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Diario di un'Anarchica
1969-1978
Avvertenze
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dovrei fare per la "stato" per la “giustizia”. Quello Stato e
quella giustizia che ancora non ha dato un nome all’assassino
di Pino Pinelli. Né a quello di Giorgiana Masi, né di Piero
Bruno, né a quello di tanti altri. Quello Stato e quella giustizia
ai quali mia madre, anarchica, non credeva più.
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tutto, e il disprezzo per lo Stato che non è stato capace di
trovarsi da solo i colpevoli.
Mio padre mi sta aspettando a Formia. E io, con la sensazione
di vivere solo un sogno, riapro i diari di mia madre alla ricerca
di una soluzione. Se lei fosse stata al mio posto avrebbe
saputo certamente cosa fare. Io no.
UNO
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ha detto nulla, ma io so quello che ha pensato. E lo ho
anticipato per togliermi dall’imbarazzo: «Non le somiglio per
niente». «Molto più somigliante a tua madre di quanto tu
credi, Sole, fidati», mi ha contraddetto sussurrando, come si
trattasse di un segreto: «Affascinante allo stesso modo». Poi
ha tirato fuori dalla borsa che portava a tracolla un pacchetto.
Me lo ha dato chiedendomi di aprirlo non appena se ne fosse
andato. Ho promesso, nonostante la curiosità mi stesse
divorando.
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«Hai ragione, Sole. Ma ho veramente bisogno di vederti. Sono
a Formia e se tu vuoi mi imbarco sull’aliscafo delle 17,30 per
venire da te».
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l'uomo famoso devo mettere a posto anche me stessa. Mi
guardo nello specchio chiedendomi cosa penserà “l’amico di
Maria” vedendomi. La risposta è una sola: una trentenne con
un pancione troppo grande e i vestiti troppo stretti. Ma come
fanno a dire che le donne incinte sono belle, penso mentre
cerco nell’armadio qualcosa di più decente da mettermi. Non
riesco a trovare niente di meglio che un paio di pantaloni
militari. Ovviamente non si allacciano, ma è sempre meglio di
quelle vecchie tute di mio marito che attualmente
costituiscono il mio guardaroba. Purtroppo anche le magliette
si sono ristrette. O meglio sono le mie tette che sono
cresciute. Del resto sono al settimo mese di gravidanza, ma mi
sento bene. Anzi benissimo e in men che non si dica ho lavato
i piatti accumulati nel lavandino, ho passato lo straccio, ho
dato una pulita al bagno e poi sono scesa al porto ad
accoglierlo sulla nostra isola.
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DUE
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arrivato.
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lavoratori si è messo alla guida»?
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con l’intervento dei servizi segreti, non emersero elementi
concreti che indicassero nel maestro l’appartenenza alle
Brigate rosse. Sul finire degli anni Novanta, trapelarono strane
notizie sulla possibile presenza alle riunioni del comitato
esecutivo delle Brigate rosse di un personaggio di primissimo
piano. Fu il dissociato Valerio Morucci che parlò di un
“anfitrione”, di un personaggio misterioso che a suo dire
avrebbe messo a disposizione delle Br, per le riunioni, una villa
vicino a Firenze. Da successivi elementi emerse l’ipotesi che
l’uomo potesse essere proprio Markevicth, che tra le altre cose
aveva un passato nella resistenza nelle formazioni dei Gap».
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scoperta di un intreccio di poteri forti, intelligenze segrete,
massonerie internazionali che sarebbero ad un certo punto
subentrate nella gestione del sequestro Moro. Mi ascolti?».
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meglio identificato “ordine superiore”, forse impartito dal capo
del Sismi e ai due agenti, non restò che constatare che la
missione era fallita proprio lì, in via Caetani, quando si stava
per aprire la “porta segreta”».
In silenzio mi sono alzata e sono andata via con gli occhi pieni
di lacrime. Se avessi potuto lo avrei fatto scomparire, ma
Daniele mi è venuto dietro cambiando completamente
discorso.
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c’era sempre qualcosa che la faceva desistere, cogliendo
comunque ogni occasione per tornarci, soprattutto d’inverno
quando c’erano al massimo duecento persone.
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«Mia madre ti faceva stare male? Zia dice che eri tu a farla
stare male», lo ho interrotto incuriosita, ma anche orgogliosa
di avergli estorto questa confessione che ribalta
completamente la tesi di Moira per cui tu eri vittima del fascino
di quell’uomo.
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una replica a quanto mi aveva appena rivelato. Ma io non
sapevo cosa dire, perché non riuscivo a capire che effetto
avesse avuto su di me questa dichiarazione d’amore per mia
madre aggiunta ai dubbi che mi aveva insinuato a Punta Eolo.
Per fortuna si è avvicinata al nostro tavolo una signora per
chiedergli l’autografo. Rimessi i panni dell’attore famoso,
abbiamo iniziato a chiacchierare di cinema, dei suoi colleghi,
dei registi e dei film in circolazione.
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un certo senso mi fa persino tenerezza. Mi ha confidato di
essere stato spesso tentato di rintracciarmi, di vedermi, di
parlarmi, ma la timidezza ha avuto sempre il sopravvento. Poi
un giorno ha incontrato Francesco De Blase, un amico
giornalista di mia madre, che gli ha detto che ero incinta, che
stavo a Ventotene. Si è fatto dare il numero del cellulare, ma sì
è deciso a chiamarmi solo dopo diverse settimane.
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fatta così. Però era anche molto dolce, sapeva ascoltare,
sapeva dare consigli. E poi era generosa, forse troppo. Anche
su questo litigavamo spesso. Mi comprava cose per la mia
casa, libri, dischi, quadri. Io mi sentivo in imbarazzo e glielo
dicevo. Ma era come parlare al vento. Anzi si offendeva
rispondendo che lei faceva quello che voleva».
Già, mia madre hai sempre fatto quello che voleva. Non le
importava nulla dei giudizi della gente, né di quello che
pensavano i suoi amici. Ad esempio, mi ha raccontato Daniele,
di quando ha chiesto a Ciccio, cioè a Francesco, di collaborare
con lei. «Era un ragazzo che voleva fare il giornalista e tua
madre gli insegnò il mestiere. Non gliene importava nulla che i
suoi compagni la mettessero in guardia perché frequentava la
facoltà di Giurisprudenza. Perché bastava questo, a quel
tempo, per farsi etichettare come “fascista”. A Maria non
interessava con chi era stato visto ripassare una lezione o
scambiarsi gli appunti. Gli interessava come si comportava. E
lui, a quanto diceva lei, si comportava bene. Ma questo per i
compagni, i suoi amici, era semplicemente assurdo,
inconcepibile. Ciccio ora è un apprezzato giornalista e questo
lo deve esclusivamente a tua madre. In generale Maria è stata
molto liberale nei rapporti interpersonali. Ha sempre avuto una
tendenza a mettersi nei panni dell’altro, ad assumere il punto
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di vista del suo interlocutore. E questo in politica era
considerato un difetto, ma a lei non importava. Detestava
l’arroganza di chi si sentiva dalla parte del giusto».
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scoppiò a ridere e mi assunse come suo insegnante
personale».
Daniele, da parte sua, ricorda per filo e per segno il loro primo
appuntamento al Beat 72. «Si chiamava così», mi ha spiegato
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subito dopo essersi complimentato per l’ennesima volta della
riuscita del mio piatto, «perché “beat” era una parola magica
che coniugava cultura e stili di vita, e 72 perché si trovava al
numero 72 di via Gioacchino Belli». Aveva un ingresso molto
piccolo, ha detto, con una stretta scala che andava giù
ripidissima. Si scendeva e c’era una specie di piccolo antro che
serviva da biglietteria, un corridoio usato come foyer e poi tre
stanze in successione, ad arcate. Un’altra sala, attigua
all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini.
L’unica entrata, e quindi anche l’unica uscita, era la porticina in
alto. «Era novembre 1972, la sera del debutto di uno
spettacolo che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli
italiani più visti anche all’estero: Le 120 Giornate di Sodoma di
Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima era molto irriverente,
dava pacche sul sedere agli attori scatenandosi in commenti
salaci, tanto erano tutti amici. Vasilicò scompose il testo di De
Sade sintetizzandolo in ventuno scene immerse in un buio
totale solcato da fasci luminosi. Maria», ricorda Daniele come
se fosse successo la sera prima, «rimase colpita
dall’interazione tra i frammenti testuali, gli interventi musicali
martellanti ed il ritmo impresso, tutto scandito sul vorticoso
movimento dato ai carrelli che trasportavano gli attori. Una
sinfonia di fantasmi lussuriosi che si materializzavano dal nero
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e giravano vertiginosamente alla luce, per poi ritornare ad
essere ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione che
indubbiamente colpiva per la centralità trionfale accordata al
corpo dell’attore. Un corpo nudo, ovviamente, perché era uno
dei più importanti elementi alla base del teatro sperimentale».
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ho ammesso di non averlo mai sentito nominare e lui mi ha
spiegato che in quegli anni era molto famoso perché
strutturava il suo lavoro come un gioco: prendeva un testo, lo
smontava, dopodiché poteva utilizzarne anche solo delle
immagini. Mi ha fatto l'esempio di Moby Dick, che sembrava
ambientato nell’antro delle streghe di un parco giostre,
completamente realizzato con scenografie di cartone dipinto.
"Nel finale", ha raccontato, "l’enorme bocca di Moby Dick
ingoiava il capitano Achab, intento per buona parte del tempo
della rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi
mazzi di carte, o a scrutare l’illusorio orizzonte con un
cannocchiale. A Maria piaceva tantissimo perché analizzava,
scomponeva e si irrobustiva con l’immissione di una visione
personalissima del mondo. E anche se a volte le proposte
vacillavano per mancanza di adeguati supporti teorici, c’era
una grande forza scenica e visionaria che l’affascinava. Ricci
divenne il suo autore teatrale preferito».
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gradino di una scala simbolica verso la rivoluzione.
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telefono. Continuavo a sostenere che eravamo diversi, perché
io sono comunista. E lei anarchica. O meglio, io forse sono più
anarchico di lei, sempre che ci siano dei gradi di anarchia, ma
darle ragione quando mi diceva che lo siamo tutti mi dava
fastidio. Per fare pace mi propose di andare al concerto di De
Andrè».
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po’ come la differenza fra i politici e i sindacalisti, i primi
parlano, gli altri si sporcano le mani con gli operai. Eppure così
io volevo vivere. In perenne rivoluzione con me stesso per non
cambiare più. Mi piaceva essere così, ascoltare e non parlare,
sperare ma non aspettare, cantare e non aprire bocca, amare
e non dichiararlo. Pavido e sicuro al tempo stesso. Era la
giusta strada per morire come Anna Karenina, sotto il treno
della fatalità senza aver mai comprato un biglietto per
partire».
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di sbagliare. Eravamo una sola idea e un solo inutile orgoglio
di non voler ammettere che eravamo una sola cosa. Che
stupidi. Ma forse è stato proprio quel volersi sentire diversi,
anche dalla propria anima gemella, che ci ha reso unici,
veramente unici ai propri occhi, orgogliosi di un’artefatta e
presunta diversità».
«Siamo arrivati che tutti erano già lì, il biglietto non serviva
perché nessuno l’ha controllato, tanti erano quelli che avendo
vantato il diritto di poter ascoltare senza pagare, fugavano la
necessità sovrastrutturale di brandire un pezzo di carta per
vantare un diritto che era giustamente di tutti. Di quel
concerto ricordo perfettamente la sua pelle, i suoi occhi e la
sua commozione, intima, forte e sconcertante. Portava con sé
un corpo che non aveva ancora trovato quel piccolo barlume
finale che le avrebbe consentito di esplodere in un urlo. “Di
respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho
deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”, cantava lui dal
palco e lei stringeva il pugno, quasi a lacerarsi le dita contro gli
anelli. “se c’è qualcosa da spartire fra un prigioniero e il suo
piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che
sia prigione”, continuava lui e Maria quasi piangeva di rabbia.
Forse perché sua sorella, tua zia, era stata beccata dalla
polizia qualche giorno prima perché aveva un fucile dentro
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l’auto, e rischiava di finire in galera. La amavo più di quanto le
parole avrebbero potuto descrivere e il mio cinismo era
sommerso dalla bellezza indomabile di quel momento. Ero
preda dell’amore e della voglia fisica di stringere quel corpo e
farlo una cosa sola con il mio. “Quando in anticipo sul tuo
stupore, verranno a chiederti del nostro amore. A quella gente
consumata nel farsi dar retta, un amore così lungo, tu non
darglielo in fretta”. De André continuava a cantare, non si
rendeva conto cosa significava per me quella frase. Ero
dilaniato dal dolore indotto da quel quadro che aveva creato
Faber. Una tela di Fontana con un taglio netto e verticale,
inesorabile e ineluttabile come la morte del mio cuore in quel
momento. Fui costretto a pensare ad altro da un’improvvisa
manifestazione degli operai della Piaggio. Che scandirono, con
un certo disappunto generale, slogan contro i padroni e per la
libertà dagli oppressori. Fabrizio non era in disaccordo e si era
fermato, ma si leggeva nei suoi movimenti e nelle boccate di
sigaretta un po’ più nervose, mentre era seduto sul suo piccolo
sgabello con accanto un bicchiere di wisky, che l’arte e la
poesia non dovevano essere profanate dalla lotta di classe.
Forse perché, come me, pensava che la lotta dei deboli e degli
oppressi già trasudava da ogni verso delle sue canzoni.
Bastava ascoltare. Ma le parole di un altro non sono le proprie
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e il desiderio di espressione aveva tutto il diritto di essere
ascoltato.
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e lei lo prese come un rifiuto. Mi accusò di non volerle bene,
mi disse che non le piacevo. Io non sono riuscito a spiaccicare
una parola mentre avrei dovuto spiegarle che volevo
proteggermi. E proteggerla. Nei giorni seguenti non ci siamo
né sentiti né cercati. E me ne sono andato via, lontano».
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sera il contro-festival di piazza Vico Pisano ha ridato a quella
«maledizione» una dimensione umana. II concerto,
organizzato dal comitato di quartiere e da Stampa Alternativa
ha assunto quasi subito la caratteristica della festa popolare.
II confronto con Villa Borghese insomma non c’è stato.
C’erano gruppi e cantanti che facevano la stessa musica, ma il
pubblico, lo scenario, lo spirito era diverso. Piazza Vico Pisano
è uno stretto corridoio fra due lunghe file di palazzi dormitorio
soffocante, disumano. In questo scenario, che è la fotografia
di una Roma sbagliata, c’era un piccolo palco su cui, davanti a
un pubblico composto da giovani, donne, vecchi, lavoratori, e
tanti bambini si sono susseguiti i «numeri» dello spettacolo. Il
compito di aprire è toccato a Francesco De Gregori e Antonello
Venditti. Il primo venerdì aveva disertato il prato verde di villa
Borghese, ieri ha spiegato che suonare alla Magliana, in un
quartiere popolare, fra la gente che ogni giorno è costretta a
combattere i mille problemi di un vero e proprio ghetto in cui
imperversano la malaria e l’epatite ha ridato alla sua musica
una dimensione non asettica, non neutrale. Il secondo che
nell’intervento che ha preceduto il suo numero ha rivendicato
quella libertà di artista che lo ha spinto a esibirsi anche a Villa
Borghese, è stato applaudito freneticamente quando ha
suonato uno dei suoi successi popolari, «Roma capoccia». Poi
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è toccato all’altro «pezzo forte», Alan Sorrenti, anche lui in
polemica con la manifestazione «ufficiale». Il «clou» è stato
però rappresentato dal «Trium Delirium», venti ragazzi
francesi arrivati a bordo di tre pulmini con donne e bambini.
«In Francia - hanno spiegato - viviamo tutti in una comune,
qualcuno gira suonando, altri coltivano la terra». Da Roma
andranno verso est per fare il giro del mondo. Alla
manifestazione aveva aderito anche Edoardo Bennato. Il
«contro-festival», che ha suscitato un dibattito molto serrato
sulla musica fra gli stessi artisti che si sono esibiti, si è
concluso a tarda notte. Fino alla fine piccoli e grandi hanno
vissuto una serata nuova, diversa, che forse ha rappresentato
una occasione unica per riportare la musica a contatto con i
problemi reali di chi l’ascoltava»1.
1
Carlo Rivolta, Paese Sera, 23 giugno 1974
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Iniziò una storia. Una storia strana, che solo mia madre poteva
voler vivere. Una storia di rinunce e di speranze, di tenerezza e
di rabbia, di attesa e di attimi rubati. «La nostra non era una
relazione fisica», ha ribadito Daniele mentre mi aiutava a
sparecchiare. «Eravamo impegnatissimi, avevamo sempre
tantissime cose da fare. Io a teatro, lei al giornale, con te, con
Moira, le manifestazioni. E quando c’incontravamo parlavamo,
discutevamo, litigavamo per poi starcene anche due o tre ore
sdraiati sul divano in silenzio semplicemente a giocare l’uno
con le mani dell’altro. E poi diceva di essere diventata allergica
a qualsiasi tipo di rapporto sentimentale che potesse
catalogare le persone in base allo stato sociale: coniugata,
single, fidanzata. Io invece ero alla ricerca della donna della
mia vita. Volevo mettere su famiglia, volevo un figlio. E così
stavamo insieme senza legami».
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TRE
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Dentro la scatola c’era un biglietto di Daniele. Mi chiedeva di
leggere per prima cosa la pagina datata 28 aprile 1976. Non è
stato difficile trovarla. Ci aveva messo un bel segnalibro di
legno a forma di calla, il fiore che più le piaceva. Mi sono
accoccata sulla sua poltrona, proprio davanti alla finestra dalla
quale si può godere una splendida vista sul carcere di Santo
Stefano illuminato dal sole di una limpida mattina di
tramontana.
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quasi a volerli imparare a memoria, toccano la tua schiena, i
tuoi glutei. Tu ed io, poi, siamo stati un unico corpo, un’unica
voce. Siamo diventati noi. Scaraventati dal desiderio, dalla
passione, dal piacere, in un’altra dimensione, ci siamo sentiti
finalmente liberi. Non esisteva più niente e nessuno . 28 aprile
1976
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camera mia. È del 1976 e mi piace pensare che sia stata
scattata proprio quel 28 aprile. È una foto che adoro, perché
nella mia testa, mia madre sarà sempre così. Io avevo sei anni
e lei era bellissima. Le bastava un po’ di mascara sulle ciglia
per sentirsi a posto. I capelli arruffati odoravano di lei, come la
sua pelle impregnata di quel profumo che andava a comprare
a corso Rinascimento. Era diversa dalle mamme delle mie
amiche e io ci soffriso: avrei voluto vederla su quei tacchi a
spillo sui quali ancheggiavano le signore alle inaugurazioni in
galleria da papà. Avrei voluto vederle le unghie laccate di
rosso e pure le labbra disegnate da quella matita che mi aveva
regalato per mascherarmi a carnevale. E invece no. Le uniche
cose femminili che indossava le nascondevi, le calze
autoreggenti sotto i pantaloni, i body di pizzo sotto le maglie
nere. Sempre e solo nere.
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Non riesco a descrivere quello che provo con questi quaderni
tra le mani. Continuo ad annusarli e mi sembra che abbiano
ancora il suo profumo. Li sfoglio e oltre ai suoi scritti trovo
articoli di giornale appiccicati e ripiegati su se stessi, e alcune
foto che incollate sulle pagine del quadernetto rosso. Su una
c’è papà, poco più che ventenne, con me piccolissima. Ha i
capelli lunghi, lisci, e i baffi ben curati. La mano lunga e
abbronzata sostiene la mia testolina, mentre il resto del corpo
è appoggiato a cavalcioni sull’avambraccio. Credo sia stata
scattata in galleria. Ci sono quadri accatastati ovunque e sullo
sfondo si intravede un artista che sta dipingendo qualcosa sul
muro. Settembre 1970, c’è scritto sotto. Io ho solo un mese.
Su un’altra pagina c’è la sua foto con Daniele. Lui, che è molto
più magro di come è oggi, sta dietro e la tiene abbracciata
per la vita. Mia madre davanti con le braccia larghe e la testa
appoggiata al suo petto. Stanno in mezzo a tante altre
persone, sembra un concerto, o una manifestazione. Se non
fosse per i colori un po’ sbiaditi potrebbe sembrare una foto
scattata oggi. Lui con una montagna di capelli castano scuro
mossi, la barba folta, gli occhiali a goccia, una dolcevita rossa
che si intravede da sotto l’eskimo. Lei con un vestitino nero, gli
stivali senza calze, un trench avana, un paio di occhialoni neri
tirati sopra i capelli arruffati. Mi fermo a guardare le sue mani.
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È vero sono piene di anelli grandi, bellissimi… Chissà che fine
hanno fatto. Devo chiedere a zia Moira.
Eccola, c’è pure lei nel diario. Bella, appariscente, con due
grosse tette che si è sempre ben guardata dal nascondere. La
gonna a balze, i capelli lunghi neri, vistosi orecchini d’argento
indiano, il cappotto di montone, la tolfa a tracolla. Il perfetto
stereotipo di una fricchettona. Nella foto state facendo “naso
naso”. E basterebbe questo attimo immortalato dal flash di
qualche compagno per dimostrare quanto bene si sono volute
quelle due.
Poi c’è zia Carla con me e nonna Anna. Abbiamo tutte e tre
una ghirlanda di margherite in testa. Loro sono sedute in un
campo di papaveri rossi mentre io cerco di arrampicarmi sulle
spalle di zia. Nonna ride, mentre zia fa una smorfia di dolore.
Che bella giornata. Bella come tutte quelle che passavamo
insieme. In questa foto avrò avuto cinque, forse sei anni, era il
compleanno di nonna e come sempre ci ritrovavamo nella casa
in campagna per festeggiare. In quei giorni ognuno era
obbligato a dimenticare i problemi, la politica, gli affanni per
riscoprire l’importanza di una famiglia che nonostante tutto
c’era sempre a sostenere, a coprire, a giustificare. Io non ho
mai conosciuto nonno Luigi. Lui è morto quando mia madre
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era molto piccola e zia Carla appena nata. Ma so tutto di lui.
Instancabilmente zia ha tenuto vivo il ricordo e la memoria di
quel partigiano, suo padre, che partecipò alla battaglia di porta
San Paolo del settembre 1943, ma venne ammazzato dai
tedeschi prima della Liberazione, durante un’azione di
sabotaggio notturno a un cantiere ferroviario sulla Cassia.
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QUATTRO
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assassinato. Addio Pino. Non dimenticheremo né te, né quelli
che ti hanno ucciso”. Poi una voce roca ha attaccato Addio
Lugano Bella e abbiamo iniziato a cantare. Ma a bassa voce,
con il ritmo lento di una marcia funebre. E io sono scoppiata
a piangere. Ho preso un sasso al cimitero, vicino alla fossa e
l’ho stretto in mano fino a sentire dolore. Ma non è nulla in
confronto a quello che sento nello stomaco.
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Roma qualche minuto dopo una bomba esplode in un
corridoio sotterraneo della sede centrale della Banca Nazionale
del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio: 13 impiegati sono
rimasti feriti, uno in maniera grave. Il boato è stato
fortissimo. Poi una nuova esplosione a distanza di mezz’ora.
Un ordigno sulla terrazza dell’Altare della Patria, sul lato che si
affaccia sui Fori Imperiali: nessuna vittima. Due minuti dopo
un altro botto, un’altra bomba è esploso sempre sulla terrazza
dell’Altare della Patria, dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli:
nessuna vittima. A Milano, quello stesso pomeriggio un
impiegato della Banca Commerciale Italiana di piazza della
Scala ha trovato una borsa nera e l'ha consegnata alla
direzione. La borsa conteneva un’altra bomba che non è
esplosa per un difetto di funzionamento del timer del
congegno d’innesco. Ma gli artificieri hanno deciso di farla
brillare distruggendo così eventuali indizi fondamentali.
Devono trovare a tutti i costi un capro espiatorio: gli anarchici.
Così vanno a bussare a casa di Pinelli. Non ci ha messo molto
Calabresi a convincerlo a seguirlo in questura. Lui ci è andato
perché non ha nulla da nascondere. Lo hanno interrogato per
tre giorni. Poi è successo qualcosa. Il 15 dicembre Pinelli è
precipitato dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi.
La stessa fine di Andrea Salsedo, il tipografo sindacalista
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anarchico amico di Bartolomeo Vanzetti, che “volò” da una
finestra al quattordicesimo piano del Dipartimento di Giustizia
di New York dopo essere stato fermato e trattenuto due mesi
perché sospettato di aver stampato opuscoli sovversivi. Pinelli
ha fatto la stessa fine. Il questore Marcello Guida, nel 1942
uomo di fiducia di Mussolini e direttore del confino politico di
Ventotene, già 20 minuti dopo, ha dichiarato che Pinelli si è
suicidato e che il suicidio è stata una ammissione di
colpevolezza perché “l’alibi era crollato”. Con Carla abbiamo
partecipato alla conferenza stampa organizzata dagli anarchici
milanesi al Circolo Ponte della Ghisolfa il giorno dopo la morte
di Pinelli e l’arresto di un altro anarchico, Pietro Valpreda.
Cazzate. 20 dicembre 1969
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CINQUE
Inizia così il diario di mia madre. Sulla copertina c’è scritto "A
come amore" e la A è quella cerchiata dell’anarchia. Mi faccio
due conti e capisco che quel giorno c’ero anche io con lei al
funerale di Pinelli. Non lo sapeva ancora, ma era incinta. Da
quel giorno la vita non fu la stessa. Né la sua, né quella di
tantissime altre persone. E neppure quella di zia Carla che
studiava Sociologia a Trento ma stava con noi a Milano quel
giorno. Quel giorno che segnò l’inizio di un’epoca buia che
ancora oggi non sembra essere del tutto terminata. Da quel 12
dicembre 1969 l’Italia fu scossa da nove stragi, tre tentativi di
golpe scoperti, la cospirazione della politica (la Piddue),
quindici anni di omicidi politici firmati da rossi e neri,
l’abbattimento di un aereo di linea senza motivo, un’escalation
di delitti mafiosi.
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allora il nemico divenne lo Stato.
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denaro, ecco il nemico, pervertitore di ogni sentimento retto».
Il più ardito che s’è conservato: «Solcati ancor dal fulmine
eppur l’avvenir siam noi!». Dentro la vetrina, ben ordinate, le
collezioni di «Umanità Nova», dell’«Adunata dei Refrattari»,
dell’«Internazionale», di «Volontà», e poi i libri in vendita:
Gori, Fabbri, Malatesta. Sul tavolo, la macchina da scrivere,
una Olivetti a carrello lungo che Adriano Olivetti regalò alla
redazione di Umanità nova e che, dopo la scissione del 1965,
finì lì. E ancora la biblioteca, con un migliaio di libri, aste e
bandiere, quelle con la fiaccola, e i manifesti per le vittime
politiche. Al Cafiero ho conosciuto Andrea che si dice abbia
frequentato Malatesta; Perugia che ha scontato una lunga
pena per «delitto d’onore», Italo che era stato confinato a
Ventotene per undici anni. Nessuno ha meno di settant’anni.
Ci parlano di Sacco e Vanzetti, dei martiri di Chicago. Ci
consegnano una storia di sterminio fatta di sedie elettriche, vili
garrote, carcere, esilio, povertà».
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marchio di fabbrica. È un sentimento, una condotta di vita. Del
resto ho scoperto di essere un’anarchica solo dopo aver letto
“Il buon senso della rivoluzione” di Malatesta e “Il miglior
governo è quello che non governa affatto”, di Henry Thoureau.
E la conferma mi è arrivata da Bakunin, da Protpokin, da
Stirnern, da Cafiero, da Emma Gooldman. Ho ritrovato in
quegli scritti le mie piccole battaglie contro l’ingiustizia, per
l’egualitarismo e la libertà. Purtroppo la maggior parte di
queste lotte si sono concluse con la sconfitta. E questo mi
tormenta. Spero almeno che nel campo dove ho seminato il
seme della solidarietà, del rispetto degli ultimi, dell’amore
senza interessi, cresca forte un nuovo sentimento anarchico.
Voglio illudermi che quel sentimento generi un rivoluzionario
che si impegnerà, attraverso l’esempio, a fare proseliti. E così
via. Perché tutti possono contribuire alla diffusione
dell’Anarchia dimostrando che si può vivere in una società
dove si aiuta e si viene aiutati, dove si ama e si è amati con la
stessa intensità e senza chiederlo, dove tutti sono rispettati
per quello che sono. Consapevoli di essere parte di un’umanità
soggiogata ma non doma, forte solo della propria dignità e
coerenza. È possibile! Si può fare».
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Questo me lo ricordo, anche se ero piccola. E da grande
rileggere quei libri mi ha fatto sempre sentire meno sola.
Quando voglio sapere come la pensa lei su qualcosa vado a
cercare lì. Parlava a ruota libera della polemica tra comunisti
autoritari e libertari, dello scontro tra Marx e Bakunin, delle
persecuzioni dei bolscevichi in Russia dopo il 1917. Racconti
che alternava alle storie di anarchici che avevano pagato con
la morte. Mi narrava, quasi si trattasse di una fiaba, di Gino
Lucetti che voleva ammazzare Mussolini, del cuoco Giuseppe
Passannante che cercò di uccidere Umberto I e che fu chiuso
in una cella sotto il livello del mare nella fortezza di
Portoferraio. E poi di Romeo Frezzi che venne arrestato perché
ritenuto complice di un altro attentatore di Umberto I, Pietro
Acciarito, e morì in galera in circostanze misteriose. Le guardie
dissero che si era suicidato, invece un medico, il dottor Pardo,
accertò che Frezzi venne ucciso. Ma soprattutto parlava di
Gaetano Bresci che ammazzò il re e che venne ucciso nel
carcere di Santo Stefano. Ogni volta che andavamo a
Ventotene ci facevamo portare dai pescatori all’isola per
andare a mettere i fiori sulla sua tomba. In realtà nessuno sa
in quale di quelle fosse sono state messe le ossa
dell’anarchico. Ma noi avevamo deciso che il sepolcro di Bresci
non poteva che essere quell’unico mucchio di terra che
51
d’estate e d’inverno era ricoperto di capelvenere sul quale era
stata piantata la più sgangherata delle croci.
52
che mi ricordo io, ma soprattutto da quello che mi hanno
raccontato papà, zia Carla, zia Moira e ora Daniele, non amava
l’ordine costituito e le interessava il punto di vista di ogni
singola persona. Soprattutto dei border line. C’era di sicuro in
lei una visione romantica dell’anarchia, identificata con
l’emarginazione come un’esclusione totale, assoluta dalla
società, dalle convenzioni dominanti. Non era mai stata
interessata a far parte di questo o quel movimento pur
condividendone gli obiettivi, perchè era attratta dall’individuo,
da quelle donne e uomini apparentemente senza tempo, che
restavano ai margini. Le uniche persone che secondo lei
conservavano la purezza originaria. E anche lei volevi vivere ai
margini. «Aveva una forte propensione ad auto-escludersi», mi
ha sempre detto zia. «Non credo si sia mai sentita
completamente a suo agio nel movimento. Nelle nostre
battaglie lei c’era sempre, ma non faceva parte del gruppo. Il
suo essere anarchica e per giunta individualista si prestava
benissimo anche a non rompere con nessuna delle componenti
della propria esistenza».
53
SEI
54
Solo sul giornale del 7 marzo1970, Lotta Continua, fece il suo
nome, peraltro sbagliandolo: «è il dott. Calabrese».
55
non sarebbero mai usciti e che forse nessun giornalista
avrebbe mai avuto il coraggio di pubblicarli.
56
renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed esistono validi motivi
perché ne abbia sempre di più. […] L’imputato e vittima del
secondo [processo] è già da tempo designato: un commissario
aggiunto di ps, torturatore e assassino: Luigi Calabresi.
Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli
sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa
fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato
assassino» (6-6-1970). «Calabresi, assassino, stia attento. Il
suo nome è uno dei primi della lista» (6-5-1971).
57
verso la finestra. E poi non è strano che la finestra fosse
aperta trattandosi di dicembre e di notte? Pinelli cade
scivolando lungo i cornicioni. Non si è dato quindi nessuno
slancio. Cade senza un grido e senza portare le mani a
protezione della testa, come se fosse già inanimato. Ma
perché continuano a raccontare tutte queste bugie? E
comunque le guardie avevano il dovere di salvaguardare la
vita di Pino. Si trattava di un cittadino affidato alla loro
custodia e soprattutto, secondo loro, di una preziosa fonte.
Almeno di questo dovranno rispondere. E poi, perché lo
trattennero per tre giorni quando lo stesso Calabresi ha
ammesso in una intervista su l’Unità che contro Pinelli non
avevano nulla? Un funzionario della Polizia, la mattina del 15
dicembre, aveva detto alla madre che non era collegato alla
strage, ma che comunque c’erano state pressioni da Roma per
il suo fermo. E che cosa c’era di tanto interessante nel libretto
chilometrico di Pinelli, ovvero il tesserino in cui segnava i suoi
viaggi, che fu mandato a prendere a casa del ferroviere alle
undici di sera del 15 dicembre? 19 marzo 1970
58
Il commissario Calabresi ha querelato Pio Baldelli, direttore
responsabile del settimanale Lotta Continua per diffamazione
continuata e aggravata circa la defenestrazione di Pinelli. Oggi
Calabresi ha deposto in tribunale mentre la gente urlava
assassino, buffone, buttati dalla finestra. Il vicequestore
Vittoria ha autorizzato una carica nei corridoi di Palazzo di
giustizia. I compagni hanno organizzato un sit in al primo
piano. 14 ottobre 1971.
3
Il giornale, appoggiato da quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali che
sottoscrivono un documento di solidarietà, ha raggiunto così il suo obiettivo: quello di tornare
a parlare di Pinelli dopo che l’istruttoria sulla sua morte è stata archiviata)
59
polizia sparò sugli scioperanti uccidendone due e ferendone
molti. Fu quindi indetta una manifestazione ad Haymarket
Square il giorno dopo. Tutto sembrava più che tranquillo,
quando la polizia intimò di sgombrare e iniziò a marciare a
ranghi serrati per attuare l’ordine. Partì un ordigno che uccise
11 persone più un poliziotto; altri sette, rimasti feriti, morirono
nei giorni successivi. Da qui l’indegno e puramente
persecutorio processo agli organizzatori della manifestazione.
La poesia scelta va dedicata a Pinelli e a tutti quelli che
combattono i potenti, gli oppressori, i “grandi personaggi”
(politici, militari, della stampa e dello spettacolo, finanzieri,
ecc..). Questi versi non possono non commuovere chi resta al
di qua della linea di demarcazione tra senso di umanità e il più
sconfinato e arido deserto dei sentimenti. giugno 1970
e io incatramato e impiumato,
60
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
61
sulle palpebre marce;
63
SETTE
64
inflitte ad alcuni militanti baschi dal regime franchista al
termine di un processo svoltosi a Burgos in Spagna. Il comizio
in piazza del Duomo organizzato dai circoli anarchici in
occasione del primo anniversario della strage di piazza Fontana
e della morte di Giuseppe Pinelli e l’adunata in piazza San
Carlo dei gruppi del neofascismo cittadino legati al Msi erano
invece state vietate dal questore per “motivi d’ordine
pubblico”. Al termine del comizio gli anarchici si sono mossi in
corteo e la polizia, agli ordini del vicequestore Vittoria, li ha
caricati alle spalle per spingerli verso l’Università Statale
presidiata dal Movimento Studentesco. Nel frattempo alcuni
squadristi iniziarono a lanciare molotov contro la sede
dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi
fascisti si diressero verso la Statale. Le cariche proseguirono
per un bel po’. Gli studenti volevano difendere la loro
postazione mentre la polizia cercava di rompere i cordoni di
protezione. Nel corso degli scontri in via Larga, Saverio
Saltarelli, uno studente di 23 anni, venne ucciso da un
candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo. Le prime
versioni ufficiali sulla sua morte parlarono di “malore” e poi di
“collasso cardiocircolatorio”. Dopo l’autopsia, di fronte
all’evidenza dei fatti, ammisero che il cuore di Saltarelli fu
spaccato da un “artificio lacrimogeno”. Dopo sei anni il
65
comandante del reparto da cui partì il candelotto mortale, fu
condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la concessione
delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la
non menzione4.
66
inconsistente, ma anche formalmente contraddittoria e illogica.
Scrive Wittgenstein: “Pensate gli strumenti della cassetta di un
operaio: ci sono martello, pinze, sega, cacciavite, regolo,
barattolo, colla, chiodi e viti. Le funzioni delle parole sono così
diverse come le funzioni di questi oggetti”. Non ho citato senza
ragione il filosofo del neo-positivismo logico. Ad onta della
retorica degli uomini di legge, le parole hanno un senso
inequivocabile, sono strumenti per conoscere la verità. Ma
quante parole sono a tal fine realmente utilizzabili, nei
diciassette volumi (10 di atti e 7 di allegati) che il 26
settembre 1970 gli uscieri romani hanno depositato in
cancelleria? Il processo verbale del caso Valpreda consta di
migliaia e migliaia di pagine. In moneta sonante, fotocopiare
l’intera istruttoria comporta la spesa di circa 3 milioni di lire.
67
processo) non generi mostri” e Valpreda eviti di divenir vittima
di una cavillosa e ingiusta procedura. In realtà si resta allibiti
dinnanzi alla compunta sicurezza degli inquirenti, quando
parlano di prove o comunque di serissimi indizi. Noi, al
contrario, ci proponiamo di dimostrare che, solo a condizione
di capovolgere il senso logico dei fatti, si potrebbe giungere a
una convinzione di colpevolezza degli imputati».
68
prerogativa innanzitutto dei fascisti, e di questo si è avuta
ampia dimostrazione in questi ultimi tempi, non si vede perché
un anarchico violento, dinamitardo come sarebbe il Valpreda,
perdesse il suo tempo (e molti chili di peso) a fare sciopero
della fame davanti al palazzo di giustizia a Roma, per
protestare contro l’ingiusta detenzione preventiva di giovani
compagni imputati dell’attentato alla Fiera di Milano. Un
anarchico carico d’odio e di bombe (secondo la tesi cara alla
pubblica accusa) non passa i suoi giorni e le sue notti
all’addiaccio nutrendosi di acqua pura e di vitamine».
69
da parte di chi si prepara a compiere una strage di pacifici
cittadini, è certamente assurdo e si giustificherebbe soltanto
con la follia del protagonista. Ma il Valpreda è mentalmente
sanissimo, secondo la perizia».
70
prescelto un gruppo di anarchici semplicemente per
precostituire degli imputati per un delitto commesso invece da
loro stessi. E hanno prescelto Valpreda e i suoi compagni,
perché in quel momento essi rappresentavano il gruppo più
battagliero, più irrequieto, più disponibile alla protesta
clamorosa, esemplare. A questo proposito, quando il pm parla
di “azione esemplare” teorizzata dal gruppo, evidentemente
confonde la protesta clamorosa ma pacifica con l’uso della
dinamite. Quando cita lo slogan “La prassi nasce dalla azione”,
quasi a prova “ideologica” della loro colpevolezza, dimostra tra
l’altro una notevole ignoranza del pensiero anarchico. La
prassi, cioè il comportamento, i modi di intervento nella vita
sociale, politica, ecc., sono in effetti il risultato della concreta
esperienza, e cioè dell’azione. Solo in questo senso deve
essere interpretata la frase “incriminata”. Ma il pm, per
comodità dialettica, rovescia il pensiero e in pratica dice: la
prassi anarchica nasce dall’azione; quindi più l’azione è
violenta, distruttiva, più la prassi e il comportamento sono
anarchici. Così giunge alla facile e semplicistica conclusione
che una bomba è la migliore dimostrazione dell’anarchia!».
71
un barattolo di olive che mi ha regalato Salvatore, il mio amico
pescatore. Me ne torno sulla poltrona, non prima però di
essermi fermata davanti alla finestra ad ammirare il maestoso
carcere di santo Stefano illuminato dagli ultimi raggi di sole.
72
Merlino era un noto provocatore (noto, ora, al pm, non agli
anarchici!), la posizione dei coimputati si aggraverebbe, in
quanto sarebbe dimostrata la concordanza esistente tra i vari
aderenti al gruppo, riguardo alla prassi operativa, e cioè alla
violenza».
73
non vi sono né prove né accuse contro di lui, nemmeno da
parte dei suoi ex-compagni, dovrebbe essere prosciolto
dall’accusa di concorso in strage. Su quali elementi il pm basa
la colpevolezza del Merlino? Sul fatto che sarebbe l’ispiratore,
lo stratega lucido, diabolico dell’attentato. Ebbene, in questo
caso le accuse di Merlino contro Borghese, Mander, ecc., sono
logicamente false. Costoro non possono averlo sollecitato a
partecipare agli attentati e soprattutto non possono averne
ottenuto un rifiuto (come ha dichiarato il Merlino). Avrebbe
rifiutato ciò che egli stesso istigava gli altri a fare? E i suoi
compagni, si sarebbero dunque lasciati “ispirare” dal Merlino,
quando lui stesso si rifiutava? Non ha senso, e il pm dovrebbe
convincersene. La logica vuole che Merlino non poteva né
rifiutare, né tanto meno ispirare, ma solo provocare, come in
effetti sembra aver fatto. E la prova della provocazione -
cosciente o no, da parte del Merlino, non sappiamo - è data
dal fatto che Merlino è stato interrogato per primo. Dunque, la
base dell’inchiesta contro il “22 Marzo” si è costituita, è anzi
stata provocata dalle risposte da lui date agli inquirenti, e cioè
sin dal primo momento delle indagini. Ma se le dichiarazioni di
Merlino sono inattendibili, tutta l’istruttoria Valpreda - 22
Marzo ha un vizio d’origine, sul quale non è lecito sorvolare».
74
chiede mia madre all’inizio di questa parte dell’articolo. Poi
scrive sul bordo: La strage di piazza Fontana è parte di un
piano finalizzato a respingere le lotte sociali in atto e a buttare
i socialisti fuori dal governo, ripristinando una coalizione
centrista aperta all’Msi. A ciò sarebbe dovuto seguire un colpo
di stato tipo greco5.
5
«Il pm», c’è scritto sull’articolo di A, «fa in pratica questo discorso: gli
attentati maturarono nel circolo “22 Marzo”, che sarebbe stato per lui una
specie di centro del tritolo, in cui confluirono elementi anarcoidi e un
“suggeritore” neofascista camuffato da anarchico (Merlino). Il pm in
sostanza ritiene che Merlino non prese parte alla esecuzione materiale
dell’attentato, non volendo probabilmente partecipare alla fase più
pericolosa del piano; gli sarebbe bastato “ispirare” gli anarchici. L’indagine
ha stabilito che Merlino, mentre partecipava alle riunioni del circolo
“Bakunin” e poi al “22 Marzo”, era in contatto col gruppo neofascista di
Delle Chiaie. Ciò è stato del resto ampiamente documentato dal libro “La
strage di Stato”; stupisce anzi il fatto che solo dopo l’uscita del libro il pm e
il giudice istruttore se ne accorgessero. Questo servirebbe a dare una patina
di credibilità alla tesi degli “opposti estremismi”, che alla fine
dell’istruttoria viene accettata, per soddisfare le esigenze d’ordine della
società italiana e dei partiti. Ciò non soddisfa, però, l’esigenza di
obbiettività; soprattutto se si considera il diritto dell’imputato, che dovrebbe
sussistere indipendentemente dall’utilità politica della tesi d’accusa. La
sinistra istituzionalizzata sembra d’accordo sulla piega presa dall’istruttoria
Valpreda; evita così di porsi la domanda sui motivi che hanno consentito al
“Caccola” di rendersi uccel di bosco con tanta facilità. In tal modo
75
Alla fine dell’articolo c’è annotato a matita che la moglie di
Pinelli, Lucia, ha denunciato Calabresi e tutti gli agenti (i
poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi,
Piero Mucilli, e il tenente dei carabinieri Savino Lograno), visto
che erano presenti ai vari interrogatori cui fu sottoposto il
marito fra il 12 ed il 15 dicembre ‘69. La denuncia era per
76
omicidio volontario: il giudice istruttore è Gerardo D’Ambrosio,
che manda avvisi di reato a tutti i denunciati.
77
Ventura e Aldo Trinco per le bombe del 1969; dell’assalto
fascista all’università Statale di Milano. Poi a novembre, il 24,
registra che a Milano, polizia e carabinieri intervengono contro
una manifestazione del Movimento Studentesco all’università
Statale: 72 feriti, 11 arrestati e 275 denunciati.
78
e con perfetto tempismo un funzionario della questura si
precipita in Municipio per ottenere l’autorizzazione a rimuovere
il corpo, tentando così di evitare il necessario esame medico,
formalità decisamente scocciante e che secondo i poliziotti di
larghe vedute andrebbe eliminata per non intralciare il “giusto
compito delle forze dell’ordine”. “Un giovane studente è stato
ucciso”, scrivono i giornali. Ma la notizia non fa scandalo: si
tratta di un anarchico e per di più di un figlio di genitori ignoti;
i suoi assassini sono poliziotti e figli di buona donna. Perciò la
vicenda non finisce in prima pagina e dopo un paio di giorni i
giornali non ne parlano più. Intanto si tesse la solita fitta rete
di omertà, di reticenze mafiose, di scaricabarili. E a tappare la
bocca ai compagni di Serantini ci pensa la polizia impedendo
comizi, sequestrando volantini, incriminando. Una sola cosa ha
consolato i suoi compagni: quando la bara è apparsa uscendo
da una fredda sala d’obitorio, nessuna folla di borghesi e
piccolo-borghesi, accecati dalla disinformazione televisiva si è
istericamente accalcata per applaudire.
79
OTTO
6
- Ci volle parecchio tempo prima che quel lavoro durato tre anni con sagome, stracci,
paillettes, passamanerie, sete e broccati venisse esposto affinché tutti vedessero il dolore di
Licia Pinelli e delle figlie che si scontra con l’indifferenza dei generali, le mani contorte che si
affacciano dalla finestra della questura di Milano, l’anarchico che precipita urlando nel vuoto.
80
neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura sono incriminati
dal giudice Franco D’Ambrosio per la strage di Piazza Fontana.
81
triste 16 dicembre 1969?
82
indignarsi e a condannarci. Così anche se esponessimo la
nostra opinione netta sull’attentato politico in generale (che
pure non è di entusiastica approvazione né di incitamento, ma
neppure di ipocrita universale condanna), troveremmo
certamente qualche zelante servitore stipendiato dallo stato
disposto a ravvisare nelle nostre argomentazioni sanguinarie
istigazioni al delitto. Partiamo dal dato di fatto che Calabresi è
stato ammazzato e che gli anarchici, i rivoluzionari, i proletari
non hanno pianto. Hanno pianto i parenti di Calabresi e del
loro dolore ci spiace, ma non più di quanto ci spiaccia il dolore
dei parenti di tutte le vittime di incidenti stradali. Certo meno
di quanto ci addolori il dolore dei parenti delle vittime della
polizia, degli incidenti sul lavoro, dei morti ammazzati nelle
guerre volute dai padroni e dagli stati... Hanno finto di
piangere, ed in realtà erano spaventati, i commissari, i
questori, i prefetti, i ministri, i padroni, i quali hanno scoperto
(o riscoperto) che, se il loro sistema è (ancora) possente e può
(ancora) uccidere i sovversivi, schiacciare la verità, tenere
aggiogate le masse sfruttate, loro, gli individui, non sono
invulnerabili. Hanno constatato che, se siamo ancora lontani
dal momento in cui l’intera classe dominante sarà chiamata a
rispondere dei suoi delitti e la rivoluzione farà giustizia
distruggendo il sistema dello sfruttamento e dell’oppressione,
83
già ora la singola rotella dell’ingranaggio repressivo può essere
chiamata a rispondere dei suoi atti. Questa paura che abbiamo
visto negli occhi e sentito nei discorsi dei potenti e dei loro
servi è segno, a nostro avviso, che comunque sia andata la
faccenda dell’uccisione di Calabresi, provocazione o vendetta,
essa ha avuto il valore di un monito».
84
quello politicamente meno opportuno ed è servito
egregiamente alla recrudescenza della repressione (ma la
repressione ne aveva proprio bisogno?) e ci sono, al solito,
tante stranezze in tutta la vicenda. D’altro canto non vediamo
perché si debba escludere in modo tanto reciso e solo in base
a congetture politiche (che ricalcano la traccia un po’ troppo
consunta - e poco rivoluzionaria - della provocazione nascosta
dietro ogni atto illegale) la possibilità che Calabresi sia stato
ammazzato per vendicare Pinelli. Quello che è certo è che
nessuna organizzazione rivoluzionaria, anarchica od
extraparlamentare, ha progettato questa esecuzione del
commissario. Ma non basta certo questo per qualificare di
provocazione il fatto. Altro è, inoltre, dissentire sull’opportunità
politica di un gesto - che, ripetiamo, neppure noi avremmo
consigliato all’ignoto autore; altro è mettere subito avanti le
mani impaurite gridando alla provocazione. Il che, oltretutto,
non è neppure dignitoso, quando per due anni si è gridato
nelle piazze “Calabresi assassino” e “Pinelli sarai vendicato”.
Generalizzando il discorso (perché taluni “rivoluzionari”, nella
foca di allontanare da sé il sospetto di essere se non complici
almeno istigatori e corresponsabili, si sono messi a straparlare)
vogliamo poi ribadire che altro è dire che ammazzando re,
ministri, generali, eccetera non si abbatte il sistema (ma, ci
85
credano gli ex-parlamentari del Manifesto, neppure quegli
incolti di cose socio-economiche che sono notoriamente gli
anarchici lo pensano), altro è dire, tout-court, che sempre e
dovunque l’attentato politico sia inutile o peggio ancora
provocatorio. Andiamoci piano. Non confondiamo la tattica con
la paura ideologizzata».
7
Moltissime prove sono sparite: i vestiti del commissario Calabresi sono stati distrutti, il proiettile
che l’ha ucciso è stato venduto all’asta, la macchina che era servita per l’omicidio è stata smontata
perché la polizia aveva smesso di pagare il bollo. Anche le circostanze della “spontanea”
confessione di Leonardo Marino sono assai sospette. Secondo quanto dice, infatti, il suo
pentimento sarebbe arrivato dopo il fallimento di una rapina: prima va dal parroco del suo paese,
e poi dai carabinieri. Prima, però, vuole avvertire il PCI, partito al quale è iscritto. Chiede di poter
parlare con il senatore comunista Flavio Bertone. Poi, il 19 luglio dell’88, fa la confessione
86
Zia Carla, è tra coloro che non credono alla confessione di
Marino. Ma più per miseria umana del suo ex compagno che
per i complotti. Fatto sta che, i sette processi a carico di
militanti di Lotta Continua, basati sulle dichiarazioni dei
testimoni oculari, non sono comunque bastati a fugare i dubbi
intorno alla confessione di Marino, a causa di parecchie
incongruenze.
ufficiale. Ma durante il dibattimento emerge che Marino aveva preso i contatti con la polizia già dal
2 luglio: ci sono quindi 17 giorni di colloqui non verbalizzati che la magistratura non ha mai potuto
prendere in considerazione. Poi ci sono le testimonianze di chi lo conosceva. Come quella di un suo
concittadino che, prima della confessione, lo ricorda povero in canna, salvo poi riuscire a comprarsi
di punto in bianco una casa a Sarzana e un camper nuovo. Cosa che non mancato di rilevare
anche il parroco. Secondo lui avrebbe ottenuto dei soldi in cambio della sua testimonianza.
87
NOVE
Nel suo diario scopro che anche le Brigate Rosse hanno fatto
delle indagini sull’omicidio Calabresi e sulla morte di Pinelli.
Cosa che ignoravo completamente.
88
Antiterrorismo dei Carabinieri di Torino, andò smarrito dopo
vari passaggi. In parte forse fu distrutto nel 1992, dopo essere
stato ritenuto di nessuna utilità. Altri documenti sequestrati
vennero tuttavia trascritti e riassunti dagli agenti che si erano
occupati dell’indagine. Sembra che i documenti e le
trascrizioni, per motivi misteriosi, non siano mai pervenuti o
forse solo parzialmente al Tribunale di Milano. L’oblio fu rotto
dalle indagini della Commissione Stragi, che si fece consegnare
il materiale superstite. Dalla relazione della Commissione
stragi (seduta 8 giugno 2000) si leggono alcuni titoli dei
documenti trovati. Un’intervista-interrogatorio su
audiocassetta, cui da militanti o fiancheggiatori delle Brigate
rosse fu sottoposto il professor Liliano Paolucci, cioè la persona
che subito dopo la strage, in modo del tutto casuale, aveva
raccolto le confidenze di Cornelio Rolandi, il principale teste a
carico di Pietro Valpreda; interrogatori-interviste di alcuni
dirigenti del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano, al
quale apparteneva Giuseppe Pinelli e dal quale era stato
espulso Pietro Valpreda; una relazione dalla quale risultava che
Pinelli in realtà si era suicidato perché era rimasto
involontariamente coinvolto nel traffico di esplosivo poi
utilizzato per la strage.
89
contro-inchieste brigatiste avevano raggiunto talvolta risultati
difformi dalla opinione comune. Sulle contro-inchieste vi fu
una lunga deposizione alla Commissione Stragi dell’ex-capo
storico delle Br, Alberto Franceschini. Disse che sulla strage di
Piazza Fontana la contro-inchiesta delle BR arrivò alla
conclusione che la strage fu opera di una collaborazione tra
anarchici, fascisti e servizi segreti.
90
accompagnatori di Feltrinelli nell’attentato al traliccio di
Segrate. L’interrogatorio del compagno di Feltrinelli, chiamato
Gunter (o Gunther) fu registrato su nastro magnetico, trovato
anch’esso a Robbiano di Mediglia.
91
forza, da un lato di chi continuando ad uccidere vuole coprire
il suo piano di provocazione e proseguirlo in tutta tranquillità
ed anzi in affinando la tecnica e dall'altro (ma davvero un
altro?) dell'apparato repressivo statale che ha approfittato
dell'occasione (inaspettata) per colpire pesantemente gli
“opposti estremismi” cioè gli estremisti di sinistra, scatenando
in tutta Italia una assurda terroristica serie di perquisizioni,
montando una gran storia di inesistenti eserciti insurrezionali
rossi, sollecitando con fughe di notizie a senso unico e spesso
infondate, una campagna di calunnia contro la sinistra
rivoluzionaria (favorita anche da discutibili atteggiamenti di
quest’ultima, come l’esaltazione da parte di Lotta Continua del
sequestro Macchiarini o la pubblicazione da parte di Potere
Operaio di un delatorio comunicato dei G.A.P.). Niente di
nuovo in questo. Il cadavere di Feltrinelli è servito non solo a
coprire lo scandalo dell'incriminazione dei fascisti per la strage
di Piazza Fontana, ma anche a motivare pubblicamente una
ramazzata alla sinistra del PCI. La novità è che stavolta la
repressione è passata attraverso i cosiddetti e sedicenti
magistrati “democratici”, tipo Viola, e non più attraverso i
vecchi arnesi reazionari alla Amati. È una novità significativa
perché dimostra la fragilità di supposte contraddizioni
insanabili interne al sistema. La funzione repressiva della
92
magistratura non viene modificata né attenuata, se non nelle
forme, dal modernismo di quei magistrati che prefigurano un
modo più agile ed efficace di reprimere. Un’altra novità è
costituita dal relativo disinteresse per gli anarchici dimostrato
da polizia e stampa, segno che ormai l'offensiva
controrivoluzionaria dello stato non ha più bisogno di colpire
gli anarchici ma ha trovato altri obiettivi ed anche un po’
segno che il senso di responsabilità dimostrato dal Movimento
Anarchico in questi due difficili anni è riuscito a respingere le
possibili provocazioni oggettive e soggettive. Solo da qualche
località (Treviso, Sanremo, Firenze...) ci sono giunte notizie di
perquisizioni a sedi e domicili anarchici. Solo un paio di volte la
stampa ha cercato (evidentemente su indicazione
questurinesca) di inserire gli anarchici nella vicenda Feltrinelli.
Una prima volta parlando di Georg Von Rauch, l'anarchico
assassinato dalla polizia lo scorso dicembre come di un
“tupamaro” berlinese che avrebbe trafficato in armi con
Feltrinelli: il che è pura invenzione perché Von Rauch era un
militante della Crocenera Anarchica tedesca e non faceva
parte del gruppo Baader Meinhof (che non è un gruppo
anarchico). Una seconda volta, più recentemente, mettendo
tra i frequentatori della casa di via Subiaco (rifugio di Saba e
Viel) la “anarchica” Monica Hertl, la quale non solo non è
93
anarchica ma probabilmente non ha neppure mai messo piede
a Milano».
Oddio, non ci sto capendo più niente. Che c’entra mia madre
con queste storie? Fascisti, Brigate rosse, la Raf, servizi
segreti, anarchici che non sono anarchici... Ma perché ha
voluto ficcarsi in questo ginepraio di odio, di violenza lei che
l’ha sempre combattuta a tutti i costi? Perché non si è
accontentata di quello che aveva a casa, dell’amore di papà, di
me che ero così piccola e che avevo tanto bisogno di lei? Io
non so se è vero quanto dice Daniele, che la sua morte fu
voluta da qualcuno. Certo è che tutto sembra essere diverso
da ciò che appare e che qualcuno molto probabilmente
avrebbe preferito che non si facessero domande, che non si
provasse a vedere oltre l’apparenza.
Come, invece, fece Pier Paolo Pasolini. Hai attaccato sul diario
un suo articolo8. Ed è pieno di sottolineature. Come se l’avessi
«Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe
(e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del
potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12
dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di
Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del vertice che ha
manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpe, sia i neo-
fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ignoti autori
materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due
94
riletto chissà quante di volte. E tutti sappiamo che fine ha fatto
e quanto mistero c’è attorno alla sua morte.
95
ritrovata tra le mani quando mi sono svegliata di soprassalto
urlando.
96
La cronologia s’interrompe qui. E io con un soffocante senso di
angoscia provo a riaddormentarmi pensando alla mia bambina
e le prometto che staremo sempre insieme. Non la lascerò mai
sola. Lei non sentirà mai la mia mancanza, ogni volta che avrà
bisogno di me, io ci sarò. Glielo giuro.
97
DIECI
98
nulla. Nulla che potesse dargli “potere”, come dice lei. «Anzi»,
insisto, «è sembrato sinceramente interessato a me, alla mia
bambina. Mi ha perfino chiesto se intendevo battezzarla con il
nome di mamma».
Cinque minuti di silenzio sono tanti. Troppi, se già sai che ti sta
arrivando un’altra stilettata al cuore. «Vuoi sapere che cosa le
ha fatto?», tuona Moira. Senza neanche aspettare la risposta
inizia a parlare. «Voleva vedere fino a che punto poteva
arrivare. Poco per volta, un po’ al giorno, l’ha esaurita. L’ha
fatta consumare», ripete, «come una candela. Stava male
Maria quando è morta. Era depressa. Se proprio lo vuoi
99
sapere, quando ci hanno telefonato per avvertirci della
tragedia io pensato che si era suicidata. E quando hanno
liquidato la faccenda come un incidente, ho tirato un sospiro di
sollievo. Ti assicuro che dietro non c’è stato alcun complotto.
Come invece va sostenendo l’attore!».
«Ecco lo vedi che c’è riuscito anche con te?», dice preoccupata
Moira. «Ti ha portato il diario affinché tu ti convinca dell’ipotesi
del complotto. Vuole che tu indaghi sulla morte di tua madre».
Poi con voce implorante: «Ti prego Sole non farti manipolare
100
da quell’assassino. Non fargli uccidere Maria per la seconda
volta».
101
scioglimento del movimento. Durante il secondo Congresso
nazionale di Lotta Continua, a Rimini, ci fu un duro scontro fra
il quadro dirigente e le donne. Il movimento, pur senza
dichiarazioni formali, si dissolse.
Proprio in quel momento compare sulla porta zia Carla che nel
frattempo aveva disfatto la valigia e si era fatta la doccia.
«Ancora con queste storie, Moira», chiede con uno sguardo
annoiato. «Non c’è nulla di più deprimente di sentire ripetere
da una vecchia le stesse cose da almeno trent’anni». E per
l’ennesima volta anche zia Carla dice: «Sono state le
femministe del movimento ad iniziare. Volevano sfilare
separate. Il servizio d’ordine non voleva perché lo riteneva
pericoloso e ha cercato di farle desistere». «Sarebbe meglio
dire: represse», la corregge Moira. «Compagno Sofri, sabato
scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo
dimenticherà», continua zia Carla facendo il verso a lei e a
mamma che tiravano sempre questo slogan ogni volta si
parlava di femministe e Lotta Continua.
«Ma smettila», replica zia Moira. «Come fai a parlare tu che eri
la regina della doppia militanza?».
102
stesse cose. «Doppia militanza?», insiste zia Carla. « La
militanza politica e la militanza femminista erano una
“necessità” per chi come me pensava che si dovesse costruire
di una società più giusta».
103
"lavoravamo" come e con le donne; un doppio lavoro,
insomma. Tutto questo è andato avanti fino agli inizi
dell'estate '76, fino alle elezioni politiche in cui Lotta Continua
si era presentata autonomamente, poi da quel momento la
mia militanza politica all'interno di Lotta Continua è andata
scemando giorno dopo giorno. Non abbiamo smesso, invece,
di riunirci come donne di Lotta Continua, ma più per il
rapporto di amicizia che ci legava che per un progetto politico
specifico»10.
10
Intervista di Maurizia Morini a G.G., 53 anni, insegnante.
104
femminismo autonomo, la rivoluzione pacifica delle donne
legata alla presa di coscienza, allo scambio, all’ascolto
dell’altra, alla rimessa in discussione della società patriarcale,
del rapporto con l’uomo, nel pubblico e nel privato».
«Guarda che non erano facili i rapporti neanche tra voi
femministe», tuona zia Carla dopo essersene stata ad
ascoltare in silenzio. «Mica scherzavate al Pompeo Magno.
Vuoi negare che si scatenò una primordiale contesa tra etero e
non? Tutte concordi nella scelta del separatismo politico dal
mondo degli uomini, ma divise sulla pratica delle relazioni.
Quella che si respirava lì da voi mica era certo una bella aria».
«Beh, voi siete riuscite a far sciogliere Lotta Continua…».
«Non è proprio così, Moira. E lo sai bene!»!
105
rileva che i congressisti «hanno sostituito le emozioni alle
mozioni» e scorge nell’evento una «crisi della militanza di
estrema sinistra». Dal suo canto Lotta continua – il quotidiano
che, nato del ‘72, fa capo al movimento – rinunzia a fornire
«un verbale esatto delle emozioni che ci hanno travolti». A
Rimini, aggiunge con spontanea iperbole, si sono vissuti
«cinque giorni tra la vita e la morte», fra «l’angoscia e la
gioia». Quei giorni di novembre non erano che l’epilogo di una
situazione esplosa all’interno del movimento quasi un anno
prima, durante un corteo in sostegno della legalizzazione
dell’aborto, tenutosi il 6 dicembre 1975. Lotta continua vi
partecipò con un proprio striscione. A un certo punto, le
femministe che militavano nel movimento cercarono di
separarsi dagli uomini, rivendicando una loro autonomia. Il
servizio d’ordine di Lotta continua le ostacolò. Sugli incidenti
che ne nacquero si sarebbe dibattuto a lungo sia in Lotta
continua che nell’intera galassia della sinistra radicale. Così
scrisse, a botta calda, il Quotidiano dei lavoratori: «Compagno
Sofri, sabato scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle
donne non lo dimenticherà».
106
l’ala femminista del movimento, se non a causare la sua fine,
certo a forzarne i tempi. Nel numero che è oggi in edicola la
rivista MicroMega dedica all’evento un diffuso dibattito cui
partecipano quattro ex esponenti di Lotta continua: Guido
Viale, lo storico Giovanni De Luna, Franca Fossati, femminista
storica, lo scrittore Erri De Luca, a suo tempo fra i dirigenti del
servizio d’ordine. Tutti d’accordo nel collocare in quel
novembre di trent’anni fa l’epilogo del movimento (mentre
Lotta Continua-giornale resisterà fino al 1981). La discussione
verte, invece, sulla diagnosi politica del “caso”, sulle sue
ripercussioni a breve termine e perfino sulla modalità degli
scontri che lo precedettero». De Luna si sofferma, ad esempio,
sul rilevante «significato politico e simbolico» dell’incidente del
‘75. Ricorda che, in un’assemblea svoltasi a Torino subito
dopo, la stessa collocazione dei partecipanti rifletteva una
drastica separazione: «In alto c’era la macchia scura degli
operai, in basso quella delle donne; poi c’erano gli studenti,
che non sapevano dove stare. Nel centro c’era una dirigenza
schiacciata dall’incomunicabilità che si respirava in quell’aula».
Ne nasce l’esigenza di fare luce sulle responsabilità di questa
incomprensione. E qui lo storico accenna a un precedente.
Risalendo all’atteggiamento tenuto dal movimento durante la
campagna per il referendum sul divorzio (1974), trova che
107
quello fu ritenuto un diversivo per «distrarre gli operai dalla
dimensione salariale della lotta»: qualcosa di estraneo ai loro
interessi. Si fece poi marcia indietro, e alla rigidità subentrò
«un’apertura senza mediazioni»; ma il male era ormai senza
rimedio. Operai e femministe «non si parlavano più». «Sul
problema delle donne – incalza Franca Fossati – Lotta
Continua ebbe una tardiva capacità d’ascolto». E, quando la
nascita del femminismo diventò una realtà globalmente
accreditata, ecco che esso assurse, per le donne del
movimento, «un orizzonte totalizzante», determinando «un
cambiamento nella nostra vita e in quella di molti uomini».
Una questione dall’evidente «risvolto esistenziale». Si
sfasciarono, ad esempio, «molte coppie». Al riparo di un falso
operaismo – qui la testimonianza della Fossati si fa accorata –
lo stile di vita nel movimento prendeva «tutti i difetti peggiori
della famiglia operaia patriarcale»». Uno spirito separatista
nasceva dai fatti. E ne derivava anche una certa dose di
settarismo: «Noi, come tutte le neofite di un movimento,
vedevamo le donne che non stavano con noi come traditrici. E
fu molto ingiusto e crudele». Autocritica? Non è soltanto la
Fossati a farne. In prossimità del suo epilogo, sostiene ad
esempio Viale – d’accordo, in questo, con De Luna – «il
movimento stava perdendo la capacità di capire quello che
108
succedeva nel paese». E, in particolare, «l’esplosione del
movimento femminista è stata una contraddizione lacerante,
che ha trovato l’organizzazione impreparata». Per capire gli
effetti che avrà in Lotta continua la contraddizione uomo-
donna, occorre comunque tener presente che fra militanti si
svolgeva allora una «vita in comune», animata da una
contiguità di sentimenti. Se non il più polemico, certo il più
controversiale fra i partecipanti al dibattito è Erri De Luca. Egli
discorda da Giovanni De Luna che vede alla base della
decadenza di Lotta continua «l’esaurimento della forza operaia
nelle fabbriche». Pone piuttosto alla base della crisi il mancato
(benché promesso) sorpasso del Pci sulla Dc alla elezioni del
‘76 e le insignificanti percentuali raccolte dalla sinistra
extraparlamentare. Lo scrittore quasi non riesce ancora a
crederci. «Un’organizzazione rivoluzionaria» ed
extraparlamentare «che si lascia scompaginare dal risultato
elettorale, è abbastanza ridicolo». A quel punto, le dimissioni
del «gruppo dirigente di Lotta continua» erano nei fatti. Anzi,
rivela De Luca, erano state decise già un anno prima. Lotta
continua e la violenza. Se quel movimento sia stato o no un
incunabolo del terrorismo. Se il suo servizio d’ordine abbia
rappresentato o meno un «corpo separato» prendendo la
mano al movimento; se i suoi effettivi fossero armati o inermi.
109
Temi scottanti che il dibattito di MicroMega ripropone con
efficacia. I reduci si accalorano nel rievocarli. A volte si
dividono con nettezza fra autocritici e «auto-innocentisti».
Sempre tenendo presente – sono parole di Viale – che fra i
militanti d’un tempo «si sono mantenuti poi dei rapporti di
forte solidarietà»11.
11
La Repubblica, 29 settembre 2006
110
insieme a zia Carla che è la sorella di mia madre, quando si
sposò con papà. Il 10 gennaio del 1969 mise la firma sul quel
contratto di matrimonio e prese alla lettera l’impegno che si
era assunto con quell’autografo. Non smise mai di vegliare su
mia madre per impedire che Luca le facesse del male. Voleva
proteggerla da tutto e da tutti, quando invece era lei, proprio
lei, che aveva bisogno di protezione, fragile e sensibile
com’era. Una fragilità che nascondeva a meraviglia dietro
quella scorza dura di femminista, incazzata con il mondo.
111
ero piccola mi piaceva sentir raccontare da zia Moira dell’8
marzo. E lei ogni volta che glielo chiedevo tirava fuori la storia
della manifestazione del 1972. Quella di Campo de’ Fiori che
secondo lei fu il vero primo otto marzo femminista.
«Cantavamo “Noi siamo stufe di abortire/ ogni volta col rischio
di morire/ il nostro corpo ci appartiene/ per tutto questo
lottiamo insieme. Ci dicon sempre di sopportare/ ma da oggi
noi vogliamo lottare/ per la nostra liberazione/ facciamo
donne la rivoluzione!”. C’era pure Jane Fonda alla
manifestazione. Ma quando se ne andò portandosi dietro tutti i
fotografi e le telecamere scoppiò il casino», zia modulava la
voce come si trattasse di una favola. «Eravamo una settantina
ma fu una bambina, Susanna, a scatenare l’ira dei poliziotti.
Fino a quel momento erano stati tolleranti, ci sorridevano
mentre ci dicevano di restare sul marciapiede. Poi Susanna
disse qualcosa e iniziarono le manganellate. Alma Sabatini, la
madre del collettivo Pompeo Magno, finì all’ospedale con la
testa rotta. Io venni caricata di peso da due guardie e portata
sulla camionetta».
112
anche quelle di mia madre. Il primo maggio era di nuovo a
Campo de’ Fiori, insieme a me piccola e zia Moira, a
volantinare. Urlava: “Vogliamo le comuni”, “Abbasso il
capitale”, “Il capitale è un grande fallo”, “Abbasso la famiglia”,
“Abbasso il fascismo maschile”. Un po’ di curiosi si
avvicinarono per sapere chi era a manifestare. E lei
rispondeva: “Froci e lesbiche!”. Ma non capirono. Tutto finì a
secchiate d’acqua.
113
UNDICI
114
rispondiamo che ogni giorno facciamo lavoro gratis. Cari
compagni che state un pelo più a sinistra e che comunque
affermate che il lavoro delle donne non è produttivo e che le
casalinghe la rivoluzione non faranno mai. Ancora non avete
capito niente come sempre dei lavoratori ne vedete solo la
metà. Solo quando noi donne non lavoreremo ci sarà
veramente sciopero generale. Cari compagni voi che dite che
non vi interessano le donne in generale ma solo le donne
proletarie mentre voi facevate la lotta di classe le vostre
compagne proletarie continuavano a lavorare gratis.
8 marzo 1972
115
antigerarchica, a non negare le differenze biologiche e
psicologiche esistenti tra maschi e femmine e a riconoscere
che anche i ruoli sono sicuramente prodotti culturali attribuiti
in base ai bisogni economici e politici propri di ogni società e
quindi legati a variabili geografiche e storiche ben definite. Era
necessario per Maria, come prima reazione, sottrarsi alla
obbligatorietà dei ruoli in cui ciascuno è programmato a
svolgere compiti specifici - le femmine, fattrici, angeli del
focolare, ispiratrici di imprese; i maschi animali da soma, da
guardia e da monta - e scegliere quali differenze valorizzare e
affermare. Voi femministe, invece», continua rivolgendosi a
Moira, «non avete affrontato in maniera chiara il problema del
potere e non avete saputo dedurre le dovute conseguenze
dalle analisi sulla “differenza”, fermandosi sulla soglia della
contrapposizione maschile-femminile. Maria considerava
questa contrapposizione come diversità dell’esperienza, gioco
della differenza, creatività soggettiva». Mentre parlava zia
Carla sfogliava il diario cercando qualcosa in particolare. «Ecco
leggi. Leggi ad alta voce», mi fa non appena trovato la pagina.
116
nella misura in cui avrà la forza di realizzarla. Perciò molto più
importante per lei cominciare con la sua rigenerazione interna,
facendola finita con il fardello di pregiudizi, tradizioni e
abitudini. La richiesta di uguali diritti in tutti i campi
indubbiamente giusta: ma, tutto sommato, il diritto più
importante quello di amare e di essere amata. Se dalla
parziale emancipazione si passerà alla totale emancipazione
della donna, bisognerà farla finita con la ridicola concezione
secondo cui la donna per essere amata, dolce d’animo e
madre, deve comunque essere schiava o subordinata.
Bisognerà farla finita con l’assurda concezione del dualismo
dei sessi, secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due
mondi agnostici».
Subito dopo c’è una pagina datata ottobre 1975. Mia madre
rimase profondamente scossa da uno spettacolo teatrale, che
andò a vedere con Daniele. “Lo stupro”. Lei non sapeva che
l’autrice di quel monologo, Franca Rame, era stata realmente
violentata e seviziata una sera di marzo dopo essere stata
sequestrata in un camion.
117
persone. Al centro dello spazio scenico vuoto c’è solo una
sedia e una donna che racconta l’incubo, l’impotenza, il senso
di vergogna, l’umiliazione. Continuo ad avere nelle orecchie
quelle parole: “Muoviti puttana fammi godere”. Mi sento a
disagio perché come sono rimasta immobile sulla mia poltrona
di spettatrice, inerme e costretta a guardare, anche quella
donna, la protagonista, è stata costretta a rimanere in quel
furgone a aspettare che quei bastardi finissero di godere. Non
voglio che mia figlia cresca in questo mondo. Non voglio che
qualcuno possa decidere di usare il corpo di una donna, come
fosse un oggetto, solo perché gli va. Non voglio che una
donna debba aver paura nel denunciare i suoi aguzzini. Perché
non c’è solo la violenza sulla strada, lo stupro vero e proprio,
ma una seconda violenza. È la violenza dei tribunali e del
processo, dove la donna viene messa a nudo e passa dalla
parte del colpevole perchè è col suo comportamento, con la
sua vita e le sue esperienze che si giustificano gli stupratori.
Sono andata a dormire da D. perché a casa non c’è nessuno.
E ho paura.
118
se hai un briciolo di umanità, se solo pensi che anche tu hai
una madre, una fidanzata, una figlia, che potrebbe subire la
stessa violenza, non lo fai», rispondo disgustata.
119
Zia Moira resta impietrita. «Questo testo venne scritto sul
manifesto del movimento femminista di Roma subito dopo
l’omicidio», dice con un nodo alla gola. Cerca invano di
ricordare chi fosse l’autrice. Poi si mette a raccontare. Al
presente. «Quel 12 maggio, nell’anniversario della vittoria per
la legge sul divorzio, i radicali decidono di tenere un sit-in in
piazza Navona, nonostante l’assoluto divieto di manifestare in
vigore nella Capitale dopo la morte, il 21 aprile, di un poliziotto
nel corso di scontri di piazza. Il movimento e i gruppi di
sinistra aderiscono all’iniziativa, per protestare contro il
restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima
repressivo, favorito dall’appoggio esterno del PCI al cosiddetto
“governo delle astensioni” di Andreotti. Per far rispettare, a
qualsiasi costo, il divieto, il ministro dell’Interno Francesco
Cossiga schiera migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto di
guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali,
in alcuni casi travestiti da “autonomi”. Fin dal primo
pomeriggio la tensione è molto alta. A quanti difendono il
diritto di manifestare con brevi cortei e fortunose barricate, le
forze di polizia rispondono sparando candelotti lacrimogeni e
colpi di arma da fuoco. Anche numerosi fotografi, giornalisti,
passanti e il deputato Mimmo Pinto sono picchiati e maltrattati.
Pure tua madre si beccò diverse manganellate sulla testa. Ma
120
non volle andare all’ospedale. Chissà perché non ha scritto
niente di questo…». Moira si interrompe per qualche secondo.
«Forse non era così importante in confronto alla morte di
Giorgiana», faccio io per farla continuare a raccontare.
121
negare che la polizia abbia sparato, pur se smentito da vari
testimoni e dalle inequivocabili immagini di foto e filmati.
L’inchiesta per l’omicidio si concluse nel 1981 con una
sentenza di archiviazione “per essere rimasti ignoti i
responsabili del reato”. Successive indagini hanno tentato,
senza risultati significativi, di individuare gli autori dello sparo
mortale in un “autonomo” deceduto da tempo, oppure nel
latitante Andrea Ghira, uno dei tre fascisti condannati per il
massacro del Circeo».
122
specie di robocop che iniziò ad inseguirlo. Claudio corse forte
per via Comboni e mentre stava per infilarsi nel lotto 24,
s’accorse che avevano preso di mira una ragazza che
conosceva. Un attimo di esitazione e la guardia ne approfittò
per lanciargli un manganello tra le gambe. Con una smorfia
cadde a terra e subito gli furono tutti addosso. Dicono che
mentre lo portavano dentro sorrideva agli insulti che gli
piovevano addosso e più delle botte lo colpì lo sguardo di
Lucilla ammanettata vicino a lui. Quella comunque fu l’ultima
uscita del 77 per le strade di Garbatella. Il quartiere ha isolato
i teppisti provocatori, scriveva l’Unità il giorno dopo. Nemmeno
una parola sul fatto che stavamo lì perché la polizia di Cossiga
aveva ucciso Giorgiana Masi. Niente12».
123
tragedia era stata organizzata a Roma, a Ponte Garibaldi
davanti alla lapide per Giorgiana Masi. Ci siamo sdraiati per
terra con le braccia larghe, la stessa ultima posizione di Carlo.
Alle 18.17, nell’ora in cui è morto, abbiamo attraversato il
Lungotevere fino a piazza Belli dove è stata scoperta la targa
con sopra scritto: “Questa piazza è dedicata alla memoria di
due giovani stroncati dalla medesima violenza. Giorgiana Masi,
uccisa a 19 anni a Roma il 12 maggio 1977 dalla polizia di
Cossiga. Carlo Giuliani, ucciso a Genova il 20 luglio 2001, a 23
anni, dai carabinieri di Berlusconi”. Sotto, uno striscione: “Noi
siamo il mondo, non ci fermerete”.
124
carica contro i contestatori del comizio del missino Niccolai il 5
maggio del ’72 a Pisa. Franco morì due giorni dopo nel carcere
della città toscana, privo di cure, per frattura della scatola
cranica.
125
gambe. L’avevano colpito alla schiena. Poi la signora vide
l’uomo arrivare e puntare una pistola sul ragazzo sdraiato:
«Cane, bastardo, carogna... ti ammazzo». Piero fece per
coprirsi la faccia ma l’uomo “scherzava”, la pistola che gli
puntava alla tempia era scarica. Il cane scattò a vuoto
“pronunciando” il “click” tante volte letto sui giornaletti. La
donna vide l’uomo chinarsi e lo sentì dire al ragazzo: «Ma io ti
ammazzerei veramente...». L’uomo era un agente della polizia
politica, antenata della Digos. Ma Piero Bruno stava sempre
più male perché già colpito alla schiena, non poteva più
muovere le gambe. E l’emorragia interna stava facendo il suo
mestiere di complice del delitto. Era solo, in mezzo alle
“guardie” inferocite, che lo trascinavano, già ferito, più vicino
possibile all’ambasciata per mascherare un loro agguato in un
assalto da cui si sarebbero dovuti difendere. L’ambulanza,
colpevolmente in ritardo, lo portò al S. Giovanni dove sarebbe
morto il giorno dopo, piantonato. Era lui il “criminale”, lui che
s’era staccato con un gruppo di compagni di Lotta continua dal
corteo che manifestava per la giovanissima Repubblica
popolare dell’Angola. Volevano fare una fiammata sul cancello
dell’ambasciata dello Zaire, paese confinante che - in buona
compagnia del Sudafrica dell’apartheid, di Usa e Cina - armava
e pagava i mercenari che combattevano la fragile democrazia
126
popolare di Agostino Neto, poeta e presidente. L’azione di
Piero era solo dimostrativa, sarebbero tornati in corteo
abbracciati dai compagni. Una fiammata e basta, rogna
momentanea solo per chi avrebbe dovuto ripulire la scena. Ma
la polizia e i carabinieri li aspettavano, imboscati, loro con due
“bocce”, le guardie con le armi in pugno, sparò anche un
ufficiale dei carabinieri, spararono «in piedi con l’avambraccio
ad angolo retto rispetto al braccio, e da terra con
l’avambraccio verso l’alto, sempre in direzione del gruppo di
giovani» (deposizione degli agenti), spararono per ammazzare
e un giudice, un anno dopo, trovò la reazione dei militi
«commisurata all’offesa». «Irresponsabili», si scrisse sulla
sentenza di insabbiamento, furono casomai i manifestanti.
127
foto stupende (e il racconto) di Tano D’Amico, i titoli dei
giornali “normali” a scimmiottare una distanza da entrambe le
parti “in guerra”, a offrire due versioni solo apparentemente
simmetriche. Il chirurgo della rianimazione imprecò: «Mi
hanno incastrato», disse e tirò dalla finestra, a certi amici, le
chiavi della macchina. Per colpa di un diciottenne coi capelli
lunghi doveva saltare la cenetta del sabato sera. Poi aprì e
ricucì Piero. Furono attimi concitati. Tano D’Amico era lì con un
altro giovane di Lotta continua, la stessa organizzazione di
Piero. Era un architetto, figlio dell’allora segretario della Dc.
Raccontò piangendo la scena a suo padre, medico a sua volta.
Allora arrivò un’altra equipe che riuscì a estrarre i proiettili dal
corpo di Piero. Ce l’avrebbe fatta, dicevano, se solo avesse
superato lo choc di due operazioni una dopo l’altra. Troppo
anche per un corpo sano. È domenica 23 novembre ‘75.
Qualcuno disse di aver visto Piero sorridere, si disse che
avrebbe detto all’infermiera: «Ci penseranno i compagni a
vendicarmi». È da trent’anni che i suoi compagni lo vendicano.
Di Piero parlano ancora i muri della Garbatella» 13.
128
raccontare, chiarire i punti oscuri delle vicende. La nostra forza
sta proprio nella divulgazione della memoria affinché tutti
possano sapere, tutti possano valutare con consapevolezza.
129
occhi lucidi. Zia Carla, per allentare la tensione, ci propone di
andare a fare una passeggiata sulla spiaggia. Ma io non me
la sento.
130
DODICI
131
andata a trovarla. È disperata. E non so più che parole usare
per rassicurarla. Dobbiamo impedire che buttino fuori di casa
lei e il suo bambino. Dobbiamo fare qualcosa. 21 novembre
1972
132
sede di Lotta continua, allora, non era ancora la sede di Lotta
Continua. C’era sulla porta un simbolo fatto con falce e
martello e un mappamondo stilizzato fatto a fette da paralleli e
meridiani che, nell’intenzione del disegnatore dava subito
l’idea di una Internazionale di tipo nuovo» 14.
14
Claudio D’Aguanno, cit.
133
l’assegnazione della casa. Ma era una goccia nell’oceano».
134
prevalentemente con petizioni popolari, delegazioni al
Comune, presidi, occupazioni simboliche e forme di agitazione
che facessero da preambolo per discussioni e proposte di
legge sul terreno parlamentare e legislativo. Il salto qualitativo
dell’iniziativa condotta dal Comitato di Agitazione Borgate fu
appunto di aver posto con forza il problema della casa
attraverso un tipo di lotta non più delegata e dimostrativa. Le
occupazioni erano indirizzate inizialmente verso quegli
appartamenti di proprietà degli Enti Pubblici che per ragioni
speculative preferivano tenere vuoti gli alloggi piuttosto che
assegnarli ai baraccati. Anche per colpa dei conflitti con il
sindacato del Pci, l’Unia (Unione inquilini e assegnatari), il Cab
però ebbe una battuta d’arresto - per poi dissolversi come
struttura - nel momento in cui all’interno della propria strategia
cominciò ad essere praticata l’occupazione di case di proprietà
delle grandi immobiliari e con le occupazioni di case private
iniziarono anche gli sgomberi polizieschi».
135
controparte pubblica e degli stessi costruttori privati che non
avevano nessun interesse a far si che il movimento di
occupazioni riuscisse ad ottenere qualche piccolo risultato.
Soprattutto dopo che a Milano l’occupazione di via Mac Mahon
si era dimostrata vincente per i senza casa. Zia Carla dice che
di notte bussarono alla casupola del guardiano del cantiere per
comunicargli l’esproprio a favore dei proletari. «Subito dopo»,
hanno raccontato i compagni a zia, «arrivò il quarto stato:
uomini, donne, vecchi e bambini. Famiglie sfrattate che
sgranavano gli occhi: non si aspettavano case così belle.
Aspettavano da un momento all’altro l’arrivo della polizia. Che
però non si fece vedere se non al pomeriggio. Gli agenti erano
tantissimi e iniziò l’inferno. Le barricate vennero date alle
fiamme, le nuvole dei lacrimogeni coprivano l’intera zona. Molti
riuscirono a scappare, ma tanti compagni vennero picchiati e
arrestati».
136
come legittima controparte, l’Unia riuscì a strappare una
fantomatica promessa di requisizione di 6.000 appartamenti,
da assegnarsi entro la fine dello stesso anno. Gli alloggi
promessi non furono mai requisiti, né tanto meno acquisiti dal
Comune. Ne furono assegnati solo 150. Alla prova dei risultati
la mobilitazione dell’Unia si rivelò una bolla di sapone.
137
sensibilizzare l’opinione pubblica sugli svariati abusi edilizi
condotti dalle immobiliari ai danni del quartiere. A queste si
aggiunsero denuncie sulle complicità del Comune che aveva
favorito l’abusivismo edilizio e le speculazioni dei costruttori.
L’intervento della magistratura dimostrò l’illegalità delle licenze
edilizie rilasciate dalle autorità comunali, nonché evidentissimi
abusi. La mancanza di impianti idrici, di reti fognarie, il non
rispetto dei vincoli imposti dalla legge, insieme ad altre
numerosissime inadempienze, portarono all’incriminazione di
132 persone tra professionisti, assessori comunali e
dipendenti15.
138
La giornata è trascorsa in un susseguirsi di tregue accordate
dalla polizia a Lotta Continua, che gestisce l’occupazione, per
dare spazio a quella che si è poi dimostrata una trattativa-
truffa, con l’unico scopo di prendere tempo e snervare il forte
schieramento proletario. La delegazione è rientrata a San
Basilio con un accordo di sospensione degli sfratti fino a lunedì
mattina. Nonostante questo, i poliziotti sono entrati lo stesso
nelle case occupate intimidendo le famiglie e compiendo ad
atti di vandalismo. Sono ripresi gli scontri. Fabrizio, un
militante del Comitato Proletario di Tivoli, è stato ucciso. Lo
hanno caricato su un taxi, ma è arrivato all’ospedale già
morto. La notizia in poco tempo ha fatto il giro del quartiere e
tutti sono scesi in piazza. La rabbia è esplosa in modo
violento. I pali dei lampioni sono stati divelti e le strade sono
rimaste al buio. Questa volta è la polizia ad essere presa di
mira da colpi di arma da fuoco sparati in strada e dalle case.
Otto guardie, tra i quali un capitano, sono rimasti feriti, alcuni
in modo grave. Ci sono stati scontri fino a tarda notte 16.
16
Il giorno 16 di Andrea Scaloni su http://scaloni.it
139
Con il 1974 il movimento riuscì ad occupare circa 3.800
appartamenti. Ma tutte le prime occupazioni vennero
sgomberate dalla polizia in modo violento provocando spesso
incidenti che si estesero nei quartieri. A Casalbruciato vennero
addirittura arrestate 20 donne. A Pietralata venne arrestata
una signora che durante lo sgombero aveva minacciato di
gettarsi dal quinto piano. Tutte queste occupazioni erano
indirizzate verso le costruzioni di proprietà di palazzinari, molti
dei quali facevano parte dell’Associazione Costruttori Edili
Romani (Acer) che aveva gestito fino a quel momento la
speculazione edilizia e la stessa politica urbanistica della città.
Altri proprietari erano le imprese immobiliari legate al gruppo
Fiat, alla Banca Nazionale del Lavoro e a varie società
assicurative. L’estendersi ed il radicarsi delle occupazioni portò
ad un irrigidimento dell’Acer, la quale non accontentandosi
della forze dell’ordine e della stessa campagna stampa contro
il movimento (tra l’altro condotta da tutti i quotidiani), assoldò
delle squadre di mazzieri spalleggiate da picchiatori fascisti a
difesa degli stabili occupati. La risposta degli occupanti non si
fece attendere: dopo numerose provocazioni e duri scontri,
venne assaltata con un lancio di sassi la sede dell’Acer. E
nonostante le intimidazioni dei costruttori, le occupazioni
ripresero in tutta Roma. Ai costruttori non restò allora che
140
attuare una serrata dei cantieri e chiedere l’arresto di
occupanti e organizzatori. Il Governo nello stesso periodo
istituì un battaglione celere speciale contro le lotte per la casa
a Roma. Al Portuense vennero comunque occupati altri 170
appartamenti, 13 alla Garbatella, 98 al Tuscolano, più di 300 al
Prenestino e sulla Cassia, 90 a Guidonia. A Montesacro venne
occupato l’edificio dell’ex Gil. Ma durò poco. Gli appartamenti
vennero sgomberati, insieme ad altri 350 occupati nei dintorni
di Roma.
141
rimaste isolate tra di loro, ed uno dei pochi momenti comuni fu
costituito da una grande manifestazione in Campidoglio per la
liberazione degli occupanti arrestati, che portò in piazza circa
10.000 persone. La posizione del Pci nei confronti del
movimento di lotta per la casa contribuì a determinare il
fallimento delle occupazioni che vennero definite
“avventuriste” e “indiscriminate”, legate più che altro ad una
“strategia della disperazione”.
142
TREDICI
143
Casilino per farmi controllare. Il ginecologo di guardia si
sarebbe metterà in contatto con lui. Il tempo di vestirci e
siamo corsi via verso la Casilina.
145
principessa.
23 agosto 1970
146
pensa solo a se stesso.
Amore mio, oggi sei partita con nonna Anna per andare in
campagna. Sono passate solo poche ore e già mi manchi. So
147
che lì sei felice, ti piace giocare con gli animali, ti piace
arrampicarti sugli alberi e coltivare quel metroquadro di orto
che nonna ti ha affidato. Ma mi manchi. Già penso a questa
sera quando tornerò a casa e non ti vedrò correre per le scale
per abbracciarmi e la tristezza mi assale. Ti voglio bene,
amore mio. Sei la mia stella, quella che mi guida ogni giorno
della mia vita. Mi rimproveri perché sono poco presente, ma ti
assicuro che ogni momento delle mie giornate sono dedicate a
te. Anche quando vado alle manifestazioni, anche quando
scrivo lo faccio perché spero che il mondo in cui vivrai sia
diverso. Voglio fare la mia parte perché il futuro sia per te
quello che adesso possiamo solo sognare: un futuro d’amore,
di pace, di gioia. Un futuro dove tutti abbiano gli stessi diritti e
siano felici. Ti amo, Sole. Di un amore che non riesco a
descrivere a parole, ma che mi riempie la testa, il cuore, lo
stomaco.
148
Voglio gustarmi queste parole come i cucchiai pieni di nocciola
che mi metto in bocca.
149
È vero che non ho nessun diritto di chiederti spiegazioni. Sei
un uomo libero, amore mio. Libero di stare con chi vuoi, libero
di dimenticarti di me. Da parte mia, però, devo imparare, a
perdonare perché solo così sarò libera. Libera di amare anche
chi non mi ama più.
150
quello che in cui credo. Ma le parole amore, rispetto,
sembrano non appartenere più a me. Vorrei farti soffrire
quanto soffro io. Mi immagino situazioni nelle quali riesco a
vendicarmi. Forse tutto questo non succederà più, ma adesso
mi serve per reagire.
151
Vorrei trasferirmi con Sole e Luca qui, a Ventotene. Non so
spiegarmi perché quest’isola mi attragga tanto. Il mare, il sole,
la natura, l’archeologia da sole non bastano a spiegare il
pungente senso di mancanza che si impadroniscono di me non
appena il traghetto mi porta via da qui. Ventotene è un
sentimento sottile e profondo che si insinua dentro goccia a
goccia, che inebria, che esercita una dipendenza e rende
impossibile il distacco definitivo. Perché? Ci penso sempre e mi
sono convinta che dipende dall’energia spirituale di coloro che
l’hanno vissuta in epoche passate. Un’energia che allontana la
fretta, che induce a un dolce oblio, ad un’indolenza metafisica.
Un’energia che produce assuefazione e ti costringe a vivere
secondo i ritmi naturali, o meglio secondo natura. Qui non
esistono barriere sociali o culturali, perché ognuno ha bisogno
dell’altro e del lavoro che svolge. Si realizza così un’osmosi e
tutti hanno un ruolo utile e insostituibile.
152
del regime, come Sandro Pertini, Umberto Terracini, Giorgio
Amendola, Sante Pollastri, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro,
Giuseppe Romita, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. Luogo di
pena, di dolore, di redenzione, mi sembra di sentire la
disperazione di quegli ergastolani che Settembrini descrive
nelle sue “ricordanze di vita”. Uomini chiusi in quella fortezza
borbonica da quindici, da venti, da trent’anni; dimentichi del
mondo, dimenticati da tutti. Che hanno presenti alla loro
mente i lunghi anni della loro prigionia, come fossero un
giorno solo. Il tempo non è scorso per essi. Ti parlano di cose
vecchie ed obliate come se fossero recenti: credono che il
mondo stia al punto che essi lasciarono. I vapori, le strade
ferrate, i nuovi trovati delle arti sono ignoti a molti, che li
credono burle che ad essi si vorrebbero fare: parlano come se
parlasse un uomo morto da trent’anni. Mi sembra di vedere
quelle facce aspramente scolpite, angolose, rugose, triste,
cineree; quegli occhi incerti; quei sorrisi rari e sinistri; quelle
vesti strane. Mi sembra di sentire quelle parole aspre,
fendenti, strascicanti, avvolte, stridenti, di tutti i dialetti
d’Italia, di cui scrive Settembrini.
153
lui per quanto è bravo e bello in scena, lo incita ad andare
avanti prevedendo per lui una carriera piena di successo. Ma
anche pensieri che mi mettono in imbarazzo, perché in
qualche modo confermano quello che sostiene zia Moira e cioè
che Daniele faceva soffrire mamma.
Sei sparito senza dirmi una parola. Non hai avuto neanche il
coraggio di dirmi addio. E io, invece che odiarti, continuo a
vederti in ogni uomo che incontro. Mi si ferma il cuore e
riprende a battere solo quando mi accorgo che mi sono
sbagliata. In ogni luogo c’è qualcosa che mi ricorda di te e
all’improvviso la tristezza prende il sopravvento e devo
andarmene per non morire dentro.
Fai di tutto per essere sfuggente. Ogni volta c’è una scusa.
Ogni volta ci sono silenzi se ti chiedo di parlare dei tuoi
sentimenti, di quello che provi, di quello che vuoi. Ogni volta
trovi il modo per farmi sentire un’estranea. Ma se è questo
quello sono, perché Daniele non me lo dici chiaramente?
Soffrirò, ma alla fine me ne farò una ragione e smetterò di
interrogarmi su cosa c’è in me che non va.
155
segreti che finora hai avuto sotto gli occhi senza vederli.
Quando l’incantesimo si romperà scivolerai giù da quel lucido
piedistallo sul quale è così difficile rilassarti e cadrai in un
posto assurdo dove sarai libero di provare sentimenti di cui hai
paura. Quando l’incantesimo si romperà io sarò lì con te.
156
dai conflitti interiori ed esterni, mi rende fiduciosa e ottimista
che domani sarà migliore. E quante più persone amo, tanto
più mi sento appagata. Ecco perché non ho il minimo
problema ad ammettere che amo te Daniele, ma anche Luca,
Moira. Vi amo, ho voglia di stare con voi, di essere
abbracciata, di essere baciata, di essere parte della vostra
vita. Di diverso c’è solo l’amore che voi date a me. E spesso
quello che ricevo non è all’altezza delle aspettative. Questo mi
far star male.
157
d’amore e d’amicizia.
---
Nel diario. Ci sono poi due pensieri che non riesco a capire.
158
Daniele? Ma allora che cosa c’entra l’omosessualità? O forse
parla di papà, dal momento che lo chiama in causa in
quest’altra annotazione scritta di seguito.
159
zitta. Non ha chiesto neanche scusa per tutto questo casino. A
mamma momenti le viene un colpo. Che cavolo stai
combinando? Perché non permetti che io ti aiuti?
160
Mi sento soffocare. Mi sembra di non avere via d’uscita. La
sensazione è quella che deve provare un carcerato chiuso
nella prigione che lui stesso si è costruito. E non c’è nessuno
disposto ad aiutarlo per evadere. Mi sento sola. Luca: l’ho
definitivamente perso e il dolore si è impadronito della mia
esistenza. Daniele: non posso chiedergli nulla e non mi darà
mai nulla. Lo so. Carla: è sfuggente. Ma la colpa è la mia. Non
gli ho mai fatto capire quanto le voglio bene. Moira è così. So
che quello che dice è per il mio bene, ma non si rende conto
che in tanti momenti sarebbe meglio non affondare il coltello
nella ferita. Devo rinunciare ad essere felice? Soltanto Sole
potrà liberarmi da questo terribile sortilegio.
«Certo, Sole mio», promette zia Moira, «adesso però vieni qui
a farti fare un po’ di coccole. Come quando eri piccola».
162
QUATTORDICI
Oggi arriva papà. Non vedo l’ora di fargli leggere quello che
mamma ha scritto su di lui. Ci sono tante cose che devo
chiedergli, e tante cose da farmi raccontare. Il mare è mosso,
sbatte contro Santo Stefano, ma c’è il sole. Spero tanto che
l’aliscafo parta ugualmente da Formia. Ho bisogno di lui, più di
quanto glielo abbia mai detto. Giro e mi rigiro nel letto
aspettando che si facciano le sette.
163
«Colazione da Verde», propone salutando le zie.
«Non c’è niente di sconvolgente nei diari, niente che possa far
pensare a un incidente provocato», s’intromette zia Carla. «Ci
sono appunti, riflessioni, ma soprattutto tanti articoli di giornali
ritagliati. Nessuna verità inconfessata o inconfessabile».
164
cattiva. Papà, mi prende la mano come per rassicurarmi.
«Moira, io la amavo e continuerò a farlo a prescindere da
quello che c’è scritto là dentro. Quello che mi interessa sono le
ultime pagine. Ricordo che stava diventando ossessionata,
quasi paranoica, su tutto ciò che riguardava le Brigate rosse».
166
zie indaffarate in cucina a preparare il pranzo.
Tre giorni sono passati senza che nessuno abbia tirato in ballo
i diari o ne abbia parlato. Almeno davanti a me. Di questo
devo essergliene grata. Non avevo nessuna voglia di vederli
litigare tra loro, né sentirli rinfacciarsi questa o quella cosa, e
neppure di vantarsi del rapporto che ciascuno aveva con
mamma. Per fortuna le zie oggi mi hanno detto che partono.
L’idea è di zia Carla. Pensa che sia meglio se rimango un po’
da sola con papà. Zia Moira all’inizio ha sbraitato, ma poi si è
convinta che era la cosa giusta.
167
QUINDICI
«Ma, io non sono nessuno, papà. Sono tua figlia. Stai male?
Hai litigato con tua moglie? Hai problemi finanziari? Ti prego,
papà, rispondimi. Mi stai mettendo paura».
168
belle, curate come sempre, per dargli coraggio. «Niente di
quello che mi dirai potrà mai impedirmi di amarti. Niente e
nessuno potrà separarci, papà», dico per rincuorarlo. Ma papà
continua a stare zitto e a guardarmi, come se volesse essere
sicuro di quello che sta facendo. Vuole convincersi che tutto
rimarrà uguale dopo la sua confessione, anche se sa
perfettamente che non sarà così.
Sto sognando. No. Non può essere vero. Il mio papà non
c’entra nulla con la lotta armata, gli omicidi, i sequestri, gli
attentati. «Ma che stai dicendo?».
170
processo del ‘96 uno dei testimoni presenti in via Fani quella
mattina ha ripetuto che il parabrezza del suo motorino fu
colpito da una raffica di mitra sparata dal motociclista seduto
alle spalle del conducente di una moto Honda di grossa
cilindrata. L’Honda fu notata anche da un agente di polizia che
si trovava casualmente, e in borghese, in via Fani».
171
riflettere in due su un determinato argomento potesse essere
molto più proficuo».
172
riflettesse con se stesso. «C’è qualcuno che non vuole che
certe cose vengano fuori. Come spiegarsi altrimenti la mia
estraneità a tutti i processi, alle inchieste, e perfino alle
supposizioni dei giornalisti…»
173
anche ora. Ho bisogno di essere forte perché non so più chi è
quell’uomo che sta lì in cucina. Come ha potuto mio padre
passare la sua vita conservando un segreto così grande? Come
ha potuto sopravvivere al dolore immenso che ha provocato la
morte di mia madre sposandosi con un'altra? È un mostro.
174
è più la stessa… in cose così marginali… Il problema del
numero dei partecipanti non è certo secondario, visto che c’è il
sospetto di partecipazioni “esterne”. Inoltre ci sono ben tre
testimoni che parlano di una moto Honda presente sul luogo
della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni,
l’ingegner Alessandro Marini, che arrivava sul suo motorino, si
era visto addirittura sparare una raffica di mitra contro,
dall’uomo seduto sul sellino posteriore della Honda. I brigatisti
però negano, tutti: non c’era nessuna moto, in via Fani».
175
sicurezza ma anche in funzione del traffico o di impegni
improvvisi. In Commissione d’inchiesta Eleonora Moro, vedova
del presidente democristiano, dirà anzi che negli ultimi tempi
Moro e la scorta «si angosciavano enormemente su queste
cose e, quindi, cercavano nei limiti del possibile di cambiare i
percorsi tutti i giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare
in qualche modo cambiamenti degli orari se era possibile».
L’elementare, cruciale domanda che ne deriva è dunque:
«come potevano essere le Brigate Rosse così sicure che quel
giorno, a quell’ora in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe
passato?» Eppure, l’agguato era stato pianificato con
ragionevole certezza proprio il 16 marzo e proprio in via Fani:
Quella mattina, alla Camera dei Deputati, era previsto il
dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti, detto di
“solidarietà nazionale”, della cui nascita Aldo Moro era il
massimo artefice. Per la prima volta dal 1947, il governo
poteva contare sui voti determinanti del Partito Comunista.
Tale concomitanza difficilmente può essere considerata un
caso.
176
“vandali” volevano evidentemente evitare intralci all’azione
prevista la mattina seguente.
177
intuisce la trappola e cerca ripetutamente di fare marcia-avanti
e marcia-indietro per guadagnare un varco su via Stresa, ma è
troppo tardi. Il capo del commando, Mario Moretti, scende
dalla 128 e comincia a far fuoco sulla 130;
contemporaneamente, la 130 e l’Alfetta sono investite dal
fuoco di fucili mitragliatori di almeno 4 uomini travestiti da
piloti che sbucano dalle siepi del palazzo di fronte. Poi, con
una calma quasi surreale visto quello che è appena successo,
Aldo Moro viene prelevato dalla 130 e fatto salire su una 132
che si allontana preceduta e seguita da due 128.
178
armi usate nell’operazione: chi esplose da solo quei 49 colpi?
Gli sparatori, che si suppone si conoscessero tra loro,
indossavano divise da piloti civili. I brigatisti diranno di esser
ricorsi al travestimento per non dare nell’occhio, in quanto
nella zona di via Fani abitavano parecchi piloti
dell’Alitalia. L’accorgimento però sembra quantomeno
singolare: nel momento della fuga le divise sarebbero
diventate pericolosi segni di riconoscimento. Allora perché
rendersi così riconoscibili? Forse perché non tutti i brigatisti si
conoscevano tra loro?
179
Fani, il primo trasbordo del sequestrato in un furgone, il
secondo trasbordo in un’altra auto e infine l’arrivo al covo-
prigione di via Montalcini 8 alla Magliana, a trenta chilometri
dal luogo della strage, dove Moro sarebbe stato tenuto per
tutti i 55 giorni del sequestro. Ancor più incredibile è la
beffarda modalità di ritrovamento delle tre macchine usate per
la fuga. Furono trovate “a rate”, il 16, il 17 e il 19 marzo, in via
Licinio Calvo, alla Balduina, non lontano da via Fani. Difficile
pensare che chi le abbandonò fosse disposto ad avventurarsi
per Roma con automobili segnalatissime e ricercatissime: forse
poteva contare su una base logistica mai individuata nei
dintorni?
180
Quella mattina, verso le 9, il carrozziere Gherardo Nucci fece
un salto a casa, in via Fani 109, a prendere la macchina
fotografica: doveva mandare alle compagnie assicurative le
foto di alcune automobili da riparare. Subito dopo la strage e
prima ancora dell’arrivo di polizia e ambulanze, dal suo
balcone Nucci riuscì a scattare alcune foto della scena della
strage. L’indomani la moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA,
consegnò il rullino al magistrato inquirente Luciano Infelisi. Le
foto sparirono: non se ne seppe più nulla?».
181
SEDICI
182
di mamma sono di nuovo al loro posto, sulla scrivania. Li
prendo e mi rimetto nel letto. Cerco la data del 16 marzo.
183
diceva la gente sul posto. Una signora, che aveva seguito le
fasi finali dell’agguato mi ha raccontato che Moro camminava
al fianco di un giovane, ma tranquillamente, non in modo
concitato; che era stato caricato in una 128 blu scuro che è
scomparsa verso via Trionfale. Qualcuno parla di due terroristi
a bordo di una moto. Qualcun altro dice di aver sentito parlare
una lingua straniera. Forse il tedesco. Mi hanno segnalato dei
guasti alla linea telefonica in tutta la via e dintorni. Per il resto
c’è in giro una gran paura. Quando sono tornata al giornale mi
hanno detto che l’altro agente della scorta dell’onorevole
Moro, Francesco Zizzi, è morto al Gemelli. E che le Brigate
Rosse hanno rivendicato il sequestro».
184
marzo il genio di Roma onora Cesare 44 a.C.-1978 d.C.”.
Proprio le idi di marzo del 1978 il governo Andreotti presta il
suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo
attendere Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio,
amico di Cesare? Se le cose andranno così ci sarà anche una
nuova Filippi?». Che vuol dire? Ciccio l’ha interpretata così.
Aldo Moro come Cesare. Aldo Moro viene rapito proprio
mentre si sta recando a tenere un discorso alle Camere…
proprio come Giulio Cesare che si era recato in Senato.
185
"Nuovo mondo d’oggi" pubblicò un articolo nel quale veniva
riportata la testimonianza di un certo Roberto Podestà, che
raccontò come nell’estate del 1964 era stato incaricato, in
caso di attuazione del “Piano Solo”, di guidare il commando
che avrebbe dovuto rapire e uccidere l’onorevole Aldo Moro
addossando le responsabilità agli uomini della sinistra. Nel
1968 la pubblicazione "Il Bagaglino", vicina alle posizioni della
destra, per celebrare il primo anno di attività della compagnia
romana di avanspettacolo, aveva divulgato un articolo nel
quale l’autore Pier Francesco Pingitore aveva descritto il
tragitto mattutino del presidente del consiglio Aldo Moro
citando anche via Fani e ponendosi una serie di domande del
tipo: la vita del presidente Moro è al sicuro? È ben vigilata la
sua incolumità personale? Vengono adottate tutte le misure
necessarie a preservare la sua persona da possibili attentati?
186
tamponamento violento tra la 128 bianca e la 130 blu; uno
sguardo alle foto pubblicate sui giornali e ai filmati che
stanno mandando in onda in questi giorni permette di vedere
che i paraurti delle due auto sono perfettamente intatti, e che
sull’asfalto non vi è alcuna traccia di frenata. Poi, stando
all’autopsia effettuata sui corpi dell’autista della 130 blu del
presidente Moro e del caposcorta Leonardi che gli sedeva a
fianco (sulla Fiat 130 blu c’erano l’autista e il caposcorta
davanti, e Moro da solo dietro), entrambi sono stati uccisi da
colpi che provenivano da dietro e che li hanno “attinti”, come
si dice in gergo, alla schiena. A entrambi è stato poi sparato
alla testa un colpo di grazia. Ciò significa che gli occupanti
della 128, che precedeva la 130, sono scesi ognuno dal
proprio lato, si sono diretti verso la 130, sono giunti all’altezza
delle portiere posteriori, si sono girati e hanno fatto fuoco
verso i due occupanti i sedili anteriori, colpendoli alla schiena
con un tiro incidente di circa 45 gradi diretto in avanti, la sola
modalità che desse la certezza assoluta di non colpire Moro e
di non colpirsi a vicenda (visto che sparavano da entrambi i
lati della vettura).
187
integrante del corteo delle auto di Moro. Qualcuno potrebbe
aver comunicato a Leonardi che, quella mattina, un’auto
civetta della polizia (“la riconoscerete facilmente, ha targa
CD”) si sarebbe unita al corteo lungo il tragitto e li avrebbe
guidati lungo un percorso sicuro (così si spiegano la scelta
altrimenti cervellotica di usare una targa diplomatica, che
sembra fatta apposta per attirare l’attenzione, e la certezza
matematica del commando che Moro sarebbe transitato
proprio in via Fani). Questo “qualcuno”, ovviamente, non
poteva che essere un funzionario di grado sufficientemente
elevato da potersi permettere di dare indicazioni al caposcorta
del Presidente. A questo punto azzardo una ricostruzione della
scena: la 128 si ferma allo stop e, ordinatamente, frenano e si
fermano anche la 130 e l’Alfetta bianca con i 3 poliziotti a
bordo. L’uomo e la donna scendono e si avviano
tranquillamente verso la 130; Leonardi non ha nulla da
temere, i due, per quel che ne sa, sono poliziotti (può anche
essere che fosse stato comunicato a Leonardi la necessità di
trasferire Moro sulla 128 per maggiore sicurezza, data la
delicatezza e la tensione di quel giorno). Una volta giunti
all’altezza delle portiere posteriori, con Moro forse pronto a
scendere non appena i due gli avessero aperto la portiera,
accade l’incredibile: i due finti poliziotti estraggono armi corte
188
e con due brevi raffiche quasi a bruciapelo uccidono i due
carabinieri. È solo a questo punto che sbucano fuori, gli altri
terroristi, magari camuffati con quei berretti da aviere corrono
verso l’Alfetta e sparano senza alcuna remora lunghe raffiche
dal lato sinistro, tanto a bordo ci sono solo poliziotti e Moro è
già inerme. Il famoso super-killer, poi, come riportato dai
testimoni, fa un balzo per portarsi quasi dietro l’Alfetta, in
modo da colpire l’unico poliziotto che è riuscito a reagire ed è
sceso dal lato destro. Verrà infatti ucciso da una raffica alla
schiena. Ciccio dice che le modalità dell’azione sono la
fotocopia del sequestro Schleyer del 1977. Dobbiamo
controllare».
In effetti Moro non ha mai parlato nelle sue lettere della scorta
uccisa. Parla di prelevamento lamentandosi nel contempo che,
per motivi economici, non ha potuto avere una scorta migliore
che lo proteggesse. Volto pagina e trovo un altro articolo di “A”
firmato da Luciano Lanza. «Fino a ieri», c’è scritto, «c’eravamo
cullati in una illusione: scrivere su un giornale anarchico è un
atto libero, non condizionato dal potere, anzi contro il potere e
la sua logica. Oggi invece siamo costretti a "prendere
posizione" sul rapimento di Aldo Moro, perché i mezzi di
(dis)informazione trattano prioritariamente questo argomento.
Diciamocelo francamente, se non fosse per l’ossessionante
189
campagna, non troveremmo così importante occuparci di un
democristiano privato della sua libertà o di cinque poliziotti che
hanno perso la vita, considerate le migliaia e migliaia di reclusi
e l’ancor più lunga sequela di morti sul lavoro o di uccisi da un
"poliziotto che inciampava". Invece siamo costretti a scrivere
su di un fatto che si svolge all'interno di un conflitto tra B.R. e
classe oggi dominante senza nessun coinvolgimento effettivo
degli sfruttati17.
17
L'articolo di Lanza segue così: "I due poli dello scontro, infatti, non desiderano per nessuna
ragione una partecipazione attiva delle masse, ma ciascuno, con i mezzi che ha, ricerca il consenso
o la legittimazione per il ruolo direttivo che vorrebbe svolgere o che svolge sulla società. Se per la
D.C. e per gli altri partiti questo è assiomatico, per quanto concerne le B.R. potrebbe sembrare,
quantomeno, azzardato. Non è così. Le stesse B.R. hanno a più riprese spiegato che le loro
iniziative non devono essere considerate "azioni esemplari" cioè azioni compiute, sì da una
minoranza, ma che vuole indicare alla maggioranza degli sfruttati le vie per la loro liberazione e
che essi stessi dovranno portare avanti in prima persona. Si tratta invece di azioni facenti parte di
una strategia che mira a mettere in crisi lo "stato borghese" o in termini più aggiornati lo "stato
imperialista delle multinazionali" per accelerare l'evento rivoluzionario che permetta di instaurare
una società diretta dallo "stato operaio", di cui le B.R. sono la prefigurazione armata e partitica.
Inquadrata schematicamente la meccanica della strategia delle B.R., dovrebbe risultare più
semplice adottare valutazioni di merito, anche se prevediamo che già molti saranno insorti per la
sbrigativa liquidazione dei "compagni delle B.R.". Ma il sentimentalismo gioca spesso brutti tiri e,
fatte le debite e importanti distinzioni, le B.R. ci sono estranee come tutti gli aspiranti al potere.
Questa estraneità, comunque, ci è d'ausilio e non di ostacolo per valutare l'enorme capacità di
coinvolgimento dei mass-media. L'obiettivo esplicito era ed è isolare ancora di più le B.R. dai suoi
sostenitori esterni e dalla popolazione in generale. I notiziari martellanti, le foto dei morti, le
interviste ai politici e ai passanti, le "considerazioni" degli intellettuali, la reinvenzione della guerra
partigiana ad uso e consumo del "cittadino 1978" partecipe dello "stato democratico nato dalla
resistenza", le tavole rotonde... in definitiva un enorme apparato si è mosso in sincronia: tutto
doveva essere utilizzato per creare artificialmente un clima di tensione. Un esempio di come si
siano mossi i gestori dell'informazione ci è dato dal completo stravolgimento delle dichiarazioni
190
DICIASSETTE
rilasciate al Congresso delle Federazioni Anarchiche a Carrara e al Convegno di Studi su "I Nuovi
Padroni" a Venezia. Poco importava la denuncia fatta dai compagni del terrorismo dello stato,
gestore legalizzato e istituzionale della violenza, di fronte alla quale quella delle B.R. è ben poca
cosa. L'ordine di scuderia era condannare le B.R. e così si sono capovolti i significati per utilizzare
perfino gli anarchici in questa "crociata antiterrorismo". Una crociata che ha visto nel P.C.I. e nei
sindacati uno dei sostegni più significativi. I sindacati hanno messo sul piatto della bilancia tutto il
loro prestigio per creare una vasta mobilitazione popolare. Centinaia di migliaia di lavoratori sono
scesi in piazza, sono ricomparsi gli striscioni democristiani, tutti uniti, tutti insieme a difendere le
istituzioni. E l'immagine non viene certo contraddetta dalle frange dissenzienti che comunque
hanno dovuto entrare nella logica di quello sciopero e di quello spettacolo, così chiaramente
qualificato, per esprimere la propria diversa identità. Il P.C.I. poi ha colto l'occasione (portavoce il
solito Pecchioli) per scatenare la caccia alle streghe che si nascondono nelle fabbriche. Pecchioli è
stato esplicito: bisogna eliminare dalle fabbriche i sostenitori dei brigatisti. Una dichiarazione
gravissima che si tradurrebbe, se attuata, in numerosi licenziamenti per "sterilizzare" i centri della
produzione e del lavoro da tutte quelle voci di opposizione e di dissenso al patto sociale e
all'egemonia comunista. Si vuole ghettizzare ancora di più le forze rivoluzionarie. La strategia del
P.C.I., unita alla sua capacità di mobilitazione, è un elemento che troppo spesso viene
sottovalutato, perché se il boicottaggio della C.G.I.L. allo sciopero indetto dopo l'assassinio dei
compagni Iannucci e Tinelli non è passato, lo si deve in buona parte anche al dissidio sorto tra la
U.I.L. e la C.I.S.L. e non solo alla capacità di azione autonoma degli operai. Resta comunque il
fatto che l'attacco contro tutta l'estrema-sinistra-non-ragionevole procede e si sviluppa secondo
tempi e modalità determinate dal Partito Comunista che utilizza tutti gli avvenimenti per questo
suo fine, tutt'altro che secondario. A questo punto si impone una riflessione che, pur partendo da
tutti questi eventi, assume connotazioni più generali: il problema della comunicazione. Il divario di
possibilità tra i mezzi che il potere può utilizzare e quelli dei gruppi rivoluzionari si è accresciuto a
dismisura. I mass-media creano le notizie e l'opinione, tutto quanto non rientra nella logica del
sistema viene ignorato o stravolto. L'azione dei gruppi rivoluzionari incontra così un ostacolo
ancora più forte, che, unito alla povertà dei mezzi alternativi utilizzati, rende quasi inintelligibile il
191
Non faccio in tempo a continuare i miei pensieri che mio padre
piomba nella stanza già pronto per uscire. Mi infilo una
maglietta pulita sopra i pantaloni di lino, metto il diario che
stavo leggendo nella borsa. «Un attimo solo, cerco una felpa»,
dico rassegnata già immaginando la faticaccia che dovrò fare
per ritornare su dalle scalette di Parata Grande.
192
Giulia. Ci piaceva aspettare il temporale da quel punto estremo
dell’isola. Ci piaceva vedere il mare mosso che s’infrangeva
sulla costa. Contavamo i gabbiani sfaticati che sfruttavano le
raffiche di vento per volare verso Santo Stefano. Godevamo di
quel buon profumo che Eolo da bravo alchimista s’era
inventato: un’essenza mista di salsedine, iodio, ginestre che
spargeva nell’aria.
«Che idea ti sei fatta?», chiede papà dopo un bel po’ che se
n’è stato in silenzio, in contemplazione dell’orizzonte.
Non aspettavo altro. «Che importa quello che penso io? Voglio
sapere da te la verità».
193
«A me interessi tu, papà, non gli altri. Io voglio capire cosa ti è
successo, perché ti sei lasciato coinvolgere da quella follia
collettiva che era la lotta armata. Cosa pensavi di ottenere»,
insisto cercando di fargli capire che non ho nessuna intenzione
di giudicarlo.
194
un altro uomo rispetto all’idea che ci eravamo fatti di lui. Mi
sembrava diverso da quello che parlava ai comizi o a
Montecitorio. Quale dei due era il vero Presidente? Nel dubbio
pensavo che si dovesse salvare. Dovevamo salvarlo. Anche lui
ce lo chiedeva. Diceva che ucciderlo sarebbe stata una
sciocchezza, che saremmo caduti nella trappola che la Dc e il
Pci ci avevano teso. Loro sì che avevano più di un motivo per
farlo fuori. Noi?».
195
«Abbiamo fatto tutto da soli nella speranza di innescare una
rivoluzione in Italia. L’indubbio successo militare del nostro
attacco fu dovuto all’effetto sorpresa e all’impreparazione degli
apparati repressivi di fronte a una tale, inaudita emergenza.
Insomma, non ci fu alcun “grande vecchio” a gestire
nell’ombra il sequestro. Sergio Flamigni insiste sui poteri
occulti interessati a pilotare le Br, sino al tragico epilogo. Forse
non tutto è così chiaro, forse ci fu qualche infiltrato
nell’organizzazione, forse ci furono trattative mai venute alla
luce, soprattutto per recuperare le carte del prigioniero, forse
la sera del 9 maggio ‘78 molti nemici del Presidente non
versarono troppe lacrime per il suo assassinio. Ma per quello
che ne so io, abbiamo fatto tutto da soli. Le grandi narrazioni
sono senz’altro più fascinose e seducenti dei fatti illuminati
dalla loro cruda nudità. E la verità non è quasi mai all’altezza
delle nostre aspettative».
196
Un mese dopo via Fani, erano tanti quelli che condannavano
l’accaduto, ma allo stesso modo non erano neppure pochi
quelli che pensavano e sostenevano più o meno apertamente
che le Brigate Rosse avevano ottenuto uno strepitoso
successo. Io non vivevo in clandestinità e sentivo quello che la
gente diceva. Tua madre sosteneva che le Br avrebbero vinto
se avessero lasciato andare il Presidente. Ne ero convinto
anche io: la sua esecuzione fu la nostra sconfitta. Sino al
giorno prima, la possibilità che una guerra civile fosse alle
porte era tutt’altro che improbabile. L’esecuzione a sangue
freddo di un prigioniero ci fece perdere in un attimo quelle
incontestabili e più o meno silenziose simpatie che ci eravamo
conquistati anche nell’ambiente dei lavoratori: eravamo
rivoluzionari che combattevano lo Stato Padrone».
197
rientrando nella loro logica la stessa determinazione di
eseguire la sentenza anche se dopo un aspro scontro interno.
Escludo quindi che fossimo state eterodirette e che vi sia stato
un Grande Vecchio. Ciò malgrado sono convinto, come
moltissimi altri e di me più autorevoli, che sulla vicenda Moro
si addensino zone di opacità che devono essere chiarite. Ma la
storia non cambierebbe».
198
compromesso storico».
199
Aveva occupato scuole e Università, cacciato Lama, ingaggiato
guerriglie lunghe un anno, aveva preso possesso di città
sonnolenti, liberato energie creative fatte di onde radio, fogli
ribelli, immaginazione antagonista, progettualità e decreti sulla
“fine del regime del lavoro”.
200
papà.
201
«Dopo la cacciata di Lama dall’università il Pci ci ha
pubblicamente condannato». Papà si sente in dovere di
giustificarsi. «Ci siamo sentiti traditi. Una parte dell’ala dura
degli autonomi decise che era giunta l’ora di “alzare il livello
dello scontro”, ossia di passare alla lotta armata. Da allora
l’Autonomia si è avvicinata alle posizioni dei gruppi terroristici
che si stavano formando. Molti entrarono in clandestinità,
alcuni entrarono nelle Br, tanti altri nei NAP che agivano
all’interno delle carceri, dove molti autonomi furono rinchiusi».
«Lei viveva in un mondo tutto suo. Diceva che una volta preso
il potere anche i rivoluzionari cessano di essere tali per
diventare amministratori. L’ho letto pure da qualche parte sul
diario». Riesce subito a trovare la pagina alla quale si
riferisce.
202
nuova sarà formata da coscienze capaci di autogoverno
interiore e sociale in cui non avranno più posto gerarchie,
autoritarismi, violenze. Se solo questo ottimismo, questa
fiducia fosse anche quella dei terroristi…
203
visto mostre che hanno fatto storia. Viaggiava tantissimo, per
settimane non lo vedevamo, né lo sentivamo. Mamma mi
diceva che stava fuori per lavoro e io ci credevo visto che ogni
volta che ricompariva mi portava tanti regali. Però mia madre
piangeva, a volte, la notte. Se glielo chiedevo mi diceva che
papà le mancava. Zia Moira sosteneva che papà avesse
un’altra. Mamma la chiamava "la stronza". Due anni dopo la
sua morte lui se l’è sposata, ma io non le ho mai permesso di
prendere il posto di mia madre. Piuttosto che stare con lei
preferivo non vedere neanche mio padre e così ho vissuto per
la maggior parte della mia adolescenza con le zie. Papà, però,
ha sempre trovato il modo per non interrompere quel rapporto
che avevamo. Di questo devo dargliene atto. S’inventava
viaggi da fare solo con me, mi veniva a prendere a scuola e mi
portava con lui in galleria, facevamo insieme i compiti, veniva
a dormire da zia Carla quando ero malata. Ora so che non è
stato facile neanche per lui. Aveva perso mamma e non poteva
rischiare di perdere anche me. Lo abbraccio forte. Ho un nodo
alla gola e ho voglia di piangere.
204
inizi il temporale», gli dico alzandomi in piedi tendendogli le
mani per aiutarlo.
205
DICIOTTO
206
ha confermato aggiungendo subito dopo «di aver pensato
pure che non fossero affari miei. Non mi è sembrato che tuo
padre fosse particolarmente interessato ad andare avanti. E le
mie congetture, i miei dubbi, li ho tenuti per me».
207
«Quale ricerca? Quale verità?».
208
Era fatta così. Ciccio voleva fare il giornalista e mamma fece in
modo di farlo lavorare come suo collaboratore a patto che lui
l’aiutasse per le ricerche che poi dava al Comitato di
Controinformazione. In pratica dovevano cercare notizie e
documenti per “smascherare” l’informazione istituzionale che
indirizzava l’opinione pubblica. Questo Comitato nacque
dall’iniziativa di alcuni militanti dell’Associazione dei Giuristi
Democratici di Roma che iniziarono a seguire gli sviluppi della
situazione politico-sociale italiana dopo la morte del giovane
socialista Paolo Rossi nel corso di scontri tra studenti e polizia
all’Università di Roma il 27 aprile 1966. Ad essi si aggiunsero
diversi giornalisti di sinistra e alcuni militanti del «Canzoniere
dell’Armadio», un gruppo musicale romano nato nei primi anni
Sessanta che aveva svolto un intenso lavoro di animazione
culturale. Mamma si avvicinò al comitato dopo la morte di
Pinelli e come tanti altri compagni raccoglieva notizie,
schedava giornali, riviste, fascicoli sui principali esponenti
neofascisti. E Ciccio fu come la manna dal cielo. Ma poi ci si
affezionò e divennero amici. Me lo ricordo qui a Ventotene
durante l’estate, o a casa che giocava con me. Anche con zia
Moira aveva un buon rapporto. Molto meno con zia Carla che
lo vedeva sempre e comunque come un “fascista” anche se
fascista non era. Tanto è vero che si è presentato alle ultime
209
amministrative nelle liste della Sinistra l’Arcobaleno, anche se
non è stato eletto. Ciccio è rimasto in contatto con noi anche
dopo la morte di mamma. Con gli anni ovviamente ci siamo
persi un po’ di vista, ma non ha mai dimenticato di farmi gli
auguri per il mio compleanno o di spedirmi un regalo a Natale.
210
DICIANNOVE
211
Si vede che non ha nessuna voglia parlare di questo
personaggio. Si limita a dire: «Non l’ho mai visto, né ne ho
sentito parlare in quei cinquantacinque giorni. Quello che so di
lui l’ho appreso dopo. Nel 1999, appunto. Ma io non facevo
parte della direzione strategica. Io ero un manovale, prendevo
gli ordini ed eseguivo. So che Mario partecipava a delle
riunioni, mi sembra vicino a Firenze. Ma di Igor Markevitch con
noi, o per lo meno con me, non ne ha mai parlato».
212
«Che fai il geloso?», sdrammatizzo. Ma non serve a niente.
«No. È solo che non ti posso aiutare. Io non stavo con lei in
quel periodo. Te l’ha detto pure Moira. Non so chi le ha
suggerito quel nome, né tanto meno chi immaginava chi
fosse», risponde, ma ho la sensazione che sappia molto di più
di quando dica.
«Vabbè, diamo per scontato che l’Igor di cui parla mamma sia
Markevitch. Aiutami a riflettere. Tu mi interrompi se dico cose
senza senso», tengo duro, ben consapevole che mio padre si
sta arrabbiando. «Credo sia possibile che Markevitch, a un
certo punto, sia entrato in contatto con l’organizzazione.
Magari su richiesta dell’agente americano Hubert Howard, che
era collegato a Gladio e alla sicurezza atlantica e non è difficile
immaginare in fibrillazione per le rivelazioni che il presidente
stava facendo. Sto andando bene?», gli chiedo. Mi fa segno di
andare avanti.
213
dell’intelligence inglese che per primo entrò a Firenze liberata
dall’occupazione nazista e fu proprio lui ad affidare a
Markevitch l’incarico di occuparsi dei programmi musicali della
radio Firenze libera e del Maggio Fiorentino. Non mi sembra
così assurdo pensare che, dopo 34 anni, fossero di nuovo
insieme seppur con obiettivi completamente diversi. Nella
primavera del 1978, in un’ipotetica divisione dei ruoli, è
possibile che Igor agisse sul campo, per così dire, tornando a
fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello
politico delle Br, e Howard tenesse il controllo nella cabina di
regia di Palazzo Caetani».
214
Mosca e soprattutto di amico dei partigiani.
215
«Aspetta un attimo». Vado in camera da letto a prendere il
diario e cerco una pagina alla quale non ho dato nessuna
importanza quando l’ho letta per la prima volta. «Ecco, guarda
qui», gli dico ritornando in soggiorno.
216
«Ma cosa sperava di ottenere da lui? Voleva sapere dove
tenevano nascosto l’onorevole Moro?».
«Non credo».
217
«Oggi, 29 marzo, le br hanno fatto trovare il comunicato
numero tre e una lettera di Moro al capo delle guardie,
Cossiga. Finalmente sapremo la verità. I brigatisti dicono che
“l’interrogatorio prosegue con la completa collaborazione del
prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le
linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno
attuando; delineano con chiarezza i contorni e il corpo del
“nuovo” regime che, nella ristrutturazione dello Stato
Imperialista delle Multinazionali si sta instaurando nel nostro
paese e che ha come perno la Democrazia Cristiana. Proprio
sul ruolo che le centrali imperialiste hanno assegnato alla DC,
sulle strutture e sugli uomini che gestiscono il progetto
controrivoluzionario sulla loro interdipendenza e
subordinazione agli organismi imperialisti internazionali, sui
finanziamenti occulti. Sui piani economici-politici-militari da
attuare in Italia, il prigioniero Aldo Moro ha cominciato a
fornire le sue “illuminanti” risposte. Le informazioni che
abbiamo così modo di recepire, una volta verificate verranno
rese note al movimento rivoluzionario che saprà farne buon
uso nel prosieguo del processo al regime che con l’iniziativa
delle forze combattenti si è aperto in tutto il paese».
218
di più quelle che seguono. Mamma nelle pagine successive
parla del comunicato numero 5 datato 10 aprile che rivela
come l’interrogatorio stia validamente chiarendo le linee
antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche, le
responsabilità dei «boss democristiani, i loro protettori
internazionali, gli equilibri di potere». Poi però mamma si
arrabbia per quello che scrivono i brigatisti nel comunicato
numero 6. Non riesce a capacitarsi del perché abbiano voluto
concludere l’interrogatorio al presidente.
219
Se per cinque comunicati si fa un processo, si esegue
un’inchiesta, si tengono verbali che in parte sono stati dati alla
stampa, alla fine una organizzazione rivoluzionaria, se è
rivoluzionaria, deve emettere una sentenza motivata. Ma voi
non l’avete fatto. Qualcuno vi ha detto di smettere, qualcuno
vi ha detto che certe cose non dovevano essere rese
pubbliche, qualcuno non voleva che il processo continuasse,
qualcuno voleva che Moro chiudesse la bocca. Tra il
comunicato numero 5 e il numero 6 entra in scena l’infiltrato
con un ordine superiore e con il compito di far sparire tutto i
documenti scritti e le registrazioni del processo. E l’infiltrato
potrebbe essere Igor».
220
trovo in veranda seduto con la faccia tra le mani. È distrutto.
Ma io ignoro il suo stato d’animo.
221
VENTI
222
«Ti trovo bene, Sole», dice per rompere il ghiaccio. Intanto
anche papà esce in giardino per vedere chi è arrivato. «Ciao
Ciccio», gli dico abbracciandolo. «Potevi dirmelo, saremmo
venuti a prenderti», mento. Quello che non posso dirgli è che
non era proprio il momento di piombare in casa mia. Dovevo
prima chiarire con mio padre tutta una serie di cose. C’era
tensione tra noi e non volevo che lui la percepisse. «L’ho
deciso all’ultimo momento e poi sapevo dove trovarti».
Già. Lui lo sa. Lui è venuto spesso qui con mamma e con noi.
Ciccio abbraccia anche papà, che non sembra affatto
preoccupato. Anzi. Pare felice di quella visita inattesa. Forse
pensa che io non continuerò a torturarlo con il mio terzo grado
e sposterò le mie attenzioni sull’amico di mamma.
223
dico a papà spingendolo in cucina. «Vediamo cosa c’è in
frigo». Una volta soli gli prometto che non farò nessun
accenno a quanto mi ha rivelato. «Lo so principessa», dice
sorridendomi. Torno da Ciccio che se ne sta ancora in piedi
con la ventiquattrore in mano. «Siediti, ti prego», gli faccio
indicando il divano rivestito con una coperta messicana. «Ho
letto i diari. Visto che sei qui puoi aiutarmi a capire». Non c’è
motivo per rimandare e vado diritta al sodo, senza preamboli,
mentre mi accomodo nella poltrona di mamma.
224
ambienti di destra».
225
non dovevo fare.
«Sì, lo so. L’ha scritto anche sul diario. Dice che stava
cercando un uomo che aveva a che fare con la Resistenza e
che a Ventotene poteva trovare qualche indizio in più.
226
Immagino che mia madre sia venuta qui e abbia trovato le
risposte che cercava. Vero?».
Ciccio annuisce.
227
cartine e i filtri. Si prepara in silenzio una sigaretta. La
accende, si riempie la bocca di fumo poi lo ingoia
assaporandolo. Solo a questo punto riprende a parlare.
«Tua madre sospettava che tuo padre fosse entrato nelle Br. A
un certo punto i sospetti sembravano trovare riscontri sempre
più attendibili. Finché un giorno Maria mi venne a dire che era
sicura che anche suo marito, Luca, era coinvolto in questa
storia».
228
togliere tua madre dai guai».
229
dirmi i suoi sospetti su mio padre guardandomi negli occhi»,
dico riferendomi a Daniele. Poi torno lucida su quello che mi
sta rivelando Ciccio.
230
23,30 circa, al chilometro 58 dell’A2 tra Ferentino e Anagni, la
Mini Morris gialla guidata da Gianni Aricò si tamponò
violentemente un autocarro. Morirono sul colpo Angelo Casile,
Franco Scordo e Luigi Lo Celso. Aricò venne trasportato
all’ospedale civile di Frosinone insieme alla moglie Annelise
Borth, in stato interessante. Aricò morì appena arrivato in
ospedale, la sua compagna resisterà per 21 giorni in coma
cerebrale. I cinque ragazzi andavano a Roma a consegnare un
rapporto che la federazione anarchica gli aveva chiesto di fare
sui fascisti reggini. Avevano scattato foto per mesi durante la
rivolta di Reggio Calabria per testimoniare la presenza di
fascisti greci. In tasca di Angelo Casile c'era ancora il biglietto
con il numero di telefono dell'avvocato Eduardo Di Giovanni di
Soccorso Rosso. Di quello che trasportavano non è mai stata
trovata traccia. Nei rapporti su ciò che la polizia avrebbe
trovato sui resti della Mini Minor si parla invece di due radio
ricetrasmittenti che nessuno è mai più riuscito a rintracciare. Il
6 settembre, tre settimane prima dell’incidente, Aricò aveva
telefonato a Roma per comunicare agli anarchici della
federazione che la controinchiesta stava procedendo bene, e
che una parte del materiale era stata spedita al compagno
Veraldo Rossi, ma lui non ricevette mai il plico. Quei ragazzi
erano a Roma il 12 dicembre 1969. E furono arrestati insieme
231
a tutti gli altri anarchici del circolo di Valpreda con l’accusa di
aver messo le bombe all'altare della patria. Rimasero in
prigione una settimana e quando tornarono a casa erano
cambiati. Dopo il 12 dicembre avevano visto con i loro occhi
che contro di loro non c'erano solo i fascisti reggini, ma anche
la polizia e i giudici. Hanno paura quando esplodono i moti di
Reggio e scoppiano le bombe sui treni. Il 26 agosto, un mese
esatto prima di morire, Angelo Casile si presenta dal giudice
Cudillo e chiede sia messo a verbale: che fascisti di Ordine
Nuovo nell'autunno 1968 tentarono di costituire a Reggio
Calabria un circolo XX marzo».
232
padre si era già tirato fuori dall’organizzazione, era disperato
per la morte di tua madre».
«Ammazzandola…».
233
evita di fare domande su come abbiamo speso tutto quel
tempo.
234
Moro dai quali mamma sperava di trovare informazioni su
piazza Fontana, la strategia della tensione», dico io versando
del vino nei loro bicchieri.
235
Papà segue attentamente quello che sta dicendo Ciccio. A
tratti annuisce. «In totale ci sono quattro versioni del
memoriale», prosegue Ciccio. «La terza e la quarta hanno
consistenti differenze, che si spiegano nel rapporto copia-
originale: infatti la terza stesura è un dattiloscritto che in
talune parti riassume, in altre parti riporta integralmente
oppure omette del tutto la prima della quale, o di parte della
quale, la quarta è una fotocopia, lo dimostra il fatto che la
perizia calligrafica compiuta su quanto trovato nel 1990 attesta
l’autenticità della grafia di Aldo Moro. Non si conosce la causa
dell’esistenza della terza stesura e se fu redatta dalle Brigate
Rosse oppure dall'ufficio del Ministero dell'interno a cui
nell’ottobre 1978 furono consegnati dal generale Dalla Chiesa i
materiali trovati a via Montenevoso,. Materiali che non si
saprà mai se fossero la seconda stesura o addirittura
l’originale. Sicuramente ci fu una seconda stesura destinata
alle Colonne Brigatiste, la terza stesura invece nelle sue
molteplici omissioni, e nel linguaggio questurile con cui fu
redatta, pare corrispondere assai di più all’intento di non
rendere noti i pesanti apprezzamenti che Moro fece nella
prigionia su alcuni suoi compagni di partito e di governo».
236
cercava?».
237
«Certo principessa».
«Nadia», risponde.
«Vattene via», gli urlo, «non ti voglio più vedere». Lui apre la
porta e sparisce inghiottito da questa casa che ora mi soffoca.
238
avuto fiducia in me tenendomi fuori dalla sua vita. Odio Rita
che l’ha portato lontano da noi. E ce l’ho anche con te,
mamma. Non dovevi morire così giovane. Non dovevi lasciarmi
sola.
239
VENTUNO
240
Meglio di così non poteva andare. Dopo cena mi ha portato a
casa sua, all’Eur. Ho iniziato a parlare di politica, del sequestro
del presidente Moro, delle Brigate Rosse e lui ha abboccato.
Ha detto di essere stato lui a scrivere il comunicato numero 7,
quello del lago della Duchessa. Mi ha persino raccontato di
aver fatto il simbolo utilizzando una moneta da cento lire… O
meglio, lui ha copiato il comunicato. Quello che doveva essere
scritto glielo ho fatto avere Rita. Mi è preso un colpo. Ma che
cosa c’entra Rita in questa storia? Ho evitato però di fare
domande sulla stronza per paura che cambiasse discorso. Gli
ho chiesto se sapeva chi l’aveva scritto. Mi ha detto che
c’entrava un americano che alloggiava all’Excelsior. Poi senza
che io gli chiedessi nulla, ha detto che i terroristi erano caduti
nella sua trappola. Non si aspettavano di trovarsi di fronte ad
un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava
psicologicamente. Erano stati ingannati e ormai non potevano
far altro che uccidere Moro.
Ho fatto notare ad Antonio che una via d’uscita per loro e per
il presidente c’era, visto che ancora vivo. Secondo Antonio,
invece, è solo questione di ore, perché il presidente ha detto
cose che non doveva dire. Io mi sono messa a fare la parte
dell’avvocato del diavolo e ho rilanciato: quello che doveva
241
rivelare l’ha rivelato; vivo o morto Moro, i suoi segreti
comunque sarebbero venuti fuori. Antonio è scoppiato a
ridere. Questo lo dici tu, ha sentenziato come se lui la sapesse
lunga. Faranno in modo che si sappia solo quello che vogliono
loro e ovviamente, ha aggiunto, non mi riferisco ai
sequestratori. Lasciandogli credere che io sapessi di Rita, ho
azzardato: «Certo! Rita farà in modo di tagliare nei punti
giusti…». Lui ha annuito.
242
Fontana”. Ma ho fatto finta di niente per a fargli credere che
non ci credevo. E più facevo la scettica e più lui entrava nel
dettaglio.
243
Tutto questo coincide con quanto mi ha raccontato un
compagno di Milano che sta scrivendo con il padre un libro 18.
E cioè che fu un’intesa politica siglata il 23 dicembre 1969 tra
il ministro degli Esteri, Aldo Moro, e il Presidente della
Repubblica, Giuseppe Saragat, a impedire che si arrivasse in
breve tempo ai responsabili della strage di piazza Fontana.
Dietro quell’intesa la necessità di tutelare quello che
Gianfranco chiama il segreto della repubblica, cioè il tentativo
di golpe istituzionale, messo in atto con il sostegno degli
americani e duramente osteggiato dall’intelligence inglese i. In
pratica Saragat avrebbe rinunciato alla svolta autoritaria,
compresa l'ipotesi di scioglimento delle Camere e di ritorno al
centrismo. In cambio, le componenti democristiane legate a
Moro e a Andreotti, si adattarono a segretare le voci e le prove
sempre più nette (avanzate dall'Arma, dal nucleo di polizia
giudiziaria dei carabinieri di Roma e da un memoriale dello
stesso Sid) sulla matrice fascista della strage, accettando
invece di mollare le briglie all'Ufficio Affari Riservati del
Ministero dell'Interno affinché, in sintonia con i copioni messi
in scena tra Milano e Roma, continuasse la rappresentazione
della colpevolezza degli anarchici, tra i quali, oltre al gruppo
18
Walter Rubini, Il segreto della Repubblica, ed. Flan 1978. Riedito da
Selene con i veri nomi degli autori: Fulvio e Gianfranco Bellini, a cura
di Paolo Cucchiarelli.
244
arrestato attorno a Valpreda, si era anche registrata la morte
traumatica del ferroviere Pinelli, trattenuto illegalmente presso
la questura di Milano.
245
Rita.
E subito dopo.
246
che tesserne le sue lodi e le sue frequentazioni con Cocteau,
Stravinskij, Picasso, Cole Porter.
247
porta. Prima però mi ha dato un bacio e mi ha detto di stare
attenta. Mi ha consigliato di starmene zitta e di andare da
Sole.
248
So che ho sbagliato. Sono consapevole del fatto che ti ho
coinvolto in questa follia. Ma sono innamorata di te, lo sono
sempre stata, dal momento stesso che ti ho conosciuto.
Volevo che fossi il mio uomo, volevo essere amata da te. E
quando hai deciso di entrare nella lotta armata ho creduto che
fosse anche per me. Invece no. Ma l’ho capito troppo tardi. Tu
pensavi veramente che avremmo potuto cambiare il mondo.
Lo volevi più di ogni altra cosa anche a costo di rinunciare ad
avere vicino tua moglie e tua figlia. Per questo hai accettato
senza indugi di insegnare ai compagni a sparare, di pedinare il
presidente e di partecipare all’agguato di via Fani. Io guidavo
la moto, ma ero terrorizzata. Se non ci fossi stato tu dietro io
non ce l’avrei mai fatta. Mi sarei fatta beccare, avrei mandato
a puttane tutto il piano. Tu invece eri lucido, determinato,
convinto che quell’azione avrebbe aperto la via della
rivoluzione.
Poi ti sei reso conto che eravamo finiti in una trappola. Ricordo
di una riunione a Roma: hai avuto il coraggio di ribellarti
schierandosi dalla parte del prigioniero. Avevi coraggio, Luca.
Io no. A qualsiasi obiezione trovavi sempre il modo per
mandare in crisi gli altri compagni e portarli dalla tua parte.
Alla fine avevi convinto pure me: il presidente vivo e libero
249
avrebbe aiutato la nostra causa più che da morto. Ma non
potevo fare nulla. Nessun passo indietro era previsto nel mio
ingaggio. Dovevo portare a termine la mia parte
nell’operazione. Il presidente doveva morire e quanto aveva
rivelato dove essere accuratamente censurato. Così è stato.
Sono stata brava, mi ha detto Markevitch. E come premio sarò
tenuta fuori da tutta questa storia. Insieme a te,
naturalmente. Ho giurato che non avrei rivelato mai a nessuno
quanto avevo visto e sapevo di quei cinquantacinque giorni,
né avrei fatto parola di cosa successe a Fani, finché sarebbe
stata tenuta nascosta la mia e la tua identità.
Rita
250
di lei è colpa sua. Se la nostra vita è stata spezzata, la colpa è
la sua. Di nessun altro. Quanto a mio padre, non riesco
proprio a capire sia riuscito ad accettare un ricatto del genere.
Come ha potuto consegnare la sua vita nelle mani di una
donna senza scrupoli, che non ha esitato un attimo a togliere
di mezzo la sua rivale. Mia madre.
251
i