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Fabio Larcher

Me
li
nyd
o il violinista
fatato

Poemetto fantastico
in ottonari a rima baciata,
nove canti, un proemio
e una chiusa

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introduzione

Come potrei definire l’opera che state per leggere?


Il modo più semplice è catalogarla come “poemetto
fantasy”, in ottonari a rima baciata.
Naturalmente è anche altre cose. È fantasy, sì, ma
anche fiaba e mito. Fu, inoltre, abbozzata quando
avevo diciotto o diciannove anni, sull’onda emotiva
di un amore finito malissimo. Pensate, la prima
stesura completa era in ottonori sciolti, con poche rime
occasionali, e fu giudicata così severamente da coloro che
la lessero (due professori universitari, una compagna di
corso e sua nonna) da indurmi a riporre il poema in un
cassetto e a dimenticarmene per anni.
I giudizi oscillavano da un secco “banale”, a un
possibilista ma tiepido “c’è del buono, però è scritto in
una forma perennemente indecisa fra tono aulico e tono
colloquiale”, a un “sì, dai, carino”, a un “quello
che ha scritto sta roba è un ragazzo particolarmente
sensibile; attenta a non ferire i suoi sentimenti”.
L’ultima opinione era, ovviamente, della nonna della
mia compagna di corso (santa donna!).
Tutt’e quattro le sentenze erano straordinariamente
azzeccate, a modo loro; tuttavia nessuna coglieva
l’essenziale: Melinyd possedeva almeno un po’ di
magia, di quella cosa che gli inglesi chiamano “sense

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of wonder”, oppure no? Io credo di sì, anche se
i miei giudici avevano ragione: la stesura originale
era “giovane”, stilisticamente irrisolta; ma la magia
c’era... peccato non interessasse a nessuno. E peccato
che essa fosse (e sia tutt’ora) l’unica cosa che abbia mai
interessato me, in letteratura.
E così, ventotto anni dopo e con una pratica poetica
costante alle spalle, ricco di esperienza e di letture,
avendone l’agio, ho ripreso in mano il poemetto
giovanile e l’ho riscritto da cima a fondo.
Non ho toccato la storia. La narrazione è quella di
allora. Avrei dovuto? Forse. Ma la “favola” scaturì
da emozioni che non mi appartengono più, anche se
fui io a provarle. Perciò ho preferito lavorare sul solo
fatto oggettivo che avessi: la forma. E ho sfruttato
l’unica critica costruttiva che mi fosse stata offerta, cioè
quella che riguardava la mala grazia di una continua
incertezza tra lingua colta e un po’ di sciatteria.
Se Melinyd possiede dei pregi, non spetta a me
dirlo; ma che li possieda o meno, una cosa è certa: ho
sempre, fin da ragazzo (fin dalla lettura del Kalevala
tradotto in metrica da Paolo Emilio Pavolini), voluto
scrivere storie in versi, piegare il genere che mi riesce
più facile e naturale a raccontare storie di magia.
Che cosa mi ha trattenuto, per tutto questo tempo?
Un limite psicologico, le catene di un luogo comune:
il pensiero che nessuno (oggi o l’altro ieri) guarda
con favore o con interesse ai poemi narrativi. Mi
vergognavo, insomma. Se fossi stato meno debole, me
ne sarei infischiato e avrei scritto i miei libri in rima.
Purtroppo è andata così e ciò che mi resta da fare è

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offrirvi il mio piccolo Melinyd, sperando che non vi
dispiaccia e che i vostri giudizi su di esso siano meno
severi di quelli che, ancora acerbo e sgraziato, ricevette
nell’ormai secolo scorso.
Prometto, comunque, di non lasciarmi influenzare.
Non sono più il ragazzo sensibile e affamato che fui. E
poi questo racconto in versi è per la vostra consolazione,
non per la mia gloria.
Dunque, buona lettura.

San Donato Milanese,


2 aprile 2020

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proemio

Nella notte i campi arati


si ricoprono di strati
di foschia. Venite avanti,
presto. Via mantelli e guanti.
Sulla stufa che scoppietta,
c’è dell’acquavite schietta,
c’è del latte, c’è del pane.
Se temete le malsane
creäture della notte,
ho delle castagne cotte.
Per scacciare le paure
le magnifiche avventure
di Melinyd, fischiettando,
vi racconterò e cantando.
Per voi amici (e per chi vuole)
ricchi arazzi di parole
tesserò. Perché esitate?
Su, venite ed ascoltate.

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canto i

Si alza Melinyd dal letto.


Tutto, a un tratto, gli va stretto.
«Padre, padre voglio andare
per il mondo a camminare.
Stare qui, per me, è un tormento;
non mi curo del frumento;
non mi importa delle vacche,
delle pecore mai stracche.
Me ne andrò col mio violino,
verso il mondo.» «Forse vino
hai bevuto di nascosto?»
gli domanda Anghwrtais, tosto,
con cipiglio tempestoso.
«Non è il tempo del riposo;
non è il tempo della festa.
La risposta, figlio, è questa:
non andrai girando in tondo,
fannullone e vagabondo.
C’è lavoro da sbrigare,
cento cose devi fare,
con la zangola e la falce,
con la roncola e la calce.»
China il capo il figlio, abbozza,
chiude il pianto nella strozza.

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Batte il burro, miete l’orzo,
striglia il verro con gran sforzo.
Tutto luglio, ansioso, attede;
poi il coraggio in mano prende:
torna dal suo genitore.
«Padre, ascolterò il mio cuore:
me ne andrò nel mondo vasto.
Sono stato, a lungo, casto:
ora voglio anch’io una sposa
dalla chioma tumultuosa.»
«Taci, figlio senza mente.
Tu non partirai per niente.
C’è lavoro da sbrigare:
le fascine accatastare,
raccattare le castagne.»
Melinyd non fa le lagne,
non fa inutili capricci.
Schianta i tronchi; cerca i ricci;
ciocchi, in ordine, accatasta.
Ma alla fine dice “Basta!”.
Si presenta al genitore.
«Padre, padre, per favore:
voglio andare all’avventura,
via da queste vecchie mura,
col violino sotto braccio.
Non ti chiedo soldi. Il laccio
sciogli e lascia che io ti lasci.»
Quando intende ciò, i gran fasci
dei suoi tendini raggruma,
dalla bocca il padre schiuma.
Anghwrtais prende il bastone.

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«Resterai qui, con le buone;
e, se insisti, con le botte.»
Melinyd: “Chi se ne fotte?”.
Prende il suo violino magico
e risponde al padre tragico,
con un’abile staccato.
Fugge, intanto, spaventato,
mentre il padre lo rincorre
per le valli e per le forre,
dal mattino a mezzogiorno.
Poi Anghwrtais cede e ritorno
fa alla fattoria, sconfitto.
Melinyd cammina dritto,
verso il bosco tenebroso,
senza sosta né riposo.
Alla luna onesta e bionda
suona, fino a notte fonda.

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canto ii

Ora Melinyd va piano.


Suona un pezzo antico e strano.
Come il vento sa stormire,
come i grilli sa frinire.
Trilla, intesse un ampio intreccio;
fa ballare il sorbo e il leccio.
Essi danzano impacciati,
con i rami aggrovigliati.
Per i faggi ha una furlana;
una giga l’alno ingrana;
solo il larice negletto
la quadriglia ha per confetto.
Essi danzano impacciati,
Intrecciati, avviticchiati.
Schiocca il legno ed ogni gemma
geme o ramo, con gran flemma.
Ora Melinyd va lesto,
di mattina, molto presto.
Fa il violino cinguettare;
l’usignolo fa cantare
e la rondine garrire,
ogni uccello rimbambire.
Quando il sole sul guanciale
posa il capo, occidentale,

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Melinyd a una taverna
giunge. Ha fame e il fatto esterna.
Presto il musico è servito:
companatico e condito.
Beve di birra un gran mare.
Ma al momento di pagare,
Non vuol dare all’oste il giusto.
L’oste afferra un grosso fusto;
ma è più lesto e già strimpella
Melinyd La campanella.
Tutti smettono di bere,
tutti lasciano il bicchiere.
Balla il gatto, balla il cane,
ballan sguattere e gran dame,
ballan oste e ostessa, in scialle,
le giumente nelle stalle.
Ballan tavoli e bicchieri,
le stoviglie, i camerieri.
Finché possono danzare
li costringe a saltellare
ed a flettere i polpacci.
Ballan smilzi, omoni e omacci.
Balla il giudice togato.
Balla il prete sul sagrato.
Tutti grondano sudore.
Ai garzoni scoppia il cuore.
L’oste, intanto, cade a terra.
Melinyd ride e la guerra
musicale cessa, a un tratto.
Poi, sinuoso come un gatto,
getta all’oste sette scudi,

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divertito da quei ludi.
Se ne va per la sua strada,
in qualunque luogo vada.

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canto iii

L’anno vecchio adesso muore


sulle lande, con dolore,
sopra i monti e dentro i mari
dei giganti calamari.
Giunto è tempo di narrare
del gran popolo del mare,
che ha lasciato il buio profondo
per ghermire l’uomo a tondo.
Zitti zitti e non mai stracchi,
tutti infilano nei sacchi.
Nel vedere un tale orrore,
fugge il parroco. Il Signore
spinge i suoi piedi tra i boschi,
fra gli ontani umidi e foschi,
finché sente lì vicino
un rumore di violino.
Grida, allora, disperato:
«Presta orecchio, odi il mio stato.
Non fuggire, o forestiero.
Han lasciato il mare nero
gli orchi equorei e ogni individuo
empi annegano nel lido.»
Melinyd, incuriosito,
questo appello, questo invito,

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generoso accoglie. «Assento.»
Prende in mano il suo strumento;
passa i vicoli e le calli,
tra i fanali rossi e gialli,
e finisce in bocca agli orchi
del profondo, orrendi e sporchi.
Melinyd non perde tempo:
suona sul violino a tempo.
L’occhio nero degli equorei
brilla di lampi fosforei.
Sono avvinti, ipnotizzati,
quegli orrori mal creati.
Melinyd tesse la trama
di una musica di lama.
Passo a passo li conduce
su un dirupo senza luce.
«Ora gèttati nel mare»
sembra dire il suo suonare;
e gli equorei non son sordi.
«Ora il vuoto abisso mordi,
metti il piede in fallo e cadi.»
Gli orchi gettano i lor dadi:
come sassi si sfracellano
nella baia, non si ribellano.

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canto iv

Ora Melinyd sospira,


il dolore uccide l’ira.
Prega l’unico Dio vero.
«Fa ch’io trovi il mio sentiero:
dal mio amore voglio andare,
le sue lacrime baciare.»
Piega a terra le ginocchia;
prega forte, senza spocchia,
gli acquerelli del mattino.
«Fammi andare più vicino
all’amata che mi aspetta.
Fammi andare da lei, in fretta.
Sono sazio di avventure,
di violente imprese e dure.»
Le sue lacrime d’argento
sono perle in mezzo al vento.
Prega in seno al freddo atroce;
prega il legno della croce
variopinto di colori,
di far uno da due cuori;
che gli vengano donate
ali come le han le fate.
Ode il pianto Dio, commosso,
e gli fa crescere addosso

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due ali di cera e di legno.
«Grazie! Non ne sono degno.»
Melinyd ride e fa un salto,
verso il sole; punta in alto
sopra il freddo mare sfreccia,
più veloce di una freccia.
L’aria salsa lo dileggia,
ma egli vola come scheggia.
Giunge a casa dell’amata;
bussa all’uscio della fata.
Lei risponde e quando affaccia
il bel viso non ha traccia
di sorriso; ha il volto teso.
«Perché piangi, chi ti ha offeso?»
chiede Melidyn. «Chi spezza,
in te, il cuore? Chi disprezza
la tua voglia di scherzare?»
Lei ha parole molto amare:
«Un dragone mi rovina;
brucia tutto, ammazza, inquina.
La città piange, nel lutto.
Fiordizolfo ha nome. È tutto.
Me ne devi liberare.
Questo, amore, devi fare
se vuoi avere le mie grazie
che d’amore mai son sazie».
Melinyd va sopra il colle,
dove il drago giace molle.

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canto v

Fiordizolfo è sopra un sasso,


steso all’ombra buia di un tasso.
Fuma immobile, contento,
la sua pipa, in mezzo al vento.
L’erba è verde, il sole abbaglia;
tondi anelli in aria scaglia.
Tinto è il cielo di turchese.
Fuma il drago, ed è palese
che nell’ozio è bello stare,
bello starsene a fumare,
fare anelli con il fumo.
Dentro il vento e il suo profumo
ne fa azzurri, gialli e rossi,
che si allargano, son grossi,
e si librano nel cielo,
tremolando a velo a velo.
Ma chi viene a disturbarlo
su dal prato, per cercarlo?
Dal sentiero arriva un uomo
dall’aspetto mite, buono.
Certo è Melinyd, che giunge
e il violin stuzzica e punge.
«Tu chi sei? Che vai cercando?
Donde vieni a quale meta?

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Si può dire od è segreta?
Per chi meni, in mezzo ai sassi,
col violino i molti passi?»
Dice l’uomo: «Sarò franco.
Per te qui cammino e arranco.
Per te venni, dalla villa,
tra i bei fior di camomilla.
Vengo a vendicare il petto
del mio amore benedetto».
Dice il drago: «Ma chi dice
che fu mia la zanna ultrice?
Vivo solo ed i felici
cittadini son miei amici».
«Sembri onesto, ma i tuoi simili
fanno stragi e orrendi crimini»
dice Melinyd. Ma il mostro
da quel dire mal disposto,
si stizzisce e gonfia il seno.
«Ci son draghi onesti e meno,
bada, dunque, a ciò che dici.»
«Se non ami i sacrifici
di fanciulle, eroi ed armenti,
di malizia hai il cuore sgombro,
un’ipotesi ti adombro:
forse un altro drago vive
nei dintorni?» Sottoscrive
Fiordizolfo. «È questo, il dramma.
Vive il drago Fiordifiamma,
sulla cima aspra del monte,
dove non c’è strada o ponte,
e ha una vasta, lunga gamma

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di torture, in serbo, e le usa
quando odore d’uomo annusa.»
Lo ringrazia il violinista;
prende l’erta, scabra pista,
sopra i ciottoli e i burroni,
tra le cenge e gli spunzoni.
Nell’inchiostro della notte
cerca dove sian le grotte
del suo rettile nemico,
vivo fin dal tempo antico.
Sotto un arco si ripara
e un gran lume lo rischiara.
Qui c’è un’aria amara, tiepida,
e il maestrale ivi non strepita.
Melinyd si guarda in giro.
«Sento il lezzo ed il respiro
del dragone addormentato.
Da quel drago acciambellato
Sui tesori e le monete
voglio andare.» Per segrete
vie il ragazzo arriva al covo
dell’antico mostro. Un nuovo,
lungo brivido lo scuote:
non son l’aule affatto vuote.
Su montagne d’oro e argento,
vecchio, odioso, macilento
Fiordifiamma russa roco,
dal suo naso sbuffa fuoco.
Melinyd fa un solo passo,
senza strepito né chiasso.
Fiordifiamma si ridesta,

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sospettoso, alza la testa
e ruggisce: «Chi è nascosto
là, nell’ombra? Mostra il volto!».
Melinyd tace, ma imbraccia
il violino con minaccia.
Fiordifiamma ghigna e a iosa
sputa fiamma velenosa.
I calzoni dell’intruso
vanno a fuoco. «Sei un illuso»
dice il drago. «Contro il fato
io non sono impreparato.»
Melinyd digrigna i denti;
suona con potenti accenti
una musica stordente,
che si insinua nella mente,
fa le palpebre di pietra;
la coscienza, al suono, arretra,
si rifugia dentro il conno
di un profondo, dolce sonno.
Fiordifiamma cade in coma
su un bemolle e una biscroma.
Quando russa e un vegetale
dal veleno musicale
è ridotto, il musicante
non aspetta un solo istante:
gli apre il ventre, con la spada;
lo decapita, apre una strada
sanguinosa tra le arterie,
dei tessuti fa macerie.
E la testa, fredda, morta,
con sé porta, oltre la porta.

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Nel cunicolo ripassa,
lascia l’aria untuosa e grassa.
E alla luce esterna sbuca,
dove il sole, in cielo, bruca.

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canto vi

Dagli spalti, nel mattino,


dentro il vento marzolino
alza il sole il capo biondo,
sulle tenebre del mondo.
Bacia gli occhi dei guardiani
e le intirizzite mani,
dalla fredda notte punte;
posa il manto sulle punte,
tra le guglie il suo cappello,
tra i pinnacoli l’ombrello,
panni d’oro e di velluto.
Con la blusa rossa addosso,
lo stivale al piede, rosso,
sale i tetti aguzzi e tetri,
fiammeggiando contro i vetri.
«Sveglia, amici!» va cantando.
«Melinyd sta già tornando!
Salutatelo in letizia:
vi ha portato una notizia.»
Al richiamo ognuno si alza,
chi in mutande e a gamba scalza,
chi vestito a mezzo o nudo,
ignorando il gelo crudo.
Tutti vogliono vedere

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Se le nuove sono vere.
Melinyd giunge al corteo,
trascinando il suo trofeo.
Vede gente, ode dei suoni,
folla, giubilo, canzoni;
dolci Osanna e Gloria, Gloria,
urla armate di vittoria.
Mille mani gli son tese,
mille baci al fin riceve,
mille «Grazie!», mille «Bravo!»,
mille «Servo vostro e schiavo!»
gli risuonano d’intorno,
nel glorioso, nuovo giorno.
Melinyd condotto viene,
sulle spalle, sulle schiene
della folla, in tutta fretta,
dall’amata che lo aspetta.
Ma l’amata non lo accoglie
bene; gli occhi suoi distoglie;
non c’è luce sul suo viso,
non c’è l’ombra di un sorriso.
China il capo il violinista.
«Perché sfuggi alla mia vista?»
Ma la bella non lo affronta,
nel silenzio ella sprofonda,
si corazza nel dolore.
Ed il violinista muore.
Melinyd, sazio di prove,
le compone versi e strofe.
Ma la bella piange e tace.
Melinyd non trova pace.

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Il secondo giorno prova
una strategia più nuova:
suona e canta una romanza,
che riecheggi nella stanza;
ma la bella non dà segno
di sorridere: è di legno.
Si richiude nel dolore.
Melinyd muore d’amore.
Fa un ritratto ad olio e dona
quel ritratto alla persona
che egli anela amare. Ed ella
prende il dono e lo accoltella:
«Mio signore, tu lo vedi:
non ho al male altri rimedi.
Passo i giorni nel dolore,
non ho scampo dal mio cuore.
Io ti prego di partire,
di lasciarmi, di sparire;
letto e fuoco abbandonare,
e il ricordo mio annegare;
di scordare il mio bel seno.
Parti: non so farne a meno.
Non c’è colpa nel tuo fare;
non ti so recriminare
qualche torto, qualche offesa;
ma ora lasciami qui, illesa
dal tuo amore che mi soffoca,
dalla tua molesta coccola.
Tu sei un uomo assai paziente,
dalle antenne sempre attente,
più sensibile, più grato,

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più del caldo fuoco amato.
Tuttavia non posso amarti,
né per forza né con arti,
né col corpo né con l’anima:
Non mi piaci; il vero esamina».
Melinyd protesta, ansando:
«Di che amore vai parlando,
che ad un breve amplesso lega,
sortilegio, arte di strega?
Mischia i baci alle carezze
(tristi e folli tenerezze)
tra la bocca e il dolce seno.
Più dell’oro è l’oro osceno
del tuo cuore mai sereno;
caffellatte o miele eletto
che ho bevuto dal tuo petto,
dal tuo sesso ho ricavato.
Sono un uomo sfortunato:
venni a far l’ammazzadraghi
perché i tuoi pensieri paghi,
finalmente, e sazi fossero.
Ma se i tuoi baci mi cossero,
ora vedo il tuo raggiro;
il tuo inganno, intero, ammiro:
finché il drago non giacesse
nel suo sangue, con promesse
mi sfruttasti come attrezzo,
comperato a poco prezzo;
vile oggetto ad uso vile,
troppo stupido e gentile;
animale tra i più cari,

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da sgozzare sugli altari.
Non son vanga, o aratro rotto
da riporre nel casotto».
Ma l’amata piange e strilla:
«Del rimorso la scintilla,
placa, Melinyd. Le cose
che mi dici sono odiose;
ciò che dici, amor, mi infanga.
Io non voglio che tu pianga,
che tu morda di odio il morso.
Via da’ pace al mio rimorso».
«Dei rimorsi non mi importa»
Melinyd prende la porta,
«del tuo pianto ho grande sdegno.
Non hai cuore; solo ingegno.
Me ne vado, più non resto.
Dio un tributo mi ha richiesto,
che sul lastrico mi getta.
Me ne vado in tutta fretta
e rinuncio alla mia pace,
pur se a me così non piace.»
Questo dice e volge il tacco,
si allontana, al cuore in scacco,
con cemento duro bocca,
come freccia rotta in cocca.

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canto vii

Melinyd cammina, triste,


nel dolore che persiste,
seppellito nella sciarpa,
con un buco nella scarpa,
tutto chiuso nel cappotto
sporco, frusto, malridotto.
Verso casa spinge i passi,
con il capo e gli occhi bassi,
tra le foglie sbriciolate.
Tra le foglie accartocciate
spinge i passi, sul sentiero,
sotto un cielo nero nero,
tutto nubi e niente stelle,
gonfio come enfie mammelle.
Melinyd trova riparo
dentro un cimitero amaro.
Tra i cipressi soffia il vento,
frusta i larici, violento,
seminati fra le tombe,
mentre il temporale incombe.
Melinyd stenta a dormire.
Pensa al vento, alle sue spire
che le foglie a terra strappano,
che le foglie in aria acchiappano,

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quando un suono, all’improvviso,
lo rimette sull’avviso.
Una lapide si muove,
vecchia tra le tombe nuove.
Dalla terra arrivan chiare
voci, un fitto parlottare
di volgarità commiste.
Si nasconde il violinista.
Dal sepolcro aperto sbùcano
due figure che mandùcano
da una terza, immota, in mezzo
da cui emana un forte lezzo.
Melinyd tende l’orecchio,
più curioso che altro. Un secchio
di bestemmie ascolta. “Gli orchi!”
riconosce. I mostri, sporchi
«Issa!» dicono l’un l’altro.
«Spingi! e sii veloce e scaltro.»
«Tira e molla, non mollare!»
«Brutto scemo, lascia andare!»
Si distendono, affannati,
sulla terra, trafelati,
pance all’aria, come màntici,
snocciolando atroci cantici.
«Che mi caschino i calzoni!»
dice, in preda alle emozioni,
il più grosso. «E io possa urlare,
se ci ho voglia di sbafare
questo schifo di carogna
mezza marcia.» «Spera e sogna!
Ché se avessi soldi in tasca

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comprerei vinello in fiasca.»
L’altro sbuffa; apre il coltello.
«Brutto figlio di un secchiello!
Pandispagna andato a male!»
dice e insulti senza eguale.
«Bada, puzzi già di morto!»
«Sai di fogna, grugno storto!»
«Che mi caschi un occhio in mano!»
«Mi si rompa, a bran a brano,
l’apparato per fischiare!»
Poi cominciano a mangiare,
pasteggiando, con la salma,
senza fretta e senza calma.
L’orco grosso addenta un braccio,
ricoperto da uno straccio.
«Ahi!» protesta il morto. «Zitto!»
l’orco ingiunge al losco vitto.
«Se sei morto, che protesti?»
L’altro azzanna, a denti lesti,
un polpaccio. Il morto grida.
«Ohi!» Ma l’orco lo diffida:
«Se urli il cibo mi va storto.
Sta’ un po’ quieto, che sei morto».
Melinyd li osserva e tace;
sente un’improvvisa pace.
Ode il vento tra le tombe;
cede al sonno che procombe.

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canto viii

Anghwrtais paziente aspetta,


che suo figlio Dio rimetta
sulla strada del ritorno;
fa la guardia, notte e giorno.
Sta in agguato col bastone,
l’arto armato di scarpone.
Di furor ribolle e schiuma.
Sul cappello c’è una piuma.
Ma suo figlio non ritorna,
dai suoi scopi non si storna;
snobba il bosco colorato,
col violino elaborato.
Anghwrtais ribolle e fuma.
Sul cappello ha una gran piuma.
Melinyd non torna indietro,
col violino dolce e tetro.
Sta acquattato il padre e ascolta,
con la frusta in mano sciolta.
Rabbia oscura ha dentro l’osso
del suo cranio. In fondo al fosso,
cieco d’ira, aspetta il figlio.
Ma il Signore non dà appiglio
alla sua brama, non cede.
“Mal riposta è la mia fede!”

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pensa Anghwrtais. “Sono stolido:
Dio è acqua fresca; non è solido.”
Ma una certa mattinata,
tra la brina e la rugiada,
Anghwrtais, stupito, sente
un violino nella mente,
che la nebbia a forza lede,
che attraverso il bosco incede.
Balza il cuore nell’orecchio,
al feroce e duro vecchio.
Sopra il tronco di un ontano
sale, per guardar lontano.
“Figlio, figlio” pensa, iroso.
“che ritorni indietro, odioso;
perché torni a queste mura
e a una casa mal sicura?
Già sei sazio di vagare,
le sterpaglie calpestare?
Per chi vieni, il capo chino,
agli albori del mattino?
Un bastone hai da assaggiare;
lunghe pene hai da scontare.
Se ora cerchi la mia ascella,
ti darò la caramella
che per tanto tempo ha atteso
dentro il mio cervello offeso.”
Ma sul viottolo fangoso
vien, suonando in modo estroso,
solo un’alta Dama nera,
di un mantello prigioniera.
Di Melinyd non c’è traccia.

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«Voi chi siete?» un urlo caccia,
dall’ontano, il padre insano,
di se stesso non sovrano.
«Per chi andate strimpellando?»
«Son la Morte e vo ballando.
Suono bene e ho molta sete.
Per chi suono, vi chiedete?
Oggi suono anche per te».
Suona un mesto fa mi re,
spezza il ramo a cui, negletto,
Anghwrtais si tiene stretto.
Piomba il vecchio nella gleba
e dalla vita lo slega.
Poi la Morte si allontana,
con un passo da sovrana,
sviolinando senza opzioni
le sue orribili canzoni.
Dopo due minuti appena,
giunge il figlio sulla scena.
Ma al vedere il babbo angoscia
nel suo petto amara scroscia.
Nell’orrore annega, e piange
come un nuovo fiume Gange.
“Così adesso dormi e taci;
non più guerre fai, ma paci.”
Questo pensa ed una fossa
scava nella terra smossa.
Con la pala scava e piange,
niente al mondo più lo tange.
Di Anghwrtais la salma ficca,
nella zolla umida e ricca.

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Pianta a terra un ramo e scrive
questo monito a chi vive:
“Giace, qui, un padre che ancora
di suo figlio amore ignora”.
Quindi torna alla sua casa
vuota e dell’anima abrasa.
Si prepara sopra il fuoco
caffè buono per il gioco,
caffè amaro per la mente;
lo sorseggia, triste e assente.

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canto ix

Melinyd riposa afflitto;


non consuma vino o vitto.
Chino sopra i libri resta,
nel cervello ha una tempesta.
“Chi è già morto a terra giace,
chi è ancor vivo si dà pace”
si ripete ancora e ancora,
per rosario della sera.
Ma al cader del quarto lume,
gli orchi equorei, dal bitume
della massa d’acqua giungono
e un toc toc all’uscio impongono.
«Non ci sono per nessuno;
ritornate al flutto bruno
e lasciatemi nel lutto!»
urla Melinyd, asciutto.
Gli orchi equorei vanno svelti
a nascondersi nel mare,
come gli incubi nel nulla
dell’abisso, che li culla.
Ma al piombar del terzo giorno,
quando all’alba ha il sole intorno,
bussa un drago alla sua porta,
Fiordizolfo-coda-attorta.

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Melinyd lo accoglie bene,
incurante dell’igiene.
«Finalmente, amico caro!
Ti attendevo. È così raro
che un amico sia vicino.»
Fiordizolfo fa un inchino,
strizza l’occhio al violinista,
al sorriso apre una pista.
Quando il male è già guarito,
tutto il pianto è inaridito,
i due amici già progettano
un’impresa e non aspettano.
Melinyd suona il violino,
mentre il drago canta un tino
di canzoni del profondo,
vecchie, antiche come il mondo.
Dalla siepe, dalla roccia,
dai rotondi colli sboccia,
come un fiore di pervinca,
la muraglia d’una cinta;
dalle foglie una caserma;
dalle pietre sparse a terra
due castelli di mattoni,
case, tegole, torrioni,
strade, portici, sei viali
e botteghe artigianali.
Poi il dragone, col suo fuoco,
plasma argilla come un cuoco;
il violino le dà vita,
fa animare mani e dita
e si popola di gente

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bella, nobile e potente
la città dal nulla eretta,
per magia sbocciata in fretta.
Tutto questo come ex voto,
fanno i maghi a un padre vuoto,
della dolce vita privo,
che ora è morto ed era vivo.
«Ora manca» dice il drago,
«solo il nome.» L’altro mago
ci riflette su. «Il mio borgo
avrà il nome che ti porgo:
Gwernhudol, dalle alte chiese.
Questo è il nome del paese
che con te ho creato e eretto.»
Dice il drago: «Sì, perfetto».
Poi i due eroi, senza esitare
se ne vanno a passeggiare,
scavalcando la collina,
prima che sia domattina.

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chiusa

Questo è il canto che ho promesso;


l’ho finita proprio adesso.
Ed è un canto molto pio.
A voi, cari ospiti, addio.
Fuori non c’è più nessuno
degli orrori: non c’è il bruno
manto della notte; è sciolto
il tentacolo che molto
vi atterriva; i mostri antichi
sono andati coi lombrichi.
Tante cose ancor non canto,
perché il giorno è troppo santo
e la luce vi ripara
nella sua campana chiara.
Richiudete questo testo;
per dormire è ancora presto.
Dio vi veglia ed io con esso;
su, bevete questo espresso.
Dorme lieta la cimasa:
casa dolce, dolce casa.

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