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FALSOPIANO CINEMA
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INDICE

Under the rainbow


di Roberto Lasagna p. 9

Introduzione p. 11

Intervista a Giuseppe Piccioni p. 15

I film p. 81

Il grande Blek p. 83

Chiedi la luna p. 93

Condannato a nozze p. 101

Cuori al verde p. 111

Fuori dal mondo p. 119

Luce dei miei occhi p. 131

La vita che vorrei p. 153

Giulia non esce la sera p. 169

Il rosso e il blu p. 185


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Giuseppe Piccioni con Riccardo Scamarcio


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UNDEr thE raINbow

di Roberto Lasagna

Giuseppe Piccioni definisce il cinema “arte dell’esteriorità” e questa espres-


sione traduce in modo scoperto la vocazione del regista di portarsi al di la’ di una
presunta esteriorità tutta di forma di molto, troppo, cinema contemporaneo, per
fare invece, dei racconti portati in scena, un materiale umano incandescente. Il
libro appassionante che si intitola Conversazione con Giuseppe Piccioni appar-
tiene alla tradizione dei libri-intervista sul cinema e al contempo ci offre qualco-
sa di nuovo: una dichiarazione di poetica che è anche una dichiarazione di inten-
ti. Ignazio Senatore, psichiatra e critico dalle passioni rinascimentali, si fa mor-
bida e accogliente sonda del mondo poetico di Giuseppe Piccioni lasciando che
sia il regista a svelarsi con generosità sovente disarmante. Senatore e Piccioni
non amano le etichette e i luoghi comuni, per questo il loro discorrere è sempre
caldo, limpido, avvolgente. Le vicende di individui soli, con grandi speranze esi-
stenziali e sogni da condividere, riaffiorano nei ricordi di un autore personalissi-
mo, un cantore dei sentimenti e delle passioni (civili), analista sensibile dei colo-
ri che animano le immagini interiori dei personaggi, anch’egli come Senatore
grande appassionato di cinema e raffinato cultore di individui mai ordinari e
invece imprevedibili, pronti a scommettere la loro esistenza a fianco dell’altro.
Piccole-grandi figure umane che vivono di un immaginario acceso, ma che di
quell’immaginario sono anche ombre diffidenti. Il classico protagonista mattato-
re, ancora superstite nel cinema dei colleghi registi nell’Italietta sul finire degli
anni Ottanta, in Piccioni, nei suoi film, non c’è più. Al suo posto compaiono figu-
re in transito, in partenza da una memoria non sempre all’altezza del proprio sen-
tire più profondo. La vita dei personaggi di Piccioni è quella delle figure nella
tempesta di un’Italia per fortuna non colta con sguardo astrattamente obbietti-
vante ma riproposta con attenzione delicata attraverso una riflessione personale
e mai superficiale. I molti volti del cinema di Piccioni attraversano storie che si
intrecciano e sovrappongono disegnando una visione emotivamente stratificata
del reale. Sono individui al crocevia di decisioni assolute; protagonisti, più che
“fuori dal mondo”, intensamente “dentro” la loro vicenda umana, pronta a con-
frontarsi con le insidie del sociale e della Storia. La lunga “lotta” di Piccioni con-

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tro le accuse conformiste della critica rivolte al suo cinema, presto etichettato
come “carino” ed invece profondamente rispettoso delle traiettorie esistenziali
dei suoi personaggi, trova sin dai suoi esordi lo sprone nella naturale “unicità”
dei caratteri, raramente modelli fungibili, ma anime illanguidite di una società
alienante e in perpetua trasformazione. Piccioni, diversamente da molti suoi con-
temporanei, conosce bene il cinema e lo cita amorevolmente nei suoi film; attra-
versa la finzione e ne mette in scena le apparenze giocando sottilmente con uno
spettatore rispettato e condotto ad una sfida continua. I suoi personaggi, veri più
del vero, sono figli di un immaginario affettivo e potrebbero anche esistere nomi-
nalmente nei film di un altro regista, ma se presenti nel cinema di Piccioni pale-
sano una densità enigmatica talvolta dissimulata (Giulia forse prodotta dall’im-
maginazione del protagonista-scrittore in Giulia non esce la sera). Perché ciò che
vediamo in un film è ciò che la riflessione sull’immaginazione lascia decantare
ed è anche quanto appare dopo un lungo lavoro di scavo e sperimentazione con
gli interpreti. Un lavoro illuminante che si offre come uno degli elementi di mag-
giore pregnanza nel cinema di Piccioni.

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INtroDUzIoNE

Ho incontrato la prima volta Giuseppe a luglio del 2009 per la proiezione a


Napoli del suo Giulia non esce di casa, nell’ambito della Rassegna “Accordi e
Disaccordi”, ideata da Pietro Pizzimento, alla quale collaboro da alcuni anni.
Dopo averlo presentato al pubblico, demmo loro appuntamento al termine della
proiezione per il consueto dibattito sul film. Per ingannare l’attesa, invitai
Giuseppe a mangiare una pizza in un locale vicino al Parco del Poggio, il magni-
fico spazio all’aperto che ospita ogni anno la rassegna napoletana.
Sono sempre stato un suo ammiratore e, come uno scolaretto che voleva fare
bella figura, per rompere il ghiaccio, mi affrettai a dire che ero rimasto abbagliato
da Giulia non esce di casa e che lo avevo ricoperto di elogi nella mia recensione
su “Segno Cinema”. Giuseppe non l’aveva letta e gli promisi che gliel’avrei spe-
dita tramite e-mail. Tra un sorso di birra ed un trancio di pizza, iniziammo a chiac-
chierare del più e del meno ed ebbi la netta impressione di conoscerlo da sempre.
Pacato, riflessivo, misurato, Giuseppe rispose con estrema disponibilità alle
domande sul suo cinema, sulla scelta degli attori e quando, per stuzzicarlo, lo
presi in giro per la pasticciata rappresentazione della psicoanalista di
Condannato a nozze, dopo essersi inizialmente difeso, concordò, divertito, con
le mie critiche e mi raccontò qualche simpatico aneddoto relativo al film.
Gli accennai poi alla proiezione che avevo organizzato nel dicembre 2001 in
Aula Magna dell’Università “Federico II” di Napoli di Fuori dal mondo, con
Silvio Orlando in veste di ospite d’onore ed, incuriosito, mi fece alcune doman-
de sulla mia capacità di conciliare la mia passione per il cinema e la mia attività
professionale.
Ritornammo al Poggio e l’incontro tra Giuseppe ed il pubblico fu frizzante e
schioppettante. Fioccarono, come prevedibile, domande sulla scelta della napo-
letana Valeria Golino come attrice protagonista, sull’ambientazione in una pisci-
na, sui riferimenti al premio letterario... Giuseppe era in gran forma e, giocando
anche un po’ gigionescamente con il pubblico, confidò che era un po’ geloso di
quegli autori che scrivono canzonette e che, acquistata una repentina notorietà,
entravano facilmente nel cuore delle persone. Senza enfasi ed eccessive sottoli-
neature ricordò al pubblico quanto il mestiere del regista fosse più complesso di
quello del cantautore e sottolineò la fatica per metter in moto la macchina - cine-
ma; dai contatti con i produttori, alla scelta delle location, degli attori...
Giuseppe salutò il pubblico e lo accompagnai in albergo. Mentre continuava-
mo a chiacchierare, mi accennò alla “Libreria del Cinema” che aveva aperto a
Trastevere ed io, dopo avergli promesso che alla prima occasione avrei fatto un
salto, gli proposi di presiedere la giuria del secondo concorso di cortometraggi

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“I corti sul lettino - Cinema e psicoanalisi” che si sarebbe tenuta a Napoli due
mesi dopo al Parco del Poggio. Con mia grande gioia, Giuseppe non me lo fece
ripetere due volte ed accettò immediatamente l’invito.
Come presidente della giuria fu impeccabile e piuttosto di far valere il suo
“peso” professionale, ascoltò i giudizi degli altri giurati e “pilotò”, con garbo,
una votazione che non scontentò nessuno.
Dopo qualche mese, trovandomi a Roma, feci un salto alla “Libreria del
Cinema”. Non appena entrai in quel piccolo ma delizioso spazio, mi venne la
pelle d’oca; aggirarsi tra gli scaffali di una libreria che esponeva solo volumi
dedicati al cinema fu per me un’emozione sovrapponibile solo a quella del
Museo del Cinema di Torino.
Al di là dei classici del settore, di alcune “chicche” dedicate ad autori più
disparati e di nicchia ed allo spazio riservato alle cinematografie straniere, scor-
si una serie di Dvd e mi colpì che tra questi non erano presenti tutti i film di
Giuseppe; non mi meravigliai però più di tanto, perché da una persona schiva e
riservata come lui c’era da aspettarselo.
Nel locale si respirava un’atmosfera intima e familiare e, con mia grande sor-
presa, scoprii che, la sera si poteva anche gustare un bicchiere di vino e qualche
prelibatezza. Entrambi avevamo degli impegni e, dopo una breve chiacchierata,
ci salutammo.
Continuammo a cercarci ed un po’ per scherzo, gli lanciai l’idea del libro. Lo
prendevo in giro. “Ma come è possibile, un regista che ha messo in piedi una
libreria del cinema non ha un libro a lui dedicato?” Di rimando Giuseppe si
scherniva e rilanciava: “Il libri di cinema non si vendono. Che lo facciamo a
fare?”. Questo gioco andò avanti per un po’, ma sapevo che dentro di lui l’idea
di questa avventura stava scavando un solco. Superate le sue ultime resistenze,
decidemmo di rivederci in libreria e, di primo acchito, gli chiesi come mai alle
pareti non ci fosse nessun manifesto dei suoi film. Lui mi fece cenno di aspetta-
re e, come un bambino divertito, dopo qualche secondo, da un angolo nascosto
della libreria, tirò fuori un bellissimo manifesto della versione americana di
Fuori dal mondo, dove campeggiava un’intensa ed inedita Margherita Buy. Per
ragioni di comodità ci trasferimmo a casa sua, in quella che definisce la sua
“tana”. Alle pareti nessun manifesto dei suoi film, né un premio che testimo-
niasse la sua storia di regista. Nel soggiorno una libreria stipata di libri (non solo
di cinema) e diversi Dvd, sparsi tra il tavolo, posto al centro della stanza ed impi-
lati alla rinfusa su dei ripiani. Il pezzo forte dell’appartamento? Un terrazzo che
Giuseppe utilizzava nei mesi caldi per qualche cena con amici.
Abbiamo incominciato l’intervista quasi per gioco e, sin dalle prime battute,
sono rimasto colpito dalla sua grande voglia di raccontarsi. Mentre riandava con

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i suoi ricordi a ritroso nel tempo, alle sue passioni cinefiliche dell’infanzia e del-
l’adolescenza, alle sue frequentazioni ai cineclub romani, dentro di me, mi chie-
devo: “Perché amo il suo cinema?” Alcune risposte risalirono immediatamente a
galla; perché si muove con passo felpato sullo schermo; perché le storie che rac-
conta, intime e sospese, sono ammantate di spiazzante e dolorosa umanità; per-
ché è il regista più “francese” del nostro cinema; perché con le sue storie “sem-
plici” riesce a trapassare il cuore dello spettatore; perché il suo cinema non è
definitivo e fa nascere desideri, perché con genuinità e leggerezza mette in
campo lo smarrimento di chi vorrebbe vivere senza scosse ed assapora, invece,
il vuoto, l’inutilità e l’insensatezza della propria esistenza....
Chi è forse Razzo, l’irregolare ed impulsivo co-protagonista de Il grande
Blek? E non sono forse dei “perdenti” la svampita Elena ed il metodico Marco di
Chiedi la luna?; il nevrotico e“sdoppiato” Roberto, protagonista di Condannato
a nozze, i teneri e “sfortunati” Lucia e Stefano di Cuori al verde, gli “infelici”
Caterina ed Ernesto di Fuori dal mondo, i dispersi Antonio e Maria di Luce dei
miei occhi, i tormentati Stefano e Laura de La vita che vorrei e gli irrisolti Giulia
e Guido di Giulia non esce la sera?
Del resto lo stesso Giuseppe, nel descrivere il proprio cinema, in alcune pagi-
ne del suo sito, ha rilasciato questa poetica dichiarazione:“Nelle mie storie i pro-
tagonisti sono un po’ naufraghi, sempre sul punto di perdersi. Non sono dei vin-
centi, non riescono a far tesoro dei loro errori. Non sono soddisfatti di sé, hanno
dei difetti di fabbricazione, si sentono inadeguati rispetto agli standard di effi-
cienza e buon senso richiesti dalla vita normale. Insomma sono un po’ ‘fuori dal
mondo’. (…) La loro quindi non è un’infelicità media in cui tutti si riconoscono.
Non hanno certezze e cercano di aggrapparsi alla prima vera occasione di feli-
cità che capita loro. Vogliono riempire quella distanza che li separa dalla possi-
bilità di vivere una vita normale”.
Ma il cinema di Giuseppe non è solo fatto di storie. Che dire del suo sguardo
leggero, ironico e disincantato dei suoi primi film, della sua cura, quasi mania-
cale, per i dialoghi, della sua impeccabile scelta delle colonne sonore, delle sue
indiscusse capacità di dirigere attori del calibro di Silvio Orlando, Sergio Rubini,
Valerio Mastandrea, Luigi Lo Cascio ed attrici come Margherita Buy, Valeria
Golino, Francesca Neri, Valeria Bruni Tedeschi, Asia Argento, Sandra Ceccarelli,
Piera Degli Esposti?
“La mia vanità non arriva al punto da farmi desiderare che qualcuno scriva
un libro su di me ad ogni costo. La verità è che personalmente mi sento in gran-
de difficoltà quando qualcuno pubblica una mia intervista, un mio intervento,
insomma qualcosa che ha a che fare con le mie parole”, mi ha confidato, quasi
sottovoce, mentre raccoglievo l’intervista.

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Schivo, riservato, nel corso delle nostre amichevoli chiacchierate, Giuseppe


si è dato con impeto, passione e disponibilità, rispolverando dai cassetti della
memoria, nomi, eventi, passaggi, che non aveva (forse) mai raccontato prima.
Fedele al proprio cinema, nel corso dell’intervista, non hai mai cercato di
impormi un proprio punto di vista ma, con garbo, mi ha spinto, invece, a percor-
rere dei sentieri inesplorati, invitandomi, assieme al lettore/spettatore, ad abban-
donare quella sorta di sguardo “pigro” ed a rileggere i suoi film con la curiosità
di chi, abbandonate le “solite” certezze, di fronte al flusso delle immagini, desi-
dera solo perdersi e smarrirsi.
“Bisogna che prima l’occhio dello spettatore abbandoni le sue abitudini, e
che l’immaginazione e l’intelligenza accettino di seguire altre vie”. Ricordava il
grande Krzysztof Kieslowski. Ed è proprio questo il suggerimento più accorato
che Giuseppe Piccioni sembra suggerire al lettore/spettatore.
“Non perdete tempo a dire male dei film che detestate, parlate invece dei film
che amate e dividete con gli altri il vostro piacere”. Fedele a quest’affermazione di
Jean Renoir proverò in questo volume a spingere il lettore a conoscere più a fondo
Giuseppe Piccioni, autore di film che mi hanno rapito, commosso ed ipnotizzato,
regista, a mio parere, ancora troppo misconosciuto presso il grande pubblico.

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Intervista a Giuseppe Piccioni

IS: Sei nato ad Ascoli Piceno, città cinematograficamente nota perché Pietro
Germi vi girò nel 1972 Alfredo, Alfredo, uno dei suoi piccoli capolavori. Allora
avevi diciannove anni. Eri lì, hai vissuto la lavorazione del film?
GP: Mi è capitato spesso di incrociare la troupe. Quello che mi colpiva era que-
sto grande assembramento di persone e di mezzi intorno ad un evento che non
riuscivo a decifrare, perché nascosto agli occhi dei passanti. Avevi la sensazione
che, oltre il muro di aiuto registi, maestranze, addetti della produzione, accades-
se qualcosa di misterioso e di eccitante. Curiosando qua e là qualche volta scor-
gevi in un passaggio fugace, Dustin Hoffman o la Sandrelli, che venivano porta-
ti sul luogo delle riprese, protetti da un seguito di persone. Ricordo che si diceva
che Hoffman fosse molto gentile e disponibile, che frequentasse le case di alcu-
ni miei concittadini ma io non avevo il privilegio di far parte di quella cerchia di
persone.

IS: Perché lo girò ad Ascoli Piceno?


GP: Non so dirtelo perché. C’era qualche frequentazione della zona. Non mi ricor-
do se Alfredo, Alfredo fu prima o dopo Serafino che fu girato nelle vicinanze.

IS: Serafino è del 1968...


GP: Tieni conto che prima di Germi ci fu Maselli con I delfini...

IS: Un film straordinario con Claudia Cardinale e Tomas Milian...


GP: Lì c’erano i caffè, la città da sfondo, riconoscibile. Un film ambientato in
gran parte nel Caffè Meletti, questo caffè liberty dei primi del Novecento che
insieme alla piazza è uno dei motivi di orgoglio dei miei concittadini.

IS: Questi film hanno arricchito il tuo immaginario e spinto a fare il regista?
GP: Incuriosito... Il mio immaginario si è formato in maniera piuttosto fram-
mentaria, non del tutto consapevole. Io non vengo da una famiglia dove poteva
essere naturale che nascesse un regista. La mia famiglia è di origini piuttosto
semplici, con i classici genitori che facevano molti sacrifici per far studiare i figli
e che mettevano al primo posto appunto lo studio, come momento fondamentale
dell’educazione. Io sono l’ultimo di quattro fratelli (tre fratelli e una sorella) e
forse, essendo l’ultimo, ho avuto contemporaneamente, insieme a un certo grado
di protezione, la possibilità di schivare le aspettative eccessive che, per esempio
erano tutte a carico del fratello maggiore. Insomma godevo di una certa libertà

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ed il fatto di avere dei fratelli maggiori costituiva una specie di cerniera di tra-
smissione di esperienze, ma anche di gusti musicali: dalle canzoni degli Anni
Cinquanta (Neil Sedaka, Paul Anka) alla musica della mia generazione (i
Beatles, il rock degli Anni Settanta). Il cinema è entrato in me con forza, più
come spettatore televisivo, nei cicli del lunedì sera, piuttosto che sul grande
schermo... Si trattava di cicli di film su grandissimi autori ed erano presentati da
Rondi, Vieri Razzini, Claudio G. Fava... Mi ricordo un ciclo di film classici del
muto, film dell’orrore: “Quando il cinema non sapeva parlare”. Io ero piccolo, li
guardavo terrorizzato. Non ero un bambino che andava a letto dopo Carosello,
nella mia famiglia non c’era quella disciplina così ferrea... Poi scoprii più tardi
che quei film non erano semplici film dell’orrore (Nosferatu di Murnau, Il dot-
tor Jekill e Mr Hyde di Rouben Mamoulian) e ne rimasi impressionato, spaven-
tato, suggestionato. Capisci cos’era la televisione allora? Mi ricordo di aver visto
Il settimo sigillo e, sebbene non ci avessi capito granché, ero totalmente soggio-
gato dal fascino di quelle immagini; la partita a scacchi con la morte, il volto di
Max Von Sidow... Queste esperienze valevano di più del cinema della domenica,
che era tuttavia presente nella mia vita. Mi ricordo quella sensazione di aver
perso un pezzo di storia della mia generazione perché mi ammalai e non riuscì a
vedere Ben Hur che mi sembrava bellissimo già solo dall’album delle figurine
che fecero in occasione del lancio del film. Quell’album lo avevo completato e
non ero riuscito a vedere il film.

IS: Non sapevo questa storia delle figurine...


GP: Erano bellissime. C’era, ad esempio, tutta la corsa delle bighe. Quelle foto
erano talmente evocative che la sequenza vera e propria del film fu per me quasi
una delusione. È stato con la televisione, grazie appunto ai miei fratelli maggiori,
che ho cominciato ad avere familiarità con questi strani nomi che sentivo pronun-
ciare da loro. Nomi suggestivi, nomi misteriosi: Robert Mitchum, Montgomery
Clift, Richard Widmark, Rita Hayworth... Io sono nato come spettatore di cinema
attraverso la televisione, lo ripeto, grazie ai miei fratelli maggiori.

IS: Quanti anni avevano più di te?


GP: Il più grande ne aveva otto, l’altro sei... Il primo era l’appassionato di cine-
ma mentre dall’altro ho ereditato la passione per i primi gruppi di musica beat,
le chitarre elettriche, è lui che portò in casa il primo disco dei Beatles, Help. Mia
sorella aveva solo due anni più di me, con lei passavo la maggior parte del mio
tempo. Quell’ondata di canzoni, film, riviste giovanili, fumetti eccitavano la fan-
tasia di noi adolescenti. Erano il nostro pane quotidiano, la spinta verso un
mondo diverso da quello della generazione dei nostri genitori. Si incominciava-

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no a incrinare i miti della carriera, di un avvenire fatto solo di denaro, famiglia,


lavoro. I primi inquietanti interrogativi sull’esistenza di Dio...

IS: Poi lo vedesti Ben Hur?


GP: L’ho visto da grande. Sono quegli appuntamenti mancati che recuperi molto,
molto avanti. Un po’ deludente...

IS: Ma la corsa delle bighe...


GP: Quello era tutto il nucleo del film, la violenza, la morte... Nel cinema di que-
gli anni quando vedevi i trailer, quello che ti colpiva era sempre una scena dove
c’era qualcosa di raccapricciante, un braccio mutilato, una decapitazione... Il
cinema conteneva questa specie di odore di zolfo e di sangue, suscitava emozio-
ni primordiali, stupore...

IS: Eppure nei tuoi film non muore quasi mai nessuno o più precisamente non
vediamo mai la morte...
GP: Nei miei film muoiono Razzo nel Grande Blek e Giulia, in Giulia non esce
la sera. Eppure sono sempre stato attratto ed impressionato da certe sequenze.
Non era sufficiente dire a me stesso: “E’ solo un film...” Una delle morti più
incredibili è quella di Marlon Brando ne Gli ammutinati del Bounty... È trasci-
nato fuori dall’incendio, i suoi compagni hanno appiccato il fuoco alla nave e
non possono più andar via da quell’isola, e lui, tremante, fa quel discorso... Tutti
lo guardano con un’espressione pietosa e capisci che è agli sgoccioli e non c’è
più niente da fare e pensi: “Mo’ muore, mo’ muore, sta morendo”.
Ci sono altre immagini nella mia memoria: Il testamento del mostro di Jean
Renoir, una specie di remake de Il dottor Jekill e Mr Hyde... Il giorno dopo a
scuola tutti imitavamo Monsieur Opale che ne combinava di tutti i colori; toglie-
va il bastone al vecchio e con quello lo picchiava con ferocia... Camminavamo
tutti come lui, imitavamo la sua andatura strana, dinoccolata. Una grandissima
interpretazione di Jean Louis Barrault. Questi film classici, quando anche noio-
si, come poteva essere noioso vedere I sette samurai, oppure certi film d’avven-
tura, lasciavano sempre un segno... Devo riconoscere che, stranamente, crescen-
do, ho messo da parte il piacere che avevo per il cinema d’avventura. I titoli di
testa di un film western erano una promessa di eccitazione e di piacere e l’inge-
nuità di quello sguardo è stata irripetibile negli anni successivi. I western erano
davvero qualcosa di elettrizzante: gli indiani...

IS: Era un cinema che liberava l’immaginario...


GP: Sì... Spero, andando avanti negli anni, di ritrovare da qualche parte quel pia-

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cere primitivo. Penso che nel nostro cinema un po’ manchi quella possibilità...
Pensa a Cocteau che fa La bella e la bestia... S’affida a qualcosa che ha un carat-
tere apparentemente popolare, anche se raffinato, però insiste su un elemento
forte del codice del cinema fantasy. Quel piacere lì, mi piacerebbe sviluppare...

IS: Un risveglio dell’Io infantile...


GP: Sì. Ultimamente sono stato molto colpito da un film Lasciami entrare, quel
film svedese...

IS: Su quella bambina che è una vampira con gli occhioni spiritati. Un horror
freddo e silenzioso.
GP: Penso poi a certi film del realismo poetico francese, visti anche quelli gra-
zie a mio fratello, interpretati da Jean Gabin e pensavi a quest’uomo dallo sguar-
do malinconico e tuttavia forte, un perdente affascinante, che non si corrompe.
Un uomo che aveva il coraggio di andare incontro al suo destino, che parlava e
si muoveva in modo essenziale, senza retorica o narcisismo. Senza mai perdere
in dignità.

IS: L’opposto dei personaggi un po’ meschini ed imbroglioni presenti nella com-
media all’italiana...
GP: Sì. Io prediligevo un cinema dove non c’è il piccolo eroe meschino, sempre
sconfitto dalle circostanze, sempre un po’ patetico...

IS: Personaggi come Jean Gabin per un ragazzino erano dei modelli d’identifi-
cazione molto forti...
GP: Noi abbiamo vissuto un periodo in cui, metabolizzavi i vizi degli attori ita-
liani che hanno dominato la scena e che hanno riempito il nostro immaginario. I
loro modi di dire facevano parte di un sentire comune che irrompeva immedia-
tamente nella tua vita e, nel bene e nel male, diventavi complice di quei com-
portamenti, fino ad assolverli. Però bisogna anche dire che la televisione era
anche un luogo, negli spettacoli del sabato sera, dove questi attori difficilmente
perdevano la faccia, cosa che adesso succede molto di frequente. Allora vedevi
Mastroianni che andava a Studio Uno ed avevi la sensazione che anche lì ci fosse
una promessa di spettacolo, che non saresti rimasto deluso.

IS: Andava Totò...


GP: Vedevi Alberto Sordi, lo stesso De Sica che cantava e non avevi la sensa-
zione che potesse rendersi ridicolo. Mastroianni lavorava con Visconti e con
Fellini ma non è che quando andava in televisione non facesse spettacolo. In

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generale, nonostante le censure di quella televisione, il pubblico era rispettato


molto di più di quanto accada oggi. Mia madre, che era una donna semplice, si
fermava a vedere in televisione I Miserabili oppure I Fratelli Karamazov, con le
lentezze di Anton Giulio Majano, con quei grandissimi attori...

IS: Umberto Orsini, Salvo Randone, Tino Buazzelli, Valentina Cortese,


Rossella Falk...
GP: Tino Carraro, Lea Massari... Alla fine mia madre si alzava dalla sua sedia in
fondo alla stanza e diceva: “Che bel lavoro...”

IS: Una televisione che ti nutriva ancora...


GP: Certo era una televisione piena di contraddizioni, era quella di Bernabei ma
anche felicemente divulgativa... C’è qualcosa che mi fa sentire fortunato di esse-
re vissuto in quell’età dell’oro del cinema e della televisione.

IS: Hai fatto il pieno di cinema con la televisione e ti sei laureato in sociologia ad
Urbino. Volevi prenderti il “pezzo di carta”o già allora pensavi di fare il regista?
GP: No, avevo qualche velleità ma questa spinta dentro di me era sempre piutto-
sto clandestina. Ci sono degli amici che mi raccontano che avevo già intenzione,
che avevo già manifestato... A me non sembra sia andata così. La sensazione che
avevo era quella, anche un po’ velleitaria, di cercare qualcosa che mi facesse sfug-
gire dal destino di una vita “normale”. Dico velleitaria perché era condivisa da quel-
li della mia generazione, quello che contava era l’espressione di sé, non certo la car-
riera. Per alcuni ha avuto effetti devastanti; l’incapacità di adattamento, di stare al
passo con la realtà... Molti si sono perduti, in maniera anche drammatica.
Provammo a quei tempi a fare un gruppo musicale, come molti, poi ci fu la politi-
ca, sempre alla ricerca di qualcosa che ci salvasse. Quando andò in crisi il modello
“politico”, e quindi la convinzione di poter cambiare il mondo attraverso l’attività
politica, il cinema fu una scoperta, una visione del mondo, un po’ come uno scopre
la religione cattolica o il rock and roll, qualcosa in grado di mostrarti un orizzonte
più ampio. La sensazione era che quella cosa ti riguardasse da vicino, come un
richiamo. E poi la scoperta del cinema indipendente americano Quel pomeriggio di
un giorno da cani, Il laureato... Il laureato è un film sconvolgente; nessun “autore”
lo cita tra i suoi film preferiti, tutti lo sottovalutano, forse perché ebbe un grande suc-
cesso commerciale. Ma quel film sembra girato oggi e Mike Nichols è stato uno dei
più grandi talenti di quegli anni. Mi piacque moltissimo Jack Nicholson in
Conoscenza carnale. Erano grandi film, diretti da grandi registi che, pur non essen-
do italiani, riuscivano a raccontarti qualcosa che riguardava la tua vita, il tuo mondo,
i tuoi problemi con la famiglia o con le ragazze. Ti dicevano qualcosa di più di quel-

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lo che potevano dirti i film italiani di quegli anni. Poi la commedia italiana viveva
il suo momento di declino. Gli attori di quegli anni; De Niro, Pacino... La conver-
sazione di Coppola. Come spettatore ho vissuto anche periodi in cui sono stato uno
spettatore medio, nel senso che non snobbavo l’intrattenimento puro, la serie dei
Trinità... e tutti il western italiani. Con un gruppo di amici avevamo sviluppato una
predilezione un po’ elitaria, intellettualistica, verso i film “peggiori”; andavamo a
vedere tutti i film giapponesi di Kung-fu, i Godzilla, ma anche tutti film di Franco
e Ciccio, i film di fantascienza giapponesi e tutti film della Hammer, quelli dell’or-
rore. Difendevamo quei film contro tutto e tutti, non facevamo che citarli, prender-
li a modello a volte anche contro il cinema d’autore, quello ufficiale.

IS: E Roger Corman?


GP: Sì, Il pozzo ed il pendolo... Quando poi sei ragazzo privilegi una specie di
devianza che c’è nell’attrazione per l’horror e, in letteratura, sei più legato ad
Edgar Allan Poe che a Pascoli, preferisci I fiori del male a Manzoni. Eravamo in
contatto con dei gruppi milanesi che avevano fatto una rivista che si chiamava
Frankenstein. Boris Karloff era il nostro idolo. Insieme a Vincent Price,
Cristopher Lee, Peter Cushing. Questi nomi per noi erano estremamente familia-
ri. Il primo romanzo che ho letto, prima ancora di Guerra e Pace, è stato Dracula
di Bram Stoker, una lettura indimenticabile.

IS: Film con quei colori sparati...


GP: Quei rossi... È stato importante. Mi ricordo tra l’altro un film più recente, un
film in cui Dracula s’innamorava di un’infermiera che aveva trovato l’antidoto
per poterlo fare uscire di giorno, credo fosse ancora Peter Cushing ad interpreta-
re Van Helsing, il suo cacciatore. Beh un giorno, con suo grande stupore, Van
Helsing vede Dracula camminare tranquillamente di giorno in una strada cittadi-
na e gli dice: “Ed adesso lei vorrebbe farmi credere che un vampiro può uscire
di giorno...”. Battute paradossali come questa, erano il nostro pane... Poi Roma
per me è stata l’incontro con tutto il cinema d’autore. Avrò avuto ventuno anni...
Andai a Roma per seguire una donna di cui ero innamorato e che frequentava l’u-
niversità. Con lei mi sono anche sposato. Ero un ragazzo che non sapeva bene
cosa fare della sua vita, senz’arte, né parte, appunto. Facevo piccoli lavori, mi ero
appena laureato e cominciai anche a fare delle supplenze... Ero fortunato perché
passavo gran parte del tempo in questi cineclub, Roma ne era piena; potevi vede-
re un ciclo di film su Isa Miranda oppure su Vincente Minnelli, Bergman,
Hitchcock, Kurosawa, Lang o una rassegna sul cinema noir. In un solo giorno
potevi vedere tre film e sentivi che avevi ancora più fame di cinema, più voglia
di conoscere, di sapere tutto su certi registi, su quegli attori. Questo terremoto

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emotivo era vissuto in gran parte in solitudine. Qualche volta mi è capitato di


andare con qualche amico o con qualche amica, però la decisione veniva presa
in fretta, non si poteva aspettare “quello viene, non viene”. In quei luoghi, che
erano veri e propri luoghi di culto, trovavi tante anime affini, molti spettatori
solitari. Negli anni successivi mi è capitato di conoscere molte di quelle persone
che incontravo nei cineclub, in particolare tutte quelle che hanno ideato e orga-
nizzato queste rassegne e che lavoravano nelle associazioni che hanno fatto la sto-
ria di quegli anni. A loro non smetterò mai di essere grato per quello che hanno
fatto. Forse non ne sono del tutto consapevoli, ma hanno lasciato un segno così
significativo nella vita di tutti. Non mi sembra che il loro lavoro sia stato ricono-
sciuto come avrebbero meritato. Agli amici de L’Officina, Il Labirinto, il
Filmstudio, L’occhio, l’orecchio, la bocca, il Sadoul e a tutti gli altri il mio grazie.

IS: Sei un truffauttiano purosangue...


GP: Truffaut. L’ho scoperto appunto in quei cineclub... È stato veramente una
grande scoperta. Poi c’era il mio amico Antonello (Grimaldi) con cui condivide-
vo questa specie di culto.

IS: Amavi Fritz Lang?


GP: Tantissimo... La donna del ritratto con quel finale. Ma lì fu Hollywood
però... A me non importa però se i finali sono un po’ camuffati, un po’ voluti dai
produttori. Non giudico mai un film dal finale... Io penso che i film finiscano
sempre un attimo prima dei finali veri e propri. Tanto è vero che anch’io mi sono
un po’ portato dietro questa cosa; se ci fai caso in Chiedi la luna, La vita che vor-
rei, faccio una specie di finale del desiderio, un “finalissimo” che non è un fina-
le del tutto coerente con l’impianto narrativo. La vita che vorrei finisce con la
scena dell’ultimo giorno di riprese del film in costume e poi però c’è la scena del-
l’ospedale che trovo preziosa, soprattutto per la bravura dei due attori. A quel
punto della storia il film si avventura in una zona diversa, c’è uno scalino da fare,
un piccolo passo verso l’improbabilità. C’è quasi in tutti i miei film, un finale del
desiderio, che non è nell’impianto narrativo della storia, in Chiedi la luna, in
Luce dei miei occhi, i finali li lascio sempre un po’ aperti...

IS: Per non lasciare l’amaro in bocca alo spettatore?


GP: Non è nei confronti dello spettatore, è come se si trattasse di me.

IS: Per non salutare bruscamente la storia?


GP: Ho bisogno che questi pupazzetti possano guardare davanti a sé con un mini-
mo di speranza.

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IS: Non c’è il rischio di un finale consolatorio?


GP: Dire che un finale è consolatorio non mi sembra opportuno, se un film nel
suo complesso non lo è. Non lo so; lo ripeto, non ho mai giudicato un film per
un finale, o forse sì, nell’età dell’innocenza. Certo posso essere deluso... Però mi
sembra anche consolatorio il finale di Butch Cassidy dove Robert Redford e Paul
Newman escono con le pistole...

IS: E si capisce che dopo un secondo verranno uccisi...


GP: C’è il fermo fotogramma che li rende immortali... Poi è stato ripreso da altri,
da Bruce Lee... Penso più a quello, ad una sorta di patto che faccio con i miei
protagonisti. E con il pubblico, ma è un patto leale. Trovo meschino mettersi lì a
giudicare un film dal finale.

IS: È custodirlo in un cassetto e rendere più soffice la morte del film?


GP: Sì, forse sì. È che mi spaventa la parole FINE… Che poi io sono un gran
fifone pure nei confronti di questa cosa (morire), ancora non ci ho fatto i conti
veramente... Sul desktop del mio computer c’è immagine della morte de Il setti-
mo sigillo...

IS: Mi colpiva, infatti, già nel tuo primo film Il grande Blek c’è questo dialogo
sulla morte che fanno i due giovanissimi protagonisti: “Certe volte penso alla
morte, al fatto che morirò, io c’ho paura; quelli che dicono di non aver paura
della morte non li capisco, non ci credo. Ci sono persone che prima di morire si
mettono addirittura a fare discorsi, si mettono a dare conforto agli altri. È assur-
do! “, e poi “Avrò 46 anni nel 2000, faremo in tempo a vedere il terzo millennio?”
GP: Sì, sì... Questo pensiero era più ossessivo quand’ero giovane, La morte di
Ivan Illic di Tolstoj è stata una delle mie letture preferite di quegli anni, ma anche
una delle più inquietanti. Però non mi rendevo conto di quanto la morte fosse un
fatto fisico, la mutazione di uno stato... Di questo ti accorgi, invecchiando, capisci
che la morte non è un processo di estinzione, di esaurimento progressivo delle
energie. Certo l’invecchiamento, la perdita di una certa efficienza fisica, sono fuori
discussione, ma si può morire relativamente in buona salute, passando da un rela-
tivo stato di efficienza, di buona salute appunto, ad un altro stato... Quindi è un pas-
saggio relativamente brusco, penso a Monicelli alle sue interviste fatte davvero
pochissimo tempo prima della sua scomparsa. Ma che discorsi mi fai fare?

IS: Hai frequentato i cineclub e poi iniziato la scuola Gaumont diretta da Renzo
Rossellini..
GP: Era una scuola creata all’interno di un’industria, la Gaumont, e fu una deci-

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sione di Renzo Rossellini. Funzionò per due trienni e ebbe termine con la crisi
della Gaumont Italia.

IS: Chi c’era che frequentava la Scuola con te in quegli anni?


GP: C’erano Daniele Luchetti, Carlo Carlei, Antonello Grimaldi, Valerio
Jalongo, direttori della fotografia come Sandro Pesci, montatori come Angelo
Nicolini (ha montato i film di Rubini e i miei primi) e poi Domenico Procacci,
che poi è diventato il produttore che è adesso. E sceneggiatori come Gualtiero
Rosella, Maura Nuccetelli, Fabrizio Bettelli e tanti altri...

IS: Hai iniziato con dei cortometraggi?


GP: Feci un paio di Super8 ed un 16 millimetri che si chiamava Il prologo che non
ho mai editato e non ho mai finito perché non mi piaceva quello che avevo fatto.
Era una specie di esercitazione, era così scombinato. Lo feci proprio durante l’e-
sperienza della scuola di cinema Gaumont. Per fortuna se ne sono perse le tracce...

IS: L’anno successivo, nel 1983 hai partecipato al soggetto Juke-box commedia
scritta insieme a Luchetti, Carlei, Jalongo, Antonello Grimaldi...
GP: Era il film saggio della Scuola Gaumont. Dove ho partecipato alla sceneg-
giatura di un episodio. Ma non è un episodio fondamentale del mio curriculum.
Nel senso che la mia partecipazione alla scrittura fu piuttosto blanda, marginale.

IS: Hai mai fatto l’aiuto-regista?


GP: No, niente... Sono andato un paio di volte sui set... Dico la verità, ho avuto
la sensazione, un po’ presuntuosamente, di capire subito cosa stesse accadendo,
insomma di non aver bisogno di quel tipo di apprendistato per capire come si gira
una scena. Non ho mai portato un caffè, non ho mai fatto la cosiddetta gavetta.
Può non risultare simpatico ma è qualcosa che, a conti fatti, mi inorgoglisce.

IS: Hai girato Il grande Blek, il tuo primo film a trentaquattro anni. Eri vec-
chietto...
GP: Ero vecchietto perché avevo fatto la scuola di cinema a ventisette anni, che è
il limite d’età per essere ammessi al corso di regia del Centro Sperimentale di
Cinematografia. A quel tempo facevo delle supplenze, insegnavo materie assurde;
“Matematica applicata” ed avrei potuto insegnare addirittura “Ragioneria”... Ero
laureato in Sociologia e avevo bisogno di lavorare. Ho fatto supplenze per tre anni
e qualche volta mi davano anche lo stipendio estivo... Ero il più ricco di tutti i miei
amici. Ho fatto piccoli lavori qua e là. Era difficile per noi sperare di sopravvivere
lavorando nel cinema, perché quello era un momento di crisi profonda. I film ita-

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liani, soprattutto degli esordienti, quasi mai uscivano nelle sale o venivano distri-
buiti. Quando uscì Il grande Blek fu un piccolo evento. Incassò molto poco ma il
fatto che avesse una distribuzione sembrò già un piccolo miracolo. Ho fatto questa
scuola e dopo ci sono stati anni di attesa, di grande fatica. Scrissi questo trattamento
e finalmente incontrai Roberto Faenza e Elda Ferri che avevano la cooperativa Jean
Vigo. A loro piacque la storia e decisero di chiedere dei finanziamenti al Ministero.
Maura Nuccetelli scrisse con me la sceneggiatura.
La Jean Vigo ottenne il finanziamento ma non se la sentì di produrlo. Così insie-
me ad alcuni compagni di scuola della Gaumont, tra cui Domenico Procacci che
iniziò a fare il produttore proprio con Il Grande Blek, formammo una cooperati-
va che si chiamava Vertigo Film, decidemmo di produrre noi il film, grazie anche
al fatto che la Jean Vigo fece trasferire il finanziamento del Ministero alla nostra
società. Per sopravvivere cercammo anche di fare qualcosa di non indimentica-
bile come piccoli spot o documentari aziendali. Esistono certi siti che dicono che
ho iniziato facendo spot e videoclip. Non è vero; ho girato un solo videomusica-
le perché vinsi un concorso che si chiamava Fame (parola inglese), forse saran-
no famosi, dove partecipai scrivendo la sceneggiatura di una canzone di Ron. Al
vincitore veniva data la possibilità, appunto, di fare la regia di questo videoclip.
In questo concorso c’era tutta gente che usciva dal Centro Sperimentale, alcuni
sono oggi registi importanti. Io vinsi questo premio, era una piccola soddisfazio-
ne, nient’altro. Ma mi diede un piccolo incoraggiamento a continuare. Poi pren-
demmo il finanziamento per il film... Domenico Procacci era uscito dalla Scuola
Gaumont con l’idea di fare il regista e realizzò anche un cortometraggio dal tito-
lo: Zucchero? No grazie. Lui era già un ragazzo molto sveglio e capace, sapeva
fare un piano di lavorazione, aveva già un atteggiamento molto propositivo sul
piano organizzativo ed era anche capace, già allora, di trasmettere un certo entu-
siasmo. Sebbene fosse molto giovane era capace di rassicurarti, incoraggiarti. Fui
io a chiedergli di fare il produttore e di accantonare, per un po’, il suo progetto
di diventare regista. Subito dopo Il Grande Blek Domenico fondò la Fandango e
produsse La stazione di Rubini.

IS: Il Grande Blek fu subito premiato con il Premio De Sica...


GP: Sì, nonostante una stroncatura memorabile di Paolo D’Agostini su “La
Repubblica”. Il Grande Blek andò al Festival di Sorrento di cui era direttore
Gianluigi Rondi dove vinse e fu accolto con grande calore… Quando uscì la
recensione di D’Agostini io ero molto preoccupato, pensavo ai miei amici, a mia
madre, a mia sorella che mi telefonò preoccupata. Insomma fu un impatto abba-
stanza difficile con la critica. Invece quello stesso giorno fui premiato come
miglior film.

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IS: Nel film compaiono la lambretta, accenni al Giro d’Italia con Gimondi,
Zilioli, all’uccisione di J.F. Kennedy, all’acquisto della prima televisione con un
omaggio a La signora delle camelie con Greta Garbo, compare sullo sfondo la
lotta politica con gli scontri giovanili tra destra e sinistra...
GP: Di quel film ho un ricordo affettuoso e quello che mi piace è proprio quello
che è meno narrativo; la frammentarietà di quei quadri che sono slegati, tutto ciò
che è legato al colore, a un certo tipo di luce; era anche il primo film di Alessio
Gelsini, il direttore della fotografia... E poi c’era il tentativo di parlare di quegli
anni con la semplicità di un raccontino illustrato, come in un piccolo fotoroman-
zo d’epoca anche perché, in provincia, accadeva spesso che fascisti e comunisti
si conoscessero, o appartenessero a famiglie che si conoscevano e c’era anche
questo lato un po’ superficiale della lotta politica. Ci sono dei momenti che provo
imbarazzo nel rivedere questo film ed altri in cui lo vedo con indulgenza. In qual-
che caso con soddisfazione. C’è qua e là qualche piccola perla...

IS: C’era la locandina di Zabriskie Point, dei riferimenti a David Bowie, come
colonna sonora le canzoni di Little Tony, di Adamo, di Rita Pavone e tanto Lucio
Battisti …
GP: Ho sempre pensato che la mia carriera fosse nata con Fuori dal mondo,
nonostante Chiedi la luna rappresenti un piccolo importante momento di pas-
saggio. Ho come la sensazione che non fossi del tutto consapevole nei miei primi
film. È come se avessi, tardivamente, raggiunto la compiutezza e una maggiore
consapevolezza di me, eppure Il grande Blek era visivamente più generoso di
tanti altri che ho fatto dopo. Ci sono nella piazza tre carrellate ripetute, sullo stes-
so movimento, su questi amici che passano il tempo seduti in una specie di nic-
chia sulla facciata di una chiesa.

IS: Con Fuori dal Mondo entri in partita...


GP: Sì... È come se avessi detto a me stesso: “Basta, finora hai fatto solo dei ten-
tativi...”. Intendiamoci devo moltissimo a Il grande Blek, sono felice di averlo
fatto, anche se ritengo Fuori dal mondo il mio vero film d’esordio o per meglio
dire un mio nuovo esordio, più consapevole.

IS: Ne Il grande Blek eviti qualsiasi riferimento ad Ascoli Piceno e descrivi un


luogo non facilmente identificabile. Era per nascondere le tue origini?
GP: Non volevo nascondere niente, anzi. Ma non volevo indulgere in una carat-
terizzazione localisitica della storia, andare nei dialetti… Volevo che quella città
fosse rappresentativa di un’idea di provincia più estesa.

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IS: Ne Il grande Blek c’è un bel cast di attori... Francesca Neri è al suo film
d’esordio...
GP: Usciva dal Centro Sperimentale e litigammo moltissimo. Lei fu scelta per-
ché era molto bella, ci conquistò tutti. Però si presentò sul set, ingrassata, aveva
tagliato i capelli che avevano una tinta inguardabile... Per cui, diciamo che fui un
po’ punitivo nei suoi confronti e ridimensionai la sua partecipazione.

IS: Anche Roberto De Francesco era al debutto...


GP: Roberto anche lui, era un allievo del Centro, un pupillo di Giuseppe De
Santis. Per me era una specie di Jean Pierre Leaud, il personaggio-testimone che
racconta, l’Io narrante di una generazione... È strano poi che non abbiamo più
fatto film insieme.

IS: E poi Rubini che aveva già interpretato alcuni film; Figlio mio, infinitamen-
te caro di Valentino Orsini, Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, L’intervista di
Fellini...
GP: Credo che Rubini in quel film trovò qualcosa che gli permettesse di orienta-
re meglio la sua carriera d’attore… Ne Il grande Blek, come in teatro con
Umberto Marino, inventò questa specie di “meridionalese”, una misto di puglie-
se/romano. Fu durante le riprese de Il Grande Blek che Rubini cominciò a capi-
re qualcosa della macchina cinema e ad interessarsi alla regia.

IS: Un film ingenuo ma intimo e delicato…


GP: C’era la voglia di fare un film dove s’inventassero delle cose, ci fosse una
pretesa d’immediatezza emotiva. Più che ingenuo, direi con delle ingenuità
anche un po’ naif. Lo farò riuscire, lo riedito in Dvd.

IS: Si intravede però sin da questo tuo film d’esordio la cura per i dialoghi.
GP: Sì, già allora c’era questo tentativo di mettere insieme delle parole non ovvie.
Quel “Vorrei partire ma non vorrei perdermi tutto quello che succede qui”.

IS: Molti critici del tempo, prendendo spunto dall’incipit e soprattutto dal finale
del film (Yuri è in stazione che aspetta il treno che lo porterà lontano dalla cit-
tadina di provincia dove è nato) lo paragonarono, secondo me a torto, a I vitel-
loni di Fellini...
GP: Naturalmente, I Vitelloni è uno di quei film che avrò visto decine di volte...
Può aver in comune l’ambientazione in provincia ed una fase della vita, la cosid-
detta linea d’ombra che separa l’adolescenza dalla maturità, e poi alcune sugge-
stioni che sono la stazione, la partenza, la passeggiata al mare, in spiaggia, il fatto

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che ci siano comunque alcuni segnali di questa inesorabile ciclicità del vivere, la
morte di Razzo, anticamera della nuova esistenza di Yuri, ma, ovviamente, credo
un paragone tra i due film sia del tutto a mio svantaggio.

IS: Amavi veramente il “grande Blek”, l’eroe del fumetto ideato da Giovanni
Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartori, a cui si ispira il titolo del film?
GP: Io ed i miei fratelli, ancor più di me, leggevamo Il grande Blek e Capitan Miki.
Capitò, una volta di ammalarmi e il giornalaio sotto casa mi portò i primi cento
numeri di Tex. Tex era più “cool”, più duro, Blek era un personaggio più lineare,
privo di ombre. Alla fine di ogni storia quasi sempre c’era un tipo con la faccia da
traditore, barbetta ispida non rasata e con una pistola in pugno, appostato dietro un
nascondiglio nell’intento di uccidere Blek. Immancabilmente ogni volta c’era il
fumetto che riportava il suo pensiero, i suoi propositi malvagi: “Ecco Blek è davan-
ti a me, non posso fallire, prenderò con cura la mira e lo ucciderò ed intascherò i
soldi della taglia”. Poi la storia si interrompeva con la classica didascalia
“Continua”. Il numero successivo ripartiva dalla situazione che avevamo lasciato in
sospeso. C’era sempre questo tizio, il traditore, e sempre con il suo pensiero: “Blek
è davanti a me, non posso fallire”. Il tizio sparava, Blek si gettava a terra, riuscendo
ogni volta a schivare le pallottole. Gli eroi dei fumetti non muoiono mai e nemme-
no invecchiano. Un romanzo di formazione per usare una formula pigra e abusata.

IS: Quattro anni dopo è la volta del delizioso Chiedi la luna...


GP: Stavolta Paolo D’Agostini, il critico di “Repubblica” che aveva stroncato Il
Grande Blek scrisse che si trattava di “Un piccolo capolavoro di garbo e legge-
rezza”. Il film andò a Venezia, venne invitato a quelle che erano chiamate Le
Mattinate del Cinema Italiano. Era nato come un film per la televisione, doveva
durare cinquantadue minuti ed aveva dei forti limiti di budget. Io tentai in tutti i
modi di convincere il produttore Mario Orfini e Rai 2 a fare una versione di un’o-
ra e mezza e farlo uscire nei cinema. In questo ebbi il sostegno di Max Gusberti
che dirigeva la struttura di Rai 2. Gusberti era davvero affezionato a questo pro-
getto. L’avevo scritto con Franco Bernini da un soggetto suo e di Enzo
Monteleone. Guglielmo Biraghi, allora direttore del Festival di Venezia ci chie-
se se poteva vedere il film. Chissà perché rimase da solo a vedere il film, nella
grande sala dell’International Recording, la sala dove stavamo mixando il film.
Rimase colpito, toccato emotivamente: “Lo mettiamo nella Mattinate italiane...”
ci disse. Per noi già il fatto di essere invitati equivaleva ad un premio. Quando il
film andò a Venezia non c’era nessuna attesa e, forse, anche per questo motivo,
la proiezione in sala grande ebbe un’accoglienza incredibile. In Chiedi la luna
racconto queste due persone che all’inizio sembrano stereotipate; l’uomo in gri-

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saglia, la ragazza un po’ svampita... Poi nei passaggi successivi della storia que-
sto cliché si modifica, anche grazie ad alcuni eventi esteriori, il conflitto tra i due
sfuma sempre più, le loro rispettive immagini cambiano ed emergono tra i due
dei punti di contatto.

IS: Lui mette il giubbotto rosso, lei si toglie gli orecchini...


GP: Sì, attraverso tutti questi segni i due finiscono per trovarsi in una specie terra
di nessuno dove emergono delle somiglianze; lei non è più la rappresentazione
macchiettistica di se stessa, lui non è più il nevrotico piccolo yuppie di provincia
e scoprono di essere semplicemente una donna ed un uomo.

IS: Nel film assistiamo, infatti, ad un’evoluzione del personaggio di Elena...


GP: Elena è ancora innamorata di Giacomo; ostenta, inizialmente, un atteggia-
mento di indifferenza ma in realtà ha delle aspettative... È la solita cattiva ragaz-
za, svampita, negativa, dietro la quale si nasconde una donna che ha delle debo-
lezze, ha paura di invecchiare, di restare sola, è stanca di girare a vuoto, di reci-
tare sempre la parte di quella che non ha preoccupazioni per sé e per il suo futu-
ro. Attraverso questo viaggio e lo sguardo di Marco, acquista man mano consa-
pevolezza di sé, diviene adulta.

IS: Marco mi sembra una persona responsabile; il fratello è andato via con dei
soldi, con un’auto di rappresentanza e lui è costretto a mettersi sulle sue tracce
per capire cosa sia successo…
GP: Sì, ma il suo senso di responsabilità è a scapito della sua felicità. Non ha
affetto per sé stesso, non si concede nulla. Per questo teme Elena ma ne è fatal-
mente attratto, è la sua occasione, la possibilità per una volta, di fare un giro sulla
giostra, senza pensare a doveri, responsabilità e altro.

IS: Una sorta di romanzo di formazione?


GP: C’era questa idea di tratteggiare, in maniera molto elementare, i personaggi
nelle loro differenze più esteriori e di rivelarli in maniera più attenta, più sincera
e vera nel corso della storia. In fondo quelli erano anni di passaggio. Si comin-
ciava a pensare al denaro, alla concretezza, si mettevano da parte le illusioni di
una generazione che cominciava a cambiare pelle. Il comportamento di lei in
fondo era quello di molti che continuavano a seguire l’idea di una vita ai margi-
ni, un po’ folkloristicamente legati a una sorta di integrità nei comportamenti e
nelle scelte, sempre preoccupata di non piegarsi, di non farsi prendere dal siste-
ma al contrario di altri che lo abbracciavano con altrettanta stoltezza.
Un film che mi ha aiutato ad andare avanti, con dei dialoghi interessanti che mi

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ha fatto scoprire Margherita Buy. Ricordo che chiesi a Scarpati di fare, in chiave
di commedia, quello che Cary Grant fa in Notorius... Irriducibilmente immuso-
nito, sempre contrariato.

IS: In questo film Laura esclama: “È fuori dal mondo”...


GP: Mary Sellers... un’attrice bravissima, avrebbe potuto fare tanti più film in
Italia ma era americana e il suo accento e la pigrizia del nostro cinema non
l’hanno aiutata.

IS: Il personaggio di Rubini era molto divertente e singolare…


GP: È un personaggio di cui sono molto contento. “L’uomo inutile” è una cita-
zione dostojevskiana in chiave parodistica e poi ho un ricordo efficace di questo
personaggio così scoperto, indifeso. Uno che teme di essere sminuito dal fatto di
non avere una partita Iva...

IS: Chiedi la luna è la prova che hai nelle tue corde la commedia…
GP: Penso alla scena del casolare… Questo film è stato girato in quattro setti-
mane e due giorni, una specie di record per quegli anni, per cui le riprese dove-
vano essere estremamente semplici. Eravamo in ritardo sulla lavorazione ed in
scena avevo tre attori; Citran, Buy e Scarpati. Dovevamo andare via da questo
casolare e mancava una scena in cui loro parlavano, si spostavano, la classica
scena in cui c’è bisogno di fare molte inquadrature. Non avevamo tempo a dispo-
sizione così decisi di fare di necessità-virtù e, con la macchina da presa, scelsi un
solo punto d’osservazione, come in certi vecchi film in bianco e nero.

IS: A proposito di inquadrature, fai piani sequenza?


GP: Li faccio però non mi spavento, se vedo la necessità di tagliarli al montag-
gio. Però sì, mi capita di farli.

IS: Perché secondo te c’è questo mito dei piani sequenza?


GP: Sono di derivazione scolastica, di iniziazione al cinema e purtroppo molto
spesso non denotano maturità, ma al contrario un atteggiamento tipico del prin-
cipiante che pensa che la regia sia lasciare un segno evidente, come rendere
apparentemente molto visibile il movimento di macchina. Quando giri un piano
sequenza sai che devi arrivare alla fine della ripresa senza che ci siano errori, che
i movimenti di macchina devono essere tutti giusti; l’assistente operatore deve
riuscire a mantenere il fuoco sui personaggi dall’inizio alla fine, non devono
esserci difetti dal punto di vista tecnico, della luce ecc... e poi tutta la recitazio-
ne deve essere all’altezza dall’inizio alla fine. Al primo errore sei costretto a rico-

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minciare tutto da capo. Tutto questo ti mette in uno stato di tensione incredibile
perché in qualsiasi momento il piano sequenza può essere compromesso da uno
stupido errore tecnico (nel mettere a fuoco i personaggi per esempio) oppure suc-
cede che te ne stai lì davanti al monitor e vedi che tutto sta andando bene e guar-
di il proseguimento della ripresa in uno stato di preghiera silenziosa, in apnea.
Tutto inizia al meglio, le recitazione è ok, questo momento va bene, quest’altro
è bellissimo, perfetto, e dici a te stesso “forza, forza... arrivate fino in fondo” , e
poi quando tutto sembra concludersi nella maniera migliore, ecco che all’ultima
battuta ci si inciampa in uno stupido errore, in un’incespicatura, una stupidaggi-
ne che rovina tutto. Un’altra cosa che cerco di evitare, quando hai delle persone
intorno ad un tavolo, è di far girare vorticosamente la macchina da presa. Tranne
in rarissimi casi, mi sembra una scelta quasi sempre troppo generica che non
coglie e non sottolinea nulla, se non l’incapacità di scegliere un punto di vista,
un po’ come sparare nel mucchio con la certezza che in quel modo qualcosa
acchiappi... Però mi rattrista quando lo vedo fare da registi affermati.

IS: Secondo te, l’attore sente il peso, la responsabilità del piano sequenza?
GP: Sì, certo. Per un attore è anche una prova delle sue capacità, una prova d’or-
goglio. Difficilmente accettano che il regista dica “giriamola in un altro modo,
visto che non ci riusciamo...”. Per esempio in Luce dei miei occhi c’è una scena
in cui Silvio Orlando entra in un grande appartamento dove ha sistemato i suoi
ospiti extra comunitari, entrando e uscendo da tutte le stanze e incitandoli a usci-
re in fretta e furia dalla casa, portando via le loro cose. Insomma feci tutto un
piano sequenza dal suo ingresso, seguendo tutti i personaggi che incrociava sul
suo cammino, nelle varie stanze, personaggi che passavano davanti alla macchi-
na da presa ed arrivavano fino all’ingresso e poi alle scale. Era una bellissima
scena ma poi l’ho tagliata, anzi l’ha fatto la mia montatrice Esmeralda Calabria,
perché era troppo lunga. Abbiamo dato comunque l’idea, anche attraverso i tagli
interni, che ci fosse un movimento molto simile a quello del piano sequenza, più
stretto e più agile. Nel caso di Chiedi la luna la scena del casolare di cui parlavo
prima era semplicissima, ad un certo punto i personaggi si passano un pallone
mentre parlano. Ci sono sempre degli espedienti che io cerco ed è quello il lavo-
ro della messa in scena. Se vedi un film, anche nelle scene più semplici, ti accor-
gi che c’è un pensiero dietro una scena e ti accorgi che il regista si è preoccupa-
to che, in un determinato momento, la scena non rischi di cadere, di perdere
ritmo. Spesso nelle scelte è anche nascosta un’idea di coreografia. Di corpi che
si muovono in uno spazio, disegnano figure, contrasti, avvicinamenti, abbando-
ni, conflitti. Per avere un’idea di quello che dico basta vedere la scena della ter-
razza in Una giornata particolare di Ettore Scola.

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IS: Ritorniamo a Chiedi la luna… La scelta degli attori?


GP: Fu una scelta fortunata. Per quanto riguarda Margherita Buy l’avevo cono-
sciuta attraverso Sergio Rubini (erano fidanzati, poi sposati) e devo dire che
Margherita mi piaceva molto, però non avevo pensato di fare un film con lei.
Andai con Sergio e Margherita in vacanza a Ginostra e, parlando con loro, venne
fuori l’idea di poter lavorare con Margherita. Fu proprio Rubini a suggerirmi
questa scelta. All’inizio pensavo che quel personaggio non fosse proprio nelle
corde di Margherita. Lo pensava anche lei. Poi ci siamo divertiti molto a cerca-
re una strada possibile. È stata l’occasione di fare il nostro primo film insieme e
dare inizio a una lunga collaborazione. Margherita, proprio con Chiedi la luna,
inaugura questa galleria di personaggi femminili presenti da allora in tutti i miei
film. Ne Il grande Blek le figure femminili sono solo dei bozzetti, come la madre
del protagonista o delle figure che non hanno una loro specificità, come il perso-
naggio interpretato da Francesca Neri, o anche quello della sorella di Yuri. Credo
che proprio con Chiedi la luna inizi la ricerca di una specie di equilibrio tra un
sentimento romantico e una verità crudele, non consolatrice.

IS: La scelta di Scarpati e non di Rubini come protagonista?


GP: Scarpati mi sembrava più adatto. Mi piaceva molto. E poi Sergio era tutto
preso dalla sua nuova attività di regista. Per tutto il film il personaggio di
Scarpati si nasconde dietro dei vetri; i finestrini della macchina, il suo posto di
lavoro, la cabina telefonica…

IS: E la scelta di Roberto Citran?


GP: Mi ha dato sempre grande soddisfazione perché è l’attore che ti solleva
dall’idea di dover sempre spiegare la scena, suggerire questa o quella imposta-
zione, perché lui possiede pienamente gli strumenti del mestiere. Sceglie una
direzione, una direzione chiara, efficace, senza doppi fondi, anche se qualche
volta, ci vuole un doppio fondo... Ma in quella cosa lì, lui è veramente, sempre
preciso, nel ritmo, nelle piccole invenzioni, nei gesti. Ecco quando vedi Citran,
vedi al lavoro un attore.

IS: Compare in questo film anche Stefano Abbati che è presente in tantissimi tuoi film...
GP: Sì, quando l’ho conosciuto mi sembrava un carattere, un personaggio impre-
vedibile nella recitazione, quasi ingovernabile, che aggiunge molto... Ha una
gran faccia ed aggiunge un suo personale tocco anche alla più piccola scena. Un
contributo sempre prezioso, mai scontato. Un altro che mi dà questa sensazione
ultimamente è Sasa Vulicevic che fa il prete in Giulia... e fa il conte, l’amante di
Sandra ne La vita che vorrei.

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IS: Chiedi la luna si chiude con il volto di Margherita…


GP: Con il grande piacere di poterle chiedere di regalarmi qualcosa di sé, lo
sguardo in macchina, un tabù violato... Lei ha una sorta di timidezza, conserva
un certo pudore anche quando guarda in macchina...

IS: L’idea di chiudere così il film ti è venuta mentre lavoravi?


GP: Sì. Qualche volta sono aiutato da queste idee, qualche volta sono un regalo del
cielo. Ci sono delle soluzioni che vengono in quel momento e sono benedette.

IS: Come mai compari nel film, anche se per qualche attimo, in veste d’attore?
GP: È stato un impulso non previsto. Il film era produttivamente molto piccolo
ed in quel momento mi sono accorto che avevamo esaurito le comparse e sono
entrato improvvisamente nel bar, cogliendo anche di sorpresa la stessa
Margherita che però è stata pronta a salutarmi, ad accogliermi nella scena.

IS: A proposito del tuo (non) essere attore. Come mai il tuo nome compare nei
crediti de Il cielo è sempre più blu?
GP: Feci una piccola cosa in amicizia con Antonello Grimaldi ma poi lo pregai
di tagliarmi... Lui mi accontentò. Né io né Antonello ci rammaricammo per que-
sto. Ero un cane.

IS: Condannato a nozze è un film dove ti prendi il “lusso” di fare una doppia
citazione al Truffaut di Finalmente domenica e a L’uomo che amava le donne…
GP: È un figlio nato con un handicap, con delle aspettative… Io non volevo
andare a Venezia, mi convinse Gillo Pontecorvo tendendomi una trappola. Una
trappola bonaria, che solleticava la mia vanità perché mi disse: “Sicuramente
questo film avrà il premio del pubblico” … Chiedi la luna mi aveva dato un certo
grado di credibilità, ero stato molto gratificato dal successo che aveva avuto ma,
allo stesso tempo, avevo scoperto di avere alcuni accaniti detrattori. Quelli che
dicevano che ero l’alfiere del cinema “carino” mentre invece in Italia in quel
periodo si affermava il cinema neo-neo realista; Ragazzi fuori, Mery per sempre,
film anche molto validi. Io però ero un po’ infastidito da questo cliché del cliché,
è come se per decreto, per un’espressione giornalistica l’aggettivo “carino” aves-
se perso diritto di cittadinanza, qualsiasi legittimità. Mi ricordo che incontravo
tanti amici colleghi e se chiedevi loro cosa stessero facendo tutti rispondevano:
“Sto scrivendo un film duro”… Ed allora, non so, per una specie d’impulso, quel-
lo di dimostrare che ero capace di fare altre cose, volli trasformare quella che
poteva essere una commedia in una storia più oscura, una favola nera, come dice-
vo nelle presentazioni alla stampa. C’erano anche delle cose interessanti qua e là

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ma fui preso da una specie di megalomania, Feci un primo montaggio del film di
circa tre ore ed un quarto. Ricordo Cecchi Gori che non sapeva che dire. Ero arri-
vato a Cecchi Gori attraverso la società di Massimo Troisi che avevo conosciuto in
un viaggio a Tokyo perché i nostri due film (il mio era Il Grande Blek ed il suo
credo fosse Le vie del Signore sono finite) furono scelti per una rassegna. Di
Massimo ho un ricordo bellissimo ed abbiamo passato moltissimo tempo insieme.
Era divertente e molto pigro. Quando eravamo a Tokyo, capitava a volte che io
rientrassi in albergo dopo aver comprato dei regalini per i miei amici. Quando mi
vedeva rientrare in albergo dallo shopping (lui se ne stava sempre chiuso in alber-
go), mi diceva: “Giusé perché non me le rivendi queste cose che hai comprato? Io
non ho voglia di uscire… Ti prego, rivendimeli. Devo fare dei regali...”. Massimo
aveva una casa di produzione ed allora io avevo scritto un quaderno che avevo
chiamato “Quaderno sentimentale” all’interno del quale c’erano varie vicende che
raccontavano dei paradossi sulle situazioni sentimentali ed una di queste, molto
breve, era “L’ultimo desiderio di un condannato a nozze” ed a Massimo piacque
molto. Ma anche lui aveva in mente una commedia per cui, quando si trovò di fron-
te a questo progetto, un po’ snaturato, rimase disorientato. Massimo produsse il
film con la società che si chiamava “Esterno Mediterraneo”, sua e di Gaetano
Daniele che era il produttore vero e proprio. Dopo Chiedi la luna decisero di eser-
citare l’opzione che avevano su quella storia e io mi trovai a dover fare un film che
non avevo più molta voglia di fare. Lo spunto mi sembrava un po’ piccolo, penso
che soprattutto non assomigliasse a quello che ero io in quel momento. Tutti quel-
li che avevano amato Chiedi la luna rimasero spiazzati o delusi. Ricordo ci fu una
persona che mi disse: “Dopo aver visto Chiedi la luna ho lasciato mia moglie”, una
battuta come “Vorrei che mia moglie s’innamorasse di qualcun altro” sembrava
una frase detta all’orecchio di un amico. Mi ricordo che il primo giorno che uscì
Condannato a nozze c’era una lunghissima coda davanti al cinema in Via Cola di
Rienzo. Il film poi non era consolatorio, abbastanza sgradevole in alcune scene
anche se, lo ripeto c’erano cose interessanti…

IS: Era un film che aveva tanti spunti…


GP: Nel bene e nel male il film rivela sempre il profilo del suo autore, il suo
sguardo, ne conserva le impronte digitali. Io spero sempre che qualcuno dica, al
di là del giudizio su ogni singolo film: “È un film di Piccioni”, lo riconosci da
una battuta, da una cadenza, da un’accelerazione, da un modo di raccontare. Un
film è un’affermazione dell’espressione di sé però, per quello che racconta, non
è conclusivo di niente, non ha la pretesa di dire qualcosa di definitivo su un argo-
mento di pubblico dominio. Quando diventa un pamphlet, si aspetta dei seguaci
non degli spettatori. La cosa che mi annoia di più è girare i dettagli; il dettaglio

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di uno che spegne la luce o di qualcuno che si allaccia una scarpa. Lo sento come
un limite, qualcosa che mi annoia, una zavorra. Mi sembra che sia una parte di
lavoro che potrei lasciare a un assistente, un po’ come un chirurgo che dice:
“Ricuci tu”, una cosa del genere... Vorrei provare a fare un film che avesse più
fiducia nelle immagini ma sento che ho sempre un gran bisogno di parole; mi
piacciono i dialoghi e i volti...

IS: Ci fu chi paragonò per il suo piglio moralista Roberto a Michele Apicella di
Bianca, di morettina memoria…
GP: Diciamo che c’era qualcosa nell’ossessione moralistica di uno dei due per-
sonaggi sdoppiati che poteva richiamare Moretti o meglio certi suoi tic...

IS: Come mai hai mostrato Roberto come un personaggio cattivo, respingente..
GP: Sgradevole… Lo spunto da cui sono partito era una commedia poi il film è
diventato una cosa diversa anche per dimostrare, forse, che non ero mosso dalla
preoccupazione di piacere, che un mio film poteva anche non avere nulla del
tono garbato di Chiedi la luna.

IS: C’era un bellissimo cast… Sergio Rubini, Margherita Buy, Valeria Bruni
Tedeschi, Asia Argento…
GP: C’era anche Patrizia Piccinini che aveva appena fatto L’aria serena dell’o-
vest di Soldini. Ho trovato qualche critico eccentrico che ha rivalutato il film, che
lo trova interessante, però per me è sempre difficile parlarne. No, non lo rifarei
esattamente come l’ho fatto...

IS: La scelta di Valeria Bruni Tedeschi?


GP: I provini di Valeria erano molto più interessanti del lavoro fatto poi sul set.
Valeria mi colpì moltissimo. Lei ci teneva molto a fare questo film ed invece
Cecchi Gori non la voleva. Per convincerlo organizzammo un pranzo dove venne
anche Carla Bruni da Parigi. A questo pranzo però alla fine Cecchi Gori non
venne... Però riuscii a convincerlo.
IS: Asia Argento, giovanissima…
GP: Era una bambina, aveva diciassette anni tanto è vero che, non essendo mag-
giorenne, stava sul set con un persona che l’accompagnava. Asia era molto sim-
patica con dei comportamenti anche un po’ bizzarri. Leggeva tantissimo, parla-
vamo moltissimo di arte, di letteratura, di tutto. In questo film Asia divenne mag-
giorenne, era molto talentuosa, con una grandissima personalità, molto affettuo-
sa con tutti. Le cose più belle sono stati certi suoi abbandoni, come se in lei ci
fosse la certezza di essere amata dalla macchina da presa. Si vedeva subito che

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era nata per il cinema soprattutto in alcuni trasalimenti. Credo che in Asia, al di
fuori del cliché di ragazza maledetta, ci siano ancora molti aspetti del suo talen-
to da scoprire, meno prevedibili.

IS: Un film dove compaiono delle figure femminili molto diverse tra loro...
GP: C’era la donna destinata al matrimonio che era Margherita Buy e l’amante
che doveva essere Valeria Bruni Tedeschi. Poi c’è stato il tentativo di sfumare, di
allontanarsi da questa classificazione rigida... Il film è scorretto, programmatica-
mente sgradevole.

IS: Nel film inserisci la figura della psicoanalista che salva nel finale Roberto,
incapace, ormai, di controllare le proprie spinte autodistruttive…
GP: Il personaggio interpretato da Sergio esprimeva una richiesta alla psicoana-
lista: “Lei farebbe qualcosa per me?”. Lui non accetta i limiti del ruolo, vuole
che il limite venga superato, che l’analista intervenga davvero nella sua vita, fisi-
camente intendo… Credo sia comprensibilissimo; per un paziente in analisi è
sempre complicato accettare che la seduta finisca e che quel rapporto riprenda
solo con un nuovo appuntamento, una nuova seduta.

IS: Cuori al verde è il tuo film successivo... Partiamo innanzitutto dal perché
della scelta cromatica del colore verde nel titolo…
GP: Perché si trattava di sentimenti vissuti nella precarietà; c’è un intellettuale
disoccupato, una ragazza che non riesce a sbarcare il lunario e decide cinica-
mente di mettere da parte i sentimenti e di darsi alla cosiddetta “vita”.

IS: Con questo film ritorni ai toni leggeri...


GP: È un film che tenta di sopravvivere ai disastri di Condannato a nozze con un
tentativo di virare sulla commedia...

IS: Ti riagganci in un certo senso al clima di Chiedi la luna…


GP: Ci sono delle cose intelligenti nella scrittura ma meno nella messa in scena.
È forse il film più modesto da un punto di vista visivo, figurativo. Un piccolo
film sacrificato anche dal punto di vista della confezione. Però è vero, in me c’è
una vocazione alla commedia. Spesso l’ho frustrata o tenuta eccessivamente a
bada. Chi mi conosce per la prima volta pensa di trovarsi di fronte a una perso-
na pensosa con atteggiamenti seriosi e si stupisce di scoprire il lato divertente,
umoristico, leggero del mio carattere. Penso che prima o poi farò una commedia
dove il riso non abbia necessariamente un contrappeso malinconico. Il mio film
modello in questo senso è Clooney Brown (Tra le tue braccia) di Lubitsch.

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IS: In Cuori al verde la storia tiene, è frizzante, simpatica…


GP: È curioso, questo film ha vinto un premio al Festival internazionale del cine-
ma di commedia che si faceva in Francia all’Alpe d’Huez dove ha battuto dei
film americani, uno era con Whoopi Goldberg. Anche qui si parla, di manuali, di
filosofia, di idraulica, di Schopenhauer, della ricerca di qualche chiave per impa-
rare a vivere.

IS: Non mancano i riferimenti a Siddharta, a Karl Popper, al Maharrabata... E


poi c’è la frase stracult:“Heidegger chi cazzo è?”.
GP: Il film lo feci con una produzione che non mi permise di utilizzare quasi nes-
suno della troupe che avevo scelto. Il budget fu dimezzato, ridotto a cifre impro-
babili, il direttore della fotografia fu cambiato all’ultimo minuto e tutte le perso-
ne che avevo scelto non poterono lavorare perché le condizioni erano inaccetta-
bili. Ed allora feci questo film che aveva qualche pregio, nonostante fosse molto
debole dal punto di vista delle risorse...

IS: Un film molto fresco...


GP: Sì è vero...

IS: La scelta di Gene Gnocchi?


GP: Mi piaceva questa strana faccia un po’ di gomma, imbronciata, alla Walter
Matthau... Quando l’ho conosciuto e ci siamo incontrati, ebbi un’ottima impres-
sione. Sono un amico di Gene, siamo molto amici. Ogni tanto ci sentiamo, ci
incontriamo, spesso ci scambiamo pareri su un film o su un libro e ci troviamo
quasi sempre d’accordo. Credo che come attore comico avrebbe potuto fare qual-
cosa di significativo anche nel cinema. In realtà sono molto soddisfatto del suo
contributo al film…

IS: E quel tormentone “Ma ci sono le banche a Macerata?”...


GP: Fu una battuta tirata fuori da Gene. Mi ha anche messo un po’ in difficoltà;
io sono marchigiano, sembrava che ci fosse qualcosa di personale da parte mia,
ma era soltanto una battuta assurda, alla Gene.

IS: Che poi incalza e dice: “Parlare, parlare, discutere... Io non so cosa ci tro-
vate in tutto questo parlare. Io non ho opinioni. Va bene?”...
GP: L’opinionismo ossessivo, quello dei talk-show, ci costringe a considerare
appunto le opinioni, solo perché vengono espresse da un qualsiasi personaggio
che appare in tv. L’amore, la politica, la sessualità, questo voler ricondurre tutto
ad un’opinione, mi sembrava un piccolo vizio di questi anni. Una volta le rock

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star del Novecento erano i poeti, gli scrittori e qualche ballerina, qualche can-
tante, Caruso; le celebrità erano accompagnate da una qualità…

IS: Scarpati legge Il soccombente di Thomas Bernhard. Più che per l’affinità con
il romanzo fu scelto forse come richiamo per il titolo?
GP: Sì c’era l’effetto immediato a qualcosa di problematico. Era solo per l’a-
spetto più parodistico, immediato della situazione…

IS: C’erano poi un paio di cose irresistibili; Scarpati porta i suoi amici idrauli-
ci a veder L’elisir d’amore…
GP: Lui è un intellettuale e vuole portarli sul suo versante… Mi sembrava diver-
tente far entrare questi idraulici in un posto così improbabile per loro come un tea-
tro. Poi io avevo appena fatto un’esperienza di regia di un’opera lirica L’elisir d’a-
more e mi ero molto divertito al punto di utilizzare proprio quest’opera nel film.

IS: Perché fai dire a Gene Gnocchi: “Le donne si possono innamorare fino a 22,
23, 28 anni poi vogliono sapere se hai dei BOT o dei CCT”.
GP: Negli Anni Settanta c’era un gran rimescolamento delle classi sociali per cui
poteva succedere che un ragazzo di buona famiglia s’innamorasse di una ragaz-
za figlia di operai. O viceversa. Adesso invece i blocchi si sono ricomposti e più
la crisi sociale va avanti più si risente di questo. Le persone hanno paura del futu-
ro, sono tornati, in qualche modo, i matrimoni d’interesse, di convenienza e pur-
troppo, in molti casi, la donna è esposta più dell’uomo ai rischi che riguardano
l’aspetto materiale dell’esistenza. A volte la donna cerca questa sicurezza perché
si ritiene il soggetto più debole da un punto di vista contrattuale. Insomma c’è
sempre meno spazio per l’amore, quello vero, che non ha convenienza e che per
statuto è antieconomico e produce solo svantaggi. Nelle grandi storie d’amore,
quelle che vediamo al cinema, si lascia sempre una casa ricca, una condizione di
privilegio, pur di incontrare qualcuno per cui si è disposti a cambiare la propria
vita. Un po’ come avviene a Jeanne Moreau in Les Amants di Louis Malle.

IS: Coraggiosamente ed ironicamente mostri Margherita Buy che si prostituisce


con un leggerezza che non è tipica del cinema italiano...
GP: Non realistica. Non c’è un tono drammatico, e nemmeno l’intenzione di pro-
vocare, di creare turbamento. Il personaggio di Lucia era tratteggiato in maniera
felicemente superficiale ma nascondeva, anzi mal celava, una certa amarezza
molto diffusa, un sentimento di disincanto. Cuori al verde è un piccolo film con
dei bei dialoghi. Scritto con Gualtiero Rosella, con cui ho condiviso la sceneg-
giatura di Fuori dal Mondo e de La vita che vorrei. In Cuori al verde c’è un pic-

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cola citazione da Cornell Woolrich, calata in un contesto di commedia, quando lei


dice: “La città è cattiva, più sei giù, più sei in difficoltà e più ti salta addosso...”.
È tratta da un romanzo, forse più un racconto lungo, “Si parte alle sei”. È la storia
di due giovani che hanno esaurito la loro scorta di illusioni e che cercano, parten-
do dalle loro comuni origini, un possibile recupero dell’innocenza, della speranza,
vogliono ritrovare la strada verso casa. Scappano da questa città dopo aver vissuto
una notte tremenda. Più di una battuta è rubata a Woolrich. Come quella in cui lei
dice: “Solo gli stupidi lavorano…” Mi sembra che sia in Walz into Darkness cono-
sciuto in Italia per il film di Truffaut La mia droga si chiama Julie (La sirene du
Mississipi). E poi mi ricordo di Cuori la verde alcune cose che danno un’idea di
come, a volte, si possano risolvere certi problemi di scrittura. Per esempio, ad un
certo punto io e Gualtiero Rosella, ci siamo accorti che la seconda volta che
Scarpati usciva con Margherita Buy, non le aveva ancora chiesto che mestiere
facesse. Avremmo dovuto dare prima questa informazione ma non riuscivamo a
inserirla in maniera non didascalica, pretestuosa. Così abbiamo pensato di fare
tesoro di questo ritardo. Abbiamo mandato avanti la storia senza preoccuparci
molto e in una scena in cui i due stanno per congedarsi al termine di una lunga sera-
ta passata insieme, lei dice “A che pensi?”, “Niente - risponde lui - non ti ho nem-
meno chiesto che lavoro fai”. Il personaggio dichiara, verbalizza il problema degli
sceneggiatori, li rimprovera rimproverando se stesso e risolvendo il nostro proble-
ma in maniera non pigra, non didascalica. Infatti lei per evitare la risposta, non può
dirle che è una prostituta, lo bacia. Ecco un modo per usare i difetti della scrittura,
per metterli al servizio del film.

IS: C’era nel cast Gaia De Laurentiis...


GP: In quel periodo era la conduttrice di Target un programma televisivo che
allora andava per la maggiore. Lei era famosissima, una specie di icona di que-
gli anni. Cercammo di allontanarla dal personaggio televisivo. Le tingemmo i
capelli ed era molto contenta.

IS: E poi c’è la musica di Daniele Silvestri...


GP: Mi aveva colpito con quella strana canzone che arrivò ultima fra le nuove
proposte a Sanremo: si chiamava L’uomo col megafono. L’ho conosciuto. È stato
uno delle mie prime deviazioni dall’idea di una colonna sonora in senso conven-
zionale. Daniele fece diversi pezzi per il film e mi è capitato di avere la fortuna
di essere vicino a lui mentre componeva. C’era un pezzo che aveva dei continui
riferimenti alle viti, alle chiavi inglesi... Nel film si mescolavano il manuale di
idraulica e la filosofia. È stato divertente lavorare con lui. Un grandissimo talen-
to, la sua carriera lo dimostra.

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IS: In questo film citi Cuore matto e ne Il grande Blek, Il ragazzo con il ciuffo.
Little Tony è uno dei tuoi cantanti preferiti?
GP: Sì, è vero. Ci siamo divertiti a girare la scena di Scarpati che doveva canta-
re Cuore Matto… È una citazione affettuosa ovviamente. La musica che ascol-
tavo era altra, Beatles prima di tutto e poi tutto il rock degli anni Settanta:
Hendrix, Rolling Stones, King Crimson, primi Genesis (quelli con Peter
Gabriel), Traffic, Zappa e tanti, tantissimi altri...

IS: Il tuo film successivo è il vibrante, poetico e commovente Fuori dal mondo, il
tuo film “d’esordio”...
GP: Fuori dal mondo coincide con un periodo abbastanza strano anche persona-
le, perché avevo la sensazione che non stessi andando da nessuna parte. Provavo
un sentimento di generale scontentezza verso me stesso, non solo per quello che
riguardava la mia professione. Ricordo che in quel periodo vissi la fine di un rap-
porto d’amore che era stato importantissimo e, subito dopo, ci fu un periodo
abbastanza oscuro nel quale ero stanco di avere a che fare con i produttori, di
dover faticare così tanto per delle cose che non erano mai del tutto soddisfacen-
ti. C’era una componente di casualità nella mia carriera, anche nei momenti posi-
tivi come con Chiedi la luna... Precipitai in uno stato di crisi profonda. Forse
tutto questo in qualche modo ha favorito la nascita di Fuori dal mondo (mi rife-
risco alle paure del personaggio di Silvio Orlando, a quello di Marina
Massironi...). Un giorno ero a Venezia, avevo già deciso di non fare più film con
nessuno dei produttori allora in circolazione, ero deluso dal lavoro e dagli esiti
dei miei ultimi film. Parlai con Lionello Cerri che avevo già incontrato in altre
occasioni. Lui faceva l’esercente, aveva il Cinema Anteo, una di quelle sale cine-
matografiche che hanno fatto storia a Milano. Ci incontravamo ogni tanto al
festival di Venezia, c’era una discreta sintonia tra noi e anche una buona dose di
allegria nelle nostre chiacchierate. Gli dissi: “Perché non ti metti a fare il pro-
duttore e fai il mio prossimo film?”. E Lionello fu conquistato da quest’idea, da
questo mio desiderio di coinvolgerlo. Avrebbe fatto comunque il produttore, gli
ho chiesto solo di bruciare un po’ i tempi.

IS: Senza sapere nulla del film?


GP: No, perché non avevamo ancora parlato di niente. Lui mi chiese di propor-
gli due o tre idee. Una di queste, appena accennata, era quella di raccontare la
storia di una suora. Lui sapeva che non ero credente e che il mio sarebbe stato
uno sguardo tutto da capire e da decifrare. Quando fai un film devi fare delle
scelte, fin dall’inizio, e cercare di arrivare alla fine del film con il minor numero
di rimpianti possibili. La prima scelta che feci fu quella di raccontare una suora

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senza fare né Sister Act, né la storia di una suora pia e devota, né quella tra-
sgressiva, all’Almodovar, per intenderci. Ero davvero affascinato da un perso-
naggio di questo tipo perché le nostre scelte hanno sempre più a che fare con il
provvisorio, non sono più legate alla categoria dell’eternità, del “per sempre” ma
del “qui ed ora”, o che al massimo che può valere solo per un po’ di tempo. Mi
sembrava che invece la scelta di Caterina fosse anacronistica, in controtendenza.
Una suora che vive un’ultima occasione prima di prendere i voti perpetui. E poi
a volte, semplicemente, tutto congiura per farti fare un film, quel film...

IS: Perché dici congiura e non contribuisce?


GP: Congiura... Perché ero capitato da un barbiere che stava dalle parti di Corso
Francia, un posto fuori zona, molto lontano dalla casa dove vivo o dai luoghi che
frequentavo abitualmente, non so come ci sono capitato… Avevo un po’ di tempo
ed ho detto: “Va beh, mi vado a tagliare i capelli...”. In questo negozio di bar-
biere c’era un giornalino di quartiere che riportava un’intervista ad una suora alla
quale domandavano: “Lei ha fatto una scelta di rinunzia. Sente la mancanza di
qualcosa?” e lei: “Sì, la mancanza di un abbraccio”. Parlava di un abbraccio fisi-
co. Mi sembrava coraggioso che una suora dicesse queste cose... Chissà perché
mi venne in mente l’idea di fare un film su una suora. Una suora di per sé è fuori
dalla possibilità di vivere la maternità, dalla sfera della sessualità, del desiderio,
dal contatto fisico con un uomo. Caterina parte da una vocazione universale e
generica e per questo anche un po’ astratta, ideologica… E poi incontra un uomo
concreto, un neonato concreto e cerca e trova un abbraccio fisico, vero come
quello che c’è nel finale. Era un film pieno di insidie, di trabocchetti, di con-
troindicazioni. Poi sai meglio di me che nel cinema ci sono molte superstizioni.
E quando tu dici “voglio fare un film su una suora”...

IS: Silvio Orlando scherzando, mi disse che era da folli aver pensato a fare un
film su un personaggio come quello di una suora, dal momento che le suore non
vanno mai al cinema...
GP: Non solo… Nel cinema c’è questa superstizione che le suore portano sfor-
tuna… Era davvero la cruna dell’ago. Tutti ci sconsigliavano così come sembra-
va facilmente prevedibile un esito non proprio lusinghiero dal punto di vista
degli incassi. E poi Lionello fu abbastanza incosciente perché io non avrei insi-
stito troppo se lui non avesse detto: “Bello… È una bella idea, facciamola…”.
Non so come lui abbia avuto questa pazza idea di incoraggiarmi in questa scelta
e di questo gli sarò sempre grato, anche perché un giorno, in maniera diretta ed
immediata, mi disse che aveva sempre avuto la sensazione che avessi una sensi-
bilità, un mondo, uno sguardo sulle cose più forte, più ricco e personale di quel-

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lo che esprimevano i miei film fino ad allora. Questo film nasce quindi insieme
al sodalizio con Lionello e nasce anche con la mia intuizione di vedere Lionello
come possibile produttore, compagno in questa avventura. Incomincio a scrive-
re qualcosa ed andiamo a parlare con Beppe Cereda che era il capostruttura di
Rai 1, la stessa persona che, quando andai da lui con Domenico Procacci, com-
prò Il grande Blek, senza che avessimo alcuna conoscenza o amicizia, senza
insomma essere stati segnalati da qualcuno. Cereda disse di sì al progetto senza
nemmeno leggere niente. E quindi le persone per me importanti, dal punto di
vista professionale, sono quattro, fino a quel momento. Renzo Rossellini, che mi
aveva dato la possibilità di frequentare una scuola di cinema e che mise il suo
tempo e la sua intelligenza a disposizione di un gruppo di ragazzi che difficil-
mente sarebbero riusciti ad emergere senza quell’esperienza. Poi Procacci,
Cereda e Lionello Cerri.

IS: Non temevi le eventuali critiche del mondo cattolico?


GP: Abbiamo avuto anche, senza cercarla, un’accoglienza più che indulgente da
parte di moltissimi cattolici e perfino da alcune autorevoli figure della gerarchia
ecclesiastica, tanto è vero che il film fu fatto vedere al cardinale Martini che ci
ospitò in un convegno con dei giovani. Ne ebbe un’impressione molto positiva.
Il modo in cui era raccontata la scelta di Caterina, i suoi dubbi e i suoi slanci era
abbastanza originale, non ideologico. Mi ricordo che nella sceneggiatura c’era
una scena in cui alcune novizie prendevano i voti e così mi trovai nella necessità
di vedere con i miei occhi una di quelle cerimonie. In un sopralluogo, riuscimmo
ad andare in una chiesa a Bergamo, con la telecamera ripresi tutta la scena e, pur
non essendo credente, mi sentii molto coinvolto emotivamente. La suggestione
era fortissima, c’erano i genitori che piangevano perché perdevano le figlie, c’e-
rano questi canti, c’era nell’aria un sentimento fortissimo, struggente… Ed insie-
me a questo scoprii molte cose diverse da quelle che mi aspettavo… Guido, lo
scrittore di Giulia non esce la sera, quando gli domandano: “Cosa pensi quando
stai scrivendo un libro?” risponde “... cerco di capire che libro sto scrivendo”. È
la stessa cosa per un film, quando fai un film, mentre lo fai, cerchi di capire che
film stai facendo, perché fare un film è anche un atto di conoscenza. Nei sopral-
luoghi ho conosciuto una vera Madre Superiora che non aveva nulla della donna
che immaginavo di incontrare. C’era anche chi ti chiudeva le porte del convento
ma, in molti casi, abbiamo incontrato delle suore straordinarie. Ad una chiesi:
“Ancora vi tagliate i capelli?” e lei si tolse il velo, srotolando una treccia che
arrivava fino ai piedi. La femminilità non era cancellata in queste suore, con
alcune sono quasi diventato amico, mi sono state molto vicine al momento delle
riprese e se avevo un dubbio chiedevo a loro. Mi sembrava che fossero contente

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di essere prese sul serio soprattutto come donne, non avevano paura di sentirsi
usate, si fidavano di me, non temevano che la loro scelta venisse spettacolariz-
zata. Non potevo tradire la loro fiducia.

IS: Nel film Giuliana Lojodice, che interpreta la madre di Caterina, critica la
scelta della figlia di volersi fare suora. Tu, invece, ti mantieni equidistante, non
formuli nessun giudizio...
GP: Nel finale anch’io avrei voluto che Caterina tornasse in convento ma mi
sono imposto di rispettare il personaggio.

IS: E soprattutto hai evitato che il film terminasse con Margherita Buy che s’in-
namora di Silvio… Anche la scena dell’abbraccio tra loro, una delle più toccanti
del film, l’hai limata alla perfezione.
GP: In quella scena Margherita cammina su un prato, dopo aver visto i genitori
adottivi del neonato. Si sente sconfitta perché sa che non sarà mai la madre del
bambino ed allora lì è l’unico momento che, con Luca Bigazzi, abbiamo deciso
di usare la macchina a mano. Perché suggeriva quest’idea di squilibrio interiore,
di una donna che cerca un punto di appoggio che non trova e, l’unica cosa soli-
da che può rappresentare un punto di riferimento sicuro in quel momento è
Ernesto, il personaggio che ha condiviso con lei quella ricerca, quel breve tratto
di esistenza. La mdp si sposta e c’è questa presenza che occupa la parte vuota
dell’inquadratura. Man mano che lei si sposta, lui sta lì, un po’ dietro, lei poi
s’appoggia ad un albero e lui sta ancora lì, poi Caterina si sposta in avanti di fron-
te alla mdp e lui s’avvicina e c’è l’abbraccio.

IS: Ti serviva una scena più traballante…


GP: Sì, è una preoccupazione che ho sempre. Ad esempio, quando due si bacia-
no, vorrei che fosse il punto di arrivo di un movimento coreografico, anche se la
coreografia può essere piccola, povera, essenziale. Bisogna rendere necessario
quel bacio, non basta che i due parlino, si guardino negli occhi per poi baciarsi.
Trovo che sia estremamente pigro questo approccio. Avendo affidato a quella
scena il massimo dell’emozione, ho pensato che nella scena successiva, nel fina-
le vero e proprio, in quello che è il loro commiato definitivo, i due protagonisti
non dovessero nemmeno sfiorarsi. Quindi nessun abbraccio, nessun saluto, nes-
sun momento dichiaratamente toccante. La mancanza di un gesto, di una mano
che viene stretta, di un abbraccio viene vissuto dallo spettatore con un’intensità
ancora maggiore.
Anche in La vita che vorrei poi c’è questo strano gioco: Lui sta per andarsene e
dice: “Ci vediamo dopo” e la bacia, “Sicuro che stai bene?”, “Si, allora io vado”,

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“Si, vai”. I loro movimenti, i gesti, gli sguardi, contraddicono tutto quello che
dicono a parole. Come dice Truffaut: “Il cinema è un battello che non chiede che
di affondare” e tu devi sempre farlo stare a galla.

IS: Hai più usato in altri film la ripresa con la macchina a mano?
GP: A pensarci penso di averla usata soltanto ne Il grande Blek, nella scena di
una rissa, ma era una scelta funzionale e nient’altro. La macchina a mano ha ces-
sato di essere l’impronta personale di un regista, uno stile espressivo, a volte
rischia di diventare anche calligrafica, convenzionale. Ho usato pochissime volte
il dolly. Ne La vita che vorrei ho usato lo sky-king in una scena dove si vede il
teatro di posa dall’alto. La mdp scende e supera le pareti finte, entrando in un
grande salone dove si sta girando un film in costume e, in particolare la scena di
un valzer. Forse ne Il grande Blek c’erano più errori ma anche più generosità nel-
l’uso della mdp, più slancio.

IS: Parlavi prima del “finalissimo”… Con questo termine cosa intendi?
GP: Ho sempre la sensazione che ci sia un patto tacito con gli spettatori. Il finalis-
simo lo prenderei come una cosa non così importante, forse importante per le inten-
zioni ma che non può essere considerato compromissorio dell’opera, per me.

IS: Fuori dal mondo è un film pulsante, una cascata di emozioni continue. Forse
la scena più bella del film è quando Caterina va in ospedale, prende il bambino
dal nido, esce per strada, fa qualche passo, si rende conto di quello che sta
facendo e, senza dire una parola, ritorna sui propri passi e riporta il bambino
nel nido…
GP: Hai scelto una scena che è emblematica del grado di partecipazione inusua-
le che abbiamo avuto tutti in quel film. Quella scena, tra l’altro, venne girata in
mezzo al traffico, nel caos più totale. Nacque da una chiacchierata fatta con
Margherita e non era nella sceneggiatura. “Mi è venuta in mente una cosa, una
cretinata…”. Io dico: “Cosa?”. “Ho pensato che sarebbe bello se lei portasse via
il bambino”. Ed allora io le dico: “Bella cretinata...” però poi ho cominciato a
pensare a questa cosa: “E’ bello che lei porti via il bambino… ma poi diventa un
altro film”. Ne ho parlato con Lucia e Gualtiero, gli sceneggiatori Rosella e Zei,
collaboratori fondamentali, preziosi. Con Gualtiero Rosella ho scritto tre film:
Cuori al verde, Fuori dal mondo e La vita che vorrei. “Diventa un altro film? E
allora facciamo tesoro di questa considerazione; diamo all’inquietudine di
Margherita quella che è una preoccupazione degli sceneggiatori”. Nello stesso
tempo Suor Caterina fa sua la domanda che ci siamo posti noi. Si accorge, con il
bambino tra le braccia, che sta uscendo dal film. Sembra chiedersi: “Dove vado

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a parare con questo bambino? e quindi, semplicemente, lo riporta, decide di


rientrare nel film.

IS: Quella scena dà l’idea di un urlo sommerso e soffocato di Margherita, che


non può, come vorrebbe, tenere quel bambino stretto al suo fianco…
GP: Ed invece è quasi catatonica…

IS: È tutta implosa…


GP: Nelle prove Margherita mi chiese addirittura di fare io la scena; e io mi sono
messo lì con un bambolotto in braccio a suggerire questa espressione un po’
assente nello sguardo, di chi è altrove, certo con i miei modesti mezzi di non atto-
re. Però Margherita è così, voleva capire, prendere uno spunto. Margherita non è
un’attrice che segue il cosiddetto “metodo”, non cerca l’immedesimazione; si
affida al copione e a quello che accade in scena, tutto al contrario di Sandra
Ceccarelli che per Luce dei miei occhi decise di andare a lavorare per qualche
giorno in un negozio di surgelati perché ha bisogno di capire come funzionano
veramente le cose e di trovare in quell’esperienza gli spunti per cercare una sua
verità. Stavolta Margherita decise di andare in un convento in Toscana e stette lì
per qualche giorno a guardare le suore, come si muovevano, il loro modo di cam-
minare, di relazionarsi agli altri, tante piccole cose che furono per lei preziose.
Ci sono tante cose in Fuori dal mondo… Uno degli episodi più divertenti è stato
quando eravamo ancora molto lontani della preparazione e con Carolina Olcese,
che era la costumista, dovevamo decidere che costumi avrebbe dovuto avere que-
sta suora. Nero, bianco, bianco e nero, grigio... Allora io le dissi: “Cominciamo
ad avvantaggiarci, fai un’incetta di vestiti da suora” e andiamo a trovare
Margherita che era all’Argentario in vacanza. Margherita naturalmente era
abbronzata… Cominciamo a provare questi vestiti ed a un certo punto ci siamo
messi le mani nei capelli. Ho pensato: “quando Margherita comparirà sullo
schermo ci sarà una grande risata, sarà un fallimento totale...”. Poi invece, in
quella giornata, in un’occasione così improbabile, abbiamo cominciato a capire
qualcosa a proposito dell’abito che avremmo scelto… Finché il film è sulla carta,
puoi aver scritto il più grande capolavoro, ma poi il personaggio che hai scritto
deve assumere le sembianze di un attore, di un’attrice, il suo volto, le sue espres-
sioni, i suoi gesti... Caterina finisce per essere, con l’aiuto del lavoro di tutti, un
personaggio con una sua verità, a cui siamo disposti a credere.
Il suo modo di recitare è stato più asciutto che in altri film. Margherita, tra l’al-
tro, veniva da un periodo abbastanza opaco, aveva fatto un film non indimenti-
cabile che era Facciamo Paradiso di Monicelli, era in uno di quei momenti che
attraversano tutti, anche i grandi attori. Con lei avevo già fatto Cuori al verde,

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Condannato a nozze e Chiedi la luna… Il produttore all’inizio era un po’ preoc-


cupato, non era molto convinto dell’idea che io facessi un altro film con la Buy.
Una sera la incontrammo in un ristorante a Trastevere e gliela presentai. Lui ne
rimase incantato, conquistato; insomma non ebbe più dubbi. Devo molto a
Margherita. E poi non so spiegarti bene ma lei ha un dono, anche quando sem-
bra sul punto di cadere, quando si sente inadeguata, impreparata, anche in quei
momenti, ti accorgi che qualcosa la protegge sempre. Il suo talento, la grazia
sono i suoi angeli custodi. Penso che invecchiando, diventerà ancora più brava.

IS: Margherita Buy è fantastica ed il suo personaggio è convincente perché è


quello di una suora con il cuore aperto verso il mondo.
GP: È strano, il suo personaggio sembrava possedere una certa solidità nel carat-
tere ma anche certe fragilità di donna. Tutti noi sapevamo che stavamo facendo
una scelta difficile, avevamo un po’ di apprensione. Sapevamo che la storia di
una suora non aveva tutto questo appeal. Poi se uno guarda alla sinossi di questa
storia, nel suo nucleo più essenziale, può sembrare quella di una banale fiction
televisiva; una suora trova un neonato abbandonato, cerca la madre, incontra...
Invece poi tutto il lavoro di scrittura era dentro la storia, ogni scena ci imponeva
di superare le insidie e i trabocchetti, di aggirare le ovvietà, di schivarle, come
quando Silvio Orlando chiede: “Lei ha mai pregato veramente?” e lei racconta di
averlo fatto da piccola per un’amica che si era ammalata: “Beh, insomma allora
io ho pregato che lei non guarisse più”...

IS: In un film, ricco di pudore e candore, la storia della violenza sessuale di cui
è oggetto Teresa da parte del patrigno mi è sembrato un voler fornire una spie-
gazione assolutoria del perché Teresa si liberi del bambino…
GP: È curioso perché non ci ho pensato mai però adesso hanno venduto i diritti
di remake e non so cosa faranno gli americani. Ci sono voci che danno per certo
il film. Mi preoccupo perché, per un niente, il film può diventare banale, può per-
dere la sua forza. Voglio fare un esempio; io e gli sceneggiatori avevamo molto
insistito perché la ragazzina non riprendesse il bambino, mi sembrava una scelta
meno consolatoria… Ed invece so che in una delle stesure provvisorie della sce-
neggiatura americana si cercava di indorare un po’ la pillola e di fare in modo che
il personaggio di Teresa avesse una specie di pentimento. Mi rendo conto che
qualsiasi scelta può essere discutibile ma non trovo forzato quell’elemento della
storia. La ragione di quella scelta è che tutte le famiglie che racconto non hanno
nulla di edificante, mentre questa strana famiglia che si forma nel corso della sto-
ria, composta da una suora, un lavandaio ed un neonato abbandonato, una fami-
glia che non ha nessun diritto di esistere come tale, dimostra di essere più credi-

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bile, di poter avere in modo del tutto transitorio, occasionale, l’occasione per
essere una vera famiglia.

IS: Una delle scene che amo di più è quando Silvio Orlando chiede a Margherita
Buy: “Perché non hai fatto la cantante?”. Era una battuta di Silvio?
GP: Non me lo ricordo, potrebbe essere. Mi viene in mente un’altra scena molto
interessante. Quando Silvio chiede a Margherita. “Vabbè, ammettiamo che Dio
esista, ma perché tutte queste preghiere in ginocchio, perché amare in questo
modo così esagerato”. Lei dice: “Perché l’amore è esagerato. Lei ha mai amato
qualcuno senza essere esagerato?”. È una specie di verità. È interessante il modo
in cui abbiamo scelto di scrivere certi dialoghi in Fuori del mondo. Le parole che
abbiamo scelto sono usate non per raccontare semplicemente una suora ma per
raccontare Caterina. Quando si scrive la cosa difficile è trovare un personaggio;
non una suora ma quella suora, non un professore ma quel professore. Il perso-
naggio non deve essere definito come funzione ma come presenza viva.

IS: Al di là della ricchezza della sceneggiatura, il film funziona anche perché c’è
un Silvio Orlando, in stato di grazia, che interpreta un personaggio tenero, fra-
gile, disarmante.
GP: Silvio Orlando è un personaggio che sta ai margini della vita, la vede scorrere
davanti a sé, ne è escluso… C’era una scena che ho tagliato dove lui andava con le
pastarelle, la domenica, a casa di un amico sposato, lo stesso amico a cui chiede “Ma
che fate la domenica?”, come se avesse una curiosità antropologica nei confronti di
una specie sconosciuta… La cosa bella è stata cercarlo, trovarlo fisicamente…

IS: Per come è pettinato, per come è vestito… Perfetto.


GP: Dargli insieme ai limiti anche una sua espressività fisica. E poi gli occhia-
li... Era stata una specie di scommessa con lui. “E lo sai - mi diceva Silvio - ogni
volta faccio un film qualcuno prova a dire: “Mettiamogli gli occhiali, poi alla
fine non se ne fa niente…”. Io non riuscivo a trovare degli occhiali che mi pia-
cessero e così siamo arrivati all’ultimo giorno, la mattina dopo avremmo dovuto
girare. Mi accorgo che dall’altra parte della strada del nostro ufficio di produ-
zione c’era un negozio di ottico e, in un ultimo disperato tentativo, vedo nella
vetrina questo paio di occhiali demodé, assurdi, bellissimi. Li prendo, torno
indietro, glieli metto. Erano perfetti: “Ecco, li abbiamo trovati”. È stata una bella
fortuna. Prima di scegliere lui, così come è avvenuto per Margherita, ho fatto
qualche incontro, così... Però con Margherita abbiamo fatto una lettura che è
andata subito bene… Prima di Silvio avevo pensato ad un personaggio più viri-
le, più affascinante, più uomo, con delle chance di seduzione più evidenti, un po’

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come sono Deborah Kerr e Robert Mitchum ne L’anima e la carne... Invece


Silvio ha dato una grande eleganza al film perché quella contrapposizione era un
po’scontata, forse Silvio, porta insieme al suo mestiere, una particolare malinco-
nia, la leggerezza, sfumature, quei piccoli impercettibili cambiamenti che ha il
personaggio, come la scoperta della passione per la cioccolata… Credo che lui
meritasse quanto Margherita di ottenere il David di Donatello come migliore inter-
pretazione, poi quell’anno vinse Stefano Accorsi con Radio Freccia... Lui non si
rendeva molto conto di quello che stava facendo e, solo quando vide il film, si com-
mosse. Quella sera fu una festa al David, il film ebbe la meglio su Tornatore con
La leggenda del pianista sull’oceano e su Bertolucci con L’assedio. C’era una
terna molto competitiva. Ma la nostra allegria venne un po’ compromessa da que-
sto mancato successo di Silvio. Poi credo che una buona parte del successo di quel
film dipese dal lavoro di montaggio di Esmeralda Calabria. Il suo contributo fu
decisivo. Molte delle sue scelte, il suo lavoro sul suono, furono determinanti, non
solo per il ritmo ma anche per alcune svolte del racconto.

IS: Eppure Silvio in un’intervista che mi rilasciò mi disse che aveva inizialmen-
te rifiutato di interpretare il film, perché a suo dire, il suo ruolo era troppo mar-
ginale e che aveva poi accettato per affetto nei confronti di Margherita…
GP: Mi ricordo che Silvio era timoroso dell’idea che il film fosse tutto su
Margherita e che lui avesse una funzione un po’ ausiliaria. Poi quando vide il
film fu molto contento e soddisfatto e mi disse che probabilmente era la cosa
migliore che avesse fatto. Era come se gli sfuggisse il senso di quello che stava
facendo, come se si trovasse di fronte ad un film che non s’aspettava…

IS: Che rapporto hai con gli attori? Sei il regista con la frusta o un regista che
dialoga con loro?
GP: Devo dire che capita qualche volta che io chieda agli attori di fare, senza
spiegare, e qualche volta devo arrampicarmi sugli specchi per spiegare qualcosa
che è semplicemente un’intuizione, qualcosa di cui sono certo ma che è affidato
a una sorta di fiducia illimitata per il cinema che è fondamentalmente un’arte del-
l’esteriorità. Così mi sono trovato a dire: “Entra, guarda un attimo in alto e poi
dì la tua battuta” oppure “Fai questo gesto...” e di trovarmi di fronte l’espres-
sione insoddisfatta, incredula dell’attore. Quasi sempre poi la mia intuizione era
confermata dall’esito sullo schermo. Questa cosa mi è capitato una volta che
chiesi a Sandra Ceccarelli di sorridere mentre faceva una telefonata, e lei non
capiva perché. Aveva ragione, ma vedendo il film, capii che quel sorriso aveva
un senso preciso, anche se non ne aveva avuto completa consapevolezza. Mi
piace molto questo aspetto del cinema.

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IS: È quel cogliere inconsapevolmente qualcosa che non lo sai ma che sul gran-
de schermo funzionerà?
GP: Se vedi ad esempio certe scene amorose di Greta Garbo o di Ingrid
Bergman... Beh, quando si trovano a tu per tu con un uomo, l’uomo di cui sono
innamorate, lo esplorano con lo sguardo. Non c’è uno sguardo lineare, dritto
negli occhi del partner. Dell’uomo che hanno davanti guardano il naso, le labbra,
il mento, gli occhi, la fronte e c’è qualcosa di cui tu non ti rendi conto ma che dà
alla scena una fortissima intimità, una connotazione di sensualità molto intensa.

IS: In Fuori dal mondo c’è quel monologo bellissimo quando lui dice “Certe
volte mi capita di viaggiare per lavoro e non appena entro in una camera d’al-
bergo, sa qual è il mio primo pensiero? A chi telefono? A chi dico che sono arri-
vato, che il viaggio è andato bene? Chi è che mi aspetta quando torno a casa?”.
GP: Quello è un esempio che ogni volta che mi capita di parlare con dei ragazzi
di sceneggiatura dico sempre: Non dite mai: “Mi sento solo”, arrivateci in qual-
che modo. Ditelo in una maniera interessante.

IS: Credo che la chiave di volta del film sia giocata tutto sull’incontro di due
solitudini, quella della suora e di Ernesto e sulla speranza che accada qualcosa
sulla vita di qualcuno.
GP: Io so che la sceneggiatura del film è stata anche oggetto di studio in un’uni-
versità americana perché era considerata un modello di sceneggiatura, originale
e classico nello stesso tempo. L’idea della suora che sta per prendere i voti per-
petui, l’incontro di due solitudini, la possibilità di un’altra vita…Tanto è vero che
abbiamo venduto i diritti di remake con molta facilità. Fuori dal mondo vinse
due festival, uno a Los Angeles, dove c’erano ottanta film in concorso, vinse il
premio come miglior film e quello del pubblico, poi un premio a Chicago, uno a
Montreal dove in giuria c’era anche Mario Monicelli. Insomma fu venduto in
tutto il mondo. Anche in Iran, me lo disse Kiarostami che aveva visto il film pro-
grammato in un cinema.

IS: Ogni tanto spezzetti il film, in maniera insolita, con quei personaggi in posa.
GP: È una cosa su cui ho insistito molto per spezzare, appunto, la linearità della
narrazione e poi mi interessava questa cosa che era stato lo spunto che mi aveva
spinto a raccontare la storia di una suora. Nel film ci sono molto spesso questi
quadri, che sono un po’ delle foto animate perché non sono dei veri e propri
fermo fotogramma e dove i personaggi sono colti in un momento che è al di fuori
della loro rappresentazione sociale, come se individuassimo una grazia che
appartiene a tutti, al di là delle uniformi che indossano, dei ruoli nella loro vita

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quotidiana. Quest’immagine ritorna alla fine dove sembra quasi che i personag-
gi che abbiamo raccontato, suore, lavandaie, poliziotti, personale sanitario pos-
sano ripresentarsi di nuovo con un’armonia raggiunta tra quello che sono e come
sono rappresentati. Tanto è vero che il film non finisce con i due personaggi che
fuggono, non abbandonano ma scelgono di nuovo quello che avevano lasciato
alle spalle, come se Silvio tornasse con maggiore consapevolezza alla sua lavan-
deria e anche Margherita mi sembra che passi da un atteggiamento astratto, da un
generico furore idealista rispetto alla sua scelta di diventare suora ad una con-
cretezza particolare. Tutto questo grazie all’incontro con un uomo e con un neo-
nato. In altre parole nessun personaggio del film, alla fine, è più come prima.

IS: Accennavi alle divise, alle uniformi che rimandano sempre a qualcosa di rigi-
do da rispettare…
GP: Ad un certo punto mi sono reso conto che c’era anche dell’altro nel film che
aveva a che fare con dei rituali, con delle vestizioni; la ragazza che viene presa
in gelateria, a cui vengono impartite delle regole, così come le regole del con-
vento, della lavanderia...

IS: Per un regista americano il climax del film sarebbe stato il tanto atteso
incontro tra Caterina e Teresa. Tu, invece, in qualche modo, lo lasci quasi sullo
sfondo…
GP: Mi sembra fosse stato risolto efficacemente con quel grado di ellissi che era
inevitabile. Non si poteva andare oltre, qualsiasi parola in più sarebbe stata trop-
po definitiva. Quell’incontro non doveva essere risolutivo di nulla. Mi piaceva
anche che questo percorso fosse quasi frustrante, non portasse a nulla e diciamo
che quella scena vive soprattutto per quello che accade subito dopo, non è il
cuore della vicenda.

IS: Tra i personaggi di contorno mi piaceva molto quello interpretato da Marina


Massironi, una donna sola che lascia ovunque il proprio numero di telefono
nella speranza che qualcuno la chiami…
GP: Lei e Silvio, tutti e due con il Lexotan… Fu anche quella una scelta felice,
prendere un’attrice comica che aveva fatto solo i film con Aldo, Giovanni e
Giacomo ed invece Marina, nelle poche occasioni che ha avuto nel mio film, si
rivela un’attrice vera… Lei era sempre molto pronta, preparata nelle scene.

IS: Ti aspettavi la candidatura per l’Italia all’Oscar come miglior film straniero?
GP: Diciamo che ci contavo perché avevo vinto il David ma non sapevo neanche
attraverso quali meccanismi si designava il film italiano per l’Oscar…

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IS: Perché secondo te non entrò in cinquina?


GP: Per un difetto di risorse, avremmo dovuto fare una promozione con un inve-
stimento maggiore, con più tempo. Noi invece facemmo un giro, una vacanza,
una settimana dove facemmo vedere il film a qualcuno. Lo vinse quell’anno
Almodovar con Tutto su mia madre… Tra l’altro Almodovar che aveva fatto quel
film sulle suore… L’indiscreto fascino del peccato… Almodovar poi incontrò
Margherita Buy e le disse: “Ho visto un film bellissimo con te che facevi la
suora”. Una piccola gratificazione, di un artista che riconosce la verità di uno
sguardo, di un mondo anche se molto diverso dal suo...

IS: Fuori dal mondo è andato nelle sale americane?


GP: È uscito in sala, con una piccola distribuzione ed il paradosso è che adesso
trovi con molta facilità il Dvd in America e non lo trovi da noi. Sono usciti anche
Luce dei miei occhi e Giulia non esce la sera, in Dvd. In Italia Fuori dal mondo
non c’è in televisione, né in dvd anche se ho appena saputo che Teodora, la
società di distribuzione del mio ultimo film Il Rosso e il Blu, lo farà rieditare per
l’home video.

IS: Come mai il tuo film, che non possiamo definire un film romantico, vinse il
premio del pubblico al “Mons International festival of love films”?
GP: Non mi ricordavo che avesse vinto questo premio, forse perché non andai a
quel festival... Ma sei sicuro?

IS: Cosa sarebbe stato Fuori dal mondo senza le musiche di Ludovico Einaudi?
GP: Una scoperta anche quella. Ludovico era già conosciuto perché c’era un suo
pezzo in Aprile di Nanni Moretti. Ho parlato con Ludovico ed appena ho sentito
i suoi Cd subito mi sono convinto che poteva essere lui. È difficile pensare il film
senza le musiche di Ludovico, forse avremmo potuto fare più film insieme per-
ché c’è una felice sintonia tra le immagini e la sua musica. E poi siamo davvero
amici, ci divertiamo molto le poche volte che passiamo del tempo insieme. Noi
utilizzammo una parte della musica già edita e una parte creata appositamente. A
Ludovico chiesi che scrivesse già durante la sceneggiatura, non solo a film fini-
to. Non essendo un vero compositore per il cinema, non volevo che lavorasse
sulle misure, sui tempi della scena.

IS: Prima di parlare del tuo prossimo film vorrei che spendessi due parole su
Non ho tempo, girato nel 2000 dove hai diretto Margherita Buy.
GP: Era un curioso divertissement prodotto da Lega Ambiente, è quasi una bar-
zelletta, girata in video, divertente dove faccio l’attore e siamo io e Margherita,

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fatto con due lire, ma raccontava di un regista che incontra la sua attrice e non sa
come fare questo spot per Lega Ambiente.

IS: Ne Il grande Blek c’erano i fumetti, in Luce dei miei occhi, il tuo film suc-
cessivo, salti alla fantascienza...
GP: Esatto… In Cuori al verde e ne La vita che vorrei c’è invece il melodramma.

IS: Ne Il grande Blek l’eroe dei fumetti lo metti sullo sfondo, In Luce dei miei
occhi, Morgan il protagonista del racconto di fantascienza, è molto più presente.
GP: Ho sempre avuto bisogno di un doppio codice. È strano… In Chiedi la luna,
l’oroscopo, in Fuori del mondo c’era un discorso sulle regole conventuali, sulle
regole della lavanderia, sulle divise.

IS: In questo film ritornano le auto di rappresentanza che comparivano già in


Cuori al verde.
GP: È vero... E poi c’è il Viaggiatore... Mi ricordo di questa figura perché mia
madre per un periodo, per arrotondare, per andare avanti, lavorava in casa e ven-
deva biancheria, lenzuola e veniva appunto un “viaggiatore”, venivano chiama-
to così i rappresentanti di commercio, dalle mie parti. Insomma mia madre lavo-
rava per questo tizio che portava le sue cose e, ogni tanto, assistevo a agli incon-
tri con i clienti in casa ed era un problema perché noi figli non potevamo stare in
sala da pranzo a studiare, oppure a guardare la televisione, perché lei doveva
mostrare i suoi prodotti; quella sala era il suo posto di lavoro. C’era sempre qual-
cuno in casa che annunciava: “Oggi viene il viaggiatore” che veniva da una città
lontana e che faceva questo mestiere strano, con una bella macchina.

IS: Luce dei miei occhi è un film struggente, penetrante, che amo particolar-
mente. La critica, invece, lo ha massacrato. Ha attaccato tutto; la storia, gli atto-
ri, il tuo sguardo, perfino la splendida colonna sonora di Ludovico Einaudi defi-
nita musica leziosa, da aeroporti, da supermercati… Un accanimento che defi-
nirei sospetto e quasi premeditato.
GP: Sì, si sono scatenati, però trovo che quel tipo di accoglienza non sia stata del
tutto negativa. Ho cercato di non starmene buono, ho difeso il film, ho detto le
mie ragioni, insomma ho alimentato la discussione. Molti, per curiosità non
hanno creduto del tutto alla critica veneziana e si è creata una grande curiosità
intorno al film. Sono stato fermato per strada a Roma da tanta gente che aveva
amato moltissimo il film. Purtroppo in Italia se non fai il realismo stretto, se
provi a percorrere strade diverse, se nei dialoghi cerchi di usare parole più scrit-
te che non siano parenti strette della vita di tutti i giorni, puoi incontrare qualche

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incomprensione. La frase detta da Sandra a Lo Cascio: “Non mi batte il cuore


quando ti vedo, non mi sento perduta quando te ne vai” è un esempio di quello
che cerco di dire. Si trattava di un paesaggio interiore, quello dei personaggi, un
territorio diverso, c’era la fantascienza, un po’ di noir, soprattutto nel personag-
gio di lei, con quel suo linguaggio piuttosto crudo, quel suo comportamento da
donna deludente.

IS: Tra le tante critiche che ti sono piovute addosso più frequentemente è stata
quella sulla scelta del negozio di surgelati di Maria, metafora per alcuni, fin
troppo banalizzante della glacialità emotiva della protagonista…
GP: Questa è una sciocchezza… Il negozio di surgelati mi interessava come l’ac-
qua della piscina in Giulia non esce la sera… È vero che il negozio di surgelati
rimandava a un’idea di freddezza, una certa nudità alle cose e non è detto che sia
banale, ma era un luogo astratto e l’idea del negozio di surgelati mi aiutava a far
pensare semplicemente a un investimento sbagliato, un luogo deserto, un luogo
dove non puoi pensare che gli affari possano andare bene. Insomma a sottoli-
neare l’ennesimo errore di Maria. Quello che mi premeva maggiormente era
mostrare dei personaggi un po’ “spostati”, che hanno sbagliato le scelte decisive
della loro vita; Maria, ha preso un negozio di surgelati e subito dopo, nella zona,
viene aperto un supermercato, un altro fa l’autista, appassionato di fantascienza.
Sono persone che non stanno al passo con la vita degli altri e, pur non avendo
degli handicap, vivono una loro personale deriva, sono dei naufraghi sul punto di
perdersi. Hanno dei difetti di fabbricazione, non sono dei vincenti e non riesco-
no a far tesoro dei loro errori.

IS: Credo che questa affermazione di Pasolini descriva perfettamente i perso-


naggi dei tuoi film: “I miei eroi sono sempre dei ‘perdenti’, perché sono sconfit-
ti in anticipo, cosa che costituisce uno degli ingredienti principali della tragedia.
Da molto tempo si sono messi d’accordo con la morte e la disfatta, per cui non
gli resta nulla da perdere. Essi non hanno più apparenze, né illusioni da salva-
re, e così rappresentano l’avventura disinteressata, quella da cui non si trae
alcun profitto al di là della semplice soddisfazione d’essere ancora vivi”.
GP: Sì, è bellissima e mi permette di fare una piccola divagazione sul tema… Mi
viene da pensare che viviamo con l’ossessione che le nostre azioni vengano rico-
nosciute, fino ad ottenere una medaglia, una ricompensa, un premio, il successo.
In realtà chi ha una visione morale dell’esistenza, quasi mai ottiene nulla, non
capitalizza nulla. Quante persone hanno visto i loro sogni cadere mentre adesso,
per noi, la soddisfazione personale più profonda non può prescindere dal suc-
cesso. Siamo ormai viziati, corrotti da questo. Forse non è neanche il successo

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che cerchiamo, vogliamo semplicemente che si parli di noi. Si cerca una “visibi-
lità” senza la quale ci sente frustrati, inutili. Adesso quello che noi individuiamo
come un intellettuale, un maitre à penser, è sempre qualcuno che ha dei rappor-
ti con il potere.

IS: Come nasce l’idea del titolo?


GP: Evoca qualcosa, o meglio, qualcuno per cui valga davvero la pena vivere.
Indica un sentimento così indiscutibile, qualcosa di necessario, prezioso, di cui
non si può fare a meno, come la luce per gli occhi, appunto. Ognuno nel film
trova in qualcuno una luce per i suoi occhi; per Maria è sua figlia, per lui è
Maria… È l’idea di una luce che esiste, che c’è anche in un mondo dominato
dalla solitudine... L’idea di casa, di un posto dove tornare… Per certi versi Luce
dei miei occhi credo sia il film più fragile, più vulnerabile però anche più nuovo,
racconta un mondo meno prevedibile. Queste almeno erano le nostre intenzioni
anche in scrittura, preoccupazioni che ho condiviso con Umberto Contarello e
Linda Ferri che hanno sceneggiato con me il film.

IS: Cosa ti ha spinto ad inserire, nel corso della narrazione, la voce off di Lo
Cascio che rimanda al viaggio di Morgan…
GP: Nel film c’è una sorta di circolarità, quest’idea di un mondo dove non ci si
sposta veramente, non si va verso una direzione. Antonio fa l’autista, ma torna
sempre al punto di partenza del suo viaggio. La musica, la voce off, appunto,
sono una cantilena, accompagnano quello che sembra sempre lo stesso giro di
giostra, danno l’idea di una ripetizione.

IS: Nel film Maria si scaglia contro Antonio ed a muso duro gli dice: “Ti senti
così indispensabile è vero? Poverino! Com’è sprecato quello che fai! Beh sai in
quanti momenti avrei fatto volentieri a meno di vederti? Questa generosità di Lo
Cascio è in alcuni casi davvero irritante anche se capisci che Ceccarelli lo usa…
Lui con questa faccia immusonito… Ed è bello questo passaggio…
GP: Lui dice anche “Io sono quello che ti vuole, tu sei quella che non mi deside-
ra. Allora fai fino in fondo quella che non mi desidera, scendi dalla macchina…”.

IS: In questo film che si mantiene tra fantascienza e melò, inserisci un elemento
di forte realismo che è il problema degli extra-comunitari.
GP: L’idea è venuta perché abbiamo ambientato la storia a Piazza Vittorio e ci
sembrava interessante che Antonio facesse il traghettatore di anime, di destini, di
aspirazioni, che facesse un lavoro in conflitto con i suoi principi. E poi ho incon-
trato un personaggio curioso, a cui ho affidato il ruolo di Raffaele, l’aiutante di

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Silvio Orlando che dice “Ho guidato Buick, Cadillac, Corvette…”: era tutto vero.
Lui faceva proprio quello in America, una persona stravagante, tutto pettinato
alla Tony Curtis, inimmaginabile in un contesto come quello di Piazza Vittorio.
Quel posto è davvero un concentrato di storie individuali di ogni tipo. Sono reali
anche gli appartamenti con la carta da parati dove venivano sistemati i bengale-
si, con un’idea tutta particolare dell’accoglienza, incarnata dal personaggio di
Silvio Orlando… Però non è che avessi un intento sociologico. Servivano alla
storia, anche. Quando Antonio inizia a fare l’autista per Silvio, esce dal mondo
dei buoni, si sporca le mani...

IS: Lo Cascio si vendica di Silvio non perché acquisisce una coscienza sociale o
politica ma perché sente che sta andando tutto alla rovina, che sta toccando il
fondo...
GP: Lo tradisce come si tradisce un cattivo padre, è un tradimento necessario,
doloroso. Per quanto terribile Saverio ha un sentimento di affetto verso Antonio,
è la sua debolezza. Poi c’è la scena in cui Antonio improvvisamente ferma la
macchina e si addormenta. Al risveglio si allontana a piedi, abbandona la sua
auto, interrompe questa circolarità. Da allora fino alla fine non c’è più la musica
di Ludovico Einaudi, irrompono distintamente i rumori dell’ambiente, è come se
lui uscisse dal suo solito punto di osservazione, incomincia a camminare e quasi
fisicamente prende possesso di sé, mette i piedi sulla terra.

IS: Chiudi con il bellissimo discorso di Bertorelli...


GP: Sì, quello in cui si torna a parlare delle regole: “Un bravo autista sa quando
parlare e quando stare zitto”...

IS: Come in Fuori dal mondo avevi lavorato con gli occhiali, qui compare Silvio
Orlando con il pizzetto...
GP: Abbiamo cercato di conferire un fascino “notturno” al suo personaggio, una
malinconia. Qualcosa di non completamente realistico, come in un racconto illu-
strato. È la stessa cosa che ho cercato di fare con Valeria Golino in Giulia, non
volevo un’assoluta corrispondenza con le caratteristiche delle detenute reali,
quelle che avevo incontrato prima di girare il film. Giulia è un’eroina e, truf-
fauttianamente, mi premeva renderla anche come un personaggio letterario.

IS: La scelta di Ceccarelli?


GP: Per Sandra ebbi una specie di infatuazione dopo averla vista in Tre storie di
Piergiorgio Gay. Ero andato a prendere un premio al Festival di Bellaria, sentii
parlare di questo piccolo film indipendente ed andai a vederlo a cinema. Dopo i

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primi dieci minuti stavo pensando di uscire; c’erano non attori, una comunità di
tossicodipendenti... Poi arriva questa ragazza che mi colpisce moltissimo. Non so
per quale ragione precisa, ma è come se lei incarnasse un personaggio che in
qualche modo cercavo, come se l’avessi già conosciuto tra le pagine di un libro
o in un film. Quando la conobbi, lei non aveva scelto davvero di fare l’attrice,
non sapeva nemmeno chi fossi... Insomma mi colpii il film e ne feci una buona
pubblicità e poi chiesi il suo numero di telefono e mi venne voglia di conoscerla
e poi di lavorarci. Quando ho avuto l’idea di Luce dei miei occhi, le ho parlato e
poi abbiamo cominciato un lavoro a distanza, (lei era a Milano io a Roma), sul
personaggio di Maria. Un giorno le dissi: “Guarda, c’è la possibilità che tu fac-
cia questo personaggio. Non sarà facilissimo ma vengo da un film che ha avuto
un discreto successo, Fuori dal mondo e forse mi daranno l’opportunità di sce-
gliere un’attrice che non è conosciuta. Dovremo lavorare per arrivare a fare un
provino che sia convincente non solo per me ma anche per i produttori”. Così
iniziò un periodo durato molti mesi, facemmo una serie di incontri, di prove, let-
ture, chiacchierate...

IS: Quanto incidono i produttori nella scelta degli attori da scritturare?


GP: Beh, in quel caso era Rai Cinema, era il loro primo film italiano che produ-
cevano ed il primo film distribuito in assoluto da O1. Per cui, quando mi pre-
sentai con un’attrice sconosciuta, Lionello era molto preoccupato. Poi facemmo
il provino con Sandra, molte ore di riprese, lo montammo ed andò bene...
Quando andammo al Festival di Venezia ero convinto che avrebbe potuto vince-
re la Coppa Volpi. Sandra corrispondeva in modo straordinario al tipo di attrice
che stavo cercando. In lei ho trovato gli stimoli ed le ispirazioni cha hanno
accompagnato un periodo decisivo della mia carriera.

IS: La vinse anche Lo Cascio...


GP: Luigi mi sembrava un attore così elegante, provo una grande simpatia per lui
insieme a una grandissima stima. Aveva appena fatto I cento passi con cui ebbe
un discreto successo. Il nostro primo incontro non mi aveva convinto del tutto.
Fu lui a chiedere di riprovare ed ebbe ragione. Cos’ha Luigi? Lo sguardo e la
voce. E una grandissima energia... Per la prima volta era costretto a fare un per-
sonaggio sempre composto, quasi mai sopra le righe, una cosa completamente
diversa da quello che aveva fatto prima. Luigi poi è un attore molto colto, appas-
sionato di filosofia. Si facevano delle grandi chiacchierate, mai banali. Però que-
sta sua dimensione non gli impediva una certa predisposizione ad un atteggia-
mento cameratesco. Insomma era anche molto divertente lavorare con lui.

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IS: C’è la tua prima scena di nudo...


GP: Ma qualcosa c’era in Cuori al verde, non completo con Margherita Buy e
Francesca Neri ne Il grande Blek di sfuggita... Però sì, in un certo senso è così...

IS: Il tuo film successivo La vita che vorrei riprende in qualche modo il genere
film in costume...
GP: Mi è sembrato un modo bello e personale di raccontare un genere, rispolve-
rare un piacere che provavo nel vedere un certo tipo di cinema, che era quello
delle grandi attrici, delle grandi star hollywoodiane, siano esse di estrazione euro-
pea o statunitensi. Sopratutto Garbo, Bergman... Su quest’ultima, ti confesso che,
nonostante la grande ammirazione per Rossellini, penso che nel suo periodo hol-
lywoodiano abbia espresso il massimo... Ne Il grande Blek c’è una scena in cui
tutta la famiglia è riunita davanti al televisore e vede Margherita Gauthier con la
Garbo, di Cukor. E poi quella stessa scena l’ho girata, proprio quella della morte
di Margherita. Mi sono permesso di giocare con quel tipo di cinema, con i trasa-
limenti, gli sguardi, le schermaglie amorose, il melodramma…

IS: Quei film rispettavano fedelmente dei codici iconografici di rappresentazio-


ne. C’era la costruzione dell’entrata in scena delle diva... Era un cinema dosa-
to alla perfezione.
GP: C’era anche un amore per le donne, no? Grandi scritture, anche nel noir,
grandissimi dialoghi, attrici eccezionali; la Stanwyck, Betty Davis.

IS: La vita che vorrei è un film nel quale devi entrare in punta di piedi. Da un
lato la fissità del mondo finto della fiction e dall’altro l’ebollizione dei turba-
menti dei protagonisti della vita reale. Poi c’è il personaggio di Lo Cascio che
non mi sembrava antipatico ma anzi mi faceva molto pena…
GP: È malmostoso...

IS: Lui non è cattivo, è che non riesce ad amare...


GP: È un “cuore in inverno” ma, quando si incrinano le sue certezze, diventa
insopportabile.

IS: Il suo personaggio è messo molto bene a fuoco e si intuisce il suo cambiamen-
to graduale; dopo l’incontro con Sandra Ceccarelli, si scioglie, inizia a sbagliare
sul set, diventa nervoso, viene irriso sul set dalla debuttante Eleonora nella scena
della carrozza... Il personaggio di Sandra Ceccarelli è più contorto...
GP: È come se il personaggio di Sandra acquisisse più consapevolezza di sé
attraverso la finzione, attraverso il personaggio di Eleonora...

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IS: Ma i dubbi che ha Lo Cascio su di lei, che lo vuole usare sono veri...
GP: Lei è una che mischia le carte, un po’ ambigua, però è vero che il personag-
gio le dà una salvezza, una consapevolezza... Perché il personaggio di Eleonora
è più importante di lei; Eleonora ha una verità che lei non ha, ha un destino ed
una grandezza che è quella del romanzo dell’Ottocento...

IS: Ma nel romanzo fa la mantenuta di un uomo ricco...


GP: Margherita Gauthier è una mantenuta ma quando arriva il padre, di fronte
alla sua grande generosità, che solo lei è in grado di avere, le dice: “Che donna
nobile che lei è, le chiedo perdono”. È una che comunque, del suo errore, fa una
specie di percorso di espiazione e di quello diventa consapevole. Proprio ieri leg-
gevo un aforisma di Oscar Wilde:“Se un uomo mente dategli una maschera e
sarà sincero”. È come se loro, Stefano e Laura, riuscissero ad essere sinceri solo
attraverso la maschera, come se riuscissero a dirsi delle parole definitive, solo
nella finzione, con quel linguaggio, con quel corredo di costumi, acconciature. Il
film contraddice l’idea: “Siamo nel mondo dell’apparenza” perché l’apparenza
in questo caso è la sostanza, perché la verità sta nell’apparire. Vedi la prima
scena; lei ha qualcosa di seduttivo, di ambiguo... Ma è come se, attraverso il film,
visto che il suo personaggio ha un destino e lei non vuole finire come il suo per-
sonaggio il cui destino è tragico, non vuole finire in un letto di morte, lei riesca
ad imparare qualcosa. Alla fine parla in maniera diversa, il suo sguardo non è più
quello di una ragazza che cerca di fare colpo su qualcuno, non c’è più quell’avi-
dità dello sguardo, quel desiderio continuo di guardarsi intorno...

IS: È più antipatica e crudele di Lo Cascio...


GP: Certo... La verità del film è proprio quella che tu hai colto. Quando molte
persone mi dicono: “Lui che stronzo...” però penso più quello che dici tu, che è
lei che ha qualcosa dentro che non funziona... In Cornell Woolrich c’era qualco-
sa di bellissimo, il romanzo si chiama Waltz into Darkness. Lui è innamorato di
lei ma verifica sempre più l’inconsistenza della donna che ama, la sua propen-
sione all’infedeltà, a procurare delusioni. Le dice: “Continua ad essere così, non
mi deludere, non essere come tutte le altre”. È come se l’incontro con Laura
avesse scosso Stefano, lo avesse rivoltato; è con lei vuole che vuole stare, non è
una scelta giusta, politicamente corretta. Lei non è una brava ragazza ma vuole
lei. E poi, a dire la verità, Sandra ha fatto davvero qualcosa di diverso dal film
precedente. Ha un ventaglio di espressioni, di colori più ampio e diversificato, è
allegra, banale, seducente, addolorata, comica, introversa. È madre e ragazza,
autodistruttiva e affidabile. Comunque, il rischio dei film, quando sono troppo
definiti e quando la vicenda e i personaggi sono troppo chiari, quando non c’è

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una qualche incertezza sulla vera natura di qualcuno, sui suoi scopi, ecco allora
mi sembra che si svuotino, che perdano mistero. Mi piace che ci sia sempre qual-
che doppio fondo, un passaggio segreto... Se il film non ha delle irregolarità,
qualche punto di fuga, questo tentativo continuo di essere sfuggente... Ecco, mi
piace l’idea di prendere per mano lo spettatore e poi di fargli scoprire, improvvisa-
mente, una cosa inattesa, di sorprenderlo. Sai, il lavoro di direzione di un attore per
me è un lavoro che parte da lontano. Qualcuno, in qualche caso, mi ha detto: “Sei
bravo con gli attori”. Io dico non è che sia bravo con gli attori... Non li ipnotizzo,
non ho un particolare modo di ottenere qualcosa da loro... Lascio loro del tempo,
semplicemente. Insomma ci lavoro, molto. Il lavoro della direzione di un attore
parte dal momento in cui ci incontriamo, andiamo a cena, proviamo e stiamo anche
attenti a non provare troppo, cerchiamo di conservare una parte del lavoro, cer-
chiamo di fare in modo che qualcosa accada solo sul set. Però nello stesso tempo
si cercano le cose, si mettono a fuoco le questioni, si trovano le soluzioni, si cam-
biano in qualche caso le battute, si cerca di capire di più di un personaggio, di una
scena, di capire quello che ancora manca alla pagina scritta. Per il tipo di film che
faccio io, trovo necessario e fondamentale per me servirmi anche dell’attore. Mi
piace l’attore che si prende la responsabilità del personaggio, se lo porta a casa, ci
convive, fa qualcosa d’insolito, prende qualche iniziativa.

IS: Quanti ciak fai?


GP: Faccio tantissimi ciak. Sono una persona in genere abbastanza responsabile
sul budget del film, sulle settimane, però la cosa che dico sempre ai produttori è:
“Non mi annoiate con i problemi che riguardano la pellicola perché sulla pelli-
cola non posso dare garanzie”. Se una scena non mi convince, devo cercare di
farla finché non sono soddisfatto, anche nell’interesse del produttore. Non biso-
gna risparmiare sulla pellicola a meno che non si giri un film in digitale.

IS: Non si perde di spontaneità girando molti ciak?


GP: La spontaneità... È vero che spesso accade che un attore dia il meglio di sé
nei primi quattro o cinque ciak. Però non è detto... Spesso arrivi a capire il senso
di una scena dopo una serie molto lunga di errori, cancellature, ripetizioni...

IS: Ne La vita che vorrei c’è la scena dei ciak... “Basta, son troppi”... Fai il
verso a te stesso...
GP: La cosa incredibile è che se un profano, un non addetto ai lavori, venisse a
vedere i ciak in moviola molto difficilmente capirebbe la differenza tra un ciak e
un altro. Passiamo molto tempo a scegliere. Anche se in una prima fase, quando
ancora sto girando, il montatore fa le sue scelte per cominciare a imbastire il film.

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Poi rivediamo tutto...

IS: Il lavoro di montaggio nei tuoi film è lungo...


GP: È lungo e per me particolarmente difficile perché arrivo in moviola con la
sensazione di aver dato tutto nelle riprese.

IS: Giri anche molte scene in più? Ti concedi qualcosa in più?


GP: Quando giro mi vengono delle idee e cerco di fare qualcosa che arricchisca
il film o il senso di una scena, però non cerco molti punti di vista della scena...
Faccio delle scelte. Qualche volta però sono un po’ lungo nei dialoghi, e
Esmeralda Calabria, la mia montatrice, mi costringe a fare qualche taglio in più.
Se ha i tagli, lei può sfrondare i dialoghi.

IS: Non è che fai due-tre finali...


GP: No, in genere no. Ci ho pensato alcune volte ma in genere no.

IS: Poi c’è è quella battuta sembra messa apposta da te: “Non fare i soliti fina-
li tristi; dateci una speranza”...
GP: Sì, è vero. Me lo sono detto più volte...

IS: Questo film che più che a Eva contro Eva fa pensare molto a La donna del
tenente francese...
GP: Il film di Karel Reisz è molto diverso, è molto più crudo ma ci sono certe
suggestioni che accomunano i due film.

IS: È il tuo tributo all’indimenticabile Effetto notte di Truffaut?


GP: È un film che ho visto tante volte e diciamo che ho cercato accuratamente di
non vedere quando ho fatto La vita che vorrei perché pensavo che mi avrebbe
fatto male vederlo... In realtà il film è frutto di un faticosissimo e attento lavoro
di scrittura fatto con Linda Ferri e Gualtiero Rosella. Un lavoro animato dall’in-
tenzione di non assomigliare a nessuno dei film fatti fino a quel momento sul
cinema. È che ad un certo punto nella mia carriera mi sembrava un atto dovuto
quello di parlare un po’ di cinema. Io spero davvero di trovare la serenità nella
scelta dei prossimi film e di non pensare che i film debbano dire la parola defi-
nitiva su di me, sulla mia idea del mondo, o del cinema. Spero di trovare un po’
più di divertimento. Penso che questo approccio sia difficilmente praticabile per-
ché in Italia il cinema è un po’ in mano ai funzionari, a persone che parlano di
mercato ma fanno troppo spesso scelte incomprensibili che con il mercato non
hanno nulla a che fare. I film nascono un poco già stanchi, perché non c’è né la

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forza degli Studios che univa le più grandi intelligenze, le più grandi penne, gli
attori migliori (e non siamo nemmeno in grado di creare una mitologia intorno al
nostro cinema) ma nemmeno quell’ambizione, quella predisposizione all’avven-
tura, all’incerto che ti porta a cercare nuove strade, con la sola arma dell’entu-
siasmo, della fiducia nei progetti, quelli sinceri, che non nascono a tavolino. La
mia naturale vocazione è per un cinema personale che sia mosso dal desiderio di
incontrare un pubblico. Non voglio essere ai margini.

IS: Nella Vita che vorrei c’era il fascino ed il rischio del “film nel film”...
GP: Era un lusso che pensavo di potermi permettere, quello di un film che è
anche sul mio lavoro. Penso che comunque, rispetto ai film più importanti che
sono stati fatti sul tema, ci sia davvero qualche punto di vista inedito, alcuni
motivi di curiosità in certi dialoghi. “Quando devi girare una scena in cui devi
piangere, come fai, piangi davvero?”, o in certe scene come quella dei ciak ripe-
tuti, della carrozza quando Stefano/Federico cade a terra rincorrendo
Laura/Eleonora, una scena molto felice perché in un attimo, con pochissimo,
imprime una svolta al racconto. Avevamo scritto una scena (con Linda Ferri e
Gualtiero Rosella) dove lui la inseguiva, poi arrivavano in un teatro di posa, par-
lavano e si riconciliavano. E invece poi ho affidato tutto a quella scena, alla risa-
ta incontenibile di Sandra che finisce per contagiare Lo Cascio. C’è una dichia-
razione d’amore nei confronti del film in costume, ma anche verso Effetto Notte
o quei film come È nata una stella, i melodrammi di Douglas Sirk, i film di
Cukor, l’opera lirica, una certa letteratura. Penso a due romanzi di Woolrich, a
qualcosa di Anna Karenina, Adolphe di Benjamin Constant. Un altro scrittore
che mi piace molto è Somerset Maugham, autore de La luna e sei soldi, ispirato
alla vita di Gaugin, di Schiavo d’amore, Il velo dipinto...

IS: Se ti attraggono così tanto questi romanzi perché non ne hai mai fatto una
riduzione cinematografica?
GP: Lo farei... Me li farebbero fare?

IS: Nel film fai riferimento ai finanziamenti che vengono elargiti o dalla Rai o da
Mediaset ed all’autocensura che i registi mettono in atto.
GP: Beh, diciamo che c’è qualcosa che rende questi film meno vitali. È come se
i nostri schermi fossero diventati opachi. Credo di aver fatto i miei film metten-
do sempre in atto una piccola opera di resistenza al mondo in cui i miei film,
appunto, nascevano. Credo che i miei film non siano del tutto omologhi ad un
certo modo di produrre. Soffrono anche dell’ambiguità di quel modo di produr-
re, però tentano di strappare qualcosa per sé, di conservare uno spazio di libertà,

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di riconoscibilità. Ma credo che in un modo o nell’altro, da sempre, i registi ten-


tino di fare questo.

IS: La scelta del brano di Gianna Nannini?


GP: È una canzone, in realtà di Giovani Lindo Ferretti, che era il leader del
CCCP, una specie di tango che era giusto con il melò e con il tono generale del
film.

IS: Siamo giunti al tuo penultimo film: Giulia non esce la sera...
GP: Piera degli Esposti mi ha detto una cosa interessante sul mio lavoro: “Nel tuo
cinema c’è una dolcezza crudele...” nel senso che, con un apparente garbo, rac-
conto cose abbastanza dure, anche non condivisibili come il personaggio di
Valeria Golino in Giulia... in fin dei conti ha la fisionomia di un’eroina tragica,
quasi da teatro greco. È una che abbandona il marito e la figlia, per seguire un
uomo di cui si innamora e poi l’ammazza quando si accorge che lui non la ama
più. Lo fa sapendo che in quel modo, non solo commette un omicidio, ma che
coinvolgerà la sua famiglia, sua figlia, proprio quelli che lei ha già ferito, abban-
donandoli. E non potrà più tornare indietro. È quindi una persona che ha com-
piuto un atto estremamente unico, irripetibile, definitivo e con delle conseguen-
ze di quella portata. Lo stesso il personaggio interpretato da Valerio è caratteriz-
zato da una dose di disincanto, al limite del cinismo, però si comporta come se
fosse un povero diavolo anche quando commette dei disastri enormi..

IS: Nel personaggio di Valerio c’è il tema dell’indecisione, una sorta di dottor
Grasler moderno, di schnitzleriana memoria.
GP: Un uomo che non è né carne, né pesce...

IS: Che si fa scorrere tutto addosso; non gliene frega niente del premio, non glie-
ne frega niente se la moglie se ne va...
GP: Non gliene frega niente, ma allo stesso tempo, non disdegna... Odia il suo
mondo ma accondiscende a tutte le sue richieste. Non sceglie.

IS: La scelta di Valeria Golino?


GP: Valeria è una donna molto interessante, affascinante. Porta con sé qualcosa
del mito di Hollywood, dei film che ha fatto negli USA. Ha lavorato con grandi
registi, la sua voce, roca, il suo fisico, il suo modo di guardarti... Valeria ti fa cre-
dere che tu sei il più grande regista con cui ha lavorato, così rischi di abbando-
narti davvero a questa illusione. Quando sei con lei tutto quello che stai facendo
ha a che fare con un grande gioco creativo; siamo il regista e l’attrice, le piace

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creare un clima che ha questa importanza e questa idea di vivere secondo i cano-
ni di una vita da artisti, come quella dei registi e degli attori, e porta tutto questo
nel tuo film. Valeria non vede l’ora di provare, di cercare cose... Eravamo molto
affezionati al suo personaggio; era scritto, ma bisognava dargli un paio di scar-
pe, una tuta, una gonna, i capelli, in un modo o nell’altro, dovevamo decidere se
la voce dovesse essere brusca o, come abbiamo scelto, come un apparecchio
spento che non ha più carica, o al contrario se dovesse essere sguaiata, quello che
non abbiamo scelto... Quindi è un’altra di quelle attrici, come è stato con
Margherita e con Sandra, con la quale c’è stato il piacere di creare un percorso.
Devo dire che le donne, in generale, sono più desiderose di esporsi, di rischiare
qualcosa. Non so, con gli uomini c’è sempre un po’ di buon senso che trattiene,
di difesa da parte loro, che fa mantenere sempre una certa distanza, come se l’in-
timità, lavorativa intendo, fosse più facile con un attrice che con un uomo.
Spesso penso al coraggio (o alla sventatezza) che ha avuto la Bergman quando
ha lasciato Hollywood solo perché era attratta dalla ricerca di verità che credeva
di aver trovato nel cinema e nella persona di Roberto Rossellini. E quindi c’è
anche il rischio e la generosità di essere usati, perché la donna nel cinema è il
corpo per eccellenza. Valeria l’avevo incontrata spesso. Aveva amato molto La
vita che vorrei ed invidiato, affettuosamente, il ruolo che aveva avuto Sandra.
Ogni volta ci si diceva che avremmo dovuto lavorare insieme ed allora mi è sem-
brato interessante proporle questo Giulia non esce la sera. Anche se pensavo che
Valeria non era così ovvia nei panni di una detenuta, non ha niente degli episodi
tragici che hanno segnato la vita di Giulia però, proprio per questo, mi interessa-
va ed abbiamo pensato che fosse giunto il momento di lavorare insieme. È stato
meno facile trovare il protagonista maschile perché appunto, da una parte dove-
va essere uno scrittore, ma non uno scrittore con la sciarpa e gli occhialini e quin-
di Valerio mi sembrava un rischio accettabile, si poteva lavorare su questo: esse-
re diventato scrittore per caso e non per costituzione intellettuale. Tanto è vero
che quando lui dice: “Ho letto poco, non so quasi niente...” è quasi una dichia-
razione sincera dell’attore che si sovrappone al personaggio.

IS: E poi bisognava farlo uscire da una certa romanità che ha caratterizzato
sempre un po’ i suoi personaggi...
GP: Sì, facendo delle cose, durante le riprese, che lui non gradiva sempre, toglie-
re certe appoggiature o almeno di ridurle... Con Valerio non tutto è stato facile.
C’era una certa resistenza da parte sua. Però questa nostra difficoltà ha creato una
specie di “corpo a corpo” che ha finito per produrre un risultato interessante, per
entrambi, credo.

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IS: Perché hai inserito la figura dello scrittore e non quella del regista?
GP: Forse per pudore e poi avevo già fatto La vita che vorrei e un altro film sul
cinema... Ho fatto delle ricerche, ho partecipato a serate come le premiazioni di
certi premi letterari, le ho filmate. Sono andato alla serata finale dello “Strega”.
Tutti mangiavano e parlavano, movimenti da un tavolo all’altro, strette di mano,
qualcuno che leggeva i voti, scandendo i nomi dei candidati. Davvero uno strano
mondo... Forse solo quello meritava un intero film. Mi sembrava che questo film
potesse contenere una riflessione sul lavoro creativo però allo stesso tempo, come
ne La vita che vorrei, ci fosse una finestra aperta sulla realtà, quella realtà che con-
fligge con l’idea che ne ha il pensiero intellettuale; la realtà è il volto nudo e crudo
di Giulia... Che se ne fa uno scrittore per quanto cerchi di appropriarsene?

IS: C’è il contrasto tra lui che è un cuore in inverno e lei che ha ammazzato per
amore. Lui cerca di capirla ma si intuisce che non riuscirà a comprenderla mai
fino in fondo e che non si farà travolgere...
GP: Nelle varie storie che scrive ci sono degli alter ego che comunque cercano
qualche forma di incantesimo, di incantamento, di innamoramento, di distrazio-
ne dalla melanconia, attraverso uno spettacolo; la danza degli ombrelli o la sedu-
zione della lap-dance per cadere poi su qualcosa di estremamente nudo e crudo
come la storia di Giulia... Con Federica Pontremoli, la co-sceneggiatrice, ci
siamo divertiti molto a scrivere una quantità di storie che immaginavamo potes-
sero uscire dalla penna di Guido Montani.

IS: La storia romantica dell’uomo degli ombrelli mi ha letteralmente incantato,


quella dove compare il prete sconfina, seppur pudicamente nei territori della
sessualità in maniera mai prevedibile.
GP: Anche lì, nella storia del prete, c’è un interrogativo su una personale confu-
sione su ciò che è giusto, su ciò che è sbagliato...

IS: In Fuori dal mondo compare una suora, in Giulia un prete...


GP: Non ci ho pensato ma il prete è una figura che mi attira ed ogni tanto cerco
di metterlo in qualche film. Mi piacerebbe però avere la limpidezza di Robert
Bresson quando fa Diario di un curato di campagna...

IS: In tutti i tuoi film i tuoi personaggi si trovano di fronte al dilemma se lasciar-
si andar oppure no...
GP: Io dico sempre: “Sono in libertà vigilata di me stesso, una specie di sorve-
gliato a vista”. Siamo tutti noi sempre di fronte a delle porte da aprire o da dover
chiudere.

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IS: I personaggi che aprono queste porte vanno a finire male, a cominciare da
Razzo fino a Giulia. Gli altri galleggiano, sopravvivono, sembrano navi in bot-
tiglia, pesciolini rossi nella boccia di vetro...
GP: Certo. Il personaggio di Valerio galleggia e dice a Valeria : “Tu non mi tiri
giù” perché se andasse a fondo qualcosa succederebbe.

IS: Ci si poteva aspettare un noir dove il protagonista maschile ammaliato dalla


dark lady, si perde. Nel film Valerio, invece, non ci prova neppure...
GP: Nei noir i personaggi maschili mettono in gioco tutto. Lui no. Valerio conti-
nua a stare un po’ dentro e fuori la famiglia, un po’ dentro e fuori da lei, un po’
dentro e fuori dal suo lavoro, un po’ vorrebbe fare lo scrittore, un po’ vorrebbe
dire: “Ma io non sono scrittore...”. Ed è questa la novità perché magari può sem-
brare un personaggio non definito ma questo suo non essere definito è la qualità
di quel personaggio.

IS: Perché hai inserito il personaggio della figlia d Giulia?


GP: Ci sono scelte che fai in base a un istinto narrativo. La cosa interessante di
Giulia è che ha questa figlia che ha perduto ma c’è questa maternità che lei con-
tinua a vivere a distanza, attraverso lo sguardo. È uno sguardo che accudisce e
protegge, un’irradiazione. Guardare da lontano è sempre una possibilità che
potrebbe esserci un domani... Quando questa cosa viene a mancare, quando c’è
il rifiuto definitivo da parte della figlia, lei perde tutto, anche questo surrogato di
maternità, questa possibilità. Il gesto che lei fa diviene, a questo punto, inevita-
bile. La cosa interessante è che tutto quello che lui fa, le sue ambiguità si mani-
festano senza che su questo, almeno apparentemente, pesi il nostro giudizio.
Guido sembra un brav’uomo ma un brav’uomo che fa delle cazzate. È uno che
galleggia, incapace di gesti drastici.

IS: Mi sembrava naturale che la figlia di Giulia reagisse in quel modo quando
incontra la madre. Come mai Giulia non prevede che la figlia l’avrebbe rifiuta-
ta e che avrebbe potuto eventualmente riavvicinarsi a lei solo dopo un lento e
graduale lavoro di ricostruzione? Perche Giulia s’ammazza al primo rifiuto
della figlia?
GP: Non è il suicidio di una che si sente vittima, non ha niente di patetico, ha una
sua grandezza, nasconde un desiderio di risolvere le cose, di togliersi di mezzo.
È un gesto potente, se si può dire questo per un atto del genere, non disperato.

IS: Valerio si prodiga perché Giulia riveda la figlia ma poi non la sostiene, non
la contiene a sufficienza...

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GP: Se ne ritorna a casa perché non è in grado di far fronte a quel tipo di richie-
sta. Non fa nulla per incoraggiare e nulla per impedire.

IS: Manca, come in tanti altri tuoi film, una figura maschile strutturante... Le
figure femminili, invece, sembrano andare fino in fondo..
GP: È così. Ne Il grande Blek c’era un’io narrante che cercava dei modelli che
potevano essere il fratello maggiore o il padre che era sparito. In Luce dei miei
occhi c’è il viaggiatore. Il personaggio di Giulia vive fino in fondo, non si rispar-
mia nulla, commette degli errori irreparabili ma ha vissuto. Anche se a dire la
verità, c’è un interruttore che si è spento che ci dice che la vita, quella vera è die-
tro di sé, alle sue spalle. Quando guarda davanti a sé non vede nulla.

IS: Perché l’ambientazione in piscina?


GP: Perché mi è venuta in mente quando andavo in piscina. Un mio progetto si
era fermato ed allora ho cominciato ad andare in piscina, un luogo che ti isola dal
mondo circostante. Quando corri puoi parlare con chi ti sta a fianco, in piscina,
quando nuoti, non puoi parlare con nessuno. E poi mi piaceva questa specie di
zona neutra, dove ti puoi isolare. Ho immaginato di poter vedere qualcosa sotto
la superficie dell’acqua. È un luogo che favorisce un procedimento di astrazione,
un luogo affollato da persone che sono tutte in costume e non c’è nessun indizio
che ci suggerisca chi sono queste persone, che cosa fanno nella vita...

IS: Nel recensire il film su “Segno Cinema” scrissi che, secondo me, il suo fasci-
no maggiore risiedeva nel rimando a quel racconto di Jorge Luis Borges Il giar-
dino dei sentieri che si biforcano ed a tutte le storie possibili che un regista pote-
va raccontare. Nel film, scorrono più storie; non solo quella di Giulia e di
Valerio, ma anche quella dell’uomo degli ombrelli e del prete... Il tuo film è come
se primariamente ponesse l’interrogativo; quante storie può raccontare un film?
Quando fai un film non ti senti limitato dal fatto di dover raccontare una (sola?)
storia?
GP: Moltissimo. Mi sento limitato anche perché a me piace spesso la deviazio-
ne, a volte mi interesserebbe più seguire un personaggio laterale o alcune ipote-
si che non sono omogenee con il tipo d’impianto che ti sei dato. Se potessi farei
dei film diversi, un film che non si ferma mai, che non s’interrompe. Perché è
vero quando si dice che i film come i romanzi non finiscono, si interrompono,
vengono abbandonati. Infatti, se c’è un rimprovero che mi faccio è quello di non
essere stato, fino ad ora, conseguente con questo mio desiderio. Ecco, per esem-
pio, un personaggino come Filippo, il ragazzo di Giulia non esce la sera... che è
una specie di Antoine Doinel, mi sarebbe piaciuto seguirlo, immaginare la sua

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crescita, i suoi nuovi amori, le scelte di vita successive a quella sua fase di ado-
lescente. Il giovane attore, si chiama Jacopo Domenicucci, sarebbe stato assolu-
tamente in grado di proseguire nella sua carriera d’attore. Adesso studia Scienze
politiche in Francia in una delle scuole più selettive del paese.

IS: Che altre suggestioni sotterranee contiene Giulia non esce la sera...
GP: Ho una grande curiosità per Flaiano, anche se una curiosità episodica, rab-
berciata, con tutti i suoi mille libri, aforismi, raccontini. Mi affascina questa sua
capacità di non essere mai consolatorio, di allontanarsi sempre dallo stereotipo,
dal giudizio ovvio. L’aforisma è una fuga. Quando dice. “Il meglio è passato” o
la battuta che viene detta in Giulia...: “Il successo è la prova che uno non vale
niente”. Cioè la capacità di formulare insieme ai giudizi un pensiero che riesca
ad essere vivo, proprio perché si sottrae all’ovvietà, a quella specie di pensiero
massificato per cui oggi le persone parlano tutte nello stesso modo. Come i poli-
tici che oggi usano tutti il termine “governance” o l’uso smodato di espressioni
come “fare la differenza” o, ancor peggio “bypassare”. C’è un generale decadi-
mento del linguaggio a cui anche solo opporre un balbettio è già qualcosa, una
forma di resistenza. La tua difficoltà è il tuo segno, il tuo modo di esistere nel
mondo e di resistere a questo appiattimento e di riuscire a dire un pensiero che
una volta tanto sia davvero un pensiero tuo, indipendente.

IS: La scelta di Sonia Bergamasco?


GP: Sonia è bravissima, mi è piaciuto molto lavorare con lei, soprattutto in quel-
la scena, dopo l’arrivo dei ladri in casa. Quando dice al marito: “Non ti piace come
scopo?” in quella scena è quanto di meglio io possa aspettarmi da un attore.

IS: Come personaggio a lei non hai dato nessuna chance. Vede questo marito che
sta andando via, non riesce ad acchiapparlo...
GP: L’unica cosa che riesce a fare è quella di sottrarsi all’ennesima recita che è
quella di accompagnare il marito al premio. Decide di disertare, di non essere fede-
le al suo ruolo di accompagnatrice fedele. Non c’è più niente tra loro, è finita.

IS: La scelta delle canzoni francesi?


GP: Facevano parte di quella memoria che volevo recuperare perché mio padre per
un periodo ha vissuto in Belgio, è stato marinaio sommergibilista, uno dei pochi
sopravvissuti, ha trovato lavoro in Belgio ed ha portato su la famiglia. Aveva una
casa in Rue Leopold, la via dove abitava Simenon. Io ho vissuto due anni lì, non
ricordo una parola di francese mentre mio fratello ha proprio studiato le scuole,
quindi parlava il francese piuttosto bene. Ed allora un po’della musica francese è

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entrata in casa e poi c’è stato il periodo dei cantanti francesi da Aznavour ad Alain
Barriere, Richard Anthony, le loro canzoni che facevano parte della generazione di
mio fratello arrivavano anche a me... Per cui quella cosa mi è rimasta...

IS: Mani bucate, la canzone di Sergio Endrigo che inserisci nel film sembra spu-
doratamente far riferimento a Giulia, una donna che aveva un marito, una figlia
ma che ha poi buttato via la sua vita.
GP: Sì però il termine “mani bucate” ha anche un altro significato che rimanda
ad un eccesso di generosità, di essersi spesi che è un po’ la caratteristica di
Giulia, al contrario dell’avarizia di Valerio, nel lasciarsi andare. Lei ha fatto delle
scelte sbagliate però ha vissuto con pienezza questo suo spendersi.

IS: Come mai i titoli dei tuoi film contengono parole semplici e popolari;
occhi, cuore, vita, sera, mondo, luna? C’è forse dietro la passione per un cine-
ma popolare?
GP: Penso derivi dalla mia passione canzonettistica. Sono un po’ truffauttiano in
questo. Sai la famosa battuta che mette in bocca a Fanny Ardant ne La signora
della porta accanto: “Le canzoni d’amore più sono stupide e più dicono la
verità” e quest’essenzialità che c’è nella canzonetta tipo “Senza di te, mi sento
come una casa vuota...” e forse nella ricerca dei titoli c’è questo. Mi piacciono i
titoli delle canzonette così come quelli dei vecchi libri gialli o noir, i polizieschi
con quella capacità di promessa di una storia avvincente. Anche quando ci sono
dei dialoghi amorosi cerco nella scrittura un fascino popolare da romanzetto, o
da vecchio film francese. Mi piacerebbe, anzi, essere ancora più radicale in que-
ste scelte.

IS: Giulia non esce la sera doveva intitolarsi “Il premio” e/o “Sott’acqua”. È
vero che hai deciso il titolo del film insieme al pubblico presente al Festival di
Sorrento?
GP: È vero. A me piaceva “Il premio”, mi sembrava un titolo solido, un po’ da film
neorealistico sovietico. Andai a pranzo, c’erano Valeria, Lionello Cerri e dissi. “Un
altro titolo potrebbe essere ‘Giulia non esce la sera’”. Tutti erano entusiasti ed allo-
ra davanti al pubblico di Sorrento, dissi che c’erano due titoli e feci chiaramente
capire che le mie preferenze andavano a “Il premio”. Sottoposi i titoli alla loro
approvazione, facemmo una sorta di applausometro e per acclamazione fu scelto
Giulia non esce la sera. Però anche lì, bisognava essere conseguenti, quel titolo fun-
ziona se mantieni la curiosità che evoca. In un certo senso accadde qualcosa di simi-
le per Fuori dal mondo, che era un titolo bellissimo ma una parte del pubblico lo
perdemmo perché seppe che Fuori da mondo rimandava a una suora, e quindi era

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qualcosa che spaventava. Lo stesso è successo per Giulia... perché non bisognava
mettere nel trailer l’immagine di lei in prigione. Bisognava mantenere il mistero su
questo titolo. Questo è un po’ il difetto della nostra industria che alcune scelte non
vengono fatte fino in fondo, le nostre strategie non seguono una traccia rigorosa, poi
il manifesto ed il trailer si fanno all’ultimo momento.

IS: È vero che la scena dell’uccellino è nata per caso...


GP: Eravamo a cena io e Valeria in un ristorante del centro e passò un giovane
extracomunitario che vendeva questi uccellini. Decisi di regalarne uno a Valeria
e così cominciammo a parlare di un’ipotetica scena in cui Guido avrebbe potuto
regalarlo a lei. Mi sembrò interessante e, più tardi, decisi di usarlo anche nella
scena finale, quando lei lo butta e cerca di rianimarlo in tutti i modi, provando
inutilmente ad aggiustarlo, a mettere insieme i pezzi. Ma c’era anche un richia-
mo non voluto a quel vecchio film L’uomo di Alcatraz diretto da John
Frankenheimer con Burt Lancaster, in carcere che si prende cura degli uccellini.

IS: Come mai quella citazione a quel capolavoro che è Una giornata particolare
di Scola?
GP: La felicità di un film è legata alla capacità di estendere un’idea o un’intui-
zione; l’idea di far parlare la grande storia attraverso due individui in un condo-
minio deserto è un’idea pazzesca... Spesso quando ho avuto modo di fare degli
incontri con dei ragazzi, generalmente studenti di cinema, ho sempre fatto vede-
re la scena che ho citato, come un esempio magistrale di messa in scena. È la
scena della terrazza dove i due personaggi si manifestano, si rivelano. C’è un
abbraccio e trovo che il modo di arrivare all’abbraccio in quella maniera, del
tutto imprevedibile, sia la cosa che distingue un regista da un semplice profes-
sionista. Per questa ragione ho fatto riferimento all’abbraccio di Fuori dal
mondo. Lì c’è una terrazza, c’è questo muoversi ed avvicinarsi e questo muove-
re delle lenzuola per ripiegarle ed entrare così in contatto con l’altro. Solo negli
ultimi anni ho capito la grandezza di Scola e so che l’ha visto e che era conten-
to. E poi mi sono accorto, senza averlo cercato, che in Giulia... c’è Valerio che
accoglie Valeria sulla spiaggia con l’asciugamano e anche in questo c’è un
rimando a quando Mastroianni avvolge la Loren con il lenzuolo.

IS: È vero che la frase che viene detta nel film: “La felicità è la tristezza che fa
le capriole” l’hai tratta da un romanzo di uno scrittore mozambicano?
GP. Sì, Mia Couto, grande scrittore.

IS: Prima di chiacchierare intorno al tuo ultimo film, non possiamo non parlare

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dei “Ritratti confidenziali” da te dedicati a due attrici feticcio; Sandra


Ceccarelli e Margherita Buy. Da dove nasce l’idea dei ritratti?
GP: Nei Ritratti c’è qualcosa di underground, sono a bassa risoluzione, senza
luci, molto sporchi dal punto di vista della confezione... Io non voglio fare il mar-
ginale, anche se mi piacerebbe molto essere sgrammaticato come nei Ritratti,
dove l’elemento dell’azione è ridotto quasi a zero; ci sono io, la telecamera che
è un occhio, i miei occhi e l’oggetto del mio racconto: la mia attrice. Il ritratto è
una specie di home-movie dove i suoni vengono continuamente tagliati insieme
all’immagine. Anche la musica che ho messo nella presa diretta e che fa da sfon-
do mentre faccio l’intervista viene tagliata bruscamente, non c’è una musica di
post-produzione, tutto è tagliato a netto, sono passaggi ruvidi... tutto è amatoria-
le, al suo grado massimo e quindi totalmente libero.

IS: Sei l’unico regista che ha fatto due ritratti a due attrici. Un atto d’amore
assoluto nei loro confronti?
GP: Ne La vita che vorrei c’è il provino di Sandra che guarda in macchina e parla
con il regista, credo ci sia una specie di segnale che va in quella direzione, di
annuncio di un personaggio che è affascinante, però ambiguo. C’è qualcosa di
solare e di sinistro insieme, quindi c’è forse qualcosa lì, anche nell’astrazione del
bianco e nero... Invece Margherita Buy ha un passo più discreto. È strano perché
Margherita è meno disturbante per certi aspetti, però, poi quando entra nel vivo
di quella strampalata intervista, anche lei sembra sentirsi a suo agio, desiderosa
di prendere dei rischi.

IS: Cosa ti ha spinto a realizzarli?


GP: Per avvicinarmi ad un contatto più intimo... Per avvicinarmi a degli aspetti
di Margherita o di Sandra che ci rivelano qualcosa di insolito, di non facilmente
immaginabile. È c’è anche un aspetto ludico. La cosa interessante è che non c’è
nessun nome e cognome, non c’è nessuna intervista di tipo giornalistico, nessun
gossip, nessuna rivelazione ma nello stesso tempo c’è qualcosa che fa nascere il
sospetto che da parte mia ci sia un atteggiamento manipolatorio. Credo comun-
que di essermi fermato un attimo prima, di aver mantenuto un atteggiamento
lucido, vigile. È sempre il racconto che ha il sopravvento e volevo raccontare
loro, in un modo diverso, attraverso il mio sguardo.

IS: Sei andato a braccio?


GP: Avevo un’idea generale delle domande ma sono andato assolutamente a
braccio.

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IS: Dopo quattro film con la Buy e due con la Ceccarelli eri ancora alla ricerca
di un loro sguardo che non avevi ancora catturato?
GP: Beh, no... In un film c’è un’economia generale per la quale devi sacrificare
qualcosa. Sono anche filmati che possono provocare un disturbo, che potrebbe-
ro non piacere, ma c’è qualcosa in questi Ritratti che non troveresti mai in un
film, e nemmeno in un’intervista. Sandra, ad esempio, non riesce ad essere sul
lavoro come è nella vita o in quella dimensione, nel modo in cui si manifesta nel
ritratto. Anche a Margherita non capita spesso di mostrarsi in quel modo...

IS: È cogliere uno sguardo particolare?


GP: Non ho mai amato eccessivamente lo sperimentalismo però, più passa il
tempo e più vorrei divertirmi. Mi piacerebbe che mi proponessero. “Piccioni per-
ché non fai un western?”. Mi piacerebbe molto per la valenza simbolica che pos-
sono avere ingenuamente queste storie, non dichiaratamente intellettualistiche.
Però nello stesso tempo sono attratto dal desiderio d’infrangere qualche regola,
di non rispettare i limiti e forse i Ritratti rappresentano un po’ questo, un’infra-
zione alla deontologia, un non rispettare le distanze. C’è una confusione tra per-
sonale, pubblico e professionale e mi piace raccontare qualcosa che entri in col-
lisione o in armonia con qualcosa della tua vita privata. E anche in letteratura mi
interessa sempre più quella che odora di qualcosa di vissuto... Per esempio mi
piace Roth, Emmanuel Carrère, l’autore de La settimana bianca e che ha scritto
quel romanzo dal quale Laurent Cantet ha tratto il film A tempo pieno su quel tale
chi perde il lavoro ma non dice niente alla famiglia, continua a far finta di lavo-
rare e poi fa una strage.

IS: E che l’anno successivo fu portato sullo schermo da Nicole Garcia con il tito-
lo L’avversario... Bellissimi entrambi.
GP: Carrère racconta, in un’intervista recente, di essere attratto da queste cose e
di essersele andate a cercare. Quando questa persona fu incarcerata lo cercò per
intervistarlo e lui sulle prime non volle saperne. Quando questo tipo venne a
sapere che Carrère era diventato famoso perché aveva scritto La settimana bian-
ca, fu lui a contattarlo.

IS: È come se tu dicessi che hai voglia non dico di diventare più cattivo ma di
voler sprigionare più acidità...
GP: Diciamo che vorrei che il mio limite, che la mia asticella fosse un po’ più
alta, non vorrei aver paura di esplorare cose che sicuramente stanno dentro di me
e che però finora non ho tirato fuori fino in fondo. Mi sembra che il mio debba
essere inteso come un mestiere che è fatto anche di grandi errori, perché si fanno

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passi falsi, proprio quando si è animati da un desiderio leale di conoscenza. Però


sai che, quando vai in quella direzione, il pubblico non ti segue... I ritratti, nella
loro semplicità, si espongono molto al rischio di non piacere.

IS: Dopo aver visto i Ritratti, mi son venute in mente le affermazioni di alcuni
maestri del cinema. “Secondo me tutte le star hanno un segreto. In loro c’è sem-
pre qualcosa che non sai e che vorresti sapere (George Cukor), “Tutto ha inizio
con il viso dell’attore” (Ingmar Bergman), “Per me la cosa più interessante del
cinema è il volto” (Louis Malle), “Il primo piano è l’anima del cinema” (Jean
Epstein). In Ritratti c’è qualcosa di primordiale che rimanda al cinema muto, la
ricerca di una “verginità dello sguardo”, come direbbe Wenders?
GP: Sì, anche perché, come ti dicevo, sono girati con una tecnica approssima-
tiva. C’è una profanazione, una vicinanza che rende impossibile una fuga, un
nascondiglio. I Ritratti per me sono stati un’esperienza molto forte proprio per-
ché contenevano dei rischi, delle controindicazioni. Il fatto di poter girare solo,
con una piccola telecamera, io e la mia attrice senza mediazioni, di non essere
giornalistico nelle domande, è come se, dal punto di vista del linguaggio, fosse
venuto fuori qualcosa di più complesso di un film vero e proprio. Usare il
suono in presa diretta, il suono che viene dallo stereo, che nel montaggio viene
tagliato, creando degli sbalzi continui, delle progressioni nel tono emotivo del-
l’intervista mi sembrava molto interessante. Non sono interviste classiche, non
è il primo piano codificato del racconto cinematografico; nei Ritratti c’è un
primo piano dove la telecamera indugia, è come se fosse la prima volta che si
riprende qualcuno. Indugia per provocare, per avere qualcosa di inatteso, una
sorpresa, una rivelazione, qualcosa. Il mestiere dell’attore mi sembra tra i più
spericolati che possa conoscere e nello stesso tempo, di questo mestiere, mi
sfugge continuamente il segreto. Un attore è un essere umano ed offre di sé
tutto il bene ed il male, il suo istinto, il suo narcisismo, ma anche il suo disa-
gio, la sua inadeguatezza ad esempio, a volte anche la sua infelicità. Se pensi
a un attore come Marlon Brando; è diventato quello che è diventato, più che
un’icona della bellezza un’icona dell’autodistruzione. Credo che sia un mestie-
re dove gli attori, non so come dire, vivono ad un passo dal baratro, c’è un lega-
me con l’esistenza e con la vita vera che è costantemente minacciato. Li guar-
do con grande comprensione e ammirazione perché una parte di me, quella che
vorrebbe essere attore non può esserlo, per timidezza, per mancanza di corag-
gio. Vorrei sempre trovare quel punto di equilibrio o di rottura o di congiun-
zione che c’è tra la persona reale ed il suo fingere. A volta in Sandra era molto
forte, come se in lei ci fosse un elemento di verità che offre all’obiettivo con
grande facilità, mi sembrava molto interessante; l’esatto contrario di

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Margherita che riesce ad abbandonarsi ma a mantenere sempre quell’ultima


difesa che mette tra te e lei.

IS: I Ritratti sono andati in sala?


GP: No, sono andati al Festival di Venezia, nella sezione “Nuovi Territori” poi
sono stati trasmessi su Sky per due passaggi e poi io li ho ritirati. Sono andati in
un paio di festival, ma li tengo da parte. Devo dire che ho visto persone che
rimangono a guardarli a bocca aperta, come se fossero spaventati da tanta inti-
mità; per il modo di essere di Margherita, molto curioso; il ritratto di Sandra è,
invece, più scuro, più “underground”. Anche Margherita è molto generosa nel
lasciarsi andare. Ad un certo punto le ho detto di mettersi a canticchiare davanti
alla telecamera. Lei si è divertita molto, ovviamente. Certi slanci fatti senza cal-
colo, nutrono il tuo lavoro e lo rendono meno costretto nella routine, nel profes-
sionismo. Io penso di conoscere il mestiere, di sapere che cos’è il mestiere di
regista, però spero di non finire nella trappola del professionismo, perché il pro-
fessionismo prevede un distacco che sconfina nel cinismo. Anche nella letteratu-
ra; certe volte sembra che dei romanzi escano per contratto.

IS: Quanto ti sono costati i Ritratti?


GP: Pochissimo. Ero solo io, con la telecamera; per quello di Margherita in più
c’era una luce sullo sfondo. Quello di Sandra neanche quella. Però ci ho guada-
gnato, li ho venduti a Telepiù. Li ho ritirati perché li volevo impreziosire.

IS: Quali sono stati i tuoi aiuto registi?


GP: Riccardo Cannone ne Il Grande Blek (dove era anche scenografo), in Chiedi
la luna, Condannato a nozze, Cuori al verde e Fuori dal mondo. Una collabora-
zione preziosa la sua, soprattutto in quegli anni. Poi c’è Alina Marazzi in Luce
dei miei occhi, Laura Muccino in La vita che vorrei, Sophie Chiarello in Giulia
non esce la sera e Marcella Libonati in Il Rosso e il Blu.

IS: Ed i tuoi assistenti alla regia?


GP: In ordine cronologico Giuseppe De Nardis ne Il Grande Blek, Loredana
Conte in Cuori al verde, Alina Marazzi in Fuori dal mondo, Giulia Gentile in
Luce dei miei occhi, già segretaria di edizione in Fuori dal mondo, Chiara Polizzi
ne La vita che vorrei, Giulia non esce la sera e Il Rosso e il Blu. Poi ce ne sono
altri come Massimo Apolloni, Fabrizio Provinciali e altri...

IS: Ed i tuoi collaboratori più stretti?


GP: Insieme a Chiara Polizzi c’è sicuramente Paola Bonelli, segretaria di edizio-

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ne di tanto cinema italiano, poi ci sono altre persone importanti come Massimo
Apolloni, appunto, Fabrizio Provinciali, Marta Bertini, scrittrice in erba, Alessia
Moretti, Giulia Ghigi ed Alessia Arcolaci, collaboratrice, Dario Jurilli, giovane
regista uscito dal Csc. Poi c’è la collaborazione “storica” Esmeralda Calabria che
non è soltanto una montatrice. E poi ci sono gli amici, quelli che consigliano,
confortano come Claudio Pizzingrilli, scrittore, Pierpaolo Pirone, Gualtiero
Rosella, entrambi sceneggiatori, Alice Roffinengo montatrice, Sandro e Valeria
Savorani, e infine Laura Piccioni, mia sorella, la mia più grande fan, senz’altro
la più generosa. E poi tanti altri tra cui sicuramente qualcuno che non mi perdo-
nerà di non averlo citato... Lo metteremo nella seconda edizione del libro, no?

IS: Ancora un’ultimissima curiosità. La società di produzione che hai fondato si


chiama Bartleby Film. Un altro omaggio letterario?
GP: Sì a Bartleby lo scrivano di Herman Melville un personaggio che qualunque
cosa gli chiedano risponde: “Preferisco di no...”. Un irrefrenabile desiderio di
sottrarsi, di sfuggire alle aspettative degli altri.

IS: Con la Bartebly film hai prodotto il poetico e struggente film di Alina
Marrazzi Un’ora sola ti vorrei...
GP: Sì, sono stato uno dei tre produttori del film di Alina. Il film di Alina era un
documentario toccante che molti hanno amato: Un’ora sola ti vorrei. Il budget
era esiguo e sono riuscito a coinvolgere quella che allora si chiamava Telepiù
che, grazie a Fabrizio Grosoli, ci ha dato una grande mano a produrlo. Per il resto
si trattava soprattutto di sostenere il lavoro di Alina, soprattutto nella fase di rea-
lizzazione, e di trasmettere un po’ di fiducia nel progetto e di entusiasmo. Ma non
è poca cosa. Fiducia e entusiasmo non si trovano a buon mercato. Prevalgono
invece invidie, slealtà, scorrettezze.

IS: Il tuo ultimo film in sala si chiama Il rosso e blu...


GP:  È stata Donatella Botti della Bianca Film, la mia nuova produttrice (dopo
quattro film prodotti da Lionello Cerri) a suggerirmi di leggere il libro di Marco
Lodoli. Quello con Donatella è stato un incontro determinante in questo partico-
lare momento della mia carriera. È una produttrice coraggiosa, tenace, curiosa.
Così ho letto questo libro Il rosso e il blu che in realtà è una raccolta di raccon-
tini, cronache, piccole divagazioni sul mondo della scuola. È un libro ricco di
suggestioni, sincero nell’ispirazione, il modo che Marco ha di parlare della scuo-
la è del tutto personale, mai scontato. Dal titolo si può facilmente immaginare
che il riferimento è alla matita rossa e blu, agli errori veniali e gli errori gravi...

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IS: Gli errori nella vita o quelli degli studenti?


GP: Diciamo che il film suggerisce delle riflessioni sul tema per quanto riguarda il
mondo degli adulti ma il tono che ho scelto è quello della commedia, condita da leg-
gerezza ma pur sempre un film mio, attraversato da qualche inquietudine.

IS: Su chi è puntato lo sguardo? Più sugli adolescenti o sugli adulti?


GP: È prevalentemente sugli adulti, i ragazzi sono raccontati prevalentemente
attraverso lo sguardo degli adulti. Senza voler dar un taglio sociologico alla
vicenda, è un film che racconta la scuola, identifica alcuni segnali, alcuni motivi
di disagio, di preoccupazione, ma vuole mettere a fuoco ciò che di quel mondo
va difeso. C’è un vecchio professore, interpretato da Herlitzka, che è giunto ad
una specie di deriva, i suoi comportamenti sono bizzarri, anche divertenti per
molti versi. È un personaggio caustico, sprezzante, disilluso, disincantato. C’è
poi un volenteroso supplente, interpretato da Scamarcio, che vuole a tutti i costi
piegare, indirizzare, dare un segno nella sua esperienza di insegnante e che sem-
bra credere totalmente in quello che fa e c’è una preside, interpretata da
Margherita Buy, che ha a cuore, forse anche in maniera eccessiva, le regole e i
confini di quel mondo. Un film dove si affacciano molti volti interessanti, nuovi;
una è Lucia Mascino, la protagonista di un bel film indipendente Un altro pia-
neta, con lei alcuni giovanissimi davvero promettenti: Davide Giordano, Silvia
D’Amico, Nina Torresi e molti altri. La cosa che più mi interessava era quella di
raccontare con affetto un’esperienza che credo sia decisiva per ognuno.

IS: È un liceo?
GP: Sì, siamo intorno ai sedici, diciassette anni, senza specificare che tipo di liceo.
Sicuramente non mancano le scene divertenti, dichiaratamente di commedia.

IS: È la prima volta che ti affidi ad un testo


GP: Sì, anche se abbiamo riscritto il soggetto io, Marco Lodoli e Francesca
Manieri, una giovane che viene dal Centro Sperimentale. Di lei avevo letto alcu-
ni lavori e mi aveva colpito per la sua bravura. La sceneggiatura è scritta da me
e da Francesca.

IS: Nulla a che fare con La scuola di Luchetti?


GP: Io non l’ho rivisto il film di Luchetti eppure mi sembrava un film diverten-
te, felice, ispirato. Non lo so, non mi sembra, anche se ogni volta che racconti un
professore, una classe, il rischio che i film in alcuni aspetti si avvicinino può
esserci.

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IS: Pensavo al film di Luchetti perché anche lì c’erano delle caratterizzazioni dei
personaggi; l’insegnante frustrato (Bentivoglio), l’insegnante romantico (Silvio
Orlando)...
GP: Non lo so, credo che il tono sia un po’ diverso.

IS: Che aggettivo daresti al tuo film?


GP: La cosa che ho cercato di fare è stato quello di dire; non facciamo la solita
messa sui mali della scuola perché ormai credo che questo esercizio sia un eser-
cizio troppo facile. Troppo facilmente raccontabili i disagi, i malesseri di quel
mondo, e anche le responsabilità. Ho pensato che, per una volta, più che fare un
pamphlet, si potesse puntare una luce su quel mondo, sottolineare come la scuo-
la sia un luogo prezioso, che va protetto, salvaguardato e ho cercato di far emer-
gere un sentimento che non trovi spesso nei racconti che facciamo di questo
mondo, spesso compiaciuti di dare una visione spettacolarmente negativa.
Questo sentimento è la speranza. Penso che quello che viviamo sia un periodo in
cui i registi debbano sforzarsi di propagare qualche energia, qualche segnale di
speranza appunto.

IS: Non hai mai voluto dare un taglio sociologico ai tuoi film
GP: Io non l’ho mai fatto, non mi sembra.

IS: Però sarà inevitabile che tutti faranno il paragone tra il “microsistema”
scuola ed il “macrosistema” società...
GP: Sì ma non ho mai fatto la denuncia, il grido di indignazione. Non ancora. E
poi mi è piaciuto moltissimo lavorare di nuovo con Margherita Buy con la quale
ho ristabilito un’intesa che non immaginavo fosse così facile. Mi sembrava di
aver lavorato con lei da poco, invece Fuori dal mondo è del 1999 e sono passati
da allora tredici anni. È stata una bella emozione ritrovare Margherita, “bistic-
ciare” un po’ con lei, che è una cosa molto divertente e piacevole, e poi in realtà
c’è una grande stima tra noi.
Anche in questa storia è una donna che non ha avuto figli, ma la sua mancata
maternità viene rivendicata. Lei scopre che un ragazzino della scuola dorme in
palestra. Verso di lui, istintivamente, prova dapprima ostilità poi è inevitabil-
mente coinvolta, nasce un sentimento che la avvicina al ragazzo, senza per que-
sto mettere in discussione le sue scelte fondamentali. Insomma non cerca un sur-
rogato della maternità, non è questo che vuole. Mi è piaciuto moltissimo lavora-
re con Roberto Herlitzka, cercavo un attore che esibisse teatralità, che vivesse
una specie di deriva, anarchica, imprevedibile. Un insegnante che mette in scena
lo spettacolo della sua disillusione, e poi non c’è niente di più vicino al teatro di

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un mestiere come quello dell’insegnante, la cattedra è il suo palcoscenico. E lui


fa delle performance un po’ paradossali perché antididattiche per cui sconcerta e
stupisce i suoi ragazzi. Anche lui fa i conti con qualcosa del suo passato, con
qualcosa che è più di un fallimento, che è un disincanto totale. Tutto il film, se
vuoi, ruota intorno all’incontro tra persone che hanno dei paradigmi, dei punti di
riferimento e degli elementi di disordine che porta la vita, i ragazzi in questo caso.
Ad esempio Scamarcio incontra una ragazzina che all’apparenza risponde in tutto
e per tutto al prototipo dell’aspirante velina, e nello stesso tempo contraddice
totalmente questa idea, perché anche quella è un’idea che ci viene proposta dai
media, un’idea pigra che spesso non ha a che fare con la realtà delle persone.
Confondiamo spesso l’apparenza, quello che ci viene raccontato dai giornali, con
quella che è la realtà. In una scuola fanno le riprese con il telefonino a un’inse-
gnante e subito pensiamo che in tutte le scuole accada la stessa cosa.

IS: Il rosso e blu rimanda automaticamente a Il rosso e nero di Stendhal? Mi


chiedevo se la struttura narrativa rimandava ad un romanzo?
GP: Forse è vero, il titolo rimanda anche all’idea di un romanzo ma non c’entra
per niente Stendhal. C’è qualcosa nei miei film che rimanda ad una struttura di
un romanzo, nel senso che c’è una preoccupazione per il racconto e per i perso-
naggi. La mia formazione è quella.

IS: Dal punto di vista stilistico?


GP: Non ho avuta nessuna ossessione registica. L’ho girato con molta semplicità,
nascondendomi dietro i personaggi, le loro storie.

IS: Macchina a mano?


GP: No, niente macchina a mano, tutto molto classico, campi, controcampi, vole-
vo una regia invisibile. Solo in poche occasioni ho sottolineato qualcosa. Ad un
certo punto c’è un’inquadratura che è molto significativa perché mi è venuta in
quel momento, mentre stavo girando. Mi sono accorto che la scena offriva la pos-
sibilità di far parlare i luoghi, più che le persone, di far parlare le voci lontane nei
corridoi, l’aula deserta. Quella mi è sembrata una delle pochissime indulgenze di
tipo registico, un momento in cui metto in evidenza la mia firma. È un film molto
immediato e rispetto ai miei ultimi film c’è una quota di speranza maggiore. A
proposito di speranza c’è un’altra scena in cui Margherita Buy va a trovare
Brugnoli, questo ragazzo abbandonato dai genitori e lui, così come aveva fatto
all’inizio della storia, vede che ha con sé una borsa e le chiede “che mi hai por-
tato?”. Lei stavolta qualcosa ha portato per lui, non è brusca come nel loro primo
incontro. Comincia a rovistare nella borsa dicendo “adesso ti faccio vedere che

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ti ho portato...” sotto lo sguardo pieno di desiderio, di curiosità del ragazzo. La


mdp si allontana dalla scena senza mostrarci cosa contiene la borsa. Non ce n’è
bisogno. Cos’è che ha portato questa donna al ragazzo? La speranza, solo que-
sto. Un po’ di speranza...

IS: Mi fai venire in mente che ne Le vita che vorrei fai dire ad uno dei perso-
naggi:“Dateci un finale con una speranza”
GP: Sì, esattamente. Sembra che questo film una speranza ce l’abbia...

IS: Nei tuoi film hai sempre curato la colonna sonora. Chi è che la firma?
G.P: Sono due musicisti, Ratchev e Carratello, gli stessi di Pranzo di Ferragosto
e di Gianni e le donne. In questo film non ho messo nessuna canzone.

IS: Girato a Roma.


GP: In buona parte girato in una scuola a Monteverde Vecchio e poi in altri luo-
ghi sparsi per Roma.

IS: È sempre più difficile fare film in Italia?


GP: Sì, perché ci sono molti equivoci. È difficile fare dei film personali che nello
stesso tempo hanno una reale ambizione a conquistare un rapporto con il pubbli-
co. La sensazione mia è che i cosiddetti film che sembrano essere sulla carta
complessi e personali in verità sono i film meno sorprendenti da quel punto di
vista; film che non nascondono segreti, che non hanno misteri sotterranei, dop-
pifondi, passaggi segreti. E la sensazione che ho quando mi capita di vedere un
vecchio film, anche un musical. Per esempio The Artist mi è sembrato un film
molto complesso, nonostante la sua struttura fiabesca, con tante riflessioni sul
tempo, sulla percezione. Mi sembrava un film molto interessante, ma anche
molto generoso con il pubblico. Dall’altra parte c’è una standardizzazione delle
richieste del mercato e tranne pochi registi che hanno avuto la fortuna, meritatis-
sima, di trovare all’estero, nei festival, la loro consacrazione, sono pochi quei
film in cui puoi dire: “Qui c’è uno sguardo”, “Qui c’è un mondo”.

IS: Mi fai venire in mente quello che disse un tempo Federico Fellini “C’è un
film, voglio dire l’idea, il sentimento, il sospetto di un film che porto appresso da
quindici anni; appare puntualmente alla fine di ogni film, sembra voglia ripro-
porsi, farmi capire che ora tocca a lui, mi studia e una bella mattina non c’è
più...”. Condividi questa sua emozione?
GP: Mi capita di pensare che il film vero sia sempre un altro, che tutto quello che
ho fatto finora non è che un’approssimazione ad un’idea più grande, un’idea smi-

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surata di tanti film da fare, di tante occasioni da raccontare e mi sembra sempre


di essere in ritardo e che sono troppe le suggestioni e che queste suggestioni sono
veramente le suggestioni del film decisivo della mia vita, quello che ancora non
ho fatto. Ogni regista si sente incompreso, si sente sottovalutato dalla critica e
dagli spettatori, pensa che avrà un declino e morirà nell’assoluta indifferenza dei
contemporanei. E poi ci sono i giovani registi che spuntano fuori come funghi,
che prenderanno il tuo posto. Penso però che ogni regista coltivi il suo sogno,
insegua un’illusione. D’altra parte, quando inizio il film, lo vivo come una pena
da scontare perché il film mi espropria la vita per un anno, mi sottrae alla vita di
tutti, a quelle pause, improvvisazioni che amo avere nella vita quotidiana. Quando
non faccio film non sono uno stakanovista, ho bisogno di grandi pause, di momen-
ti di vita personale, anche a scapito del mio conto in banca. Intendiamoci, quando
parte un film sono felice, però penso: “Mamma mia adesso entro in questo tun-
nel... Quando finirà?”. Poi quando sono nel tunnel, mi rendo conto che ci sto bene
ed allora mi sembra che quella sia davvero la vita, non è un momento che inter-
rompe la vita, al contrario io sono al meglio delle mie qualità di essere umano.
Anche fisicamente sono più vigile, sono meno ipocondriaco, il cuore pulsa rego-
larmente, la mia sensibilità, l’attenzione sono al massimo. Sono nel cuore di una
comunità in cui occupo un posto decisamente privilegiato.

IS: Chiudiamo con il botto? Una frase che il lettore può scolpirsi nella propria
mente?
GP: Credo di aver fatto mia quella massima di Truffaut: “Raccontare cose impor-
tanti senza averne l’aria”. Almeno in quest’ultimo film.

IS: Davvero in chiusura... Se dovessi improvvisare qui, su due piedi, un elenco


di letture, canzoni, attori, esperienze varie, film che ti piacciono e che, in qual-
che modo ti hanno formato, che diresti? Tutto d’un fiato, con molte possibilità di
errori e omissioni”...
GP: Allora... Mi piacciono certi film di John Ford: Il traditore e Sfida infernale,
Ombre rosse e L’uomo che uccise Liberty Valance. Mogambo mi diverte. Di Hawks
Susanna, Il fiume rosso, Un dollaro d’onore, Dean Martin in Un dollaro d’onore,
Renoir de La Bete Humaine e Il testamento del mostro, Glenn Ford in Human
Desire (remake de La bete humaine ma in quel film c’è Gloria Ghrame, grandissi-
ma). Carné di Les enfants du paradis, Le jour s’eleve, Gabin, Gabin e Gabin in Pepé
Le Mokò di Julien Duvivier. Di Bergman La fontana della vergine, Il settimo sigil-
lo e Fanny e Alexander, di Truffaut, L’uomo che amava le donne, La sirene du
Mississipi e La signora della porta accanto, Schlesinger e poi Nichols, compreso
quello addomesticato da Hollywood nel suo ultimo periodo. Double Indemnity,

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Wilder, Lubitsch di Cloney Brown, To Be or Not to Be e Scrivimi fermoposta, Capra,


La vita è meravigliosa e Kim Novak di Baciami stupido e di Picnic, William Holden
in Sunset Boulevard, poi L’asso nella manica, Squadra Omicidi sparate a vista
(Madigan) di Don Siegel, La Caccia di Arthur Penn, L’inquilino del terzo piano e
Rosemary’s baby di Polanski, i film con Mitchum e quelli con Cary Grant, Ingrid
Bergman e Greta Garbo, Rita Hayworth, Cassavetes e Gena Rowlands: La sera della
prima e Gloria, una notte d’estate, Stanley Donen, Singing in the Rain, ma soprattut-
to Due sulla strada, e Louis Malle di Les Amants, Jean Moreau di Les Amants, Jean
Moreau di Jules e Jim, Faye Dunaway in Un certo Harry Brent e Chinatown, Glenda
Jackson in Donne in amore, Julie Christie in Via dalla pazza folla, Nastassia Kinski in
Tess, Gruppo di famiglia in un interno, La mia solitudine sei tu, The Sound of Silence,
Pensieri e Parole, Here There and Everywhere, Come Together, The Famous Blue
Raincoat, Colazione da Tiffany, Audrey Hepburn, Minnelli di Qualcuno verrà e The
Band Wagon, Cyd Charisse, Frank Sinatra di Qualcuno verrà, Mankiewicz e Cukor,
All About Eve e A Star is Born, Bette Davis, Glenn Ford, Il Grande Caldo e Gilda (la
frase di lancio: “you’ve never seen a woman like Gilda!”, Hitchcock, Notorius,
Notorius e Notorius, Pietrangeli di Io la conoscevo bene e de La visita, il primo Fellini,
il primo Germi, la Mangano e Accattone e Mamma Roma di Pasolini, I Magliari di
Rosi, Douglas Sirk, Rocco e suoi fratelli e Renato Salvatori, Una giornata particola-
re, Scola, Marcello Mastroianni, Debra Winger, Kathleen Turner, Brivido Caldo,
Scorsese di Mean Streets e Taxi Driver, De Niro ne Il Padrino, Brando ne Il Bounty,
Franco Fabrizi ne Il Bidone, Franco Fabrizi ne I vitelloni, Guardie e ladri, Totò e Aldo
Fabrizi in Guardie e ladri, Monicelli di Risate di gioia, Broderick Crawford ne Il bido-
ne, La febbre del sabato sera e John Travolta/Manero, Honky Tonk Man, Gli spietati,
Million Dollar Baby di Eastwood, Jonathan Demme, De Palma di Carlito’s Way, Al
Pacino di Carlito’s Way, Sean Penn di Carlito’s Way, La venticinquesima ora,
Monty/Eduard Norton, Kasdan di Gran Canyon, l’attacco di “you can’t always get
what you want” ne Il Grande Freddo, un vecchio film di Brusati che non si trova più:
I tulipani di Harlem, Invito al viaggio di Del Monte. Visti con i miei occhi: Peter
Gabriel in concerto con i vecchi Genesis a Reading, Inghilterra nel ’72, il concerto ini-
ziò con Watcher of the Skies con Gabriel che appare al vertice di un tronco di pirami-
de sospeso a mezz’aria, e gli occhi fosforescenti, Frank Zappa che suona Arrivederci
Roma al Palazzo dello Sport con un’orchestra di quaranta elementi, l’attacco del con-
certo dei Rolling Stones a Roma nel ’70 con la chitarra di Keith Richard che inizia
Honky Tonk Woman e Jagger che entra in scena con un vestito di raso rosa, Leonard
Cohen in Piazza Santa Croce a Firenze nel 2010, Dolores Ibarruri al Palazzo dello
sport di Roma con la folla che urla “Sì, Sì, Sì... Dolores a Madrid!”. Mi piacciono
Philip Roth e Simenon, Somerset Maugham e Cornell Woolrich, Tolstoj, Melville, I
Beatles, Leopardi e L’Odissea, Battisti, Hendrix, King Crimson, L’avvelenata di

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Guccini, Azzurro cantata da Celentano, Mc Donald and Giles, Something e la chitarra


di Harrison, A Day in the Life, Giulia, “... and in the end the love you take, is equal to
the love you made”, the White Album, la voce di Nina Simone, Leonard Cohen, le
canzonette e stop. C’è dell’altro, tanto altro, ma Stop! ... Getaway l’ho detto? Steve
Mc Queen!”...

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I FILM
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Il grande Blek (1987)

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IL GraNDE bLEK

Anno: 1987
Durata: 106’
Origine: Italia
Formato: Panoramica a colori
Produzione: Vertigo film
Distribuzione: Life International - Columbia Tri-star Home video.
Regia: Giuseppe Piccioni
Attori: Roberto De Francesco (Yuri) Sergio Rubini (Razzo) Federica Mastroianni
(Claudia) Dario Parisini (Antonio) Riccardo De Torrebruna (Marco) Francesca
Neri (Laura)
Soggetto: Maura Nuccetelli, Giuseppe Piccioni
Sceneggiatura: Maura Nuccetelli, Giuseppe Piccioni
Fotografia: Alessio Gelsini Torresi
Musiche: Lele Marchitelli, Danilo Rea
Montaggio: Angelo Nicolini
Scenografia: Riccardo Cannone
Costumi: Marina Campanale

Premi: Nastro d’argento promozionale e Premio De Sica per il giovane cinema


italiano.

Trama

Novembre 1973. Alla stazione di Ascoli Piceno il ventenne Yuri (Roberto De


Francesco) attende il treno che lo porterà altrove. Un lungo flashback ci rituffa
agli anni della sua adolescenza. Tra i ricordi fanno capolino quelli legati alla
mamma Maria, ossessionata dal cibo e dalle malattie, a Marco (Riccardo De
Torrebruna) il fratello maggiore latin-lover, costretto a sposarsi con la sua ultima
conquista rimasta incinta ed a sua sorella Claudia (Federica Mastroianni), segre-
tamente innamorata di Antonio (Dario Parisini). Sullo sfondo le prime ribellioni
giovanili, le contestazioni studentesche pre-sessantottine, l’incontro con Razzo
(Sergio Rubini) un ragazzo sbandato, disadattato ed anticonformista, incapace di
dominare le proprie spinte autodistruttive. Tra le corse in lambretta con il fratel-
lo, la passione per i fumetti e le gesta di Blek Macigno, Yuri dovrà elaborare il
dolore di un padre che, trasferitosi all’estero, ha formato una nuova famiglia.

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Prima di partire Yuri assaporerà il piacere di una notte d’amore con Laura
(Francesca Neri), ex amica del fratello, proprio mentre Razzo trova la morte
dopo una folle corsa in auto. Il racconto a struttura circolare ci porterà nuova-
mente alla stazione dove Yuri sta per partire.

Film candido e spezzettato che, senza mai scivolare nell’enfasi e nel banale, si
muove con passo felpato verso gli stilemi della commedia leggera ed affronta,
con garbo, il travaglio del protagonista che, di fronte al fascino ed all’incertezza
del divenire adulto, prova a fare i conti con il proprio passato. In questa sorta di
“amarcord” marchigiano, mai nostalgico, melanconico o zuccheroso, Piccioni,
sottraendosi all’epicità del racconto, sceglie i mezzi toni e le atmosfere sospese.
Lo sguardo di Yuri si fa partecipe ed appassionato, velato, in controluce, da un
senso di amara disillusione e disincanto. Esordio di Francesca Neri e di Roberto
De Francesco. Colonna sonora con brani di Rita Pavone, Little Tony, Adamo.
Lucio Battisti apre con Nel cuore, nell’anima e dopo Acqua azzurra, acqua chia-
ra, Io vivrò e Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto, chiude con Un avven-
tura (IS)

Frasi cult

Claudia: “Perché ci allontaniamo dalle cose che amiamo?”

Yuri: “Vorrei essere come il grande Blek, l’eroe dei fumetti... Vorrei partire ma
non vorrei perdermi tutto quello che succede qui”

Yuri: “Perché ti chiamano Razzo?


Razzo: “Forse perché vado sempre di corsa, pure quando sono nato...”

Marco: “Uno dovrebbe fermarsi a 20 anni. Solo da giovane si può essere pove-
ro ed un po’ matto. Te lo immagini se mi nasce un figlio? Che gli racconto? Che
suonavo in un complessino beat e mi facevo tutte le ragazze che mi capitavano
a tiro? Porca miseria che fregatura”

Yuri: “Io comunque ci vorrei tornare qui”


Paolo: “No io non tornerei mai, magari dopo vent’anni, per togliermi qualche
soddisfazione come la storia di John Lennon. Voi la sapete la storia di John
Lennon?”
Razzo: “No che è?”

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Paolo: “Quando lui era un ragazzino, insomma un poveraccio come noi... C’era
una sua zia che gli diceva sempre: ‘Guarda che con la musica... la musica non
ti darà mai da vivere’. Bene quando lui è diventato famoso e ricco a questa zia
ha regalato una villa e le ha scritto sulla porta, le ha scritto le parole che gli
diceva sempre la zia. Incredibile eh?”
Razzo: “Adesso ti racconto un’altra storia ‘rosso’: C’era un morto di fame si
chiamava Gino Santolimone no? Beh che c’è da ridere? Si chiamava così! Si era
messo in testa di fare il cantante, però il padre gli diceva sempre: ‘Se tu ti metti
a fare il cantante, muori di fame’. Oh così è stato, s’è morto dalla fame che ha
avuto per tutta la vita. E come questa storia ce ne stanno tante altre hai capito?
E sono molte di più di quelle che conosci e che racconti tu! Incredibile eh?
Incredibile!”

Professoressa: “Sei un ragazzo intelligente, credi in quello che dici, vorresti cam-
biare il mondo ma sono proprio quelli come te che si fanno strumentalizzare”
Cassini: “Noi siamo strumentalizzati 24 ore su 24, si anche da gente come lei.
Dite tutti che dobbiamo solo occuparci dei fatti nostri. Bene, siamo d’accordo,
perché fino ad oggi dei fatti nostri ci hanno pensato solo gli altri. Sì, io voglio
cambiare il mondo ma cominciando fino ad adesso a cambiare la vita di tutti i
giorni. Io e quelli come me vogliamo avere il controllo diretto della nostra vita,
fin da ora. Solamente così il futuro sarà davvero nostro e chissà forse sarà anche
migliore di quello che lei ci augura”

Razzo”Oh a che pensi?”


Yuri: “A mio fratello. A volte mi chiedo se è cambiato perché è cresciuto oppure
perché... non lo so. Cioè io... cioè mi chiedo se c’è una strada obbligata per
diventare grandi, capisci? Forse si può essere felici pure mettendo al mondo dei
figli, crescendo, lavorando, cioè ci deve essere un modo. Tu che ne pensi?
Razzo: “No guarda io non ne penso niente, cioè io non ne capisco niente. Queste
cose che dici tu io proprio non le capisco, io non sono come te capito?Io sono
Razzo!Hai capito?”

Yuri: “Se potessi fermerei tutto, vorrei essere come Blek”


Cassini: “Chi è Blek?”
Yuri: “È un eroe dei fumetti e gli eroi dei fumetti non invecchiano. Non lo so il
guaio è che ho voglia di fare troppe cose, per esempio vorrei partire, ma non mi
va di perdermi tutto quello che succederà qui. Certe volte penso alla morte, al
fatto che morirò, io c’ho paura; quelli che dicono di non aver paura della morte
non li capisco, non ci credo. Ci sono persone che prima di morire si mettono

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addirittura a fare discorsi, si mettono a dare conforto agli altri. È assurdo!


Qualche tempo fa è morto un mio zio, non lo vedevo quasi mai però, per esem-
pio, è stato lui a farmi dare questo nome: Yuri, beh comunque lui mentre stava
per morire era lucidissimo, lo sapeva. Gli stavano tutti attorno, gli facevano un
sacco di domande; lui non rispondeva a nessuno e io lo so perché, perché era
troppo impegnato a vivere. La morte è assurda è un ingiustizia. La gente poi ci
si rassegna come se si trattasse del raffreddore o la calvizie”
Cassini: “Io penso che un giorno ce la faremo a sconfiggere la morte, prima di
allora io spero che il mio corpo non sia ancora decomposto, così possono rige-
nerarmelo. È per quello che non mi farei mai cremare, non si sa mai”
Yuri: “Lo sai che mi succede?”
Cassini: “Comunque ad essere sincero adesso mi preoccupa di più la calvizie”
Yuri: “Lo sai che mi succede? Alle volte quando faccio una cosa ho paura di per-
derne tante altre. Non lo so ma mi sa che uno invecchia proprio quando comin-
cia ad avere paura di perdere tempo”
Cassini: “Nel duemila io avrò 46 anni. Io lo voglio vedere il duemila”
Yuri: “Dio mio 46 anni”
Cassini: “Faremo appena in tempo ad affacciarci al terzo millennio, la nostra
generazione è a cavallo di due millenni ci pensi?”

Antologia della critica

“Prima di tutto consentiteci di essere lieti nel recensire (questo significa che un
uscita nelle sale c’è stato) il “piccolo” film di un autore autoprodotto con al sola
assistenza dell’art. 28. Il Grande Blek è un omaggio allo sguardo sulle cose del-
l’infanzia e dell’adolescenza sinceramente autobiografica. Piccioni non ha pas-
sato da molto i trent’anni ed è di Ascoli: e così la sua opera prima è anche un film
sulla provincia e sugli Anni Sessanta. Quello che piace è l’onesta dell’operazio-
ne: con tocco lieve l’autore racconta la scoperta del mondo di un “giovane nor-
male” attraverso una serie di dettagli d’epoca sull’ambiente tutti rigorosamente
veri, vissuti, riconoscibili. Ma se nella prima parte alla forza del film è quella di
ripercorrere con simpatica umiltà tutti i “luoghi” narrativi e figurativamente lega-
ti al periodo, meno ci convincono l’approssimazione degli stessi criteri alle
sequenze del ’68 e certe tentazioni melodrammatiche”. (Fabrizio Grosoli - Ciak
- Giugno 1988)

“Cinema autobiografico, che all’eccezionale preferisce il consueto, la prosa som-


messa, il plausibile, il quotidiano spiato con un pizzico di buonumore. Amarezza

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graffiti ingagliardirne l’intento vi sono i ricordi ineludibili di una seria cinefilia;


I Vitelloni di Fellini, le commedie all’italiana sulla provincia, gli sgarbi di
Moretti (...) Il film insegue i vari personaggi nei rispettivi interni di famiglia,
nella scuola, nei locali ove abitualmente si danno convegno, in una società dove
non succede niente di nuovo. E intanto Giuseppe Piccioni si diverte a rispoglia-
re un’epoca e a rianimare un clima, un’aria. (...) Il taglio narrativo è fatto di gra-
nelli di vita, frammenti, disegnini, schizzi che, se non riescono ad avere una cor-
posità narrativa, sono aggraziati ed inducono a sorridere. Le caratterizzazioni più
indovinate illustrano un microcosmo domestico descritto con ironia affettuosità,
le acidità tra fratelli, una madre abbandonata dal marito e attratta nelle conversa-
zioni dalle malattie altrui, un figlio che invita a cena una fidanzata sempre diver-
sa”. (Mino Argentieri - Rinascita - 27 agosto 1988)

“Storia di Yuri e dell’amico Razzo negli anni della rivolta studentesca. Ascoli
Piceno come Rimini, ma sul tema della noia e dei vagabondaggi di provincia si
innestano i dubbi, le speranze e le ingenuità di una nuova generazione di giova-
ni. Yuri come Moraldo: il film comincia dove finisce I Vitelloni di Fellini. Yuri è
infatti alla stazione in attesa del treno che lo porti lontano dalla sua città. Ciò che
viene raccontato dopo non è che un lungo flashback della sua vita. (…) Condotto
sul filo della commedia all’italiana d’ambiente provinciale, si distingue da essa
per una sottile vena elegiaca, equilibrata ed ironica, senza però possedere la
malinconica leggerezza di Ecce Bombo di Nanni Moretti. Ritratto segnato dalla
nostalgia delle piccole cose quotidiane e dai miti giovanili (come il fumetto di
cui allude il titolo) che formavano la coscienza di questi futuri piccoli-borghesi
“figli di Marx e della Coca Cola”. (Maurizio Fantoni Minnella - Bad Boys -
Bruno Mondadori Editore - 2000)

“I giovani di provincia. Dopo il ’68. Senza che ci sia politica però, ma ritratti
quasi sempre dal vero: per dire di un clima, di una mentalità, di un modo di vive-
re (…) Ritrattini precisi, tocchi leggeri, note in attento equilibrio fra il sentimen-
to e l’ironia. Con segni d’epoca attorno; canzoni, lambrette, fogge nel vestire che
fanno quasi insensibilmente costume, precisi, meditati. (…) Citando qualche
autore maggiore (come il Fellini appunto dei Vitelloni per un ballo di carnevale),
ma rivelando spesso accenti personali, con occhi che hanno imparato a guardare
e a trasformare in cinema quello che han visto. Un esempio, la piazza di Ascoli
dopo la festa, con i lampadari del veglione ancora accesi, la notte ed il buio che
si fanno avanti, in coincidenza voluta con la fine dei sogni. L’illusione è scoper-
ta ma l’effetto è intenso. Anche per merito del linguaggio. Piccioni farà strada”.
(Gian Luigi Rondi - Il Tempo -29 luglio 1988)

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“Fresco e frizzante come un fumetto, questo film-esordio di Giuseppe Piccioni.


E il paragone non è casuale, visto che all’universo delle storie di carta si è ispi-
rato il titolo e forse anche lo spirito dell’opera prima del regista. Non si tratta di
una contaminazione di generi. Sul tipo delle trasposizioni cinematografiche ese-
guite sui fumetti di successo da autori anche di notevole levatura come Altman o
Losey; o di quei tentativi di inserire nel contesto visivo cinematografico elemen-
ti derivanti dallo specifico linguaggio fumettistico, come fu fatto, a suo tempo,
da Truffaut, Godard, Resnais e altri registi della Nouvelle vague. Il richiamo al
fumetto è solo uno, e neanche il più evidente, dei tanti fattori espressivi, che con-
tribuiscono alla strutturazione di un discorso visivo quanto mai efficace nel ripro-
durre un periodo finora poco esplorato, perché ancora a noi troppo vicino: gli
Anni Settanta, che nelle formazioni di una cultura giovanile sono stati importan-
ti non meno del decennio che li ha immediatamente preceduti. (…) Piccioni non
ha nessun intento didascalico, né tantomeno politico: egli torna a guardare quel
periodo e quella particolare atmosfera con gli occhi di chi li ha vissuti personal-
mente e li riassapora con nostalgia. L’aggancio con il fumetto è semplice, ma non
superficiale: le strisce di Blek Macigno e dei suoi compagni, il dottor Occultis e
Roddie, sono evocate nel titolo e compaiono in tre momenti del film. (...) In que-
sto modo, il fumetto si fa supporto delle mitizzazione e dello sguardo nostalgico
verso il proprio mondo adolescenziale, che va ormai perdendosi.: quel mondo
che un fumetto d’avventura può ben raccontare per analogia, perché c’è un
approccino o alla vita vissuta come un’avventura che si aggiunge ad affrontare,
con baldanza e anche con incoscienza. (…) Il film termina a metà tra melanco-
nia e fiducia nell’avvenire con il primo piano della mamma di Yuri, triste per la
partenza del figlio, e il paesaggio delle Marche che scorre dai vetri del treno
mentre si spandono le note della bellissima colonna sonora affidata all’estro di
Lucio Battisti. (…) (Francesco Caputo - Cinema Sessanta).

“L’amicizia tra Yuri (De Roberto) ed il bulletto Razzo (Rubini) ad Ascoli Piceno,
intorno al ’68. Evocazione nostalgica e filologica (dalle canzoni di Battisti al
fumetto che dà il titolo al film) di una generazione. Un’opera prima promettente
e meno lagnosa della media dei film italiani sul tema, anche se non sempre agile
dal punto di vista narrativo Rubini reincontrerà il produttore Domenico Procacci
quando girerà La stazione. Esordio della Neri. (Paolo Mereghetti - Dizionario dei
film”)

“Il grande Blek, “grande freddo” stranamente stemperato da acute nostalgie e da


trasporti sentimentali, è una storia d’altri tempi e nei tempi lontana.

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Lontanissima. Quel che preme a Giuseppe Piccioni non è la rievocazione emoti-


va di un atmosfera “storico-sentimentale”, né il galleggiare visivamente sull’on-
da della rimembranza generazionale. Manca al film (forse fortunatamente) l’e-
stro narcisistica dell’“amarcord” aggiornato. Il grande Blek sembra un film in
costume sugli Anni Settanta e, in quanto tale, “distante” e simpaticamente fuor-
viante. Questo il suo pregio attuale. Il film di Piccioni è molto acuto nel dosag-
gio degli ingredienti, nella scelta dei ritmi emotivi, nelle citazioni (certamente
Truffaut, Wenders, I vitelloni ma anche Luciano Emmer) nella misura con cui è
rimasto l’intero metro onirico del film. Ottimi e stimolanti per spontaneità “simu-
lata” attori e attrici, scenografie e costumi, montaggio e sequenze video-musica-
li”. (Fabio Bo - Il Messaggero - 2 agosto 1988)

“(…) Il grande Blek è un “italian graffiti” sui primi Anni Settanta, cioè pre e post
’68. Prime inquietudini, prime disillusioni, forze centripete e centrifughe. Il film
di Giuseppe Piccioni, ambientato ad Ascoli Piceno, vive di queste irradiazioni,
del prima e del dopo, mescolando tensioni ed abbandono, ottimismo e amarezza.
Eravamo noi, era l’Italia dell’utopia, del sogno “Che i nostri sogni possano
diventare realtà”, è il rosso spruzzo dei ragazzi sui muri della città. Ma la scrit-
ta rimase a metà perché arrivava la polizia: Che i nostri segni poss...” legge il gio-
vane protagonista, passandovi davanti, quella sera del ’73 mentre va a prendere
l’ultimo treno che lo porterà lontano dalla sua città, dalla sua famiglia, e forse dai
suoi sogni, per sempre. Il grande Blek è un film sui sogni spezzati, su una giovi-
nezza interrotta. È un film che si spezza, di tanto in tanto, immobilizzandosi in
qualche foto ricordo o indugiando in qualche pauroso ralenty, quello dei vecchi
al’alba lungo sulla spiaggia, zombi inquietanti. “Andiamo via non voglio veder-
li, io non diventerò mai vecchio”, dice un ragazzo che infatti si getterà nelle brac-
cia della morte lungo i tornanti suicidi”. (Mario Mela - Corriere Adriatico - 14
febbraio 1990)

“Il grande Blek segue le vie più frequentate dei film d’esordio; dal punto di vista
produttivo le vie ministeriali (art. 28) che consentono di pagarsi un paio di buoni
attori ma certo nessun nome di richiamo, e dal punto di vista narrativo l’auto-
biografia più o meno immaginaria, la quotidianità, le piccole cose della famiglia
e dell’età giovanile. Così debuttano tutti, o quasi, ma non è detto che non si possa
ripercorrere con sensibilità e sincerità un itinerario un po’ scontato. Il film non
colpirà i cercatori di casi giovanili, non sfonderà al botteghino della critica (que-
sto comunque è riuscito a vincere il premio per le opere prime agli ultimi incon-
tri di Sorrento) ma si farà vedere e ricordare con simpatia. (…)”. (Alberto
Farassino - La Repubblica - 4 maggio 1988)

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“Il grande Blek rievoca a ritroso tutto ciò che precede la decisione di partire:
strutturato come un lungo flashback che inizia con l’accensione della sigaretta da
parte di Yuri e termina con l’arrivo del treno e la partenza del personaggio, il film
tratteggia un percorso dai connotati marcatamente generazionali (…) Si respira
un’aria vagamente felliniana nel caracollare dei personaggi fra il desiderio d’e-
vasione e l’incapacità di rompere con le vecchie certezze protettive garantite
dalla famiglia: e tuttavia Il Grande Blek non è un “amarcord” né i suoi protago-
nisti sono liquidabili come “vitelloni” d’origine marchigiana. La provincia di
Piccioni non ha più nulla della rapsodica dolcezza né della dolce visionarietà
della Romagna felliniana: Razzo, Yuri, il Rosso e gli altri protagonisti de Il
Grande Blek sembrano piuttosto i personaggi di un film di Pietrangeli che abbia-
no visto American Graffiti. Come nel cult movie di George Lucas, anche gli altri
eroi di Piccioni vivono l’ultima stagione dei sogni e delle illusioni prima delle
scelte che obbligano ciascuno ad affrontare le responsabilità della vita. Qualcuno
ce la fa, qualcun altro no: ma non è questo che conta. Quel che colpisce è l’esat-
tezza con cui Piccioni sa ricreare un mondo fatto di piccoli oggetti e di dettagli
precisi, di interni domestici piccoli borghesi e di rituali domenicali, di mamme
iperprotettive e di amicizie sodali, riuscendo a dare consistenza e spessore a
ognuno dei suoi personaggi e contemperando il rischio dell’effetto-nostalgia con
una patina d’amarezza che inibisce ogni possibile “buonismo” e che sfocia caso
mai nella disincantata presa d’atto dell’inevitabile trascolorare dei sogni e delle
illusioni. (…) il film si chiude infatti con le immagini del paesaggio osservato dal
protagonista a bordo del treno che lo porta via. Razzo è morto, e i sogni son fini-
ti con lui. Forse, la scelta di allontanarsi davvero da ciò che si ama nasce dal-
l’acquisita consapevolezza dell’impossibilità di fermare il tempo, e dalla neces-
sità di cambiare prima che il destino t’inchiodi per sempre in una maschera o in
un ruolo. Come accade, appunto, ai personaggi dei fumetti”. (Gianni Canova -
Letture - Febbraio 2000)

“Un ragazzo di vent’anni, in procinto di partire per sempre dalla città di provin-
cia che l’ha visto ragazzo, rivive gli anni dell’infanzia e della adolescenza, le
prime esperienze amorose, le lotte sessantottine. Soprattutto ricorda l’amico
Razzo, testa matta che morì tragicamente in un incidente”. (Pino Farinotti -
Dizionario dei film)

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Antologia della critica online

“È la storia corale di un gruppo di ragazzi di Ascoli Piceno nei primi anni ’70,
raccontata attraverso i ricordi di uno di loro. L’esordiente Piccioni, marchigiano,
ha fatto un film a basso costo sulla fatica di crescere: debole e approssimativo sul
versante sociopolitico, gioca le sue carte migliori su quello dei sentimenti.
Esordio della Neri. Nastro d’argento e Premio De Sica”. (Laura, Luisa e
Morando Morandini da www.mymovies.it)

“Nell’attesa del treno che lo porterà a lavorare, e a vivere, in un altra città, Yuri
ricorda la sua adolescenza e i suoi amici ad Ascoli Piceno. Soprattutto la virile e
un po’ enigmatica figura di Razzo, un amico più grande che muore in un inci-
dente automobilistico. Poi le manifestazioni politiche, le corse in lambretta, gli
amori e le delusioni, le gioie e i dolori. Interessante opera prima Il grande Blek
prende il titolo da quello di un noto fumetto dell’epoca, che definisce subito il
taglio della nostalgia e del ricordo che Piccioni conferisce (nonostante qualche
ingenuità) alla sua storia”. (www.filmtv.it)

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Chiedi la luna (1991)

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ChIEDI La LUNa

Anno: 1991
Durata: 88’
Origine: Italia
Formato: panoramica a colori
Produzione: Eidoscope srl - RAI 2
Distribuzione: Titanus - Titanus distribuzione video, Number one video
Regia: Giuseppe Piccioni
Attori: Margherita Buy (Elena) Giulio Scarpati (Marco) Sergio Rubini (auto-
stoppista), Roberto Citran (Francesco), Daniela Giordano (Daniela), Mary
Sellers (Laura), Massimo Lodolo (Emilio), Stefano Abbati (Gianluca)
Soggetto: Franco Bernini
Sceneggiatura: Franco Bernini, Enzo Monteleone, Giuseppe Piccioni
Fotografia: Roberto Meddi
Musiche: Antonio Di Pofi
Montaggio: Angelo Nicolini
Scenografia:Massimo Corevi
Costumi: Marina Campanale

Premi: Grolla d’oro per la miglior regia, Sacher d’oro a Margherita Buy

Trama

Marco Salviati (Giulio Scarpati), sposato con Cristina e padre di un bambino,


vive a Verona. Titolare di un’agenzia di noleggio di autovetture insieme a
Giacomo, il fratello maggiore, scopre che quest’ultimo è scomparso con un auto
di rappresentanza e cinque milioni della cassa. Costretto a mettersi sulle sue trac-
ce, fa tappa a Perugia da Elena (Margherita Buy), la fidanzata del fratello, che gli
comunica di non aver più sue notizie da tempo e gli propone di accompagnarlo
da alcuni conoscenti del fratello. Fanno prima tappa a Viterbo da Daniela
(Daniela Giordano) e poi da Francesco (Roberto Citran), ex fidanzato di Elena,
che confida loro di aver prestato dei milioni a Giacomo, ancor prima che sparis-
se, misteriosamente, dalla circolazione.
Dopo essersi imbattuti in un autostoppista in crisi (Sergio Rubini), abbandonato
dalla sua ex fidanzata (Mary Sellers), nel corso del viaggio, le distanze tra Marco
ed Elena finiscono, inevitabilmente, per ridursi ed entrambi comprendono di aver

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vissuto fino ad allora una vita sbiadita ed incolore, fatta solo di rinunce e di vane
attese. Dopo una notte d’amore scoprono che Giacomo aveva organizzato in fret-
ta e furia la fuga per sposarsi con una donna, in dolce attesa. Marco ritorna a
Verona, Elena parte per la Sicilia ma Cupido è dietro l’angolo.

Pellicola leggera come una piuma, tenera e delicata, che si inserisce a pieno tito-
lo tra le cosiddette commedie “carine” all’italiana che impazzavano sugli scher-
mi nostrani sul finire degli Anni Ottanta ed i primi Anni Novanta. In questo road
movie fresco e divertente, Piccioni gioca sul contrasto tra il compassato e meto-
dico Marco e l’ingenua, svampita e confusionaria Elena. A far da contorno ai due
protagonisti un corteo di personaggi “minori”; l’autostoppista che vuole suici-
darsi per non soffrire le pene d’amore, l’ex marito di Elena, un uomo arrogante
e volgare ed il tenero e disarmante Francesco. Con questa seconda pellicola,
Piccioni si conferma regista dotato di uno sguardo sensibile ed originale, capace
di scandagliare, sapientemente, il mondo delle relazioni e degli affetti e si con-
ferma un sapiente costruttori di dialoghi. Buy e Scarpati recitano con garbo e
danno corpo a due personaggi spontanei e credibili. (IS)

Frasi cult

Laura: “Io gli voglio anche bene. Ma come si fa? Lui è fuori dal mondo”
Elena: Ma è per i soldi è perché lui non ha un lavoro?
Laura: No, figurati se sono per i soldi... Beh, sì... Non lo so... Io voglio una vita
tranquilla. Con lui, invece... Non abbiamo una casa, non abbiamo niente. E lui
vuole i bambini. Subito! Due ne vuole, capito?... Poi un’altra volta lui mi ha
chiamato al lavoro, io lavoro dalla mattina alla sera, ogni giorno, qualcuno deve
pure lavorare, no? E mi ha detto che voleva portarmi a cena. Io ero tutta con-
tenta, per una volta lui voleva fare una cosa carina, figurati... Andiamo a questo
ristorante ed era molto bello, molto romantico e tutto quanto, solo al momento
che hanno portato il conto, ho visto che lui non aveva portato i soldi. Anch’io
non ci avevo niente, non ci avevo pensato. Ed allora stavamo lì come due stupi-
di. Lui si è scusato, è andato al bagno, è uscito dalla finestra ed è andato a casa
ed io sono, rimasta come una stronza, senza soldi per pagare il conto. E non per-
ché lui voleva fare una cosa cattiva, è che lui immaginava che io facevo la stes-
sa cosa, che andavo al bagno ed uscivo. Ma io non sono fatta così. Ho lasciato
i braccialetti d’oro al cameriere e sono tornata il giorno d’oro a pagare il conto.
Siamo troppo diversi. Tu ti metteresti con uno come lui?”

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Marco: Credo che succede a tutti quelli che hanno un fratello maggiore. A questo
punto il fratello maggiore sono io. Sai non è mica facile fare il bravo ragazzo. Mi ero
anche iscritto all’Università. Volevo andare via da Verona, a Roma, mio padre era di
Roma. Ci siamo trasferiti a Verona 10 anni fa, poi quando lui... insomma, in famiglia
qualcuno doveva prendere il suo posto. Dopo due mesi ero già sposato con Cristina”
Elena: “Ma perché dici così, se le vuoi bene?”
Marco: “Ci siamo messi insieme troppo presto. Anche a lei come se mancasse
qualcosa, come se mi rimproverasse. Non va, non va, viviamo insieme, lavoria-
mo insieme, mi da anche una mano ma è sempre lì a guardarmi... Io non lo sop-
porto più. Certe volte sarei felice se s’innamorasse di qualcun altro, cioè che
accadesse qualche cosa”
Elena: “Io conosco tantissima gente, ho un sacco di amici, tutti mi dicono che
sono rimasta me stessa però mi sa che è una grossa fregatura perché ci si stan-
ca ad essere sempre sei stessi”
Marco: “E il tuo ex marito come ci sei capitata con quello?”
Elena: “Non lo so, non lo so proprio. Io non ho fatto niente, non lascio niente.
Non ho un vero rapporto, non ho un figlio e non ho neanche un gatto. Tu me lo
faresti tenere un gatto?”

Marco: “Io con te mi diverto. Se volessi potrei lasciare tutto”


Elena: “Non lo farai e poi non ti conviene. Sono un disastro”

“Non è un buon periodo, vi assediano i problemi di sempre. Avete avuto una


buona intenzione ma non basta... È venuto il momento di affrontare le questioni
sospese. Accettate i rischi che la nuova situazione comporta. Abbiate coraggio
ed intraprendenza: chiedete la luna”

Antologia della critica

“I più sinceri complimenti a Giuseppe Piccioni e a tutti indistintamente i suoi


compagni di lavoro. Chiedi la luna, che non è diminutivo considerare una com-
media sentimentale, è davvero un film riuscito”. (Paolo D’Agostini, “La
Repubblica” - 8 settembre 1991)

“(…) Metti che tuo fratello maggiore scappi con approfittando dell’eredità per
fare bella figura con i soldi e la macchina della ditta e sposare così una donna
ricca. Siccome da piccolo lo ammiravi tanto ora ti senti in dovere di andarlo a
cercare e di affrontarlo a muso duro. Come non puoi solidarizzare con la sua

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ragazza dei temi duri, come te piantata in asso e tradita? Due mondi, quello rego-
lato da partite Iva, giacche e cravatte, telefonate a casa ed orribili pelouche com-
prati per il figlio negli autogrill, e l’altro, dove svolazzano assegni a vuoto fir-
mati con nonchalance ed assegni buoni ridotti a pezzetti o rispediti al mittente,
apparentemente opposti, di fatto speculari. Marco ed Elena vedono uno nell’al-
tro il prezzo di rinunce e di scelte che non hanno fatto. Due universi di ordinaria
malinconia che Piccioni racconta con obiettività programmatica, così da lasciar
trasparire, senza artifici, il dubbio e l’incertezza: stati d’animo negati a priori che
proprio per questo finiscono col diventare motore e chiave di lettura dell’unico
evento del film, il viaggio. I protagonisti sono colti da crescente perplessità nei
confronti delle loro scelte di vita, ma senza la contropartita di un’alternativa più
convincente , senza la convinzione che qualcosa, magari l’amore sia meglio.(…)
In particolare la geometria dei sentimenti cardine, che fa convergere le vite paral-
lele di Elena e Marco sullo zero (la nullità morale del personaggio di Giacomo è
enfatizzata dal negargli, ad oltranza, una consistenza iconica) e li porta poi a col-
mare questo vuoto nel modo più “naturale”, è tratteggiata a linee sottili, voluta-
mente incerte. Il topos basilare della commedia sentimentale che trova nel tema del
viaggio, un asse strutturale solido e sicuro, è qui sfruttato in maniera parziale ed
incerta”. (Adelina Preziosi - Segno cinema - n. 53 - Gennaio/febbraio -1991)

“Girando il mondo, uscendo dal bozzolo, ci si avvede che è possibile ottenere le


cose più inattese. Mai rinunciare a chiedere la luna. Lietamente frugando negli
anfratti sentimentali della nuova generazione, così vitale nella sua insicurezza, il
secondo film dell’ascolano trentottenne Giuseppe Piccioni è un’operina morale
molto simpatica per il suo garbo narrativo e la tenerezza del suo sguardo.”Io non
credo di essere Conrad soltanto perché passo qualche giorno in barca”, dice sag-
giamente Piccioni nelle interviste. Conosce dunque i suoi limiti, qui accresciuti
dal basso costo. Il preferire la semplicità di un racconto ben condotto e ben reci-
tato al pretenzioso impegno sociologico di certi neo-neorealisti viene infatti a
premiarlo”. (Giovanni Grazzini - Il Messaggero - 8 ottobre 1991).

“Itinerario sentimentale e realistico attraverso la campagna umbro-toscana.


Chiedi la luna è tra le più riuscite commedie del “giovane” cinema italiano.
Senza cadere nella prevedibilità dell’on the road o in certe presunzioni stilistiche
che animano tanti nuovi autori, Piccioni mostra come si possa fare un buon film
partendo da una storia semplice e conosciuta. Giacomo, fratello maggiore di
Marco, tanto scapestrato quanto il secondo appare posato scompare una mattina
di primavera con la più bella autovettura dell’agenzia di autonoleggio di famiglia
e l’incasso di una settimana di lavoro. A Marco spetta il compito di ritrovarlo, ma

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sulle sue tracce s’imbatte in Elena, la fidanzata di Giacomo ed in un universo di


personaggi sconfitti dalla vita. Elena si accoda a Marco e ben presto i pretesti per
allungare il viaggio diventano sempre più numerosi, rinnovando la fuga, dimen-
sione comune ai registi italiani da Salvatores a Luchetti”. (Michele Gottardi -
Segno cinema - n. 9/10 - ’92)

“Chiedi la luna si presenta come un film leggero. La commedia è tale per defi-
nizione e il regista sembra non aver mai pensato di staccarsi dalla regola. Un
grosso pregio, il suo, anche perché trova alimento in un’irrinunciabile vocazione
pudica, e limite pericoloso quando la smussatura può sostituirsi all’ironia o alla
sgradevolezza del sarcasmo. Il film è assai ben fatto: ritmo, dosaggio dei piani e
delle dissolvenze, montaggio e musiche (davvero piacevoli e ben controllate
sulla soglia del languore), tuttavia non si sfugge al sospetto che ormai ricorre col
giovane cinema italiano quando entra in gioco la famosa “carineria” È più leg-
gero o più carino il film di Piccioni? Entrambe le cose, probabilmente, ma una
risposta parziale può venirci dal confronto, con la “commedia di costume” degli
anni sessanta”. (Tullio Masoni - Cineforum n. 309 - Nov. 1991)

“È un’avventuretta in chiave di commedia episodica nello svolgimento, graziosa


e svagata nel disegnare a pastello le singole situazioni”. (Alessandra Levantesi -
La Stampa - 6 ottobre 1991)

“Realizzato con una certa grazia, un buon ritmo e qualche trovata geniale da
Giuseppe Piccioni, è solo in parte la storia di un breve viaggio attraverso il cen-
tro-nord Italia. A Margherita Buy e a Giulio Scarpati, va il merito di aver reso
credibile la storia. La loro simpatica interpretazione non va mai fuori dalle
righe”. (Bruno Di Marino - Qui giovani - 16 ottobre 1991)

“Chiedi la luna di Giuseppe Piccioni rappresenta forse il meglio che il cinema


italiano può offrirci di questi tempi, soprattutto per le trappole che ha saputo ele-
gantemente evitare, come quella della carineria pura e semplice o della degrada-
zione del paesaggio a supporto cartolinesco. Anzi, come nel capostipite di que-
sta nouvelle vague di giovane cinema italiano, cioè Notte italiana di Carlo
Mazzacurati, il paesaggio non ha nulla di gratuitamente decorativo, ma diventa
un elemento concreto funzionale del film che non per niente è un road-movie.
Dalla carineria si può uscire con la gravità del tema e delle situazioni; Piccioni
ne esce invece con un surplus di leggerezza di cui si fa ambasciatrice l’ineffabi-
le Margherita Buy e con un cocktail dolceamaro di ironia e di rimpianti”. (Fausto
Bona - Brescia Oggi - 7 febbraio 1992)

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“Alla ricerca del fratello scapestrato che è fuggito con la cassa, Marco (Scarpati)
ventisei anni ed una vita carica di responsabilità, incontra Elena, la fidanzata del
fratello (Buy) e intravede i piaceri della fuga e della vita alla giornata che non ha
mai conosciuto. Si sente la mano di Franco Bernini (e certe influenze “salvato-
resche”) nell’opera seconda di Piccioni; on the road all’italiana, generazionale ed
accattivante, ma troppo esile quando si tratta di stringere le file dell’intreccio.
Piccioni è l’amico che saluta Elena quando fa colazione al bar”. (Paolo
Mereghetti - Dizionario dei film”)

“Sembra esserci quasi un accordo tacito tra le nuove leve del cinema italiano,
almeno le più dotate (Luchetti, Salvatores e appunto Piccioni) quello di non alza-
re mai la voce e di raccontare le intermittenze del cuore tenendo lo spleen bau-
deleriano sempre sui toni dell’elegia e mai su quelli cupi del maledettismo.
Questo porta al formarsi di un corpo centrale del nuovo cinema italiano focaliz-
zato sul racconto dei sentimenti e attestatosi sul buon cinema medio capace di
credibilità soprattutto nella creazione dei personaggi come già in Pietrangeli o in
Emmer. (…) Giuseppe Piccioni non ha paura in questo Chiedi la luna di essere
scambiato per il campione del cinema carino (…) Con questa sua opera seconda
Piccioni mostra un coraggio forte, quello di percorrere le derive generazionali
senza la paura di immettere il melò e il romanzesco del grande realismo roman-
tico da Stendhal a Pavese”. (B. Bo - Vivilcinema - n. 34/35 -1991)

“Un gioiellino, che impone un autore già maturo e rivela un ‘narratore’ attento e
essenziale”. (Gian Luigi Rondi - Il Tempo - 8 ottobre 1991)

“Dopo Il grande Blek ricordi di vita provinciale ricchi di umori tuttavia non sem-
pre ben filtrati, il marchigiano Giuseppe Piccioni si ritaglia, sempre sullo sfondo
dell’Italia centrale, una storia minima ma limpida, per nulla volgare o scentrata.
Sulla traccia di una sceneggiatura scritta da Franco Bernini, Enzo Monteleone e da
lui stesso, il nuovo, promettente regista si sofferma su due giovani, un ragazzo e
una ragazza, che quasi senza proporselo, vedono i loro sogni accendersi, schiop-
pettate e poi sfiorire (…)” (Francesco Bolzoni - Avvenire - 10 ottobre 1991)

“Film giovane di un giovane (38 anni) Chiedi la luna di Piccioni, riconferma nel
nuovo cinema italiano il gusto per il racconto pulito, attento ai capricci dei sen-
timenti e agli alti e bassi della psicologia”. (Franco Colombo - L’Eco di Bergamo
- 10 novembre 1991)

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“Che bella commedia, agrodolce e brillante, sull’insicurezza giovanile, sui desi-


deri e sulle attese, sugli stati d’animo fuggevoli e la generosità, sulla voglia di
cambiare e la paura di essere diversi (…) Lieve apologo morale Chiedi la luna è
un’incursione in un universo sentimentale (di sentimenti cioè) non troppo rannu-
volato. Un racconto pertinente ai costumi, alle abitudini, alle tenerezze, ai tic,
all’ambiente e al linguaggio dei giovani d’oggi. Un andirivieni che bene esprime
gli affetti, l’instabilità, la leggerezza. Gli incontri e gli scontri non provocano
complicazioni o giochi intellettualistici, bensì aneddoti e confessioni, storie di
vita e di rapporti, soffici tensioni, vitalità graziosa”. (Vittorio Spiga - Il Resto del
Carlino -13 ottobre 1991)

“Chiedi la luna è un’opera gradevole nella quale agiscono contemporaneamente


due diversi livelli: l’individuale, quello su cui va collocata la figura di Giacomo,
proiezione e punto di riferimento per i protagonisti; e il sociale: due visioni della
vita vengono messe l’una accanto l’altra, e lo scontro iniziale si risolve gradual-
mente lasciando lo spazio a una nuova solidarietà esistenziale, a una significati-
va capacità di mettersi in dialogare (…). Il viaggio diviene anche storia d’amo-
re, i due protagonisti si confrontano, si perdono e si ritrovano nella memoria e fra
i desideri. Il tango ora melanconico e disperato, ora vitale e sereno, termina piano
piano. La coppia si scioglie e ognuno crede di tornare al proprio posto. Ma è solo
un’illusione; una volta seduto, ciascuno scopre che non sa dimenticare: ciò che
prima era mito soggiogante è adesso sensazione liberatoria di poter chiedere
l’impossibile”. (Maurizio Regosa - Letture - n.1 - 1992)

Antologia della critica online

“Il giovane Marco (Scarpati) serio, laborioso e sposato con Cristina, parte da
Verona, dopo la morte del padre, per rintracciare il fratello scappato di casa. A
Perugia incontra Elena (Buy) la fidanzata del fratello, anch’essa preoccupata per
la sorte del suo uomo. Marco ed Elena decidono così di proseguire insieme le
ricerche. Le tracce li portano dapprima a Viterbo, poi a Gubbio e in altri luoghi.
Strada facendo, mentre le tracce del fuggitivo si perdono, i due si innamorano...
Un buon risultato, sottile e significante anche sotto l’aspetto leggiadro, di un gio-
vane regista del cinema italiano. Brava soprattutto Margherita Buy nel ruolo di
Elena”. (www.filmtv.it)

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“È un film di viaggio dove conta più che il traguardo il percorso dal quale uno
dei due, l’uomo, esce cambiato, imparando a chiedere la luna. Commedia di
garbo all’insegna di discrezione delicata che compensa debolezze, squilibri, faci-
lità. M. Buy gli dà l’acqua della vita. Grolla d’oro per la regia”. (www.corriere-
dellasera.it)
“In cerca del fratello maggiore scapestrato, scomparso dopo un ammanco di
cassa, Marco, ammogliato e uomo d’ordine, imbarca sull’Alfa (con telefono cel-
lulare della ditta), la sregolata Elena, fidanzata del fuggitivo, e con lei - tra bistic-
ci e incomprensioni che finiscono a letto - attraversa Umbria e Toscana. Scritto
con F. Bernini e F. Monteleone, il secondo lungometraggio del marchigiano
Piccioni non è un road movie e nemmeno ‘carino’”. (Laura, Luisa e Morando
Morandini da www.mymovies.it)

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CoNDaNNato a NozzE

Anno: 1993
Durata: 110’
Origine: Italia
Formato: panoramica a colori
Produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per la Penta film- Gaetano Daniele per
Esterno Mediterraneo
Distribuzione: Penta Cecchi Gori Home video.
Regia: Giuseppe Piccioni
Attori: Sergio Rubini (Roberto) Margherita Buy (Sandra), Valeria Bruni Tedeschi
(Gloria), Asia Argento (Olivia), Patrizia Piccinini (Enrica), Stefano Abbati
(Maggi), Patrizia Sacchi (psicoanalista), Olivia Gozzano (Simona)
Soggetto: Franco Bernini, Fabrizio Bettelli, Giuseppe Piccioni,
Sceneggiatura: Franco Bernini, Fabrizio Bettelli, Giuseppe Piccioni
Fotografia: Roberto Meddi
Musiche: Antonio di Pofi
Montaggio: Esmeralda Calabria
Scenografia: Lorenzo Baraldi
Costumi: Marina Campanale

Trama

Roberto (Sergio Rubini), giovane e quotato avvocato divorzista, ama Sandra


(Margherita Buy) ma la tradisce con Gloria (Valeria Bruni Tedeschi). Corroso da
dubbi ed incertezze, irresistibilmente attratto da altre donne, finirà per sdoppiar-
si in due personalità completamente scisse tra loro; uno dei due Roberto sposa
Sandra, abbandona il lavoro e si trasforma in una sorta di moralizzatore che si
batte, a spada tratta, contro gli intrighi e le bugie di chi lo circonda; l’altro
Roberto, infedele, cinico ed irridente, fa l’amore con Simona (Olivia Gozzano),
la sorella di Gloria, si concede una turbolenta relazione con la giovanissima
Olivia (Asia Argento) e continua a ronzare intorno a Gloria. Prima di crollare psi-
cologicamente, Roberto telefona alla psicoanalista (Patrizia Sacchi), con la quale
è in cura. e le racconta il suo ultimo sogno. Dal contenuto del materiale onirico
la dottoressa intuisce che lui ha tentato il suicidio, si reca a casa sua e lo salva.
Piccioni si sdogana dal cosiddetto cinema “carino” ed impagina una favola nera,
grottesca e surreale che ruota intorno al tormentato protagonista, incapace di

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avere una relazione adulta e soddisfacente con una donna. Il regista marchigiano
rende omaggio a Truffaut ed al suo indimenticabile L’uomo che amava le donne
(1979) e lascia che la vicenda ruoti intorno al tormentato e nevrotico protagoni-
sta, divorato dalle sue febbrili e farneticanti ossessioni. Fresco e spontaneo esor-
dio di Asia Argento, affiancata da una sofferta ed inconsolabile Valeria Bruni
Tedeschi. Buone le prove di Rubini e Buy riuniti nuovamente dal regista dopo
Chiedi la luna. (IS)

Frasi cult

Roberto: “In tutti i miei legami c’è sempre stato qualcosa di provvisorio. Ecco
di provvisorio, si. Non lo so dottoressa, dipenderà da me. Sicuramente è colpa
mia, lei non crede? Però, adesso, con Sandra, mi sembra che sia completamen-
te diverso. Ma si, insomma, diversissimo. Lei è una donna molto fragile, ha le
mani piccole, i capelli, ad esempio, le si spezzano sempre. Io credo di amarla e
vorrei impegnarmi però stamattina mi sono svegliato nel letto di Gloria, un’a-
mica. Cioè non si tratta esattamente di un’amica, è una con la quale un po’ di
tempo fa ho avuto una... Lavora in televisione ma non è stupida. Una donna spo-
sata, non ci sentivamo da tantissimo tempo. Credo di averla chiamata io ma non
lo so. Non me lo ricordo proprio. Ho chiamato io, lei e d’altronde non è nem-
meno la cosa più importante, la cosa più importante di oggi è che ho preso que-
sta decisione: io sposerò Sandra… Sandra mi aspetta sempre. Io le voglio bene
ma credo che dovrei lasciarla. Però non ha amiche e come fai? Io ho paura del
dolore che procuro agli altri. No? Perché non ci parla lei?”
Roberto: “Amo te come tutte le altre donne. Non potrei amare solo te”

Gloria: “Sai, c’è stato un momento in cui stavamo insieme che avevo pensato di
lasciare Sergio. Provavo ad immaginare la mia vita con te. Comunque ero sicu-
ra che ci saremmo rivisti. Lo sentivo. In fondo non ho mai capito perché io e te
ci siamo lasciati. Una volta sono venuta sotto casa tua, una volta ti ho telefona-
to, allora ho riattaccato. Non dovrei dirti queste cose, le so. Quando ho comin-
ciato a lavorare in televisione, sai qual è la prima cosa che ho pensato?Ho pen-
sato:“Mi guarderà!, mi guarderà!”
Roberto: (prima tra sé e sé) “Non posso, ti voglio bene ma non ti amo. Non ti
amo, non ti amo, io, devo vedere Sandra”
Gloria: “Perché fai così. Cosa ti ho fatto, io? Non capisco. Io ce l’ho un uomo
che mi ama, lo capisci, ce l’ho, ce l’ho già”
Roberto: “Cazzo mi fai parlare un attimo!”

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Condannato a nozze (1993)

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Gloria: “Non ho bisogno di te, non ho bisogno di te. Vattene! Non ho bisogno di te!”

Enrica: “Ti vuoi sposare, sposati non ti vuoi sposare, va bene lo stesso. Lo sai
come la penso io. A questa storia delle coppiette, non ci ho mai creduto: mi man-
chi, ti penso. Che tristezza! Ma anche tu, scusami... Ma se stai con lei, non signi-
fica che devi chiuder con Gloria. No?
Roberto: “No, ma io non sono mica come te. Poi con una poi con un’altra. Tu
fai bene a fare come fai, guarda. Io sono diverso, io mi devo decidere, ecco qual
è il mio problema. Quando Sandra non c’è mi manca ma se vedo un’altra donna.
Io avrei bisogno di più tempo, ci sarebbero tante cose, ci sarebbero da fare. Sai
cosa? Mi piacerebbe avere due vite. In una sto con Sandra, le sono fedele, invec-
chio accanto a lei; in un’altra vedo le altre donne, tutte le altre donne, tutte,
tutte. Io amo Sandra ma amo anche Gloria. Io le amo tutte”

Antologia della critica

“Sdoppiamento di personalità, ossessioni moralistiche, debolezze dongiovanne-


sche; Giuseppe Piccioni (che ha a disposizione la bravissima coppia formata da
Sergio Rubini e Margherita Buy) elabora il materiale della sua commedia di
costume come un racconto filosofico con tocchi ed assonanze vicini alla cultura
e al cinema francese (Truffaut, ad esempio, e il suo L’uomo che amava le donne).
L’impossibilità della coppia, il rapporto conflittuale e fallimentare tra l’essere e
l’apparire, l’amore visto con tenerezza disincantata, l’ironia da cui traspare l’os-
sessione della solitudine compongono una divertente commedia surreale, legge-
ra ed insieme profonda, sull’impossibilità di essere “normale” (…) Il film non
manca di qualche scompenso dovuto ad un ambizioso desiderio di accumulazio-
ne; grottesco, favola notturna, metafora che eviti il realismo, clima dolente”. (...)
(Vittorio Spiga - Il Resto del Carlino - 13 ottobre 1993)

“Di fronte alle grandi scelte esistenziali, esiste nella generazione degli odierni
quarantenni, un sentimento diffuso di rimpianto per ciò che non si è. Chi ha fami-
glia, una moglie, un marito, dei figli, invidia la libertà, la disponibilità a poter
cogliere ogni occasione degli amici singles. Ma questi ultimi invidiano le cer-
tezze degli affetti domestici, di chi ha scelto il matrimonio e la famiglia, la ric-
chezza inestimabile dei figli, la felicità di sorprendersi nel vederli crescere e sco-
prire il mondo. Questo sentimento di rimpianto di ciò che non si è, è davvero un
sentimento generazionale, frutto probabilmente di quella cultura sessantottina,
che fra i suoi slogan più diffusi vantava anche un celebre: ‘Vogliamo tutto’.

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Anche Roberto, il protagonista di Condannato a nozze, vorrebbe tutto, cioè una


moglie da amare teneramente e con cui fare dei figli ma senza rinunciare a tutte
le altre donne. Roberto, insomma, come chiarisce in una battuta, vorrebbe due
vite. E dopo un brillante avvio da commedia amara, in cui Piccioni coglie bene
ansie, nevrosi, smarrimenti e confusione del suo protagonista, la vicenda ha un
improvviso scarto surreale; il desiderio di Roberto si trasforma in realtà. Il per-
sonaggio si sdoppia in due contrapposte incarnazioni. Roberto 1, che diventa una
sorta di maniacale vendicatore moralista, ispirato al modello Bianca di morettia-
na memoria e Roberto 2, al contrario, un satiro scatenato, pronto ad accoppiarsi
con qualsiasi donna che gli capiti a tiro. Ma contrariamente alle attese, nessuno
dei due Roberto riesce ad essere felice; anzi il primo, con il suo rigore spinto f