei
funzionari pubblici, meno abituale ma comunque consolidato, piegando i
poteri dell’autorità all’asservimento degli interessi del sodalizio.
Le organizzazioni mafiose, in conclusione, hanno sempre considerato la
corruzione come uno strumento per accrescere il potere e la forza economica
e oggi ne fanno senza dubbio maggior uso rispetto al passato.
Non può, però, in alcun modo giustificarsi l’idea di una sovrapposizione
di mafia e corruzione che, come tante indagini giudiziarie dimostrano, restano
fenomeni criminali autonomi e diversi. Ne deriva che, se la corruzione
mafiosa potrà essere affrontata utilizzando gli strumenti tipici messi in campo
per contrastare queste organizzazioni (si tratta, infatti, di una delle tante
modalità di gestione mafiosa, al pari del traffico di droga, dello sfruttamento
della prostituzione, delle estorsioni ecc.), non possono ritenersi esportabili
tutte le tecniche di contrasto delle mafie a quei casi (la maggior parte) di
corruzione che mafiosi non sono.

4.5 La “scoperta” della corruzione


Raramente un’investigazione in materia origina da una denuncia di un
episodio corruttivo; il denunciante dovrebbe essere un testimone del
pagamento di una mazzetta, situazione inconsueta vista la riservatezza tipica
di chi versa una tangente; oppure dovrebbe trattarsi di uno dei partecipi del
patto illecito, cosa non meno rara perché con la denuncia darebbe la stura alla
sua stessa incriminazione.
Gli episodi corruttivi che emergono dalle indagini quasi mai, del resto,
originano da procedimenti nati con questa imputazione; abbiamo già
ricordato, a titolo di esempio, che le indagini sulle tangenti per i lavori di
Expo 2015 erano nate per verificare infiltrazioni mafiose sugli appalti; quelle
sul Mose di Venezia da illeciti fiscali per fatture per operazioni inesistenti,
quelle su Mafia Capitale da accertamenti su estorsioni e recupero crediti.
Non è errato affermare, quindi, che un episodio corruttivo può risultare
casualmente da accertamenti svolti per altre finalità, ma ciò non significa che
non vi siano tecniche investigative direttamente finalizzate a verificare se è
avvenuto un mercimonio di pubbliche funzioni.
I fenomeni in esame, siano essi episodici o organizzati, lasciano quasi
sempre delle (pur minime) tracce, seguendo le quali è possibile individuarli.
Quasi sempre saranno preceduti e/o accompagnati, dal lato del funzionario
pubblico, da attività amministrative non regolari o illecite di favoritismo (se il
funzionario ha accettato una tangente per rilasciare una concessione è perché
il soggetto non poteva ottenerla o non poteva ottenerla nei tempi stabiliti) e,
dal lato del privato, dalla necessità di procurarsi la disponibilità di denaro (la
cosiddetta provvista) per pagare la mazzetta.
Questi comportamenti sono un alert importante per gli investigatori, a
maggior ragione se essi stessi costituiscono autonomi reati, eventualmente
meno gravi. Sono proprio questi reati, che vengono definiti “reati spia”, a
fornire una traccia iniziale che dà l’avvio alle indagini finalizzate a scoprire
fatti di corruzione; fra essi annoveriamo l’abuso d’ufficio, il falso in bilancio
e alcuni reati fiscali.
L’abuso d’ufficio, in particolare, consiste nel compimento, da parte di un
funzionario, di un’attività amministrativa illegittima per favorire o
danneggiare qualcuno, un comportamento che potrebbe essere fine a se stesso
ma anche nascondere altro. A partire dal rilascio di una concessione edilizia a
chi non ne aveva titolo, si può verificare l’esistenza di rapporti personali tra
funzionario e beneficiario e accertare, ad esempio, che quest’ultimo, proprio
nel periodo di interesse, ha lautamente pagato una consulenza al coniuge del
pubblico dipendente, dietro la quale si nasconde un rapporto corruttivo.
Così, l’imprenditore che falsifica la contabilità aziendale o si fa rilasciare
fatture false per giustificare un ammanco contabile o una fuoriuscita di
denaro dalle casse dell’azienda potrebbe averlo fatto per tante ragioni
(frodare il fisco, trovare pezze d’appoggio per operazioni commerciali mal
condotte ecc.), ma anche per costituire un fondo nero grazie al quale si potrà
poi individuare l’eventuale destinatario dei soldi sottratti alla società e
scoprire, ad esempio, che si tratta del funzionario che ha svolto presso
l’impresa un accertamento fiscale.
È inutile dire che quasi mai succede che chi paga o riceve una tangente
lascia tracce così ingenuamente evidenti, ma accertamenti e indagini ben fatte
potranno disvelare anche quelle tecniche più raffinate di occultamento di una
tangente, ad esempio un conto estero intestato a un prestanome o un
pagamento formalmente giustificato come una consulenza o una prestazione
professionale.
I reati spia, in conclusione, sono un indispensabile ausilio per un’efficace
attività repressiva anticorruzione e indebolire le possibilità del loro
accertamento significa rendere ancora più complicata la scoperta dei reati di
cui ci stiamo occupando.
È ciò che purtroppo ha inspiegabilmente fatto, negli anni immediatamente
successivi a Tangentopoli, il nostro legislatore. Ha modificato nel 1997 la
norma in materia di abuso d’ufficio, intervenendo sulla pena prevista e
rendendo impossibili le attività di intercettazione e, cosa ben più grave, nel
2001 ha depenalizzato alcune condotte di falsificazione dei bilanci.
Negli ultimi anni, evidentemente anche per la consapevolezza degli effetti
negativi di quelle riforme, si è fatta una significativa retromarcia. Con la
legge Severino del 2012, si è opportunamente introdotto un nuovo importante
reato spia, anche su impulso delle convenzioni internazionali: il traffico di
influenze illecite che punisce chi, sfruttando relazioni esistenti con un
funzionario pubblico, si fa dare o promettere denaro o altri vantaggi
patrimoniali per intervenire come illecito mediatore.
In tal modo si consente di investigare su quei comportamenti, che
abbiamo definito come tipici dei “faccendieri” o “facilitatori”, per verificare
se la mediazione promessa sia poi sfociata in un avvicinamento corruttivo di
un funzionario o sia rimasta una mera millanteria.
Soprattutto, poi, nel 2015, è stata ripristinata la piena punizione del falso
in bilancio, annullando gli effetti della (sciagurata) riforma del 2001 e
consentendo quindi di nuovo l’utilizzo di questa importante fattispecie spia.

4.6 L’indispensabilità delle intercettazioni


Le indagini in materia possono utilizzare (ovviamente) tutti i mezzi di
prova previsti dal Codice di procedura penale, per qualunque tipo di reato;
quindi, ad esempio, le testimonianze, le perquisizioni, i sequestri di
documenti ecc. Ovviamente, alcuni strumenti probatori potranno essere più
utili di altri. Lo saranno, senza alcun dubbio, le indagini patrimoniali, quelle
cioè che seguono i flussi di denaro, che potranno far comprendere come e
dove si muovono le disponibilità economiche di qualcuno, o le rogatorie
internazionali, ovvero quelle indagini che vengono svolte all’estero, con la
collaborazione di magistratura e polizia straniere, per individuare, ad
esempio, conti correnti esteri in cui confluiscono i soldi delle mazzette o
quelli per poterle pagare.
Queste indagini sono utili solo in alcuni casi, soprattutto se i pagamenti
hanno a oggetto somme di denaro significative e ripetute e non, quindi, se
l’utilità versata non è costituita dal denaro (ma, ad esempio, da una promessa
di un posto di lavoro o di un futuro incarico) o è una cifra modesta (un
soggetto che svolge un’attività economica ha fisiologicamente disponibilità
di contanti).
Il mezzo di ricerca della prova più efficace, capace di far emergere fatti
corruttivi episodici ma anche quelli ripetuti e organizzati, è senza dubbio
quello delle intercettazioni telefoniche (e cioè di colloqui a mezzo del
telefono), ambientali (cioè di colloqui di persona) o, anche, dei nuovi
strumenti di comunicazione (ad esempio, mail, sms, chat ecc.).
La ragione è fin troppo intuitiva: i reati di cui ci stiamo occupando
presuppongono rapporti riservati, diretti e personali e solo potendo cogliere il
contenuto di questi rapporti si può riuscire a ricostruire l’esistenza di un fatto
corruttivo.
Le intercettazioni, però, limitano un bene di rilevanza costituzionale (la
libertà e la segretezza delle comunicazioni), perciò sono ammesse solo in
presenza di specifici e rigorosi presupposti. In particolare, devono risultare
indispensabili in relazione a procedimenti per reati di una certa rilevanza
(quelli per i quali è prevista una pena non inferiore nel massimo a 5 anni) e
sempre che vi siano gravi indizi della loro esistenza (cioè, siano già stati
acquisiti elementi probatori che facciano ritenere che siano stati commessi,
anche se non si sa ancora da chi). Vanno autorizzate, per un tempo limitato
(20 giorni, prorogabili anche più volte per 15 giorni) dal giudice su richiesta
del pm; quelle ambientali, a loro volta, possono essere autorizzate presso il
domicilio (e cioè nel luogo in cui il soggetto vive), solo se vi è fondato
motivo di ritenere che lì si svolge l’attività criminosa.
Tutte le indagini più recenti e importanti – quelle già citate su Mose,
Expo e Mafia Capitale, ma anche quelle sugli appalti all’Anas o quelle sulla
costruzione del nuovo stadio della Roma che hanno consentito di individuare
(gravi) fatti corruttivi – hanno utilizzato prevalentemente questo mezzo, in
aggiunta ad altri, quali testimonianze, sequestri, accertamenti patrimoniali
ecc.
Proprio per l’oggettiva indispensabilità di questa tipologia probatoria, da
tempo gli addetti ai lavori hanno chiesto al legislatore di ampliare
ulteriormente la possibilità di ricorrervi, estendendo ai reati in discussione la
normativa prevista per i delitti mafiosi, che consente – in estrema sintesi – di
poterle effettuare in presenza di sufficienti indizi di reato (base probatoria
minore rispetto ai “gravi indizi di reato”), per un tempo più lungo (40 giorni
prorogabili per 20 giorni in luogo dei 20 giorni, prorogabili per 15) e, quelle
ambientali, nel domicilio anche se non vi è il fondato motivo di ritenere che lì
si svolgano attività criminose.
Nel 2017, nell’ambito della riforma delle intercettazioni, il legislatore ha
opportunamente accolto la richiesta e oggi la disciplina delle intercettazioni
per i processi di mafia può essere utilizzata per le indagini sulla corruzione
con un solo limite, relativo all’uso di uno strumento particolarmente invasivo,
“il captatore informatico su dispositivo elettronico portatile”, noto nella
pratica come Trojan (una sorta di virus che può essere inserito in un cellulare
e che di fatto trasforma il telefono portatile in un microfono sempre aperto),
che non potrà essere usato per le intercettazioni ambientali nel domicilio.

4.7 L’utilità della collaborazione di corrotto e corruttore


Un’altra prova particolarmente utile può venire dalle dichiarazioni degli
autori del reato, non solo quelle confessorie (intese, cioè, come ammissioni
della propria responsabilità), ma soprattutto quelle che raccontano di ulteriori
fatti criminosi, indicando anche chi sono i responsabili (che tecnicamente
vengono qualificate come “chiamate in correità”).
Questo mezzo investigativo si rivelò fondamentale durante il periodo di
Tangentopoli. Ormai è storia nota ai più che quando venne arrestato, in
possesso ancora della mazzetta versatagli da un imprenditore,
l’amministratore del Pio Albergo Trivulzio (una famosa casa di riposo
pubblica, nota a Milano come la Baggina), appellato frettolosamente dal
leader del partito che lì lo aveva voluto come “mariuolo”, decise di spiegare
come funzionava il sistema delle tangenti alla politica. Seguirono vari altri
arresti e molti dei soggetti raggiunti dai provvedimenti restrittivi fornirono a
loro volta dichiarazioni accusatorie di terzi, che consentirono di estendere le
indagini a macchia d’olio.
È indiscutibile, quindi, l’importanza di questa tipologia probatoria,
soprattutto in relazione alla corruzione non episodica e organizzata; i
partecipi del patto (illecito) sono gli unici che possono fornire tutte le
indicazioni, rompendo, fra l’altro, il rapporto di tipo fiduciario,
sostanzialmente omertoso, che li lega.
A tal proposito, però, è opportuno ricordare che, in base alle nostre regole
processuali, per un indiscutibile e condivisibile principio di garanzia, le
dichiarazioni accusatorie di un coimputato non possono da sole consentire la
condanna di qualcuno ma necessitano di essere riscontrate da elementi
ulteriori, i cosiddetti riscontri esterni, che possano confermare la veridicità di
quanto dichiarato. Così, se un imprenditore confessa di aver pagato un
funzionario per un atto a lui favorevole versandogli denaro su un conto
estero, la sua dichiarazione potrà ritenersi riscontrata quando si sarà accertata
l’esistenza dell’atto, del versamento sul conto, nonché la riferibilità di
quest’ultimo proprio a quel funzionario.
Pur con questa precisazione, è certamente un grande vantaggio per
un’indagine potersi giovare di una “chiamata di correo” e perciò, già durante
gli anni di Mani pulite, si sviluppò un dibattito sull’opportunità di incentivare
queste forme di collaborazione con vantaggi processuali e qualcuno si spinse
persino al punto di ipotizzare l’impunità per chi avesse denunciato prima
dell’intervento della magistratura, una scelta adottata con qualche successo in
alcuni Paesi di diversa tradizione giuridica.
Il legislatore, però, per molti anni è rimasto inerte e solo nel 2015 si è
finalmente deciso a introdurre un’attenuante di pena molto significativa (una
riduzione da un terzo a due terzi) per chi si adoperi efficacemente per evitare
che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le
prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il
sequestro delle somme o altre utilità trasferite. Essa spetta, quindi, non a chi
confessa ma a chi fornisce elementi nuovi e ulteriori (che risultino poi
confermati come veri) rispetto a quanto già acquisito dalle indagini autonome
della magistratura.
Una soluzione, quella adottata dal legislatore, certamente condivisibile in
quanto già sperimentata positivamente per il contrasto a mafie e terrorismo e
che può rappresentare uno stimolo per collaborare, anche nella logica di
controbilanciare l’isolamento cui va incontro chi sceglie di raccontare i
segreti di certi rapporti.
Nel disegno di legge presentato dal governo Conte nell’autunno 2018,
definito con un po’ di retorica “spazzacorrotti”, si propone – raccogliendo la
proposta già avanzata negli anni novanta da alcuni studiosi – una soluzione
più radicale per stimolare gli apporti collaborativi, ossia la non punibilità di
chi decide di confessare il fatto corruttivo, indicando i complici e
consegnando l’eventuale tangente ricevuta, entro un breve periodo dal
verificarsi della stessa, e comunque prima che la magistratura abbia avviato le
indagini.
Pur ritenendo condivisibile l’obiettivo che ci si è prefissi, la soluzione ci
lascia non poco perplessi poiché non solo potrebbe essere in contrasto con il
principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma potrebbe
soprattutto prestarsi a rischi di gravi abusi; ovvero, potrebbe di fatto celare
un’ipotesi di provocazione, in cui, cioè, un’offerta corruttiva venga fatta fin
dal primo momento con il solo obiettivo di denunciare la controparte.

4.8 E l’agente provocatore?


Il riferimento fatto nell’ultima parte del precedente paragrafo ci porta a
occuparci di un argomento, oggetto di ampio dibattito, che riguarda la
possibilità di introdurre, nell’ambito della normativa di contrasto della
corruzione, le figure dell’agente provocatore e/o dell’agente infiltrato.
Si tratterebbe, nelle intenzioni di chi si dichiara a esse favorevole, di
strumenti che dovrebbero, al pari delle chiamate di correo, favorire
l’emersione di fatti corruttivi e consentirne successivamente una prova nel
corso del processo. È utile, prima di esprimersi in merito, fare chiarezza su
cosa si intende con le espressioni sopra riportate, perché si tratta di figure
solo in apparenza simili.
L’agente provocatore è un soggetto, in genere un appartenente alle forze
dell’ordine, che istiga qualcuno a commettere un reato per poi assicurarlo alla
giustizia. Ad esempio, se un poliziotto, presentandosi come un imprenditore,
propone a un amministratore pubblico una tangente in cambio di un appalto,
a ben vedere, l’istigatore sta creando “artificiosamente” un reato che non
sarebbe stato commesso in assenza della sua provocazione.
L’agente infiltrato o sotto copertura agisce, invece, nell’ambito di
un’indagine relativa a un reato già ideato e in corso di commissione. Si
introduce, sotto mentite spoglie, in un’attività criminale, fa soprattutto da
spettatore o compie attività esecutive di un accordo già preso, in modo da
poter poi riferire al giudice quanto ha visto. Ad esempio, si presenta come un
collaboratore di un imprenditore che ha ricevuto una richiesta di tangente,
presenzia alle trattative in corso con il pubblico amministratore e consegna
eventualmente anche al corrotto la tangente in precedenza concordata.
La differenza non è affatto irrilevante: l’agente provocatore pone in essere
una messa in scena che costituisce il reato, l’infiltrato disvela un’attività
criminosa già avviata ed esistente, senza influire in modo determinante sul
verificarsi del reato. Ed è proprio partendo da questa distinzione che ci
dichiariamo assolutamente contrari alla figura dell’agente provocatore, per
una serie di ragioni.
In primo luogo per una ragione di principio: il compito della giustizia
penale è punire chi commette reati, cioè fatti socialmente dannosi, non certo
chi si mostra propenso a commetterne, come accadrebbe a chi accetta una
tangente fin dall’origine non reale.
Appare, inoltre, difficilmente compatibile con l’idea di una giustizia
liberale il comportamento di uno Stato che mette alla prova il cittadino, per
tentarlo e punirlo, se cade in tentazione; e si potrebbe qui aggiungere, a titolo
provocatorio: con tante corruzioni che non si scoprono, avrebbe davvero
senso provocarne di ulteriori, piuttosto che concentrarsi a scoprire quelle
commesse?
E, infine, si tratta di una pratica investigativa che si può prestare a non
pochi abusi: chi decide chi, quando e come provocare? Si potrebbe
rispondere che la decisione potrebbe essere affidata a un magistrato e quindi a
un organo imparziale. Anche questa scelta, però, non farebbe venir meno i
rischi; siccome con l’istigazione si va a creare un reato che non c’è, quali
potrebbero essere gli elementi valutati da un magistrato per autorizzare questa
operazione? Basterebbe una propensione del funzionario ad accettare
tangenti? E come andrebbe dimostrata?
C’è poi un argomento, squisitamente giuridico, che taglia la testa al toro;
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha in più occasioni condannato Paesi
membri del Consiglio d’Europa (ad esempio la Lituania) proprio per
l’impiego di questo istituto. Ha affermato, in particolare, un principio, che in
base alla nostra Costituzione (art. 117) è vincolante, e cioè che è illegittimo,
“per contrasto con la regola dell’equo processo prevista dalla Convenzione
sui diritti dell’uomo, il ricorso all’agente provocatore allorché si accerti che il
reato non sarebbe stato commesso senza la provocazione”.
Quanto detto spiega ancor meglio perché poco sopra ci siamo dichiarati
perplessi rispetto anche all’ipotesi della non punibilità di chi si autodenuncia,
che è stata paventata nella legge cosiddetta “spazzacorrotti”; tutte le già citate
controindicazioni diverrebbero ancora più forti e consistenti se venisse in
qualche modo, anche indirettamente, consentita una qualche forma di
provocazione, persino al di fuori del controllo giudiziario.
Tutte queste controindicazioni non sono, invece, estensibili all’infiltrato,
una figura che, così come evidenziato dalla stessa Corte europea, potrebbe
legittimamente essere introdotta da una norma che individui precisi
presupposti per il suo utilizzo tra i quali: gravi indizi dell’esistenza di
un’attività corruttiva in corso, l’autorizzazione preventiva dell’autorità
giudiziaria e una specifica professionalità di chi dovrà infiltrarsi (in
particolare, dovrebbe essere un ufficiale di polizia giudiziaria). E in questa
direzione sembra muoversi la proposta di modifica contenuta nel disegno di
legge “spazzacorrotti”, sul punto pienamente condivisibile.
Si tratterebbe di uno strumento particolarmente utile, perché
consentirebbe di ricostruire dall’interno e con precisione soprattutto quelle
reti organizzative attraverso cui si manifestano le forme più recenti di
corruzione organizzata.
4.9 La punizione
La repressione penale della corruzione consiste nella punizione di chi si è
macchiato di questo crimine, con l’irrogazione di pene di varia natura
(detentive, accessorie e patrimoniali) che dovrebbero rappresentare sia la
giusta sanzione sia un monito per gli altri cittadini, un disincentivo, cioè, a
commettere questo reato. La punizione presuppone che il fatto venga
accertato con sentenza definitiva attraverso un processo giusto, che garantisca
all’imputato un ampio contraddittorio e l’esercizio pieno dei suoi diritti di
difesa.
Nella pratica, però, capita in casi tutt’altro che rari che non si giunga a
una sentenza definitiva per l’intervento della prescrizione, un istituto che,
applicabile a quasi tutti i reati (tranne quelli gravissimi, come l’omicidio
pluriaggravato o la strage), comporta la rinuncia dello Stato alla punizione se
non interviene una sentenza definitiva entro un termine (che comincia a
decorrere dalla commissione del reato) determinato in relazione alla gravità
del reato medesimo.
Il giudice, in questo caso, dichiara estinto il reato, ponendo nel nulla
l’attività processuale svolta fino a quel momento (comprese eventuali
sentenze di condanna di primo grado o di appello) e soprattutto impedendo
gli effetti che potrebbero derivare dall’accertamento del reato.
Con la prescrizione, l’imputato viene, infatti, prosciolto e così il
funzionario non potrà, ad esempio, essere rimosso dal suo posto di lavoro (a
meno che non lo sia in via disciplinare) e il corruttore, se imprenditore, potrà
continuare a partecipare alle gare d’appalto.
Gli effetti negativi di una decisione che finisce per danneggiare anche
l’imputato (non gli viene restituito l’onore perché la prescrizione non
equivale a una vera assoluzione) sono stati amplificati da una criticatissima
riforma del 2005 (la legge cosiddetta “ex Cirielli”) che, modificando i criteri
di computo della prescrizione, ha finito in questi casi per dimezzarli,
passando, per la corruzione propria, dagli originari 15 anni a 7 anni e 6 mesi.
Un termine spesso insufficiente per giungere a una decisione definitiva, visto
che i processi in materia necessitano di accertamenti lunghi e complessi per
fatti, fra l’altro, quasi mai emersi processualmente nell’immediatezza della
loro commissione.
A questa situazione è stato opportunamente posto rimedio negli ultimi
anni, aumentando per i delitti in esame le pene previste nel massimo –
parametro a cui è ancorato il computo dei termini della prescrizione – e
soprattutto prevedendo regole speciali; ne è derivato un allungamento
consistente dei termini di prescrizione che ha portato, ad esempio, quelli per
la corruzione propria a circa 20 anni.
Nel dibattito di quest’ultimo periodo c’è chi propone una modifica ancora
più radicale dell’istituto e cioè che la prescrizione non operi più dopo una
sentenza di primo grado (o, persino, secondo alcuni dopo un rinvio a
giudizio). È una posizione che ci lascia perplessi, perché il termine massimo
di prescrizione garantisce la ragionevole durata dei processi ed evita il loro
eccessivo protrarsi, che rischia di rendere inutili le sentenze proprio per i
delitti di cui ci occupiamo; che senso avrebbe, ad esempio, una condanna con
un’interdizione per un funzionario ormai andato in pensione?
Con la decisione definitiva di condanna vengono irrogate (e diventano
eseguibili) le sanzioni, a cominciare dalle pene detentive, sulle quali si
concentrano non poche critiche da parte degli studiosi del fenomeno.
Sono in molti a rilevare che quelle che vengono in concreto comminate
dai giudici appaiono incapaci di rappresentare un qualsiasi deterrente perché
spesso lievi, quasi sempre più vicine alle soglie del minimo di pena previsto
dalla norma, accompagnate, fra l’altro, in molti casi dalla concessione della
sospensione condizionale e, soprattutto, quasi sempre scontate con misure
alternative al carcere (di cui si può direttamente beneficiare per pene fino a 4
anni).
Sempre costoro rilevano come nel nostro Paese, a differenza di altri (si
citano spesso Stati Uniti, ma anche Germania), sarebbero pochissimi i
detenuti non solo per corruzione ma per tutti i white collar crimes
(letteralmente, i delitti dei colletti bianchi), cioè quei reati commessi da
soggetti abbienti, collegati soprattutto allo svolgimento di attività economiche
e imprenditoriali.
Le pene alternative, nate con il sacrosanto e giusto obiettivo di rieducare i
condannati, finirebbero spesso, secondo questa impostazione, per favorire
proprio questi “delinquenti” che, in apparenza, sono socialmente meno
pericolosi, quantomeno se comparati con coloro che commettono reati
violenti e di strada, e consentirebbero loro di scontarle con modalità spesso
assolutamente non afflittive, come (riprendendo un caso famoso che ha
riguardato un politico nazionale di primo piano) il recarsi a fare volontariato
in un centro per anziani.
I temi indicati hanno un indiscutibile fondo di verità. Di recente l’attuale
ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha reso noti i dati delle sentenze
di condanna per le ipotesi di corruzioni proprie (quelle per atto contrario ai
doveri di ufficio e quindi più gravi) dell’anno 2017; sono state davvero poche
(appena 261) e di queste in ben 140 casi è stato riconosciuto il beneficio della
sospensione condizionale, per cui la pena non sarà nemmeno scontata.
Questi temi pongono degli interrogativi che vanno, però, ben al di là di
questa riflessione perché implicano l’idea di una giustizia che non sempre
riesce ad apparire oggettivamente uguale per tutti, a prescindere dalle
condizioni economiche e sociali dei soggetti destinatari dei suoi
provvedimenti.
Qui, però, possiamo limitarci, da una parte, a ricordare come i consistenti
aumenti delle pene introdotti nel 2015 renderanno, almeno per il futuro, meno
abituali sanzioni molto lievi e, dall’altra parte, a evidenziare come sia
riduttivo valutare l’effettività e l’afflittività di una pena guardando solo a
quella detentiva, e non a tutte le sanzioni che complessivamente conseguono
da una condanna.
Quelle che incidono sullo status del condannato (e cioè sulle sue cariche
amministrative e/o elettive) o sul suo patrimonio possono risultare ben più
efficaci anche della detenzione. E in questo senso riteniamo molto importanti
le pene accessorie e le confische che potranno essere applicate con la
condanna: l’interdizione dai pubblici uffici e l’incapacità a contrattare con la
pubblica amministrazione.
L’interdizione perpetua scatterà automaticamente per le condanne a pene
di almeno 3 anni per concussione, corruzione propria e corruzione in atti
giudiziari; per pene inferiori per questi reati scatterà l’interdizione di 5 anni,
sempre che non venga concessa la sospensione condizionale. Per le altre
fattispecie (corruzione per l’esercizio delle funzioni e induzione indebita)
l’interdizione perpetua si avrà solo con condanne a pene superiori a 5 anni e
quella temporanea per 5 anni per condanne a pene non inferiori a 3 anni,
purché non condizionalmente sospese.
L’incapacità a contrattare con l’amministrazione, sempre temporanea da
un minimo di 1 anno a un massimo di 5 determinata dal giudice, si applicherà
invece con la condanna per tutte le ipotesi di corruzione, in cui il reato sia
stato commesso a vantaggio o a danno di un’attività economica, sempre però
che non sia concessa la sospensione condizionale.
Un impianto sanzionatorio che è stato reso più rigoroso dalle modifiche
degli anni scorsi rispetto a quello contenuto nell’originario codice, nei cui
confronti, però, nel disegno di legge “spazzacorrotti” viene previsto un
ulteriore inasprimento (il cosiddetto Daspo per i corrotti) che dovrebbe, a
quanto è dato capire, portare a un aumento dei casi di interdizione perpetua e
anche a ipotesi di incapacità perpetua di contrattare con l’amministrazione.
Una proposta che, fermi restando i doverosi criteri di proporzionalità e di
rispetto del principio di rieducazione cui devono comunque tendere tutte le
pene, può essere condivisibile perché è giusto che chi si è macchiato di questi
crimini, soprattutto nei casi di maggiore gravità, non abbia più alcun tipo di
rapporti con l’amministrazione pubblica.
Quanto alle misure patrimoniali, è utile tener presente che possono essere
particolarmente dannose per un condannato persino più della pena detentiva;
la confisca priva definitivamente di un bene e, soprattutto, indebolisce la
capacità economica del condannato e quindi, indirettamente, anche la sua
capacità di commettere ulteriori reati.
Il Codice penale prevede un’efficace forma di confisca del profitto o del
prezzo del reato che può applicarsi anche “per equivalente”, e cioè su tutti i
beni in possesso del condannato, fino al valore di quanto illecitamente
ottenuto. Si tratta di una misura che sta avendo un’ampia applicazione nella
pratica, perché consente, anche prima della condanna definitiva, il sequestro
preventivo di beni del valore di quelli che poi potranno confiscarsi.
Con la riforma del Codice antimafia nel 2016, è stata introdotta anche una
nuova e controversa ipotesi di confisca di prevenzione per i casi di
corruzione. Si è esportato un istituto eccezionale, molto criticato a livello
internazionale, applicato per i reati mafiosi che consente la confisca di tutti i
beni (non solo di quelli che siano il profitto del reato) di cui non sia in grado
di giustificare la disponibilità chi sia soltanto indiziato di un reato, in
particolare, per quanto ci interessa, di associazione a delinquere finalizzata
alla corruzione.
La complessità del tema non ci consente di approfondire la questione e ci
limitiamo solo ad accennare la nostra contrarietà a un istituto che, proprio per
la sua eccezionalità, era giusto mantenere confinato ai casi di reati mafiosi e
non estenderlo a forme criminali che sono oggettivamente differenti.
Pur considerando, infatti, molto pericoloso e grave il flagello della
corruzione, continuiamo a ritenere che nel contrastarla si debba essere
certamente rigorosi, senza però deflettere dalle irrinunciabili regole dello
Stato di diritto.
5.
La prevenzione e la gestione
del rischio corruzione

5.1 Reprimere è necessario, ma non è sufficiente


L’idea di un contrasto della corruzione fondato unicamente sulla
repressione penale è da tempo oggetto di critiche. Come per ogni altra
“malattia” è evidente, già in termini intuitivi, che l’intervento successivo,
quando il male si è manifestato, è in ogni caso una soluzione non ottimale:
meglio sarebbe prevenire l’insorgere della patologia. L’opzione secondo cui
“prevenire è meglio che curare” è valida non solo in campo medico ma anche
in molti settori connessi ad altre attività umane. Si pensi, per restare in un
ambito non troppo distante dal nostro, alla strategia messa in campo in
materia di infortuni sul lavoro dove alla prevenzione è stato riconosciuto un
ruolo di supporto e accompagnamento del pur rigoroso impianto
sanzionatorio. Questa stessa logica può essere certamente esportata a
situazioni non dissimili in cui l’evento dannoso è comunque correlato e
preceduto da situazioni di pericolo sulle quali è possibile preventivamente
intervenire. E questa è la situazione tipica che si verifica in materia di
corruzione.
Del resto, l’insufficienza del solo approccio repressivo è confortata, in
primo luogo, da molti studi di scienze sociali che pongono in evidenza i limiti
dell’azione del giudice penale di fronte a comportamenti diffusi. Il rischio
paventato è che tanto più diventa frequente la richiesta di intervento della
magistratura, tanto più si finisce per far perdere di valore i provvedimenti
della giustizia penale, in particolare quando questi tardano nel tempo o,
peggio ancora, non sempre riescono a essere effettivi.
Se poi passiamo dalle considerazioni generali all’esame specifico del
contrasto penale della corruzione, i limiti del momento punitivo, già in parte
evidenziati, risulteranno ancora più evidenti.
La corruzione “scoperta” è solo una parte certamente minore di quella
complessivamente presente nel sistema: trattandosi di un reato “senza
vittime” è difficile, malgrado tutti gli sforzi fatti e quelli ancora possibili,
farne emergere una quota percentuale significativa.
La forte distanza tra corruzione percepita (molto alta e con tendenza
all’aumento per quasi un decennio, prima della legge sull’anticorruzione) e
quella perseguita (con dati, nello stesso periodo, decrescenti in modo anche
importante), pur con tutti i già indicati limiti legati all’utilizzo di strumenti di
misurazione “impressionistici”, mostra comunque in modo efficace la
distanza tra il fenomeno e il suo contrasto in sede penale.
L’intervento del giudice penale è, in ultima istanza, solo parziale, quasi
episodico, e non pare in grado di contribuire, da solo, a ricostruire un sistema
di corretto funzionamento delle istituzioni. L’idea che va messa in campo è,
quindi, quella di sviluppare strategie in grado di intaccare anche quella parte
dell’iceberg che non emerge (mai) sopra il livello del mare.
Non si tratta ovviamente in alcun modo di prescindere dal momento
repressivo; della sua assoluta indispensabilità abbiamo detto con chiarezza e
qui intendiamo ribadirlo. È stata questa del resto l’opzione del nostro
legislatore che, con la legge n. 190 del 2012, la famosa legge Severino, ha
cercato di operare contestualmente sul versante del rafforzamento delle
misure repressive, affiancandovi, però – è questa la grande novità – una
seconda gamba, meno efficace forse per contenere i fatti e le devianze più
gravi, ma in grado di rispondere all’esigenza di legalità nell’azione
amministrativa, attraverso cui prevenire il verificarsi di fatti criminali.

5.2 Dalle sollecitazioni internazionali alla legge Severino


L’importanza di una prospettiva diversa, di tipo preventivo, connotata da
misure amministrative non è certo un’idea solo italiana; si tratta anzi di un
tema al centro, da anni, del dibattito mondiale in materia di lotta alla
corruzione.
La convenzione Onu di Merida del 2003 non a caso contiene due parti, la
prima rivolta a rafforzare l’azione repressiva e penale e la seconda a
potenziare quella preventiva. In essa è testualmente scritto, infatti, che
ciascuno Stato deve elaborare “delle politiche di prevenzione della corruzione
efficaci e coordinate che favoriscano la partecipazione della società e
rispecchino i princìpi di stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici
e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabilità” (art. 5).
A una affrettata lettura sembrerebbe una mera e generica sollecitazione a
mettere in campo una qualsivoglia politica di prevenzione; fra le righe,
invece, si colgono chiarissimi i tratti di quella che dovrà essere la strategia:
non solo, in particolare, gli obiettivi da perseguire (“la buona gestione degli
affari pubblici”, l’“integrità” e la “responsabilità”) ma anche i mezzi da
utilizzare (la “trasparenza” e soprattutto “la partecipazione della società”).
Alle indicazioni della convenzione Onu si affiancano quelle contenute in
un’altra convenzione cui ha aderito l’Italia, quella sulla corruzione del
Consiglio d’Europa. A garanzia dell’adempimento delle norme pattizie è stata
prevista, in particolare, un’incisiva azione di monitoraggio e stimolo da parte
di un organismo costituito ad hoc, il Greco, le cui “missioni”, condotte nei
diversi Paesi aderenti, hanno portato a importanti rapporti sulla situazione
della lotta alla corruzione. E proprio un rapporto del Greco, frutto di
un’indagine approfondita condotta poco prima della legge anticorruzione, ha
posto le premesse per il successivo intervento normativo italiano.
Da ultimo, ma non ultima, la pressione esercitata dalla stessa Unione
europea: la corruzione la danneggia direttamente, dato che essa opera
attraverso le amministrazioni nazionali (ad esempio, sono gli uffici delle
Regioni a gestire i bandi e i finanziamenti relativi alla politica agricola
europea). Da qui l’esigenza dell’Unione di sviluppare proprie strategie di
controllo (in particolare, attraverso un’apposita agenzia antifrode, l’Olaf), ma
anche di indurre miglioramenti nel funzionamento delle strutture nazionali.
Gli input internazionali ed europei hanno avuto, quindi, un ruolo
importante, se non determinante, nella decisione di avviare un’organica
politica di contrasto alla corruzione; non è un caso che la legge Severino, che
rappresenta il caposaldo in materia, sia stata approvata in una stagione
particolare della vita politica italiana caratterizzata dalla presenza di un
governo tecnico (quello di Mario Monti), nato a seguito di una crisi
economica gravissima, per evitare che il Paese potesse essere sottoposto al
mortificante tutoraggio della Troika europea.
La legge anticorruzione venne, anzi, presentata non solo al parlamento ma
anche ai partner internazionali come uno dei tasselli di un più ampio mosaico
di ricostruzione delle infrastrutture economiche ed etiche del Paese, come
uno strumento che avrebbe potuto rilanciare l’immagine appannata dalla crisi
economica ma anche morale di un pezzo della classe dirigente.
La necessità di dare reale attuazione alle convenzioni internazionali
giustificò, d’altro canto, da parte del nuovo ministro della Giustizia (Paola
Severino) il recupero di una proposta di legge, i cui primi firmatari erano il
precedente presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi) e il suo ministro della
Giustizia (Angelino Alfano), che era finita su un binario parlamentare morto.
Quel disegno di legge venne rinnovato nei contenuti e soprattutto, con un
proficuo impegno del Guardasigilli, spinto verso l’approvazione
parlamentare, che fu salutata dal premier dell’epoca con grande entusiasmo e
persino (forse con una punta di ingenuo ottimismo) con la previsione di un
effetto positivo sull’aumento del Pil, in quel momento particolarmente
depresso.

5.3 La “filosofia” del nuovo impianto preventivo


Nel linguaggio mediatico si parla spesso di legge Severino come se si
trattasse di un’unica normativa. In realtà, con quell’espressione si intende far
riferimento non solo alla già indicata legge n. 190 del 2012 ma anche a tre
decreti legislativi, emanati dal medesimo governo Monti, proprio in virtù di
deleghe conferite dalla stessa legge, con l’obiettivo di completare la trama
normativa. Un primo, emanato nello stesso anno 2012 (n. 235) in materia di
incandidabilità e ineleggibilità, gli altri due nei primi mesi del 2013 (nn. 33 e
39), in materia di trasparenza e di incompatibilità delle cariche
amministrative.
Malgrado il complessivo impianto normativo risenta di una certa
frettolosità e, quindi, di una tecnica legislativa non sempre perfetta (basta qui,
a titolo di esempio, ricordare come la legge n. 190 consti di un unico articolo
di oltre 80 commi, formulato con un maxiemendamento su cui venne chiesta
la fiducia) è possibile, però, individuare chiaramente i tratti caratterizzanti del
sistema della prevenzione nazionale.
La convenzione di Merida, indicando obiettivi da perseguire e mezzi da
utilizzare, ha fornito una cornice salda, all’interno della quale, però, ogni
nazione può muoversi con autonomia e nel rispetto dei princìpi di fondo del
proprio ordinamento giuridico, per stabilire specifiche misure di natura
preventiva. L’Italia, in questo senso, ha fatto le sue scelte, seppur
raccogliendo spunti da altre esperienze nazionali e internazionali,
individuando poi un suo modello che oggi è all’attenzione internazionale,
proprio per i suoi tanti aspetti di novità e di organicità.
In estrema sintesi, sono tre i momenti (i pilastri, potremmo dire con un
po’ di enfasi) che caratterizzano la strategia della prevenzione, sia pure in una
prospettiva unitaria che resta quella della “corruzione”, da contenere ed
evitare. Per farlo, non si tratta tanto di garantire a tutto tondo il miglior
funzionamento delle organizzazioni, quanto di correggerne i meccanismi,
avendo presente, come un faro, il pericolo della corruzione.
Il primo pilastro della strategia è connesso a un capovolgimento della
prospettiva tradizionale. L’esigenza di assicurare la legalità e la corretta cura
degli interessi pubblici è un problema non certo attuale a cui i sistemi
amministrativi hanno cercato di rispondere in passato con la logica del
controllo, spesso affidato a organismi esterni e, in ultima battuta,
all’intervento della magistratura penale.
Era evidente in questa opzione l’idea di un’amministrazione di cui non ci
si poteva fidare in quanto “luogo a rischio”, un’entità, quindi, da sottoporre a
una sorta di tutela che finiva, però, per deresponsabilizzare l’amministrazione
medesima. Se c’è qualcuno che controlla, è a lui che è demandato l’onere di
impedire che si verifichino fatti illeciti o persino mercimoni delle funzioni.
L’impianto normativo ultimo scommette, invece, sulla capacità di ogni
singola amministrazione di poter generare gli anticorpi, partendo da un
assunto in astratto difficilmente contestabile: non si può contrastare la
corruzione, e più in generale il malaffare amministrativo, ponendosi contro
l’amministrazione e non utilizzando la parte migliore di coloro che di essa
fanno parte.
Questo capovolgimento di prospettiva si traduce, nella pratica,
nell’innovativa previsione di uno strumento alternativo di controllo,
attraverso la riorganizzazione delle procedure, quello dei piani di prevenzione
della corruzione, di cui parleremo nei prossimi paragrafi.
Il secondo pilastro di questa strategia pone l’attenzione sul diverso
rapporto che deve intercorrere fra amministrazione e cittadini: sono questi
ultimi i beneficiari dell’attività dell’amministrazione; i funzionari pubblici,
sia quelli elettivi sia quelli burocratici, gestiscono il potere nell’interesse della
collettività e, in ultima analisi, dei cittadini. A costoro devono dar conto – è il
dar conto che viene espresso in un felice vocabolo, non a caso di tradizione
anglosassone, accountability – e sono costoro che possono (e devono)
chiedere ragione dell’operato dell’amministrazione.
Per strutturare questo diverso e nuovo rapporto amministrazione-cittadini
è necessario capovolgere l’idea tradizionale con cui fino a ieri si è mossa
l’amministrazione: la riservatezza del suo agire. Bisogna, invece, che
l’attività amministrativa sia conoscibile dal cittadino in quanto tale, e non
perché portatore di uno specifico interesse.
Questa esigenza si traduce, quindi, nella necessità di massima trasparenza
dell’azione amministrativa e, di conseguenza, nella piena accessibilità agli
atti e alle informazioni in possesso del settore pubblico.
Il terzo pilastro è, invece, ricollegato direttamente all’attività e ai
comportamenti dei funzionari pubblici poiché ogni cambiamento
organizzativo non può non passare per l’azione di costoro; per riprendere un
detto troppe volte ripetuto, forse anche fuori luogo, “le idee camminano sulle
gambe degli uomini”.
Una qualunque strategia di contrasto della corruzione, del resto, non
potrebbe fare a meno dell’apporto di quei dipendenti pubblici che si liberino
dello stereotipo del travet per essere, invece, il motore di un cambiamento
dell’amministrazione.
Questi funzionari pubblici devono, però, avere caratteristiche che li
rendano non permeabili alla corruzione e soprattutto un comportamento che li
renda esemplari e sempre più somiglianti alla figura di un “funzionario
modello”; devono, in estrema sintesi, essere imparziali, cioè comportarsi
tenendo presente, quale unico interesse da perseguire, quello pubblico.
Sulle regole che tendono a rafforzare l’imparzialità del funzionario si
concentra la terza parte dell’impianto preventivo. Nella logica, infine, di
questa filosofia è previsto anche un garante del sistema, l’Autorità nazionale
anticorruzione, che è il centro della nuova funzione di prevenzione, a cui
spetta il compito di costruire una “politica” anticorruzione grazie alla sinergia
con le singole amministrazioni, fortemente responsabilizzate e di fatto
protagoniste nella nuova stagione di miglioramento del sistema pubblico.

5.4 I piani di prevenzione


Abbiamo indicato come il primo pilastro della strategia anticorruzione
risieda nella previsione per ogni amministrazione della necessità di dotarsi di
uno specifico piano; prima di analizzare cosa siano i piani, è utile
comprendere l’obiettivo che devono perseguire.
L’idea sottesa a essi, e in definitiva all’intera politica di prevenzione, è
quella di un “rischio”, la corruzione, che può essere contenuto attraverso
adeguati accorgimenti preventivi; è un’opzione che viene utilizzata, sia pure
con forme e nomi diversi, in molti Paesi europei e in un gran numero di realtà
extraeuropee.
La logica non è troppo diversa nemmeno da quella che si afferma in altri
campi, come ad esempio quello già citato della sicurezza sui luoghi di lavoro.
La corruzione come fact of life (evento accidentale, occasionale) può sempre
verificarsi, dato che dipende dalla volontà dolosa di individui, ma è possibile
cercare di prevenire la corruzione come way of life, in quanto conseguenza
dell’assenza di adeguate misure: un po’, per semplificare, come l’assenza di
un parapetto o di attrezzature idonee in un cantiere edile contribuisce a
causare colpevolmente incidenti, così l’assenza delle opportune regole
preventive finisce per favorire il verificarsi della corruzione.
Tante volte nell’esaminare vicende corruttive ci si rende conto che, se da
un lato indubbiamente dipendono dalla disponibilità individuale ad accettare
mazzette, dall’altro sono favorite anche dall’assenza di meccanismi, come
quelli di rotazione e/o di affiancamento, che fanno considerare quel
funzionario come insostituibile, tanto da potersi sentire, persino, in qualche
modo confortato nel suo proporre “aggiustamenti” di pratiche di cui si
occupa. Se, invece, in anticipo, si prende in debita considerazione la
“pericolosità” di una certa attività, perché, ad esempio, relativa a questioni
economicamente significative e si strutturano interventi preventivi, il rischio
di corruzione oggettivamente si riduce.
Se gli uomini fossero angeli, o fossero governati da angeli, già ammoniva
James Madison, uno dei padri della Costituzione statunitense, non ne
avremmo bisogno, ma dato che questa natura angelica non può darsi per
scontata, sono opportune “precauzioni ausiliarie”.
In termini più moderni, il problema può essere tradotto in una questione
di gestione del rischio, e questo è un approccio ormai standard, tanto che
esistono specifiche regole Iso (gli standard di qualità) relative al rischio nelle
organizzazioni. La logica è sempre la stessa: avere la capacità di individuare i
rischi che provengono dal contesto esterno (operare, ad esempio, in uno
specifico settore o in un certo ambito territoriale) e da quello interno (come è
fatta un’organizzazione, quali problemi pregressi ha avuto) e quindi calare
nello specifico procedure ad hoc che possono annullare o attenuare questi
rischi.
A queste attività di “mappatura” del rischio (che, ad esempio, in un
Comune è più alto negli uffici tecnici che gestiscono le pratiche di edilizia e
urbanistica, e più basso negli uffici cultura e scuola) dovrà poi corrispondere
un’attività di gestione (e minimizzazione) del rischio, il cosiddetto risk
assessment, che consiste nell’individuare la misura più opportuna, non in
generale e in astratto ma nello specifico, per contenere o eliminare quel
rischio.
Per ridurre il rischio di corruzione di un impiegato che opera nel campo
dei contratti pubblici, è più efficace una maggiore trasparenza o stabilire
regole di comportamento mirate (come ad esempio il divieto di ricevere
doni), o ancora è auspicabile la rotazione del personale o è necessario
individuare incompatibilità che possono prevenire conflitti di interesse? La
scelta della misura efficace (o della combinazione di più misure) consente di
ridurre il rischio, mentre una risposta non corretta porta a un appesantimento
dell’azione amministrativa o addirittura a una perdita di capacità tecnica che
espone al rischio di “cattura” da parte delle controparti private.
L’appesantimento sarà reale e dannoso, quindi, se le misure sono inutili o,
peggio ancora, sbagliate: se ben condotte, invece, diventano un’occasione
anche di miglioramento dell’organizzazione, di risoluzione di problemi (solo
grazie ai piani anticorruzione, ad esempio, è stato possibile ruotare, e
spostare, i vigili urbani di Roma tra i diversi uffici e municipi, rispondendo in
questo anche a esigenze di funzionalità e non solo di contrasto della
corruzione in senso stretto), perfino di semplificazione.
Se è nella complessità di un iter procedurale che si annida il rischio di
corruzione, la soluzione è, ad esempio, il suo snellimento, non altro. Si tratta,
lo si comprende, di un’attività non semplice (o, perlomeno, di un’attività che
è difficile fare bene mentre è abbastanza facile fare male) da cui dipende
l’effettiva capacità del sistema di impedire il verificarsi dell’evento
“rischioso”. Essa va, perciò, programmata in modo completo, vagliando tutta
l’azione di un’amministrazione nella sua “pericolosità”.

5.5 Il piano nazionale


La legge italiana, sulla scorta di esperienze maturate a livello europeo e
internazionale, ha previsto che le amministrazioni si dotino di piani di
prevenzione della corruzione.
Un’idea questa non troppo distante da quella già sviluppata con
riferimento alla responsabilità penale delle imprese, prevista dal decreto n.
231 del 2001: nel definire le condizioni per cui un’impresa interessata da un
episodio di corruzione commesso da suoi addetti dovesse o meno essere
considerata “corresponsabile”, il legislatore ha previsto che l’impresa
introduca adeguate misure organizzative che, se considerate adeguate, le
consentono di andare esente da responsabilità.
In vari ordinamenti stranieri è invece diffusa l’adozione, da parte delle
singole amministrazioni, di piani di integrità (integrity plans), ovvero
strumenti per stabilire e verificare l’integrità dell’organizzazione e valutare il
livello di vulnerabilità, l’esposizione a pratiche non etiche e alla corruzione.
Questi piani aiutano a gestire i rischi di corruzione e concentrano la loro
attenzione sui conflitti di interesse, secondo le indicazioni fornite in
particolare dall’Ocse.
Entrambi i modelli hanno avuto la loro influenza, ma quello poi scelto dal
legislatore nazionale ha sue peculiarità in quanto non è orientato su singole
questioni (conflitti di interesse o integrità) ma sulla gestione di tutte le
possibili situazioni di rischio e, soprattutto, si muove con un approccio
integrato tra ciascuna amministrazione e l’Autorità anticorruzione.
Il piano previsto dal nostro Paese si articola, infatti, su un doppio livello,
un piano nazionale (Pna) e un piano di ogni singola amministrazione, che
hanno validità triennale ma devono essere annualmente aggiornati.
La legge Severino affidava la predisposizione del Pna al dipartimento
della Funzione pubblica (incardinato nella presidenza del Consiglio) e la
successiva approvazione all’Autorità anticorruzione; un sistema duale che,
poco funzionale, è stato opportunamente modificato nel 2014 dal decreto
Madia che ha trasferito tutta la competenza all’Anac, che deve previamente
sentire altri organi (in particolare un comitato interministeriale e la
conferenza unificata Stato-Regioni).
Per la particolare importanza del documento, l’Anac ha scelto di
predisporre il piano attraverso tavoli di lavoro cui partecipano rappresentanti
delle amministrazioni in modo che l’approvazione definitiva sia il risultato di
una consultazione ampia e aperta ai contributi di tutti gli interessati.
Attraverso il Pna (definito dalla legge “atto di indirizzo per le pubbliche
amministrazioni”) l’Anac fornisce alle singole amministrazioni le indicazioni
metodologiche relative alla redazione del proprio piano, indica le possibili
aree su cui intervenire e fornisce indicazioni sulle misure adottabili, finendo
in qualche modo per innovare il quadro normativo.
Tutta la capacità innovativa del Pna si è evidenziata nella misura della
rotazione del personale: spostare il personale viene considerata dalla legge
Severino una delle misure da adottare per la prevenzione del rischio; è, però,
il Pna che ne definisce i caratteri (a quali condizioni, con quali eccezioni, in
che misura, in quali settori) e le tipologie (rotazione ordinaria, legata a una
programmazione, e straordinaria, legata a specifici episodi di corruzione),
riempiendo, in sostanza, di contenuti una previsione legislativa alquanto
generica.
Nel corso del tempo la struttura del piano nazionale si è concretamente
modificata: il primo (2013-2015), redatto dal dipartimento della Funzione
pubblica, aveva posto le basi del sistema di prevenzione del rischio,
definendo in particolare un processo di mappatura e valutazione del rischio
valido in generale per tutte le amministrazioni; il secondo, attualmente in
vigore (2016-2018), confermando le precedenti scelte metodologiche ha poi
optato per un approccio “per settori” e in questa direzione hanno proseguito
anche i più recenti aggiornamenti annuali.
Se con il primo, quindi, si era fornita, in assenza di precedenti in materia,
una base per redigere un piano, con il secondo si è invece provato ad andare
oltre puntando sull’efficacia ed effettività dei piani. Si passa da indicazioni
generiche valide per tutte le amministrazioni alla considerazione di specifici
contesti in cui nel tempo sono emersi problemi (ad esempio, università,
aziende sanitarie e ospedaliere, agenzie fiscali o i Comuni) e si forniscono
indicazioni specifiche, riferendosi alle situazioni di rischio, emerse
dall’esperienza concreta o segnalate dagli stessi operatori del settore come il
nepotismo nei concorsi universitari, il superamento delle liste di attesa in
sanità, il “chiudere un occhio” in materia di accertamenti fiscali o averne uno
di riguardo per certe pratiche edilizie. Rispetto a questi rischi vengono
proposti rimedi, suggeriti da esperti o ricavati da best practice non solo
nazionali, per attenuarli.
Quelle che fornisce il Pna sono, però, mere indicazioni di indirizzo,
strumenti di supporto a scelte che restano discrezionali delle singole
amministrazioni; aiuti, quindi, utilizzabili o meno, e di certo non invasioni di
campo.

5.6 Il piano prevenzione delle singole amministrazioni


Se il Pna è un atto di indirizzo generale che si rivolge a tutte le
amministrazioni, è con il Piano triennale di prevenzione della corruzione
(Ptpc) che viene messa in campo la specifica strategia di ogni ente.
Tutte le amministrazioni sono tenute ad adottarlo e adeguarlo ogni anno;
dal 2014 l’omissione di tali incombenti è sanzionata con una pena pecuniaria
amministrativa (da 1000 a 10.000 euro) che graverà direttamente sui soggetti
obbligati alla sua predisposizione e approvazione.
Le disposizioni della legge Severino dedicate al Ptpc forniscono solo
alcuni importanti elementi che dovranno essere presi in considerazione dal
piano: la necessità di una valutazione del livello di esposizione a rischio dei
singoli uffici e delle singole attività; l’adeguata formazione dei dipendenti
destinati a occuparsi dei settori a rischio; l’indicazione, anche con l’ausilio di
tutti i dirigenti, degli interventi organizzativi per prevenire i rischi medesimi,
fra cui la rotazione di dirigenti e funzionari; il monitoraggio di alcuni rapporti
considerati a rischio, intercorrenti tra le amministrazioni e terzi
(autorizzazioni, concessioni, erogazioni di vantaggi ecc.). I piani,
ovviamente, dovranno anche adeguarsi alle indicazioni, metodologiche e non
solo, contenute nel Pna.
La predisposizione di un piano è tutt’altro che un’operazione semplice e
banale, perché presuppone una serie di attività oggettivamente complesse,
dispendiose e impegnative, in primo luogo la mappatura dei rischi, ossia
l’individuazione di quali possano essere i fattori che finiscono per agevolare i
fatti di corruzione.
I rischi, in primis, potranno essere collegati a situazioni ambientali esterne
all’ente (ad esempio, una realtà in cui è molto forte l’abusivismo edilizio
porrà nell’ambito di un Comune il problema del rischio di corruzione per
coloro che svolgono i controlli in materia; un contesto caratterizzato dalla
presenza di gravi illeciti ambientali imporrà grande attenzione sugli uffici che
rilasciano le autorizzazioni in materia) e andranno conosciuti ed esaminati
con qualunque strumento a disposizione degli uffici, a partire dalle fonti
cosiddette aperte (articoli di giornale o di altri media) fino a quelle riservate,
ovviamente legittimamente acquisite (ordinanze cautelari, sentenze, sequestri
che hanno riguardato gli uffici dell’ente o altre amministrazioni dello stesso
territorio).
I rischi potranno derivare anche da situazioni interne all’amministrazione,
in quanto ricollegati a uffici e attività oggettivamente pericolosi (perché si
occupano di questioni di impatto significativo dal punto di vista economico)
o a uffici e attività che in precedenza erano stati interessati da indagini
giudiziarie e/o amministrative per reati o comunque per comportamenti
illeciti. Per individuare questi rischi sarà indispensabile avere a disposizione
un quadro ad ampio spettro sull’attività e conoscere la storia degli uffici, per
cui la collaborazione di dipendenti e funzionari sarà imprescindibile.
Solo dopo la mappatura dei rischi ha senso individuare le misure
organizzative; e qui la scelta del legislatore di non indicare quali possano
essere (fatta eccezione per la rotazione) è quanto mai opportuna. Le misure
dovranno essere calibrate in base alle peculiarità dei rischi medesimi,
prevedendo controlli aggiuntivi (il visto sulle pratiche o l’istruttoria condotta
da più persone), destinando maggiori risorse di personale ad alcune attività,
stabilendo rigidi criteri cronologici nell’esame delle pratiche o eliminando
quei passaggi burocratici che possano contenere fattori di rischio.
È in questa autonomia nella scelta delle misure che sta la grande novità
dei piani: è come se fosse una scommessa sulla capacità, da parte delle
singole amministrazioni, di autoprodurre gli anticorpi.
Dal punto di vista procedurale, il piano è approvato dall’organo di
indirizzo politico dell’amministrazione (in un Comune la giunta, in un
ministero il ministro, nell’università il consiglio di amministrazione ecc.) su
proposta, però, di una figura di nuovo conio, anch’essa fondamentale nella
nuova strategia: il responsabile della prevenzione della corruzione (Rpc).

5.7 Il responsabile della prevenzione della corruzione


Il responsabile della prevenzione della corruzione è un soggetto che va
scelto fra i dirigenti dell’amministrazione; il compito negli enti locali
(Comune e Provincia) va affidato, di regola, al segretario comunale o
provinciale.
Significativi sono i poteri riconosciuti dalla legge a questa figura in
quanto è a lui che spetta il compito di predisporre materialmente il piano, che
va poi adottato (quindi con possibilità di apportare modifiche anche
sostanziali) da parte dell’organo di indirizzo politico. A lui compete di
segnalare all’organo di vertice dell’amministrazione le disfunzioni inerenti
all’attuazione delle misure previste dal piano e al titolare del potere
disciplinare le violazioni delle misure da parte dei singoli dipendenti. Deve
poi verificare e monitorare l’efficace attuazione del piano e la sua idoneità,
proponendo le necessarie modifiche in presenza di violazioni e mutamenti
organizzativi e accertare che la rotazione dei dipendenti venga effettivamente
svolta. È lui il garante del rispetto delle regole della trasparenza da parte
dell’amministrazione e dei suoi uffici.
Per l’esercizio di questi compiti deve essere dotato anche di poteri di
richiesta di informazioni e/o ispettivi, che dovrebbero essergli specificamente
conferiti al momento della nomina, prevedendosi, da parte della legge, che in
quel contesto gli debbano essere assicurati funzioni e poteri idonei per
svolgere i propri compiti.
Nei suoi confronti non potranno essere adottare misure discriminatorie,
direttamente o indirettamente collegate all’attività svolta. Nel caso in cui
vengano adottate, consentiranno all’Anac di intervenire per richiedere
all’amministrazione un riesame dei provvedimenti adottati.
Nelle intenzioni della legge Severino, l’Rpc è una figura di snodo
indispensabile. Siccome è impossibile assicurare un controllo effettivo
dell’applicazione della strategia anticorruzione da parte dell’Autorità
nazionale (che, evidentemente, non potrà che procedere a campione), bisogna
individuare un motore e un garante interno che funga anche da interfaccia di
tutti i problemi connessi all’applicazione di queste norme nelle singole
amministrazioni.
In questa logica, ai poteri e alle funzioni fanno da contrappeso
significative responsabilità: qualora si dovesse verificare un fatto di
corruzione all’interno dell’amministrazione, l’Rpc sarà chiamato a
risponderne disciplinarmente, non incorrendo in sanzione solo se ha adottato
il piano e ha vigilato sul suo funzionamento e sulla sua osservanza. Il quadro
dei poteri, facoltà e obblighi dell’Rpc dimostra quanto il suo compito sia
tutt’altro che semplice. Per operare avrà bisogno di mezzi e di supporto
(quantomeno nelle grandi amministrazioni è indispensabile che abbia un
ufficio che lo aiuti), di non essere isolato dal contesto dell’amministrazione,
dai cui uffici ha indispensabile bisogno di informazioni e di collaborazione, e
di essere anzi pienamente supportato nel suo operato dai vertici politici
dell’ente medesimo.
In questi primi anni di applicazione della normativa anticorruzione, gli
Rpc sono divenuti, fra l’altro, sempre più i referenti interni
all’amministrazione dell’Anac; è a loro che l’autorità si rivolge per lo
svolgimento dei suoi compiti di vigilanza e per ottenere informazioni e
notizie ed è con loro che c’è un costante contatto, che trova un momento
pubblico nella giornata che ogni anno Anac dedica all’incontro con gli Rpc.
I responsabili che partecipano a questa giornata, ovviamente scelti a
campione fra tutti quelli nominati (ne partecipano fra i 300 e i 400), si
confrontano con l’Autorità sulle tematiche di attualità e sui problemi concreti
che vi sono quotidianamente nell’applicazione pratica delle misure; l’idea è
che si formi, in prospettiva, una rete fra tutti gli Rpc per potersi scambiare
esperienze e idee e che questa rete possa trovare quale costante riferimento
proprio l’Autorità anticorruzione.

5.8 L’applicazione della normativa


A distanza di poco più di cinque anni dall’entrata in vigore della
normativa sui piani di prevenzione è possibile provare a fare un primo
bilancio sullo stato di applicazione delle nuove misure. Siccome i piani vanno
pubblicati sui siti istituzionali delle amministrazioni sarebbe auspicabile dare
un’occhiata a qualcuno di essi, ad esempio partendo dalle amministrazioni a
noi più vicine, come il nostro Comune o un ente con cui ci rapportiamo
spesso, per capire di cosa stiamo effettivamente parlando e farci un’idea sul
livello di comprensibilità e di utilità di questi piani.
Poiché l’Anac ha poteri di vigilanza sul rispetto della normativa e anche il
potere di irrogare le sanzioni pecuniarie, il quadro sullo stato di attuazione
può risultare proprio dall’esame dei numeri forniti annualmente dall’Autorità.
Un primo dato è oggettivamente molto confortante: quasi tutti gli enti
obbligati (dal 2016 sono obbligate anche le società in controllo pubblico, gli
ordini professionali, le associazioni e le fondazioni pubbliche ecc.) hanno
adottato e pubblicato il piano (le percentuali di rispetto dell’obbligo superano
il 90% degli enti e sono davvero poche le sanzioni irrogate).
Meno confortanti sono i dati quando si passa dall’adempimento formale
all’esame della qualità degli atti. Anche su questo aspetto nella sua relazione
annuale l’Anac fornisce utili informazioni; ne esamina, con la collaborazione
di alcune università e di esperti della materia, un certo numero a campione e i
risultati non sono entusiasmanti; in molti piani non c’è alcuna reale
mappatura dei rischi né esterna né interna e quindi le misure organizzative
non sono specificamente calibrate.
In molti casi, l’impressione è quella di un approccio decisamente
formalistico e burocratico; è un obbligo e come tale va eseguito, senza
entusiasmo e senza partecipazione. Lo dimostrano i piani adottati senza un
effettivo coinvolgimento delle organizzazioni, addirittura a volte “copiati e
incollati” da altri enti analoghi o dal Pna.
Alcuni casi, per fortuna pochi, sono persino eclatanti, come quello di un
Comune che ha tanto bene copiato il piano di un Comune vicino da non
cambiare nemmeno l’intestazione e il nome dell’Rpc; oppure quello di un
ospedale del Meridione, il cui vertice amministrativo è stato sciolto per
infiltrazioni mafiose, che aveva copiato il piano da un ospedale del Nord, che
ovviamente aveva un contesto ambientale di riferimento del tutto diverso. In
questi casi, l’Anac considera il piano come non adottato e irroga la sanzione
prevista dalla legge.
Ci sono, per fortuna, esempi virtuosi di piani non solo ben scritti dal
punto di vista formale ma preceduti dalla corretta e adeguata mappatura dei
rischi interni ed esterni; e i monitoraggi più recenti dimostrano, fra l’altro, un
lento ma costante miglioramento della qualità.
L’impressione che si ricava dai dati forniti è che molte amministrazioni
non abbiano compreso lo spirito e l’importanza dei piani, non abbiano cioè
capito (o, persino, non siano interessati alla) la filosofia che li vuole attori
dell’anticorruzione. Va detto che altre (forse la maggioranza e soprattutto
molti enti locali specialmente di piccole dimensioni) non hanno nel loro
organico nemmeno le professionalità adeguate a predisporre un buon piano. Il
che accade perché la normativa è entrata in vigore senza alcuna previa
formazione dei funzionari e dirigenti in una materia complicata e per evitare
“pericolose” esternalizzazioni ha opportunamente vietato che l’elaborazione
del piano potesse essere affidata all’esterno.
Sono, però, le esperienze virtuose che dimostrano che la strada intrapresa
può essere utilmente perseguita; un piano ben fatto è in grado di migliorare
trasparenza, efficienza e di rendere più complicati i fatti criminali. Ci vorrà,
probabilmente, tempo per consentire alla maggioranza delle amministrazioni
di “mettersi in pari”, ma il modello italiano sembra in grado di garantire
(almeno in parte) i frutti sperati.
6.
La trasparenza

6.1 Dal segreto alla trasparenza


La propensione al segreto è tutt’uno con l’idea di un potere che è tale
perché si cela. Il potere, attraverso l’opacità, si manifesta ampliando la
distanza tra governati e governanti: nei suoi Ricordi già Guicciardini, nel
Cinquecento, lamentava che “spesso tra ’l palazzo e la piazza è una nebbia sì
folta, e uno muro sì grosso, che non vi penetra l’occhio degli uomini”. Quella
nebbia che, secondo Pasolini, impedisce di vedere e amplifica la distanza tra
dentro e fuori, tra “Palazzo e Paese”.
La propensione al segreto, come notava Max Weber studiando il sistema
tedesco del primo Novecento, è d’altra parte un dato tipico delle burocrazie:
un carattere che si è preservato a lungo, in assenza di regole volte ad
assicurare l’affermazione dell’opposto principio di pubblicità. L’Italia, in
particolare, è un Paese che ha una consolidata tradizione di propensione al
segreto, come dimostra il dovere al “più scrupoloso segreto”, solennemente
affermato nel giuramento che un tempo i funzionari pubblici prestavano al
momento dell’assunzione.
Diametralmente opposta al segreto è la trasparenza, un concetto centrale
che si afferma di recente come paradigma delle istituzioni pubbliche. Eppure,
la trasparenza è una nozione mutuata dalla fisica che individua una
caratteristica degli oggetti che possono essere attraversati dalla luce; una cosa
è più o meno trasparente a seconda della quantità di luce che lascia passare; il
massimo lo si raggiunge quando guardando attraverso la cosa non ci si rende
conto che essa si frappone; il contrario, dal punto di vista semantico, è
l’opacità. Questa nozione è diventata un criterio per la valutazione delle
azioni delle istituzioni pubbliche, e in particolare delle amministrazioni, volto
a indicare il tasso di conoscibilità dell’attività svolta, attraverso “meccanismi”
che si inseriscono direttamente nel rapporto tra amministrazioni (che devono
rendersi conoscibili) e cittadini (che hanno diritto o interesse a conoscere),
consentendo a questi ultimi di accedere a informazioni e imponendo alle
prime di renderle disponibili.
La trasparenza è un “principio” che può presidiare l’attività
dell’amministrazione, vale a dire una regola di portata generale che si afferma
in sostituzione di quella opposta del “segreto d’ufficio” e diventa, di
conseguenza, un criterio di organizzazione dell’amministrazione perché
definisce, in termini sostanziali, i caratteri del rapporto tra cittadini e
istituzioni.
Attraverso la trasparenza dovrebbe essere permesso al cittadino di essere
effettivo detentore di quella sovranità che è esercitata in suo nome dai
funzionari pubblici (burocrati e politici). È di Bobbio una delle migliori
definizioni di democrazia come “potere del pubblico in pubblico”,
aspirazione che si sposa con quella di Filippo Turati, che si augurava
un’amministrazione come una “casa di vetro”.
Di trasparenza, dell’esigenza di “aprire” le stanze del potere “come
scatolette di tonno”, si parla spessissimo nel dibattito pubblico di questi anni,
per quanto ci si sia presto resi conto che non tutti i passaggi della vita politica
e istituzionale possono essere condotti in pubblico o, persino, in streaming.
Ma serve davvero questa trasparenza? E, soprattutto, è una sorta di mito o
qualcosa di concreto, reale?
Al di là della retorica della trasparenza proclamata, ce n’è una ben più
complessa, e spesso purtroppo non sempre appagante, la cosiddetta
trasparenza in azione, quella che, attraverso meccanismi e strumenti, arma il
cittadino e gli permette di diradare quella “nebbia folta” di cui parlava
Guicciardini.

6.2 Trasparenza e corruzione


La trasparenza è ritenuta, anche fuori dall’Italia, una fondamentale misura
di prevenzione della corruzione e uno strumento per farla emergere.
Le leggi sulla trasparenza americana, rivolte a porre le istituzioni “alla
luce del sole” (note anche come Sunshine laws), nascono negli anni settanta
del Novecento in risposta a episodi di malcostume, con l’obiettivo di
contrastare la corruzione e rafforzare la legittimazione delle istituzioni. È
divenuta ormai famosa, in questo senso, l’affermazione del giudice
americano Brandeis secondo cui la “luce del sole è il miglior disinfettante, e
il lampione il migliore poliziotto”.
In effetti, la trasparenza aiuta il contrasto della corruzione sotto diversi
profili. In primo luogo, la conoscibilità dell’attività dell’amministrazione, in
tutti i suoi snodi, serve a creare e a rafforzare la fiducia dei cittadini nei
confronti delle istituzioni che li governano poiché rende noto ciò che
l’amministrazione fa e soprattutto come lo fa, attraverso cioè quali procedure
e quali modalità, consentendo così la buona amministrazione della cosa
pubblica.
È la fiducia ciò che permette alle istituzioni di un Paese democratico di
essere credibili al proprio interno e nella comunità internazionale. La scarsa
fiducia è, invece, tipica dei Paesi con un’alta propensione alla corruzione: se
il cittadino non crede nell’efficienza e nell’integrità della propria
amministrazione, potrà essere portato a cercare vie traverse, eventualmente
anche illecite, per ottenere il risultato sperato. D’altro canto, la conoscibilità
dell’attività delle istituzioni rende possibile quella che viene definita
l’accountability, cioè il rendiconto di quanto si è fatto: in democrazia, infatti,
chi gestisce un potere pubblico lo fa in rappresentanza dei cittadini e a loro
deve render conto del proprio operato. Del resto, la conoscenza di ciò che si è
fatto finisce anche per orientare le scelte politiche del cittadino, anche nel
voto. L’accountability in questo senso è uno dei principali strumenti
attraverso cui può essere fatto valere il principio di responsabilità politica.
Il rapporto tra democrazia e trasparenza è decisivo: come già ravvisava
Madison, la sovranità popolare, per essere effettiva (e non “una tragedia o
una farsa”), richiede un cittadino informato e consapevole del funzionamento
delle istituzioni.
In questa stessa prospettiva, la conoscenza consente anche il controllo
diffuso dei cittadini sull’attività dell’amministrazione e chiunque può attivare
gli strumenti di denuncia pubblica, rendendo quindi possibile l’acquisizione
di notizie che potranno poi far emergere eventuali profili di responsabilità
penale, disciplinare o contabile nei confronti degli amministratori pubblici.
Infine, la possibilità di accedere direttamente a informazioni sull’attività
amministrativa consente a un giornalismo indipendente di svolgere quel
fondamentale ruolo di watchdog (letteralmente, cane da guardia) del potere,
che rappresenta un eccezionale strumento di controllo che tante volte
abbiamo visto in atto nelle democrazie occidentali. Sarebbe impossibile in
questa sede anche soltanto provare a enumerare i casi in cui attraverso
indagini giornalistiche sono emersi fatti gravissimi di cattiva amministrazione
o di corruzione vera e propria.
La rassegna dei premi Pulitzer è piena, nella categoria “giornalismo
investigativo”, di inchieste condotte sfruttando i meccanismi di trasparenza e
accesso alle informazioni delle istituzioni pubbliche. Basti qui solo ricordare
il ruolo giocato dall’accesso alle informazioni pubbliche nell’ambito dello
scandalo Watergate, che portò alle dimissioni del presidente Nixon. Altro
caso molto noto al grande pubblico, anche grazie al film che ne ha raccontato
la storia, è quello di Erin Brockovich, che grazie alla legislazione americana
sulla libertà di accesso alle informazioni pubbliche ha potuto indagare (da
privata cittadina) sull’inquinamento di falde acquifere da parte di grandi
imprese energetiche, causa della diffusione di tumori tra gli abitanti di una
città vicina agli stabilimenti industriali.
Anche in Italia non mancano esempi. È stato anche grazie all’accesso a
banche dati pubbliche che è emerso lo scandalo sull’inquinamento da Eternit
o grazie all’uso di informazioni disponibili su farmaci innovativi che si sono
rese pubbliche le nuove opzioni terapeutiche per la cura dell’epatite C, ed è
grazie alla pubblicazione dei curriculum che si può controllare la veridicità
dei titoli dichiarati da soggetti che rivestono cariche pubbliche.

6.3 La trasparenza nella nostra Costituzione


La Costituzione italiana, che fornisce i princìpi cui tutti i poteri devono
attenersi, non cita esplicitamente la trasparenza; è forse questa la prova
principe di quanta fatica ha fatto questa idea per imporsi nel nostro
ordinamento.
Secondo i costituzionalisti, l’assenza di un esplicito riferimento non
significa, però, che la Costituzione fosse disinteressata alla trasparenza;
l’idea, anzi, di un esercizio trasparente del potere e delle funzioni pubbliche si
ricava, in modo implicito ma chiaro, in primo luogo dal generale principio
democratico sancito dall’articolo 1, ma anche e soprattutto dal principio di
imparzialità dell’amministrazione e da quello di responsabilità, nonché dalla
regola secondo cui l’amministrazione è al servizio dei cittadini, ai quali
evidentemente deve rendere conto.
In questa prospettiva, però, la trasparenza viene vista essenzialmente
come un “dovere” dell’amministrazione, un suo modo di essere, più che
come un “diritto” del cittadino. Ben diverso è quanto previsto in altre
Costituzioni. In quella spagnola, ad esempio, è sancito il diritto di accedere
alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, un diritto che
nell’ordinamento svedese è affermato addirittura dal 1766.
Il pur fondamentale articolo 21 della nostra Costituzione tutela solo il
diritto di manifestare le proprie idee, e cioè la “libertà di espressione”.
Attraverso un percorso interpretativo tutt’altro che agevole qualcuno ritiene
di poter individuare anche un diritto a ricercare (senza essere in questo
indebitamente ostacolati o limitati) informazioni di interesse pubblico. È una
tesi condivisibile ma proprio la tortuosità del percorso interpretativo dimostra
quanto sia evidente la lacuna nella nostra Magna Charta.
Di recente il fondamento costituzionale della trasparenza viene affermato
come conseguenza dei diritti dei cittadini, come un’indispensabile
“condizione di garanzia”: per essere soddisfatti (e non essere resi puramente
formali o non effettivi, o divenire favore o concessione) i diritti richiedono di
poter avere amministrazioni imparziali, istituzioni orientate all’interesse
generale e un utilizzo corretto delle risorse.
Questa nuova ipotesi di un rapporto diretto fra Costituzione e trasparenza
viene sviluppata ed esaltata nel decreto legislativo n. 33 del 2013: “La
trasparenza […] concorre ad attuare il principio democratico e i princìpi
costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità,
efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel
servizio alla nazione. Essa è condizione di garanzia delle libertà individuali e
collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto a una
buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione
aperta, al servizio del cittadino”.

6.4 Una prima timida affermazione del principio


La tradizionale propensione del sistema pubblico italiano per la
protezione del segreto d’ufficio spiega almeno in parte perché per lungo
tempo sia mancato un meccanismo di trasparenza affidato all’iniziativa dei
cittadini. La nostra prima normativa risale al 1990. Si tratta della famosa
legge n. 241 sul procedimento amministrativo che è passata per essere quasi
una normativa rivoluzionaria. Eppure, non riconosceva affatto un diritto
ampio dei cittadini di accesso agli atti, ma soltanto un diritto di accedere ai
documenti pubblici che mirava (e mira tuttora, visto che la legge è ancora
vigente) a fornire tutela ai soggetti portatori di un proprio interesse specifico
(interesse qualificato dalla norma, come “concreto, diretto e attuale”).
In estrema e forse eccessiva sintesi, si concedeva a colui che riteneva di
essere stato in qualche modo leso da un atto amministrativo, e che aveva
titolo per far valere la sua posizione anche in via giurisdizionale, il diritto a
poter avere gli atti amministrativi di interesse, sostanzialmente quelli
necessari per decidere se e come agire e come organizzare la sua difesa.
Restava, invece, esclusa un’adeguata tutela della diffusa esigenza di
conoscibilità, in funzione di partecipazione o di controllo da parte dei
cittadini.
Un passaggio, quello del 1990, comunque fondamentale per la “rottura”
del tradizionale orientamento al segreto, perché per la prima volta veniva
affermata l’esistenza di un vero e proprio diritto di accesso ai documenti, sia
pure limitato a “proteggere” il cittadino nella tutela di propri interessi
rilevanti. Nella pratica in qualche caso si riuscì, anche grazie ad alcune
importanti decisioni della giurisprudenza amministrativa, a dare
un’interpretazione estensiva della norma, attraverso, ad esempio, il
riconoscimento del diritto di accesso a soggetti portatori di interessi collettivi
(come le associazioni di categoria o quelle dei consumatori).
Il diritto di accesso non era però adeguatamente riconosciuto ad esempio
ai giornalisti per le loro inchieste; costoro erano, nei fatti, costretti a
mendicare atti o da amministratori pubblici scorretti (che glieli passavano
ovviamente sotto banco) o da chi poteva vantare quell’interesse concreto,
diretto e attuale.
Era un sistema che continuava a rappresentare un vulnus per i diritti civici
dei cittadini, anche se – è giusto ricordarlo – nessun partito o associazione ha
mai avanzato, in modo particolarmente incisivo, istanze di trasparenza, con lo
stesso impegno, ad esempio, profuso per l’affermazione di altri diritti (come è
successo anche recentemente in riferimento ai diritti civili, a conferma di una
tradizione del sistema politico italiano che aveva assistito a una forte
mobilitazione già in occasione della legge e del referendum sul divorzio).
È comunque con il nuovo secolo che comincia, sia pure timidamente, a
porsi il problema della trasparenza come pubblicità degli atti: approfittando
della facilità di diffusione di informazioni permessa da internet, alcune
amministrazioni hanno iniziato di loro spontanea volontà a diffondere
informazioni di interesse generale.
Una legge del 2000 (la 150) ha stabilito un vero e proprio dovere delle
istituzioni a fornire conoscenze utili per comprendere la normativa, fruire dei
servizi pubblici, diffondere notizie di interesse generale; con il Codice
dell’amministrazione digitale del 2005 è stata fornita una cornice generale al
processo di digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni; nel 2009, le
riforme portate avanti dall’allora ministro della Funzione pubblica Brunetta
ripresero le norme presenti nelle pregresse disposizioni normative e imposero
una serie molto ampia di obblighi di pubblicazione di informazioni e
documenti nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni.

6.5 Gli obblighi di pubblicità


Nel 2012, grazie anche a un contesto politico particolare, è stata adottata
la prima normativa organica anticorruzione nella quale non si poteva certo
non trattare quello che era considerato dovunque il presidio principe contro
questo crimine: la trasparenza. Nella legge Severino, in uno dei commi del
lunghissimo articolo 1, veniva conferita al governo la delega a emanare una
normativa che procedesse alla ricognizione e al coordinamento degli obblighi
di pubblicazione imposti via via da altre norme, e si dava anche mandato al
governo di ampliare questi obblighi, estendendoli, ad esempio, a tutti gli atti
che avevano a oggetto l’uso di risorse pubbliche e a quelli relativi allo
svolgimento e ai risultati delle funzioni amministrative.
Nel marzo del 2013 veniva adottato il decreto legislativo n. 33, che
pomposamente qualcuno definisce “codice della trasparenza” perché ha
l’importante pregio di riunire in un unico testo tutte le norme previste in
materia, rendendole quindi conoscibili e accessibili a tutti.
Questa normativa regola quella che viene definita trasparenza “attiva”,
vale a dire assicurata direttamente dalle istituzioni pubbliche, che sono tenute
a diffondere una serie di dati. Un indiscutibile salto di qualità in virtù del
quale la trasparenza diventa la condizione normale di azione delle
amministrazioni, che sanno che dovranno preoccuparsi non solo della
redazione di un atto ma anche della sua successiva pubblicazione.
In particolare, le amministrazioni pubbliche devono inserire nel proprio
sito istituzionale una specifica sezione denominata “amministrazione
trasparente” nella quale vanno pubblicate alcune informazioni ritenute dal
legislatore, con una sua valutazione di carattere generale e astratto, rilevanti e
meritevoli di essere rese pubbliche, specie in ordine alla loro organizzazione,
alla loro efficienza, all’attività, all’utilizzo delle risorse pubbliche, ai contratti
e al ricorso a consulenze. Tale pubblicazione deve avvenire in formato
“aperto” che consente la piena fruizione e la riutilizzabilità dei dati che
restano pubblici per cinque anni.
Anche qui l’invito ad apprezzare la novità non può non passare attraverso
una visita diretta della sezione “amministrazione trasparente” dei siti
istituzionali, del nostro Comune, di un’università, di un ente pubblico
nazionale, di un ministero. Questa visita, più di ogni parola, fornisce un
quadro dei contenuti, liberamente fruibili e riutilizzabili, oltre che dei limiti
che questo tipo di trasparenza in concreto ancora incontra.
Per evitare che la riforma restasse sulla carta, il codice della trasparenza
individua l’organo a cui spetta la vigilanza: l’Autorità nazionale
anticorruzione, che può verificare di ufficio o su richiesta di chiunque l’esatto
adempimento degli obblighi e in alcuni casi (in particolare, con riferimento
alle notizie sui redditi degli organi di indirizzo politico) può anche irrogare
pesanti sanzioni pecuniarie (da 500 a 10.000 euro) a coloro che non
forniscono o non pubblicano i dati e comunque può ordinare alle
amministrazioni la pubblicazione dei dati mancanti.
In ogni amministrazione, poi, è anche prevista la nomina del responsabile
della trasparenza, un ruolo che normalmente coincide con quello di
responsabile della prevenzione della corruzione, con autonomi poteri di
controllo e di intervento sulle omissioni di pubblicazione del proprio ente. Un
sistema di vigilanza e controlli che complessivamente ha garantito l’effettiva
entrata in vigore di una riforma, questa sì davvero rivoluzionaria.

6.6 Il Freedom of Information Act


Alla trasparenza assicurata dalla diffusione di informazioni da parte delle
amministrazioni si è affiancata, con una riforma del 2016, quella realizzata
grazie all’iniziativa del cittadino, messo nelle condizioni di poter richiedere e
ottenere dati, documenti e informazioni.
In questo senso, il quadro degli strumenti di trasparenza è stato
completato, modificando e integrando il codice della trasparenza. È stato, in
particolare, introdotto un diritto a conoscere che viene generalmente ritenuto
ispirato al modello statunitense del Freedom of Information Act (noto anche
con l’acronimo Foia).
Questo diritto di accesso alle informazioni, previsto negli Usa dal 1966 e
ampiamente diffuso in ambito internazionale, è ormai visto nei Paesi
democratici come uno standard cui far riferimento: il modello prevede il
diritto di ogni individuo ad accedere a qualsiasi informazione detenuta da
pubbliche amministrazioni, salvo che siano presenti limiti a tutela di altri
interessi pubblici (come la sicurezza nazionale) o privati (come la
riservatezza).
Questa libertà di informarsi accedendo all’insieme delle informazioni
detenute dalle istituzioni pubbliche è considerata lo strumento principe per il
controllo sul potere, specie grazie all’esercizio che ne viene fatto dai
giornalisti e dalle associazioni portatrici di interessi diffusi (come quelle di
cittadinanza attiva, o quelle che operano nel campo dei diritti alla salute o
della protezione dell’ambiente).
La novità da noi introdotta è quella di un (nuovo) diritto individuale, il
diritto di accesso civico “generalizzato”: un diritto privo dei limiti del
vecchio (e immodificato) accesso ai documenti che consente, come regola, la
conoscibilità di atti e informazioni dell’amministrazione – ovviamente diversi
e ulteriori rispetto a quelli già pubblicati – e la possibilità di ottenere copia
degli stessi gratuitamente. È un diritto che conosce una serie di eccezioni,
legate a specifici interessi pubblici e privati elencati nella legge.
I limiti previsti dalla disciplina sono, in verità, piuttosto ampi e
soprattutto indicati in modo non sempre preciso; in particolare, vi sono quelli
a tutela di interessi pubblici (tra i quali la sicurezza, l’ordine pubblico, la
politica monetaria) e quelli a tutela di interessi privati (la riservatezza, la
segretezza della corrispondenza, gli interessi economici e commerciali); ed è,
inoltre, prevista un’ulteriore serie di esclusioni legate a “segreti” e limitazioni
dettate da specifiche previsioni di legge.
La legge affida all’Anac, d’intesa con il garante della privacy, il compito
di fornire indicazioni operative sull’applicazione di questi limiti e di queste
esclusioni. Alla fine del 2016 sono state emanate le prime linee guida in
materia che ne hanno fornite alcune, sia pure riservandosi di integrarle alla
luce di un primo monitoraggio che sarà effettuato sulle richieste di accesso
civico.
È interessante, in questo quadro, soprattutto una questione fra quelle
affrontate dall’Anac e cioè quella del “bilanciamento” tra diritto a conoscere
– un diritto fondamentale e, come tale, da limitare solo in casi tassativi – e gli
altri interessi contrapposti: il possibile contrasto va risolto non in astratto, ma
attraverso una valutazione del “pregiudizio concreto” che la conoscenza può
arrecare agli interessi pubblici o privati con cui si confronta. Ciò significa che
il diritto all’informazione dovrà prevalere, a meno che l’amministrazione non
sia in grado di motivare il proprio diniego dimostrando che l’interesse
contrapposto sarà pregiudicato dall’accesso e che questo pregiudizio è una
conseguenza non solo possibile, ma “altamente probabile”.
I limiti previsti (quelli che abbiamo in estrema sintesi indicato),
soprattutto se interpretati in modo estensivo, rischiano di incidere
sull’effettività del diritto, ma un vulnus ulteriore può derivare anche
dall’assenza di meccanismi di semplice e immediata tutela del diritto del
cittadino. Per gli obblighi di pubblicità il legislatore ha individuato nell’Anac
l’autorità che vigila e interviene; non ha fatto, invece, per ragioni non del
tutto comprensibili, analoga scelta in materia, malgrado nella legge delega vi
fosse un’opzione in tal senso.
Il cittadino che si vede negare l’accesso potrà richiedere un riesame della
decisione al responsabile della prevenzione della corruzione (che però è un
organo interno dell’amministrazione) o al difensore civico nelle Regioni in
cui è stato istituito; e direttamente contro il primitivo diniego o dopo che il
riesame non è stato accolto potrà (ovviamente) ricorrere al giudice
amministrativo, dovendo sottostare ai tempi fisiologici necessari per ottenere
una decisione giudiziaria nonché sobbarcarsi le relative spese di difesa
processuale.

6.7 Il rapporto con la privacy


Il problema più delicato che la trasparenza, soprattutto se declinata in
modo così ampio e diffuso, pone è quello del possibile conflitto con un diritto
individuale che pure viene riconosciuto e tutelato ormai in tutte le
legislazioni: il diritto alla riservatezza o, come si usa dire, alla privacy.
In astratto i due campi sembrerebbero facilmente delimitabili; le
amministrazioni pubbliche devono avere come regola pubblicità e trasparenza
della propria azione; per i singoli cittadini, al contrario, vale il diritto alla
riservatezza, o privacy.
Sennonché, nelle attività delle amministrazioni sono (quasi sempre)
coinvolti direttamente cittadini e in quegli atti sono molto spesso contenute
informazioni su dati personali di singoli (una concessione edilizia conterrà,
ad esempio, informazioni non solo sul soggetto richiedente ma anche sul
bene su cui l’immobile dovrà essere costruito, informazioni che
oggettivamente contengono dati personali). La tecnologia, inoltre, finisce per
amplificare il possibile vulnus dei diritti individuali di riservatezza. La
conoscibilità, teoricamente estesa a tutti, conseguente all’utilizzo degli
strumenti informatici così come la possibilità di utilizzare i motori di ricerca,
di scaricare e conservare atti e informazioni rendono la rete un mezzo che
propaga all’infinito i dati e che in astratto impedisce ogni oblio delle
informazioni individuali; un atto, se pubblicato su un sito e scaricato da
qualcuno, fra vent’anni consentirà di ricordare che in quella giornata tizio ha
chiesto al suo Comune la concessione edilizia, un’informazione
apparentemente neutra, che non lo è per nulla se quell’atto menziona, ad
esempio, un procedimento penale che vede indagato il richiedente.
Di questi rischi si era reso conto Stefano Rodotà, il primo presidente del
garante della privacy, che affermò, con lungimiranza: “Spesso ai cittadini
viene promesso un futuro pieno di efficienza amministrativa e occultato un
presente in cui si moltiplicano gli strumenti di un controllo sempre più
invasivo e capillare”.
Il problema non è solo ovviamente italiano ma mondiale; nei mesi scorsi,
facendo visita all’Anac, il garante della trasparenza svedese ha raccontato di
un problema di cui si stava occupando: una società privata, utilizzando il
diritto di accesso, era riuscita a costruire una banca dati di informazioni sui
precedenti penali di (quasi) tutti i cittadini e vendeva queste informazioni
(utilissime) a società commerciali. Si tratta di una distorsione nell’utilizzo
della trasparenza che oggi da noi non sarebbe possibile (perché quei dati sono
tutelati), ma domani se ne potrebbero presentare di analoghi.
Pensiamo anche allo scandalo Cambridge Analytica: una società ha
utilizzato dati che gli stessi utenti avevano reso pubblici su Facebook per
“profilare” i loro gusti e tendenze personali e politiche e poi ha fornito queste
informazioni a un candidato a una elezione che li ha utilizzati (pare con
successo) per una campagna elettorale mirata. Scenari da Grande Fratello di
orwelliana memoria, ma temi sui quali è indispensabile un confronto anche
da noi che alla trasparenza siamo arrivati in grande ritardo. Proviamo
comunque a capire qual è la situazione.
Prima delle ultime riforme, il bilanciamento fra trasparenza e privacy era
assicurato essenzialmente attraverso il riconoscimento del diritto a pochi:
solo chi ha un interesse rilevante da tutelare ha diritto ad accedere ai
documenti, anche quando questi contengono dati.
Oggi quel metodo non vale ovviamente più. Il criterio generale potrebbe
essere quello della “minimizzazione” nel trattamento dei dati, che
risolverebbe molti problemi: se i dati personali non sono necessari si potrà
“mascherarli” e trattare un documento come anonimo. Pensiamo al caso in
cui l’interesse a conoscere sia relativo a questioni che non richiedono
informazioni dettagliate e personali. Questa operazione, in astratto semplice,
non è però sempre tecnicamente possibile o facilmente praticabile e allora
bisogna individuare una nuova strategia di bilanciamento.
Per gli obblighi di pubblicazione è la legge a operare una valutazione in
via preventiva e generale: laddove si prevede la pubblicazione si afferma
anche la prevalenza della trasparenza sulla riservatezza, salvo che si tratti di
dati sensibili. Secondo il garante della privacy, i dati personali, diversi dai
dati sensibili, saranno in ogni caso sottoposti al regime di piena conoscibilità
prevista dalla legge, purché si tratti di dati “pertinenti”. Così, ad esempio,
anche a fronte dell’obbligo di pubblicare le dichiarazioni dei redditi dei
vertici politici delle amministrazioni (ad esempio sindaci e assessori a livello
locale), dati come lo stato civile o il codice fiscale possono considerarsi non
pubblicabili perché, appunto, non pertinenti rispetto all’obbligo.
Per il diritto di accesso generalizzato, la questione è stata affrontata nelle
linee guida adottate d’intesa tra Anac e garante della privacy, e risolta dando
attenzione al principio di proporzionalità: sarà possibile accedere a
informazioni e documenti contenenti dati personali, ma solo in modo
“proporzionato”, in relazione alla lesione che deriva alla riservatezza dalla
conoscibilità. Pensiamo, in particolare, alla posizione “pubblica” di un
individuo, che può giustificare la diffusione di più informazioni di quanto
non sarebbe ammissibile per un normale cittadino. Da un’altra angolazione,
una lesione della riservatezza minima è da ritenersi in via generale
ammissibile solo se “proporzionata” rispetto all’esigenza di conoscere: il
tutto sempre valutato tenendo conto dei dati cui stiamo in concreto cercando
di accedere.
Si tratta, come è evidente, di prime ipotesi di soluzioni che non
consentono di risolvere problemi così complessi; sarà l’applicazione concreta
a fornire (ci si augura) pian piano le soluzioni. Se pensare di utilizzare la
riservatezza come un baluardo contro il processo tecnologico o, peggio
ancora, contro la progressiva trasparenza dell’azione amministrativa è
operazione di retroguardia, individuare il giusto equilibrio è un obiettivo
imprescindibile.

6.8 Burocrazia e trasparenza


Come si è detto, nel giro di poco meno di tre anni, dal 2013 al 2016, si è
verificata una vera e propria rivoluzione copernicana della trasparenza: si
sono imposti alle amministrazioni obblighi di pubblicità di una serie di dati e
informazioni e si è concesso al cittadino di poter richiedere alle
amministrazioni la copia di qualsiasi atto, a eccezione di quelli per i quali la
legge prevede il segreto.
Questo capovolgimento di prospettiva è avvenuto in modo (forse)
eccessivamente repentino. Quando nel Regno Unito fu introdotto il Foia,
venne concesso un periodo di adeguamento per le amministrazioni di ben
quattro anni. Nel nostro Paese gli obblighi di pubblicazione introdotti dal
codice della trasparenza del 2013 sono entrati in vigore utilizzando il criterio
ordinario (15 giorni dopo la pubblicazione del decreto) e per il Foia nel 2016
sono stati concessi sei mesi dalla pubblicazione della norma.
E soprattutto entrambe le discipline non hanno previsto alcuno
stanziamento economico aggiuntivo a favore delle amministrazioni che
dovevano adeguarsi (tutte le amministrazioni pubbliche, da quelle centrali ai
Comuni più piccoli), né tale novità è stata accompagnata da un indispensabile
programma di formazione digitale dei dipendenti che avrebbero dovuto farsi
carico dell’applicazione della norma.
Eppure si trattava di adempimenti onerosi e ponderosi per le singole
amministrazioni, che sono state gravate da obblighi numericamente e
qualitativamente rilevanti che hanno finito per ricadere su
un’amministrazione non sempre dotata di adeguate professionalità e, fra
l’altro, spesso formata da soggetti in età avanzata privi di un’adeguata cultura
digitale.
Queste considerazioni possono facilmente spiegare qual è stato
l’atteggiamento di una parte della burocrazia: ha vissuto questa rivoluzione
non come un vento di novità ma come un onere o, peggio ancora, come un
mero adempimento burocratico, di cui non sempre è riuscita ad apprezzare
l’importanza e l’utilità.
L’approccio in molte occasioni è stato, di conseguenza, di chiusura; si
sono continuate a utilizzare prassi che facevano riferimento alla pregressa
situazione giuridica, quando vigente era solo il diritto di accesso della legge
241; si è data un’interpretazione spesso ampia dei limiti, soprattutto con
riferimento al diritto di accesso generalizzato, previsti dalla normativa e ci si
è trincerati dietro le opposizioni dei controinteressati, spesso formulate da
importanti studi legali e/o dietro richieste di pareri ad altre amministrazioni,
evidentemente anche per la paura di decidere.
Può essere utile riportare un caso tratto dall’esperienza di questi ultimi
tempi. È una vicenda che ha avuto una sua inattesa eco mediatica perché
(indirettamente) collegata all’immane tragedia del crollo autostradale del
ponte Morandi a Genova.
Nel dicembre dello scorso anno, un parlamentare, allora di opposizione,
presentava un esposto all’Anac con cui lamentava la mancata pubblicazione,
sul sito del ministero concedente, di una concessione autostradale,
concessione che era stata data in visione a una commissione parlamentare che
stava svolgendo un’indagine conoscitiva, sia pure con molte (troppe) cautele.
L’autorità avviava un procedimento e chiedeva al ministero competente
perché quella concessione effettivamente non risultasse pubblicata sul sito. Il
ministero rispondeva pubblicando immediatamente la concessione ma
omettendo di pubblicare alcuni allegati relativi ad aspetti economici della
concessione. Lo faceva anche perché l’associazione di categoria dei
concessionari aveva espresso con un lungo, dettagliato e motivato parere la
sua assoluta contrarietà alla pubblicazione, ritenendo che nel caso in esame ci
fossero ragioni di natura economica, commerciale e industriale che
imponessero la riservatezza.
Preso atto delle opinioni dell’associazione sindacale, l’Autorità insisteva
per la pubblicazione sul presupposto che quegli allegati facessero parte
integrante della concessione e lo comunicava al ministero, a cui era già giunta
anche una lunga e articolata opposizione del concessionario a sostegno della
tesi della riservatezza di quei dati.
Il ministero avrebbe a quel punto dovuto decidere: aveva, da un lato,
l’opinione dell’autorità deputata alla vigilanza, dall’altro le tesi delle
controparti. E invece ha chiesto un parere al dipartimento della Funzione
pubblica, malgrado non avesse specifica competenza in materia. Il
dipartimento dava riscontro alla richiesta, rilevando la sua incompetenza e
ribadendo che l’organo vigilante era l’Anac, aggiungendo opportunamente
che, comunque, la scelta di valutare gli eventuali limiti spettava
all’amministrazione.
Morale della favola: a prescindere dal merito, sono passati ben otto mesi
dalla richiesta di pubblicazione senza prendere una decisione. Alla fine è stata
la stessa società concessionaria, in modo provocatorio, a provvedere
spontaneamente alla pubblicazione integrale sul proprio sito di tutti gli atti,
anticipando di qualche ora la pubblicazione da parte del ministero
competente. Ogni altro commento e aggiunta è (forse) inutile.

6.9 I cittadini di fronte alle nuove regole della trasparenza


Con l’entrata in vigore del codice della trasparenza, i più scettici fra i
commentatori avevano pronosticato come queste nuove forme di pubblicità
avrebbero finito solo per favorire il voyeurismo digitale, cioè la curiosità di
quei cittadini interessati soltanto a sapere quali erano i redditi e le proprietà
degli amministratori pubblici o i loro curriculum. Una trasparenza, quindi,
che si sarebbe rivelata poco utile dal punto di vista degli effetti sperati ma
molto (troppo) ponderosa per la macchina amministrativa.
È passato troppo poco tempo per avere dati che siano oggettivamente
attendibili, anche perché la normativa, ancora relativamente recente, non è
nemmeno conosciuta da tutti i cittadini, in particolare i più giovani, che
hanno grande dimestichezza con gli strumenti informatici. Tra la fine del
2017 e l’inizio del 2018, l’Anac ha, però, avviato un monitoraggio sui siti
delle venti principali città d’Italia e i dati emersi sembrano smentire coloro
che si attendevano il flop dell’istituto. In molte città gli accessi sono stati
numerosi e si sono concentrati non tanto e non solo sui dati da gossip, ma
soprattutto su quelli che riguardano l’attività dell’amministrazione, gli appalti
in particolare.
La trasparenza come pubblicità sta, quindi, entrando nella cultura del
Paese e i tanti esposti che l’Anac riceve da parte di cittadini e associazioni
che non vedono pubblicati i dati sui siti dei Comuni sono una riprova
ulteriore di come il sistema stia entrando a regime. L’accesso generalizzato,
dal canto suo, attende ancora di sviluppare appieno le proprie potenzialità.
Forse limitato da un quadro giuridico non del tutto soddisfacente, il Foia
risulta a oggi poco utilizzato e le risposte dell’amministrazione non sempre
adeguate.
Il ministero della Pubblica amministrazione, con una circolare e con una
campagna pubblicitaria, ha cercato di rispondere ad alcune criticità emerse
dai primi dati di monitoraggio: la presenza di un numero ridotto di istanze di
accesso e una diffusa tendenza a pratiche elusive o dinieghi immotivati.
Alcuni dati ci forniscono un quadro dello stato di attuazione del Foia
italiano: il monitoraggio riporta circa 250 istanze in un trimestre rivolte ai
ministeri, con un miglioramento del 20% rispetto al trimestre precedente.
Immaginando un dato tendenziale annuo di circa un migliaio di istanze di
accesso, pur apprezzando il miglioramento progressivo, siamo a distanza
siderale dai dati del Foia americano, dove un singolo ministero è destinatario
di oltre 300.000 richieste e il numero complessivo di domande rivolte
all’amministrazione federale è nell’ordine della decina di milioni in un anno.
Anche il dato delle risposte è ancora non del tutto positivo: se dal
monitoraggio del ministero emerge un progressivo e rilevante aumento delle
risposte, in particolare di quelle positive, dati meno soddisfacenti si ricavano
dai monitoraggi informali delle associazioni (come quella di Cittadinanza
attiva, relativamente ai “fascicoli di fabbricato” degli edifici scolastici).
Nella prospettiva della prevenzione della corruzione, la combinazione dei
diversi meccanismi conoscitivi crea, in ogni caso, una condizione di
“esposizione” (effettiva o potenziale) sicuramente positiva.
L’amministrazione sa, oggi, che i suoi procedimenti e le sue decisioni sono
suscettibili di un controllo diffuso e non può trincerarsi dietro gli schermi del
segreto e dell’opacità: a un’area totalmente esposta alla luce del sole (l’area
degli obblighi di pubblicazione) con il nuovo accesso generalizzato si
affianca una generale area di potenziale visibilità, secondo il principio della
“presunzione di trasparenza” (o full disclosure) che ispira il modello Foia.
Il quadro appare in ogni caso migliorabile: come già evidenziato, se è
chiaro il ruolo dell’Anac in materia di obblighi di pubblicazione (dove però
può essere rafforzato il sistema delle sanzioni), è complessivamente meno
presidiato il versante del nuovo accesso civico generalizzato, dove
attualmente convivono tre autorità, ciascuna delle quali dotata di poteri e di
un ruolo limitato: l’Anac, competente nell’adozione delle linee guida e nel
rapporto con i responsabili di prevenzione, ma priva di un ruolo rilevante per
gli altri aspetti; il garante della privacy, chiamato a dare la propria intesa sulle
linee guida e coinvolto nei procedimenti di riesame quando si discute di dati
personali; e il ministero della Pubblica amministrazione per quanto concerne
l’attuazione della riforma soprattutto relativamente alle questioni
organizzative.
Il quadro della trasparenza “in marcia” è, quindi, molto articolato e
complesso: il cittadino dispone di numerosi strumenti che gli consentono, più
che in passato, di accedere a informazioni sul funzionamento della macchina
pubblica. Problemi però non mancano, e si ha a volte la sensazione che le
difficoltà che incontra la trasparenza siano anzitutto culturali: troppo spesso il
cittadino che chiede informazioni è visto con sospetto e le amministrazioni
paiono alla ricerca, più che del modo di fornire correttamente le informazioni
dovute, dei limiti da utilizzare per far riemergere il vecchio, ma sempre
attuale, paradigma del segreto.
7.
Imparzialità, conflitti di interesse
e regole di comportamento

7.1 Lavorare sulle persone


Lo ribadiamo: è necessario ma non basta lavorare sull’organizzazione e
sulle procedure, né assicurare la trasparenza dell’attività e la conseguente
accountability. È indispensabile investire sulle singole persone che formano
l’esercito della burocrazia e che consentono che le affermazioni di principio
si traducano in fatti concreti. In pieno Ottocento, Otto von Bismarck, il
famoso e potente cancelliere del Kaiser Guglielmo I, sosteneva che una
buona amministrazione si fonda su buoni funzionari prima che su buone
leggi. Un’affermazione che resta vera anche nelle moderne democrazie.
Disporre di funzionari qualificati e corretti è una sfida decisiva, che però
non è facile vincere nel breve periodo. Occorre, anzitutto, selezionare persone
competenti e motivate e garantirne, poi, la crescita professionale. In questo
senso, l’integrità (che è il concetto cui si fa riferimento quando si va alla
ricerca del “buon” funzionario) va assicurata, attraverso processi di selezione
sulla base di competenze e merito, per la burocrazia e, attraverso l’attenzione
che i cittadini devono porre sulle qualità personali dei candidati, per i politici.
La Costituzione repubblicana pone alcune regole fondamentali, non
sempre adeguatamente sviluppate dalla legislazione. La Costituzione prevede
che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina e onore” e si preoccupa in modo particolare dei
funzionari professionali, da selezionare con concorso, dei quali va assicurata
l’imparzialità e l’essere “al servizio esclusivo della Nazione”.
La questione va dunque al di là delle regole di anticorruzione, dato che si
lega strettamente al modo di essere dell’amministrazione e alla sua qualità, in
fasi e momenti che precedono il momento “critico” in cui si potrebbe
verificare l’episodio criminoso, e complessivamente ai processi di selezione e
valorizzazione del personale, burocratico e politico. Se nell’amministrazione i
bravi funzionari non fanno carriera, per la disattenzione delle regole e dei
sistemi di reclutamento e promozione ai criteri di competenza e merito, ci
troviamo di fronte a un problema che può forse essere attenuato, ma non
risolto, dalle regole di prevenzione della corruzione.
Date queste premesse, alcuni risultati si possono conseguire anche
attraverso interventi che si pongano l’obiettivo di proteggere l’interesse
pubblico, assicurando, per quanto possibile, che l’attività amministrativa sia
esercitata da funzionari affidabili perché imparziali rispetto alla specifica
questione e in casi circoscritti si può anche immaginare di impedire ad alcuni
soggetti, ragionevolmente ritenuti “non affidabili” (perché in conflitto di
interesse permanente, o perché privi di adeguate caratteristiche di moralità),
di ricoprire alcune delicate cariche pubbliche.

7.2 I conflitti di interesse e l’anticorruzione


Quando si sposta l’attenzione dall’amministrazione, intesa come
organizzazione, al singolo funzionario che per conto di essa opera, l’obiettivo
deve diventare anzitutto quello di assicurare che non sia investito della
gestione di un affare pubblico un funzionario che non si può ritenere
imparziale.
Il tema dei conflitti di interesse, che è la prima declinazione
dell’imparzialità, viene oggi prevalentemente letto in relazione alle tematiche
della prevenzione della corruzione, ma si tratta di un legame recente, frutto
proprio della nuova logica della prevenzione e contrasto del rischio.
Tradizionalmente, infatti, nel nostro Paese quell’argomento è stato poco
regolato, con previsioni eccezionali ed episodiche, quasi a sottintendere una
sorta di “fiducia cieca” nel decisore pubblico: fiducia che giustificava (fino a
che questa non si dimostrava tradita da episodi specifici di malaffare,
contestati dal giudice penale) l’assenza di un sistema organico di precauzioni
volte a evitare o far emergere, in anticipo (ex ante), potenziali situazioni di
conflitto tra l’interesse pubblico e quello proprio dei funzionari.
Per valutare una diversa prospettiva, possiamo prendere in considerazione
altre esperienze, come quella statunitense, dove l’approccio è stato, invece,
tradizionalmente caratterizzato, come afferma Rose-Ackerman, non da una
cieca fiducia ma, anzi, da un certo “scetticismo riguardo all’amministrazione
e ai suoi meriti”, che ha giustificato, di conseguenza e da tempo, la previsione
di un sistema di regole sul conflitto di interesse.
Nella tradizione di vari Paesi europei, come l’Italia e in modo forse
ancora più evidente la Francia, questo rischio, invece, per lungo tempo è stato
in qualche modo rimosso sulla base di un ragionamento che voleva
proteggere la sfera della decisione pubblica nella sua dimensione più
intimamente politica; la gestione di questa partita era riservata (tranne nei
casi di dimostrata corruzione) ai soggetti istituzionalmente deputati a
muoversi nel rapporto con gli interessi, in particolare i partiti politici che
dovevano essere i garanti del giusto contemperamento fra interessi privati e
pubblici.
Con la crisi del ruolo tradizionale dei partiti e della stessa “forma-partito”
e, in particolare, in Italia con l’esplosione di Tangentopoli, è venuta meno (o
meglio, è fallita) la capacità di mediazione dei partiti; ed è allora che si è
ritenuta necessaria una più attenta regolazione di una serie di questioni, fra
cui, in primo luogo, anche quella del conflitto di interesse.
Va aggiunto anche un ulteriore tassello che spiega il cambiamento
dell’attenzione rispetto al tema: l’affermarsi di un’idea di corruzione più
ampia, intesa come “tradimento”. Se la corruzione consiste nel tradire il
rapporto che lega il funzionario pubblico al suo “principale” (che, in ultima
istanza, altri non è che il cittadino), diventano necessari presidi specifici,
idonei a far emergere (e, quindi, evitare) quelle situazioni di interesse
personale che possono agevolare il tradimento della fiducia popolare. È anche
grazie a questa più ampia lettura del concetto di corruzione che l’area dei
conflitti di interesse viene attratta nel campo delle regole di prevenzione della
corruzione, come era giusto che fosse.
Va anticipata da subito una considerazione che riguarda la nostra attuale
legislazione. L’approccio al tema è stato quello di un’evidente tendenza
autoassolutoria soprattutto da parte di chi ha il potere di stabilire le regole e
definire il quadro normativo, a partire quindi dal parlamento. Nelle regole che
finalmente in materia oggi abbiamo si assiste, infatti, a una sorta di
paradosso: precauzioni che appaiono inversamente proporzionali al rischio e
spesso al potere effettivamente esercitato e che sono, in particolare, molto
meno stringenti man mano che si sale verso i vertici del sistema istituzionale
nazionale (ci riferiamo soprattutto a parlamento e governo) e, al contrario, più
rigorose per i funzionari burocratici e per la classe politica locale.

7.3 La prima regolazione dei conflitti tra interessi


Nel nostro Paese è possibile forse individuare, persino con una certa
precisione, quando si è cominciato a porre seriamente il problema dei conflitti
di interesse, quando è “sceso in campo” (e cioè in politica) un imprenditore
che aveva rilevanti interessi economici in un settore, quello delle
telecomunicazioni, oggetto di diretta regolazione pubblica. Siamo, quindi, a
metà degli anni novanta del precedente secolo, in parallelo, non a caso, con il
crollo dei partiti politici della Prima repubblica e quindi del loro ruolo di
mediatori di interessi.
L’avere, però, pensato al tema in relazione a una situazione (e a una
persona) specifica ha finito per indirizzare il dibattito pubblico e le
conseguenti prime soluzioni legislative verso approdi decisamente
insoddisfacenti, perché troppo attenti agli ambiti di interesse di quel politico e
troppo preoccupati di evitare un solo specifico conflitto di interesse, che
potesse incidere soprattutto nella costruzione del consenso, specie nel periodo
elettorale.
La prima legge adottata nel 2004 in materia ha riguardato, in particolare,
il conflitto di interesse dei titolari di cariche di governo che, “nell’esercizio
delle loro funzioni, si dedicano esclusivamente alla cura degli interessi
pubblici e si astengono dal porre in essere atti e dal partecipare a
deliberazioni collegiali in situazione di conflitto d’interesse”. Le precauzioni
introdotte da questa legge (nota anche come legge Frattini, dal nome del
ministro proponente) si limitano, in pratica, a stabilire l’incompatibilità fra
cariche di governo (e cioè presidente del Consiglio, ministri, viceministri,
sottosegretari e commissari di governo) e altri incarichi sia pubblici sia
nell’ambito di imprese e forniscono una nozione di conflitto di interesse
molto limitativa (sussiste quando il titolare della carica di governo partecipa a
una decisione trovandosi in una situazione di incompatibilità non rimossa).
Quasi tutti i commentatori hanno ritenuto quelle disposizioni persino
insufficienti rispetto agli scopi prefissi in quanto ancoravano il possibile
conflitto di interesse alla sola carica formale rivestita (ad esempio, quella di
amministratore in una società privata), finendo per non dare rilievo alcuno
all’effettività del potere esercitabile (per restare all’esempio della società, alla
proprietà o al controllo della società medesima).
Accanto alla legge Frattini, possiamo annoverare una sola (e pregressa)
norma che riguardava la tematica in esame e che, a differenza di quella,
aveva comunque assunto una portata generale. Ci riferiamo a quella
previsione – riferita esplicitamente alle deliberazioni degli enti locali ma
considerata principio generale dalla giurisprudenza – sull’obbligo di
astensione da parte del funzionario direttamente interessato dalla questione su
cui è chiamato a pronunciarsi. In particolare, se il funzionario con l’esercizio
della sua attività istituzionale poteva impattare un suo interesse, diretto o
indiretto, doveva immediatamente ritrarsi e far sì, quindi, che di quell’attività
si occupassero altri. È una regola, quella dell’astensione (a cui corrisponde il
diritto alla ricusazione da parte dell’interessato), presente da sempre nelle
norme processuali civili e penali e che, grazie alla disposizione citata, è
diventata applicabile anche a chi svolgeva attività squisitamente
amministrative.
Così come (in certe condizioni e con certi limiti) all’interessato era
permesso di ricusare il giudice (non a caso il brocardo “nemo iudex in causa
propria”), allo stesso modo poteva accadere nei confronti del funzionario che
fosse, favorevolmente o sfavorevolmente, “prevenuto”, come ad esempio per
il partecipe a una commissione di concorso che sia parente di uno dei
candidati.
La questione dell’obbligo di astensione e quindi della facoltà per
l’interessato di ricusare chi, pur dovendo, non si sia astenuto, mostra come il
problema dei conflitti di interesse non fosse completamente estraneo al
sistema Paese, ben prima della stagione dell’anticorruzione.

7.4 L’imparzialità nella legge Severino


Costruire un sistema istituzionale per quanto possibile imparziale è una
sfida fondamentale: per il miglioramento della qualità dei servizi pubblici,
per la garanzia dei diritti delle persone rispetto all’arbitrio e ai favoritismi,
per la garanzia effettiva dell’eguaglianza tra i cittadini.
Nel corso della prima metà degli anni novanta del secolo scorso, non a
caso proprio dopo lo scandalo di Tangentopoli, si è tentato di sperimentare
una soluzione attraverso la valorizzazione del ruolo e dell’autonomia della
dirigenza pubblica rispetto alla politica; le leggi Bassanini (dal nome del
ministro che le ha proposte e fatte approvare) hanno stabilito, in estrema
sintesi, che spetta ai dirigenti e ai funzionari professionali adottare le
decisioni concrete, che direttamente interessano i soggetti, mentre alla
politica compete dare indirizzi, definire obiettivi e verificarne il
raggiungimento.
Anche i non specialisti sanno che questo modello di distinzione di ruoli
non ha dato tutti i frutti sperati per ragioni che è impossibile in questa sede
indagare; certamente ha inciso la debolezza della dirigenza pubblica, ma non
minore rilievo ha avuto anche l’invasione di campo della politica, con i
tentativi di fidelizzazione della (soprattutto alta) burocrazia, condotti con la
nota pratica dello spoils system (non posso decidere io, ma posso mettere una
persona che dipende da me nel posto in cui si decide, con un evidente
aggiramento del modello e ulteriori effetti collaterali negativi).
Non era certo né fra i compiti né fra le possibilità della legge
anticorruzione mettere in discussione quel modello. L’approccio della
normativa è stato, invece, quello di darlo per scontato e di introdurre
strumenti nuovi o rafforzarne di già esistenti che potessero migliorare il
profilo dell’imparzialità dei funzionari pubblici. Con un’idea di fondo chiara:
la presenza di conflitti di interesse porta con sé lo sviamento dalla cura
dell’interesse pubblico e al pari della corruzione, che può precedere, richiede
misure di gestione e contrasto.
Non è quindi casuale che, fra gli interventi della legge Severino, uno dei
più importanti sia incentrato proprio sull’istituto dell’astensione per sancire
con chiarezza ciò che con una certa fatica aveva già stabilito la
giurisprudenza amministrativa. Nella legge sul procedimento amministrativo
viene, in particolare, inserito un nuovo articolo che esplicitamente afferma:
“Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interesse,
segnalando ogni situazione di conflitto anche potenziale”.
La norma nell’estendere la regola a tutti i funzionari in qualsiasi modo
coinvolti nel processo decisionale esplicita la convinzione che il conflitto di
interesse sia un rischio che non può ritenersi presente solo in ambiti e
momenti specifici ma in qualunque degli snodi di una decisione
amministrativa.
La novità più importante dell’intervento legislativo sta nel riferimento
alla rilevanza del “conflitto di interesse potenziale”, quello cioè che sussiste
quando il funzionario è portatore di interessi della sua sfera privata che, pur
non avendo incidenza diretta e immediata sulla scelta da compiere,
potrebbero comunque influenzare negativamente l’adempimento dei doveri
istituzionali. Si tratta di situazioni in grado di compromettere, anche solo
potenzialmente, l’imparzialità richiesta al dipendente pubblico nell’esercizio
del potere decisionale.
L’asticella delle precauzioni viene, quindi, parecchio elevata poiché il
conflitto potenziale fa scattare da subito un formale obbligo di
comunicazione, che consentirà ai controllori (in primis ai superiori gerarchici,
ma anche al responsabile della prevenzione della corruzione) un supplemento
di attenzione; e se l’interesse privato interferisce effettivamente con la scelta
amministrativa, diventa obbligatoria l’astensione.

7.5 Altri strumenti a tutela dell’imparzialità


La legge Severino non si limita a rafforzare l’obbligo di astensione e,
quindi, a intervenire sulla fase della decisione ma si muove anche su altri
fronti, in primo luogo a monte dell’esercizio dell’attività amministrativa, nel
momento della nomina del funzionario, per escludere o attenuare alcune
situazioni che possono ipotecare la futura imparzialità; e poi con una
particolare attenzione rivolta all’attività lavorativa del funzionario, per evitare
che possa essere strumentalizzata e sviata dal raggiungimento degli interessi
pubblici. Lo fa attraverso una serie di istituti di cui si potranno, nel prosieguo,
fornire solo alcuni sintetici elementi di comprensione.
I primi due strumenti a tutela dell’imparzialità sono l’inconferibilità e
l’incompatibilità, a cui è dedicato uno dei decreti legislativi attuativi della
legge n. 190, adottato dal governo Monti quasi in chiusura della sua
esperienza.
L’inconferibilità è un istituto nuovo che comporta l’impossibilità di
conferire incarichi amministrativi a chi si trovi in una certa condizione. Due,
in particolare, possono essere le situazioni che impediscono la nomina: la
prima è collegata al pregresso svolgimento di altri incarichi che il legislatore
considera oggettivamente “pericolosi”, in quanto capaci di influire sulle
scelte amministrative connesse all’impegno che dovrebbe essere affidato.
Sono ipotesi tassative (in particolare si riferiscono a chi ha svolto incarichi in
enti di diritto privato finanziati dall’ente che conferisce l’incarico, a chi è
stato componente della giunta regionale, provinciale e comunale per incarichi
amministrativi nello stesso ente o in enti controllati) e non consentono
l’assunzione di incarichi di vertice presso alcuni enti, se non dopo che è
trascorso un certo periodo (detto “di raffreddamento”, di durata variabile fra
uno e tre anni) dalla fine del precedente.
Merita una menzione particolare il caso degli incarichi di direzione nelle
Asl. Il decreto stabilisce che non possono essere conferiti a chi in un periodo
precedente (diversamente determinato, fra uno e cinque anni) è stato
candidato alle elezioni in collegi che comprendono il territorio dell’Asl o ha
svolto le funzioni di presidente del Consiglio, di ministro, parlamentare,
presidente della Regione, assessore, presidente della Provincia, sindaco ecc.
La seconda situazione che impedisce la nomina si riferisce ai condannati,
anche con sentenza non passata in giudicato, per un reato contro la pubblica
amministrazione (quindi non solo corruzione o concussione, ma anche
peculato, abuso di ufficio ecc.). Il legislatore vuole, attraverso questa
previsione, assicurarsi che incarichi delicati possano essere svolti solo da
persone specchiate, in grado di svolgere il loro compito con onore, come
impone la Costituzione e non da soggetti che, essendo già stati condannati,
possono essere a rischio. A costoro non potranno essere conferiti (e se già
conferiti vengono sospesi) incarichi dirigenziali o comunque di vertice nelle
amministrazioni o nelle società pubbliche controllate, per sempre se siano
stati condannati alla pena accessoria dell’interdizione perpetua o per 5 anni se
condannati all’interdizione temporanea; per i condannati non definitivi,
l’inconferibilità ha una durata pari al doppio della pena e comunque non
superiore a 5 anni.
L’incompatibilità, invece, è un istituto già noto al diritto amministrativo
che comporta (soltanto) l’impossibilità di cumulare alcuni incarichi e di
conseguenza, in caso di nomina a più di uno, l’obbligo delle dimissioni da
uno dei due. Il decreto di cui ci occupiamo individua, in estrema sintesi, due
ulteriori casi di incompatibilità: il primo per il caso di assunzione, dopo il
conferimento di un incarico di vertice amministrativo, di incarichi presso enti
di diritto privati, regolati o finanziati da parte dell’amministrazione della
quale era incaricato; il secondo per il caso di assunzione, nel corso
dell’incarico amministrativo, di cariche negli organi di indirizzo politico di
vari enti (Regioni, Comuni, governo ecc.). È evidente l’obiettivo perseguito:
la concomitanza di alcuni incarichi può incidere sulle scelte che il nominato
deve effettuare, creando commistioni di interessi che mettono in discussione
l’imparzialità dell’azione amministrativa.
Un altro importante istituto, introdotto dalla Severino, che attenziona la
vita del rapporto lavorativo del funzionario, regola il cosiddetto pantouflage
(letteralmente “mettersi in ciabatte”) individuando i criteri per il passaggio
dei funzionari pubblici al settore privato.
La norma stabilisce un divieto a carico di soggetti privati
(tendenzialmente imprenditori) di assumere o di conferire incarichi
professionali per tre anni a coloro che, nei tre anni precedenti la cessazione
del rapporto di lavoro, hanno esercitato, per conto delle amministrazioni,
poteri autoritativi e negoziali che hanno impattato proprio l’attività dei privati
medesimi e prevede, quali sanzioni, la nullità assoluta del contratto (con
l’obbligo di restituzione dei compensi) e, a carico del privato, il divieto di
concludere contratti con la pubblica amministrazione per tre anni.
Si tratta di una novità rilevante per il nostro ordinamento, già presente in
molte legislazioni straniere, che, secondo i critici, limiterebbe eccessivamente
la permeabilità lavorativa tra settore pubblico e settore privato, ma che, in
realtà, serve ad assicurare la corretta cura degli interessi pubblici e, in
particolare, a evitare che, durante il periodo di servizio, il dipendente possa
approfittare del suo ruolo di responsabilità per precostituirsi, per il futuro,
situazioni lavorative vantaggiose.
I limiti previsti rispondono, a ben vedere, al vecchio detto che non si
possono servire bene due padroni, con il rischio di fare l’interesse di uno (il
privato, prevedibile destinazione) mentre si lavora per l’altro (cioè per il
pubblico).
Un ulteriore intervento normativo della legge Severino riguarda il
rafforzamento della (tendenziale) esclusività del rapporto di impiego
pubblico. Nel testo unico degli impiegati civili dello Stato, non è stata
prevista l’incompatibilità assoluta fra l’attività svolta presso una pubblica
amministrazione e incarichi presso altri soggetti, privati o pubblici. Ciò
perché si ritiene che una normativa eccessivamente restrittiva sul punto (che
vietasse, ad esempio, a un dipendente pubblico di tenere una lezione
universitaria) finirebbe per far perdere ai dipendenti pubblici occasioni
oggettive anche di crescita professionale. Per questa ragione si è prevista,
come condizione per svolgere l’incarico ulteriore, la necessità di richiedere e
ottenere la preventiva autorizzazione da parte dell’amministrazione di
appartenenza.
La normativa anticorruzione – consapevole che certi rapporti possono
generare situazioni di conflitto di interesse o persino essi stessi celare episodi
corruttivi (l’incarico potrebbe essere il “ringraziamento” per un favore
ricevuto) – ha rafforzato il potere di controllo delle amministrazioni
sull’autorizzazione, prevedendo esplicitamente che essa possa essere negata,
oltre che per ragioni di servizio o per eventuali incompatibilità, anche sul
presupposto che l’assunzione dell’incarico possa dar luogo a situazioni anche
solo di potenziale conflitto di interesse.

7.6 Gli effetti delle condanne penali sugli incarichi politici


Abbiamo già evidenziato come l’attenzione del legislatore in materia di
imparzialità si sia concentrata soprattutto sui funzionari burocratici e molto
meno su quelli politici ed elettivi.
Nell’ambito della legislazione anticorruzione, però, un decreto emanato in
base a una delega contenuta nella legge Severino (d.lgs. n. 235 del 2012) ha
dettato regole specifiche in materia di incandidabilità dei titolari di incarichi
elettivi e politici in conseguenza di condanne penali; anzi, questo aspetto del
sistema dell’anticorruzione, tutto sommato alquanto residuale nell’impianto
complessivo, è stato quello più ripreso (e criticato da alcuni) nel dibattito
pubblico, tanto che quando si parla di legge Severino sono in molti a pensare
in realtà che questo sia l’oggetto esclusivo della legge.
La grande attenzione sulla normativa è conseguenza del fatto che i suoi
effetti sono ricaduti su politici particolarmente noti; proprio in virtù di essa è
stata dichiarata, infatti, la decadenza dallo scranno di senatore di un leader
politico che aveva svolto per ben tre volte il ruolo di primo ministro nel
nostro Paese e la sospensione di vari amministratori locali, fra i più noti il
sindaco di Napoli e il presidente della Regione Campania. È, quindi,
interessante provare a capire in che modo questo decreto ha innovato e reso
più rigoroso il quadro delle precedenti regole. In passato, un parlamentare o
un ministro non era eleggibile o nominabile e poteva decadere dalla carica se
condannato con una pena che comportava l’interdizione dai pubblici uffici,
perpetua o temporanea. Per quanto rari, casi del genere accadono.
Con il decreto del 2012 si individua una nuova causa di incandidabilità
(che diventa decadenza se il fatto si verifica dopo l’elezione), non definitiva
ma temporanea (della durata massima di 6 anni), collegata a condanne
definitive di una certa gravità (in particolare con una pena superiore a 2 anni
di reclusione per alcuni specifici reati indicati dalla norma), anche se alle
condanne non consegue l’interdizione dai pubblici uffici. Anche in questo
caso, la ragione della previsione è collegata alla necessità di garantire
l’onorabilità della carica che si riveste.
Gli strali critici contro questa disposizione (di cui si è chiesto fino a oggi
inutilmente l’abrogazione) si sono però concentrati, più che sulla causa di
incandidabilità in sé, sull’applicazione al caso concreto, in quanto ritenuta in
contrasto con il principio di irretroattività delle sanzioni (la condanna di quel
parlamentare riguardava un reato commesso prima dell’entrata in vigore del
decreto in esame). Per tali ragioni, l’ex primo ministro ha presentato ricorso
alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricorso non ancora deciso, anche
perché la causa di ineleggibilità è venuta meno per essere stata a lui concessa
la riabilitazione della condanna.
Quanto, invece, agli amministratori locali, ferma restando la decadenza
dalla carica in presenza di una condanna per alcuni reati, già la precedente
normativa prevedeva la sospensione dalla carica medesima anche con una
condanna non definitiva, pure di primo grado, con riferimento a reati di una
certa gravità.
Era un principio che non era stato ritenuto in contrasto con quello
costituzionale della presunzione di non colpevolezza, perché aveva una
funzione cautelare, voleva evitare cioè che un ente locale fosse rappresentato
da un soggetto condannato per gravi reati; la stessa Corte costituzionale si era
espressa per la legittimità della norma.
Con il decreto del 2012 vengono estesi i reati per i quali una condanna
non definitiva giustifica la sospensione; in particolare, viene inserito il delitto
di abuso di ufficio, da molti considerato non di tale gravità da imporre una
conseguenza così rilevante per un amministratore pubblico. Anche di questa
disposizione è stata da più parti chiesta (inutilmente) l’abrogazione, malgrado
anche di recente la Corte costituzionale ne abbia ulteriormente sancito la
legittimità.

7.7 Le regole di comportamento dei dipendenti


Un ultimo insieme di misure è rivolto a disciplinare i comportamenti dei
funzionari per rafforzare le garanzie della loro integrità e imparzialità,
cercando di orientarne le condotte. L’idea di fondo è quella di combattere la
corruzione operando sulla dimensione dei valori e dei doveri, promuovendo
“in positivo” il corretto adempimento della prestazione lavorativa al fine di
incidere sull’etica del funzionario e sulla sua integrità: concetto, quest’ultimo,
che nel dibattito internazionale definisce la qualità di chi agisce
conformemente alle norme e ai valori riconosciuti per assicurare la cura
dell’interesse pubblico.
Lo strumento che la legge anticorruzione vuole utilizzare per questo
scopo è quello dei “codici di comportamento”, un istituto che nell’esperienza
italiana ha una tradizione ormai quasi quindicennale (essendo stato previsto
per la prima volta già nel 1993), ma che viene completamente ridisegnato.
In termini generali, il codice di comportamento vuole costituire
l’esplicitazione dello “statuto costituzionale” (art. 54 della Costituzione), che
qualifica il dipendente delle amministrazioni pubbliche come tenuto a servire
l’interesse generale (è “al servizio esclusivo della Nazione”), ad assicurare
l’imparzialità, a operare fedelmente e “con disciplina e onore”; i doveri del
codice dovrebbero, in pratica, essere la traduzione in concreto dei valori
costituzionali. In questa prospettiva, la legge Severino supera la pregressa
funzione riconosciuta ai codici di comportamento, la cui valenza era rimessa
di fatto alla contrattazione sindacale e che venivano di norma considerati
fonte di regole deontologiche ed etiche non giuridicamente vincolanti.
Individua, invece, due livelli di interventi: un primo codice nazionale,
comune a tutti i dipendenti, adottato dal governo e promulgato dal presidente
della Repubblica nel 2013; un secondo, a livello locale, con carattere
integrativo, speciale e decentrato, proprio di ciascuna amministrazione,
attraverso il quale si dovrebbero dettare princìpi adeguati alle caratteristiche
proprie di ciascun ente pubblico, quanto a contesto interno ed esterno.
I princìpi previsti in entrambi i codici sono vincolanti e la loro
inosservanza può dar luogo a sanzioni disciplinari e, in caso di violazioni
gravi e reiterate, persino al licenziamento. Il codice nazionale, in particolare,
prevede un set di doveri che si concentrano su come evitare condizionamenti
indebiti del funzionario o situazioni di conflitto di interesse: il dipendente
agisce “in posizione di indipendenza e imparzialità” e “si astiene dal
partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere
interessi propri”, ovvero di suoi parenti, affini, nonché del coniuge o di
persone con cui ha rapporti particolarmente stretti, di amicizia o inimicizia; è
tenuto a dichiarare la sua partecipazione ad associazioni o, in termini
generali, ogni situazione di conflitto potenziale.
Inoltre – questa la norma forse più nota del codice – non deve accettare
regali che non siano “di modico valore” (individuato di norma in 150 euro,
che non è poi pochissimo), in tal modo regolando una prassi divenuta anche
cinematograficamente famosa, grazie alla quaglia regalata al travet
impersonato da Checco Zalone.
Si tratta di un insieme di doveri non particolarmente dettagliato, perché
“comune” a tutti i dipendenti pubblici: dovendosi rivolgere al poliziotto come
all’insegnante, al funzionario tributario come al medico del servizio sanitario,
questo decalogo si attesta su un livello abbastanza alto di genericità. Proprio
per questo diventa molto importante l’attività di specificazione condotta
attraverso i codici di ciascuna amministrazione. L’esercizio “sartoriale” di
individuazione dei valori di un’amministrazione (l’orientamento al paziente,
in amministrazioni sanitarie; l’attenzione ai bisogni dei minori, in un istituto
scolastico e così via) e quindi dei doveri corrispondenti in capo al personale è
uno snodo che va ben oltre la prospettiva dell’anticorruzione. Se protegge
meglio l’amministrazione dai rischi, costruisce (anche) un sistema di doveri
dei dipendenti pubblici e quindi di diritti dei cittadini che si rapportano con le
istituzioni.

7.8 L’applicazione concreta delle regole per favorire l’imparzialità


Così come già fatto per i piani di prevenzione e per gli obblighi di
trasparenza, è necessario provare a fare un primo seppur limitato bilancio sul
funzionamento concreto delle nuove regole in materia di imparzialità. Anche
in questo caso il tentativo potrà essere compiuto soprattutto partendo
dall’esame delle questioni sottoposte all’Autorità nazionale anticorruzione.
Un dato emerge indiscutibile: un grande interesse di cittadini,
associazioni, movimenti, esponenti politici per la tematica dell’imparzialità e
del conflitto di interesse. Il numero di pratiche aperte in materia ha imposto,
infatti, all’Anac l’istituzione di un ufficio ad hoc, che si occupa proprio di
vigilanza sull’imparzialità dei funzionari ed è oberato di segnalazioni di ogni
tipo. In primo luogo sui conflitti di interesse che possono imporre
l’astensione; all’Autorità ovviamente sfuggono i numeri complessivi di tutte
le astensioni dichiarate; sono attività che vengono gestite nell’ambito della
singola amministrazione e che potranno persino non essere portate a
conoscenza del cittadino utente, il quale non necessariamente saprà se un
funzionario originario nominato per gestire la pratica si è astenuto o, ad
esempio, è stato sostituito per altre ragioni.
La casistica sottoposta all’Anac riguarda, evidentemente, le questioni più
delicate che in genere finiscono per incidere sull’attività complessiva di un
ufficio. Così si è posto il problema se sia in conflitto di interesse un
componente di un’autorità portuale che sia anche socio di una compagnia che
operi soprattutto in quel porto (e la risposta è stata positiva) o se si trovi nella
stessa situazione il dirigente comunale che abbia come competenza quella di
liquidare le parcelle degli avvocati esterni del Comune e fra loro vi è anche il
suo difensore in vari contenziosi, anche in corso (anche in questo caso, la
risposta è stata positiva).
Molto interessante è stata la questione posta per i componenti di una
commissione di concorso per la nomina dei professori universitari: quali
tipologie di rapporti con i candidati devono imporre al professore,
componente la commissione di concorso, l’astensione? E qui la risposta è
stata articolata. Certamente non la collaborazione scientifica (ad esempio,
l’aver scritto insieme le parti di un testo), perché tipica di un rapporto
fisiologico docenti-assistenti, ma la frequentazione personale assidua o la
collaborazione professionale extrauniversitaria (ad esempio, quella
dell’assistente che lavora nello studio professionale del professore).
In questi casi, l’Anac individua una condizione di (possibile) conflitto di
interesse, rimettendo, però, alle singole amministrazioni la scelta se ritenere il
soggetto nell’impossibilità di svolgere la sua funzione o di considerare
sufficiente la mera astensione sulla singola pratica.
Quanto, invece, alle incompatibilità e inconferibilità, sono anche su
questo fronte numerose le vicende sottoposte all’attenzione dell’organo
vigilante e non pochi i casi in cui sono state rilevate situazioni di contrasto
con le norme. Ed è proprio con riferimento a queste situazioni che la
normativa ha dimostrato tutti i suoi limiti, dovuti forse anche a
un’approvazione del testo molto frettolosa. Mancano, infatti, gli strumenti per
portare a esecuzione una decisione che abbia constatato l’inconferibilità di un
incarico; la norma attribuisce poteri in materia sia al responsabile della
prevenzione sia all’Autorità senza chiarire bene i singoli ambiti di
competenza.
Proprio di recente si è verificato un caso in cui, rilevata dall’Anac
un’inconferibilità, il responsabile si era poi rifiutato di dare effettiva
esecuzione all’indicazione, ingenerando un contenzioso anche giudiziario
giunto fino all’esame del Consiglio di Stato, che con un’articolata sentenza ha
sostanzialmente dato ragione all’Anac. Malgrado quella sentenza, quel
dirigente è rimasto al suo posto perché nessuno ha potuto rimuoverlo.
Queste e altre carenze normative sono state ufficialmente segnalate
dall’Anac a governo e parlamento con richiesta di modificare la normativa,
ma fino a oggi senza esito alcuno.
Anche in materia di violazioni delle regole di pantouflage non sono
mancate segnalazioni di possibili casi di conflitto di interesse, per quanto i
limiti previsti dalla norma siano, purtroppo, non difficilmente aggirabili: un
funzionario potrebbe esser assunto non dall’impresa operante nel settore sul
quale vigilava, ma, per un certo periodo, da un terzo soggetto a essa
riconducibile, come ad esempio una fondazione di suo riferimento.
Eppure in alcuni casi, sebbene con non poche difficoltà, la violazione
delle regole è emersa. In una vicenda di cui si è occupata anche la stampa, si
è accertato che un dirigente di un’autorità portuale aveva ricevuto un incarico
lavorativo da una società che faceva parte di un gruppo molto importante
operante nel settore delle crociere e sulla quale quel dirigente aveva svolto
attività autoritativa. Per appurare l’esistenza del rapporto sono stati necessari
lunghi e complessi accertamenti della Guardia di finanza e alla fine l’Autorità
ha dichiarato l’esistenza del divieto e la conseguente nullità del contratto. Il
provvedimento dell’Autorità è stato impugnato e i giudici amministrativi
stabiliranno se sia stato correttamente effettuato l’accertamento. Ma la
vicenda va ricordata anche per un’altra ragione: la grave sanzione, pur
prevista dalla norma, del divieto triennale per il privato di contrattare con la
pubblica amministrazione non si è potuta applicare perché la norma aveva
“dimenticato” di stabilire chi dovesse irrogare questa sanzione.
Infine, sui codici di comportamento è previsto che l’Autorità vigili sulla
loro adozione e possa anche sanzionare (con una pena pecuniaria da 1000 a
10.000 euro) gli amministratori che non li abbiano adottati. Le sanzioni
irrogate sono state pochissime (meno di quelle applicate per la mancanza dei
piani), ma anche in questo caso l’adempimento del dovere è stato, in molti
casi, decisamente formale e burocratico dato che i codici delle
amministrazioni si sono limitati a riprodurre, con piccole modifiche, il codice
nazionale o a riprendere quelli di altre amministrazioni.
Non mancano, però, casi interessanti, con regole mirate ai problemi
propri di una specifica amministrazione, come, ad esempio, la previsione di
determinati doveri per i funzionari che hanno accesso alle banche dati
dell’anagrafe tributaria, per evitare non corretti utilizzi delle informazioni, o
la previsione da parte di qualche ente del dovere di informare in ogni caso
l’amministrazione relativamente a ogni dono ricevuto o, in molti casi, la
previsione di regole volte anzitutto a migliorare la qualità dei servizi, come
quelle sul comportamento in servizio, dove troviamo indicazioni su regole di
cortesia, di chiarezza di linguaggio e così via.
Regole differenti per amministrazioni tra loro anche molto diverse, volte
a migliorare le condotte dei dipendenti e in ultima battuta
dell’amministrazione, a dimostrazione che l’anticorruzione può e deve essere
un pezzo della (e a volte un tutt’uno con la) qualità dell’amministrazione.
In conclusione, luci e ombre in una disciplina nuova che fatica a essere
accettata, pure perché non sempre le norme si rivelano all’altezza delle
aspettative. Ma l’elemento positivo che finisce per essere prevalente su tutti
gli altri è che la cultura dell’attenzione all’imparzialità e ai conflitti di
interesse si è ormai definitivamente imposta.
8.
Il “whistleblowing”

8.1 Chi è il whistleblower?


La parola inglese whistleblower indica quel soggetto che si accorge che
nel suo ambiente lavorativo viene commesso un reato o che viene posto in
essere un comportamento scorretto e lo segnala all’autorità competente. Il
termine whistleblowing, invece, individua la corrispondente azione di
segnalazione.
Dal punto di vista letterale, whistleblower deriva dalla frase “to blow the
whistle”, cioè “soffiare il fischietto”, e riporta all’idea del poliziotto di strada
inglese (il famoso bobby) che suona il fischietto per richiamare l’attenzione
dei presenti e di altri tutori della legge, nel momento in cui si accorge della
commissione di un reato.
Tutti gli studi, anche internazionali, sulla corruzione concordano sulla
particolare importanza di queste segnalazioni in funzione di contrasto del
fenomeno perché, provenendo dall’interno dell’ambiente nel quale il fatto
illecito viene perpetrato, possono fornire informazioni fondamentali a far
emergere una tipologia di reato che, come abbiamo più volte rimarcato, resta
quasi sempre sotto traccia. Per questo è un comportamento che va
incentivato, anche perché, fra l’altro, può contribuire a formare un’etica del
lavoratore (pubblico ma non solo) attenta ai valori di legalità, in
contrapposizione a quelli di apparente solidarietà fra colleghi, che finiscono,
invece, per trasformarsi in una sorta di omertà.
Le due parole inglesi sopra riportate sono ormai entrate nel lessico
nazionale e utilizzate, in qualche caso, persino in atti ufficiali (ad esempio,
nel dibattito parlamentare o nelle linee guida emanate in materia dall’Anac),
tanto da giustificare, persino, un rimprovero di eccesso di esterofilia lessicale
da parte dell’Accademia della Crusca.
In realtà, però, quelle parole riescono a esprimere un concetto che non è
affatto semplice tradurre nel nostro idioma, in quanto alcuni dei possibili
corrispondenti termini italiani (delatore, spia, gola profonda, collaboratore di
giustizia) sono spesso utilizzati nel linguaggio comune con un’accezione
tutt’altro che positiva, mentre altri (come “vedetta civica”) non esprimono il
senso dell’azione che si vorrebbe incentivare.
E lo stesso legislatore nazionale, che nel 2017 è opportunamente
intervenuto per regolare di nuovo la materia, ha utilizzato una lunghissima
circonlocuzione per provare a definire chi sia il soggetto che merita la tutela
messa a punto dalla normativa (e cioè “il pubblico dipendente che,
nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala […]
condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto
di lavoro”), dimostrando indirettamente quanto sia difficile trovare una
definizione accettabile.
Per favorire la conoscenza dell’istituto, fra le tante iniziative a sostegno
della legalità, il ministero dell’Istruzione e l’Anac avevano indetto persino un
concorso tra le scuole, sperando che la fantasia dei ragazzi riuscisse a
partorire una parola ugualmente efficace come quella straniera. Fermi
restando l’enorme impegno che le tante scuole partecipanti hanno messo e
l’apprezzamento per l’idea venuta all’istituto che ha vinto il concorso
(l’istituto Negrelli Forcellini di Feltre, che ha proposto lo slogan “fi-schietti
di giustizia”), nessuna delle proposte è riuscita ad apparire una degna
sostituta di quella straniera.
Non ce ne vorrà l’Accademia della Crusca, ma nel prosieguo non
utilizzeremo l’espressione da lei proposta (“allertatore civico”), sicuramente
perfetta dal punto di vista semantico, ma troppo complicata anche da
ricordare, per soppiantare quella che è ormai entrata nel linguaggio
internazionale; come sinonimo di quella straniera ci serviremo, invece, di
quella molto neutra e generica di “segnalante”.

8.2 L’esperienza statunitense


La pratica di rendere note alle autorità competenti informazioni
dall’interno di un’organizzazione, a garanzia di interessi generali, è
incentivata dalle legislazioni di molti Paesi stranieri. Il ragionamento sotteso
a queste normative è che chi denuncia un illecito che avviene nell’ambiente
in cui lavora svolge una funzione non diversa da chi allerta della presenza di
un incendio e così come merita un plauso quest’ultimo è giusto riconoscerlo
anche al primo.
Il Paese che senza dubbio ha una legislazione più avanzata in materia, con
aspetti, in verità, non del tutto condivisibili (come quello del premio in
denaro per chi denuncia, una sorta di taglia), sono gli Stati Uniti, dove i
whistleblowers sono stati considerati, persino, in alcune occasioni, eroi
nazionali. Tre di loro (Sherron Watkins di Enron, Coleen Rowley dell’Fbi e
Cynthia Cooper di WorldCom) sono stati nominati Person of the Year del
“Time” nel 2002 “per aver trovato la forza di lottare per ciò che è giusto”.
Nel corso degli anni settanta, fu a seguito delle rivelazioni di due segnalanti,
Daniel Ellsberg (Pentagon Papers) e Mark Felt (Watergate) che si giunse alle
dimissioni del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.
La cronaca statunitense è anche ricca di casi di riconoscimenti economici
significativi grazie agli incentivi riconosciuti al segnalante: così, ad esempio,
nel 1993, a partire dalla segnalazione di un dipendente della Lucas Western,
venne accertata a danno del dipartimento della Difesa una frode di oltre 88
milioni realizzata attraverso false certificazioni. In un altro caso, a un certo
Copeland fu riconosciuto un premio di oltre 19 milioni di dollari.
Non mancano in quel Paese, però, situazioni controverse di soggetti che
con le loro rivelazioni hanno destato grandi scandali e si attribuiscono il ruolo
di whistleblower laddove, invece, le loro azioni sono considerate dal diritto
americano criminali perché le notizie rese pubbliche sono coperte dal segreto
di Stato. Ci riferiamo, ad esempio, a Ed Snowden, famoso per aver rivelato al
mondo lo scandalo dei controlli “globali” statunitensi, e a Chelsea Manning,
che ha divulgato notizie riservate sulle operazioni militari condotte dagli Usa
e fu perciò incarcerata e poi graziata.
Dal punto di vista normativo, poi, agli Usa va riconosciuto certamente un
record. La prima affermazione di un meccanismo di incentivo ai
“denuncianti” si può far risalire addirittura al 1863: il False Claims Act
promosso da Abraham Lincoln prevedeva una ricompensa per chi denunciava
frodi ai danni del governo federale. Una modifica del 1986 alla legge Lincoln
ha introdotto una più chiara ed efficace protezione del dipendente pubblico
che segnala illeciti. Nel frattempo, nel 1912 il Lloyd-La Follette Act aveva
comunque già stabilito la tutela dal licenziamento a favore dei dipendenti
federali che avessero informato direttamente il Congresso su atti di
corruzione o incompetenza dei loro superiori.
La pratica della denuncia di episodi di illecito non è riferita o riferibile
solo alle dinamiche di corruzione o di illecito interno alle amministrazioni,
tanto che nell’esperienza statunitense le leggi in materia riguardano in primo
luogo la protezione (o addirittura l’incentivazione, con premi economici) di
chi dall’interno di un’organizzazione privata ne denuncia le pratiche
scorrette, siano esse di tipo fiscale, ambientale o di altro genere.
Ed è in questa prospettiva che nel corso degli anni settanta la tutela del
segnalante è stata estesa ad altri ambiti di interesse pubblico, con il Water
Pollution Control Act (1972) sull’inquinamento delle acque, e con il Safe
Drinking Water Act (1974) e il Solid Waste Disposal Act (1976) in materia di
rifiuti, sempre per rispondere a importanti scandali verificatisi in campo
ambientale in quegli anni.
Nella medesima direzione di ampliamento del campo d’azione si sono
mossi il Sarbanes-Oxley Act e il recente Dodd-Frank Act (2010): il
segnalante viene non solo protetto in ambito privato, ma anche incentivato
con riconoscimenti economici legati alle vicende che permette di far
emergere. E non solo rispetto a questioni che mettono in pericolo la sicurezza
e la salute pubblica, ma anche per casi di danno all’erario (in particolare per
evasione fiscale, in base a una legge del 2006, con premialità assimilabili a
quelle del False Claims Act), falsificazioni contabili, pratiche aziendali
scorrette a danno dei consumatori.
È il caso di ricordare poi che l’impianto normativo statunitense ha funto
da modello anche per altri Paesi. Nel Regno Unito, ad esempio, è stata
elaborata e adottata, nel 1998, una legge particolarmente estesa e organica, il
Public Interest Disclosure Act, che si rifà in gran parte all’esperienza
nordamericana.

8.3 Le indicazioni sovranazionali


La consapevolezza dell’importanza di queste informazioni per il contrasto
alla corruzione è testimoniata anche dall’interesse che le convenzioni
internazionali che si sono occupate della materia riservano loro.
La convenzione Onu di Merida del 2003 vi dedica un articolo titolato
“Protezione delle persone che comunicano informazioni” secondo il quale
“ciascuno Stato […] considera la possibilità di incorporare nel proprio
sistema giuridico le misure appropriate per proteggere da qualsiasi
trattamento ingiustificato ogni persona che segnali alle autorità competenti, in
buona fede e sulla base di ragionevoli sospetti, qualsiasi fatto concernente i
reati stabiliti dalla presente convenzione” (art. 33).
Anche la convenzione contro la corruzione promossa dal Consiglio
d’Europa nel 1999 contiene una disposizione sul punto la cui rubrica, in
modo inequivocabile, si riferisce alla “tutela dei dipendenti” e il cui testo
tradotto in italiano così recita: “Ciascuna parte prevede nel suo diritto interno
un’adeguata tutela contro qualsiasi sanzione ingiustificata nei confronti di
dipendenti i quali, in buona fede e sulla base di ragionevoli sospetti,
denuncino fatti di corruzione alle persone o alle autorità responsabili” (art. 9).
Le due indicazioni sovranazionali, in apparenza simili, si differenziano
per due aspetti: quella dell’Onu contiene una mera raccomandazione agli
Stati e non l’obbligo di adeguarsi e fa riferimento alla tutela in generale di chi
denuncia fatti corruttivi, anche appresi al di fuori del contesto lavorativo
(ricalcando, quindi, l’idea dei segnalanti degli Usa); mentre quella del
Consiglio d’Europa obbliga gli Stati membri a dotarsi di una normativa ad
hoc (e infatti l’Italia era stata in passato più volte richiamata al rispetto di
quest’obbligo) e concentra la sua attenzione sulle propalazioni che vengono
dal contesto lavorativo, come dimostra lo specifico riferimento ai dipendenti.
Certamente, però, l’indicazione più significativa (perché vincolante per
gli Stati dell’Unione europea) è quella che potrebbe arrivare dalla
Commissione europea, che il 28 aprile 2018 ha pubblicato una proposta di
una direttiva in materia. Nel testo ancora in consultazione, e quindi non
definitivo, è previsto che gli Stati membri dell’Unione debbano garantire
protezione per chi denuncia violazioni al diritto dell’Ue in materia di appalti
pubblici, servizi finanziari, riciclaggio di denaro e finanziamento del
terrorismo, sicurezza dei prodotti, sicurezza dei trasporti, tutela ambientale,
sicurezza nucleare, sicurezza degli alimenti e dei mangimi e salute e
benessere degli animali, salute pubblica, protezione dei consumatori, tutela
della vita privata, protezione dei dati e sicurezza delle reti e dei sistemi
informativi. La stessa tutela si applicherebbe anche alle violazioni delle
norme Ue sulla concorrenza, alle violazioni e agli abusi concernenti le norme
in materia di imposta sulle società e ai danni causati agli interessi finanziari
dell’Ue.
Gli Stati membri dovrebbero prevedere una normativa che obblighi
aziende ed enti a individuare “canali di comunicazione interna” per gli
informatori, con l’obbligo di fornire riscontro alle denunce entro tre mesi.
Ogni forma di ritorsione contro il denunciante dovrà essere vietata e
sanzionata. Il segnalante che subisce ritorsioni dovrà avere accesso a una
consulenza gratuita e a mezzi di tutela adeguati, stabilendosi l’inversione
dell’onere della prova in capo all’organizzazione destinataria della
segnalazione che dovrà dimostrare che non sta mettendo in atto alcuna
ritorsione nei confronti dell’informatore. Gli informatori saranno inoltre
protetti in sede di procedimento giudiziario, in particolare mediante l’esonero
da ogni responsabilità connessa alla divulgazione delle informazioni.
L’obiettivo perseguito dalla Commissione è di avere una disciplina
unitaria, in quanto oggi solo dieci Stati membri prevedono una piena tutela;
negli altri, invece, la protezione, oltre che parziale, si applica solo a settori
specifici o a determinate categorie di lavoratori. Va da sé che l’adozione di
un’eventuale direttiva sarebbe un enorme passo avanti per il rafforzamento
dell’istituto.

8.4 La situazione normativa prima della legge anticorruzione


Fino al 2012 mancava nel nostro Paese una norma specifica a tutela del
segnalante, ma vi erano (e tuttora vi sono) alcune disposizioni che comunque
si occupavano indirettamente della tematica.
Nel Codice penale sono contenute due norme (artt. 361 e 362) che
prevedono l’obbligo, penalmente sanzionato, a carico di alcune categorie di
dipendenti pubblici (quelli che svolgono funzioni di pubblico ufficiale o di
incaricato di pubblico servizio) di denunciare i reati di cui essi abbiano avuto
notizia, in presenza, però, di uno specifico presupposto (cioè che la notizia di
reato sia stata acquisita nell’esercizio o a causa delle sue funzioni).
I repertori di giurisprudenza mostrano una applicazione della norma
molto limitata e ciò non certo perché questi doveri siano da tutti
puntualmente adempiuti, ma perché è particolarmente difficile individuare
chi, avuta notizia di reato commesso, non l’ha poi denunciata.
Vi è anche una norma che potrebbe consentire di apprestare una
significativa tutela, sotto forma di protezione, a chi testimonia di fatti
corruttivi e, quindi, anche a chi li denuncia. Ci riferiamo alla disposizione sui
testimoni di giustizia, prevista nell’ambito della normativa relativa alla
protezione dei pentiti di mafia che, nata appunto con l’obiettivo di garantire i
testimoni di reati mafiosi, è però estendibile a qualsivoglia reato, anche quelli
in materia di pubblica amministrazione, ovviamente nei casi in cui la
testimonianza esponga il soggetto che la rende a gravi rischi per la propria
incolumità.
In un caso balzato agli onori delle cronache (quello del “teste Omega” che
negli anni novanta ha raccontato ai pm di Milano un gravissimo episodio di
corruzione giudiziaria che vedeva coinvolto un ex ministro della Repubblica
e vari magistrati), questo istituto è stato utilizzato proprio per garantire
protezione al soggetto che aveva reso informazioni utili per il processo che
(vale la pena ricordarlo) si è concluso con la condanna definitiva per gran
parte degli imputati.
Anche con riferimento al settore privato, vi era un “aggancio” normativo
che consentiva di valorizzare dichiarazioni di segnalanti interni, contenuto
nella normativa in materia di responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs n.
231 del 2001) che stabiliva che i modelli organizzativi adottati dalle imprese
devono, fra l’altro, prevedere “obblighi di informazione nei confronti
dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei
modelli”: così, implicitamente si incentivano le società private a dotarsi di
sistemi di segnalazione e di conseguente tutela di coloro che rendono le
informazioni.
Un quadro normativo, quindi, che, pur contenendo qualche spunto, non
era certamente idoneo a rappresentare un incentivo alla denuncia o, ancor di
più, a offrire le adeguate tutele a chi decidesse di segnalare.

8.5 La legge Severino


La legge Severino ha previsto la prima disciplina del whistleblowing del
nostro ordinamento, introducendo un apposito articolo nel Testo unico del
pubblico impiego, rendendo da subito evidente che intendeva limitare
l’applicabilità dell’istituto solo ai dipendenti pubblici.
La disposizione prevedeva tutela (non poteva essere sanzionato,
licenziato o sottoposto a misura discriminatoria, diretta o indiretta, con effetti
sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati direttamente o indirettamente
alla denuncia) a favore di chi avesse denunciato all’autorità giudiziaria o alla
Corte dei Conti o riferito al proprio superiore gerarchico o all’Anac
(quest’ultima era stata aggiunta dal decreto Madia del 2014) condotte illecite
di cui fosse venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
L’oggetto della segnalazione tutelata andava ben al di là dei fatti di
corruzione o persino dei fatti di rilevanza penale. Il riferimento alle “condotte
illecite” consentiva di farvici rientrare anche violazioni amministrative (ad
esempio, mancato svolgimento di controlli o mancato rispetto delle regole
procedurali) e/o disciplinari (ad esempio, allontanamenti sistematici dal posto
di lavoro), una scelta opportuna, questa, perché permetteva di portare a
conoscenza degli organi competenti fatti di cattiva gestione amministrativa,
che potevano essere spia di ben più gravi fatti di reato.
Le condotte illecite segnalate dovevano essere state apprese “in ragione
del rapporto di lavoro”, un concetto che comprendeva sia quanto si era saputo
in virtù dell’attività amministrativa svolta sia quelle notizie conosciute in
occasione e/o a causa dello svolgimento delle mansioni lavorative, anche in
modo casuale. Non vi rientravano le informazioni acquisite al di fuori di ogni
legame con il mondo lavorativo. La tutela del dipendente scattava per quelle
sole informazioni che fossero vere o comunque fornite nella convinzione, in
buona fede, della loro veridicità; nessuna tutela poteva, invece, spettare per
quelle che integrassero una calunnia o una diffamazione a carico di terzi.
La protezione normativa consisteva, oltre nel non poter essere sottoposto
a misure discriminatorie come già detto, anche nella tutela della riservatezza
del segnalante; l’identità di costui non poteva essere rivelata, senza il suo
consenso, nemmeno nel corso di un procedimento disciplinare iniziato nei
confronti del segnalato, a meno che il contenuto dell’informazione non fosse
indispensabile per la contestazione dell’illecito; la segnalazione era anche
completamente sottratta al diritto di accesso amministrativo previsto dalla
legge n. 241 del 1990.
La normativa, che pure aveva rappresentato dal punto di vista culturale un
enorme passo avanti, aveva non pochi punti di debolezza. In primo luogo, si
rivolgeva ai soli dipendenti pubblici, irrazionalmente escludendo altre
categorie, in primis i dipendenti delle società pubbliche.
Così in un caso che aveva fatto scalpore – quello di un dipendente di una
società pubblica operante nel settore ferroviario che aveva coraggiosamente
denunciato l’amministratore della società per aver utilizzato illecitamente i
beni aziendali (amministratore che era poi stato sottoposto a procedimento
penale e condannato per gravi reati) – non era stato possibile applicare alcuna
tutela prevista per i whistleblowers, nemmeno in via giudiziaria, contro le
misure ritorsive subite. Così il dipendente era stato costretto a lasciare il
posto di lavoro, raggiungendo una transazione economica con la società
datrice di lavoro.
La tutela contro atti discriminatori prevista dalla norma era, inoltre,
oggettivamente inadeguata. Prevedeva che le misure ritorsive adottate contro
il dipendente fossero segnalate al dipartimento della Funzione pubblica, ma
questo ufficio non aveva alcun potere per intervenire in modo effettivo contro
tali misure. Il dipendente era, quindi, poi costretto a rivolgersi al giudice del
lavoro e intentare una causa dall’esito incerto, oltre che a farsi carico delle
relative spese.
Infine, anche la tutela della riservatezza della segnalazione subiva non
poche limitazioni. Se la segnalazione aveva a oggetto un fatto di reato e
veniva, quindi, (doverosamente) trasmessa alla procura della Repubblica
(cosa che si verifica nella maggior parte dei casi), nell’ambito del processo
penale (e fin dalla fase delle indagini) il nominativo del segnalante poteva
diventare noto al denunciato.
L’Anac ha provato a intervenire in materia, fornendo una serie di
indicazioni con apposite linee guida, prevedendo, fra le altre cose, una
particolare attenzione alle soluzioni tecniche idonee ad assicurare la massima
riservatezza delle segnalazioni. Ha anche predisposto per la presentazione
della denuncia una procedura telematica, con la compilazione di un apposito
modulo, che consente di dialogare in forma anonima con l’Anac, per seguire
l’andamento della pratica, presentare ulteriori allegati, rispondere a richieste
di precisazione provenienti dagli uffici dell’Anac e questo senza rivelare la
sua identità.
Misure, queste, certamente utili, ma non in grado di superare le tante
criticità insite nella normativa.

8.6 La nuova legge sul whistleblowing


La nuova legge, adottata nel novembre 2017, riformula integralmente la
disposizione introdotta dalla Severino. Amplia, in primo luogo, la categoria
dei dipendenti pubblici tutelati, includendo esplicitamente, oltre ai dipendenti
dello Stato, degli enti pubblici, degli enti locali, anche quelli delle autorità
indipendenti e delle società pubbliche controllate e alcune persone estranee
all’amministrazione che con questa vengano in contatto (in particolare i
lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che
realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica) in quanto
potenzialmente a conoscenza di fatti illeciti accaduti negli uffici pubblici.
Viene modificato, in parte significativa, anche l’oggetto della
segnalazione. Si continua infatti a far riferimento all’ampia categoria delle
“condotte illecite”, così come il pregresso testo, ma si aggiunge la
specificazione che la denuncia deve essere effettuata “nell’interesse
dell’integrità della pubblica amministrazione”, volendo così ribadire che lo
strumento della segnalazione nasce in funzione di tutela di interessi generali e
non può essere utilizzato per denunciare eventuali comportamenti, pur illeciti,
commessi in proprio danno.
Se resta identica l’altra condizione che legittima la tutela (l’avere cioè
appreso l’informazione rilevante in ragione del proprio rapporto di lavoro),
cambiano parzialmente i destinatari della segnalazione, che saranno oltre che,
come in passato, la magistratura ordinaria e contabile e l’Anac, anche il
responsabile della prevenzione della corruzione: una scelta opportuna per il
ruolo che costui svolge nell’amministrazione. Viene altrettanto
opportunamente escluso il superiore gerarchico.
Inoltre, si precisa meglio e si amplia significativamente la tutela del
segnalante, il quale non può essere sanzionato, demansionato, licenziato,
trasferito ma nemmeno sottoposto “ad altra misura organizzativa avente
effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinate dalla
segnalazione”.
Gli atti ritorsivi illegittimamente adottati sono qualificati come nulli e –
qui la novità più rilevante – sarà a carico dell’amministrazione “dimostrare
che le misure discriminatorie o ritorsive sono motivate da ragioni estranee
alla segnalazione”. Ciò significa che in un eventuale processo basterà
dimostrare di aver fatto una segnalazione e di aver subìto una ritorsione,
senza dover provare il legame fra le due situazioni, spettando alla controparte
contestare l’assenza del rapporto (tecnicamente, si tratta di una “inversione
dell’onere della prova”).
Maggiore è anche la tutela accordata alla riservatezza della segnalazione.
In particolare, nel procedimento penale l’identità del segnalante è coperta dal
segreto “nei modi e nei limiti previsti dall’art. 329 del Codice di procedura
penale”, cioè fino a quando gli atti non divengono pubblici perché, ad
esempio, è stata emessa una misura cautelare personale. Nel procedimento
dinanzi alla Corte dei Conti, l’identità del segnalante resterà riservata “fino
alla chiusura della fase istruttoria”.
Nell’eventuale procedimento disciplinare l’identità del segnalante, così
come in passato, non può essere resa nota e se la contestazione si fonda solo
sulla segnalazione, quest’ultima “sarà utilizzabile ai fini del procedimento
disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della
sua identità”. Una soluzione che lascia a dir poco perplessi, perché si fa
dipendere l’esito del procedimento dalla scelta del segnalante, rendendolo
arbitro, di fatto, dell’irrogazione della sanzione disciplinare.
La tutela del whistleblower presuppone che le segnalazioni siano vere o
quantomeno effettuate nella buona fede che lo siano e di conseguenza viene
meno “nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la
responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o
comunque per reati commessi con la denuncia”.
Molto ampliati, infine, risultano i poteri dell’Anac che, a differenza del
passato, diventa l’autorità garante del rispetto delle regole di tutela del
whistleblower. Le viene riconosciuto il potere di adottare, dopo aver sentito il
garante della privacy, linee guida relative alle procedure per la presentazione
e la gestione delle segnalazioni, promuovendo anche il ricorso a strumenti di
crittografia per garantire al meglio la riservatezza dell’identità del segnalante
nonché penetranti poteri sanzionatori in tre diverse situazioni: potrà irrogare,
in particolare, a colui che sarà considerato responsabile dell’adozione, nei
confronti del segnalante, di misure discriminatorie illegittime la sanzione da
5.000 a 30.000 euro; a chi non adotta procedure corrette per l’inoltro e la
gestione delle segnalazioni la sanzione da 10.000 a 50.000 euro; a colui che
non effettua le necessarie attività di riscontro e verifica delle segnalazioni
ricevute la sanzione da 10.000 a 50.000 euro.
Un’ulteriore novità riguarda il settore privato. La nuova legge prevede
che le imprese, nei modelli di compliance previsti dal decreto n. 231,
indichino uno o più canali che consentano a dipendenti e collaboratori di
presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di
condotte illecite, “fondate su elementi di fatto precisi e concordanti”, oppure
di “violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente”. Questi
canali devono garantire, anche con modalità informatiche, la riservatezza
dell’identità del segnalante.

8.7 Le diverse “fedeltà” e i dilemmi etici


Con la nuova disciplina il legislatore ha dettato regole molto più incisive
per la tutela di chi ha il coraggio di esporsi, denunciando.
Non tutti i problemi sono risolti (ad esempio, resta debole la tutela della
riservatezza del denunciante nel processo penale; la sua identità sarà
comunque svelata molto presto, già nel momento in cui gli atti diverranno
pubblici) e sarà determinante comprendere l’effettivo impatto pratico di una
normativa che non da tutti è stata accolta positivamente.
Essendo entrata in vigore da pochissimo tempo, non ci sono a oggi dati
tali da dimostrare se e come la legge attuale stia funzionando. I dati che sono
noti sono quelli presentati dall’Anac nel rapporto annuale sulle segnalazioni
che le sono giunte e su quelle pervenute ad altri enti. Tali dati evidenziano un
costante aumento numerico, accompagnato, però, da un aspetto non
rassicurante: molte denunce (la maggioranza) non riguardano comportamenti
illeciti commessi verso l’amministrazione, ma lamentele per comportamenti
ritenuti scorretti verso chi li segnala come il mancato riconoscimento di
gratificazioni di carriere, presunte attività di mobbing a proprio danno,
mancata valorizzazione professionale ecc.
La nuova normativa dovrebbe consentire di superare questo problema,
visto che tutela solo le segnalazioni fatte nell’interesse dell’integrità
dell’amministrazione. Ma il dato invita comunque a una riflessione più ampia
sul significato e il valore anche sociale delle segnalazioni dei whistleblower.
Da quanto si è detto, costoro sono tutt’altro che delatori anonimi: sono
piuttosto persone che scelgono di fare la cosa giusta, anche a scapito di altre
“fedeltà”. Il valore positivo di questa condotta dovrebbe spingere tutti ad
appoggiare l’azione del whistleblower. Purtroppo spesso ciò non avviene, e
non solo fra i corrotti, che evidentemente hanno un interesse opposto, ma
anche tra colleghi e a volte persino nell’opinione pubblica.
Nel definire il termine anglosassone si tende a presupporre che abbia
un’accezione positiva che, come abbiamo detto, non corrisponde a gran parte
delle possibili traduzioni nella nostra lingua. In realtà, anche negli Stati Uniti
il termine, in una prima fase, esprimeva un senso di fondo negativo,
assimilabile a quello dei nostri “talpa” o “spione”. È a partire dall’uso del
termine fatto dall’ambientalista Nader nel 1972, cui venne dato grande
risalto, che definì whistleblowing “l’azione di un uomo o una donna che,
credendo che l’interesse pubblico sia più importante dell’interesse
dell’organizzazione di cui è al servizio, denuncia/segnala che
l’organizzazione è coinvolta in un’attività irregolare, illegale, fraudolenta o
dannosa” che esso comincia ad assumere, con un ribaltamento, un’accezione
positiva.
Non è forse un caso che questo “ribaltamento di senso” sia avvenuto
quando il whistleblowing diventa una questione che tocca, e protegge, in
modo più diretto i diritti e gli interessi di ciascuno di noi, come avviene
quando la denuncia riguarda l’inquinamento di una falda acquifera che
alimenta un acquedotto. Questo ha portato negli Stati Uniti a un’acquisizione
di consapevolezza sull’utilità sociale della “soffiata”, sul suo valore
intimamente positivo. Ma è un passaggio che in Italia non appare ancora
compiuto.
L’accezione positiva del termine e l’assenza di un corrispettivo italiano
manifestano infatti ancor di più che siamo in presenza di un problema
anzitutto culturale. Ma non per questo meno importante in termini sostanziali
perché “nessuna cosa esiste dove la parola manca”, diceva Heidegger.
Continuiamo a utilizzare un termine straniero per “forzarci” ad attribuire
un’accezione positiva a un comportamento che ha un radicamento culturale di
segno opposto: la prima fedeltà è alla nostra cerchia più stretta, ossia gli
amici e i parenti; quella verso lo Stato, l’autorità, l’interesse pubblico è vista
come secondaria, cedevole se in contrasto con la prima. Se però la corruzione
porta all’inquinamento dell’acqua che beviamo, perché nella discarica
finiscono rifiuti speciali che richiederebbero un diverso trattamento, se la
corruzione penetra nell’ambito sanitario e ci impedisce di accedere a cure, o
comporta cure di pessima qualità che producono l’innalzamento del tasso di
mortalità nella nostra città, allora dobbiamo chiederci se la nostra “fedeltà”
non danneggi solo un astratto interesse generale, ma anche quello nostro più
personale.
Sin da piccoli abbiamo imparato che “chi fa la spia non è figlio di Maria”:
è un retaggio da superare, ma che ci portiamo dietro. Il delatore, la soffiata, la
legge che protegge chi fa la spia, gola profonda: se scorriamo i titoli e gli
articoli di giornale che trattano del whistleblowing al fianco di termini più
neutri, e corretti, come segnalante o informatore, troviamo espressioni che
hanno una pesante accezione negativa. Non mancano, peraltro, nel dibattito
pubblico, anche espressioni più forti (infame, traditore, pentito).
Nel criticare l’approvazione della legge del 2017, un deputato di una
forza politica che si era opposta alla legge l’ha definita una “barbarie
giuridica”, una legge “che legittima e incoraggia, negli ambienti di lavoro, un
clima di costante e reciproco sospetto alimentato da accuse segrete e
segretate”. Chi segnala, dunque, “tradisce” la propria organizzazione, i
colleghi, i propri superiori mentre il whistleblower è tutt’altro che un
traditore. Un articolo di Ben Zimmer sul “Wall Street Journal” si apre con
questa domanda: “Is Edward Snowden a whistleblower or a traitor?”, una
domanda che evidenzia l’accezione intimamente positiva della parola, che si
colloca in termini di opposizione/negazione con l’idea di tradire.
Le esperienze pratiche dimostrano però che il problema non è solo di
come la vicenda viene rappresentata dai media o commentata a livello
politico: chi denuncia si trova ancora spesso isolato all’interno e all’esterno.
La disciplina del whistleblowing è recente, ed è ancora più recente la riforma
che l’ha rafforzata: resta una regolazione migliorabile, ma è in campi come
questo che emergono tutti i limiti della (sola) legislazione rispetto a questioni
che sono innanzitutto culturali.
9.
Corruzione e pubblici appalti

9.1 Perché parlare di appalti pubblici


Molti comuni cittadini associano all’idea di appalto pubblico soprattutto
quella di un’opera pubblica; penseranno a una strada, a un ponte, alla sede del
Comune che viene costruita ecc. Se, però, leggiamo la definizione del
legislatore, ci rendiamo conto che il concetto è molto più ampio: gli appalti
pubblici sono “i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto, tra una o più
stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto
l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi”. Vi
rientrano, quindi, tre tipologie di attività: i lavori (ad esempio, la costruzione
di un ponte o l’asfaltatura di una strada), la fornitura di prodotti (l’acquisto di
computer, penne, suppellettili per un ufficio) e la prestazione di servizi (i
pasti distribuiti ai degenti in ospedale o la pulizia assicurata nei pubblici
uffici). Siccome si tratta di attività che le amministrazioni non possono fare
direttamente (o non sempre riescono a fare), devono procurarsele da soggetti
esterni, proprio attraverso gli appalti, che sono, in estrema sintesi, lo
strumento attraverso cui l’amministrazione pubblica si approvvigiona di ciò
di cui ha bisogno.
L’individuazione dei soggetti esterni all’amministrazione che dovranno
occuparsi di tali attività non può essere certo affidata in modo arbitrario agli
stessi funzionari pubblici, ma dovrà passare da specifiche procedure mirate,
da un lato, a evitare sprechi di risorse, dall’altro a individuare il miglior
interlocutore possibile. Per raggiungere questi obiettivi vengono utilizzati
meccanismi competitivi, definiti “gare pubbliche”. Le norme che regolano le
procedure di gara compongono il cosiddetto codice degli appalti.
Sono davvero ingenti le risorse pubbliche impegnate in questo settore,
non solo in Italia ma in tutti i Paesi. Nel rapporto 2016, l’Ocse ha stimato il
valore degli appalti pubblici degli Stati che fanno parte dell’organizzazione (i
principali del mondo) in 4,2 trilioni di euro, pari al 12% del Pil e al 29% della
spesa della pubblica amministrazione. Anche in Italia, parliamo di cifre molto
elevate. Secondo un rapporto dell’Ance (l’Associazione nazionale dei
costruttori edili) nel 2017 sono state bandite gare, per i soli lavori, per oltre
22 miliardi di euro, a cui vanno aggiunte quelle per servizi e forniture, per
circa 100 miliardi complessivi.
L’enorme quantità di denaro pubblico che gravita intorno agli appalti, la
circostanza che tutti i settori delle attività amministrative li utilizzano per la
propria attività (ad esempio, la sanità per acquistare i farmaci per gli ospedali,
il sistema dei servizi sociali per ottenere i servizi da distribuire ai cittadini, il
sistema dei trasporti per fornire i mezzi per gli spostamenti ecc.) rendono
quello di cui parliamo il settore oggettivamente più aggredito dalla
corruzione.
Lo ha confermato l’ultimo rapporto della Commissione europea sulla
corruzione in Italia, presentato il 3 febbraio 2013, che conteneva anche un
sondaggio effettuato su un campione rappresentativo di nostri concittadini: il
70% di loro (contro il 56% degli altri cittadini dell’Unione) si è detto
convinto che le gare d’appalto pubbliche siano inquinate dalla corruzione e
che, anzi, molte gare non abbiano altro fine che questa.
Lo dimostra intuitivamente anche una semplice (ma indiscutibile)
considerazione. In questa materia si sono concentrati i più importanti scandali
degli ultimi anni, a partire da Mani pulite per arrivare a quelli del Mose, di
Mafia Capitale, al Cara di Mineo, fino alle recentissime inchieste relative allo
stadio della Roma.
Pur consapevoli dei loro limiti, anche le stime numeriche vanno nel senso
indicato. Secondo l’Ocse il costo diretto della corruzione mondiale nel
sistema degli appalti oscilla fra il 10 e il 30% dell’investimento di risorse, per
giungere, nel settore delle costruzioni, a perdite che, nel 2020, potranno
quantificarsi nella mostruosa cifra di 2,5 trilioni di euro. In Italia, secondo la
Guardia di finanza, nel Rapporto anticorruzione del 2014, il 30% degli
appalti si stima essere stato presumibilmente assegnato illecitamente, per un
valore complessivo, quindi, di oltre 1,5 miliardi di euro.
Questo breve excursus illustra da solo, meglio di qualunque altra
spiegazione, la ragione per cui una strategia anticorruzione che non tenga
specificamente conto di come intervenire in questo settore sarebbe a dir poco
monca.
9.2 La corruzione è un danno per gli appalti pubblici?
Quella del titolo è solo in apparenza una domanda retorica, perché –
seppure oggi quasi nessuno avrebbe il coraggio di rispondere negativamente
in termini espliciti – se si prova a interpretare messaggi più sottili, inviti a
non esasperare i toni, attacchi più o meno palesi al sistema
dell’anticorruzione o all’“inutile” burocrazia dei controlli, si comprende che
non tutti, se potessero dirlo con franchezza, risponderebbero un convinto “sì”.
Non è anzi azzardato affermare che sono in molti che, in ogni settore
della società, credono che, tutto sommato, la corruzione negli appalti sia un
danno relativo o, persino, non lo sia affatto. In fondo, c’è qualcuno che pensa
che la corruzione è in grado di “ungere le ruote” degli ingranaggi pubblici e
favorire paradossalmente la realizzazione di opere pubbliche, superando quei
noiosi e inutili ostacoli burocratici che non permettono di “fare”.
Del resto, alcuni economisti, soprattutto in passato, si erano posti in
termini neutrali o quasi assolutori nei confronti della corruzione,
considerandola, al più, “solo” un costo economico, accettabile se comunque
consente al sistema degli appalti di mettersi in moto, innestando, quindi, un
virtuoso moltiplicatore economico. E non sono mancati nemmeno autorevoli
esponenti del mondo istituzionale che, a mezza bocca, si sono fatti sfuggire il
pensiero, sicuramente comune anche ad altri, che con “il malaffare” (persino
con le mafie) bisogna trovare un modo per convivere.
Questa impostazione, per fortuna, sembra non essere condivisa dalla
maggioranza, a cui convintamente ci iscriviamo. La corruzione è un costo per
la collettività finanziato dalle nostre tasse – e già per questo inaccettabile –,
ma più ancora di questo. La corruzione determina la scelta del prodotto
“prescelto” e non di quello migliore, così come nel campo dei concorsi
determina la scelta del “raccomandato” sul meritevole. Questo meccanismo
svilisce non solo il rapporto che si instaura, ma predetermina la pessima
qualità di ciò che ne discenderà e di tutto ciò che (non meno importante)
viene prima: la ricerca e lo sviluppo dell’impresa o la sua esigenza di
assumere bravi ingegneri, ad esempio, e tecnici competenti e qualificati.
Tutte queste cose si perdono, “come lacrime nella pioggia” citando fuor di
contesto un bel passaggio di un famoso film di fantascienza, di fronte allo
scambio corrotto che diventa fondamento della scelta pubblica.
Inoltre, è vero che la corruzione potrebbe (in astratto) favorire lo sblocco
di opere ferme per problemi burocratici ma non è detto che sbloccherebbe
quelle necessarie, anzi potrebbe farlo per quelle ritenute capaci di alimentare
un mercato da cui si immagina di trarre profitti personali; quelle che si fanno,
poi, le rende sicuramente più costose del dovuto o di qualità peggiore, dal
momento che la corruzione è un “costo” che le imprese appaltatrici
inevitabilmente dovranno far ripagare. Alla collettività.
In una stagione, come quella che ormai si protrae da anni, di “crisi” (crisi
economica, ma anzitutto crisi della capacità di spesa da parte dello Stato), il
rischio diventa in qualche modo ancora più grave per più ragioni. La prima,
forse la più evidente, è il fatto che lo “spreco” rappresentato dalla corruzione
è insostenibile in un contesto di risorse scarse. Pagare, ad esempio, un’opera
pubblica il 30 o 40% in più del dovuto diventa un “lusso” insostenibile. La
seconda, forse ancora più insidiosa, deriva dal fatto che in un contesto di
risorse “date” (e limitate) la corruzione fatica a “scaricarsi” su un aumento di
costo delle opere e finisce inevitabilmente per riflettersi sulla “qualità”
dell’opera: uno strato di asfalto più sottile del dovuto e destinato a rovinarsi
con grande rapidità, omesse manutenzioni, fino ad arrivare all’estremo (su cui
purtroppo ci sono casi, dimostrati da indagini e a volte purtroppo da sciagure)
di cemento depotenziato, ferro insufficiente nelle travi, cibo scaduto o di
qualità insufficiente nelle mense, e così via.
In sintesi, quel costo della corruzione che non emerge dal costo dell’opera
non è per questo inesistente, ma si traduce in un pericolo per tutti noi: è un
attentato al nostro benessere, alla qualità dei servizi pubblici, a volte, come
tanti episodi lo dimostrano, persino alla nostra vita.

9.3 La necessità di una “buona” disciplina


Non solo non è un “accidente” ma è anzi una necessità il dover prevedere
nella strutturazione del sistema dei lavori pubblici la variabile corruzione; se
del resto qui si concentrano i problemi maggiori, di cosa dovrebbe occuparsi
una strategia anticorruzione se non (anche) del buon funzionamento degli
appalti?
In questa prospettiva è, quindi, necessario uno strumento legislativo (il
codice degli appalti, appunto) che si ponga, fra gli altri, l’obiettivo di evitare
che si verifichino fatti corruttivi. Questa affermazione apparentemente
scontata non è, però, affatto condivisa da tutti, esistendo sul punto posizioni
variegate, sia pure con tanti distinguo, fra analisti ed esperti.
C’è una tesi radicale che giunge ad affermare, non solo
provocatoriamente, che il codice degli appalti è uno strumento inutile, perché
pone delle regole che complicano la vita agli onesti senza impedire ai
disonesti di coronare i loro disegni criminali. Per i fautori di questa posizione
la soluzione migliore sarebbe di prevedere meno regole possibile e poi punire
severamente, in sede penale, chi risulti essersi macchiato di corruzione. È
un’argomentazione non convincente.
Si può, in primo luogo, obiettare che secondo questa idea nessuna attività
di prevenzione sarebbe utile e che, quindi, anche quella in materia di infortuni
del lavoro sarebbe solo un impedimento per gli imprenditori onesti e accorti.
Anche lì si potrebbe dire che è meglio intervenire dopo, quando il danno è
fatto, punendo gravemente quegli imprenditori che non abbiano fatto il
necessario per impedire gli infortuni dei propri dipendenti.
E infine, il limite di questa tesi appare evidente alla luce di quanto
abbiamo detto sulle difficoltà di far emergere i fatti corruttivi. Affidandosi al
solo intervento penale, tenuto conto che la maggioranza dei fatti corruttivi
resta non scoperta, si finisce, di fatto, per “premiare” coloro che, essendo
fortunati o criminali “più bravi” e “accorti”, non saranno mai scoperti,
rendendogli, persino, più semplice il risultato (visto che non ci sono più
regole che noiosamente impediscono di raggiungerlo).
L’assenza (o la scarsità) di regole, in conclusione, finisce – e lo
sosteniamo solo in parte per paradosso – per incentivare la corruzione.
Perché, se so che solo una piccola percentuale di corrotti viene scoperta e
senza regole chiare posso fare quasi tutto quello che voglio, posso
cinicamente decidere di accettare (o pagare) una mazzetta, confidando di
compensare il minimo rischio che potrò correre con il certo “guadagno” che
faccio.
Meno radicali sono, invece, quelle tesi che criticano l’idea di codice degli
appalti come strumento anticorruzione sul presupposto che troppe regole
attente alla prevenzione finiscono per ingessare il sistema, allungare a
dismisura i tempi delle gare, bloccare opere che possono risultare
indispensabili e, comunque, impedire attività che produrrebbero ricchezza e
di conseguenza posti di lavoro.
In molte discussioni pubbliche, si sente spesso dire che il solo fatto che la
vigilanza sugli appalti sia attribuita a un organo che si chiama “autorità
anticorruzione” finisce per dare un’immagine negativa a tutto il settore, come
se fosse tutto corrotto.
Quest’ultima affermazione appare un argomento da sofisti – come se,
chiamando diversamente l’organo vigilante, potesse migliorare l’immagine di
un settore che era, invece, già molto appannata, come dimostra il sondaggio
della Commissione europea del 2013, ben prima che fosse creata un’autorità
anticorruzione che si occupava di appalti. Le critiche sul rischio di
burocratizzazione potrebbero avere un loro fondamento se, però, la politica di
prevenzione si dovesse limitare a controlli puramente formali e non mirare,
come riteniamo debba fare, a una migliore qualità e trasparenza complessiva
dell’amministrazione.
Noi crediamo, in conclusione, che uno dei più importanti presidi
anticorruzione sia un Codice dei contratti ben fatto, un codice, cioè, che non
introduca controlli formali e sia attento all’efficienza della macchina
amministrativa.

9.4 Il nuovo Codice dei contratti pubblici


Il nostro Paese aveva adottato nel 2006 un Codice dei contratti che era
stato completato da un regolamento del 2010 (ben quattro anni dopo!). I due
testi consegnavano a chi doveva applicarlo oltre seicento articoli, che fra
l’altro erano stati tante volte, nel corso degli anni, integrati e modificati, al
punto da renderli spesso assolutamente diversi da quelli originari.
Accanto al codice era poi fiorito un sistema di deroghe soprattutto per il
compimento delle grandi opere (per Expo 2015 erano derogabili ben 85
norme del codice) che di fatto aveva creato legislazioni speciali per singoli
interventi. Vi si aggiungeva, poi, una serie di norme extracodice (ad esempio,
la famosa legge obiettivo che consegnava a un’impresa il cosiddetto general
contractor, il compimento di un’opera pubblica) rendendo ancor più
complesso e variegato il quadro normativo.
Per questa ragione, da più parti si era chiesto di riscrivere ex novo il
codice, nella logica di una maggior semplificazione delle norme che
consentisse una più efficace applicazione ed evitasse anche i non pochi
fenomeni illeciti che nel corso degli anni si erano verificati.
Approfittando della necessità di recepire alcune direttive comunitarie in
materia (i cui princìpi sono per i Paesi Ue vincolanti) adottate nel 2014, il
legislatore nel 2016 ha emanato un nuovo codice, quello attualmente vigente.
Il disegno tratteggiato da questa riforma e da quelle successive presenta, sia
pure accanto a tratti di criticità, numerosi elementi di interesse.
Si tratta di un intervento normativo particolarmente ampio e complesso,
sia per le previsioni direttamente poste a livello legislativo sia per i successivi
provvedimenti di regolazione generale che devono essere adottati
dall’Autorità anticorruzione. Segnaliamo qui gli elementi più significativi di
quel disegno nell’ottica delle politiche di prevenzione della corruzione, a
cominciare da un elemento di criticità: la normativa che avrebbe dovuto
essere più semplice e di più facile applicazione resta complessa e purtroppo
alquanto instabile.
Il codice è poi entrato in vigore senza un adeguato periodo transitorio (fra
l’altro, lo stesso giorno della pubblicazione sulla “Gazzetta ufficiale” per
rispettare il termine delle direttive comunitarie) che consentisse agli operatori
di conoscerlo e digerirlo e da lì a poco sono iniziate le modifiche con ritmo
incalzante, con ripensamenti che hanno spiazzato le amministrazioni e gli
operatori privati. Qualche numero solo per dare l’idea: il nuovo codice è del
2016 (ed è composto da oltre 220 articoli e 25 allegati) ed è stato “ritoccato”
nel 2017 con un correttivo che ha modificato oltre 130 articoli (alcuni dei
quali mai applicati) e altre modifiche sono state introdotte nella legge
finanziaria approvata a fine 2017; e tuttora (dopo ulteriori correzioni) si
discute di riscrivere il codice.
Alcuni commentatori riportavano, a due anni dall’adozione del codice, un
dato ancora più allarmante di oltre trecento modifiche legislative al testo
originario: un dato che è aumentato ancora e di cui è difficile anche solo dare
conto perché singoli interventi legislativi operano spesso più ritocchi di uno
stesso articolo. Basti pensare all’articolo 217, quello che regola il periodo
transitorio, modificato quattro volte, con complessive diciassette modifiche
sostanziali.
Il lettore che, Codice dei contratti sotto gli occhi, volesse farsi un’idea di
questo gigante in movimento potrebbe, ad esempio, utilizzare il servizio
“Normattiva” che consente di disporre sempre delle leggi aggiornate e di
seguirne gli sviluppi normativi e porsi, quindi, nell’ottica di
un’amministrazione pubblica che deve realizzare un’opera pubblica: in
questo modo si trova a decidere in un campo così magmatico in cui gli
interessi degli operatori economici sono spesso considerevoli.
Questo solo mantenendoci a livello di disciplina legislativa, in un campo
in cui però la regolazione più dettagliata, spesso minuziosa, è ampia e affidata
in parte al governo, e in particolare al ministero delle Infrastrutture, ma ancor
di più all’Anac che adotta specifiche linee guida per regolare numerosi aspetti
operativi e applicativi del Codice dei contratti.
Questa scelta delle linee guida avrebbe dovuto aiutare la semplificazione:
scritte in un linguaggio meno burocratico e discorsivo, avrebbero dovuto
fornire un valido supporto alle amministrazioni per indirizzarle nelle loro
scelte discrezionali. Nella pratica, però, l’attuazione sta procedendo
abbastanza a rilento. Alcune delle linee guida adottate sono state
necessariamente modificate per tener conto del correttivo e le
amministrazioni sono disorientate nel districarsi spesso fra una quantità di
regole che si fatica persino a reperire, variamente quantificate in tante di
quelle pagine che un’amministrazione sarebbe tenuta a conoscere e applicare.
L’obiettivo che ci si era prefisso, per tante ragioni, non è stato raggiunto:
l’amministrazione continua a dover decidere con margini di incertezza e
dubbi interpretativi che la portano spesso a non decidere o, peggio ancora, a
provare a scaricare su altri le decisioni, chiedendo pareri o supporto. E la
stessa giurisprudenza (cioè le sentenze che decidendo controversie pregresse
chiariscono alcuni dubbi) che dovrebbe fornire l’ultima parola non riesce a
farlo perché, se una norma viene modificata ben diciassette volte in soli tre
anni, diventa assai improbabile che su di essa si formi una posizione
definitiva in grado di risolvere dubbi e sciogliere nodi.

9.5 Codice dei contratti e anticorruzione


Al Codice dei contratti spetta di indicare alcune scelte di fondo nel
disciplinare le diverse fasi di una gara e l’opzione per una o per l’altra ha una
significativa ricaduta su tanti aspetti, compreso quello della prevenzione della
corruzione. Ad esempio, la scelta delle modalità di affidamento (con gara o
con affidamento diretto? E con che tipo di gara?), i criteri di scelta (il prezzo
più basso è un buon criterio? Che criterio utilizziamo quando scegliamo la
nostra auto, guardiamo solo al prezzo?), le caratteristiche che deve avere chi
va a contrattare con l’amministrazione (quando prenotiamo un albergo con
Booking guardiamo le recensioni e l’indice di soddisfazione?) e così via.
Le regole previste disciplinano problemi che, a ben vedere, non sono
nemmeno molto diversi da quelli che abbiamo tutti e che tendiamo a risolvere
con criteri di buon senso che elaboriamo strada facendo. Per le
amministrazioni questi criteri devono, invece, essere determinati prima e con
precisione, perché è diversa l’entità della spesa (e infatti anche i privati che
sviluppano volumi maggiori si danno delle regole per disciplinare i propri
acquisti), e soprattutto perché occorre assicurare, per quanto possibile,
imparzialità, qualità e contenimento delle spese.
Come garantire queste tre esigenze e consentire una concorrenza effettiva
nel mercato dei contratti pubblici? Gli oltre duecento articoli del codice sono,
in ultima istanza, il tentativo di rispondere a questa domanda, a conferma del
fatto che non ci sono risposte semplici a domande apparentemente semplici
ma complesse.
Proviamo comunque ad analizzare alcune delle opzioni di fondo del
codice. La prima è quella della ricerca di un miglior equilibrio tra
“responsabilità” dell’amministrazione nella scelta del contraente e
“prevedibilità/standardizzazione” delle dinamiche di gara. Nel precedente
impianto era evidente una forte sfiducia nell’amministrazione, evidenziata
dalla ricerca di soluzioni che non consentissero spazi di scelta discrezionale:
a questo l’amministrazione rispondeva spesso con strategie di elusione
(frammentazione della gara in modo da avere minori vincoli, ricorso a
soluzioni “eccezionali”, ma assolutamente frequenti, di affidamento diretto).
In sostanza, se non posso avere adeguate garanzie di qualità dalla gara
cercherò di fare a meno della gara.
Il cambiamento di approccio è dimostrato dal passaggio – come criterio
“normale” di aggiudicazione della gara – da quello del minor prezzo a quello
del prezzo economicamente più vantaggioso: un criterio che consente un
maggior margine di apprezzamento da parte dell’amministrazione (e quindi
da parte della commissione di gara) sul rapporto tra qualità e quantità. D’altra
parte non è della discrezionalità che bisogna avere paura perché, quando
l’amministrazione sceglie giustificando le ragioni e assumendosi la
responsabilità, opera in modo trasparente e quindi verificabile. Non per nulla
molti casi di corruzione si sono annidati proprio in decisioni apparentemente
“vincolate”, e d’altra parte il caos normativo in cui spesso si sono trovate a
operare le amministrazioni ha talvolta consentito di scegliere senza alcuna
assunzione formale di responsabilità. Il discorso è diverso per l’acquisizione
di beni e servizi “standardizzabili”: qui la scelta è quella di rendere più
trasparenti e facilmente confrontabili le scelte, individuando prezzi standard e
favorendo il ricorso a soluzioni quali aste elettroniche e “mercati elettronici”
al cui interno scegliere con procedure semplificate.

9.6 Qualità delle amministrazioni e qualità degli appalti


Il secondo passaggio è quello di puntare sulla migliore qualificazione
delle stesse amministrazioni appaltanti, prevedendo che solo a certe
condizioni e con determinati requisiti è possibile per un ente svolgere
autonomamente la funzione di stazione appaltante, altrimenti bisogna far
ricorso ad altre stazioni appaltanti o a “centrali di committenza”
adeguatamente qualificate.
Per comprendere cosa significa questa novità, basta dire che ogni
amministrazione dovrà dimostrare di avere il know how sufficiente (tecnici,
progettisti, competenze pregresse ecc.) per occuparsi di appalti e i requisiti
saranno via via maggiori in relazione alla complessità degli stessi. Tutte
potranno occuparsi di piccoli appalti, pochissime di quelli economicamente
più onerosi.
Nonostante si tratti di un “pezzo” del sistema decisivo, sul tema si
incontrano resistenze e difficoltà (dimostrate dal fatto che ancora tarda il
decreto del governo che dovrebbe definire i criteri in base ai quali operare
questa qualificazione): le amministrazioni, da un lato, manifestano continue
ambasce nell’applicare il Codice dei contratti perché non dispongono di
personale adeguato per quantità e qualità, dall’altro, però, non vogliono
perdere il controllo sulle proprie procedure di gara affidandole a un altro
soggetto.
Certo è che, nel momento in cui si “concentrano” in capo a pochi tante
scelte, diventa a maggior ragione decisivo prestare attenzione alla qualità, alle
competenze, all’integrità dei funzionari: le vicende che hanno interessato
Consip – che, al di là dei caratteri specifici, è essenzialmente una grandissima
centrale di acquisto – dimostrano quanto sia importante vigilare con
particolare cura su questi potenziali “monopolisti” del mercato dei contratti (e
delle tangenti che potrebbero circolare).
Questa vigilanza, questo controllo, ma anche la pretesa di standard di
efficienza maggiori sono, in effetti, obiettivamente difficili da raggiungere se
ogni amministrazione, anche la più piccola e sprovvista di personale
qualificato, pretende di seguire le proprie gare. Passare da circa 36.000
stazioni appaltanti a qualche centinaio o al massimo un migliaio non è
un’operazione semplice, ma sicuramente necessaria. Si può discutere di come
graduare questo sviluppo, che però è ineludibile.
Dall’altro lato della barricata, altrettanta attenzione è dedicata dal codice
all’affidabilità e alla qualificazione delle imprese, a partire da robuste regole
di esclusione, collegate all’esistenza di requisiti soggettivi e oggettivi con
l’intento di escludere dai rapporti contrattuali con le amministrazioni
pubbliche soggetti variamente “a rischio” (perché, ad esempio, legati a
vicende di corruzione, riciclaggio, false dichiarazioni, frode, infiltrazione
mafiosa ecc.). Per le imprese, inoltre, è prevista la possibilità di ottenere un
rating che serva ad attestare puntualità e correttezza nella gestione di
pregressi appalti e possa valere come un titolo positivo per i futuri appalti; un
sistema premiante che dovrebbe stimolare comportamenti corretti e virtuosi
del privato interlocutore delle amministrazioni.
Un minor numero di stazioni appaltanti, una maggiore professionalità,
una miglior capacità di vigilanza su queste, anche da parte dell’Anac, dotata
quest’ultima di più incisivi poteri in grado di risolvere criticità in corso di
gara: è intorno a questi snodi cruciali che ruotano molte delle previsioni
contenute nel nuovo Codice dei contratti.
Un terzo elemento è dato da nuovi importanti meccanismi di trasparenza
dei processi decisionali (anche attraverso, ad esempio, obblighi di
pubblicazione degli “incontri e dibattiti con i portatori di interesse”, vale a
dire i lobbisti) e di partecipazione dei cittadini nell’ambito delle procedure
volte all’insediamento di infrastrutture (dove far passare una strada? Quale
localizzazione per un inceneritore?). Si tratta di meccanismi che possono
essere letti non esclusivamente in una prospettiva di rafforzamento
dell’imparzialità, il che mostra come quello degli appalti sia un laboratorio in
cui si sviluppano soluzioni innovative di azione amministrativa.
Il campo dei contratti pubblici si caratterizza, inoltre, per un regime
rafforzato di trasparenza, che si lega strettamente al modello degli obblighi di
pubblicazione: “Tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e
forniture, nonché alle procedure per l’affidamento di appalti pubblici di
servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione, di
concorsi di idee e di concessioni […] alla composizione della commissione
giudicatrice e ai curriculum dei suoi componenti” devono essere pubblicati
nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito dell’amministrazione
interessata.
Queste scelte di fondo rimaste ancora in parte inattuate (ma se ne
potrebbero individuare altre), dimostrano, al di là della declinazione concreta
delle singole norme, la grande e condivisibile attenzione del codice alle
tematiche di prevenzione dei fenomeni di malaffare.

9.7 Grandi eventi, grandi scandali


Un discorso parzialmente diverso va fatto rispetto a vicende come Expo
2015 e altri “grandi interventi” che hanno richiesto soluzioni che da
eccezionali sono divenute sempre più ordinarie. A fronte di interventi di
carattere straordinario, sia per le risorse che muovono sia per i tempi (spesso
vincolati: Expo 2015 non poteva tenersi nel 2016, così come avviene per una
grande manifestazione sportiva o per un Giubileo), in presenza di scandali o
al fine di ridurne l’insorgenza, l’Italia ha elaborato una soluzione innovativa e
ne ha affidato l’attuazione all’Anac.
Lo strumento originariamente era stato previsto solo per gli appalti di
Expo 2015, ma è stato poi esteso ad altre opere attraverso quell’attività che è
stata chiamata “vigilanza collaborativa”, una sorta di accompagnamento da
parte dell’Autorità delle amministrazioni coinvolte nell’evento per assicurare
la correttezza e la legalità dell’azione “nel suo farsi”.
In sostanza l’Autorità svolge, per affidamenti di particolare interesse,
un’attività di vigilanza (da attuarsi mediante la stipula di protocolli d’intesa
con le stazioni appaltanti che lo richiedono), con l’obiettivo di supportarle
nella predisposizione degli atti e nell’attività di gestione dell’intera procedura
di gara. Questo per vicende che riguardano grandi eventi, appalti legati a
calamità naturali (e quindi, in particolare ora, la ricostruzione post-sismica),
la realizzazione di grandi infrastrutture. È una tipologia di controllo, né
preventivo né successivo, ma concomitante, nel senso che l’Autorità affianca
la stazione appaltante controllando gli atti prima della loro adozione (le
vengono sottoposte le bozze degli stessi), indicando eventuali correzioni che
possono apportarsi e lasciando, però, l’ultima parola all’amministrazione.
È un approccio considerato molto interessante: come tale è stato
classificato dall’Ocse, che l’ha inserito tra le migliori pratiche di “governo” di
appalti, in particolare in occasione di grandi eventi, e questo pare confermato
da tutti i dati a disposizione, sia sul versante della spesa pubblica sia su quello
della riduzione del contenzioso (dato che tutti gli atti sono in qualche modo
“avvalorati” dall’Anac si riduce la tendenza a impugnarli di fronte al Tar) e
quindi dei termini di realizzazione delle opere.
La vigilanza “amministrativa” (sia pure collaborativa) non significa
affatto vigilanza penale: diversi sono gli obiettivi, diverse le finalità, e diverse
le tecniche e strumentazioni d’indagine. Una procedura apparentemente
corretta può nascondere una corruzione a volte sofisticata, così come può
esservi assenza di corruzione (e semmai inefficienza o incompetenza) dietro
una procedura completamente sballata. Però una procedura scorretta è a volte,
questo sì, un indizio di possibile corruzione: le tante indagini giudiziarie lo
hanno confermato.
Tra le misure straordinarie, che stanno mostrando una particolare
efficacia e utilità, c’è poi quella del commissariamento degli appalti acquisiti
in modo illegittimo attraverso pratiche corruttive o da imprese infiltrate da
organizzazioni mafiose. Uno strumento sicuramente al di fuori dell’ordinario
(e perciò da molti studiosi criticato per la sua invasività), che però presenta
un particolare valore dato dall’esigenza di contemperare, a fronte di una
vicenda di malaffare, l’interesse pubblico alla realizzazione di un’opera,
quello del personale coinvolto al mantenimento del lavoro, quello più
generale alla garanzia della legalità.
Il potere di commissariamento comporta l’estromissione
dell’imprenditore “criminale” e la sua sostituzione con una figura imparziale
limitatamente, però, al solo appalto “incriminato”. Il commissario (o i
commissari nel massimo di tre) è nominato dal prefetto su proposta del
presidente dell’Anac o, in caso di interdittiva antimafia, dal prefetto, dopo
aver sentito il presidente dell’Anac.
Lo strumento, a oggi, ha dato risultati positivi: gli appalti che erano stati
conseguiti per costruire opere connesse a Expo 2015 con il pagamento di
tangenti, successivamente commissariati, sono stati portati a termine nel
rispetto dei tempi e senza aggravi di costi.
La misura è stata adottata anche per il consorzio che si occupava della
costruzione del Mose, consentendo di far emergere tante scelte opache del
passato e di avviare alla conclusione un’opera che sembrava infinita (e che
dovrebbe concludersi entro il 2020). Ma la misura si è rivelata utilissima
anche per altre occasioni: ha consentito il commissariamento dell’appalto
connesso al conferimento dei rifiuti della città di Roma, impedendo il
verificarsi di una grave crisi ambientale della capitale italiana.

9.8 Ma se non si fanno opere pubbliche?


La critica ricorrente alle regole contenute nel codice è che “non si fanno
opere pubbliche” e non si capisce in effetti sempre bene se l’imputato,
rispetto a queste accuse, sia l’Anac o il Codice dei contratti: è vero che nel
2016, anno di entrata in vigore del nuovo codice, si è assistito a un drastico
calo degli appalti pubblici. Si è trattato, però, anzitutto di un problema di
adattamento, o almeno questo ci suggeriscono i dati: già nel 2017 le risorse
messe a bando sono risultate superiori a quelle degli anni precedenti,
indicando una graduale messa a regime del nuovo impianto normativo.
Il problema è che, per quanto il sistema sia migliorabile sul piano
normativo (e certamente lo è) nonché sul versante dell’azione dell’attività
dell’Autorità, le difficoltà sembrano discendere soprattutto da una
combinazione a volte micidiale di cattiva legislazione e cattiva
amministrazione. “Cattiva”, l’una, non necessariamente perché mal fatta, ma
spesso perché oggetto di continui cambiamenti e ripensamenti: il che produce
un ambiente particolarmente ostico per l’amministrazione, i cittadini e gli
operatori, e finisce per favorire (anche) la corruzione. “Cattiva”, l’altra, non
perché necessariamente corrotta, ma perché spesso inadeguata rispetto ai
problemi che ha di fronte: basta pensare alla dotazione di personale di un
piccolo Comune per capire quanto sia difficile governare il rapporto con gli
interessi e con i propri fornitori, e come sia invece facile esserne governati.
Non si può, in sostanza, pensare di fare i conti senza l’oste: se le regole
volte a migliorare le modalità di scelta di chi realizzerà un’opera o rifornirà
un’amministrazione responsabilizzano, ostacolano strategie di aggiramento,
richiedono la condivisione di informazioni, sono “buone regole”. Ma in un
contesto in cui manca la programmazione, il personale è carente o poco
qualificato, si dichiara persino “impaurito” ad adottare le scelte per timore
delle azioni della magistratura contabile o ordinaria, le informazioni sono di
scarsa qualità e non organizzate, queste regole si traducono a volte in
adempimenti impegnativi e possono comportare ritardi e (nuove)
inefficienze, possono “spaventare” l’amministrazione e favorire strategie
inerziali.
Rispetto a un quadro come questo, diventa necessario non solo lavorare
“con” le amministrazioni, ma anche investire “sulle” amministrazioni,
anzitutto immettendo giovani qualificati nelle sue file ormai spesso sguarnite
ma soprattutto formando il personale. Troppo spesso le inerzie, o persino i
fatti corruttivi, sono stati causati da scelte di scarsa competenza a causa delle
quali sono entrati in campo faccendieri e facilitatori per risolvere i problemi.
È in base a queste considerazioni che ci permettiamo di raccomandare al
nuovo legislatore di riflettere attentamente se (e prima di) cambiare ancora
una volta radicalmente le regole del gioco in materia. Sono infatti solo un
pezzo del problema e – si sa – sostituire il motore di un’autovettura usurato è
utile ma serve a poco se chi è chiamato a guidarla non sa farlo o non è
nemmeno messo in grado di farla partire.
10.
L’Autorità nazionale anticorruzione

10.1 “Arrestateli tutti”


L’istituzione di un soggetto specializzato nella prevenzione della
corruzione, con la denominazione di Autorità nazionale anticorruzione, è
stata una vicenda importante nella prospettiva di contenimento e riduzione
del malaffare presente del nostro Paese. Si è trattato di una novità per l’Italia,
dove le esperienze assimilabili erano state molto deboli, quasi evanescenti:
una novità salutata con interesse da molti, con malcelato scetticismo (o aperta
ostilità) da altri, con speranza da tanti.
Partendo dalle speranze, manifestate dai tanti cittadini e associazioni che
si rivolgono con fiducia quotidianamente all’Autorità, queste sono positive
(anzitutto perché alimentano l’attivazione di energie di cui il Paese è ricco e
di cui c’è tanto bisogno), ma non devono tradursi in aspettative irrealistiche
né alimentare idee sbagliate: a partire da quella che possa essere l’Anac a
stroncare la corruzione conducendo indagini o, tantomeno, esercitando
l’azione penale. Un’immagine che non corrisponde affatto al ruolo e alle
funzioni dell’Autorità, che è, come detto, autorità di prevenzione e non di
repressione. La (ricorrente) richiesta rivolta al presidente dell’Anac di
“arrestare tutti i corrotti” è espressione di un malcontento, manifestazione di
un disagio e di una insoddisfazione, anche di un clima di opinione, di cui
occorre tenere conto, ma non rientra tra le cose che realmente si possono
domandare all’Autorità.
Per questo è utile chiarire bene i compiti dell’Anac, anche per fugare
l’opposto pericolo, quello di un’ostilità (spesso, ma non sempre, frutto di
disinformazione) legata a una lettura sbagliata, ma in questo caso per eccesso,
dei poteri dell’Autorità: poteri che, ad esempio, noti (e meno noti)
commentatori, dalla prima pagina del “Corriere della Sera” o del “Foglio”,
hanno considerato tante volte “eccessivi”.
E torna, anche in questi casi, l’idea di un ruolo repressivo, visto, però,
come pericoloso e non come auspicabile: la “procura anticorruzione”, un
“gendarmone”. Così si è giunti addirittura ad affermare che “uno spettro si
aggira per l’Italia, l’Anac”, indicandola persino come causa di una parte dei
problemi attuali del Paese.
La critica a un’anticorruzione onnipresente e sovraccarica di poteri è del
resto diffusa nel dibattito pubblico, tanto che in una divertente imitazione
Maurizio Crozza arriva paradossalmente ad addebitare all’Anticorruzione il
ritardo dello sviluppo della Campania: senza l’anticorruzione in ogni
quartiere potrebbe esserci un aeroporto, con dentro un altro aeroporto… ma
l’Anac lo impedisce.
Sicuramente l’Autorità si è vista attribuire negli anni nuove e numerose
funzioni, ma appare improprio ritenere che ci si trovi in presenza di un
soggetto dai poteri eccessivi e forse anche ingeneroso valutarne già
criticamente l’operato. Sta portando avanti una strategia complessa e di lungo
periodo, assolutamente nuova nell’esperienza italiana, ma proprio per questo
tanto più decisiva: quella della prevenzione della corruzione.
Viene da chiedersi la ragione di questa ostilità che serpeggia soprattutto
in alcuni ambienti: certo la prevenzione della corruzione è scomoda per chi si
avvantaggia di un sistema di corruzione diffusa, ma non è solo da questo
versante che arrivano critiche. Alcune discendono sicuramente dalla
problematica messa a regime di un Codice dei contratti molto innovativo, ma
anche più complesso, come abbiamo già detto.
L’amministrazione italiana è poi particolarmente “affaticata”: nel corso
degli ultimi decenni è sottodimensionata e si avverte ormai, come detto, la
fragilità, frutto del mancato ingresso di energie nuove, delle competenze e
capacità che potrebbero portare tanti giovani e brillanti laureati in settori
complessi come quelli delle opere pubbliche, dei servizi pubblici, dei
contratti e degli appalti.
Un’amministrazione fragile è anche un’amministrazione spaventata, che
cerca di rifuggire scelte e responsabilità; si accusa, quindi, l’Autorità di
contribuire in qualche modo ad alimentare questo clima di paura, un’accusa
in gran parte frutto di disinformazioni e fraintendimenti, se non persino di
cattiva fede: l’Anac opera insieme alle amministrazioni, sta provando a
sviluppare approcci innovativi proprio sul versante della collaborazione (in
particolare nella vigilanza sui contratti) ed è un riferimento per la
prevenzione, non un organismo che reprime o punisce singoli comportamenti.
Il Codice dei contratti, poi, è ancora incompleto ed è quindi paradossale
che ne contesti l’inefficacia e/o l’inapplicabilità proprio chi dovrebbe
assicurarne la messa a regime. Un quadro, quello tratteggiato, oggettivamente
composito che spiega perché è necessario fornire tutte le possibili
informazioni su come sia nato questo organismo, come, quando e perché si
sono ampliate le sue funzioni, senza evitare di soffermarsi sui suoi poteri, che
sono forse il principale oggetto delle contestazioni. È quello che faremo in
questo capitolo.

10.2 Le autorità anticorruzione nello scenario internazionale


In un bel volume di qualche anno fa, un giornalista attento e documentato
come Rodolfo Brancoli illustrava l’esperienza americana dell’Office of
Government Ethics parlando del “ministero dell’onestà”: una soluzione
sviluppatasi nel contesto dell’amministrazione federale statunitense che
riteneva auspicabilmente esportabile anche nel nostro Paese.
Sono passati venticinque anni da quel volume e quasi trenta dalla
definizione normativa di quel modello, ma oggi quell’idea si è concretizzata
in molti Paesi del mondo. Rivolgendo lo sguardo oltre confine, ci accorgiamo
che si tratta di un fenomeno diffuso: pur con specificità e caratteri variabili, di
autorità anticorruzione è pieno il mondo. Di più, si tratta di un rimedio
diffuso a una patologia ancora più diffusa, la corruzione.
Volendo andare alla ricerca di esperienze di autorità specializzate nel
contrasto della corruzione, il primo riferimento è dato dal Department of
Investigation (Doi) della città di New York: il “cane da guardia” del sistema
municipale, istituito a partire dal 1873 in seguito a importanti scandali che
avevano coinvolto la dimensione politica e amministrativa del governo
cittadino.
È però soprattutto nel secondo dopoguerra che l’esperienza si diffonde,
sulla base di un modello che matura nei Paesi asiatici nella transizione post-
coloniale. Qui, l’esigenza di superare i caratteri delle vecchie amministrazioni
percepite come corrotte (e al contempo l’opportunità di rimuovere un ceto
amministrativo anche legato alla realtà precedente) induce alcuni Paesi a
dotarsi di specifiche strutture; la scelta di concentrare le funzioni
anticorruzione in capo a un organismo specializzato, di nuova istituzione,
vuole manifestare la sfiducia nei confronti dell’amministrazione ordinaria e la
volontà di rimetterla in discussione.
Le esperienze di Singapore (del 1952) e poi quella di Hong Kong (della
metà degli anni settanta) sono significative: attraverso l’azione di queste
organizzazioni, dotate di poteri di tipo conoscitivo, preventivo e anche
repressivo, il “problema corruzione” viene notevolmente ridimensionato, un
dato emerso anche da studi indipendenti. L’importanza di queste esperienze è
data proprio dal loro successo, che ne giustifica la circolazione e diffusione,
prima nell’ambito di Paesi caratterizzati da analoghe dinamiche di
transizione, poi tra Paesi in via di sviluppo e quindi anche nell’ambito di
quelli sviluppati.
Questi modelli sono stati variamente riproposti nello scenario
internazionale, con risultati non sempre appaganti: concentrare in un’unica
organizzazione le funzioni di anticorruzione può avere effetti
controproducenti, in particolare se le funzioni sono di tipo repressivo (si crea,
cioè, una sorta di procura speciale) e questa autorità è debole o non
abbastanza indipendente.
La diffusione di esperienze di autorità anticorruzione è ormai ampia,
anche grazie all’influenza esercitata da organismi internazionali come l’Ocse
e soprattutto grazie alle previsioni contenute in convenzioni internazionali.
Già la convenzione penale sulla corruzione del Consiglio dell’Europa del
1999 indicava agli Stati, quale strada da intraprendere nella lotta alla
corruzione, quella della “specializzazione di persone o di enti” e richiedeva
che gli enti eventualmente creati dovessero essere indipendenti e dotati di
personale e risorse necessarie.
Ma è con la convenzione di Merida del 2003 che si fa un ulteriore e
decisivo passo avanti: non solo sancisce l’obbligo per gli Stati aderenti di
assicurare “conformemente ai princìpi fondamentali del proprio sistema
giuridico, l’esistenza di uno o più organi […] incaricati di prevenire la
corruzione” ma prevede anche che sia riconosciuta “l’indipendenza
necessaria a permettere loro di esercitare efficacemente le loro funzioni al
riparo di ogni indebita influenza” e, per rendere l’indipendenza effettiva, che
essi siano dotati di “risorse materiali” e di “personale specializzato” (art. 6).
L’istituzione di un organismo anticorruzione, operante nel settore della
prevenzione ed effettivamente indipendente da “ogni indebita influenza”, è
quindi un obbligo internazionale per l’Italia, assunto con la sottoscrizione
della convenzione, poi ratificata con la legge n. 119 del 2009.

10.3 Gli antenati dell’Anac


Aggirandosi dalle parti di Fontana di Trevi, a Roma, ci si può imbattere in
una bellissima galleria affrescata con motivi Liberty: è la Galleria Sciarra, nel
cuore del palazzo che oggi ospita l’Autorità anticorruzione. Il tetto di vetro
che copre la galleria rappresenta bene l’aspirazione alla trasparenza, il
bisogno di essere alla luce del sole che è nel Dna delle politiche
anticorruzione: una sede adatta, quindi, a ospitare l’Autorità che di questa
trasparenza deve farsi garante. Questa che vediamo oggi è, però, la tappa
ultima di un lungo percorso, passato attraverso varie leggi (e non pochi
decreti legge!) e non solo, che è necessario ripercorrere, perché solo
guardando cosa è accaduto negli anni scorsi è possibile capire dove siamo
arrivati.
Bisogna partire da lontano e tornare al 2003; la convenzione di Merida fu
adottata il 30 ottobre 2003 ma l’Italia sembrò, una volta tanto, giocare in
anticipo; con una legge del gennaio di quello stesso anno (n. 3 del 16
gennaio) istituì l’Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della
corruzione, ponendosi come ideale portabandiera dei valori e dei princìpi
della convenzione.
La primazia italiana, a ben vedere, era solo apparente; la legge prevedeva,
infatti, che al di là del nome altisonante il commissario operasse in una
posizione di dipendenza funzionale dalla presidenza del Consiglio dei
ministri, mancando, quindi, del requisito principale richiesto dalla
convenzione (e cioè la sua indipendenza); anzi la dipendenza era così marcata
che la legge rinviava a un regolamento (che, come è noto, è un atto del
governo) per determinare composizione e funzioni del commissario.
Ci vollero ben due anni per partorire questo regolamento che, infatti, vide
la luce solo nell’ottobre del 2004; esso prevedeva che il commissario fosse un
organo monocratico (scelto fra magistrati ordinari o amministrativi, avvocati
dello Stato e alti dirigenti dello Stato), dotato di una scarna struttura di
supporto, anche dal punto di vista numerico, e titolare di competenze,
soprattutto di studio del fenomeno della corruzione e di monitoraggio su
procedure contrattuali e di spesa e su comportamenti e conseguenti atti da cui
potesse derivare danno erariale. Le eventuali anomalie rilevate dovevano solo
essere segnalate all’autorità giudiziaria.
L’assenza di una chiara mission istituzionale votava questo organo a un
ruolo di mera (e poco utile) rappresentanza; pur essendo figure degnissime
coloro che furono nominati commissari, di quell’organo non si ricorda quasi
nulla se non relazioni di analisi e studio, nemmeno di grandissima originalità.
A poco meno di quattro anni dalla sua istituzione, con un decreto legge
(n. 112 del 2008), l’Alto commissario veniva soppresso senza grande
rimpianto da parte di alcuno; i suoi poteri vennero trasferiti con un decreto
del presidente del Consiglio al dipartimento della Funzione pubblica (ufficio
della presidenza) che istituì al suo interno il Servizio anticorruzione e
trasparenza (Saet).
Quando il parlamento nel 2009 ratificò la convenzione di Merida,
l’esperienza dell’Alto commissario era già defunta, tanto che in quella legge
si stabilì di designare quale Autorità anticorruzione, per dare esecuzione alla
norma della convenzione, “il soggetto cui sono state trasferite le funzioni
dell’Alto commissario”. L’utilizzo di questa tortuosa circonlocuzione voleva
forse nascondere il soggetto designato, un ufficio della presidenza,
sicuramente non dotato della necessaria indipendenza.
Nello stesso 2009 nell’ambito di una delle leggi della cosiddetta riforma
Brunetta, venne istituita la Commissione per la valutazione, trasparenza e
integrità dell’amministrazione (Civit), la cui funzione principale era di
presiedere all’attuazione del processo di riforma dei servizi pubblici,
occupandosi anche di performance dei dirigenti, ma fra i cui compiti era
previsto quello di favorire “nella pubblica amministrazione la cultura della
trasparenza anche attraverso strumenti di prevenzione della corruzione”.
Due organismi, quindi, deputati a occuparsi di anticorruzione; ma di quel
periodo è rimasta traccia soprattutto di due importanti e molto dotte relazioni
presentate dal Saet al parlamento, nel 2009 e nel 2010, in cui si affermava, a
chiare lettere, che in Italia non vi era affatto un problema corruzione e che il
fenomeno nel nostro Paese era in linea con quello degli altri Paesi europei e
che anzi, a ben vedere, vi erano inequivocabili argomenti “a favore della
complessiva integrità del ‘sistema P.A.’ diversamente da quanto affermato da
qualche ‘professore della questione morale’”.

10.4 L’istituzione dell’Autorità da parte della legge Severino


Sulle ceneri dell’Alto commissario l’Italia aveva istituito, quindi, ben due
organismi che avrebbero dovuto occuparsi di prevenzione della corruzione
ma, a prescindere da ogni altra considerazione, la soluzione adottata non
rispondeva affatto alle indicazioni delle convenzioni; erano stati creati gli
organi ma non erano stati dotati di un reale potere per occuparsi di
prevenzione.
Si trattava di limiti che erano stati, non a caso, rimarcati nel rapporto del
Greco (organismo operante nell’ambito del Consiglio d’Europa) del 2009.
Delle raccomandazioni del Greco si fa evidentemente carico la legge
Severino che, non a caso, nel suo primo comma indica come suo prioritario
obiettivo quello di dare attuazione agli articoli 6 della convenzione di Merida
e 20 di quella del Consiglio d’Europa, individuando l’organo che avrebbe
dovuto rivestire il ruolo di Autorità anticorruzione e implicitamente
ammettendo che l’Italia era stata omissiva sul punto.
Sennonché la legge, per ragioni sia di equilibri politici sia per evitare
ulteriori spese che l’istituzione di un organismo ad hoc avrebbe comportato,
opta per il riconoscimento del ruolo di autorità anticorruzione a strutture già
esistenti. Opera una scelta bicefala: individua, infatti, quale autorità
anticorruzione la Civit che pur avendo altra funzione e compiti (soprattutto in
materia di valutazione delle performance dei dirigenti) era già destinataria di
competenze in materia di trasparenza, ma attribuisce anche alcuni
significativi poteri in materia al dipartimento della Funzione pubblica (a
quest’ultimo spettava la redazione del Pna, poi approvato dalla Civit).
Una soluzione che, per quanto non contrastante esplicitamente con
l’indicazione della convenzione di Merida (che consentiva l’istituzione di uno
o più organi), era foriera di non poche complicazioni sul piano pratico, per la
non sempre chiara distinzione di ruoli e competenza, ma soprattutto non del
tutto idonea a garantire il requisito di indipendenza richiesto a livello
sovranazionale.
Inoltre, i componenti del consiglio della Civit (composto da cinque
membri) erano nominati in base a requisiti (“esperti di elevata professionalità
in tema di servizi pubblici, management, misurazione della performance
nonché di gestione e valutazione del personale”) che poco avevano a che
vedere con le nuove funzioni attribuite in materia di prevenzione della
corruzione; inoltre, la sua struttura organizzativa era molto debole: non aveva
un ruolo organico ma (poco) personale distaccato.
Di lì a poco, con un decreto legge approvato a fine anno 2012, si
intervenne proprio sui requisiti dei componenti della governance della Civit;
venne ridotto il numero dei consiglieri da cinque a tre membri e stabilito che i
componenti andassero individuati tra persone di notoria indipendenza che
avevano avuto “esperienza in materia di contrasto alla corruzione e
persecuzione degli illeciti nella pubblica amministrazione”.
Passano pochi mesi e arriva un nuovo decreto legge che pure, fra i tanti
temi trattati, si occupa dell’organismo; in primo luogo muta
(opportunamente) la denominazione in “Autorità nazionale anticorruzione e
per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”. Una
scelta simbolica per rimarcare, anche agli occhi dell’opinione pubblica, quale
fosse la nuova mission istituzionale dell’ente.
In secondo luogo interviene, di nuovo, sui requisiti e sulle modalità per
essere nominati componenti del consiglio, il cui numero viene riportato a
cinque. Essi vanno scelti fra esperti di elevata professionalità, anche estranei
all’amministrazione, con comprovate competenze in Italia e all’estero, sia nel
settore pubblico sia in quello privato, di notoria indipendenza e comprovata
esperienza in materia di contrasto alla corruzione, di management e
misurazione della performance, nonché di gestione e valutazione del
personale. Si aggiunge, inoltre, che non devono rivestire, al momento della
nomina, incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in
organizzazioni sindacali e non devono averle avute nei tre anni precedenti.
Quanto al meccanismo di nomina se ne individua uno particolarmente
rafforzato e in parte diverso fra presidente e componenti; il primo, nominato
su proposta del ministro per la Pubblica amministrazione e la
semplificazione, di concerto con il ministro della Giustizia e il ministro
dell’Interno; i secondi su proposta del ministro per la Pubblica
amministrazione e la semplificazione; per tutti è necessaria una delibera del
consiglio dei ministri e il parere favorevole delle commissioni parlamentari
competenti, espresso a maggioranza di due terzi, prima che la nomina fosse
recepita in un decreto del presidente della Repubblica.
Per rafforzare ulteriormente i connotati di indipendenza si stabilisce che i
componenti restino in carica sei anni (e, quindi, oltre la durata massima di
una legislatura), senza possibilità di riconferma. Il decreto proroga, altresì, i
componenti della Civit in carica in quel momento fino alla nomina del nuovo
presidente e dei nuovi componenti, le cui proposte di nomina dovrebbero
essere formulate entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge
di conversione del decreto.

10.5 Le riforme successive


Il termine entro il quale avrebbe dovuto essere nominato il nuovo
consiglio non venne rispettato; il decreto legge entrò in vigore, con la
conversione, a ottobre del 2013 ma si giunse a marzo del 2014 per dare avvio
alla procedura di nomina del nuovo consiglio.
Il governo in carica, in verità, scelse di nominare inizialmente il solo
presidente che, dopo aver avuto l’approvazione delle commissioni
parlamentari, si insediò ad aprile del 2014; per gli altri quattro consiglieri
venne indetta una call pubblica e assunsero il ruolo nel luglio 2014.
Dimessisi i componenti originari della Civit, l’autorità venne retta, di
fatto, per alcuni mesi da un organo monocratico e fu proprio in questo
periodo che subì una significativa mutazione che ha fatto ritenere ad alcuni
che fosse questa la sua vera data di nascita.
Vi erano stati in quei mesi gli arresti per fatti corruttivi connessi agli
appalti per Expo 2015 e per il Mose e governo e parlamento ritennero di
rispondere alle preoccupazioni dell’opinione pubblica rafforzando l’Autorità
anticorruzione; inserirono, perciò, alcune norme in materia in un decreto
legge (il decreto Madia), il cui oggetto principale era la riforma della
pubblica amministrazione.
Sono davvero numerose e sostanziali le novità introdotte: si va dal nome
dell’autorità (che perde ogni riferimento “alla valutazione e alla trasparenza”
e assume l’acronimo ufficiale Anac) alla ridefinizione dei rapporti con il
dipartimento della Funzione pubblica (tutti i poteri in materia di prevenzione
della corruzione e trasparenza passano all’Anac, quelli sulla valutazione della
performance al dipartimento), alla introduzione di un potere sanzionatorio in
materia di anticorruzione (la possibilità, cioè, di irrogare una sanzione
pecuniaria per i casi di omessa adozione dei piani di prevenzione e dei codici
di comportamento), all’ampliamento dei possibili canali informativi per poter
esercitare l’attività di vigilanza (l’Anac diventa destinataria sia degli esposti
provenienti dai whistleblowers sia di notizie e segnalazioni provenienti da
avvocati dello Stato).
La più importante novità è, però, certamente rappresentata dalla
soppressione dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture (Avcp), un organismo il cui compito principale, come
evidenzia il nome, era di occuparsi della vigilanza sugli appalti.
I compiti, le funzioni e le risorse di questa vengono trasferiti all’Anac,
con la conseguenza di attribuire a quest’ultima la vigilanza sugli appalti ma
anche di rafforzarne la struttura sia sul versante della “forza lavoro”,
facendole assorbire i circa trecento dipendenti dell’entità soppressa, sia sul
versante economico, ereditando il sistema di autofinanziamento (una piccola
quota sulla “tassa” pagata per partecipare agli appalti) e rafforzando quindi
l’indipendenza dell’Autorità rispetto all’amministrazione.
Infine, il decreto attribuisce – un unicum nel panorama delle autorità
indipendenti – anche poteri monocratici al presidente dell’Autorità; è a lui
che spettano i controlli sugli appalti Expo, è sua la proposta dei
commissariamenti ed è suo il compito di adottare il piano di riordino per
consentire l’unificazione delle due autorità.
È a seguito di questo decreto che l’Autorità cambia anche sede, passando
da un anonimo e dignitoso appartamento in piazza Augusto Imperatore alla
ben più prestigiosa (e citata) Galleria Sciarra, il cui affitto era già stato
stipulato dalla Avcp, ma soprattutto cambia decisamente passo, vedendo
ampliate competenze, funzioni e poteri e da quel momento, grazie anche
all’attività svolta da Expo, comincia a essere nota e conosciuta non solo agli
addetti ai lavori.
Con il decreto Madia non si esaurisce, però, la fase costituente
dell’Autorità; se nel 2015 si registra soltanto una novità in apparenza minore
(l’Autorità diventa destinataria delle comunicazioni delle procure della
Repubblica dell’esercizio dell’azione penale per reati contro la pubblica
amministrazione) ma molto utile per rinforzare il legame collaborativo con la
magistratura ordinaria, è con il 2016 che si ha un ulteriore significativo step.
Viene approvato il nuovo codice degli appalti e in quell’occasione non
solo è confermato il ruolo dell’Anac come autorità di vigilanza ma si
ampliano le sue funzioni, su vari versanti; per averne un’idea sarebbe forse
utile, anche per un non addetto ai lavori, dare una veloce scorsa al
lunghissimo articolo del Codice dei contratti che li enumera (art. 213).

10.6 L’Anac nel sistema della prevenzione


Il quadro, ampio e composito, di funzioni e strumenti, di settori e
normative, descritti soprattutto nei capitoli precedenti, trova nell’Autorità
anticorruzione il suo riferimento fondamentale: si tratta di regole e
meccanismi che operano grazie alle amministrazioni (che applicheranno le
sanzioni per violazioni dei codici di comportamento, vigileranno
sull’attuazione dei propri piani di prevenzione, consentiranno o meno
l’accesso alle informazioni da parte dei cittadini e così via), ma rispetto ai
quali l’Autorità svolge un ruolo decisivo per garantire qualità ed effettività
del sistema.
L’Anac è, insomma, una sorta di “perno” organizzativo del sistema, che
funge da autorità nazionale di riferimento per le politiche anticorruzione sul
versante della prevenzione, ma anche da autorità di regolazione e vigilanza
sui contratti pubblici. Questo suo ruolo risulta evidente quando l’Autorità si
rapporta con gli altri attori istituzionali: è promotrice di interventi che
coinvolgono le amministrazioni, ma ha una funzione di stimolo anche nei
confronti del parlamento e del governo laddove emerga la necessità di
modifiche normative.
Ogni anno l’Anac è tenuta a riferire al parlamento sul lavoro fatto e sulle
cose da fare, dando conto dell’attività svolta in tutti i suoi ambiti di
competenza e anche segnalando eventuali interventi che si reputano
necessari: dalla lettura della relazione annuale, o quantomeno della più
sintetica introduzione presentata oralmente dal presidente, si può ricavare un
quadro efficace dell’effettiva attività portata avanti dall’Autorità.
Sarebbe, invece, impossibile (e forse nemmeno utile) in questa sede
enumerare in modo preciso e dettagliato poteri, funzioni e compiti
dell’Autorità; sarebbe, in verità, persino non semplice orientarsi per chi
volesse individuarli, data la stratificazione normativa di provvedimenti che si
sono susseguiti (e che abbiamo in parte sopra ripreso), che non risultano
(come pure sarebbe opportuno) nemmeno inseriti in un’unica legge, ma
sparsi in varie normative, spesso dedicate ad altri argomenti.
In estrema sintesi, i compiti dell’Anac corrispondono ai caratteri
“strutturali” del sistema della prevenzione, che si fonda essenzialmente su
due architravi: l’anticorruzione (che comprende le regole sui piani di
prevenzione, le regole per garantire l’imparzialità dei funzionari e quelle sulla
trasparenza) e i contratti pubblici.
Il fatto che questi due “rami” compongono il complessivo impianto
dell’anticorruzione lo si può cogliere anche in termini organizzativi,
guardando alla struttura e agli uffici dell’Autorità: sul versante del personale
dedicato si tratta di parti non del tutto omogenee, dal momento che la
maggioranza del personale proviene dall’ex Autorità sui contratti e resta
dedicata essenzialmente a uffici che si occupano di appalti.
Le due “parti” non sono, però, monadi isolate e autonome, anzi dialogano
tra loro sistematicamente e si muovono in quella che è l’unica mission
istituzionale, cioè la prevenzione dei fenomeni corruttivi; l’elemento
unificante è dato, quindi, soprattutto dall’unità dell’obiettivo perseguito.
Ovviamente i poteri di cui dispone l’Anac, sui due versanti, si esplicano in
modo diverso in relazione alla specificità degli ambiti.
Sul versante dell’anticorruzione e della trasparenza (e quindi nel quadro
della legge n. 190 e dei provvedimenti che l’hanno attuata) sono poteri
relativamente deboli per intensità, ma non per estensione (che è molto
ampia), finalizzati essenzialmente ad assicurare l’approntamento effettivo di
un sistema di misure di prevenzione ad ampio spettro: si va dalla
predisposizione del Pna alla vigilanza sul rispetto delle regole relative
all’adozione dei piani, della trasparenza, dei conflitti di interesse ecc.
La caratteristica unificante di tali poteri è l’assenza del carattere coattivo
(tranne in specifici casi, in cui vi è anche il potere di sanzione), in una logica
di interlocuzione con le amministrazioni in cui l’intervento dell’Autorità
funge soprattutto da strumento di moral suasion; la stessa attività di
regolazione in materia, utilissima per guidare le amministrazioni pubbliche in
campi decisamente nuovi, non ha carattere vincolante ed è perciò detta soft
law.
Nel concreto, però, gli interventi dell’Autorità non ne risultano sminuiti;
nella maggior parte dei casi riescono a raggiugere lo scopo. Se un piano della
prevenzione non è adeguato o se non sono pubblicati dati obbligatori nei siti
istituzionali, la segnalazione dell’Anac (che può qualificarsi come un vero e
proprio “potere di ordine”) basta quasi sempre a spingere l’amministrazione
ad adeguarsi. E in questo il ruolo di raccordo svolto dal responsabile della
prevenzione della corruzione è determinante.
Sul versante dei contratti pubblici (e quindi nel quadro del Codice dei
contratti) ci sono, invece, poteri più penetranti, che si ricollegano, ma con
novità importanti, a quelli già propri della vecchia Autorità dei contratti
pubblici. Alla vigilanza tradizionale che consentiva già all’Avcp di richiedere
atti e relazioni a tutte le stazioni appaltanti (che hanno l’obbligo di
consegnarli, pena una rilevante sanzione pecuniaria) di effettuare ispezioni,
anche con l’ausilio della Guardia di finanza, di esaminare la regolarità degli
appalti, segnalando eventuali danni contabili o reati alle competenti procure
ordinarie o contabili si è aggiunto oggi il nuovo e molto significativo potere
di impugnare dinanzi al giudice amministrativo i bandi e gli atti di gara di
rilevante entità, ritenuti illegittimi.
Alla funzione di regolazione del settore esercitata in passato attraverso
linee guida e atti non vincolanti si è aggiunta, in alcuni specifici casi connessi
all’attuazione del codice, quella vincolante per le amministrazioni, tanto che
(alcune) linee guida finiscono oggi per rappresentare atti parificati a norme
giuridiche cogenti.
Alla funzione consultiva non vincolante, esercitata attraverso il cosiddetto
precontenzioso (un parere che veniva rilasciato per controversie sorte durante
le procedure di appalto), se ne è aggiunta una vincolante quando a richiedere
il parere siano congiuntamente la stazione appaltante e l’operatore
economico.
Se altre funzioni, come quella sanzionatoria dei comportamenti scorretti
degli operatori durante le fasi di gara, sono rimaste inalterate, delle nuove si
sono poi aggiunte, pure importanti nella logica del nuovo Codice dei
contratti; spetta all’Autorità, ad esempio, l’attribuzione della qualificazione
della stazione appaltante o l’attribuzione del rating di impresa.
Tutto ciò delinea un quadro di poteri e funzioni oggettivamente ampio ma
funzionale all’idea di un’Autorità che possa sovrintendere con effettività al
delicato e strategico settore dei contratti pubblici.

10.7 Quanto ha inciso l’azione dell’Anac?


Nel dibattito di questi anni si è posta spesso la domanda su quale fosse la
reale capacità di incidenza dell’Autorità nel contrasto della corruzione.
È un tema che ha evidenziato, in uno dei suoi primi discorsi in
parlamento, anche l’attuale presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe
Conte, quando ebbe a dire che i risultati che aveva prodotto l’Autorità erano
al di sotto delle attese. Successivamente precisò e ridimensionò quelle
affermazioni con altre di segno opposto, esprimendo anche apprezzamento e
plauso per il lavoro svolto.
Quelle affermazioni del resto non erano nuove e nemmeno isolate; nel
dibattito politico o nei convegni degli addetti ai lavori si sono sentite critiche
molto dure, o persino richieste, in verità molto isolate, di abolire l’Autorità.
A parte le difficoltà oggettive di valutare in concreto gli effetti della
politica di prevenzione (lo abbiamo già detto, la prevenzione non si vede,
perché il suo effetto è il mancato verificarsi di un danno) e a parte i tempi
troppo brevi trascorsi per poter fare un utile bilancio (la fase costituente non
si è ancora nemmeno conclusa), per stabilire se le attese sono andate deluse
bisognerebbe prima capire quali esse fossero e soprattutto se si trattava dei
compiti dell’Autorità.
Se qualcuno pensava che il compito dell’Autorità fosse quello di
eradicare la corruzione, ha ragione a essere deluso, ma dovrebbe, in primo
luogo, prendersela con chi non le ha fornito una bacchetta magica, necessaria
per far scomparire il male.
Il compito dell’Autorità è molto più modestamente quello di rendere più
difficili i fatti corruttivi, soprattutto creando, all’interno delle amministrazioni
pubbliche, condizioni sfavorevoli a essi e aiutando a ripristinare un clima di
fiducia nei confronti delle nostre istituzioni da parte dei cittadini e delle
istituzioni internazionali.
E su questo fronte qualche segnale positivo, timido quanto si vuole,
certamente si intravvede; dopo tanti anni, invertendo un trend negativo, ad
esempio, l’Italia ha scalato varie posizioni nella classifica sulla corruzione
percepita di Trasparency International; sappiamo e abbiamo indicato i limiti
di queste rilevazioni, che comunque hanno un loro fondamento scientifico e
una loro utilità; il risultato positivo non è ovviamente (solo) merito dell’Anac
ma di un sistema complessivo che si è messo in movimento; è questa è
l’interpretazione dei dati fornita dalla stessa Transparency.
Sul piano internazionale, l’esperienza dell’Anac, per quanto recente, sta
riscuotendo apprezzamenti e questo accresce la fiducia internazionale nel
sistema Paese; è, ad esempio, all’Anac che la Francia ha guardato nel
ridisciplinare la propria organizzazione dell’anticorruzione ed è alla nostra
esperienza che guardano vari Paesi dell’area dei Balcani per rafforzare e
definire le proprie strategie anticorruzione.
Sono tantissimi i Paesi stranieri che hanno chiesto all’Autorità di firmare
protocolli e di avviare collaborazioni e tante le delegazioni straniere (da
quella cinese a quella vietnamita a quella egiziana, per citarne alcune non
scontate) che sono ricevute in Autorità o che invitano i membri dell’Autorità
per scambi di esperienze all’estero.
L’Ocse, poi, ha più volte espresso apprezzamento per le attività svolte
dall’Autorità e persino inserito la vigilanza collaborativa, specie quella in
materia di grandi eventi (sperimentata in particolare nella vicenda Expo), tra
le buone pratiche a livello internazionale, considerandola un’opzione da
imitare.
D’altra parte, l’emergere di un modello italiano positivo, proprio in
risposta ai gravi problemi che ci caratterizzano, è già avvenuto in altri campi:
pensiamo a quello della mafia (e dell’antimafia), in cui da tempo l’Italia è un
punto di riferimento, per merito di figure straordinarie come i giudici Falcone
e Borsellino, ma anche grazie a una complessiva strategia che il Paese è
riuscito a portare avanti.
In prospettiva futura, ovviamente il parlamento potrà fare le scelte che
riterrà più opportune, anche se l’ipotesi di una radicale abolizione
dell’Autorità, come già avvenuto per l’Alto commissario, oltre ad apparire
difficile da giustificare (bisognerebbe di fatto rinunciare all’intero impianto
dell’anticorruzione), risulterebbe in contrasto con le indicazioni
internazionali, in attuazione delle quali è stata istituita.
Certo, si può pensare di tornare indietro mettendo in discussione, ad
esempio, proprio l’integrazione in capo all’Anac delle competenze in materia
di anticorruzione, trasparenza e contratti pubblici. Si tratta, però, di una di
quelle novità che sono decisive nell’evoluzione di questo nostro “modello”:
che contratti pubblici e anticorruzione siano strettamente legati del resto lo
mostra bene la convenzione Onu contro la corruzione, che si occupa non a
caso proprio della materia degli appalti nel definire gli elementi essenziali di
una strategia di prevenzione.
Ma lo confermano tutta l’esperienza italiana e gli scandali che hanno
caratterizzato stagioni più antiche e momenti più recenti della vita politica e
amministrativa.
Insomma, con il conforto che discende anche dall’andamento di alcuni
indicatori, all’Italia si guarda sempre più spesso non solo come al Paese della
corruzione, ma anche come al Paese dell’anticorruzione: questi spunti sono il
segnale di un’evoluzione che deve ancora consolidarsi, ma che può portare i
suoi frutti e sarebbe forse un peccato rinunciare a coglierli.
Conclusioni

Giunti al termine di queste brevi “lezioni”, il quadro delle politiche


anticorruzione appare forse più chiaro, pur nella sua complessità. Ci troviamo
di fronte, sia pure con alcuni limiti che sono emersi nel nostro percorso, a un
“sistema”, vale a dire a un disegno che ha tratti di coerenza e che nel suo
complesso mira a un fine comune: un sistema per lungo tempo assente,
sicuramente migliorabile ma ormai strutturato su due pilastri, la repressione
penale e la prevenzione amministrativa.
Nell’attuale dibattito pubblico il tema resta di straordinaria attualità e le
ipotesi di ulteriori riforme si succedono, spesso in risposta a scandali e
vicende che continuano a caratterizzare lo scenario italiano ma
fortunatamente con un andamento che appare sempre meno carsico: il
problema della corruzione è ormai da qualche anno di costante attualità anche
sul fronte politico.
Il tema è affrontato soprattutto con riferimento agli aspetti penali: si
discute se e come intervenire sul nodo della prescrizione, se aggravare o
meno le pene, come rafforzare gli strumenti a disposizione delle procure per
l’accertamento dei reati.
Non manca però (e questo è senz’altro il dato più positivo frutto della
stagione di riforme aperto dalla legge Severino) la percezione
dell’importanza di rafforzare e consolidare gli strumenti di tipo preventivo, a
partire dal ruolo e dai poteri della stessa Autorità anticorruzione.
Continuo e costante è poi il dibattito sulla migliore regolazione dei
contratti pubblici, nell’ottica di garantire una combinazione ottimale di
efficienza e imparzialità nel campo decisivo e tormentato degli appalti
pubblici.
Senza la volontà di intervenire in questo dibattito, vale però la pena
rimarcare alcuni rischi, alcune esigenze, alcune lacune dell’attuale sistema di
anticorruzione.
Sul versante dei rischi, il principale appare proprio quello di un
andamento contraddittorio, nel quale si finisce troppe volte (la storia delle
riforme italiane anche recenti ne è piena) per disfare di notte ciò che si è
tessuto di giorno: l’immagine della tela di Penelope ritorna, ad ammonire
rispetto al rischio di tornare indietro da quanto si è (comunque la si veda)
ottenuto.
Se dopo Tangentopoli le riforme non hanno saputo o voluto cogliere
l’opportunità di colpire il “nemico invincibile” (la corruzione appunto) e anzi
a volte hanno posto le premesse per le nuove criticità, ora un miglioramento
della qualità delle istituzioni e dei servizi pubblici non è più rinviabile: le
modifiche legislative devono tradursi in cambiamenti effettivi nei
comportamenti e devono coerentemente rivolgersi a consolidare ciò che si è
ottenuto e da questo avamposto muovere verso ulteriori prospettive di
miglioramento.
Questo vale per la disciplina legislativa dei reati, per le regole
sull’accertamento dei fatti, per la normativa sull’anticorruzione e sull’Anac,
per la regolazione dei contratti pubblici.
Il tutto – si auspicherebbe – con ordine, con chiarezza di intenti e,
soprattutto, con misura: continuare a intervenire, a volte per il solo obiettivo
di piazzare la propria “bandierina” su una riforma, con modifiche incessanti e
poco meditate, spesso attraverso provvedimenti legislativi “omnibus” (a
partire dalle leggi collegate alle manovre di bilancio, passando per
“milleproroghe” e decreti variamente volti a “salvare l’Italia” intervenendo
sulle materie più disparate) finisce per alimentare un’incertezza sulle regole,
rendere ancora più opaco il quadro delle leggi da seguire, produrre una
complessità nella quale finiscono per trovarsi a loro agio più i faccendieri e i
facilitatori che non i tanti funzionari onesti.
L’anticorruzione è un cantiere aperto, nel quale vale come ammonimento
l’acuta osservazione di Leo Longanesi, “alla manutenzione l’Italia preferisce
l’inaugurazione”: vicende terribili che abbiamo tutti di fronte agli occhi ci
ricordano però l’importanza della manutenzione dell’esistente. Questo senza
trascurare la necessaria innovazione, ma rifuggendo l’idea di aprire nuovi
fronti senza aver ancora chiuso quelli precedenti.
Sul versante delle esigenze, paiono evidenti quelle di semplificazione e
trasparenza, anzitutto sul piano delle regole. La semplificazione normativa è
un tema ricorrente, portato avanti quantomeno come slogan un po’ da tutti i
governi dell’ultimo ventennio: dalle leggi di semplificazione del ministro
Bassanini, passando per il lanciafiamme del ministro Calderoli a
rappresentare icasticamente le aspirazioni del “Taglia leggi”, fino ad arrivare
all’Agenda di semplificazione del ministro Madia, la semplificazione
amministrativa e normativa è al centro dell’attenzione delle politiche di
riforma.
Però continuiamo ad assistere a leggi di un solo articolo e centinaia di
commi, a decreti “omnibus” che modificano qua e là l’ordinamento, a una
stratificazione confusa di regole e competenze sparse tra enti locali, Regioni,
Stato e ora anche Unione europea.
In uno scenario così complesso la semplificazione non è un’operazione
semplice: tra le leggi di Murphy c’è quella che afferma che “i problemi
complessi hanno soluzioni semplici, facili da capire e sbagliate” ed è
probabilmente vero. Semplificare è dannatamente complesso, perché richiede
interventi puntuali e mirati, consapevoli del fatto che le regole si stratificano
e si sovrappongono in un disegno che perde coerenza, ma si tratta pur sempre
di regole che nascono per soddisfare interessi che meritano di essere presi in
considerazione, per garantire controlli necessari, per assicurare un ruolo a
comunità o soggetti pubblici che proteggono valori che richiedono
attenzione.
La proposta che ci sentiamo di caldeggiare è quella di una commissione
permanente, composta da esperti capaci e indipendenti per il riordino delle
norme, una commissione che poi proponga al parlamento modifiche,
abrogazioni ma soprattutto “sistemazioni” delle norme; il cittadino dovrebbe
essere messo in condizione di capire il significato delle disposizioni ma anche
di sapere dove poterle reperire. Ovviamente l’auspicio è che tutti i processi
legislativi, da oggi in poi, siano per quanto possibile partecipati e trasparenti,
per garantire a tutti, e non solo a chi ha canali diretti (formali e informali), di
intervenire ed eventualmente segnalare tempestivamente problemi e
correzioni.
Sul versante delle lacune, il sistema italiano continua a presentare dei
fronti scoperti, sui quali è auspicabile un intervento.
L’Autorità anticorruzione nelle sue segnalazioni al parlamento ne ha
evidenziati molti, così come ha ammonito sull’esigenza di correggere e
perfezionare una serie di meccanismi già regolati. Di alcuni di questi abbiamo
già detto nella trattazione specifica dei singoli argomenti e non ci ritorniamo,
ma adesso, senza pretesa di completezza, se ne possono evidenziare almeno
un altro paio.
Il primo è quello della regolazione delle lobby: in Italia manca una
disciplina generale, anche se ci sono vari registri disciplinati da specifiche
istituzioni e amministrazioni (da non molto, ad esempio, c’è un registro
presso la Camera dei deputati). L’assenza di una legislazione generale finisce
però per penalizzare proprio chi svolge seriamente l’utile mestiere del
“rappresentante di interessi” (che possono essere di imprese farmaceutiche, di
categorie di persone, di interessi ambientali, di industrie militari, di
concessionari di servizi e beni pubblici e così via), troppo spesso confuso con
faccendieri e corruttori, e incide sulla trasparenza del processo decisionale
pubblico nel quale non si sa a sufficienza quanto abbiano pesato i rapporti
lobbistici.
Il secondo, in parte intrecciato con il primo, è quello del finanziamento
della politica, oggi possibile anche attraverso un sistema alquanto opaco di
fondazioni, riconducibili a specifiche forze politiche o persino a specifici
personaggi o correnti politiche. In questo scenario la politica perde credibilità
in ragione del degradare della sua accountability, vale a dire della sua
capacità di “dare conto”, risultando credibile, ai cittadini delle ragioni delle
sue scelte.
È necessario, quindi, che queste nuove entità attraverso cui passano
spesso le vere scelte della politica siano regolate con una normativa al passo
con i tempi (le regole del Codice civile erano state redatte in riferimento a
fondazioni e ad associazioni che si occupavano di tutt’altro) e soprattutto che
sia prevista una trasparenza effettiva di entrate e uscite; solo così il cittadino
può essere messo in grado di capire se certi provvedimenti, legislativi o
amministrativi, rispondano anche a esigenze di gruppi di pressione; il recente
dibattito sulle concessioni autostradali ha dimostrato quanto sia importante
conoscere chi finanzia chi.
Nel disegno di legge “spazzacorrotti” è stato annunciato che ci si
occuperà anche di questa materia. È una scelta da accogliere con assoluto
favore, anche se c’è da augurarsi che l’eventuale normativa che sarà
approvata dal parlamento consenta una trasparenza reale e non una
trasparenza solo formale, come è accaduto per i partiti politici. Si sono
previste per essi, infatti, regole molto precise in materia di trasparenza delle
entrate e delle uscite, ma non si è poi dato alcun reale potere di controllo per
verificarne il rispetto.
Quando si commentano i problemi attuali del sistema istituzionale e delle
amministrazioni italiane si tende a soffermarsi più su altri temi, che però sono
spesso delle false soluzioni: così ad esempio l’idea di rivedere il tema dei
contratti pubblici, ripensando una normativa recente ancor prima di averla
applicata. Un campo anche questo suscettibile di miglioramenti e
semplificazioni, sulle quali è bene lavorare con cura e attenzione, rifuggendo
però sempre la tentazione di passi indietro, specie se verso soluzioni già
conosciute, che hanno dato cattiva prova di sé in anni recenti.
Soprattutto, però, occorre prendere atto del fatto che la corruzione è un
male che certo si insedia facilmente su un sistema amministrativo “ricco” di
risorse e opportunità, ma impoverire l’amministrazione non è la risposta
migliore per combatterla.
Se un Comune non ha tecnici preparati, non è in grado di fare buone gare
di appalto o di seguire adeguatamente i lavori pubblici; se il personale che
segue questioni importanti è poco qualificato e poco gratificato, la cattiva
amministrazione avrà, come una “mala pianta”, opportunità di crescere e
germogliare.
Di tutto questo cogliamo anche oggi i frutti amari. Tornare a credere in
un’amministrazione di qualità, prevedendo concorsi ben fatti e regolari,
investendo sui funzionari e non solo sulle salvifiche doti dei dirigenti,
rafforzando di converso l’indipendenza di questi ultimi rispetto alla politica,
riconoscendo e retribuendo adeguatamente il valore di chi si spende per la
cura degli interessi pubblici, è allora un altro modo, non meno importante,
per combattere la corruzione.
Parlare di anticorruzione significa, insomma, non solo parlare di
corruzione, ma anche del suo contrario: la qualità dell’amministrazione,
l’integrità dei funzionari, la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, e come
intervenire per realizzarla.
Si tratta di un percorso lungo e complesso, che passa per le riforme fatte e
quelle da fare, per le istituzioni “specializzate” (come l’Anac) e il lavoro
spesso oscuro, ma prezioso, dei funzionari pubblici che giorno per giorno si
dedicano con diligenza e onore alla cura del bene comune.
Un percorso che non si esaurisce all’interno delle amministrazioni
pubbliche: educare alla legalità, crescere cittadini consapevoli e responsabili,
è uno dei principali versanti per il quale passa l’anticorruzione.
Il compito della scuola è anzitutto quello di contribuire a formare buoni
cittadini, che saranno domani buoni funzionari, imprenditori corretti,
controllori diffusi dell’azione pubblica, protagonisti attivi di quel gran gioco
che è la democrazia, che, parafrasando le parole di Michael Moore, non è uno
sport (solo) per spettatori.
Se la corruzione è tradimento della cura dell’interesse pubblico, è – come
affermava Pertini – “nemica della Repubblica”, e allora l’anticorruzione va
praticata da tutti, cercando di aprire per quanto possibile gli occhi di fronte al
malcostume, conoscendo i propri diritti e cercando di farli valere.
Diceva Antonino Caponnetto, capo del pool di Palermo di Falcone e
Borsellino, che la mafia teme la scuola più che la giustizia, perché
l’istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa. Lo stesso può dirsi
per la corruzione.
È anche questa la prospettiva che ci ha guidato nello stendere queste brevi
lezioni, un piccolo vademecum dei problemi che abbiamo di fronte, delle
soluzioni che abbiamo cominciato a cercare, delle cose ancora da fare nel
cantiere aperto dell’anticorruzione nel nostro Belpaese, “derubato e colpito al
cuore” ma di sicuro capace di rialzarsi, ancora una volta.
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sentenza delle Sezioni Unite, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2014.
Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale, Edizioni ESI, Napoli
2012.
Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e di
corruzione, in “Archivio penale”, 2012.
Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in “Cassazione penale”, 2012.
Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali.
Commentario sistematico, Giuffrè, Milano 2013.
Seminara, I delitti di concussione e induzione indebita, in Mattarella, Pelissero (a cura di), La
legge anticorruzione, Giappichelli, Torino 2013.
Severino, La nuova legge anticorruzione, in “Diritto penale e processo”, 2013.
Spena, Il “turpe mercato”. Teoria e riforma dei delitti di corruzione pubblica, Giuffrè, Milano
2003.
Viganò, I delitti di corruzione nell’ordinamento italiano: qualche considerazione sulle riforme
già fatte, e su quel che resta da fare, in “Diritto penale contemporaneo”, 2014.
4. L’accertamento dei fatti di corruzione
Cantone, Caringella, La corruzione spuzza. Tutti gli effetti sulla nostra vita quotidiana della
malattia che rischia di uccidere l’Italia, Mondadori, Milano 2017.
Cantone, Gatta, A proposito del ricorso ad agenti provocatori per contrastare la corruzione, in
“Diritto penale contemporaneo”, 2018.
Cingari, Corruzione: strategie di contrasto, Firenze University Press, Firenze 2013.
Davigo, “In Italia violare la legge conviene.” Vero!, Laterza, Roma-Bari 2018.
Fondazione RES, Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, Donzelli,
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Minervini, Il controverso rapporto tra i delitti di corruzione e la discrezionalità amministrativa,
in “Diritto penale contemporaneo”, 2012.
Montanari, La normativa italiana in materia di corruzione al vaglio delle istituzioni
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Paoloni, La controversa linea di confine tra attività sotto copertura e provocazione poliziesca.
Spunti dalla giurisprudenza della Corte EDU, in “Cassazione penale”, 2016.
Pignatone, Le nuove fattispecie corruttive, in “Diritto penale contemporaneo”, 2018.
Puccetti, Se il controllore occulto diventa agente provocatore, in “Rivista italiana di diritto del
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Scalici, Operazioni sotto copertura ed equo processo, in “Archivio penale”, 2014.
Sciarrone, Il Mondo di mezzo e l’area grigia, il Mulino, Bologna 2017.

5. La prevenzione e la gestione del rischio corruzione


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190/2012), in “Lavoro P.A.”, 2013.
Bonfigli, L’Italia e le politiche internazionali di lotta alla corruzione, in Merloni, Vandelli (a
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Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione in Italia, in “Diritto penale
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and Public Integrity, Bruylant, Bruxelles 2017.
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legge anticorruzione, Giappichelli, Torino 2013.
Grosso, Il d.lgs. n. 231/2001 come strumento di prevenzione della corruzione: un primo bilancio,
in “Il Nuovo diritto delle società”, 2016.
Merloni, I piani anticorruzione e i codici di comportamento, in “Diritto penale e processo”,
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Merloni, Le misure amministrative di contrasto alla corruzione, in “Ragiusan”, 2015.
Monea, D.lgs. N. 190/2012 e d.lgs. N. 231/2001: due normative a tutela dell’integrità
organizzativa. Profili di confronto, in “Azienditalia”, 2014.
Parisi, Il contrasto alla corruzione e la lezione derivata dal diritto internazionale: non solo
repressione, ma soprattutto prevenzione, in “Diritto comunitario e degli scambi internazionali”,
2016.
Rossi, I piani per la prevenzione della corruzione in ambito pubblico ed i modelli 231 in ambito
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Tubertini, Piani di prevenzione della corruzione e organizzazione amministrativa, in
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6. La trasparenza
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Social Media as Openness and Anti-Corruption Tools to Society, in “Government Information
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disponibilità delle informazioni, Cacucci, Bari 2012.
Cacciatore, Di Mascio, Natalini, La trasparenza proattiva in Italia: meccanismi causali e
dinamiche di contesto, in “Rivista italiana di politiche pubbliche”, 2017.
Califano, Colapietro (a cura di), Le nuove frontiere della trasparenza nella dimensione
costituzionale, Editoriale scientifica, Napoli 2014.
Carloni, L’amministrazione aperta. Regole, strumenti e limiti dell’open government, Maggioli,
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Carloni, Falcone, L’equilibrio necessario. Principi e modelli di bilanciamento tra trasparenza e
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Government System, in “European Public Law”, 2017.
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good Government and Public Integrity, Bruylant, Bruxelles 2017.
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7. Imparzialità, conflitti di interesse e regole di comportamento


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Carloni, I codici di comportamento “oltre” la responsabilità disciplinare, in “Lavoro nelle p.a.”,
2017.
D’Avino, L’imperfetta contrattualizzazione del lavoro pubblico nel prisma della disciplina
anticorruzione, in “Lavoro nelle p.a.”, 2015.
Frego Luppi, L’obbligo di astensione nella disciplina del procedimento dopo la legge n. 190 del
2012, in “Diritto amministrativo”, 2013.
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Hamilton, Madison, Federalis Paper, n. 51.
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Mattarella, Le regole dell’onestà, il Mulino, Bologna 2007.
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Merloni, Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Franco Angeli, Milano 2008.
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190/2012, in “Istituzioni del federalismo”, 2013.
Pozzoli, Bonaduce, Inconferibilità ed incompatibilità, Maggioli, Rimini 2016.
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Sirianni, I profili costituzionali. Una nuova lettura degli articoli 54, 97 e 98 della Costituzione,
in Merloni, Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, il
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Tenore, Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Giuffrè, Milano 2017.

8. Il “whistleblowing”
Amato, Profili penalistici del “whistleblowing”: una lettura comparatistica dei possibili
strumenti di prevenzione della corruzione, in “Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia”,
2014.
Avio, La nuova tutela del dipendente che segnala reati o irregolarità, in “Diritti lavori mercati”,
2017.
Bogoni, “GlobaLeaks”, piattaforme di “whistleblowing” e prime applicazioni in Italia, in
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Coppola, Il “whistleblowing”: la “scommessa etica” dell’anticorruzione, in “Diritto penale e
processo”, 2018.
Franzoso, Il disobbediente, Paper FIRST, Milano 2017.
Fraschini, Parisi, Rinoldi, Protezione delle “vedette civiche”: il ruolo del whistleblowing in
Italia, Transparency International Italia, 2009.
Fraschini, Parisi, Rinoldi, Il whistleblowing. Nuovo strumento di lotta alla corruzione, Bonanno,
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Manacorda, Centonze, Forti (a cura di), Preventing Corporate Corruption: The Anti-Bribery
Compliance Model, Springer, Dordecht 2014.
Martone, La repressione della corruzione e la tutela del “whistleblower” alla luce della l. 30
novembre 2017, n. 179, in “Argomenti di diritto del lavoro”, 2018.
Perrone, Il “Whistleblowing” da adempimento burocratico ad opportunità di promozione di una
cultura etica nella P. A., in un necessario passaggio da un sistema di regole ad un sistema di valori,
in “Amministrativamente”, 2017.
Riccio, La tutela del “whistleblower” in Italia, in “Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni
industriali”, 2017.
Zimmer, The Epithet Nader Made Respectable, in “The Wall Street Journal”, 12 luglio 2013.

9. Corruzione e pubblici appalti


Averardi, L’incerto ingresso del dibattito pubblico in Italia. Commento a d.lg. 18 aprile 2016, n.
50, in “Giornale di diritto amministrativo”, 2016.
Cantone, Coccagna, Le misure straordinarie di prevenzione della corruzione nei contratti
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Caringella, Il sistema del diritto amministrativo. Vol. 3: nuovi contratti pubblici, I, Dike ed.,
Roma 2018.
Cocco, Sanna, Gli obblighi di pubblicità di avvisi e bandi di gara alla luce delle recenti
evoluzioni normative, in “Appalti e contratti”, 2017.
De Nictolis, Il nuovo codice dei contratti pubblici. Commento a d.lg. 18 aprile 2016, n. 50, in
“Urbanistica e appalti”, 2016.
Fantini, Simonetti, Le basi del diritto dei contratti pubblici, Giuffrè, Milano 2017.
Fidone, La corruzione e la discrezionalità amministrativa: il caso dei contratti pubblici, in
“Giornale di diritto amministrativo”, 2015.
Fiorentino, Le centrali di committenza e la qualificazione delle stazioni appaltanti, in “Giornale
di diritto amministrativo”, 2016.
Gili, La nuova offerta economicamente più vantaggiosa e la discrezionalità amministrativa a più
fasi, in “Urbanistica e appalti”, 2017.
Macchia, La qualificazione delle amministrazioni appaltanti, in “Giornale di diritto
amministrativo”, 2017.
Mantini, Nel cantiere dei nuovi appalti pubblici. Semplificazione, efficienza, concorrenza,
anticorruzione, Giuffrè, Milano 2015.
Mastragostino (a cura di), Diritto dei contratti pubblici, Giappichelli, Torino 2017.
Nugnes, Le misure di straordinaria e temporanea gestione d’impresa in caso di corruzione negli
appalti pubblici. Principali aspetti critici dell’istituto, in “Il Diritto dell’economia”, 2017.
Pajno, La nuova disciplina dei contratti pubblici tra esigenze di semplificazione, rilancio
dell’economia e contrasto alla corruzione, in “Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”,
2015.
Piras, Gli appalti pubblici tra trasparenza e innovazione, in “Urbanistica e appalti”, 2015.
Racca, La prevenzione e il contrasto della corruzione nei contratti pubblici (art. 1, commi 17-25,
32 e 52-58), in La legge anticorruzione, Giappichelli, Torino 2013.
Sandulli, Lipari, Cardarelli, Il correttivo al codice dei contratti pubblici, Giuffrè, Milano 2017.
Scomparin (a cura di), Corruzione e infiltrazioni criminali negli appalti pubblici. Strumenti di
prevenzione e contrasto, Giappichelli, Torino 2017.

10. L’Autorità nazionale anticorruzione


Calzoni, Autorità nazionale anticorruzione e funzione di vigilanza collaborativa: le novità del
Codice dei contratti pubblici, in “Federalismi.it”, 2016.
Cantone, Coccagna, I poteri del Presidente dell’Anac nel d.l. n. 90, in Cantone, Bova, L’Anac
alle prese con la vigilanza sui contratti pubblici; un ponte verso il nuovo Codice degli appalti?, in
“Giornale di diritto amministrativo”, 2016.
Cantone, Merloni (a cura di), La nuova autorità anticorruzione, Giappichelli, Torino 2016.
D’Alterio, I nuovi poteri dell’Autorità nazionale anticorruzione: “post fata resurgam”, in
“Giornale di diritto amministrativo”, 2015.
Di Lascio, Neri, I poteri di vigilanza dell’Autorità nazionale anticorruzione, in “Giornale di
diritto amministrativo”, 2015.
Giuffrè, Le autorità indipendenti nel panorama evolutivo dello Stato di diritto: il caso
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, in “Federalismi.it”, 2016.
Lipari, La tutela giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici.
Commento a d.lg. 18 aprile 2016, n. 50, in “Federalismi.it”, 2016.
Longobardi, L’Autorità Nazionale Anticorruzione e la nuova normativa sui contratti pubblici, in
“Diritto processuale amministrativo”, 2017.
Micalizzi, Il ruolo dell’Anac nell’accertamento delle fattispecie di inconferibilità di incarichi
pubblici, in “Giurisprudenza italiana”, 2017.
Nicotra (a cura di), L’Autorità Nazionale Anticorruzione. Tra prevenzione e attività regolatoria,
Giappichelli, Torino 2016.
Parisi, Chimenti, Il ruolo dell’Anac nella prevenzione della corruzione in materia di appalti
pubblici, in “Diritto del commercio internazionale”, 2015.
Racca, Dall’Autorità sui contratti pubblici all’Autorità Nazionale Anticorruzione: il
cambiamento del sistema, in “Diritto amministrativo”, 2015.
Recanatini, Anti-corruption authorities: An effective tool to curb corruption?, in Rose-Ackerman
(a cura di), International Handbook on the Economics of Corruption, vol. 2, Søreide, Elgar,
Cheltenham (UK), 2011.
Smilov, Anticorruption Agencies: Expressive, Constructivist, in “Crime Law and Social
Change”, 2010.
Sticchi Damiani, I nuovi poteri dell’Autorità Anticorruzione, in Libro dell’anno del diritto 2015,
Treccani, Roma 2015.
Valaguzza, La regolazione strategica dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, in “Rivista della
regolazione dei mercati”, 2016.
.

Frontespizio 2
Introduzione 5
1. Che cosa è la corruzione? 9
1.1 Una premessa 9
1.2 Alla ricerca del significato 10
1.3 La corruzione nella storia 11
1.4 La corruzione dell’era moderna: un delitto divenuto universale 13
1.5 Che cos’è la corruzione oggi 15
1.6 La corruzione nella visione antropologica di papa Francesco e della Chiesa cattolica 17
1.7 La corruzione istituzionale 18
1.8 La corruzione amministrativa, come maladministration 19
1.9 Dalla corruzione all’“anticorruzione” 20
2. Quanta corruzione c’è e come misurarla 23
2.1 La misurazione della corruzione fra analisi sommarie e leggende metropolitane 23
2.2 La difficoltà di quantificare la corruzione 24
2.3 Perché i dati giudiziari sono poco significativi 26
2.4 La quantificazione attraverso la percezione della corruzione 28
2.5 Gli altri modi per misurare la corruzione 30
2.6 Quali “misurazioni” servono davvero 32
3. La corruzione nel Codice penale 35
3.1 Repressione della corruzione e Codice penale 35
3.2 Le vittime della corruzione 36
3.3 Gli “attori” della corruzione 37
3.4 La “prestazione” del corrotto 40
3.5 La “controprestazione” del corruttore 42
3.6 Ipotesi analoghe alla corruzione: la concussione e l’indebita induzione 43
3.7 Le conseguenze sanzionatorie 44
4. L’accertamento dei fatti di corruzione 48
4.1 La necessità di una repressione efficace 48
4.2 La corruzione “episodica” 49
4.3 La corruzione “organizzata” 51
4.4 La corruzione “mafiosa” 52
4.5 La “scoperta” della corruzione 54
4.6 L’indispensabilità delle intercettazioni 56
4.7 L’utilità della collaborazione di corrotto e corruttore 58
4.8 E l’agente provocatore? 59
4.9 La punizione 62
5. La prevenzione e la gestione del rischio corruzione 66
5.1 Reprimere è necessario, ma non è sufficiente 66
5.2 Dalle sollecitazioni internazionali alla legge Severino 67
5.3 La “filosofia” del nuovo impianto preventivo 69
5.4 I piani di prevenzione 71
5.5 Il piano nazionale 73
5.6 Il piano prevenzione delle singole amministrazioni 75
5.7 Il responsabile della prevenzione della corruzione 77
5.8 L’applicazione della normativa 78
6. La trasparenza 81
6.1 Dal segreto alla trasparenza 81
6.2 Trasparenza e corruzione 82
6.3 La trasparenza nella nostra Costituzione 84
6.4 Una prima timida affermazione del principio 85
6.5 Gli obblighi di pubblicità 87
6.6 Il Freedom of Information Act 88
6.7 Il rapporto con la privacy 90
6.8 Burocrazia e trasparenza 92
6.9 I cittadini di fronte alle nuove regole della trasparenza 94
7. Imparzialità, conflitti di interesse e regole di comportamento 97
7.1 Lavorare sulle persone 97
7.2 I conflitti di interesse e l’anticorruzione 98
7.3 La prima regolazione dei conflitti tra interessi 99
7.4 L’imparzialità nella legge Severino 101
7.5 Altri strumenti a tutela dell’imparzialità 103
7.6 Gli effetti delle condanne penali sugli incarichi politici 105
7.7 Le regole di comportamento dei dipendenti 107
7.8 L’applicazione concreta delle regole per favorire l’imparzialità 109
8. Il “whistleblowing” 112
8.1 Chi è il whistleblower? 112
8.2 L’esperienza statunitense 113
8.3 Le indicazioni sovranazionali 115
8.4 La situazione normativa prima della legge anticorruzione 117
8.5 La legge Severino 118
8.6 La nuova legge sul whistleblowing 120
8.7 Le diverse “fedeltà” e i dilemmi etici 122
9. Corruzione e pubblici appalti 125
9.1 Perché parlare di appalti pubblici 125
9.2 La corruzione è un danno per gli appalti pubblici? 127
9.3 La necessità di una “buona” disciplina 128
9.4 Il nuovo Codice dei contratti pubblici 130
9.5 Codice dei contratti e anticorruzione 132
9.6 Qualità delle amministrazioni e qualità degli appalti 133
9.7 Grandi eventi, grandi scandali 135
9.8 Ma se non si fanno opere pubbliche? 137
10. L’Autorità nazionale anticorruzione 139
10.1 “Arrestateli tutti” 139
10.2 Le autorità anticorruzione nello scenario internazionale 141
10.3 Gli antenati dell’Anac 142
10.4 L’istituzione dell’Autorità da parte della legge Severino 144
10.5 Le riforme successive 146
10.6 L’Anac nel sistema della prevenzione 148
10.7 Quanto ha inciso l’azione dell’Anac? 151
Conclusioni 154
Riferimenti bibliografici 160

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