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Jeanne Albertine Fèsenzac D’Epee

Aveva passato gli ultimi cinque anni della sua vita presso la diocesi di Clemenceau, dopo aver
lasciato le terre del feudo D’Epee, amministrate, per ordine del principe regnante Louis IV,
dal di lei padre, il Conte Antoine Apollinaire Fésenzac. Jeanne nacque quarta di cinque figlie.
Il padre, che aveva ottenuto il titolo nobiliare e le terre del feudo come dono da parte del
principe regnante Philippe IV in ragione delle gesta compiute nella Battaglia di Chateau
Rachard contro i ribelli del 15 di Brumaio, per quanto fosse un buon condottiero era un
altrettanto pessimo amministratore, marito e padre. Una figura paterna così sconclusionata
non poté che influenzare indelebilmente la vita di Jeanne fin dal concepimento, che fu il
risultato di bagordi spinti oltre il limite dell’opportunità. Il Conte si trovò così, nel giro di
pochi anni, davanti alla prospettiva di dover costituire una quarta dote per la neonata;
prospettiva che lo gettò nello sconforto e nel panico data la sua natura di cicala e non certo
di formica. La soluzione semplice quanto geniale al problema fu trovata dalla pragmatica
madre, Guenièvre: Jeanne sarebbe stata tirata su come un cadetto e si sarebbe guadagnata da
vivere come soldato invece pesare sulle spalle della nobile, ma non più ricca famiglia
Fésenzac.
Fu così che, all’età di appena 14 anni, Jeanne si trovò a fianco del padre in una breve
campagna militare che l’ormai anziano Philippe IV non si era voluto risparmiare per
stuzzicare ancora una volta le truppe imperiali appostate presso il confine tra i due territori.
Jeanne, che male aveva digerito l’imposizione dei genitori per una vita totalmente differente
da quella delle sue sorelle maggiori, che ancora sognava di poter un giorno incontrare un
uomo migliore di suo padre che la portasse all’altare e la ingravidasse per crescere dei figli in
una famiglia amorevole e che, soprattutto, la portasse via dall’odiato Chateau D’Epee, venne
presa dallo sconforto totale. Cercò in ogni modo di evitare la partenza, ma il mese di aprile
dell’anno successivo dovette mettersi in marcia con il padre e altri sette uomini delle sue terre
per raggiungere il confine Jouinard - Hochbite ai piedi delle Montagne Grigie. Nonostante la
primavera fosse già iniziata da qualche settimana, le terre attorno Jouinard erano ancora
strette nella morsa del freddo invernale sia per l’altitudine, sia per l’esposizione della
Bretonnia alle correnti boreali. Una volta arrivati al paese anzi, i cavalieri, per lo meno quelli
più altolocati, furono costretti a chiedere ospitalità presso le famiglie contadine a causa di
una tempesta nevosa che imperversava nell’area. Qui, Jeanne fu stupita di trovarsi accolta
come neanche nella sua casa natia era mai successo: i rapporti erano infatti caratterizzati da
una cordialità non affettata e il clima era caloroso e sincero allo stesso tempo. Nei pochi
giorni di permanenza, la giovane cadetta si affezionò a Luc e Marceline e ai loro figli,
Gustave e Costance e rimpianse profondamente di essere nata in una famiglia nobile, in cui
però la vita sembrava essere molto più complicata di quella che si poteva trovare a Jouinard.
Tuttavia, l’idillio durò poco perché, non appena la strada verso Hochbite fu liberata dalla
neve, il piccolo esercito di cavalieri scelti partì per l’ultima tappa del viaggio. Come c’era da
aspettarsi, i confinieri imperiali non erano del tutto impreparati e avevano già predisposto le
difese necessarie a respingere l’attacco bretone. Quella a cui nessuno dei due eserciti era
pronto però, fu l’improvvisa marea verde che dai lati delle montagne si riversò nel passo e
travolse tutto: soldati e paesi. Nonostante la repentina alleanza fra bretoni e imperiali, la
forza e la ferocia dell’assalto di goblin e orchi fu soverchiante e ogni tentativo di resistenza si
rivelò vano. Jeanne venne catapultata in un incubo ad occhi aperti. La violenza dei
Pelleverde, probabilmente incattiviti da un inverno particolarmente rigido, fu qualcosa di
visto raramente. Non si limitavano a uccidere infatti, ma mutilavano, maciullavano e, quando
potevano, azzannavano i poveri umani. Jeanne assistette così alla morte del padre, il quale,
intento a difendere la figlia, si trovò a dover tener testa a ben due orchi, i quali quasi non si
curavano del Conte, ma fissavano con uno sguardo e un ghigno spaventosi la giovane
soldatessa. Antoine, capite le intenzioni delle empie creature, si gettò come un ossesso
contro quella che stava alla sua destra e ne trafisse la gamba destra, facendola cadere prona.
Il guaio fu che la spada rimase incastrata nelle carni dell’orco e l’altro dei due era già partito a
tirare fendenti di scimitarra contro lo scudo del Conte. Jeanne allora, pur non amando il
padre per come l’aveva cresciuta, sentì un fuoco interiore avvampare dentro di lei e spingerla
contro l’orco che di lì a poco, ne era certa, avrebbe colpito a morte il Conte. Impugnato il
martello da guerra, caricò il Pelleverde e lo colpì con forza al fianco. Questi ringhiò senza
neanche voltarsi e, con un rapido movimento del braccio con cui teneva lo scudo, abbattè la
povera giovane, che perse i sensi.
Jeanne fu risvegliata da un suono di risa stridule nelle sue orecchie e dal dolore provocatole
da mani artigliate che le afferravano le braccia e le gambe, tenendole in posizione innaturale.
Aperti gli occhi, vide per prima cosa il corpo del padre smembrato giacere a pochi metri di
distanza, attorniato da scene non meno raccapriccianti. Ma la cosa che più la fece precipitare
nella disperazione fu l’immagine di un gigantesco orco inginocchiato davanti alle sue gambe
aperte intento a dimenare il suo arnese e con lo sguardo ipnotizzato dalle di lei parti intime.
Provò a dimenarsi e gridare il più forte possibile, ma tutto fu vano: la stretta dei goblin si
fece più irresistibile e le risate divennero insopportabili. Inoltre, Jeanne scoprì con ulteriore
orrore che l’erezione dell’orco divenne più vigorosa dopo la vide cercare di opporre
resistenza. Rimase quindi bloccata, chiuse gli occhi e cominciò a pregare coLei che
rappresenta la nemesi delle barbarie.
Jeanne non ha mai avuto dubbi che la sua preghiera era giunta in qualche modo sulle sponde
di Hestavar: spiegava così l’intervento degli elfi del vicino reame di Athel Loren, i quali
trucidarono senza pietà ogni Pelleverde che aveva osato lasciare le Montagne Grigie e
salvarono la giovane Fésenzac dal disonore più grande. Nacque così in lei la convinzione che
l’unica soluzione ai problemi del mondo era quella di ricreare l’alleanza tra le vecchie razze
del Patto Nerathiano e questo scopo era raggiungibile solo abbracciando e perpretando gli
insegnamenti della Divinità della Civiltà nei luoghi più remoti delle terre civili.

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