Sei sulla pagina 1di 6

Pubblicato sul Messaggero russo tra il 1879 e il 1880, diviso in dodici libri, preceduti da

una prefazione e seguiti da un epilogo, I fratelli Karamazov ha una trama articolata, piena
di colpi di scena, di suspense e di cambiamenti repentini.

I fratelli Karamazov è un romanzo bilancio. Il suo fulcro è la denuncia del caos della società
russa dell’epoca che viene materializzato nella disgregazione della famiglia che giunge al
parricidio, famiglia che si era affermata con l’occidentalizzazione della Russia. Siamo in un
mondo caotico, al confine tra modello occidentale e il mondo cosmico ortodosso russo. La
vicenda parte dal padre Fëdor Pavlovič, anziano proprietario terriero di provincia, uomo
volgare, violento, lussurioso e immorale, capace soltanto di volgere a suo vantaggio gli
avvenimenti, la cui vita è guidata dalla smodata ricerca del piacere e del denaro.
Questi si era sposato dapprima con Adelaida Ivanovna Mjusova, che abbandona il marito
e il figlio Dmitrij, allevato come orfano in casa dal servo Grigorij sviluppando sentimenti
contrastanti nei confronti dei genitori. Dmitrij (Mitja), esteta e intelletuale, combattivo,
passionale, impulsivo, in forte contrasto e in competizione con la figura dominante del
padre, si avvia ad esserne la copia, pur disprezzandolo; crescerà libertino quanto lui ma
con un fondo di moralità sconosciuto e incomprensibile al genitore. Egli è un sognatore;
nelle sue allucinazioni gli appare il demonio e il suo doppio, il fratellastro Smerdjakov
Infatti Fëdor si sposa poi una seconda volta, con Sofia Ivanovna, dolce e bella, ma che, per
il comportamento rozzo e insensibile del marito (e i tradimenti), si ammalerà di una sorta
di epilessia e morirà precocemente. Da queste seconde nozze sono nati Ivàn e Aleksej. Ivàn
cresce chiuso in se stesso, intelligente, filosofo razionale diviso tra la volontà di credere in
Dio e lo scetticismo: è una figura tipicamente dostoevskiana di intellettuale tormentato,
che dall'alto della sua cultura disprezza tutto e tutti, altero e distaccato, manovra l'anima
semplice e meschina di Smerdjakov, che rinnega gli atteggiamenti mondani e licenziosi del
padre e del fratello Dimitrij, personaggio fortemente contraddittorio, altalenante tra il bene
e il male e amante degli eccessi (caratteristici del popolo russo). Aleksej (Alëša), il più
giovane e puro fino all’ingenuità, pavido, insicuro, di carattere solare, cerca la verità nella
fede, per la quale è disposto a sacrificare ogni cosa (infatti all'inizio del romanzo si trova in
un monastero).
Intanto Fëdor ha anche un altro figlio, questa volta illegittimo, da una donna
completamente folle. Non sarà mai accettato dalla famiglia e sarà cresciuto dal padre come
un servo; tuttavia rende al padre un servilismo e una dedizione eccessivi, e ciò è indice del
suo disagio psicologico. Infatti il ragazzo ha un carattere simile a quello della madre, pazzo,
passivo e sofferente di epilessia. Egli è facile preda delle dottrine filosofiche del fratello Ivan,
pieno di odio e di rancore, specialmente verso Dmitrij, per il quale prova una profonda
gelosia. Ciò che li accomuna è l’odio per il padre: il romanzo si apre infatti con una lite
furibonda per questioni di eredità tra Dmitrij e Fëdor. Infatti l’elemento che sconvolge il
romanzo è il parricidio: l’uccisione di Fëdor, che assurge a simbolo di un male oscuro, che
si traduce nella disgregazione della famiglia, nel conflitto generazionale, nel crollo delle
vecchie regole della società patriarcale, nel rifiuto della religione dei padri.
Di questo omicidio viene accusato ingiustamente Dmitrij, in quanto sia lui che il padre si
erano innamorati della stessa donna, Grusenka. Dmitrij crede che lei sia fuggita con il
padre e si introduce a casa di lui con un pestello; tuttavia lo trova solo e decide di scappare
per trascorrere un’altra notte ad ubriacarsi e divertirsi, notte in cui incontra Grusenka:
questa si renderà conto di amarlo veramente, lo dissuaderà dall’idea di suicidarsi e gli
resterà accanto per tutta la durata del processo, fino alla morte per febbre celebrale. La
lunga digressione del processo non è che l'occasione per un giudizio sulla giustizia umana
e, più in generale, sul "mondo" e sulla facilità con cui esso si inganna nel giudicare le cose.
E così tutti e quattro i fratelli fanno la fine che meritano: Aleksej scompare schiacciato tra
le pieghe della narrazione, Ivan, al processo, confessa la verità ma non viene creduto, e
Dimitrij si lascia condannare per orgoglio. In realtà il vero assassino è Smerdjakov che,
incoraggiato dai discorsi parricidi di Ivan, ha ucciso il padre soltanto per soldi e finirà
suicida una volta che sarà abbandonato da Ivan, che impazzisce nella sua torre di cristallo.
Il processo di elaborazione della colpa è molto diverso per ognuno dei fratelli: tutti, in
qualche modo, sono colpevoli o corresponsabili della morte del padre. In questo
senso, ognuno di loro è un “doppio” dell’altro. Ivan, che finirà per ammalarsi di una specie
di febbre cerebrale, capisce presto di essere il “vero” assassino per le sue teorie
sull’inesistenza di Dio e sul «tutto è permesso»: egli incontra il diavolo durante
un’allucinazione e racconta ad Alëša una leggenda scritta di suo pugno sul Grande
Inquisitore, dove accusa Dio di aver lasciato gli uomini in balia di quel libero arbitrio che
essi, nella loro piccolezza, non sono in grado di sostenere. Alëša invece non ha saputo,
nella sua purezza, scorgere l’incombere della tragedia; egli diventa si innamorerà di Liza,
che lo accuserà di essere stato un vile nel non voler mettere un freno alla spirale di violenza
in cui è piombata la sua famiglia. Infine Dmitrij è colpevole per aver desiderato la morte
del padre: perciò si fa carico della colpa di tutti e accetta la condanna ai lavori forzati,
perché "noi tutti siamo colpevoli per tutti […]”. I tre fratelli costituiscono dunque una sorta
di “unità morale”, un personalità collettiva di cui ognuno rappresenta un aspetto: la
passione, la ragione, l’amore cieco.

Protagonista e narratore indiretto del romanzo è Aleksej, il figlio minore, il silenzioso


testimone di tante disgrazie che affliggono la famiglia dei Karamazov. Questo permette a
Dostoievskij di essere al tempo stesso dentro e al di fuori dai fatti, narratore onnisciente e
onnipresente. I tre fratelli rispecchiano le mille sfaccettature dell’animo umano, positive e
negative; essi attraversano una grande trasformazione spirituale e morale, e percorrendo
vie diverse arrivano alla rigenerazione, avvicinandosi all’idea di amore universale che è alla
base dei romanzi di Dostoevskij. Dmitrij dice infatti: “Noi siamo nature vaste,
karamazoviane, […] capaci di riunire in sé tutti i contrasti possibili e di contemplare
contemporaneamente tutti e due gli abissi, l’abisso che è al di sopra di noi, cioè quello dei
supremi ideali, e l’abisso che è sotto di noi, cioè quello della più abietta e più fetida
degradazione. […] Siamo vasti, vasti come la nostra amata madre Russia, noi mettiamo
tutto insieme e conviviamo con tutto!”
Il conflitto familiare, la colpa, l’accettazione della sofferenza, la ricerca dell’amore
universale, la libertà di scelta, l’esistenza di Dio: sono questi i temi fondamentali attorno a
cui si muove il romanzo. Con la scusa del delitto, del parricidio e dell'analisi psicologica
dei componenti della famiglia, l'autore riesce ad effettuare una minuziosa descrizione della
dimensione monastica e religiosa della Russia di fine Ottocento: egli idealizza una Russia
arcaica e inventata, che contrappone ad un Occidente razionalista, ateo o cristiano in
senso sbagliato, "eretico". Lo stesso Dostoevskij del resto, religioso e grande credente, era
costantemente diviso tra l'ortodossia e il senso laico della sua personalità, che invece
faceva di lui un uomo colto, liberale: perciò egli seppe rendere bene questo dualismo
filosofico e morale di Alëša e di Ivan. Mentre il primo, fedele discepolo dello starec Zosima,
si contraddistingue per la sua fede, il secondo si caratterizza in quanto rappresentante del
nichilismo dominante della sua epoca. Dunque quest'ultimo, da ateo, rifiuta il mondo
creato da Dio perché in esso è permessa la sofferenza dei bambini. Questa negazione di
Dio e della giustizia divina lo porta ad affermare che “tutto è permesso” e che l'uomo-
schiavo dovrebbe essere sostituito dall'uomo-dio, l’Übermensch nietzschiano, per ridonare
all'umanità quel barlume di libertà che essa ha ceduto al cristianesimo, in linea con quanto
era già stato proclamato dagli enciclopedisti (Voltaire su tutti, infatti viene spesso tirato in
ballo nel corso della narrazione). Per Dostoevskij la "salvezza" della Russia è solo in una
rigenerazione cristiana del paese, nell'opposizione ai vecchi sistemi di vita monastica,
fondati sull'osservanza esterna e superstiziosa delle regole, e in una nuova concezione del
cristianesimo come religione naturale” (di cui Rousseau fu ideatore, ripreso da Aleksej);
vale a dire quel “culto interiore” che si fonda unicamente sulla dedizione a quel Mistero
che ci avvolge e del quale è impossibile venire a capo.
OPINIONE
Così si comprende l'odio dell'umanista Dostoevskij contro la scienza e il progresso occidentale che servono
solo a truccare il bestiale karamazovismo che governa la società capitalista europea e anche la Russia, in
quanto accetta la tale società. La critica di Dostoevskij, però, contrappone a questa civiltà e società capitalista
europea (e russa) una società idealizzata e fantastica, russo ortodossa. Così si spiega il fatto che Mitja,
durante il processo, prenda come simbolo della scienza europea Claude Bernard (sul cui metodo si basò Emil
Zola quando elaborò la teoria del romanzo sperimentale), portatore di un momento negativo dal punto di
vista mitologico-cristiano e della scienza ostile all'umanità. La posizione di Dostoevskij è unilaterale, tuttavia
non è priva di ragioni. Le ragioni che gli venivano suggerite dalla realtà russa, dalla realtà che egli esprimeva
di un popolo contadino violentemente scosso dall'ingresso di strutture economiche diverse che si
realizzavano sulla sua pelle. Anche il processo contro Mitja venne imposto secondo i "metodi scientifici"
rabbiosamente scherniti dall'autore: e, in effetti, dal punto di vista formale, il processo è perfetto, il povero
Mitja è, secondo tutte le regole del diritto, della ragione e della scienza, incastrato e si becca vent'anni di
lavori forzati.

Si tratta di un romanzo molto complesso e ricco di spunti di riflessione: racconta di un


dramma morale, reale, in cui non tutti i figli beneficiano della stessa attenzione dai genitori,
in cui si viene abbandonati da piccoli e si è costretti ad un’amara esistenza. Fëdor incarna
la figura del padre padrone.
E infine con Katerina Ivanovna, Dostoevskij è la società benpensante, la falsa ipocrisia, il
dolore di una donna costretta a celarsi dietro un ventaglio di perbenismo, obbligata dagli
eventi a compiere scelte che non vorrebbe fare, fidanzata e non riamata con Dimitrij,
privata da questi dell'onorabilità, amante respinta del fratello Ivan, che l'ama ma non
l'accetta, testimone a carico nel processo, che esibisce una lettera tesa a discolpare
Dimitrij, e la contempo a infangare se stessa, ma che questi orgogliosamente rifutaPRIMO
LIBRO

Nel primo libro, STORIA DI UNA FAMIGLIA, Dostoevskij traccia la storia dell'infanzia dei tre
Karamazov figli e presenta il padre: il primo libro ha il compito di condurre il lettore al momento in
cui ha inizio la storia vera e propria narrata nel romanzo.

SECONDO LIBRO

Nel secondo libro, mediante l'episodio dell'incontro nella cella del monaco Zosima, l'autore
presenta tutti gli eroi principali insieme; e ciascuno, secondo il suo carattere e il suo destino, si
esprime; le contraddizioni e gli odi si rivelano, l'inimicizia del vecchio Fjodor Karamazov e dei suoi
figli appare qui nella sua nuda asprezza. In questo libro compare Zosima, e si preparano così gli
eventi successivi, dedicati alla morte di Zosima e all'uscita di Aljosa dal monastero. Con una
soluzione da maestro Dostoevskij in un colpo solo, per così dire, permette all'osservatore di
afferrare i caratteri e i rapporti dei protagonisti. Tuttavia - in un certo senso - questi conflitti e la
tragedia interiore si rivelano a un piano non del tutto profondo.

TERZO LIBRO

L'approfondimento procede invece nel terzo libro, rigorosamente legato al precedente: nel terzo
libro si allude, proprio nell'approfondire il contenuto dei rapporti tra i figli e il padre, all'inevitabile
conclusione tragica. I partecipanti alla tragedia (Fjodor Karamazov, Dmitrij Karamazov,
Smerdjakov, Grusen'ka, Katerina Ivanovna ecc.) agiscono nel libro presentandosi nelle loro varie
sfaccettature; il terzo libro è uno dei più analitici; le varie linee fabulistiche si annodano e si
intrecciano. Il lettore (io) continua a salire lungo la curva ascendente che porterà all'acme
drammatica dell'opera, o a scendere sempre più negli abissi delle coscienze. Il che è lo stesso:
perché negli abissi delle coscienze si determinano le condizioni che porteranno all'orrore e poi alla
catarsi.

QUARTO LIBRO
L'analisi a volte spasmodica dei personaggi e delle situazioni continua nel quarto libro, il "libro degli
strazi", in cui si definiscono altre contrapposizioni (Zosima e Ferapont) ed entrano personaggi
come Iljusa e suo padre.

QUINTO e SESTO LIBRO

Importante è la funzione compositiva del quinto libro e del sesto libro, nel senso che, in ciascuno di
essi, sono sviscerati due personaggi chiave dal punto di vista ideologico, Ivan Karamazov (nel
quinto libro, PRO E CONTRO) e padre Zosima (nel sesto libro, IL MONACO RUSSO).
Ivan è rilevato come "ispiratore" dell'omicidio che verrà compiuto da Smerdjakov, Zosima è
l'ispiratore di Aljosa, il "portatore di luce", e attraverso Aljosa è colui cui si devono il riscatto di
Grusen'ka e quindi anche di Dmitrij Karamazov, e il sorgere della speranza "dei bambini". Inoltre
Ivan e Zosima esprimono sentimenti, pensieri, intuizioni, aspirazioni, condivisi in un modo o
nell'altro dagli altri personaggi. Ivan e Zosima sono uniti da un rapporto di opposizione: i loro ideali
sono opposti.
La drammatica problematicità di questa contrapposizione o, meglio, della visione del mondo di
Ivan è espressa nei due capitoli centrali del quinto libro, intitolati LA RIVOLTA e IL GRANDE
INQUISITORE.
Ne LA RIVOLTA Ivan si dimostra sottile e abile interlocutore di Aljosa: è capace di suscitare in lui il
dubbio quando gli racconta la terribile vicenda di quel generale che, per punire un bambino di otto
anni che gli aveva azzoppato un cane, lo fece inseguire e sbranare dai cani. Il mite Aljosa non
resiste e alla precisa domanda di Ivan, se si dovesse fucilarlo, quel generale, risponde
impetuosamente di sì. Ma Ivan è impietoso e continua...
"Immaginati di essere tu a costruire questo edificio dei destini umani con lo scopo di rendere felici
gli uomini, di dar loro infine il riposo e la pace; ma per questo sia necessario e inevitabile
tormentare una sola minuscola creaturina, quella stessa bambina..." (Ivan si riferisce a un altro
episodio, narrato prima, di una bambina seviziata dai genitori).
Aljosa non accetterebbe di essere "architetto", ma, alla dichiarazione religiosa e appassionata del
giovane novizio, Ivan risponde raccontando il suo "poema", la leggenda del Grande Inquisitore, cui
ho già accennato e che è, appunto, uno dei centri se non il vero centro ideologico del romanzo. Lo
spirito "euclideo" di Ivan si manifesta nella sua profonda protesta contro la chiesa, la religione, lo
Stato; si manifesta in una forma lucida di negazione anarchica, accompagnata dal più profondo
disprezzo per gli umili, per la massa della gente semplice, incapace di governarsi e che ha
bisogno, appunto, del miracolo e dell'autorità, come voleva il Grande Inquisitore: di qui il fallimento
del Cristo, che è il Cristo di Aljosa. Ma il discorso di Ivan suscita in Dostoevskij la naturale
necessità di contrapporre al discorso ateo, geometrico, "euclideo" di Ivan, la predica cristiana
dell'amore e della salvezza. E il capitolo successivo è appunto dedicato a Zosima, personaggio per
nulla convenzionale e appassionato nella sua viva fede. È Zosima che dovrebbe "rispondere" alle
domande angosciose di Ivan; rispondere con una concezione vissuta, non ecclesiastica, della
religione; per rendere più convincente il suo personaggio Dostoevskij attinse con fine senso
dell'arte al ricco patrimonio della letteratura popolare religiosa russa.
Tuttavia anche Zosima non riesce a rispondere del tutto: o, per lo meno, il tono della sua "risposta"
non è così forte e convincente (disperatamente convincente) come il tono delle parole di Ivan.

REALISMO E LEGGENDA

È stato giustamente osservato che il carattere dei primi sei libri del romanzo è "statico", nel senso
che non si ha uno sviluppo dell'azione; i primi sei libri sono in sostanza dedicati alla confessione
diretta o indiretta dei personaggi davanti ad Aljosa che, senza essere l'eroe di questi sei libri, ne è
però il centro compositivo.
La seconda parte del romanzo, formata pure da sei libri (dal settimo al dodicesimo), è diversa dalla
prima nel senso che la funzione compositiva di Aljosa va diminuendo, tanto che centri compositivi,
specialmente nel undicesimo e nel dodicesimo libro, sono Mitja e Ivan. Nella seconda parte
prevale l'azione, che ha uno dei suoi culmini nell'assassinio di Fjodor Karamazov e nel processo
(ma anche nell'indimenticabile scena dell'osteria, o nell'incubo di Ivan, che viene visitato dal
diavolo-doppio): direi anche che i libri settimo ÷ dodicesimo sono un susseguirsi di scene di alta
drammaticità: mentre la drammaticità nei primi sei libri è prevalentemente ideologica e mentale, e
si esprime in parole, nei libri della seconda parte è prevalentemente dinamica, e si esprime in
movimenti, incontri frenetici, colpi di scena, deliri, allucinazioni. Assistiamo al tormentoso processo
del rinascere di un essere umano, al ritorno di Grusen'ka, cioè, alla sua dignità, che ella
riconquista con l'amore e la sofferenza e la dedizione di sé.

SETTIMO LIBRO

L'inizio di questo riscatto si ha già, nel settimo libro, nell'episodio della visita di Rakitin e Aljosa alla
ragazza (che aveva intenzione di sedurre il novizio). È interessante osservare che Grusen'ka
ritrova un punto d'appoggio spirituale proprio in Aljosa e che Aljosa, sconvolto dalla morte di
Zosima (e dallo scandalo scatenatosi poi a causa dei mancati miracoli e del puzzo di cadavere che
emanò dal corpo del vecchio subito dopo la morte, nonostante tutte le leggende popolari sui santi
e con gran gioia sia dei miscredenti sia dei monaci avversari, che poterono subito dire che Zosima
non era stato certo un santo), Aljosa dunque ritrovò nel colloquio con Grusen'ka la fede
nell'umanità e nell'amore.
Abbiamo qui tutta una serie di immagini e scene realiste intrecciate con racconti ed episodi di
derivazione leggendaria popolare: c'è il matrimonio spirituale di Aljosa e Grusen'ka, premessa
della salvezza della ragazza; c'è il racconto, famoso, narrato dalla ragazza, della "cipolla": cioè di
quella donna malvagia che, dopo la morte, andò all'inferno, nel lago di fuoco e il suo angelo,
volendo salvarla disse a Dio che una volta, una sola volta, aveva dato una cipolla ad un
mendicante; e Dio concesse alla donna di aggrapparsi a quella cipolla per uscire dal lago di fuoco;
già stava per uscirne, quando gli altri dannati vollero aggrapparsi anch'essi per essere salvati; ma
la donna, malvagia com'era, si mise a tirar calci per ributtarli giù: e così la cipolla si sciolse e la
donna ricadde nel lago di fuoco "dove brucia tuttora".
"Quella donna cattiva sono io" dice Grusen'ka ad Aljosa : ma da questo momento ha inizio il
riscatto morale di Grusen'ka, la sua speranza.

IL DRAMMA DI MITJA

OTTAVO LIBRO

L'ottavo libro è il libro di Mitja: Dmitrij Karamazov è preso come da un delirio, egli è innamorato
pazzo di Grusen'ka, e con le sue proprie mani, nelle sue forsennate azioni (colpisce anche il
vecchio Grigorij e crede di averlo ucciso) si costruisce la trappola che lo porterà alla condanna.
Mentre il povero Dmitrij è in preda al suo delirio amoroso, che non lo porta però ad oltrepassare il
limite estremo del parricidio, un altro, Smerdjakov, con fredda premeditazione uccide il vecchio
sensale Fjodor Karamazov.

NONO LIBRO

La baldoria all'osteria si chiude, nel nono libro, con l'arresto di Mitja. Mitja e Grusen'ka, che si sono
ormai "trovati", sono travolti dalla catastrofe. Ma attraverso la catastrofe che distrugge le loro
illusioni, essi maturano nella loro coscienza quel rinnovamento che si realizzerà come una specie
di processo sotterraneo negli ultimi libri dell'opera. Accanto al processo giudiziario difatti (processo
cui è dedicato il dodicesimo libro) si svolge come un sotterraneo processo di risveglio spirituale di
Dmitrij, si realizza l'incontro profondo tra Dmitrij e Grusen'ka da una parte, e Dmitrij e Aljosa
dall'altra.

DECIMO LIBRO

Il Tema dei bambini, sviluppato nel decimo libro, vuol essere un'altra risposta, o, meglio, un
approfondimento della risposta di Aljosa alle domande di Ivan e alla tragedia di Mitja. Il tema dei
bambini prepara la visione dell'armonia, dell'amore universale, del mito della resurrezione
nell'amore con cui si chiude il romanzo.
Questo tema permette all'autore, da una parte, di rivelare un'ennesima volta le sue grandi doti di
scrittore realista, nel rappresentare la realtà della vita dei bambini nella città, le loro interne
sofferenze in un ambiente innaturale, l'influsso della povertà sul carattere (l'orgoglioso Iljusa e il
suo coraggio nel difendere il padre insultato). Inoltre, come ho già osservato, il tema dei bambini
permette a Dostoevskij di dare al romanzo una dimensione epica, oltre la contemporaneità,
incidendo nella prospettiva di tre generazioni (i vecchi, come Fjodor o Zosima, i contemporanei,
come i fratelli Karamazov, Grusen'ka ecc., e il "futuro", come gli amici di Iljusa, di cui è seguita la
formazione psicologica, il rinnovamento, poiché, secondo l'autore, saranno proprio essi a rinnovare
la Russia).

UNDICESIMO LIBRO

Al centro dell'undicesimo libro c'è la tragedia di Ivan: i suoi colloqui con Smerdjakov, che poi si
impiccherà (nel raffigurare Smerdjakov, Dostoevskij ha non poco calcato la mano, facendone un
personaggio assolutamente negativo, una specie di demone malvagio di ascendenza romantica); e
poi il delirio di Ivan, durante il quale gli compare il diavolo sotto l'aspetto di un intellettuale di
provincia meschino e vanitoso ad un tempo; questo diavolo è, naturalmente, la proiezione dell'"io"
autentico e naturale di Ivan, è l'incarnazione dei lati negativi del suo carattere, il suo "io" meschino
e filisteo sotto il linguaggio razionalistico. Il "colloquio" tra Ivan e il diavolo (non senza
reminescenze, appositamente ricordate da Dostoevskij nel corso della"conversazione" stessa, di
Lutero che scagli il calamaio contro il demonio e di Faust che s'incontra con Mefistofele) è senza
dubbio tra le scene più potenti dell'opera.

DODICESIMO LIBRO

Quest'ultima scena, nel dodicesimo capitolo, arriva alla conclusione con una lucidità di scene e
una serrata concatenazione di fatti e discorsi tali da rendere perfettamente il pathos polemico di
Dostoevskij nei confronti del formalismo legale in atto, accompagnato com'era da disinteresse per
l'umanità dei "soggetti".

EPILOGO

L'epilogo, come ho detto, è dedicato, da una parte, alle voci sulla preparazione della fuga di Mitja,
che non sappiamo se si effettuerà veramente, se riuscirà: ma possiamo pensare anche a un fine,
escluso dal romanzo, relativamente lieto, e quindi credere nella riuscita dell'impresa, tanto più che
ad essa concorreranno due forze notevoli: i soldi di Katerina Ivanovna e la facilità a farsi corrompere
dei poliziotti di scorta dei convogli dei deportati.

Potrebbero piacerti anche