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Vùltem

Fabio Larcher

ovvero come l’ultimo e più gran-



de degli eroi pose fine lt ai e m
com-
merci magici con il mondo dei più
Romanzo fiabesco-sciamanico

ovvero come
l’ultimo e più
grande degli
eroi pose fine
ai commerci
magici con il
mondo dei più

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Premessa

Mi sono lasciato sedurre dalle idee espresse da Vla-


dimir Propp nel suo saggio “Le radici storiche dei
racconti di magia”. Propp espone la teoria secondo
la quale, dal raffronto tra la materia fiabesca e le
conoscenze etnografiche sui riti, si possa giungere
alla conclusione che i racconti di magia parlerebbero
(avendo perduto, però, ogni collegamento con essa)
dell’iniziazione sciamanica dei giovani, ai tempi
delle società venatorie. Non solo: Propp ipotizza che
le fiabe, nella loro evoluzione e nel loro allontanarsi
dalla primeva spiritualità, legata ai modi di vita
allora vigenti, abbia finito per ribaltare del tutto
il senso della narrazione. Prima, quando il rito
aveva una forte presa sulla mente di coloro che lo
praticavano, l’eroe era colui che veniva inghiottito
dal mostro celato nella foresta e ne veniva rispu-
tato; riusciva a tornare a casa, recando con sé la
forza magica (nonché il diritto a essere considerato
un membro adulto della società), cioè la capacità
privilegiata di influenzare il mondo animale per
assicurare a sé e alla tribù una buona caccia; con
l’introduzione di altre forme di sussistenza, in pri-
mis l’agricoltura, invece, l’eroe è colui che va nel
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bosco per uccidere il mostro, ormai fonte di terrore
e non di doni magici.
Se ne evince che non esistono diversi tipi di fiaba,
ma una sola narrazione, che racconta inconsapevol-
mente sempre la stessa storia, sebbene da prospettive
antitetiche. Le innumerevoli varianti non sarebbe-
ro che sovrapposizioni di temi, resi frammentari
dall’incomprensione dei narratori.
Mi sono chiesto se fosse possibile scrivere una fia-
ba che si basasse sugli assunti proppiani e sulle sue
tipizzazioni; una fiaba, per così dire, “totale”,
nella quale fosse possibile dare conto dei significati
rituali e, contemporaneamente, del declino di quel
sistema simbolico, fino alla sua completa estinzione.
Il risultato è questa “epopea” magico-sciamanica
(di per sé un ossimoro) incentrata sull’eroe Vùltem
(allo stesso tempo iniziato attraverso il rito sciama-
nico e distruttore del medesimo).
Al lettore l’ardua sentenza. Non ho ritenuto im-
portante (da “artista”) preoccuparmi del fatto
che l’ipotesi di Propp fosse vera, solo verosimile,
o del tutto falsa. L’ho utilizzata come “griglia”
narrativa e come gioco letterario. E in questo senso
spero la vogliate accettare.

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1 – L’Inghiottitore

Il giovane Vùltem, figlio della regina Böbablö,


un giorno uscì a cavallo. Era il primo maggio
di un maggio caldo e noioso e il ragazzo, non
avendo molto da fare, fu lieto di sellare il
suo stallone Sömelèk, l’animale più amato, il
compagno di giochi, e di lanciarlo al galoppo
nella pianura di Iùrs, tra campi e vigneti, tra
frutteti e orti, fino a smarrire l’orientamento.
Sua madre e suo zio Ardaké non lo amava-
no; lo ritenevano uno sciocco privo di serietà
e di aspirazioni, e non perdevano occasione
per umiliarlo di fronte a parenti e amici. Così
per Vùltem, allora quattordicenne, era sempre
un sollievo allontanarsi dalla casa dei genitori
e rimanere lontano il più a lungo possibile.
Giunto al bosco di Skür vi si addentrò, in
spregio agli ammonimenti dello zio materno e
della gente anziana, gironzolando fra i tronchi
secolari, le felci, i cespugli, godendo dell’om-
bra fresca e del cinguettio degli uccelli.
Cacciò le lepri e gli uccelli, con la fionda;
fabbricò un fischietto di sambuco, utilizzando
il proprio coltello; esplorò l’augusta cattedrale
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vegetale, ficcando il naso dovunque, ignaro
di tutto tranne che della libertà, del senso di
benessere, della bellezza fiammante dell’erba
nuova e delle foglie giovani, dei meli e dei
ciliegi in fiore; si spinse avanti e ancora avanti,
fino a raggiungere il cuore inviolato del bosco
terribile.
Vùltem si accorse solo allora, con un senso di
sorpresa e paura, che il bel pomeriggio prima-
verile stava giungendo al termine, che l’Occhio
Sano della Luce (così gli skalter chiamavano
il sole, l’Öč Bù) già si arrossava per il troppo
intenso guardare le cose degli uomini e che
l’Occhio Cieco (la luna, l’Öč Òrp) appariva
ormai, simile a un fantasma nel cielo color car-
ta da zucchero, striato dall’oro e dalla porpora
del tramonto. Si trovava in una radura ampia,
sommariamente circolare. Il bosco di Skür era
un luogo proibito, dove accadevano cose stra-
ne. Come capita a tutti i giovani, mentre il
giorno splendeva intorno e il bosco sfolgorava
di verde e seduceva con la frescura delle sue
ombre, aveva provato un gusto torbido nello
sfidare i divieti e, non avendone mai fatto e-
sperienza, le Potenze a essi connesse. Ma ora,
nella semioscurità sempre più fitta e nel lento
ottenebrarsi della Luce benigna, egli cominciò
a imprecare contro se stesso per la propria av-
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ventatezza e a pregare sottovoce la Dea degli
skalter. Sarebbe uscito immediatamente dal bo-
sco, allontanandosi il più in fretta possibile,
ma si era perso nelle profondità vegetanti e,
per quanto cercasse un segno, un’indicazione,
il labirinto di alberi appariva deciso a non
permettergli di uscire dai propri intrichi.
Vùltem non avrebbe saputo dire da quanto
tempo stesse vagando in quel modo, traspi-
rando terrore, quasi cieco e pazzo. Dovevano
essere parecchie ore: l’Occhio Cieco aveva per-
corso un bel tratto del proprio cammino, ton-
do, sfavillante di argento freddo e circondato
di brillanti Lacrime (le stelle). Gli zoccoli di
Sömelèk battevano attutiti sul viottolo erboso
e questo era l’unico suono rassicurante, tra gli
innumerevoli gracidii sinistri, scricchiolii ma-
levoli, pigolii lugubri.
“Grazie, Luce, per avermi dato un amico
forte e veloce” pensò, tremando.
Ma il pensiero ebbe appena il tempo di essere
formulato che un ringhio improvviso raggiunse
le orecchie del cavallo e del cavaliere. Sömelèk
s’imbizzarì, roteando gli occhi, impennandosi
come un diavolo. Vùltem fu sbalzato di sella
con violenza e batté il capo, restando intontito,
giacendo mentre il mondo, intorno a lui, vor-
ticava e diventava selvaggio. Il cielo stellato,
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il fiato, i tronchi di frassino e larice… tutto
cominciò a girare sempre più forte, procuran-
dogli un senso di nausea.
Da quella posizione vide che, oltre le cime
fruscianti degli alberi, si stagliava l’ombra ne-
ra di un’immensa parete rocciosa. Una parete
che sembrava infinita. E si chiese perché non
l’avesse scorta prima. Ma, certo, dal bosco era
impossibile vedere altro che il bosco.
Proprio allora dal folto sbucò un tentacolo
enorme, ruggendo. L’oscurità lo privava di
contorni netti e definiti, al punto che Vùltem
non sarebbe riuscito a dire se somigliasse più
all’arto di un mollusco, di un rettile o di un
leone. Il muro di piante e cespugli crollò, sve-
lando una bestia inconcepibile, di cui era va-
gamente visibile la testa: un’informe massa di
carne molliccia, con una bocca rotonda, grande
abbastanza da inghiottire un toro o un cavallo,
irta di denti. Il tentacolo usciva dalle sue fauci
oscene; era, in realtà, una lingua prensile co-
me quella delle rane e dei camaleonti. Il resto
della creatura rimaneva nascosto, incastrato per
sortilegio nelle viscere petrose della montagna.
Si intuiva il suo muso allungato e la sua testa
grande come la cupola della cattedrale di Iùrs,
perché la sua bocca respirava fuoco, a intermit-
tenza, delineando forme, escrescenze, scaglie,
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occhi (in numero enorme), antenne. Ma, nel
complesso, la sua natura animale restava cela-
ta, quasi che il suo aspetto assommasse in sé
le caratteristiche di tutti gli ordini e le specie
animali del mondo.
“Il Maiamórč!” pensò Vùltem, pietrificato
dal terrore. Cercò di rialzarsi, ma l’equilibrio
lo tradì ed egli ricadde supino, impotente.
Il mostro aveva fiutato la presenza di preda
e la sua lingua saettava riempiendo l’aria con
il suo sibilo rimbombante. Un lezzo di carne
bruciata ed escrementi raggiunse le narici del
figlio di Böbablö; un odore di morte che fa-
ceva accapponare la pelle. Sömelèk girava in
tondo, impazzito, come se una forza magica gli
impedisse di uscire dal cerchio della radura, e
lanciava nitriti disperati. Vùltem tentò di nuo-
vo di rialzarsi e stavolta ci riuscì. Corse accanto
al suo amatissimo cavallo, afferrandolo per le
briglie e sforzandosi di calmarlo abbastanza per
montare in sella; ma il Maiamórč, nonostante
la sua mole titanica, si dimostrò inaspettatamen-
te veloce e la sua lingua-tentacolo li raggiunse.
Vùltem ebbe solo il tempo di cacciare un
urlo. Poi la lingua afferrò lui e Sömelèk, sol-
levandoli da terra in una morsa che toglieva
il respiro e la bocca si richiuse, cancellando il
mondo esterno. La loro prigione viva compì
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un movimento violento, verso l’alto, ed essi
rotolarono a capofitto oltre la bocca, urtandosi
fra loro e urtando le pareti della gola mostruo-
sa, annaspando febbrilmente sul mollume della
lingua e precipitando verso la caverna vele-
nosa, ustionante, in fondo a cui palpitava la
luce rossa del fuoco. Il calore divenne presto
insopportabile.
Vùltem e Sömelèk gridavano per il dolore e
il terrore, mentre l’incandescenza li avvolge-
va, consumandoli, rendendoli simili a tizzoni
e i loro corpi venivano smembrati in cento
pezzi dalle pareti taglienti dell’esofago e dallo
stomaco dentuto, che masticava a maciullava.
Il figlio di Böbablö sentì che le mani gli veni-
vano strappate, che le gambe venivano ridotte
in poltiglia, riceveva calci di zoccolo in viso,
e i colpi gli ruppero il naso e fratturarono
gli zigomi, facendo schizzare i bulbi oculari
e i denti. Voleva urlare ancora, per il dolore
indescrivibile, ma non riuscì più a respirare,
aveva la gola piena di sangue; soffocava e pa-
tiva un’agonia interminabile. In fine, però,
il dolore e la coscienza cessarono e il ragazzo
precipitò nel buio della morte.
Si riprese dopo un tempo lunghissimo. Aprì
gli occhi, come dopo un sonno agitato dagli
incubi, incredulo e intontito, sbattendo le pal-
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pebre. Qualcosa di tiepido, umido e puzzolente
gli stava sfiorando la faccia. Sobbalzò, temendo
il peggio, ma era solo Sömelèk che gli leccava
una guancia.
«Amico mio, grazie alla Luce sei vivo!»
esclamò il ragazzo, con un sospiro di sollievo.
«Non esattamente» rispose l’animale, con
una strana voce cavallina.
Vùltem scattò in piedi, per la sorpresa e co-
minciò a indietreggiare. «Che scherzo è questo?
Chi ha parlato?»
«Io» disse il cavallo.
Vùltem si sfregò gli occhi, con forza. «Sto
ancora sognando…»
Il cavallo nitrì e grattò la terra con uno zoc-
colo. «Temo di no, figlio di donna. Purtroppo
il Maiamórč Sgàgnatöt ci ha inghiottito davvero
e adesso ci troviamo nel mondo dei Tìra Mòla
Tambàlet, il mondo della magia. Il Maiamórč,
infatti, è il guardiano del loro regno – ed è la
porta che in esso conduce.»
«Ma tu parli, Sömelèk!» esclamò Vùltem,
incapace di costringere la propria mente a
concentrarsi su più di un prodigio per volta.
«Questo è impossibile!»
«Tutti gli animali parlano» disse Sömelèk.
«Ma nel Mondo dei Meno, la terra dei vivi,
un divieto magico ci impedisce di farlo. Qui,
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nel Mondo dei Più, la terra dei morti, tale di-
vieto non è più valido. Quindi posso parlare
con te, amico mio.»
Vùltem si guardò istintivamente intorno. «Il
Mondo dei Più? Siamo… siamo… morti?»
«Sì, figlio di donna» confermò il cavallo.
«È terribile!» esclamò Vùltem, angosciato.
«Su, Vùltem, non disperarti. La morte non
è un fatto tragico. È un’occasione» replicò
Sömelèk. «Qui possiamo trovare la tua forza
magica e, con un po’ di fortuna, tornare alla
casa di tuo zio materno, dove potrai, final-
mente, ottenere il posto che ti spetta nella sua
considerazione e in quella della città.»
«Ma come faremo?» chiese il ragazzo, madi-
do per il terrore. «Io non sono forte, né molto
intelligente. Non so nulla sul Mondo dei Più.»
«Ma tu hai me» nitrì Sömelèk. «Ti aiuterò
io a scoprire il tuo Dono. Coraggio, monta in
sella.»
Vùltem obbedì al proprio cavallo, notando
di sfuggita che né lui né il suo animale ema-
navano odore; segno che erano proprio morti.
Si mise in arcioni, afferrò le briglie e Sömelèk
partì al galoppo, come se già conoscesse la
strada (ed era così, in effetti, perché gli ani-
mali appartengono al mondo magico e possono
entrarvi e uscirne a loro piacimento), costrin-
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gendo il cavaliere a chinarsi, per contrastare la
resistenza dell’aria. Non fu un viaggio lungo e
se lo fu la sua cavalcatura galoppava così veloce
che finì prestissimo. In effetti Sömelèk correva,
in quel mondo, proprio come il fulmine che
gli dava il nome. Vùltem poté appena scorgere
il paesaggio notturno che scorreva a lato della
strada; ma si rese conto che esso appariva un
deserto lunare di roccia, terra, erbacce di bru-
ghiera, e che non c’erano Lacrime in cielo.

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2 – La forza magica

Quando Sömelèk arrestò la propria corsa Vùl-


tem si accorse che erano giunti di fronte a un
castello diroccato, con una sola finestra, illu-
minata debolmente da un lume.
«Questo è il castello di uno Shùr, un re
dei Tìra Mòla Tambàlet» comunicò Sömelèk,
scuotendo la criniera. «Sono creature perico-
losissime e dovremo agire con prudenza, ma
sono anche gli Elargitori di Doni.»
Vùltem sentì accapponarsi la pelle. «Che la
Luce ci aiuti! Cos’hai intenzione di fare? Co-
me pensi di convincere lo Shùr a consegnarci
uno dei suoi Doni?»
«Glielo chiederemo» disse Sömelèk. «Non
esistono altri modi, figlio di donna. Però do-
vrai prestare la massima attenzione a ciò che
dico: sii sempre compito e sottomesso, per-
ché i Tìra Mòla Tambàlet sono vanitosissimi
e amano essere adulati; e non accettare mai il
cibo o la bevanda che ti verrà offerta. Se tu lo
facessi saresti condannato a restare per sempre
nel Mondo dei Più. Noi ci troviamo, ora, in
una condizione speciale: siamo morti, ma pos-
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siamo tornare tra i vivi. Chi mangia e beve le
cose dei morti, invece, muore definitivamente.
In fondo la morte non è che un incantesimo,
un legame che impedisce ai morti di tornare
in vita.»
Vùltem annuì, risoluto. Chi non ha scelta de-
ve armarsi di coraggio. Scese di sella e si accostò
al battente dell’ingresso principale. L’anello
di ferro produsse un suono mesto e il suono
rimbombò a lungo nelle aule vuote dell’edi-
ficio. Ci fu un’interminabile attesa. Poi: uno
sbattere di porte; un cigolare di chiavistelli e
di cardini male in arnese; un rumore di passi;
e, in fine, la porta si aprì. Sulla soglia, però,
non c’era nessuno.
Vùltem sbirciò nel buio profondo, puzzo-
lente, dell’atrio. Non si scorgeva anima viva.
Lanciò uno sguardo allarmato a Sömelèk, ma
il cavallo annuì in modo incoraggiante.
«Procedi sempre dritto e non preoccuparti,
figlio di donna. Qualunque strada prenderai
la casa farà in modo di condurti dallo Shùr.
Ricorda solo le mie raccomandazioni.»
«Tu non verrai con me?»
«No, ognuno deve compiere il proprio viag-
gio da solo. Ci sono cose che non si possono
condividere. La ricerca della propria forza ma-
gica è una di queste. Inoltre gli edifici degli
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Shùr mi sono interdetti e lo sono per tutti gli
animali: sono luoghi costruiti apposta per gli
esseri umani. Sono luoghi speciali, dove vengo-
no risvegliate cose che dormono dentro di voi.
Per gli altri animali essi non sono necessari. Io
ti aspetterò qui fuori.»
Vùltem deglutì, cercò di trarre un respiro
profondo (ma l’aria tremò nella sua bocca) e
si avviò nelle tenebre del castello. All’interno
tutto appariva in rovina, coperto di polve-
re e olezzante di sepolcro. Il ragazzo dovette
procedere tentoni. Si addentrò in stanze e si
avventurò lungo scale divorate dal tempo, erose
dagli elementi; finché non scorse un bagliore
lontano. A quel punto si lasciò guidare dalla
luce tenue, giallastra, attraverso un corridoio
sbilenco e fino allo zerbino di una stanza am-
pia, rovinosamente ammobiliata.
Là, su una sedia malferma, sedeva il signore
del luogo; un uomo alto, innaturalmente palli-
do, dai capelli sudici, color miele, e gli occhi
selvaggi, simili a pietre preziose. Sorbiva una
minestra dall’aria ripugnante, piena di resti di
vermi e larve, forse perfino zolle di muschio,
da una ciotola di legno. Ed emetteva, a ogni
sorsata, dei rumori disgustosi, facendo schiocca-
re le labbra. La candela nera da cui proveniva
la luce era posata sul tavolo, di fronte allo Shùr
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e gli illuminava i tratti del viso, deformandoli
con ombre malevole e aloni malvagi.
«Oh, un ospite dal Mondo dei Meno!» e-
sclamò l’uomo pallido, scorgendo la sagoma
del ragazzo sul vano della porta e forbendosi
le labbra con un tovagliolo bisunto, che sem-
brava sporco di sangue vecchio. «Vieni avanti
e dimmi come ti chiami e che cosa ti porta alla
mia presenza.»
Vùltem superò la porta e fece un inchino.
«Sono Vùltem, figlio di Böbablö, della città
di Iùrs. Mi trovo alla tua eccellente presenza,
mio signore, per domandarti un dono: la mia
forza magica.»
Lo Shùr sorrise, empiamente compiaciuto.
«Ah, sì! Tu vuoi il Dono. Certo, certo. Te
lo darò, ma non essere così timido: vieni più
vicino e siediti alla mia mensa. Prima mangia
qualcosa. Sarai affamato ed esausto, dopo il
viaggio terribile che hai affrontato…»
Vùltem eseguì un secondo inchino, ma scosse
la testa. «Mio signore, ti ringrazio. Non pro-
vo appetito e non sono stanco. Concedimi di
rifiutare la tua cortese offerta.»
Il sorriso dello Shùr si fece impercettibilmen-
te più stiracchiato. «Ne sei sicuro?»
Il giovane abbassò lo sguardo sul tavolo:
dove non c’era assolutamente nulla adesso sta-
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vano piatti d’oro e d’argento, ricolmi di pane
bianco fragrante e di selvaggina ottimamente
cucinata, dall’aspetto gradevole e dal profumo
speziato; e vassoi con molta frutta di stagione,
dalla scorza lucida e colorata; e dolci mai visti,
che mettevano l’acquolina in bocca. Il ragazzo
esitò, rapito e tentato. Per un istante pensò che
Sömelèk lo avesse preso in giro: come poteva
rappresentare un serio pericolo, quel cibo? In
fondo era solo cibo! Un cibo meraviglioso,
che aveva un desiderio fortissimo di assaggiare.
Se avesse rifiutato non avrebbe mai più avuto
l’occasione di provarne di simile; lo sapeva;
lo sentiva. Il cavallo gli aveva di certo detto di
non mangiare il cibo solo per invidia, perché
quelli come lui ne erano esclusi. Certo, doveva
essere così!
Allungò una mano verso il piatto dei dol-
ci. Subito la ritrasse. “E se mi sbagliassi? Se
Sömelèk mi avesse detto la verità? Restare per
sempre nel regno dei morti… Per la Luce, no!
Sono ancora giovane e ho ancora tante cose da
fare e da dimostrare, soprattutto a mio zio, che
ha un’opinione così bassa di me.”
Il pensiero di suo zio e il dolore che gli
causava lo sciolsero dalla magia dello Shùr.
«Mille volte grazie, gentile signore» riuscì a
balbettare, affannato. «Non ho fame.»
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Il sorrisetto scomparve dal volto sottile e can-
dido del Tìra Mòla Tambàlet. «Sì, comprendo.
Forse, allora, non rifiuterai di bere un sorso di
vino. Hai percorso un cammino molto lungo,
attraverso la fiamma che purifica. Avrai la gola
secca!»
Vùltem abbassò di nuovo gli occhi verso la
tavola: il cibo era sparito. In sua vece, ora,
c’erano una coppa d’oro, tempestata di gem-
me, e una bottiglia di vino rosso. Dentro la
coppa era già stato versato un liquido scarlat-
to, pronto per essere sorseggiato. La superficie
del vino scintillava alla fiamma mutevole della
candela, creando riflessi invitanti, ipnotici. La
mente del ragazzo fu di nuovo sopraffatta. Sì,
aveva la gola secca; moriva d’arsura. Provò a
muovere le labbra, ma scoprì che erano aride
e che si incollavano l’una all’altra. Nella pro-
pria gola non c’era più un goccio di saliva.
Aveva sete. Una sete incontrollabile. Sentiva
che se non avesse bevuto sarebbe impazzito
come un cane idrofobo, sbavando schiuma e
sangue. Doveva bere. Doveva, per tutti gli dèi!
E avrebbe bevuto! A qualunque costo, purché
cessasse quella tortura.
Allungò nuovamente la mano; ma lo fece in
maniera troppo precipitosa e goffa, urtando con
le dita la coppa e facendo traboccare un po’ del
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suo contenuto. Alcune gocce di rubino liquido
rigarono il bicchiere, scivolando viscose sulla
superficie metallica, con una consistenza che
nessun vino poteva avere; e quando colarono
sul ripiano del tavolo, macchiandolo profon-
damente, Vùltem comprese che non si trattava
per nulla di vino: quello che stava per bere
era sangue!
Il ribrezzo lo salvò ancora dalle illusioni del-
la creatura fatata e lo costrinse a posare la cop-
pa e a scuotere vigorosamente la mano bagnata
di rosso. «Sei davvero cortese oltre ogni limite,
mio buon signore; ma non ho sete. Permettimi
di rifiutare per la terza volta le tue offerte.»
Sul viso dello Shùr si dipinse un moto di
collera, prontamente soffocato da una risata.
«Bene, mio ospite, sia come desideri. Sei un
uomo più duro da sottomettere di quanto pen-
sassi. Tu vuoi il tuo Dono e io te lo darò.
Ma è necessario che tu venga raffinato ulterior-
mente. Non esiste altro mezzo che il fuoco.
Sei disposto a lasciarti infornare e cuocere da
me? Sarà doloroso, ma devo purificarti, pri-
ma che tu possa sopportare la mia magia. La
forza magica è qualcosa che non va bene per
i mortali; per quanto utile sia alla tua specie,
essa è appannaggio dei Tìra Mòla Tambàlet.
Allora, accetti?»
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Vùltem deglutì. Che cosa doveva fare?
Sömelèk non gli aveva detto niente a riguardo.
La scelta era completamente sua. Poi, rifletten-
do, disse a se stesso che era già morto, anche
se non definitivamente. Che cos’altro avrebbe
potuto succedergli? Avrebbe sopportato il do-
lore. Così accettò.
Lo Shùr annuì. «Benissimo, mio coraggioso
ragazzo. Sali sulla pala del fornaio e resisti
finché te lo dirò.»
Vùltem sedette sulla pala di ferro e il signore
fatato, a dispetto del suo corpo apparentemente
fragile, lo sollevò con facilità. Di fronte a un
muro annerito disse: «Fùren!». E il fuoco di-
vampò nel forno, con fiamme ruggenti, vermi-
glie, dal calore gagliardo. Poi soggiunse: «Fök,
fök, fök! Kös nomösta kèst pütì. Strèpa, brüza,
sgröbia, sgrösta, spàka, s-ciòpa, romp, sparnéga,
snèta, làa, löstra…». E infilò Vùltem tra le
fiamme. Il dolore fu immediato, da perdere
il senno. Il ragazzo gridò e gridò, sentendosi
lambire e scottare dal fuoco ruggente, udendo
sfrigolare ogni pelo del suo corpo, provando la
sensazione di liquefarsi al calore, di consumarsi
velocemente. Poi non gridò più, perché aveva i
polmoni pieni di fiamme, respirava letteralmen-
te fuoco, e il fuoco sfrigolava sulle sue viscere,
senza che lui perdesse conoscenza, senza che lui
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morisse… Ma perché non moriva? Perché non
giungeva il sollievo della morte a liberarlo?
Ovvio, perché era già morto e nulla poteva
fargli davvero male. Il dolore era un’illusione,
era frutto della sua mente che credeva ancora
di essere viva. Smise di agitarsi, di gemere, e
si costrinse ad aprire gli occhi. Scoprì così che
le sue palpebre non si erano fuse come cera e
che i suoi bulbi oculari non erano scoppiati
ed evaporati, come pure gli era sembrato a un
certo punto. Poteva vedere, respirare, e ride-
re! Cominciò a ridere di gioia, in mezzo alle
fiamme che lo divoravano pezzo per pezzo. Si
guardò le mani: anziché due moncherini an-
neriti esse apparivano bianche e pulite, simili
al marmo. Ogni centimetro del suo corpo era
pieno di forza, di energia magica, di potere.
Lo Shùr rise con lui, battendo le mani come
un bambino. «Bravo, nipotino. Adesso ascolta
ciò che ti dirò e serbalo nel tuo cuore. Io ti
insegnerò tutto. In principio tutto era oscurità
e mutazione; la dea delle dee era Violenza ed
essa permeava di sé il mondo. Poi la Luce aprì
gli occhi, svelando l’ordine razionale celato
in ogni cosa, l’armonia, la simmetria e la bel-
lezza; e Violenza fu imbrigliata e cristallizzata
nell’Ordine e perdette quasi tutto il proprio
potere; fu costretta a servire gli scopi della
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Luce, a fornire il carburante per far funzionare
quel meccanismo molteplice e complesso che è
il mondo; ma non si rassegnò mai alla sconfitta
ed essa costantemente preme per scatenarsi, per
disgregare l’Ordine, per distruggere la sua pri-
gione dalle mille forme. Mi segui, nipotino?
Mi segui, pane che cuoci nel forno?»
«Sì, zietto caro» rispose Vùltem. E davvero
ogni cosa gli appariva limpida, tra quelle fiam-
me, semplicissima.
«Benissimo! Allora continua ad ascoltare,
nipotino. I mostri, figli di Violenza, si accuc-
ciarono ai margini della Luce, sul limite estre-
mo dell’universo, spaventati ma attratti come
falene dal fuoco. E la Luce, inconsapevole, li
nutrì, ne stabilizzò la forma, donò loro potere.
Che cosa fecero del potere, quei mostri? Che
cosa può farsene del potere chi vive nel Caos e
nelle tenebre? Pensarono di mordere la mano
che li aveva nutriti; pensarono di colpire e
distruggere la Luce. Fabbricarono un’arma e
accecarono un occhio della Luce. Dall’occhio
ferito sprizzarono lacrime di stelle; ma parte di
quel potere, perduto a causa di un atto violento
e insensato, creò forme di vita intelligente e
alcune di esse, come gli Ylòi, essendo gemmati
dalla Luce insieme alle stelle, divennero gran-
di e potenti e decisero di sterminare gli esseri
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umani, dopo averli dominati con il terrore.
Non erano dèi immateriali, ma dèi composti
di materia.»
Il Tìra Mòla Tambàlet tacque per un istante;
poi cantò:

«I nuovi dèi sono solo creature,


non esseri, non enti.
Hanno potere, ma sono soggetti
alle inviolabili leggi del mondo.
Tutto è spiegabile, in loro. La loro
materia è strana: splende ed è impalpabile;
hanno menti bizzarre; è incalcolabile
il numero di crudeli pensieri
che fanno; vivono a lungo davvero,
ma un giorno periranno.
Si servono di macchine e artifici;
chiedono sacrifici
assurdi, per cavarne un tornaconto.
Sono malvagi; forse sono pazzi.
Essi sembrano ragazzi cattivi,
che nessun padre abbia mai sculacciato.»

«Sì, ora è tutto chiaro» sussurrò Vùltem,


mentre il suo corpo diventava lucente come oro
fuso. «Ma ora spiegami, zietto: di che cosa è
fatto il mondo?»
«Tutto il mondo è fatto di Luce. A menti
23
ottenebrate per assenza di luce come le nostre
la dottrina della luce-pensiero appare come la
più straordinaria, folle delle astrazioni. Essa è
invece la descrizione più prossima al vero della
realtà. Le cose sono ombre proiettate dalla luce
che emana dalle idee. Mi segui, nipotino? Mi
capisci, pane che cuoci nel forno?»
«Sì, zietto» bisbigliò Vùltem. Ormai respira-
va fuoco senza dolore e le sue iridi brillavano
come stelle; «ma spiegami che cosa accade a
qualcuno, quando si allontana dalla Luce.»
«Scivolare lontano dalla Luce (le metafore
non mentono, i simboli sono specchi veritieri)
significa allontanarsi dalla retta comprensione
del vero, significa divenire irrazionali, amorfi,
non definiti fisicamente e mentalmente, evane-
scenti. Significa scivolare di nuovo nel Caos
e nella Violenza. Significa tornare ciò che e-
ravamo, prima che la Luce svelasse le nostre
nature: mostri.»
«Perché scendendo nel buio e avvicinandosi
alla materia diventiamo evanescenti?»
«Perché il buio non è una cosa; non ha di-
mensioni, non ha tempo, è semplice assenza
di Luce.»
«Perché seguiamo la Luce? e se fossimo felici
di seguire il Caos?»
«Perché più la nostra visione delle cose è
24
netta più siamo felici. Il dolore è solo offusca-
mento dei sensi. Il Male è solo offuscamento
dell’anima. La pazzia è solo offuscamento della
mente. Noi siamo creature cadute, corrotte,
semicieche. Eppure anche da ciò possiamo fa-
cilmente capire che la nostra origine è la Luce:
ossessivamente cerchiamo di ridurre la vita a
sistema, compiliamo descrizioni, analizziamo,
indaghiamo, scrutiamo… componiamo opere
alla ricerca del bello ordinato che ci dà piace-
re. Perché la visione del mondo filtrata dalla
chiarezza delle opere ci consola, ci illumina
di piacere e di comprensione – in fine Eros e
Conoscenza sono aspetti di un’unica realtà: la
Luce.»
«Com’è fatto il mondo? Che legame abbiamo
con esso?»

«Dice il Libro dei Libri: l’universo


è un immenso mulino dal soffitto
decorato, un coperchio colorato.
L’asse del mondo al suo centro sta infitto
e fa girare il nostro pianeta in tondo,
come una macina universale,
che polverizza il sale siderale
e lo trasforma in stelle.
Dodici Forze (dodici sorelle)
governano questo ingranaggio eterno,
25
producono l’estate,
producono l’inverno,
producono farina sfavillante,
che turbina irrequieta ad ogni istante
secondo schemi noti,
nel vento cosmico, tra spazi vuoti.

A quel modello, afferma il Grande Libro,


si ispirano le menti degli umani:
sotto la cupola dei loro crani,
la macina implacabile dell’io
frantuma i sensi in schegge di pensiero.
Si agita in un continuo sfavillio
L’arco variopinto del cervello intero.

Ecco, adesso ti ho detto tutto. Ora sai tutto,


nipotino, pane che cuoci nel forno.»
Lo Shùr tacque di nuovo, per un tempo
molto lungo, e il silenzio fu rotto solo dal
crepitio e dal fischio del fuoco. La carne di
Vùltem sembrava composta di pura luce; e
c’era una chiarezza luminosa anche nella sua
mente. Lo Shùr, con un movimento fulmineo,
afferrò il fallo del ragazzo e incise il prepuzio
con l’unghia affilata del mignolo. La ferita si
rimarginò all’istante. Il dolore non raggiunse
mai la coscienza di Vùltem.
Dopo alcuni minuti lo tolse dal forno e lo
26
adagiò sul pavimento. «Complimenti, Vùltem
figlio di Böbablö, della città di Iùrs: hai su-
perato anche l’ultima prova. Sei degno della
forza magica. Ma il tuo temperamento non è un
temperamento da mago; non sei destinato a se-
guire quella strada. Tu sei destinato a essere un
guerriero e hai bisogno di un aiutante magico
appropriato.» Aiutò il ragazzo a rialzarsi e lo
condusse per mano verso l’unica finestra della
stanza. «Guarda! Laggiù, su quelle colline,
vive una Shùra che possiede una spada degna
di grandi imprese. Va’ da lei e chiedigliela.
Ella ti imporrà di superare una prova e, se la
supererai, ti consegnerà la spada. Quell’arma
sarà il tuo aiutante, figlio di donna. Con que-
sto consiglio ti congedo, Vùltem. Abbi una
vita gloriosa e retta. Ci rivedremo quando sarà
il momento. E adesso apri le ali e vola dove
otterrai ciò di cui hai bisogno.»
Batté le mani e Vùltem di trasformò in un
uccello splendente e volò via, verso il castello
della Shùra, librandosi nell’aria nera e senza
stelle, con le sue mille penne di luce e di
fuoco. Volò più veloce del pensiero, leggero
come uno spirito, e una sensazione di potere,
di forza, inebriava il suo essere.

27
3 – L’aiutante

L’uccello-Vùltem planò in grandi ruote sul


terreno esterno dell’edificio, simile a un astore
a caccia di preda. Quando toccò il suolo, il
ragazzo riassunse la sua forma umana. Sbatté
le palpebre, ancora ebbro, glorioso, e solo
allora si accorse di essere completamente nudo.
I suoi abiti erano stati consumati dal fuoco
del forno.
Un improvviso nitrito lo fece sobbalzare. Si
girò e vide Sömelèk, proprio accanto a sé.
«Cavallo, che cosa fai in questo luogo? Co-
me mi hai raggiunto?»
«Dove tu sei, io sono. Noi siamo due, ma
anche uno. Se pure viaggiassi dieci volte più
veloce di quanto hai viaggiato per giungere qui,
io ti raggiungerei comunque, prima o poi.»
Vùltem provò uno strano conforto, pensan-
do alla totale fiducia che poteva riporre in
Sömelèk. «Lo Shùr mi ha cotto nel forno e mi
ha mandato qui, alla ricerca dell’arma magica
che mi occorre.»
Il cavallo nitrì di gioia. «Bravo! Hai supe-
rato la tua prima prova.»
28
«Sömelèk, tu sai chi abita in questo palaz-
zo?»
«Certo, figlio di donna» nitrì lo stallone.
«Ci troviamo di fronte alla casa di una Shùra
molto potente e ancor più pericolosa dello Shùr
che ti ha concesso la forza magica. È un bene
che tu abbia ricevuto la tua forza magica, per-
ché con la padrona di questo luogo nessuna
astuzia sarebbe bastata. Adesso ascoltami: non
bussare alla porta; passa da quella breccia nel
muro di cinta. Quando sarai all’interno vedrai
un giardino, al centro del quale c’è una spada
infissa in un ceppo di legno. La Shùra dormirà
accanto a essa, sull’erba, coperta interamente
da un’armatura, tranne la testa. Ella è una
straordinaria guerriera e una maga terribile.
Cerca di estrarre la spada dal ceppo, senza
produrre alcun rumore. Se lei si destasse dal
proprio sonno vorrebbe certamente battersi con
te. Non farlo! Non avresti scampo. Una volta
battuto, la Shùra ti incatenerebbe e pretende-
rebbe di fare l’amore con te. Per te sarebbe la
fine, Vùltem: il fiore della Shùra ha i denti,
come quelli delle altre femmine dei Tìra Mòla
Tambàlet. Si tratta di un fiore carnivoro, che
non si adatta al piacere degli esseri umani.
Nemmeno la forza magica potrebbe impedirti
di morire di nuovo, stavolta per sempre.»
29
Vùltem annuì, con aria risoluta. Il Dono lo
aveva reso più forte e più sicuro di sé e gli
conferiva un coraggio feroce. Molta della sua
introversione e delle sue paure era stata bruciata
nel rito della cottura; in lui non ve n’era più
alcun segno. Si accostò con cautela alla breccia
e, sinceratosi che non ci fossero per lui dei peri-
coli immediati, scavalcò le pietre e la muratura,
atterrando sull’erba soffice. Scorse immediata-
mente la spada infitta nel ceppo e la donna che
dormiva profondamente accanto a essa.
La donna era bella. Il suo volto candido
risplendeva come una luna nell’ombra incerta
del Mondo dei Più. Aveva lunghissimi capelli
rossi, più rossi del rame, quasi vermigli, e
parevano tessuti con l’oro, per via dei loro
riflessi mutevoli. Nel sonno la sua espressione
era leggermente imbronciata, come se sognasse
guerre e duelli o fosse indignata per qualche
mancanza di rispetto immaginaria.
Vùltem avanzò verso di lei, senza soffermarsi
sul suo viso addormentato. I suoi piedi nudi
sembravano così leggeri da non piegare nem-
meno i teneri fili d’erba; girò intorno alla
dormiente e salì sul ceppo, afferrando l’elsa
della spada che vi era infitta con entrambe le
mani. Quindi tese i muscoli delle braccia e tirò.
Inaspettatamente l’arma si sfilò con facilità,
30
lasciandosi brandire dalla mano del ragazzo,
come se avesse riconosciuto, in qualche modo,
il suo tocco.
Vùltem esultò; ma la sua gioia durò pochis-
simo. Infatti, nell’attimo stesso in cui aveva
sfilato la spada la Shùra si svegliò e i suoi occhi
verdi mandarono lampi.
«Chi sei, tu? Che cosa fai nel mio giardi-
no? E chi ti ha dato il permesso di brandire
la spada Sligagróp?»
Vùltem sostenne lo sguardo folle, sanguinario
della creatura fatata. «Mi chiamo Vùltem, figlio
di Böbablö, della città di Iùrs e sono venuto
a reclamare il mio aiutante magico.»
La Shùra mostrò i denti, adirata. «Di’ piut-
tosto che sei Vùltem il ladro e il vigliacco e che
volevi prendere a tradimento ciò che, invece,
avresti dovuto guadagnare con il tuo valore;
ma adesso sarai costretto a batterti con me.»
«Mia signora, non voglio lottare» rispose
Vùltem, arretrando di un passo. «Sei troppo
bella.»
«Battiti, cane!» urlò la Shùra. «Non hai
scelta. Oppure muori da vigliacco quale sei.»
La mano della donna magica fu più veloce
delle sue parole: alzò il braccio armato di spa-
da e calò un fendente tale da spaccare in due
il ceppo.
31
Il ragazzo riuscì a evitare il colpo per puro
miracolo e parò a fatica la gragnuola di affon-
di, stoccate, fendenti che la signora gli faceva
piovere addosso come una furia infernale. Non
poté fare altro che saltellare ed evitare il peg-
gio, di fronte alla donna coperta dall’armatura
incisa di simboli magici e al suo furore.
Nonostante il Dono, Vùltem stava per soc-
combere e cadere in balia della propria avver-
saria. Già il suo corpo era tatuato da centinaia
di tagli che bruciavano e stillavano sangue. Se
avesse potuto ammirarsi in uno specchio, forse
sarebbe stato sorpreso: le ferite che la signora
infliggeva formavano un disegno; delineavano
abilmente, con linee spezzate ma degne di un
artista, la figura di un uccello. Una volta cica-
trizzato il disegno sarebbe stato quasi invisibi-
le, tant’era la perizia con cui era stato inciso.
Ogni volta che Vùltem veniva sfiorato
dall’acciaio un brivido di piacere attraversava
il suo corpo, ed egli lottava, ormai, con il
fallo eretto, turgido e viola di sangue. Poi si
rese conto che la propria arma sembrava vibrare
in maniera molto singolare, sembrava volergli
parlare nel suo muto linguaggio di metallo, ed
egli intuì che si trattava di una spada vivente,
dotata di volontà e di pensiero. Tale scoperta
lo distrasse, gli fece abbassare la guardia.
32
La Shùra ne approfittò immediatamente, vi-
brando un affondo mortale, veloce come la
saetta e ridendo crudelmente per la gioia di
uccidere.
Ma il colpo non andò a segno. Vùltem non re-
agì, ma Sligagróp sì, agendo sul suo polso e sul
suo braccio, come se muovesse una marionetta
inanimata, e parò l’affondo in sua vece. Dopo-
diché passò al contrattacco, sibilando e cantando
il suo canto, e la donna in armatura cominciò a
indietreggiare, inciampando e perdendo forza.
Sligagróp colpiva la corazza, mandandola
in pezzi, snudando il costato palpitante del-
la Shùra, rivelando uno dei suoi piccoli seni
puntuti, mostrando uno dei suoi fianchi sodi e
lisci; finché la donna, madida e con un lampo
verde di paura negli occhi gridò: «Pietà!».
Scivolò su un ginocchio e Vùltem ebbe il suo
daffare a tenere a freno la propria arma, perché
essa sembrava uggiolare dal desiderio di colpire
e colpire, come un cane da caccia bramoso di
abbattere a morsi un cervo.
La punta di Sligagróp arrivò a un millime-
tro della gola nuda della signora bellicosa. Il
ragazzo urlò alla spada: «Fermati!».
La spada si fermò, ma continuò a vibrare il
suo ringhio di ferro, minacciando la donna e
costringendola a un’immobilità statuaria.
33
«Concedimi misericordia» ella implorò, con
un sussurro.
«Dimmi il tuo nome» le ingiunse Vùltem,
bruscamente.
«Non posso» balbettò la Shùra, mentre goc-
ciava sudore e i suoi occhi si sgranavano come
quelli di una bambina atterrita. «Non è per-
messo…»
«Dimmi il tuo nome, presto!» ordinò il ra-
gazzo. «Non so per quanto tempo riuscirò a
trattenere la spada e non ho intenzione di per-
metterti di vendicarti, una volta che ti sarai
ripresa.»
La Shùra esitò. Mosse le labbra, lottando
contro se stessa. Per i Tìra Mòla Tambàlet ri-
velare il proprio nome è un divieto assoluto;
infatti colui che conosce il nome segreto di un
essere fatato lo ha in proprio potere.
«Svelta!» urlò Vùltem, avvertendo il furore
omicida di Sligagróp impadronirsi del suo cor-
po, simile a un vino o a una droga.
«Lömalöstra!» gridò la donna, stringendo
gli occhi ed emettendo il nome tutto d’un fia-
to. Quando risollevò le palpebre la spada era
abbassata e Vùltem sorrideva vittorioso.
«Bene, Lömalöstra. Sei la donna più bella
del mondo e una guerriera formidabile. Non
prenderla sul personale, giacché io, al contra-
34
rio, brucio d’amore e d’ammirazione per te e
ti temo come si teme la morte stessa. Se ho fatto
ciò che ho fatto è solo perché era necessario:
dovevo conquistare il mio aiutante magico. Ti
faccio una proposta: diventa la mia protettri-
ce.»
Lömalöstra lo osservò, tra l’irritato e il com-
piaciuto. Alla fine scoppiò a ridere. «Va bene,
se è ciò che desideri. Ma pongo sempre una
condizione, in questi casi: chi vuole il mio
patrocinio deve fare l’amore con me. Se ti senti
degno di me dovresti dimostrarlo, Vùltem dai
capelli neri.»
Vùltem, deluso, finse di riflettere sulla pro-
posta della Shùra. Sömelèk lo aveva avvertito:
la Shùra voleva ingannarlo, infida e crudele;
una vera donna magica, priva di pietà e di
scrupoli. Se avesse rifiutato il patto sarebbe
stato perduto: finché essa manteneva intatto il
proprio potere non poteva fidarsi di lei. D’al-
tro canto se avesse accondisceso sarebbe morto
definitivamente. Nella sua testa maturava un
piano per salvarsi dalla vendetta della Shùra.
«Può darsi. Ma tu, mia signora, da che lato
vorresti essere amata, dal lato del sole o da
quello della luna?»
Un lampo malizioso attraverso le iridi verdi
di Lömalöstra. «Da entrambi.»
35
«D’accordo, allora. Ti amerò.»
Lömalöstra sorrise, ammirando la fioritura
del ragazzo, che ancora perdurava come un’eco
della lotta, accarezzandola con delicatezza e
bramosia. «Coraggio, allora, figlio di donna:
toglimi di dosso questo acciaio e amami con
l’ardore degli uomini di carne e sangue.»
Vùltem slacciò i nodi che stringevano l’usber-
go della donna e aprì i ganci che sostenevano
gli schinieri, lasciandola completamente nuda.
Poi la girò e prese ad amarla dal lato della
luna, sorprendendola e strappandole un pic-
colo urlo. La sua natura umana e la sua forza
magica condussero Lömalöstra molto lontano,
sul sentiero del piacere, al punto che l’estasi
la rese allucinata e distratta, quasi dimentica di
sé e dei propri intenti omicidi. Vùltem non si
trattenne, non fu timido, ma dimostrò di essere
ormai un uomo, dando libero sfogo alla propria
virilità e traendo dalla Shùra tutte le tonalità
del godimento, quasi suonasse uno strumento
musicale vivente.
Lömalöstra sudava e viaggiava lontano con la
mente, finché il sole del piacere non minacciò
di esplodere dentro di lei. A quel punto urlò
al proprio amante: «Adesso amami dal lato del
sole, coraggio! Amami, per la Dea!».
E Vùltem, pur travolto e sconquassato dalle
36
percosse della libidine e dalla sua frusta di rami
di betulla infuocati, non si lasciò confondere:
afferrò Sligagróp e, anziché immolare il pro-
prio stelo al fiore dentuto, usò l’arma fatata. I
denti del fiore scattarono con violenza, come
una tagliola, mordendo ferocemente l’acciaio
della spada e spezzandosi.
Lömalöstra urlò. Il suo grido fu agghiacciante
e riempì l’aria come lo stridio di un uccello da
preda ferito. «Traditore! Bastardo!» esclamò,
fissando torvo il ragazzo. «È così che speri di
accattivarti la mia protezione? Togliendomi
la mia fierezza? Che tu sia maledetto! Che tu
possa essere divorato mille volte dal Maiamórč
e venirne mille volte risputato!»
Lacrime lucenti rigavano le sue guance e la
sua fronte e i suoi seni si riempirono di sudore
freddo. La forza della donna magica sembrava
essere evaporata, lasciandola esanime, inerme.
Il suo fiore aveva perso i denti; il suo corpo
magico aveva perso il proprio potere.
«Mi dispiace» ansò Vùltem, sconvolto dal
furore erotico e dall’enormità del suo gesto.
«Non mi hai lasciato altra scelta, Lömalöstra.
Se tu avessi avuto pietà di me non avrei mai
osato tanto. Ho dovuto farlo, per salvarmi.
Mi è stato detto che il fiore con i denti ha u-
na funzione precisa: santificare il corpo degli
37
uomini compiendo su di essi il marchio della
circoncisione; non quella di ucciderli nel mo-
do più straziante, come avevi intenzione di
fare con me. Il tuo compito è donare la forza
magica; non impossessarti della forza vitale di
coloro che si affidano a te. Non credo tu possa
lamentarti troppo, se sei stata punita.»
«Pazzo! Tu hai infranto un divieto terri-
bile e ne pagherai le conseguenze» sbraitò
Lömalöstra, sbavando di dolore e di rabbia,
con il bel viso contratto in una smorfia.
«Hai perso il tuo potere, signora dei Tìra
Mòla Tambàlet» disse Vùltem, senza degnar-
la di uno sguardo. «Le tue maledizioni sono
inutili.»
Quindi si allontanò da lei, lieto per aver sal-
vato la vita e addolorato per la sofferenza della
donna più bella del mondo. Balzò attraverso la
breccia nel muro del giardino e uscì incontro
al cavallo Sömelèk.
«Figlio di donna, hai superato anche la se-
conda prova!» nitrì il baio, con gioia.
«Sì» rispose Vùltem, a capo chino.
«Allora perché non sembri contento?» do-
mandò il destriero, urtandolo dolcemente con
il muso.
«Non lo so. Non sono in grado, per ora,
di spiegarlo con le parole. La Shùra era bella,
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ma crudele. Ho sentito di amarla, a dispetto
della sua crudeltà. Eppure so che la crudeltà
e l’istinto omicida di lei non avrebbero mai
permesso che io l’amassi.»
«Figlio di donna, forse ti sembra una cosa
amara da apprendere, ma si tratta di un buon
insegnamento: tutta la vita è fatta in questo
modo. Ma il giudizio di valore che diamo a
qualcosa non è, spesso, di alcuna importanza.
Il tuo dovere e la tua salvezza, la tua possi-
bilità di agire nel mondo e di esserne agito il
meno possibile dipendono dalla consapevolezza
che raggiungi sulle leggi che regolano il mon-
do. Non dal giudizio che hai su quelle leggi.
La conoscenza delle leggi: questo è il potere;
questa è la forza magica.»
Vùltem annuì. Le parole del cavallo gli ap-
parivano sagge e appropriate. Così si scrollò di
dosso il senso di colpa e di perdita e domandò:
«Adesso come faremo a trovare la strada che
porta al Mondo dei Meno?».
«Ti porterò io, che sono il tuo cavallo!»
nitrì Sömelèk.
Vùltem montò in sella e il destriero partì
velocissimo, attraversando i prati anemici, co-
stellati di tumuli in terra e pietra e fattorie
e castelli in rovina. I due si diressero verso
alcuni rilievi. Da principio essi apparvero di
39
modeste dimensioni, ma a mano a mano che
galoppavano il ragazzo capì che solo la distan-
za aveva potuto indurlo a considerarli bassi;
essi, in realtà crescevano, crescevano, fino a
riempire la linea dell’orizzonte e a stuzzicare il
cielo con le loro cime aguzze come coltelli. A
un certo punto la corsa tumultuosa di Sömelèk
si arrestò bruscamente, costringendo il cavaliere
a tenersi in equilibrio con un certo sforzo.

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4 - Resurrezione

Di fronte a loro c’era una parete di roccia,


sovrastata da un arco di arenaria scolpito, una
sorta di tettoia spiovente, che giungeva fino
a terra e assomigliava a una coda di lucertola
mastodontica. Sotto la tettoia si apriva una ca-
verna perfettamente rotonda, sigillata da grossi
massi.
«A quanto pare il nostro cammino termina
qui» costatò Vùltem. «Siamo finiti in un vicolo
cieco. Non vedo alcun passaggio possibile.»
Sömelèk nitrì e il suo nitrito sembrava una
risata. «Figlio di donna, le cose non sempre
sono ciò che sembrano. In realtà questa parete
di roccia non è, come pensi, il fianco di una
montagna: essa è il muro che divide il Mon-
do dei Più dal Mondo dei Meno. E quella
che ritieni essere una caverna bloccata da una
frana non è per nulla una caverna: è l’ano
del Maiamórč, stretto dai suoi petrosi muscoli
involontari.»
A quelle parole Vùltem trasecolò e la sua
mente si riempì di timori angosciosi. «Che co-
sa? Perché siamo qui, cavallo?»
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Sömelèk guardò il proprio cavaliere con i
tondi occhi nocciola, più vivi e intelligenti
che mai. «Perché la via che conduce nel Mon-
do dei Meno passa proprio da qui. Dovremo
attraversare a ritroso il percorso che ci portò da
questo lato della realtà.»
«Dovremo infilarci nel posteriore di un mo-
stro?» esclamò Vùltem, sgranando gli occhi.
«È così» disse il destriero, con semplicità.
«Ma è assurdo…»
«Ti sembra più assurdo che l’essere divorato
e defecato in forma spirituale nell’aldilà? Tu
ragioni davvero in modo strano, Vùltem. Ma
il mio amore per te è così forte che, a volte,
dimentico che sei solo un uomo; che sei solo
un figlio minorato della Dea.»
Vùltem si sentì toccato dal duro rimprovero
del suo cavallo baio. «Se tu affermi che le cose
stanno in questa maniera, chi sono io per di-
scuterne? Tu sai. Io non so. Inoltre ho cieca
fiducia in te. Senza di te sarei perduto. Non
scambiare la mia sorpresa per arroganza.»
Se un cavallo avesse potuto sorridere con
tenerezza, il buono e ardimentoso Sömelèk a-
vrebbe sorriso. «Non lo farò. Lo sai che ti
amo e che sono qui per aiutarti. Ascolta il mio
consiglio per l’ultima volta, perché quando
saremo passati Di Là io tornerò un semplice
42
cavallo muto; non potrò più né parlare né
consigliarti.»
Il ragazzo provò una fitta acuta, a quel pen-
siero, e sentì il desiderio di piangere. «Questo,
amico mio, non è possibile. Io avrò sempre
bisogno del tuo saggio consiglio. Come farò a
capire quando sbaglio sentiero se tu non sarai
lì per dirmelo? Non voglio privarmi del tuo
consiglio e della tua guida. Tu sei il mio di-
fensore e parte della mia anima.»
«Non disperarti» disse Sömelèk, con sem-
plicità. «La mia guida e il mio consiglio sono
necessari in questo mondo, ma non lo saranno
nel mondo Di Là. Ora hai la tua forza magica:
ti basterà ascoltarla ed essa ti dirà come, dove
e quando compiere i passi. Hai però detto una
cosa vera: io sono parte di te e il tuo protet-
tore; e il mio aiuto non ti verrà mai meno,
anche se non potrò parlarti con le parole degli
uomini. Resterò fedelmente al tuo fianco, finché
mi verrà concesso; e quando approderai nel
Mondo dei Più in maniera definitiva troverai
me. Cavalcheremo insieme incontro a ciò che ti
è destinato, fra i morti, e ti difenderò ancora
dai pericoli che ti attenderanno. Sii, dunque,
sereno e compi la tua vita, senza crucciarti per
me. Ormai siamo legati per sempre.»
Vùltem non riuscì a trattenere le lacrime,
43
nonostante le rassicurazioni del cavallo; ma
annuì. «D’accordo, allora. Dimmi che cosa
dobbiamo fare.»
Sömelèk nitrì con forza, facendo echeggiare
la gola piena di ombre notturne. «Che cosa
dobbiamo fare, mi domandi? Non hai, forse,
al tuo fianco una spada prodigiosa? Pungi le
terga di questa bestiaccia, dunque, e non an-
darci leggero!»
Vùltem estrasse Sligagróp dal fodero e si get-
tò, con essa, contro la strana frana che ostruiva
la caverna che non era una caverna, di punta
e di taglio. La terra fu scossa da un tremito e i
massi pulsarono come membrane vive, mentre
l’aria si riempiva di ruggiti densi di pena e an-
goscia. Sotto il pungolo dello skalter la caverna
si aprì all’improvviso, mostrandosi tonda e
maleodorante.
«Adesso, figlio di donna!» nitrì Sömelèk,
lanciandosi al galoppo, verso l’apertura tem-
poranea e trascinando con sé il ragazzo. «E
ricorda che ti amo, qualunque cosa accada.»
Uomo e cavallo si immersero nel mollume
schifoso della caverna, cavalcando contro le sue
vive cavità, urtandone le viscere e pungendole
con l’acciaio. Il fetore divenne, ben presto,
insopportabile e l’oscurità invase i loro occhi,
come un muro solido ma cedevole. La carica
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dei due non si arrestò, finché il lungo intestino
costellato di tentacoli viscidi non fu sostituito
dalla cavità-fornace dello stomaco. Qui Vùl-
tem lottò contro le pareti dentute, spezzando
centinaia di zanne roventi, taglienti, aguzze,
con la spada magica. Il mostro entro cui si
dimenavano continuava a gemere, a urlare in
modo disumano, a contorcersi e a ballare. E-
ra evidente che avrebbe voluto liberarsi dal
dolore, ma non sapeva come fare. Il ragazzo
non gli offrì quartiere, tagliando e bucando le
pareti dello stomaco, come se volesse ridurlo
a pezzi. A quel punto il Maiamórč non ebbe
altra scelta che vomitare gli scomodi intrusi,
restituendoli (coperti di escrementi, saliva, bi-
le, frammenti di zanne e tizzoni ardenti) al
Mondo dei Meno.
Cavallo e cavaliere rotolarono con violenza
a terra, urlando, nitrendo, avvinghiati come
una cosa sola, uno strano ibrido metà uomo e
metà cavalcatura, ma si riebbero con prontezza,
traendosi in piedi, ammaccati, feriti, stravolti,
ma vivi. Vivi e resi vigorosi dal Dono dello
Shùr dai capelli color miele.
Il mostro, a pochi metri da loro, era malmes-
so e ferito; non avrebbe osato attaccarli di nuo-
vo. In realtà non lo avrebbe fatto comunque,
perché il Maiamórč divora una volta soltanto
45
la propria preda; se la preda torna dal Mondo
dei Più non ha più lo stesso odore e sapore
delle cose perfettamente vive, nate dal ventre
di donna. Per sicurezza (e a causa dell’eufo-
ria che respirare nuovamente l’aria del luogo
da cui provenivano causava loro), tuttavia,
essi si allontanarono in fretta dalla dimora del
Maiamórč, inoltrandosi nel bosco.

46
5 – La moglie dei lupi

Vùltem e Sömelèk vagarono nel bosco di Skür


per la notte intera, cercando di superare il
labirinto, ma senza ottenere l’agognata libera-
zione. Larici, pioppi, ippocastani, pini, abeti,
frassini, tigli, betulle, robinie si affastellavano
intorno a loro, creando muraglie rabescate di
rami bizzarri, foglie, infiorescenze, frutti. Il
ragazzo avrebbe volentieri chiesto consiglio a
Sömelèk, ma ora esso non avrebbe più potuto
rispondergli con voce umana e indicargli una
soluzione razionale. E, nel frattempo, la stan-
chezza, i tagli, la fame e la sete cominciavano
a diventare una tortura. Si chiese che senso
avesse avuto superare tutte le prove, se non
fosse poi riuscito a tornare nel mondo normale,
ormai uomo fra gli uomini; e si rese conto che
non esisteva una risposta. È lecito all’essere
umano tentare la sorte; è illecito, per lui, la-
mentarsi di come la Luce disponga le cose. Se
fosse stato volere della Dea, egli sarebbe morto,
e non c’era altro da dire, sull’argomento.
L’alba lo colse tremante, affamato, mentre ca-
valcava stancamente il suo baio. Sembrava un
47
pazzo e, se non fosse stato per la grande spada a
due tagli, che pendeva dalla sella, riflettendo la
luce rossastra del sole in giocosi barbagli, di certo
la sua figura adolescente sarebbe apparsa ridicola.
Il sole rinfrancò il cuore abbattuto del gio-
vane skalter. La Luce è l’eterna amica del suo
popolo: ogni volta che uno skalter vede il
sorgere del giorno è come se rinascesse; mentre
la notte turba il loro animo e risveglia in loro
tutte le paure fanciullesche e superstiziose. Vùl-
tem respirò più a fondo e si lasciò accarezzare
la pelle dalle dita del sole nascente.
Quando riabbassò la testa e riaprì le palpebre
scorse davanti a sé uno strano edificio. Si trat-
tava di una casa lunghissima, eretta su colonne
di quercia. Sembrava fabbricata interamente
con il legno e sulle sue pareti dipinte in modo
rozzo di simboli magici non c’erano finestre,
né porte. Intorno alla casa era stata eretta una
palizzata di tronchi e, su alcuni di essi, i poco
amichevoli abitanti avevano infitto teste umane.
Tra queste moltissime erano ormai ridotte a
teschi sbiancati dal sole e dalla pioggia, ma ve
n’erano alcune di recentissima morte.
Vùltem si chiese chi fossero i costruttori della
casa e che razza di barbari fossero per commet-
tere un simile scempio. Aveva udito storie di
altri popoli, nelle veglie attorno al fuoco. Suo
48
nonno gli aveva detto che c’erano al mondo
persone che praticavano ancora il cannibali-
smo, come i pitoti e i keisenküles. Si augurò di
non essere capitato in un territorio di canniba-
li. Non che facesse molta differenza: era tanto
esausto che, per lui, sarebbe stato del tutto
indifferente morire per mano omicida o a causa
degli stenti. Proseguì, accarezzando Sligagróp,
fino al cancello di legno e chiamò a gran voce:
«Ehi, della casa! C’è qualcuno?».
Continuò a chiamare, incurante di suscitare,
con le proprie urla echi lugubri. Da principio
nessuno rispose. Ma al quarto richiamo dalla
casa arrivò una voce.
«Per amor della Luce! Taci.»
Sembrava la voce di una ragazza molto giova-
ne e Vùltem sorrise all’idea che ella fosse bella,
oltre che giovane, e che lo stesse osservando da
dietro qualche foro nascosto, per vederlo nudo.
«Mia signora, abbi pietà di me. Ho compiuto
un lungo viaggio, irto di difficoltà e di prove
mortali. Sono ferito e affamato. Ospitami.»
«È proibito» replicò la voce, abbassandosi
improvvisamente in un sussurro. «Nessuno può
entrare nella casa dei lupi, se non conosce la
parola d’ordine. E solo uno che sia stato nel
Mondo dei Più e che ne sia tornato può acce-
dere ai suoi segreti.»
49
«Io torno proprio da dove dici, signora» sor-
rise Vùltem, sentendo con emozione di potersi
vantare delle proprie imprese con un proprio
simile. «La prova che porto è questa spada
forgiata dai Tìra Mòla Tambàlet. Non conosco
la parola d’ordine. Lo Shùr che mi ha istruito
non ha fatto menzione a cose del genere.»
«Una spada non è una prova del fatto che
tu sia stato nel Mondo dei Più» disse la voce.
«Se dici la verità mostrami il marchio di coloro
che vengono iniziati alla forza magica.»
Vùltem capì che tale richiesta gli veniva ri-
volta per altri motivi, oltre che per provare la
sua iniziazione, ma si sottomise, stranamente
eccitato dalla melodia di quella voce curiosa e
maliziosa, che gli ricordava il miagolio di un
gatto e il cristallo liquido di una fontana. Si
alzò in piedi sulle staffe, mostrando il proprio
stelo eretto e indicando la cicatrice della cir-
concisione. «Vedi, mia signora? Ho il mar-
chio. Te lo mostrerei più da vicino, se potessi
oltrepassare il cancello della tua casa; ma non
scorgo né porte né finestre…»
La voce esitò. Vùltem (con estrema arrogan-
za, temperata solo dal divertimento) immaginò
che la ragazza fosse arrossita, di fronte alla sua
proposta. E non aveva sbagliato di molto, per-
ché quando la voce tornò a parlare, sembrava
50
più impacciata, meno sicura di sé.
«Hai una gran faccia tosta! Non mi parleresti
così se sapessi chi sono e, soprattutto, chi sono
i lupi che abitano con me.»
«Lupi?» domandò Vùltem, con un sorriso.
«Perché una fanciulla dovrebbe abitare con
dei lupi? Chi sei, dunque? Una maga? Un
mostro? Perché ti nascondi? Forse perché temi
che il tuo aspetto potrebbe pietrificarmi dall’or-
rore?»
Il giovane aveva toccato il tasto della vanità
e la voce ribatté, stizzita: «Come osi, borioso
ragazzino? Non mi ritrovo sposa dei lupi per
colpa della mia bruttezza, sta’ sicuro! Anzi!
Mi scelsero per la mia bellezza.»
«Come posso crederti?» domandò Vùltem.
«La bellezza è fatta per essere ammirata, non
per starsene celata nelle ombre di una casa
circondata di teschi. Se sei davvero bella come
dici, coraggio, mostrati.»
«Non è permesso!» bisbigliò, risentita, la
voce.
«Perché?»
«Sei proprio ottuso!» s’irritò la voce. «I te-
schi che vedi appartenevano ai ficcanaso come
te. I loro proprietari volevano entrare nella
casa, senza essere stati iniziati ai suoi segreti. I
lupi li sorpresero e li uccisero, spiccando loro
51
la testa e mettendola a guardia del recinto. Ora
te ne devi andare lontano da qui. Presto! I
lupi sono usciti a caccia, ma torneranno da un
momento all’altro.»
«Sono troppo stanco e ho fame» ripeté Vùl-
tem, con noncuranza. «Me ne andrò solo se mi
darai da bere e da mangiare. Se tu rifiutassi non
riuscirei a scampare dalla prigione del bosco;
dunque la mia sorte è comunque segnata.»
«Per la Luce, come sei stupido!» esclamò
la voce, esasperata. «Se hai ottenuto la forza
magica, perché non vai semplicemente a cac-
cia? Il Dono consente all’uomo di dominare
le bestie.»
«È vero» ammise Vùltem. «Non ci avevo
pensato. Ero troppo spaventato per cercare di
usare il Dono. Ma ora che ti ho incontrato per-
ché sprecare la magia, quando, se tu volessi,
potresti semplicemente uscire da quello strano
palazzo di legno e consegnarmi un tozzo di
pane e dell’acqua fresca?»
Ci fu un’altra esitazione, questa volta più
lunga. La ragazza nascosta nella casa sembrò
sostenere una dura lotta fra il proprio deside-
rio per il ragazzo sconosciuto e la possibilità,
assecondandolo, di recare morte a sé e a lui.
Ma alla fine l’istinto erotico prevalse.
«Va bene, entra» sussurrò. «Fa’ presto e pre-
52
ga che i lupi non siano appostati nei dintorni
e che non ti abbiano visto. Sarebbe la fine per
entrambi.»
Il cancello di legno scattò, aprendosi da solo.
Poi, dal fondo della casa apparve una scala di
corda.
«Come farò a nascondere il mio cavallo?»
chiese Vùltem, esitando.
«Portalo nelle scuderie» disse la voce. «I
cavalli nella scuderia sono il frutto dei furti
che i lupi commettono a danno della gente
dei villaggi. Non li contano e non li usano;
si limitano a far sì che io me ne prenda cura,
quando essi non ci sono. Li ritengono cavalli
sacri, dunque tabù, giacché sono dedicati alla
Violenza, la dea che essi venerano e di cui
custodiscono i segreti.»
Vùltem individuò subito, con occhio esper-
to, la collocazione delle scuderie. Condusse
Sömelèk tra gli altri animali della sua specie,
avendo cura di levargli i finimenti. Tenne con
sé soltanto Sligagróp, per ogni evenienza. Do-
podiché tornò alla scala di corda e si arrampicò
agilmente, scomparendo nella costruzione li-
gnea, senza temere che si trattasse di una trap-
pola. Il Dono non gli permetteva soltanto di
influenzare la volontà degli animali, ma acuiva
le sue intuizioni sui pensieri dei propri simili.
53
Ci vollero alcuni minuti prima che i suoi
occhi si abituassero alla semi-tenebra e quando
ciò accadde poté vedere una vera e propria
casa, ma formata da un’unica stanza. Vi erano
pochissimi mobili, tutti in massello, e una zona
notte, dove si trovavano le brande dei lupi, e
una zona giorno, dove c’era invece la cucina
con tavolo e sedie. Vùltem contò rapidamente
le sedie: erano quattordici. I letti accuratamente
rifatti e coperti da lenzuola ricamate di simboli
esoterici erano dodici. Ne trasse la conclusione
che la banda dei lupi (chiunque essi fossero e
qualunque fosse il motivo per cui si facevano
chiamare in questo modo pittoresco) era formata
da dodici uomini. Non era una buona notizia.
Dodici uomini giovani, forti e senza scrupoli
potevano costituire un grosso pericolo. Questo
pensiero, però, anziché atterrirlo, inaspettata-
mente lo rese euforico. Cercò, finalmente, la
fonte della voce che lo aveva sedotto e notò
con gioia che non si era sbagliato: la ragazza
era davvero molto bella, con lunghi e morbidi
capelli biondi, un viso simpatico e attraente,
e una corporatura esile.
«Come ti chiami?» domandò Vùltem.
«Seréza. E tu?» disse ella, arrossendo.
«Vùltem» rispose il ragazzo, compiendo un
passo verso di lei. Nonostante la propria nudità
54
non provava imbarazzo; semmai stava scopren-
do il piacere di lasciarsi ammirare da un paio
di occhi sinceri e bramosi. «Perché vivi qui?
I lupi ti hanno rapito?»
Ella scosse il capo. «Fui mandata dai miei
parenti materni e da mia madre Goòia, benché
Gogöst, mio padre e re di Tiremsö, si oppo-
nesse.»
Vùltem dovette aver assunto un’espressione
meravigliata, perché Seréza scoppiò in un’al-
legra risata. «Nella nostra città è una cosa nor-
male. Le fanciulle più belle vengono collocate
per un anno nelle case degli uomini, cioè di
coloro che hanno ricevuto l’iniziazione, come
mogli comuni degli iniziati. È una pratica che
aumenta il lustro e la considerazione delle fa-
miglie da cui la fanciulla proviene.»
Vùltem provò turbamento. «Vuoi dire che
tu… sei la moglie di tutti i lupi?»
Ella annuì, con evidente fierezza. «Sì, certo.
E posso essere anche tua moglie, per un po’,
se vuoi… a patto che i lupi non ti scoprano.
Non sono gentili con i ficcanaso. Inoltre sono
molto gelosi di me.»
Il ragazzo non sapeva se le circostanze fa-
vorissero o meno la sua eccitazione. Alla fine
decise di sì e sorrise, cominciando a cantare:

55
«Spogliati, amore, spogliati, fa’ presto!
Ti vedo, nella Luce, e mi divora
il fuoco della voglia. M’innamora
la tua pelle splendente; ogni tuo gesto
mi provoca un delirio di pulsioni.
Grazie alla Luce che ti manifesta
a me, l’ardente lussuria che ho in testa
esplode. Non rispondo delle azioni
del mio corpo anelante.
Non perdere un istante!
La Luce ci è propizia.
Spogliati, amore, presentati nuda
all’amplesso! che la Luce mi illuda.
Che la tua carne splenda. L’avarizia
di mostrarti finisca e non chiuda
alla vista il tuo frutto rosso, esotico,
i tuoi seni di zucchero, l’erotico
sedere curvilineo. Suda, suda
per l’anelito ardente di piacere
a colui che ti ammira. Avanti, inizia!
Fa’ che la Luce ti renda giustizia,
ti mostri bella, com’è suo dovere».

Seréza sorrise. Aveva belle labbra e bei den-


ti. Obbediente e sensuale si sfilò la tunica dalla
testa, con un gesto pieno di semplicità e di
grazia, e rispose al canto di Vùltem:

56
«Eccomi, amore, mi offro nella Luce
al tuo occhio lussurioso.
Ti offro tutto il mio frutto:
la Luce lo ha tre volte benedetto.
Fa’ di me ciò che la Luce ti induce
a fare. Amami con fame, furioso,
e l’erba e il sole siano il nostro letto;
però osservami, di me guarda tutto.»

Dopodiché baciò il ragazzo, aderendo con le


punte dei seni al suo petto muscoloso e con il
ventre alla fioritura del suo stelo. Prima si fuse-
ro le lingue, danzando; poi si fusero danzando
i loro corpi giovani e vigorosi, splendenti di
bellezza. Fu una danza lunga e meticolosa, che
non lasciò nulla d’intentato, ma cercò di rias-
sumere in sé l’intero universo, la sua magia, la
sua energia, la sua estasi creativa. E fu anche
una danza audace, dolorosa e crudele, perché
la vita è anche questo. Danzarono le carezze e
le dolci effusioni; ma danzarono a lungo anche
la tortura e l’assassinio.
«Ah, Vùltem!» esclamò Seréza, abbando-
nandosi alla danza segreta dei corpi con un
trasporto mai provato. «Se quello che accade,
ora, tra noi dovesse avere un nome, lo chia-
merei amore. Tu mi fai provare cose che non
credevo esistessero.»
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Vùltem, per tutta risposta, l’amò con gran-
de furia e grande tenerezza e non sapeva che
cosa lo rendesse più felice, se il piacere che
gli giungeva dal proprio stelo o quello che gli
procuravano i propri occhi, nel guardare e nel
perdersi nell’avvenenza della ragazza.
Il piacere li lasciò entrambi esausti, tremanti
e sudati. La fine della danza fu come una luce
che si spense all’improvviso, nel silenzio cin-
guettante di una mattina che si stava, ormai,
trasformando in pomeriggio.
«Adesso devi andartene» disse Seréza, ancora
ansante.
Vùltem, con il cuore in tumulto, le accarezzò
i seni madidi. «Perché così presto?»
«È per la tua sicurezza» disse la fanciulla,
sottraendosi al piacere di quelle mani forti.
«Ma se mi vuoi potrai ritornare. Stavolta se-
condo le regole della casa.»
Si infilò lestamente la tunica e prese ad aggiu-
starsi i capelli d’oro filato, mentre ammaestrava
il suo tredicesimo sposo, lo sposo segreto.
«Resta nascosto nel bosco per un giorno.
Domani, verso l’ora nona, torna al cancello.
I lupi ti domanderanno la parola d’ordine e tu
rispondi: Ebrezza, Paura e Violenza. Ti chie-
deranno perché. Rispondi: perché Violenza
è la madre; Ebrezza e Paura le figlie. Allora
58
saranno costretti a lasciarti entrare. Ma tu sei
stato iniziato ai misteri della Luce, non a quelli
della sua nemica, la Violenza; perciò i lupi ti
saranno ostili e cercheranno di scacciarti o di
ucciderti, affinché tu non possa accedere alle
mie grazie. Dovrai stare in guardia. Se neces-
sario ti toccherà affrontare il capo dei lupi, che
si chiama Sökadesòk, e ucciderlo.»
Vùltem annuì, baciandola e ribaciandola.
«È tutto chiaro?» domandò Seréza, accarez-
zandogli il petto, le braccia, lo stelo, come se
non potesse mai saziarsi di scaldare le mani al
fuoco in una notte d’inverno.
«Sì, sì» ripeteva Vùltem, sentendosi il cuore
spezzare all’idea di separarsi da lei.
«Tornerai?» chiese Seréza, con ansia.
«Tornerò» promise lui, afferrando Sligagróp
e seguendola verso l’uscita.
Da quell’istante in poi tutto si fece concitato
e irreale. Si baciarono un’ultima volta, mesco-
lando labbra e saliva e aria alitata l’uno dai
polmoni dell’altra, come in un aereo patto di
sangue. Poi egli balzò al suolo e corse verso le
scuderie. Una volta individuato Sömelèk non
perse tempo a sellarlo; si limitò a recuperare i
finimenti e balzò in groppa, cavalcando a pe-
lo. Il cancello di legno di aprì da solo, come
prima, lasciandolo fuggire nel bosco. Il figlio
59
di Böbablö si allontanò, ma non troppo: non
voleva correre il rischio di smarrire la via del
ritorno. Raggiunse una distanza di circa due-
cento metri in linea d’aria; scese dal dorso
del proprio animale; e si appostò, scrutando
verso la casa dei lupi. Essa appariva poco più
che una macchia di colore, in mezzo all’arazzo
verde e grigio della selva.
Si accampò presso un ruscello, dove poté be-
re a sazietà e pescare con una lancia improvvi-
sata, nonché difendersi dal morso delle zanzare
e dal calore estivo con dei bagni rigeneranti.
Ivi trascorse la notte, sognando a occhi aperti
il sorriso di Seréza.

60
6 - La casa dei lupi

Mentre Vùltem era vigile scorse, un fremito


nella vegetazione, come se un grosso animale
avanzasse, spezzando rami e calpestando arbu-
sti. Doveva essere un animale davvero molto
grosso; oppure un branco di animali. Sì, il
giovane skalter decise che doveva trattarsi di
un gruppo di bestie di grossa taglia. Accarezzò
Sömelèk sul muso, ordinandogli di restare quie-
to. Quindi decise di avvicinarsi, per sciogliere
l’arcano.
Il trambusto era prodotto da dodici lupi
dall’aspetto terrificante. Si trattava, però, di
lupi stranissimi. Essi correvano accucciati, com-
piendo balzi innaturali, anziché avanzare agil-
mente, come se i loro arti fossero stati montati
al contrario, come se i loro corpi non fossero
stati pensati per muoversi a quattro zampe. In-
fatti quando essi giunsero davanti al cancello
di legno della casa ove dimorava Seréza, uno
dopo l’altro recuperarono la stazione eretta e si
strapparono le pellicce, rivelando la loro natu-
ra umana. Erano tutti uomini giovani, ragazzi
poco più anziani di Vùltem, e possedevano
61
muscoli fieri e guizzanti, imbevuti di forza ma-
gica. Il loro capo, un gigante barbuto, altis-
simo e dotato di un fallo enorme, pronunciò
la parola segreta e il cancello di legno si aprì.
I lupi scomparvero oltre la palizzata, trasci-
nando le carcasse di un cervo e di due daini
e quella di un uomo di mezz’età con il cranio
sfondato. Ululavano e guaivano, imitando alla
perfezione il verso degli animali di cui porta-
vano il nome; e così, guaendo e ululando, il
cancello di richiuse dietro di loro.
Vùltem sentì il proprio cuore accelerare. I
lupi avevano un aspetto spaventoso; ma la sua
mente si fissò su un solo pensiero: Seréza era
la loro moglie comune. Essi l’avrebbero pos-
seduta. E ciò gli procurava un’ira ferocissima.
Strinse le dita intorno all’elsa di Sligagróp,
fino a farsi sbiancare le nocche.
Era da poco passata l’ora sesta. Si rassegnò
a una lunga attesa. Tornò dove aveva legato
Sömelèk; pescò un pesce; ringraziò il Signore
dei pesci per la buona caccia; si scusò con la
preda per aver troncato in modo violento la
sua vita; lo cucinò e lo mangiò lentamente,
meditando propositi omicidi.
Come se reagisse all’umore bizzoso del suo
padrone, Sligagróp cominciò a ronzare, simile
a una tigre che faccia le fusa rotolandosi al sole.
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Udendola inquieta, Vùltem ebbe un’idea.
Era un’idea assurda, eppure tenace. Pensò in-
tensamente alla propria arma. “Sligagróp, mi
senti?”
“Sì, mio protetto” rispose la spada, nella
sua mente. “Mi domandavo quando ti saresti
degnato di rivolgermi la parola.”
“Non sapevo di poter comunicare con te!”
pensò Vùltem, meravigliato.
“E perché mai?” ridacchiò la spada. “Non
ti hanno forse insegnato che tutte le cose hanno
un’anima?”
Vùltem tacque per un tempo molto lungo,
raccogliendo le idee. In fine pensò: “Mi atten-
de una prova difficile e pericolosa.”
“Lo so.”
“Mi aiuterai?”
“Certo. Sono qui per questo.”
“Parlerai alla mia mente, mentre affronterò
i lupi?” chiese Vùltem, speranzoso.
“Per quella donna?” domandò Sligagróp
con fastidio malcelato. “Perché dovresti desi-
derare lei, quando hai me?”
Vùltem restò sorpreso, notando nel tono della
spada una sfumatura di gelosia. “Sei… femmi-
na?”
La spada vibrò un ringhio. “Lo sono. Sono
la tua unica e vera femmina. Ricordalo.”
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“Ma mi aiuterai?” insistette il ragazzo.
Sligagróp non rispose subito; fu la sua volta di
prendersi il tempo che voleva. “Ti aiuterò…”
“Grazie…”
“… ma in cambio dovrai darmi sangue di
nemici, vite di uomini, guerra!” concluse la
spada. “Giura che mi soddisferai e io ti aiu-
terò.”
Si trattava di una promessa terribile, ma an-
che il desiderio che Vùltem provava per Seréza
lo era; perciò giurò. “Lo giuro, per la Luce!”
Sligagróp ronzò appagata.
L’attesa parve eterna a Vùltem, ma il mo-
mento giunse. Slegò Sömelèk e prese congedo
da lui, accarezzandogli il muso. Quindi s’in-
camminò verso la casa dei lupi, senza affrettar-
si. Di fronte alla palizzata con i teschi urlò:
«Ehi, della casa! Fatemi entrare!».
«Va’ via! Questa casa è tabù!» abbaiarono
parecchie voci, dall’interno.
«Allora mettetemi alla prova» replicò Vùl-
tem.
«Vattene o ti uccideremo!» latrarono i lupi,
eccitati dall’affronto. «Mangeremo il tuo corpo
e metteremo la tua testa sulla palizzata, insieme
alle altre.»
«Ciò nonostante voglio entrare» urlò il ra-
gazzo.
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All’interno si udì un parapiglia, simile a
quelli che avvengono quando dei cani si azzuf-
fano in un canile. «Devi dire la parola segreta
o morirai. Ti abbiamo avvertito.»
«Violenza, Ebrezza e Paura», scandì Vùltem.
Le voci rabbiose, al di là della palizzata,
parvero acquietarsi in un silenzio carico di
stupore e minaccia. Poi una voce (una sola,
stavolta) domandò: «Perché?».
«Perché Violenza è la madre; Ebrezza e Pau-
ra le figlie» rispose Vùltem.
Ci fu un rapido confabulare, inframmezzato
da ringhi e uggiolii; dopodiché la serratura
del cancello scattò e il giovane skalter si trovò
circondato da sei uomini nudi, ma con il ca-
po coperto da teste di lupo e dall’espressione
feroce.
«Chi sei?» gli domandarono, annusandolo
con aria sospettosa, pronti a balzargli addosso
a ogni minimo segnale di incertezza.
«Vùltem. Mi sono smarrito nella foresta e
cerco pane e riposo.»
«E come fai a conoscere la parola segreta?»
insistette uno dei suoi nemici. «Hai forse rice-
vuto l’iniziazione?»
«Tu lo dici.»
«Hai risposto alle domande» ringhiò l’uomo-
lupo; «quindi non posso rifiutarmi di farti
65
entrare; ma tu non mi piaci. Se vorrai rimane-
re dovrai dimostrare di possedere un aiutante
magico.»
Vùltem si strinse nelle spalle. «Portatemi dal
vostro capo.»
Il branco condusse l’intruso all’interno della
casa, attraverso la scala di corda. Nella gran-
de stanza senza finestre trovarono il resto del
gruppo, ciascuno intento alle proprie faccende.
Seréza stava carponi su una stuoia e Sökadesòk
la montava come fanno le bestie.
Vùltem vide rosso ma badò a non lasciar
trasparire le proprie emozioni.
«Chi è questo spione?» urlò Sökadesòk,
vedendosi interrotto nell’esercizio dei propri
diritti. «Perché lo avete introdotto in casa vi-
vo?»
«Conosceva la parola segreta» si giustificò il
lupo che aveva accolto il ragazzo, uggiolando
come un cagnolino, di fronte al capobranco.
Sökadesòk emise un ringhio basso e guttura-
le, colto da un sospetto. Diede una spinta a
mano aperta sulle natiche di Seréza e mandò
la ragazza lunga distesa e si voltò ad affrontare
il nuovo venuto. «Chi sei?»
«Vùltem.»
«Che cosa vuoi?» domandò Sökadesòk, av-
vicinandosi e fiutandolo.
66
«Voglio la donna» indicò Vùltem, a braccia
conserte, senza lasciarsi intimidire.
«Perché, la conosci, forse?»
Il giovane skalter evitò accuratamente di ri-
spondere. «La voglio.»
Il branco ringhiò minaccioso, ma Sökadesòk
si limitò a un ghigno. «Lurida sgualdrina!
Questo spiega come mai tu conosca le nostre
parole d’ordine.»
«Non discuto cose che non mi riguardano»
replicò Vùltem. «Sono qui per un motivo ben
preciso: voglio la donna.»
Sökadesòk guardò il rivale con infinito disprez-
zo. «Potrei ucciderti in questo stesso momento.»
«Rischieresti inutilmente la vita» rispose
Vùltem, senza battere ciglio.
Sligagróp, al suo fianco, ronzò in modo mu-
sicale e Sökadesòk, nonostante la sua maschera
spietata, non poté fare a meno di abbassare
per un istante lo sguardo verso l’arma magica
e prendere in considerazione l’eventualità che
uno scontro diretto finisse ben diversamente da
come avrebbe desiderato.
«Hai ragione» disse, accarezzandosi il men-
to. «Perché dovrei versare il mio sangue, quan-
do possiamo versare soltanto il tuo? Vuoi Se-
réza? Bene. Allora dimostraci di possedere il
Dono, dimostraci di avere un aiutante magico.
67
Ti proporrò delle prove: se le supererai potrai
andartene illeso, insieme alla ragazza; se fal-
lirai, ti uccideremo senza pietà e uccideremo
anche lei. Infatti, con il suo comportamento,
ha dimostrato di essere indegna dell’onore che
le abbiamo fatto, accogliendola come nostra
moglie comune. Accetti?»
«Se la ragazza è d’accordo, per me va bene»
rispose Vùltem, scoccando un’occhiata a Se-
réza. Ella si limitò a sorridere con timidezza e
ad annuire. Lo skalter l’ammirò: doveva essere
consapevole del rischio che correva affidandosi
alle sue capacità; eppure, per amor suo, non
aveva esitato a concedergli la propria fiducia e
a mettere nelle sue mani la propria vita. Que-
sto gli fornì una determinazione di ferro. «Sia
come vuoi, dunque.»
«Ti assegnerò tre prove» decise Sökadesòk.
«La prima servirà a chiarire se sei davvero forte
come pretendi di essere: nella foresta, a due
ore di cammino verso occidente, c’è un toro
selvaggio. Si chiama Streekabröt. Esso ci ha
dato molto filo da torcere, giacché ha in odio
la specie umana e cerca di uccidere tutti coloro
che s’imbattono in lui. Uccidilo e portaci la
sua carcassa da offrire alla dea Violenza.»
«Lo farò» disse Vùltem. «Quali saranno le
altre prove?»
68
Sökadesòk ghignò crudelmente. «Torna vivo
e lo scoprirai.»
Il giovane skalter fu condotto all’esterno del-
la casa degli uomini e gli fu mostrata la direzio-
ne da prendere. I lupi ridevano di lui, mentre
si allontanava e scompariva senza esitazione
tra la vegetazione. Ma Vùltem sorrise, dentro
di sé, perché il Dono faceva scintillare la sua
anima.

69
7 - Streekabröt

Vùltem camminò a lungo, seguendo le indica-


zioni. Si trovava, ormai, nel cuore selvaggio
del bosco, dove nessun uomo si avventurava,
la parte più sacra del luogo sacro, quella riser-
vata ai mostri e agli dèi. Il tetto del fogliame
impediva alla luce di giungere, se non sotto
forma di luminosità diffusa, verdastra. I tronchi
muscosi, grigi e neri, sembravano guardiani
impettiti, arcigni. Il ragazzo aveva la sensa-
zione che lo scrutassero con severità, dall’alto
della loro secolare forza e dall’abisso della loro
malvagità arborea, pieni di un rancore vendi-
cativo, disumano. La presenza della Violenza
era palpabile; sembrava un aroma acre e be-
stiale, che esalasse dalla terra, dalle pietre,
dalle piante e dagli animali invisibili di cui si
percepivano i versi, i bramiti, i cinguettii, i
movimenti minacciosi e prudenti.
Il passo di Vùltem si fece inconsciamente cau-
to. “Sligagróp, avverti la presenza del toro?”
“Sì, mio protetto. Il mostro è vicino” ri-
spose la spada, emanando un freddo scintillio
nella semi-tenebra.
70
“Posso ucciderlo?”
“Certo! Ma devi stare attento. Il toro ha la
forza di cento uomini e l’astuzia degli esseri
razionali. Evita lo scontro diretto con lui o
perirai. Se esso ti attacca all’improvviso, balza
lontano. Se ti incalza afferralo per le corna e
compi l’acrobazia degli atleti. Dovrai colpirlo
una volta sola, alla giogaia, perché è proprio
lì che risiede il suo potere divino. Bada, pe-
rò! Qualora riuscissi a ferirlo il toro cercherà
di impietosirti. Può farlo, perché conosce la
magia. Non lasciarti sopraffare, né per amore
né per forza: se tu colpissi una seconda volta,
l’animale magico guarirebbe all’istante dalla
prima ferita, con forze decuplicate, e per te
sarebbe la fine.”
Sligagróp aveva appena finito di ammaestra-
re il suo protetto, quando il bosco cominciò a
tremare sotto le percosse di zoccoli mostruosi.
Vùltem ebbe la sensazione che venti cavalli
galoppassero a tutta forza, bardati d’acciaio,
verso di lui. L’apparizione del toro fu istan-
tanea: i cespugli si aprirono con rabbia e una
sagoma nera, enorme, schizzò all’attacco.
Vùltem ebbe appena il tempo di scansarsi,
rotolando di lato, e la bestia divina incornò un
frassino, sradicandolo con strepito. Le radici
dell’albero uscirono dalle profondità del suolo,
71
scagliando ovunque sassi, terra, rami spezzati
e foglie.
Il giovane skalter restò meravigliato dal pote-
re dell’animale. Pensò di riuscire ad approfitta-
re della sua distrazione, ma il toro si muoveva
con la rapidità della folgore. Prima che avesse
il tempo di alzare la spada, esso già attaccava
di nuovo, costringendo l’uomo a una brusca
piroetta.
Streekabröt virò con un elegante guizzare di
muscoli, compiendo un semicerchio che gli a-
vrebbe dato lo slancio per un altro formidabile
tentativo.
Vùltem, ansando, si preparò a riceverlo. Ces-
sò di preoccuparsi per sé. Se doveva morire
sarebbe morto. Vuotò la mente; fissò la giogaia
che pulsava come fuoco lungo il collo di ferrò
della bestia; e si preparò a colpire.
Streekabröt prese la rincorsa e partì alla cari-
ca, imprevedibile come il mutare del pensiero
umano.
Vùltem ebbe appena il tempo di far scattare
in avanti Sligagróp e ritrarsi. Lo spostamento
d’aria lo gettò al suolo rovinosamente, ma egli
non se ne diede pensiero: sapeva di aver colpi-
to la giogaia fiammea; sapeva di aver compiuto
metà dell’opera.
Il toro colossale si schiantò, incespicando,
72
contro il muro d’alberi, spezzando sei tronchi
robusti e crollando su un fianco. Non cercò
nemmeno di rialzarsi. Rimase sbalordito, ter-
rorizzato, a respirare rumorosamente, conscio
che la morte stava per giungere. Dallo squarcio
aperto fiottava sangue simile a inchiostro nero.
Lo zampillo impetuoso non accennava a esau-
rirsi, anche se la giogaia affievoliva la propria
luminosità.
Vùltem si rialzò a fatica, intontito, avvici-
nandosi al mostro. L’intensità e la rapidità
dello scontro gli avevano lasciato addosso un
tremito nervoso che non riusciva a controllare,
nonostante i propri sforzi.
Streekabröt lanciò un muggito altissimo, sol-
levando la testa verso il cielo invisibile. In
quel verso si mescolavano angoscia, pietà di sé,
amore per la luce del giorno e per la lotta, ma-
linconia, in un’armonia che spezzava il cuore.
«Figlio di donna» implorò il toro morente,
con una voce umana profonda, cupa e rimbom-
bante. «Mi hai battuto. Ora completa l’opera:
uccidimi! Dammi il colpo di grazia, perché
soffro troppo e la mia agonia sarà lenta e do-
lorosa. Uccidimi!»
Vùltem guardò l’animale morente e si sentì
colpevole. I grandi occhi neri della bestia scin-
tillavano, umidi di lacrime, grandi come quel-
73
li di un bambino: tutto il suo corpo fasciato
di muscoli tremava, fremeva, si agitava nello
spasmo dell’agonia. Il ragazzo sapeva di non
dover cedere alla pietà; non voleva cedere;
eppure, senza che lui se ne rendesse conto, la
propria mano si era già sollevata, brandendo
Sligagróp oltre il capo.
“Fermati, amatissimo signore!” gridò la spa-
da nel suo cranio, con un urlo inaudibile e
potente, che gli scombussolò il cervello come
un colpo di frusta abbagliante di dolore. Tosto
il braccio si riabbassò e il giovane skalter fece
alcuni passi indietro, sottraendosi, volente o
nolente, all’influsso di Streekabröt.
«Uccidimi!» implorò il toro. «Fa’ presto!
Poni fine alla mia sofferenza, uomo spietato. Se
non mi uccidi finirai, per il tuo peccato, nel
mondo degli Strì, dove ti tortureranno con il
fuoco in eterno.»
«No!» riuscì a balbettare Vùltem. «Non ti
ucciderò. Lo giuro per la Luce.»
Come ebbe pronunciato il sacro giuramento
in nome della Luce, l’incantesimo si sciolse,
il suo cervello si snebbiò e la recita del mostro
finì.
Streekabröt lo fissò per un lungo, intensissimo
istante, gonfio di collera silenziosa e di puro
odio; poi alzò il muso verso il fogliame e lan-
74
ciò un muggito vasto e profondo come gli spazi
siderali, che echeggiò eternamente per la foresta
e gettò il lutto su ogni creatura e su ogni Signore
degli animali presenti, in quel momento, nella
selva. Quando anche l’ultimo fiato esalò dai
giganteschi polmoni, il toro si accasciò e non si
mosse più. Streekabröt era morto.
Vùltem ringraziò il Signore dei tori, si scusò
ritualmente con il proprio nemico abbattuto,
fece appello al proprio Dono, la forza erculea,
e senza badare alle contusioni e alle ferite,
provò a caricarsi il corpo gigantesco di Streeka-
bröt sulle spalle. Ondeggiò sotto il peso della
carcassa, come se fosse ubriaco e le sue gambe
sembrarono sul punto di spezzarsi di schian-
to; ma una volta trovato il punto d’equilibrio
riuscì a resistere. Chiese al Dono più forza: il
suo fallo s’indurì e il peso divenne più leggero
sulle sue spalle.
Quando dopo tre ore di cammino raggiunse
la casa dei lupi, scaraventò la massa inerte di
Streekabröt al suolo e il fragore fu sufficien-
te a richiamare l’attenzione di Sökadesòk e
dei suoi iniziati. I dodici furono meravigliati
dalla mole mostruosa del toro e dalla riuscita
dell’impresa. Vùltem fu guardato con molta
più considerazione e rispetto e alcuni osarono
perfino congratularsi con lui.
75
Ma Sökadesòk si morse un labbro, schiuman-
te rabbia. «Bravo. Le prove non sono termi-
nate, però.»
«Dimmi che cosa esigi» ansò Vùltem, «e io
lo farò.»
«Come vedi è calata la notte, ormai» ghignò
il feroce Sökadesòk. «A pochi chilometri da
qui, verso nord, sorge un cimitero. I nostri
antichi progenitori, quando vivevano ancora
nella foresta, venivano seppelliti lì. Si tratta
di un luogo spaventoso, dove nessuno pernot-
ta; un luogo infestato dalle anime dei defunti.
Dovrai vegliare in quel cimitero, fino all’alba.
Se fuggirai prima o se ti addormenterai la prova
sarà nulla.»
«Sia come sia» replicò Vùltem. I morti non
lo spaventavano più, dopo essere morto lui
stesso; perciò accolse quasi con sollievo la nuo-
va prova. Era stanco, esausto, dopo la lotta
contro Streekabröt. Questa impresa gli sembra-
va più riposante. Prese, dunque, congedo e
si avviò verso settentrione, orientandosi con
le stelle e palpeggiando i tronchi coperti di
muschio. Il freddo della notte lo fece tremare.
Da quando era tornato dal Mondo dei Più era
sempre stato nudo, senza la possibilità di co-
prirsi o di ripararsi dalle intemperie ma, per lo
meno, il suo amato Sömelèk lo scaldava con il
76
proprio corpo. Ora, invece, si scoprì a temere
che le temperature scendessero al punto di far-
gli perdere i sensi o di ucciderlo. Si massaggiò
vigorosamente le braccia, batté i denti e andò
avanti, cercando di scaldarsi alla fiamma del
ricordo di Seréza.

77
8 – L’antenato

Il cimitero apparve dopo un paio d’ore di cam-


mino, proprio dinanzi a lui. Era antichissimo,
formato da pietre rozze, poste verticalmente
sul terreno, in modo che il loro peso tenesse i
morti sottoterra e impedendo che essi tornasse-
ro a infestare il mondo. La cinta bassa, pura-
mente simbolica, sembrava essere stata divorata
dall’erbaccia e dai rampicanti, tanto che era
impossibile scorgere i mattoni con cui era stata
fabbricata. Al centro della piccola area sorgeva
una mandorla di pietra muscosa, alta tre metri e
quasi perfettamente verticale: l’ombelico della
forza, il centro magico.
Vùltem superò il muro e cercò un posto ripa-
rato dove trascorrere la notte. Avrebbe prefe-
rito evitare di accendere un fuoco, ma vedeva
bene che non avrebbe resistito al gelo della
notte, nudo com’era. Strappò, dunque, alcu-
ni rampicanti, ammucchiandoli in una buca e
tentando di disporli come gli aveva insegnato
suo zio Ardaké, molti anni prima. Trovò per
pura fortuna due sassi adatti a fungere da esca
e acciarino e, dopo molti tentativi, riuscì ad
78
accendere un focherello striminzito. Subito il
suo umore migliorò e sia il suo corpo sia la sua
anima accolsero la Luce con gioia.
Fino all’ora prima non accadde nulla. Il tem-
po scorreva con estrema pigrizia, quasi intonti-
to dalle droghe della notte; non c’era granché
da fare, perciò Vùltem passò il tempo cantando
incantesimi tradizionali al lume scoppiettante
del fuoco.

Il vecchio ontano beve l’acqua amara


e gelida del fiume e del pantano.
Il frassino si nutre d’uomo infranto.
Il larice e il cipresso fanno a gara
ad ombreggiare il tetro camposanto.
Ma il salice piangente è il più tremendo,
un mostro pieno di verdi gioielli:
nel vento vanno i suoi molti tentacoli,
a nastri, a fruste simili, a capelli.

«Canta ancora, perché ti fermi?» chiese una


voce, proprio accanto a lui.
La mano di Vùltem corse, istintivamente,
all’elsa di Sligagróp. Si volse di scatto e vide,
seduto al suo fianco, un uomo pallidissimo,
dagli occhi incavati e dalla cornea nera. Vesti-
va di stracci antichi, sudici, di colore bianco.
“Non è reale. Si tratta solo di un’ombra”
79
pensò, cercando di calmarsi, di non cedere
all’orrore naturale che gli esseri Di Là ispira-
vano ai vivi.
«Hai una bella voce» continuò l’uomo palli-
do, accennando un sorriso sghembo, dato che
Vùltem era ammutolito. «Non buona come
quella di un mago, ma comunque piacevole.
Ascolto di rado i canti dei vivi. Nessuno viene
mai qui, a onorare i morti con la musica, le
preghiere e gli incantesimi. Se anche tu fossi
stato un pessimo esecutore, i ricordi che mi
ispirano i vecchi canti degli skalter mi avreb-
bero condotto lo stesso da te. Canta, dunque,
e saprò ricompensarti.»
La spada non ronzava nel suo palmo; dun-
que Vùltem non correva un pericolo immedia-
to. Così riprese a cantare.

La Luce, amici miei, ordina in numeri


il mondo, è matematica e bellezza.
è nobile esattezza.
è palpito che ispira al cuore ruderi
romantici. è il fiabesco
che dà l’accesso agli ultimi segreti,
ai desideri, all’orrida violenza
che vive in noi, che adora il sangue fresco,
e batte il suo tamburo tra gli abeti
del bosco sacro dei sogni. La scienza
80
è Luce della mente. Ogni pensiero
è immagine. E l’immagine è soltanto
Luce. La Luce rende veritiero
il mondo, lo descrive, lo fa santo.
Sia lode, dunque, al libro della Luce,
che ci racconta il mondo e lo traduce,
per noi, dall’astruso idioma divino;
lo rende accessibile a un bambino.

Quando Vùltem ebbe terminato il terzo Inno


alla Luce la figura pallida sorrise nel suo strano
modo affilato (il ragazzo notò solo allora che la
fiamma del focherello non gettava né ombre né
luce su di lui) e propose: «Ora basta cantare.
Giochiamo ai tarocchi. Se vincerai tu, ti farò
un dono; se vincerò io, dovrai scendere nella
mia tomba con me. Sono solo da tanto di quel
tempo che non ricordo nemmeno più quanto:
ci terremo compagnia.»
L’idea fece drizzare i peli sulla nuca al giova-
ne ma, poiché Sligagróp sembrava ammutolita,
quasi addormentata, al suo fianco, rispose: «Va
bene».
Il morto estrasse dal nulla un mazzo bisunto
di tarocchi, dipinti con figure rozze e semi-
cancellate, che Vùltem non aveva mai visto
prima, e cominciò a mescolarle. Aveva dita
lunghe e agili e le carte scivolavano come se
81
possedessero vita sui suoi polpastrelli. In fine
distribuì tredici lame a sé e tredici allo skalter.
Il gioco si protrasse per alcune ore. A volte
Vùltem vinceva ma, più spesso, il morto aveva
il sopravvento. A un certo punto il ragazzo si
trovò a mal partito e incominciò a temere forte-
mente di dover scendere nella tomba, dicendo
addio alla bella Seréza.
“Come devo comportarmi?” pensò, ango-
sciato.
E Sligagróp rispose: “Il morto sta usando un
mazzo di carte magiche. Le carte cambiano figu-
ra a seconda delle tue. Se cali un tre di Bastoni
la carta del tuo avversario diverrà un asso di
Bastoni, mentre egli la cala a sua volta. Egli ti
sta imbrogliando, mio signore e mio schiavo.”
“Ammaestrami, o mio aiutante” supplicò
Vùltem.
“Evita di calare la carta per primo” disse
Sligagróp. “In tal modo il suo trucco perderà
efficacia e le sorti della partita si riequilibre-
ranno.”
Il ragazzo annuì. Non aveva mai amato i
giochi di carte. Per lui rappresentavano le in-
terminabili sere vuote d’inverno, nella casa di
Ardaké. Suo zio insisteva nell’affermare che i
giochi di carte e gli scacchi sono attività asso-
lutamente fondamentali e adesso Vùltem capiva
82
perché: i morti usano i giochi per ingannare i
vivi ed estorcere loro ciò che vogliono.
Non appena il morto decise di vincere, ba-
rando, un’altra giocata, Vùltem ne approfittò:
l’avversario depositò sulla pietra un quattro di
Ori; una carta inutile ai fini della vincita; ma
il ragazzo, inaspettatamente, calò una carta di
valore inferiore. Il morto vinse e fu costretto
a rigiocare per primo: tirò un sette di Coppe.
Il giovane rispose con un cinque di Bastoni.
Il morto vinse di nuovo e dovette giocare per
primo. Cominciava a innervosirsi e i suoi line-
amenti non mostravano più una serenità colma
di benigna indifferenza; si contraevano e rilas-
savano, manifestando nervosismo.
La partita raggiunse una fase di stallo. Allora
il morto propose di smettere, giacché in questo
modo non si poteva giocare. «Facciamo una
partita agli indovinelli.»
«Come vuoi» rispose Vùltem, millantando
tranquillità e sicurezza.
«Comincerò io» disse il morto. «Non ha voce
e grida, non ha denti ma morde, non ha bocca
eppure fa dei versi. Chi è?»
«Il vento» rispose Vùltem. «Adesso tocca a
me: Senza coperchio, chiave, né cerniera, uno
scrigno cela una dorata sfera.»
Il morto rise. «È facile! L’uovo. Attento,
83
ora! Pur avendo una sola voce, si trasforma
in quadrupede, bipede e tripode. Che cos’è?»
Vùltem ebbe qualche dubbio e si grattò il
mento ma, osservandosi le mani, i piedi e lo
stelo virile, comprese. «L’uomo. La risposta
è: l’uomo. Quand’è piccolo, gattona, cioè si
muove su quattro zampe. Poi cresce e ne usa solo
due. Invecchiando, però, deve sostenersi con
un bastone: cammina, dunque, con tre gambe.»
Il morto ringhiò. Il tempo passava ed egli
non otteneva ciò che si era ripromesso di otte-
nere. «Va bene, hai indovinato. Ora proponi
tu un enigma.»
«Può sgretolare un sasso, ma non reggerlo
sulle spalle... anche se sosterrebbe un grosso
tronco!» disse Vùltem.
Adesso fu la volta del morto restare perples-
so. Si sforzò, si sforzò, tenendosi la testa fra
le mani, dandosi perfino dei pugni in testa,
ma niente: non gli veniva in mente alcuna
risposta. «Che cosa può essere? Non capisco.
Sono confuso e l’alba, ormai, si sta approssi-
mando…»
«Allora, cedi?» lo incalzò Vùltem, felice di
aver guadagnato tempo, di avere allontanato la
fine per qualche minuto.
«Un momento! Un momento!» strillò il mor-
to, in preda a un’agitazione febbrile.
84
«Devi rispondermi o ammettere di non cono-
scere la risposta» replicò Vùltem, senza pietà.
Vedendo che l’avversario cercava di mettergli
fretta, l’ansia e la confusione del morto au-
mentarono e riflettere diventò, per lui, ancora
più difficile. «Devi concedermi tempo. Tu hai
avuto tutto il tempo che volevi, per rispondere.
Non sei corretto!»
«Si tratta di un indovinello molto facile»
obiettò Vùltem, con sarcasmo.
«Non lo è!» protestò il morto.
«Perdi minuti preziosi» sbuffò il ragazzo. «Ti
giustifichi inutilmente. Se la conosci, dammi la
risposta, oppure dichiara di aver perso.»
«Il martello!» esclamò il morto.
«Sbagliato.»
«E allora che cos’è? Qual è la risposta?»
gridò il morto.
«Il mare» rispose Vùltem.
Il morto restò allibito. «Il mare? E che cos’è
il mare?»
«Come!» esclamò lo skalter, meravigliato.
«Non sai che cosa sia il mare? Il mare è come
un lago, ma è molto vasto; tanto che non è
possibile vederne la fine. Inoltre è salato.»
«Non ho mai udito parlare di una cosa del
genere» affermò il morto, adirandosi. «Quan-
do ero vivo esisteva solo la foresta. Tutti gli
85
skalter vivevano nella foresta. Nessuno ha mai
visto una cosa del genere.»
«Nonostante ciò hai perso» dichiarò Vùltem,
preoccupato dalla piega che la conversazione
stava prendendo. «Dammi il dono che mi hai
promesso. Oppure, a tuo piacere, non darmelo
per nulla. L’importante è che mi lasci in pace
e che te ne torni a dormire nella tua tomba.»
«Mai!» urlò il morto. «Non ci saranno doni.
Tu verrai con me e mi terrai compagnia. Mi
hai ingannato. Sei un uomo perfido ed è giusto
che paghi per i tuoi peccati.»
Quindi si avventò contro il ragazzo, con le
mani aperte ad artiglio.
Sligagróp intervenne, mozzandogli il braccio
destro, con mossa fulminea. L’arto cadde pe-
santemente in mezzo alle erbacce e continuò a
muoversi. Ma questo diede a Vùltem il tempo
necessario a rialzarsi e mettersi in posizione di
guardia.
«Ah!» esclamò il morto, con espressione mal-
vagia e affamata. «Possiedi un aiutante magico.
Ma il suo potere e la tua forza non mi ferme-
ranno. Essi sono nulli contro uno che è nella
mia condizione.»
Attaccò di nuovo, nudando i denti affilati; e
Vùltem menò un tal colpo da tagliarlo in due
tronconi. Il torno mutilato piombò goffamen-
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te a terra, mentre le gambe continuavano ad
avanzare.
Il ragazzo continuò a sezionare il corpo del
morto in brani sempre più piccoli, operando
con la spada con la finezza di un chirurgo.
Sapeva che era tutto inutile: il suo avversario
raccattava i propri pezzi, rimettendoli a posto
come se fossero fatti di cera molle e continuava
ad aggredirlo, senza affanno, senza stanchezza,
senza tregua, voglioso di vendicarsi, bramoso
di assaggiare la carne e, soprattutto, il sangue
di un uomo vivo. Tuttavia egli resisteva, su-
dando e smaniando nell’aria gelida della notte,
colpendo e balzando via. La faccenda andò
avanti per un’ora, forse più.
Vùltem, a quel punto, capì che non avreb-
be resistito ancora per molto. Sbagliò l’ultimo
affondo e il morto lo urtò, facendogli perdere
l’equilibrio. Si ritrovò steso al suolo, con la
creatura mostruosa che lo schiacciava con il
proprio peso. Da quella posizione non poteva
più usare l’arma.
«Sei mio!» sibilò il morto. Ma poi non dis-
se e non fece più niente, perché proprio in
quell’istante la notte tenebrosa e violenta cedet-
te il posto alla Luce. Un timido raggio di sole
illuminò il cimitero degli Antichi e il corpo
del morto (fino a poco prima solido e gravoso)
87
scomparve, evaporò come brina. Al suo po-
sto Vùltem trovò un sacchetto di stoffa rossa,
trasformato in pendaglio con a una cordicella
di cuoio. All’interno c’erano oggetti bizzarri:
una piuma di gufo; un sasso levigato; della
polvere sottilissima (avrebbe potuto trattarsi di
cenere funeraria); ossa minuscole e non meglio
definite; e altre cose che il ragazzo non seppe
identificare. Richiuse il sacchetto e se lo mise
al collo.
“Quello è il dono che il morto ti aveva
promesso” disse Sligagróp, nella sua mente.
“Si tratta di un amuleto. La tua iniziazione sta
maturando, si sta completando, mio signore e
mio schiavo. Presto sarai un uomo onorato fra
gli altri uomini e il tuo potere e il tuo prestigio
potrebbero uguagliare o superare perfino quello
delle donne della tua specie.”
“A che cosa serve l’amuleto?” chiese Vùl-
tem.
“A proteggerti dagli spiriti malintenzionati,
come quello contro il quale ti sei battuto per
tutta la notte” rispose la spada; “ma esso ti
dà la facoltà di trasformarti in uccello anche sul
piano fisico, nel Mondo dei Meno. Si tratta di
un’abilità straordinaria, per gli esseri umani.
I tuoi antenati riuscivano a farlo, con facilità,
ma si è perso il segreto.”
88
Vùltem annuì, soddisfatto. Avrebbe avuto
modo di sperimentare le virtù dell’amuleto;
ora doveva pensare a Seréza e a se stesso. Ri-
prese il cammino verso la casa dei lupi, stan-
co eppure determinato a prendersi ciò che gli
spettava.
Giunse di fronte alla palizzata irta di teschi e
chiamò i lupi a gran voce. Il cancello di legno
scattò con un suono secco, nel mattino risonan-
te di cinguettii e bramiti di cervi. Gli abitanti
della casa gli corsero incontro, meravigliati che
lo skalter fosse tornato sano e salvo dalla prova.
Gli fecero cerchio intorno, congratulandosi e
osservandolo con un’ammirazione amichevole,
quasi idolatrica. I lupi facevano il tifo per lui.
Tutti, tranne Sökadesòk, il quale fremeva di
collera e tremava al pensiero che quel balordo
mettesse in discussione la sua autorità.
«Sai il fatto tuo» ringhiò. «Ma dovrai supe-
rare un’ultima prova. Guarda lassù. Vedi quel
puntino bianco a ridosso della grande monta-
gna che separa i mondi? Quello è la Čésa O-
zelànda, il Tempio degli Uccelli. In esso vive
il Signore di tutti i pennuti che solcano le vie
dell’aria. Nessun essere umano è mai riuscito
a scalare il picco sul quale la Čésa fu eretta
dagli dèi. Ed è un peccato, perché Ulavià, il
Signore degli uccelli conosce cose antichissime
89
che, certo, farebbero comodo agli uomini. La
tua prova consisterà in questo: raggiungerai la
Čésa e interrogherai il Signore.»
Vùltem, inaspettatamente, sorrise. «E che co-
sa dovrò domandare al Signore degli uccelli?»
«Chiedigli solo: che cos’è l’uomo» ghignò
Sökadesòk, incrociando le braccia sul petto mu-
scoloso e sfidandolo a dimostrare il suo valore.
A quel punto i lupi protestarono. «Söka-
desòk, desisti. Il ragazzo ha già ampiamente
dimostrato di essere un iniziato, di possedere il
Dono e di avere un aiutante magico. La prova
è troppo difficile. In questo modo invierai a
morte certa un valoroso innocente.»
«Tacete!» urlò Sökadesòk. «Credevate che
avrei permesso a qualcuno di mettere in discus-
sione la mia posizione e la legittimità del mio
possesso su Seréza? Se questo smargiasso desi-
dera la donna, cioè il piacere e il potere, dovrà
andare fino in fondo. Altrimenti muoia pure.»
I lupi ulularono proteste ed espressero scon-
certo per la follia del loro capo; ma Vùltem
li tranquillizzò. «Non preoccupatevi, amici,
accetto la sfida. Andrò fino alla Čésa Ozelàn-
da… e tornerò. Quando tornerò infilzerò la testa
del vostro capo accanto a quelle di coloro che
egli vi ha ordinato di uccidere. Lo giuro per
la Luce.»
90
A quelle parole Sökadesòk rise sguaiatamente.
Vùltem accennò un semplice sorriso. Poi toc-
cò l’amuleto del morto e si trasformò in un
uccello dalle penne di luce, volando via, verso
la cima della montagna che separa il Mondo
dei Meno dal Mondo dei Più.
I lupi e lo stesso Sökadesòk restarono basiti e
abbagliati dalla magia del ragazzo e recitarono
una preghiera alla dea Violenza, affinché li
salvasse dalla vendetta meritata.

91
9 - Ulavià, Signore degli uccelli

L’uccello-Vùltem batté le ali e il vento lo affer-


rò con le sue mille e mille dita invisibili e lo
sollevò in aria, alla velocità del lampo. Bastò
che egli volgesse la sua volontà verso la Čésa
Ozelànda e, subito, essa fu sotto i suoi artigli-
piede. Il giovane skalter sfiorò con il becco il
sacchetto del morto e il talismano lo mutò di
nuovo in uomo.
La Čésa Ozelànda sembrava costruita con l’a-
vorio ricavato dalle ossa spolpate degli animali
predati dai rapaci, nel corso dei millenni e nel
succedersi delle generazioni. Aveva la forma di
un grandissimo nido, ma era anche un edificio
artisticamente lavorato, sulle pareti del quale
spiccavano intrecci che imitavano rami e sterpi,
ma anche figure simili a bassorilievi o mosaici,
le quali rappresentavano uccelli intenti alla
loro attività venatoria. L’intero complesso era
circolare e la cosa più notevole era l’assenza,
su di esso, di un tetto o di qualunque altra
copertura che ne facesse funzione.
Vùltem si avviò verso l’ingresso. I suoi piedi
nudi rimbombarono nell’atrio, nonostante cer-
92
casse di muoversi piano nell’ombra. All’inter-
no trovò un enorme spazio rotondo, assolato,
al centro del quale c’erano un piedistallo e un
altare. Sull’altare giacevano inerti le carcasse
di topi, scoiattoli, serpenti e altre piccole cre-
ature. Sul piedistallo giganteggiava una figura
fatta di luce pura, dalla quale irraggiava la
forma stilizzata di un uccello immenso, con le
ali spiegate. Si intuiva, nell’essere di luce, un
uccello. Era Ulavià, il Signore degli uccelli.
Vùltem s’inginocchiò sul pavimento d’avorio
levigato, prostrandosi, e attese.
«Sei il primo essere umano che giunge nel-
la mia casa, da millenni» disse una voce di
tuono, riempiendo l’aria di fragore e facendo
tremare la montagna. «Chi sei, uomo?»
«Sono Vùltem di Iùrs, figlio di Böbablö!»
rispose il ragazzo, vibrando intimamente di
gioia e di forza.
«Che cosa ti ha spinto a visitarmi?»
«Un quesito.»
«Allora parla» ordinò Ulavià.
«Che cos’è l’uomo?» domandò Vùltem, ab-
bagliato, quasi ustionato dalla luminosità che
riverberava su di lui e dentro di lui.
«L’uomo è il solo animale che vive in stato
di follia permanente» rispose Ulavià. «Molto
tempo fa era un animale fra altri animali; ma
93
era un animale debole, senza ali, senza arti-
gli, senza pelliccia, e poco prolifico. Rischiò
di scomparire e la paura lo spinse ad affidarsi
agli dèi. Fu un patto scellerato. Di fatto egli
barattò la felicità che procurano l’uccidere e
l’essere uccisi, con la pazzia. Da quella pazzia
nacquero le società e dalle società l’intelligen-
za; ma non derivò per l’uomo alcuna gioia da
questi due Doni degli dèi. La presenza degli
dèi, nella mente umana, è un fatto artificiale,
in eterna contraddizione con la natura degli
uomini; è un eccesso che li fa ammalare, che li
costringe a operare continue magie per tenerne
a bada la sovrabbondanza: la morale, i riti, la
religione, l’iniziazione… Da allora essi sono
in corsa continua per non farsi sopraffare dai
loro ospiti, tesi eternamente fra catene che essi
chiamano libertà; vittime delle storie inventate
per loro dagli dèi, che essi chiamano credenze;
incapaci di vedere o di accettare la realtà, che
essi hanno barattato con la verosimiglianza;
prigionieri per i secoli dei secoli delle divinità.
Metà nel fango; metà nella Luce; ambigui e
duplici. Pazzi, in conclusione.»
A queste parole seguì un silenzio enorme,
nel quale si insinuarono eco bizzarre. Vùltem
aveva compreso e sapeva che non sarebbe stato
capace di comprendere, se si fosse trovato a un
94
livello di coscienza normale; ma il potere di
Ulavià lo permeava, lo trascinava al di sopra
di se stesso.
Non seppe mai (dopo la rivelazione tremen-
da che aveva ricevuto) dove trovò la forza
per chiedere: «Se lo volesse l’uomo potrebbe
liberarsi del giogo divino?».
«No!» disse il Signore degli uccelli. «Se
l’uomo desidera essere “umano”, cioè man-
tenere i suoi Doni, le sue specificità, non può
liberarsi degli dèi. Prima del patto scellerato
egli non era “umano”; era solo un animale tra
altri animali. Dopo la conclusione del patto, e-
gli non sarebbe più “umano”. La sua alleanza
con gli dèi gli ha portato frutto e se l’abbando-
nasse perderebbe tutto ciò che ha guadagnato:
la memoria, i sentimenti, l’estasi, l’amore, il
coraggio, la scienza… tutto!»
«Ma perderebbe anche la propria follia… la
necessità del sacrificio, della violenza rituale…»
cominciò Vùltem, riflettendo tra sé.
«Sì!» confermò Ulavià. «Ma non diventereb-
be, per questo, più felice o migliore.»
«Esiste un modo, per l’uomo, di essere fe-
lice?»
«Non esiste» ribadì il Signore. «Però posso
dirti questo: la convinzione che l’uomo deb-
ba cercare la propria felicità è solo la conse-
95
guenza del suo commercio con gli dèi, i quali
sono sempre felici e brucianti di potere. È un
giudizio di valore. E i giudizi di valore sono
inutili ai fini della comprensione. La realtà è
che nessuna forma di vita è al mondo per essere
felice: è al mondo per vivere. Ma la semplici-
tà della mia risposta non è fatta per la mente
folle dell’uomo: egli crede alle narrazioni; è
incapace di accettare i fatti.»
Vi fu una pausa gloriosa, in cui la luce del
sole venne oscurata dalla luce magica che ema-
nava da Ulavià. Vùltem provò una sensazione
crescente di leggerezza e di forza. La sagoma
dell’uccello che Lömalöstra gli aveva inciso sul
petto durante il duello tornò visibile, come se
fosse disegnato con il fuoco, si mosse, come se
avesse preso vita, e lanciò uno stridio acutissi-
mo. Il ragazzo abbassò gli occhi e si rese conto
che lo stridio proveniva, in realtà, dalla sua
bocca e non dal becco del tatuaggio, perché
l’uccello era lui: si era di nuovo trasformato
e sbatteva le proprie ali fiammeggianti nella
luminosità abbacinante.
«Ora hai saputo ciò che volevi sapere, figlio
di donna» dichiarò il Signore con voce tonan-
te. «È tempo, per te, di tornare sul tuo piano
di realtà. Mi ha rallegrato incontrarti. E poiché
non domandi Doni, te ne offrirò uno sponta-
96
neamente: d’ora in poi comprenderai il lin-
guaggio di tutti gli uccelli e potrai trasformarti
a piacimento. Adesso va’, te lo comando!»
Le dita invisibili del vento afferrarono Vùl-
tem e lo ripiombarono a terra, davanti al re-
cinto dei teschi, proprio in mezzo ai lupi.
La partenza fulminea e l’altrettanto fulmineo
ritorno lasciarono gli iniziati di stucco. Perfino
Sökadesòk fece un balzo indietro, sorpreso.
Vùltem riprese le proprie sembianze e fron-
teggiò la masnada di violenti.
Sökadesòk si riprese in fretta dallo sbalordi-
mento e ringhiò: «Ebbene, sei riuscito a vedere
il Signore degli uccelli?»
«L’ho visto.»
«Gli hai posto la domanda?»
«Gliel’ho posta.»
«E qual è la risposta?»
Vùltem ripeté le parole di Ulavià, nel modo
esatto in cui gli erano state riferite. I lupi, u-
dendo simili segreti, restarono a bocca aperta,
sconcertati; ma Sökadesòk lo aggredì.
«Vuoi ingannarci! Com’è possibile che tu
abbia raggiunto la Césa Ozelànda in pochi mi-
nuti e sia tornato? Inoltre la risposta di Ulavià
non ha alcun senso!»
«Ho imparato a volare, grazie alle prove
a cui mi hai sottoposto; ho acquisito potere»
97
replicò Vùltem. «Ora, per merito tuo, so tra-
sformarmi in uccello. Per quanto riguarda il
discorso del Signore ti sbagli: esso ha senso,
ma il senso non può essere compreso nel nostro
livello di esistenza. L’accesso alle verità supe-
riori necessita di un livello di consapevolezza
superiore.»
«Sei un lurido bugiardo!» schiumò Söka-
desòk.
«Capo, è evidente che il ragazzo ha supe-
rato tutte le prove» interloquì un dei lupi,
facendosi coraggio. «Consegniamogli la donna
e poniamo fine alla questione.»
Sökadesòk gli rispose con un ringhio. «Mai!
Seréza è mia e nessuno me la toglierà.»
«Avevo giurato di ritornare e di uccider-
ti, cane!» disse Vùltem. «Ed è ciò che farò,
Sökadesòk. Il tuo regno è finito. La tua testa
guarderà presto il mondo dall’alto della paliz-
zata, insieme a quella delle tue vittime. Dammi
Seréza e forse avrò pietà di te.»
«Parole grosse» sogghignò il capo dei lupi.
«Facile parlare quando fra te e me c’è una
spada dei Tira Mòla Tambàlet… Getta la tua
arma e combatti da vero uomo, se ne hai il
coraggio!»
Vùltem appoggiò l’aiutante-arma al terreno,
quasi con delicatezza.
98
Sökadesòk gli balzò addosso, approfittando
del suo momentaneo sbilanciamento; ma il gio-
vane skalter non si lasciò sorprendere: si piegò
di lato agilmente e il suo avversario ruzzolò con
durezza nella polvere. Si rialzarono entrambi,
scrutandosi con occhi pieni di fuoco freddo.
Sökadesòk si coprì il capo con la testa di lupo,
trasformandosi immediatamente in un manna-
ro; quindi attaccò di nuovo, mirando alla gola
del proprio antagonista.
Vùltem anticipò il morso con un pugno for-
midabile, spezzando i denti del lupo e proiet-
tando l’avversario all’indietro.
Sökadesòk apparve allora intontito e spaven-
tato per la tremenda forza fisica dello skalter;
ma ormai aveva lanciato la sfida: ritrarsene
sarebbe stato troppo disonorevole. Perciò si
giocò il tutto per tutto: pregò il proprio Dono
di venirgli in soccorso; il potere lo trasformò
in un lupo vero, nero, gigantesco, con occhi
di fuoco e fauci zannute. Lanciò un ululato
sinistro e attaccò.
Vùltem spezzò la carica di Sökadesòk con
un solo pugno, spezzandogli altresì la colonna
vertebrale e la vita. L’uomo-lupo piombò a
terra, scalciò e, in fine, restò immobile.
Vùltem raccolse Sligagróp e spiccò la testa
dal cadavere. Tagliò i legacci che fissavano
99
la maschera del lupo alla faccia dell’uomo;
quindi, tenendo la testa per i capelli, la scagliò
sulla palizzata. A causa della forza del lancio
la testa si conficcò su un palo appuntito e si
spaccò a metà.
I lupi avevano assistito al duello con ansia
crescente. Quando si resero conto che lo spet-
tacolo violento era terminato si prostrarono ai
piedi del ragazzo skalter, chiedendo pietà.
«Non sono in collera con voi» li rassicurò
Vùltem, con estrema freddezza. «Portatemi Se-
réza.»
Due uomini si affrettarono a correre dentro la
casa e ne tornarono, poco dopo, con la bella
ragazza. Seréza era raggiante e bellissima.
«Salute, Vùltem. Ora sono la tua promessa
moglie.»
Vùltem annuì, restituendole il sorriso. «Vie-
ni. Dammi la mano. Ti accompagnerò oggi
stesso a casa di tua madre, per chiedere la tua
mano.»
«Così sia.»
Nessuno oppose resistenza. Nessuno osò pro-
testare. Il ragazzo e la ragazza si inoltrarono nel
bosco, scomparendo alla vista e raggiungendo
il luogo dove Sömelèk pascolava tranquillo.
Il cavallo, scorgendo il proprio cavaliere,
lanciò un nitrito di gioia e gli corse incontro.
100
«Vùltem, amore mio» disse Seréza, abbrac-
ciando il ragazzo, «hai compiuto imprese mera-
vigliose. La fierezza, guardandoti, mi riempie
di fuoco. Prendimi, qui, sull’erba fiorita, men-
tre il sole ci accarezza e il ruscello e il popolo
variopinto degli uccelli cantano per noi.»
Poi, senza attendere la risposta, si liberò
della veste e iniziò a baciare tutto il suo corpo,
così come si bacia una reliquia e Vùltem fu su-
bito pronto all’amplesso. I due si mescolarono
fra loro e si mescolarono al bosco, finché non ci
fu più distinzione, ma solo una grande frenesia
e una grande luce che dava piacere e annullava
ogni differenza, ogni antitesi, ogni attrito.
Solo dopo, appagati, immersi nella nebbia
luminosa dell’amore sensuale, intrapresero il
viaggio verso Tiremsö e il loro destino insieme.

101
10 – Il re suocero

Raggiunsero Tiremsö alle prime luci del giorno.


Il castello di pietra chiara svettava come un’enor-
me torta su una collina boscosa, mentre la città si
allargava nella pianura sottostante, simile a una
pozza di latte rovesciato. La capitale di Skaltria
colpì fortemente la fantasia di Vùltem, ma essa
appariva stranamente vuota e silenziosa. Durante
il percorso incontrarono solo donne, bambini e
qualche anziano: nessun uomo adulto.
La regina Goòia accolse Seréza con gioia e
onorò il suo fidanzato, ammirandone aperta-
mente la statura, la finezza di tratti e la virilità.
Era una giovane donna, nel fiore della matu-
rità sessuale e le due gravidanze non avevano
neppure sfiorato la sua bellezza. Com’era co-
stume a Tiremsö la regina vestiva solo di un
mantello rosso di lana, tempestato di simboli
magici e dotato di un ampio cappuccio. Per il
resto essa era scalza e nuda, escludendo le sue
cavigliere e i suoi braccialetti rituali. Goòia e
Seréza sembravano quasi sorelle, mentre Titti
Tu, la sorella minore, aveva preso da Gogöst
i suoi capelli neri e i suoi occhi verdi.
102
«Dov’è mio padre, il re di Tiremsö?» chiese
Seréza, stupita dalla sua assenza. «Perché non
è venuto ad accogliermi? È forse malato? Op-
pure è in collera con me?»
Un’ombra di rassegnazione oscurò il viso sen-
suale della regina. «Non essere sciocca. Gogöst
ti ama più di se stesso. Non potrebbe mai essere
in collera con te. Egli non si trova in città: è
partito per la guerra.»
«Come?» esclamò Seréza. «Di nuovo? E
contro chi?»
«Sì, tesoro mio, di nuovo. Questa volta ha
condotto l’esercito contro i pitoti dai capelli
gialli.»
«Ma per quale motivo è scoppiata la guer-
ra?»
«Non conosco il motivo» sospirò Goòia, in-
fastidita. «Non ha importanza. Si tratterà di un
furtarello, di una parola poco prudente, o del
mancato pagamento di un tributo… Qualunque
cosa. Il suo seguito ha stabilito che Gogöst ha re-
gnato abbastanza; che il suo aiutante magico non
è più abbastanza forte per assicurare un buon
raccolto, un tempo mite e una caccia fruttuosa al
nostro regno. Essi credono che Gogöst non possa
più tutelare i suoi sudditi dalla scarsità di piog-
gia, dalle epidemie di malaria, dalla sterilità
dei verri e delle vacche e dagli attacchi ultrater-
103
reni dei Tira Mòla Tambàlet. Conosci la legge,
bambina mia. In questi casi, se i consiglieri, i
ministri e i guerrieri del re deliberano che il re
non è più adatto a regnare, bisogna ucciderlo,
sacrificarlo alla Luce e procedere all’elezione di
un nuovo regnante. Purtroppo tuo padre è stato
così gentile e generoso con i propri cortigiani,
che nessuno vuole assumersi la responsabilità di
assassinarlo; perciò Gogöst viene portato conti-
nuamente in guerra, con qualunque scusa, anche
la più ridicola, nella speranza che la lancia di
un nemico faccia ciò che i migliori guerrieri di
Tiremsö non hanno il coraggio di fare.»
Vùltem comprese al volo la situazione, ma
non si scandalizzò. Tra gli skalter era consue-
tudine, a quei tempi, che il re, l’uomo sacro
per eccellenza, il quale riceveva la propria po-
sizione e il proprio potere dall’unione con la
donna di sangue reale, fosse ucciso con un rito
e che la sua anima venisse mandata a volare ai
piedi della Luce, per impetrare la sua benevo-
lenza, se era necessario alla sopravvivenza della
città. Non si trattava di un disonore; era anzi
la norma: il re aveva ricevuto l’iniziazione,
conosceva i segreti del viaggio aereo fino alla
Dea, era stato educato a implorarla nel modo
corretto; la morte rituale era, potremmo dire,
l’apice della carriera di un buon re. Almeno,
104
questo, nella maggior parte dei casi e nel comu-
ne sentire del popolo; ma vi erano, ovviamen-
te, dei re che non si assoggettavano di buon
grado al sacrificio e Gogöst era fra questi. Del
resto il fatto che nessuno osasse uccidere Gogöst
testimoniava il fatto che egli doveva essere stato
un re eccezionale e un uomo apprezzato.
Si chiese che cosa avrebbe dovuto fare, in
una simile circostanza. Goòia era triste e Titti
Tu e Seréza afflitte, angosciate. Agì d’impulso
e contro i propri interessi, avvertendo su di sé
la responsabilità di quel dolore. Dopotutto egli
era il fidanzato di Seréza; dunque il pretenden-
te al trono di Gogöst e parte integrante di quel
dolore. Salì in groppa a Sömelèk e raggiunse,
insieme a un vecchio che si prestò a fargli da
guida, la piana di Lodür, dove i due eserciti
di stavano scontrando.
Comprese subito che il re si trovava a mal
partito. I violenti pitoti, armati fino ai denti
e in preda alla dea Ebrezza, sembravano forti
ciascuno come dieci uomini e non sentivano
nemmeno i colpi, le loro ferite non sanguinava-
no, le loro spade si alzavano e si abbassavano
in un’estasi sanguinaria. La furia dell’orso si
era impossessata delle loro menti ed essi lot-
tavano sbavando e mugolando, con gli occhi
arrovesciati, come cieche macchine di morte.
105
Degli oltre trecento skalter sopravvivevano
meno di cento individui, venti dei quali erano
cavalieri e non potevano intervenire, perché
il loro dovere era proteggere il re così come si
protegge un idolo dalle mani sacrileghe degli
idolatri. Dalla sopravvivenza del re dipende-
va la loro possibilità di sopravvivere. Avevano
condotto il sovrano alla morte, ma egli era tena-
cemente attaccato alla vita; non era morto; e ciò
minacciava di distruzione coloro che intendeva-
no sacrificarlo e si trovavano nella paradossale
situazione di essere sul punto di venire sacrificati
al suo posto, ma non avevano scelta: dovevano
proteggerlo e così proteggere se stessi.
Vùltem si avvicinò a loro e salutò Gogöst.
Essi brandirono le armi e gli intimarono l’alt.
«Chi sei, tu, ragazzo?» Non era stato Gogöst
a parlare. In sua vece veniva avanti un vecchio
dalla barba bianca, appoggiandosi a un basto-
ne a forma di fallo. Era il leggendario mago
Govést, primo consigliere dei re di Tiremsö.
«Sono Vùltem di Iùrs, figlio di Böbablö. E
sono il promesso sposo della principessa Se-
réza.»
«Perché sei qui?» lo rimproverò il mago.
«Non è tuo interesse rischiare di farti uccidere.»
«Che il re mi conceda di guidare all’assalto
i suoi cavalieri» disse Vùltem, con passione.
106
Il mago rise, minacciandolo con il bastone
fallico. «Sei solo un ragazzino, sparisci! Non
dureresti un minuto, nudo, contro i pitoti,
invasati come sono dalla dea Ebrezza.»
«La mia vita non conta» replicò Vùltem,
alzando Sligagróp verso il cielo nuvoloso. La
lama della spada sfavillò di luce propria, la-
sciando gli astanti a bocca aperta.
«Vedo che hai un aiutante magico molto poten-
te» mormorò Govést. «E sia, dunque! Se il re
lo concede, conduci i suoi uomini alla carica.»
Tutti si volsero verso Gogöst e questi, pur
nell’angoscia, annuì.
«Aspettatemi qui!» ordinò Vùltem.
“Sligagróp, sto per mantenere la mia pro-
messa” pensò. “Guerra e sangue per te, se mi
concederai la vittoria e la salvezza di Gogöst.”
“Grazie, mio padrone e mio schiavo” ronzò
Sligagróp, vibrando melodiosamente nella sua
mano. “Fammi bere la vita e il sangue, pre-
sto! Nessuno riuscirà a ucciderti, finché sono
al tuo fianco.”
Vùltem allora spronò Sömelèk, gettandosi
nella mischia. Al suo passaggio arti e teste vo-
larono in aria, accompagnate dalle urla dei
feriti e dal tonfo dei loro corpi corazzati sul
suolo. I pitoti sembravano cinghiali resi folli
da un pungolo, ma la loro ebrezza non poteva
107
nulla contro la smisurata forza fisica di Vùltem
e contro la sua spada fatata.
Dopo aver portato molta rovina nelle fila
nemiche e aver aizzato la cieca furia dei pito-
ti, il ragazzo tornò presso il re e la sua scorta,
con il corpo lordo di sangue. Vùltem disse ai
cavalieri: «Preparatevi all’assalto prima che ci
siano addosso. I pitoti non cavalcano, perciò
se anche siamo in venti contro centodieci avre-
mo un vantaggio da sfruttare, oltre alla nostra
superiorità tecnica. Spezzeremo il loro slancio,
caricando frontalmente. Preparatevi!».
I soldati si disposero, pregando la Luce,
lungo una linea perfetta. Poi si spogliarono
nudi, come il loro condottiero, tenendo solo
la spada e l’alto scudo di bronzo lavorato. Si
masturbarono fino ad avere il fallo eretto, per
chiamare la forza magica, e subito furono presi
dal furore guerresco e la stanchezza scomparve
dai loro spiriti e dalla loro carne.
I cavalli scalpitavano, già fumavano le froge,
già raspavano gli zoccoli sull’erba, già scuote-
vano impazienti le criniere.
Vùltem fissò gli occhi, immobile, teso come
un solo muscolo, aspettando che lo slancio del
nemico fosse al culmine.
«Ora!» urlò, spronando il baio.
E i compagni lo seguirono. I cavalli, in po-
108
chi metri, già volavano come frecce. Le schiere
disordinate dei pitoti si dissolsero, sparpaglian-
dosi nell’urto. Corpi urtarono altri corpi, teste
furono schiacciate come angurie da un martello;
membra ed arti vennero maciullati sotto gli
zoccoli di ferro.
E la sinfonia sinistra della guerra esplose con
le sue terrificanti armonie. L’empia ministra
della vita e della morte (la Violenza) ascese il
podio con la sua bacchetta, per dirigere la sorte
dei guerrieri bellicosi.
Ogni mente, sotto gli elmi, provò un brivi-
do d’orrore. Le violente melodie delle spade
si intrecciarono al selvaggio contrappunto dei
tamburi, dei clangori delle mazze sugli scudi,
mescolandosi al drammatico coro dei feriti e
agli inni degli eroi esaltati.
Vùltem si gettò in avanti, simile alla folgore;
sfondò la muraglia di metallo degli oppositori;
inflisse pene ai suoi nemici. Venti validi pito-
ti, sotto la tempesta orgiastica del suo brando,
brancolarono ciechi verso l’oltretomba.
Altrettanti uomini morse l’ira dei cavalieri
skalter, arrossando il suolo verde e marrone
di cervella, di frattaglie, il bel prato fiorito di
nontiscordardime e di margherite d’arti ampu-
tati e di cadaveri.
Non si vide mai un carname tanto splendido.
109
Il coraggio degli skalter contro il grande so-
prannumero di spade fu la prova più lampante
che ammazzare è un atto sacro, è qualcosa che
è appannaggio solamente degli dèi, che è l’ec-
cesso di un Potere nella mente umana, simile
a follia.
I pitoti piansero, quel mattino, cento morti.
Ma era tale il loro esercito, che nessuno skal-
ter visse per poterlo raccontare: venti illustri
valvassori se ne andarono, danzando, nella
bocca dell’Inferno. E con loro i bei cavalli
coraggiosi, rivestiti di gualdrappe ricamate e
di finimenti d’oro.

110
11 - Il Sonaglio della Gioia

Gogöst, re della Skaltria, indisse dei festeggia-


menti meravigliosi, per onorare il ritorno di
Seréza e le imprese del figlio di Böbablö: nove
giorni ininterrotti di banchetti, di tornei, di
giochi e di veglie spese ascoltando i narratori
di storie, di danze, di esibizioni canore.
Non mancarono regali a giullari e menestrel-
li: oro, vestiti e stivali, grandi e morbide cin-
ture, copricapi colorati di ogni tipo.
Sulla mensa, notte e giorno, c’era tutto ciò
che è gradevole al palato: polli, cervi, frutta,
dolci da mangiare con le mani, piatti di crosta
di pane colmi di intingoli.
«I coppieri libino a lungo vino, birra e ac-
quavite» disse il re, tutto contento, soddisfatto
dal tepore casalingo e dal sereno chiacchiericcio
dei familiari. «Siate, felici, ve lo ordino!»
I suoi vassalli risero.
«Sia lodato il Giorno!»
«E la Luce sia lodata!»
Nessun uomo fu infelice o malinconico in
quei giorni. Ma le feste sono strane: per trami-
te di Ebrezza, sono l’anticamera di Violenza;
111
perciò esse richiamano l’attenzione degli dèi e
dei Tìra Mòla Tambàlet, che accorrono, attratti
dal calore delle risa e dalla grazia dell’amore
umano, come falene attirate dallo splendore del
fuoco, e arrivano quando meno te l’aspetti,
portando con sé un vento gelido e un odore
d’incubo.
Così avvenne. Inaspettato, proprio il nono
giorno, verso sera, nella sala principale del
banchetto entrò un uomo molto pallido, dall’a-
spetto delicato e abbigliato di scuro. Nella ma-
no affusolata reggeva una candela nera, che
gettava ombre maligne, la cui fiamma sembrava
tremolare a causa di un vento assente.
Nella sala scese un cupo mormorio. L’uomo
raggiunse la pedana dove cenava Gogöst con i
suoi vassalli (tutti prodi cavalieri, rotti a prove
di coraggio) e rimase là, impalato, senza par-
lare. Una luce sinistra balenava nei suoi occhi.
Gogöst tremò. Il suo cuore provò il freddo
di un inverno mai veduto in questo mondo.
Ma la cortesia gli impose di onorare l’ospite.
«Benvenuto, straniero. Che la Luce ti accom-
pagni sempre, lungo il tuo cammino. Dicci il
luogo da cui vieni e il tuo nome. Avrai una
sedia all’altezza del tuo rango.»
L’uomo pallido sorrise tetramente. «Ti rin-
grazio, re degli uomini; non mangio il pane
112
del tuo mondo; e non ti dirò il mio nome. Tra
noi è costume non svelare il proprio nome. Chi
conosce il nome di qualcuno ha potere sulla sua
anima. Il mio nome resterà inviolato, stasera. »
Gogöst disse, turbato: «Se non desideri il
nostro cibo e non vuoi rendermi omaggio, dun-
que, svelaci il motivo della tua visita improv-
visa».
Lo straniero non sorrise. «Il rumore della
tua festa ha svegliato il mio bambino. Esso
piange notte e giorno, spaventato dal clangore
dei tornei, dal canto atroce dei giullari, dalle
insane risa degli avvinazzati. Piange e nulla
può placarlo: né la culla, né i ninnoli, né la
ninna nanna. Il grido di mio figlio è insoppor-
tabile. Penetra la carne, scuote forte il cervello.
Tutti i miei vassalli soffrono. Più nessuno mi
obbedisce. La mia casa va in rovina perché
voi siete imprudenti, senza senno, ineducati.
Voi che avete fatto il danno troverete anche il
rimedio. Io pretendo che cerchiate il Sonaglio
della Gioia. I Pitoti lo custodiscono da tempo
immemorabile, nella loro cattedrale. Riporta-
mi il Sonaglio entro un anno, o il tuo regno
diverrà una terra sterile, schiavi i tuoi servi fe-
deli e la tua regina amata, la bellissima Goòia,
diverrà mia concubina. Io tra un anno esatto
apparirò in questo luogo a esigere il Sonaglio.»
113
L’uomo pallido soffiò sulla sua candela nera
e l’intero regno, a un tratto, piombò nell’oscu-
rità. Tutti i fuochi nei camini, tutte le torce e
le lampade si smorzarono e accenderle fu im-
possibile nei giorni a venire. L’uomo pallido
aveva infatti maledetto ogni casa a Tiremsö.
Non poterono più avere fiamme rosse per
scaldarsi, braci per cuocere i cibi, lumi per
illuminare le paurose mura di pietra. Vane
furono le preci, le orazioni, gli esorcismi.
Dio sembrava non sentire, non poteva udire
il pianto del suo gregge disperato.
La gente cominciò a mormorare contro
Gogöst, a dire che il re aveva perduto il pro-
prio potere, che non era più in grado di as-
sicurare il benessere al Paese; e anche i suoi
dodici consiglieri, che gli erano molto fedeli
e avevano ricevuto tanto da lui, conoscendo
bene le tradizioni skalter, indulsero sempre
più spesso sul pensiero di uccidere il re, il
loro benefattore, di sacrificarlo alla Luce e di
sostituirlo con qualcuno che fosse abile nel di-
fendere i non iniziati dagli attacchi magici dei
Tìra Mòla Tambàlet.
Gogöst, sentendosi oggetto di simili atten-
zioni, cominciò a temere per la propria vita.
Diffidava degli amici quasi quanto dei nemici;
non assaggiava mai del cibo che non fosse ser-
114
vito in un piatto comune; girava con la spada
nascosta sotto il mantello; controllava che, di
notte, ogni finestra e ogni ingresso alla sua ca-
sa fosse ben chiuso e protetto dai contrassegni
magici. Da un lato temeva Vùltem, perché spo-
sando Seréza si proponeva, di fatto, come suo
successore al trono; quindi come colui che lo
avrebbe ucciso. Meditò forse per la prima volta
in vita sua (giacché quando toccava ad altri la
cosa gli era apparsa del tutto ovvia e naturale,
del tutto conforme alla legge, alla tradizione e
al buonsenso, ed egli stesso per salire al trono
aveva ucciso il proprio suocero) quanto per un
re fosse fonte di disgrazia avere una figlia fem-
mina. Seréza era stata educata secondo le buone
regole skalter; dunque avrebbe visto un dovere
nella mano violenta di colui che lo avrebbe
assassinato; non avrebbe pianto, non si sarebbe
dispiaciuta, non avrebbe provato compassione
nei confronti di colui che aveva contribuito a
dargli i natali. Rabbrividì ripensando ai casi
in cui era stata la mano di una figlia a fare ciò
che, magari, un suo innamorato non desiderava
fare, brandendo contro il genitore il coltello
omicida.
Aveva, dunque, una sola speranza: risolvere
la faccenda del Sonaglio in prima persona; di-
mostrare a tutti che non era troppo vecchio, che
115
non aveva perso il Dono, che il suo aiutante
non lo aveva abbandonato. Fece chiamare i
suoi dodici consiglieri e disse: «Che cosa fare-
mo, adesso, amici? Mai gli skalter sono stati
separati dalla Luce. MaiMai Nasodoro un gior-
no tu salvasti Tiremsö dalla furia del mostruoso
Papalüga e sposasti mia figlia Titti Tu. Non
conosci dei segreti, delle astuzie per salvarci?
Tu, Govést, mio mago e amico, tu che con
il tuo bastone puoi viaggiare dentro i sogni,
puoi decidere la sorte di chi va in battaglia,
taci? Non hai in serbo una magia che dissolva
l’incantesimo di quell’orrido straniero? E tu,
Vùltem, mio guerriero dalla forza immensa,
erculea, tu che disprezzi ogni pericolo, che
ogni impresa stimi facile… Non hai in serbo
un buon consiglio? E tu, Frér Sfrüss, fab-
bro eccelso, hai un rimedio intelligente? Mio
Kondeiók Pendelàiva, cosa dici? E tu, Lüle?
E voi altri? Io, per me, ho preso una deci-
sione: andrò dai pitoti e cercherò di rubare il
Sonaglio.»
«Se vorrai ti seguiremo» rispose per tutti
Govést, il vigoroso anziano dalla barba can-
dida, colui che aveva mangiato le mele d’oro
della vita e possedeva, perciò, la forza di un
giovane in un’apparenza vetusta. «Ci fideremo
di te e del tuo aiutante, come abbiamo sempre
116
fatto. E periremo nell’impresa, se così dovrà
essere.»
Tali parole sciolsero l’angoscia che, da gior-
ni, attanagliava il cuore del re.
La mattina successiva era tersa come un so-
gno: il cielo appariva azzurro e il sole si spec-
chiava dentro il lago. Gogöst partì alla testa
dei suoi dodici fedeli, con il cuore pronto a
tutto. Prese un equipaggiamento scarso, perché
confidava nel segreto, non nelle armi.
Dopo Nàe tutto il gruppo abbandonò la via
maestra, immergendosi nella campagna orienta-
le della Skaltria. Il paese dei pitoti si trovava
a trenta chilometri da Tiremsö, verso il sorgere
del sole e ad altri venti verso settentrione, fra
le montagne di Gölem.
I dodici skalter avanzavano di buona lena,
senza parlare, senza ridere e senza cantare.
Nessuna storia accorciò, per loro, la strada;
nessuna barzelletta rese i loro piedi più leggeri
o il terreno della via meno pesante. Avanzava-
no coperti da mantelli magici, intessuti solo di
parole di potere, nel silenzio più assoluto ed
erano ombre in pieno sole, invisibili a tutti.
Camminarono per tutto il giorno e per tut-
ta la notte e, al mattino, giunsero ai piedi
di Ciukabàla, la capitale della Pitotia. Essa
appariva imponente, edificata con massi ciclo-
117
pici, ma bassa, rispetto ad altre città. Le case
avevano un solo piano e così pure i templi.
Nell’insieme sembrava una frittella spiaccicata
sul fianco irregolare del Gölem. Gli skalter,
forse, avrebbero sorriso, vedendola, se non
fossero stati pressati dall’urgenza.
Gogöst camminava in testa al gruppo, con
Govést al proprio fianco; In fondo stava Vùl-
tem; gli altri nel mezzo. I mantelli magici di-
stoglievano l’attenzione dei pitoti da loro, li
rendevano invisibili ma solo alla memoria e
alla coscienza, e permisero ai quattordici eroi
di oltrepassare indenni le porte della città e di
mescolarsi impunemente alla folla. Raggiunsero
così il tempio nel quale i selvaggi pitoti custo-
divano il Sonaglio della Gioia.
Allora Govést operò un incantesimo e tutti
gli abitanti di Ciukabàla piombarono a terra,
privi di sensi, immersi in un sonno istantaneo.
«Ben fatto!» disse Gogöst.
«Sbrighiamoci» replicò il mago, con durezza.
«L’effetto del mio fare non durerà molto.»
Si addentrarono nella cattedrale buia della
Violenza e notarono il bizzarro soffitto trafo-
rato, che era anche l’unica fonte di luce na-
turale. Il sonoro russare dei preti li guidò fino
all’altare sul quale posava un piccolo oggetto
scintillante.
118
«Quello è il Sonaglio della Gioia» annunciò
Govést. «Coraggio, o re, prendilo e fuggiamo.»
Gogöst salì i gradini dell’altare, reso esitante
dall’emozione, e allungò le mani bramose; ma
la sua fortuna lo tradì: non scorse il filo d’ar-
gento che circondava l’altare. Il re degli skalter
inciampò nel filo; il filo si tese e innescò un
meccanismo. Dal soffitto cadde una lancia. E
il buon Gogöst perì, impalato dall’arma mec-
canica. Tuttavia il suo corpo non piombò al
suolo: l’impatto aveva fatto penetrare la lancia
nelle commessure del pavimento, sostenendo il
notevole peso del signore di Tiremsö.
Gogöst boccheggiò; sputò sangue; scalciò e
dimenò le braccia in maniera grottesca e scom-
posta; e così urtò il Sonaglio.
Il ninnolo sfavillante emise un pigolio; il
pigolio echeggiò nel tempio; si propagò attraver-
so la muratura, crescendo d’intensità, anziché
spegnersi. Ben presto il tintinnio invase l’intera
città, con l’intensità di uno scoppio, e tutti
dormienti si destarono ridendo senza motivo.
Anche i tredici skalter sopravvissuti risero,
con evidente preoccupazione.
«Presto!» ordinò Govést, afferrando il Sona-
glio e avvolgendolo in un panno di feltro, per
smorzarne le vibrazioni magiche. «Scappiamo.
Il Sonaglio ha spezzato il mio incantesimo.»
119
I ladri si avviarono verso l’uscita, ma la loro
fuga fu impedita da una folla armata e vocian-
te. In breve furono circondati da ogni lato.
«Siamo in trappola!» urlò Lüle.
«Non ancora» rispose Vùltem. Con una ma-
no sollevò il cadavere di Gogöst e se lo get-
tò sulle spalle. Con l’altra estrasse Sligagróp.
Quindi diede una poderosa spallata al pilastro
centrale del tempio. L’intero edificio vibrò e
calcinacci piovvero sul capo degli assedianti.
Vùltem diede una seconda spallata e il soffitto
crollò, seppellendo i pitoti inferociti, mentre
gli skalter si salvarono, giacché erano protetti
dall’architrave dell’altare.
«Seguitemi!» urlò Vùltem. E si aprì la via
verso le porte della città, menando fendenti.
I suoi dodici compagni lo imitarono, lot-
tando con la forza fisica e la forza magica e i
nemici cadevano, verdi in volto, precipitando
verso il Mondo dei Più. Ben presto le strade
di Ciokabàla si riempirono di cadaveri. Quel
giorno caddero non meno di trecento uomini
sotto il furore degli skalter, i quali cantavano,
combattendo, i loro inni alla Luce, offrendo i
morti in sacrificio umano alla Dea, affinché essa
accordasse loro un salvacondotto e perdonasse
i loro peccati e la loro temporanea adesione
alla Violenza.
120
Finalmente Vùltem e i suoi guadagnarono le
porte della città e si diressero con la loro pre-
da a Tiremsö, camminando spediti a kaàl de le
bràghe (a piedi). Qui Govést consegnò il Sona-
glio nelle mani di Seréza e Vùltem scaricò dalle
proprie spalle possenti il corpo di Gogöst.
La città accolse i tredici eroi con festa e ma-
nifestazioni di grande giubilo; ma Goòia e le
figlie piansero la morte del re.
«Povero marito mio» disse la regina, con
dignità e profonda pietà per se stessa, «il tuo
Dono ti ha tradito proprio mentre nutrivi le
più alte speranze… Ma così è la vita dell’uomo
e quando il momento è arrivato a reclamare i
propri diritti non c’è forza al mondo che possa
impedirgli di riscuotere ciò che gli spetta. Pove-
ro Gogöst, amato compagno dal fallo vigoroso
e dal seme simile a latte; e povera Goòia, la
tua dolce compagna di letto e la tua signora.»
Diceva così perché era costume, tra gli skal-
ter, che la regina non sopravvivesse alla morte
del re (e viceversa) e sapeva bene che sarebbe
stata sacrificata per accompagnarlo nel viaggio
attraverso il Mondo dei Più.
Seréza e Titti Tu nascosero il viso nei man-
telli, piangendo e abbracciando la madre nella
sua ora più inconsolabile.
Nei giorni seguenti Tiremsö apparve stranis-
121
sima: metà della mente dei suoi sudditi gioiva
per la vittoria e la liberazione dal maleficio
dell’uomo magico; l’altra metà della loro men-
te soffriva a causa del lutto per Gogöst e, so-
prattutto, per la loro amata e bellissima signora
dai capelli di grano.
Il morto fu lavato e profumato, secondo l’uso
skalter. Gli era stato messo il suo abito funebre
di lino bianco, decorato a filo d’oro, ed era
stato deposto sulla pira crematoria.
Nel frattempo anche Goòia venne accurata-
mente lavata e pettinata e le fu fatta bere l’àiva
löstra. Subito la bevanda scacciò la tristezza e
la paura dalla sua anima ed ella si lasciò con-
durre docilmente dal corteo di maghi e streghe,
attraverso la via principale. A ogni tappa del
percorso che l’avrebbe portata sulla pira ella
entrava nella casa di un nobile, dove le veni-
vano offerti un biscotto salato e una coppa di
àiva löstra. In ognuna delle case il padrone ri-
ceveva da lei il bacio rituale sul fallo e giaceva
con lei, dicendo: «Quando lo rivedrai, di’ al
tuo uomo che ho compiuto il mio dovere nei
suoi confronti».
Questa processione durò per più di quattro
ore canoniche, giacché tutti i nobili dovettero
unirsi carnalmente con la regina e offrirle il
biscotto salato e l’àiva löstra. Al termine di
122
questo rito di congedo, che gli skalter chiama-
vano Iariidìs, Goòia appariva ebbra, drogata
dalla bevanda magica e dal piacere sessuale. I
suoi occhi splendevano, assenti, come se guar-
dassero un panorama oltre il mondo, come se
avesse visioni. E, in effetti, talvolta apriva la
bocca e profetava.
Quando fu la volta di Vùltem prendere la
regina, essa lo guardò con desiderio. «Vùltem,
genero mio, sarai il re di un’estate ma l’eco
delle tue imprese risuonerà in eterno. La Festa
d’Inverno, il primo novembre, io e te ci rive-
dremo. Adesso amami, perché ti desidero dal
primo momento in cui ho posato gli occhi su
di te. Salutami come si conviene al mio rango:
sono la tua signora e voglio essere, oggi, la tua
sgualdrina.»
Vùltem giacque con Goòia e il loro amplesso
durò due ore canoniche e riempì la città dei
gemiti altissimi della signora (cosa per la quale
tutti i cittadini ringraziarono la Luce e i lombi
dell’eroe).
Quando Goòia uscì dall’alloggio del giova-
ne aveva il sesso in fiamme e la mente turbata
dalla droga e dal piacere e non oppose alcuna
resistenza, non ebbe alcuna remora a lasciarsi
portare dai maghi fino alla pira funebre. Qui
i maghi cantarono incantesimi di buon viag-
123
gio e di protezione per le anime di Gogöst e
Goòia; stuprarono a turno la regina e la strega
più anziana piantò il pugnale nel suo petto di
latte e la uccise. In fine la strega più giovane,
camminando all’indietro e senza mai guarda-
re la catasta, appiccò il fuoco con una torcia
resinosa.
Questa è la fine di re Gogöst e della sua po-
tente e bellissima signora. Con essi si conclude
l’età aurea delle storie skalter.

124
12 – L’Ingannatore

Vùltem, seguendo le istruzioni del mago


Govést, scosse il Sonaglio della Gioia, cavan-
done un singolo cachinno. A quel tenue suono
tutti gli abitanti di Tiremsö risero senza sapere
perché e il loro umore divenne leggero; chi
aveva pensieri tristi li dimenticò; chi si tormen-
tava per amore pensò che era proprio stupido
crucciarsi per cose del genere; chi era in carcere
rise della libertà; chi era condannato a morte
trovò buffa tale circostanza; e chi era già di
buon umore si mise a cantare.
Lo Shùr apparve nella sala del banchetto,
reggendo la sua candela nera. Nessuno sarebbe
stato in grado di dire come fosse arrivato fin
lì. La straordinaria candela illuminava soltanto
la figura dell’uomo magico, mentre la sua luce
(che era, in realtà, un’anti-luce) gettava tene-
bre fittissime all’intorno, benché fosse mattino
inoltrato e il sole splendesse con tutto il calore
dell’estate.
«Ben tornato, Shùr» disse Vùltem, inchinan-
dosi. Il suo seguito lo imitò.
Lo Shùr accolse la sua reverenza con un sor-
125
riso beffardo. «Vedo che Gogöst non è più e
che un nuovo re governa gli skalter. Mi auguro
che esso abbia più senno del suo predecessore.
E noto che, tra le tue mani, Vùltem di Iùrs,
tieni l’oggetto che avevate promesso di portar-
mi. Bene. Dammelo, ora.»
Il Tìra Mòla Tambàlet stese la mano affuso-
lata e pallidissima; ma il giovane re si ritrasse.
«Aspetta, mio signore, prima dovresti annul-
lare la tua maledizione e giurare di lasciarci in
pace. Il patto era questo.»
Lo Shùr senza nome rise. «Il patto era che
avrei risparmiato le vostre effimere vite, in cam-
bio del Sonaglio. Quanto a miei attacchi futuri
e futuri tormenti: spetterà solo a me decidere.
Non sono uso a piegarmi alla volontà di alcun
animale del Mondo dei Meno.»
«Qual è l’alternativa?» chiese Vùltem. «Se
non ti consegnassi il Sonaglio, che cosa faresti?»
Lo Shùr lo guardò con occhi pieni di folgori.
«Vi spazzerei via, inutile pagliaccio.» Poi, pe-
rò, ci ripensò, accarezzandosi il mento glabro e
sottile. «A meno che tu non voglia avventurarti
nel mio regno e superare gli ostacoli che vi
incontrerai, alla ricerca del mio nome segreto.
Se tu l’ottenessi io non avrei più potere su te e
sul tuo popolo. Ma è cosa sovrumana. Io non
sono un essere benevolo.»
126
Vùltem rifletté solo un istante. «Sia come sia,
allora. Verrò nel tuo regno e cercherò il tuo
nome. Sono re e ho il dovere di proteggere il
mio popolo. La mia vita non conta, se le mie
gesta verranno ricordate.»
Lo Shùr annuì. «Vieni, dunque.»
Soffiò sulla candela e le tenebre scomparvero,
lasciando nuovamente posto alla luce benigna
del sole. Lui e Vùltem scivolarono dal Mondo
dei Meno al Mondo dei Più.
Il ragazzo riconobbe la tetra atmosfera di quel
luogo buio e privo di stelle, squassato da un
vento sinistro e costellato di colline brulle e
tumuli di pietra, e un brivido gli corse lungo
la schiena.
«Sei uno stolto, ma ammetto che hai corag-
gio» sogghignò lo Shùr. «Ora me ne andrò.
Cerca pure il mio nome, se vuoi. Ma penso che
trascorrerai l’eternità cercandolo; morirai qui,
mentre sei nel regno dei morti, e ti reincarnerai
mille volte, ogni volta sempre più angosciato
dalla sensazione di dover portare a termine
un compito del quale nemmeno ti ricorderai.
Buona fortuna a te.»
Quindi scomparve, lasciando Vùltem da so-
lo.
Il ragazzo chiese consiglio al proprio aiutan-
te. «Amica mia, che cosa devo fare?»
127
“Dovresti, forse, imparare a pensare prima
di agire, mio padrone e mio schiavo” miagolò
la spada, ironicamente.
“È vero” ammise Vùltem, sorridendo di se
stesso; “e tuttavia seguo solo la mia natura e
ne sopporto le conseguenze con pazienza.”
“Sì, mio coraggioso schiavo e signore” am-
mise Sligagróp, sorniona. “Ma io scherzavo.
In realtà, come tutti gli uomini, il tuo peggior
difetto è che pensi troppo: dovresti imparare a
cessare questa deplorevole attività, se ti preme
davvero capire che cosa fare o non fare. Allo-
ra il mio consiglio è che tu vada verso quella
collina, dove si scorgono balenii di metallo.
Cominciare da un campo di battaglia è sempre
una buona cosa. Almeno per le spade.”
“Non sei mai sazia di sangue?” chiese Vùl-
tem, storcendo il naso.
“No” rispose la spada. “Ma su questo pia-
no di consapevolezza, purtroppo, non c’è vero
sangue da bere; solo energia vitale da suggere.
Poca cosa, rispetto ai miei appetiti: la forza dei
morti non è sostanziosa come quella dei vivi.”
Vùltem si incamminò nella direzione indicata
da Sligagróp. Dopo alcuni chilometri il fracasso
di una battaglia cominciò a farsi udire, remoto,
attutito. A mano a mano il rombo della lotta
cresceva, procurando un brivido di piacere al
128
corpo del giovane guerriero; finché il campo
di battaglia apparve, sfolgorando di lampi e
di colpi. Due opposti schieramenti ondeggia-
vano come foglie multicolori rapite dal vento
e gettate in selvagge acrobazie e mulinelli, me-
scolandosi e producendo bellezza e orrore. Un
gruppo di uomini era composto evidentemente
da skalter, mentre l’altro portava le insegne dei
barbarici keisenküles, la gente della montagna.
“Chi sono?” domandò Vùltem.
“Sono skalter e keisenküles, come hai già
capito.”
“Ma che cosa fanno qui, lontano dal Mondo
dei Meno?”
“Essi appartengono a due tribù rivali. Il
fatto che si trovino nel Mondo dei Più non è
strano come potrebbe sembrare: spesso il fu-
rore guerresco trascina la mente su uno stato
di coscienza diverso. La somma della ferocia e
l’intensità della stessa avranno fatto scivolare
quegli uomini sul piano d’esistenza dei morti
(il più vicino, il più facilmente raggiungibile),
senza nemmeno che se ne accorgessero. Con
ogni probabilità costoro saranno scomparsi dal
campo d’azione sensoriale dei rispettivi com-
pagni rimasti a guerreggiare nel Mondo dei
Meno.”
Vùltem scrutò verso la piana dove si lotta-
129
va eroicamente e vide che gli skalter avevano
la peggio, che i massacratori delle montagne
colpivano con più gioia e più crudeltà e che
stavano per vincere la battaglia. Tale pensiero
lo mandò in bestia e fu colto dal desiderio di
unirsi ai suoi fratelli.
“Se lo desideri” suggerì Sligagróp, “do-
vresti seguire il tuo desiderio. Non sarà la tua
ragione ha farti trionfare contro l’enigma dello
Shùr senza nome.”
Questo incitamento bastò a Vùltem per ab-
bandonarsi all’ebrezza del sangue e alla gioia
della lotta. Sentì il proprio petto riempirsi di
luce, l’uccello tatuato bruciare nella sua carne
come fuoco vivo e i muscoli delle braccia guiz-
zare come fruste di acciaio accoppiate e legate
da tendini di ferro. Lanciò un urlo simile allo
stridio dell’uccello da preda e corse giù dal
pendio erboso e sassoso, tuffandosi come una
ariete nel mezzo della mischia.
I keisenküles tremarono e persero vigore, di
fronte al giovinetto e alla sua spada. Molti
perirono e Sligagróp esultò, gridando il suo
orgasmo d’acciaio nel gustare la carne umana
del nemico.
Tutto durò poche manciate di minuti. Vùltem
si aprì la strada nella foresta di corpi virili,
palpitanti di vita, quasi abbattesse un roveto
130
secolare a colpi di roncola. Ben presto fu tutto
imbrattato di rosso. Ma i suoi sforzi erculei si
rivelarono vani: tutti gli skalter vennero so-
praffatti e uccisi; tutti i keisenküles morirono
urlando sotto la sua ira estatica.
Alla fine solo due guerrieri superstiti si fron-
teggiarono sul campo irrorato di sangue e se-
minato di carne. Erano entrambi alti, possenti
come leoni. Senza scudo, cupi, ammaccati si
avvicinavano, con le armi in pugno.
L’ira affiorava sui loro grugni assetati di vio-
lenza.
Uno era privo di barba e aveva lunghe chio-
me nere; mentre i riccioli e la barba del secon-
do sembravano fiamme divampanti.
«Dimmi» urlò quest’ultimo, «qual è il tuo
nome, ch’io dica ai miei amici a Teremòtt, chi
fu l’ultimo a cadere sotto i colpi di Bróstol.»
«No, non a Teremòtt dirai» gli rispose l’al-
tro, con fierezza, «ma qui, nel Mondo dei Più,
ai tuoi compagni morti per mano mia, che hai
incontrato Vùltem di Iùrs.»
Bróstol ruggì; alzò la spada in un arco mici-
diale e il suo colpo strappò scintille dall’elmo
di Vùltem.
Vùltem vide rosso; ondeggiò tramortito, ma
non cedette: la sua volontà era forte e il suo
corpo ebbro di forza magica. Mentre ondeggia-
131
va menò un affondo, che trapassò la corazza
del guerriero rosso; gli forò il bronzo, la carne
e il cuore.
Sligagróp guaì gioiosamente.
Il keinsenküles cadde morto, terreo, a terra,
sbigottito.
Vùltem si raddrizzò. Poi, assalito, all’im-
provviso, da una grande spossatezza, crollò
sulle ginocchia. Tentò di scacciare, infastidito,
le macchioline che gli vorticavano negli occhi,
ma non ci riuscì: a un tratto sembrava che la
sua forza magica lo avesse abbandonato.
Una risata gli risuonò, allora, nella mente,
come una limpida lama d’acciaio. Piano piano
la sua vista tornò a fuoco. Qualche cosa, nel
paesaggio, gli appariva strano. Non avrebbe
saputo definire da che cosa dipendesse il lam-
po incendiario che lo abbagliava, pur essendo
nero come l’anti-mondo. Ma non ebbe la possi-
bilità di pensare con calma. Scosse dalla mente
quei pensieri: una donna ancheggiava, nuda,
davanti a lui, come se fosse apparsa dal nulla.
«Chi sei? Da dove vieni?» le domandò,
sbalordito, Vùltem. Cercò istintivamente la
propria spada e non riuscì a trovarla.
«Cosa te ne importa?» ella lo schernì, con
crudeltà.
«Chiama i tuoi guerrieri, avanti!» disse Vùl-
132
tem, ringhiando al suo sorriso intriso di lussu-
ria e di scherno. «Anche se sono allo stremo,
non mi avranno vivo. Vedo che appartieni alla
stirpe dei pitoti.»
«Non ho affatto detto questo» ella disse, tor-
nando improvvisamente seria, quasi offesa.
Vùltem guardò meglio: i suoi capelli scar-
migliati, d’oro filato, tumultuosi, dai riflessi
cangianti, né dorati né ramati, arrivavano alla
vita. Le sue rosse labbra turgide gli sorrisero
e dai piedi all’abbagliante cascata dei capelli,
appariva bella come un’allucinazione.
«Non so se tu sia» disse Vùltem, «una pitota
(dunque mia nemica), o una skalter. Non ho
mai visto (mai!) una donna del tuo stampo.
Per la Luce...»
«Non imprecare» lo sgridò la bella estranea,
presa da ira subitanea, «per la Madre. Che
ne sai tu, della Dea e dei suoi segreti? Sei
straniero nella terra dominata dai Tìra Mòla
Tambàlet e non hai diritto di replica, qui. La
tua fierezza, la tua forza e il tuo status sono
nulla in questo luogo.»
Vùltem scosse il capo. «Portami dalla tua
tribù. È impossibile che tu venga da lontano,
nuda e scalza come sei. Sono troppo stanco per
discutere con te.»
«Il mio villaggio si trova più lontano di
133
dove il tuo coraggio e la tua forza oserebbe-
ro condurti; esso è più remoto, ahimè!, di
quanto potresti mai camminare, Vùltem di
Iùrs, re di Tiremsö» disse la ragazza e aprì le
braccia, facendo ondeggiare sensualmente la
sua riccia testa d’oro. «Dimmi, avanti: non
sono bella?»
«Come le Lacrime della Dea» borbottò il
guerriero, con la mente incendiata.
«Allora, prendimi!» lo punzecchiò la fan-
ciulla. «Quale forte cavaliere può giacere, qui,
ai miei piedi? Resta lì, a morire. Muori come
gli altri idioti, al freddo del Mondo dei Più,
Vùltem dai capelli neri. Non potresti mai se-
guirmi, dove io ti condurrei.»
Il guerriero, bestemmiando, si alzò in piedi,
senza sorridere. L’ira gli schiacciò la mente; la
passione lo assediò come un’isola viene asse-
diato dal mare. Balzò addosso alla sua preda,
con le mani aperte, ad artiglio; ma ella rise e
sgusciò via dalla sua presa agilmente.
Corse. Fu lontana. E la lontananza elise le
sue forme: era nebbia bianca. Volse il capo,
oltre la spalla, per vedere se il guerriero la
seguiva.
Vùltem aveva già scordato i guerrieri morti,
il campo di battaglia, il sangue sparso. Ormai
pensava solo alla figura bianca ed esile, che cor-
134
reva nella brughiera cinerea, sempre un passo
oltre le sue mani tese.
Il guerriero schiumava, mentre la risata scon-
volgente della donna istigava e umiliava il suo
desiderio.
Il terreno cambiò in fretta: l’ampia landa si
restrinse; alla pianura succedettero le catene di
colline frastagliate. A nord si scorsero alte cime
coperte di neve.
Solo la donna morbida appariva vera; il
resto era un sogno fulgido e sinistro.
Vùltem ostinatamente si addentrò in quel luo-
go ostile, a quel labirinto gelido. La stranezza
del posto non turbava la sua mente e non si tur-
bò nemmeno quando un essere enorme apparve
a sbarrargli il cammino. Era un marmài alto
tre metri, con la pelle azzurrastra e squamosa.
Era rivestito di una cotta d’oro, umida come
se fosse uscito dall’acqua; e armi di ferro nero
arrugginito nelle mani palmate.
Il gigante alzò la sua scure da battaglia al
cielo, mentre Vùltem gli correva incontro e lo
attaccava a mani nude (aveva perso la spada
chissà dove). La lama del marmài lampeggiò,
abbagliandolo ed egli reagì alla cieca menando
un pugno. Colpì il mostro alla gamba. L’osso
del ginocchio si spezzò ed egli crollò. Ma anche
Vùltem cadde, come un sasso fiacco, inerte. Era
135
stato come colpire la pietra e sentì il braccio
insensibile per l’urto.
L’avversario mostruoso si riprese in fretta;
si alzò zoppicando, disarticolato ma selvaggio,
e giganteggiò controluce, come una montagna;
alzò l’ascia. L’uomo rotolò nella neve; balzò
agilmente in piedi.
Il gigante estrasse, a fatica, l’arma dalla terra
dura; ma, in quel mentre Vùltem lo colpì sulla
nuca con una grossa pietra e lo fece crollare al
suolo con il cranio fracassato. L’uomo abissale,
figlio del Caos e ladro della Luce perì in questo
modo ignominioso.
Vùltem si girò di scatto: vide la fanciulla
d’oro che restava immobile a fissarlo, senza più
traccia di scherno sulle labbra.
Il guerriero urlò, selvaggiamente, fuori di
sé: «Che cosa aspetti, su, coraggio. Chiama
gli altri tuoi congiunti, figlia degli Informi!
Darò il loro cuore in pasto alla Luce. Ormai
non puoi sfuggirmi.»
Ella rise e non fuggì più. Non si oppose allo
stupro, anzi vi aderì con gioia selvaggia, si
contorse tra le sue braccia di ferro.
Egli aveva un mostro nella mente: più ella
strusciava il suo bel corpo contro di lui, più
egli brucia di lussuria, più cresceva in lui il
desiderio di ingiuriarla.
136
I capelli della donna lo colpivano sugli oc-
chi, luminosi come acciaio dorato, accecandolo.
Egli affondò le sue dita nella carne bianca
morbidissima e la trovò fredda e liscia, come
il metallo. Sembrava un essere fatto di argento
e di fiamme fredde.
Ella rise ancora più forte, fra i sussulti
dell’amplesso. «Finalmente! Ah, Vùltem, fi-
nalmente! Adesso capirai che sono io la tua
unica, vera femmina.»
A quelle parole lo skalter ritrovò una scheggia
di lucidità. «Sligagróp! Tu sei Sligagróp!»
Ella gemeva, in preda a un orgasmo disu-
mano. «Sì, mio bel Vùltem dai capelli neri.
Io sono la tua vera sposa, la tua spada, la tua
arma, la tua appendice più intima e segreta.
Io sono il tuo aiutante. E ti amo!»
L’amplesso finì con violenza e dolore da
parte di entrambi ed entrambi gridarono come
se fossero stati colpiti a morte.
«Perché?» domandò il giovane.
«Perché ti ho sedotto?» sorrise Sligagróp in
maniera sarcastica. «Per il mio piacere, ma
anche per aiutarti. Dovevi perdere il senno
per capire. Guardati il fallo, mio valoroso a-
mante.»
Vùltem abbassò gli occhi verso l’inguine e vi-
de che il suo membro virile era diventato nero
137
e che il suo glande ardeva come una fiamma.
Tutto si chiarì nella sua mente e il suo cervello
vacillò, ridendo d’angoscia e urlando di gioia.
«Io…»
«Sì, mio signore e mio schiavo» sussurrò
Sligagróp. «Ora sai il nome del tuo nemico.»
«Vùltem» disse il ragazzo. «Il suo nome è
Vùltem. Il mio antagonista sono io, ma com’è
possibile?»
«Tu e lui siete la stessa cosa» proseguì Sli-
gagróp. «Lui è la parte di te che non puoi ve-
dere, la tua parte eterna, la parte eternamente
nascosta, quella che non si può ammettere, la
parte eccedente, disumana; egli è la parte che
non ragiona se non con il piacere e la morte.
Egli è il mostro dietro l’angolo, il volto sotto
la maschera, la causa invisibile di tutto ciò che
sei e che ti accade.»
«Dunque sono stato io a procurare la morte
di Gogöst, spingendolo a cercare il Sonaglio,
e sono causa della morte di Goòia…»
«Sì» disse Sligagróp, «ma non addolorar-
ti per te stesso, Vùltem, non compiangerti.
Gogöst era giunto alla fine del suo regno:
doveva morire. Tu lo avresti risparmiato per
compiacere Seréza, ma le leggi sono le leggi,
la magia ha un prezzo; se l’ora arriva non
può essere evitata. La tua parte nascosta ha
138
solo eseguito ciò che era giusto, in armonia
con l’Ordine. In quanto a Goòia essa è morta
felice, perché morire era l’unico modo legale
per averti. Smettila di angustiarti, mio signore
e mio schiavo: ormai fai parte a pieno titolo
dell’Ordine; l’iniziazione ti ha dato la forza
magica e me, ma non lo ha fatto affinché tu
seguissi i tuoi desideri. Ora sei parte dell’Or-
dine, sei un suo utile strumento, come me. E
durerai solo finché la tua utilità sarà richiesta.
Adesso torniamo a casa.»
Vùltem allungò una mano verso di lei, ma
nella mano trovò soltanto la propria spada.
Con un urlo e uno sforzo disperati, alzò le
braccia al cielo e, con voce disumana gidò il
proprio nome.
Il guerriero, attonito, vide il cielo andare
in pezzi; tutto il cielo esplose in stelle e fu
costretto a ripararsi gli occhi, con le braccia
tese. Per un breve istante il mondo fu inonda-
to di luce. Poi l’uomo barcollando, emise un
grido bestiale, inarticolato. Si udì un rombo,
un’eco tonante dai cieli. Poi tornarono l’au-
rora, le colline... tutto ondeggiò nella mente
del ragazzo, come il moto di una frusta, di
un serpente. Tutto il mondo si sollevò, come
un’onda e l’uomo svenne.
In un freddo, tetro mondo, il cui sole sem-
139
brava estinto, Vùltem sentì il movimento delle
vita.
«Ora rinviene» disse un uomo.
Vùltem aprì gli occhi, fissando i visi chini
su di lui.
«Sei vivo, re Vùltem.»
«Per la Luce!» urlò il guerriero. «Sono vivo
o siamo tutti nell’Anoon?»
«Siamo vivi» lo rassicurò l’altro (Vùltem,
finalmente, lo riconobbe: era Balòss, l’appren-
dista di Govést). «Quando lo Shùr senza nome
è scomparso sei svenuto, privo di sensi, semi-
morto. La tua anima ha vagato chissà dove,
signore. Che cosa è successo?»
«I keisenküles mi hanno attaccato» spiegò
Vùltem. «O forse sono io che ho attaccato loro.
Sono il solo che è scampato. Ero intontito. Il
deserto d’erica si estendeva tutt’intorno, come
un sogno. Poi è arrivata la fanciulla e ha ini-
ziato a provocarmi. Era bella come il fuoco.
Una follia mi ha accecato e l’ho seguita. Forse
sono pazzo.»
«Niente affatto!» disse il mago Govést, guar-
dandolo in modo strano. «Era il tuo aiutante
nel suo vero aspetto. Esso ti ha condotto alla
soluzione dell’enigma, non è vero?»
Vùltem annuì.
«La maledizione è sciolta?» domandò Lüle.
140
Vùltem annuì ancora.
«Non puoi dirci il nome dello Shùr?»
«Non posso farlo» disse Vùltem, mentendo.
«L’ho dimenticato.»
Ma Govést sapeva o immaginava tutto: a lui
era impossibile nascondere qualcosa. Tuttavia
tacque, perché l’Ordine ha le proprie leggi e
la magia un prezzo… e tutti devono pagarlo.

141
13 – La morte di Vùltem

L’Estate di Vùltem fu ricca di sole e di piog-


ge fertili; la siccità non screpolò le zolle su
cui crescevano le colture; le inondazioni non
fecero marcire le messi; gli insetti non danneg-
giarono i frutti; le malattie non sterminarono
il bestiame; la caccia fu sempre fortunata; il
raccolto sempre abbondante.
I guerrieri andavano in guerra felici; e molti
regni confinanti furono assoggettati o comincia-
rono a pagare tributi agli skalter.
Un clima di euforia dominava le menti degli
abitanti di Tiremsö. Le vene infinite dell’ango-
scia e della paura sembravano essersi inaridite.
Tutti brindavano a Vùltem e i cantastorie
componevano poemi sulle sue gesta ed elegie
sui suoi amori selvaggi con la regina Seréza.
Ma l’estate passò e con essa finì la fortuna
di Vùltem. L’autunno portò con sé un vento
freddo, che strappava le foglie dagli alberi,
sibilando in modo sinistro, e l’angoscia e la
paura, con l’affievolirsi della luce, tornarono
a gettare le loro ombre sui cuori degli skalter.
La pioggia sembrava non cessare mai e tra-
142
sformava le strade in pantani e i campi in ac-
quitrini. Il fischio cattivo del vento fece fuggire
tutte le prede. La grandine rovinò la vendem-
mia, privando la gente del vino, che ha la
natura del sangue e le proprietà del sole ed è,
quindi, un regalo dell’Occhio Sano della Luce.
L’umore di Vùltem peggiorò vistosamente.
Spesso il ragazzo restava solo, immerso nei suoi
pensieri, meditando sulle parole della regina
Goòia e paventando la fine del suo fulgido e
brevissimo regno.
Le irruzioni dei Tìra Mòla Tambàlet nel
Mondo dei Meno si erano fatte troppo frequen-
ti, al punto che l’Ordine naturale appariva del
tutto stravolto e il terrore aleggiava nelle case.
«Così non può durare» disse Vùltem a Se-
réza, accarezzandole una guancia con dolcezza.
Fece chiamare i suoi dodici consiglieri ed
espose loro i propri dubbi. «Come impedire-
mo ai Tìra Mòla Tambàlet di aggredirci e di
sopraffarci?»
«Esiste una sola maniera, giacché una sola
via conduce dal Mondo dei Più al Mondo dei
Meno» rispose Govést. «Dobbiamo uccidere
il Maiamórč. »
Un brusio scandalizzato riempì la stanza.
«Ma ciò vorrebbe dire privare gli skalter del-
la possibilità di acquisire la forza magica!»
143
protestò Balòss. «Come potremo sopravvivere,
a quel punto? Senza l’aiuto dei Signori degli
animali la preda non si sottometterà più a noi.
E senza gli Shùr non potremo ottenere i Doni.
Saremo tagliati fuori dall’Ordine del mondo. »
«No!» disse Govést, tacitando con un gesto
le proteste e le urla isteriche dei dodici consi-
glieri. «Esistono altri modi per sopravvivere.
Cinquecento anni di vita mi hanno insegnato
qualcosa. Finora l’uomo ha scherzato con il
fuoco divino. La magia non è buona per lui.
Nessun uomo possiede organi adatti a generar-
la naturalmente. Ci siamo piegati a ottenerla
artificialmente, attraverso gli orrori del mostro
inghiottitore e dotandoci di un aiutante ma-
gico (dopotutto se noi compiamo una magia,
in realtà, è l’aiutante a compierla per noi),
perché la nostra specie non sarebbe soprav-
vissuta altrimenti. Ma ora abbiamo appreso a
coltivare la terra, ad allevare gli animali, a
commerciare. Conosciamo la tecnica e l’arte.
La caccia è diventata solo un residuo. La magia
un retaggio morente, che rischia di trasformarsi
nella nostra distruzione. È più saggio operare
esorcismi, al punto in cui siamo, anziché e-
vocazioni. È più intelligente tenere gli eccessi
e la violenza degli dèi fuori dal recinto del
Mondo dei Meno, l’unico in cui sia per noi
144
possibile vivere. Chiudiamo la porta e sepa-
riamo i mondi. Ascoltatemi, questa è l’unica
soluzione se vogliamo evitare che l’esercito dei
Tìra Mòla Tambàlet invada il regno dei vivi
e lo trasformi in un inferno, come già accadde
al tempo degli Ylòi.»
I consiglieri di Vùltem tacquero. La loro
mente era contesa fra la consapevolezza che
Govést aveva ragione e il dolore che separarsi
dai vecchi usi e tradizioni avrebbe comporta-
to. Nessuno di loro sarebbe mai stato capace
di sopportare il mondo che sarebbe derivato
dall’uccisione dell’Inghiottitore. Sarebbe stato
un mondo avaro, senza avventure, senza con-
tatti con l’aldilà (quindi con la propria anima
sognante). Non ci sarebbero stati più Doni e
rimedi magici alle malattie… No, sarebbe stato
un mondo terribile, anche se stabile, anche
se più consono alla Luce. Almeno in teoria,
perché chi poteva dire come sarebbero andate
le cose? Esiste una pazzia anche nell’eccesso
di ragione, dopo tutto.
«In realtà, amici» riprese Govést, vedendoli
così turbati, «non si tratta di chiudere davve-
ro e per sempre l’accesso al Mondo dei Più.
Esisterà sempre una certa comunicazione fra i
due Mondi, visto che prima o poi tutti dovre-
mo attraversare la soglia. Si tratta di cambiare
145
il nostro modo di guardare, di pensare quella
comunicazione. Avremo sempre la possibilità
di accedere, da vivi, al Mondo dei Più, se
non attraverso l’iniziazione e il mostro Inghiot-
titore, tramite i sogni e la magia. Il punto è
impedire il più possibile che gli abitanti Di Là
visitino il nostro mondo. Sotto questo punto di
vista siamo più avvantaggiati, rispetto a loro.»
«Non ci saranno più, dunque, riti e storie?»
domandò Balòss, con aria affranta.
«Ve ne saranno altri» rispose Govést. «L’uo-
mo ha bisogno dei riti e delle storie. Non po-
trebbe vivere, senza. Ma cambieremo il senso
di quelle storie. L’Inghiottitore non sarà più
il mezzo per ottenere i Doni; sarà semplice-
mente un mostro pericoloso e malvagio (e lo è,
chi potrebbe negarlo?), da tenere alla larga,
da uccidere se possibile. Adesso vi svelerò un
segreto: uccidendo il Maiamórč non uccide-
remo la magia, né gli dèi, né la nostra ani-
ma. Il Maiamórč è solo un simbolo. In realtà
noi viviamo immersi nella magia e nel sacro,
ma non ce ne rendiamo conto, perché ciò che
chiamiamo “Mondo dei Meno” o “regno dei
vivi” non esiste, se non in funzione della
nostra mente. La nostra intelligenza è solo il
risultato di tanti piccoli pensieri ritualizzati.
Ogni pensiero è un rito esorcistico, che serve
146
ad allontanare da noi la verità, che ci proteg-
ge dai suoi attacchi e rende possibile la nostra
sopravvivenza “umana”. Siamo separati dal
sacro solo da questa magia, ci siamo posti sot-
to auto-incantamento; ma si tratta del gioco
del bambino che chiude gli occhi e crede di
essere invisibile giacché non vede. È a causa
di questo auto-incantesimo che noi vediamo
il mondo non per come è, ma solo per come
lo raccontiamo a noi stessi e per come ce lo
raccontarono i nostri padri e le nostre madri,
i nostri parenti, i nostri amici e, soprattutto,
per come ce lo narrano le Storie. Quindi e-
sisterà sempre, per il singolo, la possibilità
di sciogliere i nodi del pensiero ritualizzato e
quella di accedere al potere magico. Eliminan-
do il Maiamorc distruggeremo solo la magia
come fatto pubblico e collettivo, ci limiteremo
a perfezionare la nostra prigione illusoria. O,
se preferite, contribuiremo a rendere più sicura
la nostra fortezza.»
«Non sono certo di aver capito il tuo discor-
so» ammise Vùltem, con estrema serietà e una
spina nel cuore; «sento tuttavia che hai detto la
verità. Un giorno anche il Signore degli uccelli
mi riferì qualcosa di simile. Allora mi sembra-
va tutto chiaro, ma mi trovavo in uno stato di
coscienza diverso, più luminoso. Mi limiterò a
147
fare il mio dovere. Affronterò l’Inghiottitore,
ma chiedo che Seréza, qualora dovessi perire,
non debba seguirmi sulla pira funebre ed essere
sacrificata. Non avrebbe senso, del resto, dato
che mi appresto a distruggere il fulcro stesso
del rito.»
I dodici eroi accondiscesero e Vùltem ordinò
che approntassero subito i cavalli e lo seguisse-
ro, per essere testimoni dell’impresa.
Seréza volle ostinatamente aggregarsi alla
compagnia, benché avesse la mente oppressa
da oscuri presentimenti; e nessuno poté impe-
dirglielo, perché era donna e regina e rappre-
sentava, dunque, la massima autorità fra gli
skalter.
Era ormai l’ora sesta allorché quattordici ca-
valli penetrarono nel bosco di Skur. Govést
apriva la fila, dirigendosi verso il luogo dell’i-
niziazione, la montagna che separa i mondi, la
tana del mostruoso Inghiottitore.
Mentre procedevano a lume di fiaccola, Vùl-
tem stringeva la mano della propria consorte,
ma la sua anima viaggiava lontano.
“Sligagróp” pensò, “spada fedele, aiutami
a distruggere il terribile Maiamórč.”
“Farò il possibile, mio padrone e mio schia-
vo” rispose la lama; “ma non sarà un’impresa
facile. Un conto è ferire il Maiamórč; un altro
148
è ucciderlo. Esso è un animale intriso di magia
e la sua magia è più antica della mia.”
“Consigliami: quale tattica potrebbe favo-
rirmi?”
“Usa tutto ciò che ti è stato dato: la forza,
la capacità di trasformazione, me e il tuo corag-
gio. Dopotutto nessuno sa davvero se l’arcana
bestia del bosco sia mortale oppure no.”
Il giovane re, allora, chiamò a raccolta tutta
la magia che permeava il suo corpo, dal gior-
no dell’iniziazione; e il suo corpo cominciò a
brillare in modo tenue ma visibile nell’oscurità
del bosco di Skur.
Presto i ruggiti e i mugolii osceni del Maia-
morc si fecero udire e i cavalli cominciarono
ad agitarsi. I quattordici uomini si arrestarono
ai margini della radura dell’iniziazione, fuori
dalla portata della lingua prensile del mostro
e Vùltem si preparò allo scontro.
Seréza lo salutò con il bacio rituale del fallo
e il suo sguardo bruciava di fierezza e smarri-
mento. Non riusciva a frenare la lacrime che
scorrevano copiose sulle proprie guance.
Ma il giovane re non seppe come consolar-
la. In lui era troppo grande la consapevolezza
che la strada era finita; era tornato al punto
di partenza. «Ricordami, tesoro mio, fanciulla
dalle bianche mammelle e dal viso pieno di
149
grazia. Se mi ricorderai andrò felice. E sarò
felice se aggiungerai che mi hai amato davvero,
nonostante l’Ordine, le leggi e il dolore che la
vita ci infligge e le atrocità che essa ci spinge
a commettere, come una pazzia travestita di
buonsenso.»
«Ti ho amato davvero, Vùltem» disse Se-
réza; «per ciò che ho visto e per ciò che non
sono stata capace di vedere in te; per ciò che
ho capito e per ciò che è rimasto nascosto; al
di là del tuo ruolo di re; per la tua carne e il
tuo odore; per la tua gentilezza e la tua lealtà.»
«Allora morirò contento» dichiarò Vùltem e
si staccò dal gruppo, correndo veloce verso la
bocca del mostro.
La lingua sibilò, cercando di afferrarlo, ma
egli la evitò; compì una piroetta agilissima;
alzò il braccio e menò un fendente, mozzandola
quasi alla radice.
Il Maiamórč urlò e la montagna che separa i
due mondi tremò, come se la scuotesse il ter-
remoto. Gli uccelli e i pipistrelli, atterriti, si
levarono in volo dalla foresta, riempiendo il
cielo notturno; tutti gli animali fuggirono con
grandissimo strepito.
Vùltem si trasformò in uccello e sfrecciò nella
bocca dell’Inghiottitore, veloce come la saetta,
portando rovina, con la sua luce, nelle viscere
150
mostruose, ripugnanti. Il Maiamórč si dimena-
va, in preda al dolore e alla sorpresa; ma era
imprigionato nella caverna, costretto a restare
immobile mentre veniva massacrato. Sputò san-
gue; vomitò; gridò ancora, più a più volte. Al
suo interno il ragazzo-uccello calava fendenti vi-
gorosi con Sligagróp, mettendo a soqquadro ogni
organo edificato per compiere l’iniziazione: aprì
il sacco dello stomaco, penetrò nei polmoni,
spezzò il cuore bollente di energia come metallo
fuso, fece a pezzi i rognoni e il sacco tortuoso
delle budella; in fine si volse contro l’immenso
cervello simile a una nuvola temporalesca, sfri-
golante di lampi e di tuoni, facendolo a brani.
La forza magica di Vùltem lo protesse fino
all’ultimo dai fluidi velenosi, mortali del mo-
stro; ma con il sopraggiungere della fine, con
lo spegnersi della vita del Maiamorc, fonte del
suo potere, anche la magia si affievolì e così lo
scudo magico: l’acido e il calore corrosero la
pelle e la carne del giovane re; i suoi capelli
bruciarono; le sue unghie si spezzarono; i suoi
tendini si strapparono. Ogni colpo faceva sof-
frire sia il mostro sia l’uomo, quasi che Vùltem
colpisse, in realtà, se stesso. E forse era proprio
così; ma questa fu la sua ultima intuizione.
Dopodiché il mostro diede un ultimo crollo e
rese l’anima, e il ragazzo piombò a terra.
151
I compagni di Vùltem osservarono lo scontro
con ansia crescente, contesi fra la speranza che
il loro re si salvasse e l’intima certezza che non
avrebbe mai potuto salvarsi. All’improvviso
videro il Maiamorc sgroppare e morire. Atte-
sero. Per alcuni minuti non accadde nulla. Poi
la bocca dell’Inghiottitore si mosse, si aprì; ed
essi sobbalzarono, atterriti. Ma ciò che emerse
dalle labbra atroci era qualcosa di inatteso:
una giovane donna nuda, coperta di sangue e
chiaramente non umana portava in braccio il
corpo martoriato, distrutto di Vùltem.
Gli skalter accorsero; fecero cerchio. Il ra-
gazzo era ancora vivo, ma non avrebbe potuto
sopravvivere a lungo, ferito, ustionato e ma-
ciullato com’era.
«Chi sei?» domandò Seréza, quasi gelosa.
La fanciulla nuda sorrise in modo crudele.
«Lui mi chiamava Sligagróp.»
«La sua spada?» domandò Seréza, confusa.
«Il suo aiutante magico» la corresse Govést,
posandole una mano paterna sulla spalla.
«Ve lo consegno» disse Sligagróp, con indif-
ferenza. «So che voi esseri umani amate i riti
funebri. E prendo congedo da voi. Addio.»
Posò delicatamente Vùltem sull’erba e scom-
parve.
Gli amici tosto si chinarono sul ragazzo re.
152
Egli soffriva in maniera indescrivibile: non
vedeva più; sentiva a stento; respirava ran-
tolando; ma era ancora in grado di parlare;
perciò espresse con il canto la propria angoscia.

I miei occhi si infiacchiscono, la Luce


pian piano si riduce.
è l’ora della Morte irta di tenebre.
Anche se non mi muovo dal mio letto
d’infermità, la Notte già mi ha stretto
con le agili movenze di un fanciullo
diligente, che ha ricevuto un ordine
e che lo eseguirà senza esitare.
L’Oscurità mi opprime la laringe:
ogni respiro è come un labirinto.
Penso, angosciato: “Luce, dove sei?
Ti ho sempre amato. Luce, non lasciarmi!”.
Davanti a me si estende un luogo buio,
privo dei doni ardenti della Luce,
senza colori, senza alcun calore,
dove la mani e il riso degli amici
non sono che un pulviscolo di neve
già pronto a sciogliersi, insieme alla mente.
La mente è troppo gonfia di ricordi,
ma i ricordi svaniscono nel buio,
ad uno ad uno...
Così di me non resterà più niente.

153
Ma nel buio che avanzava qualcosa, in fondo
alla sua mente ottenebrata, cominciò a brillare,
a sfolgorare sempre di più; e una voce soavis-
sima, che sembrava lenire le ferite come un
balsamo, rispose al suo canto.

Non disperarti, amico della Luce.


Il buio che temi è solo un’illusione.
Cammina dritto e senza alcun timore.
Vieni da me, ti aspetto. Ho molte cose
ancora da mostrarti.
Lascia, infine, quel corpo di materia
caotica, a cui donai un po’ d’Ordine
e che è chiamato, in modo irresistibile,
dal Caos, che lo reclama nuovamente.
Ti aspetto, amico, nel luogo non-luogo,
dove tutto è leggero e si governa,
dove la gioia non muore mai, ma è eterna.

154
Indice dei nomi

A
Ardaké
guarda qui;

B
Böbablö
upupa blu;

C
Césa Ozelànda
chiesa uccelliera;

Ciukabàla
sbornia, sbronza;

G
Gogöst
mi fa piacere;

Goòia
ho voglia;

Govést
ho visto;

I
Iariidìs
gli arrivederci;

155
K
keisenküles
che si fottano;

Kondeiók Pendelàiva
testa tra le nuvole piedi nell’acqua;

L
Lodür
ce l’ho duro;

Lömalöstra
viso lucente;

Lüle
egli;
M
Maiamórč
mangia-morti;

N
Nàe
nave;

P
Papalüga
tontolone, sciocco;

pitoti
gente delle montagne;

S
Seréza
ciliegia;
Shùr

156
signore;

Shùra
signora;

Skür
buio;

Sligagróp
sciogli-nodi;

Sökadesòk
zucca di legno;

Sömelèk
lampo;

Streekabröt
pasticcione;

T
Tiremsö
tirami su;

U
Ulavià
vola via;

V
Vùltem
voltami;

157

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