”
(specialmente Aristotele) e la filosofia
derabile della mente (specialmente la filosofia
della percezione). Fra le sue pubblica-
zioni: Essere linguaggio discorso. Aristo-
tele filosofo dell’ordinario, Mimesis, Mi-
lano-Udine 2006; Esperienza e contenu-
to, Mimesis, Milano-Udine 2012.
ISSN 2282-2399
ISBN 978-88-372-2926-9
€ 32,00
15
MORCELLIANA
www.morcelliana.com
ISBN 978-88-372-2926-9
LegoDigit srl - Via Galileo Galilei 15/1 - 38015 Lavis (TN)
introduzione
dettagliata e aggiornata agli studi critici recenti, dei temi della psicolo-
gia aristotelica. Tuttavia, è bene premettere che non si tratta affatto di
un’esposizione asettica e neutra dal punto di vista interpretativo: pur
non presentando una interpretazione originale unitaria e nuova della
psicologia aristotelica nel suo complesso, opto e argomento via via in
favore di determinate interpretazioni in merito a temi e a passi speci-
fici, nell’auspicio che le idee di fondo che sorreggono la mia lettura
emergano in modo bottom-up, a partire dall’analisi dettagliata delle
maglie teoriche e testuali dell’opera, piuttosto che imporsi sulla lettura,
per così dire, dall’alto, orientandola.
Auspico che questo lavoro possa giovare a diverse tipologie di let-
tori: lo studioso di Aristotele potrà apprezzare (e/o criticare) i molte-
plici spunti interpretativi disseminati lungo tutta l’esposizione, nonché
la lettura d’insieme; lo studente avanzato che sia seriamente interes-
sato alla psicologia aristotelica potrà usare il testo come un punto di
partenza o una sorta di guida, per poi calarsi entro i vari aspetti del
dibattito, o eleggerne e studiarne degli aspetti specifici; il lettore non
specialista che sia curioso e attratto da un paradigma così autorevole
della psicologia antica potrà, armatosi di molta pazienza, apprezzare
nel dettaglio la ricchezza di questo modello teorico; chi avesse interes-
si nel campo della filosofia contemporanea della mente, se dispone di
volontà e della dovuta flessibilità mentale per storicizzare le sue stesse
categorie concettuali, avrà modo di sentir risuonare, mutatis mutandis,
temi e problemi del dibattito contemporaneo, e magari anche di coglie-
re possibilità inedite e percorsi teorici non battuti, di solito, da approcci
segnatamente non storici. Aristotele, con buona pace della cosiddetta
incommensurabilità dei contesti, ha molto da dirci sul mind-body prob-
lem, sulla vita e le funzioni biologiche, sulla percezione, sul pensiero,
sull’emozione, sulla teoria dell’azione, e così via: tuttavia, questo lavo-
ro non si occupa delle eventuali relazioni della teoria aristotelica con i
rispettivi dibattiti contemporanei, anche se credo che articolare queste
relazioni possa essere cosa proficua sia dal punto di vista “retroattivo”
di una comprensione di certe tesi aristoteliche, sia dal punto di vista
di un contributo allo stesso dibattito contemporaneo: sotto il profilo
storico e sotto quello teorico.
La vocazione anche “didattica” di questo studio – il voler essere una
presentazione approfondita ma eventualmente fruibile anche da lettori
che non siano studiosi di Aristotele – mi ha portato a premettere al-
l’esposizione propriamente psicologica, un intero capitolo (Capitolo i)
Introduzione 9
1
Cfr. Cap. v.6, nota 208.
Introduzione 11
5
Cfr. per esempio JS 1, 467b13-16; Cfr. anche MA 10, 703a28.
6
Non è, questo, un mio rilievo originale, ma è stato addotto da vari studiosi contro l’argomento
di Nuyens: per esempio, Block 1961; Hardie 1964; Morel 2007, Parte ii, Cap. i; Quarantotto 2009.
7
Cfr. DS 1, 436a7-8; SV 1, 453a11-13.
8
Così Everson 1997, p. 234.
16 Introduzione
Anche Ross 1955, p. 16, come Nuyens considera buona parte dei PN come appartenenti a
10
natura
1. La natura
1
Cfr. Phys. ii 1, 192b13-14.
2
Cfr. Met. v 4, 1014b18-20.
3
Cfr. Met. vii 7, 1032a22-25: «ciò da cui le cose si generano è natura, e ciò secondo cui le
cose si generano, è natura (infatti, ciò che si genera ha una natura, come la natura di pianta o
animale. Inoltre, ciò ad opera di cui le cose si generano è natura, nel senso di forma, della stessa
specie rispetto al generato: un uomo, infatti, genera un uomo».
4
Cfr. Phys. ii 1, 192b33-34.
5
Cfr. Phys. ii 5, 196b10-11; ii 8, 198b35-36.
6
«La natura è per ogni cosa causa di ordine» (Phys. viii 1, 252a12).
20 Capitolo primo
Non tutte le cose che ci circondano, tuttavia, hanno una natura im-
manente, cioè un principio interno di mutamento: un letto di legno, per
esempio, in quanto è un letto, non ha alcun principio immanente di mu-
tamento7; i poteri causali del letto sono determinati dai poteri causali del
legno di cui è fatto, pertanto è in quanto legno, e non in quanto letto, che
il letto ha certi modi di mutare: per esempio, è soggetto a logorarsi in
un certo modo, a gonfiarsi se raggiunto dall’acqua, a essere levigabile o
segabile. Il letto è un artefatto, e la sua generazione non è dovuta a natu-
ra, bensì alla tecnica applicata da un artefice che ha deciso di costruirlo,
sulla base di una previa rappresentazione mentale di esso8, un “proget-
to” che prevede una configurazione e una struttura tali da soddisfare i
bisogni di un eventuale utente: un letto ha la funzione, assegnatagli in
un senso dall’artefice e in un senso dall’utente, di consentire il riposo, di
sostenere un corpo sdraiato. Il letto può assolvere a tale funzione grazie
a certi poteri causali naturali della materia di cui è fatto: il reggere un
corpo umano, il poter essere configurato e strutturato in un certo modo
che lo renda atto a sdraiarcisi sopra, dipende dai poteri naturali del le-
gno; nessun artefice, infatti, sarebbe in grado di produrre un letto con
aria, con acqua, o con un materiale non sufficientemente duro, resisten-
te e modellabile quale è il legno per sua natura intrinseca. Dunque, è il
legno di cui è fatto il letto, che ha in sé il principio del proprio mutamen-
to, non il letto in quanto tale, e per questo dapprincipio si è detto che la
filosofia naturale ha come oggetto quegli enti divenienti che in quanto
sono ciò che sono hanno in sé il principio del proprio mutamento: per-
ché un artefatto come un letto ha un principio di mutamento in sé non in
quanto è tale, bensì in quanto è di legno9. Cosicché il legno – compreso
il nostro letto in quanto è legno – cadrà entro l’estensione delle cose da
natura, invece il letto, compreso il nostro pezzo di legno in quanto è un
letto, cadrà entro l’estensione delle cose che sono dovute a tecnica10.
7
Cfr. Phys. ii 1, 192b16-23.
8
La forma o essenza dell’artefatto, sono anzitutto nell’anima dell’artefice, e lo guidano nella
sua produzione (cfr. Met. Z 7, 1031a35-1032b1; 1032b23)
9
Cfr. Phys. ii 1, 192b22-23: la natura è «principio e causa del mutare e dello stare in quiete
di ciò cui essa appartiene primariamente, per sé e non accidentalmente»; un pezzo di legno ha una
natura in quanto tale, non in quanto è un letto, cioè per sé e non per accidente: la sua natura è ciò
che gli appartiene per sé e in modo primario, mentre l’avere la forma di letto è proprietà che gli
appartiene in modo secondario e derivato, è insomma un accidente di quel legno come legno. In
quanto è un letto, invece, qualcosa non ha alcuna tendenza innata (oJrmh; e[mfuto~) al mutamento
(192b18-19).
10
Oltre alle cose che si generano per natura e alle cose che si generano per tecnica, vi sono
quelle che si generano per caso (cfr. Met. Z 7, 1032a11-12; Phys. ii 4-6).
Natura 21
esempio, si parla del guarire come di un processo che può partire dal soggetto in quando muo-
ventesi a partire da sé: evidentemente, la guarigione di un corpo vivente non ha a che fare con la
locomozione, e può ben riguardare anche un vegetale, o un animale immobile.
14
Ci sono anche animali stazionari, quali testacei, mittili, spugne di mare, anemoni e simili
(cfr. DA iii 9, 432b19-21; HA vii (viii) 1, 588b11-18; GA i 1, 715b18-19).
15
Cfr. DS 1, 436b20-437a1; DA iii 12, 434b22-27.
16
Ovverosia, in quanto sono certe specie viventi: un albero, un cane, una certa pianta, e così via.
17
Cfr. Phys. ii 1, 193b9-10: «un uomo si genera da un uomo, non un letto da un letto».
Natura 23
2. Il divenire
Nel primo libro della Fisica Aristotele indaga la struttura del dive-
nire e ne individua i principi: tali principi non sono semplicemente dei
concetti esplicativi, sono piuttosto aspetti reali la cui enucleazione ci
consente di concettualizzare il divenire secondo la sua struttura logico-
ontologica basilare: una volta compresi tali principi e le loro relazioni,
si può capire che il mutamento non è logicamente problematico, e si è
in grado di ricondurre qualunque esempio di mutamento a quest’uni-
ca struttura. Ogni mutamento coinvolge l’acquisizione di una forma da
parte di un sostrato che ne era privo, ogni mutamento coinvolge dunque
una forma, un sostrato, e la privazione di quella forma: la privazione di
una forma è anche capacità, da parte di un sostrato, di acquisire quella
forma, capacità che il sostrato ha in quanto è materia o ha una materia18.
Analizziamo ora questi principi. Anzitutto, il divenire è un passag-
gio da uno stato a un altro, dunque comporta una differenza fra comin-
ciamento e risultato: se il terminus a quo e il terminus ad quem non
fossero diversi, non vi sarebbe punto divenire. Inoltre, tale differenza
non è una differenza indeterminata, bensì è o implica una relazione di
contrarietà: qualcosa diventa nero da bianco che era, non da un qua-
lunque non-nero, per esempio non da musico, o da grande, o altre pro-
prietà che non siano colori: non sono queste ultime, le proprietà che
qualcosa perde col diventare nero19. Quando non si tratti di passaggio
da un contrario all’altro, si tratta comunque di un passaggio interno
a un certo genere, individuato da due contrari, magari da uno stato
intermedio a un altro stato intermedio di quel genere di proprietà: per
esempio, da piccolo a grande, o dall’essere un po’ piccolo all’essere un
po’ più grande, e così via20. Resta fermo che, data la differenza, almeno
due principi sono coinvolti: la forma acquisita, e la sua privazione che
è uno stato contrario alla forma, o comunque uno stato diverso dalla
forma entro il medesimo genere di proprietà, genere che è individuato
da due contrari o estremi21.
Tuttavia, i due contrari consistenti nella forma e nello stato priva-
tivo di essa, non agiscono l’uno sull’altro: non si dà un passaggio dal
18
Cfr. Phys. i 7.
19
Cfr. Phys. i 5, 188a35-b3.
20
Per esempio, piccolo/grande sono contrari che individuano il genere [grandezza], bian-
co/nero il genere [colore], e così via. Il mutamento è sempre secondo proprietà cadenti entro lo
stesso genere. Cfr. GC i 7.
21
Phys. i 6 argomenta che per ogni genere vi possono essere solo due contrari.
24 Capitolo primo
È introdotto in Phys. i 6.
22
Si consideri che il verbo givgnesqai significa sia “generarsi” che “diventare (qualcosa)”,
24
come osserva lo stesso Aristotele (Phys. i 7, 190a32-35): secondo il primo uso, assoluto, è un
Natura 25
predicato a un posto: “X viene a essere”; secondo il secondo uso, è un predicato a due posti:
“X diventa Y ”. Il linguaggio talvolta disvela delle differenze ontologiche rilevanti, talaltra le può
occultare: perciò va ascoltato e analizzato in maniera critica e “pensante”.
25
Cfr. Phys. i 7, 189b32-190a13.
26
Met. vii 8 chiarisce come né la forma né la materia si producano, bensì solo il composto,
e la sua produzione consiste non nel prodursi, per esempio, della sfericità o del bronzo, ma nel
26 Capitolo primo
29
Un cadavere, infatti, è un uomo solo “per omonimia” (cfr. PA i 1, 640b34-641a5), cioè può
esser chiamato “uomo”, ma non ne condivide più la forma-essenza. In particolare, un uomo è un
animale, e un animale è un vivente: dunque un non vivente non può essere un uomo.
30
Cfr. GC i 4, 319b32-320a3: «Il mutamento da contrario a contrario nella quantità è diminu-
zione, nel luogo è la locomozione, nella qualità è l’alterazione, se nulla persiste di ciò che pree-
sisteva tranne la materia, è generazione o corruzione». Generazione/corruzione è il quarto tipo di
cambiamento (metabolhv: sicché la metabolhv può esser vista come un genere che ha due specie:
generazione/corruzione, e mutamento (kivnhsi~); la kivnhsi~ a sua volta ha tre tipi: alterazione
(qualità), diminuzione/accrescimento (quantità), traslazione (luogo). Cfr. Phys. viii 7, 260a27-29.
31
In effetti, i materialisti riduttivi negano che esistano nature che non siano gli elementi di
base, e, in forza della presunta inconcepibilità della generazione, intendono tutte le forme come
qualità della materia eterna. Cfr. infra.
28 Capitolo primo
Sia gli enti naturali che gli enti artificiali, sono dei composti o “si-
noli” di materia e forma, e mutano in quanto sono costituiti di una
certa materia34. Nel caso della generazione, è questa stessa materia a
soggiacere al mutamento generativo come suo soggetto permanente, e
il generarsi della sostanza, per esempio di un uomo, è un processo in
cui la forma-essenza [uomo] viene realizzata in una certa materia, che
prima ne era priva35.
32
La forma di X è la sua essenza: dunque, “forma” può significare semplicemente “proprietà”
([caldo], [colto], [nero] ecc.), o essenza della cosa che ha proprietà: se si vuole, l’essenza è una
super-proprietà, una proprietà che identifica e individua l’oggetto di cui è forma, e che è necessa-
ria ed essenziale a esso. Nella generazione, qualcosa (la materia) acquisisce una forma-essenza,
non una semplice proprietà, acquisibile solo da qualcosa che ha già una forma-essenza.
33
In realtà il seme è detto essere la causa motrice (cfr. Met. viii 4, 1044a32-36): il seme vei-
cola la forma nel mestruo, dunque la materia è il mestruo, la forma è quella dell’uomo, trasmessa
dal seme, e la causa motrice sarebbe il seme. Ma il seme è da considerarsi una causa motrice
intermedia, poiché è il portatore del seme, l’uomo, a essere propriamente la causa motrice della
generazione (oltre a essere la causa formale in quanto è un esempio di uomo).
34
Le cose senza materia, nel mondo sopralunare, non mutano proprio in quanto non hanno
materia (cfr. DC i 9).
35
La distinzione fra generazione/corruzione e alterazione non è arbitraria o convenzionale: in
GC i 4, 319b21-31 il “test” per distinguere fra i due mutamenti è il seguente: quando un’affezione
Natura 29
(pavqo~) in ciò che è venuto meno rimane in ciò che viene a essere, come il freddo e il trasparente
nell’aria che diventa acqua, se la cosa che sopraggiunge è un’affezione di ciò (ad esempio, del
freddo e del trasparente) si tratterà di alterazione, altrimenti si tratterà di generazione/corruzione.
Per Aristotele l’aria si genera dall’acqua e viceversa: sarebbe un’alterazione se il permanente aves-
se gli aspetti non permanenti come sue proprietà, cioè se il freddo/trasparente avesse l’“acqueo”
o l’“aereo” come sue proprietà: ma non è il freddo/trasparente che perde l’“acqueo” e acquisisce
l’“aereo”, nel passaggio dall’acqua all’aria (almeno secondo la teoria aristotelica dei quattro ele-
menti e delle loro trasformazioni). Poniamo che un uomo ignorante di musica smetta di esistere,
e venga a esistere un uomo ignorante di musica, e l’uomo permanga (si tratta ex hypothesi dello
stesso uomo): se l’esser musico o l’ignoranza della musica non fossero affezioni dell’uomo, allora
questa sarebbe una generazione/corruzione. Nelle alterazioni, il terminus ad quem è parassitario o
secondario rispetto al permanente; nelle generazioni il terminus ad quem è una nuova entità, con
una nuova essenza, non già l’attributo di un’entità già esistente e già dotata della propria essenza.
36
A volte la forma-shape può coincidere con la forma-essenza, come nel caso di un triangolo
o di un’altra figura geometrica, ma di solito non è il caso. Nelle cose da natura e negli artefatti, è
la funzione a determinare l’essenza o il “che-cos’è” di qualcosa. Che poi la forma fisica (shape)
abbia una rilevanza causale nello svolgimento di certe funzioni, è indubbio: ma in questo senso,
la forma-shape cade sotto la “materia” dell’artefatto o dell’ente biologico, che sono insiemi di
funzioni realizzate in una certa materia, e la materia deve essere fatta in un certo modo (ad esem-
pio, avere una forma così-e-così) per realizzare la funzione. La forma-shape è dunque aspetto
materiale, la forma-essenza aspetto funzionale.
30 Capitolo primo
41
Alla fine di Phys. iii 3 la definizione precedente (iii 1) è arricchita dal riferimento all’agen-
te, dopo che si è mostrato come sia possibile che uno stesso processo – stesso in senso numerico
ma non formale – possa essere a un tempo atto di un agente in quanto agente e atto di un paziente
in quanto paziente: e il mutamento è caratterizzato «in modo ancora più chiaro» come «attualità
dell’agente e del paziente in quanto tali» (Phys. iii 3, 202b27-28).
42
Dunque la differenza fra identità numerica e identità normale non si dà solo per le sostanze,
ma anche per i processi: lo stesso processo di mutamento può esemplificare, a un tempo, due
“forme”: l’atto di un agente e quello di un paziente.
43
Cfr. Phys. iii 3, 202b7-23.
32 Capitolo primo
44
Cfr. Phys. iii 1, 200b32-201a3.
45
Cfr. Cat. 4, 1b25-2a10.
46
Cfr. Phys. v 1, 225b6-9; GC i 4, 319b32-320a3.
47
Phys. iv 11, 219b2-3; 220a24-25. Per una profonda indagine sul tempo in Aristotele, cfr.
Ruggiu 1970.
48
Il tempo è il movimento stesso in quanto è numerabile; un certo movimento è limitabile
secondo due “ora”, l’uno anteriore e l’altro posteriore, come suoi limiti, e quel movimento consi-
derato come intervallo limitabile da due “ora”, è (il suo) tempo. Non è questa la sede per discutere
la complessissima teoria aristotelica del tempo (cfr. Phys. iv 10-14), qui preme solo sottolineare
che le cose non mutano secondo il loro “quando” giacché il “quando”, in quanto tempo, è la di-
mensione di ogni mutamento (sostanziale o secondo qualità, o quantità, o luogo).
49
Phys. v 1, 225b11-14.
Natura 33
50
Un determinato agire di A su B, è “numericamente” identico a un determinato patire di B
da A: il tuo darmi un calcio è il mio ricevere quel calcio da te, anche se tale processo è “for-
malmente” duplice, essendo un calciare e un ricevere un calcio. Lo stesso processo individuale
esemplifica due tipi di attività, pur coimplicantisi. È un token di due types.
51
Già nelle Categorie si pone la sostanza come «capace di ricevere i contrari» (Cat. 5, 4a16-17)
«mutando se stessa» (Cat. 5, 4a30). La sostanza, come sostrato di divenire, resta sé pur mutando:
perde e acquisisce proprietà.
34 Capitolo primo
3. Le cause
Il mondo naturale ospita sostanze e proprietà, stati di cose e processi,
eventi. Gli stati di cose52 sono relazioni fra sostanze e loro proprietà (a
è F), i processi sono mutamenti che concernono relazioni fra sostanze
in rapporto a certe loro proprietà (a fa diventare F un b), gli eventi sono
processi istantanei, o processi colti nella loro puntualità53.
Si può voler “spiegare” una sostanza, chiedendosi: cosa è a? Si può
voler spiegare uno stato di cose, chiedendosi: perché a è F? Si può vo-
ler spiegare un processo o un evento, chiedendosi: perché a da non-F
diventa F? Nel caso non siano già dati – per esperienza o per indagini
precedenti – la sostanza o lo stato di cose da spiegare, ci si chiederà
previamente se a esiste, e se a è F54. Ma la filosofia della natura muo-
ve dall’esperienza originaria delle cose e del loro mutare55, dunque le
domande più rilevanti sono le prime. Rispondere a queste domande si-
gnifica reperire delle cause per sostanze, stati di cose o eventi/processi.
“Causa” è una nozione che si dice in molti modi56, e questi modi
sono riconducibili a quattro: causa di qualcosa è la sua materia; il fine
o “ciò in vista di cui” qualcosa è o diviene; la forma in quanto il “che
cos’è”; oppure il motore, “ciò a partire da cui” qualcosa si genera o
muta57. Perlopiù58 un fenomeno naturale, sia esso una sostanza, uno
52
Ciò che Aristotele chiama pravgmata. Per esempio, «i discorsi sono veri in modo simile a
come lo sono i pravgmata» (De int. 9, 19a33), ove i discorsi sono enunciati, e gli enunciati sono
sintesi di soggetto e predicato: dunque i pravgmata sono stati di cose o fatti, ciò che può essere
tipicamente rappresentato da una proposizione.
53
Si ritiene in genere che l’ontologia aristotelica non conceda uno status autonomo agli even-
ti (cfr. Annas 1982, p. 313; Moravcsic 1991, p. 46; Natali 1996, p. 35). Comunque agire e patire
sono due categorie, dunque se non gli eventi, almeno i processi, pur essendo sempre riportati a
sostanze, fanno parte del basilare arredamento ontologico del mondo, espresso dalle categorie.
E volte i processi sono discontinui, si danno ex abrupto, dunque contemplano degli eventi. Per
esempio, per Aristotele, così è il congelamento (Phys. viii 3, 253b26). In AP ii 7-10 si eleggono
ad esempio il tuono e l’eclissi – due eventi – per illustrare come procede la ricerca dell’essenza e
della causa dei fenomeni naturali. Così come è un evento la celebre battaglia navale che serve per
discutere il problema dei futuri contingenti in De int. 9.
54
In AP ii 1, 89b21-25 si distinguono le prime due domande causali (cosa è a, perché a è F)
dalle due domande sul “che” (se a è, se a è F).
55
Che le cose naturali mutino, è «evidente per induzione» (Phys. i 2, 185a14).
56
Ove l’esser «detto in molti modi» (pollacw`~ legovmenon) non è fatto meramente lingui-
stico, ma indica l’avere, di qualcosa che pure è concettualmente unitario, aspetti reali diversi e
reciprocamente irriducibili.
57
Cfr. Phys. ii 3, 194b24-195a3; Met. i 3, 983a26-35; v 2, 1013a24-b3; PA i 1, 642a13-24;
ii 1, 647b20-24; SV 2, 455b14-16; GA i 1, 715a1-14; AP ii 11, 94b20-24.
58
Ci sono fenomeni naturali, regolari e perfettamente spiegabili da un punto di vista scien-
tifico, che non hanno causa finale: per esempio le eclissi (cfr. Met. viii 4, 1044b12); così come
Natura 35
65
Se il desiderio di tenersi sani rientra nelle cause motrici del passeggiare (desiderio che ha
come cause motrici intermedie il desiderio di dimagrire e lo stesso desiderio di passeggiare), il
contenuto di tale desiderio, il [tenersi sani], cioè la circostanza di cui il desiderio è desiderio, è
causa finale. Anche se le cause finali sono “operative” nel raggiungimento del fine solo attraverso
una catena di cause efficienti che producono il fine, tuttavia la causa finale resta la ragione ultima
che spiega lo stesso darsi della catena di cause efficienti che procura il fine.
66
Nota Aristotele (Phys. ii 3, 195a10-15) che se X con la sua presenza causa Y, allora con la
sua assenza causa l’assenza di Y: qui c’è l’idea che la causa deve “fare la differenza”, per essere
tale. Inoltre, vi è una intuizione della natura controfattuale della causazione, per cui se A causa B,
non deve essere vero solo che A → B, ma anche che, perlomeno ceteris paribus, -A → -B. Se B
si desse anche se non si desse A, allora non è A, che causa B, bensì altro.
67
Cfr. Phys. ii 3, 195a8-10.
68
Cfr. Phys. ii 3, 195a24-26.
38 Capitolo primo
69
Cfr. GA i 1, 715a3-6; Met. viii 4, 1044a36-b1.
70
La natura è analoga a un medico che cura se stesso (Phys. ii 8, 199a30-32), e le parti
corporee del vivente sono strumentali al vivente come un tutto (cfr. PA i 1, 642a12-13; Pol. i 2,
1253a25).
71
Cfr. Phys. ii 8,199a28-29; DA ii 1, 412b1-4.
72
Cfr. Phys. ii 8, 198b24-26.
73
Cfr. PA ii 17, 669a14-b2.
74
In generale, Aristotele correla le specifiche fattezze dei viventi alle specificità del loro am-
biente: per esempio, il cammello ha lingua carnosa e vari stomaci perché il nutrimento reperibile
nel deserto è legnoso e spinoso (PA iii 14, 674a29-b5), gli uccelli marini hanno un grande esofago
e uno stomaco umido, poiché il loro alimento è facile da triturare (674b30-34) e in generale la
forma del becco, la lunghezza del collo e delle zampe delle diverse specie di volatile si spiegano
sulla base del loro habitat e del conseguente modo in cui debbono ottenere il nutrimento (PA iv
12, 692b20-693a23).
Natura 39
alla generazione delle ali di quanto non lo siano la causa motrice e ma-
teriale: le ali si sviluppano già nell’uovo attraverso una certa sequen-
za di mutamenti fisici che formano il piccolo uccello a partire da una
materia preesistente, e poi si sviluppano ulteriormente in modi molto
specifici sino a renderlo atto a volare. Il materiale di cui sono fatte75 –
ossa leggerissime e cave, tessuti innervati di muscoli e piume ecc. – e
il processo sequenziale ordinato con cui le ali si generano proprio in un
modo che consente il volo, da ultimo non trovano una spiegazione se
non attraverso il riferimento al fatto che se l’uccello ha da poter volare,
deve avere delle ali fatte in un certo modo, e per avere delle ali fatte
in un certo modo, esse devono svilupparsi secondo una certa sequenza
ordinata di mutamenti e con una certa materia76. La causa materiale e
quella motrice spiegano il come della funzione (come la parte funzio-
nale si genera, e come è possibile che la funzione si eserciti con succes-
so), mentre la causa finale e formale spiegano il perché (del generarsi
stesso della parte funzionale, e dell’essere fatta come è fatta)77. Si è
parlato di causa formale e finale insieme, perché nel dominio biologico
la causa formale e finale tendono a coincidere78: stabilito che la natura
degli enti naturali è un certo principio immanente di mutamento, stabi-
lito che la natura degli enti naturali viventi è un certo principio attivo
di mutamento ad essi immanente, ne viene che le attività tipicamen-
te esercitate da una certa specie di vivente costituiscono la sua stessa
natura, dunque ciò cui queste attività sono dirette o volte, individua
queste attività e rimanda a un tempo sia alla forma-essenza o natura di
quel vivente, che alle funzioni che rendono possibili quelle attività. In
termini più diretti: la forma di un certo vivente, ciò che esso “è”, è la
sorgente dell’insieme delle sue attività tipiche; e queste attività tipiche
75
Occorre anche distinguere una materia “genetica”, da cui l’organismo si forma, da una
materia costitutiva, che è la materia attuale dell’organismo: quest’ultima, poi, si distingue in ma-
teria “remota”, cioè gli elementi costituenti ultimi, e materia “prossima”, che è funzionalmente
individuata (l’insieme coordinato degli organi che realizzano funzioni). La prima distinzione,
nei testi aristotelici, è metodologicamente operativa anche se non è tematizzata. Per esempio,
la materia dell’uomo è, in senso “genetico”, il mestruo da cui l’embrione si forma (cfr. GA i 19,
727b31; Met. viii 4, 1044a34-35), in senso “costitutivo” è il corpo funzionale stesso (cfr. Cap. ii).
La seconda distinzione, fra, materia prossima e remota, è invece esplicita (ad esempio, Met. viii
6, 1046b17-21), su cui si veda Irwin 1996, pp. 343-370.
76
Cfr. PA i 1, 640b1-3, ove si osserva che è perché l’uomo è così, la sua formazione è come è,
e non viceversa.
77
Cfr. GA v 8, 789b3-22.
78
In Phys. ii 7, 198a25-29 Aristotele osserva che non solo il “che cos’è” o forma e il “ciò in
vista di cui” o tevlo~ spesso tendono a coincidere, ma anche che il motore coincide con esse: un
uomo è generato da un uomo, dunque il motore che genera X ha la stessa forma/fine del generato.
40 Capitolo primo
sono definite in rapporto al tevlo~ che hanno, dunque forma e fine, nel
vivente, si fondono e si coimplicano sino alla reciproca identificazio-
ne79. Risiede nella natura di un uccello, il fatto di poter volare: se tale
natura ha da compiersi, la funzione del volare deve essere realizzata, e si
può realizzare solo attraverso certe cause motrici e una certa materia.
Le quattro cause hanno un potenziale esplicativo complementare,
tale che ciascuna è necessaria ma nessuna è sufficiente a una spiegazio-
ne esaustiva, in quanto è la realtà stessa a essere complessa: l’esserci
o l’essere fatta in un certo modo di una statua di bronzo, sono dovuti
tanto alla natura del bronzo (materia), quanto alla forma o al soggetto
rappresentato dalla statua (forma), quanto allo scultore e alla sua arte
in esercizio (motore), quanto a ciò in vista di cui lo scultore opera
(fine): lo scultore desidera realizzare una statua, per questo si mette
all’opera facendosi guidare dalla rappresentazione mentale della statua
che ha nell’anima nonché dalla sua competenza scultorea, e agisce su
una certa materia, un pezzo di bronzo, per conferirgli una certa forma.
Senza uno di questi quattro fattori, la statua non ci sarebbe o non sa-
rebbe come è: ciò che è causa di X quando è presente, infatti, è causa
dell’assenza di X quando è assente.
Nel dominio biologico, la sinergia esplicativa delle quattro cause
è altrettanto necessaria che nel dominio delle cose da tecnica, giacché
quest’ultima imita la natura e la logica del mutamento naturale80.
Consideriamo ora l’analogia e le differenze fra cose da fuvsi~ e cose
da tevcnh, e i modi differenti in cui le quattro cause si intrecciano per
determinare gli oggetti che cadono nell’uno e nell’altro ambito. Aven-
do introdotto la causalità finale e la sua priorità in natura come nell’arte
o tecnica, siamo ora nella posizione di poter indagare più dappresso in
cosa consista la famigerata “teleologia aristotelica”.
4. Teleologia
Aristotele stabilisce una stretta analogia fra gli artefatti e gli enti na-
turali, dunque fra tevcnh e fuvsi~: la sua teleologia naturale è modellata
Cfr. Phys. ii 8, 199a8-19. Un’ottima raccolta di contributi recenti sulla causalità aristoteli-
80
aventi a che fare con questi artefatti, che abbiano una natura propria. Cfr. Met. v 4, 1014b27-36;
Phys. ii 1, 193a10-12. Aristotele oscilla quanto all’attribuzione agli artefatti dello status di so-
stanze. In DA ii, 412a11-12, dice che soprattutto sono gli enti naturali a essere tali, in Met. vii 3,
1029a27-8 riscontra negli artefatti i requisiti per essere sostanza, cioè la “separabilità” e l’essere
un “questo qui”, ma in Met. viii 2, 1043a4 e 3, 1043b21-22, nega che siano sostanze. Sulla que-
stione se gli artefatti abbiano lo status di genuine sostanze o meno, cfr. Kosman 2013, 117-121.
86
L’autoreferenzialità dell’agire da sé, per sé, e su di sé, e anzitutto l’essere un “sé”, è prero-
gativa del vivente. Cfr. Cap. ii.
87
I viventi sono sostanze «in modo preminente» (mavlista, Met. vii 7, 1032a19; vii 8, 1034a4),
e solo le sostanze hanno una natura (Phys. ii 1, 192b33-34).
88
La natura «somiglia a un medico che guarisce se stesso» (Phys. ii 8, 199b18-32).
Natura 43
93
Aristotele, dunque, non nega affatto che esista una necessità materiale “semplice”, o se si
vuole cieca, di tipo Democriteo, ma ne critica l’assolutizzazione. Cfr. infra.
94
Gli scritti aristotelici vertenti sulla vita sono HA, PA, GA, DA, e il gruppo PN. Mentre HA
è orientato all’analisi delle differenze degli animali a seconda della loro specie, ed è più focalizza-
to sulle cause materiali di queste differenze, PA è anzitutto dedita alle cause finali delle parti degli
animali. GA si occupa prevalentemente della generazione degli animali e dunque delle cause
efficienti di questa, mentre DA concerne l’anima come principio e causa formale del vivente. Se
è vero che queste differenze di focalizzazione teoretica ci sono, è però altrettanto vero che una
indagine sul vivente deve coinvolgere le quattro cause nella loro sinergia sia ontologica che espli-
cativa. MA e PN sono più incentrate sulla fisiologia dei fenomeni psichici e locomotori, come
vedremo, dunque sulle cause materiali ed efficienti dei processi psico-biologici.
95
Cfr. Phys. ii 9.
Natura 45
96
Sottolineo che il modo è “analogo”, perché Aristotele ha ben chiara la distinzione fra ne-
cessità logico-epistemica, da una parte, e necessità “reale” (naturale, causale, metafisica), dall’al-
tra: ci sono sillogismi la cui relazione necessaria fra premesse e conclusione “traccia” dipendenze
causali naturali, e sillogismi la cui dipendenza fra premesse e conclusione è solo “epistemica”,
ma non naturale o metafisica: se inferisco la vicinanza dei pianeti dal fatto che non brillino, l’infe-
renza fa leva su un “medio” (il non brillare dei pianeti) che è ragione per concludere la vicinanza
dei pianeti, ma non ne è causa naturale, visto che anzi – secondo Aristotele – è perché sono vicini,
che i pianeti non brillano dal punto di vista di un osservatore, non viceversa; se inferisco che una
donna è gravida dal fatto che è pallida e ha latte, l’ordine epistemico delle ragioni è invertito ri-
spetto a quello naturale delle cause: alla dipendenza epistemica della conclusione dalle premesse,
corrisponde una dipendenza naturale delle premesse dalla conclusione, giacché è perché è gravi-
da, che la donna è pallida e ha latte, e non viceversa (cfr. APr. ii 27, 70a10 ss.).
97
Cfr. PA i 1, 639b23-25; 642a7-13; Phys. ii 9, 200a33-b8.
98
Se qualcosa è molle, non taglia. Questa è una necessità “semplice”. Ed è perché se qualcosa
è molle, non taglia, che la sega è dura: è dura proprio perché non taglierebbe se non fosse così, e
deve tagliare. Un caso di necessità semplice è rilevante nella spiegazione della sega in virtù della
necessità ipotetica che deve soddisfare una sega in quanto avente la funzione di tagliare. E così è
per la natura vivente, che la tecnica, compresa la produzione di seghe, imita.
46 Capitolo primo
99
Più che comportare un’idea antropomorfica della natura, la posizione di tale analogia com-
porta un’idea “naturale” dell’agire intenzionale finalizzato.
100
Cfr. Met. vii 10, 1035b30-32; viii 4, 1144a15-b3. Aristotele parla di materia prossima o
«propria di ciascuna cosa» (oijkevia eJkavstou), e di materia “ultima” o remota.
101
I poteri causali dei quattro elementi, sono determinati dalle contrarietà caldo/freddo e
secco/umido che contraddistinguono diversamente ogni elemento: il fuoco è caldo e secco, la
terra è fredda e secca, l’aria è calda e umida, l’acqua è fredda e umida. Cfr. GC i 10, 328a28-33;
ii 7, 334b19-29. Dunque, in realtà sono le quattro qualità primarie (caldo, freddo, secco, umido)
a costituire i poteri causali di tutte le cose.
102
Cfr. DA ii 1, 412a33-35.
Natura 47
Gli organi, a loro volta, sono composti di certi tipi di tessuto o mate-
riale organico (carne, ossa ecc.), i quali sono composti secondo certe
proporzioni, dai quattro elementi. Così i quattro elementi sono materia
delle parti “omeomere” quali carne, ossa ecc. (omeomere, poiché una
parte di osso è composta da altre parti di osso, e così per carne, sangue
ecc.)103, queste parti sono a loro volta materia propria o prossima delle
parti “anomeomere” quali sono gli organi (una parte di cuore non è
composta di cuori), e gli organi a loro volta costituiscono le parti di
tutto l’organismo o la sua materia104, e il corpo organico è infine mate-
ria propria dell’organismo che è una certa forma (uomo, cane, albero)
realizzata in quella materia prossima.
La materia prossima di X è anche la capacità di diventare o esse-
re X, cioè è X in potenza105. Nella generazione, è la materia prossima,
che passa dalla privazione/potenza della forma X all’essere una realiz-
zazione di X106. Come la relazione [materia(propria)-di] non è transi-
tiva, così non lo è la analoga relazione [potenza-di]: come la terra non
è un uomo in potenza, così la terra non è la materia propria dell’uomo,
anche se l’uomo è fatto di terra e altri elementi originari107. La terra è
un seme in potenza, il seme è un certo corpo organico in potenza, che è
un uomo in potenza. Se A è materia propria di B e B è materia propria
103
Negli omeomeri «parte e tutto sono sinonimi» (GC i 1, 314a20), ove per “sinonimo” si in-
tende qualcosa che ha la stessa definizione-essenza, oltre che lo stesso nome (cfr. Cat. 1, 1a6-10):
se divido la carne, avrò ancora parti di carne.
104
Le parti sono infatti materia del tutto di cui sono parti, e sono anche questo tutto “in po-
tenza”. Cfr. GA i 1, 715a9-11: «la materia degli animali, sono le loro parti: dell’intero animale, le
parti anomeomere, di queste le parti omeomere, e di queste i cosiddetti elementi di tutta la mate-
ria». Cfr. anche PA ii 2, 647b21-25. In PA iii 5, 668a17-24 si afferma che il sangue è carne e corpo
in potenza. Infatti tutti i tessuti e materiali organici si formano dal sangue. Dunque gli elementi
sono sangue in potenza, il sangue è ossa, carne ecc. in potenza, questi sono organi in potenza,
che in quanto parti del corpo organico sono questo corpo in potenza, che è la forma-essenza, ad
esempio [uomo], in potenza.
105
Cfr. Met. vii 7, 1032a20-23: «tutte le cose che si generano per natura o per arte hanno ma-
teria: ciascuna di esse, infatti, ha la potenza di essere o non essere, e questa potenza, in ciascuna
di esse, è la materia».
106
Si ricordi la distinzione precedentemente proposta, fra materia “genetica” e materia “co-
stitutiva”: la materia genetica (ad esempio, il mestruo per l’animale) è capacità di diventare ciò di
cui è materia, la materia costitutiva (ad esempio, il corpo funzionale dell’animale) è capacità di
essere ciò di cui è materia. Anche nella materia genetica si può distinguere fra materia prossima e
materia remota: il liquido mestruale, informato dal seme maschile, è già materia atta a diventare
un embrione e poi un animale, mentre i suoi costituenti, gli elementi, possono esser considerati
materia genetica remota dell’animale. Per quanto la differenza fra materia genetica e materia
costitutiva non sia tematizzata da Aristotele, è utile introdurla per poter cogliere i vari esempi
aristotelici riguardo a materia prossima e remota evitando palesi incoerenze.
107
Cfr. Met. ix 7, 1048b37-1049a3.
48 Capitolo primo
alle cose che accadono per natura o a causa del pensiero umano, vi
sono anche cose che accadono per caso: tuttavia il caso è definito da
Aristotele in modo derivato rispetto alla caratterizzazione della natura
come causa formale/finale113. Posto che i mutamenti per natura, in quan-
to orientati a un tevlo~ immanente alle sostanze che mutano e operano
mutamenti, si verificano sempre o perlopiù114, le cose dovute al caso115
non si verificano né sempre né perlopiù116, come per esempio se un cre-
ditore andasse al mercato per fare acquisti e vi ci trovasse il proprio cre-
ditore117, o qualcuno scavasse una buca per piantare un albero e proprio
lì trovasse un tesoro118, o se un tripode di legno mal adagiato su un muro
cadesse in un modo tale da essere pronto per sedercisi sopra119.
Ciò che unifica questi esempi come esempi di cose che accadono
per caso, è il fatto di essere coppie di eventi la cui associazione non è
consueta né spiegabile in quanto tale120, ma sarebbe stata perfettamente
spiegabile se l’antecedente causale fosse stato in vista del conseguen-
te causale, cioè se la associazione di questi eventi fosse per natura o
per decisione intenzionale, a ogni modo in vista di un fine, mentre ex
hypothesi non lo è. Non è consueto né auto-esplicativo121, che qualcuno
vada in un luogo per fare qualcosa che non ha nulla a che fare con un
recupero di crediti, e trovi il suo creditore proprio lì, o che qualcuno
scavi una buca per piantare un albero e ci trovi dentro un tesoro, che
un tripode ligneo cada da un muro e si posizioni proprio nel verso in
cui è atto a sedercisi: noi parliamo di “coincidenze”, proprio perché
queste coppie di eventi presentano l’apparenza di una finalità che non
hanno122. Tali accadimenti casuali sono esempi di accadimenti di un
113
Phys. ii 4-6:
114
Cfr. Phys. ii 8, 198b34-6; GC ii 6, 333b4-9; EE vii 13, 1247a31-33; Rhet. i 10, 1369a32-b5.
115
Qui tralascio la distinzione fra caso e fortuna, posto che la seconda è una specie della prima.
116
Questa è la definizione di accidente, fornita in Met. v 30, 1025a14-15: il caso è una specie
di accidente.
117
Cfr. Phys. ii 4, 196a3-4.
118
Cfr. Met. v 30, 1025a15-19.
119
Cfr. Phys. ii 6, 197b16-18.
120
Il caso è refrattario a ogni spiegazione e ragionamento, in quanto ragionamenti e spiega-
zioni vertono su ciò che accade sempre o per lo più (cfr. Phys. ii 5, 197a18-19, che riguarda la
fortuna ma è estensibile al caso di cui la fortuna è specie).
121
Cfr. Phys. ii 5, 197a18-21.
122
Si parla di coppie di eventi, perché la regolarità o il perlopiù è sempre una relazione. Altri-
menti anche una eclissi sarebbe per caso, invece ha una spiegazione scientifica e non è “refrattaria
al ragionamento” come gli eventi casuali. Anche se una eclissi perlopiù non si verifica – sono più i
giorni in cui non ha luogo che quelli in cui ha luogo, in tal senso è rara, cioè né sempre né perlopiù –
ogni volta che la luna si frappone fra terra e sole, abbiamo l’eclissi, dunque l’eclissi è per natura.
50 Capitolo primo
Un caso interessante, l’eclissi, poiché non ha causa finale, infatti Aristotele non cita esempi di
questo tipo quanto introduce la natura come forma/fine, bensì esempi di regolarità “per il bene”.
Cfr. Judson 1991a, sull’idea del “perlopiù” aristotelico come frequenza relativa, e Mignucci 1981
per una sua interpretazione come frequenza assoluta.
123
La causa degli eventi casuali è accidentale e non per se, in quanto è indefinita e indeter-
minata. Sono infiniti i motivi per cui uno può voler andare al mercato, e nessuno di questi tranne
l’andarci per trovare il proprio debitore, è esplicativo del trovare il proprio debitore e ha perlopiù
la conseguenza di trovarlo. Analogamente, un medico guarisce qualcuno in quanto è medico, la
sua arte medica è causa per se della guarigione: la spiega, ed è perlopiù correlata con la guarigio-
ne. Se il medico e anche musico e alto, sarà anche vero che l’alto ha guarito qualcuno, e il musico
ha guarito qualcuno. Ma il musico guarisce qualcuno solo accidentalmente, cioè non in quanto
musico, ché il medico è anche mille altre cose. Delle indefinite proprietà che il medico ha, solo
l’esser medico causa la guarigione, se non nel senso accidentale, appunto, per cui il medico è
anche musico, e il musico guarisce qualcuno.
124
Su caso e fortuna in Aristotele, cfr. Rossi 2011, Masi 2013, Zucca 2004.
125
Che il caso sia causa motrice, e non finale, è affermato in Phys. ii 6, 198a2-3. Possiamo
legittimamente inferire che il caso sia causa che ha strettamente a che fare con la materia, come
tutte le cause motrici, dunque è una causa motrice-materiale.
126
Cfr. Phys. ii 8, 198b34-36.
127
Cfr. Phys. ii 8, 199b16-19: «In effetti sono da natura tutte quelle cose che, mosse in modo
continuo in se stesse da un qualche principio immanente, giungono a un fine».
Natura 51
128
Phys. ii 2, 194a29-30; 194a30-33; ii 3, 194b32-195a3. Cfr. viii 5, 256b15-16, che distingue:
motore, mosso, e “mezzo-mediante-cui”.
129
Aggiungo «spesso», perché Aristotele circoscrive un altro dominio di processi e mutamen-
ti che dovrebbero essere casuali anch’essi, visto che non sono né per fuvsi~ né per diavnoia. Si
tratta di processi contro natura, come la nascita di un monstrum, di un organismo anomalo, defor-
me, o privo di tratti che competono alla sua natura e alla sua specie. Cfr. Phys. ii 8, 198b32-37.
Ma Aristotele dice che la causa di queste cose è interna alla cosa che muta, mentre la causa delle
cose per caso è esterna. Aristotele intende sottolineare che i processi contro natura coinvolgono
comunque la natura dell’ente, la quale per qualche impedimento si manifesta in modo deficitario
e insolito. Dunque i processi contro natura non sono casuali in quanto sono comunque in vista di
un fine, pur non raggiunto. Si potrebbe obiettare che gli impedimenti che impediscono alla natura
di manifestarsi, sono dovuti a caso, dunque i “fallimenti” della hanno una causa motrice casuale
ed esterna anch’essi. A ogni modo, Aristotele è interessato a quegli eventi né da natura né da pen-
siero, che hanno un’apparenza teleologica: gli serve l’attenzione su questa classe di eventi, perché
nei capitoli successivi (8-9) dimostrerà che è impossibile che la teleologia sia tutta apparente,
come sono costretti ad ammettere i materialisti quali Democrito ed Empedocle.
130
Empedocle, frr. 57-61 Diels-Kranz. Cfr. Phys. ii 4, 196a20-24. Lo stesso Darwin, citato
da Gilson 1971, p. 22, commenta la restituzione aristotelica dell’idea di Empedocle così: «qui
vediamo accennato il principio della selezione naturale».
52 Capitolo primo
131
Cfr. GA v 8, 789b2-9, dove Democrito è criticato perché ascrive lo sviluppo e la caduta dei
denti agli elementi materiali di cui sono composti e da cui sono originati (necessità simpliciter).
Aristotele riconosce questo tipo di necessità come causa materiale e motrice, ma non la ritiene
sufficientemente esplicativa se non si integra la spiegazione con l’appello alla causa finale: a cosa
i denti servono, e che capacità hanno per il bene dell’animale. La necessità materiale e motrice
va concepita come strumento del fine-funzione, come o[rganon per un tevlo~. Cfr. anche PA i 1,
641a7-14 e GC ii 9, 335b29-336a12, per una critica all’uso esclusivo della necessità materiale e
motrice da parte dei Fisiologi.
132
Cfr. Phys. ii 8, 198b35-199a8.
Natura 53
133
Oltre a Democrito, Empedocle e Anassagora, anche i filosofi milesii sono inclusi nell’ob-
biettivo polemico di Aristotele. Essi non negano cittadinanza alla causa finale, ma solo perché
non l’avevano ancora individuata (cfr. Met. i 3, 983b7-984a11). Anassagora, invece, la riconosce
(il nou`~) ma non se ne serve a dovere per le spiegazioni naturali.
134
Ritengo che la teleologia aristotelica, nel senso di direzione verso il bene che consente la
spiegazione tramite causa finale, sia 1) immanente a certi enti da natura, e mai “esterna” 2) sia
circoscritta al dominio del vivente. Nessuna delle due tesi è accettata da tutti gli interpreti: vi è chi
ritiene (ad esempio, Furley 1987, Sedley 1991) che Aristotele contempli una teleologia esterna,
o “interattiva”, secondo una cosmologia verticale in cui il fine di una certa sostanza inferiore può
essere il beneficio di un’altra sostanza superiore; e anche fenomeni naturali estranei al dominio
vivente potrebbero così avere dei “fini”, quali ad esempio il bene di questo o quel vivente. L’esem-
pio su cui anzitutto tali letture si appoggiano, è quello della pioggia, in Phys. ii 8, 198b17-21 e
199a1-8, ove sembra si concluda che cose come il piovere spesso in inverno sono «o per coinci-
denza o in vista di un fine, e se non è possibile che siano per coincidenza o per caso, saranno in
vista di un fine» (4-7). Senza poter analizzare i passi in questa sede (per cui cfr. Johnson 2005,
Rossi 2010) si può osservare che per Aristotele le cause della pioggia sono delle necessità “sem-
plici”, non ipotetiche, legate a riscaldamento/raffreddamento e condensazione/rarefazione, come
è chiaro da Meteor. i 9, 346b20-31 (cfr. SV 3, 457b31-458a1). In Phys. ii 8 la pioggia è introdotta
come termine di paragone con gli organismi, poiché sono i materialisti riduttivi, a intendere la
relazione fra generazione di parti degli organismi e il loro esito benefico come la relazione, non
finalizzata, fra piogge invernali e copiosità dei raccolti. Come non piove in vista del grano, essi
pensano che nemmeno i canini si generano aguzzi in vista del triturare il cibo (cfr. infra). Il passo
199a4-7 riporta un e[ndoxon, il nesso fra casualità e rara frequenza, per cui il piovere in inverno
non può essere a caso: ma invece le cose che “o sono a caso o sono in vista di un fine”, non sono
coppie come il piovere e l’inverno – che non sono né a caso, né in vista di un fine – bensì coppie
come il piovere in inverno e i raccolti; ed è vero che la relazione fra un evento e il suo esito be-
nefico, o è un caso, o è in vista dell’esito benefico: i raccolti sono risultato della tecnica agricola
che sfrutta una necessità non teleologica (le piogge invernali), mentre i denti aguzzi non sono solo
frutto di una necessità non teleologica, giacché il loro nesso col bene dell’animale, se fosse a caso,
non sarebbe perlopiù. Gli esempi aristotelici effettivi di teleologia (come la pioggia non è), inve-
ce, sono tutti tratti dal dominio del vivente; mentre il tendere degli elementi semplici verso il loro
luogo naturale, se è un tevlo~, non è un tendere verso il proprio bene, se non in senso metaforico:
inoltre i quattro elementi non si muovono, ma sono mossi passivamente (MA 4, 700a13-17). Se
talvolta si parla dell’“in-vista-di-cui” in riferimento alla fuvsi~ in generale e dunque non solo ri-
guardo al vivente (ad esempio, PA i 5, 645a24-25), lo si fa sempre in contesti in cui si sta parlando
della natura in quanto vivente (nell’esempio di PA si parla, appunto, delle parti degli animali), e lo
si fa perché è proprio nel vivente che la natura stessa si manifesta massimamente; oppure, lo si fa
54 Capitolo primo
in quanto vi è un senso dell’espressione “in vista di cui” per cui il beneficiario del processo è un
“fine” in un senso secondario rispetto al processo considerato in se stesso, ed è un “fine” indipen-
dente dall’esistere del processo: questo è il caso della materia adatta che, nella tecnica, è un fine,
anche se ha una sua natura indipendente dalla sua utilità a una certa produzione tecnica (cfr. Phys.
ii 2, 194a33-35); questo, è l’unico senso in cui anche la pioggia potrebbe essere detta “in vista del
raccolto” (cfr. Kullman 1985, pp. 72-73). In tal senso si può spiegare – come fa Berti 2005a, pp.
46-47 – anche il passo di Pol. i 8, 1256b15-20 in cui si afferma che le piante sono in “vista” degli
animali e gli animali “in vista” dell’uomo. La teleologia aristotelica è dunque immanente ai vi-
venti, e solo a essi: la loro natura, cioè la loro forma-fine è per essi principio interno di movimento
e riposo. Pur dandosi per natura, la pioggia, come l’eclissi e le pietre, non ha alcun fine intrinseco;
nessun “perlopiù” che si dia entro il non-vivente, è stricto sensu teleologico.
135
Cfr. Phys. ii 8, 199a8-9.
136
Cfr. PA iv 10, 687a16-18: la natura opera come un artigiano che ottiene il meglio da ciò
che è disponibile.
137
Cfr. Phys. ii 8, 199a33-199b9.
138
Cfr. Phys. ii 8, 199a20-24.
Natura 55
La tecnica è insegnabile (cfr. Met. i 1, 981a8-b9) proprio perché vi è generalità, dunque
143
replicabilità e trasmissibilità, nei nessi causali fra i modi e le condizioni per produrre qualcosa, e
i risultati prodotti. Si delibera e ci si dà da fare perché «ci sarà questa cosa qui, se avremmo fatto
questa cosa qui, e non ci sarà, se non avremmo fatto questa cosa qui» (De int. 9, 18b32-33): solo
perché una causa ha in generale un certo effetto, e io ho contezza della generalità di questo nesso,
io agisco in modo da porre in essere quella causa per ottenere quell’effetto.
Natura 57
cui i processi hanno origine, può essere una coincidenza, oppure può
dipendere dalla natura, teleologicamente orientata, degli organismi
stessi. Tertium non datur.
Questa alternativa appare effettivamente cogente, e se si è in gra-
do di escludere uno dei disgiunti, si sarà confermato l’altro, in quanto
la disgiunzione è sia esclusiva che esaustiva. E il modo di escludere
il disgiunto della casualità è la considerazione che se la correlazione
fra certi processi regolari e il bene del loro esito fosse casuale, non si
spiegherebbe il suo essere sistematica o perlopiù: questo argomento è
ben più potente del semplice (falso) rilievo che se qualcosa è regolare
allora deve essere teleologico in quanto tutto ciò che non è casuale è
teleologico; ciò che se non è casuale è teleologico, ribadiamolo, è il
nesso fra certo un dominio di eventi regolari nei viventi e il suo re-
golare esito benefico per detti viventi; se questo nesso fosse casuale
non se ne riscontrerebbe la sistematicità. Ma siccome la si riscontra, il
nesso non è casuale, e un nesso non casuale fra certi processi regolari
e il loro regolare risultare nel bene, è un nesso teleologico. Quod erat
demonstrandum144. L’argomento aristotelico in favore della teleologia,
dunque, non è basato né sulla semplice regolarità, né sul semplice suc-
cesso, bensì sulla regolarità del successo.
Gli elementi materiali di cui i viventi sono composti, hanno una
natura che ne determina di necessità (simpliciter) certi mutamenti, ed
è proprio questa necessità che vincola la realizzazione delle funzioni a
certe precondizioni materiali ed efficienti, tali che se l’organo O ha da
f-are, deve avere la proprietà materiale/motrice F: è “ipoteticamente”
necessario che O abbia F se ha da f-are, proprio perché è “semplice-
mente” necessario che se qualcosa f-a, allora ha F145.
144
Se fosse per accidens che i processi biologici hanno come esito il bene, non sarebbe per-
lopiù; le cause accidentali non sono né sempre né per lo più: né sempre né perlopiù un musico
guarisce qualcuno.
145
O una proprietà di cui F è una specie: in realtà la necessità ipotetica non è rovesciabile in
una necessità deduttiva, ma diventa un analogo di quella, se si postula che i materiali naturalmen-
te disponibili sono quelli che ci sono, e che la natura, da ultimo, opera per il meglio con ciò che
è disponibile. Per esempio, non è la natura acquea, ma la trasparenza (che l’acqua possiede), la
proprietà rilevante nel rendere possibile all’occhio la ricezione dei colori; non è l’esser di metallo,
ma la durezza (che il metallo possiede) a rendere la sega atta a tagliare. Se ci fosse un materiale
altrettanto duro del metallo, andrebbe bene, e se ci fosse un materiale trasparente e adatto a costi-
tuire l’occhio, andrebbe bene lo stesso. Per esempio, «è vero che la vista [scil. l’occhio] è acqua,
ma il vedere non si genera in quanto è acqua, bensì in quanto è trasparente, e ciò è comune anche
all’aria» (DS 2, 438a12-14). Non è dunque l’esser acqua o aria, che è causalmente rilevante: il
trasparente selezionato dalla natura è l’acqua, in virtù di altre proprietà dell’acqua compatibili
con l’occhio.
58 Capitolo primo
148
Tale comportamento non è identico alla somma dei movimenti fisici che lo compongono,
è la realizzazione di una certa capacità, e gli è essenziale esserlo. L’esercizio di una capacità da
parte di S, non è qualcosa che “capita” a S.
149
Un’azione può essere composta da una serie di movimenti, ma non si identifica con la loro
somma. Su ciò, cfr. Natali 2004, pp. 151-153. Ciò non vale solo per le azioni umane, ma per tutti
i comportamenti “telici” dei viventi.
150
Tutti e tre possono essere plurali e complessi, ma qui è meglio semplificare per cogliere
il punto che ci interessa.
60 Capitolo primo
151
Se chiamiamo “teleologia oggettiva” la direzionalità dei processi biologici, e “teleologia
soggettiva” la finalità dell’agire intenzionale conscio, il comportamento degli animali che appren-
dono è in una via di mezzo, in quanto gli animali agiscono poiché desiderano qualcosa che gli
appare bene. Se chiamiamo teleologia soggettiva anche il comportamento animale motivato da
Natura 61
bene apparente, possiamo dire che per Aristotele la teleologia soggettiva è un caso della teleologia
oggettiva. Pur nelle sue peculiarità che esploreremo (Cap. vi), l’agire umano e il comportamento
animale sono movimenti verso il bene così come lo sono i processi biologici più elementari: il
fatto che nel primo caso gli obbiettivi siano consci, non nega la analogia nella struttura di fondo.
152
Per animali che apprendono, almeno rispetto ai comportamenti appresi, la causa strutturan-
te spiega il comportamento di quel singolo individuo in quanto ha un suo bagaglio di esperienza,
non in quanto semplicemente membro di una specie.
62 Capitolo primo
153
Cfr. Phys. ii 1, 193b7.
154
Phys. ii 9, 200a32-34.
155
Necessità simpliciter o “democritea”, e necessità ipotetica-teleologica, non si escludono
reciprocamente nemmeno per lo stesso fenomeno: per esempio i denti di davanti cadono sia
perché le loro radici sono ubicate in una parte sottile, e dunque debole, della mascella, sia “in
vista del meglio”, poiché le cose affilate si spuntano e l’animale ha bisogno di denti nuovi (GA
v 8, 789a8-b8); il cervo perde le corna sia per necessità, a causa del loro peso, che perché gli
è utile alleggerirsi (PA iii 2, 663a12-14), e così via. Anzi, ove vi è una necessità teleologica, vi
è una corrispondente necessità “semplice” (su ciò cfr. Meyer 1992). Ciò però non nega che la
caratterizzazione teleologica abbia un portato oggettivo: se la necessità semplice spiega come
mai i denti di davanti cadono (causa occasionante), la necessità ipotetica spiega perché il mec-
canismo che li fa cadere esiste (causa strutturante). Le spiegazioni teleologiche non hanno un
valore puramente metodologico, come classicamente sostenuto da Le Blond 1939, né sono un
semplice punto di vista sulle cose (Wieland 1970), né hanno valore solo esplicativo (Nussbaum
1978), sono invece spiegazioni che fanno appello alla natura reale della cosa: il tevlo~ è nella cosa
stessa, ne informa la natura e ne orienta l’attività. L’irriducibilità del livello teleologico a quello
“efficiente”, è epistemologica ed esplicativa perché è anzitutto ontologica. In favore del primato
ontologico del tevlo~, argomentano Gotthelf 1997, Cooper 1982, Balme 1987.
Natura 63
delle specie e dei loro tratti distintivi, vi è una sequela casuale di muta-
zioni genetiche: casuale, proprio nel senso aristotelico della coinciden-
za fra sorgere di questi tratti e il loro esito benefico. Una “casualità”
affatto compatibile con la necessità cieca.
Tuttavia, proprio la logica dell’evoluzione importa che Aristotele
abbia perfettamente ragione nel sostenere che i processi biologici che
permettono alle varie specie le loro attività vitali e comportamentali,
non siano benèfici per una fortuita coincidenza, ma al contrario ci sono
proprio perché sono benèfici: una volta che questi tratti dovuti a mu-
tazioni genetiche casuali sono selezionati e mantenuti nella storia evo-
lutiva, risultando nel corredo genetico di una specie, allora questi tratti
hanno una funzione propria, ed è legittimo sia attribuirgli una funzione
oggettiva che ritenere che gli organismi di quella specie hanno quella
funzione-capacità perché risulta in un bene per essi. Si tratta di una
teleo-funzione156. Per questo chi elimina la causa finale «sopprime la
natura stessa»157, le funzioni proprie di organismi e loro parti.
Dunque è vero che le capacità di mutamento che risultano nel bene
dell’organismo, sono innate e immanenti nell’individuo in quanto ap-
partenente alla sua specie: l’individuo ha una natura immanente, che è
quella della sua specie, la quale è all’origine dei suoi mutamenti verso
il bene.
C’è un senso precipuo in cui i meccanismi chimici che spiegano
tecnicamente il cadere delle foglie in autunno, non spiegano perché
le foglie cadano in autunno: per capire perché quei meccanismi siano
stati selezionati, occorre capire quale contributo questa funzione arre-
chi al bene dell’organismo, quale valore adattativo abbia. Viceversa,
la comprensione del meccanismo è essenziale per la comprensione del
“come” quella funzione benefica possa realizzarsi. Per dirla in termini
aristotelici, la causa adattativo/evolutiva attiene al perché, rispetto a
cui anche il “perché” della causa efficiente/occasionante, è un come.
Se è vero che la causa evolutivo/adattativa non è una causa finale nel
senso aristotelico, è pur vero che tale causa è essenzialmente legata
al bene dell’organismo, e il meccanismo rispettivo esiste “a causa di”
questo bene. Una volta che si è selezionato un certo meccanismo, si
può dire, senza alcun timore di risultare anacronistici o obsoleti, che
156
Sulla nozione di teleo-funzione, cfr. Millikan 1984 e Ariew-Cummins-Perlman 2002.
157
Phys. ii 8, 199b15-18. Per questo la causa finale non è solo un certo modo di descrivere le cause
efficienti. “Sopprime la natura stessa”, qui, significa “la natura della cosa in quanto tale”, non il
regno della natura. In natura vi sono anche caso e mutamenti non teleologici.
64 Capitolo primo
159
In biologia e in filosofia della biologia la visione prevalente è quella di considerare le fun-
zioni come aspetti oggettivi dei tratti che le possiedono. Per uno spettro delle posizioni in merito,
cfr. Ariew-Cummins-Perlman 2002.
160
Cfr. PA i 1, 642a11-12: «il corpo è uno strumento (o[ganon); come ogni sua parte è in vista
di qualcosa, così è il corpo come un tutto». E le parti stanno al tutto come sua materia (PA i 5,
645a28-35).
66 Capitolo primo
dei tipici poteri causali della sua specie, e costituiscono la sua natura
immanente. La funzione propria di X in s è quella che tipicamente X
ha nei membri della specie di s. Se s ha delle funzioni proprie, le ha
in quanto è essenzialmente un membro della specie S, e ogni specie
realizza certe tipiche attività vitali.
In questo senso, la spiegazione evolutiva dell’origine delle funzioni
proprie e delle specie stesse, è una integrazione storico-eziologica, e
non una negazione, dell’idea che gli organismi sono dotati di una na-
tura immanente, condivisa dagli altri membri di quella specie, la quale
è sorgente di certe funzioni proprie o poteri causali attivi volti al bene
dell’organismo e della sua specie: ove il bene dell’individuo coincide
con la sopravvivenza, il bene della specie con la riproduzione.
L’ineliminabilità di un vocabolario telico-funzionale nelle scienze
del vivente, si fonda sull’oggettività delle funzioni proprie e sulla loro
primaria capacità esplicativa in quanto cause strutturanti. Ciò che Ari-
stotele chiama tevlo~ approssima la nozione di funzione propria og-
gettiva: l’individuazione di funzioni biologiche oggettive, lungi dal
riposare su un pregiudizio oscurantista e antiscientifico, è un compito
primario dell’indagine biologica, e nessuna descrizione di queste fun-
zioni potrà mai essere eliminata e sostituita da una descrizione che non
faccia riferimento ai benefici dell’organismo, al contributo dato alla
sua sopravvivenza e auto-preservazione.
164
Naturalmente, se si reperisse una plausibile ragione autonoma per questo fenomeno – po-
niamo, la funzione comunicativa di allertare le altre gazzelle del branco che vi è un pericolo immi-
nente – allora vi sarebbe una causa strutturante o per se. Comprendere se certi fenomeni regolari
abbiano cause strutturanti o meno, è una faccenda in parte empirica, e in parte congetturale. Il con-
testo selettivo non è più presente e osservabile, va ricostruito a partire dai suoi effetti nel presente.
165
Cfr. DA iii 12, 434a31-33.
166
Si tratta di caratteri distintivi di certe parti corporee, come il colore degli occhi, il tono
grave o acuto della voce, il colore dei peli o del piumaggio, la grossezza dei capelli e il loro
incanutire, la calvizie, e così via: sono, per Aristotele, caratteri privi di τέλος, o funzione propria
167
Un esempio rilevante per la psicologia, è l’attività onirica. I sogni, per Aristotele, sono
risultato di rimescolamenti delle tracce sensoriali nell’organo sensorio, ma sognare non serve a
nulla. L’attività onirica non ha una causa strutturante che ne spiega l’esistenza, ma ha come causa
un altro processo, quello della sensazione e della ritenzione del contenuto percettivo, che ha una
chiara finalità ed è una funzione propria. Sul tema dei sogni e della loro assenza di finalità, cfr.
Morel 2007, Parte i, Cap. 2. Anche la bile, per fare un altro esempio fra tanti, è un residuo inutile
(PA iv 2, 677a11-18).
Natura 69
168
Su questa importante distinzione, insiste Pavlopoulos 2010. Nella teleologia diacronica,
l’explanans non è simultaneo all’explanandum, come invece è il caso della teleologia sincronica.
In realtà Pavlopoulos individua ben quattro tipi di teleologia derivanti dalla classificazione tra-
sversale in diacronica/sincronica e cinetica/funzionale: 1) teleologia cinetico-diacronica: il movi-
mento nel seme è per l’organismo maturo, che ora è assente 2) teleologia funzionale-sincronica: il
cuore è per l’organismo, che ora è presente 3) teleologia cinetico-sincronica: la respirazione serve
a raffreddare l’animale, ora 4) teleologia funzionale-diacronica: il seme è presente nel maschio
adulto “per” l’organismo che ha da essere generato.
70 Capitolo primo
169
«Le cose che sono posteriori nella generazione, sono anteriori nell’essenza» (Met. ix 8,
1050a4-5).
170
Le parti organiche vanno individuate sulla base delle loro operazioni e funzioni (cfr. Met.
vii 10, 1035b16-17; DA ii 4, 416b24).
171
L’embrione si sviluppa per una serie di riscaldamenti e raffreddamenti, spinte e trazioni,
che trasformano il nutrimento in feto. Cfr. GA ii 1, 735a15-22; ii 3, 736a32 ss.; 736b11 ss.: già da
subito, il feto ha una propria anima nutritiva.
172
Cfr. Phys. ii 9, 200a32-b2.
Natura 71
176
Per esempio, i fautori della cosiddetta “teleo-semantica” (come Millikan 1984, Dretske 1995,
Neander 1995) muovono dalla nozione di funzione propria (selezionata per via evolutiva a livello
di specie, o tramite apprendimento individuale) come latrice di contenuto degli stati mentali.
177
Per esempio, Pavlopoulos 2003.
178
L’immane sforzo dell’ontologia aristotelica è quello di trovare una via media fra il ma-
terialismo riduttivo e l’ontologia platonica delle Forme. La teoria del divenire è un raffinato
dispositivo teoretico e concettuale per far fronte alle aporie platoniche del divenire senza doversi
impegnare alla ipostatizzazione delle Forme. Se le forme che vengono “trasferite” nel processo di
generazione dovessero cominciare a esistere, allora resterebbe inspiegato questo cominciamento
assoluto e sarebbe reintrodotta la necessità di postulare delle Forme indivenienti di cui le cose da
natura parteciperebbero. L’insistenza aristotelica sul fatto sul fatto apparentemente ovvio che “un
uomo genera un uomo”, come ha efficacemente mostrato Oheler 1963, è una reazione alla teoria
platonica delle Idee. Aristotele ribadisce di continuo, in tal modo, che è la natura della specie in
quanto è immanente negli individui, che si perpetua nella generazione, senza bisogno di Forme
trascendenti, uomini generano altri uomini, senza bisogno di un Uomo di cui verrebbero questi
verrebbero a partecipare. Cfr. Freudenthal 1995, p. 38. Cfr. Met. xii 3, 1070a28. Cfr. Met. vii 8,
1033b26-28: «è chiaro che causalità che alcuni [scil. i platonici] dicono che le Forme abbiano, se
queste esistono oltre le cose sensibili, non sarà di nessuna utilità per spiegare le generazioni e le
sostanze». Segue l’esempio dell’uomo che genera un uomo, cioè un determinato numericamente
diverso ma specificamente identico al generante.
Natura 73
179
Dal punto di vista del vivente, essere è meglio che non essere (GA ii 1, 731b28-31), e poi-
ché essere per i viventi significa vivere (DA ii 4, 415b14), vivere è meglio che non vivere. Ma se
la preservazione della specie è spiegabile, non lo è – entro la metafisica aristotelica del mutamento
come dipendente da un agente che è già in atto ciò che la cosa che muta diventa, attualizzando una
sua potenza – il suo originarsi.
180
Dunque, per ovviare al platonismo si ricadrebbe nel materialismo riduttivo, per cui le for-
me non sono che accidenti della materia: se la nascita di una forma non dipende da una forma già
in atto ed è “venuta fuori” dalla materia, allora è un accidente della materia, ed è solo la materia
che possiede una natura intrinseca, non già le forme-specie.
181
Cfr. Met. xii 10, 1075a11-25. I viventi generano enti simili a sé «per partecipare, nella
misura del possibile, dell’eterno e del divino» (DA ii 4, 415a34-35). Siccome l’individuo non è
in grado di sopravvivere in eterno, la riproduzione soddisfa una “istanza di eternità” perlomeno
a livello di specie (415b2-7); cfr. GA ii 1, 731b24-35. Inoltre, gli elementi (aria, acqua, terra,
fuoco) imitano il movimento eterno del Sole, il quale, come gli altri corpi celesti, imita il motore
immobile (cfr. GC ii 10, 337a1-7).
182
Cfr. PA i 5, 645a4-23: ciascuna delle forme viventi, compresa la più infima, manifesta la
tensione verso il fine che pervade ogni cosa.
74 Capitolo primo
183
DA ii 1, 412b7 e 9-11.
184
DA ii 4, 416b7-8.
capitolo secondo
anima
1. Cosa è l’anima?
Il libro i del De anima esamina dialetticamente le dottrine psicolo-
giche dei predecessori1, ma si apre con alcune considerazioni prelimi-
nari, metodologiche, di estrema importanza. Il suo incipit conferisce
uno speciale status all’indagine che sta per avviarsi: se il sapere è cosa
bella e degna d’onore sia in virtù del suo rigore che della dignità dei
suoi oggetti, una conoscenza rigorosa dell’anima risulterà essere af-
fatto prioritaria, anche perché sembra poter contribuire alla verità in
tutti gli altri ambiti2, anzitutto all’indagine sulla natura, giacché l’ani-
ma pare essere come il principio degli animali3. Statuita la rilevanza
dell’imminente impresa conoscitiva, se ne individuano gli obbiettivi:
conoscere la natura ed essenza dell’anima, e le sue proprietà, alcune
delle quali le apparterranno in senso stretto, altre apparterranno agli
animali in virtù dell’avere un’anima4. In seguito si riconosce la enorme
difficoltà metodologica dell’impresa medesima: non è chiaro se esista
un metodo unico per conoscere l’essenza delle cose, e se un metodo vi
fosse, non è chiaro da quali principi il procedimento dovrebbe muove-
re5 per attingere l’essenza dell’anima e i suoi attributi.
Nel contesto di questa preoccupazione metodologica preliminare,
vengono circoscritte le domande fondamentali da soddisfare:
1
Come rileva Polansky 2007, p. 33, la struttura di DA i ricorda una «variazione su un dia-
logo socratico», ove varie proposte su cosa sia X vengono avanzate e dialetticamente confutate
con un progressivo approssimarsi alla natura dell’oggetto indagato. La preliminare ricostruzione
critico-dialettica delle dottrine dei predecessori, del resto, è un modo naturale, per Aristotele, di
approcciare un oggetto di indagine. Cfr. Met. i e Phys. i. Anche se Aristotele esamina le dottrine
filosofiche dei predecessori, è virtualmente in questione, ed è oggetto di riferimento implicito, an-
che l’insieme delle tradizioni e dei saperi pre-filosofici relativi all’anima; per un quadro generale
sui significati pre-filosofici della yuchv, cfr. Bremmer 1987, Reale 1999.
2
DA i 1, 402a1-4. La conoscenza stessa è una proprietà dell’anima, dunque conoscere l’ani-
ma significa conoscere il soggetto di ogni conoscenza.
3
DA i 1, 402a6. Dunque la conoscenza dell’anima contribuisce all’indagine sulla fuvsi~: la
prosegue; ma nel contempo, l’indagine generale sulla fuvsi~ è presupposta alla conoscenza dell’a-
nima, ed è essenziale a questa.
4
DA i 1, 402a9-10.
5
DA i 1, 402a10-18.
76 Capitolo secondo
12
La stessa istanza metodologica è ribadita in DA ii 2, 413a11-16: «Poiché da ciò che è oscu-
ro (ajsafw`n) e tuttavia più in vista (fanerwtevrwn) deriva ciò che è chiaro e conosciuto in modo
definitorio, occorre riprendere di nuovo da qui l’indagine sull’anima. Infatti il discorso definitorio
non deve mostrare solo il che, come fanno la maggior parte delle definizioni, ma deve contenere
e rendere manifesta anche la causa».
13
Conoscere l’essenza dell’oggetto ci pone in grado di dedurre o spiegare le proprietà neces-
sarie dell’oggetto (gli “accidenti per se”), ma considerare gli accidenti manifesti dell’oggetto ci
pone in condizione di congetturare e di reperire l’essenza: se l’essenza sarà reperita correttamen-
te, si capirà anche dal suo potere esplicativo in rapporto agli accidenti.
14
Cfr. APr. i 30, 46a18-20: «spetta all’esperienza (ejmpeiriva) fornire i principi riguardanti i
vari oggetti. Con ciò intendo dire, per esempio, che l’esperienza astronomica fornisce i principi
della scienza astronomica (infatti una volta stabiliti opportunamente i fenomeni, si scoprono su
questa base le dimostrazioni astronomiche)». Dunque la dimostrazione scientifica presuppone un
Anima 79
per noi è ciò che va spiegato, il primo per sé è ciò che lo spiega15, il pro-
cesso di derivazione top-down degli attributi manifesti dai principi/es-
senze, presuppone un processo di risalita bottom-up di previa ricerca
delle essenze a partire dagli attributi manifesti.
Nel passo in questione Aristotele ci dice che la cognizione prelimi-
nare degli attributi può contribuire al reperimento dell’essenza da cui
poi gli attributi stessi possono essere derivati, o spiegati, “secondo ciò
che è manifesto”16. Ma soprattutto, per via negativa ci dice che una
definizione che non ci ponga nella posizione di poter spiegare adegua-
tamente gli attributi della cosa, è una cattiva definizione, in quanto è
epistemologicamente inservibile: per questo è puramente dialettica e
vuota17. Pertanto, da un lato dobbiamo considerare con cura gli attri-
buti manifesti, le proprietà apparenti dell’anima e degli enti animati18,
dall’altro sappiamo che aspiriamo a una definizione che possa dare
conto di questi, altrimenti non avremmo trovato ciò che cerchiamo19.
processo di induzione ai principi che dipende anzitutto dalla esperienza, dalla considerazione dei
fenomeni manifesti. L’esperienza è una apprensione generale delle cose, un “che” di cui la scien-
za deve disvelare e manifestare il “perché”, cioè le cause. L’esperienza non è la semplice per-
cezione delle cose, bensì l’apprensione delle cose già generalizzata e unificata attraverso molte
osservazioni (cfr. Met. i 1, 981a1-8; AP ii 19, 100a3-9).
15
Poniamo che la natura-essenza – e dunque anche la struttura causale profonda – dell’acqua
sia H2O. Noi abbiamo cognizione empirica dell’acqua come di un liquido trasparente, potabile,
suscettibile di evaporare ecc. Questi attributi manifesti dell’acqua sono anche inclusi nel significa-
to che da parlanti ordinari associamo al termine “acqua”. Scoprire che l’acqua è H2O ci dovrebbe
mettere anche in condizione di dare conto dei suoi attributi epifenomenici, come la potabilità, la
trasparenza, la suscettibilità al cambiamento di stato, e così via. Parimenti, questi attributi appa-
renti cui abbiamo accesso esperienziale, e che fissano il significato del termine “acqua” ordina-
riamente impiegato, possono essere degli indicatori utili alla scoperta, o almeno alla congettura,
che l’acqua sia o possa essere composta da ossigeno e idrogeno. L’esito del processo conoscitivo
paleserà che il “primo per noi”, i tratti distintivi dell’acqua catturabili in una “definizione nomina-
le” (grossomodo, il significato ordinario del termine “acqua”), hanno come causa e fondamento il
“primo per sé”, sono cioè aspetti della cosa dovuti alla sua natura-essenza: ciò che si attinge come
risultato è anche causa e fondamento del cominciamento, ciò che segue secondo l’ordo cogno-
scendi, precede secondo l’ordo essendi.
16
La fantasiva qui, è l’apparire o il manifestarsi dell’oggetto: denota ciò che denota l’espe-
rienza (cfr. supra, e AP ii 19, 100a3-15), cioè la familiarità empirica coi casi di un certo tipo, i modi
consueti in cui un certo tipo di cose si dà nell’esperienza familiare, preteoretica di cose di quel
tipo. Questi modi di apparire dell’oggetto, devono essere riscattati, per così dire, dalla conoscenza
scientifica dell’oggetto; oltre ad essere una via che orienta verso tale conoscenza stessa.
17
Qui “dialettica” ha una accezione negativa: il passo è marcatamente antiplatonico.
18
Se l’anima è elemento costitutivo degli enti animati, il coglimento della sua essenza ci fa-
ciliterà la comprensione di proprietà manifeste degli enti animati di cui è elemento costitutivo, al
modo in cui l’essenza del “retto” o della “superficie”, elementi costitutivi del triangolo, ci rendono
accessibili di certe proprietà salienti del triangolo.
19
Cfr. EN i 2, 1095a31-b 4; Met. vii 3, 1029a35-b12; EE i 7, 1217a19-20, ove si chiarisce il
fatto che occorra risalire induttivamente ai principi, prima di poter ridiscendere deduttivamente
80 Capitolo secondo
alle proprietà derivabili dai principi: ove i principi sono le essenze degli oggetti riguardati dal
genere di cui una certa scienza è scienza.
20
DA i 1, 403 a 5-6.
21
Si può diventare paonazzi o impallidire, tremare o rigonfiarsi nel torace, sudare o aumenta-
re il battito cardiaco, irrigidirsi o avere il respiro corto e affannato, contrarre i muscoli, digrignare
i denti, piangere, e così via.
22
Come verrà in chiaro in seguito, il termine “immaginazione” traduce fantasiva in modo
piuttosto inadeguato. Cfr. Cap. iv.
23
Nel passo precedente si dice che, rispetto alle affezioni, l’anima non fa né subisce senza
il corpo, qui si dice che tali affezioni sono meta; swvmato~: in comune con, o attraverso il corpo.
24
Traduco a{ma con «insieme», in questa occorrenza, perché l’argomento non vuole semplice-
mente mostrare la simultaneità, già data dall’esperienza, ma un nesso più forte della semplice con-
Anima 81
temporaneità: l’argomento, infatti, mostra che non vi è sempre una proporzione fra stimolo ed emo-
zione in virtù del fatto che certe condizioni corporee sono sufficienti al darsi di una certa emozione.
25
Quest’argomento aristotelico è tutt’altro che banale, e problematizza una intuizione di sen-
so comune: quella, per esempio, per cui riteniamo di provare certe emozioni, e poi di scoprire le
conseguenze corporee di queste (come la sudorazione, il riscaldamento, un certo stato muscolare
ecc.); non è affatto scontato che le cose stiano così: secondo una tesi risalente a James 1890 e
attualmente ben rappresentata nel dibattito sulle emozioni, per esempio, la cognizione delle nostre
emozioni è esattamente la presa di coscienza di questo stato corporeo, che è l’emozione piuttosto
che esserne un effetto, pertanto la rappresentazione della folk psychology sarebbe errata.
26
L’espressione è un hapax nel corpus aristotelicum, ma il suo senso viene in chiaro da ciò
che precede e segue: un’affezione psichica ha una ontologia ilemorfica, è un certo lovgo~ formale
incorporato in una certa materia; il suo ruolo causale e funzionale nell’economia psichica e com-
82 Capitolo secondo
le a: “l’incollerirsi è un certo mutamento di un certo corpo o parte o capacità
a causa di questa cosa e in vista di quest’altra cosa”. E per questi motivi è in-
dubbiamente compito del fisico il teorizzare intorno all’anima, o a questo tipo
a ogni tipo di anima» (DA i 1, 403a24-29).
portamentale del soggetto – ruolo che individua l’affezione in modo primario – è realizzato in una
materia ed è reso possibile da questa realizzazione. Vi è anche la variante ejn u{lh/ (attestata nei
manoscritti C, E), che comunque ne lascia inalterato il senso.
27
In realtà, la scienza paradigmatica entro cui collocare l’indagine sull’anima, è piuttosto la
biologia. Ma è vero che la biologia studia i mutamenti del vivente, che sono sì peculiari, ma la
cui comprensione implica la previa comprensione del mutamento come tale e dei corpi naturali
in generale (di cui il vivente è composto), dunque i principi della fisica: sui quali infatti ci siamo
soffermati nell’intero Capitolo i.
28
Non è chiaro se in questo passo e altri simili i pavqh siano proprietà nel senso generale di
“attributi”, o se siano affezioni in generale, oppure quelle affezioni specifiche che sono le emo-
zioni, oggetto dell’esempio. In Rhet. ii 1, 1378a19-21 i pavqh sono definiti «ciò per cui gli uomini,
mutando, differiscono nei giudizi, e a cui si accompagnano piacere e dolore»: questi sono emozio-
ni come ira, paura, compassione ecc. Ma qui il senso deve essere più esteso, giacché DA si occupa
di stati e processi psichici in generale: percezioni, pensieri, desideri, ragionamenti, immagini ecc.
Talvolta in DA (ad esempio, i 1, 403a10 e a20) Aristotele usa paqhvmata come sinonimo di pavqh.
Sul termine πάθη in DA, cfr. Rossitto 1995.
Anima 83
o qualcosa di simile, il fisico “ebollizione del sangue e del calore intorno alla
regione cardiaca”29. Il primo fornisce la materia, il secondo la forma e il lovgo~:
questo infatti è il lovgo~ dell’oggetto, ma se esso dovrà darsi, sarà necessaria
una materia di un certo tipo. Allo stesso modo il lovgo~ della casa sarà qualcosa
come “un riparo che protegge contro la distruzione causata da venti, piogge e
caldo”, ma uno dirà che è pietre, mattoni e legno, un altro dirà che è la forma
che è presente in queste cose per un determinato scopo» (DA i 1, 403a29-b7).
29
Cfr. Rhet. ii 2, 1378a30-32; PA ii 3, 650b35-651a4.
30
Poco prima si parla di definizioni dialettiche e vuote, che non fanno luce sugli accidenti e
non manifestano la causa: la dialettica aristotelica ha un valore positivo, anche nei confronti della
ricerca dei principi delle scienze (cfr. Top. i 2, 101b4); ma il dialettico che qui è obbiettivo pole-
mico verosimilmente è quello, platonico, che intende muoversi solo a livello di nozioni astratte.
31
Anche se pietre e mattoni non sono sufficienti a fare una casa (cfr. GC ii 1, 337b14 ss.):
debbono essere disposti in certi modi, per soddisfare la funzione della casa: questa disposizione,
rientra nella materia della casa, la cui forma-essenza è la sua funzione.
32
Wiggins 1980 introduce lo “è” di costituzione e riconosce che è di ascendenza aristotelica.
84 Capitolo secondo
per noi non ha rilevanza diretta per la descrizione di uno stato mentale,
il fatto che i neuroni attivati siano costituiti di molecole che sono co-
stituite di atomi che sono costituiti di microparticelle e da vuoto ecc.35,
tanto quanto non ha rilevanza diretta per la funzione/forma della casa,
il fatto che essa sia fatta di terra o acqua: non sono i costituenti ultimi
che rilevano, almeno da un punto di vista definitorio, quanto invece
il tipo di elementi materiali funzionalmente descritti: mattoni, pietre
e legno organizzati in un certo modo36. Questa è la ragione per cui la
materia entra nella definizione come un «certo corpo, o capacità, o par-
te» (403a30), dunque come materia funzionalmente organizzata. Per
questo, ribadito che il fisico studia le attività e le affezioni non separate
dalla materia e in quanto non sono separabili37, Aristotele conclude che
le affezioni dell’anima sono inseparabili dalla materia naturale (fu-
sikh; u{lh) degli animali, cioè dalle parti funzionali corporee che essi
hanno per natura38.
Visto che la struttura dell’indagine filosofica comporta la previa
ricognizione di difficoltà o aporie (ajporh`sai)39, il trattamento dialetti-
co delle stesse (diaporh`sai)40, e infine il loro scioglimento (luvsi~) o
35
La paura è invece un certo raffreddamento del sangue intorno alla regione cardiaca (PA iii
4, 667a12-19; Rhet. ii 23, 1398b32). Per questo, forse, nel passo precedente Aristotele cita collera
e paura insieme: sono eventi termocinetici di segno opposto.
36
Il termine “forma” non deve trarre in inganno: la forma della casa come organizzazione
fisica, appartiene alla materia prossima, non va confusa con la forma nel senso di essenza, che
per la casa, come per gli artefatti in genere, è la funzione. Ci sono poi entità per le quali forma
spaziale ed essenza di fatto coincidono: sono le figure geometriche.
37
X è separabile da Y se può esistere indipendentemente da Y, o se la sua definizione non
include un riferimento a Y: in entrambi i sensi della separabilità, gli stati psichici non sono sepa-
rabili dalla loro materia, che li realizza.
38
Gli artefatti, invece, sono in certo senso sostanze, ma non hanno una natura: negli artefatti,
materia e forma hanno un legame contingente, infatti solo la materia dell’artefatto ha una natura
propria, mentre è la forma, nei viventi, a essere la loro genuina natura. La forma-funzione degli
artefatti non è ad essi intrinseca, è individuata da utenti e artefici, dunque sulla sua individuazione
grava una certa convenzionalità: se smettessero di esserci osservatori e utenti, che ne sarebbe
della “forma” (funzione) di una sega e di un letto? Invece, la forma degli enti da natura è affatto
indipendente dall’osservatore che la individua, è anzi il principio ontologicamente più “reale” che
determina l’essere della cosa stessa. Sulla misura in cui gli artefatti debbano essere considerati
sostanze o meno, cfr. Kosman 2013, cap. 4.
39
Un’aporia è una situazione di stallo teorico, in cui due alternative, che prima facie paiono
esaurire tutte le possibilità, conducono entrambe a esiti contraddittori o inaccettabili: cfr. Top. i 11,
104b12-14; vi 6, 145b16-20. Sulla nozione di aporia, cfr. Aubenque 1961, Rossi 2006.
40
Qui “dialettico” è usato in senso lato o generale: l’analisi semantica e concettuale, il per-
correre le conseguenze inferenziali dei due corni, trovare due o più sensi, o aspetti, diversi della
stessa nozione (cfr. Met. ii 2, 1004a32; Top. i 2, 101a25 ss.), il considerare le opinioni notevoli, dei
più e/o degli “esperti”, e l’esaminarle criticamente.
86 Capitolo secondo
41
Cfr. Witt 1995, Viano 1996, Isnardi Parente 1996.
42
DA i 2, 403b26. Evidentemente, un certo tipo di movimento, quello attivo. Cfr. Cap. i.
43
DA i 2, 403a35-404a16.
44
Ippaso, Leucippo, Eraclito e Democrito gli attribuiscono natura ignea (404a1-16; 405a26-
28), Ippone acquea (405b2-4), Anassimene e Diogene aerea (405a21-23), Crizia sanguigna (405b
6-7). Nessuno sceglie come elemento esclusivo la terra (405b8), che mal si presta a spiegare lo
speciale movimento di cui l’anima è ritenuta responsabile: anche chi la concepisce come acquea,
probabilmente per la stessa ragione è detto “filosofo fra i più rozzi” (405b1-2). Altri, come Empe-
docle e Crizia pongono l’anima come composta di tutti e quattro gli elementi (405b8-11).
45
DA i 3, 406a1-2.
Anima 87
51
Si pensi al sonno, che pure è un fenomeno necessario e orientato alla preservazione dell’ani-
male (cfr. SV), e dunque è un fenomeno “psichico”: come vedremo, l’anima è capacità, che perma-
ne che anche quando non attualizzata in un esercizio occorrente. Dunque anche la stasi e il sonno
vanno spiegati, non solo i movimenti: la natura degli enti naturali è principio sia di movimento
che di riposo (cfr. Cap. i), e l’anima è natura e forma-essenza del vivente.
52
Chi intende specificare la natura dell’anima indipendentemente dal corpo, non è in grado di
spiegare l’unità di anima e corpo, e parla come se qualunque anima potesse entrare e uscire da qua-
lunque corpo; invece ogni anima ha un corpo proprio e appropriato (DA i 3, 407b20-24). «Questi
filosofi si esprimono come chi dicesse che l’arte del carpentiere entra nei flauti» (24-26): la musica
è attività resa possibile solo da un flauto, la carpenteria si realizzerà attraverso altri strumenti adat-
ti; parimenti, le capacità psichiche saranno realizzabili solo in una materia corporea appropriata.
53
La nozione di errore categoriale (category mistake) risale a Ryle 1949: si tratta di una fal-
lacia informale, in cui una entità appartenente a una certa categoria viene attribuita a un altra cui
non si può sensatamente attribuire: un esempio prediletto da Ryle è l’ipostatizzazione cartesiana
della mente, in quanto una sostanza immateriale, secondo Ryle, non può essere sensatamente
concepita come un soggetto di disposizioni o capacità. La critica a Descartes mossa da Ryle è
analoga, mutatis mutandis, alla critica al dualismo sostanzialistico della teoria platonica dell’ani-
ma da parte di Aristotele. Cfr. infra.
54
Cfr. DA i 3, 406a29-b1. Sulla funzione dialettica della dossografia aristotelica in DA i, cfr.
Viano 1996.
Anima 89
«Noi diciamo, infatti, che l’anima prova dolore o gioia, coraggio o paura, e
che si incollerisce, che percepisce, che pensa [...] tuttavia, dire che l’anima è
in collera è simile a dire che l’anima tesse o che l’anima costruisce. Ma forse
è meglio non dire che l’anima ha compassione o apprende o pensa, bensì che
l’uomo fa queste cose, in virtù dell’anima (th`/ yuch`)/ » (DA i 4, 408b2-16)66.
66
Questa osservazione va inquadrata anche entro la polemica relativa al movimento dell’ani-
ma: se l’anima fosse il soggetto degli atti psichici, si muoverebbe: ma se è la capacità in virtù di cui
l’uomo o l’animale compie o subisce questi atti (percepire, pensare, soffrire, desiderare ecc.), allora
è l’animale che si muove, non l’anima stessa: pertanto, si può negare movimento all’anima stessa.
67
Sulla fallacia dell’omuncolo, cfr. Ryle 1949, p. 31.
68
Cfr. i 3, 406a18-21. In un senso è l’animale o il corpo dell’animale, in un altro è il cuore, a
esser mosso dalla collera: l’anima, come vedremo, è una capacità dell’animale come un tutto, ma
la sorgente causale di tale capacità è ubicata anzitutto nel cuore. L’anima invece, come insieme di
capacità psichiche, non è mossa nel senso che non muta; come vedremo, l’esprimersi o manife-
starsi di una capacità non è classificabile come un mutamento alterativo.
92 Capitolo secondo
Chiarito che l’anima è principio unificatore del corpo e non può es-
sere ridotta agli elementi costituenti del corpo medesimo72, Aristotele
polemizza anche con la teoria tricotomica di Platone73, che non solo
divide l’anima in tre parti, ma localizza queste in tre parti diverse del
corpo: la intellettiva nella testa, la “irascibile” nel petto, la appetitiva
nell’addome74. Se l’anima è per natura divisa, non potrà essere princi-
pio di unità, né del corpo né dell’ente animato. Pertanto, se l’anima ha
“parti”, occorre indagare in che senso qualcosa di unitario per natura,
un principio unificatore per eccellenza, possa avere delle parti pur non
essendo divisa. Se l’anima è principio di unità non solo del corpo, ben-
sì anche dell’ente animato, deve essere una: come non va ipostatizzata
69
Cfr. Cap. iii.
70
Si noti lo scarto teoretico decisivo rispetto a Platone, che nel Teeteto sostiene che non è
l’occhio o l’orecchio che vede o sente, ma l’anima, per mezzo di occhi od orecchie (184C-D). Per
Aristotele, non è l’occhio, che vede, ma nemmeno l’anima, bensì l’animale, per mezzo dell’anima
intesa come capacità visiva dell’animale realizzata nell’occhio.
71
In Met. v 12 il primo significato di “capacità” (duvnami~) è: «il primo principio di movimen-
to o mutamento che si trova in un altra cosa, o nella stessa cosa in quanto altra» (1019a15-16):
un principio attivo di cambiamento può riguardare sé in quanto altro, in quanto aventi anche un
principio passivo di mutabilità, viceversa quest’ultimo può riguardare sé in quanto altro, cioè in
quanto aventi un principio attivo di mutamento. Se una cosa è capace di mutare se stessa, ha un
principio attivo e un principio passivo: l’animale muove se stesso, ed è attivo in quanto anima,
passivo in quanto corpo.
72
Né l’anima può essere, per ragioni analoghe, un accidente del corpo, come i sostenitori
dell’anima-armonia ritengono: l’armonia, infatti, è accidente di un corpo.
73
Cfr. Resp. vi, 436A-C e 439A-B.
74
Cfr. Timeo 69A-E.
Anima 93
l’anima stessa facendone una entità separabile dal corpo, così non van-
no ipostatizzate le sue “parti” come fossero separabili dalla totalità uni-
taria di cui pure sono, in un senso ancora tutto da chiarire, delle parti75.
La disamina critica delle teorie precedenti si chiude con l’introdu-
zione, apparentemente innocua, di una suggestione che, teoreticamente
articolata, comporterà una rivoluzione della concezione tradizionale, fi-
losofica e non, della yuchv: pare che il principio presente nei vegetali sia
una certa anima, che questi hanno in comune con gli animali76. Aristo-
tele aveva già rimproverato i predecessori per limitare la loro indagine
solo all’anima umana77, trascurando quella delle fiere78. Ora l’estensio-
ne dello psichico viene ad abbracciare anche il regno vegetale, divenen-
do coestensiva col dominio del vivente in quanto tale: dove c’è vita, c’è
anima, i processi vitali sono processi psichici. Ne viene che per studiare
cosa mai sia l’anima occorra studiare cosa mai sia la vita.
e l’essenza della cosa, e questa coincide con quei poteri causali di base
che la cosa ha per natura, poteri causali che sono attivi nel caso dei
viventi. Tali poteri causali sono individuati a partire dalla loro espres-
sione o esercizio, ma sono disposizioni che caratterizzano la sostanza
anche quando non sono in esercizio: per questo «l’attualità si dice in
modo duplice, o al modo della conoscenza, o al modo della contempla-
zione» (412a11-12): conosco il teorema di Pitagora nel senso di essere
in grado di poterlo dimostrare, o nel senso di esercitare questa capacità
in un atto concreto di dimostrazione e di contemplazione; analogamen-
te, la forma-natura di qualcosa è attualità sia come capacità, che come
espressione della capacità in esercizio, mentre la materia del qualcosa,
in quanto potenza-capacità di quella forma, risulta dunque capacità di
una capacità, cioè del darsi di una sostanza che dispone di certi poteri
causali che la individuano, e che esprime o esercita questi poteri causa-
li. Poniamo che la sostanza S abbia la forma-natura F e la materia M: se
F consiste nell’avere certe capacità e nell’esercitarle (i due sensi in cui
la forma è attualità), e queste capacità sono a loro volta rese possibili
dal fatto che S ha una certa materia, risulta che la materia è capacità/
potenzialità rispetto alla forma/attualità, ma siccome la forma/attua-
lità consiste in certe capacità esercitabili, sono in gioco due sorte di
capacità/potenzialità, quella della materia rispetto alla forma, e quella
della forma/attualità in quanto insieme di capacità rispetto alla forma/
attualità in quanto esercizio delle capacità medesime. Come vedremo a
breve, si tratta di sensi di “capacità” molto diversi.
Rilevato che le sostanze paiono essere anzitutto i corpi, e fra questi
in primis quelli naturali – giacché sono principi e costituenti anche di
quelli artificiali – si distinguono tra questi ultimi quelli dotati di vita,
caratterizzata come “capacità di nutrirsi da sé, crescere e deperire”
(412a13-15), e si conclude che ogni corpo vivente sarà sostanza nel
senso di composto (17): si ricordi (cfr. Cap. i) che né forma né materia
divengono, bensì solo il composto, cosicché un corpo che sia capace
di mutarsi, se è sostanza, lo sarà nel senso di composto di materia e
forma. Segue un argomento di non immediata comprensione, che con-
clude con la prima caratterizzazione dell’anima (1a):
«Siccome [il vivente] è un corpo di un certo tipo, cioè che ha vita, l’anima
non sarà il corpo, infatti il corpo non è fra le cose che sono di un sostrato ma
è piuttosto sostrato e materia. Pertanto è necessario che l’anima sia sostanza
nel senso di: 1a) forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza (ei\do~
swvmato~ fusikou` dunavmei zwh;n e[conto~)» (412a20-21).
Anima 95
80
Qui Aristotele postula, senza argomentarlo, il nesso fra anima e vita: probabilmente in
quanto è una opinione ben attestata nella tradizione filosofica e pre-filosofica, nonché nel senso
comune e nello stesso significato ordinario di “anima”, “animato” e affini.
81
Cfr. DA ii 1, 412b12-13: l’anima è l’essenza di un corpo di un certo tipo (to; tiv h\n ei\nai tw`/
toiw/di; swvmati); cfr. Phys. ii 1, 193a31, in cui si eguaglia natura (nel suo senso primario) = forma =
definizione (lovgo~); e la definizione è ciò che esprime l’essenza di ciò di cui è definizione.
82
L’occhio “vede” (può vedere) anche quando non stiamo vedendo; e “percepiamo” (siamo
capaci di percepire) anche quando dormiamo; e “conosciamo” anche quando non stiamo contem-
plando l’oggetto conosciuto.
96 Capitolo secondo
1b) «L’anima è l’attualità prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza»
(ejntelevceia hJ prwvth swvmato~ fusikou` dunavmei zwh;n e[conto~) (412a34-35).
«Perciò non occorre indagare se l’anima e il corpo siano uno, così come [non
occorre indagare se siano uno] la cera e la configurazione della cera o, in
generale, la materia di una certa cosa e ciò di cui è materia. Infatti l’essere e
l’uno si dicono in molti modi, e il modo principale è l’attualità» (412b7-10).
cera (e altre componenti) in quanto organizzata in modo da rendere possibile quella forma-fun-
zione: la forma-configurazione è una proprietà della candela che, nella misura in cui contribuisce
alla funzione, è parte della materia prossima della candela. Sulle prime, parrebbe che l’analogia
del rapporto anima/corpo col rapporto configurazione/cera sia generica e non puntuale, giacché
la configurazione della candela non sta alla cera come l’anima sta al corpo, non essendo la forma
sostanziale di essa. Ma un pezzo di cera è la possibilità di una candela, che si realizza grazie
all’esser, la cera, plasmata in modo da avere una configurazione (forma-shape) tale da poter
realizzare la funzione (forma-essenza) di candela: dunque la cera in quanto “configurata” è come
un corpo “organico” (sebbene non naturale) della candela: così la cera non è altro dalla cera orga-
nizzata funzionalmente di una candela. La materia simpliciter non è altro dalla materia prossima,
e la materia prossima non è altra cosa dalla candela: se la candela è definita dalla capacità di
illuminare, allora questa capacità di illuminare (attualità prima) è la stessa capacità in cui consiste
la cera in quanto organizzata funzionalmente (in una certa forma-shape): l’analogia, pertanto, è
rigorosa e puntuale, e niente affatto generica. Naturalmente, la candela non ha un’anima perché
la sua funzione non realizza la capacità di un corpo naturale dotato di vita, bensì la capacità di
un corpo artificiale privo di vita. Il “corpo” funzionale che è materia prossima della candela, in-
fatti, è artificiale, per quanto sia costituito di enti naturali (la materia remota di tutti gli artefatti è
inevitabilmente naturale). In un altro contesto e in un senso un po’ diverso ma purtuttavia perti-
nente, anche il prodotto del concepimento (kuvhma, embrione o feto), in GA i 21, 729b5-6 viene
paragonato alla sfera prodotta dalla cera e dalla sua forma: in tal caso l’analogo della cera è il
mestruo femminile, e l’analogo della sua forma è l’azione “informatrice” del seme maschile sul
mestruo, principio materiale passivo.
85
Fra i diversi modi in cui si dice l’essere – essere come categorie, essere come accidente,
essere come vero, essere come potenza e attualità (cfr. Met. v 7) – qui è evidente perché sia solo
l’ultimo a essere a tema: l’anima è sostanza come forma, dunque la molteplicità delle categorie qui
non rileva. Parimenti, se è sostanza non è accidente, e l’essere come “vero” è un significato logico,
non pertinente alla psicologia e alla filosofia della natura. L’anima è essere (e uno) nel senso di at-
tualità. “Essere” e “uno” sono equiparati, e si dicono negli stessi modi (cfr. Met. iv 2, 1003b30-32).
86
La potenza è potenza di agire o di patire, o di agire e di patire in un certo modo: il grasso è
98 Capitolo secondo
Qui l’espressione “essere scure”, o «ciò che è, per una scure, es-
sere»87, denota la capacità di recidere, sottratta la quale la scure sarebbe
tale solo “per omonimia” (15)88. Gli artefatti sono definiti in rapporto
alla loro funzione, la loro forma/essenza è la loro funzione come di-
sposizione esercitabile. Una scure è una realizzazione della capacità di
recidere in un certo individuo, capacità che quell’ente individuale può
concretare in molteplici atti di recisione89: pertanto una scure che non
possa recidere sarà scure al modo di una scure dipinta, cioè di qual-
cosa che chiamiamo scure (“omonima”) perché è simile a una scure
ma senza avere l’essenza-funzione che la renda scure. Ma gli artefatti
non hanno in sé il principio di movimento e quiete, né hanno un corpo
naturale capace di vita (15-18): l’analogia si fa però più stringente con
l’esempio successivo.
2) «se l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista (o[yi~)» (412b
19-20)90.
combustibile perché può venir combusto (se entra in rapporto col comburente), il comprimibile è
tale perché può venir compreso (sa qualcosa che ha potenza di comprimere); dunque potenze attive
e passive sono potenze di fare o subire F o G, e l’esercizio di F o G (la combustione in atto, la com-
pressione in atto) individuano le rispettive potenze (cfr. Met. ix 1, 1046a11-29). Ciò che è in potenza,
è in potenza qualcosa di determinato (Met. ix 5, 1047b35-1048a1), e l’atto rispettivo lo manifesta.
87
to; pelevkei ei\nai è una formula tecnica che denota l’essenza: la formula astratta è to; tiv h\n
ei\nai, «ciò che è, per qualcosa, essere»: l’imperfetto h\n è probabilmente un imperfetto filosofico,
indica il punto di vista di chi ha concluso una ricerca: ciò che era – ciò di cui andavamo in cerca,
quando non sapevamo cos’era – per X, l’essere; l’essere di X, o ciò che per X significa essere,
è la sua essenza: in Met. vii 4, 1029b11-19 è uno dei sensi della sostanza, è ciò che la cosa è per
se stessa e che la definisce, insomma l’essenza. Penso che sia sensato considerare lo ei\nai come
esistenziale: esistere, per X, equivale alla circostanza in cui la essenza-definizione di X è esem-
plificata in un individuo; esistere, per l’uomo, significa che qualcosa è un animale razionale. Sulle
varie interpretazioni della formula, cfr. Weidemann 1996.
88
Cioè avrebbe in comune, con la scure, solo il nome ma non l’essenza, espressa dalla defi-
nizione (cfr. Cat. 1a1-3).
89
Si tratta, naturalmente, di capacità passiva: gli artefatti realizzano la loro funzione propria
solo grazie a qualcuno che li utilizzi (cfr. Cap. i).
90
La vista, qui, indica la capacità di vedere, non l’esercizio della visione: un occhio non vede
Anima 99
durante il sonno, ma non per questo perde la capacità di vedere. Dunque, in senso disposizionale,
un occhio “vede” anche quando non sta vedendo.
91
Ogni organo ha una funzione propria per natura, ma non per questo ha un’anima. Come
spiega MA 10, 703a29-b2 l’organizzazione del corpo è come una città ben governata dalle leggi,
in cui non c’è bisogno che un monarca distinto presieda a ciascuna attività ma ognuno fa la sua
parte in virtù dell’abitudine. Così, ma per natura, fanno le parti del corpo, e «non c’è bisogno che
ci sia l’anima in ogni parte: essa è in qualche parte direttiva del corpo [scil. il cuore o un suo ana-
logo], e le altre parti vivono poiché sono composte per natura, e compiono la loro opera propria
a causa della natura».
92
Cfr. PA i 1, 642a11-12: «il corpo è uno strumento (o[rganon); come ogni sua parte è in vista
di qualcosa, così è il corpo come un tutto». E le parti stanno al tutto come sua materia (PA i 1, 645a
28-35). Le parti corporee, se divise dal tutto, non sono più ciò che erano (GA i 19, 726b22-24).
93
Come gli organi corporei sono il tevlo~ dei tessuti che ne sono materia (PA ii 1, 646b10-14),
e gli organi sono a loro volta “per” il corpo e materia del corpo, così il corpo stesso è «in vista
dell’anima» (DA ii 4, 415a17-21; cfr. PA i 1, 642a10-13).
100 Capitolo secondo
94
Gli organi e le parti corporee si debbono considerare identiche o diverse sulla base della
loro funzione (DA ii 4, 416a4-5) ed è giusto denominarle in base al loro fine (DA ii 4, 416b23-24);
cfr. Met. vii 10, 1035b16-17; Meteor. iv 12, 390a10-11).
95
Anche il corpo è uno. Il corpo è un tutto, come l’anima che lo unifica, le parti dell’anima
sono materia dell’anima e il corpo è materia dell’anima: infatti le capacità psichiche sono realizza-
te in parti corporee. Si ricordi che “separabilità” significa qui: possibilità di esistenza indipendente.
Posto che il corpo capace di vita è la materia prossima dell’animale, il corpo vivente è altrettanto
inseparabile dall’anima di quanto l’anima non lo sia dal corpo: ciò che è “separabile” dall’anima,
ovverosia passibile di esistenza indipendente da essa, è il corpo in quanto materia remota, che
infatti sopravvive alla morte quando permane il cadavere senza vita: un cadavere non è più un
corpo capace di vita, non è più materia prossima di un animale, è un animale solo “per omonimia”.
96
Non può essere ridotta alla materia remota: gli elementi costitutivi di base coi loro poteri
causali. La materia prossima, invece, è la materia già organizzata, per cui è già caratterizzata fun-
zionalmente in un modo che trascende i poteri causali degli elementi costituenti di base. Ackrill
1979 sostiene che la definizione di anima come forma di un corpo vivente sia problematica,
giacché la materia è potenza di molte forme ed è sostrato di generazione e corruzione (cfr. GC i 4,
320a1-4), mentre, se il corpo di cui l’anima è forma è essenzialmente vivo e animato (DA ii 1,
412b18-27), esso non potrebbe perdere o acquistare l’anima. Ma la distinzione fra materia remota
(elementare) e materia prossima (funzionale) toglie ogni apparenza di problematicità: la materia
remota può accogliere o perdere l’anima e la vita, ma il corpo come materia prossima non può
accogliere o perdere l’anima e la vita, perché in quanto è essenzialmente vivo e funzionale, viene
meno con la morte, che è venir meno della vita e dell’anima. Per questo la generazione di un
vivente non è una alterazione della materia che pur fa da sostrato, e di cui la forma-anima sarebbe
un accidente: è piuttosto la materia remota, che diventa un accidente dell’ente animato che pur
va a costituire, infatti viene ricambiata senza intaccare l’identità dell’individuo animato; invece
la materia prossima di quest’ultimo è coessenziale alla forma-anima proprio in quanto è il corpo
funzionale ed è un tutt’uno con la forma-anima. Su quest’ultimo tema cfr. Whiting 1995.
Anima 101
97
«Per questo motivo pensano correttamente coloro per i quali l’anima non è un certo corpo,
ma non esiste senza il corpo» (DA ii 2, 414a19-21). Probabilmente qui Aristotele si riferisce ai teo-
rici dell’anima come armonia del corpo: la loro correttezza si esaurisce nell’intuizione che l’ani-
ma non sia il corpo né si possa dare senza il corpo, poiché credono che l’anima sia una proprietà
del corpo (l’armonia delle sue parti) e non vedono che ne è la forma, cioè la causa dell’unità e del-
l’armonia del corpo medesima.
98
Non concordo pertanto con Barnes 1979, p. 37, secondo il quale le nozioni di materia e for-
ma, che erano state elaborate in rapporto al problema del cambiamento, quando vengono estese
all’ambito psicologico e dell’ontologia anima/corpo risultano foriere di confusione e oscurità: al
contrario, l’idea dell’anima come forma del corpo inscrive l’ontologia del vivente entro l’onto-
logia generale della natura, marcando nel contempo la peculiarità dell’essere e dell’identità del
vivente rispetto agli altri enti naturali. Aristotele ritiene che declinare il rapporto anima/corpo
nei termini del rapporto materia/forma ci ponga in condizione di dissolvere lo stesso mind-body
problem, dunque è ben lungi dall’essere l’estensione posticcia di nozioni concepite per altri scopi.
99
ejntelhv~ significa “perfetto”, “compiuto”. La traduzione più adatta è dunque “compiutez-
za”, o “realizzazione”. Cfr. Kosman 2013, pp. 45-53.
100
Non ogni ἐντελέχεια è realizzazione in senso teleologico: il divenire come tale, è «ejnte-
levceia di ciò che è in potenza, in quanto è tale» (Phys. iii 1, 201b4-5), anche il divenire di corpi
naturali senza poteri causali attivi ma solo passivi. Solo la ejntelevceia del vivente e delle sue parti
organico-strumentali è teleologica, nel senso spiegato in Cap. i.
101
Per questo ho parlato di “caratterizzazione” più che di definizione. Nonostante la sua
potenza speculativa, 1c (che condensa 1a e 1b) non può essere una definizione stricto sensu: lo
stesso Aristotele, più avanti in DA, chiama “ridicola” una definizione che sia comune a tutti i tipi
di anima. Ove ciò che è ridicolo, verosimilmente, è il considerare tale definizione esaustiva, non
già il fatto di considerarla una buona caratterizzazione pur non strettamente definitoria.
102 Capitolo secondo
3. La vita
Ci sono molte ragioni per cui 1a, 1b e 1c non sono definizioni nel
senso tecnico aristotelico; anzitutto, solo le “specie ultime”, come [ca-
ne], [gatto] o [cavallo] hanno un’essenza indivisibile, coglibile in modo
scientifico da una definizione per genere prossimo e differenza speci-
fica: l’esser animato è la differenza del vivente rispetto al genere più
esteso [corpo naturale], ma [corpo naturale animato] non denota una
specie ultima, bensì un genere ([vivente]) che ha sotto di sé altri generi
ciascuno dei quali ha sotto di sé delle specie: ci sono viventi animali e
viventi vegetali, e ci sono specie animali quali [cane], [gatto] o [caval-
lo] così come specie vegetali quali [quercia], [olmo] e [pioppo], e così
via102. Ma, soprattutto, i diversi tipi di anima non stanno fra loro nella
relazione logico-metafisica in cui delle specie stanno con un genere,
bensì in un rapporto “di consecuzione”, per cui un ente animato che ab-
bia l’anima di tipo superiore, avrà anche “in potenza” le anime di tipo
inferiore, ma non viceversa, come ora vedremo: per esempio, l’anima
razionale appartiene solo all’uomo, ma [uomo] è una specie del genere
[animale], definita dalla razionalità come differenza specifica: l’anima-
le è definito dall’anima percettiva ma l’uomo, che pure è un animale,
è definito da un’anima superiore; però l’uomo ha anche l’anima “nu-
tritivo-riproduttiva” che definisce i vegetali, eppure non è un vegetale.
Avere l’anima superiore implica avere la inferiore, ma il tipo superiore
non si inscrive e “divide” nel tipo inferiore come una specie o più specie
si dividono in un genere.
Inoltre, una definizione dovrebbe rendere manifesta la causa del
definiendum, e 1a, 1b, e 1c non lo fanno. Infine, come abbiamo detto,
queste caratterizzazioni generali non chiariscono cosa significhi “vive-
re” o “avere vita”, cosicché in esse resta ipso facto indeterminato cosa
sia l’anima103.
102
In realtà le tassonomie biologiche aristoteliche non rispondono sempre a una rigida e mo-
nolitica struttura di inclusione metafisica, sono spesso maniere empirico-induttive, in certo senso
pragmatiche, di mettere ordine ai fenomeni (cfr. PA i 1, 640a14; HA i 6, 491a7-14): per esempio,
le tassonomie in PA, HA e GA non sono sempre congruenti. HA i 1, 487a11-21 individua quattro
criteri tassonomici generali: modi di vita (bivoi), azioni (pravxei~), disposizioni caratteriali (h[qh),
parti (movria). Per esempio, sono modi di vita sono il vivere in terra, aria o acqua, sono azioni
il respirare o meno, sono parti le ali o le pinne, sono disposizioni caratteriali la fedeltà del cane
o la malizia della volpe. Questi criteri possono incrociarsi variamente, e talvolta l’uno o l’altro
orientano in modo primario le tassonomie.
103
Bolton 1978 sostiene che quelle di DA ii 1 siano definizioni nominali; concordo con Jo-
hansen 2012, p. 37, sul fatto che non lo siano: una definizione nominale, solitamente, è generica e
Anima 103
indeterminata e cattura le intuizioni semantiche del parlante ordinario sul definiendum, venendo a
coincidere grossomodo col significato comune del termine rispettivo; mi pare evidente che 1a, 1b
e 1c non siano nulla di tutto ciò: sono determinazioni speculative positive e altamente tecniche, e
sono persino controintuitive. Poi debbono essere sì determinate, ma non al modo delle definizio-
ni nominali.
104
Questi “dunque”, per ora, sono delle plausibili ipotesi. Il riscontro di cosa si trovi senza
cosa, e di cosa si trovi sempre con cosa, metodologicamente appartiene all’analisi del manifesto,
dei fainovmena, di cui in seguito si dovrà reperire la causa, ma è già una via utile a orientare il
reperimento della sua stessa causa: analizzare accuratamente il “che” può porci in condizione di
ipotizzare con successo il suo “perché”. Si tratta dello stesso tipo di atteggiamento, dialettico-
induttivo, con cui Aristotele ipotizza la costitutiva corporeità delle affezioni dell’anima come
collera, desiderio ecc.
104 Capitolo secondo
Cfr. DA ii 3, 414b29-30.
105
avere percezioni, per gli uomini è definito dalla capacità di avere percezioni e pensiero».
Anima 105
107
DA ii 4, 415b14: che l’essere, per i viventi, sia il vivere, significa che il vivere è l’essen-
za stessa di un vivente: ma non il vivere inteso nel senso indeterminato, bensì il vivere come
nutrizione-riproduzione per i viventi vegetali, il vivere come percezione nei viventi animali, e il
vivere come razionalità/discorsività (lovgo~), per gli esseri umani. Come vedremo, ciascun tipo
di “vita”, cioè di anima, dà luogo a un rispettivo grappolo di altre attività e capacità, psichiche
e comportamentali: per esempio, avere lovgo~ comporta avere certi tipi di desiderio, di prassi, di
socialità, di coscienza, di conoscenza, di comunicazione ecc.: le tre anime andranno definite, e i
loro molti propria derivati da queste definizioni. Sulla rilevanza speculativa della formula “per i
viventi l’essere è il vivere”, cfr. Berti 2005b.
108
Aristotele parla di figura (sch`ma) ma dalla spiegazione dell’esempio è chiaro che parli di
poligoni.
109
Cfr. Met. x 2, 1054a2-3. Il triangolo funge da unità di misura di tutte le superfici rettilinee;
ogni figura è scomponi-bile in triangoli, ed è importante considerare che tale scomposizione ser-
viva a manifestare visivamente delle proprietà geometriche peculiari alle figure poligonali. Per
esempio, nella terza parte del Menone (84D3-85B7), attraverso la divisione di un quadrato in otto
triangoli, Socrate induce lo schiavo a rendere visivamente perspicuo il fatto che un altro quadrato
contenuto in esso, ha superficie doppia di un altro quadrato anch’esso contenuto nel quadrato
originario. Lo stesso Aristotele adduce esempi di questa procedura di triangolazione entro una
geometria visiva e costruttiva piuttosto che dimostrativa in senso deduttivo: si può mostrare –
rendere visivamente manifesto – che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due
retti, costruendo un altro triangolo accanto al primo, proseguendone la base; si può mostrare che
tutti gli angoli inscritti in un semicerchio sono retti, col dividere la base del semicerchio in due
parti uguali tracciando una perpendicolare, e col costruire due triangoli aventi la perpendicolare
come lato in comune (Met. ix 9, 1051a24-29). Su questi esempi, cfr. Cattanei 2009. Anche qui
Aristotele afferma che le “divisioni”, cioè i triangoli in cui le figure possono essere scomposte,
sono in queste figure in potenza (1051a23-24).
106 Capitolo secondo
quella dei vegetali, quella delle fiere, quella degli uomini. Così, come
il triangolo è la base su cui sono costruiti i poligoni più complessi, così
la facoltà nutritiva è la capacità vitale presupposta alle capacità più
complesse: ma quest’ultima non è l’essenza di tutte le capacità che la
presuppongono, come il triangolo non è l’essenza comune dei poligoni
più complessi. Come il quadrato non è un certo tipo di triangolo, così la
vita animale-percettiva o la vita intellettuale-umana non sono un certo
tipo di vita nutritiva-vegetale, anche se la presuppongono. Parimenti,
non esiste un’anima comune che non sia o l’anima vegetativa, o la per-
cettiva, o la nutritiva110: la capacità di vivere in quanto comune a vege-
tali, fiere ed esseri umani, è una capacità indeterminata come è indeter-
minato l’esser poligono rispetto all’esser triangolo, quadrilatero, e così
via, poiché la capacità di vivere, di cui l’anima è attualità prima, “si dice
in molti modi”, determinati e irriducibili a una definizione comune.
Ma allora che ne è di 1c? Non dovrebbe essere accantonata? No,
perché 1c non è falsa bensì incompleta, è uno schema generale impre-
scindibile e capace di generare definizioni specifiche, una volta che si
determini la generica “capacità di vita” di 1b (e la corrispondente “orga-
nicità” di 1c) nei tipi di capacità che concretamente individuano i diver-
si tipi di vivente, così da determinare ciò di cui l’attualità prima è attua-
lità, ovverosia ciò che ciascun tipo di anima specifica essenzialmente è.
Così, la “capacità di vita” che occorre in 1b viene trattata come una
disgiunzione inclusiva e gerarchizzata di capacità (nutritiva, percetti-
va, intellettiva) che dovrebbe sostanziare la caratterizzazione prece-
dente. Infatti ora l’anima è caratterizzata come:
2a) «l’anima è la causa primaria in virtù di cui viviamo, percepiamo e pensia-
mo (hJ yuch; de; tou`to w|/ zw`men kai; aijsqanovmeqa kai; dianoouvmeqa prwvtw~)»
(414a12-13)111.
116
In DA ii 2, 413a24-26 e 413b12-13, si elencano nutritiva, percettiva, razionale, locomoto-
ria. In 413b22 introducono immaginazione e appetizione come fossero altrettante “anime” o fa-
coltà. In PA i 1, 641b6-9 le anime sono: nutritiva, percettiva, locomotoria, intellettiva. Si potrebbe
ripartire in modo triplice l’insieme delle “anime”: potere vitale (nutritivo-riproduttiva), potere
cognitivo (percettiva, intellettiva), potere motivante (desiderativa, locomotoria). L’immaginazio-
ne, come vedremo, è un potere trasversale che media fra percezione e intellezione, così come fra
desiderio e locomozione, e in generale fra cognizione e motivazione.
117
Cfr. DA i 1, 403a8-10. Poi 413b22 e 414b16.
118
In DA iii 3. Cfr. Cap. iv.
Anima 109
119
Come osserva Hegel 1999, p. 135, «il vivente è auto-finalità produttiva, che produce e
consegue se stessa». Nessuno meglio di Hegel ha messo in luce la pregnanza speculativa dell’idea
aristotelica della vita come fine di sé.
120
Sulla valenza teoretica del nesso psichicità e vita, insiste a dovere Wilkes 1995.
110 Capitolo secondo
viene meno la vita, cioè l’essere stesso del vivente, viene meno il corpo
prossimo, il quale è dunque non contingentemente unito con i poteri
causali attivi che capàcita, con l’anima e con l’individuo tutto.
La triplice causalità ascritta all’anima importa che il vivente agisca
per sé, da sé e su di sé, che sia parte attiva dei propri mutamenti e mo-
vimenti in quanto anima, e parte passiva in quanto corpo.
Se dovessimo condensare in una caratterizzazione articolata le ac-
quisizioni teoretiche presenti in 1a, 1b, 1c, 2a, insieme con l’idea della
triplice causalità dell’anima, potremmo farlo al modo seguente:
2b) L’anima è forma sostanziale e attualità prima di un corpo vivente orga-
nizzato, in ragione dell’esser causa primaria formale, finale ed efficiente del
vivere come nutrirsi, o percepire, o pensare121.
termina la caratterizzazione dell’anima come causa formale, finale ed efficiente del vivere. La
nutrizione illumina gli altri significati del vivere.
124
Gli enti non possono partecipare dell’eterno e del divino individualmente, ma lo fanno at-
traverso la perpetuazione della specie. Cfr. GA ii 1, 731b24-732a2; DA ii 4, 415a 34-35 e 415b2-7.
125
Sulla fisiologia del metabolismo, cfr. PA ii 3, 650a8-32; iv 4, 678a6-16; JS 3, 468b31-469a5.
126
Lo sperma è la prima entità a partire da cui vengono gli esseri che si generano naturalmen-
te (GA i 18, 724a17-18), ed è un residuo utile del corpo (del generante) proveniente dall’alimento,
e derivante dal sangue. Secondo l’embriologia aristotelica, la forma è nel seme maschile, mentre
la femmina fornisce la materia del nascituro col proprio sangue mestruale (GA i 19, 727b31-34).
Lo sperma fornisce la forma ma non ha anima, se non in potenza, cioè ha anima solo l’organismo
che a partire dalla sua funzione informante sulla materia mestruale, si formerà (GA ii 1, 735a8-9).
127
La produzione di sé attraverso il nutrimento, che diventa sangue, che diventa tessuti, ten-
dini e organi, è orientata al proprio bene, dipende da una natura teleologica immanente: ciò che
manca agli aujtovmata. Il materialismo riduttivo, in effetti, deve assimilare gli organismi viventi ad
aujtovmata, perciò l’idea democritea di un’anima in costante movimento, e capace di muovere il
corpo, in ragione della sua natura sferica e ignea dei suoi atomi, concepisce gli organismi, dice Ari-
stotele, in modo analogo a quella statua di Afrodite, costruita da Dedalo (secondo una commedia
di Filippo) che cammina da sé in quanto gli si versa dentro dell’argento vivo (DA i 3, 406b16-19).
112 Capitolo secondo
128
Il modo di “essere” e di “essere uno” da parte del vivente, sia un uomo o un banale filo d’er-
ba, è incomparabile con quello della pietra, che ha una natura meramente passiva, non ha alcuna
relazione con sé, non ha una teleologia intrinseca né un ambiente che possa presentare circostanza
oggettivamente caratterizzabili come “bene” o “male” per essa. Il vivente ha uno speciale modo
di essere uno.
Anima 113
«Poiché ci sono tre cose: ciò che viene nutrito, ciò con cui si nutre, e ciò che
nutre, diciamo che ciò che nutre è la prima anima132, ciò che viene nutrito è il
corpo che la possiede, e ciò con cui questo viene nutrito, è l’alimento» (DA ii 4,
416b20-22).
131
Si ricordi che il mutamento è nel paziente.
132
Qui “prima” significa “più basilare”; oppure potrebbe significare “prima nell’ordine del-
l’esposizione” delle anime-capacità: ad ogni modo, individua l’anima nutritivo-riproduttiva.
Anima 115
sportare velocemente il calore vitale nel corpo, consentendo così nutrizione, percezione, movi-
mento; esso sarebbe comunque prodotto, continuamente, dallo stesso calore vitale nel sangue.
135
Ciò “con cui nutre” è la mano o il timone.
136
L’analogia aristotelica è molto icastica (DA ii 4, 416b26-28): la capacità di navigazione
è il motore della navigazione stessa, la nave è ciò che è mosso, “ciò con cui” il pilota (la sua
capacità) muove la nave, in un senso è la mano, che è mossa rispetto al pilota e alla sua capacità,
ma è motrice rispetto al timone e alla nave, in un altro senso è il timone è “ciò” con cui la barca è
orientata e mossa, ma è mosso dalla mano. L’alimento è come il timone, il calore vitale come la
mano, l’anima del pilota e la sua capacità di navigazione, sono come l’anima del vivente e la sua
capacità auto-nutritiva. In realtà, sia il timone che l’alimento, pur essendo detti essere semplice-
mente mossi, sono a loro volta motori intermedi, rispettivamente della navigazione della nave e
della preservazione/crescita/riproduzione del corpo recettivo di nutrimento. Questa analogia ri-
prende un accenno fatto in precedenza: «non è chiaro, però, se l’anima è attualità del corpo come
il pilota lo è della nave» (DA ii 1, 413a8-9).
137
Ogni mutamento ha un motore e un mosso: solo nel caso del vivente, motore e mosso coin-
cidono. La causa materiale della nutrizione è l’alimento, e il calore vitale che lo concuoce. La sua
causa formale è la sua funzione, cioè la preservazione del vivente e della sua capacità di vivere.
La causa finale è sia questa preservazione stessa (causa formale e finale tendono a coincidere), sia
il vivente stesso. La causa efficiente è l’anima nutritiva, che è il primo motore, e il un senso più
lato, sono (con)cause efficienti anche gli anelli intermedi della causazione, come il calore vitale,
i mutamenti coinvolti nel processo digestivo, l’alimento assimilato.
Anima 117
tosto, è il bronzo che diventa una statua passando dalla privazione alla
forma; quando produco un enunciato corretto in italiano, la mia capacità
di parlare l’italiano non muta, bensì si manifesta; così, quando vedo
qualcosa, non muta la mia capacità di vedere, anzi trova l’occasione di
esprimersi e si attualizza (atto secondo). Se l’anima è capacità, allora
può essere motore immobile, e questo emerge già a partire dall’analisi
della capacità/attività nutritiva138.
Aristotele tiene fede all’istanza metodologica che ha introdotto in
maniera programmatica: studiare le capacità a partire dalle rispettive
attività, e studiare le attività a partire dagli oggetti riguardati da queste
ultime, e che individuano queste ultime: l’alimento è essenziale a indi-
viduare la nutrizione. Tuttavia, l’oggetto della nutrizione è tipicamente
passivo, è un “mosso”, e questo modello non può essere esportato sen-
za modifiche alle capacità cognitive, come ora vedremo a partire dalla
percezione: le entità percepite, infatti, non subiscono un mutamento
da parte della capacità che li riguarda, sono piuttosto motori immobili
nel processo percettivo139, infatti l’essere percepiti non li muta come
138
Per questo non condivido l’interpretazione dualista che Menn 2002 avanza in rapporto al
programma del De anima: se è vero che è centrale, soprattutto in DA i la difesa dell’immobilità
dell’anima di contro alla mobilità del corpo, è solo perché l’anima è capacità, e la capacità,
esercitandosi, non si “muove” pur potendo essere principio di movimento; l’immobilità delle
capacità in quanto tali non contraddice in alcun modo il fatto che le capacità siano “incorporate”
e “numericamente” coincidenti con certe parti e processi corporei. Occorre guardarsi dallo scam-
biare un linguaggio dualistico (immobilità dello psichico, mobilità del corporeo) da una ontologia
dualistica: tutto DA è invero volto al superamento di una ontologia dualistica del rapporto fra
anima e corpo. Sull’intelletto come potenziale eccezione all’ilemorfismo, cfr. Cap. v di questo
lavoro. Altra interpretazione fortemente dualistica è quella di Bos 2003 e 2009 secondo il quale la
stessa definizione 1c implicherebbe che il corpo è strumento dell’anima: infatti, argomenta Bos,
ojrganikovn non è mai usato nel corpus nel senso di “dotato di organi”, come la tradizione interpre-
tativa lo intende in 1c già a partire da Alessandro di Afrodisia (cfr. Quaestiones 54, 9; De anima
16, 11 ss.), bensì è sempre usato nel senso di “strumentale a qualcosa”. Per Bos, l’anima sarebbe
attualità prima di un corpo strumentale per l’anima stessa: e tale corpo strumentale non sarebbe
il corpo del vivente, ma lo pneu`ma di cui l’anima si servirebbe per vivificare e muovere il corpo
dell’animale. Senza entrare nel dettaglio delle sottili reinterpretazioni dei passi decisivi da parte di
Bos, si può osservare che anche la traduzione di ojrganikovn con “strumentale” anziché con “do-
tato di organi”, non costringe a quella lettura strumentalistica del rapporto anima/corpo che Bos
propone: il corpo dell’animale può essere “strumentale”, senza essere uno strumento di cui l’a-
nima si servirebbe: non è strumentale all’anima (che ne è l’attualità prima), ma alla vita dell’ani-
male; l’anima è attualità prima (capacità) di un corpo che è in vista della vita dell’animale, che è
strumentale in rapporto alla vita dell’animale, vita di cui l’anima è capacità, principio formale, e
di cui il corpo, appunto, è principio materiale. Non è il corpo ad essere, platonicamente, strumento
dell’anima, ma è l’animale in quanto corpo che è “strumento” di se stesso in quanto è animato,
cioè in quanto essenzialmente capace di vita (nutrizione, percezione, intelletto). Per altre letture
dualiste, contrarie a quella qui sviluppata, cfr. Heinaman 1990, Robinson 1983, Shields 1988.
139
Naturalmente le cose percepite, avendo materia, mutano e divengono, non sono immobili:
118 Capitolo secondo
ma sono motori immobili del processo che ha come esito il nostro percepirle. Qualcosa di mobile
può essere motore immobile di un certo mutamento, in quanto causa quel mutamento senza essere
mutato da ed entro quel mutamento.
140
Si noti che la nutrizione e la riproduzione sono mutamenti secondo quantità (accrescimen-
to) e sostanza (generazione), la percezione e – come vedremo – in modo mediato l’intelletto, com-
portano mutamento secondo qualità (alterazione), la locomozione è mutamento secondo il luogo
(traslazione): la teoria dell’anima come causa e principio di mutamento si inquadra perfettamente
entro l’ontologia generale del mutamento tratteggiata nella Fisica.
141
Come vedremo, il moto locale coinvolge anche, e sempre, la phantasia. Cfr. Cap. vi.
142
In HA Aristotele è “continuista” riguardo alla demarcazione fra vita e non vita, a differen-
za che in DA. L’Aristotele scienziato sembra meno tranchant dell’Aristotele filosofo della vita
e dell’anima: «la natura passa per gradi dall’animato all’inanimato, risulta nascosta la linea di
demarcazione che li separa. La pianta sembra animata nei confronti degli altri corpi naturali, ma
inanimata in rapporto al genere degli animali» (HA viii 1, 588b4-8). Così come, mentre in DA
è netto nel distinguere piante e animali, negli scritti biologici (per esempio in HA viii 1, 588b4-
589a5 e PA iv 6, 681a15-b13), ammette che per certi organismi molto semplici può essere dubbio
se siano animali o vegetali.
capitolo terzo
percezione
13
La causazione avviene per contatto fra motore e mobile (Phys. ii 2, 202a6-7; vii 2, 244a14-
b2): per esempio, il colore è in contatto con l’aria, l’aria è in contatto con la superficie dell’occhio,
che è in contatto con le vie sanguigne, che sono in contatto col cuore. L’insieme transitivo di
questi contatti causali garantisce il contatto percettivo con l’oggetto.
14
DA ii 5, 416b33-35.
15
S’intenda insegnamento come verbo di successo. L’insegnare invano, in tal senso, non sa-
rebbe un caso di insegnare: solo se c’è apprendimento, ci sarà insegnamento, e non solo tentativo
di insegnamento.
16
Cfr. Phys. iii 3, 202b6-23.
Percezione 123
19
Nel passo gevno~ ha un significato lasco, visto che [uomo] è una specie ultima, non un ge-
nere nel senso tecnico aristotelico.
20
Cfr. Phys. viii 4, 255b1-5.
126 Capitolo terzo
21
Cfr. Phys. iii 2, 201b31-32; Met. xi 9, 1066a2-6.
22
Cfr. Kosman 1969; Kosman 2013, cap. 2.
Percezione 127
23
Uno stato abituale (e{xi~) si forma e si rafforza con l’esercizio reiterato (cfr. EN ii 1, 1103a
14-17 e b1-2).
128 Capitolo terzo
32
L’affermazione che la capacità non è una grandezza, ribadisce l’antiriduzionismo sulle
capacità bio-cognitive: non sono senza la materia, ma non sono la loro materia. Le funzioni vanno
distinte, concettualmente e quanto a “essere”, dai loro realizzatori corporei, anche se non vanno
distinti in senso “numerico”. L’idea che organo e senso-capacità siano numericamente identici
ma diversi in essere, è centrale, è infatti ribadita più volte in DA: ad esempio, 425b27, 426a16,
427a3, 431a14, 432b1. Anche il vivente è una “grandezza” e una forma-anima, numericamente
identiche (questo corpo vivente) ma diverse in essere: la nutrizione riguarda il vivente in quanto
forma, l’accrescimento lo riguarda in quanto grandezza corporea.
33
Cfr. Modrak 1987.
Percezione 131
34
Anche se il colore è per natura visibile, l’esser colorato e la visibilità non sono lo stesso (cfr.
Phys. iii 1, 201b4). Sull’oggettività dei colori in Aristotele, produce ottimi argomenti Silverman
1989. La relazione fra vista e colore è asimmetrica: sono diversi in “essere” anche se hanno un
unico atto, ma mentre nella definizione del colore non vi è alcun riferimento alla vista (cfr. DA ii
7, 418a26-b2 e 419a9-11), nella definizione della vista vi è riferimento al colore, oggetto proprio
dell’attività di cui la vista è capacità, giacché la capacità è individuata dalla rispettiva attività e
l’attività è individuata da quello che per natura è il suo rispettivo oggetto. L’essere del colore è
indipendente dalla vista, l’essere della vista è dipendente dal colore e dall’essere di questo: perciò
senso e sensibile sono due relativi asimmetrici.
35
Una sostanza può essere combustibile per natura, ma ciò non comporta che la natura o
essenza di quella sostanza, sia la combustibilità. L’ossigeno è infiammabile, ma l’infiammabilità
è un suo proprium, certo, necessario, e spiegabile o deducibile a partire dalla sua essenza, ma non
coincidente con la sua essenza: un proprium come la capacità di imparare la grammatica è pro-
prietà dell’uomo, o l’avere la somma di angoli interni pari a 180 gradi è proprietà del triangolo.
Così, il colore, che pure è percepibile per natura, esiste ed è ciò che è anche se non sia percepito.
36
Aristotele non distingue fra qualità primarie e secondarie. Sulle implicazioni di ciò, cfr.
Broadie 1992. In realtà il colore è in atto solo quando vi sia luce, giacché la luce è capacità di
muovere il trasparente, e il colore è il limite del trasparente che si trova nelle superfici degli
oggetti: pertanto, al buio, i colori sono in potenza. Ma alla luce, sono in atto anche quando non
siano visti da qualcuno; quando siano alla luce e visti, allora sarà in atto anche la loro visibilità.
37
La potenza e l’attualità sono relativi: qualcosa può essere insieme atto e potenza, in quanto
atto di F e potenza di G e, simmetricamente, materia di F e forma di G: il bronzo è attualità come
forma del bronzo, ed è potenza rispetto alla statua, così come è forma in quanto determinazione
qualitativa (bronzo e non oro) ma materia della statua. Parimenti, l’esser rosso è atto e forma sen-
sibile in quanto determinatezza cromatica, ma potenza rispetto alla sua propria visibilità.
132 Capitolo terzo
38
Anche se Aristotele non esplicita questa differenza fra attualità prima e seconda a proposito
della teoria dell’identità numerica fra atto del sensibile e atto del senso, questo mi pare il modo
più coerente e intellegibile di interpretarlo.
39
Sulla distinzione attualità prima/seconda in quanto applicabile alla teoria percettiva, cfr.
Kosman 1975, pp. 513-514; Osborne 1983, pp. 407-408; Silverman 1989.
40
Cfr. DA iii 2, 426a9-11. Aristotele poi osserva che l’atto (secondo) del colore – che ho chia-
mato “esser visto” – non ha un nome, mentre lo ha l’atto secondo della vista (o[yi~): visione (o{rasi~)
(426a11-13).
Percezione 133
2. La definizione di percezione
«In generale, rispetto a ciascun tipo di percezione, bisogna ritenere che il sen-
so (ai[sqhsi~) è ciò che è ricettivo delle forme sensibili senza la materia, come
la cera riceve l’impressione dell’anello senza il ferro o l’oro, e prende sì l’im-
pressione che è d’oro e di bronzo, ma non in quanto oro o bronzo. Similmente
il senso di ciascun tipo di sensibile, subisce l’azione di qualcosa che ha colore
o sapore o suono, ma non in quanto ciascuna di queste cose si dice essere qual-
cosa di particolare, bensì in quanto queste sono di un certo tipo (h|/ toiondiv), e
secondo il lovgo~ (kata; to;n lovgon)» (DA ii 12, 424a17-24).
41
Cfr. DA ii 1, 412b18-19.
42
In realtà, la causa formale, finale ed efficiente della percezione è l’anima dell’animale: ma
questa si esprime anzitutto nella capacità percettiva stessa, che definisce l’animale. Quindi occorre
distinguere le molteplici cause delle percezioni (capacità percettiva, oggetto percepito ecc.), e le
molteplici cause del percepire in generale come fenomeno psichico (l’animale in quanto animato).
Percezione 135
«La ragione è che esse non posseggono una medietà (to; mh; e[cein mesovthta),
né un tale principio da esser capaci di ricever le forme degli oggetti sensibili,
ma subiscono insieme alla materia» (meta; th`~ u{lh~, DA ii 12, 424b1-3).
52
DS 4, 422a13-15: «Dunque, i colori sono una mistione (mivxi~) di bianco e nero, così i
sapori lo sono di dolce e amaro. Ciascuno è più o meno tale secondo proporzione (lovgo~) [...].
Una mivxi~ è una mescolanza i cui elementi costituenti non preservano la natura propria, ma
risultano in qualcosa di altro, omogeneo e diverso da ogni “ingrediente”; non è una suvnqhsi~,
aggregazione in cui gli elementi preservano ciascuno la propria natura (cfr. GC i 10, 328a18-23).
Ma il fatto che in un certo tipo di rosso il bianco e il nero di cui esso è mivxi~ e lovgo~ siano
“trasfigurati”, non implica che un medium non possa veicolare (e un organo ricettivo, non possa
essere sensibile a) l’originaria proporzione quantitativa degli elementi da cui la proprietà per-
cepita dipende».
140 Capitolo terzo
«Il percepire è infatti un certo subire, sicché l’agente rende simile a ciò che
esso è in atto, quello che è tale (solo) in potenza: perciò non percepiamo il
caldo e il freddo, o il duro e il molle che hanno la nostra stessa misura, ma
gli eccessi di questi, in quanto la capacità percettiva è una certa medietà della
contrarietà che si dà nei sensibili» (DA ii 11, 424a1-6).
Così, il cuore occupa uno stato discreto, o nel senso del [più caldo],
o nel senso del [più freddo], e tanto freddo oggettivo discrimina quanto
più freddo di sé è l’oggetto toccato: dunque l’organo può diventare
diverso da sé, “subire” la forma sensibile, ma “legge” questa propria
alterazione sulla base di uno standard che funge da punto neutro, e
che dipende da una medietà a livello fisiologico (la quale è capace di
ristabilirsi, persino quando sia perturbata da stimoli eccessivi). Sicco-
me il mutamento, anche quello percettivo, è assimilazione, l’identico
non cagiona nessun effetto sull’identico, nessuna attualizzazione, visto
53
DS 2, 438b10-11.
54
Si potrebbe obiettare che il trasparente, qualità dell’occhio che lo rende atto a ricevere
i colori, non è un colore intermedio fra bianco e nero, dunque non può fungere da medietà nel
senso inteso sopra. Ma Aristotele intende il trasparente come una sorta di colore, infatti la luce è
«colore del trasparente per accidente» (DS 3, 439a18-19). Il colore è il limite del diafano che si
trova in un corpo definito 439b11-12, e il diafano è in tutti i corpi in una certa percentuale. Sembra
dunque che un colore si individui in base alla sua distanza rispetto al diafano, al suo specifico
modo di non essere diafano: proprio per questo, il diafano dell’occhio può fungere da medietà
che accoglie e misura i colori.
Percezione 141
che è già in atto nel paziente: per questo il trasparente non si vede,
la temperatura “media” non si sente, e ciascun senso ha i suoi “punti
ciechi”: siccome non si attua nessuna potenza, visto che l’identico non
altera l’identico, ora si spiega meglio anche perché il naso non odora
se stesso, l’occhio non vede se stesso, la lingua non assapora se stessa,
e così via55; la “medietà” che è negli organi è lo standard per la rece-
zione differenziale dell’esterno, ma non discrimina se stessa in quanto
è per natura qualcos’altro in potenza: è la capacità di occupare stati di
indicazione discriminativa in virtù dell’esser cambiata dall’ambiente,
e non può essere cambiata da ciò che già è.
Il principio ricettivo, da un punto di vista formale, è capacità di
trattare proprie trasformazioni come indicatori della presenza di certe
proprietà ambientali, e questo principio formale è reso possibile dalla
medietà dell’organo, per natura atta a indicare altro da sé; alle piante
manca la medietà e dunque il principio ricettivo che da essa dipende:
per una pianta, il riscaldarsi è il diventare calda simpliciter, senza che
la relazione differenziale fra il calore “normale” della pianta e l’impat-
to della fonte di calore attuale sia misurata per indicare una circostan-
za esterna alla pianta. Il riscaldamento della pianta è un mutamento
meramente alterativo, il riscaldamento della carne e del cuore quando
si tocca una superficie calda, è l’attualizzazione nell’organo-capacità
di una proprietà ambientale, consistente nel discriminarne la presenza
essendone modificata in certi modi distintivi.
I media, come aria e acqua, sono anch’essi atti a trasmettere certe
forme sensibili, come i colori, poiché vengono alterati dai colori in
quanto sono trasparenti, cioè colorati “in potenza”56: ma nemmeno i
media esterni hanno una medietà che funga da standard di misura delle
proprie stesse variazioni contingenti, altrimenti aria e acqua sarebbero
viventi e animali, e percepirebbero57. Dunque la medietà degli organi
non è semplicemente uno stato capace di diventare in potenza ciò che
discrimina, essendo alterato in modi distintivi dai qualia ambientali,
ma anche e soprattutto uno stato che ha la funzione propria di indica-
re all’animale, e per l’animale, la presenza di certi qualia ambientali:
55
Cfr. DA ii 5, 417a2-9.
56
Cfr. DA ii 7, 418b4-12; DS 3, 439a21-25.
57
Ipotesi ritenuta “assurda” e “illogica” in DA i 5, 411a14-17. Democrito, per esempio, so-
stiene che la vista non sia che riflessione, ma dovrebbe concluderne che anche le superfici riflet-
tenti vedono, non solo l’occhio, il che è assurdo (DS 2, 438a10-12): veicolare o “trasportare” certe
proprietà, senza averne un criterio interno di misura, non certo è sufficiente a percepirle.
142 Capitolo terzo
58
La prima via non preserva la simmetria col passo precedente, in cui la percezione è definita
come ricezione delle forme percepibili “senza la materia” (424a19): il senso in cui le piante non
percepiscono perché subiscono “con la materia”, deve essere lo stesso senso in cui la percezione
è ricezione delle forme percepibili “senza la materia”. Il colore che è nell’anima, non è quello che
caratterizza la superficie vista, quello è sull’oggetto esterno. Invece il caldo e il freddo esterni si
“trasferiscono” fisicamente sulla pianta, dunque la pianta, in senso lato, li riceva “con la materia”,
li riceve, per così dire, “in carne e ossa”.
59
Si pensi alla pelle di un polpo o di un camaleonte, che diventa letteralmente del colore
dell’ambiente circostante, e lo fa pure in virtù di una funzione propria teleologicamente orientata.
Percezione 143
Eppure la pelle di un polpo non percepisce, perché è una semplice alterazione di colore, senza che
una medietà funga da criterio e usi questa alterazione a fini discriminativi.
60
Sorabji, come altri interpreti, dà una lettura materialista ma non riduttiva. In questa clas-
sificazione schematica e sommaria, tralascio i distinguo, e le posizioni intermedie che pure sono
ampiamente rappresentate nel dibattito.
61
Cfr. Slakey 1961, Sisko 1996, Sorabji 1995, Everson 1997. Il punto di vista di Sorabji è
“letteralista” nel senso che nella sua lettura la percezione è un’alterazione fisiologica in cui l’oc-
chio diventa, per esempio, rosso; ma Sorabji si oppone anche alle versioni riduzioniste del “let-
teralismo”, come quella di Slakey, per cui la percezione è solo un processo fisiologico: quel
processo fisiologico è in primis un processo formale. Dunque Sorabji si oppone tanto a Burnyeat
che a Slakey. Come già annunciato, la nostra tripartizione delle posizioni è una semplificazione:
ma se colta come tale, è utile.
62
Cfr. Brentano 1867, Burnyeat 1995 e 2002, Johansen 1997, Broadie 1999, Scaltsas 1996.
Il dibattito fra “letteralismo” e “spiritualismo” si è polarizzato soprattutto intorno ai contributi di
Burnyeat e Sorabji susseguitisi come dei botta-e-risposta: cfr. Burnyeat 1995, 1996, 2001; Sorabji
1974, 1991, 1995, 2001. Una sintesi accuratissima dell’articolarsi del dibattito, con una ben argo-
mentata proposta nel senso moderato o analogico della “terza via”, è in Caston 2005.
63
Cfr. Ward 1988, Silverman 1989, Miller 1999, Caston 2005, Feola 2012.
64
L’argomento è articolato da Sorabji 1995.
144 Capitolo terzo
65
Cfr. DS 2, 438b24-27.
66
Anche Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (cfr. Hegel 1998, pp. 211-223)
invita a non intendere letteralmente l’immagine della cera e dell’anello, bensì nel senso per cui
l’anima riceve la forma in senso cognitivo, non in modo fisico-esteriore: dunque, si può rubricare
la sua interpretazione sotto quelle che la letteratura relativa etichetta come “spiritualiste”. L’im-
magine della cera, e la definizione di percezione come ricezione delle forme senza la materia, non
avrebbe nulla a che fare con l’alterazione corporea degli organi.
67
Cfr. DA ii 7, 419a9-22; DA iii 1, 424b27-30.
68
Cfr. DA ii 7, 419a22-30.
69
Broadie 1992 argomenta che il colore, per Aristotele, ha un potere causale direttamente
qualitativo, dunque non c’è bisogno di strutture quantitative sottostanti che medino il trasferi-
mento di “informazione”: di conseguenza, il realismo percettivo di Aristotele sarebbe dovuto alla
Percezione 145
sua concezione qualitativa, e non quantitativa, delle proprietà percepibili. Ma è Aristotele stesso
a formulare la teoria del colore come risultante proporzionale (numerica, percentuale) dei due
contrari, e ad estenderla anche agli altri generi percepibili (cfr. DS 3, 439b25-440a15).
70
Cfr. DA iii 3, 427a19-35.
71
DS 2 chiarisce che la vista è acqua, l’udito è aria, l’olfatto è di fuoco, il tatto è di terra. Il gusto
è specie del tatto, dunque terra (438b17-439a1). Ma altrove (DA iii 13, 435b3-4) il tatto è detto non
essere né di terra né di un altro singolo elemento (ma di tutti e quattro). Il principio acqueo dell’oc-
chio è trasparente, capace di diventare i colori, il principio aereo dell’orecchio è “acusticamente neu-
tro” in modo da diventare i suoni. L’olfatto è igneo ma è vicino al cervello per poter essere freddo,
in modo da essere alterato dal principio caldo/igneo che costituisce i sapori; tatto e gusto sono terrei,
ma sono direttamente nel cuore perché il cuore è molto caldo, e può essere alterato dalla natura
terrea del tangibile. DA però non pone l’olfatto come igneo, anzi dice che nessun organo è igneo o
in senso lato lo sono tutti, e dice invece che l’olfatto è composto di aria e acqua (DA iii 1, 425a3-5).
Queste differenze, che forse testimoniano delle evoluzioni teoriche, non negano il fatto che l’organo
debba essere di una certa composizione fisica, per poter essere affetto, e mutato, dai sensibili. Per
esempio, l’essenza di un colore è capacità di muovere in un certo modo il trasparente in atto: per
questo l’occhio è trasparente in atto, per poter esser mosso dal colore, attraverso il medium.
72
Trovo di per sé indicativo il fatto che l’esempio, già platonico (cfr. Teeteto 191D4-8),
dell’impressione sulla cera, dapprima sia usato per illustrare l’inseparabilità di anima e corpo
(DA ii 1, 412a7-8), e dopo per illustrare la relazione fra organo/capacità e sensibili.
73
Cfr. Cap. ii.
146 Capitolo terzo
esplicito nel dire che organo e capacità sono identici, che l’uno realiz-
za l’altra74, che la percezione comporta alterazione75, che le affezioni
dell’anima sono “forme nella materia”76 e dunque anche le percezioni
debbono essere tali: i “dialettici” fatalmente errano proprio perché ba-
dano solo alla forma e trascurano la materia77, l’anima non fa e patisce
nulla senza il corpo78. Dunque l’alterazione fisiologica associata alla
percezione mi pare semplicemente innegabile79.
Un processo fisiologico può avere a un tempo anche caratteristiche
formali e cognitive: l’alterazione letterale dell’organo può essere la rea-
74
Cfr. DA ii 12, 424a24-26.
75
Cfr. DA ii 4, 415b24 e ii 5, 416b33-35. Burnyeat 1995 e 2001, non potendo negare l’evi-
denza, accetta che la percezione sia un cambiamento “fisico”, naturale, ma rifiuta l’idea che, per
Aristotele, sia un cambiamento materiale. Nella teoria della percezione il cambiamento sarebbe
«fisico ma puramente formale» (Burnyeat 1995, pp. 430-431 e 2002, p. 149). Pare, francamente,
un tentativo un po’ forzato e oltranzista di difendere l’idea, già di Filopono, Tommaso e Brentano,
della percezione come cambiamento “spirituale”. I cambiamenti naturali implicano sempre un
cambiamento concernente la materia, giacché le cose naturali mutano proprio e solo in quanto
hanno materia.
76
Cfr. DA i 1, 403a25-26. Johansen 1998, p. 11, sostiene che il passo dica che le affezioni del-
l’anima sono processi di un corpo, ma non nel senso che siano processi materiali, ma mi pare
chiaro che davanti alla formula lovgoi e[nuloi (403a25) questa strategia interpretativa ha il sapore
di una scapattoia impercorribile. Burnyeat 1995, p. 433; 2001, pp. 129-130; 2002, p. 82 prova in-
vece a sostenere che la caratterizzazione dei pavqh dell’anima come lovgoi e[nuloi in 403a24-25 si
riferisce alle emozioni come ira, paura ecc., ma non alla percezione: qui pavqh sarebbe usato nel
senso ristretto di “passioni”, non nel senso largo di “affezioni” o in quello larghissimo di “attribu-
ti”. Ma Aristotele in 403a5-7 dice che l’anima non patisce né fa nulla senza il corpo, e cita come
esempi ira, collera, coraggio, desiderio e percezione. Burnyeat controreplica però che in 403a10-11
si dice “se dunque, tra le attività (e[rga) o affezioni (paqhvmata) dell’anima, ve ne è qualcuna pro-
pria dell’anima, l’anima potrà essere separata”, e la tesi successiva che i pavqh dell’anima sono
lovgoi e[nuloi riguarderebbe solo i paqhvmata ma non gli e[rga. Ma: 1) nella lista di 403a5-7 si
dice che l’anima non fa né subisce nulla senza il corpo, poi si elenca anche la percezione fra gli
esempi: dunque, la distinzione fra attivo/passivo, nella forma di fare/subire, è tale che entrambi
i distinti si applicano alla percezione 2) se prima si parla di pavqh e vi si include la percezione, e
poi si distingue fra e[rga e paqhvmata, anche ammesso che questa distinzione sia così decisiva, poi
si parla di nuovo dei pavqh, e non dei paqhvmata, come di lovgoi e[nuloi: mi pare contraddittorio
ascrivere grande peso teoretico e tecnico alla distinzione fra e[rga e paqhvmata, dopo che si era
parlato in generale di pavqh, e poi sostenere che, quando si riparla di pavqh come lovgoi e[nuloi, ci
si stia riferendo solo ai paqhvmata ma non agli e[rga! Perché non parlare di paqhvmata? 3) Nulla
inclinerebbe comunque a rubricare le percezioni fra gli e[rga piuttosto che fra i paqhvmata: anzi,
la percezione è un subire, sebbene poi – ma solo poi – si determinerà come alteratio perfectiva;
ma anche presupponendo i guadagni teoretici successivi, la percezione è ejntelevceia ed ejnevr-
geia, ma non è un e[rgon. Il tentativo di Burnyeat è ingegnoso, ma da ultimo non risulta percorri-
bile: anche le percezioni sono lovgoi e[nuloi e sono alterazioni materiali.
77
Cfr. DA i 1, 403a29-b14.
78
Cfr. DA i 1, 403b17-20.
79
Gli animali col sangue più sottile, hanno una percezione migliore (PA iii 4, 667a9-14): la
qualità del sangue ne determina la trasmissibilità fisica delle forme, dunque anche la ricezione di
queste nell’organo, deve essere anche fisica.
Percezione 147
in tal senso si farebbe giustizia sia della idea naturalistica per cui la
percezione è necessariamente alterazione dell’organo, sia del fatto che
l’organo/capacità diventi la proprietà solo “in un certo modo”, cioè in
un modo analogico che sia sufficientemente correlato alla proprietà
da essere, per cosi dire, isomorfo a quella. Il mutamento letterale in F
da parte dell’occhio, è anche possibile, ma sarebbe uno dei possibili
modi (quello della replica) in cui una proprietà ambientale F può esse-
re “tracciata” o individuata sulla base della sua correlazione con stati
fisiologici occupati con la funzione di tracciare quella proprietà, senza
bisogno di esemplificarla. Per esempio, un certo stato discreto del cuo-
re potrebbe essere occupato quando si tocca un corpo duro: tale stato
non deve implicare una replica intracardiaca della durezza, ché sareb-
be assurdo, ma potrebbe essere uno stato fisiologico sufficientemente
correlato a quel grado di durezza, magari nel senso che è uno stato che
insorge se e solo se la carne entra in contatto con un corpo esterno di
quella certa durezza. Così, anche i mutamenti dell’aria potrebbero con-
sistere non nel colorarsi dell’aria, ma nel fatto che l’aria “riceve” dei
micro-mutamenti che codificano, o veicolano, o portano informazione
su, certe qualità cromatiche, e l’occhio è sensibile a tali mutamenti ma-
gari occupando certi stati quando e solo quando è sollecitata dall’aria
in certi modi distintivi, e a sua volta il sangue “trasduce”, canalizzando
micro-mutamenti corrispondenti (ma non necessariamente colorandosi)
sino a sollecitare un mutamento nel cuore che, sulla base del principio
della medietà discriminativa, risponde selettivamente alla proprietà di-
stale, come un certo rosso carminio82. Come il seme maschile contiene
la forma del figlio, ma la codifica e veicola senza ancora esemplificar-
la83, così i media esterni e interni, e gli organi periferici, potrebbero co-
82
È significativo che l’immagine della cera sia utilizzata da Aristotele sia per illustrare l’im-
pressione della forma sensibile sull’organo, che per illustrare la trasmissione di tale forma nel e
attraverso il medium, dall’oggetto ambientale all’organo (DA iii 12, 434b27-435a10). In entrambi
i casi, potrebbe non trattarsi di replica della forma, bensì di “trasmissione” di essa in virtù del
trasferimento di mutamenti che preservano la forma, magari co-variando col lovgo~ in cui la forma
sensibile consiste. Pertanto, né l’occhio né l’aria hanno da divenire rossi in senso letterale, se vedo
del rosso. Eppure, se l’esser “informato” del medium è alterazione fisica, visto che aria e acqua
non percepiscono, allora l’immagine della cera è anzitutto immagine di una alterazione fisica, per-
tanto anche l’impressione della forma sull’organo percipiente sarà anche alterazione fisica, contra
Burnyeat e i fautori della lettura “spiritualista”. La lettura “analogica”, per cui vi deve essere alte-
razione fisica ma questa non deve comportare una replica letterale, nel medium e nell’organo, della
forma percepita, rende meglio giustizia all’immagine della cera, oltre che agli altri passi rilevanti.
83
L’esempio, molto efficace, è di Scaltsas 1996. Caston 2005 cita GC ii 6, 333a28-30, ove si
parla di relazione di analogia fra qualità diverse in diverse modalità: ad esempio, un certo colore
e un certo sapore potrebbero essere identici per analogia nel senso di occupare lo stesso punto di
Percezione 149
una scala dei rispettivi opposti, per esempio il lovgo~: ¼. Ciò implica che anche dei mutamenti
fisici dell’organo di altre proprietà rispetto alle proprietà percepite, potrebbero “tracciare” e map-
pare in modo isomorfo la presenza delle proprietà percepite.
84
Le contemporanee teorie causali del contenuto mentale muovono da questa ipotesi (cfr.
Fodor 1987, Dretske 1988 e 2004).
85
Mai Aristotele afferma, come Burnyeat gli fa dire, che certa materia biologica è origina-
riamente capace di percezione e di coscienza, per esempio. Tanto meno afferma che il ricevere la
forma coincida col divenirne consci.
86
A mio avviso un supporto in favore della lettura analogica è fornito da DA iii 2, 425b12-25:
Aristotele ipotizza che sia con la vista stessa, che percepiamo di vedere (per un’analisi del passo,
cfr. infra); ma siccome oggetto della vista è il colore, “ciò che vede” (l’organo in quanto capacità)
dovrà avere colore, se ha da esser oggetto della vista: a questa obiezione si risponde anche rilevan-
150 Capitolo terzo
do che “ciò che vede” è in certo modo colorato, e si richiama il fatto che la percezione sia ricezione
della forma senza la materia (425b24-25). Ora, se l’organo visivo è in certo modo colorato (wJ~
kecrwmativstai, 425b22-23), non lo sarà letteralmente; e visto che qui si parla di percepire l’attivi-
tà visiva, quella limitazione “in certo modo” non potrà certo riferirsi all’essere colorato in potenza,
come è il caso ove si dice che l’anima è “in certo modo” tutte le cose (DA iii 8, 431b21) e in passi
simili: potrebbe plausibilmente riferirsi al senso “analogico”. Né si può dire che l’essere “in certo
modo colorato” qui si risolva nell’esser conscio, come la lettura “spiritualista” vorrebbe: infatti si
aggiunge che, proprio perché “ciò che vede” riceve la forma sensibile senza materia, percezioni
e immagini permangono negli organi (ejn toi`~ aijsqhthrivoi~, b25); è l’organo, un corpo, a essere
“in certo modo” colorato. Altra interpretazione interessante è il letteralismo “moderato” argomen-
tato da Sorabji 1992, p. 212 (cfr. anche Sorabji 2001, p. 52-53), che spiega a un tempo l’esser “in
certo modo” colorato dell’organo e la ricezione della forma sensibile “senza la materia” da parte
dell’organo-capacità: il trasparente dell’occhio assumerebbe il colore senza diventare fisicamente
di quel colore, al modo in cui il mare “assume” il colore blu senza che l’acqua cambi materialmente
diventando blu (cfr. DS 3, 439a18-b18), o a come la superficie di uno specchio assume il colore di
ciò che rispecchia senza diventare fisicamente di quel colore; naturalmente, anche questa brillante
ipotesi è a dir poco sottodeterminata rispetto alle evidenze testuali.
87
Cfr. DS 3, 439b26-33: «È possibile dunque supporre che vi sia una gran quantità di colori
oltre al bianco e al nero, e che siano molti in ragione della proporzione (tw`/ lovgw/) di tre a due, di
tre a quattro e secondo gli altri numeri che è possibile porre in rapporto reciproco, oppure altri
senza proporzione (lovgo~) secondo un certo eccesso o difetto privi di misura». Le cose stanno
nello stesso modo negli accordi di suoni (31-32). I colori che consistono in colori più facilmente
calcolabili, sono i colori più gradevoli: porpora, rosso e pochi altri sono tali, per la ragione per
cui anche gli accordi sono pochi (440a1-3). DS 3, 440b18-20: «vi saranno molti colori poiché è
possibile che le cose che si mescolano si mescolino in molte proporzioni, alcune secondo numeri,
altre soltanto secondo eccesso». Si noti il termine lovgo~ come denotante un rapporto fra numeri
interi, è una accezione ben definita nel linguaggio tecnico del calcolo matematico del tempo (cfr.
Cattanei 2003, pp. 500-509). E un lovgo~ può ben essere anche un rapporto fra rapporti, come il
rapporto numerico condiviso da un certo colore e da un medium, o dal colore, dal medium e dal-
l’organo percipiente quando è attualizzato dal colore veicolato dal medium. Così un organo può
“codificare” l’essenza numerica di un colore, senza diventare letteralmente di quel colore e senza
che il medium diventi di quel colore (o sapore, o suono ecc.).
Percezione 151
3. La percezione complessa
il senso non si inganna mai sul fatto che ci sia un colore, che si sta vedendo, ma su quale colore
ci sia; l’infallibilità riguarderebbe il contenuto generico, cioè l’esserci di un colore, o di un odore
ecc. Ma non può essere così: altrimenti nemmeno la percezione di un percepibile comune a più
sensi sarebbe detta fallibile; non erro nemmeno sul fatto che ci sia una figura o una grandezza, ma
solo su quale sia. In DA iii 7, 428b17-19, comunque, si sfuma la tesi dicendo che la percezione
dei propri è soggetta a errore “in misura minima”.
89
DS 4, 442b5-7 contempla fra i sensibili comuni anche ruvido/liscio e acuto/ottuso. In DA
ii 6 si elenca movimento, quiete, numero, figura, grandezza (418a18-20), in DA iii 1 si elenca
movimento, quiete, figura, grandezza, numero, unità. Tuttavia, le due liste di DA si equivalgono,
giacché il numero si coglie in quanto si coglie anzitutto l’unità, come del resto la quiete si coglie
in quanto assenza di movimento: la lista esaustiva sarebbe: uno/molti, quiete/movimento, figura,
grandezza. La figura, a sua volta, può essere vista come un modo di cogliere grandezze parziali
di un oggetto colto come uno: infatti è una grandezza. La coppia acuto/ottuso introdotta in DS, è
riportabile alla figura, e forse anche il ruvido/liscio potrebbe essere discriminato in base al cogli-
mento di sottili differenze in grandezza e figura.
90
DA ii 6, 418a20, dice che sono comuni a tutti i sensi. Ma DS 4, 422b5-8 chiarisce che i co-
muni sono comuni «se non a tutte le sensazioni, almeno alla vista e al tatto». Si potrebbe spiegare la
differenza in termini evolutivi – in che direzione, se da DA a DS o viceversa, è questionabile – ma
forse l’affermazione di DA significa che il gruppo dei sensibili comuni, nel suo insieme, coinvolge
tutti e cinque i sensi propri, non però nel senso distributivo in cui ciascun sensibile comune debba
essere comune a tutti e cinque i sensi. In tal caso, DA e DS sarebbero coerenti.
91
Cfr. DS 1, 437a4; 4, 442b16-18.
92
Cfr. DS 1, 437a6-9.
Percezione 153
2) «[...] percepiremmo per accidente, cioè come percepiamo il figlio di Cleone
non in quanto è figlio di Cleone, ma in quanto è bianco, e a questo accade di
essere figlio di Cleone» (DA iii 1, 425a25-26).
proprio padrone, in due sensi diversi: nel senso che riconosce quell’individuo, che noi individu-
iamo come il suo padrone (e lui individua in chissà quale altro modo), oppure che riconosce, in
quell’individuo, la proprietà stessa di [essere il suo padrone]. Nel primo caso, usa l’odore per
riconoscere un certo individuo, nel secondo caso, cognitivamente ben più sofisticato, usa l’odore
non solo per riconoscere quell’individuo, ma per cogliere, in quell’individuo riconosciuto, la
proprietà dell’essere il suo padrone, quindi percepisce l’esser-padrone del padrone.
100
Propenderei per la seconda: Aristotele utilizza lo stesso esempio entrambe le volte che
esplicita cosa sia la percezione per accidente: il figlio di Diare, il figlio di Cleone. Se questa pro-
prietà non fosse coinvolta come tale, in qualche modo, nel contenuto percettivo, perché non usare
“Socrate” o “Platone”, o “un certo uomo”, esempi ben più diretti e semplici? A ogni modo, che la
percezione accidentale sia ricognitiva, è testimoniato dal fatto che, a proposito di una sua esem-
plificazione, Aristotele usa il verbo a[nagnwrivzomen (DA iii 1, 425a22-24; alcuni leggono a{ma
gnwrivzomen, ma sono comunque due verbi cognitivi: quanto all’illustrare l’esser nota della pro-
prietà accidentale, non cambia nulla).
Percezione 157
101
Dunque, nelle percezioni accidentali è sempre coinvolta la memoria, anche se alcuni (cfr.
Cashdollar 1973) lo negano appoggiandosi al fatto che in DA iii 1, 425a23-27 sembra che si per-
cepisca il dolce con la vista – dunque si percepisca il dolce per accidente – in modo simultaneo.
La percezione accidentale «è possibile perché ci troviamo ad avere la percezione di entrambi i
percepibili, mediante cui li riconosciamo quando si presentano insieme» (ad esempio, [giallo] e
[dolce]). Ma qui Aristotele sta parlando del previo incontro percettivo delle due qualità congiunte
in un oggetto, ciò che poi renderà possibile percepire uno dei due per accidente in quanto se ne
percepirà per se l’altro dei due, in una successiva percezione.
102
La proprietà [figlio di Diare] non è percepibile in senso stretto, ma è coglibile percettiva-
mente in quanto un’altra proprietà della sostanza che è figlio di Diare, è percepibile.
158 Capitolo terzo
Un’acquisizione teoretica che ora si può assumere, è che per ogni tipo
di percepibile elementare ci vuole un organo, che deve essere “in po-
tenza” assimilabile al suo oggetto e, qualora sia un organo che realizza
un senso a distanza operante tramite medium, deve essere simile al
medium nella sua composizione, per garantire la ricezione delle forme
convogliate attraverso il medium. Forti di queste assunzioni, possiamo
argomentare che: 1) possediamo, come tutti gli animali, il tatto, dunque
abbiamo accesso percettivo a tutte le proprietà tangibili dell’ambiente
(424b24-29); 2) se ci dovesse mancare un senso, ci mancherà anche
l’organo (24-25); 3) ciò che si può percepire attraverso media esterni,
si percepisce attraverso aria o acqua109 (29-30); 3a) Se più tipi di qualità
fossero percepibili con un solo medium, chi avesse il rispettivo organo
sensorio, percepirebbe entrambi i tipi (ad esempio, come se colori e suo-
ni fossero percepibili solo tramite l’aria) (31-35); 3b) se un tipo di qua-
lità fosse percepibile attraverso più media, come avviene per il colore
attraverso aria e acqua, chi avesse un organo composto di uno dei due
media, sarebbe in grado di percepire quel tipo di qualità (425a1-3); 4) di
fatto, aria e acqua sono gli elementi di cui gli organi sono composti,
almeno come elementi prevalenti nella composizione (anche se vi è
calore, dunque un principio igneo, in tutti, e vi è terra nell’organo del
tatto, il cuore110) (3-8); 5) dunque, non ci sono altri organi oltre a quelli
formati d’aria e d’acqua, che alcuni animali (come noi) possiedono, e
non c’è altro senso che un animale “perfetto” potrebbe avere (9-13).
L’argomento non è di immediata comprensione, la sua validità
appare quantomeno dubbia. Le qualità che sono percepibili, lo sono
per contatto o a distanza; quelle per contatto le percepiamo tutte (ma
come escludere a priori che altri esseri possano avvertire altri tangibi-
li?); quelle a distanza, sono veicolate o da aria o da acqua (ma come
escludere qualità percepibili tramite, per esempio, il fuoco?111), e: se
la qualità fosse veicolabile da entrambe, basterebbe avere un organo
composto in prevalenza da uno dei due medium, se più qualità fosse-
ro percepibili tramite un solo medium, chi ha l’organo in prevalenza
composto da quel medium, le percepirebbe entrambe (ma allora perché
l’orecchio, composto di aria, non percepisce i colori, che pure “viag-
giano” nell’aria?); ma noi abbiamo gli organi a distanza composti di
109
Questo è un altro fatto empirico: ma Aristotele sta parlando della possibilità di avere più
sensi nel nostro mondo, nel mondo naturale sublunare per come esso è fatto.
110
Cfr. DA iii 1, 425a2-7.
111
Lo nota Hamlyn 1968, ad loc.
Percezione 161
112
In realtà la kovrh, più che la pupilla, è la parte interna, acquea, della pupilla (cfr. DA ii 8,
420a14). La natura del medium non è la sola ragione che spiega la composizione dell’organo: l’oc-
chio è d’acqua perché l’acqua è trasparente, ma è acqueo perché l’acqua è meglio contenibile dell’a-
ria (DS 2, 438a15-17), dunque non sarebbe potuto essere aereo, sebbene anche l’aria sia trasparente.
113
Gli organi sensori sono uniformi ed elementari (cfr. PA ii 1, 647a2 ss.), omeomeri. Invece
gli organi, come stomaco, gamba ecc., sono complessi e anomeomeri.
114
DA ii 11, 423b4-22. Mentre colori e suoni sono percepiti perché il medium agisce su di noi,
i tangibili sono percepiti perché essi, insieme col medium interno (la carne) agiscono su di noi,
«come avviene con lo scudo: infatti, questo non colpisce dopo esser stato percosso, ma entrambi
[= corpo e scudo] sono colpiti insieme» (16-18).
115
Tutti i tangibili dipendono dalle proprietà basilari dei quattro elementi, caldo, freddo, sec-
co, umido (cfr. GC ii 2-3): siccome il tatto è sensibile a queste proprietà, potrà essere sensibile agli
altri tangibili da esse derivati. Così Polansky 2007, ad loc.
116
Alcuni animali “imperfetti”, quelli stazionari quali anemoni e spugne di mare, dispongono
solo del tatto (e del gusto, che è una specie di tatto), mentre chi ha un senso a distanza, normal-
mente ha anche gli altri due. Per questo Aristotele si preoccupa di aggiungere che anche la talpa
ha gli occhi sotto la pelle: sarebbe un’obiezione al fatto che, di norma, se si possiede un senso a
distanza, li si possiede tutti e tre (olfatto, udito, vista). Che ogni animale abbia almeno due sensi,
è affermato in SV 1, 455a7.
117
Ma, al tempo stesso, riduceva tutti i sensi al tatto (cfr. DK 68A119).
118
Chissà come Aristotele avrebbe considerato, se l’avesse conosciuto, il meccanismo sonar
dei pipistrelli, che produce mappe spaziali utilizzando la computazione di onde radio che rim-
balzano sulle superfici e ritornano alla sorgente che le ha emesse: un interessante caso di senso a
distanza di proprietà spaziali, che però non è né vista né udito.
162 Capitolo terzo
per mostrare che non è necessario postulare ulteriori sensi per dare
conto della percezione dei comuni (425a14-30) e di quella accidentale
(425a30-b30): l’argomento, complessivamente considerato, è orienta-
to e informato dal principio di economia esplicativa. Le capacità non
debbono essere moltiplicate senza necessità.
b) Non esiste un organo sensorio specifico per i sensibili comuni (425a
14-425b4)
Aristotele cerca di mostrare che la percezione complessa si risolve
nell’interazione sinergica delle capacità percettive semplici, realizzate
nei sensi individuali e attivate dai percepibili propri: si tratta, di nuovo,
dell’applicazione del principio di economia esplicativa, che cerca di
riportare operazioni cognitive complesse a moduli operativi più sem-
plici che fungono da “materia” costitutiva delle prime. La precedente
esclusione di un sesto senso, va ora integrata con l’esclusione che la
sensibilità ai comuni sia un sesto senso, dunque con l’esclusione che
esista un organo specifico per i percepibili comuni, visto che ogni sen-
so è una capacità realizzata in un organo: devono bastare i cinque sensi,
con i loro organi già individuati.
«Ma nemmeno è possibile che vi sia un organo sensorio speciale dei perce-
pibili comuni che percepiamo accidentalmente con ciascun senso, come mo-
vimento, stasi, figura, grandezza, numero, unità. Tutti questi li percepiamo
col movimento (kinhvsei), per esempio la grandezza la percepiamo col movi-
mento, e così la figura, che infatti è una grandezza, la stasi la percepiamo con
l’assenza di movimento, il numero con la negazione del continuo, oltre che coi
propri (toi`~ ijdivoi~) (infatti, ciascuna percezione percepisce una cosa)» (DA
iii 1, 425a14-20).
Può destare stupore che si parli dei comuni come percepiti acci-
dentalmente da ciascun senso, quasi che la percezione dei comuni fos-
se anch’essa una forma di percezione accidentale; ma, come verrà in
chiaro nel seguito dell’argomento, questa è l’ipotesi che Aristotele sta
confutando: se, infatti, ci fosse un organo sensorio per i comuni, allora
quando i sensi propri, coi loro rispettivi organi, percepiscono i sensibili
comuni, li percepirebbero per accidente, ciò che non è il caso119. Inve-
119
Siccome i comuni sono percepiti per se (DA ii 6, 418a10), alcuni inseriscono una nega-
zione (Torstrik 1862, Block 1988), in modo da ottenere ouj kata; sumbebhkov~ a 425a15; altri ri-
tengono che esistono due sensi di percezione per accidens, uno dei quali, quello riferito anche ai
comuni, è lasco, un altro dei quali, esemplificato dal vedere il bianco come figlio di Diare o dal
Percezione 163
vedere il giallo come amaro, è stretto: nel senso lasco, l’accidentalità dei comuni sarebbe il fat-
to che il senso proprio non percepisce i comuni in un senso tanto proprio e diretto (alterazio-
ne dell’organo “secondo” quella proprietà) quanto i percepibili propri (Hicks 1923, Ross 1961,
Hamlyn 1968, Everson 1997, Modrak 1987). Ma sarebbe singolare che si facessero dei distinguo
fra due sensi di accidentalità, con un concetto tecnico del genere, senza darne alcun esplicito ri-
scontro, e usando in luoghi testualmente vicini questi due sensi diversi (come nota anche Gregoric
2007, p. 70, in 425a 4 l’espressione “per accidente” è usata nel senso stretto del [veder bianco] →
[figlio di Diare] e [veder giallo] → [amaro]). La terza possibilità (Temistio, Filopono, Simplicio,
Kahn 1995, Brunschwig 1996) che mi pare molto plausibile, è che l’ipotesi presentata è rifiutata
da Aristotele stesso, rientra da ciò che è retto da “non è possibile che”: non è possibile che ci sia
un organo proprio per i comuni, i quali, se così fosse, sarebbero percepiti solo accidentalmente dai
sensi propri individuali (vista, udito ecc.). Se è vero che il verbo aijsqanovmeqa è all’indicativo, è
grammaticalmente tollerabile che sia incassato entro un’ipotesi irreale, precisamente, come con-
seguenza di una ipotesi che si sta esplorando per negarla. Per una discussione molto approfondita
delle opzioni interpretative, cfr. Owens 1982, Gregoric 2007, pp. 69-82. Optando per la terza
possibilità, si enfatizza la sufficienza dei sensi propri per la percezione dei comuni: se i sensibili
comuni non sono percepiti accidentalmente dai sensi propri, allora non v’è bisogno di postulare
un senso comune, ben distinto dai sensi propri e sovraordinato a questi (sebbene privo di organo
proprio), che percepirebbe i comuni per se: preferisco le letture “minimaliste” del senso comune,
poiché, oltre a parermi ben compatibili con i testi, sono più coerenti col principio di economia
esplicativa, che, come andiamo mostrando, informa l’indagine aristotelica.
120
Si consideri che non tutti i comuni hanno contrari: per esempio, nulla è contrario a una
certa figura. Dunque, non si può nemmeno immaginare un organo con un punto medio e due
contrari, che possa essere alterato dalla figura come il nero o il bianco o degli intermedi alterano
l’organo visivo.
121
È vero che il movimento è l’unico a non essere spiegato, dunque potrebbe essere proprio
il movimento come comune, che ha un ruolo privilegiato esplicativo della percezione dei comuni
rimanenti. Ma a volte percepiamo scenari statici, e cogliamo dei comuni: in tal caso, non può
essere il movimento oggettivo ciò in virtù di cui cogliamo gli altri comuni, giacché tale movi-
mento è per ipotesi assente; caso mai, può essere il movimento che subiscono i nostri organi,
dunque il percipiente, nell’esplorare, “scorrendoli”, gli oggetti cui la nostra percezione attribuisce
le proprietà comuni. Poi, se si trattasse del movimento oggettivo, dire che la stasi la cogliamo
attraverso l’assenza di movimento, sarebbe una trivialità priva di qualunque portato informativo:
invece, diventa una spiegazione pregnante della capacità in questione, se la sensibilità alla stasi
è riportata al coglimento dell’assenza di cambiamento di stato dei propri organi percipienti (così
come la sensibilità al movimento oggettivo è spiegabile col coglimento di certi cambiamenti nei
nostri stati percettivi).
164 Capitolo terzo
122
Hamlyn 1968, 118, dice che si tratta di un “movimento mentale”: ma non si capisce perché
debba essere tale. È piuttosto un movimento fisico e mentale a un tempo, in accordo con la conce-
zione ilemorfica della relazione capacità/organo (che è identica a quella anima/corpo). Il continuo
sarebbe la costanza dello stimolo, la sua “negazione” sarà un cambiamento discreto.
123
Una o più unità, se continuo a esplorare: l’unità è il «principio del numero in quanto
numero» (Met. x 1, 1052b23-24), sicché esser capaci di cogliere un’unità discreta significa esser
capaci di coglierne molte e dunque di percepire il numero, che non è che «una pluralità di unità»
(1053b30).
124
La vista è il senso che più coglie i comuni (DS 4, 442b13).
125
I percepibili comuni, come ben spiega Tommaso (cfr. Summa theologiae i, q. 78, a. 3 ss.),
da ultimo sono tutti delle specie di quantità. E in quanto tali, possono essere colti nel tempo in
quanto esso “misura” la variazione dello stimolo.
126
Quindi anche il comune [movimento] lo percepisco attraverso il mutamento degli stimoli
propri, visivi o auditivi che siano. Non è chiaro se, per Aristotele, anche l’olfatto possa cogliere
i comuni, almeno qualcuno di essi: forse, si può ipotizzare, il movimento nello spazio del corpo
odoroso (come, ad esempio, il suo avvicinamento).
Percezione 165
cinque organi periferici, in sinergia col cuore ove tutti gli stimoli con-
fluiscono, sono sufficienti alla percezione complessa dei comuni127.
Che i comuni siano colti attraverso gli stimoli dei propri più il loro
mutamento, illumina anche la differenza fra percezione dei comuni e
percezione accidentale: posso cogliere il fatto che dietro di me c’è il fi-
glio di Diare, udendo i suoi discorsi e individuando un tono e un timbro
vocale a lui peculiari, ma qui non colgo l’esserci del figlio di Diare sem-
plicemente con l’udito più il mutamento dello stimolo auditivo, come
mi capita col coglimento dei comuni; piuttosto, quel peculiare gruppo di
stimoli in sequenza, quegli specifici modi di mutare dello stimolo audi-
tivo, mi servono per individuare qualcuno che la mia memoria, attraver-
so la ritenzione di un’esperienza passata, associa a un certo individuo,
dimodoché la presenza di certe proprietà sonore traccia la presenza del
figlio di Diare: ma la proprietà [figlio di Diare] e le proprietà sonore dei
suoi discorsi sono associate solo grazie alla loro co-occorrenza nel pas-
sato, non sarebbe certo sufficiente il mutamento degli stimoli auditivi
per se, a cogliere la presenza del figlio di Diare come tale.
Che «ciascuna percezione percepisce una cosa» (DA iii 1, 425a20),
significa che ogni stato occupato da un senso proprio in un dato mo-
mento, registra solo un certo lovgo~ entro il suo genere di percepibile128:
solo la successione di più percezioni proprie può contenere l’infor-
mazione sufficiente per cogliere i comuni, ed è questo che significa,
in ultima istanza, affermare cogliamo i comuni «con il mutamento»
e «con i propri»129; il materiale registrato nel tempo dai cinque organi
propri, è sufficiente.
Se ci fosse, invece, un organo specifico deputato alla recezione di
ciascun comune, allora, coi sensi propri percepiremmo i comuni «al
127
Johansen 2012, p. 178 propone l’esempio dei poteri di una squadra: la quale non è altro ol-
tre all’insieme dei giocatori, eppure ha dei poteri causali emergenti rispetto alla mera somma dei
poteri preesistenti propri di ogni giocatore. Anche Gregoric 2007 ritiene che il “senso comune”
non sia altro che una funzione svolta dai sensi individuali. Altri interpreti, invece, considerano la
percezione comune come un senso di più alto ordine, che “usa” i sensi individuali (ad esempio,
Modrak 1987, p. 62; Alessandro di Afrodisia). Anche Marmodoro 2014, pp. 199-212 argomenta
per una lettura “robusta” del senso comune. In generale PN, rispetto a DA, tendono a enfatizzare
maggiormente la natura unificata della percezione.
128
O può anche intendersi ai[sqhsi~ come “senso”, e interpretare: ogni senso coglie un solo
tipo di sensibili, i suoi propri. Quelli comuni, insomma, non sono colti che attraverso un uso del
coglimento dei propri, un uso che pure è naturale e dovuto a una funzione propria dei sensi indi-
viduali (la sinergia dei cinque sensi, infatti, è per natura).
129
Il dativo strumentale toi`~ ijdivoi~ (425a19) potrebbe riferirsi ai sensibili o ai sensi; in realtà
potremmo ben riferirlo a entrambi: cogliamo i comuni grazie al cogliere i sensibili propri grazie
ai sensi propri.
166 Capitolo terzo
130
Questa è una semplificazione, ed è lecito supporre che Aristotele sapesse che lo è. Ciò
che consente la percezione accidentale, è la co-occorrenza di un plesso di proprietà, per esempio,
per riconoscere X come dolce X sarà visto come [giallo], toccato come [molle], avrà una certa
capacità di mutare forma ecc. Non basta certo che un oggetto sia giallo, perché ci appaia dolce.
131
Infatti Aristotele adduce subito l’esempio della percezione accidentale:«se non fosse così
[cioè se ci fosse un organo speciale per ciascun comune] percepiremmo i comuni in nessun altro
modo che per accidente, al modo in cui percepiamo il figlio di Cleone, ma poiché è bianco, e al
bianco accade di essere figlio di Cleone».
132
«Non in quanto se stessi, ma in quanto sono un’unità» (DA iii 1, 425a30-32) potrebbe rife-
rirsi sia ai sensi propri (aiJ aijsqhvsei~), che ai sensibili propri (ta; i[dia). Entrambe le letture sono
plausibili, io preferisco la prima, perché in questo contesto si sta tematizzando una funzione dei
sensi individuali che essi hanno anche in quanto sono reciprocamente integrati in un’unica facoltà
percettiva complessa e multimodale.
Percezione 167
«Si potrebbe ricercare in vista di cosa abbiamo più sensi anziché uno solo.
Forse perché ci sfuggano meno i concomitanti e comuni, quali movimento e
grandezza e numero? Se infatti avessimo solo la vista, e percepisce il bianco,
[i comuni] ci sfuggirebbero in maggior misura, e ci parrebbe che tutti i perce-
pibili fossero lo stesso, poiché il colore e la grandezza si accompagnano l’un
l’altro. Ora, visto che i comuni ineriscono anche a un altro percepibile, ciò
rende evidente la differenza di ognuno di essi» (DA iii 1, 425b4-11).
133
Inoltre, la visione del colore è materia prossima della percezione del movimento, mentre
la visione del bianco non è materia prossima dell’esser figlio di Diare.
134
Che non vediamo il movimento per accidens, è dato come evidente. Nemmeno c’è biso-
gno di argomentare che il meccanismo di percezione dei comuni è diverso da quello di percezione
degli accidentali, ma è sufficiente l’esperienza del vedere il movimento, per avvedersi che non
vi è alcuna ricognizione a partire da esperienze passate, e nessuna associazione con informazioni
collaterali previamente incamerate. Che la nostra esperienza in prima persona sia metodologica-
mente importante per lo studio della percezione, si evince anche da DS 441a1-3: il senso dell’ol-
fatto, dice Aristotele, è cosa difficile, per noi, da studiare in generale, perché in noi è capacità
molto debole: ciò significa che la nostra esperienza percettiva “alla prima persona» è materia
preziosa per l’indagine sulla percezione.
135
Le occorrenze dell’espressione “senso comune” non hanno lo stesso significato: in Met. i 1,
981b14 e HA i 3, 489a17 koinh; ai[sqhsi~ è tale nel senso che è comune agli animali: il tatto in
HA, e i sensi propri, comuni a uomini e animali, in Met. Cosi come in EN iii 13, 1118b1 “il più
comune” dei sensi, è il tatto. Il senso di “comune” che ci interessa, è un altro: la capacità comune
a più sensi individuali, piuttosto che la capacità condivisa da più entità percipienti. Cfr. Gregoric
2007 per un’analisi puntuale e brillante di tutte le occorrenze nel corpus.
168 Capitolo terzo
ni per cui il sistema percettivo è fatto come è fatto, ragioni che possono
dipendere da qual è il bene-fine della capacità naturale in questione, o
da cosa sia ipoteticamente necessario per il suo ottenimento136. Anche
se il testo non è esplicito su ciò, è meglio leggere il passo come se chie-
desse come mai abbiamo più di un senso individuale non simpliciter,
ma per la percezione dei comuni137: cioè, come mai i comuni sono co-
muni a più sensi propri e non sono, per esempio, associati solo alla vi-
sta, o all’udito, o magari un comune alla vista, uno all’udito, e così via.
L’ipotesi aristotelica – addotta come una mera suggestione – è che
avere più sensi individuali il cui mutamento ci fa cogliere i comuni, ci
faciliti l’enucleazione dei comuni medesimi: il nostro mondo-ambiente
non è fatto solo di suoni, sapori, colori, odori e proprietà tangibili, ma
anche di unità discrete che hanno forma e dimensione, e che sono stati-
che o in movimento (e che hanno odore, sapore, colore ecc.). Se solo il
senso proprio della vista fosse capace di cogliere la grandezza e la for-
ma, potrei sì vedere il mondo colorato e multiforme, ma avrei difficoltà
a considerare le forme del mondo percepito come indipendenti dai co-
lori che pure ad esse mi danno accesso percettivo: l’accompagnarsi co-
stante dei colori alle forme138 peggiorerebbe la mia capacità di trattare
la forma (come la grandezza, l’unità, la stasi e il movimento) come una
proprietà a sé stante, che a volte può anche essere più rilevante del co-
lore139. Invece, siccome posso anche avere contezza tattile delle forme,
così come di movimento e stasi posso avere anche contezza tattile e
auditiva oltreché visiva, mi viene più facile trattare i comuni come pro-
prietà differenti dai colori e dagli altri propri. Il fatto che i comuni siano
comuni (a più sensi propri), li rende più agilmente distaccabili dal perce-
pibile proprio mediante cui, occasionalmente, vengono colti: altrimenti
136
È molto significativo, e per nulla accidentale, che DA si chiuda (iii 12-13) con una serie di
considerazioni sulla valenza teleologica delle capacità psichiche e dei poteri percettivi. Si tenga
a mente che la psicologia, in quanto parte della fisica e anzitutto in quanto della scienza della na-
tura vivente, deve assumere, metodologicamente, il primato della causa formale-finale su quella
efficiente e materiale (cfr. Cap. i).
137
Così Hamlyn 1968, ad loc. Che la enucleazione dei comuni sia la ragione per cui abbiamo
più sensi, non sembra infatti plausibile. Ci sono molte altre ragioni, per cui abbiamo più sensi, in
vista della sopravvivenza e del bene. Così anche Filopono, e Gregoric 2007, p. 194.
138
La vista è potente sui comuni perché tutto ciò che ha superficie e grandezza, ha colore, e
tutte le cose naturali hanno superficie e grandezza (cfr. DS 1, 437a3-9)
139
Si pensi al fatto che qualcosa può cambiare forma ma non colore, e può cambiare colore
ma non forma. Un mutamento di stimoli cromatici, in un sistema che non ha altri canali per
cogliere mutamenti di forma, sarebbe più ambiguo e meno immediato nel coglimento del cambia-
mento di forma come diverso da quello di colore.
Percezione 169
Con i punti a), b) e c), Aristotele ritiene di aver assodato che non
ci sono più di cinque sensi, che l’animale perfetto li possiede tutti e
cinque, che i sensi individuali e le informazioni che convogliano i ri-
spettivi organi dall’ambiente sono sufficienti anche alla percezione dei
percepibili comuni, e che il fatto che i percepibili comuni siano comuni
ne facilita l’individuazione rispetto ai percepibili propri in virtù di cui
sono occasionalmente percepiti. Inoltre, chiarisce come i comuni pos-
sano essere percepiti a partire dalle informazioni dei sensi individua-
li, mediante il loro mutamento, ovverosia la variazione dello stimolo.
Il conferimento alla percezione della capacità di cogliere i sensibili
comuni e quelli accidentali, è una presa di posizione molto forte nei
confronti della concezione platonica, che ascrive all’intelletto qua-
lunque attività sintetica e associativa dei dati percettivi elementari144.
L’estensione aristotelica delle capacità percettive equivale anche a una
profonda e inedita rivalutazione cognitiva della vita e del comporta-
mento delle fiere, dotate solo di anima percettiva145, la cui flessibilità
cognitivo-comportamentale resta fatalmente inesplicata entro il para-
digma “intellettualista” platonico.
La teoria della percezione va strutturandosi e articolandosi progres-
sivamente, ma ancora debbono essere spiegate e studiate altre funzio-
ni dell’anima percettiva aldilà delle percezioni proprie e comuni: per
esempio, la metapercezione o coscienza percettiva, e la discriminazio-
ne fra percepibili sia dello stesso genere (giallo e nero) che di genere
143
La ricezione della forma è una complessa sequenza di mutamenti di diversi stati del sen-
sorio ciascuno dei quali riceve e registra, esemplificandolo, un certo lovgo~ (cromatico, auditivo
ecc.). Si tratta di una ricezione nell’organo a un livello diverso di astrazione, rispetto alla ricezio-
ne dei lovgoi propri, ma è pur sempre una ricezione nell’organo.
144
Cfr. Gregoric 2007, p. 33. Cfr. Teeteto 184D1-5; Timeo 52A; 27B-29; Filebo 38B-40A.
145
La phantasia, da Aristotele considerata una estensione dei poteri percettivi, è atta a spiega-
re la flessibilità cognitiva e comportamentale animale; mentre in Platone, anch’essa è posta come
un misto di percezione e intelletto, o una sintesi che opera l’intelletto sul materiale sensibile, di
per sé passivo e fatto di modificazioni corporee giustapposte. Cfr. Sofista 264A-B, per la caratte-
rizzazione platonica della phantasia (“immaginazione”). Cfr. Cap. iv.
Percezione 171
3.2.2. Metapercezione
151
Per Aristotele i sensi sono connessi allo stato di veglia (cfr. SV 1, 454a2-7) e dunque la
loro attività è conscia. Ora, se un senso è in attività nei confronti del vedere, e percepisce questo
stesso vedere, la nostra percezione del vedere tramite S è conscia. Ma se è conscia, in virtù di
cosa lo è? O in virtù del senso S stesso, che è conscio di sé, cioè percepisce sia la vista che il
proprio percepire la vista, oppure in virtù di un altro senso S1. Nel caso sia conscio in virtù di sé,
allora perché introdurre un senso S diverso dalla vista e non ascrivere alla vista stessa la capacità
di auto-percepirsi? Nel caso sia conscio in virtù di altro, o si procede all’infinito, o prima o poi
si postula un senso che sia autoreferenziale: e, di nuovo, si saranno postulati molti sensi e livelli
metapercettivi quando bastava postulare un potere metapercettivo della vista stessa.
174 Capitolo terzo
A ogni modo, con (c) ci si è risolti per uno dei due disgiunti, visto che
l’altro comporta un regressus che può essere arrestato solo dalla postula-
zione di un senso che si auto-percepisca, e a quel punto postulare l’auto-
percezione della vista sarebbe altrettanto esplicativo ma più economico.
Ma anche il disgiunto “buono” solleva un’aporia: se il percepire con
la vista è vedere, e si vede il colore o la cosa (in quanto) colorata, se
qualcuno vede «la prima cosa che vede» (to; oJrw`n prw`ton), quest’ulti-
ma dovrà essere colorata (d): d) era già stato anticipato in b), ove di dice
che lo stesso senso – sia esso la vista stessa o un altro senso S che vede
la vista – dovrà essere senso sia della vista che del “colore soggiacente”.
Cosa designa «la prima cosa che vede»? Si tratta dell’organo visuale
primario, cioè l’occhio o il sistema [occhi + cuore], oppure della capaci-
tà realizzata in quell’organo. Se è con la vista, che percepisco di vedere,
e la vista è per natura sensibile a colori, ne viene che il vedere, o “ciò
che sta vedendo” in cui il vedere è attualizzato, dovrà essere colorato,
per poter essere letteralmente visto152. Ma perché questa è un’aporia?
Anche qui, il silenzio del testo va integrato da qualche ipotesi er-
meneutica. Intuitivamente, il cogliere che si sta vedendo rosso, non è
identico al cogliere il rosso nell’ambiente, dunque è problematico pen-
sare alla metapercezione visiva come opera della vista, perché equipa-
rerebbe la ricezione dei colori esterni, compito della vista, alla perce-
zione che si stanno “ricevendo” tali colori, quasi che il secondo atto
sia un vedere superfici colorate: è controintuitivo, prima facie, pensare
che l’attività visiva sia alcunché di colorato come le superfici che sono
i suoi oggetti ambientali, nonché pensare che vediamo letteralmente
l’organo che vede: infatti, la nostra esperienza ci dice piuttosto che non
vediamo i nostri organi sensori, per esempio, i nostri stessi occhi153, e
tanto meno il cuore: piuttosto, vediamo i colori esterni che essi “vedo-
no” o, meglio, consentono a noi di vedere.
L’aporia viene risolta, o perlomeno mitigata, in due modi che sono
complementari: anzitutto, negando la sua premessa (17-18), o denun-
ciandone l’unilateralità: che “percepire con la vista” non sia altro che
“vedere” (20-21). Anche quando non stiamo vedendo, distinguiamo il
buio dalla luce: per esempio se, pur in stato di veglia, abbiamo gli occhi
152
Gregoric 2007, p. 180, ricorda un passo analogo del Carmide platonico: «Se la vista vede
se stessa, è necessario che abbia qualche colore; infatti se la vista non avesse alcun colore, non
potrebbe essere vista» (168D3-E1). Il problema, che a noi suona un poco astratto, doveva essere
un serio oggetto di discussione, nell’Academia come poi nel Liceo.
153
In DA ii 5, 417a2-9 Aristotele ha già affermato che, senza l’oggetto sensibile, non perce-
piamo i nostri organi sensori. Ma lì si parla dei sensori in potenza, non attualizzati dall’oggetto.
Percezione 175
chiusi, o se c’è buio pesto, cogliamo che c’è buio, e che non c’è luce,
dunque che non stiamo riuscendo a vedere alcun colore (e). Questo è
un esempio di “percepire con la vista” che è diverso dal vedere dei colo-
ri, quindi apre uno spazio logico ad altre possibilità in cui la metaperce-
zione visiva potrebbe essere opera della vista medesima: in particolare,
in quelle condizioni vediamo che non stiamo vedendo, oltre a vedere
che c’è buio e che non c’è luce154, dunque diventiamo consci, attraver-
so l’attività visiva, della condizione di questa nostra attività stessa. È
lecito supporre che Aristotele proponga questo esempio perché crede
che anche quando stiamo vedendo, siamo visivamente consci di starlo
facendo in modo analogo a quello in cui, al buio, ci rendiamo conto di
non stare vedendo: non, cioè, vedendo letteralmente i colori dei nostri
organi sensori, bensì cogliendo lo stato che essi stanno occupando sulla
base di ciò che stiamo o non stiamo vedendo155. Distinguo l’assenza
dalla presenza di stimoli cromatici, dunque il buio dalla luce, ma non
allo stesso modo in cui distinguo il rosso dal verde156. Si può aggiun-
gere, en passant, che anche la sensibilità alla variazione degli stimoli
cromatici che ci pone in grado di cogliere i percepibili comuni, com-
porta la capacità di cogliere cosa si sta percependo a t1 come diverso da
cosa si è percepito a t0, dunque comporta un implicito accesso ai propri
stati percettivi in quanto varianti e mutevoli157; anche perché implica
l’apprezzamento, pur non tematico, della distinzione fra variazioni di-
pendenti dai movimenti dei nostri corpi o organi sensori, e variazioni
dipendenti dal movimento e mutamento degli oggetti esterni158.
154
Aristotele dice che distinguiamo buio e luce, ma “non allo stesso modo”. Intendo: non allo
stesso modo di come, quando stiamo vedendo, distinguiamo i colori l’uno dall’altro. In DA ii 10,
422a20-23 Aristotele afferma che «la vista è sia del visibile che del non visibile (infatti il buio non
è visibile, ma la vista discrimina anch’esso), e anche di ciò che è troppo risplendente (che è invi-
sibile, ma in un senso diverso dal buio)». Se c’è troppa luce, non vedo i colori, ma colgo il fatto
che non riesco a vedere i colori perché c’è troppa luce: colgo la “rottura” del lovgo~ o proporzione
del mio organo.
155
È plausibile che sia in questo stesso senso, che “vedo” il trasparente attualizzato dalla luce
e, in generale, percepisco il “grado zero” dei sensibili nelle diverse modalità, cioè metapercepisco
il fatto che un mio senso sta occupando il suo “punto cieco”: tocco qualcosa che non è né caldo né
freddo, e che non muta il mio senso tattile, e percepisco che l’oggetto è a “temperatura ambiente”
proprio sulla base del suo non aver mutato il mio senso. Cfr. DA ii 11, 424a2-7.
156
Allo stesso modo, se vi è assoluto silenzio, percepisco l’assenza di suoni, cioè il non essere
attualizzato del mio udito da parte di nessun lovgo~ sonoro positivo.
157
Cfr. Phys. vii 2, 244b15-245a1, ove si chiarisce che l’inanimato non è cosciente dei propri
mutamenti mentre l’animato, che può essere alterato secondo le percezioni, è consapevole (ouj
lanqavnei) di queste sue alterazioni. Dal passo è evidente che il percepire, per Aristotele, è con-
scio, ed è costitutivamente immune alla possibilità di sfuggire al percipiente.
158
Questo Aristotele non lo dice esplicitamente. Ma consegue all’interpretazione del perce-
176 Capitolo terzo
pire i comuni “mediante il movimento” la quale abbiamo optato sopra (cfr. supra). Comunque,
altrove si distingue chiaramente fra movimento apparente, dovuto al muoversi del percipiente,
e movimento reale: «è che l’apparenza non si ha solo quando il percepibile è mosso, ma anche
quando la percezione stessa si muove, qualora il movimento sarà simile a quello causato dalla
cosa sensibile: intendo dire, ad esempio, che a chi naviga sembra che si muova la terra, mentre è
la vista, che è mossa da altro» (DI 2, 460b22-27).
159
Il testo (425b26-426a26) prosegue riassumendo la teoria del movimento, per cui il muta-
mento è nel paziente, l’atto di senso e sensibile sono uno ma con diverso “essere”.
160
Cfr. supra.
161
Cfr. DA iii 8, 431b21.
Percezione 177
altre: c’è un senso, pur non letterale ma analogico, in cui l’organo che
vede è colorato, e dunque percepire visivamente che si sta vedendo (un
colore) significa percepire i colori che l’organo indica come presenti
nell’ambiente: percepire stati “cromatici” dell’organo visivo162 in virtù
del percepire, anzitutto, i colori ambientali che li causano.
Il punto (f) conclude con l’osservazione che la ricezione delle forme
senza materia, in ragione di cui l’occhio è in certo modo colorato, spie-
ga anche il permanere di percezioni e «immagini» (fantasivai, b25)
negli organi anche quando i rispettivi percepibili non ci sono più, cioè
anche se lo stimolo è cessato: per spiegare come la vista possa perce-
pire la propria stessa attività, è utile considerare che le informazioni
visive sono non solo ricevute, ma anche ritenute negli organi, per cui
l’essere dell’organo in un certo stato presente, diverso dallo stato pre-
cedente, insomma la sensibilità ai propri stati visivi attraverso il cogli-
mento della variazione degli stessi, consente al percipiente di cogliere
la propria stessa attività non grazie a un senso ulteriore, bensì grazie
all’attività stessa163. Si ricordi che l’organo della vista, “ciò che vede”,
è il sistema [occhi + cuore]164, e che inoltre, a parlar propriamente, a
vedere è il percipiente, non l’occhio o la vista: il percipiente vede, con
la vista, e percepisce di vedere, con la vista stessa165, anche se non nello
stesso senso. Aporia sciolta.
Il riferimento al permanere delle immagini oltre la presenza dell’og-
getto, è un modo per sottolineare ulteriormente che c’è un significato,
162
A mio parere, questo argomento sulla metapercezione rafforza l’interpretazione analogica
della formula “ricevere le forme percepibili senza la materia”: l’organo è “in certo modo” colora-
to nel senso che occupa stati discreti che codificano, o corrispondono a, proprietà ambientali, in
questo caso proprietà cromatiche.
163
Dunque, l’aporia per cui se la vista vede ciò che vede, ciò che vede deve essere colorato,
è risolta in due modi: da un lato, si può vedere con la vista anche senza vedere i colori; dall’al-
tro, è vero che ciò che vede è “in certo modo” colorato. Non sono due risposte alternative, anzi
ritengo che andrebbero non giustapposte ma associate: il vedere “con la vista” che è buio e che
non si sta vedendo, è un modo di vedere che spiega anche come possiamo vedere qualcosa che è
colo-rato solo “in un certo modo”: siamo sensibili agli stati cromatici occupati dai nostri sensori
(che indicano colori o im-possibilità di vederli per troppo buio, occhi chiusi, o troppa luce), con
una sensibilità analoga a quella che abbiamo di essi, quando c’è buio, del fatto che non vediamo.
164
Il cuore è «organo sensorio comune a tutti gli organi periferici» (JS 1, 467b28), «l’organo
principale cui gli altri tendono» (SV 2, 455a33-34), il «sensorio primario» (SV 2, 456a21; 3, 458a
28-29). In PA ii 1, 647a25-30 si spiega che il cuore è ricettivo dei percepibili; è il principio primo
della percezione, collegato coi sensori periferici (JS 3, 469a10-23). La fisiologia del cuore e il suo
ruolo sono descritti in HA i 17 e iii 3, e in PA iv.
165
Vedo i colori “con la vista”, cioè attraverso la vista: il vedere i colori non è che l’esercitare
la vista; percepisco di vedere i colori “con la vista”, cioè grazie alla vista, in virtù del fatto che
vedo i colori.
178 Capitolo terzo
ranno verosimilmente pensieri, desideri, emozioni, moti fantastici, memorie, e così via. A ben
vedere ciò non contraddice il condivisibile rilievo di Kahn: come vedremo, memorie, “fantasie”
e pensieri sono stati la cui materia sono percezioni presenti o pregresse (Cap. iv), e anche i desi-
deri sono essenzialmente connessi alla percezione (Cap. vi); pertanto potrebbe ben darsi che, per
Aristotele, la coscienza che abbiamo dei nostri stati non percettivi sia mediata dal loro implicare
essenzialmente dei moti percettivi presenti o pregressi e la loro meta-percezione.
170
Così Johansen 2005, p. 260; è giusto però ricordare che Aristotele non la caratterizza
mai così.
180 Capitolo terzo
è affezione del cuore, ricordare che il cuore è organo del tatto è importante perché, se il sonno
è l’inattività dei sensi, lo sarà anche negli animali che hanno solo il tatto, in cui sarà comunque
inattività del cuore, come nei percipienti multimodali per i quali il sonno comporta l’inattività del
senso comune, oltre che di tutti i sensi individuali. Invece un senso individuale può anche tempo-
raneamente essere inattivo (per esempio, per eccesso di stimoli o per menomazione dell’organo)
senza che la veglia sia minacciata. Invece, l’eccesso di tangibili distrugge l’animale (DA iii 13,
435b13-19), dunque senza il tatto non ci può essere veglia, perché non c’è vita. Il sogno avviene
nel sonno, dunque tutti gli eventi psichici onirici non possono coinvolgere il senso comune, la cui
inattività definisce il sonno. Infatti, il sogno dipende dalla “parte percettiva in quanto immagina-
tiva” (DI 1, 459a20-22). Cfr. Cap. iv.
178
L’idea “massimalista” viene da Alessandro e Teofrasto; quella “minimalista” viene da Fi-
lopono, ed è condivisa, fra altri, da Hamlyn 1968, Kahn 1966, Block 1988, Brunschwig 1996, Gre-
goric 2007. Secondo Brunschwig 1996, i sensibili comuni sono comuni non in senso “congiun-
tivo” (ad esempio, alla vista e all’udito), ma in senso “disgiuntivo” (ad esempio, il movimento
è comune al sensibile proprio della vista, o a quello dell’udito ecc.), ove la disgiunzione non è
esclusiva: dunque non vi è bisogno di un senso comune che sia distinto dai cinque sensi indivi-
duali, ma (almeno) uno di essi, ogni volta, è sufficiente a percepire movimento, o figura ecc.,
proprietà occasionalmente comuni a un certo senso proprio.
179
DS 7, 449a17-18 chiama il senso comune «ciò che è capace di percepire tutte le cose» (to;
aijsqhtiko;n pavntwn). Tuttavia, si tenga a mente che le capacità non vanno ipostatizzate: una capa-
cità può essere il risultato di altre capacità, ma queste ultime restano pur sempre la sua “materia”;
la capacità superiore non si “riduce” a quelle che la costituiscono, ma nemmeno va concepita
come un’altra capacità che si imponga su quelle, usandole. L’alternativa stessa è fuorviante.
180
Cfr. infra. Sulla metapercezione in DA e SV (e sulla compatibilità o meno fra i due passi
relativi), oltre a Kosman 1975, Caston 2002, Johansen 2005 e Gregoric 2007, è utile consultare
Osborne 1983.
184 Capitolo terzo
181
Platone, nel Teeteto (185A) sostiene che è “l’anima stessa”, a distinguere le reciproche
contrarietà dei diversi generi di sensibili. La presa di posizione aristotelica è dunque una sfida a
Platone. Il senso coglie i particolari, l’intelletto gli universali (cfr. AP i 30, 87b37-39), dunque
la differenza fra un certo esempio di bianco e un certo esempio di dolce (questo bianco e questo
dolce), deve essere distinto dalla percezione.
182
«Questo bianco è diverso da questo dolce», oltre ad essere un contenuto percettivo, può es-
sere anche un contenuto pensato. È interessante il riferimento all’intelletto, qui: non solo i sensi
individuali sono parti del tutto che è l’anima percettiva, ma la stessa anima percettiva, negli ani-
mali che hanno anche altre anime (l’intellettiva), è parte di un’unità integrata, l’anima dell’ani-
male: è per natura che il percepire uno stato di cose, talvolta, risulta in una credenza empirica.
183
Per esempio, DA iii 7, 431a8-11: «il percepire è simile al solo dire o pensare» (noei`n),
contrapposto al percepire qualcosa come piacevole o doloroso, che è atto cognitivo sintetico al
modo del predicare o dell’enunciare (“S è P”).
186 Capitolo terzo
a un tempo, per esempio col dolce nel gusto e col bianco nella vista,
e di sintetizzare questi due percetti riferendoli a una sostanza unitaria,
sostrato dei due. Ma questa strategia, controreplica lo stesso Aristotele
(a7-10), non è sufficiente in rapporto ai percepibili omogenei, come
bianco e nero: infatti un senso individuale è molteplice in potenza ma
uno in attualità; per esempio, è capacità di diventare uno o l’altro con-
trario o uno degli intermedi, ma quando viene attualizzato dal sensibi-
le, il suo stato di attualità è numericamente uno, ed è numericamente
identico all’attualità del percepibile. Solo in potenza l’organo/capacità
è bianco, blu, verde, rosso, nero, ma se è bianco in attualità al tempo t,
non può essere nero in attualità al tempo t.
Dunque, come posso discriminare l’uno dall’altro due diversi colori
in un tempo indivisibile, se in un certo istante la mia capacità ne può
attualizzare solo uno dei due? La “soluzione” aristotelica consiste nel
proporre un’analogia con uni-duplicità del punto in quanto limite fra
due semirette: un punto è uno e due, in quanto è limite della semiretta
AB e limite della semiretta BC, pur essendo numericamente uno; dun-
que il punto è a un tempo divisibile e indivisibile:
«Dunque, in quanto indivisibile, ciò che discrimina è uno e discrimina simul-
taneamente; in quanto è invece divisibile, utilizza due volte lo stesso punto
simultaneamente. In quanto usa due volte il limite, discrimina due cose sepa-
rate, e in certo modo separatamente; in quanto lo usa come uno, discrimina
una cosa a un tempo» (DA iii 2, 427a12-15).
Perché questa analogia dovrebbe metterci in condizione di supe-
rare la difficoltà? Ciò che l’analogia aggiunge all’idea dell’unità nu-
merica molteplice in “essere”, deve essere tale da rendere concepibile
la discriminazione fra omogenei, cosa che l’idea dell’unità numerica
molteplice in essere non può fare (la molteplicità dello stesso senso
è potenziale, mentre la discriminazione fra bianco e nero comporta
l’attualità simultanea dei due)186. Un’altra occasione in cui Aristote-
le sfrutta la duplice natura del punto, uno numericamente ma due in
quanto confine o limite di due semirette, è la trattazione del tempo, e in
particolare dell’“ora”, in Phys. iv 11-13: il punto può essere principio
186
Per Polansky 2007, p. 399 il punto sarebbe il senso comune cui arrivano i sensi propri
come delle semirette confluenti, appunto, nello stesso unico punto, loro limite comune: l’interpre-
tazione è suggestiva, ma cozza col fatto che il punto qui è evocato per spiegare la discriminazione
intramodale, cioè fra qualità dello stesso genere (ad esempio, bianco/nero), non quella intermo-
dale (ad esempio, bianco/dolce) per cui l’idea del senso comune come limite comune avrebbe una
sua forza icastica.
188 Capitolo terzo
O, magari, in uno stato intermedio: ma di certo non in entrambi gli stati insieme.
189
Interpreto il tau`ta di a22 come il dolce e il caldo, che il testo indica poco prima. Così
190
sono uno per numero quando la cosa che è dolce e calda è una e la
stessa. L’analogia è una eguaglianza di rapporti191, e l’unità per analogia
è uno dei modi dell’unità, oltre a quella numerica (stessa materia), spe-
cifica (stessa definizione) e generica (stessa categoria): F e G possono
essere uno perché sono proprietà dello stesso individuo, perché sono la
stessa proprietà e dunque condividono la definizione (ad esempio, di
“rosso”), o condividono la categoria (ad esempio, sono entrambe quali-
tà), o perché stanno fra loro come una terza cosa sta a una quarta, cioè
per analogia (Met. v 6, 1016b31-35). Se Fido e Bobby sono padre e
figlio, stanno l’uno all’altro come Franco, il padre di Mario, sta a Ma-
rio, dunque sono “uno” con un’altra coppia che intrattiene la stessa loro
relazione, e si può dire anche che Fido e Bobby sono “uno” fra loro al
modo in cui Franco e Mario lo sono fra loro: sono uniti da un tipo di
relazione, che è identica a, o “una” con, la relazione che unisce altri due
individui. Tornando al nostro passo: dolce e caldo possono essere uno
per numero – per “specie” o definizione non lo sono – o per analogia,
nel senso che stanno in un rapporto uguale a quello in cui stanno fra loro
i rispettivi contrari nel rispettivo genere, cioè [amaro] e [freddo]192: se
la cosa dolce e calda è la stessa, sono uno anche per numero; se la cosa
dolce non è la cosa calda, comunque il dolce sta al suo genere (sapore)
come il caldo sta al suo genere (temperatura), essendo [dolce] e [caldo]
i due contrari ed estremi positivi del loro rispettivo genere. Ne viene che
[dolce] sta a [caldo] come [amaro] sta a [freddo], in quanto [dolce] sta
ad [amaro] come [caldo] sta a [freddo]: sono entrambe analogie, cioè
eguaglianze di rapporti, ma la prima, che è chiamata “permutazione”
(ejnallavx) della seconda, è l’eguaglianza di collocazione, da parte di
due proprietà di genere diverso, entro le rispettive scale da un contrario
all’altro, scale che individuano i rispettivi generi. Se Franco sta a suo
191
EN V 6, 1131 a 31: hJ ga;r ajnalogiva ijsovth~ ejsti; lovgwn.
192
Intendo ejkei`na in a23 come l’amaro e il freddo. Si parla di analogia, che è una uguaglian-
za di rapporti, e se si intende con tau`ta in a22 la prima coppia di qualità citate, cioè dolce e caldo,
“quelle altre cose”, rispetto a queste, che completano la relazione analogica, saranno l’amaro e il
freddo, cioè gli estremi negativi dei rispettivi generi. Hamlyn 1968 intende con ejkei`na i rispettivi
sensi, cioè il gusto e il tatto, dunque il dolce starebbe al caldo come il gusto al tatto, e come è una
la cosa dolce e calda, così è numericamente uno il senso, anche se molteplice in essere. Gregoric
2007, p. 158 intende ejkei`na non come i sensibili [amaro] e [freddo] ma come le percezioni di
[dolce] e [caldo], e l’unità analogica sarebbe fra il rapporto fra dolce e caldo, e il rapporto fra per-
cezione del dolce e percezione del caldo. Se è vero che poco prima è presente una corruzione del
testo in cui potrebbe esserci stato un riferimento ai sensi o alle percezioni rispettive delle qualità
nominate, mi pare più consono e prudente spiegare il passo, visto che è possibile farlo, a partire
dagli elementi che abbiamo, senza postulare presunti riferimenti mancanti. Per la stessa ragione,
Percezione 191
figlio Mario come Fido sta a suo figlio Bobby, è anche vero che il padre
Franco sta al padre Fido come il figlio Mario sta al figlio Bobby, cioè
Franco e Fido sono “uno” nell’esser-padre mentre Bobby e Mario sono
“uno” nell’esser-figlio. Due coppie di enti, ciascuna della quali esem-
plifica una identica relazione, sono tali che il membro di una coppia è
identico al membro dell’altra coppia nell’avere un certo ruolo entro la
relazione con l’altro, rispettivo membro della sua coppia (c).
Ma cosa, esattamente, sta in rapporto di analogia a cosa? Il bianco
(A) sta al nero (B) come il caldo (C) al freddo (D), dunque c’è unità
analogica fra A-B e C-D. E se dolce/amaro ineriscono a qualcosa di
uno, così come allo stesso oggetto unico ineriscono caldo/freddo, le
coppie dolce/amaro e caldo/freddo saranno “uno” per analogia, anche
se diverse in “essere” (d). E lo stesso discorso varrà, aggiunge Aristo-
tele, per A = dolce e B = bianco (e). L’unità analogica fra A-B e C-D, in
tal caso, sarebbe fra la coppia dolce/bianco e la coppia amaro/nero, e
siccome l’analogia si permuta, otterremo con la permutazione il risul-
tato che nella prima ipotesi era stato posto per primo: bianco sta a nero
come dolce sta ad amaro. Uno stesso oggetto ha una certa temperatura
e un certo sapore: la capacità percettiva coglie il lovgo~ termico (ponia-
mo che sia: 10, nella scala da 0 a 10) e quello “gustativo” (poniamo che
sia: 10, nella scala da 0 a 10). Due parti del senso sono attualizzate allo
stesso modo, cioè occupano lo stato “10”, e il senso coglie la differenza
fra questi due tipi di attualizzazione di sue parti, giacché uno è un 10
termico (= caldissimo), l’altro un 10 gustativo (= dolcissimo). Il senso
coglie l’identità di grado (lovgo~)193 ma anche la differenza di scala (ge-
nere): non li confonde in quanto coglie in cosa sono identici (grado) e
in cosa sono diversi (genere), come se potesse produrre un unico lovgo~
complesso composto di diversi lovgoi singoli.
Tutto questo concettoso e ostico discorso è orientato a esprime-
re, mediante l’idea di una proporzione permutabile a quattro termini
(A : B = C : D e A : C = B : D), la capacità uni-molteplice del senso: il senso
come un tutto di cui i sensi individuali sono materia prossima, è in gra-
meglio evitare la lettura analoga ma inversa (ad esempio, Brentano 1867, p. 94) per cui tau`ta si
riferirebbe alle percezioni di [dolce] e [caldo], ed ejkei`na a [dolce] e [caldo].
193
Naturalmente, il senso coglie l’identità di grado, cioè di collocazione e distanza da ciascuno
dei contrari del genere, ma coglie anche la differenza di grado: per esempio, un certo amaro è più vi-
cino al suo contrario negativo (l’amaro come contrario “fondoscala”) di quanto un certo blu sia vi-
cino al suo contrario negativo (nero). Cioè, un certo sapore può essere una proporzione con cinque
parti di amaro e due di dolce, mentre un certo colore è una proporzione di quattro parti di bianco e
tre di nero. Cogliere l’identità quanto c’è, significa cogliere la differenza quando l’identità non c’è.
192 Capitolo terzo
194
L’unità del senso nonostante la molteplicità dei generi di qualità e di gradi entro ciascun
genere, è speculare all’unità della sostanza percepibile nonostante la molteplicità delle sue qualità
percepibili e (in tempi diversi) dei diversi gradi in cui può essere caratterizzata da ciascun tipo di
qualità: l’uni-molteplicità del senso riflette quella dell’oggetto, anche se, secondo l’ordo cogno-
scendi, sono prioritarie le qualità sensibili, a partire dalla cui co-occorrenza il senso “ricostruisce”
l’oggetto, la sostanza molteplicemente caratterizzata, mente secondo l’ordo essendi la sostanza
precede le sue qualità.
195
Così intendono to; kri`non nel passo di iii 2 (427a2-3) Alessandro, Tommaso, Hicks 1923,
Hamlyn 1968, Ross 1961, Gregoric 2007.
Percezione 193
196
In DS l’accento è più sulla possibilità di percepire simultaneamente, mentre in DA iii 2 è
più sulla possibilità di distinguere fra percepibili. Ma sono evidentemente due modi di approc-
ciare lo stesso problema: se percepisco diversi percepibili simultaneamente, li discrimino, e se li
discrimino, li percepisco simultaneamente.
197
Per non parlare degli eterogenei, la cui percezione simultanea a fortiori non può essere
spiegata dalla loro mivxi~ in quanto non vi è alcuna mescolanza di sorta fra il bianco e il dolce.
198
DS 7, 448b24-25.
199
Quest’idea è abbastanza strana. Forse dipende dal fatto che, per Aristotele, gli organi per-
cettivi e i media hanno composizione omeomera (cfr. PA ii 2, 647a5-8; HA i 4, 489a23-26; DS
2, 438a16-439a5), sono omogenei e dunque solo un proprio può, in certo senso, “occuparli” in
un certo istante. L’obiezione che Aristotele muove alla sua ipotesi, è simile a quella mossa in DA
iii 2 all’idea che ogni senso individuale potrebbe discriminare il proprio. Sarebbe come se una
persona cogliesse del bianco, e l’altra del dolce. Nessuna delle due potrebbe cogliere la differenza
fra bianco e dolce.
200
Perché si accetta l’unità del tutto nonostante le parti/capacità per l’anima percettiva e i
suoi sensi individuali, mentre non si accetta l’idea che le parti dell’organo capacità siano le une
194 Capitolo terzo
degli organi sensori, e dei sensi individuali, non nega l’unità metafisica
della capacità percettiva: come una sostanza può essere bianca, gustosa,
odorosa e dura, così il senso come totalità unificata può essere moltepli-
ce senza perdere la sua unità.
DS dunque ribadisce il quadro teoretico di DA ma pone ancora
maggior enfasi sull’unità della capacità percettiva, resa possibile fisio-
logicamente dal centro cognitivo del percipiente: il cuore.
In generale, il gruppo PN valorizza la natura “centralizzata” del siste-
ma cognitivo e dell’organizzazione dinamica dell’animale come corpo
vivente, e sottolinea la rilevanza del cuore come realizzatore psichico
unificante, crocevia di funzioni e informazioni, e “centro di comando».
Abbiamo già avuto modo di apprezzare questa differenza fra DA e PN
anche a proposito della metapercezione: il passo di SV (del gruppo PN)
sottolinea il nesso fra capacità metapercettiva e unità dei sensi individuali
realizzata nel “sensorio principale” o “dominante” (kuvrio~): il cuore201.
L’approccio più modulare di DA non contraddice l’approccio più
olistico di DS e dei PN in genere: come DA non nega l’unitarietà della
capacità percettiva, così DS non nega la modularità delle funzioni per-
cettive, bensì enfatizza la natura originariamente sinergica, unificata
dei diversi moduli.
Inoltre, le caratterizzazioni quasi-definitorie dell’anima in DA ii 1-2
sono segnatamente olistiche: l’anima è una, attualità del corpo orga-
nizzato del quale è principio di unità e causa primaria di vita; le fun-
zioni o “anime”, poi, sono studiate come moduli o capacità di base in
sinergia: DA disegna una metafisica dei poteri psichici, e come tale è
orientata alla spiegazione del “che”, del “cosa”, del “perché”, mentre
PN studiano l’insieme di questi poteri da un punto di vista dinamico e
sono orientati anche al “come”, alle condizioni fisiologiche di realizza-
zione: e dunque alla centralità del cuore come corrispettivo materiale-
di un colore e le une dell’altro? L’organo è una grandezza, l’anima no: l’unità di una capacità
può implicare una molteplicità di capacità inferiori e coordinate, orientate al tutto. Ma l’organo
fisico, in quanto composto in modo omeomero in ragione del fatto che i media non possono che
essere omeomeri, non può essere attualizzato da due colori nel contempo. Dunque la capacità
deve emergere dall’attualizzazione semplice di ogni organo in ciascun istante: la capacità sfrutta
la transizione fra stati elementari discreti dell’organo, e il limite fra l’uno e l’altro è limite fra due
tempi/stati, così può discriminare i due.
201
In PN il cuore è caratterizzato spesso come sensorio primario o dominante (prw`ton aijsqh-
thvrion, kuvrion aijsqhthvrion); in JS è detto sensorio comune (koino;n aijsqhthvrion) cui neces-
sariamente sono riferite tutte le percezioni in atto (JS 1, 467b28 e 469a10). In PN, rispetto a DA,
il cuore acquista una sorta primarietà percettiva rispetto agli organi periferici; l’enfasi sulla con-
fluenza dei sensi nel cuore comporta l’enfasi sul senso comune, o sull’unità del senso.
Percezione 195
203
Il passo citato continua così: «Intendo dire questo, che forse il bianco e il nero, diversi per
specie, li distingue lo stesso (senso), e il dolce e l’amaro li distingue lo stesso, che pure è diverso
dal primo; tuttavia [i due sensi percepiscono] in modo diverso ciascuno dei contrari, e rispettiva-
mente, allo stesso modo le cose corrispondenti (ta; suvstoica), cioè: come il gusto [percepisce] il
dolce, così la vista il bianco, come questa il nero, così quello l’amaro» (DS 7, 447b26-30).
Percezione 197
204
L’anima locomotoria, anche se è presente in animali senza intelletto, è trattata dopo l’in-
telletto, ma per una ragione semplice: dopo che si è introdotto l’intelletto, la motivazione e la
locomozione sono spiegate sia per le fiere che per gli esseri umani, dotati di intelletto. Così, la
phantasia è introdotta in iii 3 nel suo valore cognitivo, e solo dopo viene trattata in relazione
all’azione e alla motivazione. Parimenti, fra percezione e pensiero, media la phantasia, e questa
gerarchia psicologico-cognitiva è “mimata” anche dal punto di vista dell’ordine espositivo.
198 Capitolo terzo
capitolo quarto
phantasia
1
Preserverò il termine traslitterato phantasia, perché “immaginazione” è insoddisfacente, es-
sendo solo una delle attività psichiche rese possibili dalla fantasiva aristotelica, e non esiste altro
termine italiano che possa restituirne il significato.
2
iii 2 si chiude così: «Intorno al principio in virtù di cui diciamo che l’animale è capace di
percezione, è sufficiente ciò che si è detto» (427a15-16). Anche nel panorama degli studi italiani, la
phantasia aristotelica pare essere oggetto di un rinnovato interesse: cfr. Astolfi 2011 e Feola 2012.
3
Non concordo con Caston 1996, p. 23, per cui la collocazione di iii 3 è probabilmente
accidentale e dovuta alla mano di editori tardi. Se anche fosse, gli editori in questione avrebbero
scelto per iii 3 la collocazione più razionale possibile.
4
La lettura sistematica dell’indagine di iii 3 è condivisa da pochi. In genere si considera il
capitolo come una trattazione priva di coerenza e oscillante fra tesi incompatibili (cfr. Freudenthal
1863; Ross 1949, p. 3; Schofield 1978; Hamlyn 1968).
5
DA i 1, 403a8-10.
6
DA ii 3, 413b22 e 415a11. In realtà, come cercherò di mostrare, la fantasiva è propria solo
di percipienti capaci di locomozione (cfr. Cap. vi).
7
DA ii 3, 414b16.
8
DA ii 8, 420b30-32: cioè, un suono è semantico, dunque è voce, in quanto è accompagnato
da fantasiva.
200 Capitolo quarto
13
Questo pessimismo epistemico è cosa inaudita nella concezione aristotelica, secondo cui
l’esercizio delle nostre capacità cognitive, come di tutte le funzioni naturali, è tendenzialmente
coronato da successo: l’osservazione ha piuttosto un sapore platonico. Ma si può pensare, posto
che i sogni sono false apparenze e che gli animali trascorrono molto tempo nel sonno, che il tem-
po la cui maggior parte è occupata da stati erronei, è l’insieme [sonno + veglia].
14
Si sta parlando sia del pensare che della percezione come rapporto col simile, dunque qui
le “cose che appaiono”, ta; fainovmena, copre ciò che è porto alla cognizione in generale, sia
percettiva che no.
15
Dunque, se [cognizione] = [rapporto col simile], e [errore] = [contrario della cognizione],
e [rapporto col dissimile] = [contrario del rapporto col simile], allora [errore] = [rapporto col
dissimile].
16
Le capacità razionali e le conoscenze rispettive concernono entrambi i contrari, come sa-
lute/malattia (cfr. Met. ix 2, 1046b5-10): un medico, per il fatto che conosce le condizioni della
salute, conoscerà quelle della malattia, un esperto di geometria conoscerà il retto e il curvo, e così
via. La scienza è dei contrari, che definiscono un genere di cui la scienza è scienza (cfr. Met. x 4,
1055a28-33). Ma che la scienza dei contrari sia la stessa, oltre a essere teoria positiva di Aristote-
le, è anche una opinione comune diffusa (un e[ndoxon, cfr. Top. i 10, 104a15-16), ed è come tale,
che qui vale nell’argomentare dialettico.
17
Cfr. DA i 5, 411a5-7: «Infatti col retto conosciamo il retto e il curvo, poiché il regolo è
criterio di entrambi, mentre il curvo non lo è né di se stesso né del retto». Condivido con Caston
1996, p. 28, l’idea che l’argomento è una reductio ad absurdum. Ci sono due corni del dilemma,
nessuno dei quali è percorribile. Dunque va tolta la premessa che cagiona il dilemma: che la co-
gnizione sia alterazione del simile da parte del simile.
18
Aristotele l’ha già discussa dialetticamente in DA i 5, 409b26-410b13.
202 Capitolo quarto
19
Met. iv 5, 1009a6-17 attribuisce a Protagora la dottrina per cui tutto ciò che appare è vero,
e la correla alla concezione del conoscere come alterazione e del pensiero come percezione. La
tesi per cui la conoscenza è percezione, e per cui da ciò seguirebbe che tutto ciò che appare è vero,
è già discussa nel Teeteto platonico (151E-160E). Ma Aristotele non ritiene che se la conoscenza
fosse percezione, tutto ciò che appare sarebbe vero: per ottenere questa conseguenza, occorre as-
sumere che la percezione è azione alterativa del simile sul simile, cosicché quando c’è percezione,
c’è una causa esterna che è simile al senso, e l’alterazione causata da quella su questo, sarà un’ap-
parenza veridica. Aristotele non crede che la percezione debba essere vera: può essere inaccurata
ed erronea (almeno quella dei comuni e degli accidentali, cfr. Cap. iii), ma per poterlo essere, deve
essere qualcosa di più che una mera alterazione corporea da parte del simile.
20
Anche per Aristotele la percezione è alterazione fisiologica: ma tale da permettere la ricezione
della forma sensibile senza la materia, grazie al fatto di essere assimilazione di forma e di organo sen-
sorio mediante il lovgo~. Dunque non è semplice alterazione fisiologica bensì anche attività formale,
e in particolare non lo è del simile da parte del simile (anche se lo è del simile nel senso che la qualità
altera il sensorio rispetto a una qualità che è dello stesso genere: ad esempio, colore, suono ecc.).
21
In realtà, questo non è generalizzabile. Basti pensare ad Anassagora, per il quale la co-
noscenza non è rapporto col simile, ma col dissimile. Però, se la dottrina anassagorea si intende
altrettanto rozzamente e letteralmente di come Aristotele intende quella di Empedocle, essa non
è in una migliore condizione di difendibilità: non si dovrebbe poter conoscere il simile ma solo il
dissimile; inoltre, se la conoscenza è alterazione da parte del dissimile, allora l’errore sarà altera-
zione da parte del simile, ma allora come è possibile la conoscenza dei contrari? Insomma, gli ar-
gomenti aristotelici hanno la stessa presa su entrambe le tesi, che sono l’una il converso dell’altra.
22
Secondo Caston 1996, p. 35, l’argomento aristotelico mostra che se la cognizione è alte-
razione, allora tutto ciò che appare è vero, indipendentemente dal fatto che l’alterazione sia o
meno incorporea; per questo l’argomento è contro gli “antichi” in generale: Aristotele sa bene
che Anassagora ritiene che il pensiero sia incorporeo e che la conoscenza è rapporto col dissimile
(cfr. DA i 2, 405a16-17). Ma il punto è che anche lui concepiva la conoscenza, secondo Aristotele,
come alterazione.
23
E come lo è anche la cognizione percettiva. La visione è del bianco e del nero, dunque il
Phantasia 203
rapporto percettivo con l’ambiente è col dissimile, che è simile in potenza, e nella percezione
diventa simile in atto (cfr. Cap. iii). Dunque in un senso è rapporto col simile, in un altro col
dissimile: un dissimile, comunque, simile in quanto dello stesso genere della qualità che l’organo
“diventa” (ad esempio, colore). La idea troppo rozza degli “antichi” non è adeguata, poiché essi
non hanno riconosciuto la struttura complessa del percepire, come attualizzazione di una potenza
del senso e del sensibile, in virtù della medietà o proporzione dell’organo e della sua capacità di
cogliere la forma a partire dalla sua alterazione materiale: l’alterazione materiale è un cogliere la
forma, ed è questo che rende quella alterazione una percezione; se non si riconosce il processo
come processo formale, ci si imbatte nelle conseguenze succitate, cioè non si riesce a dare conto
dell’esistenza dell’errore (che è un cattivo uso delle informazioni dei sensi propri da parte del
senso comune o, come vedremo, della phantasia). Qui comunque siamo a un livello dialettico,
Aristotele sta descrivendo le cose nel rozzo linguaggio dei suoi stessi obbiettivi polemici, mentre
la sua teoria prevede delle distinzioni molto sofisticate che non si possono avanzare nel tratta-
mento di un pensiero arcaico: prima si mostra che questo pensiero, per come è articolato in sé,
è insufficiente, poi (in realtà Aristotele l’ha in parte già fatto sin qui) si mostra che solo certe
distinzioni che gli antichi non avevano colto, possono porci nella condizione di superare le aporie
in cui loro si erano imbattuti.
24
Secondo Caston 1996, p. 40, il fatto che la percezione sia realizzazione e non semplice
mutamento, non ha a che fare con la critica agli antichi di iii 3. Il problema sarebbe quello di non
poter ospitare l’errore entro una concezione in cui il contenuto percettivo è spiegato solo come al-
terazione, sia essa perfettiva o meno. Ma l’alterazione del percepire, è “realizzazione” proprio in
quanto realizza il tevlo~ della funzione percettiva, che è la ricezione delle forme senza la materia.
La natura formale-finale del processo è ciò che gli “antichi” non tematizzano, ed è, pace Caston,
legata all’essere la percezione una alterazione speciale. E proprio questo spiega l’errore, perché
una funzione formale può avere anche esercizi deficitari e fallaci, a differenza di una semplice
alterazione, che ha solo cause, non cause “buone” o “cattive”.
204 Capitolo quarto
25
Per “specifica” qui intendo: lo stesso lovgo~ di quella qualità, per esempio, il lovgo~ di un
certo tipo di rosso; questo lovgo~ è specifico nel senso che è una specie o tipo di colore, esempli-
ficabile in molti casi particolari.
26
Cfr. DA iii 6. Cfr. Cap. v.
27
Cfr. Cfr. DA iii 6, 430a26-b7. Cfr. Cap. v.
28
La trattazione dell’intellezione, anche quella semplice e infallibile consistente nel cogliere
gli indivisibili, deve attendere la trattazione della phantasia perché, come si vedrà, anche l’intel-
lezione semplice presuppone la phantasia, come latrice di contenuto attraverso il suo rapporto, a
un tempo causale e “intenzionale”, con una percezione pregressa.
Phantasia 205
«Ma nemmeno il pensare (noei`n), in cui è il corretto e il non corretto – il
corretto è comprensione (frovnhsi~), scienza, opinione vera, il non corretto il
contrario di queste – nemmeno questo è identico al percepire: infatti la perce-
zione dei propri è sempre vera, e si trova in tutti gli animali, invece il pensare
discorsivo (dianoei`sqai) può essere falso, e non si trova in nessuno che non
abbia la ragione» (427b8-14).
«La fantasiva, infatti, è altro sia dalla percezione che dal pensiero discorsivo
(diavnoia). Essa non si produce senza la percezione, e senza di essa non si dà
credenza (uJpovlhyi~32)» (427b14-16).
32
Traduco uJpovlhyi~ con “credenza”: è nomen actionis di uJpolambanein che, con Bonitz
1870, significa «sumere ac statuere aliquid pro vero». Dunque è il tener-per-vero, considerar come
vero. Invece la dovxa è un contenuto opinabile, ma se parlo di una dovxa non devo riferirmi all’es-
ser convinto di essa da parte di qualcuno, a meno che non parli dell’opinare (dovxavzein). Movia
1991, ad loc., ritiene che l’introduzione della phantasia in questo passo presupponga la seguente
obiezione: anche gli animali pensano, perché hanno phantasia, che è una specie di pensiero (così
anche Rodier 1900, p. 409). Per Simplicio (206, 2-3), invece, l’argomento è: se pensiero e perce-
zione differiscono dalla phantasia, a maggior ragione differiranno fra loro. Si implica, comunque,
che gli animali hanno phantasia e che il loro errare può essere a questa riportato. Alle fiere, le
cose possono apparire in modo inaccurato, dunque l’apparire delle cose in un certo modo, non
può dipendere dalla ragione, assente nelle fiere. Sull’uso di uJpovlhyi~ in DA iii 3, cfr. Caujolle-
Zaslawsky 1996.
33
Posso giungere a convincermi che P perché è la conclusione di un ragionamento delle cui
premesse sono già convinto (inferenziale), perché qualcuno della cui autorevolezza mi fido mi
dice che P (testimoniale), o perché ho una certa esperienza e mi convinco che le cose stanno come
l’esperienza le presenta (presa d’atto empirica). Sono tutti processi discorsivi, che comportano
stati cognitivi proposizionali il cui contenuto è la predicazione di qualcosa a qualcosa, “S è P”: la
credenza è di solito basata su ragioni, siano essere inferenziali, testimoniali, esperienziali.
34
Per ora questo è semplicemente assunto. Si ricordi che siamo in un contesto di esplorazio-
ne dialettica, in cui si introducono evidenze prima facie, aspetti manifesti della cosa che vanno
confermati e spiegati, brandelli di ciò che poi sarà organizzato in una teoria positiva, o in una
definizione reale che catturi l’essenza genuina dell’oggetto indagato.
Phantasia 207
«Che [la phantasia] non sia lo stesso (tipo di pensiero) della credenza, è chia-
ro35. Infatti questa affezione dipende da noi, quando lo vogliamo (infatti è
possibile produrre qualcosa davanti agli occhi, come chi dispone le cose nei
luoghi mnemonici e produce raffigurazioni), opinare (doxavzein) invece non
dipende da noi: è necessario infatti essere nel vero o nel falso» (DA iii 3,
427b16-21).
35
o{ti d∆ oujk e[stin aujth [novhsi~] kai; uJpovlhyi~, fanerovn (17). Ross espunge novhsi~ e sottin-
tende fantasiva, anche altri lo sostituiscono con fantasiva oppure sottintendono fantasiva come
soggetto di oujk e[stin (ad esempio, Watson 1982); altri, sulla scorta di Simplicio, sostengono che
qui novhsi~ sia usato in un senso talmente lasco da poter designare la fantasiva (che poi sarà carat-
terizzata, in effetti, come «una specie di pensiero», DA iii 10, 433a11). Aristotele ha appena detto
che fantasiva è diversa da percezione e pensiero discorsivo, che non si genera senza percezione e
senza di essa non c’è credenza: qui deve star insistendo sulla medesima distinzione, fra fantasiva
e convizione/pensiero/opinione. Che novhsi~ designi proprio qui fantasiva, sarebbe strano, anche
se quest’ultima altrove è detta essere una specie di novhsi~. Se qui, come nel passo successivo,
novhsi~ avesse un significato generico, che copre l’attività intellettiva negli animali con intelletto
e ragione, e un suo analogo in quelli che non posseggono intelletto e ragione, sarebbe comun-
que meglio intendere: «che la fantasiva non sia una novhsi~ dello stesso tipo della credenza, è
chiaro», anziché, con Simplicio, «che la novhsi~ (= fantasiva) non sia lo stesso della credenza, è
chiaro». Che il testo dica «che la novhsi~ non sia lo stesso della credenza, è chiaro» e novhsi~ abbia
il significato stretto di “pensiero”, non mi pare un’interpretazione percorribile: appena prima e
appena dopo Aristotele è intento a isolare la fantasiva, e qui la posizione della distinzione fra
“pensiero” e credenza non sembra così pertinente da giustificare quell’«infatti» che segue: «in-
fatti questa affezione dipende da noi, e la credenza no»; ritenere che la differenza appena posta
fosse fra novhsi~ e uJpovlhyi~, costringe a pensare che la spiegazione successiva a «infatti» dica
che il pensiero dipende da noi, e la credenza no, cosa che qui non è affatto rilevante, oltre che es-
sere falsa. Le seconde mani dei manoscritti C e U a riga 17 hanno hJ aujth; fantasiva. Freudenthal
(1863) tiene novhsi~, come Hamlyn 1968 e Schofield 1978, che intendono: la phantasia non è
lo stesso pensiero che la credenza. Ma, per ripetere, forse qui sarebbe prematuro, e foriero di
confusione, riferirsi a un’acquisizione che si farà molto dopo, per cui la phantasia è un analogo
del pensiero: l’intento, qui, è proprio la distinzione fra i due, e solo dopo averli ben distinti, se ne
potrà apprezzare l’analogia cognitiva. Wedin 1988, pp. 73-74, espunge novhsi~. Che si espunga
novhsi~ o che lo si tenga intendendo «la phantasia non è lo stesso tipo di novhsi~ della credenza»,
ciò che mi pare importante è che qui si sta distinguendo la phantasia dalla credenza, non la novhsi~
dalla credenza o la phantasia dalla novhsi~.
36
L’esempio è anche in DM 2, 452a13-18; DI 1, 458b22-25.
208 Capitolo quarto
37
Se riconosco di non avere elementi sufficienti, allora sospendo il giudizio e rimango in-
deciso. Ma anche questa condizione epistemica non equivale alla libertà di scegliere come vera
la credenza che più mi aggrada. Che poi ciò possa avvenire con meccanismi inconsci di auto-
inganno, è altro discorso, che certo trascende il contesto aristotelico.
38 Non vale l’inverso: se ogni volta che A è esemplificato lo è B e viceversa, non per questo
A = B: A e B potrebbero essere identici “numericamente” ma diversi in ei\nai: ogni volta che c’è
una superficie, c’è un colore, e viceversa, ma non per questo essere una superficie è lo stesso che
essere un colore.
Phantasia 209
DN: «Se allora la fantasiva è ciò in virtù di cui diciamo che si genera in noi
una apparenza (favntasma), e se non parliamo per metafora, questa è una delle
capacità o stati abituali in virtù di cui discriminiamo e siamo nel vero o nel
falso» (DA iii 3, 428a1-3).
41
Simile caratterizzazione è replicata in DI 2, 460b16-18, che parla della capacità «in virtù
di cui si generano i fantavsmata».
42
Spesso la definizione nominale coincide col significato ordinario di un termine: per esem-
pio, per “tuono”: [un certo rumore fra le nuvole], una “eclissi”: [l’oscuramento del cielo] (cfr. AP
ii 7-10). Ma nel caso della phantasia non c’è un significato ordinario, visto che si tratta di una no-
zione tecnica-filosofica che non ha un corrispettivo nel linguaggio ordinario: solo Platone, Aristo-
tele e pochissimi altri, nel v-iv secolo, usavano il termine fantasiva. Pertanto, anche il “diciamo”
di 428a2 è un “diciamo” di scuola, o che forse registra un uso del lessico filosofico specializzato.
43
Sulla distinzione fra definizione nominale (lovgo~ ojnomatwvdh~) e definizione reale (oJri-
smov~), cfr. AP ii 7-10. Il passaggio dall’una all’altra è una “risalita” dialettico-induttiva, che pre-
suppone il fatto che col possesso della definizione nominale siamo già ben orientati verso il repe-
rimento dell’essenza. Se ciò che avremo reperito sia l’essenza genuina, lo si testerà cercando di
dedurre, a partire da essa, gli attributi manifesti dell’oggetto. Aristotele parla della ricerca dell’es-
senza nei termini di un cacciare (AP i 14, 79a24-25 e ii 13, 96a22): se l’esito della caccia non è mai
scontato, è pur vero che si va a cacciare nei luoghi in cui si sa che si può trovare la selvaggina; si
sa dove andarla a cercare.
Phantasia 211
44
Come cercherò di argomentare nel seguito di questo capitolo, concordo con chi ritiene che
la phantasia sia implicata anche nella percezione veridica non elementare, cioè nella percezione
dei comuni, degli accidentali, nella metapercezione e nella discriminazione simultanea fra perce-
pibili sia dello stesso genere che eterogenei.
45
Frede 1995 lo intende come “fantasticheria”, immaginazione creativa. Ma l’esempio che
Aristotele ha addotto prima, dell’immaginare senza avere l’emozione corrispondente, sembra
proprio essere ciò che Frede 1995 prende per uso metaforico, che Aristotele starebbe escludendo;
è vero che potrebbe starlo escludendo proprio ora: ma l’aveva usato per distinguere la phantasia
dall’opinare e credere: come costruire un argomento, pur dialettico, appoggiandosi all’uso me-
taforico del termine che denota l’oggetto della cui natura si è in cerca? Freudenthal 1863, p. 18;
Nussbaum 1978, p. 252; Watson 1982, p. 105, propongono “ostentazione”. Hicks 1923 nota che
tutte le facoltà cognitive presentano qualcosa: quindi l’uso metaforico sarebbe la presentazione di
qualche contenuto in generale, propria anche di percezione e pensiero. Essendo il termine alquan-
to raro, non è facile nemmeno cosa potesse denotare nel suo uso metaforico. Può darsi che ci si
riferisca a usi di faivnesqai, fantavzesqai; così come si esemplifica “appare/sembra” un uomo”
(428a14) per illustrare la phantasia, mostrando di considerare equivalenti il faivnesqai (non me-
taforico) e la fantasiva.
46
Per questo Ross aggiunge la particella interrogativa a\ra e intende la frase come una do-
manda con risposta negativa. Per Schofield 1978, p. 128, Aristotele mette qui la phantasia nelle
facoltà giudicative, ed è incoerente con 427b16-24; anche Freudenthal 1863, p. 18, è dello stesso
avviso, e attribuisce incoerenza ad Aristotele in quanto pone qui la phantasia come facoltà giu-
dicativa, dopo aver negato che avere una phantasia sia essere nel vero o nel falso. Anche in MA
700b19 si dice che la phantasia è “critica” (kritikhv). Ma, a mio avviso, qui non si parla dell’es-
sere critica nel senso degli «abiti dianoetici», ovvero «gli abiti secondo i quali l’anima è nel vero
mediante l’affermare e il negare» (arte, scienza, saggezza, sapienza e intelletto, EN vi 3, 1139b
14-16): krivnein non significa sempre e solo “giudicare” nel senso discorsivo-proposizionale, si-
gnifica discriminare, e non ogni cognizione discriminativa deve essere strutturata come un giudi-
zio. Per esempio, anche la percezione è “critica”, eppure non comporta alcun giudizio. Aristotele
212 Capitolo quarto
sta dicendo che la phantasia è discriminativa, e che è una di quelle capacità mediante cui siamo
nel vero o nel falso: come vedremo, la phantasia è coinvolta entro stati cognitivi che sono vero/
falsi; ma ciò non implica che il mero fatto di avere un certo “stato fantastico” ci ponga automa-
ticamente nel vero o nel falso. Pertanto, la contraddizione fra questo passo e 427b16-24 è appa-
rente, e non è necessario né intendere il passo come interrogazione con risposta negativa (Ross),
né di attribuire ad Aristotele una patente incoerenza (Schofield 1978, Freudenthal 1863 e altri).
47
Infatti, subito dopo si aggiunge: «tali abiti sono percezione, opinione, scienza, intelletto».
Come si vedrà in seguito, la phantasia è una funzione coinvolta direttamente nella percezione
complessa e, mediatamente, in opinione, scienza e intelletto: intellezione e pensiero sono possi-
bili solo grazie alla phantasia.
48
Qualcosa del genere, in Watson 1982, p. 106. In DA iii 8, 432a10-13 si ribadisce che «la phan-
tasia è diversa dall’affermazione e dalla negazione, poiché il vero e il falso consiste in una connes-
sione di nozioni”. Tuttavia, se si considera il contenuto di uno stato di phantasia, esso può essere
considerato nel suo rapporto con la realtà, ed esser detto “vero” se corrisponde a circostanze reali,
o “falso” in caso contrario (anche se avere questo stato non è eo ipso essere nel vero o nel falso): per
esempio, in Met. v 29, 1025a6, fra i significati di “falso” si citano le cose dette “false” in quanto
generano una phantasia falsa (fantasiva yeudhv~).
49
Poco dopo (428a15-16), si ribadisce l’argomento considerando che le immagini appaiono
anche a occhi chiusi, dunque quando la vista non è in esercizio: quindi queste non sono atto della
vista, anche perché l’atto della vista è anche atto di un sensibile visto, mentre l’apparire di queste
immagini non è l’attualizzarsi del colore di alcun oggetto ambientale (gli occhi sono chiusi). Ari-
stotele potrebbe star pensando a immagini che ci “scorrono” davanti, magari quando stiamo per
addormentarci, con gli occhi chiusi ma in stato di veglia, oppure alle cosiddette immagini po-
stume, quando, per esempio, guardiamo a una intensa fonte luminosa e chiudiamo gli occhi, ma
persiste l’esperienza di forme, colori ecc. (cfr. DI 2, 459b7-20).
50
Interpreto, con Hamlyn 1968 e a differenza di Hicks 1923, Movia 1991 e altri, che la per-
cezione è «sempre presente» (ajei; pavresti) negli animali, piuttosto che intendere: nella vita del-
Phantasia 213
l’animale; infatti si è appena detto che nel sonno non c’è percezione ma, se ci sono sogni, c’è
attività “fantastica”, dunque Aristotele starebbe smentendo ciò che ha appena detto. Invece, come
aggiunge immediatamente dopo, paiono esserci animali percipienti ma senza phantasia.
51
Su api e formiche, cfr. PA ii 3, 650b24-27; HA i 1, 488a7-10; Met. i 1, 980b22-24. Per avere
filiva, che unisce anche certe specie animali (cfr. EN viii 1, 1155a18-19) ci vuole memoria (HA
viii 1, 589a2), e la memoria, come vedremo, presuppone la phantasia (cfr. infra). La phantasia è
dunque fra le cose che fondano la filiva.
52
Come crede Schofield 1978.
53
Cfr. Cap. vi.
214 Capitolo quarto
ci adoperiamo perché altre restino false, in quanto sono scenari che sag-
giamente evitiamo, ma solo dopo esserceli rappresentati proprio come
degni d’essere evitati.
Inoltre, 2d) «non è quando esercitiamo con precisione il coglimento
di un percepibile, che diciamo che “ci appare essere un uomo”, ma piut-
tosto quando non lo percepiamo distintamente»54 (428a12-15). L’ana-
lisi degli usi linguistici vigenti, è uno dei modi per tematizzare dialetti-
camente cosa sia, o possa essere, un certo oggetto della cui natura si è
in cerca: quando usiamo l’espressione “X ci sembra/appare (faivnetai)
un F”, è perché siamo consci della possibilità che quella apparenza
sia falsa, poiché non stiamo percependo con chiarezza. Quando invece
vediamo chiaramente un uomo, ci riferiamo direttamente a quell’uomo
percepito, non al nostro stato mediante cui questo “ci appare” essere
tale. Quest’uso sembra deporre prima facie in favore della differenza
fra “apparire F di qualcosa a S” e il “percepire F da parte di S”: natu-
ralmente, gli usi linguistici non sono assolutamente normativi, potreb-
bero non tracciare articolazioni e differenze reali, ma sono importanti
come materiale preliminare e possono rendere più plausibile una certa
ipotesi; sono sufficienti come terreno d’evidenza per un argomento
dialettico non conclusivo, quale questo intende essere. Anche se poi si
potrà determinare un significato più stretto della nozione in questione,
che non implicherà necessariamente l’incertezza o la sospensione del
giudizio sul contenuto che appare.
54
Il passo si conclude con una clausola: [tovte h] ajlhqh;~ h] yeudhv~] che alcuni (Hicks 1923,
Torstrik 1862) espungono e Ross 1961 modifica in povteron h] ajlhqh;~ h] yeudhv~: «allora, o è vero
o è falso», nel senso di: «in questo caso, si può parlare di vero o di falso», o esplicitando un sog-
getto sottinteso: allora lo stato mentale in cui ci si trova, potrà essere o vero o falso. La modifica
di Ross sottintende fantasiva come soggetto e ci dà: «quando percepiamo in modo preciso non
diciamo “sembra un uomo”, ma piuttosto [lo diciamo] quando non percepiamo distintamente se
[la phantasia] è vera o falsa». Qui il secondo “percepire” sarebbe di second’ordine, riguardando
non l’oggetto, ma la stessa phantasia: il passo presenterebbe un esempio eccessivamente sofisti-
cato. Se lo si conserva, è meglio intendere il passo nel modo più immediato: allora, quando non
percepiamo distintamente se ciò che vediamo è un uomo o no, questa nostra esperienza (la phan-
tasia) sarà o vera o falsa; la cosa importante, qui, è che può essere anche falsa, dunque è quando
intravediamo la possibilità di essere nel falso, che caratterizziamo le nostre esperienza come
l’apparirci di qualcosa così-e-così. Quando non contempliamo tale possibilità, e distinguiamo
l’oggetto, diciamo semplicemente che vediamo un uomo, o che c’è un uomo.
Phantasia 215
55
Fra razionalità e persuasibilità esiste un nesso essenziale: essere razionali significa risponde-
re alle ragioni, e poterne essere persuaso. In analogia con la persuasibilità in quanto connotato della
razionalità stessa, Aristotele parla anche della parte passionale dell’anima come razionale poiché
è capace di essere “persuasa” dalla parte razionale propriamente detta (Cfr. EN i 4, 1098a4-5).
56
In realtà Platone non ha una teoria sistematica della phantasia; tuttavia, la caratterizza
esplicitamente in Sofista 264A-B, come “mescolanza” (suvmmeixi~) di opinione e percezione; cfr.
Timeo 52A; sul favntasma, cfr. Protagora 356D8.
216 Capitolo quarto
terza cambia, in crescendo, la forza del nesso che unisce i due elemen-
ti: mera giustapposizione, prodursi dell’una attraverso l’altra, sintesi o
intima fusione delle due. La strategia confutativa generale, comunque,
trascende questi distinguo:
«[...] l’oggetto dell’opinione non sarà altro che ciò che è oggetto della perce-
zione. Intendo dire che la fantasiva sarà sintesi dell’opinione e della percezio-
ne del bianco, non già dell’opinione del buono e della percezione del bianco.
Dunque l’apparire (faivnesqai) sarà l’opinare proprio ciò che si percepisce, e
non per accidente» (428a27-b2).
57
Cfr. Teeteto 185A4, in cui il coglimento di sensibili comuni è posto come un dianoei`n.
58
Cfr. Sofista 264A-B; Timeo 52A; Teeteto 152A-186 e Filebo 38B-40A.
Phantasia 217
che la cosa è F più la percezione come G di una cosa che capita, per
accidens, essere identica alla cosa intorno a cui il soggetto ha anche un
opinione come di un F. Dunque l’unico modo in cui la phantasia può
essere intesa come includente a un tempo opinione e percezione, senza
essere concepita come riducibile all’una o all’altra, è il porla come
un opinare e un percepire aventi la medesima proprietà come oggetto,
come l’esser bianco, o l’esser F di qualcosa.
3) «Ma appaiono (faivnetai) anche cose false, delle quali abbiamo al contem-
po credenze vere. Per esempio il Sole appare grande un piede, ma si è convinti
che sia più grande della terra abitata» (428b2-4).
59
L’esempio riprende un frammento di Eraclito (DK 22B 3).
218 Capitolo quarto
vera e non la cambio (ipotesi 2), c’è solo un caso in cui quella stessa
opinione possa essere falsa: l’esser diventata falsa in quanto è cambia-
tolo stato di cose che l’opinione rappresenta, cioè lo smettere di essere,
da parte delle cose stesse, nel modo in cui io opinavo che fossero60. Ma
non è il caso che il Sole muti la sua dimensione oggettiva, quando mi
appare largo un piede. In realtà l’ipotesi 1), espressa per completezza
dialettica, è già smentita dall’evidenza che, quando il Sole mi appare
largo un piede, io sono perfettamente conscio di credere e opinare che
il Sole non è largo un piede. Io non posso avere, sullo stesso oggetto,
nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto, due opinioni contradditto-
rie61: eppure, se l’apparirmi F di O implicasse il credere che O è F, se
O è il Sole e F è la proprietà [largo un piede], dovrei trovarmi in questa
condizione; siccome, di due credenze contraddittorie, l’una è vera e
l’altra è falsa62, Aristotele preferisce sottolineare, in questa reductio ad
absurdum, che dovrei trovarmi ad avere due credenze sulla stessa cosa,
nello stesso tempo e in rapporto alla medesima proprietà, una vera e
l’altra falsa, e senza che la cosa stessa sia mutata. Naturalmente, se la
cosa mutasse repentinamente, potrei avere due credenze contradditto-
rie, una delle quali vera e l’altra falsa, sebbene in tempi diversi. Ma
non è evidentemente il caso della grandezza del Sole63, che è costante a
dispetto della differenza fra il mio credere e il mio apparire.
Ma è proprio vero che il Sole ci appare grande un piede? Il Sole,
la Luna e una pallina da tennis hanno, viste da un soggetto in una data
circostanza, un diametro reale e un diametro apparente64: il diametro
apparente del Sole e quello della Luna, per esempio, sono abbastanza
simili, anche se noi sappiamo che il Sole è enormemente più grande
della Luna, ma più distante dalla Terra rispetto alla Luna; sappiamo,
60
«Infatti, non perché ti pensiamo bianco, tu sei veramente bianco, bensì è perché tu sei
bianco, che noi, affermandolo, siamo nel vero» (Met. ix 10, 1051b7-9).
61
Cfr. Met. iv 3, 1005b28-32.
62
Cfr. Met. iv 7, 1011b27-28.
63
La persistenza delle illusioni anche se consapute come tali, è un argomento spesso utilizzato,
nella filosofia contemporanea della percezione (ad esempio, Crane 1988, Peacocke 1992) come
obiezione alla cosiddetta belief-theory, secondo cui la percezione è credenza (cfr. Armstrong 1968).
Se la percezione fosse credenza, avere l’apparenza visiva che P mentre si crede che -P – questo è
il caso, nelle illusioni consapute – importerebbe il credere, simultaneamente, che P e -P. Questo
argomento è esattamente quello aristotelico.
64
Il concetto di diametro apparente è effettivamente utilizzato in astronomia. È molto sem-
plice, e si esprime in gradi. Dei 360 gradi della virtuale circonferenza del cerchio che ha me come
suo centro, il mio campo visivo ne coprirà, poniamo, 150: dunque il mio campo visivo può essere
suddiviso in 150 segmenti (corde) uguali, e due oggetti diversissimi in dimensione e distanza,
possono occupare lo stesso spazio entro il mio campo visivo.
Phantasia 219
65
Per Platone, Protagora 356D8, favntasma è la dimensione apparente di un oggetto visto da
lontano: ciò che probabilmente intende Aristotele, col dire che il Sole “appare” largo un piede.
66
Si tratta del fenomeno noto come costanza della dimensione.
67
Anche Descartes, nella Sesta delle Meditazioni metafisiche (A.T. 83), adduce l’esempio del-
la stella, che procura all’occhio un’impressione simile a quella di una piccola fiaccola, eppure non
crediamo che la stella sia grande quando la fiamma: anche per Descartes, è ovvio che la stella mi
appare in modo incompatibile col modo in cui credo che essa sia.
68
Hicks 1923, Temistio, Simplicio, Watson 1982, fra altri, ritengono che si tratti di percezio-
ne di grandezza, ché la grandezza è uno dei comuni: dunque, di percezione errata. Ma Aristotele
ha testé distinto la phantasia della percezione.
69
Chi la interpreta come percezione falsa, costruisce l’argomento così: ho una percezione fal-
sa di O come F e una credenza vera di O come F: se l’apparire fosse percezione + credenza sullo
stesso, avrei una credenza falsa di O come F (che è “apparire” in sintesi con la percezione falsa),
e una credenza vera di O come non F. Anche così, l’argomento funziona.
220 Capitolo quarto
72
Si aggiunge, però, che la phantasia è un movimento. Che essa sia un fenomeno psichico di-
namico, è evidente e non bisognoso di ulteriori argomentazioni: le immagini si producono e si sosti-
tuiscono l’un l’altra nel tempo, e questo è un movimento. Si ricordi, che “movimento” qui significa
mutamento. Il mutamento può essere generativo, alterativo, locale, o diminuzione/accrescimento.
La percezione è alterazione; ma la phantasia può essere vista sia come un’alterazione (del senso,
dell’animale) causata dall’alterazione percettiva, o una generazione di “immagini” (fantavsmata).
73
«In virtù di» (Hicks 1923); «in respect to» (Hamlyn 1968); «in accordo con» (Movia 1991).
Il senso forse è generale e include tutti questi tre. È importante correlare questo passo a quello
precedente (428a3-4) in cui la phantasia è detta abito con cui discriminiamo e siamo nel vero e
nel falso: in entrambi i casi la preposizione è katav, e ciò significa che Aristotele, nel passo prece-
dente, sta sostenendo ciò che poi ipotizza conferma, non ponendo una domanda la cui risposta sia
negativa, pace Ross 1961. Grazie alla phantasia, abbiamo stati cognitivi vero-falsi, in cui essa è
coinvolta (percezione complessa e pensiero, cfr. infra).
222 Capitolo quarto
«Ciò avviene per i seguenti motivi: 5a) la percezione dei propri è vera, o
passibile di falsità in misura minima; poi c’è la percezione che questi sono ac-
cidenti, e qui l’errore diventa possibile: infatti, non ci si inganna sul fatto che
qualcosa è bianco, ma se il bianco sia qualcosa o qualcos’altro. In terzo luogo
(c’è la percezione) dei comuni, che sono concomitanti agli oggetti accidentali
cui ineriscono i propri: intendo dire, per esempio, il movimento e la grandez-
za, che ineriscono agli oggetti percepibili, e intorno ai quali è soprattutto è
possibile errare nella percezione 5b) Ora, il movimento generato dall’attività
della percezione, differirà a seconda che provenga da (l’una o l’altra di) queste
tre percezioni. La prima è vera fintanto che è presente la percezione, le altre
possono essere false sia che la percezione sia presente, sia che sia assente,
soprattutto quando l’oggetto percepito sia distante» (428b19-30).
88
Cfr. DI 3, 460b29 e 461a18-19. Su questa differenza fra ai[sqhma e favntasma, cfr. Caston
1996, pp. 48-49. Caston enfatizza, giustamente, la affinità di poteri causali che hanno, nell’ani-
male, i due tipi di stato.
89
DA iii 10, 433a10. Come osserva Watson 1982, qui novhsi~ «is used in a wide sense, for a
form of consciousness other than intellectual reasoning».
90
Cfr. DA iii 9 «da più immagini si forma una sola». Anche in DI 461a8-11, è chiaro che, nel
sogno, le immagini si fondono e mescolano, a causa di moti interni nel sangue e nel cuore, quando
la capacità percettiva è sopita.
91
Come nota Frede 1995, p. 279, nel suo senso attivo, il termine phantasia può denotare, nel-
la concezione aristotelica, tre entità: a) la capacità di produrre “apparenze”; b) questa produzione
stessa c) l’apparenza prodotta, ovverosia una capacità, la sua attività, il suo risultato. Del resto,
abbastanza analogo è il triplice uso di “percezione’.
228 Capitolo quarto
98
Si ricordi che l’atto del percepibile e l’atto della capacità percettiva, sono lo stesso, e come
tutti i mutamenti occorrono nel paziente, cioè nell’organo-capacità: la sensibilità ai propri stati
percettivi è tutt’uno con la sensibilità alle proprietà ambientali da cui questi stati sono attualizzati.
99
Cfr. DI 2, 460b22-27: si parla dell’errore consistente nel toccare una pallina con le dita in-
crociate, e nel coglierla come se fossero due palline. Se ci fosse solo il tatto e non la vista, conclu-
deremmo che sono due. La ragione dell’errore, si dice, «è che l’apparenza non si ha solo quando
il percepibile è mosso, ma anche quando la percezione stessa si muove, qualora il movimento sarà
simile a quello causato dalla cosa sensibile: intendo dire, ad esempio, che a chi naviga sembra
che si muova la terra, mentre è la vista, che è mossa da altro”. La variazione dello stimolo visivo
dovuta alla navigazione, può essere fallacemente interpretata come variazione oggettiva della
porzione di realtà che si sta vedendo, così come il movimento “duplice” del tatto può far pensare
al movimento di due palline. In questa spiegazione dell’errore, è evidente che questo dipende da
una fallace interpretazione di quella variazione dello stimolo la cui coscienza è necessaria anche
alle percezioni (di movimento, numero ecc.) corrette/veridiche.
100
In DM 1, 450a12-13, si dice che il favntasma è affezione della percezione comune (to;
favntasma th`~ koinh`~ aijsqhvsew~ pavqo~ ejstivn: qui la percezione comune è il sistema percettivo
Phantasia 231
nella sua globalità, comprendente anche poteri cognitivi non strettamente percettivi quali la phan-
tasia (su ciò, cfr. Gregoric 2007).
101
Anche i comuni possono essere base per la percezione accidentale: Aristotele non lo dice
mai, però lo si può inferire dalla teoria generale. Posso riconoscere un certo animale dal modo che
ha di muoversi, o la bandiera americana dal numero di stelle che contiene, o dei token di lettera e
di parola scritta a partire dalle forme di lettere e parole, e così via.
102
Su errore percettivo e phantasia, cfr. anche MA 7, 701b17-22.
232 Capitolo quarto
106
La coscienza di star percependo implica l’apprezzamento della variazione degli stimoli, e
la “distrazione” oltre il puro istante presente da parte della coscienza percettiva, che solo consente
di apprezzare detta variazione, è già opera della phantasia, cioè del movimento risultante dalla
percezione in atto. La percezione stricto sensu è solo di ciò che è presente, ma la coscienza del
mutare è trans-temporale, comporta il non “essere” solo entro uno di due istanti contigui.
107
Tutte queste prestazioni percettive presuppongono coscienza della variazione, e ritenzione
dello stimolo percettivo oltre l’istante presente.
108
Per esempio, il ruolo interpretativo di “vedere-come”, assegnato da Nussbaum 1978, Frede
1995 e altri alla phantasia, si sovrappone al ruolo che Aristotele pare attribuire alla percezione (alla
percezione comune), visto che la percezione accidentale è già un vedere-come, per esempio, un
vedere il bianco come il figlio di Diare, o il rosso come una rosa. Turnbull 1994, infatti, obietta
a Nussbaum che la sua concezione interpretativa della phantasia ne fa una sorta di doppione del
senso comune o, comunque, dei poteri superiori della percezione; e preferisce attribuire un ruolo
passivo, di mera “presentazione” alla phantasia, e un ruolo attivo-interpretativo al senso comune.
Ma la contraddizione è apparente: una certa capacità può ben essere costitutiva di un’altra: senza
phantasia non ci può essere percezione accidentale, e il ruolo interpretativo di quest’ultima è reso
possibile dalla phantasia. E siccome la percezione è ritenzione delle forme percepibili, quando la
percezione è falsa, non essendoci la proprietà percepibile che “sembra” essere colta, si indica la
phantasia, perché il favntasma di quella proprietà (comune o accidentale) che pareva esser per-
cepita, è tutto ciò che c’è. Parimenti, quando ci sembra che ci appaia X ma non c’è X, allora ciò
che ci appare si chiama “apparenza”; ma nel caso X ci sia, ciò che ci appare è X stesso: vi sarà il
nostro percepire X, non una “apparenza” di X. La phantasia comunque rende possibile l’esercizio
della percezione comune, accidentale e non.
109
Cfr. DI 1, 459a21-22.
110
Cfr. DI 1, 459a17-18.
111
Wedin 1988, il quale sostiene che la phantasia non sia una facoltà genuina, nota che non
esiste un fantastovn, dunque un oggetto proprio che una facoltà genuina dovrebbe avere, visto
che le capacità dell’anima si individuano, da ultimo, attraverso i rispettivi oggetti. Ma Aristotele
sa bene che talvolta ci sono oggetti che non hanno un nome (ad esempio, cfr. DA ii 5, 418a1-3:
non esiste un nome diverso per distinguere le due potenze, alterativa e perfettiva; cfr. DA iii 2,
426a13-14: non esiste un nome che denoti l’atto del colore; e così via). Le proprietà “immagina-
bili” sono del tipo delle proprietà percepibili, anche se gli oggetti immaginabili sono indefinita-
mente di più di quelli percepibili. Non tutti gli oggetti immaginabili esistono; ma questo è proprio
il vantaggio cognitivo dell’avere phantasia: posso produrre e porre in essere oggetti e circostanze
attualmente inesistenti, grazie all’immaginarli, e posso lavorare per far sì che altre circostanze
attualmente inesistenti ma possibili, e negative per me o per altri, non vengano a generarsi.
234 Capitolo quarto
112
Come argomenta Gregoric 2007, “percezione comune”, in importanti occorrenze, è il si-
stema [percezione + phantasia]. Quindi c’è una capacità percettiva in senso stretto, e una capacità
percettiva in senso più largo, che include la phantasia come un suo momento.
Phantasia 235
115
Sul rapporto fra tempo, coscienza e memoria, cfr. la profonda indagine di Ruggiu 1970,
parte ii.
116
Di oggetti particolari vi è percezione, mentre vi è intellezione degli universali: ricordo si-
tuazioni e tempi particolari, dunque la memoria, essendo per se di particolari, dovrà essere per se
di proprietà percepibili.
Phantasia 237
121
Dunque pare legittimo inferire che, quegli animali che hanno memoria, hanno anche me-
tapercezione. Del resto, la metapercezione non necessita dell’intelletto, e gli animali con memoria
sono, nella scala naturae, i percipienti più evoluti. Ma non è chiaro se queste prestazioni superiori
della capacità percettiva si coimplichino reciprocamente o meno: è lecito supporre che la metaper-
cezione sia presente anche in percipienti non dotati di memoria, visto che Aristotele ne parla come
di qualcosa che per natura accompagna la percezione “di prim’ordine”, mentre la memoria rappre-
senta per lui un netto discrimine nella gerarchia di complessità cognitiva dei sistemi percipienti.
Cfr. HA viii 1, 589a1-2, ove si enfatizza che il possesso della memoria è discrimine molto impor-
tante nella scala della cognizione animale. Cfr. Met. i 1, 980a27-b2; AP ii 19, 99b36-100a6. Ci sono
percipienti senza phantasia (e verosimilmente senza metapercezione), percipienti con phantasia
ma senza memoria, percipienti con phantasia e memoria (e con metapercezione), e percipienti con
memoria, esperienza e intelletto nei quali la percezione, grazie alla memoria e all’esperienza gene-
ralizzante, dà luogo a poteri concettuali: questi ultimi enti – noi – sono capaci anche di metaintelle-
zione (cfr. EN ix 9, 1170a29-34; DA iii 4, 429b6-10; Met. xii 9, 1974b35-39), pensano di pensare.
122
Non è sub eodem, sotto lo stesso rispetto, che la memoria è affezione “fantastica” del
presente e del passato: è del presente, il coglimento di avere un certo favntasma ora, mentre è nel
passato che si colloca il referente reale, o contenuto, del favntasma. Dunque il fenomeno della
memoria non è logicamente problematico.
123
Avrei coglimento della raffigurazione, senza cogliere, in virtù di questa, l’animale. Cfr.
DM 1, 451a2-5: «per questo, inoltre, talvolta quando si generano tali movimenti nell’anima a
Phantasia 239
causa di una percezione precedente, non sappiamo se ciò succeda perché abbiamo avuto una
percezione, e dubitiamo se sia memoria oppure no».
124
Cfr. DM 2, 452b26-27: non è possibile ricordare senza sapere di starlo facendo.
125
DM 1, 449b22-23: «Sempre infatti, quando si sia in esercizio rispetto all’aver memoria,
bisogna che nell’anima ci si dica (ejn th`/ yuch`/ levgei), in questo stesso modo, che questa cosa la
si è udita o percepita o pensata in precedenza». Questa occorrenza di levgein va intesa come un
“cogliere” metapercettivo, non come un “dichiarare a sé stessi” linguistico.
126
L’atto di memoria ha sempre una componente “deittica” o dimostrativa: tale componente
dimostrativa è ereditata dalla percezione: la memoria può essere di “quella cosa lì” perché dipen-
de dalla pregressa percezione di “quella cosa lì”, percezione la cui ritenzione “fantastica” rende
possibile la memoria. La memoria è dei particolari percepiti.
127
Infatti è «una specie di sillogismo» (DM 2, 453a13).
240 Capitolo quarto
137
DA ii 4, 415b13.
138
Cfr. DA ii 2, 413b2-3; DS 1, 436b9-11; SV 1, 454b24-25; EN i 6, 1098a2-3.
139
SV 2, 455b25-456a2. Cfr. MA 7, 701b25-32; MA 10, 703a4-16.
140
SV 3, 456b19-20.
141
Il nutrimento sale nelle parti alte del corpo, poi ridiscende. L’encefalo è una sorta di raf-
freddatore, che controbilancia, da un punto di vista termico, il calore cardiaco. Il nutrimento,
giunto al cuore, si condensa, si raffredda e scende, raffreddando così il cuore e rendendo inattiva
l’anima percettiva. Una volta che il cibo sia “concotto”, cioè elaborato e trasformato in sangue, al-
lora ci si sveglia. Cfr. SV 3, 456b25-458a32.
142
DI 1, 459a13-17.
143
oujk a[ra ge th`/ aijsqhvsei to; ejnuvpnion aijsqanovmeqa (DI 1, 458b9): qui aijsqanovmeqa non
può significare “percepiamo” in senso stretto, altrimenti sarebbe un’asserzione assurda: non per-
cepiamo con la percezione. Deve dunque significare “cogliere qualcosa di particolare”, è un senso
più allargato (e ben attestato in Aristotele) di aijsqavnomai.
144
DI 1, 458b10-11. Per noi è quantomeno curioso che Aristotele ascriva sia la memoria che il
sogno solo alla sensibilità. Da entrambi i tipi di stato mentale, opinioni e, in generale, prodotti del-
l’intelletto sono riguardati solo per accidens. Frede 1995, pp. 293-294 vede ciò come esito di una
insoddisfacente dicotomia fra sensibilità e intelletto, e fra sensibile e intellegibile, che la phan-
tasia cerca di mediare ma in modo, appunto, insufficiente. Occorre ricordare, però, che l’intento
dialettico-polemico sotteso a queste argomentazioni è quello di contrapporsi alle concezioni pla-
toniche del sogno e della memoria, come legate alla ragione e all’opinione.
242 Capitolo quarto
145
Cfr. DI 1, 458b35-459a2.
146
Il fainvetai e il legomen con cui è introdotta questa caratterizzazione, marcano il fatto che
siamo in presenza di una definizione nominale. La determinazione causale, che deve essere inclu-
sa in una definizione reale, è tenuta vaga, come alcunché che, appunto, chiama al completamento:
reperita la causa genuina del sogno, lo si potrà definire.
147
Sia nei sensori periferici che nel cuore: «sia in profondità che in superficie» (DI 2, 459b7).
148
DI 2, 459a28-b1. Sul moto dei proiettili oltre il loro contatto col motore, cfr. Phys. iv 7,
215a14-17; viii 10, 266b27-267a20; DC iii 2, 301b22-27.
149
DI 2, 459b12-13.
Phantasia 243
156
Che qui la parte direttiva, che contrasta le immagini, sia la ragione, è provato da un passo
seguente di DI, ove si dice che «i movimenti causati dagli aijsqhvmata delle cose esterne, che di
quelle che provengono dal corpo» si verificano sia di giorno che nel sonno, «ma di giorno vengo-
no respinti, giacché la percezione e la diavnoia collaborano» (DI 3, 460b27-461a1). La diavnoia
si nutre di percezione, ma ha superiore autorevolezza epistemica, ed è in grado di sospendere il
giudizio sui fantavsmata porti dalla funzione percettiva come residui di percezioni.
157
C’è un senso allargato di “percezione” per cui è tale tutto ciò che costituisce l’esperienza
(cfr. Frede 1995, p. 289, nota); cfr. AP ii 19, 99b35. Percezione come insieme di prestazioni cogni-
tive dell’anima percettiva, che non sono solo la percezione in senso stretto, ma ciò che si spiega
in rapporto a questa: affezioni, abiti, protezione e salvaguardia, distruzione e privazione di essa
(DS 1, 436b3-6). La phantasia è affezione della percezione (movimento causato da essa e che si
dà solo con essa), in certe sue funzioni ne è anche abito (l’apprendimento di associazioni passate
ci fa “interpretare” e integrare i dati presenti, come nel caso della percezione accidentale), o pro-
tezione e salvaguardia (la memoria, di cui essa è materia, è appunto salvaguardia e conservazione
di contenuti percepiti).
158
DI 2, 460b20-22. Questo passo è interessante a proposito del ruolo del “senso comune” nel
coglimento dei comuni: sembra dare ragione a chi ritiene che i sensi individuali (dei propri) siano
sufficienti a cogliere i percepibili comuni, anche se il fatto di avere più sensi ce ne facilita il cogli-
mento. Infatti, si dice che se avessimo solo il tatto, percepiremmo ciò che tocchiamo come due:
due è un numero, e il numero è un comune. Dunque, che se avessimo solo il tatto, potremmo per-
cepire almeno un comune (pur malamente, e spesso erroneamente), pare implicato dall’ipotesi.
Phantasia 245
«In generale il principio riporta ciò che proviene da ciascuna percezione, qua-
lora un altro più direttivo (kuriwtevra) non lo contraddica. Il fenomeno appare
sempre, ma non sempre è preso per vero, bensì solo se la parte discriminante-
valutante (to; ejpikri`non) sia inibita o non sia mossa del movimento appropria-
to» (DI 3, 461b3-7).
159
DI 3, 461a8-11.
160
DI 3, 461a14-23. La rapidità o lentezza dei movimenti fisici è rilevante anche per l’intel-
letto, il quale dipende causalmente da percezione e phantasia e dunque dai movimenti del sangue:
nei giovani non si formano giudizi stabili a causa della rapidità dei loro movimenti fisici interni,
mentre in chi è maturo, la quiete dei movimenti lo permette (cfr. Phys. vii 3, 247b18-248a6).
161
DI 3, 461b15-18. Probabilmente, si allude a un gioco che si praticava, ma di cui non vi è
altra testimonianza. Il sale che si scioglie sta al risalire a galla delle finte rane (probabilmente, li-
gnee), come l’acquietarsi del sangue “libera” i fantavsmata in potenza, in cui i movimenti residui
della percezione, trasportati dal sangue, consistono.
162
DI 3, 461a31-461b2.
246 Capitolo quarto
163
DI 3, 461b31-462a2.
164
DI 3, 462a2-8.
Phantasia 247
Anche nel caso dei sogni, come in quello, parallelo, delle illusioni
percettive, la definizione di phantasia guadagnata in DA iii 3 è una
chiave di volta esplicativa. Come già della memoria, anche dei sogni è
materia la phantasia. Ciò che distingue sogni, memoria e illusioni per-
cettive, oltre la loro comune materia, i fantavsmata, è il diverso ruolo
teleologico e causale di questi nella vita cognitiva del percipiente, in-
sieme alla condizione attuale dello stesso: se dorme e ha la “parte diret-
tiva” inibita167, o se è cosciente di contemplare immagini di percezioni
passate, se i suoi fantavsmata sono deformazioni o residui di diverse
percezioni dovute al subbuglio del sangue durante il sonno, o se sono
proprietà che la capacità percettiva attribuisce fallacemente a oggetti
dalle cui proprietà sta effettivamente venendo attualizzata, e così via.
Nell’analisi dei sogni, e grazie al loro trattamento in strettissima
connessione con l’illusione percettiva, è emersa una speciale funzione
cognitiva legata alla percezione, presente in PN ma assente in DA: la
“parte direttiva” e “discriminativa-valutativa”, che rende il percipiente
“critico” nei confronti dei suoi stessi stati sensoriali, e, quando è attiva
165
DI 3, 462a12-15.
166
DI 3, 462a22-26.
167
Si badi che i sogni non hanno causa finale: sono l’esito inevitabile di altri meccanismi che
hanno causa finale, come la percezione; sono dovuti alla necessità ipotetica legata alla realizza-
zione fisiologica della capacità percettiva. Cfr. Morel 2004, cap. 4.
248 Capitolo quarto
devo aver percepito delle cose bianche e degli uomini, e anche quando,
possedendo i rispettivi concetti, li esercito – entro un pensiero o sintesi
predicativa – potrò farlo solo riattivando in me un’“immagine” di tipo
percettivo, un favntasma che allacci il mio concetto a uno dei suoi pos-
sibili esempi individuali. Tale favntasma, poniamo, di Mario, non sarà
il mio concetto [uomo], ma è l’immagine ritenuta di un percetto che
posso considerare come esempio-di, che posso contemplare sub specie
universalitatis in modo che dia contenuto al mio concetto senza che
quest’ultimo si esaurisca in quello: esercitare il concetto di uomo è più
che evocare il mio favntasma. Evocare il favntasma di Mario comporta
infatti il mio considerare quel favntasma non solo come immagine di
Mario, bensì come esempio dell’universale, intellegibile: [uomo]. Così
come posso concepire il triangolo come tale, ma lo potrò fare solo con-
templando – se non con la vista, con la “mente” volta a un favntasma –
un triangolo particolare: esso sarà scaleno o equilatero, grande o picco-
lo, nero o rosso, e così via, ma la mia capacità noetica, pur necessitando
di questo favntasma, saprà trascenderne la particolarità: proprio grazie
alla mediazione della phantasia, l’intelletto riesce ad affrancarsi dalla
particolarità della percezione e attingere all’universale, cioè cogliere il
suo oggetto, l’intellegibile173.
Ma come passo dalla percezione di Mario, Franco e Giulia, al cogli-
mento intellettuale dell’universale [uomo]? Come risalgo dalle molte-
plici percezioni di questo grande triangolo scaleno rosso, quel piccolo
triangolo isoscele nero ecc., al coglimento dell’universale [triangolo]?
Da DA risulta solo che, sia per compiere questo salto cognitivo, che
per esercitare i concetti dopo che il salto sia stato compiuto, è ipoteti-
camente necessaria la phantasia: è mediante questa, che la noesi può
acquisire contenuto percettivo, e che la percezione può generare e con-
sentire intellezione; ma né in DA né altrove nel corpus, si rende esplici-
to cos’altro debba darsi perché l’attività della phantasia diventi, oltre-
ché necessaria, anche sufficiente al salto dalla percezione al concetto:
evidentemente, la phantasia non è sufficiente al salto, giacché ci sono
animali dotati di phantasia ma non di capacità intellettuali; lo stesso
vano nelle forme sensibili, sia quelli di cui si parla per astrazione, sia gli stati e le affezioni delle
cose sensibili».
173
DM i (449b30-450a14) spiega che, concependo il triangolo come tale, comunque ci ponia-
mo davanti agli occhi una certa quantità che pure non pensiamo in quanto (quella certa) quantità.
Per questo, anche la memoria degli intellegibili non si dà senza fantavsmata, giacché è memoria
accidentale, che è per se di contenuti sensibili (le “quantità”, i particolari percepiti che hanno cau-
sato il permanere di fantavsmata corrispondenti).
250 Capitolo quarto
174
Se AP ii 19 dovesse precedere DA iii 3 e PN, può darsi che la sola nozione di phantasia che
era allora in circolazione fosse quella platonica, cioè [percezione + opinione], sicché sarebbe stato
fuorviante chiamare in causa questa capacità, nota come capacità già concettuale e predicativa e
dunque inadeguata a spiegare in primis l’acquisizione di concetti.
175
AP ii 19, 99b20-22.
176
I principi di una scienza dimostrativa sono proposizioni di due tipi: ipotesi e definizioni.
Le definizioni esprimono le essenze degli oggetti rilevanti nel genere di realtà di cui la scienza è
scienza, le ipotesi sono assunzioni dell’esistenza di tali oggetti. Da queste proposizioni, la scienza
deduce le “appartenenze per se” del genere, cioè le proprietà necessarie degli oggetti entro quel
genere, e le deduce a partire dalle essenze-definizioni. Ma i “principi” di queste stesse proposi-
zioni sono i termini universali di cui esse sono sintesi predicativa: nelle definizioni, il definiens è
predicato del definiendum, nelle ipotesi il definiendum è predicato dell’esistenza. Dunque: i sil-
logismi scientifici non si danno senza premesse, e ci vogliono premesse prime (principi-propo-
sizioni), ma le premesse prime non si danno senza i termini universali di cui sono sintesi. Più in
generale, la capacità inferenziale non si dà senza la capacità proposizionale, e questa non si dà
senza capacità concettuale. Sulla scienza aristotelica, cfr. gli eccellenti contributi in Berti 1981.
Phantasia 251
«È necessario allora possedere una qualche capacità (tina duvnamin), che sia
però meno estimabile, quanto a precisione [della cognizione dei principi pri-
mi]; e una tale capacità è propria, in effetti, di tutti gli animali: hanno infatti
una innata capacità discriminativa (duvnamin suvmfuton kritikhvn), quella che
si chiama percezione»178 (AP ii 19, 99b32-35).
Posto che il possesso cognitivo dei principi primi non può essere
innato (Platone), allora deve spettare a un habitus cognitivo acquisito
(e{xi~): ma un potere cognitivo acquisito così sofisticato, dovrà dipen-
dere da un potere cognitivo innato, meno sofisticato179, che ne spieghi
l’acquisizione180. La necessità logica di postulare un tale potere più
originario, trova un riscontro empirico nelle cose stesse, giacché una
capacità discriminativa innata, la percezione, caratterizza di fatto gli
animali. Dietro ogni e{xi~, da ultimo, vi è una duvnami~ innata che spie-
ga la capacità di acquisire la prima181. Di qui, si descrive il modo in cui
177
Magari, una disposizione acquisita si spiega con un’altra disposizione acquisita: possiamo
apprendere A grazie ad aver appreso ad apprendere A, cioè ad aver acquisito la capacità di appren-
dere A. Ma da ultimo, questa capacità è esplicativa della prima solo perché dietro di sé ha, a sua
volta, una qualche capacità innata che l’ha resa possibile.
178
Ritengo che ai[sqhsi~, in questa occorrenza, designi la capacità percettiva in senso largo,
cioè [percezione + phantasia], anche se forse al tempo di AP ii 19 la phantasia non era stata
tecnicamente isolata.
179
Così, in modo lapidario, Met. i 9, 993a1-2: «se poi [questa conoscenza] fosse innata, ci sa-
rebbe da meravigliarsi di come possediamo, senza saperlo, la più eccellente delle scienze».
180
Se il potere cognitivo innato, che si postula, fosse altrettanto sofisticato e preciso di quello
di cui va dato conto, sarebbe ridondante postularlo, ma resteremmo con l’insoddisfacente affresco
platonico, secondo cui abbiamo già il possesso dei principi primi della scienza senza essercene
resi conto.
181
In DA ii 5, 417a21-b1 si distinguono diversi tipi di potenzialità: a) avere la giusta materia
e il giusto genere (ad esempio, essere un uomo); b) aver appreso la capacità; c) esercitarla. La
252 Capitolo quarto
percezione è una capacità positiva non appresa, dunque è analoga a ciò che è b) per le capacità
che vanno apprese. Esercitandola, si può apprendere un’altra capacità: una capacità può essere, in
esercizio, ciò che dà luogo al formarsi di un’altra capacità poi a sua volta esercitabile.
182
Quanto a diaforav, potrebbe trattarsi: a) della differenza fra animali in cui si forma qual-
cosa di uno nell’anima, e animali cui ciò non accade; b) della differenza come quel contenuto
unitario, lo stesso uno che si forma nell’anima di alcuni animali. Preferisco la seconda lettura, ma
a ogni modo a) e b) si implicano reciprocamente. Quanto a lovgo~, potrebbe trattarsi: c) di discor-
sività; d) di un “nesso” o “legame”, pre-discorsivo, cioè l’unità stessa cui prima ci si riferisce,
delle percezioni molteplici. La seconda lettura mi sembra più convincente, giacché ciò che è a
tema è l’origine del possesso dell’universale, cioè della stessa condizione del lovgo~ discorsivo.
Le due alternative a/b e c/d possono, incrociandosi, dare luogo a quattro possibilità interpretative
del passo, su cui cfr. l’utilissimo Feola 2009, pp. 9-12.
Phantasia 253
183
Si pensi alla percezione accidentale, che è la percezione ricognitiva par excellence.
184
Come abbiamo visto sopra, la memoria appartiene alla percezione, che è sempre di parti-
colari. L’intellegibile e l’universale si ricordano per accidens.
254 Capitolo quarto
188
Non c’è ragione per cui questo livello cognitivo non possa appartenere anche ad animali
non concettuali, cioè alle fiere. Infatti esso è il principio a partire da cui si acquisiscono i principi
delle scienze propriamente detti.
189
Con Turnbull 1994, ritengo che AP ii 19 parli dell’induzione, come passaggio dalla perce-
zione alla concezione, in quanto processo cognitivo proprio di qualunque essere umano maturo, sia
egli/ella scienziato o meno. Si parla della formazione di concetti e della capacità concettuale, che
poi è anche il fondamento per cogliere i principi di questa o quella scienza (o tecnica). AP riguar-
da la scienza dimostrativa, ma alcune delle condizioni di possibilità di questa, fra cui la capacità
concettuale e l’acquisibilità degli universali, sono condizioni dell’avere razionalità in generale.
256 Capitolo quarto
delle cose, dunque hanno una sorgente eminentemente percettiva: fra i due testi non vi è contrad-
dizione, essi caratterizzano la nostra acquisizione dei principi in due modi diversi ma compatibili.
191
Aristotele parla sia della nascita di un concetto specifico, ma anche della nascita “del” con-
cetto: a tema non è solo un certo concetto, ma la capacità concettuale in generale. Quando si dice
che la percezione è dell’universale, ci si riferisce alla condizione cognitiva in cui quell’universale,
si cui il particolare percepito è un esempio, è oramai già presente nell’anima: dunque, il possesso
di un certo universale informa di sé anche il contenuto percettivo. Come osserva Alessandro, ora
un «questo individuale» (tovde te kai; kaqevkaston) è colto come ciò che è «del tal genere, uni-
versale» (toiovnde te kai; kaqovlou), e questo è già un pensare (novhsi~, De anima 83, 2-13 Bruns).
192
Si tratta del processo descritto in Phys. i 1, il passaggio dal primo per noi al primo per natura.
193
Cfr. Met. vi 1, 1025b10-16, su un “altro modo di rivelare” le essenze che non è il dimostrare.
258 Capitolo quarto
194
Cfr. Phys. vii 3, 247b6-8: «quando infatti si genera una conoscenza del particolare, in
certo modo si conosce l’universale attraverso il particolare».
195
Kahn 1995, pp. 368-370, ritiene che, nel passo di AP ii 19, l’“esperienza” sia già un giu-
dizio, reso possibile dal fatto che l’intelletto è già in esercizio. Egli argomenta che la percezione
“di” un uomo, è percezione accidentale, la quale comporta già l’uso di intelletto e concetti. Ma la
percezione accidentale non implica necessariamente l’intelletto, è possibile anche per le fiere: un
cane vede un oggetto di un certo colore, che si muove ecc. e lo coglie come un gatto, cioè come
un tipo generale riconoscibile in varie occasioni, anche senza avere il concetto di [gatto]. Vi è un
vedere-come che è più elementare della sussunzione di un individuo sotto un concetto. Così, an-
che l’esperienza potrebbe essere un percepire ricognitivo e generalizzante, in cui l’estrazione con-
cettuale non è ancora in atto, ma vi è un universale rozzo e implicito, un intellegibile in potenza.
196
Come osserva Frede 1995, p. 291, la phantasia è ciò che offre «a standardized picture of
a state of affairs in general».
Phantasia 259
197
Cfr. AP i 3: i punti di partenza del ragionamento non possono essere prodotti del ragio-
namento.
198
Cfr. Kahn 1981, Lescher 1973, Hamlyn 1981.
199
Cfr. Kahn 1995, p. 362: «in modern terms phantasms may be thought of either as mental
events or as brain states; since for Aristotle phantasms are hylemorphic items, they will correspond
to both». Come mostra Glidden 1973, la divaricazione fra aspetto fisiologico e aspetto cognitivo-
intenzionale degli stati percettivi, è un portato della filosofia ellenistica, soprattutto stoica.
200
Come nota Kahn 1995, pp. 363-365, per Aristotele la stessa autocoscienza è di natura per-
cettiva (cfr. DA iii 2), piuttosto che intellettuale: e diventare consci di contenuti universali e intel-
legibili, a noi è possibile solo in quanto siamo enti senzienti e percipienti.
260 Capitolo quarto
201
Simmetricamente, il grappolo delle concezioni platoniche relative a questi livelli, è al-
trettanto internamente coerente: la separazione dell’anima dal corpo è legata alla separatezza
delle Forme dai sensibili che ne partecipano, e questi due aspetti fondano un’epistemologia anti-
empirista e innatista: l’universale non è presente solo nei sensibili, dunque può essere conosciuto
dall’anima indipendentemente da questi.
202
Cfr. Cap. vi.
203
E, come senza phantasia non si possono cogliere i concetti semplici e i principi primi, così
non si possono cogliere i fini, termini primi del ragionamento pratico che hanno un ruolo logico
simile a quello delle premesse nel ragionamento teoretico. Quando un pensiero muove l’animale,
si producono immagini (DA iii 11, 434a7-10).
204
Gli animali stazionari, come spugne di mare e simili, hanno solo sensi prossimali, cioè il
tatto, giacché il gusto è una sorta di tatto. Sono comunque percipienti: per esempio, se si tocca
Phantasia 261
una spugna di mare o un’anemone, o il mare è agitato, l’animale si contrae e si attacca saldamente
alla roccia (HA v 16, 548b10-15); percepisce i tangibili.
205
Cfr. Cap. vi.
206
Lorenz 2006, cap. 11, mette bene in luce come la phantasia consenta una lettura “prospetti-
ca” del presente percepito, colto dal punto di vista dei bisogni attuali dell’animale. Le fiere hanno
un rapporto col futuro estremamente limitato, molto vincolato a desideri presenti: per questo Ari-
stotele nega che possano esperire attesa del futuro in senso proprio (PA iii 5,669a18-21). Ma, per
esempio, non esita a chiamare il leopardo “speranzoso” (ejlpivzousa, HA viii 6, 612a12). Lorenz si
colloca sulla linea di Nussbaum 1978, Modrak 1987, Frede 1995 e altri studiosi che conferiscono
un ruolo interpretativo, cognitivamente spesso, alla phantasia. Una idea minimale di essa – come
semplice preservazione di impressioni percettive, piuttosto che come uso cognitivo di esse – è
sposata da Moss 2012 e Johanssen 2012. Mi pare che Aristotele designi, con phantasia, anche
l’uso cognitivo dei fantavsmata, almeno quando ne parla come di “una sorta di intelletto” e ne
discute il ruolo rispetto alla locomozione.
262 Capitolo quarto
207
Cfr. Modrak 1987, p. 97: «la locomozione dipende da un duplice processo cognitivo. La
aisthesis o il nous presentano un oggetto, e la phantasia elabora, reinterpretando l’oggetto alla
luce di particolari piaceri o dolori anticipati».
208
Sulla connessione fra memoria e attesa, cfr. MA 8, 702a5-7; EN ix 4, 1166a24-26; x 3, 1173b
18-19.
209
Inoltre, ci vogliono certi fantavsmata, che rappresentino il bene come tale, i mezzi come
adatti al fine, e così via.
210
Cfr. Platone, Filebo 32C3-5: «l’attesa prima del piacere attuale sarà piacevole e ispirerà
confidenza, mentre l’attesa del dolore sarà spaventosa e dolorosa».
211
Solo gli uomini provano piacere per le percezioni in quanto tali, e non solo in quanto sono
associate alla soddisfazione di qualche desiderio: celebre, a tal proposito, è l’incipit della Metafi-
sica: «tutti gli uomini tendono per natura al sapere. Ne è prova l’amore per le percezioni: infatti,
essi amano le percezioni per se stesse, indipendentemente dalla loro utilità» (Met. i 1, 980a20-25).
212
Come ho argomentato sopra, la percezione accidentale coinvolge la phantasia, anche se
non necessariamente l’intelletto: chi è privo di intelletto può avere percezioni accidentali, ma non
i percipienti privi di phantasia (quelli “imperfetti” e stazionari, dotati solo di tatto).
Phantasia 263
213
La phantasia «prepara il desiderio» (cfr. MA 8, 702a16-18). «L’animale è mosso e si spo-
sta per desiderio o per decisione, dopo aver subito una qualche modificazione in virtù della per-
cezione o dell’immaginazione» (MA 6, 701a5-6).
214
Questa sorta di generalità della phantasia è ben colta da Caston 1998, p. 290, che le asse-
gna un «contenuto singolare indefinito», e da Yourdin 2009, p. 81, che la designa come una «rap-
presentazione non specifica». Cfr. anche Frede 1995, p. 291, che enfatizza il fatto che prima di
cogliere l’essenza di, poniamo, [leopardo], ci vuole una rappresentazione empirica di leopardi
in generale, la quale deve essere già oltre la particolarità della percezione strettamente intesa. In
Phys. i 1, 184b12-15 si adduce l’esempio dei bambini che dapprima chiamano “mamma” tutte
le donne, per illustrare come la conoscenza in generale muova dall’indefinito e confuso, verso il
definito e l’articolato. Questa pur fallace prestazione cognitiva dei bambini implica la capacità di
trascendere il particolare e di riconoscere certe proprietà comuni (almeno peculiari alle donne, se
non alla mamma): questa non può essere percezione in senso stretto, ma nemmeno intelletto, il
quale non è ancora presente nei bambini; non può che essere percezione in senso largo, ovverosia
percezione informata dalla phantasia e dalla sua generalità.
215
Cfr. Lorenz 2006, cap. 11.
216
Alcuni animali, con memoria, sono “saggi” (frovnima), ma altri sono anche capaci di
264 Capitolo quarto
imparare. Met. i 1, 980b3-4. Per esempio, il cervo è frovnimo~, infatti impara a partorire vicino
alle strade, perché sa che i suoi predatori non si avvicinano alle strade per paura degli umani; una
volta partorito, porta il piccolo su di sé, per abituarlo ai posti dove potrà trovare rifugio. Quando
il maschio è grasso, tende a nascondersi perché sente che potrebbe essere facile preda; quando il
cervo è punto da ragni velenosi, mangia bacche perché ha imparato che fungono da antidoto al
veleno (HA viii 5, 611a15-b 23); i delfini quasi arrivano a calcolare (HA viii 44, 629b24-27); le
capre imparano a curarsi da sé (HA viii 6, 612a2-3) e quando sono arpionate da un cacciatore,
cercano dittamo cretico (un’erba) perché “credono” che le aiuti a estrarre l’arpione dalle carni
(HA viii 6, 612a3-5); le manguste egiziane prendono precauzioni contro il morso del serpente
(HA viii 6, 612a16-21). Tutto questo denota una certa sensibilità, acquisita, alla relazione mezzi-
fini. Le pecore sono abituate sin da piccole a guidare il branco (HA vi 19, 573b27); i topi del de-
serto sono abituati a non bere troppa acqua d’estate, altrimenti morirebbero (HA vii 28, 606b23);
non solo gli uomini, dunque, ma anche le fiere che apprendono, hanno seconde nature: «gli altri
animali [oltre l’uomo] vivono soprattutto per natura, ma alcuni di loro hanno degli abiti» (Pol.
vii 13, 1332b3-4).
217
DA iii 10, 433a10. Sulla relazione fra phantasia e “saggezza” animale, cfr. Labarrière
1984 e 1990.
218
Loux 2004, p. 126 oppone la sensibilità umana alle ragioni, alla logica del comportamento
ferino, che sarebbe basato su relazioni stimolo-risposta. Ma Aristotele è ben conscio del fatto che,
negli animali che apprendono, esiste uno iato fra lo stimolo e la risposta, iato che è riempibile in
modi diversi e riconfigurabile alla luce di nuove esperienze.
219
DA iii 11, 434a7-8; iii 10, 433b29-30.
Phantasia 265
224
Cfr. Moss 2012 e Cashdollar 1973.
225
Cfr. Cap. vi.
capitolo quinto
intelletto
1. L’intelletto ricettivo1
l’anima degli animali sulla base di potere “critico” o discriminativo, e potere di movimento lo-
cale, e il primo potere è detto essere opera della percezione e della diavnoia: quest’ultima qui è
addirittura identificata all’anima razionale tout court, dato che copre tutto ciò che, di cognitivo
(critico-discriminativo), non sia opera della percezione.
6
Cfr. Loux 2004, Cap. vi; Wedin 1988, pp. 130-131. Aristotele studia i termini – meglio: i tipi
di entità che essi possono denotare – nelle Categorie, le proposizioni nel De interpretatione, le
inferenze negli Analitici primi. DA iii 3, 428a19-24 chiarisce che chi ha opinione e credenza, è
persuadibile ed è sensibile alle ragioni, dunque avere credenze e convinzioni significa essere
razionali anche nel senso del disporre di capacità inferenziali; in DA iii 11, 434a11-14 si dice che
gli animali non razionali non hanno opinione in quanto mancano dell’opinione, appunto, come
conseguente al ragionamento: il primo passo afferma che avere opinioni/credenze implica l’avere
ragionamento, il secondo passo afferma che il non avere ragionamento è sufficiente al non avere
credenza/opinione. Che l’avere capacità concettuali-noetiche implichi l’avere capacità giudica-
tive-dianoetiche non è mai asserito esplicitamente, ma emerge dal trattamento aristotelico della
noesi come coglimento dei principi da cui si acquisisce scienza: questi non sono solo termini ma
anche ipotesi, assiomi, postulati e definizioni, entro cui i termini semplici sono in connessione;
non potrei cogliere tali principi se non avessi capacità di stati proposizionali.
7
Cfr. DA iii 8, 431b20-27.
8
Come vedremo, ciò vale per le cose naturali, con materia. Gli intellegibili e i percepibili
esauriscono tutti gli enti (sono pavnta ta; o[nta, iii 8, 431b21-24). Tuttavia, la coppia cognitiva
percepibile/intellegibile non traccia perfettamente la coppia ontologica particolare/universale:
esistono anche dei particolari intellegibili, privi di materia, come i motori immobili dell’universo
sopralunare. Ma entro il mondo naturale, diveniente e popolato di forme incorporate nella mate-
ria, qualunque particolare è un percepibile, qualunque universale è un intellegibile. I particolari
Intelletto 269
«Se l’intellezione (to; noei`n) è come il percepire, sarà un certo subire da parte
dell’intellegibile, o qualcosa di simile a ciò: (questa parte dell’anima) dunque
deve essere impassibile ma ricettiva della forma, e deve esser tale in potenza
ma non identica a questa; e come si trova la capacità percettiva rispetto ai
percepibili, così (si troverà) l’intelletto rispetto agli intellegibili» (DA iii 4,
429a13-18).
senza materia, non sono percepibili, dunque sono intellegibili, ma non nel senso in cui lo sono gli
universali: la loro esistenza e certe loro proprietà, possono essere derivate dal ragionamento; per
esempio, il ragionamento che pone il Motore Immobile in Phys. viii e Met. xii.
9
Questo antecedente, per Aristotele, è vero, pur con dei limiti: la ricezione dell’universale è
analoga al percepire. Ma sia l’idea che il pensare sia come il percepire, sia l’idea che il pensare
sia una sorta di patire, sono introdotte in modo cauto e ipotetico (cfr. 429a13-14, 429b24-25 e
429b29). Aristotele teme che l’analogia dell’intellezione col percepire possa adombrare la loro
radicale differenza, ed essere fuorviante anziché illuminante.
10
Il pensare è una sorta di subire da parte dell’intellegibile (uJpo; tou` nohtou`): Met. xii 7,
1072a30; DA iii 4, 429a14.
270 Capitolo quinto
«Cosicché la sua natura non sarà altro che questa, di essere in potenza. Perciò
la parte dell’anima che chiamiamo intelletto (chiamo intelletto ciò in virtù di
cui l’anima pensa e crede, dianoei`tai kai; uJpolambavnei) non è in atto nessu-
no degli enti prima di pensare (noei`n)13. Perciò non è appropriato ritenere che
11
Così, Aristotele rifiuta l’idea empedoclea secondo cui il simile conosce il simile, e si rifà
piuttosto alla idea anassagorea del nou`~ come “puro” e non mescolato; anche se il nou`~ è potenza
di assimilazione del suo oggetto: proprio per questo – come vedremo – prima dell’intellezione,
esso in atto non può essere simile a nulla, proprio perché deve poter essere identico in potenza a
tutti i suoi oggetti.
12
Ogni modalità percettiva è limitata a un genere (colori, suoni, sapori, tangibili, odori) e,
per ciascuna entro il proprio genere, ci sono dei “punti ciechi”: per esempio, non si percepisce
il trasparente (né l’occhio stesso, che lo è), non si percepisce la temperatura dell’organo stesso
(cuore), e così via. Cfr. DA ii 5, 417a2-9. Cfr. Cap. iii.
13
Dire che l’intelletto pensa è un errore categoriale: non è l’intelletto, che pensa – non quello
umano, perlomeno – ma l’uomo, in virtù dell’intelletto (cfr. DA i 4, 408b2-16). Tuttavia Aristotele,
Intelletto 271
sia mescolato al corpo, giacché assumerebbe una certa qualità, (per esempio)
o caldo o freddo, e avrebbe un organo, come la capacità percettiva, invece non
ne ha alcuno. Quindi fanno bene coloro che dicono che l’anima è il luogo delle
forme, ma non lo è l’intera anima bensì quella intellettiva, e non è le forme in
atto bensì in potenza» (DA iii 4, 429a21-29).
dissipati i possibili equivoci di un modo di parlare ipostatizzante, continua egli stesso a parlare di
anima, intelletto, e altre parti dell’anima, come soggetti delle attività psichiche: ma una volta che
si sia chiarito che questa è solo una façon de parler, la si rende metafisicamente innocente. Siamo
noi a vivere, nutrirci, percepire, pensare, desiderare, agire ecc., in virtù di certe nostre capacità.
14
Movia 1991 traduce: non è nessuno degli enti prima di pensarli. Ma il testo dice: prima
di pensare. Si comincia a pensare quando qualche universale “si ferma” nell’anima, prima non
si pensa.
15
Cfr. AP ii 19, 99b22-100a14.
16
Cfr. DA ii 1, 412b5-6.
17
Naturalistico, nel pregnante senso aristotelico di “natura”, cioè non nel senso riduzionistico
(classico, à la Empedocle e Democrito, o contemporaneo).
272 Capitolo quinto
«a) Poiché sono diverse la grandezza e l’essenza della grandezza, come l’ac-
qua e l’essenza dell’acqua (ed è così per molti altri casi, ma non per tutti:
in alcuni, le due cose sono identiche), b) si discrimina la carne e l’essenza
della carne o b1) attraverso qualcosa di diverso, o b2) attraverso la stessa cosa
disposta diversamente28. c) Infatti la carne non è senza materia, ma come il
camuso, è una determinata (forma) in una determinata (materia). d) Dunque,
con la capacità percettiva si discrimina il caldo e il freddo e quelle cose di cui
26
Sopra ho parlato di “concetti” in generale: ma non vi è contraddizione, giacché l’intelletto è
capacità concettuale in generale, ma la sua funzione primaria, che è anche la sua eccellenza cogni-
tiva, è il coglimento delle essenze oggettive e delle “verità” prime. Che l’intelletto fondi la capacità
concettuale in generale, e non solo il coglimento veritativo delle essenze, emerge anche dal fatto
che l’intelletto di DA iii 4 è caratterizzato, a ridosso della sua definizione come potenza degli intel-
legibili, come «ciò con cui l’anima pensa e crede» (dianoei`tai kai; uJpolambavnei, 429a23), e sia
diavnoia che ujpovlhyi~ possono indubbiamente essere false, nonché vertere su entità e contenuti
che non siano essenze.
27
Ci sono essenze, poi, sia di sostanze che di accidenti. Cfr. Top. i 9, 103b27-39. Ad esempio,
c’è il che-cos’è è anche di una qualità (F), ciò che per qualcosa è, essere un F, che è catturabile
da una definizione.
28
Con Hicks, Hamlyn e Movia (ad loc.) fra altri, intendo il soggetto sottinteso di krivnei a
b12, b27 e b21 come l’individuo, il soggetto conoscente, e traduco con la forma impersonale per
preservare anche il fatto che il soggetto sia lasciato sottinteso. Diversamente Lowe 1983 e Gerson
2004, secondo cui si tratta del nou`~ stesso.
Intelletto 277
la carne è un certo lovgo~; e) ma è con qualche altra (capacità) – o separata da
quella oppure in rapporto a quella al modo in cui la linea spezzata è in rap-
porto a se stessa quando sia estesa – che si discrimina l’essenza della carne.
f) Inoltre, riguardo agli enti ottenuti per astrazione, la retta è come il camuso:
infatti è unita al continuo; mentre la sua essenza, se è diversa dalla retta, è
qualcosa d’altro: potrebbe essere la diade. g) Ora, si discrimina (tale essenza)
o con qualcosa di diverso, o con qualcosa che è disposto differentemente. h)
In generale, come le cose sono separate dalla materia, così stanno le cose per
quanto riguarda l’intelletto» (DA iii 4, 429b10-22).
Si distingue anzitutto un oggetto dalla sua essenza, da “ciò che è/si-
gnifica, per quell’oggetto, essere”. I due esempi riguardano un oggetto
geometrico-matematico (grandezza), e due oggetti fisici (acqua, car-
ne). Tutti gli enti fisici hanno forma e materia, hanno una certa essenza
e altre proprietà accidentali, e un particolare oggetto può essere formal-
mente distinto dalla sua essenza, ad esempio un uomo ha un essenza,
ma non è identico alla sua essenza: Mario è uomo, ma non è identico
a “ciò che è, per un uomo, essere”; Mario è un animale razionale, ma
è anche capace di ridere, dotato di peli, grande, pallido, moro, e tante
altre cose; questo vale anche per l’acqua, la carne e qualunque altro og-
getto naturale: l’essenza di qualcosa è distinguibile dalle sue proprietà,
alcune delle quali, quelle necessarie, sono scientificamente deducibili a
partire dall’essenza, altre delle quali, accidentali, caratterizzano alcuni
esempi individuali e altri no, e sono dovute al fatto che quegli enti han-
no materia, potenza, e sono cangianti in modi variabili e contingenti. Si
consideri l’acqua: essa è trasparente e potabile; poniamo che la sua es-
senza coincida con la sua formula chimica (H2O); abbiamo una essen-
za, e delle proprietà come trasparenza e potabilità e ghiacciabilità ecc.,
proprietà manifeste alcune delle quali sono derivabili dalla sua formula
chimica (insieme ad altre conoscenze), altre proprietà, poi, potranno
caratterizzare l’acqua che c’è nel mio bicchiere (limpida, immobile,
dolce) ma non l’acqua di una certa pozzanghera (torbida, in movimen-
to, fangosa). Ma anche una certa lunghezza di qualcosa è formalmente
distinguibile da “ciò che è per una lunghezza essere”, dall’esser-lun-
ghezza come tale: la lunghezza è una proprietà geometrica astratta,
sarà definita mediante nozioni geometriche, ed è formalmente distinta
dalla lunghezza “incarnata” di questo o quell’oggetto naturale, sia un
animale, un albero, un tavolo o un regolo29.
29
Aristotele pare trattare, qui, il “continuo” come aspetto della retta legato alla materia, e la
“diade” come elemento essenziale-formale. In Met. viii 3, 1043a29-35 si chiede se un nome deno-
278 Capitolo quinto
ti la sostanza in quanto sinolo, oppure la sola forma di esso, per esempio, se “linea” denoti la diade
in quanto lunghezza, o la diade simpliciter: ove è chiaro che la diade è considerata la forma-essen-
za della retta, mentre la diade in quanto lunghezza continua, è la retta come composto di materia e
forma (la cosa però qui è complicata dal fatto che in Met. vii 10, 1036a9-13 e 11, 1037a4-5 si è in-
trodotta una materia intellegibile, di cui non c’è menzione in Phys. e DA; cfr. Phys. vi 1, 231a25).
Cfr. anche Met. Z 11, 1036b12-21. Viene spontaneo pensare alla nozione platonica di Diade in-
definita e alle cosiddette dottrine non scritte: ma per i nostri scopi esegetici possiamo sorvolare
sui dettagli di questo riferimento.
30
Così, Hamlyn 1968, ad loc. e Whiting 2002, p. 195. Secondo Whiting 2002, p. 196, Aristo-
tele è genuinamente agnostico quando pone l’alternativa per cui ciò che coglie l’essenza di X è o
lo stesso che coglie X, oppure un altro principio differentemente disposto. Kahn 1995, con Temi-
stio e Simplicio, interpreta: l’essenza della carne o dell’acqua è colta dal nou`~, mentre carne o ac-
qua sono colte: o dal nou`~ medesimo disposto differentemente, o da qualcos’altro, cioè la perce-
zione. Carne e acqua sono il composto materia/forma, e il nou`~ differentemente disposto, sarebbe
il nou`~ in sintesi con la percezione. Se carne e acqua sono colte da qualcos’altro, lo sarebbero dal-
la percezione inclusiva anche di quella accidentale: che coglie certi propria (caldo, freddo ecc.) di
cui la carne è un lovgo~, come carne. Kahn ritiene che la percezione accidentale coinvolga anche
l’intelletto, dunque le due ipotesi verrebbero di fatto a coincidere: o cogliamo carne e acqua col
nou`~ disposto insieme alla percezione, o con la percezione disposta insieme al nou`~. Non concor-
do con Kahn sul fatto che la percezione accidentale debba coinvolgere l’intelletto (cfr. Cap. iii),
dunque la lettura Kahn-Temistio-Simplicio non offre due alternative equivalenti, pace Kahn. Mi
pare più conveniente leggere (con Hicks 1923; Modrak 1987, p. 118 e 1991, pp. 758-759): la per-
cezione, nel senso largo di [percezione + phantasia], coglie enti come carne o acqua; o un’altra
capacità (nou`~) o la [percezione + phantasia] disposta in modo da essere informata da contenuti
noetici, coglie l’essenza di quelle. Si pensi a AP ii 19, ove la percezione viene caratterizzata come
origine del possesso dei principi e dunque della stessa attività noetica. Oppure, delle due alterna-
tive, solo una potrebbe essere quella considerata vera; in tal caso, sarebbe plausibile pensare che
quella vera è un’altra capacità (nou`~) rispetto a quella che coglie carne e acqua ([percezione +
phantasia]), coglie l’essenza di quelle.
Intelletto 279
31
Cfr. AP ii 19. Ma in DA iii 4 l’intelletto non è solo il possesso dei principi e universali bensì,
anzitutto, la capacità di acquisirli.
32
In realtà, la forma-essenza della carne non è solo il suo lovgo~ materiale-corporeo, ma la sua
funzione: la carne è un costituente biologico che consente certe funzioni vitali, dunque solo chi ne
coglie le funzioni, ne coglie l’essenza.
33
Burnyeat 2008, pp. 24-25, osserva che l’intelletto come coglimento delle essenze, è una
acquisizione rara: le essenze si scoprono, come la composizione dell’acqua per un chimico o il
codice genetico di una specie vivente per un genetista.
280 Capitolo quinto
34
Spesso è chiamato nou`~ l’esito di questo processo, la condizione del possesso dei principi,
quando siano già acquisiti. Cfr. Berti 1981, Burnyeat 2008: l’ejpagwghv, mediante cui i principi-
essenze divengono noti, non è un’intuizione immediata, bensì un processo dialettico-discorsivo,
un’investigazione a tutti gli effetti (cfr. Top. i 12 e APr ii 23, 68b32-38), anche se il suo risultato,
appunto, può essere una comprensione non processuale dei principi-essenze (nou`~).
35
Johanssen 2012, p. 229, interpreta l’immagine così: l’intelletto vede che la linea è dritta,
la percezione no; ma qui l’analogia estesa/spezzata è fra una capacità che coglie le essenze, e se
stessa in quanto coglie i sinoli percepibili che hanno queste essenze, non fra gli oggetti rispettivi
che la capacità può cogliere o meno. Per Kahn 1995, per il quale la facoltà che coglie la carne in
quanto differentemente disposta è il nou`~, la linea retta è il nou`~ in quanto coglie le essenze, fa-
cendo “il suo”, mentre la linea spezzata è il modo in cui il nou`~ sta a se stesso, in quanto funzione
mescolata, per così dire, con la percezione. L’immagine, pur non immediatamente perspicua, si
può cogliere anche senza afferrarne il dettaglio in termini geometrici. La capacità intellettiva non
ha organo, ma coincide “spazialmente” con la capacità percettiva, che ne è precondizione. In un
certo senso, la capacità percettiva, soprattutto in quanto includente la phantasia, è materia delle
operazioni intellettive, dunque l’intellezione potrebbe essere vista come una percezione diversa-
mente disposta: un uso concettuale-astraente del materiale percettivo.
Intelletto 281
39
Cfr. DA iii 7, 431b13-17: «Le cose di cui si parla per astrazione, l’intelletto le pensa come
se si pensasse attualmente il camuso non come camuso, ma in modo separato, in quanto concavo:
lo si penserebbe senza la carne in cui il concavo si trova. Così gli enti matematici, che non sono
separati, l’intelletto li pensa come separati, quando li pensa». Cfr. Met. vi 1, 1025b31-35: alcune
essenze-definizioni sono come il camuso, altre come il concavo, cioè «senza materia sensibile». Il
camuso è di un naso, come la forma delle cose naturali è di un sinolo che ha materia, la quale entra
nella definizione stessa; il concavo è un camuso ma astratto dall’esser di un naso (non solo i nasi
sono “concavi”), al modo in cui le essenze “astratte” dalla matematica sono astratte dall’essere, i
loro esempi, realizzati in una certa materia.
40
Si consideri che la geometria era considerata la regina delle scienze, e non solo nell’acca-
demia platonica. In AP, trattato sulla scienza dimostrativa, è la geometria, a costituire l’exemplum
princeps di scienza. La scienza è un «abito dimostrativo» (EN vi 3, 1139b31). Cogliere l’essenza
della retta è abito dimostrativo geometrico, può essere compito difficilissimo, per cui occorre
ricerca, indagine dialettica, intuizione geometrica.
41
Esistono – anche secondo Aristotele (cfr. AP ii 7-10) – una concettualizzazione ordinaria e
una concettualizzazione scientifica delle cose: è a quella scientifica, che Aristotele è anzitutto in-
teressato, cioè al disvelamento delle genuine essenze delle cose e dei loro attributi, pur vagamente
e genericamente conosciute anche dai non-scienziati. Ma in sede di studio dell’anima umana, la
capacità intellettiva non è limitata al coglimento dei principi della scienza, che pure è la funzione
più alta dell’intelletto, la sua eccellenza: sua condizione preliminare, è la capacità concettuale in
quanto tale.
Intelletto 283
3. Le aporie dell’intelletto
mosso, diventato in atto ciò che era solo in potenza e che il motore era
già in atto: X è caldo, e Y è freddo, al tempo t0; X scalda Y, e Y è caldo
come X, al tempo t1, Y è diventato in atto ciò che esso era in potenza,
e che X era già in atto. Tutto ciò vale anche per i mutamenti cognitivi,
anche se “perfettivi” e dunque diversi dagli episodi di divenire non
intrinsecamente realizzativi43.
L’aporia A solleva la questione: se l’intelletto ha da subire l’impatto
causale dell’intellegibile, dovrà avere qualche genere di proprietà in
comune con esso; ma ciò non è incompatibile con l’idea che esso sia
impassibile e che non abbia nessuna determinazione positiva, visto che
è pura potenza, cioè pura pensabilità di tutto? La struttura aporetica del
problema consiste nel fatto che i due possibili corni dell’antitesi, che
pure pare inevitabile, paiono entrambi impercorribili: o 1) l’intelletto è
impassibile e non ha nulla in comune con nulla, ma allora non potrà su-
bire l’azione di nulla né conoscere nulla; o 2) l’intelletto ha qualcosa in
comune con ciò che conosce, allora non è impassibile, e non potrà co-
noscere le cose che è già in atto, dunque non tutto sarebbe intellegibile.
Si rammenti che Anassagora, che qui viene citato44 in quanto è l’u-
nico degli “arcaici” che ha tematizzato il nou`~, riteneva che la cono-
scenza è del dissimile, a differenza di Empedocle per cui la conoscenza
è del simile. Aristotele concorda con Anassagora e con Empedocle pur
discordando da entrambi, poiché li supera in un’istanza sintetica supe-
riore grazie alla doppia distinzione: a) fra somiglianza/dissomiglianza
secondo il genere (ad esempio, colore), e somiglianza/dissomiglianza
43
La distinzione fra mutamenti “perfettivi” e mutamenti non perfettivi non va però confusa
con la distinzione fra mutamenti cognitivi e mutamenti non cognitivi: anche le attività vitali non
cognitive, come il metabolismo, la riproduzione, la locomozione ecc., sono attività realizzative
e non meramente alterative: fra le attività psichico-vitali, per natura realizzative, vi è un sottoin-
sieme consistente nelle attività cognitive, o discriminative, quali la percezione e l’intellezione.
Percezione e intellezione sono realizzazioni consistenti nella ricezione discriminativa di forme
(sensibili o intellegibili) da parte del soggetto, dunque sono delle peculiari attività vitali-realiz-
zative: il loro essere cognitive non si esaurisce nel loro essere realizzative, ma risiede nell’essere
particolari realizzazioni, con un certo oggetto e una certa funzione nell’economia globale della
vita del soggetto; sono modi di cogliere aspetti rilevanti della realtà o ambiente.
44
Cfr. Met. i 4, 984b18-21; DA i 2, 405a15-18. Cfr. Anassagora, DK 59B 12. L’aporia sor-
ge dalla stessa concezione anassagorea del nou`~, che Aristotele riprende, facendola sua: si noti
che l’aggettivo ajmighv~ (“non mescolato”) non è parte del lessico filosofico aristotelico, le poche
occorrenze nel corpus sono tutte riferite o connesse al nou`~ di Anassagora. L’aporia A è già pre-
annunciata nel contesto dialettico-dossografico di DA I: «solo Anassagora afferma che il nou`~ è
impassibile e non ha nulla in comune con alcuna delle altre cose. Ma dato che è tale, come esso
possa conoscere, e attraverso quali cause, egli non l’ha detto, né risulta chiaro a partire da ciò che
ha detto» (DA i 1, 405b20-23). Sulle due aporie del nou`~ di DA iii 4, soprattutto in rapporto ad
Anassagora, è fondamentale Lewis 2003.
Intelletto 285
secondo i contrari interni a quel genere (ad esempio, bianco, nero, in-
termedi), e b) fra somiglianza in potenza e somiglianza in atto. Ma
se per la percezione questa doppia distinzione risolveva l’aporia – ad
esempio, l’occhio è un “colorabile” come i suoi oggetti, patisce dai co-
lori ma muta poiché è quei colori solo in potenza – nel caso dell’intel-
letto le cose sono più complicate: infatti, non esiste un genere intellegi-
bile, poiché tutti i generi di cose sono intellegibili, dunque l’intelletto
non può avere nessuna determinatezza in atto45: e da cosa potrà mai
subire, allora? Per poter subire da tutto, non può aver nulla in comune
con nulla, ma se non ha nulla in comune con nulla, sarà inconcepibile
come possa subire, se ex hypothesi si subisce solo da qualcosa con cui
si ha alcunché di comune.
L’aporia B è connessa con la A, ma è ancora più complessa poiché
riguarda la possibilità di auto-intellezione dell’intelletto: se l’intelle-
zione è una sorta di subire, l’intelletto dovrà subire da sé, e agire su di
sé, se ha intellezione di sé. L’auto-intellegibilità è un caso particola-
re dell’intelligibilità, che solleva l’aporia del pensare come subire dal
pensato, ma in forma, per così dire, aggravata: se l’intelletto è intelle-
gibile, avrà qualcosa di comune con gli altri intellegibili, qualcosa in
virtù di cui può subire da essi, come anche da se stesso. Quest’elemen-
to comune renderebbe falso che esso è “non mescolato” con alcunché,
poiché l’elemento comune fra sé e gli altri intellegibili, in virtù di cui
può subire da questi come da sé, sarebbe qualcosa che esso ha mescola-
to in sé, una qualche determinatezza positiva in atto. Questa è l’alterna-
tiva (b); la (a), egualmente impercorribile, è che esso non è intellegibile
mediante altro – l’ipotetico elemento positivo, comune a sé e agli altri
intellegibili, posto in (a) –, ma solo mediante sé: ma questo impliche-
rebbe che anche gli altri intellegibili che esso coglie, abbiano intelletto,
visto che in questa ipotesi l’intelletto ha intellezione solo mediante sé,
e gli intellegibili sono “qualcosa di unico secondo la specie”: questa
assurda conseguenza pan-psichistica, è ovviamente inaccettabile, giac-
ché comporta che solo ciò che è o ha intelletto, è intellegibile46! Questa
45
L’occhio, invece, è una certa proporzione in atto. La “onni-ricettività” dell’intelletto è una
delle ragioni fondamentali per cui l’intelletto non può avere un organo come le altre capacità psi-
chiche. Avere un organo, significa essere passibile di mutamenti solo da parte di certe determinate
proprietà, cui l’organo è sensibile. Se l’intelletto può pensare tutto, non può esserci un organo per
l’intelletto: la costituzione positiva dell’organo comporterebbe dei “punti ciechi” e la limitazione
degli intellegibili a un solo genere di proprietà.
46
Cfr. Polansky 2007, p. 452: «or another way to have mind able to think other things and
itself is, instead of mixing mind into everything else, to mix into mind what will make it thinkable
286 Capitolo quinto
aporia (B), come versione autoreferenziale della prima (A), fa leva sul
fatto che l’intelletto non possa essere detto né cognizione del simile,
né cognizione del dissimile: se è cognizione del simile, allora sarà solo
cognizione di ciò che è intelletto, dunque o conosce solo se stesso, o le
altre cose saranno tutte dotate di intelletto; se è cognizione del dissimi-
le, non potrà conoscere sé, e forse nemmeno le altre cose, non potendo
subire da esse47. Il problema di A è come l’intelletto possa pensare le
altre cose (universali intellegibili), il problema di B è come l’intelletto
possa esser concepito come capace di pensare sia sé, che le altre cose
a un tempo. B è una aporia ulteriore rispetto ad A, ma ne condivide il
problema insito nel conoscere come subire.
Se l’intelletto, poi, è pura ricettività e potenzialità, allora non avrà
alcuna forma o determinatezza in atto48, e questo è problematico sia
quanto all’intellegibilità delle altre cose, che all’intellegibilità di sé. La
tensione fra l’idea di una universale intellegibilità, l’idea di una con-
seguente estraneità dell’intelletto a tutti gli intellegibili, e l’idea della
intellegibilità dell’intelletto stesso, è palpabile se si considera l’appa-
rente incompatibilità delle tre proposizioni seguenti49:
1) Tutto è intellegibile (compreso il nou`~)
2) Se un oggetto X è intellegibile, X ha una qualche forma F in atto
3) Il nou`~ non ha alcuna forma in atto
Se 1 e 2 sono vere, 3 non può essere vera; se 1 e 3 sono vere, 2 non
può essere vera; se 2 e 3 sono vere, 1 non può essere vera. Risolvere
just as other things are thinkable». Loux 2004, pp. 128-129 spiega così: la pensabilità o è una pro-
prietà puramente psichica, o puramente non psichica. Nel primo caso, lo psichico deve pervadere
ogni cosa che la mente coglie; nel secondo caso, l’intelletto avrà questa proprietà in comune con
gli altri enti non psichici, dunque avrà una qualche proprietà materiale.
47
Che l’intelletto non possa conoscere se stesso, non è ipotesi scartata solo per ragioni empi-
rico-fenomenologiche, cioè perché esperiamo episodi d’autocoscienza noetica; ma anche perché
renderebbe paradossalmente impossibile una conoscenza teoretica dell’intelletto, proprio ciò che
Aristotele, anche discutendo queste aporie, sta testé producendo.
48
Gli organi-capacità percettivi possono avere una natura positiva (per esempio, una certa
proporzione fisica fra elementi, una certa morfologia ecc.) grazie a cui possono essere poten-
zialità di percepire; ma se l’intelletto è pura ricettività, e la sua natura non è altro che l’essere in
potenza, non vi è il terreno per spiegare questa capacità sulla base di una qualche determinazione
formale positiva. Il problema è concettualmente analogo al problema della materia prima: il bron-
zo è potenza di una statua proprio perché è certe cose in atto (è bronzo, ha malleabilità, resistenza
ecc.); ma per la materia prima, di cui sono atti anche gli elementi (aria, acqua, terra, fuoco) e le
proprietà di base (caldo, freddo, secco, umido), come potrà spiegarsi questa capacità? Sarà una
specie di potenza pura, pressoché incoglibile al di fuori di una sua qualche attualizzazione, e il cui
nesso con qualunque sua attualizzazione deve restare misterioso e poco concepibile.
49
Qui seguo la lucida esposizione di Loux 2004, p. 129.
Intelletto 287
55
Secondo Alessandro (cfr. Accattino-Donini 1996, p. 82) seguito da molti interpreti (Hicks,
Hamlyn, Movia), è l’esser atto, dell’individuo, a ricevere le forme intellegibili, che è paragonato
all’esser atta, della tavoletta, a ricevere ciò che vi si scrive, dunque non è l’intelletto stesso bensì
colui che ce l’ha, a essere paragonato a una tavoletta. Non mi pare il caso: nella riga precedente si
afferma che l’intelletto – non l’individuo – è in potenza gli intellegibili, e qui si spiega dunque che
l’intelletto è in potenza nel modo in cui una tavoletta per scrivere è in potenza ciò che vi può esse-
re scritto. È vero che la tavoletta, come nota Alessandro, è un oggetto fisico esistente per se, prima
di esser scritta, e l’intelletto no, ma istituire un’analogia fra due realtà non comporta impegnarsi
a sostenere una corrispondenza “uno a uno” fra ogni singolo aspetto di una realtà e ogni singolo
aspetto dell’altra. Certo, noi sappiamo che, a rigore, non è l’intelletto a pensare, ma l’uomo, per
mezzo dell’intelletto (cfr. DA i 4, 408b2-16): Aristotele ci ha già messo in guardia dalle insidie
di un linguaggio troppo ipostatizzante; ma poi egli stesso se ne concede l’uso, conscio che il suo
caveat espresso in precedenza ne ha oramai disinnescato i pericoli di fraintendimento. È l’intel-
letto, qui, a essere simile alla tavoletta.
56
Forse per noi è più opportuno, seguendo Hegel (cfr. Hegel 1998, p. 233), pensare a un
libro che non sia nulla prima di essere scritto, piuttosto che pensare a una tavoletta, intesa come
un supporto fisico in cui restano delle impressioni. Non è che il nou`~, prima che noi pensiamo,
sia letteralmente una tabula rasa: piuttosto, il nou`~ ha realtà solo quando cominciamo a pensare
attualmente, prima il nou`~ non c’è, non è nulla, nemmeno una tabula rasa; anche il nou`~ come
capacità (attualità prima) ha realtà solo quando si sia acquisito almeno un universale, e lo si possa
riattualizzare da sé.
Intelletto 289