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Gianni Celati

Traduzione, tradizione e riscrittura

a cura di
Michele Ronchi Stefanati
Introduzione di
Nunzia Palmieri

Postfazione di
Daniele Benati

con una lettera inedita


di Gianni Celati a Enrico Palandri

Contributi di
Patrick Barron
Olga Campofreda
Alessandro Carrera
Maria Teresa De Palma
Alberto Della Rovere
Monica Francioso
Arianna Marelli
Matteo Martelli
Giacomo Micheletti
Filippo Milani
Jacopo Rasmi
Marina Spunta
Michele Tenzon
Aracne editrice

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

Copyright © MMXIX
Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale

www.gioacchinoonoratieditore.it
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via Vittorio Veneto, 


 Canterano (RM)
() 

 ----

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

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senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo 


Indice

 Introduzione
Nunzia Palmieri

 Lettera di Gianni Celati a Enrico Palandri, Bologna,


 dicembre 

 An Assemblage of Passages by Gianni Celati


Traduzione di Patrick Barron

 Celati, Dylan, Joyce. Un triangolo non impossibile


Alessandro Carrera

 Gianni Celati and the allure of the voice: from Voci da terra
to Notizie ai naviganti
Marina Spunta

 La teatralità in Celati: tradire la tradizione


Monica Francioso

 Da Alice disambientata agli anni Ottanta: metanarrativa e


fisicità nelle scritture di Palandri, Tondelli e Piersanti
Olga Campofreda


 Indice

 Riscrittura è traduzione. La tradizione come canto e di-


scanto in Gianni Celati
Alberto Della Rovere

 Il Tom Sawyer di Celati: tra polifonia dell’espressione e


ambiguità del significato
Arianna Marelli

 Memoria e Inciampo in Case sparse: visioni di case che crol-


lano di Gianni Celati
Michele Tenzon

 Spazi, sperimentazioni, scribi: Celati e il macrotesto perec-


chiano
Maria Teresa De Palma

 La Favola della Botte e il “felice vanverare”


Filippo Milani

 « Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . ». Gianni Celati e Lino


Gabellone traduttori di Céline
Giacomo Micheletti

 Come Alice, attraverso Alice ovvero «tutto il quotidiano


riscritto e rivisitato»
Matteo Martelli

 Scrivendo su carta che brucia. L’aldilà delle parole di Gianni


Celati
Jacopo Rasmi
Indice 

 Postfazione
Daniele Benati

 Gli Autori


Gianni Celati
ISBN 978-88-255-2229-7
DOI 10.4399/978882552229713
pag. 179–196 (marzo 2019)

« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . »


Gianni Celati e Lino Gabellone traduttori di Céline

G M∗

Qui si dichiara il zergo delli bari,


che parlando tra lor non sono intesi,
come se nati fusser nella Irlanda.
Chi legge adunque ivi avrà palesi
lor detti e quanto fanno in ogni banda,
noto fia ’l tutto a chi leggendo impari.
Nuovo Modo de intendere la lingua zerga

Nel crogiolo di studi intrapresi dal giovane Celati nel corso degli
anni Sessanta, in una vorace flânerie intellettuale che incrocia di-
scorso critico, sperimentazione narrativa e traduzione, lo spettro di
Louis–Ferdinand Céline sembra poco per volta assumere il rilievo di
un interlocutore in absentia, un complice di quel disperato riscatto
dall’inibizione tipografica cui Celati sottoporrà la forma romanzo.
Cresciuto alla scuola bolognese dell’anglista Carlo Izzo, Celati
esordisce nel  con l’accorata versione della Favola della botte swif-
tiana; e proprio in Swift l’antenato, prefazione che schiude su alcune
delle più durature ossessioni celatiane, viene per la prima volta discus-
sa quella linea di «regressione linguistica e psichica» che dall’autore
irlandese si spinge fino a Joyce, Beckett e all’uso satirico del paradosso
in Céline, a minare le fondamenta narcisistiche e paranoiche della
modernità.
L’autore francese fa nuovamente capolino in vari scritti del ,
vero annus mirabilis: dalle pagine di Parlato come spettacolo (sul n. 
de «il verri», a febbraio) dedicate all’enfasi gestuale inscritta nella sin-

Università degli Studi di Pavia.
. Gianni C, Swift l’antenato, in Jonathan S, Favola della botte, Sampietro, Bologna
, p. .


 Giacomo Micheletti

tassi céliniana, agli articoli apparsi sul «Caffé» di Giambattista Vicari,


dove Celati (che nel frattempo, sotto stretta sorveglianza einaudiana,
lavora al referto brut di Comiche) conduce una personale campagna di
rilancio dell’invettiva letteraria, soppiantata nelle moderne scritture
da un’ironia eufemistica, «di tipo oraziano», cui contrapporre nel
rinnovato segno di Swift e Céline una satira «di tipo giovenalesco»,
costruita attorno a «un’immagine centrale di violenza» tesa «a di-
latare i fatti a proiezioni di portata globale e catastrofica, a vedere
nella singola immagine di corruzione non il sintomo d’un monda-
no malcostume, ma il segno d’una dimensione infernale». Ancora
una volta Celati insiste sulla funzione catartica del discours comico,
ora arricchita delle teorie del canadese Northrop Frye, alla cui luce
andranno letti i rimandi alla natura «demoniaca» della satira, agli
archetipi arcaici della persecuzione e dello smembramento che pul-
lulano nei campioni della vituperatio : fine dell’invettiva, ricondotta
ai meccanismi rituali di fertilità, sarà di riportare iperbolicamente
a galla, per il tramite delle opposizioni simboliche, il rimosso della
civiltà, di «risolvere le contraddizioni tra desiderio e realtà» . È quin-
di all’interno di questa retorica della provocazione — «una parola
eccessiva che cura gli eccessi mimandoli», scriverà a proposito del-
l’ippocratico Rabelais — che lo choc céliniano, le nere intemperanze
di una scrittura umoristica basata sull’«appello al lettore per mezzo
dell’aggressione nervosa» si saldano alla poetica in fieri di Gianni
Celati.
Affiancato da Italo Calvino, sul finire dello stesso ’ il Nostro è
impegnato nell’ambizioso progetto di una rivista finalmente capace
di ripensare il potenziale mitopoietico della letteratura, il cui pro-
gramma presto si volge alla grande tematica archeologica del rimosso
storico, sotto l’egida di Nietzsche, Benjamin, Foucault, Melandri: ter-
zo uomo di «Alì Babà» (alle cui discussioni prenderanno poi parte il
bretoniano Lino Gabellone e un giovane Carlo Ginzburg) è il france-
sista Guido Neri, traduttore e consulente per Einaudi che, mediatore

. Gianni C, Si comincia con Swift. Per ricuperare quel “più”, «Il Caffè»,  (), p. .
. Gianni C, Manifesto dell’invettiva, «Il Caffè»,  (), p. .
. Gianni C, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, a ed., Einaudi,
Torino , p. .
. Gianni C, Swift l’antenato, cit., p. . Dove si noterà, in questo scioglimento di
un’inibizione per vie comiche, una traccia di quell’abreazione freudiana che, fatta reagire con
il déblocage di cui scrive L–S in L’efficacité symbolique (), spesseggerà nei saggi di
Finzioni occidentali ().
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

tra il cenacolo bolognese e la Casa editrice, in questi mesi svolge


un’accorta opera di promozione del sulfureo Céline, patrocinandone
l’accoglienza in catalogo e stimolando un mutamento decisivo nella
politica di via Biancamano .
Ed è così che, invitato dal compare alle celebri sessioni einaudiane
di Rhêmes–Notre–Dame, nell’estate del ’ Celati può proporsi, con
Gabellone, come traduttore di Entretiens avec le professeur Y (),
pamphlet dialogato che con la sua mescidanza di immagini program-
matiche e sgangherati siparietti può ben figurare tra i capolavori
di poetica del Novecento: un bislacco manifesto in cui il resoconto
di un’intervista tra il fool céliniano e il diffidente colonnello Réséda
vira, tra scoppi di incontinenza urinaria e feroci aggressioni all’élite
delle Lettere, in un’allucinata fuga per le vie di Parigi, illustrazione
di quello «style–métro» che della rapace pulsione emotiva al fondo
della petite musique — «l’émotion du langage parlé à travers l’écrit» —
è simbolo primo .
La Casa, forsanche confortata dalla relativa innocuità del testo —
lo scandalo delle pagine antisemite non può non urtare l’anima della
maison torinese —, avvia le trattative con Gallimard, e la conferma di
Davico Bonino raggiunge Bologna nei dintorni di Natale. Alla pronta
risposta di Celati, datata ° gennaio , segue l’invio del contratto;
consegna:  marzo.
Facile intuire quanto l’impianto comico–invettivante dell’operetta
consuoni con gli interessi di Celati, Gabellone e della brigata di «Alì
Babà», se è vero che la maschera verbigerante di Céline sarà poi
eletta dallo stesso Celati a figura di uno «statuto giullaresco della paro-
la: la parola come effetto di scompenso fisiologico (riso, emozione),

. Cfr. Mario B, Marco B (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista
–, Marcos y Marcos, Milano ; Marco B, Nella grotta di Alí Babà, in Settanta,
a ed., Einaudi, Torino , pp. –. Sull’operato del bolognese Neri presso la redazione
romana della Einaudi tra  e , si veda Guido N, Esperienze francesi. Da Vigny a Leiris, a
cura di Gian Carlo R e Giulio U, Pendragon, Bologna . Celati e Gabellone
firmeranno, tra gennaio e ottobre , le versioni di Colloqui con il professor Y (cui questo scritto
si limita) e del più arduo Ponte di Londra, titolo apocrifo per il postumo Guignol’s Band II. Il
solo Celati, nel  e sempre per Einaudi, pubblicherà la prima parte di Guignol’s Band per poi
rivedere l’intero dittico in vista della definitiva «Pléiade» Einaudi–Gallimard del . In questi
paragrafi, si fa riferimento a documenti conservati presso l’Archivio Einaudi di Torino.
. Per le travagliate vicende redazional–editoriali dell’opera e l’importanza che essa riveste
nell’automitografia céliniana, cfr. rispettivamente Henri G, Notice, in Louis–Ferdinand
C, Romans. Édition présentée, établie et annotée par Henri Godard, vol. IV, Gallimard, Paris
, pp. –; Henri G, Poétique de Céline, Gallimard, Paris , pp. –.
 Giacomo Micheletti

quindi come pratica del coinvolgimento brutale» . Di più: come ha


notato Valerio Magrelli, gli Entretiens danno fiato a quel nazionalismo
linguistico che, appaiato alla mistica inviolabilità della propria scrittu-
ra, è alla base dell’intransigente avversione céliniana per la pratica
traduttiva ; in questo senso, l’opera lancerebbe al lettore straniero
un’implicita sfida al vertere, e non è escluso che la coraggiosa prof-
ferta di Celati raccolga tale provocazione. D’altra parte, come già il
Caproni traduttore di Mort à credit aveva dolorosamente sperimenta-
to, l’idioletto céliniano, attingendo ai bruschi costrutti del parigino
popolare e allo speciale serbatoio degli argots, sembrerebbe di per sé
confutare quell’adamitica integratio linguarum cui ogni traduzione,
per Benjamin, idealmente rimanda (tanto più che — così lo stesso
Céline — «sauf mimétisme intellectuel très rare, les traductions sont
imbéciles et dégoûtantes») .
L’allegoria (se non «mitologia») del metrò come «magico viaggio
narrativo nel sottosuolo» suggerirebbe poi un ulteriore spunto, ché di
sottosuolo, anzi, di «creature del sottosuolo» scriverà Celati nel breve
Céline Underground sul «Caffé» di ottobre–dicembre , a poche setti-
mane dalla stampa dei Colloqui con il professor Y: dove underground andrà
senz’altro letto, ben oltre l’allure contestataria, come sinonimo di «ogget-
to archeologico» in quanto «segnalazione d’un confine», manifestazione
di quel «modo di lavorare sulle soglie, di ripercorrere la costruzione di
barriere, l’instaurazione di leggi, le memorie di rimozioni» che è infine
l’archeologia, «la scienza dei margini» .
Non altrimenti Céline è detto rappresentativo di «un limite di
separazione decisivo»:

. Gianni C, Trobadori, giullari, chierici ovvero La tradizione ideologica del riso, «Periodo
Ipotetico», – (), ora in Gianni C, Carlo G, Animazioni e incantamenti, a cura
di Nunzia P, L’Orma, Roma , pp. –: , citato da Andrea C,
Frammenti di un discorso sul comico. «Archeologia di un’archeologia» per Gianni Celati: –, in Il
comico nella letteratura italiana, a cura di Silvana C, Donzelli, Roma , p. .
. Valerio M, Il tema della traduzione nella metafora dello «style–métro», in Tradurre
Céline, a cura di Gianfranco R, Università di Cassino, Cassino , pp. –.
. L’appunto si deve a Pietro B, Da Céline a Caproni. La versione italiana di Mort à
Credit, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia , p. . La citazione céliniana
compare in epigrafe a La corte dell’ira, postfazione di Giuseppe Guglielmi alla sua traduzione
di Nord, Einaudi, Torino , p. : una sibillina nota a pie’ di pagina ringrazia Ezio Raimondi
per avergli permesso, con il suo aiuto, «di apporre l’“exergon” soprascritto in tutta la sua
sfrontata ambivalenza».
. M, Il tema della traduzione, cit., pp. –.
. Gianni C, Finzioni occidentali, cit., pp. –.
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

La buona coscienza dell’europeo civilizzato illuminista e la cattiva coscienza


del nazista bianco potrebbero confondersi o essere confuse e precipitare
l’inneggiatore nel caos dell’indistinto. È il timore magico che salta fuori, il
timore di rivelare un contagio contratto privatamente, come l’assuefazione
ad una droga, che porta il contagiato alla connivenza col nemico. Dove
finisce la buona coscienza dell’europeo civilizzato illuminista e comincia
l’anarchia della ribellione permanente, lì c’è un piccolo spiraglio verso il
caos o l’irrazionale, dal quale bisogna tenersi a debita distanza perché è lo
spiraglio demoniaco della rabbia e dell’orrore che non quadra con i buoni
propositi dei nostri uomini di cultura.

E conclude, firmando uno dei più suggestivi ritratti di Céline:


Così Céline vive nel sottosuolo, con tutte le streghe dell’inconscio dell’uo-
mo bianco e nazista, popola i sogni delle scaltre menti con le perverse
ambivalenze della colpa, affascina e ripugna, eccita la necrofilia latente di
cui la nostra civiltà non può liberarsi. [. . . ] Adesso forse l’industria culturale
può fare diventare Céline un Grande Scrittore; ma sarebbe ora di smettere
di parlare di lui e di cominciare a parlare delle sue maschere comiche, an-
ch’esse creature del sottosuolo come tutte le maschere comiche della nostra
civiltà.

La scrittura–metrò di Céline promuove dunque uno scorcio


omeopatico sulle ombre dell’uomo moderno e i suoi malsani ri-
tuali, e il motivo della maschera comica come diaframma ctonio tra
la Legge e l’Espulso (l’outcast, secondo i totemici Buster Keaton e
Samuel Beckett) tornerà ne La scrittura come maschera, posto da Celati
in chiusura dei Colloqui.
Contentiamoci per il momento di tornare nell’appartamento
bolognese di via Gandino, da cui Gianni Celati, il  gennaio ,
indirizza all’einaudiano Giulio Bollati una lunga, sugosa lettera di
doléances contrattuali «sul problema della traduzione»:
Non so se Guido Neri si sia espresso in proposito, ma tradurre una pagina
del buon Ferdinand vuol dire sempre mettersi a fare i giochi di prestigio
con le parole. Céline non lo traduce il letterato che ha voglia di farsi un
po’ di quattrini col dizionario alla mano e qualche ricordo di francese; ci
vuole uno specialista o un patito (eccomi qua). Il noto Giovanni Macchia ha
dichiarato che il Nostro è quasi intraducibile, e non esagera mica. Bisogna
avere nell’orecchio un bel po’ di argot e di sottolinguaggi familiari che
nessun dizionario riporta e che di solito per iscritto non compaiono; per mia
buona fortuna ho la moglie mezza francese e mi capita di poter lavorare con
uno specialista in materia, quindi me la cavo in famiglia, per così dire. Come

. Gianni C, Céline Underground, «Il Caffè»,  (), p. .


 Giacomo Micheletti

lo stesso Ferdinand spiega, qui è tutto un problema di risonanze “parlate”,


da rendere con bella astuzia e pazienza non tanto o non solo attraverso
invenzioni lessicali, soprattutto attraverso l’invenzione d’un timbro, senza il
quale non si cava il ragno dal buco.

Con questo «timbro» nell’orecchio (lo stesso organo al centro


della metaforica di Céline e dell’autore di Comiche) possiamo ora
affacciarci al laboratorio dei Colloqui con il professor Y.

Una volta noi avevamo questa abitudine di inventarci situazioni, metterci


addosso quel che capita, parlarci per ore con gerghi e accenti strani, recitare
senza copione e andare avanti per molto così partendo da uno spunto casuale.
Uno di noi aveva studiato mimo e fatto cabaret, ed era meglio impostato
dell’altro. L’altro scriveva romanzi recitandoli a chi capitava, con mosse,
smorfie, falsetti e ritmi sincopati. Avevamo un po’ l’idea della coppia buffa,
ma nessuna idea che queste cose dovessero uscire dal privato.
Poi assieme abbiamo tradotto due libri di Céline [. . . ], e per riuscire
a farlo abbiamo dovuto recitarceli, metterci a posto la voce e i gesti, fare
lavoro sul personaggio. Abbiamo capito tutto una sera che siamo andati a
vedere un film con Jean Gabin in francese, e tornati a casa abbiamo cercato
di ripetere la sua parlata in argot, con gesti e tutto. Per un anno abbiamo
tradotto Céline in questo modo, con un lavoro che era in un certo senso
teatrale: riscrivere qualcosa modellato sulla voce e su una gesticolazione.

Così comincia La bottega dei mimi, volumetto fotografico di Carlo


Gajani pubblicato nel  dalla Nuova Foglio Editrice: un lavoro
felice, che testimonia la passione coltivata da Celati e Gabellone per il
corpo matto e la tradizione del mimo; e una premessa a quattro mani
rivelatrice, che invita a riconoscere, dietro gli sketch arlecchineschi im-
mortalati da Gajani, il sorprendente ricordo delle sessioni traduttive
del Settanta.
Invitato nel  al convegno cassinese Tradurre Céline, sarà quindi
Lino Gabellone a confermare quanto questa esperienza di traduzione
sia dipesa

dal rapporto immediato fra i due traduttori, dalla vicinanza fisica [. . . ], dal-
l’intesa/discordia che ne derivava, dallo scambio ad alta voce di battute e
repliche che dovevano piegarsi ad una prosodia (si lavorava ad esercitarci
l’orecchio, a imparare ad ascoltare la musique, piccola o grande che fosse, pia-
notement o scatenamento jazzistico, sinfonia o accordéon). L’ipotesi era che la

. Gianni C, Lino G, Spiegazione del libro, in La bottega dei mimi, La Nuova
Foglio Editrice, Pollenza–Macerata , ora in C, G, Animazioni e incantamenti, cit.,
p. .
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

traduzione non potesse scaturire da una semplice trasposizione da scrittura


a scrittura, a tavolino, ma che dovesse passare attraverso una “lettura”, e
una rilettura, fortemente intonativa, in qualche modo giocata, come se di-
ventasse chiaro nel momento critico del tradurre che il canone soggiacente
a quasi tutti i testi di Céline non era tanto romanzesco quanto teatrale, voice
e gesture appunto. La presenza dell’altro, come attore o come spettatore,
permetteva di far apparire le diverse maschere, le interpretazioni, i ritmi,
di avere una risposta, più o meno attendibile, ad una trovata: eccitazione,
riso, resistenza, rigetto. Forse quel modo di tradurre andava a scapito di una
“precisione” che ritenevamo in ogni caso impossibile, per cui ci si adattava
agli à peu près, semantici, grafici, céliniani privilegiando il ritmo.

Quella di Celati e Gabellone — non altro ci suggerisce quest’ul-


timo parlando di «ipotesi», di «momento critico del tradurre» — si
presenta allora come una versione interpretativa tramite cui verificare
la carica fàtica e la speciale performatività della scrittura céliniana, in
una circolarità che dal testo, dando corpo ai suoi fantasmi intonativi,
si incarna nella traduzione attoriale e nelle sue istanze pragmatiche
per poi depositarsi nuovamente sulla pagina, segnata dai meccanismi
dialogici suggeriti dal canovaccio. Una traduzione all’improvviso, po-
tremmo dire, che esplicitamente discende dalle premesse teoriche
del già citato Parlato come spettacolo, in cui Celati, facendo tesoro
dei rilievi del maestro Izzo sull’acting shakespeariano, esplorava la
retorica tipografica del romanziere francese, la sua riattivazione di
una «funzione partecipativa» e incantatrice all’interno della pagi-
na scritta, delineando una raffinata partitura dei soupirs d’autore e
ammiccando all’universo performativo che, sottotraccia, agiterà le
successive versioni: la bagarre parossistica dei Marx Brothers, la peste
artaudiana, il delirio isterico.
Sulla scorta dei diretti interessati, si può comprendere quanto la
volontà di preservare l’impulso perlocutorio che è il motore della
parola céliniana orienti questo lavoro di traduzione, la cui scommessa
consisterà in primo luogo nel ricreare quel senso di conturbante
familiarità («il ritmo») su cui la sincopata petite musique poggia, e
nel riformulare così quelle movenze che, sconosciute alla sintassi
italiana, problematizzano notevolmente lo statico concetto di fedeltà
alla lettera.

. Lino G, Inventare la lingua. Su Céline, tra lettura e traduzione, in Tradurre Céline,
cit., p. .
. Gianni C, Parlato come spettacolo, «il verri»,  (), ora in C, G,
Animazioni e incantamenti, cit., p. .
 Giacomo Micheletti

Una delle principali croci del traduttore di Céline è infatti rap-


presentata, ben prima del lessico popolare–argotico, dai caratteristici
fenomeni della morfosintassi orale, i quali, di fronte all’impervio uso
d’autore, impongono di sondare il ventaglio del parlato nelle sue varie-
tà più basse (tanto più per quegli elementi, come il pronome familiare
ça, per cui la lingua d’arrivo difetta di un equivalente); nella generale
aderenza al cursus céliniano, l’ardita «rilettura» teatrale di Celati e
Gabellone potrà così permettersi frequenti licenze, finemente ricor-
rendo ai più svelti strumenti di movimentazione dell’ordine frasale
quali dislocazioni, anacoluti o ridondanze pronominali, in un autono-
mo lavoro di animazione del dettato volto a rendere, più che l’ordine
univocamente impresso da Céline al proprio periodare, l’enfasi ad
esso sottesa, in una trama di ritocchi e piccoli aggiustamenti.
E come spesso in quell’estenuante processo di negoziazione che
ogni traduzione comporta, simile tendenza andrà però inquadrata
in una più ampia strategia di interazione con le movenze célinia-
ne, per cui l’atteggiamento traduttivo, oscillando tra contrazione e
rilassamento, sembra fin dalle prime battute manifestare un gusto
musicale per la variatio, in un’esecuzione riguardosa ma mai servile
dell’originale.
Un esempio tipico si ha di seguito, dove, di concerto con «cam-
pare» per gagne–pain (nel trito argot della prostituzione, il fondo-
schiena femminile!) , si noterà la sostituzione dell’anacoluto le re-
spect/Paulhan con una squillante dislocazione a destra, corrisponden-
te al legame semantico tra son e Paulhan:
 C’est son gagne–pain le respect, Paulhan!
>  Paulhan ci campa, col rispetto!

È quella di Celati e Gabellone un’estrosa postura traduttiva che,


indifferente al puntiglio filologico, replica alle complementari moda-
lità céliniane di ridondanza e sintesi attraverso la ricerca di un corri-
spettivo verosimile della concitazione prima; qui sotto, una soluzione
. Il testo adottato è quello dei Romans Gallimard, che riproduce la lezione del .
Quanto alla traduzione, si fa riferimento alla princeps Einaudi del . Principali strumenti
consultati sono il Dictionnaire de l’argot français et de ses origines curato da Jean–Paul C,
Jean–Pierre M e Christian L, Larousse, Paris ; Le Trésor de la Langue Française
informatisé (TLF); il Dizionario francese–italiano Boch, a ed., Zanichelli, Bologna ; il Grande
Dizionario della Lingua Italiana fondato da Salvatore Battaglia, UTET, Torino – e il
Dizionario storico dei gerghi italiani. Dal Quattrocento a oggi di Ernesto F, Mondadori,
Milano .
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

ridondante è immediatamente bilanciata dalla flessione esclamati-


va della relativa francese; uno scarto ritmico tipico della musique di
Céline:
 des milliers de plus en plus gros plans. . . des cils qu’ont des un mètre de
long!. . .
>  delle migliaia di primi piani. . . sempre più in primo piano. . . ciglia da
un metro in su!. . .

Un sistema di compensazioni per cui l’ellitticità del francese


parlato, con le sue giunture giustappositive e il costrutto avver-
biale mort avec, stimola per reazione la dislocazione in apertura e
l’implicitazione del parce que causale:
 on a assassiné Denoël, esplanade des Invalides, parce qu’il avait trop
édité. . . eh bien moi je suis mort avec!. . .
>  Denoël l’hanno assassinato, all’Esplanade des Invalides, aveva pubblica-
to troppe cose. . . ebbene io sono morto con lui!. . .

In certi casi, prevedibilmente, la sintassi traduttiva tenderà a stem-


perare la concentrazione originaria; talvolta, con richiami anadiplotici
e perifrasi che svolgendo il secondo segmento ne fiaccano la scura
percussività:
 qu’emportent tout de même le Goncourt?. . . que vous avez vous,
piteusement loupé, vous genial!
>  che pure vincono i Goncourt. . . quei Goncourt che lei, gran genio, si è
sempre lasciato scappare in modo pietoso!

E tuttavia, quando la rappresa paratassi originale si dilata in un


siparietto allestito dalle tematizzazioni e dalle coordinate temporali,
non si potrà negare la gradevolezza del risultato, consono del resto
alla vis mimica dell’autore:
 [. . . ] il a promis monts et merveilles, il devait abattre des forêts. . . le
premier taillis le fout à genoux!. . . il demande grâce!. . .
> / [. . . ] lui che prima ha promesso mari e monti, che doveva abbattere
foreste. . . al primo cespuglio che gli taglia le gambe!. . . lui chiede grazia!. . .

Non per niente Guido Neri, scrivendo a Davico Bonino nel giu-
gno del Settanta, plaudirà alla «maggior scioltezza e evidenza comica»
di alcuni passi del testo italiano; a tal proposito, si può forse segnalare
il ricorso a voci verbali pleonasticamente rinforzate da una particella
 Giacomo Micheletti

avverbiale, uso settentrionale e substandard che rimarca la qualità da


gag della scena:

 je les lui ramasse. . . il les reperd encore!. . .


>  glieli prendo su. . . e lui giù che li fa ricadere!. . .

Uno sguardo ai tipici costrutti asindetici di Céline potrà confer-


mare la plasticità del fraseggio di Celati e Gabellone, per cui se in
alcuni passi si dà un temperamento restaurativo:

 cet angoissé monstre grelottant hoquetant. . . bégayeur à chaque carre-


four?
>  questo mostro angosciato con brividi e scossoni. . . che ad ogni incrocio
balbetta?

Poco oltre, la traduzione ricalca fedelmente gli scatti della prosa


d’autore:

 les enfermant bouclant


>  sprangandoli chiudendoli

Fino ad una autonoma occorrenza, con la briosa sostantivazione


dei due aggettivi:

 c’est l’écrabouillure très infecte! honteuse!


>  spiaccicamento baraonda! vergogna!

L’atteggiamento traduttivo pare insomma suggerire, sul piano


morfosintattico, l’empatica comprensione della scrittura céliniana e
dei suoi stilemi. Abito che emerge anche nella resa della congiunzio-
ne que, da Céline impiegata ipertroficamente e che talvolta i traduttori
sperimentano in libertà, accogliendo (in risposta alle pur prevalenti
omissioni) le screziature del francese popolare nella sintassi italiana:

 Qu’il réclame!. . .


>  Reclama!. . .
 Il glapit!. . .
>  Che squittisce!. . .

Prima di abbordare il versante lessicale, ci si può soffermare,


tornando alla testimonianza dei due traduttori–mimi, sulle spie che
della loro lettura performativa il testo dei Colloqui può rivelare: più
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

ancora che i numerosi (ma altalenanti) casi di attualizzazione, con la


resa dei tempi narrativi nell’hic et nunc teatrale, l’adito a un qualche
sospetto lo danno alcune oscillazioni pronominali all’interno dei
dialoghi:

 Plus un camion qui vous harponne! l’artiste que vous êtes!
>  Neanche più un camion che ti inchiodi! che artista che è!

Interessante come l’alternanza tra la seconda persona singolare


(un tu generico) e la terza (il Lei rivolto all’intervistatore Réséda) porti
alla luce la costitutiva duplicità dell’allocutivo vous, contemporanea-
mente rivolto, com’è nella natura del testo teatrale, e alle figure in
scena e al pubblico; il lieve cortocircuito in questione, nonché espli-
citare un’ulteriore insidia traduttiva, intensifica così la colloquialità
della versione italiana e il contatto fàtico con il lettore (che in Céline,
in ogni caso, è sempre uno spettatore).

Come ha ricordato Marie Hédiard, la principale difficoltà per il


traduttore céliniano non risiede tanto nell’utopico intento di una
trascrizione mot à mot della lingua di partenza, quanto piuttosto nel
«transposer en italien le statut symbolique que revêt la langue par-
lée dans le contexte linguistique français et qui est à l’origine du
caractère désacralisant de l’écriture célinienne» . Se il francese di
Céline, con il suo amalgama di forme orali e voci popolari–argotiche,
incarna una generale istanza di rivolta nei confronti della realtà co-
stituita e del suo educato codice, si tratterà di ricreare, in seno alla
lingua della traduzione e alla sua storia, un affine antagonismo tra
la norma scritta e un sottocodice altro, condiviso di cui già Caproni
acutamente deplorava l’assenza all’interno del panorama idiomatico
italiano: una lingua «che avrebbe potuto far coi secoli il popolo, se
avessimo avuto una storia unitaria e quindi [. . . ] una lingua popolare,
lentamente maturatasi nei secoli e fino ad oggi tramandatasi, unica
da un capo all’altro della penisola». E di fronte all’ipotetica adozione
di un italiano su base dialettale, le perplessità non mancano: «È pos-
sibile travasare la storia della Zone nelle historie d’Italia? È possibile

. Marie H, Les niveaux de la langue à l’épreuve de la traduction: le cas du “que” célinien
dans «Voyage au bout de la nuit», in Tradurre Céline, cit., p. .
 Giacomo Micheletti

trasportar la zone sul Naviglio o sul Tevere o sull’Arno?» . Ma, d’altra


parte, «si dans la traduction les langues qui s’opposent sont l’italien
et les dialectes [. . . ], quelles implications politiques peut–on en tirer
sur les groupes qui s’affrontent ainsi?» .
Possiamo, ancora una volta, lasciare a Gabellone il privilegio
di esporre, ossequiando apertis verbis la lungimiranza caproniana, i
presupposti lessicali dei Colloqui:
Per il traduttore italiano [. . . ] non esiste un centro simbolico di una lingua
“altra”, parlata, subalterna; da qui sorge il problema di una scelta, dell’elezio-
ne di un’area, o di elementi sparsi che si possano far convergere in un’area
linguistica abbastanza omogenea, in una koinè. A partire da questa scelta,
si poteva tentare un’operazione di reinvenzione di un tono. Quello dello
“sproloquio”, dello “strologare” dell’imbonitore, della voce del giullare, ci
era sembrato [. . . ] il modulo più adatto, al di là del semplice parlato familiare,
per rendere la vocalità céliniana.

E con una significativa delimitazione geolinguistica, la soluzio-


ne di Celati e Gabellone consisterà nel recupero di numerose voci
gergali d’area nord–orientale, tra il polo della furfanteria, che dagli
albori furbeschi si spinge fino alla malavita ligéra della Bassa Padana
(è il caso di smorfire < bouffer, «mangiare», voce quattrocentesca che
si conserva in varie parlate moderne), e quello non trascurabile degli
slang giovanili, con il loro ibridismo che accoglie innovazioni neo-
logistiche e sedimentazioni antiche (su tutte slumare, dal furbesco
lumare/allumare per «guardare», dai poetici lumi): una “controlingua”
ad alta temperatura espressiva che, attingendo al «perpetuo sotto-
suolo di tutti i gerghi, di tutte le parlate che la civiltà respinge» , dà
voce a un lessico dei margini, soddisfacendo per tale via l’impre-
scindibile condizione di «mimétisme intellectuel» posta dallo stesso
Céline. E come questi insiste sulla valenza simbolica e ludica degli
argots, piegandone l’originaria opacità verso una crescente familiarità
da parte del lettore, così Celati e Gabellone rifiutano la dimensione
criptica del gergo ricorrendo a voci note o agilmente comprensibili,
e sfruttandone le risorse condivise con il jars.

. Giorgio C, Problemi di traduzione, «il verri»,  (), poi in La scatola nera,
prefazione di Giovanni R, Garzanti, Milano , pp. –.
. Annie O, Les étapes de «Voyage». Traduire et retraduire, in Tradurre Céline, cit., p. .
. G, Inventare la lingua. Su Céline, tra lettura e traduzione, cit., pp. –.
. Gianni C, Nota introduttiva, in Louis–Ferdinand C, Il Ponte di Londra, Einaudi,
Torino , p. .
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

Ecco un florilegio della piccola, spavalda delinquenza che affolla i


Colloqui con il professor Y: cacciapila per gagneuse, «battona»; gran draghi
compagnoni < rusés drilles; galuppo lofiasso < larbin, «leccapiedi», in
compagnia dei draghi togassi < vrais–vrais, gli uomini del milieu; e
ancora, saraffo < faux derge, pop. «ipocrita»; il prestito macrò < ma-
quereau; puffarolo, lo scroccone/ladro, d’uso bolognese; salassadore
< camelot (arg. «voleur de rue», TLF); soffione, cioè la spia, dall’apo-
copato indic; e alcune voci centromeridionali ma note in tutta Italia
(magnaccia, pappa, pappone).
Dell’universo truffaldino compaiono nei Colloqui le geografie: la
buiosa, cioè il carcere (dall’arg. gniouf ), voce già quattrocentesca che
esplicita i crudi modi dell’inventività gergale; le fisionomie (la ghigna,
il grugno, la biffa); e, ovviamente, gli eterni antagonisti, les flics, con
una strumentazione che attinge ai principali attrezzi retorici del gergo,
dal prestito d’uso bolognese polismani (sul cui modello anglicizzante
troviamo anche un barmano) alle pule, fino al metonimico madama
col suo sarcasmo nei confronti della rispettabilità borghese.
Un piccolo spazio a sé merita la patacca, quasi un emblema dei
Colloqui: voce romanesca d’enorme diffusione, in epoca medievale
designava monete di scarso valore per poi estendersi a qualsivoglia
oggetto falso. Per il Céline di Celati e Gabellone, patacca è il romanzo
chromo, da chromolithographie, in senso figurato “cianfrusaglia”. I tra-
duttori rispettano l’accezione céliniana offrendo però un equivalente
dalle molteplici, duttili connotazioni:
 toutes les loques. . . avec plein de cils et plein de nichons. . .
>  tutte le sue flaccidose. . . tettazzone impataccate di ciglia. . .

Qui, il duplice complemento d’unione (alla lettera, «con un muc-


chio di ciglia e di tette») è svolto in un sintagma appositivo incardinato
sull’agg. impataccate, dal valore fig. di patacca per «macchia». E a se-
guire, un’allusione oscena, quasi borgatara, offerta dall’iperbolico
sanglant:
 quel chromos sanglants!
>  che patacche al sangue!

tanto da realizzare uno straniante arricchimento dell’originale


per vie traduttive, giocando con le possibilità traslate della lingua.
Numerose sono anche, nella koinè dei Colloqui, le voci d’ascenden-
za illustre, che proiettano sulla parlanza di Celati e Gabellone un velo
 Giacomo Micheletti

di comicità culta: strologare, smergolare (dal verso sgraziato dello smer-


go), e poi: i cancheri marci (< sapristis gâtés), micidiale juron nel solco
della migliore invettiva nostrana, da Ruzante e Ariosto in giù. Non
a caso ci si imbatterà in torme di fieri sacripanti e rodomonti, ovvie
antonomasie dalla tradizione cavalleresca: soluzioni confortate dallo
stesso Céline con un mon sacripant, a stuzzicare una corrispondenza
immaginativa tra la lingua di partenza e quella d’arrivo.
Nell’impasto linguistico del testo figura infine, accanto al lessico
zergo e alle pointes comico–letterarie, un drappello di regionalismi
veneto–emiliani, anch’essi di alta espressività: discutailleurs > ciaco-
loni; à foutre > a ramengo; rigoler > sganassare; décati > strafugnato
(«sgualcito, spiegazzato») diffuso in vari dialetti settentrionali, come
pure braghe.
La ricerca linguistica dei Colloqui, confesserà Gabellone, sconta un
debito nei confronti di un’esperienza decisiva per la cultura dell’epoca:

Avevamo tutti nell’orecchio in quegli anni gli accenti, le intonazioni delle


giullarate di Dario Fo in Mistero buffo, quella specie di koinè padano–ruzantina
così intensa e godibile, inventata e insieme comprensibile in tutta l’Italia del
Nord, ma anche, per la sua forza mimica e intonativa, nell’Italia intera. Quel-
la fu la base “tonale”, per noi, dello “sproloquio” céliniano. Naturalmente il
lessico non era del tutto trasferibile, e ci sembrò opportuno scegliere quei
vocaboli, quelle tournures che meglio si inserivano in un parlato più attuale.

È una confidenza importante, non tanto per le spie di una pre-


sunta fonte lessicale (non dirimenti: strolegh, parecchi boja a mo’ di
interiezione, l’aferetico cripante e poco altro. . . Anzi, colpisce in Fo
la presenza di rigulada, la cui corrispondente rigolade è, nei Colloqui,
sempre resa diversamente), quanto per l’esempio di una comicità
mimica, a forte coloritura settentrionale e dalle implicazioni sov-
versive: una comicità istrionica che trova nella “verbigerazione” del
Ruzante «che iera vegnù de campo» , antenato di Céline, un’autorità
spirituale, non meno che nell’ancestrale vocazione della teatralità
veneta al gioco plurilingue.
I principali elementi di scompiglio, l’italiano dei Colloqui li trae
piuttosto dal continuo dialogo con Céline e la sua vena trasfigurante.
Giusto due casi. Qui, un curioso doppio prestito:

. G, Inventare la lingua. Su Céline, tra lettura e traduzione, cit., p. .
. L’autore/interprete del Parlamento è infatti promosso a esplicito simbolo della poetica
archeologica in C, Finzioni occidentali, cit., pp. –.
« Tela, scavalla, glòppete, a palla!. . . » 

 confusieux, scrifouilleux–la–honte!. . .


>  confusiosi, scrafugliosi da schifo!. . .

Da una parte, una risuffissazione céliniana scrupolosamente rispet-


tata; dall’altra, un accrocco peggiorativo di ardua resa, tra il familiare
scribouillard, «scribacchino», griffonner, «scarabocchiare» e il peggiorativo
–fouilleux, cui i traduttori replicano con un fonoespressivo (regionale?)
scrafugliosi che riecheggia l’aspro strafugnare e attiva una doppia armo-
nica, tra l’omoteleuto in –iosi e l’allitterazione con SChifo. E qui, un
eccentrico semicalco:

 peigne–cul
>  tondiculo

Peigne–cul (lett. “pettina–culo”) è lo «zoticone»: la soluzione tradutti-


va, con slittamento curiosissimo dal pettinare all’antico tondere, dà vita a
uno stravolto composto; il quale però, se si accetta quella componente
ludica che caratterizza ogni gergo, può anche essere visto, lasciata da
parte ogni creanza etimologica, come un sardonico riferimento alle
rotondità dell’oggetto in questione e un omaggio alla virtualità della
lingua in Céline. A influire più decisamente sul tessuto dei Colloqui è
però l’auscultazione dei procedimenti fonici del francese céliniano:

 toutes les furies lui foncent après! le déchirent!


>  tutte le furie lo braccano! lo sbranano!
 la publicité traque, truque
>  la pubblicità bracca, branca
 le Public vous agrafe! déchire!
>  e il Pubblico ti branca! ti sbrana!
[costrutti bimembri di chioccia musicalità]
 enbandelés dans leurs chromos! momies!
>  impacchettati nelle loro patacche! mummie!
[rispetto a un “imbendati”, impacchettati (per attrazione di patacche) inne-
sca un esplosivo movimento allitterante sul chrOMOs/MOMies di partenza]
 il fallait que je me grouille!. . . poulope, drope! artagada nouille!. . .
>  mi dovevo sbrigare!. . . tela, scavalla, glòppete, a palla!. . .
[qui, artagada è deformazione d’autore da tagada, onomatopeico per en
avant! che rimanda al galoppo: da cui glòppete, allusivamente attivato dallo
scavalla che, in questo senso, sembra illuminare anzitempo il sedimento
onomatopeico di artagada e la speciale sensibilità acustica dei tradutto-
ri: il gioco rimico–chiastico grouille–poulope/drope–nouille è ricreato infatti
nella rima interna scavalla/a palla, in un decasillabo bimembre scandito
dall’allitterazione delle liquide e delle occlusive]
 Giacomo Micheletti

Un campionario minimale, e spero rappresentativo, del rilievo


che i lazzi del significante assumono nell’esecuzione céliniana di
Celati e Gabellone.
In conclusione, un assaggio di plurivocalismo, con l’arguto seghe-
rie meccaniche che efficacemente conserva l’ambivalenza tonale del
sintagma originario, tra tecnicismo e oscenità:
 branlettes mécaniques
>  segherie meccaniche

Al punto che il pistolini da obitorio (< amusettes pour Morgues)


di poche righe sopra, in luogo di un più consono «trastulli», potrà
essere letto come un piccante à–peu–près gergale, ad arricchire la già
capace gamma di accezioni del termine («pistola di piccolo calibro»,
«membro virile» e perciò diminutivo del sett. pistola per «sciocco»).
Nei termini della migliore riflessione traduttologica (penso al
Berman de La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain), il lavorio di
trasbordo dell’originario repertorio céliniano in una koinè autoctona
(cui pure afferisce l’italianizzazione di numerose locuzioni) potrebbe
essere d’acchito bollato come operazione schiettamente etnocentrica,
addomesticante; l’ipotesi avanzata in queste pagine, al contrario, è
che la «reinvenzione» dei Colloqui, con il suo pastiche idiomatico
innestato su un fondo di espressività eslège, ambisca a interpretare
coraggiosamente la valenza archeologica della parola céliniana: la
voce del rimosso dall’ufficialità della lingua scritta, o il bazar delle
parlanze del sottosuolo.

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