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Fabio Larcher

UKUDEDEKA

Una nuova avventura


di Giovanni Calasperio
UKUDEDEKA

Una volta scampati alle insidie della Città


delle Scimmie, seppellita — come ricordere-
te — nella giungla impenetrabile del Congo,
io e Haillesellasié giungemmo fortunosamente
sulle rive del lago Tanganika. Ivi, in un villaggio
di pescatori, incappammo nella spedizione del
professor Matteo Chameney, un etnologo ingle-
se, la cui missione, finanziata dall’Accademia
Reale, aveva lo scopo di raccogliere informa-
zioni di tipo geografico, geologico, naturalistico
ed etnografico sull’Africa centrale e su quella
meridionale.
Sia io sia il mio amico abissino masticavamo
male l’idioma di Albione; tuttavia, in qualche
maniera, riuscimmo a cavarcela e a svolgere il
nostro compito di guardie del corpo così be-
ne da far sì che Chameney ci reputasse ormai
indispensabili alla buona riuscita dell’impresa.
Al soldo, dunque, della regina Vittoria ci
avventurammo dalla riva congolese del lago
Tanganika, nello Zambia, nello Zimbabwe e, in
fine, nel Sudafrica, procedendo a dorso di mulo
per quasi cinquemila chilometri, attraverso la
giungla, la savana, gli altipiani, le montagne
e le praterie sconfinate del continente africa-
no. Delle avventure che avemmo narrerò in un
secondo momento, oppure in un altro libro,
giacché furono interessanti e bizzarre, ma non
così significative, a livello oggettivo, quanto
ciò che mi accadde tra gli altipiani erbosi del
Medio Veldt.
Una volta giunti nella terra degli zulu, il
professor Chameny ingaggiò delle guide loca-
li, affinché ci fornissero indicazioni sul paese e
fungessero da interpreti.
Una di queste guide, un uomo alto, con i
denti storti e la pelle nerissima, nel corso della
nostra avanzata, ci parlò di una grande città di
mattoni — l’unica in tutta la zona, disseminata,
invece, di villaggi di capanne —, antichissima,
di nome Ukudedeka. Vi dimorava il popolo
degli isisu, che era lontanissimo parente degli
zulu e parlava come loro un dialetto derivato
dalla lingua nguni.
A detta della nostra guida ciarliera, si trat-
tava di un popolo bizzarro, inquietante e... ma-
ledetto. Esso praticava usi e costumi completa-
mente diversi da quelli degli zulu: non facevano
la guerra; disprezzavano le virtù virili; odiavano
i legami familiari; e vivevano nella promiscuità
più assoluta.
La guida — che si chiamava Bongani — ci
sconsigliò vivamente di attraversare il territorio
degli isisu.
Naturalmente Ukudedeka infiammò subi-
to la mia curiosità e la mia immaginazione e
domandai il permesso al professor Chameney
di assentarmi, per qualche settimana, a scopo
esplorativo.
«Calasperio, trovo la vostra richiesta affatto
inopportuna» obiettò l’accademico. «Voi mi
siete necessario.»
«Andrò solo, in compagnia di un interprete»
dissi. «Hailesellasié rimarrà con voi. Mi fido di
lui come di me stesso. Inoltre vi prego di con-
siderare la cosa dal punto di vista puramente
operativo: se questi isisu esistono e presentano
degli aspetti culturali interessanti, la mia de-
viazione arricchirà il vostro lavoro, senza però
distrarvi dalla tabella di marcia.»
Chameney si concesse un intero minuto, per
riflettere sulla mia proposta. «Hailesellasié è
d’accordo?» chiese, in fine.
L’abissino sorrise assai filosoficamente, met-
tendo in mostra i suoi denti bianchissimi. «Ciò
che decide il mio fratello Calasperio è legge,
per me. E che sia fatta la volontà di Allah.»
Chameney annuì. «Ma chi si prenderà la bri-
ga di condurvi in quel luogo, come interpre-
te? Se ho ben capito si tratta di un territorio
tabù...»
Bongani ridacchiò, facendo balenare i denti
irregolari. «Non è una zona interdetta, signo-
re; ma solo “rischiosa”, perché, dei pochi che
abbiano sentito l’esigenza di andarvi, nessuno
è mai tornato a raccontare che cosa vi succe-
da. Ma io sono disposto ad accompagnare il
signor Calasperio, dato che egli si mostra così
incuriosito dalla Città dei Pazzi. Ammetto di
esserne incuriosito io stesso e di avervene par-
lato proprio per questa ragione.»
La risposta di Bongani mise il professor Cha-
meney di umore allegrissimo. «Allora è deciso»
disse, sfregandosi le mani.
Brindammo alla mia esplorazione, con u-
na dose generosa di whisky scozzese. Quella
canaglia di un professore ne aveva una buona
scorta e ammetto che l’alcol mi fece girare la
testa e mi spedì nel mondo dei sogni molto di
buon’ora.
Dormii sodo, finché Hailesellasié non venne
a svegliarmi, poco prima dell’alba.
«Mi sono preso il permesso di farti preparare
tutto il necessario, amico mio» disse l’abissino.
«Bongani ti aspetta già. Fa’ buon viaggio e che
Allah ti protegga.»
Abbracciai il mio carissimo negro, con af-
fetto sincero. Dopodiché mi avviai, insieme
all’interprete zulu, in direzione sud-ovest. Fu
una marcia piuttosto impegnativa. Calcolai
almeno quindici chilometri, a passo spedito,
poiché Bongani aveva delle gambe maledetta-
mente lunghe. Poi, verso le undici di pomerig-
gio, intravidi la Città dei Pazzi.
Nei pressi di Ukudedeka ci trovammo ad at-
traversare immense coltivazioni, regolari e ben
irrigate, la cui presenza mi sorprese.
A cinque chilometri circa dalle mura — che
apparivano “nude” e squadrate, ma imponenti,
essendo alte almeno sette o otto metri — co-
minciammo a scorgere delle persone indaffa-
rate.
All’inizio mi sfregai gli occhi, temendo di
essere vittima di un miraggio o di un sortilegio,
giacché non riuscivo a capire se si trattasse di
donne o di uomini.
Gli isisu portavano le chiome lunghe, si de-
pilavano completamente, si truccavano, e in-
dossavano un unico modello di abito sformato,
dalla foggia pensata per rendere il corpo inac-
cessibile a un’indagine superficiale.
Bongani salutò quella gente indaffarata. Si
presentò e presentò il sottoscritto, chiedendo
se fosse possibile visitare la città.
Essi ci osservarono un po’ stupiti, un po’
intimiditi, quasi con compassione. Uno di essi
si staccò dal gruppo e ci venne incontro, con
fare amichevole, e disse nel dialetto isisu: «Ben-
venuti, stranieri. Il mio nome è Dimwit. Se vi fa
piacere, sarò onorato di mostrarvi Ukudedeka
e le sue molte meraviglie».
Lo ringraziammo e ci accodammo al suo
vestito fluttuante. Non ero riuscito a capire se
fosse una creatura di sesso maschile o femmi-
nile, poiché aveva un timbro di voce neutro, né
basso né alto, e lineamenti sottili, aggraziati,
ma non necessariamente donneschi.
Ero molto perplesso; tuttavia sospesi il giu-
dizio, in attesa di un’illuminazione che mi met-
tesse nella condizione di afferrare il bandolo
dell’enigma.
La città apparve immensa, almeno per gli
standard africani, e straordinariamente ordi-
nata.
«Perdona la mia mancanza di educazione»
dissi, a un certo punto, colto da un fastidio vago
e invincibile, «ma sei uomo o donna, Dimwit?»
Dimwit sbiancò e un’ombra di paura attra-
versò i suoi occhi sfuggenti e decorati di rimmel
e dalle palpebre colorate. «Non sono né uomo
né donna, per legge e grazie agli dèi.» Quindi
si affrettò a compiere un gesto di scongiuro.
«Per “legge”?» domandai. «Non capisco.»
Dimwit sospirò, infastidito dalla mia insi-
stenza su un argomento che, chiaramente, era
inopportuno. «Gli isisu hanno abolito da tempo
ogni differenza sessuale, straniero. Le differen-
ze penalizzano coloro che sono meno dotati; in
special modo penalizzavano le donne e costitu-
ivano un pericolo e un’ingiustizia costanti, per
loro; perciò la legge le ha bandite.»
Trasecolai. «Ma la legge non può rendere
maschio la femmina e viceversa!»
«No, ma può impedire che ci si riferisca al
maschio e alla femmina» rispose Dimwit. «A
cominciare dai nomi. I nomi che portiamo,
infatti, noi isisu, non sono né maschili né fem-
minili.»
«E questo non pone delle difficoltà?» chiesi,
sinceramente stupito. «Come fa, per esempio,
un bambino a capire chi è il proprio padre e
chi è la propria madre? Non resterà confuso?»
«Non esistono padri e non esistono madri,
tra gli isisu» disse Dimwit, seccamente. «E non
esistono famiglie. Ogni individuo è incorag-
giato ad avere una vita sessuale molto attiva,
purché essa non faccia distinzioni. Ci si deve
accoppiare sia con individui del proprio sesso,
sia con individui di sesso opposto. Se due in-
dividui di sesso diverso hanno dei figli, questi
figli, alla nascita, vengono tolti alla fattrice e
allevati in comune, da funzionari deputati a ciò
dal consiglio. Il concetto di famiglia è stato a-
bolito per legge, centinaia di anni fa. I figli non
appartengono a coloro che li hanno generati,
perché questo sarebbe commettere ingiustizia
nei riguardi dei diritti dei bambini. Essi appar-
tengono alla comunità — il solo potere giusto
ed equanime.»
Bongani era non meno colpito di me, riguar-
do alle parole del nostro cicerone; tuttavia si
sforzava, incuriositissimo, di tradurre per me
quei concetti strampalati.
«Perdona la mia insistenza» proseguii, «se
non esistono famiglie, chi si occupa dell’edu-
cazione dei bambini?»
«La città» rispose Dimwit. «La città istruisce
i bambini e garantisce i loro diritti individuali,
compreso il diritto di essere amati.»
«In che senso?» Temevo la risposta che seguì.
«I bambini, come tutti i membri della comu-
nità, hanno il diritto ad avere una vita sessua-
le piena e appagante» recitò Dimwit, come se
leggesse da un libro stampato. In effetti avevo
l’impressione che l’isisu non riuscisse a formu-
lare un proprio pensiero; anzi, che la sola idea
di pensare fosse per lui qualcosa di tabù. Parlava
e pensava solo per frasi fatte, senza neppure
chiedersi se le sue frasi avessero un senso.
«Ma...» balbettai «i bambini sono solo bam-
bini...»
«I nostri saggi hanno studiato approfondi-
tamente l’argomento, otto generazio orsono»
disse Dimwit, «e sono giunti alla conclusione
che i bambini possiedono esattamente gli stes-
si appetiti degli individui adulti; perciò sono
ritenuti abili a esercitare la loro sessualità fin
dal terzo anno di età, cioè da quando posso-
no rispondere “sì” e “no” alle profferte di altri
indivui.»
Io e Bongani ci guardammo negli occhi, in
maniera significativa: gli isisu erano pazzi; paz-
zi e pervertiti. La loro legge sembrava una scusa
per esercitare impunemente le pulsioni peggiori
e più degradanti dell’animo umano, con il be-
neplacito della comunità. I cosiddetti “diritti”
di cui la nostra guida parlava apparivano piut-
tosto capricci di menti insane, annoiate, prive
di freni morali e di umana pietà.
Scoprimmo che il furto, a Ukudedeka, non
esisteva, perché non esisteva proprietà privata.
Apprendemmo che l’omicidio non veniva con-
templato dal codice penale cittadino, poiché la
violenza non andava punita, bensì “rieducata”.
E molte altre “bellezze” di tale natura.
A un certo punto notammo un cospicuo as-
sembramento di fronte a un edificio imponente
e domandammo delucidazioni. Dimwit ci spie-
gò che quella grossa costruzione squadrata era
un tempio e che era in corso un rito sacrificale
molto praticato e sentito, presso gli isisu: le
donne si facevano ingravidare dai loro amanti
occasionali; portavano in grembo il feto per
venti settimane, dedicandosi, in tale periodo,
a un libero sfrenamento dei sensi, copulando
selvaggiamente con chiunque avesse la ventura
di piacere loro. Esse chiamavano quelle setti-
mane di “libertà” isikhathi sikankulunkulu, il
Tempo del Dio, o ubumnandi basemhlabeni, la
Beatitudine Terrestre. Al termine del Tempo
del Dio, allo scadere della ventesima settimana,
esse si recavano al tempio e ivi, una sacerdo-
tessa-ostetrica le sottoponeva a una serie di
formule rituali — che erano delle vere e pro-
prie arringhe in difesa della donna di fronte al
tribunale degli dèi ed erano tese a discolparla e
a garantire la non punibilità della sua condotta
in terra o in cielo. Questi esorcismi facevano
appello ad argomenti davvero bizzarri: la cre-
azione era nata “storta”, poiché la sessualità
femminile — dunque il piacere e la possibilità
di essere felice — non poggiava sulla “libertà”
personale; bensì era legata con catene indi-
struttibili alla riproduzione, alla fecondità. E
ciò — proseguivano le formule — penalizzava
la donna, rendendola schiava della fecondità;
quindi, in ultima istanza, del mondo maschile.
Seguiva una lunga serie di insulti e anatemi
verso gli uomini, descritti come tutti violenti,
tutti malvagi, tutti stupidi, tutti dispotici, tutti
assassini... La lista era così lunga che, presto,
trovandomi a essere spettatore del rito in que-
stione — si trattava, infatti, di riti pubblici e si
incoraggiavano con forza i maschi della città
ad assistervi, a piangere, a chiedere perdono
per colpe mai commesse, a deprecare la pro-
pria virilità — rischiai di appisolarmi contro
la colonna di marmo dipinto alla quale stavo
appoggiato.
Pensai con disagio che quel teatrino fosse la
cosa più stupida e depravata a cui avessi mai
assistito, degna dei libri del Marchese de Sade.
Che tutte quelle manfrine e quelle lamentazioni
senza senso, rivolte contro la natura e contro la
vita non erano altro che una scusa di comodo,
per non fare i conti con la realtà, ma sostituire
a essa un feticcio fantasioso. Il capriccio eretto
a istanza; la malattia mentale divinizzata; il
desiderio di morte e di estinzione innalzato
alla dignità di un fatto religioso. Per un attimo
fui tentato di porre fine all’inutilità delle vite
presenti, a colpi di pistola, sennonché ero solo
e loro moltissimi, e avrei avuto la peggio, anche
se avessi dovuto aprirmi la strada fra una siepe
di corpi inabili alla lotta. Inoltre, mi dissi, se
quei folli aspiravano a suicidare la propria stir-
pe, che facessero pure senza il mio contributo.
Ma mi dispiacque enormemente per il na-
scituro, che ignorava beatamente la follia del
mondo circostante e attendeva solo di vedere,
dopo lunghissima attesa, la bellezza della luce.
Di lì a poco sarebbe invece stato fatto a pezzi
a colpi di forcipe e di stranissimi strumenti di
tortura.
Distolsi lo sguardo e uscii all’aria aperta, se-
guito a ruota dal povero Bongani, tentando di
scacciare dalla mente l’orrore e l’angoscia. Mi
tremavano le mani e, per un tempo infinito, a
nulla valsero il canto melodioso degli uccelli,
i profumi degli alberi da frutto, il gorgoglio
rasserenante del ruscello e la solitudine priva
di chiasso umano: l’empietà di ciò a cui avevo
avuto il “privilegio” di assistere restò conficcata
con artigli di ferro dentro la mia anima.
Il pensiero volò istantaneamente a mia ma-
dre e a mio padre; a quanto fossero dolci e
consolanti i legami familiari; a quanto fosse de-
siderabile il vincolo che obbligava un genitore
a occuparsi, proteggere ed educare i bambini,
benché pesante, irto di difficoltà.
Se non avessi dovuto condurre a termine la
missione esplorativa, per conto del professor
Chameney, avrei fatto i bagagli così, sui due
piedi, allontanandomi da quel luogo maledetto
con la stessa solerzia con cui mi sarei allonta-
nato da un letamaio coperto di mosche.
«Eccovi qui!» esclamò una voce, alle mie
spalle. Riconobbi il timbro flautato di Dimwit,
ed emisi un sospiro infastidito. «Come mai ti
sei allontanato? Non era uno spettacolo gran-
dioso quello di una donna libera, nell’esercizio
della massima libertà concessa a una donna,
cioè di non procreare, di ribellarsi al destino
che il corpo le impone? A mio avviso è una
cosa bellissima.»
Non finsi nemmeno di sorridere. «Non esiste
schiavo peggiore di chi, tra le catene, crede di
essere libero» replicai, in tono vuoto.
«Sei enigmatico, straniero» sorrise Dimwit.
«Mi chiedo come si possa chiamare “schiavitù”
la possibilità di agire liberamente.»
«Per agire liberamente, come tu dici, biso-
gnerebbe che un essere umano potesse sceglie-
re fra differenti opzioni. Il che è impossibile in
un mondo che odia le differenze e che vuole
tutti uguali, con abiti della stessa foggia, accon-
ciature dello stesso tipo, nomi che non sono né
maschili né femminili.»
Dimwit rise. «Ma il nostro sistema è proprio
contro l’ordine deciso dalla naura. Noi siamo
esseri pensanti. Siamo, anzi, pensiero momen-
taneamente imprigionato nel giogo di un cor-
po. E il pensiero non ha sesso, non necessita di
divisioni gerarchiche, di soprusi nei confronti
dei propri simili e di altri animali. Noi vogliamo
sradicare da noi stessi la tirannide del corpo
e avvicinarci il più possibile alla libertà del-
la nostra essenza. Puoi credere che questo sia
male, straniero?»
«Mi sembrano solo degli stupidi pregiudizi»
confessai, con sarcasmo. «Il mondo è quel che
è, e l’unico modo sensato per affrontarlo è farci
i conti. Annullarlo non è tra le opzioni. Solo
un bambino ritardato potrebbe immaginare che
basti chiudere gli occhi affinché il mostro che
lo spaventa sparisca.»
Dimwit sgranò gli occhi, turbato, forse scan-
dalizzato. «Non è così.»
Tuttavia non cercò di offrirmi alcuna spiega-
zione ulteriore. Della qual cosa ringraziai Dio,
giacché gli argomenti degli isisu mi provoca-
vano l’orticaria.
«Hai altre “meraviglie” da mostrarmi?» do-
mandai, in tono duro e sprezzante.
«Ne avrei. E tante» rispose Dimwit, imbron-
ciato. «Ma dubito che un barbaro come te le
apprezzerebbe nella giusta luce. Te lo confesso:
tu non mi piaci, straniero. Mi ricordi la bruttez-
za e la violenza del mondo, prima che i nostri
avi facessero la Rivoluzione dell’Iride.»
Scoppiai a ridere. «Ne sono lieto. Sarebbe
bene se qualcuno vi ricordasse perennemente
la realtà. Almeno non vi sentireste giustificati
nel commettere empietà di ogni sorta, di fronte
alle vostre coscienze atrofizzate, e a spacciare
tali empietà per “libertà”.»
«Vedo bene che è inutile dialogare con te,
Calasperio» sospirò Dimwit.
Quindi mi fece cenno di seguirlo e io, an-
sioso com’ero di terminare la mia visita e di
andarmene, non mi feci pregare. Attraversam-
mo una grande piazza quadrata, circondata da
portici e gremita di folle anonime, vestite tutte
uguali. La gente si aggirava, con volti inespres-
sivi, attorno alle mercanzie esposte dai nego-
zianti — solo merce autorizzata dal consiglio
cittadino; nulla che tradisse l’origine o l’impor-
tazione dai paesi confinanti —; esibivano una
tessera di silice rettangolare, sulla quale era
stato impresso il sigillo del consiglio; il mer-
cante incideva il proprio segno sulla tessera;
e l’acquirente se ne andava via con ciò che
aveva acquistato. Dimwit mi spiegò che quei
rettangoli di silice si chiamavano yephepha ed
erano il loro denaro: venivano erogati dal con-
siglio, al bisogno, in una quantità differente, a
seconda dei beni immobili del richiedente; ogni
volta che avveniva una transazione, il mercante
apponeva il proprio timbro. Allorché la tessera
era completa, essa veniva riportata al consiglio,
il quale provvedeva a quantificare il debito ac-
cumulato dal singolo nei confronti dello stato e
a tradurlo in tasse — polli, bestiame, granaglie,
oro... —. In questo modo, nessuno poteva fare
il furbo e sottrarsi al pagamento delle tasse,
poiché la tassazione era in relazione alle spese
effettuate dal cittadino. Il sistema presentava
anche il vantaggio di annichilire la corruzione:
infatti non essendoci la possibilità di spendere
denaro o di barattare la merce o di falsificare
le tessere di credito, nessuno trovava conve-
niente rischiare la pena capitale — tale era la
punizione comminata per i reati di corruzione
o di evasione fiscale — nell’inutile tentativo di
arricchirsi.
«Non trovi che questo sia un modo stupendo
per gestire la cosa pubblica?» chiosò Dimwit,
con enfasi. «Così la moralità cittadina è assi-
curata.»
«Così la libertà di cui tanto vi vantate, voi
isisu, è del tutto vanificata» risposi, osservando
meglio i visi arcigni degli abitanti di Ukudide-
ka, i loro occhi vuoti, i loro visi ambigui e mai
sfiorati dall’ombra di un sorriso.
«Che cosa?» esclamò la mia guida, sobbal-
zando come se l’avessi schiaffeggiata. «Come
puoi dire una cosa simile? Invero, Calasperio,
tu ragioni in maniera incomprensibile.»
«Può darsi» ammisi, per celia, stringendomi
nelle spalle. «Ma la mia è solo una costatazione:
se imponi la moralità ai tuoi cittadini, significa
che nessuno possiede la libertà di decidere se
essere o meno “morale”. Se imponi la bontà,
tale bontà non ha più nulla di buono, giacché
non deriva da una presa di coscienza, interna;
ma da una coercizione. Esiste una sola liber-
tà che sia accessibile all’uomo: la libertà di
arbitrio. Togli quella e l’uomo sarà un servo
non solo della natura, ma anche della società
artificiale che ha creato.»
Dimwit rimase di stucco, per alcuni secondi;
il tempo che gli fu necessario a realizzare il
senso della mia risposta e a scatenare la sua
rabbia isterica, dovuta a un fanatismo del quale
non sembrava neppure consapevole.
Tuttavia non diedi modo alla sua idrofobia di
trovare sfogo: non avrei gradito lo spettacolo.
E cambiai argomento. «Perché nessuno ride, in
questa maledetta città? Forse è proibito?»
«No» rispose Dimwit, cupamente, «ma è
proibito scherzare sull’aspetto, sui difetti, sulla
maniera di muoversi degli altri cittadini.»
«Quindi è proibito ridere» insistetti.
«Non è la stessa cosa che ho detto» abbaiò
Dimwit, inalberandosi. «Ho detto che è proi-
bito prendersi gioco degli altri. Il riso onesto e
innocuo è permesso, anzi incoraggiato.»
«Il riso “onesto”, come lo chiami tu» ribattei,
«non esiste. Si ride sempre di qualcuno o di
qualcosa, poiché il riso è un’espressione del
giudizio e della libertà. A meno che, con l’ag-
gettivo “onesto” tu non intenda dire che l’unica
forma di umorismo concessa agli isisu è l’umo-
rismo delle filastrocche e dei giochi di parole
infantili. Ne consegue che, nella vostra città, si
incoraggia soltanto ciò che mantiene la gente
ben al di sotto della soglia della maturità e
dell’indipendenza. Devi ammettere che, dipinta
così, la vostra non è una società molto libera
né molto “buona”.»
Dimwit aprì la bocca, come se volesse con-
trobattere con energia alla mia insinuazione;
ma poi la richiuse di scatto e rinunciò ad am-
maestrarmi. I nostri ruoli si erano capovolti:
adesso egli non era più il buono che offre pa-
ternalistiche lezioni al povero peccatore, ma
solo un ipocrita senza coraggio, i cui argomenti
mostravano continue fratture di senso logico.
Ipotizzo che la cosa non gli piacesse poi molto.
Del resto non mi ero avventurato a contraddirlo
apertamente, nella speranza di convincerlo a
sposare il mio punto di vista. Desideravo piut-
tosto ridurlo al silenzio, smontarne la sicumera
ed evitarmi il fastidio di ulteriori lezioncine.
Esattamente la stessa reazione che un adul-
to avrebbe nei confronti di un bimbetto senza
alcuna esperienza del mondo ma convinto di
sapere tutto, anche di più di un uomo fatto. Gli
isisu vivevano di fantasie meschine, di storpia-
ture dell’esistenza; erano incapaci di adattarsi
alla vita, perché colmi fino all’orlo delle loro
anime di paure infantili; perciò negavano la
realtà che non comprendevano e che li atterri-
va, e le opponevano un muro cieco di idiozie,
modellate sulle loro paure e sui loro desideri
irrealistici. Come se i desideri e le paure degli
uomini avessero mai contato qualcosa, per la
natura e per l’ordine cosmico.
Il silenzio del mio efebico accompagnatore
si protrasse per il resto della visita guidata. Al
riparo dalle sue moleste proposizioni ebbi mo-
do di osservare, finalmente, meglio le cose che
avevo intorno e di interpretarle a mio talento.
Mi resi conto che l’architettura di quella
città era orrendamente semplice e squadrata,
come se gli edifici fossero stati costruiti con
giganteschi cubi di legno. Appariva funziona-
le, ma non attraente; non rimandava l’eco di
alcuna memoria storica, non raccontava nien-
te del passato, dell’evoluzione e del caratte-
re della patria. Ebbi quasi l’impressione che
chi l’aveva partorita volesse fare tabula rasa
di tutto ciò che l’aveva preceduta, annullare
nelle generazioni presenti finanche il più lieve
rapporto emotivo con i propri avi. Ne ricavai
un’impressione di instabilità, di angoscia, che
non avevo mai provato prima, per quanto a-
vessi girato il mondo e visitato culture diverse.
Odiavo la cultura isisu. La odiavo con tutto il
cuore e mi auguravo che si estinguesse e che
i suoi abitanti disumani sparissero, travolti da
un’onda anomala o inghiottiti da un rovinoso
terremoto. Non meritavano di vivere, perché
erano contrari alla vita. Intendo la vita vera,
fatta di imprevisti, di fallimenti, di legami, di
amore, dolcezza, senso di appartenenza... non
quel simulacro senza memoria, senza palpiti,
senza alcun sentimento degno di questo no-
me, oliato come una macchina perfetta e che
avrebbe, molto probabilmente, continuato a
funzionare anche senza i suoi perversi, effe-
minati cittadini.
Tutto, a Ukudideka, appariva semplice o, me-
glio, semplificato, adatto a cervelli sottosvilup-
pati; eppure folle e labirintico. Ogni valore vi
era rovesciato. Parole come “lealtà”, “famiglia”,
“padre”, “madre” avevano una connotazione
negativa, rappresentavano concetti tabù, forieri
di disgrazia, di violenza, di inferno in terra. Al-
tre parole, come “libertà” oppure “progresso”,
avevano subito uno slittamento di senso così
grave e cospicuo da non corrispondere più al
significato che il resto del mondo attribuiva
loro.
Vedevo intorno a me turbe di creature senza
sesso, simili a manichini, agitate da una libidi-
ne indecisa, schizofrenica, mosse da un’ansia
priva di nome ma perenne, trafitte da sensi di
colpa assurdi — per aver schiacciato un insetto
o dimenticato di portare a spasso il cane — e
del tutto impermeabili al dolore e alla morte
dei propri simili. Il rito del Tempo del Dio ne
era un esempio terribile e incontrovertibile.
Il regime di “bontà” forzata, imposto per leg-
ge, spingeva gli individui all’isteria religiosa, ma
anche all’incertezza morale, alla non-azione,
alla paura per il giudizio altrui e, naturalmente,
alla delazione. Tutti stavano male, ma nessuno
capiva perché. Se li avessi interrogati, essi mi
avrebbero risposto che loro erano felici, che
non potevano aspirare a vivere in una società
migliore di quella in cui vivevano. Avrebbero
detto che loro e solo loro erano davvero umani,
cioè dotati del senso di ciò che è bene.
All’improvviso pensai: “Voglio andarmene.
Non c’è nulla che io abbia la curiosità di im-
parare, in questo luogo di morti viventi”.
Fu la prima e ultima volta che pensai una
cosa del genere, in tutta la mia vita.
«Conducimi alle porte della città» dissi.
Dimwit mi guardò, con stupore fanciullesco.
«Per fare che?»
«Me ne vado» risposi, a denti stretti. «Ne ho
piene le tasche delle vostre follie.»
Lo stupore, sul viso androgino del mio ci-
cerone, aumentò. «Ah, straniero, ma questo è
impossibile. Nessuno può abbandonare le mura
di Ukudideka, una volta che vi entra.»
Questa volta lo stupore fu mio. «Che diavolo
intendi dire? Sono, forse, vostro prigioniero?»
«Prigioniero?» sorrise Dimwit, in maniera per
nulla rassicurante. «Che idea retrograda! Noi
non abbiamo prigioni. La legge impedisce di
usare violenza a chicchesia, specialmente ai fo-
restieri, i quali sono sempre benvenuti e ai qua-
li dedichiamo tutta la nostra cura amorevole.
Ma nessuno può andarsene, perché è illogico
che desideri abbandonare la città della liber-
tà, dell’umanità e dell’amore. Se lo desiderasse
sarebbe folle. E noi lo tratterremmo, allo scopo
di rieducare la sua anima alla giusta visione
del bene e del male. Di solito ci riusciamo, nel
giro di tre mesi; spesso anche prima. Abbiamo
metodi persuasivi. E, alla fine, nessuno si so-
gnerebbe di volersene andar via.»
Ero, dunque, intrappolato in un manicomio,
da cui non mi sarebbe stato permesso di usci-
re, vita natural-durante. Quanto ai metodi di
“rieducazione” degli isisu, credetemi: non avevo
alcuna voglia di scoprire in che cosa consistes-
sero.
«Bongani» dissi in inglese, alla mia guida
terrorizzata, «non ce la caveremo senza com-
battere. Dovremo far saltare la cervella a questi
demoni. Sei con me?»
«Sì, Calasperio, per tutti gli dèi!» rispose
prontamente lo zulu.
«Allora tieniti pronto al mio segnale e corri
come se avessi un leone alle calcagna.» Quindi
dissi a Bongani di trasmettere a Dimiwit la
richiesta di vedere le porte della città.
Egli acconsentì, ma non senza avvisare, con
un segnale, alcune guardie cittadine, affinché
ci scortassero.
“Lance e scudi di cuoio?” pensai. “Che Dio
mi perdoni, al minimo cenno farò loro assag-
giare il piombo della mia pistola e della mia
carabina.”
Le guardie cittadine si distinguevano dal
resto della popolazione unicamente perché in-
dossavano abiti di colore nero e impugnavano
le armi rudimentali che tutti i popoli selvaggi
conoscono. Per il resto, assomigliavano in tutto
e per tutto agli altri isisu: erano gracili, effemi-
nati, apparivano incerti di fronte alla possibilità
di farsi male. Dalla loro avevano il solo van-
taggio del numero; ma neppure tre dozzine di
quei debosciati avrebbero potuto fermare due
uomini robusti e avvezzi alla guerra come me
e il mio interprete zulu.
Dimwit ci scortò fino alla porta della cit-
tà, sorridendo con condiscendenza. «Ecco la
porta, Calasperio. Ammirala a tuo gusto. La
rivedrai solo una volta che avremo corretto il
tuo punto di vista sul nostro stile di vita e sulle
nostre libertà. Prendetelo, orsù, guardie di U-
kudedeka, e portiamolo, insieme al suo amico
zulu, di fronte al consiglio.»
Una guardia — femmina? maschio? avrei do-
vuto avere il tempo per guardare sotto il suo
camicione, per appurarlo, e non mi sembrava
il caso — allungò una mano affusolata, dalle
unghie curate e laccate di rosso, piena di bi-
giotteria della peggior specie, e io risposi con
un diretto in pieno volto. Dal naso fratturato
zampillò una cascata di sangue e la guardia,
squittendo, si afflosciò tra i suoi compagni or-
ripilati.
Lo stupore fu sostituito, quasi immediata-
mente, da una furia isterica; ma io cercai di
mantenere alto il loro stato stuporoso, estra-
endo la pistola e sparando verso l’alto.
Gli isisu, nel loro isolamento, non conosceva-
no le armi da fuoco e il lampo e il tuono dello
sparo li atterrì, facendoli arretrare e ruzzolare
gli uni sugli altri.
«Scappa, Bongani!» urlai, approfittando della
momentanea paralisi di quel popolo osceno e
crudele, che pensava di essere il popolo più
buono e umano del mondo.
Lo zulu non se lo fece ripetere. Scattò in
avanti, gettando per terra con una spinta tre
isisu e rovesciando dei canestri di vimini, con
tutto il suo contenuto.
La reazione isisu fu timida: fummo sfiorati
da alcuni tiri di lancia, tutti a vuoto. Dopodi-
ché, dinanzi ai nostri piedi, si aprì lo spazio
dei campi e della vegetazione. Superammo una
collina verdeggiante, spaventando galli cedro-
ni e piccole scimmie, e tornammo sulla pista
battuta dal resto del gruppo, più disgustati che
atterriti.
Il professor Chameney se l’era presa comoda,
forse invidioso per le scoperte che mi sarebbero
toccate e indeciso se deviare la spedizione in
direzione di Ukudedeka. Per fortuna quel ba-
stardo inglese aveva la testa sulle spalle e aveva
proseguito per la sua strada, anziché mettersi
a gareggiare con il sottoscritto al gioco dell’e-
sploratore. Così, ora, eravamo oltre i confini
degli isisu, dove essi non mettevano piede da
oltre tre secoli e dove non avrebbero mai avuto
il coraggio di seguirci.
Io e Bongani avevamo il fiato grosso e un’e-
spressione stralunata e non rispondemmo
all’accoglienza festosa dei nostri compagni.
«Calasperio» mi chiese il professor Chame-
ney, mentre mi tergevo il sudore dalla fronte,
«come mai siete tornati così presto? Avete sco-
perto cose interessanti? Su, perdio, parlate!»
«Non ora» risposi.
«Come sarebbe?» protestò Chameney, impor-
porandosi. «Parlate! Diteci qualcosa, è vostro
dovere...»
«Non ora» ripetei, forse in tono troppo duro;
ma la durezza ottenne ciò che volevo, cioè di
poter evitare, almeno per un po’, di riportare
gli orrori e le follie a cui avevo assistito.
Bongani sembrava condividere il mio stato
d’animo e tagliò corto, con le insistenze dei
suoi compagni zulu.
Quanto a Haillesellasié: egli mi conosceva e
rispettò il mio bisogno di silenzio. Anzi, si di-
mostrò un amico di sentimenti delicati, giacché
si limitò a sorridere, a caricarmi ad arte la pipa
e a offrirmi la fiamma d’uno zolfanello.
Quindi rimasi solo, chiuso nei miei pensieri,
cercando di mettere ordine nel caos che gli
isisu vi avevano creato. Soltanto verso mez-
zanotte, dopo una cena frugale e una bevuta
abbondante fui pronto a soddisfare la curiosità
scientifica del professor Chameney. La rela-
zione che gli feci su quanto avevo appreso, tra
il rosso del falò e il blu della notte di luna,
lo interessò moltissimo, ma lo disgustò, uma-
namente parlando. Una volta saputo ciò che
voleva sapere, si chiuse a sua volta in un cupo
e meditabondo silenzio e, in seguito, non fece
mai più cenno alla questione.
A chiusura del nostro colloquio disse soltan-
to: «Dio non permetta mai che la nostra cultura
imbocchi una strada del genere. Meglio, per
essa, estinguersi, che impazzire».

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