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Nicoletta Orlandi Posti

Diario di un'Anarchica
1969-1978
Avvertenze

La storia qui narrata si base su documenti reali: rapporti di


polizia, articoli di riviste e di quotidiani nazionali, atti di
processi. Sarebbe difficile affermare che questo è un romanzo.

La stragrande maggior parte di ciò che viene qui narrato è


frutto della fantasia dell'autore, delle sue personali e per nulla
attendibili versioni dei fatti accaduti in Italia tra il 1969 e il
1978. L'informazione basata sui documenti rappresenta
soltanto l'infrastruttura su cui è costruita la finzione.

Sarebbe difficile affermare che si tratta di un testo fatto di


testimonianze, ovviamente questo è un romanzo.
Prologo

Io so chi c’era quella mattina del 16 marzo a via Fani. I so chi


sono i motociclisti che hanno partecipato al rapimento di Aldo
Moro. Io so perché si sono perse le loro tracce. Io so chi c'è
dietro l’assassinio del presidente della Dc. Io so chi ha ucciso
mia madre. Io so perché è morta. Io ho le prove di quello che
è successo. Io so chi ha rovinato la mia vita e quella di tante
altre persone. E so anche che dovrei raccontare tutto.

Mio padre mi sta aspettando a Formia. L’ho chiamato appena


ho letto quei fogli che mi ha lasciato sul comodino. Verrà a
prendermi al porto, all’attracco del traghetto che arriva da
Ventotene. Io, però, ancora non ho deciso cosa fare.
La ragione mi dice che devo andare dai carabinieri e fare una
denuncia: ho una dichiarazione firmata dalla stronza. Ma il
cuore no: se lo facessi, inevitabilmente verrebbe coinvolto
anche lui. Eppure non è giusto continuare a mantenere un
segreto così grande, che non coinvolge solo la mia famiglia.
Non si tratta più solo di un affare privato. La mia non può
essere solo vendetta nei confronti dei mandanti dell'assassinio
di mia madre, eppure mi fa uno strano effetto pensare che lo

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dovrei fare per la "stato" per la “giustizia”. Quello Stato e
quella giustizia che ancora non ha dato un nome all’assassino
di Pino Pinelli. Né a quello di Giorgiana Masi, né di Piero
Bruno, né a quello di tanti altri. Quello Stato e quella giustizia
ai quali mia madre, anarchica, non credeva più.

Il signor Aniello mi è venuto a prendere a casa con l'auto per


evitare che facessi tutta quella strada a piedi. Si meraviglia che
non ho neanche una valigia con me. La borsa è più che
sufficiente per portarmi appresso quei segreti, anche se
pesano come un macigno. Mi accompagna al porto e sale
come me sul traghetto per assicurarsi che trovi un posto
comodo, viste le mie condizioni di donna incinta. Di solito,
anche d'inverno, preferisco mettermi sul ponte per salutare chi
resta a terra e poi vedere sparire piano piano la mia isola,
quasi che la inghiottisse il mare per conservarmela immutata
al ritorno. Abbraccio forte il mio amico Aniello per cercare in
lui, un vecchio uomo di mare ricco di umanità e esperienza che
mi ha visto crescere, quel coraggio che non ho. Sprofondo
nella mia poltrona cercando di riordinare le idee e trovare una
soluzione. Eppure le uniche cose che mi vengono in mente
sono l’odio per Daniele che mi ha coinvolta in questa storia, la
rabbia verso mio padre che mi ha tenuto sempre all’oscuro di

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tutto, e il disprezzo per lo Stato che non è stato capace di
trovarsi da solo i colpevoli.
Mio padre mi sta aspettando a Formia. E io, con la sensazione
di vivere solo un sogno, riapro i diari di mia madre alla ricerca
di una soluzione. Se lei fosse stata al mio posto avrebbe
saputo certamente cosa fare. Io no.

UNO

Caspita è molto meglio che in tv. Appena è sceso dall’aliscafo


gli ho fatto segno con la mano per essere notata e lui mi ha
raggiunto con un enorme mazzo di fiori. Daniele mi ha
abbracciato forte spiegandomi che ogni fiore corrispondeva ad
un anno che non ci siamo visti. Sa di buono, di pulito. I capelli
spettinati, la barba incolta e pure le rughe attorno agli occhi
non riescono a nascondere i lineamenti delicati del viso, il naso
perfetto e le labbra carnose. Mi ha preso le mani e mi ha fatto
notare che non ho anelli. Neanche la fede (vaglielo a spiegare
che mi sono gonfiate anche le dita). Mi ha lasciato la sinistra
e mi ha alzato la destra come se volesse farmi ballare, invece
mi ha solo girato attorno scrutandomi. Dalla testa ai piedi. Non

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ha detto nulla, ma io so quello che ha pensato. E lo ho
anticipato per togliermi dall’imbarazzo: «Non le somiglio per
niente». «Molto più somigliante a tua madre di quanto tu
credi, Sole, fidati», mi ha contraddetto sussurrando, come si
trattasse di un segreto: «Affascinante allo stesso modo». Poi
ha tirato fuori dalla borsa che portava a tracolla un pacchetto.
Me lo ha dato chiedendomi di aprirlo non appena se ne fosse
andato. Ho promesso, nonostante la curiosità mi stesse
divorando.

Mi aveva telefonato da Formia chiedendomi se poteva


raggiungermi a Ventotene.

«Principessa sono Daniele», mi sono sentita dire da una voce


di uomo.

Ho avuto un tremito. «Daniele chi?».

«Daniele Impellizzeri e cerco Sole, la bambina di Maria». Ma


quella bambina è diventata una donna e lui è un attore
famoso.

«Cosa vuoi? Non ci vediamo da ventidue, ventitre anni e mi


cerchi qui? », ho ribattuto con un misto di diffidenza, curiosità
e disagio.

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«Hai ragione, Sole. Ma ho veramente bisogno di vederti. Sono
a Formia e se tu vuoi mi imbarco sull’aliscafo delle 17,30 per
venire da te».

E quello che ho provato dopo avergli detto sì solo tu, mamma,


lo puoi capire. Solo tu puoi capire lo stupore e l’ansia di
rivederlo qui nel volontario esilio dal resto del mondo. Un
allontanamento indispensabile per godere fino in fondo, fin da
subito, questa nuova esperienza della mia vita. Finalmente,
mamma, sto per diventare mamma, e voglio assaporare tutti i
cambiamenti umorali, fisici, psichici che questo comporta fin
dai primi mesi della gravidanza. Voglio stare sola con me
stessa, con la mia bambina, ma soprattutto con te. Ci sono
giornate in cui avverto la tua presenza in modo molto forte.
Come adesso che sto portando a casa nostra il tuo amico
Daniele.

Di lui ricordo poco. Un bell’uomo, un ciuffo al vento, qualche


conversazione movimentata in casa. Per me una carezza o un
sorriso. Ricordi sfumati che ho provato a mettere a fuoco in
quelle due ore che dalla telefonata mi restavano all'arrivo
dell’aliscafo. Ma niente. Quello che mi viene in mente mentre
sistemo un po' casa è solo l'immagine dell'attore, quello che
ho visto in questi anni in tv o al cinema. E per incontrare

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l'uomo famoso devo mettere a posto anche me stessa. Mi
guardo nello specchio chiedendomi cosa penserà “l’amico di
Maria” vedendomi. La risposta è una sola: una trentenne con
un pancione troppo grande e i vestiti troppo stretti. Ma come
fanno a dire che le donne incinte sono belle, penso mentre
cerco nell’armadio qualcosa di più decente da mettermi. Non
riesco a trovare niente di meglio che un paio di pantaloni
militari. Ovviamente non si allacciano, ma è sempre meglio di
quelle vecchie tute di mio marito che attualmente
costituiscono il mio guardaroba. Purtroppo anche le magliette
si sono ristrette. O meglio sono le mie tette che sono
cresciute. Del resto sono al settimo mese di gravidanza, ma mi
sento bene. Anzi benissimo e in men che non si dica ho lavato
i piatti accumulati nel lavandino, ho passato lo straccio, ho
dato una pulita al bagno e poi sono scesa al porto ad
accoglierlo sulla nostra isola.

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DUE

Daniele si è fermato a Ventotene solo due giorni. E devo


confessare che nonostante i timori iniziali, la sua visita mi ha
fatto molto piacere. È stato molto gentile e ha voluto che gli
mostrassi i posti di Ventotene che mia madre amava di più.
Per prima cosa l’ho accompagnato a punta Eolo. Abbiamo
attraversato il sentiero nascosto vicino al cimitero, rigoglioso,
in questo periodo dell’anno, di aloe, fichi d’india, ginestra, e
canne. Ci siamo arrampicati sulle rocce, abbiamo sbirciato
nell’area archeologica della villa di Giulia e gli ho raccontato di
quante storie ci inventavamo sugli antichi abitanti di quei
ruderi che all’epoca erano completamente abbandonati. Poi ci
siamo seduti sul nostro scoglio, quello in “pizzo in pizzo” dove
contavamo le barche e aspettavamo il traghetto. Siamo rimasti
in silenzio a guardare l’orizzonte. Ognuno assorto nei propri
pensieri. Stava per alzarsi e tornare indietro quando l’ho preso
per una mano e lo fatto rimettere seduto. «Perché hai voluto
vedermi?», gli ho chiesto. Avevo rimandato la domanda per
tutta la passeggiata aspettando il momento più adatto. Era

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arrivato.

«Speravo che me l’avessi chiesto, Sole. Voglio che tu sappia la


verità. E il regalo che ti ho portato ti aiuterà a farlo. Intanto
vorrei raccontarti una storia partendo dalla fine. Dall’ultima
sera che Maria ed io ci siamo visti. Mentre l’accompagnavo a
prendere l’auto mi ha confidato di aver scoperto chi sia chi era
quell’Igor che stava cercando da alcune settimane e di aver
capito chi era a gestire il sequestro Moro. Era nervosa perché
non sapeva come comportarsi. Le dissi di stare attenta. Mi
baciò per l’ultima volta». Quello che accadde due giorni dopo
è storia. La storia della mia vita.

Era il primo maggio del 1978 e mamma mi stava raggiungendo


a casa di nonna a Campagnano. Con la sua Renault 4 rossa si
è schiantata contro un camion che con il suo carico di 300
quintali di pomodori arrancava a 45 chilometri l’ora sulla Cassia
bis, subito dopo le Rughe. Non c'è stato nulla da fare. Il caso
fu frettolosamente archiviato come incidente. Ma Daniele mi
ha detto di non averci mai creduto.

«Innanzitutto», ha ripreso a raccontare accendendosi il sigaro


che teneva spento tra le labbra, «è curioso che il camionista
avesse deciso di fare quel viaggio proprio il Primo maggio.
Perché invece di godersi il meritato riposo della festa dei

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lavoratori si è messo alla guida»?

«Ma la cosa più strana», ha insistito, «è che niente dei suoi


effetti personali furono riconsegnati a tuo padre. Neppure i
suoi vestiti o le cianfrusaglie che aveva in tasca e nella borsa.
Così come non c’è più traccia al ministero degli Interni del
rapporto che la polizia stradale promise di inviare insieme ai
documenti e il materiale trovato nell’auto». Daniele mi ha
detto di essere convinto che ci fosse qualche cosa legata
all’indagine sulla quale tu stavi lavorando. Io non riuscivo a
capire di cosa stesse parlando e non so se mi interessa, visto
che ripensare alla tua morte mi fa star male.

«Secondo me quell’Igor di cui parla tua madre è Igor


Markevitch», ha continuato Daniele dopo aver aspirando
profondamente il cubano nel silenzio più totale. «Il 14 ottobre
1978 una fonte del Senato segnalò che un certo Igor aveva
avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle Brigate
rosse e che, in particolare, avrebbe condotto tutti gli
interrogatori di Moro, della cui esecuzione sarebbero stati
autori materiali certi “Anna” e “Franco”. La persona fu
identificata con Igor Markevitch, grande direttore d’orchestra
di fama internazionale, oriundo russo ed ora cittadino italiano,
coniugato con Topazia Caetani. Ma dopo alcuni accertamenti

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con l’intervento dei servizi segreti, non emersero elementi
concreti che indicassero nel maestro l’appartenenza alle
Brigate rosse. Sul finire degli anni Novanta, trapelarono strane
notizie sulla possibile presenza alle riunioni del comitato
esecutivo delle Brigate rosse di un personaggio di primissimo
piano. Fu il dissociato Valerio Morucci che parlò di un
“anfitrione”, di un personaggio misterioso che a suo dire
avrebbe messo a disposizione delle Br, per le riunioni, una villa
vicino a Firenze. Da successivi elementi emerse l’ipotesi che
l’uomo potesse essere proprio Markevicth, che tra le altre cose
aveva un passato nella resistenza nelle formazioni dei Gap».

Daniele si è alzato e si è avvicinato al precipizio. Ha proseguito


il suo monologo come se si trovasse su un palcoscenico, di
fronte al pubblico. La cosa mi ha dato un senso di nausea e
credo di essermi distratta. «Man mano che prendeva quota la
leggenda del Grande Vecchio, il senatore Pellegrino, presidente
della Commissione Stragi, riaprì le indagini su alcune
segnalazioni che le inchieste giudiziarie avevano tralasciato, e
a poco a poco prese corpo una storia straordinaria. Pellegrino
affidò le indagini al maggiore Massimo Girando dei ROS, uno
dei migliori uomini dell’arma dei carabinieri, direttamente alle
dipendenze del generale Mori, allora comandante generale dei
carabinieri. L’indagine, che si concluse nel 2001, portò alla

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scoperta di un intreccio di poteri forti, intelligenze segrete,
massonerie internazionali che sarebbero ad un certo punto
subentrate nella gestione del sequestro Moro. Mi ascolti?».

Sì, stavo ascoltando. Ma facevo fatica a star dietro a quello


che mi stava dicendo. Non ho osato però fare domande. Ho
avuto paura di sapere. «Igor Markevicth», ha seguitato
Daniele accendendosi il sigaro ormai spendo, «si scoprì che già
durante la prigionia del presidente Dc era noto al Sismi. Ma le
indagini condotte su di lui dal servizio segreto furono interrotte
da un intervento “superiore”. Era il primo maggio 1978,
mancava ancora una settimana al compimento della tragedia,
quando due agenti del nostro controspionaggio si recarono a
Palazzo Caetani, nella stessa strada dove otto giorni dopo
sarebbe stata ritrovata la Renault rossa con il corpo di Moro. I
due agenti, su richiesta del loro diretto superiore, cercavano
informazioni su un certo Igor Caetani, ma non c’erano
discendenti maschi nella nobile famiglia romana. L’ultimo era
Michelangelo che aveva avuto soltanto una figlia femmina,
Topazia, sposata con il musicista Igor Markevicth, direttore
dell’Accademia di Santa Cecilia, dal quale però era ormai
divorziata. Il domicilio di Palazzo Caetani era da tempo di
Hubert Howard, vedovo di Lelia, la cugina di Topazia morta da
oltre un anno. Le indagini si bloccarono per colpa di un non

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meglio identificato “ordine superiore”, forse impartito dal capo
del Sismi e ai due agenti, non restò che constatare che la
missione era fallita proprio lì, in via Caetani, quando si stava
per aprire la “porta segreta”».

In quel momento moriva mia madre.

In silenzio mi sono alzata e sono andata via con gli occhi pieni
di lacrime. Se avessi potuto lo avrei fatto scomparire, ma
Daniele mi è venuto dietro cambiando completamente
discorso.

«Non ha mai voluto che la raggiungessi qui», ha iniziato a


urlare mentre mi raggiungeva. Io avevo già ripreso a a ritroso
il sentiero in mezzo alle ginestre e le aloe. «E dopo la sua
morte non ha avuto più senso venire a Ventotene. Ora che
sento il profumo che tua madre ha cercato di descrivermi
un’infinità di volte, ora che vedo il colore del mare e lo
spettacolo affascinante di Santo Stefano ho finalmente capito
perché diceva che era un’isola magica. Un’isola che secondo
lei ha il potere di ammaliarti e di non lasciarti più andare via.
Ma queste sono cose che tu sai meglio di me».

È vero. Mia madre avrebbe voluto vivere qui a Ventotene.


Avrebbe voluto mollare tutto e trasferirsi qui con me. Ma poi

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c’era sempre qualcosa che la faceva desistere, cogliendo
comunque ogni occasione per tornarci, soprattutto d’inverno
quando c’erano al massimo duecento persone.

Ho invitato Daniele a togliersi le scarpe e a camminare scalzo,


così come faceva lei. Sostenevi che in questo modo si poteva
incamerare l’energia del vulcano del quale Ventotene
rappresenta solo la parte visibile, e io ci credevo. Ci credo. Ce
le siamo tolte entrambi ed abbiamo camminato a piedi nudi
fino a piazza Castello per prenderci l’aperitivo da Verde.

«Mia madre era innamorata di te?», gli ho chiesto tutto d’un


fiato cercando di cogliere sul suo viso un’espressione che mi
desse la risposta prima ancora della sua voce. Daniele si è
acceso ancora una volta il sigaro prima di parlare. Ha aspirato
e gli occhi si sono illuminati come la brace del toscano che
teneva in bocca. «Credo di sì. A modo suo, ma credo di sì».

«E tu?», lo ho interrogato ancora.

Anche questa volta la risposta non è stata immediata. Come se


volesse trovare le parole giuste: «Ho cercato di negarlo anche
a me stesso, ho fatto di tutto per non dimostrarglielo. Per
dimenticarla. Ma non ci sono riuscito, anche se mi faceva stare
male».

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«Mia madre ti faceva stare male? Zia dice che eri tu a farla
stare male», lo ho interrotto incuriosita, ma anche orgogliosa
di avergli estorto questa confessione che ribalta
completamente la tesi di Moira per cui tu eri vittima del fascino
di quell’uomo.

«Non la capivo. Diceva di amarmi, ma non avrebbe mai


lasciato tuo padre senza di te. Perchè a modo suo amava
anche lui, che la tradiva e la trattava come una pazza. Non
voleva privarlo della gioia di stare con sua figlia. Era una
donna libera, ma con un grande senso di responsabilità. Non
credo che Maria abbia mai avuto altre storie. Con me era
diverso, perché noi non eravamo amanti, noi stavamo anche
giorni senza vederci o sentirci, noi non ci facevamo promesse,
il sentimento che ci legava era qualcosa di trascendentale che
non aveva niente a che vedere con il sesso e il possesso.
Purtroppo trent’anni fa non sono stato capace di
comprenderne l’importanza, e oggi darei qualsiasi cosa pur di
abbracciarla, di baciarla, di rassicurarla che quello che lei
provava per me era esattamente quello che io provavo per lei.
Se solo avessi avuto il coraggio di dirle che l’amavo, forse il
destino sarebbe stato diverso».

Daniele mi ha guardato negli occhi in attesa di commento, di

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una replica a quanto mi aveva appena rivelato. Ma io non
sapevo cosa dire, perché non riuscivo a capire che effetto
avesse avuto su di me questa dichiarazione d’amore per mia
madre aggiunta ai dubbi che mi aveva insinuato a Punta Eolo.
Per fortuna si è avvicinata al nostro tavolo una signora per
chiedergli l’autografo. Rimessi i panni dell’attore famoso,
abbiamo iniziato a chiacchierare di cinema, dei suoi colleghi,
dei registi e dei film in circolazione.

Ho anche cucinato per lui. Pasta alla norma. Anche questo, ha


detto Daniele, era il segno che io sono uguale a mia madre.
Pure lei la preparava spesso, ma per il semplice fatto che era
una delle poche cose che sapevi cucinare. Però, ho evitato di
dirglielo.

Abbiamo parlato molto anche di lui. Si è sposato, ha


divorziato, e da qualche tempo sta con un’attrice più giovane
di venti anni. Non ha figli. Mi ha detto queste cose come se
non si rendesse conto di essere una persona famosa, che la
sua vita è pubblica, raccontata sui rotocalchi. In effetti non
sembra sentirsi un vip, non si comporta come la gente
immagina si comporti uno che ha successo, ha i soldi, fa la
bella vita. Mi è sembrato un uomo come tanti, con i suoi
pensieri, con il suo passato che è ancora troppo presente. In

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un certo senso mi fa persino tenerezza. Mi ha confidato di
essere stato spesso tentato di rintracciarmi, di vedermi, di
parlarmi, ma la timidezza ha avuto sempre il sopravvento. Poi
un giorno ha incontrato Francesco De Blase, un amico
giornalista di mia madre, che gli ha detto che ero incinta, che
stavo a Ventotene. Si è fatto dare il numero del cellulare, ma sì
è deciso a chiamarmi solo dopo diverse settimane.

«Comunque non erano tutte rose e fiori con Maria», ha detto


pure. «Era complicata, testarda, permalosa. Non c’erano vie di
mezzo con lei. Non si poteva dare niente per scontato. Quando
si metteva in testa una cosa, nessuno riusciva a farle cambiare
idea. Doveva rendersene conto da sola e poi forse ammetteva
di aver sbagliato. Ricordo di una sera che dovevamo andare ad
una festa, io però stavo male e gli dissi che non avrei potuto
accompagnarla. Mi disse di non preoccuparmi e ci andò con la
sua amica, Moira. In realtà alla festa ci andai. Ma non ebbi
modo di avvertirla perché a quel tempo non c’erano i cellulari.
Quando mi vide lì non disse nulla, non venne neanche a
salutare. Mi mandò tramite Moira un bigliettino con su scritto
sei uno stronzo. Poi scomparve. Non si faceva vedere in giro,
non rispondeva al telefono. Dopo un mesetto, un bel giorno,
mi aspettò fuori dal teatro con un regalo, un libro. Non volle
sentire spiegazioni, né volle più parlare di quella serata. Era

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fatta così. Però era anche molto dolce, sapeva ascoltare,
sapeva dare consigli. E poi era generosa, forse troppo. Anche
su questo litigavamo spesso. Mi comprava cose per la mia
casa, libri, dischi, quadri. Io mi sentivo in imbarazzo e glielo
dicevo. Ma era come parlare al vento. Anzi si offendeva
rispondendo che lei faceva quello che voleva».

Già, mia madre hai sempre fatto quello che voleva. Non le
importava nulla dei giudizi della gente, né di quello che
pensavano i suoi amici. Ad esempio, mi ha raccontato Daniele,
di quando ha chiesto a Ciccio, cioè a Francesco, di collaborare
con lei. «Era un ragazzo che voleva fare il giornalista e tua
madre gli insegnò il mestiere. Non gliene importava nulla che i
suoi compagni la mettessero in guardia perché frequentava la
facoltà di Giurisprudenza. Perché bastava questo, a quel
tempo, per farsi etichettare come “fascista”. A Maria non
interessava con chi era stato visto ripassare una lezione o
scambiarsi gli appunti. Gli interessava come si comportava. E
lui, a quanto diceva lei, si comportava bene. Ma questo per i
compagni, i suoi amici, era semplicemente assurdo,
inconcepibile. Ciccio ora è un apprezzato giornalista e questo
lo deve esclusivamente a tua madre. In generale Maria è stata
molto liberale nei rapporti interpersonali. Ha sempre avuto una
tendenza a mettersi nei panni dell’altro, ad assumere il punto

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di vista del suo interlocutore. E questo in politica era
considerato un difetto, ma a lei non importava. Detestava
l’arroganza di chi si sentiva dalla parte del giusto».

Ho voluto sapere da Daniele come si sono conosciuti, forse per


non pensare alle Br, al sequestro moro, a Igor, ai servizi
segreti, e a tutte quelle informazioni che mi aveva vomitato
addosso a Punta Eolo. Volevo che mi raccontasse cosa
facevano insieme. Di che cosa chiacchieravano. Ha iniziato a
parlare solo quando l’ho lasciato in veranda per andare a
mettere in tavola la cena, quasi avesse bisogno di non distrarsi
per ricordare.

«Venne a La Fede, la cantina di porta Porta Portese di


Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Avevamo messo in
scena il Risveglio di primavera di Wedekind. Era il 1972. Ci
siamo conosciuti lì. Mi disse che lo spettacolo le era piaciuto
molto, ma anche che assolutamente ignorante sul teatro
d’avanguardia. Mi chiese di farle da maestro. La prima lezione
gliela diedi immediatamente. Il termine “avanguardia” è un
termine improprio, dissi imitando uno di quei professori isterici
che insegnavano all’accademia. Le avanguardie riguardano e si
fermano a quelle storiche del primo Novecento. Da ora in poi
voglio sentirti parlare di “sperimentazione” o di “ricerca”. Lei

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scoppiò a ridere e mi assunse come suo insegnante
personale».

Daniele mi ha detto che a quel tempo era un giovane attore. Si


era iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica, ma ben presto
smise di frequentare perché riteneva quel sistema
d’insegnamento superato. Non teneva conto dei
sommovimenti politici e sociali, né dell’energia combattiva che
il teatro intendeva liberare per partecipare attivamente al
trionfo delle ideologie, alle battaglie del femminismo, alle
rivendicazioni del mondo gay, all’amore libero, alla libertà delle
droghe. Iniziò a frequentare le cantine teatrali dove le
compagnie altro non erano che gruppi formati perlopiù da
amici, amanti, sorelle, fratelli e molto raramente da scritturati.
Un po’ dei clan che si raccoglievano intorno a un’identità di
vedute e a un desiderio di esprimersi tramite il teatro. Tutti
facevano tutto. E non solo per via di una libera e consapevole
scelta. Le scarse possibilità economiche imponevano che chi
contribuiva a mettere in scena il testo potesse avere voce in
capitolo. Così, anche se lo spettacolo era siglato dal nome del
regista, veniva considerato un’elaborazione collettiva.

Daniele, da parte sua, ricorda per filo e per segno il loro primo
appuntamento al Beat 72. «Si chiamava così», mi ha spiegato

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subito dopo essersi complimentato per l’ennesima volta della
riuscita del mio piatto, «perché “beat” era una parola magica
che coniugava cultura e stili di vita, e 72 perché si trovava al
numero 72 di via Gioacchino Belli». Aveva un ingresso molto
piccolo, ha detto, con una stretta scala che andava giù
ripidissima. Si scendeva e c’era una specie di piccolo antro che
serviva da biglietteria, un corridoio usato come foyer e poi tre
stanze in successione, ad arcate. Un’altra sala, attigua
all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini.
L’unica entrata, e quindi anche l’unica uscita, era la porticina in
alto. «Era novembre 1972, la sera del debutto di uno
spettacolo che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli
italiani più visti anche all’estero: Le 120 Giornate di Sodoma di
Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima era molto irriverente,
dava pacche sul sedere agli attori scatenandosi in commenti
salaci, tanto erano tutti amici. Vasilicò scompose il testo di De
Sade sintetizzandolo in ventuno scene immerse in un buio
totale solcato da fasci luminosi. Maria», ricorda Daniele come
se fosse successo la sera prima, «rimase colpita
dall’interazione tra i frammenti testuali, gli interventi musicali
martellanti ed il ritmo impresso, tutto scandito sul vorticoso
movimento dato ai carrelli che trasportavano gli attori. Una
sinfonia di fantasmi lussuriosi che si materializzavano dal nero

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e giravano vertiginosamente alla luce, per poi ritornare ad
essere ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione che
indubbiamente colpiva per la centralità trionfale accordata al
corpo dell’attore. Un corpo nudo, ovviamente, perché era uno
dei più importanti elementi alla base del teatro sperimentale».

Con Daniele mia madre si vedevano quasi esclusivamente a


teatro, almeno così ha detto. Lei sempre tra il pubblico,
qualche volta con me in braccio, addormentata. Lui spesso sul
palcoscenico. Nel 1973 debuttò nel Pirandello, chi? di Memè
Perlini e si ricorda che mia madre gli ha regalato un enorme
mazzo di margherite. «Hai letto i Sei personaggi?», mi ha
chiesto. «Immagina di addormentarti e di sognarli. Questo era
lo spettacolo. Dei Sei personaggi rimanevano brandelli. C’era
una grossa invenzione visiva. C’era il personaggio-figlia sempre
impegnato in esercizi fisici molto difficili e complicati, noi attori
truccati vistosamente, suggestioni futuriste e surrealiste, con
un sguardo privilegiato alle arti plastiche. Ricercare i Sei
personaggi era veramente arduo… quello che bisognava fare
era lasciarsi andare al flusso onirico che colpiva lo sguardo
dello spettatore, e questo lo spettacolo riusciva perfettamente
a permetterlo».

Daniele ha detto di averle fatto conoscere pure Mario Ricci. Io

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ho ammesso di non averlo mai sentito nominare e lui mi ha
spiegato che in quegli anni era molto famoso perché
strutturava il suo lavoro come un gioco: prendeva un testo, lo
smontava, dopodiché poteva utilizzarne anche solo delle
immagini. Mi ha fatto l'esempio di Moby Dick, che sembrava
ambientato nell’antro delle streghe di un parco giostre,
completamente realizzato con scenografie di cartone dipinto.
"Nel finale", ha raccontato, "l’enorme bocca di Moby Dick
ingoiava il capitano Achab, intento per buona parte del tempo
della rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi
mazzi di carte, o a scrutare l’illusorio orizzonte con un
cannocchiale. A Maria piaceva tantissimo perché analizzava,
scomponeva e si irrobustiva con l’immissione di una visione
personalissima del mondo. E anche se a volte le proposte
vacillavano per mancanza di adeguati supporti teorici, c’era
una grande forza scenica e visionaria che l’affascinava. Ricci
divenne il suo autore teatrale preferito».

Io non ho voluto contraddirlo più di tanto, ma da quel che so


io, mia madre eri "fissata" per il Living Theatre. Considerava
Paradise, now!, che avevi visto con papà ad Avignone nel
1968, un percorso politico spirituale da seguire. Un percorso
da compiere per tappe, sull'esempio dei rituali religiosi, dove la
liberazione di tutti gli uomini, rappresenta l’ultimo atto, l’ultimo

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gradino di una scala simbolica verso la rivoluzione.

Daniele ha detto che lei non gliene ha mai parlato,


spiegandomi che il posto più politicizzato che frequentavate
insieme era Spazio Zero a Testaccio. Che era un costituito da
un tendone da circo, senza riscaldamento e dove si moriva,
letteralmente, di freddo. «Tua madre in questo spazio si
sentiva a casa», ha sottolineato Daniele. Lui meno. E a un
certo momento decise che era arrivato il momento di partire.
Se ne andò per un po’ in Toscana, poi lasciò l’Italia. E l’addio a
te è impresso nella sua memoria come se il tempo si fosse
fermato.

«Ancora ho negli occhi le parole di quella sera», mi ha detto.


«Di quando mi passò a prendere con la sua Renault4 rossa,
sventolando quei due biglietti, mentre suonava il clacson con
la sigaretta in bocca. Con i capelli ribelli e tutti quegli anelli
alle mani che quasi le impedivano di prenderci per mano.
Ancora me la ricordo. E nelle orecchie risento la colonna
sonora di quella giornata. Che è iniziata con Touch me dei
Doors ed è finita con il Testamento di Tito mentre riflettevo
sull’ultima discussione che avevamo avuto. Tua madre mi
passò a prendere a Pontedera, dove mi ero rifugiato nell’ultimo
mese. Era marzo del 1973. La sera prima avevamo litigato al

26
telefono. Continuavo a sostenere che eravamo diversi, perché
io sono comunista. E lei anarchica. O meglio, io forse sono più
anarchico di lei, sempre che ci siano dei gradi di anarchia, ma
darle ragione quando mi diceva che lo siamo tutti mi dava
fastidio. Per fare pace mi propose di andare al concerto di De
Andrè».

A questo punto Daniele si è fermato. Forse non sapeva se era


il caso di continuare. O forse voleva ricostruire i pensieri di
quel giorno in maniera logica.

«Forse ero cinico, forse troppo. Ma l’amore rende cinici, è


troppo grande per non esserlo, si rischia di morire dentro
prima che fuori. L’anarchia è anche quella del non divenire,
non divenire per essere sempre lo stesso, come fosse quella
rivoluzione permanente che Bakunin predicava perché non
cambiasse nulla nell’ordine, ma che dico ordine, del non
governo di nessuno, perché l’animale che è in ogni uomo non
arrivasse a voler comandare sugli altri. Fermarsi un gradino
prima e festeggiare su quello scalino con una rivoluzione
permanente. Aveva ragione, ma non glielo ho mai detto,
perché davanti a lei dovevo sostenere che Lenin ha applicato il
migliore dei mondi possibili e che gli anarchici sono solo degli
schiavi dei pensieri e fanno poca azione perché è faticosa. Un

27
po’ come la differenza fra i politici e i sindacalisti, i primi
parlano, gli altri si sporcano le mani con gli operai. Eppure così
io volevo vivere. In perenne rivoluzione con me stesso per non
cambiare più. Mi piaceva essere così, ascoltare e non parlare,
sperare ma non aspettare, cantare e non aprire bocca, amare
e non dichiararlo. Pavido e sicuro al tempo stesso. Era la
giusta strada per morire come Anna Karenina, sotto il treno
della fatalità senza aver mai comprato un biglietto per
partire».

«Quella mattina il mio umore era nero e mi sembrava che


nulla potesse farmi uscire da quella spirale di pessimismo su
ogni futuro pensabile. Ma era arrivata lei, con i due biglietti per
l’Eden, o meglio per la migliore approssimazione del paradiso
terrestre di quei due sfigati di Adamo ed Eva, traditi da un
banale morso a una mela bacata. Stavamo per andare a
sentire, vedere, godere e vivere Faber».

«Volevamo distruggere, ricostruire e curare il nostro nuovo


mondo, ma non ci eravamo accorti che il mondo che volevamo
costruire era quello che iniziava nella zona occipitale del nostro
cervello e finiva sulle papille della lingua, proprio un attimo
prima di dire qualsiasi cosa o tradurre un qualsivoglia idea. Era
amore, semplicemente amore. Ora lo posso dire, senza rischio

28
di sbagliare. Eravamo una sola idea e un solo inutile orgoglio
di non voler ammettere che eravamo una sola cosa. Che
stupidi. Ma forse è stato proprio quel volersi sentire diversi,
anche dalla propria anima gemella, che ci ha reso unici,
veramente unici ai propri occhi, orgogliosi di un’artefatta e
presunta diversità».

«Siamo arrivati che tutti erano già lì, il biglietto non serviva
perché nessuno l’ha controllato, tanti erano quelli che avendo
vantato il diritto di poter ascoltare senza pagare, fugavano la
necessità sovrastrutturale di brandire un pezzo di carta per
vantare un diritto che era giustamente di tutti. Di quel
concerto ricordo perfettamente la sua pelle, i suoi occhi e la
sua commozione, intima, forte e sconcertante. Portava con sé
un corpo che non aveva ancora trovato quel piccolo barlume
finale che le avrebbe consentito di esplodere in un urlo. “Di
respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho
deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”, cantava lui dal
palco e lei stringeva il pugno, quasi a lacerarsi le dita contro gli
anelli. “se c’è qualcosa da spartire fra un prigioniero e il suo
piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che
sia prigione”, continuava lui e Maria quasi piangeva di rabbia.
Forse perché sua sorella, tua zia, era stata beccata dalla
polizia qualche giorno prima perché aveva un fucile dentro

29
l’auto, e rischiava di finire in galera. La amavo più di quanto le
parole avrebbero potuto descrivere e il mio cinismo era
sommerso dalla bellezza indomabile di quel momento. Ero
preda dell’amore e della voglia fisica di stringere quel corpo e
farlo una cosa sola con il mio. “Quando in anticipo sul tuo
stupore, verranno a chiederti del nostro amore. A quella gente
consumata nel farsi dar retta, un amore così lungo, tu non
darglielo in fretta”. De André continuava a cantare, non si
rendeva conto cosa significava per me quella frase. Ero
dilaniato dal dolore indotto da quel quadro che aveva creato
Faber. Una tela di Fontana con un taglio netto e verticale,
inesorabile e ineluttabile come la morte del mio cuore in quel
momento. Fui costretto a pensare ad altro da un’improvvisa
manifestazione degli operai della Piaggio. Che scandirono, con
un certo disappunto generale, slogan contro i padroni e per la
libertà dagli oppressori. Fabrizio non era in disaccordo e si era
fermato, ma si leggeva nei suoi movimenti e nelle boccate di
sigaretta un po’ più nervose, mentre era seduto sul suo piccolo
sgabello con accanto un bicchiere di wisky, che l’arte e la
poesia non dovevano essere profanate dalla lotta di classe.
Forse perché, come me, pensava che la lotta dei deboli e degli
oppressi già trasudava da ogni verso delle sue canzoni.
Bastava ascoltare. Ma le parole di un altro non sono le proprie

30
e il desiderio di espressione aveva tutto il diritto di essere
ascoltato.

«“Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro


coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento,
se il fuoco ha risparmiato le vostre 1100. Anche se voi vi
credete assolti siete per sempre coinvolti”. A questi versi lei si
mise a piangere. Sentiva il dolore e la rassegnazione
generazionale di un esercito di incompresi. Io no, perché
credevo, e credo ancora, che un esercito non può essere
incompreso, ma solo pavido. Per me lottare era la prima cosa,
per Maria il pensiero di perdere diventava un alibi per
piangersi addosso e trovare una giustificazione alla
compassione per gli altri e all’autocommiserazione di se
stessi».

Daniele si è interrotto e mi ha guardato come se ci fossi stata


Maria al mio posto. Con severità mista a quella tenerezza che
forse non le ha mai dimostrato ha ripreso: «Questo ricordo.
Questo voglio ricordare e non il fatto che abbiamo litigato in
macchina anche dopo il concerto. Voleva fare l’amore, ma
solamente per soddisfare l’istinto di dare un senso a quel
sentirsi soli, con il bisogno di essere parte di un altro mondo,
anche fisicamente. L’allontanai da me senza spiegarle il perché

31
e lei lo prese come un rifiuto. Mi accusò di non volerle bene,
mi disse che non le piacevo. Io non sono riuscito a spiaccicare
una parola mentre avrei dovuto spiegarle che volevo
proteggermi. E proteggerla. Nei giorni seguenti non ci siamo
né sentiti né cercati. E me ne sono andato via, lontano».

Daniele mi ha raccontato che mise un po’ di roba nella sacca e


se andò a Oslo. Voleva fare la sua esperienza all’Odin Teatret,
il gruppo fondato nel 1964 dal regista italiano Eugenio Barba e
dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal.
Voleva mettersi alla prova. Mi ha spiegato che il metodo di
Barba prevedeva un intenso allenamento fisico, che doveva
preparare alla recitazione, ma anche selezionare le persone più
motivate e dotate di autodisciplina. L’allenamento o training
era inteso non solo come mezzo per acquisire particolari
abilità tecniche, ma soprattutto come processo continuo di
definizione della propria presenza scenica. Girovagò parecchi
mesi prima di tornare a Roma.

Riitrovò mia madre alla Magliana. C’era un contro-festival e lei


doveva scrivere un pezzo. Daniele conserva ancora nel
portafoglio una fotocopia del ritaglio di giornale datato 22
giugno 1974. «La Magliana non è un quartiere, è una
maledizione, scrivevamo più di un anno fa su Paese Sera. Ieri

32
sera il contro-festival di piazza Vico Pisano ha ridato a quella
«maledizione» una dimensione umana. II concerto,
organizzato dal comitato di quartiere e da Stampa Alternativa
ha assunto quasi subito la caratteristica della festa popolare.
II confronto con Villa Borghese insomma non c’è stato.
C’erano gruppi e cantanti che facevano la stessa musica, ma il
pubblico, lo scenario, lo spirito era diverso. Piazza Vico Pisano
è uno stretto corridoio fra due lunghe file di palazzi dormitorio
soffocante, disumano. In questo scenario, che è la fotografia
di una Roma sbagliata, c’era un piccolo palco su cui, davanti a
un pubblico composto da giovani, donne, vecchi, lavoratori, e
tanti bambini si sono susseguiti i «numeri» dello spettacolo. Il
compito di aprire è toccato a Francesco De Gregori e Antonello
Venditti. Il primo venerdì aveva disertato il prato verde di villa
Borghese, ieri ha spiegato che suonare alla Magliana, in un
quartiere popolare, fra la gente che ogni giorno è costretta a
combattere i mille problemi di un vero e proprio ghetto in cui
imperversano la malaria e l’epatite ha ridato alla sua musica
una dimensione non asettica, non neutrale. Il secondo che
nell’intervento che ha preceduto il suo numero ha rivendicato
quella libertà di artista che lo ha spinto a esibirsi anche a Villa
Borghese, è stato applaudito freneticamente quando ha
suonato uno dei suoi successi popolari, «Roma capoccia». Poi

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è toccato all’altro «pezzo forte», Alan Sorrenti, anche lui in
polemica con la manifestazione «ufficiale». Il «clou» è stato
però rappresentato dal «Trium Delirium», venti ragazzi
francesi arrivati a bordo di tre pulmini con donne e bambini.
«In Francia - hanno spiegato - viviamo tutti in una comune,
qualcuno gira suonando, altri coltivano la terra». Da Roma
andranno verso est per fare il giro del mondo. Alla
manifestazione aveva aderito anche Edoardo Bennato. Il
«contro-festival», che ha suscitato un dibattito molto serrato
sulla musica fra gli stessi artisti che si sono esibiti, si è
concluso a tarda notte. Fino alla fine piccoli e grandi hanno
vissuto una serata nuova, diversa, che forse ha rappresentato
una occasione unica per riportare la musica a contatto con i
problemi reali di chi l’ascoltava»1.

Da quella sera hanno ricominciato a frequentarsi. Lui, mi ha


detto, che l’aiutò a riprendersi dallo shock della strage di
Brescia di piazza della Loggia del 28 maggio. Era in corso una
manifestazione contro il terrorismo organizzata dai sindacati e
da un comitato antifascista. Ci andarono molti suoi compagni e
quello che le raccontarono fu un incubo. Quel giorno morirono
otto persone. Altre 94 rimasero ferite.

1
Carlo Rivolta, Paese Sera, 23 giugno 1974

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Iniziò una storia. Una storia strana, che solo mia madre poteva
voler vivere. Una storia di rinunce e di speranze, di tenerezza e
di rabbia, di attesa e di attimi rubati. «La nostra non era una
relazione fisica», ha ribadito Daniele mentre mi aiutava a
sparecchiare. «Eravamo impegnatissimi, avevamo sempre
tantissime cose da fare. Io a teatro, lei al giornale, con te, con
Moira, le manifestazioni. E quando c’incontravamo parlavamo,
discutevamo, litigavamo per poi starcene anche due o tre ore
sdraiati sul divano in silenzio semplicemente a giocare l’uno
con le mani dell’altro. E poi diceva di essere diventata allergica
a qualsiasi tipo di rapporto sentimentale che potesse
catalogare le persone in base allo stato sociale: coniugata,
single, fidanzata. Io invece ero alla ricerca della donna della
mia vita. Volevo mettere su famiglia, volevo un figlio. E così
stavamo insieme senza legami».

35
TRE

Daniele se né andato con l’aliscafo delle 6,30 diretto a Formia.


Prima di imbarcarsi mi ha chiesto se intendevo battezzare mia
figlia con il nome di Maria. Ci sto pensando, gli ho risposto
abbracciandolo. Non appena salito a bordo me ne sono
andata, senza aspettare che partisse. Non vedevo l’ora di
tornare a casa per scoprire cosa conteneva quel prezioso
pacchetto che mi ha lasciato.

In quella scatola impacchettata da Daniele c'erano i diari di


mia madre. Mi sono messa a piangere mentre li sfogliavo, li
accarezzavo e li stringevo sul mio cuore. Con la voce
emozionata ho chiamato zia Carla. «Scusa per l’orario zia», ho
esordito, «non ti preoccupare sto bene. È solo che tu e zia
Moira dovete venire al più presto a Ventotene. È venuto a
trovarmi Daniele Impellizzeri. E indovina un po’? Mi ha portato
i diari di mamma. Voglio che li leggiate insieme a me». Zia era
abbastanza stordita dal sonno, ma non c’è stato bisogno di
aggiungere altro. «Arriviamo domani o dopodomani. Chiamo
Moira e partiamo».

36
Dentro la scatola c’era un biglietto di Daniele. Mi chiedeva di
leggere per prima cosa la pagina datata 28 aprile 1976. Non è
stato difficile trovarla. Ci aveva messo un bel segnalibro di
legno a forma di calla, il fiore che più le piaceva. Mi sono
accoccata sulla sua poltrona, proprio davanti alla finestra dalla
quale si può godere una splendida vista sul carcere di Santo
Stefano illuminato dal sole di una limpida mattina di
tramontana.

Voglio ricordare ogni istante di questa notte. La pressione del


tuo pollice sulle labbra e la voglia della mia lingua di sentire il
suo sapore. Di assaggiarti. Inizio dal polpastrello: sa di
tabacco. E pure di burro, quello del cornetto che ci siamo
appena divisi. Poi il dito. Il palmo della mano, il polso, il
braccio tatuato, la scapola che ti provoca fastidio, il collo, il
mento reso ispido da quella barba dietro la quale ti nascondi.
Fino alle labbra. Le sfioro solamente e mi allontano. Ho paura
che la realtà prenda il sopravvento e il mio sogno svanisca. Ma
questa volta non è così. Sei tu ora a volermi assaggiare. La
bocca è solo l’inizio. La sciarpa, la giacca, la maglia spariscono
da dosso mentre continui a dirmi quanto sono bella. Affondi la
testa tra i miei seni, baci i miei capezzoli, accarezzi la mia
pancia, lecchi il mio piede. Mentre le mie mani si perdono tra i
tuoi capelli, si deliziano a ripassare i lineamenti del tuo volto

37
quasi a volerli imparare a memoria, toccano la tua schiena, i
tuoi glutei. Tu ed io, poi, siamo stati un unico corpo, un’unica
voce. Siamo diventati noi. Scaraventati dal desiderio, dalla
passione, dal piacere, in un’altra dimensione, ci siamo sentiti
finalmente liberi. Non esisteva più niente e nessuno . 28 aprile
1976

Neanche io? Neppure papà e le zie? Né la rivoluzione che


sognava, né le compagne e i compagni? E le sue inchieste?
Eppure io non me ne sono mai accorta. Se l’avessi saputo a
quel tempo, l’avrei fatto sentire in colpa rimproverandola del
poco tempo che passava con me. Le avrei detto che non era
giusto, che non avevo scelto io di venire al mondo e che come
madre avrei preferito la sorella. Avrei pianto e urlato per
sentirmi dire che io ero l’unica cosa importante della sua vita,
Anche se sapevo che mi amava più della tua stessa vita.
Perchè in fondo lo sentivo, ma volevo punirla e provare quel
sadico piacere nel vederla sconfitta, lei che affrontava senza
paura le situazioni peggiori, lei che ha dimostrato sempre di
essere forte e decisa, lei che sapevi sempre cosa fare. Oggi
invece no, non ce l’ho con lei. Oggi riesco a comprenderla e
persino a giustificarla.

Mi alzo e vado a prendere la sua foto che sta incorniciata in

38
camera mia. È del 1976 e mi piace pensare che sia stata
scattata proprio quel 28 aprile. È una foto che adoro, perché
nella mia testa, mia madre sarà sempre così. Io avevo sei anni
e lei era bellissima. Le bastava un po’ di mascara sulle ciglia
per sentirsi a posto. I capelli arruffati odoravano di lei, come la
sua pelle impregnata di quel profumo che andava a comprare
a corso Rinascimento. Era diversa dalle mamme delle mie
amiche e io ci soffriso: avrei voluto vederla su quei tacchi a
spillo sui quali ancheggiavano le signore alle inaugurazioni in
galleria da papà. Avrei voluto vederle le unghie laccate di
rosso e pure le labbra disegnate da quella matita che mi aveva
regalato per mascherarmi a carnevale. E invece no. Le uniche
cose femminili che indossava le nascondevi, le calze
autoreggenti sotto i pantaloni, i body di pizzo sotto le maglie
nere. Sempre e solo nere.

Era affascinante anche se non se ne rendeva conto. Me lo ha


detto pure Daniele. Anche lui non ha mai dimenticato quella
sera. Non era riuscito mai a trovare le parole per descrivere ciò
che successe il 28 aprile. Per questo ha usato le sue parole. Le
parole che Maria ha scritto sul diario. «Dopo quel 28 aprile non
esisteva più niente e nessuno», c’è scritto nel biglietto che ha
lasciato nella scatola.

39
Non riesco a descrivere quello che provo con questi quaderni
tra le mani. Continuo ad annusarli e mi sembra che abbiano
ancora il suo profumo. Li sfoglio e oltre ai suoi scritti trovo
articoli di giornale appiccicati e ripiegati su se stessi, e alcune
foto che incollate sulle pagine del quadernetto rosso. Su una
c’è papà, poco più che ventenne, con me piccolissima. Ha i
capelli lunghi, lisci, e i baffi ben curati. La mano lunga e
abbronzata sostiene la mia testolina, mentre il resto del corpo
è appoggiato a cavalcioni sull’avambraccio. Credo sia stata
scattata in galleria. Ci sono quadri accatastati ovunque e sullo
sfondo si intravede un artista che sta dipingendo qualcosa sul
muro. Settembre 1970, c’è scritto sotto. Io ho solo un mese.

Su un’altra pagina c’è la sua foto con Daniele. Lui, che è molto
più magro di come è oggi, sta dietro e la tiene abbracciata
per la vita. Mia madre davanti con le braccia larghe e la testa
appoggiata al suo petto. Stanno in mezzo a tante altre
persone, sembra un concerto, o una manifestazione. Se non
fosse per i colori un po’ sbiaditi potrebbe sembrare una foto
scattata oggi. Lui con una montagna di capelli castano scuro
mossi, la barba folta, gli occhiali a goccia, una dolcevita rossa
che si intravede da sotto l’eskimo. Lei con un vestitino nero, gli
stivali senza calze, un trench avana, un paio di occhialoni neri
tirati sopra i capelli arruffati. Mi fermo a guardare le sue mani.

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È vero sono piene di anelli grandi, bellissimi… Chissà che fine
hanno fatto. Devo chiedere a zia Moira.

Eccola, c’è pure lei nel diario. Bella, appariscente, con due
grosse tette che si è sempre ben guardata dal nascondere. La
gonna a balze, i capelli lunghi neri, vistosi orecchini d’argento
indiano, il cappotto di montone, la tolfa a tracolla. Il perfetto
stereotipo di una fricchettona. Nella foto state facendo “naso
naso”. E basterebbe questo attimo immortalato dal flash di
qualche compagno per dimostrare quanto bene si sono volute
quelle due.

Poi c’è zia Carla con me e nonna Anna. Abbiamo tutte e tre
una ghirlanda di margherite in testa. Loro sono sedute in un
campo di papaveri rossi mentre io cerco di arrampicarmi sulle
spalle di zia. Nonna ride, mentre zia fa una smorfia di dolore.
Che bella giornata. Bella come tutte quelle che passavamo
insieme. In questa foto avrò avuto cinque, forse sei anni, era il
compleanno di nonna e come sempre ci ritrovavamo nella casa
in campagna per festeggiare. In quei giorni ognuno era
obbligato a dimenticare i problemi, la politica, gli affanni per
riscoprire l’importanza di una famiglia che nonostante tutto
c’era sempre a sostenere, a coprire, a giustificare. Io non ho
mai conosciuto nonno Luigi. Lui è morto quando mia madre

41
era molto piccola e zia Carla appena nata. Ma so tutto di lui.
Instancabilmente zia ha tenuto vivo il ricordo e la memoria di
quel partigiano, suo padre, che partecipò alla battaglia di porta
San Paolo del settembre 1943, ma venne ammazzato dai
tedeschi prima della Liberazione, durante un’azione di
sabotaggio notturno a un cantiere ferroviario sulla Cassia.

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QUATTRO

Bakunin si è preso la sua rivincita su Marx, ci siamo detti


vedendo tutti quegli anarchici a Milano in via Preneste. Fa
freddo e c’è molto traffico. È l’ultimo sabato prima di Natale.
Ci sono tante bandiere nere con la A. Qualcuna rossa della
Quarta Internazionale. A tenerle in mano soprattutto giovani,
ma c’erano anche parecchi vecchi anarchici, con il cravattone
nero, dietro alla moglie di Pinelli. La bara sta su un furgone. Ci
sono qua e là dei fotografi appostati. La polizia ci ha bloccato
a via Paravia, non voleva che il corteo funebre proseguisse
fino al Musocco. Così al campo 76 del cimitero ci siamo andati
dopo, al crepuscolo, giusto in tempo per vedere i becchini che
calavano nella fossa, la numero 434, la cassa con Pinelli. Che
stranamente aveva sopra una croce. Qualcuno prima aveva
provveduto a coprirla con una bandiera, ma ora che la stavano
mettendo sotto terra si è vista. Eravamo un centinaio e ci
guardavano a distanza una ventina di guardie in borghese.
Abbiamo alzato il pugno a salutarlo. Intanto arrivava altra
gente. Un ragazzo con la barba corta ha detto: “Pinelli è stato

43
assassinato. Addio Pino. Non dimenticheremo né te, né quelli
che ti hanno ucciso”. Poi una voce roca ha attaccato Addio
Lugano Bella e abbiamo iniziato a cantare. Ma a bassa voce,
con il ritmo lento di una marcia funebre. E io sono scoppiata
a piangere. Ho preso un sasso al cimitero, vicino alla fossa e
l’ho stretto in mano fino a sentire dolore. Ma non è nulla in
confronto a quello che sento nello stomaco.

L’hanno buttato dalla finestra. Pinelli è morto ammazzato.


L’hanno ucciso dopo tre giorni di interrogatori. Le guardie
l’hanno convinto ad andare in via Fatebenefratelli e poi lo
hanno fatto fuori. Pino faceva il ferroviere ed è un anarchico,
non ha nessuno che lo protegge e vogliono farlo passare per il
responsabile della strage di piazza Fontana. Non è così. Sono
in treno. Sto tornando da Luca. Oggi ho partecipato ai funerali
di Pinelli ed ho provato tanta rabbia. Una rabbia che non
sapevo di avere. Non so se la verità ufficiale coinciderà mai
con la realtà, certo è che qualcuno dovrà pagare. E pagherà
caro.

Tutto è iniziato il 12 dicembre 1969, alle ore 16.37 a Milano:


un ordigno, composto da sette chili di tritolo, è esploso nel
salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in
piazza Fontana. Il bilancio è stato di 16 morti e 88 feriti. A

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Roma qualche minuto dopo una bomba esplode in un
corridoio sotterraneo della sede centrale della Banca Nazionale
del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio: 13 impiegati sono
rimasti feriti, uno in maniera grave. Il boato è stato
fortissimo. Poi una nuova esplosione a distanza di mezz’ora.
Un ordigno sulla terrazza dell’Altare della Patria, sul lato che si
affaccia sui Fori Imperiali: nessuna vittima. Due minuti dopo
un altro botto, un’altra bomba è esploso sempre sulla terrazza
dell’Altare della Patria, dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli:
nessuna vittima. A Milano, quello stesso pomeriggio un
impiegato della Banca Commerciale Italiana di piazza della
Scala ha trovato una borsa nera e l'ha consegnata alla
direzione. La borsa conteneva un’altra bomba che non è
esplosa per un difetto di funzionamento del timer del
congegno d’innesco. Ma gli artificieri hanno deciso di farla
brillare distruggendo così eventuali indizi fondamentali.
Devono trovare a tutti i costi un capro espiatorio: gli anarchici.
Così vanno a bussare a casa di Pinelli. Non ci ha messo molto
Calabresi a convincerlo a seguirlo in questura. Lui ci è andato
perché non ha nulla da nascondere. Lo hanno interrogato per
tre giorni. Poi è successo qualcosa. Il 15 dicembre Pinelli è
precipitato dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi.
La stessa fine di Andrea Salsedo, il tipografo sindacalista

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anarchico amico di Bartolomeo Vanzetti, che “volò” da una
finestra al quattordicesimo piano del Dipartimento di Giustizia
di New York dopo essere stato fermato e trattenuto due mesi
perché sospettato di aver stampato opuscoli sovversivi. Pinelli
ha fatto la stessa fine. Il questore Marcello Guida, nel 1942
uomo di fiducia di Mussolini e direttore del confino politico di
Ventotene, già 20 minuti dopo, ha dichiarato che Pinelli si è
suicidato e che il suicidio è stata una ammissione di
colpevolezza perché “l’alibi era crollato”. Con Carla abbiamo
partecipato alla conferenza stampa organizzata dagli anarchici
milanesi al Circolo Ponte della Ghisolfa il giorno dopo la morte
di Pinelli e l’arresto di un altro anarchico, Pietro Valpreda.
Cazzate. 20 dicembre 1969

46
CINQUE

Inizia così il diario di mia madre. Sulla copertina c’è scritto "A
come amore" e la A è quella cerchiata dell’anarchia. Mi faccio
due conti e capisco che quel giorno c’ero anche io con lei al
funerale di Pinelli. Non lo sapeva ancora, ma era incinta. Da
quel giorno la vita non fu la stessa. Né la sua, né quella di
tantissime altre persone. E neppure quella di zia Carla che
studiava Sociologia a Trento ma stava con noi a Milano quel
giorno. Quel giorno che segnò l’inizio di un’epoca buia che
ancora oggi non sembra essere del tutto terminata. Da quel 12
dicembre 1969 l’Italia fu scossa da nove stragi, tre tentativi di
golpe scoperti, la cospirazione della politica (la Piddue),
quindici anni di omicidi politici firmati da rossi e neri,
l’abbattimento di un aereo di linea senza motivo, un’escalation
di delitti mafiosi.

Zia era arrivata a Milano direttamente da Trento. All’università


militava nel movimento studentesco di Renato Curcio, Mauro
Rostagno e Marco Boato. Entrò in Lotta Continua: prima gli
avversari erano il professore, il caposquadra, il padrone da

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allora il nemico divenne lo Stato.

Di queste cose ne abbiamo sempre parlato molto con lei. Ci ho


vissuto insieme per tanto tempo e certi argomenti spuntavano
fuori ogni qual volta si parlava di politica, ogni qual volta
dovevo andare alle manifestazioni. Ma erano discorsi astratti.
Adesso sento il bisogno di approfondirli perché hanno segnato
la vita di mia madre. Perché forse, come sostiene Daniele, se
Pinelli non fosse stato ucciso lei non si sarebbe lasciata
coinvolgere così tanto dalla politica. Forse avrebbe evitato di
fare domande, di andare a curiosare su cose che ancora oggi
restano avvolte nel mistero. Quel che è certo è che dopo quel
15 dicembre del 1969 ha cambiato modo di vivere e di essere
parte della società.

Fino ad allora, scrive nel diario, « Non ho mai frequentato da


militante sezioni di partito, e neppure circoli libertari. Dopo la
morte di Pinelli sono andata a bussare alla porta dello
scantinato di via Vettor Fausto dove Aldo e Anna, subito dopo
la Liberazione, avevano aperto la sede del Gruppo anarchico
Cafiero, già aderente ai Gruppi di Iniziativa Anarchica. Sulle
pareti, in bella grafia, qualcuno aveva affrescato motti del
tipo: «Il Vaticano è come un pugnale nel cuore d’Italia»,
«Anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia», «Il

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denaro, ecco il nemico, pervertitore di ogni sentimento retto».
Il più ardito che s’è conservato: «Solcati ancor dal fulmine
eppur l’avvenir siam noi!». Dentro la vetrina, ben ordinate, le
collezioni di «Umanità Nova», dell’«Adunata dei Refrattari»,
dell’«Internazionale», di «Volontà», e poi i libri in vendita:
Gori, Fabbri, Malatesta. Sul tavolo, la macchina da scrivere,
una Olivetti a carrello lungo che Adriano Olivetti regalò alla
redazione di Umanità nova e che, dopo la scissione del 1965,
finì lì. E ancora la biblioteca, con un migliaio di libri, aste e
bandiere, quelle con la fiaccola, e i manifesti per le vittime
politiche. Al Cafiero ho conosciuto Andrea che si dice abbia
frequentato Malatesta; Perugia che ha scontato una lunga
pena per «delitto d’onore», Italo che era stato confinato a
Ventotene per undici anni. Nessuno ha meno di settant’anni.
Ci parlano di Sacco e Vanzetti, dei martiri di Chicago. Ci
consegnano una storia di sterminio fatta di sedie elettriche, vili
garrote, carcere, esilio, povertà».

Al Cafiero, così dice nel diario, hai conosciuto anche Franco, un


toscano che studiava a Roma. A lui che la interrogava
sull’anarchia ha dedicato una pagina. Oggi Fra mi ha chiesto
perché non voglio iscrivermi a nessun circolo libertario, né
alcun gruppo pur sostenendo di essere un’anarchica. Ho
cercato di spiegargli che per me essere un’anarchica non è un

49
marchio di fabbrica. È un sentimento, una condotta di vita. Del
resto ho scoperto di essere un’anarchica solo dopo aver letto
“Il buon senso della rivoluzione” di Malatesta e “Il miglior
governo è quello che non governa affatto”, di Henry Thoureau.
E la conferma mi è arrivata da Bakunin, da Protpokin, da
Stirnern, da Cafiero, da Emma Gooldman. Ho ritrovato in
quegli scritti le mie piccole battaglie contro l’ingiustizia, per
l’egualitarismo e la libertà. Purtroppo la maggior parte di
queste lotte si sono concluse con la sconfitta. E questo mi
tormenta. Spero almeno che nel campo dove ho seminato il
seme della solidarietà, del rispetto degli ultimi, dell’amore
senza interessi, cresca forte un nuovo sentimento anarchico.
Voglio illudermi che quel sentimento generi un rivoluzionario
che si impegnerà, attraverso l’esempio, a fare proseliti. E così
via. Perché tutti possono contribuire alla diffusione
dell’Anarchia dimostrando che si può vivere in una società
dove si aiuta e si viene aiutati, dove si ama e si è amati con la
stessa intensità e senza chiederlo, dove tutti sono rispettati
per quello che sono. Consapevoli di essere parte di un’umanità
soggiogata ma non doma, forte solo della propria dignità e
coerenza. È possibile! Si può fare».

Malatesta, Stirner, Bakunin, Kropotkin, Goldman. Mia madre


aveva letto quasi tutti i loro saggi sull’anarchia e amava citarli.

50
Questo me lo ricordo, anche se ero piccola. E da grande
rileggere quei libri mi ha fatto sempre sentire meno sola.
Quando voglio sapere come la pensa lei su qualcosa vado a
cercare lì. Parlava a ruota libera della polemica tra comunisti
autoritari e libertari, dello scontro tra Marx e Bakunin, delle
persecuzioni dei bolscevichi in Russia dopo il 1917. Racconti
che alternava alle storie di anarchici che avevano pagato con
la morte. Mi narrava, quasi si trattasse di una fiaba, di Gino
Lucetti che voleva ammazzare Mussolini, del cuoco Giuseppe
Passannante che cercò di uccidere Umberto I e che fu chiuso
in una cella sotto il livello del mare nella fortezza di
Portoferraio. E poi di Romeo Frezzi che venne arrestato perché
ritenuto complice di un altro attentatore di Umberto I, Pietro
Acciarito, e morì in galera in circostanze misteriose. Le guardie
dissero che si era suicidato, invece un medico, il dottor Pardo,
accertò che Frezzi venne ucciso. Ma soprattutto parlava di
Gaetano Bresci che ammazzò il re e che venne ucciso nel
carcere di Santo Stefano. Ogni volta che andavamo a
Ventotene ci facevamo portare dai pescatori all’isola per
andare a mettere i fiori sulla sua tomba. In realtà nessuno sa
in quale di quelle fosse sono state messe le ossa
dell’anarchico. Ma noi avevamo deciso che il sepolcro di Bresci
non poteva che essere quell’unico mucchio di terra che

51
d’estate e d’inverno era ricoperto di capelvenere sul quale era
stata piantata la più sgangherata delle croci.

Quando parlava degli anarchici li definiva come dei miserabili


che aiutavano chi era più miserabile di loro. Questo voleva
essere lei. Lei che eri contro ogni tipo di violenza.

Quando a casa si discuteva sugli attentati, sugli omicidi che in


quegli anni riempivano le pagine dei giornali lei prendeva le
distanze recitando a memoria il credo di Malatesta: «L’idea
centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla
vita sociale: è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla
libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme.
Perciò siamo nemici del capitalismo che appoggiandosi sulla
protezione dei gendarmi costringe i lavoratori a lasciarsi
sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a
restare oziosi e a patire la fame quando i padroni hanno
interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è
l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. La
violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere
se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità
comincia il delitto».

Era anarchica mia madre, ma non nell’accezione che la


maggior parte delle persone dà a questo termine. Da quello

52
che mi ricordo io, ma soprattutto da quello che mi hanno
raccontato papà, zia Carla, zia Moira e ora Daniele, non amava
l’ordine costituito e le interessava il punto di vista di ogni
singola persona. Soprattutto dei border line. C’era di sicuro in
lei una visione romantica dell’anarchia, identificata con
l’emarginazione come un’esclusione totale, assoluta dalla
società, dalle convenzioni dominanti. Non era mai stata
interessata a far parte di questo o quel movimento pur
condividendone gli obiettivi, perchè era attratta dall’individuo,
da quelle donne e uomini apparentemente senza tempo, che
restavano ai margini. Le uniche persone che secondo lei
conservavano la purezza originaria. E anche lei volevi vivere ai
margini. «Aveva una forte propensione ad auto-escludersi», mi
ha sempre detto zia. «Non credo si sia mai sentita
completamente a suo agio nel movimento. Nelle nostre
battaglie lei c’era sempre, ma non faceva parte del gruppo. Il
suo essere anarchica e per giunta individualista si prestava
benissimo anche a non rompere con nessuna delle componenti
della propria esistenza».

53
SEI

Maria seguiva con la massima attenzione l’inchiesta che


Camilla Cederna pubblicava passo dopo passo su L’Espresso. Si
vede dagli appunti che ha preso su questo quaderno 2. Così
come, giorno dopo giorno, la battaglia portata avanti da Lotta
Continua sul giornale per far luce sull’assassino di Pinelli.
Battaglia che iniziò il giorno stesso del suo funerale. Lo
dimostra la raccolta che conservava gelosamente e che sono
stati riposti nella soffitta della casa di Ventotene dopo la sua
morte. Ho trovato il numero del 20 dicembre 1969. In prima
pagina c’è la foto del cortile della Questura con una freccia
bianca che indica la finestra da dove è caduto Pinelli. È quella
del commissario di polizia, Luigi Calabresi, che nella Questura
di Milano si occupava appunto di anarchici e che aveva
condotto l’interrogatorio del ferroviere. In terza pagina c’è una
foto di gruppo dei dirigenti della questura. Calabresi è l’ultimo
a destra, l’unico senza cravatta, ma non compare il suo nome.
2
Articoli che poi diedero vita al suo libro Pinelli, una finestra sulla strage. Un libro nel quale c’è
tutta l’opera di depistaggio intorno alla morte di Pinelli, le macchinazioni del Pm Caizzi e del
giudice Amati per archiviare il caso, le false, incongruenti, contraddittorie testimonianze del
questore Guida, del brigadiere Panessa, del commissario Calabresi e poi il processo Calabresi-
Lc, la magistratura servile alla ragion di Stato

54
Solo sul giornale del 7 marzo1970, Lotta Continua, fece il suo
nome, peraltro sbagliandolo: «è il dott. Calabrese».

Da quel numero il giornale iniziò una dura campagna contro di


lui. Con vignette che, ad esempio, lo ritraggono in fasce
mentre scaraventa fuori dal box orsacchiotti di peluche,
oppure vestito da scolaro che butta di sotto i compagni di
classe, o ancora vestito da cameriere davanti a una finestra
che dice a Pinelli: o ti mangi questa minestra…. Ma soprattutto
con articoli nei quali si legge: « Calabresi, sei tu l’accusato. […]
Le nostre armi sono altre, più difficili, faticose, pericolose, ma
infinitamente più efficaci. È l’organizzazione della forza e
dell’autonomia del proletariato che farà giustizia di tutti i suoi
nemici. Dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere
che il proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare
vendetta della sua morte» (14-5-1970).

«Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto.


Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come
un bufalo inferocito. […] Qualcuno potrebbe esigere la
denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, più
modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la
morte» (6-6-1970).

Mentre leggo mi rendo conto che questo tipo di articoli oggi

55
non sarebbero mai usciti e che forse nessun giornalista
avrebbe mai avuto il coraggio di pubblicarli.

«Siamo stati troppo teneri con il commissario di pubblica


sicurezza Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a
vivere tranquillamente. […] Il suo volto è diventato abituale e
conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo; la sua
funzione di sicario è stata denunciata alle masse che hanno
incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con
nome, cognome e indirizzo. È chiaro a tutti, infatti, che sarà
Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto
contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua
sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e
Calabresi dovrà pagarla cara. […] Il terreno, la sede, gli
strumenti della giustizia borghese sono del tutto estranei alle
nostre esperienze, alle nostre lotte, alle nostre idee, e non è
certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci
attendiamo la punizione di un suo servo zelante; non dai
giudici “progressisti e onesti”; non da un dibattimento i cui
codici, norme e regole, creati dalla borghesia per controllare
gli sfruttati, non possono essere utilizzati dai proletari, ma solo
da questi distrutti. […] Ma dentro il tribunale, nelle strade e
nelle piazze, il proletariato emetterà il suo verdetto, lo
comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo

56
renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed esistono validi motivi
perché ne abbia sempre di più. […] L’imputato e vittima del
secondo [processo] è già da tempo designato: un commissario
aggiunto di ps, torturatore e assassino: Luigi Calabresi.
Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli
sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa
fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato
assassino» (6-6-1970). «Calabresi, assassino, stia attento. Il
suo nome è uno dei primi della lista» (6-5-1971).

Tutte frasi che mia madre ha puntualmente annotato nel suo


diario. Senza alcun commento. Come se avesse voluto fissarle
nella testa. Non so se le condivideva o meno. Certo è che
anche lei era convinta che Pinelli fosse stato ucciso.

Sono passati 3 mesi dalla morte di Pinelli e sono riusciti a dare


tre versioni contrastanti della sua fine. Ho parlato con alcuni
anarchici di Milano. Tutti accusano la polizia di assassinio e i
fascisti e lo stato di essere gli autori delle stragi. Anche io non
ho dubbi. Si è scoperto che a mezzanotte meno due secondi
(2 minuti e 2 secondi prima della caduta di Pinelli) venne
chiamata l’autoambulanza. La stanza dell’interrogatorio larga
3,56 metri x 4,40 e contenenti vari armadi e scrivania e la
presenza di 6 persone rende impossibile uno scatto di Pinelli

57
verso la finestra. E poi non è strano che la finestra fosse
aperta trattandosi di dicembre e di notte? Pinelli cade
scivolando lungo i cornicioni. Non si è dato quindi nessuno
slancio. Cade senza un grido e senza portare le mani a
protezione della testa, come se fosse già inanimato. Ma
perché continuano a raccontare tutte queste bugie? E
comunque le guardie avevano il dovere di salvaguardare la
vita di Pino. Si trattava di un cittadino affidato alla loro
custodia e soprattutto, secondo loro, di una preziosa fonte.
Almeno di questo dovranno rispondere. E poi, perché lo
trattennero per tre giorni quando lo stesso Calabresi ha
ammesso in una intervista su l’Unità che contro Pinelli non
avevano nulla? Un funzionario della Polizia, la mattina del 15
dicembre, aveva detto alla madre che non era collegato alla
strage, ma che comunque c’erano state pressioni da Roma per
il suo fermo. E che cosa c’era di tanto interessante nel libretto
chilometrico di Pinelli, ovvero il tesserino in cui segnava i suoi
viaggi, che fu mandato a prendere a casa del ferroviere alle
undici di sera del 15 dicembre? 19 marzo 1970

Non mi ero mai interessata più di tanto a questa storia. La


conosco certo, ma sapere come l’hai vissuta mia madre è un
tassello che mi sembra fondamentale per sapere veramente
chi era lei. Qualche pagina più avanti trovo scritto:

58
Il commissario Calabresi ha querelato Pio Baldelli, direttore
responsabile del settimanale Lotta Continua per diffamazione
continuata e aggravata circa la defenestrazione di Pinelli. Oggi
Calabresi ha deposto in tribunale mentre la gente urlava
assassino, buffone, buttati dalla finestra. Il vicequestore
Vittoria ha autorizzato una carica nei corridoi di Palazzo di
giustizia. I compagni hanno organizzato un sit in al primo
piano. 14 ottobre 1971.

Anche se risulta che il vicecommissario non fosse nel suo


ufficio nel momento del volo di Pinelli, per Lotta Continua,
credo che anche per mia madre quello di Calabresi è «il primo
volto dei burattinai della strategia della tensione a cui sia stata
strappata la maschera»3.

Mi hanno detto che Pinelli con involontaria vena profetica,


predispose che, alla sua morte, venissero incisi sulla lapide i
versi di una stupenda poesia tratta da Spoon River di Edgar
Lee Masters, che parla dell’uccisione l’11 dicembre 1887, dei
cinque anarchici anarchici ingiustamente accusati dell’eccidio
di Haymarket Square (a Chicago) il 4 maggio 1886. Il 3
maggio, di fronte alla fabbrica di mietitrici McCormick, la

3
Il giornale, appoggiato da quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali che
sottoscrivono un documento di solidarietà, ha raggiunto così il suo obiettivo: quello di tornare
a parlare di Pinelli dopo che l’istruttoria sulla sua morte è stata archiviata)

59
polizia sparò sugli scioperanti uccidendone due e ferendone
molti. Fu quindi indetta una manifestazione ad Haymarket
Square il giorno dopo. Tutto sembrava più che tranquillo,
quando la polizia intimò di sgombrare e iniziò a marciare a
ranghi serrati per attuare l’ordine. Partì un ordigno che uccise
11 persone più un poliziotto; altri sette, rimasti feriti, morirono
nei giorni successivi. Da qui l’indegno e puramente
persecutorio processo agli organizzatori della manifestazione.
La poesia scelta va dedicata a Pinelli e a tutti quelli che
combattono i potenti, gli oppressori, i “grandi personaggi”
(politici, militari, della stampa e dello spettacolo, finanzieri,
ecc..). Questi versi non possono non commuovere chi resta al
di qua della linea di demarcazione tra senso di umanità e il più
sconfinato e arido deserto dei sentimenti. giugno 1970

Epitaffio di Carl Hamblin

La macchina del “Clarion” di Spoon River venne distrutta,

e io incatramato e impiumato,

per aver pubblicato questo, il giorno che gli anarchici furono


impiccati a Chicago:

“Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati

60
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.

Una gran folla le passava dinanzi,

alzando al suo volto il volto implorante.

Nella sinistra impugnava una spada.

Brandiva questa spada,

colpendo ora un bimbo, ora un operaio,

ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.

Nella destra teneva una bilancia;

nella bilancia venivano gettate monete d’oro

da coloro che schivavano i colpi di spada.

Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:

‘Non guarda in faccia a nessuno’.

Poi un giovane col berretto rosso

balzò al suo fianco e le strappò la benda.

Ed ecco, le ciglia eran tutte corrose

61
sulle palpebre marce;

le pupille bruciate da un muco latteo;

la follia di un’anima morente

le era scritta sul volto.

Ma la folla vide perché portava la benda”.

L’Antologia di Spoon River è stato uno dei libri della mia


infanzia, dell’adolescenza e tutt’ora quando lo rileggo trovo
degli spunti inediti, delle riflessioni legate all’attualità, agli stati
d’animo che provo in quel preciso momento. È una raccolta di
poesie che l’americano Edgar Lee Masters pubblicò tra il 1914
e il 1915 sul “Mirror” di St. Louis. Ogni poesia racconta, in
forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte nel
cimitero di un piccolo paesino della provincia americana. E mia
madre usava quelle poesie per inventare delle storie che io
dovevo tradurre in disegni. Da qualche parte deve esserci
ancora l’album con scritto in copertina “Sole: illustrazioni
all’antologia di Spoon River”. E poi ascoltavamo insieme
l’album “Non al denaro non all’amore né al cielo” con le
canzoni di Fabrizio De Andrè ispirate agli epitaffi di Frank
Drummer, un matto; quello di Judge Selah Lively, un giudice;
Wendell P. Bloyd, un blasfemo; Francis Turner, un malato di
62
cuore; Dr. Siegfried Iseman, un medico; Trainor, the druggist,
un chimico; Dippold, the optician, un ottico; Fiddler Jones, il
suonatore Jones. Mi è venuta voglia di riascoltarlo. Non è
stato facile ritrovare l’ellepi in mezzo a tutto il casino che ho
accumulato negli anni nella soffitta, ma alla fine ce l’ho fatta.
L’ho messo sul vecchio giradischi e la casa si è riempita
nuovamente di lei.

63
SETTE

È orribile. Non si può ammazzare così un ragazzo. Saverio


aveva solo 23 anni. Le guardie hanno giocato al tiro a segno
con i candelotti lacrimogeni e hanno centrato in pieno Saverio.
Poteva essere una strage. Stavamo sfilando per le vie di
Milano e ci hanno caricato. Un giornalista è stato colpito da un
proiettile. Hanno detto che Saverio si è sentito male ed è
morto. Ma non è vero. L’hanno ucciso. Assassini. BASTA
BASTA BASTA. 12 dicembre 1970

Io non avevo neanche sei mesi e probabilmente mia madre mi


aveva lasciata a Roma con papà per partecipare a questa
manifestazione. Cerco su internet qualche informazione su
quell’anniversario tragico della strage di piazza Fontana.
Scopro che il corteo era a rischio. E lo sapevano tutti. Quel
pomeriggio nel centro di Milano erano in programma quattro
manifestazioni. Due erano autorizzate: quella del Movimento
studentesco che aveva organizzato un sit-in antifascista nei
pressi della Statale e quella dell’Associazione nazionale
partigiani d’Italia per protestare contro le condanne a morte

64
inflitte ad alcuni militanti baschi dal regime franchista al
termine di un processo svoltosi a Burgos in Spagna. Il comizio
in piazza del Duomo organizzato dai circoli anarchici in
occasione del primo anniversario della strage di piazza Fontana
e della morte di Giuseppe Pinelli e l’adunata in piazza San
Carlo dei gruppi del neofascismo cittadino legati al Msi erano
invece state vietate dal questore per “motivi d’ordine
pubblico”. Al termine del comizio gli anarchici si sono mossi in
corteo e la polizia, agli ordini del vicequestore Vittoria, li ha
caricati alle spalle per spingerli verso l’Università Statale
presidiata dal Movimento Studentesco. Nel frattempo alcuni
squadristi iniziarono a lanciare molotov contro la sede
dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi
fascisti si diressero verso la Statale. Le cariche proseguirono
per un bel po’. Gli studenti volevano difendere la loro
postazione mentre la polizia cercava di rompere i cordoni di
protezione. Nel corso degli scontri in via Larga, Saverio
Saltarelli, uno studente di 23 anni, venne ucciso da un
candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo. Le prime
versioni ufficiali sulla sua morte parlarono di “malore” e poi di
“collasso cardiocircolatorio”. Dopo l’autopsia, di fronte
all’evidenza dei fatti, ammisero che il cuore di Saltarelli fu
spaccato da un “artificio lacrimogeno”. Dopo sei anni il

65
comandante del reparto da cui partì il candelotto mortale, fu
condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la concessione
delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la
non menzione4.

Mia madre rimase profondamente scossa da ciò che accade


durante quella manifestazione. Si vede perché a questo punto
ha interrotto di scrivere sul diario. Nelle pagine successive ci
sono soprattutto articoli ritagliati. C’è il manifesto pubblicato
da Umanità Nova dopo gli scontri in cui morì Saltarelli sopra al
quale ha annotato: «è stato oggetto di attenzione da parte
della procura della repubblica di Roma, che vi ha trovato
“giustificazioni sufficienti” per far scattare il famigerato codice
Rocco: “notizie atte a turbare l'ordine pubblico”. Il sistema
borghese italiano si qualifica sempre meglio: anziché
incriminare i responsabili delle violenze poliziesche e della
morte del povero studente, si perseguono coloro che
denunciano la violenza e il sopruso».

Poi c’è un articolo staccato da “A”, di Guido Montana datato


aprile 1971: “Valpreda è innocente”.

«L’istruttoria contro Valpreda non è solo sostanzialmente


assurda, politicamente pazzesca e giuridicamente
4
www.reti.invisibili.net, scheda a cura di Alfredo Simone

66
inconsistente, ma anche formalmente contraddittoria e illogica.
Scrive Wittgenstein: “Pensate gli strumenti della cassetta di un
operaio: ci sono martello, pinze, sega, cacciavite, regolo,
barattolo, colla, chiodi e viti. Le funzioni delle parole sono così
diverse come le funzioni di questi oggetti”. Non ho citato senza
ragione il filosofo del neo-positivismo logico. Ad onta della
retorica degli uomini di legge, le parole hanno un senso
inequivocabile, sono strumenti per conoscere la verità. Ma
quante parole sono a tal fine realmente utilizzabili, nei
diciassette volumi (10 di atti e 7 di allegati) che il 26
settembre 1970 gli uscieri romani hanno depositato in
cancelleria? Il processo verbale del caso Valpreda consta di
migliaia e migliaia di pagine. In moneta sonante, fotocopiare
l’intera istruttoria comporta la spesa di circa 3 milioni di lire.

«L’imputato povero è sistemato», scrive ancora Montana,


«dovrà affidarsi al buon cuore dello Stato, per prendere
semplicemente conoscenza di ciò che lo Stato stesso ha
preparato contro di lui. In quest’oceano cartaceo di parole
inutili e di tortuosa sintassi leguleia, la verità sulla strage di
Milano rischierebbe di affondare irrimediabilmente, se alla fine
la parola inequivocabile, logica, non venisse incontro
all’imputato come un’ancora di salvezza. Rappresenta per lui lo
strumento razionale affinché “il sonno della ragione (in questo

67
processo) non generi mostri” e Valpreda eviti di divenir vittima
di una cavillosa e ingiusta procedura. In realtà si resta allibiti
dinnanzi alla compunta sicurezza degli inquirenti, quando
parlano di prove o comunque di serissimi indizi. Noi, al
contrario, ci proponiamo di dimostrare che, solo a condizione
di capovolgere il senso logico dei fatti, si potrebbe giungere a
una convinzione di colpevolezza degli imputati».

Le ultime quattro righe sono sottolineate più volte. E sul bordo


mia madre ha scritto CONTROINFORMAZIONE. Continuo a
leggere nonostante abbia un vuoto allo stomaco. Dovrei
andare a prepararmi un panino, ma non riesco a smettere.

«A lume di logica, la difesa degli imputati è implicita nelle


stesse parole della pubblica accusa, che nell’intento di
accusarli, in realtà ne conferma implicitamente l’innocenza. La
montagna di parole», insiste A, «dopo avere partorito il suo
bravo topolino, si sfalda a causa delle sue stesse contraddizioni
logiche. Per dimostrare questo, non è necessario svolgere
ipotesi più o meno credibili; basta ricondursi all’oggettività
delle parole. Innanzitutto, consideriamo la figura del principale
imputato. Dunque, Pietro Valpreda, per l’accusa, è colpevole: è
anarchico, quindi predisposto - secondo il P.M. - alla violenza,
alle bombe. A parte il fatto che la violenza e il tritolo sono

68
prerogativa innanzitutto dei fascisti, e di questo si è avuta
ampia dimostrazione in questi ultimi tempi, non si vede perché
un anarchico violento, dinamitardo come sarebbe il Valpreda,
perdesse il suo tempo (e molti chili di peso) a fare sciopero
della fame davanti al palazzo di giustizia a Roma, per
protestare contro l’ingiusta detenzione preventiva di giovani
compagni imputati dell’attentato alla Fiera di Milano. Un
anarchico carico d’odio e di bombe (secondo la tesi cara alla
pubblica accusa) non passa i suoi giorni e le sue notti
all’addiaccio nutrendosi di acqua pura e di vitamine».

«C’è inoltre da osservare che un attentatore incallito, come


sarebbe il Valpreda», fa notare Montana, «non agirebbe nel
modo idiota in cui avrebbe agito, se realmente le bombe alla
banca dell’agricoltura fosse stato lui a mettercele, e non i
fascisti e gli agenti dei servizi segreti come noi supponiamo. Se
fosse realmente colpevole, avrebbe mancato alla regola
principale di ogni dinamitardo: quella di operare nell’ombra, in
modo anonimo, senza mettersi in vista né dare spettacolo di
sé. Valpreda si è “esibito”, al contrario, per giorni e giorni, lo
hanno fotografato in tutte le guise assieme ai suoi giovani
compagni, favorendo così la crescita dell’archivio fotografico
che lo riguarda nelle redazioni dei giornali e presumibilmente,
in quello della squadra politica. Ora, un atteggiamento simile,

69
da parte di chi si prepara a compiere una strage di pacifici
cittadini, è certamente assurdo e si giustificherebbe soltanto
con la follia del protagonista. Ma il Valpreda è mentalmente
sanissimo, secondo la perizia».

«La nostra opinione, su questo punto, è meno cervellotica di


quanto non si immagini. In realtà, l’esibizione del personaggio
Valpreda dimostra solo una cosa: lo sciopero della fame, le
proteste, ecc. - legittime per qualunque altro cittadino - non lo
sono per un anarchico, che così facendo si espone alla
cupidigia di provocazione del potere costituito, di gruppi
reazionari alla ricerca di capri espiatori. Mi spiego: se un
gruppo di anarchici fa un’azione clamorosa, che diviene centro
di attenzione per l’opinione pubblica, se protestano contro il
sistema, contro lo stato, ecc., ciò vuol dire che per il
perbenismo ognuno può aspettarsi tutto da loro, persino un
attentato. E quando ciò accade, nessuno se ne meraviglia.
Questo vuol dire che un’eventuale provocazione, diciamo pure
un complotto, organizzato da tutt’altra parte, può trovare
subito pronte delle vittime, dei “colpevoli” da additare
all’opinione pubblica e consegnare, senza eccessive proteste,
alle forze repressive dello stato. Noi dimostreremo che i
“congiurati” della destra, e probabilmente gli stessi
professionisti del crimine di stato, anche stranieri, hanno

70
prescelto un gruppo di anarchici semplicemente per
precostituire degli imputati per un delitto commesso invece da
loro stessi. E hanno prescelto Valpreda e i suoi compagni,
perché in quel momento essi rappresentavano il gruppo più
battagliero, più irrequieto, più disponibile alla protesta
clamorosa, esemplare. A questo proposito, quando il pm parla
di “azione esemplare” teorizzata dal gruppo, evidentemente
confonde la protesta clamorosa ma pacifica con l’uso della
dinamite. Quando cita lo slogan “La prassi nasce dalla azione”,
quasi a prova “ideologica” della loro colpevolezza, dimostra tra
l’altro una notevole ignoranza del pensiero anarchico. La
prassi, cioè il comportamento, i modi di intervento nella vita
sociale, politica, ecc., sono in effetti il risultato della concreta
esperienza, e cioè dell’azione. Solo in questo senso deve
essere interpretata la frase “incriminata”. Ma il pm, per
comodità dialettica, rovescia il pensiero e in pratica dice: la
prassi anarchica nasce dall’azione; quindi più l’azione è
violenta, distruttiva, più la prassi e il comportamento sono
anarchici. Così giunge alla facile e semplicistica conclusione
che una bomba è la migliore dimostrazione dell’anarchia!».

La parte che segue è piena di rimandi. Ai bordi ci sono diversi


numeri cerchiati, come si trattasse di note. Prima di continuare
a leggere vado in cucina. Ho fame. Apro il frigorifero e prendo

71
un barattolo di olive che mi ha regalato Salvatore, il mio amico
pescatore. Me ne torno sulla poltrona, non prima però di
essermi fermata davanti alla finestra ad ammirare il maestoso
carcere di santo Stefano illuminato dagli ultimi raggi di sole.

«Vediamo ora la questione del circolo XXII Marzo», prosegue


l’articolo. «La storia di questo gruppo è abbastanza nota e
singolare. Alcuni giovani anarchici che frequentavano il circolo
romano “Bakunin”, cominciarono a dissentire politicamente da
esso, finché non costituirono un altro circolo. Il pm,
soprattutto dopo la pubblicazione di “Strage di stato”, è giunto
alla conclusione che in effetti fu il Merlino a condurre il gioco,
nell’intento di costituire un centro di provocazione. Il Merlino,
ex-fascista mascherato da anarchico, in realtà attivista dei
gruppi di destra e del sottobosco neofascista, era collegato ad
alcuni elementi provocatori, come per esempio Stefano Delle
Chiaie (detto il “Caccola”), il quale - particolare curioso ma
significativo - dopo essere stato convocato dal giudice
istruttore quasi a chiusura dell’istruttoria, accusato di reticenza
sui rapporti col Merlino, si rendeva latitante durante un
intervallo dell’interrogatorio... con la scusa di dover andare al
gabinetto. Il fatto che Merlino fosse probabilmente l’ispiratore
dell’operazione “22 Marzo” non prova assolutamente che i suoi
compagni ne fossero consapevoli. Secondo il pm, poiché

72
Merlino era un noto provocatore (noto, ora, al pm, non agli
anarchici!), la posizione dei coimputati si aggraverebbe, in
quanto sarebbe dimostrata la concordanza esistente tra i vari
aderenti al gruppo, riguardo alla prassi operativa, e cioè alla
violenza».

«A parte che c’è violenza e violenza», puntualizza Montana,


«tale convinzione dei pm è strabiliante, solo se si pensi che il
Merlino fu fermato la sera del 12 dicembre, che fu il primo a
subire l’interrogatorio in questura e ad accusare i compagni,
per dimostrare che non già lui bensì costoro erano i veri
ispiratori e istigatori degli attentati. Dunque, la pubblica
accusa, mentre da una parte accetta la tesi che Merlino fosse
l’istigatore e l’ispiratore del gruppo, dall’altra ritiene attendibile
le accuse del Merlino stesso contro i suoi compagni, che
dimostrerebbero l’esatto contrario: non lui ma gli altri
avrebbero ispirato e “istigato” all’attentato dinamitardo. Il che
è una vera e propria contraddizione in termini, un bisticcio
logico di cui solo il pm possiede la chiave per venirne a capo.
Infatti delle due l’una: o il pm crede realmente a un Merlino
istigatore, e allora in questo caso deve giudicare inattendibili le
sue dichiarazioni contro gli altri imputati quali “istigatori” e
“organizzatori”; o crede invece alle dichiarazioni del Merlino, e
allora costui, non è più l’ispiratore, l’istigatore, ecc., e poiché

73
non vi sono né prove né accuse contro di lui, nemmeno da
parte dei suoi ex-compagni, dovrebbe essere prosciolto
dall’accusa di concorso in strage. Su quali elementi il pm basa
la colpevolezza del Merlino? Sul fatto che sarebbe l’ispiratore,
lo stratega lucido, diabolico dell’attentato. Ebbene, in questo
caso le accuse di Merlino contro Borghese, Mander, ecc., sono
logicamente false. Costoro non possono averlo sollecitato a
partecipare agli attentati e soprattutto non possono averne
ottenuto un rifiuto (come ha dichiarato il Merlino). Avrebbe
rifiutato ciò che egli stesso istigava gli altri a fare? E i suoi
compagni, si sarebbero dunque lasciati “ispirare” dal Merlino,
quando lui stesso si rifiutava? Non ha senso, e il pm dovrebbe
convincersene. La logica vuole che Merlino non poteva né
rifiutare, né tanto meno ispirare, ma solo provocare, come in
effetti sembra aver fatto. E la prova della provocazione -
cosciente o no, da parte del Merlino, non sappiamo - è data
dal fatto che Merlino è stato interrogato per primo. Dunque, la
base dell’inchiesta contro il “22 Marzo” si è costituita, è anzi
stata provocata dalle risposte da lui date agli inquirenti, e cioè
sin dal primo momento delle indagini. Ma se le dichiarazioni di
Merlino sono inattendibili, tutta l’istruttoria Valpreda - 22
Marzo ha un vizio d’origine, sul quale non è lecito sorvolare».

«Chi aveva interesse agli attentati del 12 dicembre 1969?» , si

74
chiede mia madre all’inizio di questa parte dell’articolo. Poi
scrive sul bordo: La strage di piazza Fontana è parte di un
piano finalizzato a respingere le lotte sociali in atto e a buttare
i socialisti fuori dal governo, ripristinando una coalizione
centrista aperta all’Msi. A ciò sarebbe dovuto seguire un colpo
di stato tipo greco5.
5
«Il pm», c’è scritto sull’articolo di A, «fa in pratica questo discorso: gli
attentati maturarono nel circolo “22 Marzo”, che sarebbe stato per lui una
specie di centro del tritolo, in cui confluirono elementi anarcoidi e un
“suggeritore” neofascista camuffato da anarchico (Merlino). Il pm in
sostanza ritiene che Merlino non prese parte alla esecuzione materiale
dell’attentato, non volendo probabilmente partecipare alla fase più
pericolosa del piano; gli sarebbe bastato “ispirare” gli anarchici. L’indagine
ha stabilito che Merlino, mentre partecipava alle riunioni del circolo
“Bakunin” e poi al “22 Marzo”, era in contatto col gruppo neofascista di
Delle Chiaie. Ciò è stato del resto ampiamente documentato dal libro “La
strage di Stato”; stupisce anzi il fatto che solo dopo l’uscita del libro il pm e
il giudice istruttore se ne accorgessero. Questo servirebbe a dare una patina
di credibilità alla tesi degli “opposti estremismi”, che alla fine
dell’istruttoria viene accettata, per soddisfare le esigenze d’ordine della
società italiana e dei partiti. Ciò non soddisfa, però, l’esigenza di
obbiettività; soprattutto se si considera il diritto dell’imputato, che dovrebbe
sussistere indipendentemente dall’utilità politica della tesi d’accusa. La
sinistra istituzionalizzata sembra d’accordo sulla piega presa dall’istruttoria
Valpreda; evita così di porsi la domanda sui motivi che hanno consentito al
“Caccola” di rendersi uccel di bosco con tanta facilità. In tal modo

75
Alla fine dell’articolo c’è annotato a matita che la moglie di
Pinelli, Lucia, ha denunciato Calabresi e tutti gli agenti (i
poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi,
Piero Mucilli, e il tenente dei carabinieri Savino Lograno), visto
che erano presenti ai vari interrogatori cui fu sottoposto il
marito fra il 12 ed il 15 dicembre ‘69. La denuncia era per

l’aggancio diretto tra Merlino e i neofascisti viene sottratto


all’approfondimento della verità riguardante sia i veri mandanti che i loro
strumenti. La conclusione della requisitoria del pm è infatti esplicita: è vero,
ci sono dei colpevoli ancora “ignoti”, che però sono dei complici, anziché
dei mandanti. Gli “opposti estremismi”, farebbero quindi parte solo di un
gioco pericoloso, criminale, senza alcuna responsabilità dei vertici e di
eventuali mandanti! L’establishment è salvo il sistema assolto». Ancora
sottolineature: «Una requisitoria di questo genere sembra fatta apposta per
mettere in pace la coscienza dei benpensanti: Merlino, fascista e finto
anarchico, ispiratore, istigatore, ma non esecutore materiale degli attentati
(con un po’ di fortuna se la caverebbe con una semplice condanna per
istigazione a delinquere); Gargamelli, esecutore materiale ma solo per
l’attentato meno grave (quello alla banca in cui lavorava suo padre);
Borghese, complice ma già giudicato seminfermo mentale, nonostante il pm
lo ritenesse il “cervello” degli attentati romani! Il vero colpevole, il
“mostro” da chiudere in un carcere per tutta la vita, sarebbe dunque
Valpreda, il massacratore di innocenti, il bieco dinamitardo, il rottame
umano che nessuno potrebbe mai compatire o cercar di salvare. Valpreda: la
vittima designata da dare in pasto al perbenismo ipocrita e alle cosiddette
istituzioni democratiche».

76
omicidio volontario: il giudice istruttore è Gerardo D’Ambrosio,
che manda avvisi di reato a tutti i denunciati.

Mia madre poi scrive: La pista anarchica è stata costruita già


prima dell’attentato dalla polizia e da Avanguardia nazionale,
che aveva infiltrato Merlino a Roma, e Lotta di popolo che
aveva infiltrato Nino Sottosanti, il sosia di Valpreda, tra gli
anarchici milanesi. Non si tratta si un attentato contro il
sistema, ma del sistema perché non mirava a destabilizzarlo,
ma a consolidarlo.

Sulla pagina seguente annoti che: Il 21 ottobre è stata


riesumata la salma di Pinelli. Sul collo hanno riscontrato una
ecchimosi di cm 6x3 presumibilmente provocata da un colpo di
karaté (metodo usato dalla polizia) sicuramente precedente
alla caduta. Vengono fatte prove con un manichino che
escludono completamente il suicidio. Allora chi è stato a
buttarlo di sotto?

Le pagine che seguono sono niente altro che una cronologia


degli avvenimenti di quei mesi. Scrive dello sciopero generale
per il diritto alla casa proclamato da Cgil CISL Uil; del giudice
istruttore di Treviso Giancarlo Stiz che spicca mandati di
cattura contro i neonazisti padovani Franco Freda, Giovanni

77
Ventura e Aldo Trinco per le bombe del 1969; dell’assalto
fascista all’università Statale di Milano. Poi a novembre, il 24,
registra che a Milano, polizia e carabinieri intervengono contro
una manifestazione del Movimento Studentesco all’università
Statale: 72 feriti, 11 arrestati e 275 denunciati.

Si segna perfino che il 24 dicembre Giovanni Leone è eletto


presidente della Repubblica con i voti determinanti del Msi.
L’anno nuovo, il 1972 si apre nel suo diario con l’arresto, il 3
marzo di Pino Rauti, fondatore del gruppo neonazista “Ordine
Nuovo”, con l’accusa di ricostituzione del disciolto partito
fascista e di corresponsabilità negli attentati del 1969. Sul
bordo, scritto in verticale, mamma ha annotato che Rauti,
indiziato il 22 anche per la strage di Piazza Fontana, è stato
scarcerato il 24. Nel quaderno trova spazio anche la prima
azione rivendicata dalle Brigate rosse: Idalgo Maciachini,
dirigente della Siemens, è sequestrato per alcune ore a Milano.
E di seguito il dolore per la morte in carcere dell’anarchico
Giuseppe Serantini. Un dolore dovuto non soltanto per
l’assassinio in sé e per l’orribile sadismo di alcuni poliziotti,
quanto alla copertura che immediatamente gli assassini hanno
avuto dalle autorità e da quasi tutta la stampa.

Domenica 7 maggio alle ore 9.30 del mattino Giuseppe muore,

78
e con perfetto tempismo un funzionario della questura si
precipita in Municipio per ottenere l’autorizzazione a rimuovere
il corpo, tentando così di evitare il necessario esame medico,
formalità decisamente scocciante e che secondo i poliziotti di
larghe vedute andrebbe eliminata per non intralciare il “giusto
compito delle forze dell’ordine”. “Un giovane studente è stato
ucciso”, scrivono i giornali. Ma la notizia non fa scandalo: si
tratta di un anarchico e per di più di un figlio di genitori ignoti;
i suoi assassini sono poliziotti e figli di buona donna. Perciò la
vicenda non finisce in prima pagina e dopo un paio di giorni i
giornali non ne parlano più. Intanto si tesse la solita fitta rete
di omertà, di reticenze mafiose, di scaricabarili. E a tappare la
bocca ai compagni di Serantini ci pensa la polizia impedendo
comizi, sequestrando volantini, incriminando. Una sola cosa ha
consolato i suoi compagni: quando la bara è apparsa uscendo
da una fredda sala d’obitorio, nessuna folla di borghesi e
piccolo-borghesi, accecati dalla disinformazione televisiva si è
istericamente accalcata per applaudire.

79
OTTO

17 maggio 1972. Il commissario Calabresi è stato ucciso.

Era prevista la presentazione al Palazzo Reale di Milano, nella


Sala delle Cariatidi, de “I funerali dell’anarchico Pinelli”, una
imponente installazione di dodici metri per quattro realizzata
da Enrico Baj sotto l’emozione dell’oscura morte di Pinelli.
Ovviamente con un altro titolo. Era presentata in catalogo, a
nome dell’amministrazione, come «Baj, un quadro». Non era
citato mai l’episodio della morte di Pinelli se non come «...un
tema di attualità». L’inaugurazione è stata annullata in seguito
alla notizia dell’omicidio e l’opera fu censurata 6.

Nessuna altra parola sull'omicidio Calabresi. Mia madre non fa


commenti sulla sua morte. Usa una frase secca, che non lascia
trasparire i suoi sentimenti. Parla solo di una mostra alla quale
forse doveva partecipare papà. Probabilmente in un momento
successivo aggiunse con una penna rossa : 27 agosto. I

6
- Ci volle parecchio tempo prima che quel lavoro durato tre anni con sagome, stracci,
paillettes, passamanerie, sete e broccati venisse esposto affinché tutti vedessero il dolore di
Licia Pinelli e delle figlie che si scontra con l’indifferenza dei generali, le mani contorte che si
affacciano dalla finestra della questura di Milano, l’anarchico che precipita urlando nel vuoto.

80
neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura sono incriminati
dal giudice Franco D’Ambrosio per la strage di Piazza Fontana.

In compenso ha ritagliato e incollato sulle pagine successive


del tuo diario due articoli. Uno di Lotta Continua datato 18
maggio 1972 intitolato: «Ucciso Calabresi, il maggior
responsabile dell’assassinio Pinelli» sul quale c’è sottolineato
che l’omicidio Calabresi fu un «atto in cui gli sfruttati
riconoscono la propria volontà di giustizia». L’altro è di “A”.

Non mi sono accorta che nel frattempo si è fatto buio e ho


mangiato troppe olive. Ho sete. Vado a prendere un bicchiere
d’acqua. Poi però, invece di tornarmene a leggere in poltrona,
mi porto i diari in camera. Mi butto sul letto e mi fermo a
guardare il soffitto.

Penso a una recente trasmissione televisiva dedicata a


Calabresi. C’era Luca Zingaretti che leggeva alcuni brani di un
libro scritto dal figlio. Che pure era presente in studio. Ricordo
di aver provato una gran pena per lui. Ma poi mi viene in
mente che niente di simile è stato fatto per Pinelli. Anche lui è
stato ammazzato. Anche lui ha lasciato una moglie e due
bambine piccole. Perché non cercare di farsi rispiegare meglio
da chi stava in quella stanza, e dagli altri protagonisti di quella
vicenda che ancora vivono, quello che avvenne la sera di quel

81
triste 16 dicembre 1969?

Riprendo a leggere: «Il poliziotto dottor Luigi Calabresi, già


commissario dell’ufficio politico della questura di Milano,
promosso commissario capo dopo la strage di stato, è stato
ammazzato con una revolverata alla nuca. Questa è l’unica
cosa certa, sinora. Nessuno ha parlato di suicidio o di
incidente: le versioni più bizzarre e contraddittorie nascono
solo attorno alla morte degli anarchici. È stato ammazzato il
poliziotto della Zublema, di Pinelli, di Valpreda, di Feltrinelli ed
è l’unico dato di fatto certo. Tutto il resto è fumo, chiacchiere,
isteria, congetture, menzogne, illazioni, ipotesi. Noi non
vogliamo qui esporre altre ipotesi, ma esprimere la nostra
opinione sulla vicenda con sincerità, seppure con minore
lapidarietà e completezza di quanto vorremmo, ad evitare - se
pure è possibile con i tempi che corrono - di farci incriminare
per apologia di reato. Perché è certo che se esprimessimo
apertamente quale è stata la nostra reazione emotiva alla
morte di Calabresi (e non la nostra soltanto, ma di tanti
compagni e non), troveremmo qualche maresciallo, deputato,
suora di clausura, impiegato di concetto, pensionato,
casalinga, vicepresidente RAI-TV, poliziotto, disposto ad
indignarsi e a denunciarci e qualche Occorsio disposto ad
indignarsi e ad inquisirci e qualche giudice disposto ad

82
indignarsi e a condannarci. Così anche se esponessimo la
nostra opinione netta sull’attentato politico in generale (che
pure non è di entusiastica approvazione né di incitamento, ma
neppure di ipocrita universale condanna), troveremmo
certamente qualche zelante servitore stipendiato dallo stato
disposto a ravvisare nelle nostre argomentazioni sanguinarie
istigazioni al delitto. Partiamo dal dato di fatto che Calabresi è
stato ammazzato e che gli anarchici, i rivoluzionari, i proletari
non hanno pianto. Hanno pianto i parenti di Calabresi e del
loro dolore ci spiace, ma non più di quanto ci spiaccia il dolore
dei parenti di tutte le vittime di incidenti stradali. Certo meno
di quanto ci addolori il dolore dei parenti delle vittime della
polizia, degli incidenti sul lavoro, dei morti ammazzati nelle
guerre volute dai padroni e dagli stati... Hanno finto di
piangere, ed in realtà erano spaventati, i commissari, i
questori, i prefetti, i ministri, i padroni, i quali hanno scoperto
(o riscoperto) che, se il loro sistema è (ancora) possente e può
(ancora) uccidere i sovversivi, schiacciare la verità, tenere
aggiogate le masse sfruttate, loro, gli individui, non sono
invulnerabili. Hanno constatato che, se siamo ancora lontani
dal momento in cui l’intera classe dominante sarà chiamata a
rispondere dei suoi delitti e la rivoluzione farà giustizia
distruggendo il sistema dello sfruttamento e dell’oppressione,

83
già ora la singola rotella dell’ingranaggio repressivo può essere
chiamata a rispondere dei suoi atti. Questa paura che abbiamo
visto negli occhi e sentito nei discorsi dei potenti e dei loro
servi è segno, a nostro avviso, che comunque sia andata la
faccenda dell’uccisione di Calabresi, provocazione o vendetta,
essa ha avuto il valore di un monito».

«Al momento in cui scriviamo queste righe», continua


l’articolo, «quindici giorni dopo il fatto, nessuno tranne forse la
polizia (e probabilmente neppure essa) ha elementi concreti
per convalidare un’ipotesi interpretativa dell’uccisione del
commissario-finestra. Esistono solo, quindi, ipotesi “politiche”.
Così la destra dà per certo che siano state le “belve rosse” e la
sinistra parlamentare dà per certo che si tratti di una ennesima
provocazione. La sinistra extraparlamentare, da parte sua, è
divisa tra chi vede in questa vicenda la mano degli assassini
fascisti di piazza Fontana e dei loro mandanti e complici (che
avrebbero voluto in un sol colpo eliminare uno che sapeva
troppo e si era bruciato ed insieme creare una vittima da
attribuire ai sovversivi) e chi senza dubbi vede ed esalta in
questo gesto una mano rivoluzionaria vendicatrice. Noi non ci
sentiamo di escludere nessuna delle due ipotesi. Da un lato,
dopo tre anni di strage continua di stato, non ci stupirebbe più
nulla e certo il momento scelto per ammazzare Calabresi era

84
quello politicamente meno opportuno ed è servito
egregiamente alla recrudescenza della repressione (ma la
repressione ne aveva proprio bisogno?) e ci sono, al solito,
tante stranezze in tutta la vicenda. D’altro canto non vediamo
perché si debba escludere in modo tanto reciso e solo in base
a congetture politiche (che ricalcano la traccia un po’ troppo
consunta - e poco rivoluzionaria - della provocazione nascosta
dietro ogni atto illegale) la possibilità che Calabresi sia stato
ammazzato per vendicare Pinelli. Quello che è certo è che
nessuna organizzazione rivoluzionaria, anarchica od
extraparlamentare, ha progettato questa esecuzione del
commissario. Ma non basta certo questo per qualificare di
provocazione il fatto. Altro è, inoltre, dissentire sull’opportunità
politica di un gesto - che, ripetiamo, neppure noi avremmo
consigliato all’ignoto autore; altro è mettere subito avanti le
mani impaurite gridando alla provocazione. Il che, oltretutto,
non è neppure dignitoso, quando per due anni si è gridato
nelle piazze “Calabresi assassino” e “Pinelli sarai vendicato”.
Generalizzando il discorso (perché taluni “rivoluzionari”, nella
foca di allontanare da sé il sospetto di essere se non complici
almeno istigatori e corresponsabili, si sono messi a straparlare)
vogliamo poi ribadire che altro è dire che ammazzando re,
ministri, generali, eccetera non si abbatte il sistema (ma, ci

85
credano gli ex-parlamentari del Manifesto, neppure quegli
incolti di cose socio-economiche che sono notoriamente gli
anarchici lo pensano), altro è dire, tout-court, che sempre e
dovunque l’attentato politico sia inutile o peggio ancora
provocatorio. Andiamoci piano. Non confondiamo la tattica con
la paura ideologizzata».

Calabresi venne ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla


sua abitazione. Erano le 9,15, il commissario era appena
uscito di casa, in via Cherubini, e mentre stava attraversando
la strada per raggiungere la sua macchina, una FIAT 500 blu,
un uomo (secondo i testimoni oculari, molto alto) lo ha
freddato alle spalle con due colpi di pistola, uno alla nuca e
l’altro alla schiena, per poi fuggire. Chi era? Nel 1988 un ex
militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, ha confessato la
sua partecipazione all’omicidio e indica come esecutore
materiale Ovidio Bompressi, e come mandanti Adriano Sofri e
Giorgio Pietrostefani. Ai tre 22 anni di carcere. La confessione
di Marino, però, ha molti lati oscuri. Così come i processi 7.

7
Moltissime prove sono sparite: i vestiti del commissario Calabresi sono stati distrutti, il proiettile
che l’ha ucciso è stato venduto all’asta, la macchina che era servita per l’omicidio è stata smontata
perché la polizia aveva smesso di pagare il bollo. Anche le circostanze della “spontanea”
confessione di Leonardo Marino sono assai sospette. Secondo quanto dice, infatti, il suo
pentimento sarebbe arrivato dopo il fallimento di una rapina: prima va dal parroco del suo paese,
e poi dai carabinieri. Prima, però, vuole avvertire il PCI, partito al quale è iscritto. Chiede di poter
parlare con il senatore comunista Flavio Bertone. Poi, il 19 luglio dell’88, fa la confessione

86
Zia Carla, è tra coloro che non credono alla confessione di
Marino. Ma più per miseria umana del suo ex compagno che
per i complotti. Fatto sta che, i sette processi a carico di
militanti di Lotta Continua, basati sulle dichiarazioni dei
testimoni oculari, non sono comunque bastati a fugare i dubbi
intorno alla confessione di Marino, a causa di parecchie
incongruenze.

ufficiale. Ma durante il dibattimento emerge che Marino aveva preso i contatti con la polizia già dal
2 luglio: ci sono quindi 17 giorni di colloqui non verbalizzati che la magistratura non ha mai potuto
prendere in considerazione. Poi ci sono le testimonianze di chi lo conosceva. Come quella di un suo
concittadino che, prima della confessione, lo ricorda povero in canna, salvo poi riuscire a comprarsi
di punto in bianco una casa a Sarzana e un camper nuovo. Cosa che non mancato di rilevare

anche il parroco. Secondo lui avrebbe ottenuto dei soldi in cambio della sua testimonianza.

87
NOVE

Nel suo diario scopro che anche le Brigate Rosse hanno fatto
delle indagini sull’omicidio Calabresi e sulla morte di Pinelli.
Cosa che ignoravo completamente.

Il 15 ottobre è stato scoperto un covo delle Brigate Rosse a


Robbiano di Mediglia. L’appartamento era disabitato, ma i
carabinieri che rincasassero i brigatisti. Ne hanno presi due, il
terzo è stato ferito nel corso di un conflitto a fuoco. Un
maresciallo è morto. Pare che in questo covo siano stati
scoperti importanti documenti, tra cui l’analisi di vari atti di
terrorismo di altre organizzazioni, e alcune contro-inchieste
delle BR su azioni di altri gruppi, riguardanti la strage di piazza
Fontana, la morte di Giuseppe Pinelli, e quella dell’editore
Giangiacomo Feltrinelli e l’omicidio Calabresi. Dobbiamo
trovare questa roba. Novembre 1974

Mi sono messa a cercare su internet qualcosa di queste


inchieste. C’è poco o nulla. Parte del materiale sequestrato,
inizialmente depositato presso il Nucleo Speciale

88
Antiterrorismo dei Carabinieri di Torino, andò smarrito dopo
vari passaggi. In parte forse fu distrutto nel 1992, dopo essere
stato ritenuto di nessuna utilità. Altri documenti sequestrati
vennero tuttavia trascritti e riassunti dagli agenti che si erano
occupati dell’indagine. Sembra che i documenti e le
trascrizioni, per motivi misteriosi, non siano mai pervenuti o
forse solo parzialmente al Tribunale di Milano. L’oblio fu rotto
dalle indagini della Commissione Stragi, che si fece consegnare
il materiale superstite. Dalla relazione della Commissione
stragi (seduta 8 giugno 2000) si leggono alcuni titoli dei
documenti trovati. Un’intervista-interrogatorio su
audiocassetta, cui da militanti o fiancheggiatori delle Brigate
rosse fu sottoposto il professor Liliano Paolucci, cioè la persona
che subito dopo la strage, in modo del tutto casuale, aveva
raccolto le confidenze di Cornelio Rolandi, il principale teste a
carico di Pietro Valpreda; interrogatori-interviste di alcuni
dirigenti del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano, al
quale apparteneva Giuseppe Pinelli e dal quale era stato
espulso Pietro Valpreda; una relazione dalla quale risultava che
Pinelli in realtà si era suicidato perché era rimasto
involontariamente coinvolto nel traffico di esplosivo poi
utilizzato per la strage.

Secondo Wikipedia la Commissione Stragi accertò che le

89
contro-inchieste brigatiste avevano raggiunto talvolta risultati
difformi dalla opinione comune. Sulle contro-inchieste vi fu
una lunga deposizione alla Commissione Stragi dell’ex-capo
storico delle Br, Alberto Franceschini. Disse che sulla strage di
Piazza Fontana la contro-inchiesta delle BR arrivò alla
conclusione che la strage fu opera di una collaborazione tra
anarchici, fascisti e servizi segreti.

Un pentito delle BR, Michele Galati, raccontò che la contro-


inchiesta era arrivata alla conclusione che materialmente
l’ordigno era stato posto nella banca dagli anarchici, che
pensavano di attuare un attentato dimostrativo; timer ed
esplosivo erano stati messi a disposizione da una cellula nera.
I risultati della contro-inchiesta su piazza Fontana furono
tenuti riservati, secondo Galati, perché concludeva che
l’anarchico che aveva collocato la bomba era morto suicida
perché sconvolto. L’inchiesta delle Br, secondo il racconto di
Galati, concluse che la strage avvenne per un errore nella
valutazione dell’orario di chiusura della banca. Nel settembre
1992, anche l’allora segretario del PSI, Bettino Craxi fece
affermazioni analoghe.

La Commissione Stragi accertò inoltre che la contro-inchiesta


ebbe come elemento centrale l’interrogatorio di uno degli

90
accompagnatori di Feltrinelli nell’attentato al traliccio di
Segrate. L’interrogatorio del compagno di Feltrinelli, chiamato
Gunter (o Gunther) fu registrato su nastro magnetico, trovato
anch’esso a Robbiano di Mediglia.

A proposito di Feltrinelli, che è morto il 14 marzo 1972, mia


madre scrive a giugno dello stesso anno che « In un sondaggio
d’opinione fatto pochi giorni fa, dopo la morte di Feltrinelli, il
cinquanta per cento degli intervistati si dichiara convinto che
l’editore è stato assassinato. Questo, insieme alla pronta
denuncia unanime espressa dalla sinistra extraparlamentare, è
l'unico dato confortante di quest’ultimo (per ora) omicidio
della “strage continua di stato”. Due anni di
controinformazione non sono passati inutilmente, se l'opinione
pubblica istintivamente non accetta più le versioni ufficiali a
proposito di “suicidi” e di “incidenti”. Questa incredulità, del
resto, la si ritrova riflessa persino negli articoli di giornali
governativi come “Il Giorno” che hanno avanzato dubbi sulla
verosimiglianza dell’ “incidente” e riserve su tutte le stranezze
della vicenda, sulla ambiguità di questi personaggi, sul
significato delle tracce lasciate in giro dal Saba (stupidamente
o volutamente?), autonominatosi follemente erede spirituale
del “comandante” Feltrinelli... Per il resto, tutta la vicenda ed i
suoi sviluppi sino ad oggi sono stati una dimostrazione di

91
forza, da un lato di chi continuando ad uccidere vuole coprire
il suo piano di provocazione e proseguirlo in tutta tranquillità
ed anzi in affinando la tecnica e dall'altro (ma davvero un
altro?) dell'apparato repressivo statale che ha approfittato
dell'occasione (inaspettata) per colpire pesantemente gli
“opposti estremismi” cioè gli estremisti di sinistra, scatenando
in tutta Italia una assurda terroristica serie di perquisizioni,
montando una gran storia di inesistenti eserciti insurrezionali
rossi, sollecitando con fughe di notizie a senso unico e spesso
infondate, una campagna di calunnia contro la sinistra
rivoluzionaria (favorita anche da discutibili atteggiamenti di
quest’ultima, come l’esaltazione da parte di Lotta Continua del
sequestro Macchiarini o la pubblicazione da parte di Potere
Operaio di un delatorio comunicato dei G.A.P.). Niente di
nuovo in questo. Il cadavere di Feltrinelli è servito non solo a
coprire lo scandalo dell'incriminazione dei fascisti per la strage
di Piazza Fontana, ma anche a motivare pubblicamente una
ramazzata alla sinistra del PCI. La novità è che stavolta la
repressione è passata attraverso i cosiddetti e sedicenti
magistrati “democratici”, tipo Viola, e non più attraverso i
vecchi arnesi reazionari alla Amati. È una novità significativa
perché dimostra la fragilità di supposte contraddizioni
insanabili interne al sistema. La funzione repressiva della

92
magistratura non viene modificata né attenuata, se non nelle
forme, dal modernismo di quei magistrati che prefigurano un
modo più agile ed efficace di reprimere. Un’altra novità è
costituita dal relativo disinteresse per gli anarchici dimostrato
da polizia e stampa, segno che ormai l'offensiva
controrivoluzionaria dello stato non ha più bisogno di colpire
gli anarchici ma ha trovato altri obiettivi ed anche un po’
segno che il senso di responsabilità dimostrato dal Movimento
Anarchico in questi due difficili anni è riuscito a respingere le
possibili provocazioni oggettive e soggettive. Solo da qualche
località (Treviso, Sanremo, Firenze...) ci sono giunte notizie di
perquisizioni a sedi e domicili anarchici. Solo un paio di volte la
stampa ha cercato (evidentemente su indicazione
questurinesca) di inserire gli anarchici nella vicenda Feltrinelli.
Una prima volta parlando di Georg Von Rauch, l'anarchico
assassinato dalla polizia lo scorso dicembre come di un
“tupamaro” berlinese che avrebbe trafficato in armi con
Feltrinelli: il che è pura invenzione perché Von Rauch era un
militante della Crocenera Anarchica tedesca e non faceva
parte del gruppo Baader Meinhof (che non è un gruppo
anarchico). Una seconda volta, più recentemente, mettendo
tra i frequentatori della casa di via Subiaco (rifugio di Saba e
Viel) la “anarchica” Monica Hertl, la quale non solo non è

93
anarchica ma probabilmente non ha neppure mai messo piede
a Milano».

Oddio, non ci sto capendo più niente. Che c’entra mia madre
con queste storie? Fascisti, Brigate rosse, la Raf, servizi
segreti, anarchici che non sono anarchici... Ma perché ha
voluto ficcarsi in questo ginepraio di odio, di violenza lei che
l’ha sempre combattuta a tutti i costi? Perché non si è
accontentata di quello che aveva a casa, dell’amore di papà, di
me che ero così piccola e che avevo tanto bisogno di lei? Io
non so se è vero quanto dice Daniele, che la sua morte fu
voluta da qualcuno. Certo è che tutto sembra essere diverso
da ciò che appare e che qualcuno molto probabilmente
avrebbe preferito che non si facessero domande, che non si
provasse a vedere oltre l’apparenza.

Come, invece, fece Pier Paolo Pasolini. Hai attaccato sul diario
un suo articolo8. Ed è pieno di sottolineature. Come se l’avessi

«Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe
(e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del
potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12
dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di
Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del vertice che ha
manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpe, sia i neo-
fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ignoti autori
materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due

94
riletto chissà quante di volte. E tutti sappiamo che fine ha fatto
e quanto mistero c’è attorno alla sua morte.

La notte tra il primo e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini


veniva ucciso. E io sono sprofondata in un sogno molto agitato
durante il quale cercavo di scrivere una cronologia. Quella
dell’inchiesta di piazza Fontana. La stessa che mi sono
differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase
anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e
Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della
Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima
creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a
tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della
Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro
del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno
dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali
(per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di
Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la
tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo
momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva
tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che
stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale
che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i
boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente
organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e
importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide
atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a
disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti
(attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma
non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un
intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di
conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si
sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i
pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,
che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia
e il mistero».

95
ritrovata tra le mani quando mi sono svegliata di soprassalto
urlando.

Deve essere caduta dal suo diario nero. È una sequenza di


date e di fatti legati alla bomba esplosa nella banca nazionale
dell’agricoltura il 12 dicembre 1969 scritti su un foglio a parte.

Inizia con il 14 dicembre 1969 - Vittorio Ambrosini, anziano


avvocato e giornalista di Milano, capitano degli Arditi durante
la prima guerra mondiale, un passato con posizioni politiche e
amicizie che spaziano tra il comunismo, il fascismo e poi il
neofascismo, frequentatore durante gli anni '60 di Junio
Valerio Borghese, Giovanni De Lorenzo e Pino Rauti, amico
dell’allora ministro dell'Interno Franco Restivo, scrive a questi
una lettera in cui si diceva a conoscenza dei retroscena della
strage, incolpando il gruppo di Ordine Nuovo. Nel luglio 1970,
sentito dai magistrati, ritratterà queste sue dichiarazioni, ma
nel 1971, incontrandosi con l'amico deputato comunista Achille
Stuani, gli confermerà nuovamente le sue accuse contro
Ordine Nuovo.

Finisce con la data del 16 marzo 1978 – Aldo Moro è stato


rapito dalle Br che lo stanno interrogando. I brigatisti hanno
annunciato che quanto rivelerà sarà reso pubblico9.
9
Vedi appendice

96
La cronologia s’interrompe qui. E io con un soffocante senso di
angoscia provo a riaddormentarmi pensando alla mia bambina
e le prometto che staremo sempre insieme. Non la lascerò mai
sola. Lei non sentirà mai la mia mancanza, ogni volta che avrà
bisogno di me, io ci sarò. Glielo giuro.

97
DIECI

«Daniele era un egoista. Aveva trovato quella santa di tua


madre e l’ha massacrata. Sì, perché tua madre era santa»,
Moira si fa il segno della croce. «Solo una santa può aver
avuto un sentimento così benevolo per i disonesti. E Daniele
era uno di quelli. Se n’è approfittato fino all’ultimo per provare
a se stesso quanto era potente. Recitava anche nella vita. Ti
ha portato questi diari perché in cambio vuole qualcosa da te.
Sei sicura che non ti ha chiesto niente? Fai mente locale Sole
mio, sforzati. Deve averti fatto capire che si aspetta qualcosa
da te».

Prima ancora di leggere quello che ha scritto mia madre, zia


Moira vuole capire perché Daniele ha aspettato così tanto
tempo prima di restituire i diari. Appena arrivata ha iniziato ad
interrogarmi. Senza nemmeno aver disfatto la valigia.

«Zia, te l’assicuro. Niente di niente», le rispondo scocciata. Per


me Daniele voleva bene a mia madre. Non so se l’amava. Ma
sicuramente le voleva bene. E poi, no. Non mi aveva chiesto

98
nulla. Nulla che potesse dargli “potere”, come dice lei. «Anzi»,
insisto, «è sembrato sinceramente interessato a me, alla mia
bambina. Mi ha perfino chiesto se intendevo battezzarla con il
nome di mamma».

«Lo vedi è subdolo», ribatte lei. «Dà per scontato che tu ti


comporterai come tua madre che non perdeva occasione per
ostentare la sua diversità rispetto agli altri e a lui in
particolare, che è un ateo della peggiore specie. Maria per
questo ha voluto battezzarti».

«Va bene», le faccio io. «ma questo cosa centra? Neanche lo


conosceva Daniele quando mi ha battezzato. E poi scusa che
male c’è se gli ricordo mia madre?».

«Ti dico solo di stare attenta. Rischi d’impazzire come lei»,


ribatte.

Cinque minuti di silenzio sono tanti. Troppi, se già sai che ti sta
arrivando un’altra stilettata al cuore. «Vuoi sapere che cosa le
ha fatto?», tuona Moira. Senza neanche aspettare la risposta
inizia a parlare. «Voleva vedere fino a che punto poteva
arrivare. Poco per volta, un po’ al giorno, l’ha esaurita. L’ha
fatta consumare», ripete, «come una candela. Stava male
Maria quando è morta. Era depressa. Se proprio lo vuoi

99
sapere, quando ci hanno telefonato per avvertirci della
tragedia io pensato che si era suicidata. E quando hanno
liquidato la faccenda come un incidente, ho tirato un sospiro di
sollievo. Ti assicuro che dietro non c’è stato alcun complotto.
Come invece va sostenendo l’attore!».

«Zia, ma che stai dicendo? Daniele vorrebbe far riaprire il


caso, per diventare più famoso di quello che è, usando me?»,
le chiedo.

«Perché no? Magari vuole mostrarsi al suo pubblico senza


indossare i panni dei personaggi che interpreta sul set. Se la
notizia circola va a finire su tutti i giornali, lo chiamano in
televisione. Può diventare un opinionista. E forse in questo
momento ha bisogno di ravvivare la fiamma della popolarità o
forse semplicemente si è stancato di fare l’attore», risponde
mia zia.

«Magari», continuo io, «vuole semplicemente che la verità


venga fuori».

«Ecco lo vedi che c’è riuscito anche con te?», dice preoccupata
Moira. «Ti ha portato il diario affinché tu ti convinca dell’ipotesi
del complotto. Vuole che tu indaghi sulla morte di tua madre».
Poi con voce implorante: «Ti prego Sole non farti manipolare

100
da quell’assassino. Non fargli uccidere Maria per la seconda
volta».

Voglio cambiare discorso. Le prendo la mano e me la metto sul


pancione. La mia bimba si è mossa e mi piace condividere
quella meravigliosa sensazione con Moira. Per dimostrarle
quanto le voglio bene. Zia Moira, l’ho sempre chiamata zia
anche se non abbiamo alcun tipo di legame familiare, è stata
sempre presente nella mia vita. Sia nei pochi anni che c’era
ancora mamma, sia dopo.

«Te lo ricordi quando aspettavamo mamma sotto la redazione


del giornale?», chiedo. «Ci divertivamo un mondo a suonare
con il clacson la musica degli slogan che si cantavano durante
le manifestazioni. Lotta, lotta lotta non smetter di lottare; per
una casa vera affitto popolare». «Ellecì / non è qui / fa la corte
al PCI...», continua lei. Ellecì, ovviamente sta per Lotta
Continua. E zia Moira ce l’aveva terribilmente con quelli che ne
facevano parte. La cosa che non perdonò mai al gruppo di
Sofri fu il tentativo di boicottaggio, da parte dei militanti di
Lotta Continua della sezione Cinecittà di una grande
manifestazione femminista irrompendo nel corteo al grido di “E
ora / e ora / la fica a chi lavora”. L’assalto venne respinto e si
creò, secondo mia zia, una frattura che degenerò nello

101
scioglimento del movimento. Durante il secondo Congresso
nazionale di Lotta Continua, a Rimini, ci fu un duro scontro fra
il quadro dirigente e le donne. Il movimento, pur senza
dichiarazioni formali, si dissolse.

Proprio in quel momento compare sulla porta zia Carla che nel
frattempo aveva disfatto la valigia e si era fatta la doccia.
«Ancora con queste storie, Moira», chiede con uno sguardo
annoiato. «Non c’è nulla di più deprimente di sentire ripetere
da una vecchia le stesse cose da almeno trent’anni». E per
l’ennesima volta anche zia Carla dice: «Sono state le
femministe del movimento ad iniziare. Volevano sfilare
separate. Il servizio d’ordine non voleva perché lo riteneva
pericoloso e ha cercato di farle desistere». «Sarebbe meglio
dire: represse», la corregge Moira. «Compagno Sofri, sabato
scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo
dimenticherà», continua zia Carla facendo il verso a lei e a
mamma che tiravano sempre questo slogan ogni volta si
parlava di femministe e Lotta Continua.

«Ma smettila», replica zia Moira. «Come fai a parlare tu che eri
la regina della doppia militanza?».

Zia Carla fa un gesto con la mano che è a metà strada tra un


va a quel paese e continua continua tanto non dici sempre le

102
stesse cose. «Doppia militanza?», insiste zia Carla. « La
militanza politica e la militanza femminista erano una
“necessità” per chi come me pensava che si dovesse costruire
di una società più giusta».

«Il problema», continua zia Carla, «è che la vostra parola


d'ordine era “distruggere i maschi”. Ed io non mi sono mai
sentita a mio agio a sentirla pronunciare». Poi si rivolge a me,
quasi a giustificarsi. «Avevo anche la “sventura” di essere
felicemente fidanzata, e durante le riunioni del collettivo era
quasi una colpa. Le compagne in qualche modo
scimmiottavano le riunioni di autocoscienza che già erano una
pratica tra le femministe e ricordo quei nostri incontri come
momenti molto faticosi. Mi sentivo come un'aliena: le
compagne erano molto critiche sugli uomini, ma io non avevo
nessun problema nella mia relazione sentimentale. Molto più
interessante era invece il lavoro che facevamo con le
studentesse: organizzavamo incontri di studio, di presa di
coscienza, manifestazioni per la contraccezione, l'aborto. Il
rapporto con gli altri collettivi femministi della città invece era
piuttosto di competizione più che di collaborazione. Per quanto
riguarda la doppia militanza era una pratica quotidiana, non so
come dire altrimenti, continuavamo ad essere delle militanti
dell'organizzazione per i "grandi temi politici" e di pari passo

103
"lavoravamo" come e con le donne; un doppio lavoro,
insomma. Tutto questo è andato avanti fino agli inizi
dell'estate '76, fino alle elezioni politiche in cui Lotta Continua
si era presentata autonomamente, poi da quel momento la
mia militanza politica all'interno di Lotta Continua è andata
scemando giorno dopo giorno. Non abbiamo smesso, invece,
di riunirci come donne di Lotta Continua, ma più per il
rapporto di amicizia che ci legava che per un progetto politico
specifico»10.

«Se solo le vostre riunioni vi avessero fatto capire che da


angeli del focolare vi eravate trasformate in angeli del
ciclostile…», borbotta Moira. Poi esplode. «È vero lottavate,
ma quasi esclusivamente per l'aborto e per altri obiettivi legati
alla politica tradizionale. Scendevate in piazza con parole
d'ordine dettate dai vostri uomini, cercando di trascinare in
questa lotta le donne del femminismo autonomo. Noi, invece
facevamo autocoscienza in piccoli gruppi, alla ricerca di in un
nuovo modo di far politica, non gerarchico, distante anni luce
da quello della lotta politica della tradizione marxista. Il
famoso partir da sé». E rivolta a me con il suo fare da
maestrina mi fa: «È stata la prima pratica innovativa del

10
Intervista di Maurizia Morini a G.G., 53 anni, insegnante.

104
femminismo autonomo, la rivoluzione pacifica delle donne
legata alla presa di coscienza, allo scambio, all’ascolto
dell’altra, alla rimessa in discussione della società patriarcale,
del rapporto con l’uomo, nel pubblico e nel privato».
«Guarda che non erano facili i rapporti neanche tra voi
femministe», tuona zia Carla dopo essersene stata ad
ascoltare in silenzio. «Mica scherzavate al Pompeo Magno.
Vuoi negare che si scatenò una primordiale contesa tra etero e
non? Tutte concordi nella scelta del separatismo politico dal
mondo degli uomini, ma divise sulla pratica delle relazioni.
Quella che si respirava lì da voi mica era certo una bella aria».
«Beh, voi siete riuscite a far sciogliere Lotta Continua…».
«Non è proprio così, Moira. E lo sai bene!»!

«Avete letto il giornale oggi?», chiedo a tutte e due. «No?


Beh, fatelo. Forse una volta per tutte non ne parliamo più di
questa storia». Su Repubblica è uscita questa recensione di
Nello Ajello su un dibattito a proposito dello scioglimento di
Lotta Continua apparso su Micromega. «Rimini, primi di
novembre del 1976. Nel corso del suo secondo congresso,
Lotta continua – uno dei movimenti più vivaci della sinistra
estrema – si dissolve in maniera che a molti pare
inspiegabile». L’Unità, organo di quel Pci che con la compagine
politica di Adriano Sofri e Guido Viale non è mai stato tenero,

105
rileva che i congressisti «hanno sostituito le emozioni alle
mozioni» e scorge nell’evento una «crisi della militanza di
estrema sinistra». Dal suo canto Lotta continua – il quotidiano
che, nato del ‘72, fa capo al movimento – rinunzia a fornire
«un verbale esatto delle emozioni che ci hanno travolti». A
Rimini, aggiunge con spontanea iperbole, si sono vissuti
«cinque giorni tra la vita e la morte», fra «l’angoscia e la
gioia». Quei giorni di novembre non erano che l’epilogo di una
situazione esplosa all’interno del movimento quasi un anno
prima, durante un corteo in sostegno della legalizzazione
dell’aborto, tenutosi il 6 dicembre 1975. Lotta continua vi
partecipò con un proprio striscione. A un certo punto, le
femministe che militavano nel movimento cercarono di
separarsi dagli uomini, rivendicando una loro autonomia. Il
servizio d’ordine di Lotta continua le ostacolò. Sugli incidenti
che ne nacquero si sarebbe dibattuto a lungo sia in Lotta
continua che nell’intera galassia della sinistra radicale. Così
scrisse, a botta calda, il Quotidiano dei lavoratori: «Compagno
Sofri, sabato scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle
donne non lo dimenticherà».

Le zie s’interrompono e scoppiano a ridere. È citata proprio la


frase che avevano detto prima. Moira e Carla riprendono a
leggere. «Se ne avrà la prova a Rimini, appunto: lì sarà proprio

106
l’ala femminista del movimento, se non a causare la sua fine,
certo a forzarne i tempi. Nel numero che è oggi in edicola la
rivista MicroMega dedica all’evento un diffuso dibattito cui
partecipano quattro ex esponenti di Lotta continua: Guido
Viale, lo storico Giovanni De Luna, Franca Fossati, femminista
storica, lo scrittore Erri De Luca, a suo tempo fra i dirigenti del
servizio d’ordine. Tutti d’accordo nel collocare in quel
novembre di trent’anni fa l’epilogo del movimento (mentre
Lotta Continua-giornale resisterà fino al 1981). La discussione
verte, invece, sulla diagnosi politica del “caso”, sulle sue
ripercussioni a breve termine e perfino sulla modalità degli
scontri che lo precedettero». De Luna si sofferma, ad esempio,
sul rilevante «significato politico e simbolico» dell’incidente del
‘75. Ricorda che, in un’assemblea svoltasi a Torino subito
dopo, la stessa collocazione dei partecipanti rifletteva una
drastica separazione: «In alto c’era la macchia scura degli
operai, in basso quella delle donne; poi c’erano gli studenti,
che non sapevano dove stare. Nel centro c’era una dirigenza
schiacciata dall’incomunicabilità che si respirava in quell’aula».
Ne nasce l’esigenza di fare luce sulle responsabilità di questa
incomprensione. E qui lo storico accenna a un precedente.
Risalendo all’atteggiamento tenuto dal movimento durante la
campagna per il referendum sul divorzio (1974), trova che

107
quello fu ritenuto un diversivo per «distrarre gli operai dalla
dimensione salariale della lotta»: qualcosa di estraneo ai loro
interessi. Si fece poi marcia indietro, e alla rigidità subentrò
«un’apertura senza mediazioni»; ma il male era ormai senza
rimedio. Operai e femministe «non si parlavano più». «Sul
problema delle donne – incalza Franca Fossati – Lotta
Continua ebbe una tardiva capacità d’ascolto». E, quando la
nascita del femminismo diventò una realtà globalmente
accreditata, ecco che esso assurse, per le donne del
movimento, «un orizzonte totalizzante», determinando «un
cambiamento nella nostra vita e in quella di molti uomini».
Una questione dall’evidente «risvolto esistenziale». Si
sfasciarono, ad esempio, «molte coppie». Al riparo di un falso
operaismo – qui la testimonianza della Fossati si fa accorata –
lo stile di vita nel movimento prendeva «tutti i difetti peggiori
della famiglia operaia patriarcale»». Uno spirito separatista
nasceva dai fatti. E ne derivava anche una certa dose di
settarismo: «Noi, come tutte le neofite di un movimento,
vedevamo le donne che non stavano con noi come traditrici. E
fu molto ingiusto e crudele». Autocritica? Non è soltanto la
Fossati a farne. In prossimità del suo epilogo, sostiene ad
esempio Viale – d’accordo, in questo, con De Luna – «il
movimento stava perdendo la capacità di capire quello che

108
succedeva nel paese». E, in particolare, «l’esplosione del
movimento femminista è stata una contraddizione lacerante,
che ha trovato l’organizzazione impreparata». Per capire gli
effetti che avrà in Lotta continua la contraddizione uomo-
donna, occorre comunque tener presente che fra militanti si
svolgeva allora una «vita in comune», animata da una
contiguità di sentimenti. Se non il più polemico, certo il più
controversiale fra i partecipanti al dibattito è Erri De Luca. Egli
discorda da Giovanni De Luna che vede alla base della
decadenza di Lotta continua «l’esaurimento della forza operaia
nelle fabbriche». Pone piuttosto alla base della crisi il mancato
(benché promesso) sorpasso del Pci sulla Dc alla elezioni del
‘76 e le insignificanti percentuali raccolte dalla sinistra
extraparlamentare. Lo scrittore quasi non riesce ancora a
crederci. «Un’organizzazione rivoluzionaria» ed
extraparlamentare «che si lascia scompaginare dal risultato
elettorale, è abbastanza ridicolo». A quel punto, le dimissioni
del «gruppo dirigente di Lotta continua» erano nei fatti. Anzi,
rivela De Luca, erano state decise già un anno prima. Lotta
continua e la violenza. Se quel movimento sia stato o no un
incunabolo del terrorismo. Se il suo servizio d’ordine abbia
rappresentato o meno un «corpo separato» prendendo la
mano al movimento; se i suoi effettivi fossero armati o inermi.

109
Temi scottanti che il dibattito di MicroMega ripropone con
efficacia. I reduci si accalorano nel rievocarli. A volte si
dividono con nettezza fra autocritici e «auto-innocentisti».
Sempre tenendo presente – sono parole di Viale – che fra i
militanti d’un tempo «si sono mantenuti poi dei rapporti di
forte solidarietà»11.

Nessuna delle due ha qualcosa da commentare. Strano.


«Perché non vai a comprare MicroMega?», mi chiede Moira.
Vuole rimanere sola con zia Carla e parlarle di Daniele. Lo so.
«Va bene», dico andando a cercare la borsa. «Ci vediamo più
tardi». Già immagino che testa le farà. Zia Moira ha sempre
detestato Daniele. Anche quando mamma era ancora viva.
Forse era gelosa di quel rapporto o molto più semplicemente
detestava i maschi. Lei era una femminista convinta e non
aveva mai trovato, così sostiene lei, un uomo degno della sua
testa, del suo cuore e del suo corpo.

Si erano conosciute al collettivo femminista di via Pompeo


Magno, zia Moira e mamma. Maria ci andava per aiutare le
ragazze madri e zia era una delle fondatrici. Così simili e così
diverse, divennero subito amiche. Avevano capito che erano
complementari l’una con l’altra. Moira le fece da testimone,

11
La Repubblica, 29 settembre 2006

110
insieme a zia Carla che è la sorella di mia madre, quando si
sposò con papà. Il 10 gennaio del 1969 mise la firma sul quel
contratto di matrimonio e prese alla lettera l’impegno che si
era assunto con quell’autografo. Non smise mai di vegliare su
mia madre per impedire che Luca le facesse del male. Voleva
proteggerla da tutto e da tutti, quando invece era lei, proprio
lei, che aveva bisogno di protezione, fragile e sensibile
com’era. Una fragilità che nascondeva a meraviglia dietro
quella scorza dura di femminista, incazzata con il mondo.

Stavano sempre insieme zia e mamma. Alle assemblee, alle


manifestazioni, nel tempo libero. Maria se la portava dietro
pure quando doveva fare i suoi servizi. Le piaceva sentire il
suo punto di vista. Moira era una psicologa. Campava facendo
sborsare fior fior di quattrini a quelle signore ingioiellate e
impellicciate che pensavano di poter risolvere i propri problemi
sentimentali con una seduta d’analisi. La stragrande
maggioranza di quei soldi venivano poi usati per le battaglie in
difesa delle donne. Bisogna andare nei quartieri di periferia e
parlare con le madri, le figlie, le nonne. Convincerle che quello
che stavano subendo era ingiusto, che si poteva cambiare la
loro condizione. Che se un marito le picchiava potevano
lasciarlo, denunciarlo. Che potevano scegliere cosa fare della
loro vita. Poi c’erano le manifestazioni, i cortei, i sit-in. Quando

111
ero piccola mi piaceva sentir raccontare da zia Moira dell’8
marzo. E lei ogni volta che glielo chiedevo tirava fuori la storia
della manifestazione del 1972. Quella di Campo de’ Fiori che
secondo lei fu il vero primo otto marzo femminista.
«Cantavamo “Noi siamo stufe di abortire/ ogni volta col rischio
di morire/ il nostro corpo ci appartiene/ per tutto questo
lottiamo insieme. Ci dicon sempre di sopportare/ ma da oggi
noi vogliamo lottare/ per la nostra liberazione/ facciamo
donne la rivoluzione!”. C’era pure Jane Fonda alla
manifestazione. Ma quando se ne andò portandosi dietro tutti i
fotografi e le telecamere scoppiò il casino», zia modulava la
voce come si trattasse di una favola. «Eravamo una settantina
ma fu una bambina, Susanna, a scatenare l’ira dei poliziotti.
Fino a quel momento erano stati tolleranti, ci sorridevano
mentre ci dicevano di restare sul marciapiede. Poi Susanna
disse qualcosa e iniziarono le manganellate. Alma Sabatini, la
madre del collettivo Pompeo Magno, finì all’ospedale con la
testa rotta. Io venni caricata di peso da due guardie e portata
sulla camionetta».

Quell’ 8 marzo scesero in piazza per la prima volta anche le


lesbiche. Fu Mariasilvia Spolato a fare il primo coming out
presentandosi alla manifestazione con il cartello: “Liberazione
omosessuale”. E le sue ragioni divennero immediatamente

112
anche quelle di mia madre. Il primo maggio era di nuovo a
Campo de’ Fiori, insieme a me piccola e zia Moira, a
volantinare. Urlava: “Vogliamo le comuni”, “Abbasso il
capitale”, “Il capitale è un grande fallo”, “Abbasso la famiglia”,
“Abbasso il fascismo maschile”. Un po’ di curiosi si
avvicinarono per sapere chi era a manifestare. E lei
rispondeva: “Froci e lesbiche!”. Ma non capirono. Tutto finì a
secchiate d’acqua.

113
UNDICI

L’8 marzo non è la festa delle donne, è la giornata di lotta


delle donne. Ricordatevi di noi siamo morte in una fabbrica,
sfruttate sul lavoro, sfruttate a casa e fuori. Ricordatevi di noi
siamo morte ma non per sempre noi vivremo eternamente
sinchè durerà la lotta. Siamo state assassinate per avere
scioperato voi dovete vendicarci. Vendicarci col lottare.
Vendicarci col creare. Creare un mondo nuovo un mondo di
giustizia un mondo di uguaglianza un mondo di libertà.
Ricordatevi di Adele l’hanno presto incarcerata per avere
contestato per avere militato. L’hanno messa in una cella una
cella isolata per paura che parlasse con chi vuol sapere le
cose. Sapere di un mondo nuovo un mondo di giustizia, un
mondo di uguaglianza, un mondo di libertà.

Cari compagni del PCI che ci fate balenare davanti come se


fosse oro il lavoro magari in fabbrica

Come l’uomo magari alla catena di montaggio e ci dite che


questa è la strada della nostra liberazione. Cari compagni noi

114
rispondiamo che ogni giorno facciamo lavoro gratis. Cari
compagni che state un pelo più a sinistra e che comunque
affermate che il lavoro delle donne non è produttivo e che le
casalinghe la rivoluzione non faranno mai. Ancora non avete
capito niente come sempre dei lavoratori ne vedete solo la
metà. Solo quando noi donne non lavoreremo ci sarà
veramente sciopero generale. Cari compagni voi che dite che
non vi interessano le donne in generale ma solo le donne
proletarie mentre voi facevate la lotta di classe le vostre
compagne proletarie continuavano a lavorare gratis.

8 marzo 1972

Questo scriveva mia madre a proposito della famosa


manifestazione. E le zie lo stavano leggendo quando sono
rientrata a casa. Moira me la mette sotto il naso per
dimostrare che aveva ragione lei. Si tratta dei versi di alcune
canzoni che cantavano in quegli anni le femministe. «E Maria
era una femminista», puntualizza Moira. «Una femminista
anarchica», la corregge zia Carla, «la sua eroina era Emma
Goldman, te lo ricordi vero che metteva sue citazioni
ovunque?». «Certo che me lo ricordo, l’arteriosclerosi ancora
non ha preso il sopravvento», replica. E zia Carla continua:
«Le femministe anarchiche si sono ritrovate, con la loro pratica

115
antigerarchica, a non negare le differenze biologiche e
psicologiche esistenti tra maschi e femmine e a riconoscere
che anche i ruoli sono sicuramente prodotti culturali attribuiti
in base ai bisogni economici e politici propri di ogni società e
quindi legati a variabili geografiche e storiche ben definite. Era
necessario per Maria, come prima reazione, sottrarsi alla
obbligatorietà dei ruoli in cui ciascuno è programmato a
svolgere compiti specifici - le femmine, fattrici, angeli del
focolare, ispiratrici di imprese; i maschi animali da soma, da
guardia e da monta - e scegliere quali differenze valorizzare e
affermare. Voi femministe, invece», continua rivolgendosi a
Moira, «non avete affrontato in maniera chiara il problema del
potere e non avete saputo dedurre le dovute conseguenze
dalle analisi sulla “differenza”, fermandosi sulla soglia della
contrapposizione maschile-femminile. Maria considerava
questa contrapposizione come diversità dell’esperienza, gioco
della differenza, creatività soggettiva». Mentre parlava zia
Carla sfogliava il diario cercando qualcosa in particolare. «Ecco
leggi. Leggi ad alta voce», mi fa non appena trovato la pagina.

«La storia ci ha insegnato che ogni classe oppressa ha


ottenuto la sua liberazione dagli sfruttatori solo grazie alle sue
stesse forze. È dunque necessario che la donna apprenda
questa lezione, comprendendo che la sua libertà si realizzerà

116
nella misura in cui avrà la forza di realizzarla. Perciò molto più
importante per lei cominciare con la sua rigenerazione interna,
facendola finita con il fardello di pregiudizi, tradizioni e
abitudini. La richiesta di uguali diritti in tutti i campi
indubbiamente giusta: ma, tutto sommato, il diritto più
importante quello di amare e di essere amata. Se dalla
parziale emancipazione si passerà alla totale emancipazione
della donna, bisognerà farla finita con la ridicola concezione
secondo cui la donna per essere amata, dolce d’animo e
madre, deve comunque essere schiava o subordinata.
Bisognerà farla finita con l’assurda concezione del dualismo
dei sessi, secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due
mondi agnostici».

Subito dopo c’è una pagina datata ottobre 1975. Mia madre
rimase profondamente scossa da uno spettacolo teatrale, che
andò a vedere con Daniele. “Lo stupro”. Lei non sapeva che
l’autrice di quel monologo, Franca Rame, era stata realmente
violentata e seviziata una sera di marzo dopo essere stata
sequestrata in un camion.

Sono andata con D. a vedere Lo Stupro. È una cruda e


angosciante ricostruzione teatrale di una violenza sessuale
subita da una donna in un camioncino da parte di cinque

117
persone. Al centro dello spazio scenico vuoto c’è solo una
sedia e una donna che racconta l’incubo, l’impotenza, il senso
di vergogna, l’umiliazione. Continuo ad avere nelle orecchie
quelle parole: “Muoviti puttana fammi godere”. Mi sento a
disagio perché come sono rimasta immobile sulla mia poltrona
di spettatrice, inerme e costretta a guardare, anche quella
donna, la protagonista, è stata costretta a rimanere in quel
furgone a aspettare che quei bastardi finissero di godere. Non
voglio che mia figlia cresca in questo mondo. Non voglio che
qualcuno possa decidere di usare il corpo di una donna, come
fosse un oggetto, solo perché gli va. Non voglio che una
donna debba aver paura nel denunciare i suoi aguzzini. Perché
non c’è solo la violenza sulla strada, lo stupro vero e proprio,
ma una seconda violenza. È la violenza dei tribunali e del
processo, dove la donna viene messa a nudo e passa dalla
parte del colpevole perchè è col suo comportamento, con la
sua vita e le sue esperienze che si giustificano gli stupratori.
Sono andata a dormire da D. perché a casa non c’è nessuno.
E ho paura.

«Lo sai, sì che furono alcuni ufficiali dei carabinieri a ordinare


lo stupro di Franca Rame?», dice con odio zia Moira.

«Possono ordinarti quello che vogliono, ma se hai un cervello,

118
se hai un briciolo di umanità, se solo pensi che anche tu hai
una madre, una fidanzata, una figlia, che potrebbe subire la
stessa violenza, non lo fai», rispondo disgustata.

«Sei un’illusa. Sono stati quattro fascisti a violentarla e a


seviziarla. È stato uno stupro politico», continua zia Carla.
«Franca Rame fu aggredita per la sua attività in “Soccorso
Rosso” a favore dei compagni detenuti e in generale dei
carcerati. Nel 1998 si scoprì che fu un castigo ordinato da alti
gradi dei carabinieri della divisione Pastrengo».

«Sempre loro, sempre le guardie. Cerca cosa ha scritto Maria a


proposito di Giorgiana Masi», chiede zia Moira. Dopo alcune
pagine trovo quella del 12 maggio 1977. Leggo ad alta voce.

A Giorgiana... se la rivoluzione d’ottobre fosse stata di maggio,


se tu vivessi ancora, se io non fossi impotente di fronte al tuo
assassinio, se la mia penna fosse un’arma vincente, se la mia
paura esplodesse nelle piazze, coraggio nato dalla rabbia
strozzata in gola, se l’averti conosciuta diventasse la nostra
forza, se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita
nella nostra morte diventassero ghirlande della lotta di noi
tutte, donne, se ... non sarebbero le parole a cercare
d’affermare la vita ma la vita stessa, senza aggiungere altro.
12 maggio 1977

119
Zia Moira resta impietrita. «Questo testo venne scritto sul
manifesto del movimento femminista di Roma subito dopo
l’omicidio», dice con un nodo alla gola. Cerca invano di
ricordare chi fosse l’autrice. Poi si mette a raccontare. Al
presente. «Quel 12 maggio, nell’anniversario della vittoria per
la legge sul divorzio, i radicali decidono di tenere un sit-in in
piazza Navona, nonostante l’assoluto divieto di manifestare in
vigore nella Capitale dopo la morte, il 21 aprile, di un poliziotto
nel corso di scontri di piazza. Il movimento e i gruppi di
sinistra aderiscono all’iniziativa, per protestare contro il
restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima
repressivo, favorito dall’appoggio esterno del PCI al cosiddetto
“governo delle astensioni” di Andreotti. Per far rispettare, a
qualsiasi costo, il divieto, il ministro dell’Interno Francesco
Cossiga schiera migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto di
guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali,
in alcuni casi travestiti da “autonomi”. Fin dal primo
pomeriggio la tensione è molto alta. A quanti difendono il
diritto di manifestare con brevi cortei e fortunose barricate, le
forze di polizia rispondono sparando candelotti lacrimogeni e
colpi di arma da fuoco. Anche numerosi fotografi, giornalisti,
passanti e il deputato Mimmo Pinto sono picchiati e maltrattati.
Pure tua madre si beccò diverse manganellate sulla testa. Ma

120
non volle andare all’ospedale. Chissà perché non ha scritto
niente di questo…». Moira si interrompe per qualche secondo.
«Forse non era così importante in confronto alla morte di
Giorgiana», faccio io per farla continuare a raccontare.

Fa un cenno di sì con la testa e prosegue. «Con il passare


delle ore la resistenza della piazza si fa più decisa, e vengono
lanciate le prime molotov. Mentre nelle strade sono in corso gli
scontri, i parlamentari radicali protestano alla Camera contro le
aggressioni e le violenze della polizia, fra gli insulti di quasi
tutte le forze politiche. Erano quasi le 20 quando, durante una
carica, due ragazze sono raggiunte da proiettili sparati da
Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti e carabinieri.
Elena Ascione rimane ferita a una gamba. Giorgiana Masi, che
aveva solo19 anni, viene centrata alla schiena. Muore durante
il trasporto in ospedale. Le chiare responsabilità emerse a
carico di polizia, questore, Ministro dell’Interno, hanno portato
il governo a intessere una fitta trama di omertà e menzogne.
Cossiga, dopo aver elogiato in Parlamento “il grande senso di
prudenza e moderazione” delle forze dell’ordine, ha modificato
più volte la propria versione dei fatti. Costretto dall’evidenza
ad ammettere la presenza delle squadre speciali - tra gli
uomini in borghese armati furono riconosciuti un commissario
e un agente della squadra mobile – ha continuato però a

121
negare che la polizia abbia sparato, pur se smentito da vari
testimoni e dalle inequivocabili immagini di foto e filmati.
L’inchiesta per l’omicidio si concluse nel 1981 con una
sentenza di archiviazione “per essere rimasti ignoti i
responsabili del reato”. Successive indagini hanno tentato,
senza risultati significativi, di individuare gli autori dello sparo
mortale in un “autonomo” deceduto da tempo, oppure nel
latitante Andrea Ghira, uno dei tre fascisti condannati per il
massacro del Circeo».

Zia Carla s’intromette per raccontare la sua storia: «Il giorno


dopo l’uccisione di Giorgiana Masi, il movimento per sfuggire ai
divieti aveva convocato alcune manifestazioni decentrate. Una
partiva da Testaccio e puntava su Garbatella. Proprio a piazza
Bartolomeo Romano, al Palladium, un gruppo si staccò e iniziò
a lanciare bocce contro la stazione dei carabinieri. Dalla
caserma uscirono dei militari con le armi e spararono.
Fortunatamente non successe nulla di tragico e il corteo
riprese fino a piazza Sauli. Stava per sciogliersi quando arrivò
una carica molto mirata. Claudio Pallone stava tranquillo vicino
all’angolo della chiesa, quasi sfottente nella sua situazione di
disarmato. Non aveva nulla addosso ma evidentemente aveva
il suo volto, i suoi connotati noti, i tratti di un viso autonomo e
conosciuto. Fatto sta che un gippone lo puntò scaricando una

122
specie di robocop che iniziò ad inseguirlo. Claudio corse forte
per via Comboni e mentre stava per infilarsi nel lotto 24,
s’accorse che avevano preso di mira una ragazza che
conosceva. Un attimo di esitazione e la guardia ne approfittò
per lanciargli un manganello tra le gambe. Con una smorfia
cadde a terra e subito gli furono tutti addosso. Dicono che
mentre lo portavano dentro sorrideva agli insulti che gli
piovevano addosso e più delle botte lo colpì lo sguardo di
Lucilla ammanettata vicino a lui. Quella comunque fu l’ultima
uscita del 77 per le strade di Garbatella. Il quartiere ha isolato
i teppisti provocatori, scriveva l’Unità il giorno dopo. Nemmeno
una parola sul fatto che stavamo lì perché la polizia di Cossiga
aveva ucciso Giorgiana Masi. Niente12».

Mi viene spontaneo pensare a Carlo Giuliani, ammazzato


durante il G8 del 2001 da un carabiniere dilettante, militare da
neppure un anno, in circostanze mai chiarite. Io ci stavo a
Genova e stavo pure alla manifestazione che un mese dopo la
12
Claudio D’Aguanno, Garbatella ai tempi dell’Autonomia, MaGMA, 23
novembre 2007. “Il ragazzo che solleva la mano nel segno della P38
dando il proprio nome per un arruolamento nel partito armato è Claudio
Pallone, un compagno di Garbatella che abitava ai palazzi storti di san
Quintino. Frequentava il Borromini, era l’amico di Giancarlo De
Simoni. Ma le loro vicende sono diverse. Claudio è morto ad un posto di
blocco dei carabinieri dopo una rapina in banca e nella storia c’è rimasto
pure Arnaldo, un personaggio straordinario sbucato da noi da un altro
mondo e un’altra epoca. Anche Giancarlo non c’è più stroncato da un
tumore dopo che s’era trasferito in Australia”.

123
tragedia era stata organizzata a Roma, a Ponte Garibaldi
davanti alla lapide per Giorgiana Masi. Ci siamo sdraiati per
terra con le braccia larghe, la stessa ultima posizione di Carlo.
Alle 18.17, nell’ora in cui è morto, abbiamo attraversato il
Lungotevere fino a piazza Belli dove è stata scoperta la targa
con sopra scritto: “Questa piazza è dedicata alla memoria di
due giovani stroncati dalla medesima violenza. Giorgiana Masi,
uccisa a 19 anni a Roma il 12 maggio 1977 dalla polizia di
Cossiga. Carlo Giuliani, ucciso a Genova il 20 luglio 2001, a 23
anni, dai carabinieri di Berlusconi”. Sotto, uno striscione: “Noi
siamo il mondo, non ci fermerete”.

Giuseppe Pinelli, Giorgiana Masi, Carlo Giuliani. Ma anche


Franco Serantini, Roberto Franceschi, Fausto e Iaio. E poi
meno di un anno fa Federico Aldovrandi morto a Ferrara per
un “ufficiale” malore. Federico aveva diciotto anni, aveva fatto
bisboccia con amici a Bologna. Di ritorno a Ferrara le guardie
lo fermano per uno «strano comportamento» alle 6 del
mattino. Era il 25 settembre del 2006. Dopo l’intervento degli
agenti Federico muore. Dicono per un malore. I segni di quel
malore sono ancora visibili nella foto scattata all’obitorio: sono
i segni di un pestaggio. Nessuna colpa, nessun colpevole. Per
lui come per l’anarchico ventenne Franco Serantini che fu
selvaggiamente percosso dalle forze di polizia durante una

124
carica contro i contestatori del comizio del missino Niccolai il 5
maggio del ’72 a Pisa. Franco morì due giorni dopo nel carcere
della città toscana, privo di cure, per frattura della scatola
cranica.

Nessuna colpa, nessun colpevole, anche per Piero Bruno


ammazzato a Roma il 22 novembre 1975 nel corso di una
manifestazione a favore della liberazione dell’Angola dal
dominio portoghese. I carabinieri aprono il fuoco e lo
uccidono. Aveva diciotto anni ed era bellissimo. Sul diario di
mamma c’è attaccata una foto. E un articolo recente che
probabilmente ci ha lasciato dentro Daniele.

«Urlava di dolore Piero mentre lo trascinavano per le ascelle


quasi sotto il cancello dell’ambasciata dello Zaire. Strillò “No!”,
con le mani a coprirsi la faccia. Lo sentì chiaro e forte la
signora affacciata su via Muratori, una strada del centro di
Roma che s’arrampica sul Colle Oppio, di fronte al Colosseo. È
il pomeriggio del 22 novembre ‘75. Un corteo andava da Santa
Maria Maggiore a piazza Navona. Piero Bruno era un
diciottenne di Garbatella, studiava all’Armellini, andava agli
scout e faceva politica in Lotta continua. Sarebbe morto il
giorno dopo. La signora aveva sentito il ragazzo lamentarsi,
dopo la gragnuola di colpi. Lui le diceva di non sentire più le

125
gambe. L’avevano colpito alla schiena. Poi la signora vide
l’uomo arrivare e puntare una pistola sul ragazzo sdraiato:
«Cane, bastardo, carogna... ti ammazzo». Piero fece per
coprirsi la faccia ma l’uomo “scherzava”, la pistola che gli
puntava alla tempia era scarica. Il cane scattò a vuoto
“pronunciando” il “click” tante volte letto sui giornaletti. La
donna vide l’uomo chinarsi e lo sentì dire al ragazzo: «Ma io ti
ammazzerei veramente...». L’uomo era un agente della polizia
politica, antenata della Digos. Ma Piero Bruno stava sempre
più male perché già colpito alla schiena, non poteva più
muovere le gambe. E l’emorragia interna stava facendo il suo
mestiere di complice del delitto. Era solo, in mezzo alle
“guardie” inferocite, che lo trascinavano, già ferito, più vicino
possibile all’ambasciata per mascherare un loro agguato in un
assalto da cui si sarebbero dovuti difendere. L’ambulanza,
colpevolmente in ritardo, lo portò al S. Giovanni dove sarebbe
morto il giorno dopo, piantonato. Era lui il “criminale”, lui che
s’era staccato con un gruppo di compagni di Lotta continua dal
corteo che manifestava per la giovanissima Repubblica
popolare dell’Angola. Volevano fare una fiammata sul cancello
dell’ambasciata dello Zaire, paese confinante che - in buona
compagnia del Sudafrica dell’apartheid, di Usa e Cina - armava
e pagava i mercenari che combattevano la fragile democrazia

126
popolare di Agostino Neto, poeta e presidente. L’azione di
Piero era solo dimostrativa, sarebbero tornati in corteo
abbracciati dai compagni. Una fiammata e basta, rogna
momentanea solo per chi avrebbe dovuto ripulire la scena. Ma
la polizia e i carabinieri li aspettavano, imboscati, loro con due
“bocce”, le guardie con le armi in pugno, sparò anche un
ufficiale dei carabinieri, spararono «in piedi con l’avambraccio
ad angolo retto rispetto al braccio, e da terra con
l’avambraccio verso l’alto, sempre in direzione del gruppo di
giovani» (deposizione degli agenti), spararono per ammazzare
e un giudice, un anno dopo, trovò la reazione dei militi
«commisurata all’offesa». «Irresponsabili», si scrisse sulla
sentenza di insabbiamento, furono casomai i manifestanti.

Tutto archiviato, secondo copione: archiviato l’inseguimento di


ragazzi disarmati, archiviati i bossoli conficcati nelle macchine,
doveva essere così. A nulla valse lo sforzo di Umberto
Terracini, figura mitica di dissidente del Pci, padre costituente
e del Soccorso rosso; a nulla servì il lavoro di legali e della
controinchiesta dei suoi compagni. Marco, un altro architetto
che curò questa e altre perizie del genere, non resse lo choc.
Morì nei primi anni ‘80, ancora turbato. Furono zittiti e
intimiditi i testimoni; fu negato un pubblico dibattimento.
Restano, ingialliti, gli spezzoni dei cinegiornali dell’epoca, le

127
foto stupende (e il racconto) di Tano D’Amico, i titoli dei
giornali “normali” a scimmiottare una distanza da entrambe le
parti “in guerra”, a offrire due versioni solo apparentemente
simmetriche. Il chirurgo della rianimazione imprecò: «Mi
hanno incastrato», disse e tirò dalla finestra, a certi amici, le
chiavi della macchina. Per colpa di un diciottenne coi capelli
lunghi doveva saltare la cenetta del sabato sera. Poi aprì e
ricucì Piero. Furono attimi concitati. Tano D’Amico era lì con un
altro giovane di Lotta continua, la stessa organizzazione di
Piero. Era un architetto, figlio dell’allora segretario della Dc.
Raccontò piangendo la scena a suo padre, medico a sua volta.
Allora arrivò un’altra equipe che riuscì a estrarre i proiettili dal
corpo di Piero. Ce l’avrebbe fatta, dicevano, se solo avesse
superato lo choc di due operazioni una dopo l’altra. Troppo
anche per un corpo sano. È domenica 23 novembre ‘75.
Qualcuno disse di aver visto Piero sorridere, si disse che
avrebbe detto all’infermiera: «Ci penseranno i compagni a
vendicarmi». È da trent’anni che i suoi compagni lo vendicano.
Di Piero parlano ancora i muri della Garbatella» 13.

È vero. La giustizia la si può trovare anche fuori delle aule dei


tribunali. «Far sapere la verità, lo stato delle cose, spetta a
noi», dico ad alta voce. E' nostro compito civile informare,
13
Checchino Antonimi, Liberazione, 27 novembre 2005

128
raccontare, chiarire i punti oscuri delle vicende. La nostra forza
sta proprio nella divulgazione della memoria affinché tutti
possano sapere, tutti possano valutare con consapevolezza.

Il computer trilla. È arrivato un messaggio via e-mail. Vado a


vedere. È una lettera di Daniele. La stampo e la portò in
veranda per leggerla alle zie. «Non ho avuto il coraggio di
dirtelo a Ventotene. È stato difficile dirti dei miei sospetti sulla
morte di tua madre. In questi anni ho letto, riletto, studiato,
confrontato il diario di Maria. Ho cercato di rimettere ordine in
quegli anni collegando la storia ufficiale con quella personale
di tua madre. Ho tracciato una crolonogia degli eventi che
hanno in qualche modo attirato la sua attenzione. Ho preso
appunti anche sulle persone che ha conosciuto. Ma non sono
riuscito a capire. Poi ho incontrato Francesco Di Biase, e mi ha
detto lui che un’idea se l’è fatta. Chiamalo sarà felice di
aiutarti. Ti voglio bene, Sole. So che farai la cosa giusta. Che
decida di non andare avanti, oppure sì, sappi che sono a tua
completa disposizione per qualsiasi cosa».

«Butta immediatamente quella lettera», urla zia Moira. «Te


l’avevo detto che è uno stronzo. Non sprecare il tuo tempo in
una cosa che ti farà stare male». «Ma io già sto male, zia. Lo
capisci?», le rispondo cercando di non farmi scoprire con gli

129
occhi lucidi. Zia Carla, per allentare la tensione, ci propone di
andare a fare una passeggiata sulla spiaggia. Ma io non me
la sento.

«Sono convinta che Daniele mi abbia portato i diari per farmi


conoscere mia madre, non per farmi trovare le ragioni della
sua morte». Come tre lucertole al sole ce ne siamo state per
un bel po’ sdraiate sui lettini in veranda senza parlare. Zia
Moira a sonnecchiare, zia Carla completamente presa dalla
lettura di un libro di Erri De Luca, io scaraventata nel passato
dagli scritti di mamma.

130
DODICI

Anna, una giovane madre con un lavoro precario e suo figlio


Marco, di otto mesi, domani verranno sfrattati da una casa
popolare. A richiedere lo sfratto non è l’Icp, il reale
proprietario dell’immobile, ma una suora di clausura e sua
sorella che da moltissimi anni non vivono più
nell’appartamento. Infatti Ornella Salvioni ha abbandonato
l’alloggio dieci anni fa entrando in un convento. La sorella,
Marianna Salvioni (dirigente del Comune di Roma), non ci
abita più di tempo ed è proprietaria di altri due appartamenti a
Roma. Nonostante questo vorrebbe rientrarne in possesso…
L’Icp ha provveduto a far decadere il contratto di locazione alla
suora non avendo più i requisiti per l’assegnazione a un
alloggio popolare. Incredibilmente la signora Salvioni ha
ugualmente richiesto lo sfratto e la forza pubblica è pronta ad
intervenire. È una vergogna che nella città di Roma siano più
di 16.000 le famiglie nella stessa situazione di Anna e vengano
permesse speculazioni di questo genere. La casa è un diritto:
le case popolari non possono essere un affare! Oggi sono

131
andata a trovarla. È disperata. E non so più che parole usare
per rassicurarla. Dobbiamo impedire che buttino fuori di casa
lei e il suo bambino. Dobbiamo fare qualcosa. 21 novembre
1972

So perfettamente come andò a finire. Quella donna non


mancò mai di mandarci cartoline, torte, maglioni fatti da lei
anche dopo la morte di mia madre. Grazie alla sorella, zia
Carla che militava nella sezione Lotta Continua a Garbatella
riuscirono a farla rimanere in quella casa. Nostro quartiere
c’era molto da fare in questo senso. Lei e i compagni si
vedevano in uno stanzone nel seminterrato di via Passino.
«Leggi», dico a zia indaffarata in cucina a preparare il pranzo.
S’infila gli occhiali che porta sempre al collo agganciati a una
collanina di perline che le ho fatto io. Legge a bassa voce. Poi
se li toglie e racconta.

«C’era sempre un via vai di gente, c’era chi ciclostilava, chi


preparava i cortei, c’erano gli studenti, si dovevano
organizzare i mercatini rossi, ma soprattutto si agiva a fianco
degli operai in sciopero, degli studenti in corteo, dei proletari
dei quartieri che si autoriducevano le bollette e gli affitti, delle
famiglie occupavano le case. E poi il problema dell’autodifesa,
della “rottura della macchina statale” come diceva Lenin. La

132
sede di Lotta continua, allora, non era ancora la sede di Lotta
Continua. C’era sulla porta un simbolo fatto con falce e
martello e un mappamondo stilizzato fatto a fette da paralleli e
meridiani che, nell’intenzione del disegnatore dava subito
l’idea di una Internazionale di tipo nuovo» 14.

«Per tua madre risolvere il problema di Anna era diventata una


questione personale. L’aveva conosciuta per caso, e le si era
affezionata subito», s’intromette zia Moira. «Suo figlio aveva
più o meno la tua età e non poteva permettere che quella
donna disperata finisse di nuovo in mezzo alla strada. Il marito
la picchiava e lei era scappata di casa. Aveva paura ed era
venuta a chiedere aiuto a via Pompeo Magno. Grazie ad una
compagna era venuta a sapere della casa libera a Garbatella.
La occupò, ma sapeva che da un giorno all’altra sarebbero
venute le guardie a sgomberarla».

Mamma coinvolse zia Carla e lei, insieme ai suoi compagni,


riuscì a risolvere il problema di Anna e Marco facendole
assegnare la casa. «Picchetti, presidi, manifestazioni sotto la
casa dove abitava la Salvioni, striscioni, volantini. Alla fine
tutto il quartiere si mobilitò e la dirigente comunale fu
costretta a ritirare la denuncia e la signora Anna ottenne

14
Claudio D’Aguanno, cit.

133
l’assegnazione della casa. Ma era una goccia nell’oceano».

A Roma, come ha scritto mamma sul suo diario, in quegli anni


si contavano oltre 16.000 famiglie che vivevano nelle baracche
e 50.000 in stato di coabitazione, a monte di circa 40.000
appartamenti vuoti. A luglio del 1969 vennero occupati
spontaneamente 25 appartamenti al Tufello che poi
diventeranno in tutto 130. Sulla base di questa esperienza
venne formato il Comitato di Agitazione Borgata (Cab), un
organismo di base formato da baraccati, donne, giovani,
militanti di base del Pci e del Psiup e cattolici di sinistra.
Nell’agosto dello stesso anno il Comitato di Agitazione
organizzò due importanti occupazioni: la prima di 220 alloggi
al Celio, dietro il Colosseo, di proprietà dell’Icp; la seconda
all’Ostiense di 150 appartamenti di proprietà delle Ferrovie
dello Stato. L’occupazione del Celio si estese immediatamente
ai blocchi di case vicine raggiungendo un totale di 500 alloggi.
«L’iniziativa del Cab», spiega zia Carla, «era indicativa, perché
venne operato un vero e proprio salto di qualità rispetto alla
politica condotta fino a quel momento dai senza casa e dallo
stesso Pci. Prima del ‘69 le lotte sul diritto alla casa erano state
condotte prevalentemente dalle Consulte popolari, un
organismo di base del partito di Berlinguer, che aveva basato
la sua iniziativa su un terreno di scontro civile e dimostrativo,

134
prevalentemente con petizioni popolari, delegazioni al
Comune, presidi, occupazioni simboliche e forme di agitazione
che facessero da preambolo per discussioni e proposte di
legge sul terreno parlamentare e legislativo. Il salto qualitativo
dell’iniziativa condotta dal Comitato di Agitazione Borgate fu
appunto di aver posto con forza il problema della casa
attraverso un tipo di lotta non più delegata e dimostrativa. Le
occupazioni erano indirizzate inizialmente verso quegli
appartamenti di proprietà degli Enti Pubblici che per ragioni
speculative preferivano tenere vuoti gli alloggi piuttosto che
assegnarli ai baraccati. Anche per colpa dei conflitti con il
sindacato del Pci, l’Unia (Unione inquilini e assegnatari), il Cab
però ebbe una battuta d’arresto - per poi dissolversi come
struttura - nel momento in cui all’interno della propria strategia
cominciò ad essere praticata l’occupazione di case di proprietà
delle grandi immobiliari e con le occupazioni di case private
iniziarono anche gli sgomberi polizieschi».

Le occupazioni del ‘71 furono caratterizzate da una forte


presenza dei gruppi della sinistra extraparlamentare, dal
Manifesto a Lotta Continua a Potere Operaio. Una presenza
che in qualche modo ha giustificato la repressione da parte
delle forze dell’ordine. Quando era chiaro invece che si è
tentato in tutti i modi di proteggere gli interessi della

135
controparte pubblica e degli stessi costruttori privati che non
avevano nessun interesse a far si che il movimento di
occupazioni riuscisse ad ottenere qualche piccolo risultato.
Soprattutto dopo che a Milano l’occupazione di via Mac Mahon
si era dimostrata vincente per i senza casa. Zia Carla dice che
di notte bussarono alla casupola del guardiano del cantiere per
comunicargli l’esproprio a favore dei proletari. «Subito dopo»,
hanno raccontato i compagni a zia, «arrivò il quarto stato:
uomini, donne, vecchi e bambini. Famiglie sfrattate che
sgranavano gli occhi: non si aspettavano case così belle.
Aspettavano da un momento all’altro l’arrivo della polizia. Che
però non si fece vedere se non al pomeriggio. Gli agenti erano
tantissimi e iniziò l’inferno. Le barricate vennero date alle
fiamme, le nuvole dei lacrimogeni coprivano l’intera zona. Molti
riuscirono a scappare, ma tanti compagni vennero picchiati e
arrestati».

Il Comune di Milano, comunque, fu costretto a trovare una


casa agli sfrattati. Il 31 ottobre dello stesso anno, giorno
dell’entrata in vigore della legge 865 di riforma della casa,
l’Unia organizzò a Roma una mastodontica occupazione
simbolica di 1.700 alloggi a cui parteciparono circa 10.000
persone. Nonostante fosse dimostrativa l’occupazione venne
subito sgomberata dalla polizia. Riconosciuta dal Comune

136
come legittima controparte, l’Unia riuscì a strappare una
fantomatica promessa di requisizione di 6.000 appartamenti,
da assegnarsi entro la fine dello stesso anno. Gli alloggi
promessi non furono mai requisiti, né tanto meno acquisiti dal
Comune. Ne furono assegnati solo 150. Alla prova dei risultati
la mobilitazione dell’Unia si rivelò una bolla di sapone.

Zia Carla partecipò attivamente all’esperienza del Comitato


della Magliana, un quartiere completamente abusivo costruito
al disotto del livello del Tevere. Nato come diretta espressione
di un movimento radicatosi all’interno del quartiere, il Comitato
della Magliana diede vita ad una vasta campagna di
mobilitazione e di lotte. Le esperienze più significative erano
costituite dall’autoriduzione dei fitti. Cinquecento famiglie
erano riuscite a tagliare del 50% il prezzo dell’affitto. Sempre
grazie alla mobilitazione del Comitato vennero organizzate e
difese numerose occupazioni. Nei momenti di massima
aggregazione l’autoriduzione venne portata dal 50 al 75% pari
ad un valore di 2.500 lire a vano, secondo lo slogan che tutti i
proletari erano tenuti a pagare lo stesso canone. Dopo una
serie di sgomberi della polizia, il Comitato organizzò
l’occupazione di 650 nuovi alloggi situati nello stesso quartiere.
Lo sgombero della polizia non bloccò l’iniziativa del Comitato
che diede vita a numerosissime mobilitazioni tendenti a

137
sensibilizzare l’opinione pubblica sugli svariati abusi edilizi
condotti dalle immobiliari ai danni del quartiere. A queste si
aggiunsero denuncie sulle complicità del Comune che aveva
favorito l’abusivismo edilizio e le speculazioni dei costruttori.
L’intervento della magistratura dimostrò l’illegalità delle licenze
edilizie rilasciate dalle autorità comunali, nonché evidentissimi
abusi. La mancanza di impianti idrici, di reti fognarie, il non
rispetto dei vincoli imposti dalla legge, insieme ad altre
numerosissime inadempienze, portarono all’incriminazione di
132 persone tra professionisti, assessori comunali e
dipendenti15.

«Ma il clima di euforia durò poco», dice zia Carla cambiando


tono di voce, «Fabrizio Ceruso, venne ucciso con una pallottola
in pieno petto perché voleva impedire lo sgombro di quasi 150
famiglie che da circa un anno occupavano le case popolari a
San Basilio. Francesco aveva 19 anni. Quel 5 settembre 1974
insieme ai compagni era riuscito a far sospendere gli sfratti.
Ma il giorno dopo, mentre gli occupanti riprendevano tutti gli
appartamenti, e una loro delegazione andava in pretura e allo
IACP, vennero di nuovo tentati gli sgomberi. Questa volta a
resistere c'erano centinaia di persone arrivate da tutta la città.
C’era pure tua madre».
15
Dal sito www.altremappe.org/casa

138
La giornata è trascorsa in un susseguirsi di tregue accordate
dalla polizia a Lotta Continua, che gestisce l’occupazione, per
dare spazio a quella che si è poi dimostrata una trattativa-
truffa, con l’unico scopo di prendere tempo e snervare il forte
schieramento proletario. La delegazione è rientrata a San
Basilio con un accordo di sospensione degli sfratti fino a lunedì
mattina. Nonostante questo, i poliziotti sono entrati lo stesso
nelle case occupate intimidendo le famiglie e compiendo ad
atti di vandalismo. Sono ripresi gli scontri. Fabrizio, un
militante del Comitato Proletario di Tivoli, è stato ucciso. Lo
hanno caricato su un taxi, ma è arrivato all’ospedale già
morto. La notizia in poco tempo ha fatto il giro del quartiere e
tutti sono scesi in piazza. La rabbia è esplosa in modo
violento. I pali dei lampioni sono stati divelti e le strade sono
rimaste al buio. Questa volta è la polizia ad essere presa di
mira da colpi di arma da fuoco sparati in strada e dalle case.
Otto guardie, tra i quali un capitano, sono rimasti feriti, alcuni
in modo grave. Ci sono stati scontri fino a tarda notte 16.

«Il giorno seguente», continua a raccontare zia, «iniziarono le


trattative per le assegnazioni di alloggi alle famiglie d San
Basilio e agli occupanti di Casalbruciato e Bagni di Tivoli».

16
Il giorno 16 di Andrea Scaloni su http://scaloni.it

139
Con il 1974 il movimento riuscì ad occupare circa 3.800
appartamenti. Ma tutte le prime occupazioni vennero
sgomberate dalla polizia in modo violento provocando spesso
incidenti che si estesero nei quartieri. A Casalbruciato vennero
addirittura arrestate 20 donne. A Pietralata venne arrestata
una signora che durante lo sgombero aveva minacciato di
gettarsi dal quinto piano. Tutte queste occupazioni erano
indirizzate verso le costruzioni di proprietà di palazzinari, molti
dei quali facevano parte dell’Associazione Costruttori Edili
Romani (Acer) che aveva gestito fino a quel momento la
speculazione edilizia e la stessa politica urbanistica della città.
Altri proprietari erano le imprese immobiliari legate al gruppo
Fiat, alla Banca Nazionale del Lavoro e a varie società
assicurative. L’estendersi ed il radicarsi delle occupazioni portò
ad un irrigidimento dell’Acer, la quale non accontentandosi
della forze dell’ordine e della stessa campagna stampa contro
il movimento (tra l’altro condotta da tutti i quotidiani), assoldò
delle squadre di mazzieri spalleggiate da picchiatori fascisti a
difesa degli stabili occupati. La risposta degli occupanti non si
fece attendere: dopo numerose provocazioni e duri scontri,
venne assaltata con un lancio di sassi la sede dell’Acer. E
nonostante le intimidazioni dei costruttori, le occupazioni
ripresero in tutta Roma. Ai costruttori non restò allora che

140
attuare una serrata dei cantieri e chiedere l’arresto di
occupanti e organizzatori. Il Governo nello stesso periodo
istituì un battaglione celere speciale contro le lotte per la casa
a Roma. Al Portuense vennero comunque occupati altri 170
appartamenti, 13 alla Garbatella, 98 al Tuscolano, più di 300 al
Prenestino e sulla Cassia, 90 a Guidonia. A Montesacro venne
occupato l’edificio dell’ex Gil. Ma durò poco. Gli appartamenti
vennero sgomberati, insieme ad altri 350 occupati nei dintorni
di Roma.

Per fermare gli sgomberi il gruppo legato alle occupazioni di


Avanguardia Operaia aveva deciso di attuare un’ultima
resistenza occupando 3 chiese. Come nel ’71, anche in quella
occasione, l’ondata di agitazioni sul problema della casa era
stata organizzata dai gruppi della sinistra extraparlamentare
che però non erano mai riusciti a trovare un momento di
coordinamento e di iniziativa comune. All’interno degli stessi
gruppi esistevano grosse differenze tra chi si serviva delle
occupazioni per esercitare un momento di pressione nei
confronti della politica del partito comunista, e chi invece
praticava le occupazioni come strumento per la risoluzione
diretta del problema della casa.

Le occupazioni nei vari quartieri della Capitale erano in pratica

141
rimaste isolate tra di loro, ed uno dei pochi momenti comuni fu
costituito da una grande manifestazione in Campidoglio per la
liberazione degli occupanti arrestati, che portò in piazza circa
10.000 persone. La posizione del Pci nei confronti del
movimento di lotta per la casa contribuì a determinare il
fallimento delle occupazioni che vennero definite
“avventuriste” e “indiscriminate”, legate più che altro ad una
“strategia della disperazione”.

142
TREDICI

È martedì 22 agosto e stiamo a Campagnano.

La giornata, caldissima, sta per concludersi come spero questa


attesa. La gravidanza dovrebbe finire oggi, ma non sembra
debba succedere niente. Niente che lasci presagire a breve la
nascita di Sole. Solo tanta “insofferenza”: stavo male a Roma,
stavo male a Campagnano, non mi andava di dormire anche
se sono stanca, volevo stare da sola, mi veniva da piangere.

Luca ha deciso di rientrare a Roma. Non c’è un vero motivo


per tornare a casa. Per strada ci siamo fermati a comprare un
po’ di pizza bianca. Faceva caldo, molto caldo. Io mi sono
sdraiata per terra e Luca sul divano. Abbiamo parlato a lungo
di Sole. Non sapevamo se era femmina o maschio. Il nome
sarebbe andato bene in tutti e due i casi.

Quando sono andata in bagno ho visto una una macchia di


sangue. Panico. Ho telefono immediatamento al medico che
mi ha tranquillizzato spiegandomi che avevo perso il tappo
mucoso. Ma sarebbe stato meglio fare una visita. Lui era fuori
Roma, così mi ha consigliato al pronto soccorso del policlinico

143
Casilino per farmi controllare. Il ginecologo di guardia si
sarebbe metterà in contatto con lui. Il tempo di vestirci e
siamo corsi via verso la Casilina.

Roma era deserta. Ma su via Magna Grecia a San Giovanni il


chioschetto di grattachecche era assediato: “Quando
ripassiamo ce ne prendiamo una”, ho detto a Luca. Che non
però non ha risposto.Era preoccupato anche se non voleva
darmelo a vedere.

Al pronto soccorso, prima di noi si era registra una signora


che aveva “rotto le acque”. Ho lasciato i miei dati, la settimana
di gravidanza e il motivo dell’urgenza. Ho dovuto salutare
Luca: lui non è potuto salire.

Mi hanno sistemato in una sala travaglio dove c'era una


ragazza sotto l’effetto dell’ossitocina e la signora che avevo
incontrato prima al limite di una crisi di nervi.

In attesa della visita del ginecologo mi hanno attaccato alla


macchina del monitoraggio. Sentivo il cuore di Sole: pulsava a
150 battiti al secondo, poi scendeva a 60, poi risaliva a 140. Di
contrazioni invece niente.

A mezzanotte la ginecologa mi ha finalmente fatto la visita: la


testa della mia bambina non era “impegnata”, era alta e il
144
collo dell’utero non si era accorciato, quindi il travaglio era
ancora lontano. Ha parla con il primario, mentre al telefono
dell’ospedale era in linea con il mio medico, il dottor Nino
Mannisi.

Sono dovuta rimanere sotto monitoraggio un’altra ora. Nel


frattempo hanno fatto salire Luca e gli hanno detto che è
necessario far nascere immediatamente Sole con un parto
cesareo. Mi hanno assegnato la stanza, mi hanno fatto
indossare il camice, mi hanno tagliato i peli del pube e mentre
mi stavano attaccando ancora una volta alla macchina del
monitoraggio ho dovuto rispondere alle domande
dell’anamnesi.

Luca cercava di rassicurarmi, ma era preoccupato. Si vedeva.


Era arrivato il momento di scendere in sala operatoria. Mi
hanno fanno salire sulla barella. Mi hanno fanno sdraiare.
L'ultima cosa che ricordo sono le lampade sopra di me.E poi i
medici, gli attrezzisti, gli infermieri, l’ostetrica, il pediatra: tutti
pronti in attesa che faccia effetto l’anestesia. La prima cosa
che ho sentito appena ripresi i senti è la voce del professor
Palermo che indica alla puericultrice il peso di Sole: 2 chili,
cinque e quaranta.

Sole è una bambina. Una bellissima bambina. Sole è la nostra

145
principessa.

23 agosto 1970

Il racconto della mia nascita è sulla prima pagina del quaderno


rosso, quello più piccolo, quello dove ci sono le fotografie
attaccate. È completamente dedicato a me, a papà, alle zie. E
a Daniele. Non ci sono date ad eccezione di questa pagina.
Sono pensieri per ciascuno di noi. Pensieri in ordine sparso,
riflessioni sul nostro comportamento. E poi parole che avrebbe
voluto dire e non ha detto. Richieste d’aiuto inascoltate. Ma
anche annotazioni che si ritrovano sull’altro quaderno. A volte
si tratta solo di frasi, come la rabbia per l’uccisione di un
compagno o la compassione per una donna in difficoltà. In
altri casi sono riprese intere pagine. Come quella dedicata alla
prima e ultima volta che ha fatto l’amore con Daniele. Ma per
lo più sono dialoghi interiori. Sensazioni che ha voluto fissare
sulla carta. Più vado avanti e più mi arrabbio. Daniele non
aveva nessun diritto a tenersi questi diari. Qui c’è la vita più
intima di mia madre. Ci sono cose che riguardano me e papà.
Se proprio voleva tenersi ciò che ha scritto per lui, poteva
prendersi quelle pagine. Ma perché privarmi di quelle carezze
che con quelle parole avrebbe potuto darmi quando ho avuto
bisogno di lei? Ha ragione zia Moira. Daniele è un egoista,

146
pensa solo a se stesso.

Su questo diario ci sono annotati i miei progressi, le frasi che


le ho detto, le richieste che le ho fatto, i sensi di colpa che le
ho provocato. Ma soprattutto c’è tutto l’amore che aveva per
me. E il mio cuore si riempie d’orgoglio.

Sono tornata stanca dal lavoro, oggi. Non mi sono fermata un


attimo. Sole non dormiva ancora. Mi sono infilata nel lettino
con lei per farle un po’ di coccole. Mentre le cantavo la ninna
nanna si è messa a piangere e ha detto che le manco. Che
non ce la fa più a stare senza di me. Che non è giusto che io
aiuto gli altri mentre quando lei mi chiede di dedicarle un po’
del mio tempo, ho sempre da fare. Ha solo quattro anni…

Su un’altra pagina mamma scrive: Ho sgridato Sole perché la


sua cameretta era completamente sotto sopra. Si è girata
verso di me e con lo sguardo pieno di odio mi ha detto: «Non
ci sei mai a casa, è possibile che quelle poche volte che trovi
un po’ di tempo per stare con me non trovi meglio da fare
che rimproverarmi?».

Poi trovo una lettera indirizzata a me.

Amore mio, oggi sei partita con nonna Anna per andare in
campagna. Sono passate solo poche ore e già mi manchi. So
147
che lì sei felice, ti piace giocare con gli animali, ti piace
arrampicarti sugli alberi e coltivare quel metroquadro di orto
che nonna ti ha affidato. Ma mi manchi. Già penso a questa
sera quando tornerò a casa e non ti vedrò correre per le scale
per abbracciarmi e la tristezza mi assale. Ti voglio bene,
amore mio. Sei la mia stella, quella che mi guida ogni giorno
della mia vita. Mi rimproveri perché sono poco presente, ma ti
assicuro che ogni momento delle mie giornate sono dedicate a
te. Anche quando vado alle manifestazioni, anche quando
scrivo lo faccio perché spero che il mondo in cui vivrai sia
diverso. Voglio fare la mia parte perché il futuro sia per te
quello che adesso possiamo solo sognare: un futuro d’amore,
di pace, di gioia. Un futuro dove tutti abbiano gli stessi diritti e
siano felici. Ti amo, Sole. Di un amore che non riesco a
descrivere a parole, ma che mi riempie la testa, il cuore, lo
stomaco.

Molti scritti di questo quadernetto rosso sono poi dedicati a


mio padre. Ci sono le descrizioni delle mostre che lui aveva
organizzato in galleria, i commenti su alcuni quadri che aveva
portato a casa e perfino dei giudizi su dei giovani artisti che
mio padre stava facendo lavorare. Ma quello che mi interessa
di più sono le pagine nelle quali è evidente l’amore che
provava per papà. Prendo dal freezer un barattolo di gelato.

148
Voglio gustarmi queste parole come i cucchiai pieni di nocciola
che mi metto in bocca.

È bello pensare che anche domani mattina tu sarai ancora qui


con me. Che non sei un sogno che svanisce con la luce del
mattino. Che domani sarà un altro giorno per stare insieme.
Che abbiamo tutta la vita davanti per fare, creare, amarci. Ti
amo Luca e sono felice perché Sole avrà un papà come te.

Abbiamo fatto l’amore. E ora tu dormi. Quanto sei bello Luca.


Mi chiedo come può una persona bella come te farmi tanto del
male. Perché me ne hai fatto tanto ed io non sono riuscita a
reagire. Avevo solo voglia di piangere. Mi sono sentita
stupida, umiliata. Poi mi hai abbracciata e mi hai chiesto
scusa. Per sentirti a posto con la coscienza. Scusa. Può una
parola cancellare di colpo tutto? No. Eppure io ti ho
abbracciato. Mi sono fatta baciare illudendomi che non mi
avresti più trattato così. Non mi avresti mai più fatto piangere.
Ma non sarà così, lo so. Mi sono resa conto che ho sbagliato a
credere che l’amore potesse bastare a far funzionare tutto, a
darti la felicità. Non è così. Io ti ho amato più della mia vita
eppure ora sono triste e mi manca qualcosa che non so
neanche spiegare.

149
È vero che non ho nessun diritto di chiederti spiegazioni. Sei
un uomo libero, amore mio. Libero di stare con chi vuoi, libero
di dimenticarti di me. Da parte mia, però, devo imparare, a
perdonare perché solo così sarò libera. Libera di amare anche
chi non mi ama più.

Mi vergogno di aver frugato tra le tue cose, ma prima, mentre


cercavo nelle tue tasche le sigarette ho trovato due biglietti
del museo dell’Ara Pacis. Noi non siamo mai riusciti ad
andarci insieme. Perché ci hai portato lei? In realtà non me
ne frega niente di trovare una risposta, quello che ho capito in
quel momento è che ti ho perso. Presuntuosamente ho
creduto che niente e nessuno potesse separarci. Oggi sono
tornata con i piedi per terra e immediatamente sono
sprofondata. La vita mi è crollata addosso. E devo decidere se
credere alle menzogne che mi racconterai domani e far finta di
niente, oppure riprendermi la mia vita.

Arriverà un giorno in cui tutto questo mi sembrerà stupido. Ma


ora ho troppa rabbia dentro e la mia mente elabora solo
vendetta. So che è sbagliato, so che è lontano anni luce da

150
quello che in cui credo. Ma le parole amore, rispetto,
sembrano non appartenere più a me. Vorrei farti soffrire
quanto soffro io. Mi immagino situazioni nelle quali riesco a
vendicarmi. Forse tutto questo non succederà più, ma adesso
mi serve per reagire.

Chi è lei? Che cosa ha più di me? Come è riuscita a farti


dimenticare tutto quello che abbiamo costruito insieme? Ti
rende felice? Ti crea meno problemi? Perché non rispondi?
Perché fai finta di non sentire le mie domande? Io devo
sapere. Devo conoscere il mio nemico per combatterlo.
Possibile che non ti accorgi che la rabbia sta crescendo dentro
di me? Una rabbia insana perchè non so chi è il mio nemico,
una rabbia che mi costringe ad autodistruggermi.

Ho toccato il fondo. Fumo, digiuno, non dormo. E tu sembri


così entusiasta…

Parla anche dei suoi viaggi con papà. Ma soprattutto di


Ventotene. Di questo angolo di paradiso dove avrebbe voluto
invecchiare.

151
Vorrei trasferirmi con Sole e Luca qui, a Ventotene. Non so
spiegarmi perché quest’isola mi attragga tanto. Il mare, il sole,
la natura, l’archeologia da sole non bastano a spiegare il
pungente senso di mancanza che si impadroniscono di me non
appena il traghetto mi porta via da qui. Ventotene è un
sentimento sottile e profondo che si insinua dentro goccia a
goccia, che inebria, che esercita una dipendenza e rende
impossibile il distacco definitivo. Perché? Ci penso sempre e mi
sono convinta che dipende dall’energia spirituale di coloro che
l’hanno vissuta in epoche passate. Un’energia che allontana la
fretta, che induce a un dolce oblio, ad un’indolenza metafisica.
Un’energia che produce assuefazione e ti costringe a vivere
secondo i ritmi naturali, o meglio secondo natura. Qui non
esistono barriere sociali o culturali, perché ognuno ha bisogno
dell’altro e del lavoro che svolge. Si realizza così un’osmosi e
tutti hanno un ruolo utile e insostituibile.

Su di me, poi, ha un forte potere la solenne e malinconica


suggestione che emana il carcere di Santo Stefano. Ogni volta
che lo guardo o che ci vado non posso non pensare
all’anarchico Gaetano Bresci che venne trovato impiccato nella
sua cella il 22 maggio 1901 (un suicidio, anche questo,
tutt’altro che certo), a Luigi Settembrini, e poi agli antifascisti
che vi furono rinchiusi durante il ventennio perché oppositori

152
del regime, come Sandro Pertini, Umberto Terracini, Giorgio
Amendola, Sante Pollastri, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro,
Giuseppe Romita, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. Luogo di
pena, di dolore, di redenzione, mi sembra di sentire la
disperazione di quegli ergastolani che Settembrini descrive
nelle sue “ricordanze di vita”. Uomini chiusi in quella fortezza
borbonica da quindici, da venti, da trent’anni; dimentichi del
mondo, dimenticati da tutti. Che hanno presenti alla loro
mente i lunghi anni della loro prigionia, come fossero un
giorno solo. Il tempo non è scorso per essi. Ti parlano di cose
vecchie ed obliate come se fossero recenti: credono che il
mondo stia al punto che essi lasciarono. I vapori, le strade
ferrate, i nuovi trovati delle arti sono ignoti a molti, che li
credono burle che ad essi si vorrebbero fare: parlano come se
parlasse un uomo morto da trent’anni. Mi sembra di vedere
quelle facce aspramente scolpite, angolose, rugose, triste,
cineree; quegli occhi incerti; quei sorrisi rari e sinistri; quelle
vesti strane. Mi sembra di sentire quelle parole aspre,
fendenti, strascicanti, avvolte, stridenti, di tutti i dialetti
d’Italia, di cui scrive Settembrini.

In questo diario parla anche di Daniele. Mi irrigidisco, perché


in fondo, anche se non voglio ammetterlo, sono gelosa.
Racconta gli spettacoli che ha visto con lui, si complimenta con

153
lui per quanto è bravo e bello in scena, lo incita ad andare
avanti prevedendo per lui una carriera piena di successo. Ma
anche pensieri che mi mettono in imbarazzo, perché in
qualche modo confermano quello che sostiene zia Moira e cioè
che Daniele faceva soffrire mamma.

Sei sparito senza dirmi una parola. Non hai avuto neanche il
coraggio di dirmi addio. E io, invece che odiarti, continuo a
vederti in ogni uomo che incontro. Mi si ferma il cuore e
riprende a battere solo quando mi accorgo che mi sono
sbagliata. In ogni luogo c’è qualcosa che mi ricorda di te e
all’improvviso la tristezza prende il sopravvento e devo
andarmene per non morire dentro.

Riesco perfino a giustificarti. Forse anche per te l’amore è


come la rivoluzione, ne diveniamo coscienti a occasione
perduta; in mezzo è solo una bolgia confusa, pericolosa e
massificante.

Quando ti ho rivisto in mezzo a tutta quella gente credevo che


fosse un’allucinazione.L'ennesima. Avevo paura di salutarti
perché pensavo che ce l’avessi ancora con me. Per fortuna mi
154
sono fatta coraggio. Stavo annegando e tu sei riuscito a farmi
risalire. Ti questo ti sarò grata per il resto della mia vita.

Sai sempre tutto tu: quello che è giusto e quello che è


sbagliato, quello che si deve fare e quello che è meglio
evitare, quello che si può dire e quello che è meglio tenere per
se. Però non riesci a capire che l’amore non è logica, non è
razionalità. È istinto mio caro Daniele, è qualcosa che non puoi
controllare.

Fai di tutto per essere sfuggente. Ogni volta c’è una scusa.
Ogni volta ci sono silenzi se ti chiedo di parlare dei tuoi
sentimenti, di quello che provi, di quello che vuoi. Ogni volta
trovi il modo per farmi sentire un’estranea. Ma se è questo
quello sono, perché Daniele non me lo dici chiaramente?
Soffrirò, ma alla fine me ne farò una ragione e smetterò di
interrogarmi su cosa c’è in me che non va.

Quando l’incantesimo si romperà, mio caro D., potrai capire.


Quando l’incantesimo si romperà finalmente scoprirai grandi

155
segreti che finora hai avuto sotto gli occhi senza vederli.
Quando l’incantesimo si romperà scivolerai giù da quel lucido
piedistallo sul quale è così difficile rilassarti e cadrai in un
posto assurdo dove sarai libero di provare sentimenti di cui hai
paura. Quando l’incantesimo si romperà io sarò lì con te.

Credo che oggi tu abbia veramente esagerato e sinceramente


non so più se mi va ancora di vederti. Hai detto che ti senti
usato da me. Che in te cerco quello che mio marito non mi dà.
Me ne sono andata senza risponderti perché ogni parola
sarebbe stata inutile. Non vuoi capirmi, perché farlo
significherebbe ammettere di essere pronto a liberarti dalle
convenzioni, dalle etichette, dalla sicurezza che pensi ti possa
dare una relazione. E tu non sei pronto. Forse non lo sarai mai
anche se ti atteggi a fare l’alternativo, il rivoluzionario.

Non riesco a spiegare cosa significa per me l’amore. Ecco


perché le persone che amo non mi capiscono. È un
sentimento che io chiamo amore perché non so se esiste un
termine che possa sintetizzarlo. È uno stato d’animo che mi far
star bene, mi rende felice. Se amo qualcuno mi sento libera

156
dai conflitti interiori ed esterni, mi rende fiduciosa e ottimista
che domani sarà migliore. E quante più persone amo, tanto
più mi sento appagata. Ecco perché non ho il minimo
problema ad ammettere che amo te Daniele, ma anche Luca,
Moira. Vi amo, ho voglia di stare con voi, di essere
abbracciata, di essere baciata, di essere parte della vostra
vita. Di diverso c’è solo l’amore che voi date a me. E spesso
quello che ricevo non è all’altezza delle aspettative. Questo mi
far star male.

Poi ci sono pensieri dedicati a Moira: la mia zietta, la sua


amica del cuore, la sua confidente, il suo grillo parlante. E
commenti su come si è comportata. Tipo:

Certe volte vorrei strozzarti. Dopo esserti fatta supplicare per


accompagnarmi a teatro a vedere D. non ha trovato di meglio
da dirgli: «E tu vorresti fare l’attore? Prova la falegnameria, è
meglio». Credi che in questo modo lo possa screditare ai miei
occhi? A casa abbiamo litigato. Hai detto che domani farai le
valige e sparirai dalla mia vita. Ma non ti credo. Ti sei è messa
a dormire nel letto di Sole e non te ne andrai.

Moira, ti voglio bene.

Su un’altra pagina due episodi divertenti della loro storia

157
d’amore e d’amicizia.

Moira voleva colorarsi i capelli di rosso. Forse ho sbagliato


qualche dose dell’hennè e ora ha la testa blu. A Sole piace
tanto, ma a lei no. Dice che l’ho rovinata, che dovrà rasarsi a
zero. Invece per me è bellissima con quella cascata di capelli
somiglia alla fata turchina. Hi, hi, hi!!!!

---

Questa volta abbiamo davvero esagerato. Moira ha portato un


po’ della sua “marja” e abbiamo pensato bene di prepararci
una torta. Con una ricetta segreta che le aveva dato una sua
paziente. Era buonissima e una fetta dopo l’altra ce la siamo
finita insieme a una bottiglia di passito di Pantelleria. Luca ci
ha trovate sdraiate per terra a ridere. Per fortuna che Sole
dormiva da Carla…

Nel diario. Ci sono poi due pensieri che non riesco a capire.

Credo di essere innamorata di te. Ho bisogno di sapere che ci


sei, ho bisogno di rassicurata che non mi lascerai mai. Sei
l’altra parte della mela di Platone. E forse hai ragione tu. In
fondo siamo tutti omosessuali.

Si riferisce a Moira, visto che prima stava parlando di lei? O di

158
Daniele? Ma allora che cosa c’entra l’omosessualità? O forse
parla di papà, dal momento che lo chiama in causa in
quest’altra annotazione scritta di seguito.

Luca, so tutto. È inutile che tenti di farmi passare per pazza e


visionaria. Sono preoccupata per te, e per tutti noi. Possibile
che non ti rendi conto di quello che succederà? Possibile che ti
abbiano fatto il lavaggio del cervello? Come puoi continuare a
negare… Non credo che tu non ne sappia nulla, non credo che
quella stronza, visto che siete tanto amici, non ti racconti
come passa le sue giornate. E poi come ti sei permesso di
darle la mia casa a Ventotene, senza dirmi nulla… Aniello l’ha
vista. Tiratene fuori o lo farò io. A modo mio.

Chissà, forse alla fine riuscirò a capire. Intanto leggo di zia


Carla.

Gli hanno trovato il fucile di papà nella macchina. Non ha


voluto dirmi perché ce l’aveva lei. L’hanno tenuta due giorni in
questura e alla fine l’hanno dovuta rilasciare perché mamma
ha testimoniato che il fucile di caccia di papà, era un ricordo di
famiglia che Carla doveva portare dalla casa di Roma alla
casa di campagna. Per fortuna mamma aveva ancora il porto
d’armi e alla fine Carla se l’è cavata semplicemente con una
denuncia. Ma invece di essere contenta, continua a starsene

159
zitta. Non ha chiesto neanche scusa per tutto questo casino. A
mamma momenti le viene un colpo. Che cavolo stai
combinando? Perché non permetti che io ti aiuti?

Carla è ancora arrabbiata. Dice che non vuole avere nulla a


che fare con me perché ho accettato di aiutare Ciccio a fare il
giornalista. Dice che è fascista. Ma non è vero. Come posso
farglielo capire. A quello non gliene frega niente della politica,
vuole solo scrivere..

Zia Carla è stata, ed è tutt’ora, una dura e pura. Lei ha sempre


creduto nella dignità della politica e che Sparta deve
combattere Atene... non entrarci in affari! Per zia non c’erano
vie di mezzo, o eri rosso o eri nero. Per questo era contraria al
compromesso e agli inciuci del Pci. Fa la sociologa ed è autrice
di numerosi saggi e libri sul movimento negli anni Ottanta e
Novanta. Sa tutto dei centri sociali e dei loro frequentatori,
delle lotte dei no global, delle tute bianche, dei disobbedienti,
dei no war e dei no tav. Ora sta studiando la crisi della sinistra
e sta a pezzi. Non so quanto bene le faccia tornare indietro nel
tempo e riassaporare quell’atmosfera pregna di ideali, di sogni
che sono naufragati nello squallore della politica degli anni
Novanta e Duemila.

L’ultima frase di questo quadernetto mi fa star male.

160
Mi sento soffocare. Mi sembra di non avere via d’uscita. La
sensazione è quella che deve provare un carcerato chiuso
nella prigione che lui stesso si è costruito. E non c’è nessuno
disposto ad aiutarlo per evadere. Mi sento sola. Luca: l’ho
definitivamente perso e il dolore si è impadronito della mia
esistenza. Daniele: non posso chiedergli nulla e non mi darà
mai nulla. Lo so. Carla: è sfuggente. Ma la colpa è la mia. Non
gli ho mai fatto capire quanto le voglio bene. Moira è così. So
che quello che dice è per il mio bene, ma non si rende conto
che in tanti momenti sarebbe meglio non affondare il coltello
nella ferita. Devo rinunciare ad essere felice? Soltanto Sole
potrà liberarmi da questo terribile sortilegio.

Ma io non ho avuto il tempo, mamma. E gli occhi si riempiono


di lacrime mentre un dolore lancinante colpisce il mio cuore.

«Posso chiedervi una cosa?». Raggiungo le zie in veranda


portando loro i diari.

«Questi sono i quaderni di mamma. Leggeteli, parlatene, ma


non davanti a me. Vi prego, ho bisogno di pensare ad altro».

«Certo, Sole mio», promette zia Moira, «adesso però vieni qui
a farti fare un po’ di coccole. Come quando eri piccola».

Prendo una sedia e mi siedo in mezzo a loro. «Vi amo», dico a


161
tutte e due. Zia Carla mi dà la mano e io me la porto alla
bocca per baciarla. Mentre Moira mi abbraccia. Farei qualsiasi
cosa pur di tornare indietro nel tempo.

«Lei non ti ha mai lasciata sola, neppure per un attimo. Sta


qui con noi, anche ora. Parla attraverso di me, ti accarezza
tramite la mano di zia Carla. Ti ama talmente tanto che
neppure la morte ha potuto separarvi».

«Non è vero, non è vero, non è vero», rispondo a zia Moira


urlando disperata mentre mi vado a chiudere in camera.
Sbatto la porta e mi butto sul letto a soffocare i miei singhiozzi
nel cuscino. Non so quanto tempo sono rimasta così. Un
minuto o forse un’ora, ma quando alzo la testa sono serena,
completamente tranquillizzata. C’è l’odore di mia madre in
questa stanza. Sento il suo profumo anche sulle mie mani, sul
cuscino, sui vestiti.

È stata lei a consolarmi. Lei starà veramente sempre al mio


fianco. Ora lo so.

162
QUATTORDICI

Oggi arriva papà. Non vedo l’ora di fargli leggere quello che
mamma ha scritto su di lui. Ci sono tante cose che devo
chiedergli, e tante cose da farmi raccontare. Il mare è mosso,
sbatte contro Santo Stefano, ma c’è il sole. Spero tanto che
l’aliscafo parta ugualmente da Formia. Ho bisogno di lui, più di
quanto glielo abbia mai detto. Giro e mi rigiro nel letto
aspettando che si facciano le sette.

È bello mio padre. Curato ed elegante anche con quei vecchi


jeans e le sue inseparabili scarpe inglesi. Dimostra meno di
quarant’anni anche se ha passati già da un po’ la cinquantina.
Non c’è quasi più traccia dei lunghi capelli castani che ha nelle
foto insieme a mamma, ora ha i capelli sono corti, quasi rasati,
ma il fascino è lo stesso. Gli occhi verdi, la pelle liscia,
olivastra, profumata. «Principessa», mi chiama appena sceso
dall’aliscafo. Ad aspettarlo ci siamo tutte e tre: le zie ed io.
«Papà», gli dico abbracciandolo, «sono così felice di vederti».
«Ho bisogno di te», sussurro mentre lo bacio.

163
«Colazione da Verde», propone salutando le zie.

«Allora spiegatemi che cosa è successo», dice seduto davanti


al caffè.

«C’è poco da spiegare», irrompe Moira, «quell’infame di


Daniele ha ritirato fuori la storia dell’incidente di Maria e sta
cercando di convincere Sole che è stato un omicidio
premeditato».

«Non è vero», la interrompo. «Mi ha semplicemente portato i


diari che mamma ha lasciato a casa sua».

«Non ti pare strano che abbia sentito il bisogno di farlo proprio


ora, dopo trent’anni?», continua zia ignorando completamente
tutto quello che ci siamo detti i giorni scorsi.

«Non c’è niente di sconvolgente nei diari, niente che possa far
pensare a un incidente provocato», s’intromette zia Carla. «Ci
sono appunti, riflessioni, ma soprattutto tanti articoli di giornali
ritagliati. Nessuna verità inconfessata o inconfessabile».

«Beh, una c’è», dice Moira. E senza il minimo tatto: «Ti ha


tradito con lui».

«Zia!», faccio per rimproverarla. Non capisco perché sia così

164
cattiva. Papà, mi prende la mano come per rassicurarmi.
«Moira, io la amavo e continuerò a farlo a prescindere da
quello che c’è scritto là dentro. Quello che mi interessa sono le
ultime pagine. Ricordo che stava diventando ossessionata,
quasi paranoica, su tutto ciò che riguardava le Brigate rosse».

«Non era la sola», la giustifica zia Carla, «te lo ricordi in che


modo vivevamo dopo il sequestro di Aldo Moro?».

«Certo che me lo ricordo, ma in quel periodo lei non parlava


d’altro. Chiunque capitava a casa nostra veniva sottoposto a
un interrogatorio di terzo grado».

«Come fai a saperlo? Tu non c’eri mai a casa». Zia Moira


continua ad attaccarlo e non riesco a comprendere perché.
Forse ho fatto male a farlo venire a Ventotene insieme a loro.

«Hai ragione Moira», ammette papà alzandosi per andare a


pagare la colazione. Approfitto che si è allontanato: «Zia, te lo
chiedo per favore, smettila».

«La smetto, Sole mio, la smetto. Ma io non ho mai dimenticato


quello che le ha fatto passare. L’hanno massacrata quei due e
ora vengono qui a parlare di amore. Ma và! Se l’avessero
amata davvero oggi tua madre sarebbe qui. Le hanno fatto
venire il crepacuore quei due. Altro che attentato, brigate
165
rosse, Moro».

«Va bene, zia. Ma sono passati trent’anni e non ha più alcun


senso. Mamma non c’è più. Mi è rimasto solo lui e non voglio
perderlo».

«Sei troppo buona, come lei. Anche tuo marito…»

«Che è successo a tuo marito?», chiede papà tornando al


tavolo. «Sta bene?».

«Sì, papà. Tutto a posto. Mi ha mandato una mail sta bene. Se


riesce, torna il mese prossimo». Augusto è un medico chirurgo
e sta facendo uno stage negli Stati Uniti. Ha vinto una borsa di
studio e sono quattro mesi che non lo vedo. Ma se tutto va
bene sarà qui quando nascerà la nostra bambina.

«Un altro stronzo», borbotta zia Moira, ma facciamo tutti finta


di non aver sentito mentre ci alziamo e ci incamminiamo verso
casa.

«Riposati in un po’ nella mia stanza, papà. Stasera ti preparo il


divano letto. Sarai stanco…».

«Grazie amore, stanotte non sono riuscito a chiudere occhio»,


dice dandomi un bacio. Lo lascio solo e vado a raggiungere le

166
zie indaffarate in cucina a preparare il pranzo.

Tre giorni sono passati senza che nessuno abbia tirato in ballo
i diari o ne abbia parlato. Almeno davanti a me. Di questo
devo essergliene grata. Non avevo nessuna voglia di vederli
litigare tra loro, né sentirli rinfacciarsi questa o quella cosa, e
neppure di vantarsi del rapporto che ciascuno aveva con
mamma. Per fortuna le zie oggi mi hanno detto che partono.
L’idea è di zia Carla. Pensa che sia meglio se rimango un po’
da sola con papà. Zia Moira all’inizio ha sbraitato, ma poi si è
convinta che era la cosa giusta.

167
QUINDICI

Camminiamo abbracciati dal porto fino a casa. In silenzio per


assaporare quell’intimità ritrovata dopo la partenza delle
rumorose zie. Non una parola. Ma quella stretta sulle mie
spalle, ne vale un’infinità. Solo dopo aver varcato la porta di
casa, papà apre bocca. «Tesoro, devo dirti una cosa». Si è
lascia cadere nella tua poltrona e con il viso nascosto tra le
mani inizia a parlare. «È difficile Sole. Non so da dove
cominciare. Questo è il segreto della mia vita. Non ne ho
parlato mai con nessuno».

«Ma, io non sono nessuno, papà. Sono tua figlia. Stai male?
Hai litigato con tua moglie? Hai problemi finanziari? Ti prego,
papà, rispondimi. Mi stai mettendo paura».

«No, amore mio. Si tratta di qualcosa di tanti, tanti anni fa. Si


tratta di tua madre, dell’incidente e di quello che ti ha detto
Daniele».

Se mi avesse dato una coltellata avrei sentito meno dolore al


petto. Mi siedo davanti a lui. Gli prendo le mani, affusolate,

168
belle, curate come sempre, per dargli coraggio. «Niente di
quello che mi dirai potrà mai impedirmi di amarti. Niente e
nessuno potrà separarci, papà», dico per rincuorarlo. Ma papà
continua a stare zitto e a guardarmi, come se volesse essere
sicuro di quello che sta facendo. Vuole convincersi che tutto
rimarrà uguale dopo la sua confessione, anche se sa
perfettamente che non sarà così.

«Facevo parte anche io delle Br».

Sto sognando. No. Non può essere vero. Il mio papà non
c’entra nulla con la lotta armata, gli omicidi, i sequestri, gli
attentati. «Ma che stai dicendo?».

«Ero un irregolare e sono riuscito a far perdere le mie tracce.


Pochi dell’organizzazione conoscevano il mio nome e quelli che
sapevano, hanno voluto coprirmi anche dopo. Nessuno mi ha
tirato dentro quella storia».

«Non ci credo», continuo a ripetere scuotendo la testa. «Non


ci credo».

«Il mio compito consisteva soprattutto nello svolgere le


inchieste sui possibili obiettivi e insegnare ai compagni a
sparare, visto che ero bravo. Proprio per questo poi mi hanno
chiesto di partecipare al sequestro. Per tutti questi anni ho
169
tenuto nascosta la verità e a volte anche a me stesso. Non
riuscivo a trovare il modo di spiegarmi. Io non volevo che il
presidente fosse assassinato». Ripete quasi lo dicesse a se
stesso. «Io non volevo che lo assassinassero, ma loro
ragionavano solo in termini politici: c’era una guerra, mi
dicevano, e bisognava vincerla».

«Cosa c’entri tu con il presidente papà?».

Ignorando completamente la mia domanda continua:


«All’indomani del ritrovamento del cadavere mi facevo schifo.
L’ho saputo dalla televisione che l’avevano ucciso, ma io ero
responsabile quanto i compagni che l’avevano materialmente
fatto. Eppure dovevo reagire. Tua madre era morta da poco, tu
avevi bisogno di me e proprio non potevo permettermi di
andare fuori di testa. Mi sono dato da fare per dimenticare e
per farmi dimenticare. Rita ci invitò per qualche tempo nella
sua villa vicino a Firenze. Mi sono convinto che lì avremmo
potuto iniziare a vivere. È per questo che l’ho sposata. Non
certo perché ero da sempre innamorato di lei come tua madre
credeva».

«Con il passare degli anni continuavo a illudermi che un giorno


mi sarei svegliato e che tutto fosse solo un brutto sogno. Mi
sono sentito abbastanza sicuro fino al 1996. Poi durante il

170
processo del ‘96 uno dei testimoni presenti in via Fani quella
mattina ha ripetuto che il parabrezza del suo motorino fu
colpito da una raffica di mitra sparata dal motociclista seduto
alle spalle del conducente di una moto Honda di grossa
cilindrata. L’Honda fu notata anche da un agente di polizia che
si trovava casualmente, e in borghese, in via Fani».

«Hai partecipato all’agguato di via Fani?», insisto io. Ma è


come se non mi ascoltasse.

«Tua madre non sapeva niente, ma quando la mattina del 16


marzo, un paio d’ore dopo l’attentato la vidi a via Fani, mi
prese un colpo. Mi chiese cosa ci facevo lì e io le mentii
sostenendo che l’avevo raggiunta dopo che al giornale mi
avevano detto di averti mandata sul posto del rapimento. Non
so se ci ha creduto. Per questo voglio leggere i suoi diari. Ora
che li hai tu sto tranquillo. Non sapevo che li avesse Daniele».

Io li ho letti, ma forse non così attentamente. Non mi pare che


ci sia nulla di quello che mio padre ha sospettato in questi
anni. A questo punto deve esserci sicuramente una relazione
se mia madre li ha volutamente lasciati da Daniele.

«Durante i giorni del sequestro ricordo che mi faceva domande


molto circostanziate. Poi si giustificava con la scusa che

171
riflettere in due su un determinato argomento potesse essere
molto più proficuo».

«Perché stavi a via Fani quel giorno, papà?».

«Dovevo fare da copertura all’azione. Poi ci sono tornato per


vedere come era andata».

«Papà, non riesco a capire nulla. Mi vuoi spiegare con calma


quello che accadde? Che ruolo hai avuto? Se c’entra qualcosa
la morte di mamma. Ti prego papà, è come se avessi ricevuto
un colpo in testa e tu stai fermo, davanti a me, senza
aiutarmi…».

«Non posso dirti nulla di più, principessa. Non posso». Papà si


alza di scatto, va in bagno. Sento l’acqua del rubinetto che
scorre. Forse si sta sciacquando la faccia. Torna da me come
se niente fosse accaduto. Eppure in un solo colpo sta
riscrivendo la mia vita, quella di mia madre, la nostra.

«Cosa vuoi che ti prepari per cena?». Questa volta sono io a


non rispondere alla domanda. Torno all’attacco: «Non dirò
nulla papà, lo giuro. Non scriverò nulla. Né ne parlerò con
qualcuno, nemmeno con le zie o con Daniele. Ti prego.»

«Ci devo pensare», prende tempo per poi continuare come se

172
riflettesse con se stesso. «C’è qualcuno che non vuole che
certe cose vengano fuori. Come spiegarsi altrimenti la mia
estraneità a tutti i processi, alle inchieste, e perfino alle
supposizioni dei giornalisti…»

«Io ho il diritto di sapere, tu sei mio padre. A maggior ragione


se ritieni che questa storia in qualche modo sia coinvolta la
mamma».

Papà inizia a preparare da mangiare. Io ho la nausea. E poi


rabbia, delusione, amarezza, incredulità, senso di
soffocamento. Gli squilla il telefonino. È la stronza.

«Come stai?», le chiede con un’irritante dolcezza.

Mi viene da vomitare. Esco sulla veranda per respirare l’aria


della sera. C’è uno splendido tramonto a Ventotene. A mia
madre piaceva tanto aspettarlo sulle scalette a strapiombo
della spiaggia di Parata Grande. Me lo ricordo benissimo. Ecco
ora vorrei tornare indietro nel tempo, rivivere quegli
spensierati giorni di vacanza trascorsi insieme. Vorrei farmi
coccolare come lei faceva sempre la sera quando mi leggeva la
favola per farmi addormentare o la mattina quando mi portava
la colazione a letto. Quella mezz’ora di baci e carezze mi
davano la forza per affrontare la giornata. Ne ho bisogno

173
anche ora. Ho bisogno di essere forte perché non so più chi è
quell’uomo che sta lì in cucina. Come ha potuto mio padre
passare la sua vita conservando un segreto così grande? Come
ha potuto sopravvivere al dolore immenso che ha provocato la
morte di mia madre sposandosi con un'altra? È un mostro.

«Vado a dormire, non ho fame», gli dico rientrando in casa.


Lui sta ancora al telefono, mi fa segno di no con il dito. Ma io
faccio finta di non vederlo. Mi butto sul letto e quando bussa
alla porta faccio finta di dormire. Entra ugualmente. Mi
accarezza la fronte, mi bacia, prende i diari e se ne torna in
cucina. Accende la tv.

Nel letto cerco di raccogliere i pensieri. Ha parlato di via Fani.


Cosa c’è di ancora non scoperto di quel giorno? Prendo il
portatile e inizio una ricerca che mi spaventa. Scrivo sul
motore di ricerca: via fani + honda. Trovo 722 pagine in
italiano, 5670 nel web. Apro qualche link a caso.

Su uno trovo: «È evidente che ancora oggi, a distanza di


trent’anni, non si sa per certo quanti fossero i brigatisti che
componevano il commando che agì in via Fani. Perfino i
brigatisti che ne facevano parte non sono stati concordi nel
numero. Moretti in un’intervista a Carla Mosca ha anche
sbagliato i nomi e poi si è corretto: la memoria negli anni non

174
è più la stessa… in cose così marginali… Il problema del
numero dei partecipanti non è certo secondario, visto che c’è il
sospetto di partecipazioni “esterne”. Inoltre ci sono ben tre
testimoni che parlano di una moto Honda presente sul luogo
della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni,
l’ingegner Alessandro Marini, che arrivava sul suo motorino, si
era visto addirittura sparare una raffica di mitra contro,
dall’uomo seduto sul sellino posteriore della Honda. I brigatisti
però negano, tutti: non c’era nessuna moto, in via Fani».

Poi quest’altro. Più lungo.

«L’organizzazione di quest’azione era pronta per il 16 mattina


come uno dei giorni probabili in cui sarebbe potuto o sarebbe
anche potuto non passare l’onorevole Moro, perché non c’era
certezza, perché avrebbe anche potuto fare un’altra strada.
Era stato verificato che passava lì da alcuni giorni, ma non era
stato verificato che passasse lì sempre». Così, davanti alla
Corte d’assise d’appello di Roma, Valerio Morucci, uno degli
esecutori materiali del sequestro Moro, inizierà il racconto di
quel 16 marzo 1978. In effetti, come confermato dagli agenti
di scorta in turno di riposo quel giorno, il percorso che passava
per via Mario Fani era uno dei più frequenti, ma non l’unico:
poteva anche essere cambiato sul momento per motivi di

175
sicurezza ma anche in funzione del traffico o di impegni
improvvisi. In Commissione d’inchiesta Eleonora Moro, vedova
del presidente democristiano, dirà anzi che negli ultimi tempi
Moro e la scorta «si angosciavano enormemente su queste
cose e, quindi, cercavano nei limiti del possibile di cambiare i
percorsi tutti i giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare
in qualche modo cambiamenti degli orari se era possibile».
L’elementare, cruciale domanda che ne deriva è dunque:
«come potevano essere le Brigate Rosse così sicure che quel
giorno, a quell’ora in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe
passato?» Eppure, l’agguato era stato pianificato con
ragionevole certezza proprio il 16 marzo e proprio in via Fani:
Quella mattina, alla Camera dei Deputati, era previsto il
dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti, detto di
“solidarietà nazionale”, della cui nascita Aldo Moro era il
massimo artefice. Per la prima volta dal 1947, il governo
poteva contare sui voti determinanti del Partito Comunista.
Tale concomitanza difficilmente può essere considerata un
caso.

Nella notte tra il 15 e il 16, in tutt’altra zona di Roma, erano


state tagliate le gomme del furgone con cui il fioraio Antonio
Spiriticchio ogni mattina di recava a vendere fiori all’angolo tra
via Fani e via Stresa, cioè proprio nel punto dell’attentato. I

176
“vandali” volevano evidentemente evitare intralci all’azione
prevista la mattina seguente.

Al processo d’appello la brigatista Adriana Faranda dirà di


avere saputo della data fatidica due-tre giorni prima, e che i
“regolari” del Nord, partecipanti all’azione di via Fani, giunsero
a Roma il giorno precedente. Valerio Morucci, a sua volta,
dichiarerà che furono rimproverati coloro che erano stati
incaricati del furto delle auto, perché tre giorni prima del 16
marzo non era stata ancora procurata la Fiat 132 che doveva
servire per il trasporto del sequestrato da via Fani. Il brigatista
Antonio Savasta confermerà che il “commando” andò per la
prima volta “operativo” in via Fani proprio il 16 marzo, il che
dimostra che i preparativi furono affrettati per poter compiere
l’azione criminosa quel giorno.

Appena dopo le ore 9 del 16 marzo, all’incrocio tra via Fani e


via Stresa nella zona di Monte Mario a Roma, una Fiat 128
bianca con targa diplomatica frena bruscamente all’altezza
dello stop. Le due auto provenienti da dietro, una Fiat 130 blu
con a bordo il presidente della DC Aldo Moro e un’Alfetta
bianca di scorta, non riescono ad evitare il tamponamento a
catena, anche perché le luci di stop della 128 erano state
manomesse. L’autista della 130, l’appuntato Domenico Ricci

177
intuisce la trappola e cerca ripetutamente di fare marcia-avanti
e marcia-indietro per guadagnare un varco su via Stresa, ma è
troppo tardi. Il capo del commando, Mario Moretti, scende
dalla 128 e comincia a far fuoco sulla 130;
contemporaneamente, la 130 e l’Alfetta sono investite dal
fuoco di fucili mitragliatori di almeno 4 uomini travestiti da
piloti che sbucano dalle siepi del palazzo di fronte. Poi, con
una calma quasi surreale visto quello che è appena successo,
Aldo Moro viene prelevato dalla 130 e fatto salire su una 132
che si allontana preceduta e seguita da due 128.

La dinamica dell’agguato, insieme a ciò che avvenne nei minuti


precedenti e successivi, è stata ricostruita in cinque processi
sulla base delle prove, dei riscontri balistici e delle dichiarazioni
rese dai brigatisti e dai testimoni. Nonostante ciò,
numerosi sono ancora i punti non chiariti. Quanti furono e chi
furono i componenti del commando che attuò la strage di via
Fani? Non sarà mai stabilito con certezza. La sentenza del
processo di primo grado in Corte d’assise, sulla base di tutte le
testimonianze, stabilirà la presenza di 14 terroristi tra via Fani
e via Stresa; i brigatisti invece, tra ripensamenti, aggiunte e
sottrazioni, hanno sempre dichiarato un numero non superiore
a 10. Dei 91 bossoli recuperati sul posto, ben 49 appartengono
ad una stessa arma, 22 ad un’altra ed il resto alle altre quattro

178
armi usate nell’operazione: chi esplose da solo quei 49 colpi?
Gli sparatori, che si suppone si conoscessero tra loro,
indossavano divise da piloti civili. I brigatisti diranno di esser
ricorsi al travestimento per non dare nell’occhio, in quanto
nella zona di via Fani abitavano parecchi piloti
dell’Alitalia. L’accorgimento però sembra quantomeno
singolare: nel momento della fuga le divise sarebbero
diventate pericolosi segni di riconoscimento. Allora perché
rendersi così riconoscibili? Forse perché non tutti i brigatisti si
conoscevano tra loro?

Chi erano i due motociclisti a bordo della moto Honda blu di


grossa cilindrata che fu vista transitare subito dopo l’agguato,
e da cui partirono alcuni colpi di mitra verso un testimone? La
presenza della moto, sempre ufficialmente negata dai
brigatisti, è avvalorata da numerose testimonianze: che si
trattasse di un intervento inatteso o indesiderato sulla scena
dell’agguato, da parte di brigatisti non regolari o comunque di
entità estranee?

Eliminata la scorta e rapito Moro, il commando si dileguò nel


traffico di Roma con tre automobili: una Fiat 132 con il
sequestrato e due Fiat 128. Incoerente, a tratti del tutto
inverosimile appare il racconto dei brigatisti sulla fuga da via

179
Fani, il primo trasbordo del sequestrato in un furgone, il
secondo trasbordo in un’altra auto e infine l’arrivo al covo-
prigione di via Montalcini 8 alla Magliana, a trenta chilometri
dal luogo della strage, dove Moro sarebbe stato tenuto per
tutti i 55 giorni del sequestro. Ancor più incredibile è la
beffarda modalità di ritrovamento delle tre macchine usate per
la fuga. Furono trovate “a rate”, il 16, il 17 e il 19 marzo, in via
Licinio Calvo, alla Balduina, non lontano da via Fani. Difficile
pensare che chi le abbandonò fosse disposto ad avventurarsi
per Roma con automobili segnalatissime e ricercatissime: forse
poteva contare su una base logistica mai individuata nei
dintorni?

Nella zona di via Fani, subito dopo il rapimento, un black out


interruppe le comunicazioni telefoniche impedendo le prime
fondamentali telefonate di allarme e coprendo di fatto la fuga
dei terroristi. Per la SIP il black out fu dovuto al sovraccarico
delle chiamate; per i brigatisti ad alcuni “compagni” che
lavoravano nella compagnia telefonica. Nessuno ha però finora
spiegato come mai il giorno prima (15 marzo, alle 16:45) la
struttura della SIP collegata al SISMI fosse stata messa in
stato di allarme come doveva accadere in situazioni
d’emergenza quali crisi nazionali e internazionali, eventi bellici
e atti di terrorismo.

180
Quella mattina, verso le 9, il carrozziere Gherardo Nucci fece
un salto a casa, in via Fani 109, a prendere la macchina
fotografica: doveva mandare alle compagnie assicurative le
foto di alcune automobili da riparare. Subito dopo la strage e
prima ancora dell’arrivo di polizia e ambulanze, dal suo
balcone Nucci riuscì a scattare alcune foto della scena della
strage. L’indomani la moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA,
consegnò il rullino al magistrato inquirente Luciano Infelisi. Le
foto sparirono: non se ne seppe più nulla?».

Già. Chi era il personaggio ritratto nella foto? Ed era


veramente mio padre il misterioso terrorista sulla moto? Lui
era alla guida o era quello che ha sparato la raffica di mitra?
Devo essere arrabbiata con lui? Lo devo mandare via di casa?
Devo rompere ogni tipo di rapporto?

Il sonno prende il sopravvento.

181
SEDICI

«Buongiorno, amore». Un buon profumo di caffèlatte


mischiato a quello della sua pelle mi hanno svegliato prima
ancora delle parole di mio padre. Ma faccio finta di niente.
Voglio ancora godermi il sonno e cercare di ricordare i dettagli
di quello che ho sognato. Ero con mia madre, a casa a Roma,
e dovevamo mettere a posto i miei libri perché non trovavamo
più il “Piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Le serviva
perché aveva bisogno di copiare una citazione.

«Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che


col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi», dico ad alta
voce.

«Che dici?», chiede papà mentre mi scompiglia i capelli.

«Il Piccolo principe», rispondo mettendomi a sedere sul letto.


Bevo tutto d’un fiato quel bicchierone che mi ha portato. «Ieri
sera sono crollata, ma adesso mi devi dire tutto».

«Intanto alzati e vestiti», dice mentre esce dalla stanza. I diari

182
di mamma sono di nuovo al loro posto, sulla scrivania. Li
prendo e mi rimetto nel letto. Cerco la data del 16 marzo.

«Giovedì 16 marzo 1978. Hanno rapito il presidente della Dc


Aldo Moro. Sono andata a via Fani e ho provato un orrore
difficile da descrivere a parole. Le guardie stavano facendo i
rilievi. Steso sull’asfalto Raffaele Iozzino, con la pistola a due
passi. Dentro una 130 c’è Domenico Ricci riverso, quasi
adagiato sul corpo di Oreste Leonardi, il capo scorta, con il
volto coperto di sangue. Aveva 42 anni, da 20 anni era
l’autista di fiducia di Moro. Giulio Rivera è stato crivellato di
colpi e sta nella macchina che seguiva Moro. Ci sono bossoli
per terra, una borsa, forse quella del presidente Moro, un
berretto che sembra quello dei piloti dell’Alitalia, un caricatore
di un mitra. C’era anche Luca. Ho pensato che chiunque
avesse sequestrato Moro aveva previsto che a via Fani non
doveva esserci scampo per nessun altro se non per
l’onorevole. Sembra un miracolo il fatto che non sia morto
anche lui in mezzo a tutto quel fuoco. I terroristi hanno
dimostrato una capacità di colpire superiore a qualunque
previsione. La loro efficienza è fuori discussione, al contrario
delle guardie che non esitano a uccidere manifestanti
impotenti, che non si fanno scrupoli a picchiare donne che
protestano. Al giornale mi hanno chiesto di sentire quello che

183
diceva la gente sul posto. Una signora, che aveva seguito le
fasi finali dell’agguato mi ha raccontato che Moro camminava
al fianco di un giovane, ma tranquillamente, non in modo
concitato; che era stato caricato in una 128 blu scuro che è
scomparsa verso via Trionfale. Qualcuno parla di due terroristi
a bordo di una moto. Qualcun altro dice di aver sentito parlare
una lingua straniera. Forse il tedesco. Mi hanno segnalato dei
guasti alla linea telefonica in tutta la via e dintorni. Per il resto
c’è in giro una gran paura. Quando sono tornata al giornale mi
hanno detto che l’altro agente della scorta dell’onorevole
Moro, Francesco Zizzi, è morto al Gemelli. E che le Brigate
Rosse hanno rivendicato il sequestro».

«Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli


occhi», ripeto a me stessa.

Continuo a leggere. Questa pagina non è datata.


Presumibilmente è stata scritta qualche giorno dopo.

«Ciccio mi ha fatto venire qualche dubbio. Non so come ha


trovato un’agenzia del 15 marzo di Op alquanto enigmatica:
«Mercoledì 15 marzo il quotidiano “Vita sera” pubblica in
seconda pagina un necrologio sibillino: “2022 anni dagli Idi di

184
marzo il genio di Roma onora Cesare 44 a.C.-1978 d.C.”.
Proprio le idi di marzo del 1978 il governo Andreotti presta il
suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo
attendere Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio,
amico di Cesare? Se le cose andranno così ci sarà anche una
nuova Filippi?». Che vuol dire? Ciccio l’ha interpretata così.
Aldo Moro come Cesare. Aldo Moro viene rapito proprio
mentre si sta recando a tenere un discorso alle Camere…
proprio come Giulio Cesare che si era recato in Senato.

Non solo. Ciccio mi fa notare che Renzo Rossellini, un’ora


prima dell’agguato di via Fani, ovvero poco dopo le 8 del
mattino del 16 marzo, da Radio Città Futura, ha dato la notizia
di un’azione terroristica compiuta ai danni del Presidente
Moro. E ancora: alcuni mesi prima del rapimento, dal Carcere
di Matera il detenuto Salvatore Senatore avrebbe fatto arrivare
al Sismi l’informazione circa il possibile sequestro di Aldo
Moro.

Ne ho parlato con Luca cercare una giustificazione a queste


“cose strane”. Lui sostiene che non era un gran segreto il
fatto che le Br volessero alzare il tiro e colpire il cuore dello
Stato. Anche il fatto che sia stato scelto Moro non era del tutto
inimmaginabile. Già nel 1967, mi ha detto Luca, il periodico

185
"Nuovo mondo d’oggi" pubblicò un articolo nel quale veniva
riportata la testimonianza di un certo Roberto Podestà, che
raccontò come nell’estate del 1964 era stato incaricato, in
caso di attuazione del “Piano Solo”, di guidare il commando
che avrebbe dovuto rapire e uccidere l’onorevole Aldo Moro
addossando le responsabilità agli uomini della sinistra. Nel
1968 la pubblicazione "Il Bagaglino", vicina alle posizioni della
destra, per celebrare il primo anno di attività della compagnia
romana di avanspettacolo, aveva divulgato un articolo nel
quale l’autore Pier Francesco Pingitore aveva descritto il
tragitto mattutino del presidente del consiglio Aldo Moro
citando anche via Fani e ponendosi una serie di domande del
tipo: la vita del presidente Moro è al sicuro? È ben vigilata la
sua incolumità personale? Vengono adottate tutte le misure
necessarie a preservare la sua persona da possibili attentati?

Perché proprio quella mattina? Luca non ha saputo trovare


una risposta convincente ».

«Ti vuoi sbrigare?», urla papà dall’altra stanza.

«Arrivo, arrivo, ancora un attimo, papà», rispondo sfogliando


le ultime pagine del diario.

«Riflessioni: in via Fani sembra non ci sia stato alcun alcun

186
tamponamento violento tra la 128 bianca e la 130 blu; uno
sguardo alle foto pubblicate sui giornali e ai filmati che
stanno mandando in onda in questi giorni permette di vedere
che i paraurti delle due auto sono perfettamente intatti, e che
sull’asfalto non vi è alcuna traccia di frenata. Poi, stando
all’autopsia effettuata sui corpi dell’autista della 130 blu del
presidente Moro e del caposcorta Leonardi che gli sedeva a
fianco (sulla Fiat 130 blu c’erano l’autista e il caposcorta
davanti, e Moro da solo dietro), entrambi sono stati uccisi da
colpi che provenivano da dietro e che li hanno “attinti”, come
si dice in gergo, alla schiena. A entrambi è stato poi sparato
alla testa un colpo di grazia. Ciò significa che gli occupanti
della 128, che precedeva la 130, sono scesi ognuno dal
proprio lato, si sono diretti verso la 130, sono giunti all’altezza
delle portiere posteriori, si sono girati e hanno fatto fuoco
verso i due occupanti i sedili anteriori, colpendoli alla schiena
con un tiro incidente di circa 45 gradi diretto in avanti, la sola
modalità che desse la certezza assoluta di non colpire Moro e
di non colpirsi a vicenda (visto che sparavano da entrambi i
lati della vettura).

Sulla base di questi fatti, ritengo che l’ipotesi più logica e, a


mio avviso l’unica che spieghi razionalmente i fatti, sia che la
famosa 128 bianca con targa diplomatica fosse in realtà parte

187
integrante del corteo delle auto di Moro. Qualcuno potrebbe
aver comunicato a Leonardi che, quella mattina, un’auto
civetta della polizia (“la riconoscerete facilmente, ha targa
CD”) si sarebbe unita al corteo lungo il tragitto e li avrebbe
guidati lungo un percorso sicuro (così si spiegano la scelta
altrimenti cervellotica di usare una targa diplomatica, che
sembra fatta apposta per attirare l’attenzione, e la certezza
matematica del commando che Moro sarebbe transitato
proprio in via Fani). Questo “qualcuno”, ovviamente, non
poteva che essere un funzionario di grado sufficientemente
elevato da potersi permettere di dare indicazioni al caposcorta
del Presidente. A questo punto azzardo una ricostruzione della
scena: la 128 si ferma allo stop e, ordinatamente, frenano e si
fermano anche la 130 e l’Alfetta bianca con i 3 poliziotti a
bordo. L’uomo e la donna scendono e si avviano
tranquillamente verso la 130; Leonardi non ha nulla da
temere, i due, per quel che ne sa, sono poliziotti (può anche
essere che fosse stato comunicato a Leonardi la necessità di
trasferire Moro sulla 128 per maggiore sicurezza, data la
delicatezza e la tensione di quel giorno). Una volta giunti
all’altezza delle portiere posteriori, con Moro forse pronto a
scendere non appena i due gli avessero aperto la portiera,
accade l’incredibile: i due finti poliziotti estraggono armi corte

188
e con due brevi raffiche quasi a bruciapelo uccidono i due
carabinieri. È solo a questo punto che sbucano fuori, gli altri
terroristi, magari camuffati con quei berretti da aviere corrono
verso l’Alfetta e sparano senza alcuna remora lunghe raffiche
dal lato sinistro, tanto a bordo ci sono solo poliziotti e Moro è
già inerme. Il famoso super-killer, poi, come riportato dai
testimoni, fa un balzo per portarsi quasi dietro l’Alfetta, in
modo da colpire l’unico poliziotto che è riuscito a reagire ed è
sceso dal lato destro. Verrà infatti ucciso da una raffica alla
schiena. Ciccio dice che le modalità dell’azione sono la
fotocopia del sequestro Schleyer del 1977. Dobbiamo
controllare».

In effetti Moro non ha mai parlato nelle sue lettere della scorta
uccisa. Parla di prelevamento lamentandosi nel contempo che,
per motivi economici, non ha potuto avere una scorta migliore
che lo proteggesse. Volto pagina e trovo un altro articolo di “A”
firmato da Luciano Lanza. «Fino a ieri», c’è scritto, «c’eravamo
cullati in una illusione: scrivere su un giornale anarchico è un
atto libero, non condizionato dal potere, anzi contro il potere e
la sua logica. Oggi invece siamo costretti a "prendere
posizione" sul rapimento di Aldo Moro, perché i mezzi di
(dis)informazione trattano prioritariamente questo argomento.
Diciamocelo francamente, se non fosse per l’ossessionante

189
campagna, non troveremmo così importante occuparci di un
democristiano privato della sua libertà o di cinque poliziotti che
hanno perso la vita, considerate le migliaia e migliaia di reclusi
e l’ancor più lunga sequela di morti sul lavoro o di uccisi da un
"poliziotto che inciampava". Invece siamo costretti a scrivere
su di un fatto che si svolge all'interno di un conflitto tra B.R. e
classe oggi dominante senza nessun coinvolgimento effettivo
degli sfruttati17.

17
L'articolo di Lanza segue così: "I due poli dello scontro, infatti, non desiderano per nessuna
ragione una partecipazione attiva delle masse, ma ciascuno, con i mezzi che ha, ricerca il consenso
o la legittimazione per il ruolo direttivo che vorrebbe svolgere o che svolge sulla società. Se per la
D.C. e per gli altri partiti questo è assiomatico, per quanto concerne le B.R. potrebbe sembrare,
quantomeno, azzardato. Non è così. Le stesse B.R. hanno a più riprese spiegato che le loro
iniziative non devono essere considerate "azioni esemplari" cioè azioni compiute, sì da una
minoranza, ma che vuole indicare alla maggioranza degli sfruttati le vie per la loro liberazione e
che essi stessi dovranno portare avanti in prima persona. Si tratta invece di azioni facenti parte di
una strategia che mira a mettere in crisi lo "stato borghese" o in termini più aggiornati lo "stato
imperialista delle multinazionali" per accelerare l'evento rivoluzionario che permetta di instaurare
una società diretta dallo "stato operaio", di cui le B.R. sono la prefigurazione armata e partitica.
Inquadrata schematicamente la meccanica della strategia delle B.R., dovrebbe risultare più
semplice adottare valutazioni di merito, anche se prevediamo che già molti saranno insorti per la
sbrigativa liquidazione dei "compagni delle B.R.". Ma il sentimentalismo gioca spesso brutti tiri e,
fatte le debite e importanti distinzioni, le B.R. ci sono estranee come tutti gli aspiranti al potere.
Questa estraneità, comunque, ci è d'ausilio e non di ostacolo per valutare l'enorme capacità di
coinvolgimento dei mass-media. L'obiettivo esplicito era ed è isolare ancora di più le B.R. dai suoi
sostenitori esterni e dalla popolazione in generale. I notiziari martellanti, le foto dei morti, le
interviste ai politici e ai passanti, le "considerazioni" degli intellettuali, la reinvenzione della guerra
partigiana ad uso e consumo del "cittadino 1978" partecipe dello "stato democratico nato dalla
resistenza", le tavole rotonde... in definitiva un enorme apparato si è mosso in sincronia: tutto
doveva essere utilizzato per creare artificialmente un clima di tensione. Un esempio di come si
siano mossi i gestori dell'informazione ci è dato dal completo stravolgimento delle dichiarazioni

190
DICIASSETTE

rilasciate al Congresso delle Federazioni Anarchiche a Carrara e al Convegno di Studi su "I Nuovi
Padroni" a Venezia. Poco importava la denuncia fatta dai compagni del terrorismo dello stato,
gestore legalizzato e istituzionale della violenza, di fronte alla quale quella delle B.R. è ben poca
cosa. L'ordine di scuderia era condannare le B.R. e così si sono capovolti i significati per utilizzare
perfino gli anarchici in questa "crociata antiterrorismo". Una crociata che ha visto nel P.C.I. e nei
sindacati uno dei sostegni più significativi. I sindacati hanno messo sul piatto della bilancia tutto il
loro prestigio per creare una vasta mobilitazione popolare. Centinaia di migliaia di lavoratori sono
scesi in piazza, sono ricomparsi gli striscioni democristiani, tutti uniti, tutti insieme a difendere le
istituzioni. E l'immagine non viene certo contraddetta dalle frange dissenzienti che comunque
hanno dovuto entrare nella logica di quello sciopero e di quello spettacolo, così chiaramente
qualificato, per esprimere la propria diversa identità. Il P.C.I. poi ha colto l'occasione (portavoce il
solito Pecchioli) per scatenare la caccia alle streghe che si nascondono nelle fabbriche. Pecchioli è
stato esplicito: bisogna eliminare dalle fabbriche i sostenitori dei brigatisti. Una dichiarazione
gravissima che si tradurrebbe, se attuata, in numerosi licenziamenti per "sterilizzare" i centri della
produzione e del lavoro da tutte quelle voci di opposizione e di dissenso al patto sociale e
all'egemonia comunista. Si vuole ghettizzare ancora di più le forze rivoluzionarie. La strategia del
P.C.I., unita alla sua capacità di mobilitazione, è un elemento che troppo spesso viene
sottovalutato, perché se il boicottaggio della C.G.I.L. allo sciopero indetto dopo l'assassinio dei
compagni Iannucci e Tinelli non è passato, lo si deve in buona parte anche al dissidio sorto tra la
U.I.L. e la C.I.S.L. e non solo alla capacità di azione autonoma degli operai. Resta comunque il
fatto che l'attacco contro tutta l'estrema-sinistra-non-ragionevole procede e si sviluppa secondo
tempi e modalità determinate dal Partito Comunista che utilizza tutti gli avvenimenti per questo
suo fine, tutt'altro che secondario. A questo punto si impone una riflessione che, pur partendo da
tutti questi eventi, assume connotazioni più generali: il problema della comunicazione. Il divario di
possibilità tra i mezzi che il potere può utilizzare e quelli dei gruppi rivoluzionari si è accresciuto a
dismisura. I mass-media creano le notizie e l'opinione, tutto quanto non rientra nella logica del
sistema viene ignorato o stravolto. L'azione dei gruppi rivoluzionari incontra così un ostacolo
ancora più forte, che, unito alla povertà dei mezzi alternativi utilizzati, rende quasi inintelligibile il

191
Non faccio in tempo a continuare i miei pensieri che mio padre
piomba nella stanza già pronto per uscire. Mi infilo una
maglietta pulita sopra i pantaloni di lino, metto il diario che
stavo leggendo nella borsa. «Un attimo solo, cerco una felpa»,
dico rassegnata già immaginando la faticaccia che dovrò fare
per ritornare su dalle scalette di Parata Grande.

«Andiamo a punt’Eolo», dice invece papà. Il cielo è carico di


pioggia, ma c’è vento. Erano giornate come questa che tutti
insieme andavamo a fare il picnic sugli scogli della villa di

messaggio. La lontananza, anche psicologica, tra rivoluzionari e interlocutori aumenta


vertiginosamente, tanto che per poterli raggiungere bisogna, di necessità, utilizzare i canali del
regime, che comunque riescono sempre a utilizzare per i propri fini anche i fatti che si pongono in
antitesi a questi. Anche le B.R. con la loro azione clamorosa si pongono nella situazione oggettiva
di "essere notizia", i mass-media non li ignorano, anzi sono costretti a dedicare alle loro azioni, ai
loro militanti, alla loro ideologia, ai loro comunicati, pagine e pagine, ma proprio in quello stesso
momento scatta l'operazione di riutilizzo e di distorsione, che con una bene orchestrata campagna
neutralizza il messaggio che le B.R. intendevano lanciare. È evidente che il porsi come "elemento
di notizia" non è sufficiente perché pur rompendo il muro del silenzio non ci si può assicurare la
corretta gestione dell'informazione. Anzi quasi sempre il risultato è l'opposto di quanto ci si
proponeva. E allora? Evidentemente non abbiamo la risposta bella e pronta, sciogliere questo nodo
gordiano è impresa quanto mai difficile, tant'è che il taglio netto operato dalle B.R. non ha sortito
gli effetti che esse speravano, perché se è pur vero che lo stato è caduto, in una certa misura, nel
loro gioco, è anche vero che il restringimento della libertà di azione viene interiorizzato in modo
partecipe dai cittadini e non viene vissuto come stimolo alla rivolta o all'insubordinazione come gli
strateghi delle B.R. amano credere. Certo lo stato mostra ancor più il suo vero volto, ma i
formatori dell'opinione pubblica giocando su elementi emotivi e pseudo-razionali riescono a
giustificare l'involuzione autoritaria presentandola come l'unico modo per “salvare la convivenza
civile”».

192
Giulia. Ci piaceva aspettare il temporale da quel punto estremo
dell’isola. Ci piaceva vedere il mare mosso che s’infrangeva
sulla costa. Contavamo i gabbiani sfaticati che sfruttavano le
raffiche di vento per volare verso Santo Stefano. Godevamo di
quel buon profumo che Eolo da bravo alchimista s’era
inventato: un’essenza mista di salsedine, iodio, ginestre che
spargeva nell’aria.

«Sono pronta», rispondo infilandomi la felpa con il cappuccio.

Ogni volta che mi arrampico verso punt’ Eolo mi dico che è


troppo faticoso e che non ci ritorno più. Ma poi me lo
dimentico e continuo a venire in questo posto magico.

«Che idea ti sei fatta?», chiede papà dopo un bel po’ che se
n’è stato in silenzio, in contemplazione dell’orizzonte.

Non aspettavo altro. «Che importa quello che penso io? Voglio
sapere da te la verità».

«La verità. La mia verità potrebbe non coincidere con quella


degli altri. La verità, diceva Kafka, è viva e possiede pertanto
un volto mutevole. Io posso raccontarti la mia storia, le mie
emozioni, i miei dubbi. Ma la verità potrebbe essere un’altra e
forse non la sapremo mai».

193
«A me interessi tu, papà, non gli altri. Io voglio capire cosa ti è
successo, perché ti sei lasciato coinvolgere da quella follia
collettiva che era la lotta armata. Cosa pensavi di ottenere»,
insisto cercando di fargli capire che non ho nessuna intenzione
di giudicarlo.

«Pensavamo veramente di poter cambiare il mondo. Volevamo


continuare la lotta dei partigiani che erano stati traditi,
volevamo liberare il proletariato dalle catene che il potere ci
aveva messo ai polsi e alla caviglie riducendoci di nuovo
schiavi, sfruttati. Abbiamo imbracciato le armi per riprenderci
la vita, la dignità. Ho creduto nel sogno della rivoluzione. Ci ho
creduto davvero. Pensavamo che sequestrando il Presidente
avremmo dimostrato che la sopportazione del proletariato era
arrivata al limite. Eravamo convinti che le cose dovevamo
cambiare in un modo o nell’altro. Forse stupidamente durante
il sequestro ho pure creduto di poterlo convincere delle nostre
ragioni. Da quello che raccontavano i compagni che entravano
nella prigione pare non abbia mai detto una parola di odio nei
nostri confronti, anzi. Sembrava capire le nostre rivendicazioni
e stava prendendo coscienza di che razza di persone si era
circondato. Il Presidente parlava del rispetto degli altri,
dell’amore verso gli ultimi, del perdono, della solidarietà, della
giustizia, dell’uguaglianza, del valore della vita. Mi sembrava

194
un altro uomo rispetto all’idea che ci eravamo fatti di lui. Mi
sembrava diverso da quello che parlava ai comizi o a
Montecitorio. Quale dei due era il vero Presidente? Nel dubbio
pensavo che si dovesse salvare. Dovevamo salvarlo. Anche lui
ce lo chiedeva. Diceva che ucciderlo sarebbe stata una
sciocchezza, che saremmo caduti nella trappola che la Dc e il
Pci ci avevano teso. Loro sì che avevano più di un motivo per
farlo fuori. Noi?».

«Però l’avete ucciso», dico io stizzita pensando a quanto


dolore hanno provocato alla famiglia dell’onorevole Moro, alle
famiglie degli uomini della scorta, alle famiglie stesse dei
brigatisti.

«Sì. E il senso di colpa è insopportabile. Oggi come ieri».

«Possibile che non c’è stato modo per liberarlo?», insisto.

«Mercoledì 3 maggio in piazza Barberini Mario ha incontrato


Valerio e Adriana per comunicargli la decisione di uccidere
Moro. Anche loro erano contrari, ma non c’era più nulla da
fare».

«Avete fatto tutto da soli? La Cia, il Kgb, il Mossad dei quali


parlano molti libri non c’entrano nulla?», chiedo.

195
«Abbiamo fatto tutto da soli nella speranza di innescare una
rivoluzione in Italia. L’indubbio successo militare del nostro
attacco fu dovuto all’effetto sorpresa e all’impreparazione degli
apparati repressivi di fronte a una tale, inaudita emergenza.
Insomma, non ci fu alcun “grande vecchio” a gestire
nell’ombra il sequestro. Sergio Flamigni insiste sui poteri
occulti interessati a pilotare le Br, sino al tragico epilogo. Forse
non tutto è così chiaro, forse ci fu qualche infiltrato
nell’organizzazione, forse ci furono trattative mai venute alla
luce, soprattutto per recuperare le carte del prigioniero, forse
la sera del 9 maggio ‘78 molti nemici del Presidente non
versarono troppe lacrime per il suo assassinio. Ma per quello
che ne so io, abbiamo fatto tutto da soli. Le grandi narrazioni
sono senz’altro più fascinose e seducenti dei fatti illuminati
dalla loro cruda nudità. E la verità non è quasi mai all’altezza
delle nostre aspettative».

Si accende una sigaretta papà, poi continua: «Man mano che


gli aggiornamenti arrivavano, lo ammetto, prendevamo,
prendevo coscienza che avevamo fatto un salto di qualità
enorme. Sì, c’erano delle vittime, un bagno di sangue, è vero.
Ma io ero soprattutto orgoglioso per l’azione militare pressoché
perfetta portata a termine. Non ero triste e tanto meno
disperato. Vivevo in stato confusionale, tra il sogno e la realtà.

196
Un mese dopo via Fani, erano tanti quelli che condannavano
l’accaduto, ma allo stesso modo non erano neppure pochi
quelli che pensavano e sostenevano più o meno apertamente
che le Brigate Rosse avevano ottenuto uno strepitoso
successo. Io non vivevo in clandestinità e sentivo quello che la
gente diceva. Tua madre sosteneva che le Br avrebbero vinto
se avessero lasciato andare il Presidente. Ne ero convinto
anche io: la sua esecuzione fu la nostra sconfitta. Sino al
giorno prima, la possibilità che una guerra civile fosse alle
porte era tutt’altro che improbabile. L’esecuzione a sangue
freddo di un prigioniero ci fece perdere in un attimo quelle
incontestabili e più o meno silenziose simpatie che ci eravamo
conquistati anche nell’ambiente dei lavoratori: eravamo
rivoluzionari che combattevano lo Stato Padrone».

«Eravamo una formazione armata che non nascose mai il suo


credo ideologico e fece del terrorismo lo strumento per la
realizzazione di obiettivi intermedi e fini ultimi costantemente
annunciati. E l’avanguardia guerrigliera di un vasto movimento
di contestazione che coinvolse interi strati della società
italiana. Questo è il mio pensiero, anche per ciò che riguarda il
sequestro del presidente. Lo rapimmo seguendo le nostre
scelte ideologiche e le nostre dichiarate finalità, lo
processammo e lo condannammo secondo il nostro codice,

197
rientrando nella loro logica la stessa determinazione di
eseguire la sentenza anche se dopo un aspro scontro interno.
Escludo quindi che fossimo state eterodirette e che vi sia stato
un Grande Vecchio. Ciò malgrado sono convinto, come
moltissimi altri e di me più autorevoli, che sulla vicenda Moro
si addensino zone di opacità che devono essere chiarite. Ma la
storia non cambierebbe».

«Hai portato il diario, vero?», mi chiede interrompendo il


discorso che stava facendo. Glielo do. Cerca una pagina in
particolare e mi chiede di leggere ad alta voce.

«Qualche buona notizia arriva in questa Roma in stato di


assedio. Le Br promettono che ci avrebbero fatto sapere tutto
di 30 anni di regime democristiano comprese le stragi di
Stato».

«Purtroppo non è stato così, papà. Le Br non ci hanno rivelato


quasi nulla», gli dico interrompendo la lettura del diario di
mamma. «Se il sequestro Moro ha fallito i suoi obiettivi è stato
perché non è riuscito a porsi come avanguardia dello scontro
coagulando attorno a sé frange disponibili del movimento.
Perché le azioni delle Br non era al movimento che
guardavano, ma al potere rappresentato dalla politica portata
avanti congiuntamente da Dc e Pci col progetto di

198
compromesso storico».

«Carla», riprendo a leggere io prendendogli il diario dalle


mani, «dice che nei brigatisti lei non riesce a vedere compagni
che sbagliano, ma parole ed azioni che, se prevalessero, ci
avrebbero costretti a batterci con ogni mezzo contro di loro.
Lotta Continua in questi giorni viene definito “il partito dei
vescovi e della vita umana”, “l’organo degli amici dispersi di
Aldo Moro”, il bollettino della “trattativa cinica e impossibile”.
Denominazioni piene di sarcasmo e benedette dalle migliori, e
peggiori, penne del giornalismo nostrano. “Moro non é morto”
ha strillato a tutta pagina “Lotta Continua” mercoledì 19 aprile
con un appello per la sua liberazione, firmato da una decina di
personalità, tra cui Dario Fo e Franco Basaglia, l’appello ha
raccolto in pochi giorni un successo inaspettato. Lo stanno
sottoscrivendo in migliaia. In nome del “diritto alla tolleranza e
alla liberazione d’un prigioniero”, corre veloce di mano in mano
tra parrocchie periferiche, sezioni abbandonate, luoghi di
lavoro. Ma finora questo referendum privo di quorum è
rimasto totalmente inascoltato. Dagli uomini del Palazzo. Dagli
uomini del covo.

I mitra di via Fani hanno inceppato la Rivoluzione. Il


movimento era riuscito a riempire di cortei le piazze d’Italia.

199
Aveva occupato scuole e Università, cacciato Lama, ingaggiato
guerriglie lunghe un anno, aveva preso possesso di città
sonnolenti, liberato energie creative fatte di onde radio, fogli
ribelli, immaginazione antagonista, progettualità e decreti sulla
“fine del regime del lavoro”.

A distanza di pochi mesi ecco però “le armi lunghe”, finora


clandestine e marginali, hanno imposto la stella a cinque
punte nelle assemblee e dell’espressività dell’anno scorso
sembra essere rimasta solo una balbettante babele. “Non é né
più alto né più basso” scrive “Rosso”: “Il rapimento Moro non
ha nulla a che fare con l’autonomia”. Le BR, dicono i Volsci,
ignorano l’iniziativa delle masse, il coinvolgimento del
revisionismo nella crisi, “sembrano scopertamente indurre lo
Stato ad una sua involuzione verso un fascismo moderno”. Per
alcuni ecco “il senso ubriacante del grande balzo in avanti”,
per altri “il pericolo di un’azione che, assieme allo Stato,
disarticola l’intera classe”. Per gli operai dell’Alfa, invece, c’é
solo il diritto a non spiegarsi “poiché la nostra differenza con
loro é nelle cose che facciamo”. “Come comunisti rivoluzionari
neghiamo la prassi dei regimi reazionari di emettere sentenze
ed eseguire condanne in nome del popolo”».

«Tu eri un autonomo prima di entrare nelle Br?», chiedo a

200
papà.

Non mi risponde subito. Prosegue il racconto di mia madre. «Il


comunicato stampa dei Comitati Autonomi Operai venne
divulgato il 5 maggio. Troppo tardi. Il tempo ormai trascorreva
nemico verso l’epilogo di via Caetani.».

Prende fiato: «Io venivo dai Volsci e non mi sono mai


considerato un terrorista, né dedito alla violenza cieca e non
necessaria. Mi sentivo un guerrigliero rivoluzionario che
insieme a tanti compagni stava portando avanti una battaglia
nel nome del proletariato. E stavamo per vincerla».

Riprendo a leggere. 25 aprile 1978. In piazza Esedra alla nove


c’è stato il concentramento del movimento delle scuole e
dell’università. Sono arrivati anche quelli di Autonomia
Operaia, ma Luca non c’è. Sullo striscione che apre il corteo
c’è scritto: Contro il terrorismo di Stato delle Br – contro il
regime della Dc e Pci. Qualcuno grida Curcio libero. Prendendo
a pretesto una tentata deviazione del tragitto, la polizia carica.
Ce l’hanno con gli Autonomi, è evidente. Un compagno dice
perché sanno che a condurre il “processo” ad Aldo Moro, nella
“Prigione del Popolo” non ci sono solo i brigatisti rossi, ma
anche qualche dirigente dell’Autonomia Operaia. Non ci
credo».

201
«Dopo la cacciata di Lama dall’università il Pci ci ha
pubblicamente condannato». Papà si sente in dovere di
giustificarsi. «Ci siamo sentiti traditi. Una parte dell’ala dura
degli autonomi decise che era giunta l’ora di “alzare il livello
dello scontro”, ossia di passare alla lotta armata. Da allora
l’Autonomia si è avvicinata alle posizioni dei gruppi terroristici
che si stavano formando. Molti entrarono in clandestinità,
alcuni entrarono nelle Br, tanti altri nei NAP che agivano
all’interno delle carceri, dove molti autonomi furono rinchiusi».

Mi sembra tutto così assurdo. «Mamma che diceva?», chiedo.

«Lei viveva in un mondo tutto suo. Diceva che una volta preso
il potere anche i rivoluzionari cessano di essere tali per
diventare amministratori. L’ho letto pure da qualche parte sul
diario». Riesce subito a trovare la pagina alla quale si
riferisce.

«Mai farei la lotta armata pur condividendo le motivazioni che


hanno spinto tanti miei compagni a farlo. Se alle
manifestazioni qualcuno usa la pistola non lo accetto, ma
capisco e appoggio in tutto la rivolta contro un certo modo di
gestire la società che non tiene conto della società stessa. Per
me l’impulso è più forte delle regole, ma la compassione più
potente della ragione. Io ho fiducia nell’uomo e l’umanità

202
nuova sarà formata da coscienze capaci di autogoverno
interiore e sociale in cui non avranno più posto gerarchie,
autoritarismi, violenze. Se solo questo ottimismo, questa
fiducia fosse anche quella dei terroristi…

Papà chiude il diario. Guarda in cielo. «L’umanità nuova,


l’anarchia», dico io mentre mi viene in mente uno strano gioco
che s’era inventata mia madre per me. L’aveva chiamato
"l’anarciccia". Su un foglio aveva scritto che io ero una
bambina fortunata perché libera di fare tutto quello che
volevo, a condizione però che avessi rispettato la libertà degli
altri, avessi aiutato chi aveva bisogno, avessi studiato perché
solo la cultura rende liberi. Ogni volta che mi comportavo male
perdevo dieci punti libertari, ma li potevo recuperare se facevo
qualcosa per qualcuno in difficoltà. Per tutta la vita ho cercato
di non perdere i suoi punti. Anzi ho provato ad accumularne
sempre di più, perché così mi sentivo la sua "anarciccia". Forse
può sembrare un gioco stupido, ma credo che mi abbia
fortemente aiutato nella vita. Mi ha dato una base forte sulla
quale costruire la mia personalità, il mio carattere.

Papà invece mi ha insegnato ad amare le cose belle. Lui era


un gallerista, è un gallerista. Fin da piccola ho avuto modo di
maneggiare opere d’arte, ho conosciuto artisti importanti, ho

203
visto mostre che hanno fatto storia. Viaggiava tantissimo, per
settimane non lo vedevamo, né lo sentivamo. Mamma mi
diceva che stava fuori per lavoro e io ci credevo visto che ogni
volta che ricompariva mi portava tanti regali. Però mia madre
piangeva, a volte, la notte. Se glielo chiedevo mi diceva che
papà le mancava. Zia Moira sosteneva che papà avesse
un’altra. Mamma la chiamava "la stronza". Due anni dopo la
sua morte lui se l’è sposata, ma io non le ho mai permesso di
prendere il posto di mia madre. Piuttosto che stare con lei
preferivo non vedere neanche mio padre e così ho vissuto per
la maggior parte della mia adolescenza con le zie. Papà, però,
ha sempre trovato il modo per non interrompere quel rapporto
che avevamo. Di questo devo dargliene atto. S’inventava
viaggi da fare solo con me, mi veniva a prendere a scuola e mi
portava con lui in galleria, facevamo insieme i compiti, veniva
a dormire da zia Carla quando ero malata. Ora so che non è
stato facile neanche per lui. Aveva perso mamma e non poteva
rischiare di perdere anche me. Lo abbraccio forte. Ho un nodo
alla gola e ho voglia di piangere.

«Amore mio, ti chiedo scusa», dice papà. A questo punto non


mi trattengo più. Le lacrime mi annebbiano la vista poi un
pianto silenzioso e inarrestabile prende il sopravvento. Un
lampo squarcia le nuvole. «Dobbiamo andare a casa prima che

204
inizi il temporale», gli dico alzandomi in piedi tendendogli le
mani per aiutarlo.

205
DICIOTTO

«Io non mi sono mai voluto intromettere. Ma sono felice che


tu mi abbia chiamato. Tua madre per me è stata un’amica, ma
soprattutto una maestra di vita». Quando ho chiamato Ciccio
ero preoccupata. Non sapevo da che parte cominciare. Eppure
appena ho letto il messaggio di Daniele sul cellulare, non ho
esitato un attimo a chiamarlo. «Ciccio aspetta una tua
telefonata. Chiamalo quando vuoi. Ecco il numero», c’era
scritto e io sono sgattaiolata in camera per farlo. Mi sono
chiusa dentro, perché non volevo che papà mi sentisse. Fuori
iniziava a piovere.

Mentre aspettavo che la centralinista del giornale passasse la


telefonata al dottor Francesco De Blase ero tentata di
riattaccare. Poi però quando ha risposto, con quella voce
tutt’ad un tratto familiare, non è stato difficile. Mi ha detto di
essere felice di sentirmi, mi ha chiesto se stavo bene. A quel
punto non è stato difficile domandargli cosa ne pensava
dell’ipotesi di Daniele. «Appena saputo dell’incidente anche a
me è venuto in mente che potesse essere stato provocato», mi

206
ha confermato aggiungendo subito dopo «di aver pensato
pure che non fossero affari miei. Non mi è sembrato che tuo
padre fosse particolarmente interessato ad andare avanti. E le
mie congetture, i miei dubbi, li ho tenuti per me».

«Ma tu sei un giornalista, come lo era lei», ho insistito io, «e


se mia madre avesse avuto dei dubbi su una notizia sarebbe
andata oltre. Avrebbe indagato, avrebbe chiesto in giro,
avrebbe cercato riscontri alle sue ipotesi».

«L’ho fatto», risponde lui tranquillamente. «Ma è un’inchiesta


privata e lo resterà finché non avrò le prove per inchiodare i
responsabili. Se qualcuno l’ha uccisa dovrà pagare. Per lui non
dovranno esserci processi assolutori. Ci vorranno altri vent’anni
per dimostrarlo? Non importa. Lei non sarà un altro caso di
“nessun colpevole”».

«Quindi ritieni che sia stata ammazzata?», gli ho chiesto con


un nodo alla gola.

«Non voglio condizionarti, Sole. L’unica cosa che posso fare è


raccontarti di lei, del suo lavoro e della sua ossessionata
ricerca della verità».

207
«Quale ricerca? Quale verità?».

Ciccio ha avuto un attimo di esitazione. Poi mi ha liquidata


chiedendo il mio indirizzo di posta elettronica. «Sto finendo un
articolo», si è giustificato, «possiamo continuare la
conversazione via mail. Ti scrivo appena posso». Non potuto
far altro che accettare: «Va bene, aspetterò».

Mi sono buttata sul letto cercando di farmi venire in mente i


ricordi che avevo di lui. Ciccio era più giovane di mia madre e
credo si siano conosciuti alla Sapienza. Lei doveva fare un
servizio sugli studenti di destra e lui frequentava la facoltà di
Giurisprudenza. Voleva capire. L’ha scritto pure sul diario.
Voleva capire cosa spinge dei ragazzi, dei giovani che dicono di
voler cambiare il sistema, a sposare l’ideologia di un dittatore.
Lei considerava i fascisti «gli ultimi degli ultimi, i più odiati, i
più detestati, i più infami, i più ridicoli, i più denigrati» e come
tali la interessavano. «Perché si sentono attratti dalle
nefandezze e dalla violenza del fascismo?», si chiede nel
diario. Voleva guardarli negli occhi quei ragazzi e sfidarli sul
piano dialettico, culturale, piuttosto che con le armi che in quel
periodo si usavano, quelle della violenza e dell’odio.

208
Era fatta così. Ciccio voleva fare il giornalista e mamma fece in
modo di farlo lavorare come suo collaboratore a patto che lui
l’aiutasse per le ricerche che poi dava al Comitato di
Controinformazione. In pratica dovevano cercare notizie e
documenti per “smascherare” l’informazione istituzionale che
indirizzava l’opinione pubblica. Questo Comitato nacque
dall’iniziativa di alcuni militanti dell’Associazione dei Giuristi
Democratici di Roma che iniziarono a seguire gli sviluppi della
situazione politico-sociale italiana dopo la morte del giovane
socialista Paolo Rossi nel corso di scontri tra studenti e polizia
all’Università di Roma il 27 aprile 1966. Ad essi si aggiunsero
diversi giornalisti di sinistra e alcuni militanti del «Canzoniere
dell’Armadio», un gruppo musicale romano nato nei primi anni
Sessanta che aveva svolto un intenso lavoro di animazione
culturale. Mamma si avvicinò al comitato dopo la morte di
Pinelli e come tanti altri compagni raccoglieva notizie,
schedava giornali, riviste, fascicoli sui principali esponenti
neofascisti. E Ciccio fu come la manna dal cielo. Ma poi ci si
affezionò e divennero amici. Me lo ricordo qui a Ventotene
durante l’estate, o a casa che giocava con me. Anche con zia
Moira aveva un buon rapporto. Molto meno con zia Carla che
lo vedeva sempre e comunque come un “fascista” anche se
fascista non era. Tanto è vero che si è presentato alle ultime

209
amministrative nelle liste della Sinistra l’Arcobaleno, anche se
non è stato eletto. Ciccio è rimasto in contatto con noi anche
dopo la morte di mamma. Con gli anni ovviamente ci siamo
persi un po’ di vista, ma non ha mai dimenticato di farmi gli
auguri per il mio compleanno o di spedirmi un regalo a Natale.

210
DICIANNOVE

Ciccio ancora non mi ha scritto.

«Papà, chi è Igor?», urlo di punto in bianco. Senza aspettare


la risposta insisto: «Mamma scrive questo nome sul diario
pochi giorni prima di morire. Eppure questo personaggio, se lei
si riferisce a Igor Markevitch, spunta fuori nella storia del
sequestro dell’onorevole Moro solo nel ‘99?». Papà sta
guardando la televisione in cucina.

«Me l’aspettavo questa domanda, Sole. Prima o poi l’avresti


fatta. Daniele è riuscito nel suo intento». La sua voce è dura. È
infastidito quando mi raggiunge in camera e mi trova, come al
solito a cercare cose su internet. Sullo schermo c’è un’agenzia
Ansa del 29 maggio 1999. La legge a bassa voce.

«Allora, papà, chi è per te Igor. Igor Markevitch, intendo? Ma


non mi interessa la sua biografia, quella la conosco, me ne ha
parlato pure Daniele. Quello che voglio sapere è che rapporto
aveva con le Brigate Rosse».

211
Si vede che non ha nessuna voglia parlare di questo
personaggio. Si limita a dire: «Non l’ho mai visto, né ne ho
sentito parlare in quei cinquantacinque giorni. Quello che so di
lui l’ho appreso dopo. Nel 1999, appunto. Ma io non facevo
parte della direzione strategica. Io ero un manovale, prendevo
gli ordini ed eseguivo. So che Mario partecipava a delle
riunioni, mi sembra vicino a Firenze. Ma di Igor Markevitch con
noi, o per lo meno con me, non ne ha mai parlato».

«Va bene, papà. Tu non lo conosci, ma se mamma ha scritto il


suo nome sul diario forse è importante. Vuoi aiutarmi a
capire?».

«Non credo ci sia niente da capire. Gli hanno detto di indagare


su un certo Igor e forse lei l’ha fatto».

«Secondo te quell’Igor del quale si stava occupando mamma è


Igor Marketevich?», insisto.

«Che ne so io? Devi chiederlo a chi raccoglieva i suoi segreti»,


ribatte lui scocciato, come se volesse chiudere lì quella
conversazione.

212
«Che fai il geloso?», sdrammatizzo. Ma non serve a niente.

«No. È solo che non ti posso aiutare. Io non stavo con lei in
quel periodo. Te l’ha detto pure Moira. Non so chi le ha
suggerito quel nome, né tanto meno chi immaginava chi
fosse», risponde, ma ho la sensazione che sappia molto di più
di quando dica.

«Vabbè, diamo per scontato che l’Igor di cui parla mamma sia
Markevitch. Aiutami a riflettere. Tu mi interrompi se dico cose
senza senso», tengo duro, ben consapevole che mio padre si
sta arrabbiando. «Credo sia possibile che Markevitch, a un
certo punto, sia entrato in contatto con l’organizzazione.
Magari su richiesta dell’agente americano Hubert Howard, che
era collegato a Gladio e alla sicurezza atlantica e non è difficile
immaginare in fibrillazione per le rivelazioni che il presidente
stava facendo. Sto andando bene?», gli chiedo. Mi fa segno di
andare avanti.

«Avevano uno stretto rapporto Markevitch e Howard, che tra


le altre cose era anche suo cognato visto che aveva sposato
una cugina di sua moglie. Markevitch era stato, durante la
guerra, in contatto con la Resistenza. Howard era l’ufficiale

213
dell’intelligence inglese che per primo entrò a Firenze liberata
dall’occupazione nazista e fu proprio lui ad affidare a
Markevitch l’incarico di occuparsi dei programmi musicali della
radio Firenze libera e del Maggio Fiorentino. Non mi sembra
così assurdo pensare che, dopo 34 anni, fossero di nuovo
insieme seppur con obiettivi completamente diversi. Nella
primavera del 1978, in un’ipotetica divisione dei ruoli, è
possibile che Igor agisse sul campo, per così dire, tornando a
fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello
politico delle Br, e Howard tenesse il controllo nella cabina di
regia di Palazzo Caetani».

Palazzo Caetani. Mentre parlo ad alta voce rifletto. Daniele


dice che il giorno in cui morì mia madre ci sarebbe dovuto
essere un blitz proprio lì. Ma all’ultimo momento venne
intimato un inspiegabile dietro front. Perché? Ma soprattutto
perché mamma voleva trovare un canale per arrivare a Igor?
Mentre guardo papà la mia attenzione si concentra sul fatto
che Markevitch avesse partecipato alla Resistenza. Quindi era
in contatto con i partigiani. Questo deve essere stato per lui
un ottimo biglietto da visita se voleva infiltrarsi nelle Brigate
rosse. Non sarebbe del tutto insensato pensare che Moretti si
sia fatto abbindolare da Markevitch nella veste di agente di

214
Mosca e soprattutto di amico dei partigiani.

«Papà, ti ricordi quando ero piccola che giocavamo alle


associazioni di idee?», dico fermando il ragionamento che
stavo facendogli. Del resto non mi sembra abbia ascoltato poi
molto di quello che ho detto finora. «La parola iniziale è
“resistenza”, la parola finale è “moro”». Anche questo gioco se
l’era inventato mamma. Lo facevamo spessissimo quando non
potevamo muoverci. Tipo durante i viaggi in auto, o quando
stavamo al letto, oppure al mare quando se ne stava sdraiata
al sole. Ma con papà era più divertente, perché lui non faceva
obiezioni anche quando le mie associazioni d’idee erano molto
assurde.

«Resistenza?», chiede papà un po’ spazientito per tutto quel


mio parlare.

«Sì, Resistenza. Quella dei partigiani. Markevitch e Howard, c’è


scritto su tutti i libri, avevano partecipato alla liberazione di
Firenze dai tedeschi. Anche voi vi sentivate un po’ gli eredi dei
partigiani. Per associazione di idee Br, Moro. E quindi Igor».

«Non capisco dove vuoi arrivare».

215
«Aspetta un attimo». Vado in camera da letto a prendere il
diario e cerco una pagina alla quale non ho dato nessuna
importanza quando l’ho letta per la prima volta. «Ecco, guarda
qui», gli dico ritornando in soggiorno.

«Pare che un partigiano gli abbia regalato una pistola. Mi


hanno detto di cercare a Ventotene».

Papà continua a starsene in silenzio. Non dice una parola. Io


invece voglio raccontargli quello che mi ha detto un vecchio
pescatore dell’isola. «L’altro giorno ho torturato Aniello per
farmi raccontare dei confinati politici. A proposito della
Liberazione gli è venuto in mente di un forestiero, così l’ha
definito, di cui parlava il gruppo dei comunisti. Ho insistito
tanto perché si ricordasse il nome, ma non c’è stato nulla da
fare. Aniello dice che è un nome difficile. L’unica cosa che sa
per certo è che si era stabilito in Toscana negli anni Quaranta
e che fece parte dei Comitati di Liberazione. Forse è lui».

«Hai ragione: potrebbe essere Igor Markevitch», commenta


papà. Ma non sembra molto convinto. Piuttosto dà
l’impressione che voglia farla finita con questi discorsi.
Insomma come se mi volesse dare il contentino.

216
«Ma cosa sperava di ottenere da lui? Voleva sapere dove
tenevano nascosto l’onorevole Moro?».

«Non credo».

«Molto più probabile che volesse sapere cosa stava dicendo il


presidente…», azzardo io.

Si accende una sigaretta. Fa sempre così quando vuole


raccogliere i pensieri. «Forse». Poi diventa loquace. «Quando
venne diffuso il primo comunicato e ancor di più il secondo,
quello del 25 marzo a distanza di una settimana, tua madre
era molto eccitata perché promettevamo di rendere pubblico,
di lì a breve, il fatto che era in corso l’interrogatorio di Moro,
che intendevamo chiarire le politiche imperialiste e
antiproletarie della Dc, individuare con precisione le strutture
internazionali e le filiazioni nazionali della controrivoluzione
imperialista, svelare il personale politico-economico-militare
sulle cui gambe camminava il progetto delle multinazionali e
accertare le sue dirette responsabilità».

« È vero!», esclamo entusiasta io. E la conferma arriva da


un’altra pagina del diario.

217
«Oggi, 29 marzo, le br hanno fatto trovare il comunicato
numero tre e una lettera di Moro al capo delle guardie,
Cossiga. Finalmente sapremo la verità. I brigatisti dicono che
“l’interrogatorio prosegue con la completa collaborazione del
prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le
linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno
attuando; delineano con chiarezza i contorni e il corpo del
“nuovo” regime che, nella ristrutturazione dello Stato
Imperialista delle Multinazionali si sta instaurando nel nostro
paese e che ha come perno la Democrazia Cristiana. Proprio
sul ruolo che le centrali imperialiste hanno assegnato alla DC,
sulle strutture e sugli uomini che gestiscono il progetto
controrivoluzionario sulla loro interdipendenza e
subordinazione agli organismi imperialisti internazionali, sui
finanziamenti occulti. Sui piani economici-politici-militari da
attuare in Italia, il prigioniero Aldo Moro ha cominciato a
fornire le sue “illuminanti” risposte. Le informazioni che
abbiamo così modo di recepire, una volta verificate verranno
rese note al movimento rivoluzionario che saprà farne buon
uso nel prosieguo del processo al regime che con l’iniziativa
delle forze combattenti si è aperto in tutto il paese».

Queste parole su papà fanno un certo effetto. Si vede. E ancor

218
di più quelle che seguono. Mamma nelle pagine successive
parla del comunicato numero 5 datato 10 aprile che rivela
come l’interrogatorio stia validamente chiarendo le linee
antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche, le
responsabilità dei «boss democristiani, i loro protettori
internazionali, gli equilibri di potere». Poi però mamma si
arrabbia per quello che scrivono i brigatisti nel comunicato
numero 6. Non riesce a capacitarsi del perché abbiano voluto
concludere l’interrogatorio al presidente.

«Ma che sta succedendo? Perché interrompono il processo?


Non vogliono più sapere nulla? Cosa significa che Moro non
ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze che
non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari? E poi
perché, dopo aver promesso di rendere pubblici gli
interrogatori, adesso annunciano che saranno diffusi
attraverso la stampa e i mezzi di divulgazione clandestini delle
organizzazioni combattenti? Sono dei cialtroni».

«Ha ragione mamma!». Anche io sono indignata. «Ma come?


Moro ha parlato, ha fatto rivelazioni che accusano la classe
dirigente, ma le rivelazioni non vengono rese pubbliche solo
perché già conosciute dal proletariato in quanto da lui sofferte.

219
Se per cinque comunicati si fa un processo, si esegue
un’inchiesta, si tengono verbali che in parte sono stati dati alla
stampa, alla fine una organizzazione rivoluzionaria, se è
rivoluzionaria, deve emettere una sentenza motivata. Ma voi
non l’avete fatto. Qualcuno vi ha detto di smettere, qualcuno
vi ha detto che certe cose non dovevano essere rese
pubbliche, qualcuno non voleva che il processo continuasse,
qualcuno voleva che Moro chiudesse la bocca. Tra il
comunicato numero 5 e il numero 6 entra in scena l’infiltrato
con un ordine superiore e con il compito di far sparire tutto i
documenti scritti e le registrazioni del processo. E l’infiltrato
potrebbe essere Igor».

Papà è come se fosse in trance. «Ma quali infiltrati? Le


decisioni venivano prese dalla direzione. E lì non c’era nessuno
esterno». Io insisto: «È quello che sai tu. Però devi ammettere
che su Moretti qualche ombra di mistero c’è. Comunque
facciamo finta che Igor non sia un infiltrato e nemmeno
Moretti. A mamma interessavano i manoscritti del presidente e
le confessioni registrate!».

«Papà, mi segui?», gli chiedo. Non mi sono accorta che


mentre stavo parlando mio padre è uscito dalla stanza. Lo

220
trovo in veranda seduto con la faccia tra le mani. È distrutto.
Ma io ignoro il suo stato d’animo.

«Mamma stava cercando Igor per arrivare al memoriale».

221
VENTI

Lo lascio solo e vado a controllare se c’è qualche messaggio


nella posta elettronica. Niente. Mi sto spazientendo. Possibile
che Ciccio non abbia trovato ancora cinque minuti per
scrivermi? Lo cerco in redazione, ma non c’è. Chiedo alla
centralinista se può avvertirlo della mia telefonata. Poi però
chiamo Daniele. «Mi hai detto che mi avrebbe aiutata e invece
si sta facendo negare», esordisco io. «Sono sicuro che non è
così», risponde. «Comunque, ora provo a cercarlo anche io.
Vedrai che si farà vivo al più presto».

Così è stato. Ciccio ha preso l’aliscafo delle 17,30 ed è arrivato


a Ventotene senza neanche avvertirmi. Sono stata presa dal
panico quando l’ho visto in giardino. Prima ho pensato che
fosse un’allucinazione, poi ho pensato a papà, al suo segreto e
alle cose che ancora doveva rivelarmi. «Papà, abbiamo ospiti»,
urlo precipitandomi fuori.

222
«Ti trovo bene, Sole», dice per rompere il ghiaccio. Intanto
anche papà esce in giardino per vedere chi è arrivato. «Ciao
Ciccio», gli dico abbracciandolo. «Potevi dirmelo, saremmo
venuti a prenderti», mento. Quello che non posso dirgli è che
non era proprio il momento di piombare in casa mia. Dovevo
prima chiarire con mio padre tutta una serie di cose. C’era
tensione tra noi e non volevo che lui la percepisse. «L’ho
deciso all’ultimo momento e poi sapevo dove trovarti».

Già. Lui lo sa. Lui è venuto spesso qui con mamma e con noi.
Ciccio abbraccia anche papà, che non sembra affatto
preoccupato. Anzi. Pare felice di quella visita inattesa. Forse
pensa che io non continuerò a torturarlo con il mio terzo grado
e sposterò le mie attenzioni sull’amico di mamma.

«Vieni, entra. A cosa dobbiamo questa visita?». Che falsa che


sono, mi dico mentre mi escono di bocca quelle parole. Non
voglio che papà sappia che l’ho cercato io. Ciccio capisce al
volo. «Daniele mi ha detto che ti ha portato i diari e che volevi
farmi delle domande. Sai per telefono è difficile rispondere,
avevo due giorni liberi e sono venuto».

Sono in imbarazzo e si vede. «Ci prepari una bella cenetta?»,

223
dico a papà spingendolo in cucina. «Vediamo cosa c’è in
frigo». Una volta soli gli prometto che non farò nessun
accenno a quanto mi ha rivelato. «Lo so principessa», dice
sorridendomi. Torno da Ciccio che se ne sta ancora in piedi
con la ventiquattrore in mano. «Siediti, ti prego», gli faccio
indicando il divano rivestito con una coperta messicana. «Ho
letto i diari. Visto che sei qui puoi aiutarmi a capire». Non c’è
motivo per rimandare e vado diritta al sodo, senza preamboli,
mentre mi accomodo nella poltrona di mamma.

«Che ricerca stava facendo mia madre?».

«Tua madre era letteralmente ossessionata dalla ricerca della


verità su piazza Fontana e sull’assassinio, perché lo
considerava tale, dell’anarchico Pinelli. Quando ha accettato di
insegnarmi il mestiere, è stato anche perché potevo aiutarla.
Ci siamo conosciuti poco tempo dopo l’omicidio del
commissario Calabresi. Era infuriata perché pensava che senza
di lui non si sarebbe più potuto sapere nulla, che il processo
sarebbe stato chiuso e la verità non sarebbe più venuta fuori.
Per questo era convinta che non potevano esseri stati i
compagni ad aver commesso l’omicidio. I compagni volevano
sapere. Mi disse che dovevamo cercare altrove. Magari negli

224
ambienti di destra».

«Come è andata a finire?», chiedo mentre vado in cucina a


prendermi un bicchiere di acqua fresca. Ho la bocca secca.
Papà sta pulendo alcune seppie che mi ha portato Aniello
stamattina. Gli do un bacio e torno da Ciccio.

«Alla fine, dopo tante controinchieste che sono state


ciclostilate e distribuite all’università, davanti alle fabbriche,
alle manifestazioni dai compagni, ci siamo ritrovati a cercare il
memoriale di Aldo Moro», mi dice appena rientro nella stanza
mostrandomi un foglietto con su scritto: «Dobbiamo parlare da
soli». Ho capito. Devo inventarmi qualcosa. Ma è difficile: ho la
testa che mi gira e un nodo alla gola.

«Senti Sole, ne parliamo più tardi. Ora vorrei andare a


comprare un dolce per la cena. Mi accompagni al forno?».
Meno male che qualcosa se l’è inventata lui.

«Va bene, ho aspettato tanto, posso aspettare ancora un po’»,


dico ad alta voce per farmi sentire da papà. Torno in cucina e
gli dico che vado da Tonino insieme a Ciccio. I suoi occhi sono
gelidi, tali e quali a quando mi pizzicava a fare qualcosa che

225
non dovevo fare.

«Scusami, non volevo metterti in imbarazzo», dice Ciccio una


volta fuori dal cancello del giardino. «Non sapevo che c’era tuo
padre con te, altrimenti avrei rimandato la visita».

«Non ti preoccupare. Ma cosa c’è di tanto imbarazzante da


non poter far sentire a papà?».

«Lo vuoi sapere davvero?».

«Sì. Assolutamente sì».

Davanti a noi c’è la spiaggia di Cala Rossano deserta e in


ombra. Tre barchette dondolano ancorate su questo specchio
di mare riparato. Ci mettiamo seduti sul muretto. E Ciccio inizia
a vuotare il sacco.

«Qualcuno ha suggerito a Maria di cercare un certo Igor».

«Sì, lo so. L’ha scritto anche sul diario. Dice che stava
cercando un uomo che aveva a che fare con la Resistenza e
che a Ventotene poteva trovare qualche indizio in più.

226
Immagino che mia madre sia venuta qui e abbia trovato le
risposte che cercava. Vero?».

Ciccio annuisce.

«Perché non le ha scritte sul diario? Te ne ha parlato?».

«Le ha scritte sul diario. Ma qualcuno ha strappato quelle


pagine».

«Ma che stai dicendo? Che interesse aveva Daniele a


cancellare delle prove che oggi mi chiede di cercare?».

«Non le ha strappate Daniele. È successo prima che tua madre


portasse a casa sua i diari. Li ha lasciati lì per questo».

«Qualcuno di famiglia», dico io senza pensarci un attimo.

«O forse qualcuno che poteva entrare in casa vostra».

«Chi Ciccio? Ti prego non tenermi sulle spine. Devo sapere».

Tira fuori dalla tasca della giacca un sacchetto di tabacco, le

227
cartine e i filtri. Si prepara in silenzio una sigaretta. La
accende, si riempie la bocca di fumo poi lo ingoia
assaporandolo. Solo a questo punto riprende a parlare.

«Tua madre sospettava che tuo padre fosse entrato nelle Br. A
un certo punto i sospetti sembravano trovare riscontri sempre
più attendibili. Finché un giorno Maria mi venne a dire che era
sicura che anche suo marito, Luca, era coinvolto in questa
storia».

«Quindi è stato papà a far sparire quella pagina», chiedo io


senza dare nessuna importanza alla notizia che mi ha appena
dato: mio padre era un terrorista. Ciccio non sembra farci caso
e risponde: «Non lo so, ma Maria era sicura che a strappare le
pagine del suo diario fosse stata Rita, me l’ha detto il giorno
prima dell’incidente. Qualche sera prima, l’amica di tuo padre
bussò a casa vostra dicendosi preoccupata per Luca. Voleva
sapere se lei ne aveva notizie, visto che era scomparso da
oltre una settimana. Ebbe uno svenimento e tua madre la
convinse a fermarsi da voi per la notte. Secondo tua madre in
quell’occasione Rita ebbe modo di mettere il naso nelle sue
cose. O forse l’intenzione era questa, ma tuo padre aveva fatte
sparire quelle pagine del diario prima con l’intenzione di

228
togliere tua madre dai guai».

«Non ho capito cosa c’entra Rita in tutta questa storia. Ma non


stavate cercando Igor?».

«Noi stavamo cercando il memoriale e tua madre l’aveva


trovato. Almeno una parte».

«Scusa Ciccio, ma non riesco proprio a starti dietro».

«Tua madre si era convinta che anche Rita fosse coinvolta


nell’organizzazione e che lei sapesse dove erano i documenti di
Moro. Dopo la morte di Maria ho continuato a cercare
informazioni sulla attuale moglie di Luca. Nulla. Nessuno ha
mai fatto il suo nome. Così come quello di tuo padre. Deve
esserci un perché. Per ora tutto questo io lo posso solo
ipotizzare, perché non ho uno straccio di prova. Ma ti assicuro
che è così. Ne ho parlato con Daniele e lui nella mia
ricostruzione dei fatti ha trovato conferma di tanti suoi dubbi.
Anche tu dovevi venirne a conoscenza. E così si è inventato il
regalo dei diari».

«Ha ragione zia Moira, è un subdolo. Non è stato capace di

229
dirmi i suoi sospetti su mio padre guardandomi negli occhi»,
dico riferendomi a Daniele. Poi torno lucida su quello che mi
sta rivelando Ciccio.

«E la morte di mia madre c’entra qualcosa con tutto questo?»,


chiedo non sapendo in quale risposta sperare.

«Se vuoi sapere se c’entra tuo padre, ti dico di no. Se vuoi


sapere se c’entra Rita, non posso dimostrarlo, ma la sua figura
è inquietante. E poi lo sai meglio di me. Frequentava la galleria
di Luca, mi sembra che facesse la critica d’arte, organizzasse
mostre, cercasse nuovi artisti. Ma della sua vita precedente
nessuno sapeva niente. Non credo di aver mai sentito parlare
di una famiglia, poi all’improvviso, da un giorno all’altro ereditò
una bella villa nei dintorni di Firenze».

«Riguardo alla morte di tua madre», continua Ciccio lanciando


con rabbia un sasso verso il mare, «ho iniziato a insospettirmi
che si trattasse di un incidente provocato appena mi sono reso
conto che la dinamica era identica a quella di un incidente
capitato a cinque ragazzi anarchici di Reggio Calabria». Si
ferma e mi guarda negli occhi prima di ricominciare a
raccontare: «La notte tra il 26 e il 27 settembre 1970, alle

230
23,30 circa, al chilometro 58 dell’A2 tra Ferentino e Anagni, la
Mini Morris gialla guidata da Gianni Aricò si tamponò
violentemente un autocarro. Morirono sul colpo Angelo Casile,
Franco Scordo e Luigi Lo Celso. Aricò venne trasportato
all’ospedale civile di Frosinone insieme alla moglie Annelise
Borth, in stato interessante. Aricò morì appena arrivato in
ospedale, la sua compagna resisterà per 21 giorni in coma
cerebrale. I cinque ragazzi andavano a Roma a consegnare un
rapporto che la federazione anarchica gli aveva chiesto di fare
sui fascisti reggini. Avevano scattato foto per mesi durante la
rivolta di Reggio Calabria per testimoniare la presenza di
fascisti greci. In tasca di Angelo Casile c'era ancora il biglietto
con il numero di telefono dell'avvocato Eduardo Di Giovanni di
Soccorso Rosso. Di quello che trasportavano non è mai stata
trovata traccia. Nei rapporti su ciò che la polizia avrebbe
trovato sui resti della Mini Minor si parla invece di due radio
ricetrasmittenti che nessuno è mai più riuscito a rintracciare. Il
6 settembre, tre settimane prima dell’incidente, Aricò aveva
telefonato a Roma per comunicare agli anarchici della
federazione che la controinchiesta stava procedendo bene, e
che una parte del materiale era stata spedita al compagno
Veraldo Rossi, ma lui non ricevette mai il plico. Quei ragazzi
erano a Roma il 12 dicembre 1969. E furono arrestati insieme

231
a tutti gli altri anarchici del circolo di Valpreda con l’accusa di
aver messo le bombe all'altare della patria. Rimasero in
prigione una settimana e quando tornarono a casa erano
cambiati. Dopo il 12 dicembre avevano visto con i loro occhi
che contro di loro non c'erano solo i fascisti reggini, ma anche
la polizia e i giudici. Hanno paura quando esplodono i moti di
Reggio e scoppiano le bombe sui treni. Il 26 agosto, un mese
esatto prima di morire, Angelo Casile si presenta dal giudice
Cudillo e chiede sia messo a verbale: che fascisti di Ordine
Nuovo nell'autunno 1968 tentarono di costituire a Reggio
Calabria un circolo XX marzo».

Ciccio si ferma, ha capito che io non lo sto seguendo. Il mio


unico pensiero, ora, è mio padre.

«Papà sapeva di Rita?», insisto.

«Sapeva che era una compagna delle Br che metteva a


disposizione la sua villa a Firenze, quella che aveva ereditato,
per le riunioni della direzione strategica durante il sequestro.
Era una che tirava fuori i soldi quando ne avevano bisogno,
una che ha sempre spinto per far fuori il prigioniero. Dopo
l’omicidio sparì dalla circolazione. Da quello che ne so io tuo

232
padre si era già tirato fuori dall’organizzazione, era disperato
per la morte di tua madre».

Lo interrompo. Mi basta quanto ho sentito per giudicarla


colpevole. «In che modo è responsabile dell’incidente?».

«Tuo padre forse le aveva parlato dell’ossessione di Maria per


il memoriale. E lei, a sua volta, lo avrà raccontato a qualcuno.
Questo qualcuno, posso ipotizzare, che si adoperò perché il
segreto rimanesse tale».

«Ammazzandola…».

«Non ho lo prove, Sole. Le ho cercate per trent’anni ».

«Ciccio ti prego, andiamo a casa. Mi sento male».

Davanti al cancello mi rendo conto che non abbiamo comprato


alcun dolce. Ma anche questa volta Ciccio mi salva. Dicendo
una mezza verità.

«Ci siamo fermati a Cala Rossano perché Sole non si sentiva


troppo bene». Ovviamente mio padre si preoccupa per me e

233
evita di fare domande su come abbiamo speso tutto quel
tempo.

«Principessa vieni a sdraiarti sul letto», mi dice. Obbedisco.

Lui torna in cucina dove lo sta aspettando Ciccio. Chissà se gli


dirà che lui sa. Chissà se gli parlerà di Rita. Da parte mia io
non so se credere o meno a quello che mi ha detto Ciccio. Non
riesco neanche a capire se sono arrabbiata, disgustata, nei
confronti di mio padre. È possibile che la stronza sia riuscita a
far finta di niente tutto questo tempo? È possibile che papà
non abbia mai sospettato nulla. Ma soprattutto che c’entra
Igor con tutta questa storia? Mentre guardo fuori dalla finestra
e cerco di rielaborare tutte le informazioni che ho accumulato
in questi pochi giorni, ho come una folgorazione.

In quel preciso momento entra Ciccio per avvertirmi che la


cena è pronta. Lo blocco: «Rita conosceva Igor?».

«Chiedilo a tuo padre, è l’unico che può risponderti».

Mi alzo e mi trascino in cucina. Mi gira la testa, ma faccio finta


di niente. «Allora, Ciccio. Mi stavi parlando dei memoriali di

234
Moro dai quali mamma sperava di trovare informazioni su
piazza Fontana, la strategia della tensione», dico io versando
del vino nei loro bicchieri.

«Noi non li chiamavamo memoriali, bensì interrogatori. Perché


questo furono in realtà. Sono trascrizioni che le Br fecero dopo
aver sentito e registrato il presidente. Nel documento le
Brigate Rosse fanno comunque parlare Moro in prima persona,
come narratore. Tua madre voleva intercettare queste carte.
Un brigatista, pare una donna che chiamavano Nadia, redasse
un dattiloscritto, che le Brigate Rosse dichiararono ricavato
dall’interrogatorio registrato sui nastri magnetici e dagli
appunti scritti da Moro. Dopo i documenti originali e i nastri
magnetici furono bruciati. Una versione del testo fu trovata il
1° ottobre del 1978 in un appartamento-covo delle Br di via
Montenevoso a Milano. Molti anni dopo, durante alcuni lavori
di restauro nello stesso appartamento, fu rinvenuta un’altra
versione del testo più completa, insieme a del denaro, 40
milioni di lire ormai fuori corso. Purtroppo la distruzione dei
documenti originali, non permette di valutare le versioni
successive, nella loro aderenza o meno alle risposte date da
Aldo Moro nel corso del suo interrogatorio».

235
Papà segue attentamente quello che sta dicendo Ciccio. A
tratti annuisce. «In totale ci sono quattro versioni del
memoriale», prosegue Ciccio. «La terza e la quarta hanno
consistenti differenze, che si spiegano nel rapporto copia-
originale: infatti la terza stesura è un dattiloscritto che in
talune parti riassume, in altre parti riporta integralmente
oppure omette del tutto la prima della quale, o di parte della
quale, la quarta è una fotocopia, lo dimostra il fatto che la
perizia calligrafica compiuta su quanto trovato nel 1990 attesta
l’autenticità della grafia di Aldo Moro. Non si conosce la causa
dell’esistenza della terza stesura e se fu redatta dalle Brigate
Rosse oppure dall'ufficio del Ministero dell'interno a cui
nell’ottobre 1978 furono consegnati dal generale Dalla Chiesa i
materiali trovati a via Montenevoso,. Materiali che non si
saprà mai se fossero la seconda stesura o addirittura
l’originale. Sicuramente ci fu una seconda stesura destinata
alle Colonne Brigatiste, la terza stesura invece nelle sue
molteplici omissioni, e nel linguaggio questurile con cui fu
redatta, pare corrispondere assai di più all’intento di non
rendere noti i pesanti apprezzamenti che Moro fece nella
prigionia su alcuni suoi compagni di partito e di governo».

«Vabbè, ma in tutte queste stesure c’è quello che mamma

236
cercava?».

«Solo in parte», risponde Ciccio. «Chi non voleva che uscissero


determinati nomi e cognomi c’è riuscito. E pare che fossero in
molti a temere le confessioni di Moro durante il sequestro».

«Igor aveva materialmente in mano quei documenti? Mamma


lo cercava per questo?», chiedo io.

«Presumibilmente no. Ma sapeva dove erano conservati. A


casa di Nadia», risponde Ciccio.

«Nadia è la terrorista che ha trascritto i documenti della prima


stesura. È stata mai identificata?», insisto.

«No», risponde secco Ciccio.

«La smettiamo di parlare di queste cose?», s’intromette papà.

«Parlate di quello che volete, io me ne vado a letto. Papi


quando avete finito mi vieni a dare il bacio della buona
notte?», dico alzandomi nervosamente da tavola.

237
«Certo principessa».

Passa mezz’ora e papà bussa alla mia porta. È arrivato il


momento della verità, mi dico. Poi penso che forse è meglio
lasciare le cose come stanno. Ma le parole sono più veloci
della prudenza. Lo gelo sulla porta.

«Qual era nome di battaglia di Rita?», chiedo senza preamboli,


guardandolo negli occhi.

«Nadia», risponde.

«Vattene via», gli urlo, «non ti voglio più vedere». Lui apre la
porta e sparisce inghiottito da questa casa che ora mi soffoca.

Papà, come hai potuto farci questo. Come potrò mai


perdonarti. Aiutami mamma, aiutami per favore. Insegnami a
ritrovare un barlume d’amore in questa notte di odio. Sì perché
io ora odio tutti. Daniele che mi ha portato i tuoi diari e mi ha
costretta verso una verità che non sono sicura di aver mai
voluto conoscere. Odio Ciccio che con immensa presunzione è
piombato nella mia casa è ha gettato in faccia a me e a papà
una serie di accuse gravissime. Odio papà perché non ha

238
avuto fiducia in me tenendomi fuori dalla sua vita. Odio Rita
che l’ha portato lontano da noi. E ce l’ho anche con te,
mamma. Non dovevi morire così giovane. Non dovevi lasciarmi
sola.

239
VENTUNO

Se ne sono andati tutti e due. Papà e Ciccio hanno preso


l’aliscafo del mattino. Non mi hanno nemmeno svegliata. Sul
comodino qualcuno ha lasciato una busta con su scritto:
«Fanne quello che ritieni giusto». Mi sembra la calligrafia di
papà. Dentro ci sono alcuni fogli scritti a mano. C’è n’è uno più
grande, bianco, scritto con la penna blu, gli altri sembrano
essere stati strappati da un quaderno. Un quaderno che
potrebbe essere benissimo il diario di mia madre. L’ultimo no.
È una lettera a mio padre.

Sono andata a via Margutta a cercare Luca. C’era


un’inaugurazione e pensavo che lui fosse lì. Invece no. Però
ho incontrato Antonio. Appena l’ho visto mi sono ricordata di
una volta che si vantò con Luca di conoscere molti brigadisti.
Lo so è uno sbruffone, ma in questo momento va bene tutto.
Poi è arrivata anche Rita. Li ho visti parlare fitto fitto. Ho
aspettato che lei se ne fosse andata e con la scusa di un
quadro sono riuscita a farmi invitare a cena. Domani.

Quello che si sono detti mamma e tale Antonio lo ha scritto lei


stessa di seguito.

240
Meglio di così non poteva andare. Dopo cena mi ha portato a
casa sua, all’Eur. Ho iniziato a parlare di politica, del sequestro
del presidente Moro, delle Brigate Rosse e lui ha abboccato.
Ha detto di essere stato lui a scrivere il comunicato numero 7,
quello del lago della Duchessa. Mi ha persino raccontato di
aver fatto il simbolo utilizzando una moneta da cento lire… O
meglio, lui ha copiato il comunicato. Quello che doveva essere
scritto glielo ho fatto avere Rita. Mi è preso un colpo. Ma che
cosa c’entra Rita in questa storia? Ho evitato però di fare
domande sulla stronza per paura che cambiasse discorso. Gli
ho chiesto se sapeva chi l’aveva scritto. Mi ha detto che
c’entrava un americano che alloggiava all’Excelsior. Poi senza
che io gli chiedessi nulla, ha detto che i terroristi erano caduti
nella sua trappola. Non si aspettavano di trovarsi di fronte ad
un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava
psicologicamente. Erano stati ingannati e ormai non potevano
far altro che uccidere Moro.

Ho fatto notare ad Antonio che una via d’uscita per loro e per
il presidente c’era, visto che ancora vivo. Secondo Antonio,
invece, è solo questione di ore, perché il presidente ha detto
cose che non doveva dire. Io mi sono messa a fare la parte
dell’avvocato del diavolo e ho rilanciato: quello che doveva

241
rivelare l’ha rivelato; vivo o morto Moro, i suoi segreti
comunque sarebbero venuti fuori. Antonio è scoppiato a
ridere. Questo lo dici tu, ha sentenziato come se lui la sapesse
lunga. Faranno in modo che si sappia solo quello che vogliono
loro e ovviamente, ha aggiunto, non mi riferisco ai
sequestratori. Lasciandogli credere che io sapessi di Rita, ho
azzardato: «Certo! Rita farà in modo di tagliare nei punti
giusti…». Lui ha annuito.

Poi ho lanciato un altro amo. Gli ho chiesto se è molto amico


di Rita? Lui ha risposto di sì, spiegandomi che lei gli ha fatto
vendere un sacco di quadri, mica come Luca, ha detto… E io,
ovviamente, giù con una valanga di complimenti per quella
bravissima critica d’arte che ha deciso di entrare nella lotta
armata per il bene di tutti. Lei sì che se ne intende di quadri, è
una persona di gran cultura. E lo dimostra il fatto che proprio
a lei siano stati messi in mano quegli interrogatori così
preziosi. Antonio continuava a far sì con la testa e gonfio
d’orgoglio per essere proprio lui il prediletto di quella
mecenate con il mitra in mano, abbassando la voce mi ha
rivelato che lei gli ha raccontato di cosa stava dicendo il
presidente. Ci è mancato poco che svenissi quando ha
pronunciato le parole “strategia della tensione” e “piazza

242
Fontana”. Ma ho fatto finta di niente per a fargli credere che
non ci credevo. E più facevo la scettica e più lui entrava nel
dettaglio.

Per quanto riguarda i mandanti Moro ha detto che si collocano


fuori dell’Italia, e che esistono connivenze di organi dello
Stato e della Democrazia Cristiana. L’obiettivo è di rimettere
l’Italia nei binari della normalità dopo le vicende del ‘68 ed il
cosiddetto autunno caldo. Sulla strage di piazza Fontana il
presidente sostiene che fu opera materiale dei fascisti
assoldati dal Sid e dalla Polizia. Moro avrebbe tirato in ballo
Fanfani e Andreotti. Racconta che uscendo dalla Camera
tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico Salvi, gli
comunicò che in ambienti giudiziari di Brescia si parlava di
connivenze ed indulgenze deprecabili della Dc e accennava
all’onorevole Fanfani come promotore, sia pure da lontano,
della strategia della tensione. Di Andreotti dice che è colui
che più a lungo, di chiunque altro, diresse i servizi segreti, sia
dalla Difesa, sia, poi, dalla Presidenza del Consiglio con i
liberali. Si muoveva molto agevolmente nei rapporti con i
colleghi della Cia, tanto che poté essere informato di rapporti
confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani.

243
Tutto questo coincide con quanto mi ha raccontato un
compagno di Milano che sta scrivendo con il padre un libro 18.
E cioè che fu un’intesa politica siglata il 23 dicembre 1969 tra
il ministro degli Esteri, Aldo Moro, e il Presidente della
Repubblica, Giuseppe Saragat, a impedire che si arrivasse in
breve tempo ai responsabili della strage di piazza Fontana.
Dietro quell’intesa la necessità di tutelare quello che
Gianfranco chiama il segreto della repubblica, cioè il tentativo
di golpe istituzionale, messo in atto con il sostegno degli
americani e duramente osteggiato dall’intelligence inglese i. In
pratica Saragat avrebbe rinunciato alla svolta autoritaria,
compresa l'ipotesi di scioglimento delle Camere e di ritorno al
centrismo. In cambio, le componenti democristiane legate a
Moro e a Andreotti, si adattarono a segretare le voci e le prove
sempre più nette (avanzate dall'Arma, dal nucleo di polizia
giudiziaria dei carabinieri di Roma e da un memoriale dello
stesso Sid) sulla matrice fascista della strage, accettando
invece di mollare le briglie all'Ufficio Affari Riservati del
Ministero dell'Interno affinché, in sintonia con i copioni messi
in scena tra Milano e Roma, continuasse la rappresentazione
della colpevolezza degli anarchici, tra i quali, oltre al gruppo

18
Walter Rubini, Il segreto della Repubblica, ed. Flan 1978. Riedito da
Selene con i veri nomi degli autori: Fulvio e Gianfranco Bellini, a cura
di Paolo Cucchiarelli.

244
arrestato attorno a Valpreda, si era anche registrata la morte
traumatica del ferroviere Pinelli, trattenuto illegalmente presso
la questura di Milano.

Dovevo andare avanti e alla fine mi sono fatta coraggio


chiedendogli se sapeva dove Rita teneva tutto questo
materiale. Antonio ha tirato su le spalle per farmi capire che
non lo sapeva. Ma poi ci ha ripensato e ha tirato fuori due
posti dove presumibilmente nessuno lo avrebbe cercato: la
villa vicino Firenze o Ventotene.

Mi è preso un colpo? Ventotene? Che c’entra Rita con la mia


isola? Poteva bastare. Con la scusa di non poter far tardi per
colpa di Sole, me ne sono andata.

Adesso devo riorganizzare le idee.

Innanzitutto devo assolutamente andare a Ventotene. Sono


già due volte che qualcuno mi dice di andare a cercare lì.
Devo sapere se Luca e Rita sono stati visti recentemente
sull’isola e soprattutto devo vedere se a casa c’è ancora
traccia di questi documenti. Domani mattina, comunque, vado
all’Excelsior per sapere il nome dell’americano che frequenta

245
Rita.

22 aprile 1978, ore 2 del mattino

Mamma nella pagina successiva annota:

L’americano si chiama Steve Pieczenik e lavora per K.

E subito dopo.

A Ventotene Rita è stata a casa mia. Me lo ha detto Verde.


L’ha vista e le ha chiesto cosa ci faceva lì. Lei ha risposto che
era ospite di Luca. Si è fermata alcuni giorni insieme ad un
uomo di una certa età. Verde non si ricorda cognome, ma ha
detto che gli ricordava un nome russo. Con la sua proverbiale
capacità di attaccare bottone con gli sconosciuti, è venuto
sapere da lui stesso che era un compositore, direttore
d’orchestra e pianista e che durante la resistenza salvò la vita
a Carlo Levi, correndo da Firenze a Fiesole in bicicletta per
avvertirlo dell’arrivo di un rastrellamento dei tedeschi.
Quest’uomo, pare sia stato intimo amico di Majakowski, venne
ricevuto da Stalin in persona e fu nominato direttore del teatro
stabile de L’Avana da Fidel Castro in persona. Rita non faceva

246
che tesserne le sue lodi e le sue frequentazioni con Cocteau,
Stravinskij, Picasso, Cole Porter.

Tornata a Roma ho scoperto che l’amico della stronza è Igor


Markevitch. Questo tizio, pare che compaia in una nota del
Sismi e i servizi segreti lo stanno cercando perché sanno che
può essere utile per trovare i sequestratori del presidente.
Devo avvertire Luca, devo salvarlo.

Mamma c’era riuscita. Aveva trovato il memoriale e aveva


capito cosa c’era dietro. Di seguito trovo tutta la sua angoscia
per non essere riuscita a far capire a mio padre il pericolo che
stava correndo.

Ha detto che sono pazza. Che non ho uno straccio di prove,


che mi sto mettendo dentro a una cosa più grande di me, che
devo lasciar perdere tutto. Mi ha chiesto se avevo detto
queste cose a qualcuno e ha continuato a sostenere
l’innocenza di Rita. Era una furia. E quando ho fatto il nome di
Markevitch ha spergiurato di non conoscerlo, di non sapere
assolutamente chi fosse e di non volerlo sapere. Alla fine sono
riuscita a farmi promettere che avrebbe preteso dalla sua
amica delle spiegazioni. Poi se ne è andato, sbattendo la

247
porta. Prima però mi ha dato un bacio e mi ha detto di stare
attenta. Mi ha consigliato di starmene zitta e di andare da
Sole.

Mamma c’era riuscita. Aveva trovato il memoriale e aveva


capito cosa c’era dietro. Ma perché questi fogli del suo diario
ce li ha papà? Se li avessi strappati Rita li avrebbe consegnati
ai suoi amici oppure li avrebbe distrutti immediatamente.
Perché conservare una prova così compromettente? Forse ha
ragione Ciccio. Lì ha presi papà nel tentativo di salvare
mamma. E se li è tenuti, forse, come se fosse
un’assicurazione sulla vita.

Non so darmi una risposta, così mi metto a leggere la lettera


indirizzata a papà, datata 15 dicembre 1978 che ho trovato
questa mattina sul comodino. È della stronza.

Caro Luca, so che sei disperato e che la piccola Sole mi


detesta. Non potrò mai sostituire Maria nella vostra vita, né
tanto meno nei vostri cuori. Quello che ti offro ora è la
possibilità di continuare a vivere, di dimenticare quello che è
stato, di ricominciare.

248
So che ho sbagliato. Sono consapevole del fatto che ti ho
coinvolto in questa follia. Ma sono innamorata di te, lo sono
sempre stata, dal momento stesso che ti ho conosciuto.
Volevo che fossi il mio uomo, volevo essere amata da te. E
quando hai deciso di entrare nella lotta armata ho creduto che
fosse anche per me. Invece no. Ma l’ho capito troppo tardi. Tu
pensavi veramente che avremmo potuto cambiare il mondo.
Lo volevi più di ogni altra cosa anche a costo di rinunciare ad
avere vicino tua moglie e tua figlia. Per questo hai accettato
senza indugi di insegnare ai compagni a sparare, di pedinare il
presidente e di partecipare all’agguato di via Fani. Io guidavo
la moto, ma ero terrorizzata. Se non ci fossi stato tu dietro io
non ce l’avrei mai fatta. Mi sarei fatta beccare, avrei mandato
a puttane tutto il piano. Tu invece eri lucido, determinato,
convinto che quell’azione avrebbe aperto la via della
rivoluzione.

Poi ti sei reso conto che eravamo finiti in una trappola. Ricordo
di una riunione a Roma: hai avuto il coraggio di ribellarti
schierandosi dalla parte del prigioniero. Avevi coraggio, Luca.
Io no. A qualsiasi obiezione trovavi sempre il modo per
mandare in crisi gli altri compagni e portarli dalla tua parte.
Alla fine avevi convinto pure me: il presidente vivo e libero

249
avrebbe aiutato la nostra causa più che da morto. Ma non
potevo fare nulla. Nessun passo indietro era previsto nel mio
ingaggio. Dovevo portare a termine la mia parte
nell’operazione. Il presidente doveva morire e quanto aveva
rivelato dove essere accuratamente censurato. Così è stato.
Sono stata brava, mi ha detto Markevitch. E come premio sarò
tenuta fuori da tutta questa storia. Insieme a te,
naturalmente. Ho giurato che non avrei rivelato mai a nessuno
quanto avevo visto e sapevo di quei cinquantacinque giorni,
né avrei fatto parola di cosa successe a Fani, finché sarebbe
stata tenuta nascosta la mia e la tua identità.

Spero che accetterai di venire qui a Firenze insieme a Sole.


Voglio aiutare la tua bambina ad avere un’infanzia felice. Lo
sai, mi sento in colpa. Sono stata io tirarti dentro a questo
pasticcio. E farò in modo di tirarti fuori. Lo giuro.

Rita

Vorrei ucciderla. Sì. Vorrei vederla morta. Sono sentimenti che


non credevo di poter provare, ma in questo momento non
riesco a giustificarla, né a perdonarla. Se io non ho più mia
madre accanto è colpa sua. Se io sono dovuta crescere senza

250
di lei è colpa sua. Se la nostra vita è stata spezzata, la colpa è
la sua. Di nessun altro. Quanto a mio padre, non riesco
proprio a capire sia riuscito ad accettare un ricatto del genere.
Come ha potuto consegnare la sua vita nelle mani di una
donna senza scrupoli, che non ha esitato un attimo a togliere
di mezzo la sua rivale. Mia madre.

Non so se la denuncerò. In questo momento ho solo voglia di


abbracciare mio padre che, ora ne sono sicura, ha fatto
sparire quelle pagine dal diario di mamma, in un ultimo,
estremo tentativo di tenerla lontana dai guai. In questo
momento voglio solo stargli vicino.

Lo chiamo sul cellulare. Squilla, per fortuna.

«Prendo il traghetto delle tre. Aspettami a Formia. Torniamo


insieme a Roma. Poi decideremo cosa fare».

251
i

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