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Per generare il legame fosfodiestere c’è bisogno di energia (in quanto è un legame
forte). L’energia per la formazione di questo legame è fornita dai
“deossiribonucleosidi 5’-trifosfato”, ossia dai substrati della DNA polimerasi. Un
deossiribonucleoside 5’-trifosfato è formato da una base azotata che si lega allo
zucchero più tre gruppi fosfato che si legano al carbonio 5’. L’ATP (adenosina
trifosfato) è formata proprio in questo modo: la base azotata è l’adenina, lo
zucchero è il ribosio e tre sono i gruppi fosfato.
Ibridazione
Le sequenze degli acidi nucleici possono essere valutate in termini di
“somiglianza” oppure di “complementarietà”:
1. La somiglianza è data dalla percentuale di basi (per singolo filamento) o di
coppie di basi (per doppio filamento) identiche;
2. La complementarietà, invece, è determinata dalle regole per l’appaiamento
delle basi e può essere misurata direttamente valutando la capacità di due
acidi nucleici o filamento singolo di appaiarsi.
Come detto in precedenza, se una molecole di DNA duplex viene denaturata, i due
filamenti che si separano, essendo complementari, sono in grado di riformare una
doppia elica nel processo della rinaturazione. Tuttavia anche sequenze
complementari appartenenti a due acidi nucleici qualsiasi possono appaiarsi tra
loro, in determinate condizioni, con conseguente formazione di un duplex. Questa
reazione, però, è detta “ibridazione” in quanto coinvolge acidi nucleici provenienti
da fonti diverse. Sono stati elaborati dei test per valutare la complementarietà
tra due qualsiasi filamenti. Tali test consistono nel mescolare due proporzioni di
acido nucleico a singolo filamento per poi misurare la quantità di materiale a
doppio filamento che si è formata. I metodi più utilizzati sono: l’ibridazione in
soluzione (o in liquido) e l’ibridazione su filtro. Nell’ibridazione in soluzione le due
proporzioni di DNA a singolo filamento vengono mescolate in soluzione. Se si
usano grandi quantità di materiale, la reazione può essere seguita mediante il
cambiamento della densità ottica. Se si lavora con quantità più piccole, invece,
una delle due proporzioni può essere marcata con un tracciante radioattivo per
poi rilevarne l’incorporazione in un duplex. Il DNA duplex può essere valutato
utilizzando la cromatografia per separare il DNA a doppia elica da quello a
filamento singolo, oppure degradando tutti i filamenti singoli che non hanno
reagito per poi misurare la quantità di materiale che resta. Quando uno o
entrambi i preparati consistono in DNA duplex, l’indagine non può essere
condotta con l’ibridazione in soluzione. Questa impossibilità nasce dal fatto che,
quando si denaturano due DNA duplex e poi si mescolano tra loro i preparati di
filamenti singoli, possono avvenire due tipi di reazioni: possono rinaturare i
filamenti singoli complementari originali, oppure ciascun filamento singolo può
ibridare con una sequenza complementare dell’altro DNA. La competizione tra
queste due reazioni rende, tuttavia, difficile valutare l’entità dell’ibridazione. Il
problema può essere risolto ricorrendo all’ibridazione su filtro: in questa
procedura le soluzione di DNA vengono immobilizzate su filtri di nitrocellulosa,
cosicché non possono rinaturare. I filtri di nitrocellulosa sono dotati della
proprietà di adsorbire (assorbire) i filamenti singoli di DNA, ma non quelli di
RNA. Dopo che è stato utilizzato per assorbire DNA, un filtro può essere
trattato in modo da impedire ogni ulteriore assorbimento di filamenti singoli. La
procedura sperimentale seguita per questa reazione prevede l’uso di DNA o di
RNA marcato con una sostanza radioattiva; ciò rende possibile misurare l’entità
dell’ibridazione in base alla quantità di tracciante radioattivo che resta
depositato sul filtro. Il grado di ibridazione fra due acidi nucleici a filamento
singolo può essere considerato un indice del grado di complementarietà tra le
loro sequenze. Due sequenze infatti non possono perfettamente ibridare se non
sono complementari. Se sono strettamente correlate ma non identiche, danno
origine ad un duplex imperfetto in cui l’appaiamento tra le basi si interrompe a
livello delle sequenze che non sono complementari.
Le topoisomerasi
Le topoisomerasi sono un gruppo di enzimi presenti in tutte le cellule, i quali
svolgono un ruolo importante specialmente in processi quali la replicazione e la
trascrizione del DNA, in quanto sono coinvolti nella modificazione del grado di
superavvolgimento della doppia elica. Il loro compito è quello di rimuovere i
superavvolgimenti mediante una rottura temporanea del singolo o del doppio
filamento, a cui seguono immediatamente risaldature senza la formazione di
estremità libere dei filamenti. Le topoisomerasi si dividono in due classi
principali:
La “topoisomerasi I” rompe transitoriamente una sola delle catene del DNA,
facendola ruotare sull’altra rimasta integra, ed infine unisce le estremità
interrotte; il numero di legame, in questo caso, viene aumentato di 1 unità,
ossia ΔL=+1. In questo modo la topoisomerasi I introduce un
superavvolgimento positivo eliminandone uno negativo. L’energia rilasciata
dalla rottura del legame fosfodiestere, che tiene unite le basi a livello della
rottura, viene accumulata dall’enzima e rilasciata per la formazione del
nuovo legame subito dopo il passaggio del filamenti integro. L’enzima, quindi,
per riformare il legame fosfodiestere non richiede ATP.
La “topoisomerasi II”, invece, rompe entrambe le catene del DNA e
modifica il valore di ΔL con incremento negativo di 2 unità, quindi ΔL=-2. La
topoisomerasi II interviene quando nella molecola di DNA sono presenti
molti superavvolgimenti positivi. Questo enzima avvolge il DNA su se stesso,
rompe entrambi i filamenti e le estremità si legano ai residui amminoacidi
dell’enzima per creare un passaggio per il DNA; quindi fa passare la seconda
doppia elica attraverso la rottura, successivamente risalda la rottura
creata ed infine si dissocia dal DNA. In questo modo si ricongiungono i DNA
interrotti e si rigenerano i legami fosfodiestere di entrambi i filamenti. Il
fatto che l’energia viene conservata dall’enzima indica che esso è in grado di
compiere la reazione senza energia esterna. Osservando però il bilancio
netto di energia notiamo che vi è la conservazione di 2 molecole di ATP.
Questo è dovuto al fatto che la topoisomerasi II per poter tornare a
funzionare è come se dovesse ricaricarsi, per cui l’idrolisi di 2 molecole di
ATP serve per la rigenerazione dell’enzima e non per lo svolgimento della
sua azione.
Anche nei procarioti esistono due differenti topoisomerasi: la “dna girasi” e la
“girasi inversa”. La “DNA girasi” è una particolare topoisomerasi II la quale
introduce superavvolgimenti negativi in una molecola chiusa rilassata. Essa si lega
ad un DNA duplex circolare e lo superavvolge progressivamente. La forma
superavvolta ha un’energia libera maggiore di quella della forma rilassata e
l’energia necessaria per compiere la conversione è fornita dall’idrolisi di ATP. La
girasi è stata caratterizzata meglio in E.coli come un tetramero formato da due
subunità α e β (2α e 2β). Ognuna delle subunità del dimero è costituita da un
dominio ATPasico, da un dominio centrale contenente la “tirosina catalitica” ed un
dominio C-terminale. La “girasi inversa”, invece, è una topoisomerasi I in grado di
introdurre superavvolgimenti positivi.
Eterocromatina e Eucromatina
Esistono due forme di cromatina: l’ “eucromatina” e l’ “eterocromatina”.
L’eucromatina contiene un’elevata quantità di proteine non istoniche ed è
costituita da DNA scarsamente colorabile e altamente ripetuto. Essa
rappresenta la maggior parte del genoma e durante l’interfase appare
estremamente decondensata occupando gran parte del volume nucleare. In tale
fase, è scarsamente colorabile con i coloranti basici (è più chiara). Durante la
mitosi, invece, essa va incontro ad una fase di condensazione, diventando ben
colorabile con i coloranti basici (diventa più scura). E’ questa, dunque, la
componente della cromatina che subisce l’alternanza tra stati di condensazione e
decondensazione durante le varie fasi del ciclo cellulare. L’eterocromatina,
invece, contiene una minore quantità di proteine non istoniche ed è costituita da
DNA altamente ripetuto che non viene mai trascritto. Essa è sempre presente in
uno stato di elevata condensazione durante tutto il ciclo cellulare, per cui di
conseguenza ha una colorazione più intensa dell’eucromatina, sia durante
l’interfase che durante la mitosi. Nelle stesse fibre si alternano, senza
interruzione, eucromatina ed eterocromatina che, come sappiamo, rappresentano
gradi diversi di condensazione del materiale genetico e ciò è direttamente
correlato con la loro attività trascrizionale. Infatti i geni all’interno
dell’eterocromatina sono trascrizionalmente inattivi, al contrario di quelli
dell’eucromatina che invece sono trascrizionalmente attivi. L’eterocromatina può
essere distinta a sua volta in: “eterocromatina costitutiva” ed “eterocromatina
facoltativa”. L’eterocromatina costitutiva è costituita da regioni di DNA
altamente ripetitivo, concentrata principalmente a livello del centromero e dei
telomeri. L’eterocromatina facoltativa, invece, corrisponde a specifiche regioni o
anche ad interi cromosomi che sono altamente condensati e, quindi
trascrizionalmente inattivi in una linea cellulare, mentre in un’altra linea cellulare
le stesse sequenze possono essere meno condensate e costituite da eucromatina
e, quindi essere trascrizionalmente attive. Un esempio di eterocromatina
facoltativa è quella che costituisce il “corpo di Barr”, un cromosoma X inattivo
nelle cellule somatiche di femmine (XX) di mammifero.
Telomeri
Un altro elemento strutturale presente in tutti i cromosomi è il telomero,
costituito da una lunga serie di brevi sequenze ricche di G e T ripetute molte
volte in tandem, e sono localizzati alle due estremità dei cromosomi lineari. Il
DNA dei telomeri appartiene alla stessa categoria del DNA dei centromeri: è
composto da DNA satellite che ha una funzione strutturale e non codificante. I
telomeri svolgono quattro funzioni principali:
Evitano che le estremità generate da rotture cromosomiche possano
fondersi formando un cromosoma anomalo;
Proteggono le regioni codificanti dalla degradazione delle esonucleasi, cioè
evitano che nei cromosomi termini la sequenza codificante;
Contribuiscono alla localizzazione dei cromosomi nel nucleo tramite
l’associazione con la membrana nucleare;
Svolgono un ruolo importante nella replicazione, facendo sì che tra una
replicazione e l’altra non venga persa alcuna informazione presente nei
cromosomi.
Le estremità di ciascun cromosoma lineare non vengono facilmente replicate dalla
DNA polimerasi e, di conseguenza, ad ogni duplicazione il cromosoma tenderebbe
ad accorciarsi perdendo così materiale genetico e, dunque, la sua funzionalità. Il
problema viene risolto quindi dalla presenza dei telomeri, che aggiunti alle
estremità dei cromosomi proteggono le regioni codificanti, subendo essi un
accorciamento ad ogni duplicazione. Infatti, in tal caso, ciascun filamento
perderà DNA telomerico e non sequenze codificanti. Successivamente tale DNA
telomerico viene sintetizzato da un enzima detto “telomerasi”, per cui la
lunghezza si mantiene costante impedendo che le sequenze codificanti siano
aggredite dalle esonucleasi. La presenza di un limite al numero di divisioni
cellulari, dovuto all'accorciamento dei telomeri, fu individuato per la prima volta
da Leonard Hayflick. Hayflick ha scoperto che, anche quando isolate, le cellule
possono dividersi solo un numero limitato di volte, dimostrando che ogni cellula ha
un meccanismo intrinseco che limita il numero di divisioni cui può partecipare la
cellula stessa, e quindi stabilire la durata della sua vita. I suoi studi hanno
portato ad ipotizzare che è la lunghezza del telomero a limitare il numero di volte
che una cellula si può dividere: esso è quindi indice della “senescenza della
cellula”. In accordo con queste ipotesi, è stato osservato che il DNA telomerico
isolato da una persona giovane è più lungo di quello isolato da una persona più
anziana. A conferma di ciò si è visto come le cellule staminali e quelle tumorali non
rispondano a tale legge, in quanto in esse la vita è più lunga grazie al
mantenimento dell’attività della telomerasi. Gli studi sulle cellule tumorali in
coltura, infatti, dimostrano come queste si possono dividere un numero infinito di
volte, tant’è che vengono dette “immortalizzate”. Uno studio sui telomeri è stato
compiuto anche sulla pecora Dolly, il primo mammifero clonato nel 1997. In questo
caso è stato osservato che i telomeri di Dolly erano lunghi quanto quelli della
“madre”, e ciò era in disaccordo rispetto alla sua età. Dolly, infatti, invecchiava
più velocemente rispetto a quanto ci si aspettasse, e questo provava
ulteriormente come la lunghezza dei telomeri sia un indice dell’età di una cellula.
I genomi
La quantità di DNA presente in un genoma aploide è caratteristica per ogni
specie vivente ed è indicata dal “valore C”: C presenta un ambito di variabilità
enorme. Le cellule degli animali e delle piante più evolute possiedono più DNA
rispetto ad E.coli e ciò dipende dal fatto che passando da organismi unicellulari
ad organismi pluricellulari, non solo aumentano le funzioni svolte da tali organismi,
ma esse divengono anche più differenziate e complesse. A ciò deve corrispondere
una maggiore complessità del DNA che codifica per le proteine che svolgono tali
funzioni. Tuttavia, non tutto il DNA presente nelle cellule viene utilizzato per
codificare proteine; in realtà è stato osservato che solo una parte di DNA è
trasformato in proteine, per cui non c’è corrispondenza tra la quantità di DNA
presente nel genoma ed il numero delle proteine codificate: questo fenomeno è
noto come “paradosso del valore C”. Si è cercato di dare una spiegazione a tale
fenomeno e per questo sono stati condotti degli esperimenti basati sulla cinetica
di riassociazione del DNA denaturato di un genoma. Come sappiamo, se si
sottopone il DNA ad un aumento della temperatura o a variazioni di pH, esso si
denatura dissociandosi nei due filamenti che lo compongono. Tale denaturazione è
reversibile perché, rimuovendo l’agente denaturante, il DNA si rinatura e questa
riassociazione è dovuta all’appaiamento tra le basi complementari. Per
determinare la cinetica di riassociazione si utilizza la tecnica dell’ibridazione:
questa tecnica consiste nella formazione di molecole ibride quando DNA
denaturati, ma omologhi, provenienti da due fonti diverse vengono mescolati nelle
condizioni appropriate di temperatura e forza ionica. Alternativamente si può
porre in soluzione, in una stessa provetta, il DNA denaturato ed un singolo
filamento di DNA a sequenza nota. In entrambi i casi, la rinaturazione del DNA
dipenderà dall’interazione dei due filamenti complementari e seguirà le leggi della
reazione di secondo ordine. Quindi:
-KC2 = dC / dT
dove:
K = costante di riassociazione
C = concentrazione di DNA a singolo filamento
T = tempo
C / Co = 1 / 1 + K Cot
dove Cot ½ è il prodotto della concentrazione iniziale del DNA per il tempo in cui
si ha una riassociazione del 50%. Da questa equazione ricaviamo che il tempo t ½
è direttamente proporzionale alla concentrazione iniziale del DNA ed è
inversamente proporzionale alla costante di velocità K. Questo significa che
all’aumentare della lunghezza del genoma (Co), diminuisce K e quindi aumenta t ½.
Più precisamente Cot ½ dipende dalla complessità del genoma: più è lungo
quest’ultimo, e dunque più complesso il DNA, più è lungo il tempo di riassociazione.
Questa cinetica di riassociazione può essere rappresentata graficamente
mediante la “curva del Cot” in cui la frazione di DNA che si riassocia è riportata
in funzione del log Cot. Se analizziamo il fenomeno di denaturazione e
rinaturazione del DNA di tre organismi procariotici, il grafico mostra che
nonostante si tratti di tipi di procarioti diversi, l’andamento della curva del Cot è
sempre uguale; ciò che varia è solo la complessità degli organismi.
I genomi eucariotici
Gli stessi esperimenti di riassociazione eseguiti con il DNA procariotico sono
stati effettuati con DNA eucariotico, ottenendo una curva più complessa in
quanto in essa si osservano tre regioni ad andamento sigmoidale sovrapposte. Ciò
significa che nel DNA eucariotico si possono identificare tre diverse componenti,
che differiscono tra loro per la velocità di riassociazione:
1. Una “componente veloce” (corrispondente al 25% del genoma), così definita
in quanto rappresenta la prima frazione che si riassocia. Infatti essa ha una
complessità molto bassa, cioè contiene una sequenza do 300 bp che si ripete
500.000 volte nel genoma. A questa bassa complessità dunque corrisponde
un basso valore del Co t ½ .
2. Una “componente intermedia” (corrispondente al 30% del genoma), la quale
si riassocia un po’ più lentamente rispetto alla componente veloce in quanto
ha una complessità maggiore, essendo costituita da una sequenza di 6 x 105
bp che si ripete 350 volte nel genoma. A questa maggiore complessità
corrisponde un valore maggiore di Co t ½.
3. Una “componente lenta” (corrispondente al 45% del genoma), che è l’ultima a
rinaturare in quanto ha una complessità molto alta, essendo costituita da
una sequenza di 3 x 108 bp che è presente una sola volta nel genoma.
La componente veloce rappresenta il “DNA altamente ripetuto”, la componente
intermedia invece rappresenta il “DNA mediamente ripetuto”, la componente
lenta infine rappresenta il “DNA a sequenza unica o non ripetuto”. Quest’ultima
componente corrisponde alla porzione di DNA che codifica per la maggior parte
delle proteine e corrisponde all’unica componente del DNA procariotico.
Pseudogeni
Un altro fattore che contribuisce a spiegare il paradosso C è rappresentato
dall’esistenza nel genoma di “pseudogeni”. Essi sono delle regioni presenti nel
DNA eucariotico che possiedono un’organizzazione simile ai geni funzionali, cioè
sono costituiti dall’alternanza di esoni e di intoni, ma non possono essere tradotti
in una proteina funzionante a causa di diverse mutazioni.
1. Se la mutazione avviene a livello della regione che controlla la trascrizione
del gene, esso non sarà più trascritto e dunque non sarà più espresso (cioè
sarà un gene silente). Tale mutazione porta quindi all’abolizione del segnale
per l’inizio della trascrizione.
2. La mutazione può avvenire durante il processo di maturazione dell’mRNA
che porta appunto alla formazione dell’mRNA maturo (processo di splicing).
La maturazione dell’mRNA dovrebbe avvenire in modo tale da consentire la
formazione di un codone in seguito al corretto ricongiungimento degli esoni
adiacenti. Tale mutazione tuttavia porta l’inibizione dello splicing e quindi
alla formazione di una proteina non funzionante.
3. Si possono avere anche mutazioni che cambiano la cornice di lettura per cui
si crea un codone di stop che determina la formazione di una proteina
tronca. Tale mutazione porta alla terminazione prematura della traduzione.
4. Infine si possono avere mutazioni nel corso della sintesi proteica.
Dunque gli pseudogeni rientrano nel “pool” di DNA che non codifica per alcuna
proteina. Essi sono anche definiti “i rami secchi dell’evoluzione”, in quanto
durante l’evoluzione ad un certo punto si è avuta una mutazione che ha reso il
gene inattivo.
DNA minisatellite e microsatellite: nei genomi dei mammiferi sono presenti delle
regioni molto simili ai satelliti in quanto anch’esse costituite da brevi sequenze in
tandem, ma non possono essere considerate dei veri e propri satelliti, in primo
luogo perché l’unità ripetitiva è più piccola rispetto a quella dei satelliti, e in
secondo luogo perché tale unità si ripete un numero minore di volte. Infatti,
mentre il DNA satellite è costituito da un’unità lunga che si ripete in tandem
milioni di volte, il “DNA minisatellite” è formato da un’unità di lunghezza
intermedia che si ripete migliaia di volte, mentre il “DNA microsatellite” è
costituito da una piccola unità che si ripete 100 volte nel genoma. Così come i
satelliti, anche questi DNA possono essere localizzati a livello dei centromeri, dei
telomeri o sparsi in regioni cromosomiche differenti. Il DNA minisatellite e il
DNA microsatellite sono caratterizzati da un intenso “polimorfismo”: si parla di
polimorfismo in quanto tali sequenze sono coinvolte in modificazioni di vario tipo
(es. delezioni, inserzioni) che ne modificano la sequenza, variandone nel contempo
anche la lunghezza. Tuttavia, dal momento che questi tratti di DNA non
codificano per alcun prodotto genico, queste variazioni non comportano
alterazioni fenotipiche. Quando l’unità ripetuta contiene da 2 a 46 bp si parla di
“STR” (short tandem repeats), ovvero di una breve sequenza ripetuta in tandem e
la regione che la contiene è detta anche “regione microsatellite”; quando, invece,
l’unità ripetuta è lunga da qualche decina di bp a 200 bp è chiamata “VNTR”
(variable number tandem repeat) e la regione genomica che la contiene è detta
“regione minisatellite”. Sia che si tratti di STR che di VNTR queste sequenze, nei
vari individui, si ripetono nella stessa regione un numero differente di volte e ciò
fa si che i loci in cui tali ripetizioni sono contenute abbiano dimensioni differenti.
Proprio la grande variabilità dei microsatelliti e dei minisatelliti li rende
particolarmente utili come marcatori nelle tecniche di “tipizzazione del DNA”, o
“DNA finger printing”, cioè nelle tecniche usate in medicina legale per
l’identificazione di un individuo o nei test di paternità o maternità. Un altro tipo
di marcatore che si può utilizzare per la mappatura del genoma umano è la
sequenza “SNP” di singoli nucleotidi: si tratta di sequenze che nei vari individui
differiscono per un singolo nucleotide. E’ stato osservato che nel genoma umano
ci sono 3 milioni di SNP, molti di più degli altri tipi di marcatori descritti in
precedenza.
I trasposoni
Nell’ambito del DNA mediamente ripetuto si riscontrano altre sequenze molto
importanti: gli “elementi trasponibili” o “trasposoni”. Si tratta di sequenze mobili
di DNA che possono migrare in regioni diverse del genoma. Nei procarioti gli
elementi trasponibili possono spostarsi in posizioni nuove sullo stesso cromosoma,
mentre negli eucarioti tali elementi possono muoversi sia sullo stesso cromosoma
sia su cromosomi diversi. Sia nei procarioti che negli eucarioti, quindi, gli elementi
trasponibili si inseriscono in nuove posizioni sul cromosoma con le quali non hanno
omologia di sequenza; la trasposizione è, dunque, un processo diverso dalla
ricombinazione omologa, ed è chiamata “ricombinazione non omologa”. Gli elementi
trasponibili possono produrre mutazioni, ad esempio, possono aumentare o
diminuire l’espressione genica inserendosi nelle sequenze regolative di un gene.
Le sequenze a singola elica sono, poi, completate dalla DNA polimerasi e dalla
DNA ligasi (apparato replicativo della cellula ospite), con la conseguente
produzione di un elemento IS integrato con 2 ripetizioni dirette (DR) del sito
bersaglio che lo fiancheggiano. Si parla di sequenze ripetute dirette perché le
due sequenze hanno lo stesso orientamento. Ad esse si dà anche il nome di
“duplicazioni del sito bersaglio”.
dove:
dNMP rappresenta il deossinucleotide 5’-monofosfato (filamento
preesistente di DNA che funge da stampo);
dNTP rappresenta il deossinucleotide 5’-trifosfato (è il prodotto della
biosintesi dei nucleotidi);
“n” rappresenta il numero di nucleotidi.
La sintesi della catena avviene sempre in direzione 5’-3’ e non può avvenire in
direzione contraria altrimenti non sarebbe possibile la formazione del “legame
fosfodiesterico” tra il 3’-OH terminale ed il nuovo nucleotide. Il doppio senso
delle frecce indica che la reazione è reversibile. A spingere la reazione verso
destra (in direzione della biosintesi), tuttavia, è l’idrolisi del pirofosfato (PPi),
catalizzata dall’enzima “pirofosfatasi”, in due gruppi fosfato. L’idrolisi del
pirofosfato, che rende quindi irreversibile la reazione, permette la produzione di
energia necessaria alla polimerizzazione.
DNA polimerasi
La DNA polimerasi per poter funzionare ha bisogno di:
Magnesio;
Una catena stampo già preformata, in quanto l’enzima sintetizza a partire
dalle informazioni presenti su un altro filamento di DNA che fa da stampo e
pertanto viene definito DNA-dipendente;
Un innesco o “primer”, poiché non è capace di iniziare una sintesi ex-novo.
Tale primer è rappresentato da un piccolo filamento di RNA sintetizzato
dall’enzima “primasi”. Esso deve essere per forza un filamento di RNA
poiché la primasi è un enzima RNA polimerasi e, a differenza della DNA
polimerasi, non ha bisogno di un primer per iniziare la sintesi che avviene
dunque ex-novo. Generalmente il primer è costituito da una sequenza di
nucleotidi non molto lunga (15-20 nucleotidi).
Dei substrati, rappresentati dai “deossiribonucleosidi 5’-trifosfato”, i quali
forniscono l’energia necessaria per la formazione del legame
fosfodiesterico.
La struttura della DNA polimerasi assomiglia ad una mano destra parzialmente
chiusa nella quale si colloca il complesso innesco-stampo. Il “palmo”, costituito da
un foglietto β, contiene gli elementi principali del sito catalitico e controlla la
correttezza dell’appaiamento delle basi. Le “dita”, invece, svolgono la funzione di
trattenere il dNTP (deossinucleotide 5’-trifosfato) nella corretta posizione per
la reazione catalitica. Il pollice, infine, non è direttamente coinvolto nella catalisi,
ma piuttosto interagisce con il DNA neosintetizzato. Oltre all’attività di
polimerizzazione, la DNA polimerasi svolge anche l’attività di correzione e di
riparazione. Vi sono infatti due attività “esonucleasiche”: innanzitutto abbiamo
un’attività esonucleasica 3’-5’, detta anche attività di “correzione delle bozze”, o
“proof-reading”, capace di degradare il DNA in direzione opposta alla sua sintesi.
Questa attività consiste nel controllo e nella correzione di errori che possono
verificarsi durante la replicazione. Uno di questi errori è l’appaiamento di un
nucleotide sbagliato, che se non fosse rimosso provocherebbe un
malfunzionamento della proteina risultante. L’attività dell’esonucleasi 3’-5’, quindi,
è quella di scindere il nucleotide sbagliato distruggendo il legame fosfodiestere.
Sperimentalmente venne utilizzata una DNA polimerasi priva di questa attività, e
la frequenza di errori in questo caso era aumentata di 1 x 106 nucleotidi. L’altra
attività esonucleasica, invece, è rappresentata dall’esonucleasi 5’-3’. Questa
attività è in grado di degradare una catena di DNA o RNA legata allo stampo, la
quale poi viene sostituita simultaneamente mediante l’attività polimerasica 5’-3’
dello stesso enzima. La DNA polimerasi è un enzima “processivo”. Un enzima si
dice “processivo”, o “progressivo”, quando si lega al suo substrato e non lo lascia
fino a quando non ha terminato la sua reazione. Un enzima si dice invece
“distributivo”quando si lega a più substrati contemporaneamente e partecipa a più
reazioni, lavorando solo parzialmente su tutti e generando quindi diversi prodotti.
Il grado di processività è definito come il numero medio di nucleotidi
polimerizzati dall’enzima nell’unità di tempo (ogni polimerasi ha un proprio grado
di processività).
DNA polimerasi procariotiche: in E.coli sono state individuate tre forme di DNA
polimerasi: Pol I, Pol II e Pol III.
1. La DNA polimerasi I è codificata dal gene “Pol A” ed è specializzata nella
rimozione dei primer a RNA che vengono utilizzati per iniziare la sintesi di
DNA. L'enzima consiste in una singola catena polipeptidica che, mediante
trattamento proteolitico, può essere suddivisa in due frammenti: il
maggiore (parte C-terminale), chiamato “frammento di Klenow”, è dotato
dell'attività polimerasica 5'-3' (sintesi) e dell'attività esonucleasica 3'-5'
(proof-reading), mentre il frammento più piccolo (parte N-terminale)
possiede soltanto l'attività esonucleasica 5'-3'.
2. La DNA polimerasi II, invece, è codificata dal gene “Pol B” e consiste
anch’essa di una singola catena polipeptidica. La sua funzione è tutt’ora poco
chiara, tuttavia si pensa che possa avere una funzione specializzata
nell’ambito della riparazione del DNA.
3. La DNA polimerasi III, infine, è l’enzima con l’attività di “replicasi” ed è
responsabile dell’allungamento della catena di DNA durante la replicazione.
Tale enzima è costituito dai seguenti componenti:
Due nuclei di polimerizzazione, o “core”, costituiti: dalla subunità α
(alpha), che compie l’attività di polimerizzazione 5'-3', la subunità ε
(epsilon), che compie l’attività di proof-reading, e la subunità θ (theta),
che invece è necessaria per l’assemblaggio del nucleo enzimatico;
Due unità τ (tau) che connettono i due core enzimatici;
Un complesso γ (gamma) costituito da cinque subunità: la subunità γ,
che lega ATP; la subunità δ (delta), che lega β; la subunità δ', che lega γ e
δ; la subunità χ (chì), che lega le proteine SSB; infine la subunità ψ (psì),
che lega χ e γ.
La DNA polimerasi III è connessa anche alla subunità β, o “sliding clamp”, che
aumenta la processività dell’enzima. Vi sono due copie della subunità β (dimero),
che insieme formano la cosiddetta “pinza”, la quale svolge il compito di far
scivolare l’enzima sul DNA: questa pinza si apre, avvolge il DNA, e si chiude
tenendo il DNA al suo interno. Per potersi aprire e avvolgere il DNA, tuttavia, ha
bisogno di ATP che viene fornita dal “complesso γ-δ”, detto anche “caricatore
della sliding clamp” (sliding clamp loader). Quest’ultimo svolge anche la funzione
di rimuovere la pinza dal DNA nel momento in cui la reazione di sintesi del DNA è
terminata. Nel loro insieme tutte queste subunità formano il complesso
enzimatico formalmente definito “DNA polimerasi III oloenzima”, che sintetizza
il DNA con elevata processività, mentre in assenza della subunità β parliamo
semplicemente di “DNA polimerasi III core”.
INIZIO: i procarioti hanno una molecola di DNA circolare a doppio filamento che
viene replicata a partire da un’unica origine di replicazione , detta “oriC”. In E.coli
oriC è lungo circa 245 bp ed è formato da brevi sequenze ripetute
particolarmente ricche di adenina e timina, le quali contengono solo due legami
idrogeno: questo permette loro di separarsi più facilmente e più velocemente.
Tali sequenze consistono in tre ripetizioni da 13 bp e quattro da 9 bp.
Si tratta di regioni in cui il DNA deve iniziare a denaturarsi. Tali regioni sono
riconosciute da specifiche proteine: in particolare 4 molecole di DNA A, ciascuna
associata ad una molecola di ATP, si legano alla sequenza consenso di 9 bp;
successivamente altre proteine DNA A si legano cooperativamente finché 20-40
molecole (monomeri) arrivano a formare un agglomerato centrale sul quale si
avvolge DNA Oric, formando una struttura simile ad un nucleosoma con le
proteine all’interno ed il DNA avvolto all’esterno. Dopo che il DNA si è avvolto
attorno alle proteine DNA A, a livello delle tre ripetizioni da 13 bp (ricche di A e
T) inizia la denaturazione della doppia elica: questa è un’operazione mediata dalla
proteina “HU”, simile agli istoni. Successivamente due esameri della proteina
“DNA B” si legano al complesso con l’aiuto della proteina “DNA C”: la DNA B
funziona come un’ “elicasi” che svolge ulteriormente il DNA in entrambe le
direzioni, creando due “forche di replicazione” (occorrono due elicasi perché la
duplicazione si muove in maniera bidirezionale).
Una volta formata l’ansa vi è l’assemblaggio della sliding clamp, caricata mediante
il “caricatore della sliding clamp” appartenente al complesso γ della polimerasi.
Praticamente succede che ogni qual volta si sintetizza un frammento di Okazaki,
la pinza β si carica, sintetizza, finisce, si scarica e si rilascia. Vi è quindi una
continua sintesi di frammenti di Okazaki con la pinza che si carica e si scarica.
I primers a RNA vengono rimossi ad opera della “DNA polimerasi I”, i quali
vengono sostituiti da catene di DNA sintetizzate dallo stesso enzima.
L’interruzione che rimane, infine, viene risaldata ad opera dalla “DNA ligasi”, che
catalizza la formazione di un legame fosfodiesterico 5’-3’. Questo legame si
sintetizza in una maniera diversa da quello della polimerasi. Esso si forma tra
l’ultimo nucleotide di un frammento di Okazaki e il primo del frammento di
Okazaki sintetizzato successivamente. A differenza della DNA polimerasi, che
utilizza come substrati i ribonucleosidi trifosfato, qua i ribonucleosidi già si
trovano nella catena, quindi non possiamo aggiungere ribonucleosidi trifosfato per
formare tale legame. In questo caso c’è bisogno di una fonte di energia fornita
dall’ATP; quindi si scinde l’ATP per formare il legame fosfodiesterico. Dapprima
un gruppo AMP (che deriva dall’ATP) viene legato ad un residuo di lisina nel sito
attivo dell’enzima formando il complesso “enzima-AMP”. Poi il gruppo 5’P che si
trova a livello dell’interruzione si lega all’AMP sostituendosi con l’enzima.
Successivamente, il gruppo 3’-OH a livello della discontinuità si lega al 5’P
rimuovendo l’AMP e fornendo un legame fosfodiesterico 5’-3’ che sigilla
l’interruzione.
Fase di inizio: abbiamo detto che la trascrizione dell’RNA inizia in punti specifici
sul DNA, detti “promotori”, a livello dei quali avvengono: l’attacco della RNA
polimerasi, la separazione dei due filamenti e la scelta dell’elica da copiare.
Affinché tale processo abbia inizio, tuttavia, una forma dell’RNA polimerasi,
detta “oloenzima”, deve necessariamente legarsi al promotore. L’oloenzima è
formato da un “nucleo enzimatico” (o core) costituito da quattro polipeptidi (2α, β
e β’), legato ad un altro polipeptide detto σ. Le subunità β e β’ costituiscono
insieme il centro catalitico dell’enzima; la subunità α, invece, non ha un ruolo
diretto nella trascrizione ma è necessaria per l’assemblaggio del nucleo
dell’enzima, ed interviene nell’interazione dell’RNA polimerasi con alcuni fattori di
regolazione; il “fattore σ”, infine, è essenziale per il riconoscimento della
sequenza del promotore. Il suo compito, infatti, è quello di garantire che l’RNA
polimerasi batterica si leghi stabilmente al DNA soltanto a livello del promotore
e non su altri siti. I promotori possiedono due sequenze critiche per l’inizio della
trascrizione:
1. “Tata box”, che consiste in una sequenza consenso di 6 bp ricca di T e A,
mappata a -10 (5’-TATAAT-3’);
2. “Gaca box”, mappata a -35 (5’-TTGACA-3’).
La distanza che separa i due siti è sempre compresa tra 16 e 18 bp.
Fase di allungamento: al termine della fase di inizio l’RNA polimerasi, che fino ad
ora era rimasta sul promotore, si allontana da quest’ultimo muovendosi lungo lo
stampo di DNA. La transizione dallo stato di inizio a quello di allungamento è
associato ad un cambiamento nella conformazione dell’oloenzima che libera il
fattore σ. Infatti finché il fattore σ rimane legato al nucleo enzimatico, esso non
può dissociarsi dal promotore perché il legame tra σ e il DNA è molto forte. In
assenza di σ, invece, l’enzima non si lega in modo specifico al promotore ed è in
grado di allontanarsi dal sito di inizio: questo processo è definito “liberazione del
promotore”. A questo punto, poiché l’oloenzima da solo non è perfettamente
funzionale, altre proteine accessorie si legano al nucleo e danno origine alla
“macchina proteica” della trascrizione. Una di queste proteine è “NUS A”
(fattore di allungamento), la quale si lega alla polimerasi, impedisce a σ di
riassociarsi ad essa e permette l’allungamento della catena di RNA. Durante la
fase di allungamento man mano che l’RNA polimerasi si sposta lungo il DNA, anche
la bolla di trascrizione si sposta con l’enzima, e la catena dell’RNA nascente si
allunga. In pratica, man mano che si sposta, l’enzima srotola la doppia elica del
DNA nella regione anteriore alla bolla, esponendo una nuova porzione dello stampo
a singolo filamento. I nucleotidi vengono poi aggiunti all’estremità 3’ della catena
nascente di RNA, formando un ibrido DNA-RNA nella regione srotolata. Alle
spalle della regione srotolata, il filamento stampo si riappaia con il filamento
codificante, riformando la doppia elica. L’RNA infine emerge in forma di
filamento singolo.
RNA polimerasi II
L’RNA polimerasi II è l’enzima che trascrive tutti i geni i cui prodotti sono
destinati ad essere tradotti in proteine, come pure alcuni geni che codificano per
piccole molecole di RNA interessate nel processo di maturazione dell’mRNA.
L’analisi di un tipico promotore dei geni trascritti dall’RNA polimerasi II ha
permesso di dimostrare che esso è formato da tre brevi sequenze localizzate
intorno a -25, -75 e -90. La regione localizzata a circa 25 bp a monte del punto di
inizio ha una sequenza consenso simile alla sequenza TATA dei procarioti tranne
che per la localizzazione. La TATA box tende ad essere circondata da sequenze
ricche in A e T ed anche negli eucarioti, così come nei procarioti, rappresenta il
sito a livello del quale avviene la separazione dei due filamenti. La minoranza dei
promotori che non contiene un elemento TATA prende il nome di “promotori
TATA-less”. Esperimenti condotti per analizzare il ruolo della Tata box nella
trascrizione dei geni di tipo II hanno permesso di dimostrare che se la Tata box
si trova nella sua solita localizzazione, cioè a -25, la sintesi dell’RNA comincia da
+1. Se essa viene spostata nella regione -15 l’RNA viene trascritto non più a
partire dal punto +1 ma da +10. Ponendo la Tata box a -5, invece, l’RNA si viene a
formare a partire dalla regione +20. Sommando queste distanze, il totale è
sempre 25, pertanto è come se la Tata box fosse una specie di “spaziatore” che
stabilisce il punto d’inizio della trascrizione. Oltre alla TATA box in un promotore
dell’RNA polimerasi II è presente un’altra sequenza necessaria per l’inizio della
trascrizione: si tratta della sequenza “CAAT” posizionata a -75 bp a monte del
sito di inizio. Mentre la TATA box definisce la corretta posizione del sito di
inizio della trascrizione, la CAAT box invece è necessaria per garantire che
l’efficienza della trascrizione sia elevata. I promotori della classe II contengono
frequentemente anche un altro elemento comune, la cui sequenza consenso è
GGGCGG, da cui “GC-box”, che è posta a -90 bp a monte del sito d’inizio della
trascrizione. Dunque il promotore dei geni di tipo II è costituito da una serie di
elementi: quello più vicino al sito d’inizio della trascrizione è detto “elemento
prossimale” ed è rappresentato dalla TATA box, mentre gli altri elementi posti a
maggior distanza sono detti “elementi distali”. Confrontando queste sequenze
con quelle dei procarioti possiamo trarre un importante conclusione. La superficie
di DNA su cui si inseriscono gli elementi di regolazione è molto più estesa di
quella occupata dai promotori dei procarioti. Nei batteri, infatti, le sequenze che
prendono contatto con l’RNA polimerasi sono localizzate fino a -50 bp dal punto
di inizio. Nelle cellule eucariotiche, invece, le sequenze di regolazione coprono un
tratto molto esteso, che può raggiungere anche i 200-300 nucleotidi (enhancer).
RNA Polimerasi I
Abbiamo già detto che gli eucarioti, oltre alla Pol II, hanno altre due polimerasi:
Pol I e Pol III. Questi enzimi sono correlati alla Pol II e ne condividono persino
alcune subunità, ma iniziano la trascrizione da promotori distinti e trascrivono
geni differenti. L'RNA polimerasi I trascrive soltanto i geni per l'RNA
ribosomiale a partire da un singolo tipo di promotore. Quest'ultimo è composto da
due parti:
1. L’elemento centrale (o core) che si trova intorno al sito di inizio della
trascrizione, da -45 a +20.
2. L’elemento di controllo a monte (UCE), il quale si estende da -180 a -107 e
svolge la funzione di aumentare l’efficienza dell’elemento centrale.
Entrambe le regioni hanno una composizione insolita per un promotore essendo
ricche in coppie di basi G-C. L’RNA polimerasi I richiede due fattori
trascrizionali per poter iniziare la trascrizione: SL1 e UBF. Il fattore che si lega
al core del promotore è SL1, ed è costituito da quattro subunità proteiche. Uno
dei costituenti di SL1 è TBP, un fattore richiesto nella fase di inizio anche
dall’RNA polimerasi II e III. TBP non si lega direttamente al DNA ricco di G-C,
ma il legame al DNA è dovuto ad altri componenti di SL1. Quest’ultimo ha un ruolo
importante nell’assicurare che l’RNA polimerasi I si posizioni correttamente a
livello del punto di inizio. All’elemento UCE, invece, si lega il fattore di
trascrizione UBF, il quale svolge due funzioni: 1) stimola il rilascio del promotore
da parte dell’RNA polimerasi, e 2) stimola SL1. UBF si lega al solco minore del
DNA e avvolge il DNA in un’ansa avvolta per circa 360° sulla superficie proteica,
con il risultato che il core del promotore e UCE si avvicinano, permettendo così a
UBF di stimolare il legame di SL1 al promotore.
RNA polimerasi III
I promotori della Pol III sono di forme diverse e la maggioranza di essi ha la
caratteristica insolita di essere posizionata a valle del sito d’inizio della
trascrizione. Alcuni promotori della Pol III, ad esempio quelli per i geni per il
tRNA, sono composti da due regioni, chiamate Box A e Box B, separate da un
elemento corto; altri invece, come quelli per il gene per l’rRNA 5S, contengono la
Box A e la Box C, separate anche loro da un elemento intermedio.
Proprio come per la Pol II e Pol I, la trascrizione della Pol III necessita di
fattori trascrizionali aggiuntivi alla polimerasi. In questo caso i fattori vengono
chiamati TFIIIB e TFIIIC per i geni per i tRNA, con in più TFIIIA per il gene
dell’rRNA 5S. I promotori dei geni per i tRNA inizialmente richiedono il legame di
TFIIIC su Box A e Box B. Questo permette a TFIIIB di legarsi al sito di inizio e,
in seguito, di reclutare la RNA polimerasi III. Come accade per le altre due classi
di polimerasi, anche la Pol III utilizza TBP; in questo caso il fattore si trova
all’interno del complesso TFIIIB. I promotori per il gene per l’rRNA 5S, invece,
inizialmente richiedono il legame di TFIIIA su Box A, il quale aiuta TFIIIC a
legare Box C. La contemporanea presenza di TFIIIA e di TFIIIC permette a
TFIIIB di legarsi al sito di inizio. Una volta che TFIIIB si è legato, TFIIIA e
TFIIIC possono anche essere rimossi, e la sola presenza di TFIIIB è sufficiente
per permettere alla RNA polimerasi III di legarsi.
Enhancer
Non sempre i promotori funzionano da soli. Infatti in questi casi la loro attività
può essere enormemente incrementata dalla presenza di un gruppo di sequenze
poste a distanza variabile dal promotore e che nell’insieme costituiscono un
“enhancer”, cioè un intensificatore. Il motivo per cui un enhancer si distingue dal
promotore risiede nel fatto che il promotore è formato da sequenze di DNA che
devono trovarsi in una posizione relativamente fissa rispetto al punto d’inizio,
mentre la posizione dell’enhancer rispetto al promotore, e quindi rispetto al punto
d’inizio, non è fissa, ma può variare di molto. Uno dei primi enhancer ad essere
stato caratterizzato è quello del virus SV40. Questa sequenze presenta
importanti caratteristiche: essa può essere rimossa dal genoma e posta in
prossimità del promotore di un altro gene, e nonostante ciò essere ancora
funzionante. Essa, inoltre, funziona sia in direzione 5’-3’ che in direzione 3’-5’.
Cosa ancora più sorprendente agisce sia in prossimità che a migliaia coppie di basi
a monte del promotore e persino se posta all’interno del gene (in un introne) o
oltre la sua estremità 3’. Benché il primo enhancer sia stato scoperto nel genoma
di un virus, questi elementi di regolazione sono molto comuni anche negli
eucarioti, sia a livello dei geni trascritti dalla Pol I sia dalla Pol II. Essi sono detti
“enhancer cellulari”, sono generalmente lunghi 50-150 bp ad hanno le medesime
caratteristiche degli enhancer procariotici. Il ruolo essenziale dell’enhancer,
quindi, è quello di aumentare la concentrazione dei fattori di trascrizione in
vicinanza del promotore.
Maturazione dell’mRNA
Una volta trascritto, l'mRNA eucariotico prima di essere esportato dal nucleo e
poi tradotto, deve subire un processo di maturazione che prevede:
L’aggiunta di un cap dell'estremità 5’ dell'RNA;
L’aggiunta di una coda di polyA all'estremità 3';
La rimozione degli introni, mediante il processo di “splicing”.
Il primo evento della maturazione dell’RNA è quindi il capping. Questo processo
prevede l'aggiunta di una base guanina metilata all'estremità 5' dell'RNA. Di
fatto si tratta di un residuo di 7-metilguanosina legato al residuo 5’-terminale
dell’mRNA attraverso un insolito legame 5’,5’-trifosfato.
Splicing dell’RNA
Il DNA eucariotico presenta “geni interrotti”, cioè costituiti da regioni
codificanti, dette “esoni”, e regioni non codificanti, dette “introni”. Gli introni
devono essere eliminati dal trascritto primario prima che l’informazione genetica
venga portata fuori dal nucleo, per poi essere letta e convertita in proteina. Gli
introni vengono rimossi dai pre-mRNA attraverso un processo chiamato “splicing
dell’RNA” (è la fosforilazione della Serina-2 a livello delle ripetizioni della coda
CTD che porta al reclutamento del macchinario necessario per lo splicing).
Questo processo, quindi, converte il pre-mRNA in RNA maturo e deve essere
molto preciso per evitare la perdita o l’aggiunta anche di un singolo nucleotide nei
punti in cui gli esoni vengono uniti. I confini tra gli esoni e gli introni sono marcati
da sequenze nucleotidiche specifiche all’interno del pre-mRNA. Queste sequenze
specificano dove avverrà lo splicing. Il confine esone-introne all’estremità 5’
dell’introne è marcato da una sequenza chiamata “sito di splicing 5’“, mentre il
confine esone-introne all’estremità 3’ dell’introne è marcato dal “sito di splicing
3’“ (questi siti vengono anche chiamati rispettivamente sito donatore e sito
accettore). Per lo splicing, tuttavia, è necessaria una terza sequenza chiamata
“sequenza di ramificazione”, la quale si trova all'interno dell'introne, di solito
vicino alla sua estremità 3', ed è seguita da un segmento di polipirimidina. Le
sequenze consenso di ciascun elemento sono: GU al sito di splicing 5’, AG al sito di
splicing 3’ e A al punto di ramificazione. Queste sequenze conservate si trovano
tutte all’interno degli introni.
Spliceosoma:
Gli RNA componenti lo spliceosoma, detti “small nuclear RNAs” (snRNA), sono gli
RNA U1, U2, U4, U5 e U6, hanno lunghezza compresa tra 100 e 300 nt, e
formano complessi con diverse proteine costituendo le cosiddette “small nuclear
ribonucleoprotein” (snRNP). Il ruolo delle snRNP è:
1. Riconoscere il sito di splicing al 5’ e il punto di ramificazione;
2. Avvicinare tra loro questi siti;
3. Catalizzare le reazioni di transesterificazione.
U1 è rilasciato
U4 si allontana;
U6 e U2 interagiscono e formano il sito catalitico attivo e la giunzione
al 5’ è tagliata;
1° reazione di transesterificazione;
U5 interviene per avvicinare i due esoni ed è tagliata la giunzione al 3’;
2° reazione di transesterificazione.
RNA transfer
La traduzione dell’informazione contenuta nella sequenza di nucleotidi (sotto
forma di codoni) in amminoacidi è l’essenza della sintesi proteica. Questa
operazione viene svolta da molecole di tRNA che agiscono da “adattatori” tra i
codoni e gli amminoacidi che essi stessi individuano. Esistono molte varianti di
molecole di tRNA, ma a ciascuna è legato un amminoacido specifico e ciascuna
riconosce un particolare codone, o codoni, dell’mRNA.
INIZIO: all’inizio della traduzione un tRNA carico entra nel sito P del ribosoma.
Questo evento necessita di un tRNA speciale, noto come “tRNA iniziatore”, che
accoppia le proprie basi con quelle del codone di inizio AUG che codifica per la
metionina (quindi l’amminoacido inizialmente inserito in ogni proteina è una
metionina). Nei batteri questa metionina iniziale viene modificata in N-
formilmetionina mediante l’aggiunta di un gruppo formilico alla porzione ammino-
terminale. In questo caso il tRNA iniziatore carico con questo amminoacido è
detto “tRNA-N-formilmetionina”. L’N-formilmetionina rappresenta il primo
amminoacido a partire dal quale inizia la sintesi di tutte le proteine batteriche.
L’aggiunta del gruppo formilico è importante in quanto se ciò non dovesse avvenire
l’NH2 libero potrebbe essere coinvolto in altre reazioni o attaccato dalle
“esopeptidasi”, enzimi che degradano le proteine a partire dall’estremità N-
terminale. Il tRNA iniziatore (tRNA-N-formilmetionina) sarà in grado di avviare
la sintesi proteica legandosi al sito P del ribosoma, formato dall’mRNA e dalla
subunità minore. Dopo il caricamento del tRNA, quindi, bisogna che nel complesso
ci sia anche la subunità ribosomiale minore 30S. Ciò richiede l’intervento di tre
fattori d’inizio: “IF1”, “IF2” e “IF3”, nonché di una molecola di GTP. Il primo
fattore che agisce è IF3 che si lega alla subunità 30S libera, impedendo che
questa si possa riassociare alla subunità 50S prima che si sia completata la
formazione del complesso d’inizio. Per questa sua capacità IF3 è un “fattore
antiassociativo”. Anche gli altri fattori d’inizio, IF1 e IF2, si legano alla subunità
30S. Di questi, IF2, che porta legato il GTP, è in grado di distinguere il tRNA-N-
formilmetionina dagli altri amminoacil-tRNA normali, garantendo così che all’inizio
solo il tRNA iniziatore si posizioni nel sito P. IF1, invece, si lega alla subunità 30S
solo successivamente per stabilizzare il complesso d’inizio. Dopo che i tre fattori
si sono legati alla subunità 30S del ribosoma, quest’ultimo va, a sua volta, ad
interagire con la regione dell’mRNA che porta il codone d’inizio AUG. Questo
codone, tuttavia, non è sufficiente come segnale di legame tra il ribosoma e
l’mRNA, ma è richiesta anche la presenza di una sequenza localizzata
approssimativamente 10 nucleotidi a monte dell’estremità 5’ del codone d’inizio.
Si tratta di una sequenza ricca di purine, lunga dalle 5 alle 8 bp, detta “sequenza
di “Shine-Dalgarno”, la quale interagisce mediante l’appaiamento complementare
delle basi con un segmento ricco di pirimidine situato presso l’estremità 3’
dell’rRNA 16S della subunità ribosomiale 30S. Con ciò il ribosoma si localizza
sull’mRNA. Il passo successivo consiste nella formazione di un legame tra il tRNA
iniziatore ed il codone di inizio AUG per completare il complesso. Infine,
interviene la subunità 50S del ribosoma la quale si unisce alla subunità più piccola
formando un ribosoma completo. Quando ciò accade i fattori d’inizio vengono
rilasciati, grazie all’attività GTPasica di IF2 che idrolizza il GTP solo quando la
subunità grande si unisce a quella piccola, formando così un ribosoma 70S attivo.
ALLUNGAMENTO: al termine della fase d’inizio il sito P è occupato dal tRNA-N-
formilmetionina, mentre il sito A è vuoto. Perché possa formarsi il primo legame
peptidico è necessario che nel sito A venga posizionato l’amminoacil-tRNA
contenente l’amminoacido specificato dal codone dell’mRNA che si trova nel sito
A. Due proteine, chiamate fattori di allungamento “EF-TU” e “EF-TS”, sono
necessarie per portare al ribosoma, che sta eseguendo la traduzione, gli
amminoacil-tRNA appropriati. In particolare EF-TU è un monomero con un sito di
legame per il GTP. Nelle cellule procariotiche il complesso EF-TU/GTP si associa
all’amminoacil-tRNA, formando un complesso ternario che si lega al ribosoma e
deposita l’amminoacil-tRNA nel sito A. La deposizione nel sito A richiede l’idrolisi
del GTP che provoca la formazione del complesso EF-TU/GDP che è rilasciato nel
ribosoma. A questo punto, però, EF-TU non può legare altre molecole di
amminoacil-tRNA fino a quando il GDP non si dissocia. A tale scopo entra in azione
il fattore di allungamento EF-TS, il quale catalizza lo scambio nucleotidico tra il
GDP e il GTP. Dopo che l’amminoacil-tRNA si è inserito nel sito A si ha la
formazione di un legame peptidico tra il gruppo carbossilico (-COOH)
dell’amminoacido N-formilmetionina, legato al tRNA nel sito P, e il gruppo
amminico (-NH2) del secondo amminoacido che è legato al tRNA nel sito A. La
formazione del legame peptidico è catalizzata dall’enzima “peptidiltransferasi”
della subunità maggiore del ribosoma. In seguito alla formazione di tale legame la
N-formilmetionina viene trasferita sul sito A, formando un “peptidil-tRNA”,
mentre nel sito P rimane un tRNA scarico che viene rilasciato. Per poter tradurre
il codone successivo, il ribosoma avanza di tre nucleotidi in direzione 3’
sull’mRNA: questo movimento è definito “traslocazione”. Ciò fa si che il peptidil-
tRNA si sposti dal sito A al sito P. Avvenuta la traslocazione, il ribosoma presenta
il sito A ancora vuoto, pronto per ricevere l’amminoacil-tRNA che corrisponde al
codone successivo. La fase di traslocazione richiede la partecipazione di un altro
fattore di allungamento , detto “EF-G”, una proteina monometrica con un sito di
legame per il GTP. EF-G si lega al ribosoma per facilitare la traslocazione e viene,
poi, rilasciato in seguito all’idrolisi del GTP. Una volta che il ribosoma si è
spostato dal sito d’inizio sull’mRNA, avviene un altro evento di inizio.
TERMINE: man mano che il ribosoma si muove lungo l’mRNA in direzione 5’-3’, il
sito A viene occupato da diversi codoni. Quando in tale posizione si viene a
trovare uno dei tre codoni di terminazione (UAA, UAG, UGA), dal momento che
essi non specificano per nessun amminoacido, non c’è alcun tRNA che possa
legarsi ad essi, per cui il peptidil-tRNA resta bloccato sul sito P. A questo punto
intervengono specifici fattori di rilascio: “RF1”, “RF2” ed “RF3”. Di questi RF1
riconosce i codoni di stop UAA e UAG; RF2 riconosce i codoni UAA e UGA; RF3
non è in grado di riconoscere nessuno dei codoni di stop. Tuttavia esso lega il GTP
ed ha il compito di stimolare gli eventi di terminazione. Nel corso di tali eventi
questi fattori alterano l’attività della peptidil-transferasi, facendole idrolizzare
il legame estere del peptidil-tRNA e provocando così il rilascio della catena
polipeptidica dal ribosoma e la dissociazione di quest’ultimo dall’mRNA. La sintesi
proteica è, dunque, completa.
Sintesi proteica
Legame peptidico
Traduzione: sintesi proteica negli eucarioti
Negli eucarioti le varie fasi della sintesi proteica sono simili a quelle dei
procarioti. Esistono, comunque, delle differenze che derivano da alcune
caratteristiche intrinseche alla cellula eucariotica:
1. Negli eucarioti il meccanismo della trascrizione è fisicamente separato da
quello della traduzione;
2. Le estremità 5’ e 3’ dell’mRNA eucariotico sono dotate di strutture
particolari, quali la coda di poli A al 3’ ed il cappuccio al 5’;
3. Gli mRNA eucariotici sono monocistronici, cioè la loro sequenza codifica per
una sola proteina.
Malgrado queste differenze negli eucarioti le fasi di allungamento e di
terminazione della catena differiscono solo leggermente da quelle dei procarioti,
mentre è nella fase di inizio che esistono le differenze più marcate. Esse
riguardano il modo in cui le subunità minori dei ribosomi riconoscono i siti di inizio
sull’mRNA.
INIZIO: nei batteri la subunità 30S si lega ad una sequenza consenso dell’mRNA
che comprende sia il codone di inizio AUG sia la sequenza di Shine-Dalgarno.
Negli eucarioti, invece, la subunità 40S riconosce due caratteristiche strutturali
dell’mRNA: 1) il cappuccio metilato, e 2) una sequenza consenso situata circa 40
bp a valle e contenente il sito di inizio AUG. In particolare, negli eucarioti, la
subunità minore prima riconosce l’estremità 5’ dell’mRNA (cioè il cappuccio) e poi
si sposta sul sito di inizio dove viene raggiunta dalla subunità maggiore. Tuttavia il
legame della subunità 40S al 5’ dell’mRNA può essere ostacolato dalla
formazione, in tale regione, di strutture secondarie ad anse o forcine. Per questo
motivo questa regione deve essere “linearizzata”, e a ciò provvedono vari fattori
di inizio. Il fattore “IF-4F” riconosce la struttura del cappuccio al 5’ alla quale si
lega e svolge ogni struttura secondaria eventualmente presente nelle prime 15
basi dell’mRNA. L’energia necessaria è fornita dall’idrolisi di ATP. Lo svolgimento
della struttura secondaria nella parte resta dell’mRNA prosegue ad opera di “IF-
4A” e di un ulteriore fattore detto “IF-4B”. A questo punto può intervenire la
subunità 40S che porta a sé legato un complesso ternario, formato da tRNA-
metionina, “IF-2B” e il GTP. Questo complesso si forma, in realtà, in due fasi:
dapprima il GTP si lega a IF-2B con conseguente aumento dell’affinità di questo
fattore per il tRNA-metionina che, a sua volta, viene legato. Ciò porta alla
formazione del complesso ternario che si associa direttamente con la subunità
40S libera. A questo punto è importante l’intervento di “IF3”, che permette alla
subunità 40S, unita al complesso ternario, di legarsi all’estremo 5’ dell’mRNA.
Dopo essersi legata al 5’ la subunità minore migra fino al codone di inizio AUG
situato all’interno di una sequenza consenso detta “sequenza di Kozak
GCGACCAUGG”. In essa la purina (A o G) localizzata 3 basi prima di AUG, e la G
situato subito dopo il codone, sono gli elementi più importanti di questa sequenza
e possono far aumentare l’efficienza della traduzione. Quando la subunità 40S
raggiunge il sito di inizio si ferma, ma l’associazione della subunità 60S non può
avvenire finché IF-2B e IF3 non sono stati rilasciati dal complesso.