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Massimo Leone

Quinconce e altre griglie


Il paesaggio fra estetica ed economia

Il paesaggio non è la natura. È già un passaggio, quello dell'uomo, della sua mano, o perlomeno del suo sguardo, tra le pieghe delle foglie ed i nodi dei rami,
lungo le venature dei tronchi e le increspature irregolari degli arbusti, fin dentro ai succhi della terra che avvolgono e nutrono le radici. E poi, su più grande
scala, e allontanando l'occhio e la mano dal terreno, il paesaggio è una natura che abbraccia, in maniera più o meno discontinua, una topologia o finanche una
geometria: è un ricamo di quadrati, triangoli, poligoni, linee rette, curve spezzate, punti, virgole, sberleffi sul manto della natura.

Non appena si coglie l'essenza del paesaggio come passaggio umano intorno o sopra o dentro la natura, emerge immediatamente un problema di modalità.
Come avvicinare la mano o anche lo sguardo alla natura? Da quando una coscienza ecologica si è andata formando a proposito di una tale questione, pare che
due posizioni opposte ed antitetiche si siano affrontate in più sedi, da quella tutta interna della coscienza individuale sino alle arene del discorso politico.
Vi sono coloro i quali sostengono che il passaggio dell'uomo sulla natura, l'impronta del suo piede sulla terra, debba avere soprattutto una funzionalità
economica: la terra è un insieme di risorse ed il paesaggio è la conseguenza visiva e plastica del modo in cui l'umanità le adopera e ne trae beneficio.
Chiameremo questa posizione la prospettiva pragmatica sul paesaggio.
Sul versante opposto si ergono gli acerrimi nemici di un tale pragmatismo, vale a dire coloro i quali avversano lo sfruttamento economico della natura e
propugnano una riconsiderazione del paesaggio che tenga conto del suo valore di bellezza. Questo punto di vista può essere definito una prospettiva estetica
sul paesaggio.
Lo scontro fra questi due modi di concepire il paesaggio, così come si è sviluppato nella seconda metà del ventesimo secolo, non lasciava molte possibilità di
mediazione. Da un lato i pragmatici sostenevano l'irrazionalità economica e persino la falsa coscienza politica degli argomenti estetici o estetizzanti (i quali
appaiono a volte, in verità, conservatori o retrogradi, quando inneggiano al ritorno ad un ipotetico primigenio stato di natura); dall'altro i guardiani della
bellezza naturale puntavano il dito contro lo scempio che lo sfruttamento economico della natura aveva cagionato (e continua, purtroppo, a produrre) in
termini e di inquinamento del paesaggio campestre e di creazione di paesaggi urbani ed extraurbani di innegabile bruttezza.

Tuttavia, un pensiero assai antico, risalente alla concezione classica del rapporto dell'uomo con la natura, proponeva una possibile forma di mediazione. Al

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fine di comprendere questa proposta di connubio fra la pragmatica e l'estetica, fra la ricchezza e la bellezza, è necessario spendere qualche parola sul concetto
di quinconce. La storia di questo termine è assai affascinante. Esso deriva da due parole latine, 'quinque', che significa 'cinque', e 'uncia', che potremmo
tradurre come 'dodicesimo'. Il termine quinconce, infatti, (in latino 'quincunx') designava una quantità corrispondente ai cinque dodicesimi di un intero (per
esempio di libra o as). Varrone è il primo ad utilizzare la parola 'quincunx', che però si riscontra, successivamente, anche nelle forme 'quincus' e 'quincum',
soprattutto negli scritti di natura metrologica (si veda, a tal proposito, la voce 'quincunx' nella Paulys Realencyclopädia).
Il concetto di quinconce era noto anche ai Greci, che lo esprimevano tramite i termini o .Tuttavia, ciò che più interessa il discorso sul
paesaggio non è tanto il concetto di quinconce in sé, quanto gli espedienti grafici che furono ideati per rappresentarlo. Ve ne erano di assai diversi, ma tutti
erano accomunati dal fatto di disporre cinque oggetti identici in uno spazio ravvicinato: cinque punti, disposti simmetricamente o asimmetricamente,
rappresentavano il quinconce sulle monete; cinque punti in fila designavano la medesima quantità su monete e pesi; altre configurazioni (ad esempio cinque
piccole onde, o cinque tratti diagonali) si riscontrano occasionalmente nella numismatica romana. In ogni modo, però, la maniera più antica, ma anche la più
semplice e simmetrica, di rappresentare il quinconce, consisteva nel disporre quattro punti ai vertici di un quadrato immaginario, e di tracciare il quinto punto
al centro di esso. Il quinconce era dunque rappresentato da una configurazione visiva identica a quella che designa il numero cinque sulle facce di un dado.
Questa maniera di visualizzare graficamente il quinconce divenne così diffusa che il termine passò a designare qualunque disposizione di oggetti che avesse la
stessa forma, vale a dire quella dei cinque punti del quinconce. In particolar modo, e qui ritorniamo al tema del paesaggio, la parola 'quinconce' cominciò ad
essere utilizzata in riferimento ad un particolar modo di piantare gli alberi, quella, appunto, che li dispone sul terreno (ma anche nel campo visivo del
paesaggio) in filari regolari, ognuno sfalsato rispetto al precedente ed al successivo, così da formare una griglia di rombi. Piantare gli alberi da frutto in
quinconce, o disporre gli ortaggi in quinconce, significava, e tuttora significa, nel lessico della botanica e dell'orticoltura, adottare, per la piantagione, la
particolare forma del numero cinque sulla faccia di un dado.

Gli agronomi dell'antichità latina prediligevano il quinconce perché ritenevano che esso incarnasse il miglior modo di disporre fra loro delle piante: tale
schema, infatti, soddisfaceva al tempo stesso le esigenze dell'ordine (ad esempio la contabilità degli alberi), dell'economia dello spazio (le piante non erano
mai così vicine da nuocere le une alle altre sottraendosi mutuamente il nutrimento della terra, ma erano abbastanza vicine da sfruttare al massimo il terreno
disponibile) e dell'estetica della visione: gli alberi piantati in quinconce davano di sé un gradevole aspetto di varietà nella simmetria. Ognuno ricorderà le tesi
di Gombrich rispetto all'esigenza tutta umana di decorare i corpi, gli oggetti, ma anche il paesaggio utilizzando configurazioni visive regolari: il grande storico
dell'arte, prendendo a prestito l'epistemologia di Popper, riteneva che la spiegazione cognitiva di tali regolarità consistesse nel fatto che esse permettono
all'uomo di percepire immediatamente l'errore e l'irregolarità1. Allo stesso modo, la piantagione a quinconce costituiva una sorta di griglia per un'immediata e
al tempo stesso piacevole lettura del paesaggio campestre.
La configurazione quinconciale esprime così bene l'armonia d'efficacia e bellezza che uno dei più noti retori dell'antichità latina, Quintiliano (Calagurris,
Spagna, 35 d.C. – Roma, 95 d.C.), impiegò il quinconce come metafora del modo in cui il linguaggio verbale dovrebbe conseguire la bellezza attraverso
l'efficacia. Nell'arringa come nella scrittura, si disegnano e si dipingono paesaggi di parole, rispetto ai quali è d'uopo porsi le stesse questioni che si rivolgono
alla gestione del paesaggio naturale. Fino a che punto, si chiede Quintiliano, è lecito aggiungere ornamenti e decorazioni ad un linguaggio puramente efficace?
Bisogna aderire ad una concezione economico-pragmatica ovvero ad una estetica della parola retorica? Quintiliano suggerisce una risposta nel settimo libro
dell'Institutio oratoria, monumentale manuale di teoria e pratica della parola pubblica che il grande maestro stilò negli ultimi anni della propria vita.
Leggiamo il passo che Quintiliano dedica al quinconce:

"Dovrei forse considerare un podere come un modello di buona coltivazione perché il suo proprietario mi mostra gigli e viole ed anemoni e
fontane d'acqua zampillante invece di ricche messi e piante piegate dal peso dei grappoli? Dovrei forse preferire la sterile pianura e i mirti

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nettamente potati, all'olivo fruttifero e all'olmo che feconda la pianta? No, lasciamo che questi lussi delizino i ricchi: ma dove sarebbe la loro
ricchezza se essi non si fossero dati cura di tali lussi? Di nuovo, è la bellezza un oggetto di nessuna importanza quando si piantano degli alberi
da frutto?
Certamente no! In quanto i miei alberi devono essere piantati in bell'ordine e ad intervalli fissi. Quale visione è più bella di quella dei filari
d'alberi piantati in quinconce che presentano all'occhio delle linee rette qualunque sia l'angolo dal quale li si ammiri?"2.

I traduttori inglesi di Quintiliano solitamente traducono l'espressione latina "quinconce" con la parola inglese (d'origine francese) "echelon", che, ha, in realtà,
un'etimologia ed un uso alquanto diversi. Secondo l'Oxford English Dictionary, il termine "echelon" designa quella particolare formazione di truppe nella
quale le divisioni successive sono poste in parallelo l'una rispetto all'altra, ma in modo che nessuna abbia lo stesso allineamento della precedente o della
successiva. Anche in questo caso, la configurazione del quinconce, sebbene trasposta nelle pratiche della strategia militare, consente un'armonia di simmetria
(per quanta bellezza si possa scorgere nell'ordine di un esercito che avanza) ed efficacia (ciascun soldato avrà il proprio campo visivo libero della divisione
precedente).

Tuttavia, questi traduttori forse ignorano che la parola "quincunx" esiste in inglese, e fu usata una delle prime volte da un celebre poligrafo britannico, in
un'opera che tocca alcune delle questioni più importanti che concernono il paesaggio. Questo scrittore è Thomas Browne, medico, erudito e studioso
d'antichità, nato a Londra da famiglia borghese nel 1605 e morto a Norwich (città ove esercitò la professione di medico per più decenni) nel 1682. Browne è
ricordato soprattutto per opere come la Religio medici (scritta intorno al 1635, e pubblicata con autorizzazione dell'autore per la prima volta nel 1643), nella
quale egli cerca di conciliare la religione e la medicina, respingendo l'accusa di ateismo spesso rivolta ai medici, oppure per trattati di varia natura, quali la
Pseudodoxa epidemica (1646) o l'opera, assai singolare, intitolata Urn Burial (1658), una bizzarra meditazione sulle urne sepolcrali. Tuttavia, è in un'altro
testo che Browne si interessa al paesaggio, alla maniera di piantare gli alberi e alla configurazione detta 'quinconce', vale a dire nel saggio intitolato The
Garden of Cyrus. Or, The Quincunciall, Lozenge, or Net-work Plantations of the Ancients, Artificially, Naturally, Mystically Considered (1658),
(riprodotto in T. Browne, Religio Medici e Hydrietaphia, Oxford: Clarendon Press, 1967). In questo sfoggio di divagazioni erudite, Browne afferma che Ciro,
fratello di Artaserse, deve essere considerato l'inventore del sistema di piantagione chiamato 'a quinconce'.
Questa fantasiosa ricostruzione storica è l'occasione che spinge Browne a lanciarsi in una sorta di ricerca mistica del quinconce, che egli arriva a considerare
come la struttura ontologica fondamentale del mondo fisico e metafisico (la compara, naturalmente, alla struttura della croce) e che identifica in ogni possibile
sfera di osservazione. Il frontespizio della prima edizione di questo saggio mostra che il riferimento principale di Browne continua ad essere Quintiliano.

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Frontespizio

Vi compaiono, infatti, una rappresentazione schematica del quinconce e la frase conclusiva del ragionamento del retore latino.
Browne non è l'ultimo scrittore anglofono ad utilizzare la parola 'quinconce'. Essa ritorna, ad esempio, nell'opera di Joyce, e precisamente nella novella
Grace, contenuta nella raccolta Dubliners3, così come nella struttura semantica e sintattica di Finnegans Wake4, che tanto si basa sulla figura del quinconce
(la quale altro non è che una variante grafica del chiasmo retorico). In seguito, altri scrittori anglosassoni hanno adottato il quinconce, ad esempio come una
struttura narrativa - si vedano a tal riguardo il romanzo best-seller di Charles Palliser, intitolato, appunto, The Quincunx (1990) o The Avignon Quintet di
Lawrence Durrel (1992).

Tuttavia, è nell'opera di uno scrittore tedesco, uno dei più interessanti degli ultimi decenni, che il quinconce riappare come figura attraverso cui l'uomo tenta
di imporre un dominio sulla natura, di costruire un paesaggio economicamente proficuo ed esteticamente gradevole. Mi riferisco a G.W. Sebald, scrittore nato
a Wertach, in Bavaria, nel 1944, ma che dal 1966 in poi ha sempre vissuto e lavorato in Inghilterra, e specialmente nell'Università di East Anglia a Norwich,
dove era titolare della cattedra di letterature europee. Sebald, scomparso in un incidente d'auto, nel dicembre 2001, nonostante i diversi decenni passati in
Inghilterra ha sempre scritto in tedesco, distinguendosi, sul piano espressivo, per una prosa estremamente complessa, fino ai parossismi della voluta barocca,
ma al contempo precisa e cristallina, ad esempio nella denominazione di piante e animali; sul piano semantico, la scrittura di Sebald si caratterizza per una
sapiente fusione di generi letterari, così come per una sottile capacità di intrecciare il resoconto microstorico con l'invenzione narrativa. I libri di Sebald, che
hanno riscosso, negli ultimi anni, un grande successo di pubblico e di critica5, sono stati scritti tutti quando l'autore già si avvicinava ai cinquanta, e si
contraddistinguono anche per la continua inserzione, all'interno delle pagine, di foto, disegni o altre immagini, che completano o arricchiscono la narrazione
verbale.
In una delle sue opere più apprezzate, Die Ringe des Saturn(1992), tradotto in italiano col titolo di Gli anelli di Saturno (Bompiani, 2001), alla pag. 31,
incapsulata fra le lunghe frasi teutoniche di Sebald, compare l'immagine seguente:

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Pagina 31

Sebald è affascinato dal quinconce, e riporta, nel proprio testo, parte del frontespizio di The Garden of Cyrus, di Thomas Browne. Lo scrittore tedesco si era
interessato all'erudito inglese non solo perché entrambi avevano assunto Norwich quale sede di fissa dimora, ma anche e soprattutto perché Sebald era
rimasto stregato dalla filosofia 'a caratteri minuscoli' ideata da Browne:

"Fedele al proprio proposito, Browne registra volta per volta i modelli ricorrenti nell'apparente infinita molteplicità delle forme, come ad
esempio, nel suo trattato sui giardini di Ciro, quello del cosiddetto quinconce, basato sui vertici di un quadrilatero e sui punti di intersezione
delle sue diagonali. Ovunque nella materia, sia viva che morta, Browne ritrova questa struttura [...]."6

Tuttavia, mentre per Quintiliano e Browne il quinconce è una figura del dominio dell'uomo sul paesaggio (la stessa impostazione si riscontra anche nella
statistica, per la quale il quinconce è uno strumento di sperimentazione ideato da Francis Galton nel 1873; o nell'astrologia, dove designa una mappa astrale in

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cui due pianeti si trovano a 150 gradi l'uno dall'altro), Sebald, il quale ha fra le principali corde della propria poetica proprio quella di rilevare il modo in cui la
natura è soggetta all'implacabile disfacimento che attanaglia tutto l'essere, concepisce il quinconce come una sorta di trappola.
L'immaginario reticolare della gabbia, del resto, ricorre assai sovente ne Gli anelli di Saturno, si incarni esso nella grata di una finestra d'ospedale:

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nella gabbietta di una quaglia cinese solitaria e impazzita:

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nelle losanghe della cabina di un faro:

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o nell'architettura di uno scrittoio di mogano:

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Pagina 218

In tutte queste immagini, e nei testi che le circondano, si avverte una sorta di sfiducia nella capacità dell'uomo di rispettare se stesso nelle proprie creazioni,
soprattutto quelle che incidono un ordine razionale sul volto della natura.

Questa sfiducia nell'architettura del paesaggio (specie del paesaggio urbano) è ancora più evidente nell'ultimo libro di Sebald, un vero capolavoro: Austerlitz,
appena tradotto in italiano per i tipi della casa editrice Adelphi. A pagina 32 dell'edizione italiana, Sebald, dopo aver descritto le proprie esplorazioni di
un'architettura di morte, quella di una casamatta di Fort Breendonk, seguendo un esile ma coerente filo di analogie cita una storia raccontata da Claude Simon
nella sua ultima opera, Le jardin des plantes (1997), dove il premio Nobel francese, scrive Sebald, "si cala nuovamente nel deposito dei suoi ricordi". Questo
passaggio è di estremo rilievo, soprattutto se lo si compara all'interesse di Sebald per il quinconce: mentre la grata, la griglia, la gabbia, la trappola, sono figure
di dominio brutale dello spazio ma anche dell'umanità che esso alberga (e l'intero testo di Austerlitz potrebbe essere letto come un trattato sulla violenza che
alligna nell'architettura del paesaggio urbano; mirabile è, a tal proposito, il modo in cui Sebald descrive la nuova, gigantesca, disumana biblioteca nazionale di
Francia), il giardino di Simon assume un'altra valenza: è un paesaggio botanico e floreale che lo scrittore francese ricrea come personalissima mnemotecnica.

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L'ultima fatica letteraria di Claude Simon contiene una descrizione dettagliata ed asettica del Jardin des plantes, monumentale e meraviglioso giardino
botanico situato nel cuore di Parigi:

"Una parte (la più antica) del Jardin des Plantes, a Parigi, è stata progettata secondo un piano geometrico, che forma un rettangolo di circa
quattrocento metri di lunghezza per cinquanta di larghezza, e che si estende dalle rive della Senna sino all'edificio principale del Museo, di
mediocre interesse architettonico. La vasta spianata è incorniciata da due viali di platani le cui chiome, potate ogni anno, formano due
muraglie continue, rettilinee, su entrambi i lati dei prati e delle aiuole di fiori, rinnovate secondo le stagioni."7.

Prima di continuare la descrizione, Simon analizza l'attitudine filosofica dell'uomo costruttore di giardini e, curiosamente, al pari di Quintiliano, ma con
diversa ideologia, compara il dominio umano sulla natura al dominio umano sul linguaggio (in particolare, quello che si incarna negli stilemi del teatro
classico). Il paesaggio è dunque non solo un passaggio, ma anche un linguaggio: esso consiste di forme e strutture che l'immaginazione (o la paura) dell'uomo
proietta sulla natura silente. Leggiamo ancora Claude Simon:

"Pare che l'uomo si sia cimentato in questo luogo per addomesticare ed asservire, se così si può dire, la natura, contrastando la sua
esuberanza e la sua dismisura per piegarla ad una volontà di ordine e dominazione, nello stesso modo in cui le regole del teatro classico
imbrigliano il linguaggio in una forma anch'essa artificiale, all'opposto della maniera disordinata nella quale normalmente le passioni
vengono esternate."8.

In Le jardin des plantes, dall'alto della sua esperienza di vita densa e ottuagenaria, Claude Simon può gettare uno sguardo retrospettivo sulla propria memoria,
e tentare di addomesticarla attraverso la scrittura, proprio come un giardiniere riduce in bell'ordine (la bellezza ordinata della retorica di Quintiliano)
l'esuberanza della natura. Tuttavia, lo sforzo mnemotecnico di Simon non è violento, e lascia quasi che la gramigna cresca in mezzo ai fiori, a testimonianza
che non tutto nella vita è forma e coerenza, e che la memoria dell'uomo sincero assomiglia più a un orto di campagna, a un paesaggio accidentato di fossi e
pantani, che al parco della reggia di Versailles. La forma tipografica del testo è come l'impronta, la calcografia, di quest'eccesso della natura/memoria, che
sparpaglia i frammenti del pensiero come grani nei solchi di un campo irregolarmente arato.

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Claude Simon, "Les jardins de Babylone"

Molti secoli di storia e la sciagurata esperienza della progettazione totalitaria, si esprima essa nelle architetture di oppressione e violenza registrate da Sebald o
nelle regole che l'urbanistica imperiale impone alla natura, creano uno scarto incolmabile fra Quintiliano e Simon. Se il primo poteva pensare al quinconce
delle piantagioni come ad una configurazione di spontanea armonia fra efficacia e bellezza, nel secondo persino il giardino (forma delicata dell'interazione fra
uomo e natura) diventa matrice di costrizione.
È apparsa da poche settimane, in Francia, la ri-edizione di un libro straordinario, Le jardin de Babylone9, pubblicato per la prima volta dal filosofo, saggista e
padre dimenticato dell'ecologia contemporanea Bernard Charbonneau (1910-1996). In questo saggio lirico e lucidissimo, l'autore ha descritto il modo in cui la
società industriale, dopo aver saccheggiato la natura, termina di annientarla organizzandola, anche nelle forme, apparentemente innocue o addirittura
encomiabili, del turismo ecologico e del façadisme (sorta di falsa coscienza dell'urbanistica contemporanea, che rispetta, appunto, la facciata ('façade') del
paesaggio naturale e urbano svuotandolo internamente). Le Jardin de Babylone è forse la risposta più coerente agli interrogativi che restano irrisolti nei
giardini di Quintiliano, Browne, Sebald e Simon: l'ecologia ed il rispetto della natura sono temi che vengono affrontati in stretta connessione col problema,
assai più spinoso e filosofico, della libertà dell'uomo rispetto a se stesso ed alla natura circostante, vale a dire rispetto alla possibilità/legittimità di costruire il
paesaggio. La prima frase di questo saggio, che sembra echeggiare il best-seller di Antonio Negri e Michael Hardt, introduce la densità quasi mitologica di
quest'analisi e afferma l'urgenza di una sua divulgazione internazionale:

"Sulla polvere dell'Eden si è fondata una città di cui l'Impero copre la terra"10.

Seguono pagine di un pensiero preciso e concentrato, ma anche di una superba prosa francese, nel migliore stile flaubertiano. In questa occasione non è
possibile, purtroppo, fare giustizia a questo testo complesso. Vorrei terminare, però, con una frase estratta da una sezione intitolata "La fin du paysage":

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"Non vi saranno più la campagna né il paesaggio se non in alcuni settori culturali amministrati dal museo dell'Uomo"11.

Le idee pericolose che circolano, a proposito del paesaggio e della sua amministrazione, nella politica che al momento domina l'Italia, non consentono di
interpretare la frase summenzionata come la boutade di un apocalittico.

Note

1. E.H. Gombrich, The Sense of Order. A Study on the Psychology of Cognitive Art, Oxford: Phaidon, 1979, trad. it. di R. Pedio Il senso dell'ordine: studio
sulla psicologia dell'arte decorativa, Torino: Einaudi, 1984.

2. M.F. Quintilianus, Intitutio oratoria, trad. ingl. di H.E. Butler, 4 voll., Cambridge, Mass.: Harvard University Press; Londra: W. Heinemann LTD, 1986,
vol. 3, p. 215: "An ego fundum cultiorem putem, in quo mihi quis ostenderit lilia et violas et anemonas, fontes surgentes, quam ubi plena messis aut graves
fructu vites erunt? Sterilem platanum tonsasque myrtos quam maritam ulmum et uberes oleas praeoptaverim? Habeant illa divites licet, quid essent, si
aliud nihil haberent? Nullusne ergo etiam frugiferis adhibendus est decor? Quis negat? Nam et in ordinem certaque intervalla redigam meas arbores.
Quid illo quincunce speciosius qui, in quamcunque partem spectaveris, rectus est?", p. 214. Traduzione mia.

3. "In one of the benches near the pulpit sat Mr Cunningham and Mr Kernan. In the bench behind sat Mr M'Coy alone: and in the bench behind him sat Mr
Power and Mr Fogarty. Mr M'Coy had tried unsuccessfully to find a place in the bench with the others and, when the party had settled down in the form of
a quincunx, he had tried unsuccessfully to make comic remarks. As these had not been well received he had desisted." J. Joyce, The Dubliners, Londra:
Granada, 1977, p. 157-8.

4. Ad esempio nel passaggio seguente: "Next she greesed the groove of her keel, warthes and wears and mole and itcher, with antifouling butterscatch and
turfentide and serpenthyme and with leafmould she ushered round prunella isles and eslats dun, quincecunct, allover her little mary."

5. "Dem eigenen Vorsatz getreu, verzeichnet Browne die in der anscheinend unendlichen Vielfalt der Formen Mal für Mal wiederkehrenden Muster,
beispielsweise in seiner Abhandlung über den Garten des Cyrus dasjenige des sogenannten Quincunx, das gebildet wird von den Eckpunkten eines
regelmäßigen Vierecks und dem Punkt, an dem dessen Diagonalen sich überschneiden. Überall an der lebendigen und toten Materie entdeckt Browne
diese Struktur [...]", pp. 30-1. Traduzione di G. Rovagnati.

6. Si pensi al denso saggio dedicato da Susan Sontag a questo scrittore, "A Mind in Mourning", in Id., Where the Stress Falls, Londra, Jonathan Cape, 2002,
pp. 41-8.

7. "Une partie (la plus ancienne) du Jardin des Plantes, à Paris, a été dessinée selon un plan géométrique, formant un rectangle d'environ quatre cents
mètres de longueur sur cinquante de large et qui s'étend depuis les quais de la Seine jusqu'au bâtiment principal du Muséum, d'un médiocre intérêt
architectural. La vaste esplanade est encadrée par deux allées de platanes dont les fouillages émondés chaque année forment deux murailles continues,

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rectilignes, de chaque côté de pelouses et de banquettes de fleurs renouvelées selon les saisons", Claude Simon, Le jardin des plantes, Paris : Minuit, 1997,
p. 61. Traduzione mia.

8. "Il apparaît que l'homme s'est appliqué là à pour ainsi dire domestiquer, asservir la nature, contrariant son exubérance et sa démesure pour la plier à
une volonté d'ordre et de domination, de même que les règles du théâtre classique enferment le langage dans une forme elle aussi artificielle, à l'opposé de
la façon désordonnée dont s'extériorisent naturellement les passions ", ibidem, p. 61. Traduzione mia.

9. B. Charbonneau, Le Jardin de Babylone, Parigi, Éditions de l'encyclopédie des nuisances, 2002 (1969).

10. Ibidem, p. 9:"Sur la poussière de l'Éden s'est fondée une cité dont l'Empire couvre la terre".

11. "Il n'y aura plus de campagne et de paysage que dans quelques secteurs culturels administrés par le musée de l'Homme", p. 128, traduzione mia.

(01 settembre 2001)

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