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Lezione n° 5 del 14/03/2017

Materia: Immunologia
Revisore:Apo
Argomenti: Aspetti molecolari e funzionale degli anticorpi e antigeni in rapporto ai linfociti B

Nella precedente lezione il docente ha introdotto i meccanismi molecolari che stanno alla base del reclutamento
delle cellule leucocitarie dal torrente ematico a livello capillare sino ai tessuti infettati o danneggiati, in quel
processo sommariamente definito come extravasazione, ricordando che questo processo è funzionale per la
migrazione dei linfociti naïve dal torrente ematico agli organi linfoidi deputati all’attivazione linfocitaria.

ANTICORPI E ANTIGENI

L’immunità adattativa rappresenta l’insieme delle risposte immunitarie specifiche promosse dai linfociti B e dai
linfociti T, nella quale, a differenza dell’immunità innata, non si riconoscono più profili molecolari comuni a
microrganismi potenzialmente patogeni, bensì si opera a livello di substrati relativamente corti ed altamente
specifici noti come antigeni. Per riconoscere tali antigeni il sistema immunitario si è dotato di recettori altrettanto
specifici espressi dai linfociti B e dai linfociti T. I complessi recettoriali propri dei linfociti B sono gli anticorpi, ovvero
strutture proteiche ancorate alla membrana del linfocita stesso. Gli stessi anticorpi, però, possono anche essere
secreti dai linfociti B a livello dei fluidi corporei vascolari ed extravascolari.

STRUTTURA E FUNZIONE DEGLI ANTICORPI


Gli anticorpi o immunoglobuline sono complessi proteici dotati di struttura quaternaria caratterizzata da una
forma ad Y. Questa proteina è composta da una serie di loop chiamati domini immunoglobulinici, così denominati
poiché sono stati individuati per la prima volta come parte costituente degli anticorpi.
I domini immunoglobulinici non sono unici degli anticorpi, poiché numerose proteine espresse dal sistema
immunitario possiedono questa particolare conformazione proteica. Questo dominio particolare è infatti presente
sia nel recettore dei linfociti T noto come TCR (T Cells Receptor), caratteristico dell’immunità specifica cellulo-
mediata, sia a livello delle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità o MHC (Major Histocompatibility
Complex) e persino a livello di proteine utili nel processo di reclutamento leucocitario come ICAM-1, il
controrecettore espresso dall’endotelio per le β-2 integrine), e VCAM-1, il controrecettore espresso dall’endotelio
per le β-1 integrine.
Un dominio immunoglobulinico è definito come un loop strutturale della proteina a livello di una sequenza di 100-
120 amminoacidi chiusi attraverso un ponte disolfuro tra due cisteine.

Un anticorpo è composto da quattro catene unite attraverso legami covalenti dando origine ad un a struttura
relativamente stabile, ulteriormente rinforzata mediante ponti disolfuro.

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Di queste quattro catene, due sono definite catene leggere o LC (Light Chain), in quanto più corte e a basso peso
molecolare, mentre le restanti due sono definite catene pesanti o HC (Heavy Chain), in quanto più lunghe e ad
alto peso molecolare. I domini immunoglobulinici delle catene che compongono gli anticorpi possono essere
rappresentate schematicamente attraverso diverse lettere:
 H: i domini immunoglobulinici della catena pesante (Heavy);
 L: i domini immunoglobulinici della catena leggera (Light);
 C: i domini immunoglobulinici costanti;
 V: i domini immunoglobulinici variabili a livello dell’estremità N-terminale.

Ogni catena leggera ha un dominio immunoglobulinico variabile e uno costante. Ogni catena pesante, invece, ha
un dominio immunoglobulinico variabile e 3-4 domini costanti. All’interno di una classe di anticorpi i domini
immunoglobulinici costanti restano conservati, mentre quelle variabili cambiano, ragion per cui i domini
immunoglobulinici variabili sono responsabili della specificità degli anticorpi nei confronti degli antigeni.

Gli anticorpi presentano anche un dominio detta regione a cerniera o hinge, utile in termini di flessibilità e mobilità
per l’immunoglobulina stessa, rendendo la struttura anticorpale adattabile a conformazioni aperte o chiuse.
Questa struttura differenzia gli anticorpi dai rispettivi antenati individuati dai PRR solubili, quali le ficoline e le
pentraxine, che non presentano la regione a cerniera utile per legare in superficie l’antigene microbico.

Dal punto di vista funzionale, per individuare le regioni attive dell’anticorpo si sfruttò, in passato, il potere digestivo
delle proteasi. Una di queste proteasi, appartenente alla classe delle idrolasi, è la papaina, che se agisce a livello
degli anticorpi origina tre domini funzionali, di cui due definiti con la sigla Fab (Fragment Antigen-Binding), capaci
di legare ancora l’antigene, e il restante terzo definito frammento cristallizzabile o Fc (Fragment Crystallizable),
non più capace di legare l’antigene e che a concentrazione limite tende a precipitare in cristalli. Un’altra proteasi,
nonché idrolasi, è la pepsina, che genera invece un frammento capace di legare l’antigene noto come F(ab’)2,
costituito dalle due catene Fab, e non origina più il frammento cristallizzabile, poiché la pepsina lo idrolizza in
diversi peptidi. Il Fc, a differenza di Fab e F(ab’)2, non è coinvolto nel riconoscimento dell’antigene, bensì nella
funzione effettrice dell’anticorpo, rendendo l’immunoglobulina effettivamente funzionale in ambito immunitario.
Le regioni variabili, responsabili del riconoscimento specifico degli antigeni, sono presenti sia sulla catena pesante,
sia sulla catena leggera.

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L’anticorpo è composto da due bracci, rispettivamente costituiti dall’interazione delle catene leggere con la
regione delle catene pesanti successiva alla regione cerniera che determina l’apertura dell’anticorpo. Ogni braccio
termina a livello dell’estremità N-terminale con due regioni variabili che si fronteggiano: una appartenente alla
catena pesante e una a quella leggera. Questa coppia di regioni variabili forma un’area in cui alloggerà l’antigene
riconosciuto. L’anticorpo, possedendo due bracci e dunque due coppie di regioni variabili, è in grado di legare due
antigeni con la medesima struttura e sequenza. Ogni anticorpo, infatti, riconosce uno e uno solo tipo di antigene.

Una regione variabile, essendo un dominio immunoglobulinico, è una struttura a loop determinata da un ponte
disolfuro. La rottura di tale legame della regione variabile determina il passaggio da una struttura a loop ad una
sequenza linearizzata di 100-120 amminoacidi. Queste sequenze possono essere sovrapposte, confrontate e
paragonate, ottenendo così un grafico particolare.

Il grafico raffigurato in alto, che si riferisce all’immunoglobulina di classe A ma valido anche per le altre classi,
presenta sull’asse delle ordinate il grado di variabilità espresso in percentuale e sull’asse delle ascisse il numero
del residuo amminoacidico che compone il dominio variabile. Questo grafico evidenzia la presenza di regioni
amminoacidiche del dominio variabile delle varie IgA che sono ipervariabili, indicate con la sigla CDR1, CDR2 e
CDR3, colorate rispettivamente con i colori blu, giallo e rosso. Tali particolari regioni amminoacidiche, che
prendono il nome di CDR (Complementary Determining Region), presentano un grado di variabilità estremamente
alto, che si aggira intorno a circa il 90%. Altre regioni, invece, presentano un grado di variabilità decisamente
inferiori, ragion per cui sono discretamente conservate dal punto di vista molecolare.

Le tre regioni ipervariabili o CDR sono disposte a livello delle porzioni più periferiche ed esposte della struttura
tridimensionale a β-sheet dell’anticorpo. Ne consegue che le regioni maggiormente esposte alla possibile
interazione con l’antigene sono quelle che presentano un grado di variabilità superiore, ragion per cui le CDR sono
responsabili della specificità di un anticorpo nei confronti di un antigene, in quanto sono quelle disposte nella
porzione più apicale ed esposta dell’anticorpo.

Le CDR non sono presenti unicamente a livello della regione variabile della catena leggera, bensì sono anche
osservabili a livello della regione variabile della catena pesante. Quest’ultima, infatti, è costituita da tre sequenze
ipervariabili (CDR). A livello della porzione apicale o N-terminale del braccio, dunque, avremo la presenza della
regione variabile della catena pesante e della regione variabile della catena leggera, che, fronteggiandosi, danno
origine ad un numero complessivo di 6 domini ipervariabili maggiormente esposti. Un antigene, per essere
riconosciuto, deve legarsi ad almeno uno di queste sei regioni ipervariabili esposte dall’anticorpo. L’esistenza di
regioni variabili, arricchite ulteriormente da microaree di ipervariabilità, sta alla base della capacità del sistema
immunitario di riconoscere oltre un miliardo di antigeni diversi.
Un dato anticorpo, prodotto da un altrettanto specifico linfocita B, ha una forma di variabilità, dunque di
riconoscimento dell’antigene, che non muta nel corso della sua vita. In altri termini, un linfocita B produce per
tutta la vita uno specifico anticorpo che riconosce uno specifico antigene.

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Quando parliamo di anticorpi parliamo di proteine, per cui possono presentare 2 diversi tipi di localizzazione:
1. A livello della membrana dei linfociti B, come proteina transmembrana dotata di coda carbossilica
idrofobica ancorata nel bilayer fosfolipidico, ove funge da recettore per il linfocita B;
2. Secreti dai linfociti B, ove fungono da effettori proteici della risposta immunitaria dei linfociti B.

Dal punto di vista quantitativo, il corpo umano sintetizza, in condizioni fisiologiche, 3 grammi di anticorpi al giorno
attraverso cellule dell’immunità note come cellule della memoria, ovvero quelle cellule che hanno già incontrato
l’antigene e che producono una concentrazione basale di anticorpi che forniscono un’immunità continua agli
agenti infettivi.
Di questi 3 grammi, circa 2 grammi sono rappresentati da immunoglobuline della classe A, che sono prodotte e
rilasciate nei tessuti mucosali del tratto respiratorio e gastrointestinale. L’estensione di queste ampie superfici
lungo il corpo umano giustifica sicuramente la quantità di anticorpi sintetizzati e rilasciati.

Un anticorpo, se ancorato alla membrana, funge semplicemente da recettore per il linfocita B, il quale, se
opportunamente stimolato da un antigene, è in grado di scatenare una risposta immunitaria.
Un anticorpo secreto, invece, svolge un ruolo immunologico attraverso una di queste 5 funzioni:
1. Neutralizzazione, in cui l’anticorpo si lega a livello di un dominio catalitico potenzialmente dannoso,
mascherandolo. Questo è osservabile, per esempio, a livello del tossoide tetanico, in cui l’anticorpo
maschera il dominio fondamentale per la penetrazione cellulare del tossoide. Altro esempio è quello
relativo al virus dell’influenza, con meccanismo analogo a quello del tossoide del tetano. La
neutralizzazione è anche il processo immunologico che spiega l’efficacia del vaccino, che deve indurre la
produzione di una memoria immunologica neutralizzante, tenendo conto che esistono anche anticorpi
non neutralizzanti;
2. Attivazione del complemento;
3. Opsonizzazione, in cui l’anticorpo, legandosi, evidenzia il microbo, rendendolo più facilmente
riconoscibile dai fagociti che presentano il recettore per l’anticorpo interessato. Questo meccanismo è
interessante, poiché costituisce un chiaro esempio di situazione in cui l’immunità specifica potenzia
l’immunità innata;
4. ADCC (Antibody-Dependent Cellular Cytotoxicity), in cui l’anticorpo, legandosi ad una cellula infettata del
nostro organismo, promuove l’azione citotossica verso la cellula infettata da parte di cellule come le NK
(Natural Killer). Questo meccanismo mira all’eliminazione del microrganismo infettante attraverso
l’uccisione della cellula infettata;
5. Ipersensibilità immediata, in cui l’anticorpo, legandosi al frammento immunogeno, attiva la risposta
immunitaria da parte dei mastociti, i quali agiscono attraverso degranulazione. Questo processo è utile
per eliminare agenti infettivi grandi non fagocitabili, anche se responsabile del fenomeno della reazione
allergica.

I linfociti B, attraverso i rispettivi anticorpi, sono in grado


di riconoscere oltre un miliardo di antigeni, definendo un
sistema di riconoscimento assai specifico e sofisticato. Il
legame anticorpo-antigene attiva i linfociti B, la cui
risposta effettrice, però, è poco specifica e tipicamente
stereotipata, poiché la risposta di queste cellule si limita ai
precedenti 5 meccanismi, sottolineando che un singolo
anticorpo non può attivare tutte e 5 le funzioni.

L’anticorpo, una volta sintetizzato, può presentare a livello


della porzione C-terminale una coda idrofobica, che funge
da punto di ancoraggio alla membrana. Se l’anticorpo non
presenta questa coda, non si comporterà da proteina
transmembrana e verrà secreto. Il linfocita B, mediante
processi di regolazione trascrizionale a livello dell’RNA, è in grado di indurre o meno la produzione della coda
idrofobica.

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CLASSIFICAZIONE DEGLI ANTICORPI
A livello dell’organismo umano sono disponibili cinque classi di anticorpi: IgA, IgD, IgE, IgG e IgM. Queste classi di
immunoglobuline condividono la struttura di base tipica di ogni anticorpo descritta fino ad ora. Le IgD, IgE e IgG
esistono come monomeri, mentre le altre due possono associarsi: le IgA si presentano in dimeri e le IgM in
pentameri.

Le IgA e le IgM, a differenza delle altre tre classi, sono


in grado di legare i corrispettivi monomeri a livello di
una regione J (Joining), che funge da punto di
raccordo. La configurazione a dimeri e a pentameri
delle IgA e delle IgM, a differenza delle IgD, IgE e IgG,
presenta un vantaggio coincidente ad una maggiore
forza di legame dell’anticorpo nei confronti
dell’antigene.

L’interazione singola della regione N-terminale del


braccio di un anticorpo con l’antigene prende il
nome di affinità dell’anticorpo per l’antigene.
Questa è maggiore se entrambi i bracci di un
anticorpo legano l’antigene ed è ancora maggiore se
l’anticorpo si presenta sotto forma di dimeri o
pentameri. Conseguentemente, la forza di legame
dell’anticorpo in dimeri o pentameri è maggiore
rispetto agli anticorpi monomerici, dove questa
forza di legame è definita avidità dell’anticorpo.
Maggiore è l’avidità dell’anticorpo nei confronti del
rispettivo antigene, più forte ed efficace è la risposta
effettrice dei rispettivi linfociti B. Le IgM e le IgA,
dunque, innescheranno una risposta immunitaria
più efficiente.

La differenza tra le varie classi anticorpali risiede in variazioni amminoacidiche a livello delle regioni costanti delle
catene, ragion per cui una regione costante non varia all’interno di una stessa classe anticorpale. Ognuna di queste
classi, dunque, avrà un Fc diverso responsabile della funzione effettrice specifica, per cui ogni classe di anticorpi
ha una funzione effettrice diversa.

Le IgA, ovvero gli anticorpi in maggior misura rappresentati nel corpo umano, sono responsabili a livello mucosale
della protezione anticorpale, ricordando che i siti mucosali rappresentano quell’ampia porzione tissutale esposta
all’ambiente esterno. Questo lavoro è svolto dalle IgA e non dalle IgM, poiché il frammento cristallizzabile delle
IgA presenta una catena polipeptidica accessoria riconosciuta a livello del lato basale degli epiteli mucosali dal
recettore poly-Ig. Questo recettore lega le IgA, portandole all’interno della cellula da un lato e, successivamente,
trasportandola dall’altro lato mediante transcitosi. Le IgA sono cruciali per l’immunità mucosale. Le altre classi
anticorpali non sono presenti a livello delle mucose, poiché non possiedono quella porzione nel Fc utile per legarsi
al recettore richiesto per il passaggio a livello mucosale.

Le IgD costituiscono una classe di anticorpi molto particolare, poiché è l’unica che, eccezion fatta per rare
casistiche, non viene secreta, fungendo unicamente come recettore di membrana per i linfociti B. Le IgD
rappresentano una delle due classi anticorpali presenti a livello della membrana di un linfocita B maturo naïve che
deve ancora incontrare l’antigene.

Le IgE, che hanno un Fc caratterizzato da 4 domini costanti, uno di più rispetto alle IgG; hanno il compito di
scatenare la reazione immunitaria di basofili, eosinofili e mastociti, coinvolti nella risposta allergica o di
ipersensibilità immediata di tipo I. Il mastocita, riconoscendo le IgE, rilascia nell’ambiente il contenuto
principalmente istaminico di vescicole attraverso un meccanismo di degranulazione. Questi granuli, oltre a

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contenere l’istamina, accolgono citochine ed eparina. L’istamina è la principale molecola implicata nella reazione
allergica. Questa risposta, contrariamente a quanto si pensa, risulta un processo immunologico utile per
combattere tutti quei microbi resistenti alla fagocitosi (l’argomento sarà trattato successivamente).

Le IgG sono gli anticorpi coinvolti principalmente nel meccanismo di opsonizzazione e nel processo di attivazione
della via del complemento.

Le IgM sono specializzate nella promozione della cascata del complemento. Rappresentano la seconda classe
anticorpale presente a livello della membrana di un linfocita B maturo naïve.

Queste classi anticorpali attivano risposte immunitarie differenti, poiché presentano un frammento cristallizzabile
differente che si legherà ad un complesso recettoriale preciso, dove questi recettori prendono il nome di FcR
(Fragment Crystallizable Receptors) e riconoscono catene pesanti, dunque frammenti cristallizzabili, diversi per
ogni classe anticorpale.
Le cellule del sistema immunitario esprimono in superficie un set specifico di questi FcR che legano classi di
anticorpi diversi e dunque avranno una funzione diversa. Esistono, insomma, diverse classi di FcR correlati alle
diverse classi immunoglobuliniche.

I recettori che riconoscono le IgG, dotati di una catena pesante γ, sono i FcγR. I recettori che riconoscono le IgE,
dotati di una catena pesante ε, sono i FcεR, e, similmente i recettori per le IgA, che possiedono una catena pesante
α, sono i FcαR.
Una classe anticorpale è riconosciuta, però, da più recettori: per esempio le IgG può essere riconosciute da diversi
Fcγ, quali FcγRI, FcγRIIA, FcγRIIB, FcγRIIIA, FcγRIIIB e FcγRIIIC. La differenza tra questi recettori si concretizza in
termini di affinità: il FcγRI lega le IgG con alta affinità ed è responsabile della fagocitosi, mentre il FcγRIII lega le
IgG con una bassa affinità e promuove la risposta immunitaria citotossica attraverso ADCC.
Similmente le IgE presenta due Fcε, in cui il FcεRI lega le IgE con alta affinità scatenando una risposta allergica
decisa, mentre il FcεRII lega le IgE con una bassa affinità ed è responsabile di una reazione allergica meno
aggressiva.

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Questa specificità tra anticorpi, recettori e cellule testimonia che ogni componente cellulare del sistema
immunitario esprime un corredo di FcR specifico ed unico.
Le IgG sono definite fagocitiche, poiché sono riconosciute da FcγR espressi unicamente da cellule in grado di
fagocitare. Se il FcγR fosse espresso da un mastocita, l’equazione tra fagocitosi e IgG sarebbe errata. A livello
umano, però, osserviamo un’associazione funzionale straordinaria tra immunoglobuline e recettori localizzati in
cellule con medesima strategia effettrice. Per questa ragione una classe anticorpale non svolge tutte le funzioni.
L’unica funzione condivisa da tutte le classi immunoglobuliniche è la neutralizzazione, in quanto è il carattere
distintivo di ogni anticorpo.

Tra le classi anticorpali un’altra differenza importante riguarda l’emivita, in quanto le varie classi di anticorpi hanno
un tempo di dimezzamento diverso:
 IgA: 6 giorni;
 IgD: 3 giorni;
 IgE: 2 giorni;
 IgG: 23 giorni;
 IgM: 5 giorni.

Gli anticorpi vengono prodotti in modo costitutivo, ma la loro azione si limita, eccezion fatta per le IgG, a pochi
giorni. Il meccanismo di degradazione, che è proteasi-dipendente e avviene principalmente nel fegato, risulta
fondamentale per spegnere la risposta anticorpale. Nel caso di ulteriore riconoscimento da parte dei linfociti B
degli antigeni, però, il meccanismo degradativo non riesce ad eliminare gli anticorpi che vengono nuovamente
prodotti dagli stessi linfociti B.
Le IgG presentano un tempo di resistenza decisamente maggiore grazie ad un meccanismo di protezione dalla
degradazione: le cellule endoteliali esprimono in superficie il FcRn (FcR neonatale, Neonatal Fragment
Crystallizable Receptor), che si lega unicamente alle IgG e determina un meccanismo di endocitosi cellulare,
attraverso cui le IgG vengono racchiuse e protette in compartimenti endosomiali intracellulari, mascherando al
contempo il sito di attacco per le proteasi degradative. Queste IgG possono poi essere degradate dal lisosoma o
possono essere riciclate in membrana per poi essere secrete.

L’importanza dell’emivita lunga delle IgG è testimoniata da diverse realtà cliniche: un numero discretamente alto
di patologie autoimmuni sono determinate dalla produzione di anticorpi che riconoscono le IgG, la cui emivita
particolarmente longeva massimizza i danni di queste forme di autoimmunità. I farmaci biologici, che costituiscono
circa l’80% dei farmaci in studio, sono prevalentemente composti da IgG che attivano le citochine pro-
infiammatorie, come TNF (Tumor necrosis factor), e non da IgM, le quali, invece, durano pochi giorni.

ANTIGENI
Gli anticorpi riconoscono antigeni di qualsiasi natura biologica e biochimica, come zuccheri, lipidi e proteine. Gli
anticorpi che legano proteine possono riconoscere:
 Un epitopo lineare, ovvero una semplice sequenza di amminoacidi;
 Un epitopo conformazionale, ovvero una struttura terziaria o quaternaria particolare della proteina;
 Un epitopo criptico, ovvero una sequenza amminoacidica tipicamente self prima non riconosciuta e che,
in seguito a fenomeni autoimmuni, viene riconosciuto.

Per epitopo si intende la porzione molecolare antigenica riconosciuta e legata dall’anticorpo. Un antigene,
ovviamente, può presentare diversi epitopi, riconosciuti da anticorpi diversi.

L’antigene può anche essere un marker tumorale: nel mondo della medicina personalizzata si riconosce un tumore
sfruttando la presenza di anticorpi che riconoscono diversi marker tumorali; ciò risulta utile per somministrare
una corretta terapia. Gli anticorpi utilizzati in ambito terapeutico e diagnostico sono monoclonali, ovvero anticorpi
identici che riconoscono il medesimo antigene.

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DIFFERENZIAMENTO DEI LINFOCITI B E SINTESI ANTICORPI
I linfociti B originano da un precursore midollare a livello del midollo osseo. Questo precursore si differenzia in un
precursore linfoide che, se opportunamente stimolato da segnali a livello del microambiente midollare, si
trasforma in linfocita B, piuttosto che in linfocita T. Il linfocita B neonato inizia, quindi, un processo di maturazione,
che porterà alla formazione di un linfocita B maturo naïve caratterizzato dall’espressione in superficie di recettori
FcR per le IgD e IgM.

Il processo di maturazione è quel fenomeno attraverso cui il linfocita B acquisisce la capacità di produrre anticorpi,
differenziandosi prima in linfocita B maturo naïve che, incontrando l’antigene, si trasformerà in un linfocita B
maturo attivato.

Questo processo di maturazione passa attraverso diverse tappe, ognuna delle quali mappa uno stadio
differenziativo del precursore. Difetti ed alterazioni a carico di uno di questi stadi differenziativi determina la
comparsa di linfociti B non funzionali e, dunque, sono responsabili di diverse forme di leucemia.

Nel passaggio da precursore linfoide a linfocita B maturo attivato si formano intermedi differenziativi importanti:
il precursore linfoide si trasforma in un linfocita pro-B, che si differenzia prima in un linfocita pre-B e poi in un
linfocita B immaturo, il quale diventerà un linfocita B maturo naïve. Questo incontra l’antigene e si trasforma in
un linfocita B maturo attivato secernente anticorpi, anche detto plasmacellula.

In questo processo di differenziamento il precursore risponde a stimoli e segnali presenti nel microambiente
midollare. Nelle fasi più precoci il precursore necessita della presenza di una citochina utile per la sua
sopravvivenza e secreta dallo stroma midollare, che prende il nome di IL-7 (interleuchina-7). Nelle fasi più tardive,
ovvero quando il linfocita B è maturo ed è in circolo, lo stimolo di proliferazione e di sopravvivenza è costituito dal
riconoscimento dell’antigene e non più da IL-7. Il linfocita B naïve, infatti, è una cellula programmata per morire
nel giro di 2-3 mesi, a meno che non dimostri di avere una specificità utile contingente.

Il processo, definito e chiarito all’inizio agli anni ’80, attraverso cui un linfocita B immaturo si differenzia in un
linfocita B maturo potenzialmente capace di sintetizzare anticorpi prende il nome di ricombinazione somatica. Si
tratta di una tappa differenziativa estremamente complessa dal punto di vista molecolare, i cui dettagli e
tecnicismi non sono oggetto di studio e di esame in questo corso.

La scoperta della ricombinazione somatica smontò il paradigma secondo cui ad ogni gene corrisponde una
proteina, superando così quella rigidità mentale che ostacolava la comprensione del meccanismo attraverso cui
da un numero ridotto di geni si ottiene una così ampia varietà di proteine e, dunque, di anticorpi.

In tutte le cellule del nostro organismo sono presenti 2 geni codificanti rispettivamente per le catene pesanti e
leggere dell’anticorpo. Esclusivamente nel linfocita B immaturo entrambi i geni vengono riarrangiati
somaticamente, ovvero la sequenza del gene cambia durante il processo di maturazione. Questa ricombinazione
è associata all’intervento di endonucleasi che tagliano la sequenza del gene.

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Il primo processo della ricombinazione somatica coinvolge il riarrangiamento del gene codificante per la catena
pesante. Il gene codificante è caratterizzato da diverse sequenze geniche (o box) codificanti per le regioni variabili
(V) e costanti (C) della catena pesante. Questo gene, inoltre, contiene una serie di sequenze utili per la sintesi della
regione J (J) e una serie di box definiti regioni di diversificazione (D).
Nelle prime fasi si osserva la formazione di un taglio a due estremità, operato da una endonucleasi, in punti casuali
della regione D e J. Il gene interposto in questo taglio viene eliminato e la restante componente genica si assembla
secondo un meccanismo di ricombinazione. Il meccanismo osservabile, di tipo “taglia e cuci”, prende il nome di
ricombinazione DJ. Successivamente, l’endonucleasi taglia in punti casuali a livello della regione DJ appena
ottenuta e a livello della regione V, con un meccanismo analogo a quello precedente. In questo caso si parla di
ricombinazione V(D)J.
Questo meccanismo di ricombinazione somatica genera, dunque, una sequenza casuale tra le miliardi possibili
combinazioni.

Questa casualità aumenta ulteriormente in quanto, ad


ogni ricombinazione, si osserva l’inserzione di piccole
sequenze nucleotidiche accessorie, contribuendo in tal
modo alla variabilità genetica di questi loci genici.

Questa variabilità genetica alla base della formazione degli


anticorpi, che riconosceranno specifici antigeni, è un
fenomeno completamente casuale indipendente dalla
situazione infettiva contingente, in quanto è precedente
ad esso: la presenza di microbi non esercita una pressione
evolutiva che si concretizza con una riorganizzazione del
materiale genetico. Attraverso la ricombinazione somatica
si generano anticorpi potenzialmente in grado di riconoscere complessivamente oltre un miliardo di antigeni.

Esisteranno dunque sequenze che daranno origine ad anticorpi in grado di riconoscere un antigene assente in quel
contesto temporale. Di questo pool anticorpale, esisterà una quota incapace di esprimere la rispettiva funzionalità
immunologica poiché l’antigene è assente, mentre la restante fetta riconoscerà l’antigene e si attiverà.
L’interazione anticorpo-antigene costituisce il meccanismo alla base della selezione delle immunoglobuline
funzionali nel dato momento: l’anticorpo che non riconosce l’antigene poiché quest’ultimo è assente muore,
mentre l’anticorpo legato all’antigene sopravvive.
Complessivamente ognuno di noi esprimerà un numero straordinario di anticorpi in grado di legare antigeni
casuali. Di questi anticorpi quelli che legano l’antigene, ovvero quelli utili in quell’istante, riescono a sopravvivere,
in quanto il complesso antigene-anticorpo è resistente alla degradazione. Gli anticorpi che invece non legano
l’antigene avranno una vita breve.

In un linfocita B il locus che codifica per la catena pesante degli anticorpi sarà decisamente più breve rispetto a
quello presente, per esempio, in una cellula che non si è differenziata in linfocita B.

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In seguito, la sequenza genica ricombinata per la catena pesante seguirà tutti gli step cellulari di trascrizione e
traduzione necessari per la sintesi della catena stessa.
Un processo analogo, successivamente, avviene per la catena leggera, con una differenza rispetto alla catena
pesante: le catene leggere possono essere di tipo κ o di tipo λ. Statisticamente, la maggior parte dei nostri anticorpi
utilizza catene leggere κ, anche se esiste una quota anticorpale composta da catene leggere λ.

Le catene leggere κ e λ sono codificate a partire da ricombinazione somatica a livello di due diversi locus genici.
Inoltre, il locus genico della catena leggera non contiene la regione della diversificazione, ragion per cui la cellula
opera unicamente una ricombinazione VJ. Questa sequenza ricombinata viene trascritta in mRNA e,
successivamente, tradotta in catene leggere. Al termine della sintesi di queste, le catene pesanti preformate
instaurano legami covalenti con le catene leggere, dando origine al vero e proprio anticorpo.

I linfociti B sono dotati di un patrimonio genetico diploide, ragion per cui avremo la presenza dei locus genici per
le catene pesante e leggera degli anticorpi a livello di due cromosomi, che vengono riarrangiati in modo casuale e
indipendente. Questi due cromosomi ricombinati somaticamente danno origine a sequenze geniche differenti,
che codificheranno per catene pesanti e leggere diverse per i due bracci, i quali riconosceranno due antigeni
diversi.
Gli anticorpi, però, riconoscono per definizione un solo antigene specifico. Questo è possibile attraverso un
fenomeno di blocco epigenetico della ricombinazione somatica e della trascrizione del locus genico presente su
uno dei due cromosomi. Tale meccanismo prende il nome di processo di esclusione allelica, in cui la sintesi a buon
fine di una catena inibisce la ricombinazione e trascrizione dell’altro locus genico. Il processo di esclusione allelica
interessa sia la catena pesante sia la catena leggera con il medesimo meccanismo.

Possono presentarsi diversi casi:


a) Se il linfocita B immaturo sintetizza con successo la catena pesante a partire dal primo allele, il secondo
allele non viene trascritto.
b) In caso di fallimento di sintesi della catena pesante a partire dal primo allele, il linfocita B opera una
ricombinazione somatica e la conseguente trascrizione del secondo allele.
c) Se il linfocita B immaturo sintetizza con successo la catena pesante a partire dal secondo allele, la cellula
procede con ricombinazione e sintesi della catena leggera.
d) In caso il linfocita B immaturo non sintetizzi con successo la catena pesante a partire dal secondo allele,
la cellula va incontro a morte cellulare.

Il linfocita B immaturo che ha già sintetizzato la catena pesante procede con il riarrangiamento dei locus genici per
la catena leggera, che non sono due come per la catena pesante, bensì sono due alleli per la catena leggera κ e
due alleli per quella λ.
Anche qui possono presentarsi diverse casistiche:
a) La cellula prova prima a sintetizzare la catena leggera κ a partire dal primo allele e, se fallisce, procede
con la sintesi della catena leggera κ usando il secondo allele.
b) Se il linfocita B immaturo sintetizza con successo la catena leggera κ o con il primo allele o con il secondo,
le catene pesanti preformate si legheranno covalentemente alle catene leggere formando l’anticorpo.
c) In caso contrario, il linfocita B immaturo prova a sintetizzare la catena leggera λ usando prima un allele e,
in caso di ulteriore fallimento, il secondo allele; questo riarrangiamento del locus genico per la catena
leggera λ in seguito a fallimento della sintesi della catena leggera κ viene chiamato esclusione isotipica.
d) Se fallisce prima la sintesi della catena leggera κ e poi la sintesi della catena leggera λ, allora la cellula
linfocitaria B va incontro a morte cellulare.

Poiché il meccanismo di ricombinazione somatica è casuale, ne consegue che in taluni casi si osserva la formazione
di sequenze nucleotidiche che danno vita a proteine aberranti e non funzionali dal punto di vista recettoriale.
Esiste necessariamente un sistema di controllo di qualità finemente regolato che verifica la funzionalità prima
della catena pesante e poi della catena leggera a livello della membrana del linfocita ove funge da recettore. La
catena pesante, però, non è stabile in membrana, in quanto deve essere associata ad una catena leggera. Il
linfocita B in via di maturazione, per ovviare a questo problema, codifica per due proteine accessorie costanti che
mimano la funzione di una catena leggera in modo tale che la catena pesante sia stabilizzata. Queste proteine
accessorie sono sostanzialmente delle finte catene leggere e prendono il nome di Igα e Igβ. Queste, oltre a

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consentire il trasporto della catena pesante in membrana, stabilizzano complessivamente l’anticorpo ancorato al
bilayer fosfolipidico: l’insieme di queste due catene accessorie con l’immunoglobulina in membrana dà origine al
complesso recettoriale di membrana dei linfociti B o BCR (B Cells Receptor). Le catene pesanti associate a queste
catene accessorie non costituiscono un recettore funzionante, ma risulta fondamentale come meccanismo di
controllo relativamente alla funzionalità delle catene pesanti stesse.
Il medesimo meccanismo di controllo di qualità avviene anche successivamente per le catene leggere a livello della
membrana.

Questo meccanismo di riarrangiamento casuale è estremamente dispendioso con una resa assai bassa, in quanto
la cellula genera un elevato numero di catene non funzionali con conseguente morte cellulare. Si stima che solo il
10% dei precursori sopravvive al processo differenziativo, trasformandosi in linfociti B maturi.
Per quanto riguarda le regioni costanti, il linfocita B trascrive le regioni costanti più vicine al sito di riarrangiamento
che codificano per le catene μ delle le IgM e per le catene δ in caso di IgD. A questo punto il linfocita B è naïve, in
quanto deve ancora incontrare l’antigene.

CLASSIFICAZIONE LINFOCITI B
In realtà esistono diverse tipologie di linfociti B: quelli che fino ad ora abbiamo utilizzato come oggetto di studio o
prototipo sono i linfociti B2. Questi seguono la via di maturazione precedentemente descritta, raggiungendo uno
stadio di differenziazione parzialmente maturo, ovvero capace di produrre anticorpi ma non ancora attivato.
Il linfocita B2 parzialmente maturo lascia il midollo osseo e raggiunge la milza, dove ultima il processo di
maturazione finale, che può seguire due diverse vie differenziative: si può trasformare in un linfocita B2 della zona
marginale della milza oppure in un linfocita B2 follicolare, dove queste due diverse forme specializzate del
linfocita B2 maturano rispettivamente a livello della zona marginale e dei follicoli della milza. Queste due forme
differenziative, inoltre, hanno diversa funzione.

[Domanda di uno studente: Come mai la rimozione della milza è compatibile con la vita nonostante esso costituisca
un punto fondamentale della maturazione dei linfociti B2? La rimozione della milza provoca un deficit immunitario
con la perdita di un importante spettro di azione dell’immunità specifica che risulta comunque compatibile con la
vita].

Un'altra classe di linfociti molto importanti sono i linfociti B1. Questi si differenziano a partire dal fegato in epoca
fetale e si distribuiscono nelle cavità sierose, come il peritoneo, ove proliferano. Queste cellule sono particolari,
perché, a differenza dei linfociti B2, hanno una capacità di diversificare il loro repertorio anticorpale molto più

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limitato: in altri termini, possono riconoscere attraverso un numero limitato di anticorpi un numero di antigeni
molto ridotto, dove questi antigeni sono specialmente di natura lipidica.

I linfociti B1 producono anticorpi naturali, ovvero un pool anticorpale prevalentemente di classe M e poco
diversificato, presente a livelli basali e costitutivi fin dalla nascita senza una opportuna stimolazione.

Questa tipologia di linfociti può essere considerata come uno stadio intermedio tra l’immunità innata e l’immunità
specifica, in quanto presentano meccanismi effettori tipici dell’immunità specifica, anche se la varietà di
riconoscimento è limitata come quella dell’immunità innata.

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