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ELEMENTI DI FISICA E DIDATTICA DELLA FISICA

- Roberto de Luca
Introduzione del corso

Nel 1905 nascono:


• Moti brauniani
• Effetto fotoelettrico
• Relatività ristretta
• Articolo sull’equivalenza massa energia à e=mc2
Ricerche moderne hanno scoperto Trapistone ovvero un sistema planetario formato da esopianeti.
Esso dista 40 anni luce dal nostro sistema solare. Questi per essere esopianeti sono rocciosi, con acqua
e con temperature tra lo 0º e i 100ºC.
La loro caratteristica è che sono come la luna, ovvero, non girando sul proprio asse, non esiste
l’alternativa tra il giorno e la notte, infatti, o è sempre giorno o è sempre notte.

Iniziamo questo corso, pertanto, dando uno sguardo ai prerequisiti di matematica, poiché, come
diceva Galileo Galilei nella sua opera “Il Saggiatore”1, «... la filosofia [della natura] è scritta in
questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo), ma
non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri ne’ quali è
scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure
geometriche, senza i quali mezi [sic] è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è
un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».

E noi non vorremmo essere dei moderni “Maze runner” 2, ossia dei velocisti in un labirinto
inestricabile. Solo alla quarta lezione, pertanto, daremo uno sguardo alla Fisica, all’oggetto dello
studio di questa disciplina e ai primi concetti di cinematica. Proseguiremo, sotto la guida sicura dei
concetti matematici acquisiti, in un percorso di apprendimento della fisica classica che si spera possa
risultare utile alle future generazioni di insegnanti, che saranno chiamati a confrontarsi con esperienze
didattiche sempre più indirizzate verso le discipline scientifiche.

1
EQUAZIONI DI PRIMO GRADO
Immaginiamo di avere un’incognita ! (un numero reale non noto) di cui vorremmo conoscere il
valore. Ad esempio, se qualcuno ci dicesse che esiste un numero che sommato a se stesso e al
numero quattro ci dà otto, noi vorremmo sapere quale è questo numero.
Allora, per risolvere questo problema, cominciamo con il chiamare ! questo numero non noto
(l’incognita) e scriviamo, in termini simbolici questa frase di senso compiuto: «Il numero "
sommato a se stesso e al numero quattro ci dà otto», ossia poniamo:
!+!+4=8 (1.1)
Notiamo innanzitutto la potenza del linguaggio simbolico che condensa, in pochi simboli, la frase di
sopra.
Naturalmente, l’equazione (1.1) può essere riscritta in modo ancora più compatto come segue:
2! + 4 = 8 (1.2)
Adesso dobbiamo cercare dei metodi risolutivi per questa equazione. Facendo leva sui principi di
equivalenza delle equazioni, PEE, che invitiamo lo studente a rivedere nei dettagli, possiamo
scrivere dapprima:
2! = 8 − 4 → 2! = 4 (1.3)
Possiamo dividere per due entrambi i membri della (1.3), ottenendo così:
2! = 4 → ! = 2 (1.4)
Allora, sappiamo che è proprio ! = 2 quel “numero che sommato a se stesso e al numero quattro ci
dà otto”.

EQUAZIONE GENERALE DI 1° GRADO


ax + b = 0 -b + ax + b = - b ax = -b
Proprietà: sommando o
sottraendo la stessa quantità ai
due estremi, l’equazione non
cambia. ù
Esempio:

Proprietà: posso dividere o moltiplicare


con stesse quantità entrambi i membri
dell’equazione. Quindi ax = -b à x = -
!
"

RISOLUZIONE
DATI 3 + 3 + x + x = 14
P = 14cm 2x = 14 – 6
BC = 3cm 2x = 8
AB = X X=4

2
TRIANGOLO DI TARTAGLIA

(α + β)0 = 1
(α + β)1 = α + β
(α + β)2 = α2 + β2 + 2αβ
(α + β)3 = α3 + 3α2β + 3αβ2 + β3
(α + β)4 = α4 + 4α3β + 6α2β2 + 4αβ3 + β4
(α + β)5 = α5 + 5α4β + 10α3β2 + 10α2β3 + 5αβ4 + β5

EQUAZIONI DI SECONDO GRADO


Un’equazione di secondo grado pUò essere scritta nella forma seguente:
ax2 + bx + c = 0
Poniamo:
• (!x + β)2 + " = 0
! 2x2+ β2 + 2!βx + " = 0
#$ &!
Dividiamo tutto per alfa à !x2+ 2βx + =0
'
Poniamo:

Þ !=#
Þ 2β = b à β = (;
!

Þ &! $ #
'
=c
!
• sostituiamo β = ( e ! = #
"!
$# !! !!
• otteniamo #
= c à c# = + " à " = #c –
" ) )
• Ora sostituiamo ! , β, " (con le modifiche appena scritte) nell’equazione iniziale
(αx + β)2 + " = 0 quindi abbiamo:
! !! ! !! ! !! – )"+
&#' + (2 + ac - = 0 à (ax +()2 = - ac + à &#' + (2 =
( ) ) ( )

!
&#' + (2 : una somma al quadrato non può mai essere negativa, quindi il discriminante non può
(
essere negativo. Per questo motivo lo poniamo > 0
• Quindi poniamo b2 – 4ac = ∆ à ∆ ≥ 0
! !! – )"+
• Ora sostituiamo ∆ nell’equazione &#' + (2 = ed otteniamo
( )

3
! !
&#' + (2 =
( "
Per eliminare il quadrato poniamo la radice quadrata e sappiamo che questa ci darà due risultati.
Quindi:

! √- ! √-
#' + ( = ± (
ax = - ( ± (

avendo lo stesso divisore (2), li uniamo e otteniamo

.! ± √- .! ± √-
ax = (
x= ("

Esempio:
x2 – 3x + 2 = 0
∆ = b2 – 4ac = 9 – 4(2) = 9 – 8 = 1 à ∆ > 0
0 ± √1 0±1
X1,2 = à X1 = 2
( (

X2 = 1

Per vedere se i risultati sono giusti basta sostituire prima X1 e poi X2 nell’equazione generale e se
questa ci da come risultato 0, allora i risultati sono corretti.
x2 – 3x + 2 = 0
X1 = 2 —> 4 – 6 + 2 = 0
X2 = 1 —> 1 – 3 + 2 = 0

I VETTORI
Molte grandezze fisiche hanno natura vettoriale. Tra queste le forze e le quantità cinematiche
spostamento, velocità e accelerazione. La più semplice rappresentazione di vettore è il segmento
orientato, così come mostrato in fig. 1.2.

In geometria un segmento orientato %& '''''⃗ , o "vettore applicato", è un segmento dotato di


un'orientazione che rende diverso %& da &%. Esso è quindi determinato univocamente dalla sua
lunghezza (modulo) dalla retta su cui giace (direzione) e dal verso (da % verso & o da & verso %).
Nel piano cartesiano possiamo mettere in corrispondenza un punto con il vettore che congiunge
l’origine ad esso.
Questo ci permette di indicare il vettore assegnando le sue componenti sugli assi (in questo caso le
sue proiezioni ortogonali e il suo modulo sarà dato dal teorema di Pitagora).

4
Figura 1.2 Il segmento orientato %& '''''⃗ ,
'''''⃗, in
in nero, e il segmento orientato &%
rosso.

Esempio:
Trovare il modulo del vettore )⃗ = (4;5) à 4!̂ + 5+̂. Qui !̂ e +̂ sono i vettori unitari (di lunghezza pari
a 1) nella direzione ! e +, rispettivamente. Questa scrittura sarà giustificata in seguito.
Svolgimento Rappresentiamo il vettore )⃗ sul piano Cartesiano come in fig. 1.3. Applichiamo adesso
il teorema di Pitagora per poter trovare il modulo (la lunghezza) del vettore )⃗. Scriviamo pertanto:
) = , )! ." + )# ." = √4" + 5" = √41.
Notiamo che abbiamo indicato il vettore )⃗ con una freccetta, mentre il suo modulo, che è una
grandezza scalare non-negativa, senza la freccetta. A volte un vettore )⃗ viene indicato anche con una
lettera in grassetto, ossia, con 3.
I vettori in Fisica sono segmenti orientati con cui si rappresentano graficamente alcune grandezze
fisiche, e sono definiti da un punto di applicazione, una direzione, un modulo e un verso.

Alcune grandezze fisiche sono definite in modo consistente solo quando, oltre al numero e all'unità
di misura, vengono fissati una direzione e un verso
Tali grandezze si dicono grandezze vettoriali, e sono rappresentate graficamente con una freccia che
prende il nome di vettore.

RAPPRESENTAZIONE E CARATTERISTICHE DI UN VETTORE IN FISICA


La rappresentazione grafica di un vettore è un segmento orientato, cioè un segmento in cui uno dei
due estremi è la punta di una freccia.

Data una qualsiasi grandezza vettoriale A, il vettore che la rappresenta si indica con 4⃗ ed è definito
da:
• un punto di applicazione, che è il punto in cui si applica la grandezza;

5
• una direzione, che coincide con la direzione della grandezza rappresentata;
• un verso, che è il verso della freccia;
• un'intensità (o modulo), che esprime il valore numerico della grandezza.

*se abbiamo A(-2; -3) e A’ (2; 3) allora avremo #⃗ = #⃗′. in questo caso si parla di vettori opposti,
ovvero con stesso modulo e direzione ma verso opposto.

OPERAZIONI CON VETTORI


SOMMA
Dati due vettori 5⃗ = (!1, +1) e )⃗ = (!2, +2) definiamo il vettore somma nel modo seguente:

,⃗ +-⃗ =('1+'2 ; .1+.2) (1.26)


Analogamente per la sottrazione facciamo:

,⃗ - -⃗ =('1-'2 ; .1-.2) -
Nel sommare due vettori, allora, sommiamo le componenti omologhe !1, !2 e +1, +2, così come
prescritto nella (1.26). Sia dato adesso un vettore 5⃗ = (x ; +) e uno scalare 6 (un numero), definiamo
il vettore prodotto nel modo seguente:

/ ,⃗ = (/' ; /.) (1.27)


Giustifichiamo adesso la scrittura nell’Esempio 1.27, in cui un vettore è rappresentato in termini dei
vettori unitari (o versori) !̂ e +̂. Consideriamo allora un vettore qualsiasi 5⃗ = (!, +). Dalle regole
viste sulla somma di vettori e sulla moltiplicazione per uno scalare, possiamo operare la seguente
decomposizione:

,⃗ = (', .) = (', 0) + (0, .) = '(1,0) + . (0,1) (1.28)


Dove (1,0) e (0,1) sono proprio i vettori unitari (o versori) !̂ e +̂. A questo punto è giustificata la
scrittura seguente:

,⃗ = (', .) = ' '̂ + . .̂ (1.29)


Esempio:
7⃗ (2; 2), 8'⃗ (-1; 2) à 7⃗ + 8'⃗ = (2 – 1; 2 + 2) = (1; 4)
REGOLA DEL PARALLELOGRAMMA
La regola del parallelogramma permette di individuare graficamente la somma o la differenza di due
vettori del piano. Dati due vettori )⃗ e 5⃗ esistono due varianti di questa regola (fig. 1.3).
Prima variante
Con una traslazione parallela facciamo in modo che le origini dei due vettori coincidano; costruiamo
un parallelogramma avente come lati i due vettori; il vettore somma ()⃗ + 5⃗) sarà la diagonale del
parallelogramma uscente dall’origine comune; il vettore differenza ()⃗ − 5⃗ ) sarà invece l’altra
diagonale del parallelogramma ed avrà come origine la punta del secondo vettore.
Seconda variante (anche detta metodo punta-coda)
Trasliamo il vettore 5 parallelamente a se stesso in modo che la sua origine coincida con la punta del
vettore )⃗ ; disegniamo il parallelogramma avente per lati i due vettori; il vettore somma ()⃗ + 5⃗) è
6
la diagonale del parallelogramma che unisce l’origine di )⃗ con la punta di 5⃗; il vettore differenza ()⃗
− 5⃗) corrisponde all’altra diagonale del parallelogramma ed ha la punta coincidente con l’origine del
secondo vettore.

Figura 1.3 La regola del parallelogramma nelle sue due varianti.


La seconda Variante (a destra) è anche detta “metodo punta-coda”.
IL PRODOTTO SCALARE
Dati due vettori )⃗ = !1!̂ + +1+̂ e 5⃗ = !2!̂ + +2+̂, definiamo il prodotto scalare tra questi due vettori
come segue:
-⃗· ,⃗ =- , cos1 (1.30)

dove 9 è l’angolo compreso tra i due vettori. Esprimendo adesso i vettori in termini delle loro
componenti e dei versori, possiamo scrivere:

-⃗ · ,⃗ = ('1 '̂ + .1 .̂) · ('2 '̂ + .2 .̂) (1.31)


Effettuando adesso le usuali operazioni algebriche, scriviamo:

-⃗· ,⃗ ='1 '2 '̂· '̂ + '1 .2 '̂· .̂ + '2 .1 .̂· '̂ + .1 .2 .̂· .̂ (1.32)
Per la definizione (1.30) di prodotto scalare, si vede che, essendo !̂ e +̂ ortogonali tra loro, si deve
avere
'̂ · .̂ = .̂ · '̂ = 0 (Perché '̂ · .̂ = x · y · cos90° = 0) (1.33)
D’altro canto, notando che il prodotto scalare di un vettore per se stesso è pari al modulo quadro,
avremo:
'̂ · '̂ = .̂ · .̂ = 1 (Perché '̂ · '̂ = x· x · cos0° = 1) (1.34)
Tenendo conto di queste due ultime relazioni, la (1.32) diventa:

7
-⃗· ,⃗ ='1 '2 + .1.2 (1.35)
Naturalmente, questa scrittura è del tutto equivalente alla definizione data nella (1.30). Calcolando il
prodotto scalare secondo la (1.35) si ha:

-⃗ · ,⃗ = -!, = (-cos1), (1.36)


che equivale alla definizione (1.30). Sostanzialmente possiamo operare facendo il prodotto tra il
modulo del vettore 5⃗ e la proiezione del vettore )⃗ su 5⃗, o viceversa. In questo senso quest’operazione
ci sta dicendo che uno dei due vettori influisce nel computo finale in base a quanto è
inclinato rispetto all’altro. Quest’operazione è fondamentale in fisica a partire dalle basi della
meccanica classica, in cui si usa per formalizzare il concetto di lavoro, fino ad arrivare anche ad
utilizzarlo, in senso più astratto, alle transizioni tra stati in meccanica quantistica.
Si noti che il modulo quadro di un vettore si può scrivere come segue:

-2 = -⃗ · -⃗ = -!2 + -"2 (1.37)


Se invece abbiamo 7⃗ = ax!̂ + ay+̂ e vogliamo fare 7⃗ · 7⃗ otteniamo
#⃗ · #⃗ = (ax'̂ + ay.̂) · (ax'̂ + ay.̂) = aX2'̂ · '̂ + ax ay '̂.̂ + ay ax .̂'̂ + ay2 .̂ · .̂ = aX2 + ay2

0 0
Se invece abbiamo #⃗ moltiplicato per un numero reale chiamato a otteniamo:

a#⃗ = a(ax; ay) = (aax; aay)


Se ho #⃗ (2; 2) allora avrò 2#⃗ (4; 4)

Se avessi avuto -2#⃗ sarebbe stato -2#⃗ (-4; -4) à stessa lunghezza e direzione di 2#⃗ ma verso
opposto.
Se avessi avuto ½#⃗ sarebbe stato ½#⃗ (1; 1) à stessa direzione e verso di 2#⃗ ma metà lunghezza.

8
LA GEOMETRIA ANALITICA
LA GEOMETRIA ANALITICA
Saper rappresentare o saper riconoscere alcune curve geometriche sul piano è un’abilità che uno
studente deve acquisire per poter comprendere più a fondo alcune leggi fisiche. Questo percorso
iniziale sui concetti fondamentali della geometria analitica, pertanto, non sarà dedito solo alle nozioni
di base, che verranno solamente riportate alla memoria, ma tenderà a mettere in evidenza le proprietà
salienti delle curve geometriche e delle coniche in particolare.

LA RETTA
L’equazione della retta è la seguente:

. = 3' + 4 (2.1)
dove ! è detto coefficiente angolare e " intercetta. L’intercetta " rappresenta, graficamente,
l’ordinata del punto di intersezione della retta con l’asse delle #, mentre il coefficiente angolare ! è
la tangente trigonometrica dell’angolo $ che l’asse delle % forma con la retta. In fig. 2.1 è
rappresentata una retta inclinata di un angolo $ = 41.99° rispetto all’orizzontale.

Figura 2.1

Rappresentazione della retta -=./+0 sul piano.


Il coefficiente angolare . è la tangente
dell’angolo 1 e l’intercetta 0 rappresentata
l’ordinata del punto di intersezione della retta con
l’asse delle -.

Attraverso considerazioni grafiche si deduce che, considerati due punti & e ' sulla retta, aventi
coordinate (XA, YA) e (XB, YB), rispettivamente, il coefficiente angolare può essere espresso come
segue:
2 .2
3 = 3$ .3% = %#
∆!
= )*+ $ (tan à tangente) (2.2)
$ %

Un modo per ricavare questa formula è imporre che l’equazione della retta (2.1) passi per & e per ',
in modo da ottenere le seguenti due equazioni:
#& = !%& + " (2.3a)
#' = !%' + " (2.3b)
Sottraendo membro a membro le due equazioni di sopra si trova la (2.2).
Esempio:
Trovare l’equazione della retta passante per i punti & = (0, 1) e ' = (2, −1) e rappresentata in fig. 2.2.

9
1. (.1)
Svolgimento: Usando la (2.2) per !, scriviamo à ! = = −1
6.(

Fatto ciò, sappiamo che la nostra retta ha equazione # = −% + ". Per trovare l’intercetta basta adesso
imporre che la retta passi per uno dei due punti e così trovare " = 1.

Figura 2.2

Rappresentazione della retta passante per i


punti A = (0; 1) e B = (2; -1)

Consideriamo adesso due rette; la prima 21, con coefficiente angolare !1, e la seconda 22, con
coefficiente angolare !2. Dall’interpretazione del coefficiente angolare deduciamo che se le due rette
sono parallele, allora esse hanno lo stesso coefficiente angolare, e perciò:

31 = 32 (2.4)
Si può dimostrare che se le rette sono ortogonali, allora vale la seguente uguaglianza:
1
31 = - 7 (2.5)
!

Se prendiamo il vettore *⃗ e il vettore 45⃗, se le due rette sono perpendicolari, il loro prodotto scalare
deve essere 0
"
#⃗ = #8 '6 + #9 .6 à m1 = "(
)

888⃗ = 78 '6 + 79 .6 à m2 = !(
7 ! )

888⃗ = #8 '6 . 78 '6 + #9 .6 . 79 .6 = axbx + ayby


#⃗ ∙ 7
"( !(
axbx + ayby = 0 à dividiamo tutto per axbx e otteniamo 1 + =0
") !)

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TRASLAZIONI
Consideriamo la retta # = %, bisettrice del primo e del terzo quadrante. Supponiamo di volerla traslare
verso destra di una quantità 1. Per fare ciò facciamo la seguente sostituzione:

'⟶'–1 (2.6)
Otteniamo quindi la retta # = % − 1, che rappresentiamo in fig. 2.3

Figura 2.3

La retta y = x (linea tratteggiata)


è traslata verso destra di una
quantità 1. La nuova retta (linea
continua) è data dall’espressione
y=x–1

Ora supponiamo di traslare la retta # = % verso l’alto di una quantità 2. Per fare ciò facciamo la
seguente sostituzione

.=.−2 (2.7)
Otteniamo così la retta # = % + 2, rappresentata in fig. 2.4

Figura 2.4

La retta - = / (linea tratteggiata) è


traslata verso l’alto di una quantità
2. La nuova retta (linea continua) è
data dall’espressione - = / + 6.

In generale per traslare un luogo geometrico lungo l’asse % di una quantità %0, effettuiamo la seguente
sostituzione all’interno dell’equazione:

' ⟶ ' − '0 (2.8)

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Analogamente, per traslare di una quantità #0 lungo l’asse # la sostituzione da effettuare sarà la
seguente:

. ⟶ . − .0 (2.9)

LA PARABOLA
La parabola è il luogo geometrico dei punti del piano equidistanti da un punto 7 detto fuoco e da
una retta detta direttrice.

Figura 2.5

Il punto < sulla parabola è


equidistante dal punto =, detto fuoco,
e dalla retta chiamata direttrice.

Partendo dalla definizione data sopra, ricaviamo l’equazione della parabola con vertice nell’origine,
così come rappresentata in fig. 2.5. Sia quindi 7 = (0, 8) il fuoco, necessariamente la direttrice dovrà
avere equazione # = −8. La definizione di parabola è equivalente alla seguente condizione: 97 :::: = 9;
::::,
dove 9 è un generico punto di coordinate (%, #). Facendo riferimento alla fig. 2.5, possiamo notare
che:

>>>>
<= = ?(': − '; )( + (.: − .; )( = ?' ( + (. − C)( (2.10a)

>>>> = . + C
<D (2.10b)

Elevando al quadrato >>>> >>>> ed eguagliando, si ha:


<= e <D
x2 + y2 + f2 – 2fy = y2 + f2 + 2fy à x2 = 4fy (2.11)
ossia:

y = ax2 (2.12)
1
dove abbiamo posto a = . Per a < 0 si ottiene una parabola con concavità rivolta verso il basso.
)<
Questo si può notare dal risultato appena trovato, infatti per a < 0 si ha 8 < 0. Tale parabola è
rappresentata in fig. 2.6.

12
Figura 2.6
Parabola con vertice nell’origine e
concavità rivolta verso il basso.

Per ottenere l’equazione generale della parabola, effettuiamo la seguente traslazione degli assi:
' = E − E0 (2.13a)
. = F – F0 (2.13b)
dove (>0, ?0) rappresentano le coordinate del vertice nel sistema @′>?. Sostituendo le (2.13a-b) nella
(2.12), avremo:

F−F0 =#(E−E0)2 (2.14)

ossia,
F = #E2 − 2#E0E + (#E02 + F0) (2.15)
Ponendo adesso 4 = −2*>0 e A = *>02 + ?0, otteniamo:

F = #E2 + 7E + G (2.16)
Dalle relazioni che legano le coordinate del vertice con i coefficienti della parabola si ha:
!
E6 = − (2.17a)
("=

!! .)"+
F6 = − (∆) (2.17b)
)"

Esempio:
' ' )
Studiare la parabola di equazione y = − (
%" + "
%+ (
.
' ' )
Risolvere la disequazione − (
%" + "
%+ (
>0

Svolgimento:
Poiché * < 0 la parabola volge la concavità verso il basso. Dalle formule del vertice si ricava >0 = 1
e ?0 = 2. Pertanto, il vertice G della parabola si trova nel punto (1; 2). Dalla distanza del fuoco dal
1
vertice 8= = 1 si ricava ?+ =?0 – 8 = 1.
)"

13
' ' )
Risolvendo l’equazione − (
%" + "
%+ (
= 0, si trovano i punti di intersezione della parabola con
l’asse delle ascisse: %1 = 1 + 2√2 e %2 = 1 − 2√2.
Possiamo adesso rappresentare la parabola graficamente, così come in fig. 2.7.

Figura 2.7
Parabola di equazione
1 " 1 7
#=− % + %+
4 2 4

' ' )
Per risolvere la disequazione − (
%" + "
%+ (
> 0, bisogna chiedersi quali sono le % per le quali
la parabola si trova al di sopra dell’asse delle ascisse. Pertanto, semplicemente guardando la fig. 2.7,
concludiamo che la soluzione è la seguente: 1 − 2√2 <x< 1 + 2√2.

14
FORMULE PER IL FUOCO DI UNA PARABOLA
Se la parabola ha asse di simmetria verticale, cioè parallelo all'asse y, abbiamo un'equazione del tipo:

y = ax2 + bx + c
le coordinate del fuoco sono date da:
! 1. ∆
= = &− (" ; ( à con ∆ = b2 – 4ac
)"

Se la parabola ha asse di simmetria orizzontale, ossia parallelo all'asse x, allora abbiamo un'equazione
del tipo:

x = ay2 + by + c
e le formule che individuano il fuoco sono in tal caso:
1. ∆ !
== & )"
; − (" ; ( à con ∆ = b2 – 4ac

L’ELLISSE
L’ellisse è il luogo geometrico dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da
due punti fissati detti fuochi.
Denotando con 71 e 72 i due fuochi e indicando con 9 un punto generico sull’ellisse, tale definizione
è equivalente alla condizione seguente 7::::: :::::
' 9 + 7" 9 = costante. Una rappresentazione dell’ellisse è
data in fig. 2.8.

Figura 2.8
Un’ellisse con centro
l’origine e fuochi in F1 e
F2

Partendo dalla definizione ricaviamo ora l’equazione dell’ellisse centrata nell’origine indicando con
* e 4 il semiasse maggiore e quello minore, rispettivamente. Indichiamo, inoltre, con A la distanza dei
due fuochi dall’origine. indichiamo, infine, con (x, y) le coordinate del punto P e scriviamo la
relazione 7::::: :::::
' 9 + 7" 9 = k come segue:

?(' + G )( + . ( + ?(' − G )( + . ( = / (2.18)

Dopo aver spostato a destra il secondo addendo del membro sinistro nella (2.18), eleviamo entrambi
i membri al quadrato, cosicché avremo:

15
2
(% + A)" + # " = (% − A)" + # " + O " − 2O P(' − G ) + .2 (2.19)
Ossia,
2
4A% − O " = 2O P(' − G ) + .2 (2.20)

Elevando ancora entrambi i membri della (2.20) al quadrato, si ha:

4(/ ( − 4G ( )' ( + 4/ ( . ( = / ( (/ ( − 4G ( ) (2.21)


e perciò:
8! 9!
, + , =1 (2.22)
(!)! (!)! .+ !

Imponendo per le coordinate % e # i valori % = * e # = 0, che sicuramente costituiscono un punto


dell’ellisse, si ottiene O = 2*. Pertanto, l’equazione (2.22) diventa:
8! 9!
"!
+ "! .+ !
=1 (2.23)

Figura 2.9
Un’ellisse con centro l’origine e
fuochi in F1 e F2. Il punto P
coincide con uno dei vertici
dell’ellisse.

:::::
Infine, osservando la fig. 2.9, si nota che vale la relazione a2 = b2 + c2 poiché, essendo 7 :::::
' 9 + 7" 9 =
:::::
2° in questo caso si ha 7 Q :::::
' 9 = a (il triangolo 7' 7" 9 è isoscele).

Possiamo quindi scrivere l’equazione dell’ellisse nel seguente modo:


8! 9!
"!
+ !!
=1 (2.24)

Nel caso particolare in cui * = 4 si ottiene l’equazione della circonferenza di raggio * centrata
nell’origine:

x2 + y2 = a2 (2.25)
Quest’ultima è il luogo geometrico dei punti del piano equidistanti da un punto fisso detto centro (in
questo caso è l’origine). Il centro della circonferenza può essere opportunamente traslato come nel
caso della parabola.

16
L’IPERBOLE
L’iperbole è il luogo geometrico dei punti del piano per i quali è costante la differenza delle distanze
da due punti fissati detti fuochi.

Figura 2.10
Un’iperbole con rami
disposti simmetricamente
rispetto all’asse y.

Per trovare l’equazione dell’iperbole si procede come nel caso dell’ellisse, scrivendo:
:::::
7 :::::
" 9 − 7' 9 = O

Utilizzando la relazione pitagorica c2 = a2 + b2, si ha:


8! 9!
"!
+ !!
=1 (2.26)

In fig. 2.10 è rappresentata un’iperbole (curva rossa) e gli asintoti (rette tratteggiate) ottenibili per
grandi valori di % e #, cosicché
9! 8!
≈ "! (2.27)
!!

Ossia,
!
. ≈ ± ' (2.28)
"

L’Eq. (2.28) definisce, pertanto, gli asintoti dell’iperbole, rappresentati con curve tratteggiate in fig.
2.10.

FUNZIONI
Consideriamo l’insieme & = {*1, *2, *3} e l’insieme ' = {41, 42}. L’insieme di tutte le coppie ordinate
che posso ottenere prendendo un elemento di & e uno di ' si denota con & × ' e si chiama prodotto
cartesiano di & con '.

M × N = {(#1, 71), (#2, 71), (#3, 71), (#1, 72), (#2, 72), (#3, 72)} (2.29)

17
Un sottoinsieme di questo insieme si chiama relazione tra A e B e posso indicarlo con
R ⊂ & × '.
Prendiamo, per esempio, R = {(*1, 41), (*2, 41), (*3, 42)}. Posso dire che *1 ∈ & e 41 ∈ ' sono in
relazione R perché (*1, 41) ∈ R e quindi scriverò *1R41. Siamo allora pronti per dare la definizione di
funzione.
Si definisce funzione da & a ' e si denota con 8: & → ' una relazione tra & e ' con la seguente
proprietà

∀# ∈ M ∃!7 ∈ N ∶ #C7 (2.30)


Naturalmente dobbiamo tradurre questi simboli logici e diciamo subito che il simbolo ∀ sta per “per
ogni”, il simbolo ∃ per “esiste”, mentre ∃! sta per “esiste uno ed un solo” e i due punti ( : ) stanno per
“tale che”. In questo modo leggeremo la (2.2) come segue: “Per ogni elemento * di & esiste un solo
elemento 4 di ' tale che * sta in relazione a 4 secondo 8”. E perciò, se * ∈ &, denotiamo con 8(*)
l’unico elemento di ' con cui * è in relazione.
L’insieme & è detto dominio mentre ' si dice codominio.

Figura 2.11
Gli elementi dell’insieme A
vengono messi in relazione con
quelli dell’insieme B

Possiamo immaginare un arciere su ciascun punto del dominio che possiede un'unica freccia da
scoccare verso un elemento del codominio (vedi fig. 2.11). Logicamente ogni arciere colpirà un solo
punto ma nulla vieta a due arcieri di colpire lo stesso.

FUNZIONI INVERTIBILI
Introduciamo preliminarmente i concetti di funzione iniettiva e suriettiva.
Una funzione iniettiva è una funzione che associa a elementi distinti del dominio, elementi distinti
del codominio.
Una funzione suriettiva è una funzione in cui ogni elemento del codominio ha almeno un elemento
del dominio con cui è in relazione.
Una funzione che è sia iniettiva che suriettiva si dice biettiva. Ora possiamo definire le funzioni
invertibili.
Una funzione invertibile è una qualsiasi funzione biettiva. Data una funzione invertibile
# = 8(%) la sua inversa si indica con % = 8−1(#).

18
Esempio:
Si inverta la funzione . = C(') = 3' + 4
Svolgimento:
1 @ 1 @
Ponendo % in funzione di # si ottiene ' = .− . Pertanto, x = 8−1(#) = .− è la funzione
7 7 7 7
inversa di 8(%).

FUNZIONE COMPOSTA
Date due funzioni 8: > → ? e W: ? → X chiamiamo funzione composta l’applicazione
h = W ∘ 8: > → X tale che (W ∘ 8)(%) = W(8(%)). La funzione composta Z(/) = [(\(/)) è mostrata in
fig. 2.12.

Figura 2.12
La funzione composta
z =Z(/) = [(\(/))

Esempio:
Siano date le seguenti funzioni:
# = 8(%) = %2 e ] = W(#) = # + 1.
Trovare le funzioni composte h = W ∘ 8 e ^ = 8 ∘ W.
Notiamo che entrambe le applicazioni hanno come dominio l’insieme dei numeri reali ℝ . Il
codominio della prima funzione è l’insieme dei numeri reali non negativi ℝ* + , mentre quello della
seconda funzione è ℝ.
Svolgimento Effettuiamo tutti i passaggi, applicando la definizione di funzione composta e la
definizione delle funzioni 8 e W data sopra. Cosicché scriviamo:
(W∘8)(%)=W(8(%))=W(%2)=%2 +1;
(8∘W)(#)=8(W(#))=8(#+1)=(#+1)2 =#2 +#+1.
Notiamo come queste due funzioni differiscano tra loro.

FUNZIONE POTENZA
La funzione potenza è una funzione individuata da una potenza con base variabile ed esponente
costante. Consideriamo solo il caso in cui l’esponente è un numero intero:

C (' ) = ' # (2.31)

19
Suddividiamo le funzioni potenza a seconda se l’esponente è un numero pari o dispari. La prima
classe di funzioni gode dalla proprietà 8(−%) = 8(%) e pertanto sono dette funzioni pari, mentre l’altra
della proprietà 8(−%) = −8(%) e sono dette funzioni dispari. Le funzioni potenza con esponente pari
non sono iniettive su ℝ quindi non sono invertibili su questo dominio, ma lo sono sulla restrizione [0,
+∞). Invece le funzioni potenza con esponente dispari sono biettive su tutto ℝ pertanto sono
invertibili. Nella fig. 2.13 si può osservare l’andamento delle funzioni potenza %0, %1, %2, %3, %4 e %5.

Figura 2.13
Rappresentazione grafica delle
funzioni potenza %0, %1, %2, %3, %4
e %5. Le funzioni pari sono
indicate con una linea
tratteggiata, quelle dispari con
una linea continua. L’ordine
crescente dell’esponente è dato
dall’ordine seguente dei colori:
nero, arancione e azzurro

Dalla fig. 2.13 notiamo che, al crescere dell’esponente, le funzioni si appiattiscono nell’intervallo −1
< % < +1 e crescono più rapidamente per % > 1.

FUNZIONI SENO E COSENO


Consideriamo un angolo $ sulla circonferenza goniometrica (ovvero una circonferenza di raggio
unitario). Chiamiamo 9 il punto intercettato dal secondo lato dell’angolo sulla circonferenza
goniometrica (si veda fig. 2.14); tale punto si dice punto associato all’angolo $.

Figura 2.14
Il punto P si dice associato
all’angolo $

Si dicono seno e coseno dell’angolo $ rispettivamente l’ordinata e l’ascissa del punto 9 associato ad
$. Nella fig. 2.15 sono riportati i grafici delle funzioni sin % e cos %, ove x è un angolo espresso in
radianti.

20
Figura 2.15
Rappresentazione grafica delle
funzioni trigonometriche sin x
e cos x

Entrambe sono funzioni periodiche di periodo pari a 2` e assumono valori compresi tra -1 e 1. Inoltre,
la funzione cos % è una funzione pari, mentre sin % è dispari.

FUNZIONE ESPONENZIALE
Consideriamo la seguente funzione:

C (' ) = S 8

8! 8-
C (' ) = 1 + ' + + +⋯ (2.32)
(! 0!

In pratica dividiamo ciascuna potenza per il fattoriale dell’esponente e sommiamo. Notiamo allora
che 8(0) = 1 e 8(1) ≈ 2,718. Man mano che aggiungiamo termini, notiamo che 8(1) → a. Questo ci
fa sospettare che si tratti proprio della funzione ex ed effettivamente è possibile dimostrare che
sommando gli infiniti termini nella (2.16) la si ottiene.

21
Figura 2.16
Funzione
esponenziale ex

Per spiegare il fattoriale, prendiamo tre caselle e 3 palline di diverso colore e chiediamo in quanti
modi le possiamo riempire.
Esempio: se inserisco 1 pallina, me ne rimangono 2. Quando inserisco la seconda, me ne rimane 1.
Quindi capisco che ho 6 modi per mettere le palline.

3 2 1

1 2 3
'( '0
C (' ) = 1 + ' + + +⋯
2! 3!

2' 3' ( 4' 0 '( '0


C =(8) =0+1+ + + +⋯=0+1+'+ + + ⋯ = S8
2 ∙ 1 3 ∙ 2! 4 ∙ 3! 2! 3!

Con questo abbiamo capito che derivando una funzione esponenziale, arriviamo di nuovo alla
funzione di partenza.

IL CALCOLO COMBINATORIO
Entriamo adesso nel mondo fantastico del calcolo combinatorio, che non sarebbe difficile da far
apprendere ai bambini che conoscono già le operazioni algebriche di base.
Definizione: Si chiama fattoriale di un numero + e si denota con +! il prodotto di + con tutti gli interi
precedenti.
Cosicché 5! = 5 ∙ 4 ∙ 3 ∙ 2 ∙ 1 = 120 e 6! = 6∙ 5! = 720.
Questo numero assume il significato di permutazione di + oggetti.

22
Esempio:
Quanti sono gli anagrammi (anche insensati) della parola “cane”?
Svolgimento: Ragioniamo nel modo seguente. Ho 4 modi per decidere quale sarà la prima lettera.
Scelta la prima, avrò tre modi di scegliere quale sarà la seconda e così via. Insomma, stiamo dicendo
sostanzialmente che gli anagrammi sono 4! Ovvero ventiquattro.
B
Definizione: Si chiamano combinazioni di + elementi di classe O e si indica con A.,/ o con YC Z che
si legge coefficiente binomiale + su O, il numero di sottoinsiemi di O elementi che posso formare a
partire da + elementi (senza tenere conto dell’ordine).
B
Per arrivare a definire, matematicamente, il numero G#,$ = YC Z, possiamo immaginare di permutare,
inizialmente, gli + elementi, ottenendo il numero +!. Adesso poiché non importa né l’ordine dei O
elementi che scegliamo né di quello degli (+ − O) elementi che non scegliamo, si può dividere tale
numero per O! (+ − O)!, cosicché si ha:
B!
YBCZ = C!(B.C)! (1.21)

Esempio:
Quanti saluti in totale si possono contare a un incontro di 10 persone, se ciascuna persona saluta
l’altra?
Svolgimento: Ragioniamo in questo modo. Se la persona b saluta la persona c e c risponde al saluto,
o viceversa, è come se avessimo accoppiato la persona b e la persona c attraverso questo saluto
reciproco.
16
Quante di queste coppie sono possibili? Non è difficile rendersi conto che tale numero è proprio Y ( Z
16! 16 ∙F
= (!D! = (
= 45
TRIANGOLO DI TARTAGLIA E BINOMIO DI NEWTON
Parliamo adesso dello sviluppo delle potenze di un binomio e operiamo algebricamente come segue:

23
FIGURA 1.1 Il triangolo di Tartaglia (a sinistra) e i coefficienti binomiali di Newton (a destra)
I coefficienti in rosso nella (1.22) possono essere rappresentati nel cosiddetto triangolo di Tartaglia,
così come nella parte destra della fig. 1.1.
I coefficienti in ogni riga possono essere ottenuti sommando quelli immediatamente adiacenti della
riga precedente. Per lo sviluppo del binomio (* + 4)., ove + è un numero naturale, si parte dalla
potenza più alta per *, ossia *., e quella più bassa per 4, ossia
40 = 1, e si diminuisce, di volta in volta, di 1 l’esponente di * e si aumenta di 1 quello di 4 fino ad
utilizzare, come coefficienti del prodotto *.−/4/, che si ottiene dopo O passi, tutti i coefficienti di una
riga del triangolo di Tartaglia.
Questo procedimento ci permette di scrivere la formula del binomio di Newton utilizzando il simbolo
di sommatoria Σ. Per comprendere come interpretare il simbolo Σ, scriviamo l’espressione ∑-,.* &, .
Questa scrittura è un modo sintetico per dire che operiamo sommando tutti i termini presenti
all’interno del simbolo Σ, per l’indice k che va da 0 a n, cosicché:
∑BCG6 MC = M6 + M1 + ⋯ + MB (1.23)

A questo punto possiamo scrivere lo sviluppo del binomio (* + 4). nel modo seguente:

(# + 7)# = ∑BCG6YBCZ #B.C 7 C (1.24)

B
dove i coefficienti YC Z rappresentano il modo di scegliere O elementi da +. Infatti, possiamo scrivere:

(#+7)# =(#+7)(#+7)....(#+7) (1.25)

ove il binomio (* + 4) è moltiplicato per se stesso + volte. Dovendo scegliere un solo addendo del
binomio (* + 4) per ogni fattore nella (1.24), vediamo bene che il coefficiente da apporre al termine
*.−/4/ è proprio il numero di modi che abbiamo di scegliere O volte l’addendo 4 dalle + scelte
possibili. Questi coefficienti binomiali corrispondono, quindi, proprio ai coefficienti di Tartaglia. In
questo modo, il triangolo di Tartaglia può essere descritto, usando i coefficienti binomiali, così come
rappresentato nella parte destra fig. 1.1.

Esempio:

24
Esibire lo sviluppo di (* + 4)5.
Svolgimento: Facendo riferimento all’ultima riga del triangolo di Tartaglia nella parte sinistra della
fig. 1.1 e ponendo + = 5 nella (1.24), scriviamo:

(*+4)5 = *5 +5*44+10*342 +10*243 +5*44 +45

DERIVATA DI UNA FUNZIONE


Data una retta, la pendenza di tale retta è data dalla tangente dell’angolo $ compreso tra l’asse delle
ascisse e la retta stessa, cosicché possiamo scrivere:
∆2
3 = ]^! = (2.33)
∆3

Figura 2.17
Un omino percorre diversi tragitti rettilinei
andando sempre verso destra (direzione
positiva dell’asse x). Sulla retta rossa a
pendenza positiva sale ( m > 0), su quella
blu a pendenza negativa scende (m < 0),
mentre su quella nera sta in piano (m = 0).

Dalla fig. 2.17 si vede come si può distinguere il segno del coefficiente angolare, tramite una semplice
rappresentazione pittorica. Se l’omino che percorre tragitti rettilinei col naso rivolto sempre verso
destra sale, allora ! > 0, se scende ! < 0, se resta in piano ! = 0. Per una generica funzione, tuttavia,
la pendenza della funzione in un punto è ottenibile come il coefficiente angolare della retta tangente
al punto stesso. Infatti consideriamo una parabola, come in fig. 2.18, e osserviamo il coefficiente
angolare della retta tangente alla parabola in un generico punto. Si nota che per punti con % > 0 si ha
! > 0, per % < 0 risulta ! < 0 e per % = 0 si ha ! = 0.

Figura 2.18
Un omino percorre un tratto parabolico
andando verso destra. Sul ramo sinistro
della parabola (x < 0) la pendenza della
retta blu, tangente alla curva, è negativa.
Sul ramo destro (x > 0) la pendenza della
retta rossa, tangente alla curva, è
positiva. Mentre per (x = 0) la pendenza
della retta tangente è nulla. In questo
caso, quindi, la pendenza dipende dal
punto sulla curva.

25
Cerchiamo ora di trovare un metodo applicativo per ottenere il coefficiente angolare della retta
tangente ad una generica funzione in un punto qualsiasi. Data una funzione e due punti su di essa
possiamo considerare il coefficiente angolare della retta passante per questi due punti come
un’approssimazione del coefficiente angolare della retta tangente ad un generico punto della funzione
nell’intervallo compreso tra questi due punti. Se i due punti sono molto distanti tale approssimazione
potrà risultare inesatta, ma man mano che si avvicinano il coefficiente angolare della retta secante
approssimerà sempre meglio quello della retta tangente, così come mostrato in fig. 2.19.

Figura 2.19
La retta secante passante per i punti A e per B
approssima sempre meglio il coefficiente
angolare della retta tangente in A man mano
che il punto B si avvicina al punto A e quindi
nel limite in cui h à 0.

Pertanto se l’intervallo tra i due punti è molto piccolo, i due coefficienti angolari coincidono e così
possiamo scrivere:

<(80 $I).< (80 )


3H = (G_` ℎ ≅ 0) (2.34)
I

Se questo valore esiste, esso è detto derivata della funzione 8 nel punto & (%&, 8(%&)) e si indica
con8′(%&). Calcoliamo la derivata per le funzioni potenza in un generico punto %:

1.1
C6 (' ) = 1, C6= (') = =0 (2.35a)
I

8$I.8
C1 (' ) = ', C1= (' ) = I
=1 (2.35b)

(8$I)! . 8 ! 8 ! $I! $(8I. 8 ! (8I. I!


C((' ) = ' ( , C(= (' ) = = = = 2' + ℎ ≅ 2'
I I I
(2.35c)

Per una generica potenza fn(x) = xn la derivata è fn’(x) = nxn-1. Possiamo ricavare questo risultato con
la formula del binomio di Newton.

Esempio:

26
1 1 J
Trovare la derivata della funzione C (' ) = −
)
'( + (
' + )
, che è la parabola dell’esempio
precedente. Valutare tale derivata nel punto % = 0.
Svolgimento:
Derivando ogni singolo addendo, giacché la derivata di una somma risulta essere la somma delle
1 1 1
derivate, avremo: 8′(') = − 2 ' + 2 . E perciò 8′(0) = 2 .
) '
Cosicché la retta tangente alla parabola in fig 2.7 nel punto (0; () ha coefficiente angolare ! = "

Figura 2.7
Parabola di equazione
1 " 1 7
#=− % + %+
4 2 4

27
FISICA
GRANDEZZE FISICHE E LE LORO UNITÀ DI MISURA
La fisica studia i fenomeni naturali, sia quelli su scala microscopica, sia quelli su scala e molto più
grandi. Ad esempio, la fisica atomica studia le proprietà dell’atomo, di dimensioni dell’ordine di 1Å
(10-10 m), la cosmologia studia l’universo nel suo insieme, cercando di dare risposte sull’origine
sull’evoluzione dello stesso.

GRANDEZZE FISICHE SCALARI E VETTORIALI


Nello studio dei fenomeni naturali un ricercatore adotta il metodo sperimentale, che parte
dall’osservazione del fenomeno fisico, ne individua i parametri salienti (grandezze fisiche che
caratterizzano il fenomeno stesso) e ne indica una descrizione logico-matematica (la legge fisica che
descrive il fenomeno osservato). Naturalmente, le misure delle grandezze fisiche devono essere
riproducibili in altri “laboratori”, cosicché altri ricercatori potranno validare la stessa legge fisica.

Le grandezze fisiche osservabili possono essere scalari (un numero con l’unità di misura
corrispondente alla grandezza), oppure vettoriali (un numero con l’unità di misura corrispondente alla
grandezza, una direzione e un verso).

Ad esempio, il tempo è una grandezza fisica scalare. Noi non indicheremo mai un intervallo di tempo
fg solo con il numero 1.50. Perché, potremmo chiederci, cosa intendiamo con quel numero? Forse
1.50 secondi? 1.50 ore? 1.50 anni?

Ecco che si scrive fg= 1.50 s dove s è il simbolo per “secondi”, l’unità di misura del tempo.

Una grandezza fisica vettoriale è la forza.

m (metro) – lunghezza [ L ]
Kg (chilogrammo) – Massa [ M ]
s (secondo) – Tempo [ T ]

Analizzando questa figura: applicando forze di uguale intensità, ma direzioni diverse, a un blocchetto
fermo da un tavolo, possiamo indurre spostamenti in direzioni diverse.

IL SISTEMA INTERNAZIONALE DI UNITÀ DI MISURA


Al fine di poter uniformare le unità di misura da attribuire alle varie grandezze fisiche, molti Stati
hanno aderito al cosiddetto Sistema Internazionale (SI) delle unità di misura.

Per quanto riguarda la Meccanica (cinematica e dinamica) le grandezze fisiche fondamentali sono le
seguenti:

28
Le grandezze fisiche che si ottengono attraverso la combinazione di due o più grandezze fisiche
fondamentali si dicono grandezze fisiche derivate.

Un esempio è la velocità di una particella che si muove di moto rettilineo uniforme. In questo caso,
così come vedremo, la velocità v è costante ed è esprimibile come lo spazio f% percorso dalla
particella in un intervallo di tempo fg, diviso fg.

L3
Così scriviamo: v =
LM

[O]
Diremo allora che le dimensioni di una velocità sono (lunghezza / tempo). L’unità di misura
[Q]
7
della velocità, quindi, è (metri al secondo).
R

Esempio 1:
S U
L’accelerazione di gravità g è pari circa a 9,81 1
Se un corpo cade da un’altezza h, si ha che h =
T V
gt2 (dove t è il tempo impiegato a cadere al suolo). Quanto vale t se h = 20,0 m?
U
Notiamo innanzitutto che l’equazione h = gt2 è omogenea. Ossia, le dimensioni [ L ] del membro
V
[O]
sinistro sono uguali alle dimensioni del membro destro. Infatti, g ha dimensioni Moltiplicando
[ Q ]!
per un tempo al quadrato, si hanno le dimensioni di una lunghezza.
U
Risolvendo h = gt2 per t, si ha:
V

VW V(VY,Y)S
t = d X = d[,\U S/T1 = 20,2 s

CIFRE SIGNIFICATIVE
Quando risolviamo un problema e troviamo il risultato numerico, siamo tentati di riportare molte cifre
nella soluzione. Tuttavia, in genere svolgiamo problemi con tre cifre significative, proprio perché,
S
quando è in gioco la grandezza g la esprimiamo come 9,81
T1
Pertanto, se utilizziamo 3 cifre significative nei dati del problema, non sarebbe giustificato utilizzarne
di più nella risposta.
Vediamo adesso come fare per decidere come scrivere la nostra risposta.
Esempio 2:
Le soluzioni x, vx, ax a un dato problema sono le seguenti:

X = 1,21601 m
vx = 0,01234 m/s
ax = 13,001 m/s2

29
Scrivere queste grandezze fisiche utilizzando tre cifre significative.

Soluzione: x = 1,22 m (notiamo che dobbiamo approssimare per eccesso l’ultima cifra).

vx = 0,0123 m/s = 1,23 ∙ 10/" m/s à La scrittura in forma esponenziale di questa grandezza ci fa
rendere conto che gli zero che antecedono la prima cifra diversa da zero non sono significativi.

ax = 13,0 m/s2 à qui invece dobbiamo notare che nonostante lo zero sia dopo la virgola, è
significativo.

Esempio 3:
Il periodo di oscillazione di un pendolo si esprime come segue:
^
T = 2ed
X

Dove f è la lunghezza del pendolo.


Si trovi T per g = 1,00 m
1,66 7
T = 2hdF,D1 7/R! = 2h(0,3193)s = 2,006 s

Dovendo dare la risposta con sole tre cifre significative, scriviamo: T = 2,01s

LA DENSITÁ
Consideriamo un oggetto di massa m e che occupa un volume V. La sua densità d è definita dal
rapporto:
0
d= 1

_
formule inverse: m = dV V =`

LA VARIAZIONE
Data una grandezza g, il simbolo Dg = g2 - g1 indica la variazione di g, quando essa varia dal valore
g1 a quello g2.
Due casi molto comuni sono:
- g1 è il valore iniziale della grandezza e g2 è il valore assunto da g a un istante successivo.
- g1 è il valore di g in un primo punto e g2 è il valore che la stessa grandezza ha in un secondo punto.

Se la grandezza g aumenta, la variazione Dg è positiva; se g diminuisce, Dg è negativa; se g rimane


costante, Dg è nulla.

30
LA CINEMATICA
La cinematica è la branca della meccanica che descrive il moto dei corpi, senza indagare sul perché
un dato moto si realizza.
RICORDIAMO ALCUNI TERMINI DI BASE.
• IL PUNTO MATERIALE
Quando un oggetto è molto più piccolo dell’ambiente in cui si trova, viene considerato come un
punto materiale, cioè un punto senza dimensioni ma dotato di massa. Per esempio, le coordinate
di un’auto fornite dal GPS sono in realtà quelle di un punto: ciò significa che il sistema GPS tratta
l’auto come un punto materiale. Quello del punto materiale è il modello più semplice che si usa
in fisica per descrivere un oggetto.

È opportuno introdurre la schematizzazione di un oggetto fisico sotto forma di “punto


materiale”. Infatti, per individuare la posizione di tale oggetto nello spazio, possiamo
immaginare di indicare un punto in un sistema di assi coordinati. Tale schematizzazione è tanto
più accurata, quanto più le sue dimensioni sono piccole rispetto alle distanze percorse.

Fig. 1
Un punto materiale P si
muove lungo una traiettoria

• TRAIETTORIA
È la linea che congiunge tutti i punti dello spazio occupati da un punto materiale al trascorrere del
tempo. Nel moto rettilineo la traiettoria è un segmento di retta.
Così come è possibile notare in fig.1, l’insieme dei punti P(t) occupati dal punto materiale in
successione nello spazio viene chiamata traiettoria.
Quando la traiettoria è una linea retta, parliamo di “moto rettilineo”. Quando non lo è, il moto è
curvilineo.
• SISTEMA DI RIFERIMENTO

31
Su una retta si definisce un sistema di riferimento scegliendo in modo opportuno un punto origine
(di solito indicato con il simbolo O) e un verso positivo. In tal modo possiamo conoscere la
coordinata (o ascissa) di ogni punto sulla retta.
• POSIZIONE SU UNA RETTA
Si chiama posizione s di un punto su una retta la coordinata di tale punto.
• VETTORE POSIZIONE

Fig.2
Un punto materiale si muove da
un punto P a un punto P’ lungo
la sua traiettoria.

All’istante di tempo t il punto materiale è in P. Dopo un intervallo di tempo Dt il punto materiale


si trova in P’. Definiamo allora il vettore posizione !⃗($) come quel vettore che va dall’origine O
del riferimento scelto alla proiezione P del punto materiale. E perciò scriviamo:
5!⃗($) = % () )%j + #())#j
i
!5⃗($ + D)) = %() + D))%j + #() + D))#j

Dove () + D)) è il vettore posizione nel tempo “) + D)”.


Il vettore posizione ha 2 componenti: x e y che dipendono dal tempo. Solo le coordinate
dipendono dal tempo ma, una volta che l’oggetto è stato fissato, non dipendono più. X(t) e Y(t)
variano, i versori no.

!⃗($) = %())%( + #())#(


ab(c) ad(c)
)⃗ ($ ) = *( + +( = vx(t)*( + vy(t)+(
ac ac

32
ae) (c) ae( (c)
,⃗($ ) = ac
*( + ac
+( = ax(t)*( + ay(t)+( à derivata di )⃗ ($ ) rispetto al tempo

• LO SPOSTAMENTO
Il vettore D!
5⃗ = !⃗() + D)) - !⃗($) è definito come lo spostamento del punto materiale (da P a P’
nell’intervallo di tempo D$).
Nella figura riportata sotto è rappresentato come un vettore differenza

LA DISTANZA
La distanza Ds tra due punti su una retta è data dalla differenza tra le posizioni dei due punti:
Ds = s 2 - s 1

Quindi il valore della distanza può essere:


- positivo se il punto materiale si sposta da un certo valore s1 a un valore s2 maggiore di s1. Ciò
accade se il punto si muove nel verso scelto sulla retta come positivo.

- Negativo se il punto materiale si sposta da un certo valore s1 a un valore s2 minore di s1. Avviene
se il punto si muove nel verso opposto a quello scelto sulla retta come positivo.

33
INTERVALLO DI TEMPO
L’intervallo di tempo Dt, o durata di un fenomeno, è dato dalla differenza tra l’istante finale t2 e
l’istante iniziale t1:
Dt = t2 - t1

LA VELOCITÀ
Df
La velocità media è definita dal rapporto: Vm = Dg
Ds è la distanza percorsa da un oggetto (modellizzato come un punto materiale) e Dt è l’intervallo di
tempo impiegato a percorrere tale distanza.
- La velocità è direttamente proporzionale alla distanza percorsa e inversamente proporzionale
all’intervallo di tempo impiegato.
- Se la velocità è positiva, l’oggetto si muove nel verso positivo della traiettoria rettilinea; in caso
contrario la velocità è negativa.
- L’unità di misura della velocità è data dall’unità di misura della distanza divisa per l’unità di
misura del tempo; quindi, nel Sistema Internazionale la velocità si misura in metri al secondo
(m/s).
- Un’altra unità di misura molto usata per la velocità è il kilometro all’ora (km/h). Si passa da m/s
a km/h moltiplicando il numero per 3,6 e si passa da km/h a m/s dividendo per 3,6.

In generale, la velocità di un oggetto cambia continuamente: si definisce allora la velocità istantanea


D2
sempre con la formula v = D3
, ma si considera che l’intervallo di tempo Dt impiegato per calcolare
la velocità sia molto piccolo. Il tachimetro misura il valore della velocità istantanea di un’auto; al
contrario il sistema safety tutor (installato su molte autostrade) misura la velocità media mantenuta
da un’auto su un tratto lungo svariati kilometri.
Quando la velocità istantanea non cambia nel tempo (e quindi è sempre uguale alla velocità media)
si parla di moto uniforme; in caso contrario si ha un moto vario.

Pensiamo che all’istante t1 l’oggetto si trovi nella posizione s1 e che all’istante t2 esso occupi la
posizione s2; allora si ha Ds = s2 - s1 e Dt = t2 - t1, per cui la formula precedente diventa:

fV . fU
Vm =
gV . gU

VELOCITÀ MEDIA
La velocità media durante lo spostamento del punto materiale da P a P’ è definita come segue:
D#⃗ 8(c$ Dc).8(c) 9(c$ Dc).9(c)
)
....⃗
H = =/ 0 *( + / 0 +(
D% Dc Dc

34
Esempio 1:
Un bambino percorre, nel suo tragitto verso la scuola, un tratto lungo lasse X di 100 m in 50s e un
tratto lungo l’asse Y di 200 m in 100s. Quanto vale la velocità media del bambino quando egli va da
casa (in O) a scuola (in 5)?

Fig.3
Spostamento del bambino da
casa a scuola

Lo spostamento del bambino è à D!⃗ = (1003)*( + (2003)+(


D#⃗ 166 7 (66 7
Il tempo D) è pari a 150s. Pertanto avremo: ....⃗
)H = =/ 0 *( + / 0 +(
D% 1h6 R 1h6 R
)
....⃗
H = (0.667 3/9)* ( + (1.33 3/9)+(
Notiamo che il vettore ) H è un vettore nello stesso verso e nella stessa direzione di D!⃗, rappresentata
....⃗
in Fig.3

VELOCITÀ ISTANTANEA
Nell’esempio precedente abbiamo visto che il bambino ha percorso il tratto D!⃗ in
D$ = 150s. Questo è un tempo considerevole per questo tipo di moto, in quanto, durante il tragitto il
bambino ha avuto modo di cambiare drasticamente la direzione del suo moto. Se volessimo
informazioni più dettagliate sulla velocità, istantea per istante, dovremmo ridurre l’intervallo di tempo
D$ e, al limite, farlo tendere a zero per ottenere la velocità dell’istante di tempo, o velocità istantanea
(calcolata in t).

Fig.4
Ma mano che il tempo D$ va a
zero, anche lo spostamento D!⃗
tende a zero

35
Dalla fig.4 notiamo che, ma mano che il tempo D$ tende a zero, anche lo spostamento D!⃗ tende a
zero e la sua direzione si avvicina alla tangente alla traiettoria. Pertanto, potremmo formalmente
scrivere che
D#⃗ D4⃗
)⃗($) = !"# è un rapporto incrementale
D%→' D% D6

Questa scrittura sta ad indicare che la velocità istantanea è ottenibile dalla velocità media, sempre se
l’intervallo di tempo D$ è molto piccolo.
D#⃗
Da questa equazione )⃗($)= !"# possiamo dire che:
D%→' D%
D( D*
)⃗ ($) = D) *( + D) +( sempre che D$ → 0.
D( D*
Abbiamo visto però che i valori dei rapporti incrementali
D)
; D) , per D$ → 0, sono le derivate
delle funzioni x(t) e y(t). Cosicché possiamo scrivere che:
k! ()) = l%()) (5a)
k# ()) = l#()) (5b)
*Dove per D intendiamo la “derivata di …”
**La velocità istantanea è sempre tangente alla traiettoria ed è sempre calcolata attraverso la
derivata di x rispetto al tempo quindi è la derivata della posizione.

Esempio legge oraria:


il moto di un punto materiale è descritto attraverso la seguente “legge oraria”:
%()) = k* )
m 1
#()) = − W) " + ℎ
2
Trovare la velocità istantanea e il suo modulo.
Dalla (5a) e (5b) possiamo scrivere:
k! ()) = k*
o ( )
k# ) = − W)
)⃗ ($ ) = )6 *( − =$+(

E perciò )⃗ ($ ) = >)8 ! ($ ) + )9! ($ ) = >)6! + =( $ (

L’ACCELERAZIONE
Di
L’accelerazione media è definita dalla relazione: am = Dg
Dv è la variazione di velocità avvenuta nell’intervallo di tempo Dt.
- L’accelerazione è direttamente proporzionale alla variazione della velocità e inversamente
proporzionale all’intervallo di tempo impiegato.
- Se l’accelerazione è positiva, l’oggetto aumenta il valore della velocità; se diminuisce la velocità,
l’accelerazione è negativa.
- L’unità di misura dell’accelerazione è data dall’unità di misura della velocità divisa per l’unità di
misura del tempo; quindi, nel Sistema Internazionale l’accelerazione si misura in metri al secondo
quadrato (m/s2).

36
- L’accelerazione media di un corpo è numericamente uguale alla variazione della sua velocità
nell’unità di tempo. Per esempio, un oggetto che ha un’accelerazione di 3 m/s2 aumenta, in ogni
secondo, la propria velocità di 3 m/s.
- Quando l’accelerazione media, calcolata su qualunque intervallo di tempo, ha sempre lo stesso
valore si è in presenza di un moto uniformemente accelerato. Pensiamo che all’istante t1
l’oggetto abbia velocità v1 e che all’istante t2 la sua velocità sia v2; allora si ha Dv = v2 - v1 e Dt =
iV . iU
t2 - t1, per cui la formula precedente diventa: am =
gV . gU

ACCELERAZIONE MEDIA
Definiamo l’accelerazione media del punto materiale quando questo si sposta dal punto P al punto P’
nell’intervallo di tempo D$ come segue:
De
j⃗ j⃗(c$Dc). e
e j⃗(c)
,H ($ ) = Dc
= Dc
, dove k⃗()) a k⃗() + D)) sono le velocità istantanea al tempo “t” e
al tempo () + D)), rispettivamente.
E così come fatto con la velocità istantanea, diremo che le componenti dell’accelerazione istantanea
si scrivono come segue:
*! ()) = lk! ()) (7a)
*# ()) = lk# ()) (7b)
Esempio:
partendo dalla legge oraria dell’esempio precedente, si scriva l’espressione per l’accelerazione
istantanea *⃗()).
Dall’esempio precedente abbiamo visto che:
k! ()) = k*
o ( )
k# ) = − W)
Pertanto, dalla (7a) e (7b), avremo:
*! ()) = 0
o ( ) *⃗()) = − W+
p
*# ) = − W

ACCELERAZIONE ISTANTANEA
*⃗()) = *! ())%j + *# ())#j

Derivata rispetto al
tempo della velocità
istantanea

Se conosciamo la posizione 2⃗()) allora, se deriviamo, troviamo la velocità k⃗()).


al⃗(c)
La velocità derivata rispetto al tempo è )⃗ ($ ) =
ac

IL VETTORE VELOCITÀ E IL VETTORE ACCELERAZIONE


Nel moto rettilineo (in cui la traiettoria è un segmento di retta) la velocità e l’accelerazione sono
trattati come scalari. Ma nei moti in due o tre dimensioni lo spostamento Ds⃗ è un vettore, per cui
anche la velocità è una grandezza vettoriale, definita come:
37
Df⃗
?.⃗ = D
g
'
Come di vede, il vettore 5v⃗ è ottenuto moltiplicando il vettore Ds⃗ per lo scalare Quindi ha:
D3
- la stessa direzione di Ds⃗
- lo stesso verso di Ds⃗
- come valore quello di Ds⃗ , diviso per il valore di Dt;
- come unità di misura quella di Ds⃗ , divisa per l’unità di misura di Dt: quindi l’unità di misura
risulta m/s, come quella della velocità scalare.

Essendo 5v⃗ un vettore, anche la variazione di velocità Dv


5⃗ è una grandezza vettoriale. Di conseguenza
pure l’accelerazione risulta un vettore, definito come:
Dij⃗
@.⃗ = Dg
In analogia a quanto visto sopra, l’accelerazione vettoriale ha:
- la stessa direzione di Dv 5⃗ ;
- lo stesso verso di Dv 5⃗ ;
- come valore quello di Dv5⃗ , diviso per il valore di Dt;
- come unità di misura quella di Dv 5⃗ , divisa per l’unità di misura di Dt: quindi l’unità di misura
risulta m/s2, come quella dell’accelerazione scalare.

SENO E COSENO
Dato un triangolo rettangolo come quello della figura sotto, definiamo il seno e il coseno di un angolo
come:
- il seno di un angolo alfa (sen a) è il rapporto tra il cateto opposto all’angolo a e l’ipotenusa;
- il coseno di un angolo alfa (cos a) è il rapporto tra il cateto adiacente all’angolo a e l’ipotenusa.

I MOTI SU UNA RETTA


Si chiamano moti rettilinei i moti la cui traiettoria è un segmento di retta. Noi parleremo del moto
rettilineo uniforme e del moto rettilineo uniformemente accelerato.

MOTI RETTILINEI
Un moto che si svolge su di una traiettoria rappresentata da una linea retta si dice “moto rettilineo”.
Il moto è rettilineo uniforme se il punto materiale si muove su una traiettoria rettilinea a velocità
costante
Il moto è rettilineo uniformemente accelerato se il punto materiale si muove su una traiettoria
rettilinea con accelerazione costante.
Il moto si definisce rettilineo vario negli altri casi.

38
IL MOTO RETTILINEO UNIFORME
Per il primo principio della dinamica, si tratta del moto che si ottiene quando un punto materiale in
movimento è soggetto a una forza totale nulla.
Dal punto di vista matematico, è caratterizzato dal fatto che la sua velocità media, misurata su
qualunque intervallo di tempo, è sempre la stessa.
Se si indica con:
- v la velocità costante del moto;
- t il generico istante di tempo;
- s0 la posizione del punto materiale all’istante t = 0s (spesso detto «istante iniziale» del moto);
- s la posizione del punto materiale all’istante t;
la legge del moto rettilineo uniforme risulta: s = s0 + vt

Come si vede nella figura sopra, il grafico spazio-tempo associato a questa legge è una retta che
interseca l’asse verticale delle posizioni nel punto (0s, s0). Così, la retta passa per l’origine soltanto
quando si ha
s0 = 0m e in tal caso la formula precedente si riduce al caso particolare s = vt

Fig.5:
In un moto rettilineo possiamo fare a
meno della notazione vettoriale per
definire la posizione di un punto
materiale

)8 ($) = )6 à Ciò indica che la velocità è costante (k* ) nel moto rettilineo uniforme

La legge oraria del moto rettilineo uniforme è: x(t) = AY B + CY


*CY è la posizione del punto materiale attuale è zero.
Effettivamente, questa è la legge oraria del moto in quanto si può verificare che
)8 ($) = D*($)
Esempio:
Antonio cammina con una velocità costante )H = 5,00 3/9 su un rettifilo. Beatrice, che dista ad
Antonio d = 100 m a t = 0s, corre dietro di lui a una velocità costante )m = 10,00 3/9.

39
Si calcoli il tempo impiegato, il tempo tB impiegato e la distanza xB percorsa da Beatrice
per raggiungere Antonio.

Facciamo coincidere la posizione di Beatrice, all’istante t = 0s, con l’origine dell’asse x. Cosicché
scriviamo:
% ()) = k8 ) + s = 5) + 100
o 7
%9 ()) = k: ) = 10)
Quando le posizioni di Beatrice e Antonio coincideranno si avrà xB(t*) = xA(t*) e perciò:
5t* + 100 = 10t* à 5t* = 100
t* = 20,0 s
Dopo un tempo t*, la posizione di Beatrice sarà:
xB(t*) = 10t* = 10(20)m = 200m
Beatrice deve percorrere 200m prima di raggiungere Antonio.

IL MOTO RETTILINEO UNIFORMEMENTE ACCELERATO


Per il secondo principio della dinamica, è il moto che si ottiene quando su un punto materiale,
inizialmente fermo, agisce una forza costante. La sua caratteristica è che l’accelerazione del corpo in
movimento si mantiene costante al trascorrere del tempo.
Se si indica con:
- a l’accelerazione costante del moto;
- t il generico istante di tempo;
- v0 la velocità del punto materiale all’istante t = 0s;
- s0 la posizione del punto materiale allo stesso istante;
- v la velocità del punto materiale all’istante t;
- s la posizione del punto materiale all’istante t;
la legge della velocità per il moto uniformemente accelerato è : v = v0 + at (formula 3)

Il cui grafico velocità-tempo (rappresentato nella figura sotto) è una retta che interseca l’asse verticale
delle velocità nel punto (0s, v0)

40
U
La legge della posizione per il moto uniformemente accelerato è: s = s0 + v0t +
V
at2 (formula
4)
Nel caso semplice in cui sia ha s0 = 0m e v0 = 0 m/s, le formule (3) e (4) diventano, rispettivamente

v=a à il suo grafico sarà una parabola di forma generale

U
s = at2 à il suo grafico sarà una parabola con vertice nell’origine
V

Nella vita quotidiana, si muove di moto rettilineo uniformemente accelerato un sassolino che cade
dalla mano; in quel caso il valore dell’accelerazione è a = g = 9,8 m/s2 (accelerazione di gravità).
Un esempio di moto rettilineo uniformemente accelerato è la caduta di un grave che, in assenza di
attrito con l’aria, si muove con accelerazione costante =⃗. Vediamo, in generale, la legge oraria di un
corpo che si muove con accelerazione costante ,6 lungo l’asse Y (per esempio). Scriviamo allora
U
y(t) = V GY BV + AY B + HY
*Dove )6 è la velocità e +6 è la posizione a t = 0s.
Possiamo allora scrivere )9 ($) = D+($ ) = ,6 $ + )6
Infine ,9 ($) = D)9 ($) = ,6 à Qui ritroviamo l’ipotesi iniziale ovvero che l’accelerazione
è costante
Esempio:

Scrivere la legge oraria di un corpo che


viene lanciato da fermo da un’altezza h.
Trovare, per h = 20,0 m, dopo quanto tempo
questo corpo raggiunge il suolo e con quale
velocità (un attimo prima dell’impatto con il
suolo).

41
'
Ponendo v0 = 0, y0 = h e a0 = -g possiamo scrivere: y (t) = -" W) " + ℎ
Pertanto, si ha: vy(t) = -gt
Imponendo che y(tv) = 0, avremo
2ℎ 2(20)
); = u = u y = 2,02y
W 9,81
Valutando la velocità a questo istante di tempo si avrà:
vy(tv) = -gtv = 9,81 m/s2 ∙ 2,02s = - 19,8 m/s
Il segno meno sta ad indicare che la velocità è rivolta verso il basso.
*con tv si intende tempo di volo
Esempio:
il leone e la gazzella

Nella savana africana un leone L sta correndo ad una velocità costante vL = 20 m/s verso una gazzella
G ferma a mangiare l’erba. Quando il leone arriva ad una distanza d = 100m dalla gazzella, questa
inizia a correre, accelerando uniformemente con accelerazione par ad aG = 2,00 m/s2
Si scrivano le leggi orarie del moto del leone e della gazzella. Si dica se il leone riuscirà a raggiungere
la gazzella e, se sì, dopo quanto tempo e dove nella savana.

'
LEGGE ORARIA GAZZELLA (moto rettilineo uniformemente accelerato) xG(t) = " *< ) " + s =
t2 + 100
LEGGE ORARAIA LEONE (moto rettilineo uniforme) xL(t) = vLt = 20t

42
Nel diagramma orario:
- La legge oraria della gazzella
è un ramo di parabola;
- La legge oraria del leone è
una retta

Risolviamo l’equazione seguente: xG(t*) = xL(t*)


Scriviamo perciò t*2 + 100 = 20t*
Ossia: t*2 – 20t* + 100 = 0 à (t* -10)2 = 0
Notiamo che questa equazione ha un solo istante. Se non l’afferra in questo istante la gazzella si
allontanerà e il leone non avrà più modo di prenderla. Il tutto avviene a
xG(t*) = xL(t*) = 200m

Esempio

Partono da fermi e poi accelerano con a1 e a2. Dopo quanto si scontrano ts?, dove Xs? e a che velocità
V1(ts) e V2(ts)?
Quando partono la velocità è nulla, quindi:
'
X1(t) = " *' ) " à in questa legge non metto V0 e X0 perché uguali a 0 visto che partono a velocità
nulla.
' '
Ora sostituisci il valore di a1 = 1.oo m/s2 in X1(t) = " *' ) " à X1(t) = " ) " à se ora derivo X1(t),
ottengo: V1(t) = t
Partendo dalla posizione d = 10.0 m ed ha accelerazione negativa ottengo:
' '
X2(t) = - " *" ) " + X0 = - " (2.00)) " + 10 = - ) " + 10
*metto il – perché abbiamo accelerazione negativa, V0 = 0 perché parte da fermo
se ora derivo X2(t), ottengo: V2(t) = -2t

43
Per capire quando si scontrano impongo che avviene quando hanno la stessa posizione quindi X1(t)
' ' = "*
= X2(t) à "
) " = - ) " + 10 à z" + 1{ ) " = 10 à "
) " = 10 à t = P = y = 2,58y
Per vedere dove si scontrano, inseriamo t o in X1 o in X2 , è la stessa cosa:
'
t = 2,58s à X1 = " (2,58)" = 3,33 !
Lo scontro avviene più vicino ad X1 perché X2 è più veloce. Per calcolare la velocità delle biglie
facciamo:
V1(t) = t à 2,58 m/s
V2(t) = - 2t = - 2 (2,58) m/s = - 5,16 m/s

IL MOTO PARABOLICO (FORZA COSTANTE)


Una pallina da tennis, colpita dalla racchetta, viene lanciata con una velocità iniziale v5⃗0 obliqua
rispetto al vettore accelerazione di gravità 5g⃗ . In questo caso il vettore velocità iniziale non è parallelo
al vettore accelerazione e quindi il moto della pallina da tennis non è rettilineo uniformemente
accelerato. In realtà il moto reale della pallina da tennis è influenzato in maniera rilevante da
caratteristiche (come la presenza dell’aria, la variazione di forma della pallina percorsa dalla
racchetta, la sua rotazione…) che non siamo in grado di trattare. Ora andremo ad analizzare un
modello semplificato in cui si trascura l’attrito con l’aria e si considera l’oggetto in movimento come
un punto materiale. Questo modello viene di solito indicato con “moto di un proiettile” o “moto
parabolico”.

Velocità iniziale orizzontale


Consideriamo prima una pallina lanciata in orizzontale con velocità v5⃗0 . Trascurando l’attrito con
l’aria, l’unica forza che agisce sulla pallina e il suo peso; quindi per il secondo principio della
dinamica la pallina a un’accelerazione uguale a quella di gravità: 5a⃗ = 5g⃗
L’accelerazione g5⃗ è verticale e rivolta verso il basso, quindi:
- Non esiste alcuna accelerazione orizzontale: in orizzontale la pallina continua muoversi per
inerzia alla velocità iniziale v5⃗0 ;
- Esiste un’accelerazione verticale costante: il moto verticale della pallina uniformemente
accelerato, con accelerazione pari a g5⃗.
Da queste due osservazioni si deduce che il moto di un oggetto lanciato in orizzontale è la
sovrapposizione di due moti: un moto rettilineo uniforme orizzontale, un moto rettilineo
uniforme mente accelerato verticale.
Scegliendo il punto di partenza come origine degli assi coordinati, l’asse delle Y rivolto verso l’alto
e come istante t = 0 quello in cui inizia il moto, le coordinate X e Y delle posizioni occupate dalla
pallina sono allora date dalle formule:
J = ?Y K
I M
L = − OK V
N

Isoliamo t nella prima equazione del sistema e sostituiamolo nella seconda equazione:

44
x x x
t = ⎧ t = ⎧ t =
v* v* v*
• − −> −→
⎨y = − 1 g x "
"
1
y = − gt " ⎨y = − 1 g Ü x á
2 ⎩ 2 v* ⎩ 2 v*"

' >
Quindi avrò y = - " ?" x " che è l’equazione cartesiana della traiettoria seguita dalla pallina. Essa
!
rappresenta una parabola che ha il vertice nell’origine degli assi.
La traiettoria di un oggetto lanciato in orizzontale è una parabola con il vertice nel punto di lancio.

VELOCITÀ INIZIALE OBLIQUA


Consideriamo una palla da basket che viene lanciata verso il canestro. È conveniente scomporre la
sua velocità iniziale 5v⃗0 nei componenti orizzontale e verticale, che indicheremo con 5v⃗x e 5v⃗y . Per il
teorema di Pitagora, vale la relazione:

V
v0 = P(?n )V + Q?o R
Il moto della palla è ancora la sovrapposizione di un moto rettilineo uniforme in orizzontale e di un
moto rettilineo uniformemente accelerato in verticale.
Con le stesse convenzioni di prima, e con un calcolo simile al precedente, si dimostra che l’equazione
della traiettoria di questo moto è:
i2 U p
y=i J− V i31
JV
3

Il risultato ottenuto è una curva del tipo y = Ax2 + Bx; quindi: la traiettoria di un oggetto lanciato in
direzione obliqua è una parabola.
Questa volta il vertice V della parabola non è nel punto di lancio, ma ha le seguenti coordinate

q i3 i2 ∆ U i21
Ji = − = Li = − sr =
Vr p V p

Il significato di questo punto dipende dai casi:


- Una palla da basket, lanciata obliquamente verso l’alto, raggiunge la massima quota yV nel vertice
e la xV corrispondente è l’ascissa del punto di massimo.

- Un sasso lanciato obliquamente verso il basso, per esempio da una scogliera, segue una traiettoria
parabolica che ha per vertice un punto da cui il sasso non è passato.

45
LA GITTATA
Si chiama gittata la distanza che separa il punto di partenza di un corpo lanciato in direzione obliqua,
verso l’alto, dal punto in cui esso torna al suolo.

Dal momento che la traiettoria parabolica è simmetrica rispetto all’asse verticale passante per il
vertice, la lunghezza L della gittata è il doppio dell’ascissa del vertice calcolata prima (figura 7).
;# ;$
Quindi il valore della gittata è L=2xv = 2 @

Fig.8:
La gittata per diversi valori
dell’angolo di lancio

Nella figura 8 sono disegnate diverse traiettorie per oggetti lanciati con velocità che hanno lo stesso
valore, ma inclinazioni diverse.
Figura 7 Gittata in un moto parabolico.
Si osserva che al crescere dell’angolo di lancio, la gittata aumenta fino a raggiungere un valore
massimo, per poi diminuire quando l’angolo di lancio aumenta ancora.
Se l’attrito con l’aria è trascurabile, la gittata massima si ha quando la velocità iniziale del corpo
lanciato forma un angolo di 45° rispetto al terreno.
Esempio 1:
Un sasso è lanciato in direzione obliqua, con una componente verticale della velocità
vy = 5,2 m/s e una componente orizzontale vx = 3,8 m/s.
Quanto vale la gittata L del lancio?
46
% %
;# ;$ AB," D ! A=,E D
& &
Utilizzando la formula (11) la gittata risulta: L = 2 @
=2 % = 4.0m
AF,E " D
&

L’EFFETTO DELL’ARIA
Un tappo di spumante o una palla magica, lanciati obliquamente verso l’alto, seguo- no con buona
approssimazione un moto parabolico.
Se l’attrito esercitato dall’aria su un oggetto in movimento (per esempio un pallone) non è
trascurabile, la traiettoria che esso segue può essere molto diversa da una parabola.
• Un esempio ben noto è dato dalla strana traiettoria seguita da un aeroplanino di carta.

• Un altro esempio è la traiettoria (non contenuta in un piano) del pallone in alcuni calci di
punizione con effetto.

IL MOTO DEL PROIETTILE


Immaginiamo di lanciare un oggetto di dimensioni trascurabili dall’origine del sistema Oxy, come in
figura.

Velocità iniziale di questo “proiettile” sarà : k


55555⃗
* = (v0x ; v0y). Si nota allora che:

(14a)
(14b)
47
)t8 = )6 TU9V
S
)t9 = )6 9WX V
Già Galileo Galilei si era accorto che questo moto era costituito dalla composizione di un moto
uniforme lungo X è un moto uniformemente accelerato lungo Y. Pertanto, considerando che il
proiettile parte dall’origine O a T =0s, possiamo scrivere:
%()) = kG! ) (15*)
â 1
#()) = kG# ) − W) " (154)
2
Da questa legge oraria, eliminando “t” nella (15a), possiamo riavere l’equazione della traiettoria.
!
Infatti, ponendo t = ; , la (15b) può essere scritta come segue:
'#
% 1 % " kG# W
# = kG# Ü á − W Ü á → %− %"
kG! 2 kG! kG! 2kG! "
u e4(
* dove a = - e b= = tan $ → # = *% " + 4%
(e4) .! e4)
L’equazione è la traiettoria del proiettile, che risulta essere una parabola (rivolta verso il basso
perché a<0).

Il vertice della parabola si trova scrivendo:


: % ;'# ;'$ ;'$."
V = z− "8
;− (8
{ àV=z @
;− "@
{
L’ordinata di V sarà l’altezza massima H, così avremo :
e4(.!
H= (u
(18)
:
Le intersezioni con gli assi saranno x = 0 e X = - 8 , cosicché la gittata R sarà data dall’espressione
seguente:
+,!" ,!#
R= (19)
-

48
MOTO PARABOLICO 2.0 (PROF)

555⃗G mi forma un angolo q con l’asse x.


Se lancio un oggetto con velocità G
Moto lungo asse x: Vox = Vocosq (segmento Vo proiettato su x)
Moto lungo asse y: Voy = Vosenq (segmento Vo proiettato su y)
La traiettoria di questo punto materiale sarà un arco di parabola che avrà un’altezza massima
raggiunta dal punto materiale e una gittata che sarà la distanza dall’asse delle x al punto materiale.
Lungo l’asse x applichiamo la legge oraria del moto rettilineo uniforme:

x(t) = xo + voxt à x(t) = voxt


xo = 0 perché il punto materiale è lanciato dall’origine
Lungo l’asse y applichiamo la legge oraria del moto rettilineo uniformemente accelerato:

y(t) = yo + voyt – ½ ay2 à y(t) = voyt – ½ gt2


yo = 0 e ay2 = gt2
le due equazioni le metto a sistema trovando t dalla prima e inserendolo nella seconda.
x
)w *$ = 0 $=
y6 x
' 1 2 à( 2
)w +$ − =$ = 0 x 1 x y z {
y = )w + ) * − = ) * → ) ** − ) * *2
6
2 2
y x
6 2 y x y x
6 2y x 6 6

L’equazione di y è l’equazione di una parabola che passa per l’origine.


Se pongo y=0 ottengo x=0 à prima soluzione
La seconda soluzione sarà la gittata ponendo y=0 e semplificando una x:

49
e4 9 u e4 9 u
[ \* − [ \ *( à −[ \* = 0
e4 8 (e4 8 ! e4 8 (e4 8 !
e4 9 u
Gittata: R = = (e !
* à divido tutto per Vox perché sta da entrambe le parti e risolvo per R:
e4 8 48
u (e4 8 e4 9
)t + = (e 8 ] à R =
4 u

Ora se vogliamo trovare la parabola simmetrica, rispetto all’asse passante per il punto di altezza
massima:
e4 8 e4 9
x(H) = à togliamo il 2 perché è la metà di R
u

se sostituisco x(H) nell’equazione della traiettoria ottengo:


e4 9 u
H = y(xA) = *
e4 8 |
− * !
(e4 8 ! |

Visto che conosciamo xH lo sistituiamo:


e4 9 e4 8 e4 9 u e4 8 ! e4 9 !
H = y(xA) =
e4 8
∙ u
− (e4 8 ! u!
à semplifico ed ottengo:

e4 9 ! 1 e4 9 ! 1 e4 9 !
- ∙ = ∙ =H
u ( u ( u

e4 9 ! e4 8 e4 9 (e4 8 e4 9
Ora avendo H= ; x(H) = ;R=
(u u u

sostituiamo )t * = )t cos V e )t + = )t sen V otteniamo:


e4.!
H=
(u
sin( V ;
e4.! e4.! p
R= (29WXVTU9V) = (9WX2V) à 0 < q < à 0 < 2q < p
u u +
p p
Se voglio Rmax esso lo ottengo quando l’angolo q mi da sen2q = 1. Quindi se ho sen = 1 à 2q =
+ +
p
à q=
"

RICHIAMO FORMULE TRIGONOMETRIA:


- ADDIZIONE
cos(e + f) = cos e cos f − sin e sin f;
sin(e + f) = sin e cos f + cos e sin f .
- SOTTRAZIONE
cos(e − f) = cos e cos f + sin e sin f;
sin(e−f)=sinecosf−cosesinf .
- DUPLICAZIONE
cos(2Œ) = cos2Œ − sin2Œ;
sin(2Œ) = 2 sin Œ cos Œ

* preso dal file “lezione 3”


50
Esempio:
se abbiamo un atleta che lancia l’attrezzo da un’altezza h, ovvero no dall’origine:

Quale angolo mi da Rmax?


Scriviamo l’equazione della traiettoria, quindi sia la legge oraria sia sull’asse x che sull’asse y:
x(t) = voxt
y(t) = h + voyt – ½ gt2
ora le mettiamo a sistema e troviamo t nella prima e lo inseriamo nella seconda:
1
)t *$ = 0 $=
e4 8 e8
g 1 −→ i à tan V =
ℎ + )t +$ − =$ ( =+ + =ℎ+[
e4 9
\* −[
u
\ *( }e4! 9!:;
(
e4 8 (e4 8 !

Esempio:
Trovare la gittata e l’altezza massima raggiunta da un proiettile sparato dall’origine a una velocità v0
= 100 m/s con un alzo q = 30°
Abbiamo a disposizione le formule (18) e (19) per risolvere il nostro problema. In più sappiamo, dalla
(14a) e (14b), che
√0 7 7
)t8 = )6 TU9V = [100 ∙ \ = 50√3
( R R
i 1 7 7
)t9 = )6 9WX V = [100 ∙ \ = 50
( R R
Sostituendo questi valori nella (18) e nella (19), avremo:
e8(! h6!
H= = 3 = 1273
(u ((F,D1)
(e8) e4( (~h6√0•(h6)
R= u
= F,D1
3 = 8833

51
LA DINAMICA
Con lo studio della cinematica abbiamo descritto il moto dei corpi, ma nulla abbiamo detto sul perché
i corpi si muovano di alcuni moti particolari come, ad esempio, il moto rettilineo uniformemente
accelerato.
Con l’introduzione dei principi della dinamica (le 3 leggi di Newton) chiariremo anche questo aspetto.
Galileo Galilei diede un grosso contributo alla comprensione del primo principio della dinamica o
principio d’inerzia. Tale principio va anche sotto il nome di 1° legge di Newton.
Le tre leggi fondamentali della meccanica sono i princìpi della dinamica, enunciati da Isaac Newton
nel suo trattato del 1687 Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.

1° LEGGE DI NEWTON
Il primo principio della dinamica, detto anche principio d’inerzia, fu in realtà esposto per la prima
volta da Galileo Galilei e stabilisce che:
• un punto materiale mantiene costante la propria velocità se e solo se è soggetto a una forza
totale nulla. In particolare, quando la velocità è nulla il corpo è inizialmente fermo e continua
a rimanere fermo.
Quindi un oggetto in movimento che non fosse soggetto ad alcuna forza (neppure a quelle di attrito)
continuerebbe a muoversi per sempre con la stessa velocità vettoriale, cioè nella stessa direzione,
nello stesso verso e con lo stesso valore della velocità.
In un sistema di riferimento inerziale, un corpo non soggetto a forze si muove di moto rettilineo
uniforme.
Enunciato in questo moto (tra l’altro correttamente) il principio d’inerzia non sarebbe facilmente
comprensibile. Lo capiremo ripercorrendo a ritroso nel tempo le convinzioni dell’uomo sul moto.
Nella visione aristotelica, il moto era prodotto dalle forze. Pertanto, un corpo non soggetto a forze
non si può muovere, se adottiamo questo paradigma.
Fu proprio Galileo Galilei a scardinare questa visione, in quanto notò che l’ostacolo al moto di un
corpo in movimento sono delle forze “frenanti” che vedremo essere proprio le forze di attrito.
Pertanto, se fossimo in grado di eliminare tali forze, un corpo inizialmente in moto con velocità k⃗
continuerebbe a muoversi con la stessa velocità. Lo stato di moto del corpo potrebbe essere
modificato se intervenisse una forza, a differenza dell’interpretazione data da Aristotele che vuole
che siano le forze stesse a mantenere il corpo in movimento.

Ma cosa si intende per “sistema di riferimento inerziale” ?


Per definire un sistema di riferimento inerziale rispetto al quale poter misurare le velocità in modo
“assoluto” (in fisica è in contrapposizione di “relativo”).
Newton immaginò che esso potesse corrispondere con le stelle fisse. Ogni altro sistema di riferimento
che si muova a velocità costante rispetto al sistema di riferimento delle stelle fisse è esso stesso
inerziale. Non andremo oltre l’interpretazione della prima legge di Newton ma cercheremo di
comprendere la portata logica.

52
Fig. 1
Un asteroide nello spazio si
muove di moto rettilineo Per un corpo non soggetto a forze
uniforme se non è soggetto a immaginiamo un asteroide nello spazio,
interazione con altri corpi lontano da altri corpi celesti, come in fig. 1
celesti

Questo corpo si muoverà, secondo la prima legge di Newton, di moto rettilineo uniforme; ossia, si
muoverà lungo una traiettoria rettilinea a velocità costante (in modulo, attenzione e verso).
Questo principio implica anche che, se un corpo è fermo, esso permarrà nel suo stato di quiete, fin
tanto che una forza non modificherà tale stato. In effetti, stiamo dicendo che lo stato di quiete (k⃗ = 0)
non è altro che un particolare moto rettilineo uniforme.
Questo primo principio della dinamica è quindi intimamente legato alla definizione di “sistema di
riferimento inerziale”

I SISTEMI DI RIFERIMENTO INERZIALI


Esistono però delle forze apparenti, come quelle che avvertiamo quando un mezzo di trasporto
accelera o frena bruscamente. Ciò ci fa capire che:
• il primo principio della dinamica non vale in tutti i sistemi di riferimento; chiamiamo sistemi
di riferimento inerziali quelli in cui esso vale.
L’esperienza dice che, dato un sistema di riferimento inerziale S:
• tutti i sistemi che si muovono con velocità costante rispetto a S sono anch’essi
inerziali;
• tutti i sistemi di riferimento che rispetto a S sono accelerati non sono inerziali.

IL PRINCIPIO DI RELATIVITÀ GALILEIANA


Nella Seconda Giornata del Dialogo sopra i Due Massimi Sistemi, Galileo Galilei de- scrive un
esperimento da compiere all’interno di una nave.
“Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e
quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e
dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando
dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate
diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza;
i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte
nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare
verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice,
a piè giunti, equali spazii passerete verso tutte le parti.
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello
sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che
il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in
tutti li nominati effetti, nè da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma.
Voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazii che prima, nè, perché la nave si muova
velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché, nel tempo che voi

53
state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna
cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi
verso la poppa, che se voi fuste situati per l’opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso
inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra
molti palmi; i pesci nella loro acqua non con più fatica noteranno verso la precedente che verso la
sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo
dell’orlo del vaso; e finalmente le far- falle e le mosche continueranno i lor voli indifferentemente
verso tutte le parti, né mai accaderà che si riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che
fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo, trattenendosi
per aria, saranno state separate [...].”
Cioè, quando la nave è ferma
• l’acqua che scende gocci a goccia da un secchiello entra nel collo di una bottiglia:

• saltando verso prua o verso poppa a piedi pari con la stessa forza, si supera la stessa distanza.

Quando la nave è in moto, a velocità costante e senza scosse, gli stessi fenomeni avvengono nella
stessa maniera: saltare verso prua non è più faticoso che saltare verso poppa e le gocce d’acqua non
“rimangono indietro” in modo da non centrare più l’apertura della bottiglia.
Questa scoperta di Galileo viene espressa, con un linguaggio moderno, come principio di relatività
galileiana: le leggi della meccanica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali, qualunque
sia la velocità (costante) con cui essi si muovono gli uni rispetto agli altri.
Come conseguenza di questo principio, nessun esperimento di meccanica compiuto al chiuso (cioè
senza guardare fuori dal finestrino) ci può permettere di capire se siamo fermi in un sistema di
riferimento inerziale, per esempio la Terra oppure se, rispetto a esso, ci stiamo muovendo a velocità
costante.

LE TRASFORMAZIONI DI GALILEO
Anche se in due sistemi di riferimento inerziali valgono le stesse leggi della meccanica, la descrizione
del moto può essere diversa. Per esempio, nel sistema di riferimento del treno (che si muove a velocità
costante), un libro risulta fermo; però, rispetto ai binari, il libro si muove di moto rettilineo uniforme.

54
Vogliamo trovare delle leggi che permettano di descrivere quantitativamente il moto in un certo
sistema di riferimento inerziale S’ , se conosciamo le caratteristiche dello stesso moto in un altro
sistema inerziale S (che potrebbe essere il sistema IRC).
Indichiamo con :
• t l’istante di tempo misurato nel sistema di riferimento S
• t’ l’istante di tempo misurato nel sistema di riferimento S’
Per semplificare la trattazione, introduciamo due convenzioni (figura 2):
1. i cronometri nei due sistemi di riferimento partono insieme; così gli istanti t = 0 s e t’= 0 s
coincidono e tutti i valori successivi segnati dai due orologi sono identici: t = t’;
2. all’istante t = t’ = 0 s i due sistemi di riferimento S e S’ coincidono e, in particolare, le loro origini
O e O’ occupano lo stesso punto.

Descriviamo con il vettore G 5⃗ la velocità (costante) con cui il sistema di riferimento S’ si muove
rispetto a S.
5⃗) = G
• all’istante t, la distanza tra l’origine O e l’altra origine O’ è data dal vettore G 5⃗t’

• i vettori y⃗ e y⃗ ′ indicano la posizione del punto P nei sistemi di riferimento S e S’

• 5⃗)′
si vede dal disegno che vale la relazione y⃗ = y⃗ ′ + G

55
Così, conoscendo le grandezze misurate in S’ è possibile calcolare le corrispondenti grandezze di S
attraverso le relazioni:
5⃗
oy⃗ = y⃗ ′ + G )′ formula 1
) = )′
Da queste si ricavano le leggi che permettono di passare dalle quantità di S a quelle di S’:
5⃗
oy⃗′ = y⃗ − G ) formula 2
)′ = )
Le formule (1) e (2) sono dette trasformazioni di Galileo. In entrambe, la prima equazione afferma
che gli spostamenti di un oggetto nei due sistemi inerziali sono legati da una relazione lineare nel
tempo; la seconda equazione dice che il tempo scorre in modo uguale nei due sistemi.
Indichiamo ora con k⃗ la velocità di un punto materiale misurata nel riferimento S e con k⃗′ la velocità
dello stesso oggetto rispetto a S’.
Che relazione c’è tra k⃗ e k⃗ ‘ ? Applicando la (1) a un piccolo intervallo di tempo
∆t = ∆t’ si ha ∆y⃗ = ∆y⃗ ’ +555⃗
G ∆)′

Dividendo il primo membro per ∆t e il secondo membro per ∆t’ si ricava:


∆R⃗ ∆R⃗=
∆c
= ∆c=
+ 555⃗
G à k⃗ = k⃗’ + 555⃗
G e k⃗′ = k⃗ - 555⃗
G
Possiamo quindi affermare che:
la velocità di un oggetto rispetto a S è data dalla velocità dello stesso oggetto rispetto a S’, sommata
con la velocità di S’ rispetto a S.

Esempio 2:
Su una strada rettilinea un’automobile A vede una seconda automobile B che la sorpassa alla velocità
costante di 30 km/h. Una pattuglia stradale ferma sulla strada misura la velocità dell’automobile A,
che risulta di 60 km/h.
Qual è la velocità dell’automobile B, misurata dalla pattuglia?
Il problema si risolve con la prima delle formule (3), anche se non c’è bisogno di utilizzare i
vettori in quanto le velocità delle due auto hanno la stessa direzione e lo stesso verso.
Indichiamo con
• v = 30km/h la velocità dell’automobile B nel sistema di riferimento S’ in cui A è ferma;
• V = 60km/h la velocità di S’ rispetto a S (sistema di riferimento in cui la pattuglia è ferma).
Allora la velocità v dell’automobile B in S è:
,H ,H ,H
v = v’ + V = 30 I
+ 60 I
= 90 I

56
2° LEGGE DI NEWTON
Il secondo principio della dinamica o legge fondamentale della dinamica stabilisce che la forza
agente in un corpo è uguale al prodotto della sua massa per l’accelerazione assunta dal corpo
55⃗
n = mG .⃗ formula 4
Visto che la formula (4) è una relazione tra vettori, forza e accelerazione hanno la stessa direzione e
lo stesso verso; inoltre, il modulo della forza è uguale al prodotto della massa per il modulo
dell’accelerazione.
La formula (4) è alla base della definizione dell’unità di misura della forza, il newton (simbolo N):
un newton è il valore di una forza che, applicata a una massa di 1 kg, le imprime un’accelerazione
pari a 1 m/s2.
7
Questa proprietà si esprime attraverso la formula 1N = 1kg ∙
R!

In un sistema di riferimento inerziale un corpo di massa “m” soggetto a forze di risultante 7⃗ si muove
con un’accelerazione *⃗ , che è diretta secondo 7⃗ con pari verso, e il cui modulo è direttamente
proporzionale al modulo di 7⃗ ed inversamente proporzionale ad m. In formula:
j⃗

.⃗ =
G (1)
S

Moltiplicando entrambi i membri per m, otteniamo:

.n⃗ = oG
.⃗ (2)
che è la formula che riassume la seconda legge di Newton.

In questo secondo principio la massa m (anche detta “inerzia” del corpo) lega la forza 7⃗
all’accelerazione *⃗, secondo la (1) e la (2).

Su un corpo agiscono più forze, la risultante 7⃗ è la somma di tutte queste forze. Notiamo che questo
principio non è in contraddizione con il primo principio, in quanto ne conferma la validità. Infatti, se
7⃗ = 0, si ha *⃗ = 0 e perciò il corpo si muove di moto rettilineo uniforme, così come vuole la prima
legge di Newton. E qui lo studente potrà chiedere se abbiamo effettivo bisogno di due principi, se il
primo è in qualche modo già contenuto nel secondo. La risposta è che abbiamo bisogno del primo
principio della dinamica per introdurre il concetto di sistema di riferimento inerziale. Da notare che
la relazione 7⃗ = !*⃗ vale solo per sistemi di riferimento inerziale.
Prima di illustrare con esempi l’utilità della seconda legge di Newton, enunciamo anche il terzo
principio della dinamica, detto anche principio di azione e reazione, in quanto considera
interazione tra due corpi. Notiamo infine che l’unità di misura della forza è il “Newton” (N) e che:
1N = 1Kg m/s2
Esempio: elefante e topo
Prendo un elefante e lo metto sui pattini a rotelle

57
L’immagine dell’elefante essendo
stata presa da internet ha una
direzione diversa.
L’elefante dovrebbe andare verso
destro come indica la freccia Fo

L’immagine del topo essendo stata


presa da internet ha una direzione
diversa.
Il topo dovrebbe andare verso destro
come indica la freccia Fo

Come sono fatte le due accelerazioni?


at > aE perché inversamente proporzionale alla massa.
Quindi, visto che mt < ME à at > aE

3° LEGGE DI NEWTON
Il primo e il secondo principio della dinamica descrivono le proprietà meccaniche di un singolo
oggetto.
Ciò che accade quando due corpi interagiscono tra loro è spiegato dal terzo principio della dinamica
o principio di azione e reazione:
se un corpo A agisce con una forza su un corpo B, anche B esercita una forza sul corpo A: le due
forze hanno lo stesso modulo, stessa direzione e versi opposti.
La formula che esprime il terzo principio è: 5=⃗J→L = − = 5⃗L→J

Forza di A
su B Forza di B
su A

58
Se un corpo A agisce, con una
forza 7⃗ AB, sul corpo B, il corpo Fig. 2
B agirà su A con una forza 7⃗ BA, Due corpi A e B, interagiscono
opposta ad 7⃗ AB, ossia tale che con forze 7⃗ BA e 7⃗ AB
7⃗ BA = - 7⃗ AB

Tale principio è abbastanza ben comprensibile già dal suo enunciato.

APPLICAZIONE DELLA SECONDA LEGGE DI NEWTON


Notiamo, innanzitutto, che la relazione vettoriale
.n⃗ = oG
.⃗
è un’equazione che si può scrivere come segue:
n3 = oG3
in2 = oG2 (4)
n• = oG•
In questo modo dall’equazione .n⃗ = oG
.⃗ possiamo ricavare 3 (o 2, in due dimensioni) equazioni
scalari. Nel caso in cui ,⃗ = 0, il corpo è detto “in equilibrio”.

Iniziamo la nostra illustrazione con i problemi di statica. Un corpo è fermo se p⃗ = 0 (in un sistema di
riferimento inerziale). Prendiamo il sistema di riferimento solidale col suolo terrestre come inerziale,
in buona approssimazione.

Fig. 3
Un blocco di massa m è in
equilibrio statico su un tavolo

Studiamo l’equilibrio statico di un blocco di massa “m” poggiato su un tavolo.

Tale blocco è soggetto alla forza peso che esprimiamo come m=⃗ e alla forza vincolare normale alla
.⃗. Infatti, se non vi fosse questa forza q
superficie del tavolo q .⃗ a sostenere il blocco, quest’ultimo
cadrebbe a terra con accelerazione W⃗.

Imponendo p⃗ = 0 per l’equilibrio, notiamo che:

59
.⃗ + 3=⃗ = 0
q (5)
Ossia,

.⃗ + − 3=⃗
q (6)
555⃗ è opposta alla forza peso. Questo esempio serve però a introdurre la
La (6) ci dice che la forza q
nozione di “reazione vincolare”, ossia di una forza che “vincola” il blocco a rimanere in equilibrio.

TENSIONE
Quando un filo (o una fune, un cavo, una corda o qualsiasi altro oggetto di questo tipo) è fissato a un
corpo ed è tirato, si dice che è in tensione. Esso esercita sul corpo una forza di trazione T, applicata
al punto di fissaggio del filo e diretta lungo il filo nel verso di allontanamento dal corpo, come indicato
nella figura 5.9a. La tensione nella corda è il modulo T della forza agente sul corpo. Per esempio, se
la forza esercitata sul corpo ha intensità di 50 N, la tensione nella corda è di 50 N.
Spesso si considera il filo come un oggetto senza massa (si considera trascurabile la sua massa in
confronto alla massa del corpo) e non soggetto ad allungamento (inestensibile). Esso è concepito solo
come un collegamento fra due corpi. Esercita una trazione sui corpi con la stessa intensità T in
ciascuno dei suoi estremi, perfino se tutto il sistema sta accelerando e perfino se il filo corre intorno
a una puleggia priva di massa e di attrito (figg. 5.9b e 5.9c). Una tale puleggia ha massa trascurabile
se confrontata con quella dei corpi, e sviluppa sul suo asse uno sforzo di attrito trascurabile, che si
oppone alla sua rotazione. Quando un filo si avvolge attorno alla puleggia per metà della sua
circonferenza, come in figura 5.9c, la forza netta esercitata dal filo sulla puleggia ha modulo pari a
2T.

Figura 5.9 : (a) la corda, tesata a ferro, è soggetta a tensione. Esercita una trazione sui corpi fissati ai
due capi con una forza T. Lo stesso vale nel caso in cui la corda scorra intorno a una puleggia priva
di massa e di attrito in (b) e in (c).

UN QUADRO APPESO AL MURO


Quante cose possiamo imparare da un quadro appeso a muro!

60
Fig. 4
Due fili sottili sostengono un
quadro.

Immaginiamo di appendere un quadro al muro con due fili sottili inestendibili. Questi fili, nei quali
si gemma una tensione a causa del peso del quadro, vincoleranno il quadro in una posizione di
equilibrio. Schematizziamo le forze come nel “diagramma di corpo libero” riportato in fig. 5

Fig. 5
Diagramma di corpo libero per
il quadro in equilibrio in fig.4

Notiamo che i due fili formano un angolo V con l’orizzontale. Le componenti delle forze
555⃗' a 555⃗
7 7" saranno perciò le seguenti:

...⃗
p1 = p1 cos V *( + p1 sin V +( (7a)
g (7b)
....⃗
p( = p( cos V *( + p( sin V +(
La forza peso sarà così esprimibile:
3=⃗ = − 3=⃗+( (8)
Imponendo, per l’equilibrio, p⃗ = 0, scriviamo:

Fx = 0 à p1 cos V − p( cos V = 0 (9a)


Fy = 0 à p1 sin V + p( sin V − 3= = 0 (9b)
Dalla (9a) si ha F1 = F2 e dalla (9b) otteniamo:
2F1 sin V = mg (10)

Conoscendo la massa del quadro (diciamo m = 1.00kg) e l’angolo V (diciamo V = 30°) possiamo
ricavare la funzione F1 nei due fili.

61
7u (1.66)(F.D1)
p1 = ( ÇÉÑ Ö
= < q = 9,81 N
((!)

Possiamo adesso anche sapere con quale forza la tensione nel filo agisce sul chiodo. Potremmo quindi
immaginare che quadro e chiodo agiscano uno sull’altro attraverso il filo. Pertanto, sul chiodo C agirà
...⃗1 , così come mostrato in fig.6
una forza opposta a p

Fig. 6
Il quadro in Q e il chiodo C
interagiscono attraverso il filo.

ATTRITO
Se facciamo scivolare, o tentiamo di far scivolare, un corpo su una superficie, contro questo moto fa
resistenza un vincolo che si stabilisce fra il corpo e la superficie. La resistenza è considerata come
una singola forza \ detta forza di attrito, o più semplicemente attrito. La forza agisce parallelamente
alla superficie, in verso opposto alla direzione del moto desiderato (fig. 5.8). A volte, per semplificare
una certa, situazione ideale, si ammette che l'attrito sia trascurabile, e quindi si dice che la superficie
è priva di attrito.

Figura 5.8: una forza di attrito \ si oppone al


tentativo di far scivolare un corpo su una
superficie.

Gli esperimenti dimostrano che, quando un corpo è premuto contro una superficie in assenza di
umidità e lubrificazione e una forza F tende a far slittare il corpo lungo la superficie, la forza d’attrito
risultante ha tre proprietà:
• Proprietà 1: se il corpo non è in moto, la forza di attrito statico \M e la componente di F
parallela alla superficie hanno la stessa intensità e direzione ma verso opposto
• Proprietà 2: l’intensità di \M per raggiungere un valore massimo \M H8! dato da:
rR 7"8 = sR pÜ (6.1)
•M è il coefficiente di attrito statico e 7N è l’intensità della forza normale. Se l’intensità della
componente di F parallela alla superficie supera \M H8! , il corpo comincia a scivolare lungo
la superficie
• Proprietà 3: se il corpo comincia a scivolare lungo la superficie, l’intensità della forza di
attrito decresce rapidamente fino al valore \, dato da :
tC = sC pÜ (6.2)

62
•, è il coefficiente di attrito dinamico. In seguito, durante lo scivolamento, la forza d’attrito
dinamico \, a un’intensità data dalla stessa equazione 6.2
L’intensità 7N della forza normale compare nelle proprietà 2 e 3 come una misura della fermezza con
cui il corpo preme contro la superficie. Se il corpo preme più forte, per la terza legge di Newton il
valore 7N diventa maggiore. Le proprietà 1 e 2 sono formulate considerando una singola forza F, ma
valgono anche per la forza netta (o risultante) dovuta a diverse forze che agiscono sul corpo. Le
equazioni 6.1 e 6.2 non sono equazioni vettoriali: sappiamo però che la direzione di \M e \, è sempre
parallela alla superficie e opposta al moto desiderato, mentre 7N è perpendicolare alla superficie.
I coefficienti •M e •, sono adimensionali e si devono determinare sperimentalmente. Poiché i loro
valori dipendono sia dal corpo sia dalla superficie, in genere ci si riferisce a essi usando la
preposizione “tra”, come nella frase “il valore di •M tra una slitta e l’asfalto è di 0,5”.

LA FORZA DI ATTRITO
Immaginiamo di voler spostare una cassa su un pavimento, tirandola con una forza 7 5555⃗
7 notiamo che,
se la forza 5555⃗
77 non è abbastanza intensa, la cassa non si muove. Questo significa che esiste una forza
555⃗6 , che chiamiamo “forza di attrito” che contrasta la forza 7
\ 5555⃗
7 . Tuttavia, se applichiamo una forza
sufficientemente intensa la cassa si muoverà strisciando sul pavimento. Per descrivere questo
fenomeno dal punto di vista matematico, scriviamo che avremo condizioni statiche fintanto che 77 ,
e quindi, \6 , non è maggiore di un certo valore di soglia 7M . Cosicché in condizioni statiche :
t‡ ≤ nT (1)

Fig.1
Una forza 75555⃗
7 applicata alla cassa è
controbilanciata, se la cassa è ferma, dl la
forza di attrito \6

In condizioni dinamiche possiamo supporre che \6 sia costante e pari a un certo valore 7M ′ ,
abbastanza vicino a 7M . Tale valore sarà minore di 7M in quanto è esperienza comune che, una volta
che la cassa è in movimento, occorre una forza minore della forza 7M (necessaria a metterla in moto)
per far muovere la cassa a velocità costante. Possiamo allora scrivere che in condizioni dinamiche:
t‡ = nT ′ (2)

Come possiamo adesso esprimere questi valori 7M a 7M ′ ?


Innanzitutto dobbiamo notare che maggiore è la componente della forza peso che grava sulla
superficie, maggiore sarà 7M .Essendo tale componente controbilanciata da N, possiamo scrivere:
• Condizioni statiche: tc ≤ sR q (3a)
• Condizioni dinamiche: tc = sa q (3b)

63
Dove •M È il coefficiente di attrito statico e •O è chiamato coefficiente di attrito dinamico. Per quanto
detto su 7M a 7M ′, si deve avere: •O ≤ •M

EFFETTO DELL’ATTRITO SUL MOTO DI UN BLOCCO SUL PIANO


INCLINATO
Consideriamo un blocco su un piano inclinato. Notiamo che, fintanto che l’angolo Œ non è superiore
a un valore di soglia ŒM , il blocco rimarrà fermo. Quando Œ = ŒM avremo condizioni di moto incipiente
e per Œ > ŒM avremo condizioni dinamiche.

Fig. 2
Un blocco di massa “m” su un piano
inclinato di un angolo Πrispetto
all’orizzontale

CONDIZIONI STATICHE à (Œ < ŒM )

Fig.3
Diagramma di corpo libero per un blocco in
quiete su di un piano inclinato.

7! = 0
555⃗ = 0
Nelle condizioni statiche possiamo scrivere: 7
7# = 0

Possiamo quindi scrivere:


p8 = 3= 9WX V − rc = 0
S (5)
p9 = q − 3= TU9 V = 0
Dalla prima equazione si ha :

rc = 3= 9WX V (6)

Dalla seconda della (5) si ha:


q = 3= TU9 V (7)

64
Facendo ricorso alla legge fenomenologica 86 ≤ •M ’ , possiamo scrivere:
!W yb+ Œ ≤ •M !W A“y Œ à semplifico mg perché sta ad entrambi i membri ed ottengo:
RàB Ö
≤ sR à $,X V ≤ sR
+tR Ö
(8)
Pertanto, il valore di soglia ŒM è determinato attraverso la seguente equazione:

$,X V = sR (9)
Quando la tangente dell’angolo Œ è maggiore di •M , si avranno condizioni dinamiche. Pertanto una
misura di ŒM ci restituisce, attraverso la (9), il valore del coefficiente di attrito statico.

Esempio 1:
Un blocco di massa m è fermo su un piano inclinato di un angolo Œ < 30°. Proprio al valore di Œ =
30°, il blocco incomincia a muoversi. Quanto vale il coefficiente di attrito dinamico •M ?
1
•M = )*+ ŒM = )*+30° = = 0.577
√3
CONDIZIONI DINAMICHE
vogliamo adesso trovare l’accelerazione del blocco lungo il piano inclinato. Scriviamo allora la
seconda legge di Newton:

Fig.4
Diagramma di corpo libero per un blocco in
moto su di un piano inclinato.

7! = !*!
555⃗
7 = !*
555⃗
0
7# = !*#
Perciò notiamo che *! = a quidni avremo:
3= 9WX V − rc = 3,
(10a)
q − 3= TU9 V = 0
(10b)
A queste due relazioni aggiungiamo la legge fenomenologica

65
tc = sa q (11)
Dalla (10b) e dalla (11) si ha:
tc = sa 3= TU9 V (12)
In questo modo, sostituendo la (12) nella (10 a), si ha:

3= 9WX V − 3= TU9 V = 3, (13)


semplifico m ed ottengo:
a = g(9WX V − sa TU9 V) (14)
Si può notare che l’accelerazione trovate è sempre minore dell’accelerazione ** = W yb+ Œ
che sia in assenza di attrito (•O = 0)
Esempio 2:
Si calcoli la velocità di un blocco in fondo a un piano ruvido L = 4,00 m, inclinato di un angolo Œ =
45° rispetto all’orizzontale. Il coefficiente di attrito dinamico tra il blocco e il piano è •O =0.500 e
il blocco parte da fermo dall’estremità del piano inclinato.
Calcoliamo dapprima l’accelerazione del blocco sul piano inclinato:
√" ' √" H
a = g(yb+ Œ − •O A“y Œ) = "
gz1 − "{ = (
g = 3.47 M"

adesso, facendo ricorso alla cinematica, avremo:


'
%()) = *) " ' "R
i " à L = " *)Q" à )Q = P 8
k! ()) = *)

"R
La velocità finale kQ sarà quindi kQ = *)Q = * P 8 = √2*•

Sostituendo i valori, avremo: kQ = ñ2(3.47)(4.00)!/y = 5.27 m/s

IL PIANO INCLINATO
Un modo per misurare l’accelerazione di gravità “g” è quello di utilizzare un piano inclinato (Fig.7)

Fig. 7
Un blocco di massa “m” si
muove con accelerazione *⃗
lungo un piano liscio, inclinato
di un angolo Πrispetto
all’orizzontale.

Immaginiamo che un blocco di massa “m” si muova su un piano liscio, inclinato di un angolo Œ
rispetto all’orizzontale. Vorremo conoscere quanto vale la sua accelerazione.
Per fare ciò, consideriamo il diagramma di corpo libero mostrato in Fig.8

66
Fig. 8
Diagramma di corpo libero per
un blocco di massa “m” che si
muove su un piano inclinato.

In questo diagramma rappresentiamo tutte le forze che agiscono sul blocco (la forza peso !W⃗ e la
5⃗ ), l’accelerazione ,⃗ e gli assi, con l’asse x lungo il piano e
reazione vincolare normale al piano ’
l’asse y ortogonale ad esso.
Sappiamo che la 2° legge di Newton ci fornisce 2 equazioni:
p = 3,
n .⃗ à Sp8 = 3,8
.⃗ = oG (11)
9 9

Notiamo che, in questo sistema di riferimento ,⃗ = ,*( e:

.⃗ = q+(
q
g (12)
3=⃗ = 3= sin V *( − 3= cos V +(
Sostituendo queste informazioni nella (11) si ha:

a = g9WX V (14)
Questa espressione ci permette di dire che, per mezzo di un piano inclinato, conoscendo Œe misurando
l’accelerazione *⃗, potremmo conoscere g.

Cosa fare per misurare l’accelerazione a ?

Fig. 9
Misurare l’accelerazione a
attraverso una misura del
tempo tAB.

Immaginiamo di conoscere la lunghezza L del piano inclinato. Rilasciando il blocco dalla sommità
del piano, misuriamo il tempo tAB impiegato dal blocco stesso per andare dal punto A al punto B.

67
Dalla cinematica sappiamo che:

x(t) = ½ at2 (15)


e perciò:

L = ½ atAB2 (16)
In questo modo, si ha:
(O
a=c (17)
0=!

Sapendo adesso che a = g9WX V, potremmo ricavare g.

LA GRAVITAZIONE UNIVERSALE
Anche quando le leggi di Keplero permisero di descrivere con ottima precisione i moti osservati dei
corpi celesti, rimaneva da scoprire quale fosse la ragione dei loro comportamenti.
Fuori Isaac Newton a fare l’ipotesi che la forza che lega la Luna la Terra, e che le impedisce di
allontanarsi nello spazio, sia la stessa che fa cadere a terra una mela che si stacca dal ramo di un
albero.
Secondo la sua idea questa forza è universale e fa sì che due corpi qualsiasi, siano essi due stelle
oppure un elefante e un granello di sabbia, si attraggono. Questa forza dipende da quanto grandi sono
le masse di ciascun corpo e da quanto sono distanti.
La legge di gravitazione universale di Newton afferma che:
la forza di attrazione gravitazionale che si esercita tra due corpi puntiformi di masse m1 e m2 è:
- direttamente proporzionale a ciascuna massa;
- inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza r;
- diretta lungo la retta che congiunge i due corpi.

7< 7!
F=G
l!
*F = forza di attrazione gravitazionale (N); G = costante G (N ∙ !" /OW" ); m1= massa del primo
corpo (kg); m2 = massa del secondo corpo (kg); r2 = distanza (m)

Ü 7!
La costante G è detta costante di gravitazione universale e vale: G = 6,67 x 10 -11
Cu!

Fig. 4:
esempi di variazione della forza gravitazionale
con la massa

68
Tenendo fissa la distanza tra i due corpi (figura quattro):
- se una delle due masse raddoppia, la forza di gravitazione raddoppia;
- se anche l’altra massa raddoppia, la forza diventa quattro volte più grande. Fig. 5:
esempi
di
variazio
ne della
forza
gravitazi
onale
Tenendo fisse le masse dei due corpi (figura cinque): con la
- se la distanza raddoppia, la forza diventa quattro volte (cioè 22 volte) più piccola; distanza.
- se la distanza triplica, la forza diventa nove (32) volte più piccola;
- se la distanza è 10 volte più grande, la forza diventa 100 (102) volte più piccola.

Quindi, come è mostrato anche dal grafico a fianco (figura 6), la forza diminuisce molto rapidamente
al crescere della distanza. Questo spiega perché, stando sulla Terra, sentiamo molto l’attrazione della
Terra e poco quella delle stelle.

Fig. 6:
grafico del modulo della forza gravitazionale
in funzione della distanza.

IL VALORE DELLA COSTANTE G


La forza-peso 75555⃗
S di un corpo di massa m è la forza di gravità con cui la Terra attrae tale massa quando
è posta vicino alla superficie terrestre.
Anche se la Terra è un corpo esteso, la sua azione gravitazionale è la stessa che si avrebbe se essa
fosse un punto materiale, con tutta la massa concentrata nel suo centro. Allora la distanza tra la massa
m e la Terra è uguale al raggio Rt della Terra e il modulo della forza-peso 7 5555⃗
S è dato dalla formula:
7 â>
Fp = G ä>!
(3)

dove MT è la massa della Terra e RT è il suo raggio.


Il valore della costante G può essere ricavato dalla formula precedente:
;? ä>!
G= 7 â>
Newton non ci ha lasciato un calcolo diretto di G. Egli ipotizzò che la densità media della Terra fosse
pari a cinque-sei volte quella dell’acqua. Assumendo una lunghezza del raggio terrestre pari a circa

69
6000 km, ecco l’intervallo di valori di G al quale Newton avrebbe potuto pervenire (espresso in unità
‹ Œ2
SI): G ≅ 7,8 ÷ 6,5 % 10/''
•{2
per una densità pari a cinque e a sei volte quella dell’acqua, rispettivamente. L’intervallo di valori di
G contiene il valore che oggi accettiamo.

Ma qual è l’origine di “g” ?


55⃗
Perché la forza peso si esprime come m[ ?
Fig. 10
Due corpi interagiscono
attraverso la forza di
attrazione gravitazionale.

Per comprendere ciò dobbiamo enunciare la legge di gravitazione universale. Se due corpi di massa
m1 ed m2 interagiscono attraverso una delle quattro forze fondamentali in natura, ossia l’interazione
gravitazionale, possiamo esplicitare tale forza e scrivere quanto segue:
7< 7!
p1( = w l!
(18)
Ossia il modulo della forza di attrazione gravitazionale è proporzionale al prodotto delle masse dei
due corpi interagenti e inversamente proporzionale al quadrato della distanza “r” tra i corpi. La
costante di gravitazione universale G è pari a:
Ü7!
G = 6.67 ∙ 10-11 (19)
éu!
Consideriamo adesso un oggetto di massa “m” sulla superficie terrestre.

Fig. 11
Un corpo di massa “m” è attratto
verso il centro della Terra
schematizzata come una spia di
raggio RT.

La Terra, a scanso di equivoci, può essere approssimata a una sfera di raggio RT = 6,37 x 106 m ed
una massa MT = 5,97 x 1024 kg
Il corpo dista, dal centro della terra proprio RT cosicché scriviamo:
7 â>
p@ = w = 3=x (20)
ä>!
Ove

70
AB!
èâ> (ê,êJ ∙ 16@<< ) (ê,êJ)(h,FJD)∙16<- 7 7
C:!
=x = = = = 9,82
ä>! (ê,0J ∙ 16D )! 7! (ê,0J)! ∙ 16<! R ! R!

A questa figura bisognerà apportare delle modifiche per via della rotazione Terrestre, in modo da
ottenere il valore di:

g = 9,81 m/s2 (21)


pertanto, abbiamo visto che l’espressione:

FG = mg (22)
È proprio il modulo della forza peso. Dalla schematizzazione in fig. 11, notiamo che W⃗ è diretto
ortogonalmente al suolo, localmente, ed ha verso che punto verso il basso. Così come dimostrato in
fig.12

Fig. 12
La forza peso è diretta
ortogonalmente al suolo
localmente e punta verso il
basso.

L’ESPERIMENTO DI CAVENDISH
Lo scienziato inglese Henry Cavendish giunse nel 1798 alla prima misura in laboratorio di G (e
dunque della densità della Terra) ottenendo valori di elevata precisione.

Fig. 7:
schema di
funzionamento
dell’apparato di misura
di Cavendish

Come è mostrato nello schema della figura 7, egli usò una bilancia a torsione per misurare la forza
gravitazionale che si esercita tra due sfere vicine tra loro.
La bilancia a torsione è un manubrio orizzontale appeso a un filo; essa permette di misurare forze
anche molto piccole che imprimono una lieve rotazione al manubrio. La misura si ottiene mettendo
in evidenza la torsione che la rotazione del manubrio provoca nel filo a cui esso è appeso.

71
L’esperienza di Cavendish è stata poi ripetuta molte volte con strumenti sempre più precisi, fino a
Ü 7!
ottenere il valore accettato attualmente: G = 6,67 x 10 -11
Cu!
L’ACCELERAZIONE DI GRAVITÀ SULLA SUPERFICIE DELLA TERRA
La formula (3) può essere riscritta in modo da mettere in evidenza la massa m del corpo che risente
èâ>
dell’attrazione gravitazionale: Fp = m[ \ (4)
ä>!

La quantità che compare tra parentesi nella formula (4):


1. è una costante (infatti contiene soltanto grandezze il cui valore non può essere modificato);
2. non dipende dalla massa m;
3. ha un valore numerico pari a
A B!
èâ ëê.êJ 8 16@<< í 8 (h,FJê 8 16!# Cu ) Ü 7! Cu Ü 7
,:!
[ !> \ = = 9,80 ∙ = 9,80 = 9,80
ä> (ê,0JD 8 16D 7)! Cu! 7! Cu R!

Queste tre proprietà sono le stesse che caratterizzano l’accelerazione di gravità g. Quindi:
la legge di gravitazione universale permette di ottenere, come caso particolare, la formula FP = mg
che descrive l’azione della gravità nei pressi della superficie terrestre.
In particolare, confrontando la formula (4) con l’espressione FP = mg si ottiene la relazione:

èâ>
g=
ä>!

IL MOTO CIRCOLARE UNIFORME


Passando dai moti sulla retta a quelli nel piano si esamina il moto circolare uniforme.
Il moto circolare uniforme descrive un punto materiale che percorre una traiettoria circolare
mantenendo costante il modulo del vettore velocità istantanea.

Fig. 9:
nel moto circolare uniforme i
vettori r⃗ e v5⃗ relativi allo stesso
punto sono perpendicolari.

Chiamiamo raggio vettore 2⃗ il vettore che in ogni istante congiunge il centro della traiettoria
circolare con il punto in cui si trova il corpo in movimento.

72
Nel moto circolare uniforme il raggio vettore che individua un punto A della circonferenza è sempre
perpendicolare alla velocità istantanea del moto nello stesso punto A (figura 9).

IL PERIODO E LA FREQUENZA
Il moto circolare uniforme è un esempio di moto periodico.
Si definisce periodico un moto che si ripete sempre uguale dopo un intervallo di tempo T, che si
chiama periodo del moto.
Nel moto circolare uniforme il periodo è la durata di un giro completo della traietto- ria circolare.
In un moto periodico:
si definisce frequenza f del moto il numero di periodi che il moto compie nell’unità di tempo.
U
Il legame tra frequenza f e periodo T è dato dalla relazione: t = (12)
M
Nel Sistema Internazionale la frequenza si misura in s-1 (o in 1/s). A questa unità è stato dato il nome
hertz (simbolo Hz).

IL MODULO DEL VETTORE VELOCITÀ


Se il raggio della traiettoria circolare è r e il periodo del moto è T, il modulo v della velocità del moto
circolare uniforme risulta:
V“”
v= (13)
M
U
Dal momento che = t, questa formula può essere riscritta anche come:
M
v = 2 z {t (14)

LA VELOCITÀ ANGOLARE.
Consideriamo la stazione spaziale ISS in orbita attorno alla Terra. Mentre la stazione si muove da A
a B sulla circonferenza, il raggio vettore spazza un angolo al centro A@úB, che misura ∆$.

Fig. 10:
angolo al centro ∆$

Si definisce velocità angolare • di un moto circolare uniforme il rapporto tra l’angolo al centro ∆$
e il tempo ∆t impiegato dal raggio vettore a spazzare tale angolo.
∆'
|= ∆c
(15)

48O
*∆$: *+W“Ÿ“ *Ÿ Aa+)2“ (2*s); ∆): b+)a2k*ŸŸ“ sb )a!^“ (y); •: kaŸ“Ab)à *+W“Ÿ*2a ( M
)

Nel Sistema Internazionale le ampiezze degli angoli si misurano in radianti (rad), per cui la velocità
angolare si misura in radianti al secondo (rad/s).

La velocità angolare rappresenta la rapidità con cui il raggio vettore spazza l’angolo al centro
determinato, in un certo intervallo di tempo, da un punto che si muove di moto circolare.

73
L’ANGOLO IN RADIANTI
Dato un angolo A@úB, la sua ampiezza in radianti si definisce considerando una circonferenza di
raggio r centrata nel vertice O e indicando con l la lunghezza dell’arco AB di circonferenza
intercettato dall’angolo (figura 11).

L’ampiezza $ di un angolo, espressa in radianti, è data dal rapporto tra la lunghezza dell’arco AB e
ï
il valore del raggio della circonferenza: $ =
l

* $ = *+W“Ÿ“ (2*s); Ÿ: Ÿ¡+Wℎa]]* saŸŸ* Ab2A“+8a2a+]* (y); 2: Ÿ¡+Wℎa]]* saŸŸ T *2A“(!)


Di conseguenza, l’angolo che misura un radiante è quello che intercetta un arco di circonferenza lungo
quanto il raggio della circonferenza stessa. Il suo valore in gradi è di circa 57° 18'.
L’angolo giro intercetta l’intera circonferenza, cioè ha l = 2 } r. Quindi l’ampiezza in radianti
(ñl
dell’angolo giro è angolo giro in radianti =
l
=2}
Partendo dall’angolo giro si possono ottenere le ampiezze in radianti degli altri angoli di uso comune.
I loro valori sono contenuti nella tabella seguente.

L’angolo in radianti, essendo dato dal rapporto l/r tra due grandezze dello stesso tipo, ha le dimensioni
fisiche di un numero puro.

IL VALORE DELLA VELOCITÀ ANGOLARE


In un moto circolare uniforme con periodo T, il raggio vettore descrive un angolo retto (ampio } /2)
nel tempo T/4, un angolo piatto (ampio }) nel tempo T/2 e un angolo giro (ampio 2 }) nel tempo T.
Si vede, quindi, che nel moto circolare uniforme gli angoli al centro spazzati dal raggio vettore sono
direttamente proporzionali ai corrispondenti intervalli di tempo.
Il valore di | può allora essere calcolato prendendo un angolo ∆$qualunque e il corrispondente
valore di ∆t. La cosa più semplice è scegliere ∆$ = 2 } e ∆t = T, ottenendo:

∆' 2ñ 2ñ
|= = à |= (17)
∆c Q Q
Questa espressione permette di scrivere in modo diverso il valore di v: partendo dal- la formula (13)
otteniamo:

74
(ñl (ñ
v= = [ \ ! = |! → ) = |! (18)
Q Q

IL MOTO CIRCOLARE
Un punto materiale che si muove su una traiettoria circolare a velocità costante in modulo
(ovviamente non in direzione e verso) compie un moto circolare uniforme.

Fig.5
Un punto materiale si muove di moto
circolare.

Potremmo descrivere il vettore posizione k⃗ nel modo seguente:

!⃗($) = ] cos V *( + ] sin V +( (15)

Notiamo che, essendo R costante, l’unica grandezza che varia nel tempo è l’angolo q. Nel derivare
rispetto al tempo !⃗ ($) per ottenere la velocità )⃗ ($), si può far vedere che:

)⃗($ ) = ]|V~ (16)

Dove w è la velocità angolare, che andremo a definire, e V~ è un verso e nella direzione tangenziale,
così come mostrato nella fig. 5. La velocità angolare w è la derivata rispetto al tempo di q, cosicché:

w(t) = Dq(t) (17)


*dove D sta per “derivata rispetto al tempo”

75
Fig.6
La posizione angolare di un punto
materiale che si muove di moto
circolare varia di Dq in un intervallo di
tempo Dt.

Infatti, se la posizione angolare di un punto materiale che si muove di moto circolare varia di Dq =
q(t - Dt) - q(t) nell’intervallo di tempo Dt. allora la velocità angolare w sarà data dalla seguente
espressione:
∆Ö
| = lim (18)
∆c→6 ∆c

Che ribadisce la relazione nella (17). Se adesso consideriamo la derivata di | rispetto al tempo,
otterremmo l’accelerazione angolare a, cosicché:

a(t) = D|(t) (19)


Ritroviamo, pertanto, lo stesso schema “cinematico” che abbiamo riscontrato, nel caso del moto nello
spazio. Dobbiamo solo aggiungere l’aggettivo “angolare”, cosicché:

Þ q(t) à posizione angolare


Þ w(t) à velocità angolare
Þ a(t) à accelerazione angolare
Pur tuttavia, se il punto materiale si muove di moto circolare uniforme, il modulo v = Rw della
velocità della particella sarà costante, così w sarà costante. In questo modo, si potrà dire anche che
una particella si muove di moto circolare uniforme se segue una traiettoria circolare a velocità
costante.
Quindi, se la velocità angolare è costante, essa deve essere:

q(t) = w(t) + q0 (20)

Dove q0 è la posizione angolare della particella al tempo t = 0s


Esempio: l’orologio

76
Fig.7
Le lancette dell’orologio si
muovono in senso orario con
velocità angolare
"V "V
•' = 'I e •" = '"I

Se dovessimo descrivere il moto della punta delle lancette di un orologio, scriveremmo:


ñ
V1 ($) = ( − |1 $ (21a)
ñ
V( ($) = ( − |( $ (21b)

Dove a t = 0s, entrambe le lancette sono nella posizione verticale.


Immaginiamo adesso di voler trovare l’ora in cui le due lancette si sovrappongono per la prima volta.
Notiamo che la lancetta dei minuti va più velocemente di quella delle ore e così dobbiamo tener conto
che essa può effettuare più giri, mentre quella delle ore completa il primo giro. Pertanto, possiamo
scrivere:

V1 ($) = V( ($) − 2•} (22)


Dove K è un numero intero. Sostituendo la (21a) e la (21b) nella (22) avremo:
ñ ñ
(
− |1 $ = ( − |( $ − 2•} (23)

(|1 − |( )t = 2•} (24)


Si ha allora che:
(Cñ
tk = (25)
ò< . ò!

il più piccolo di questi tempi si ottiene per k = 1, cosicché:


(ñ 1(
t1 = !E !E = ℎ = 1.09ℎ à t1 = 1h 5’ 24”
. 11
<; <!;

Lo studente può trovare a che ora le lancette si sovrappongono per la seconda volta.

ACCELERAZIONE CENTRIPETA
Un punto che si muove di moto circolare uniforme è soggetto a un’accelerazione vettoriale sempre
rivolta verso il centro della traiettoria. Per questa ragione tale accelerazione è detta «centripeta»; come
è dimostrato in seguito, il suo valore ac è dato dalla formula
e!
ac = (19)
l

77
Sostituendo nella relazione precedente la formula (18) v = |!, il valore di ac può essere espresso
anche come
ac = | ( ! (20)

DIMOSTRAZIONE DELLE PROPRIETÀ DI A...⃗F


Nel moto circolare uniforme, il vettore velocità è, in ogni punto, perpendicolare alla traiettoria e,
quindi, al raggio vettore 2⃗
Disegnando le frecce che rappresentano le velocità con le code nello stesso punto, nella figura 12 si
vede che la punta di k⃗ compie un moto circolare uniforme.
Il vettore k⃗ compie un giro completo ogni volta che il raggio vettore k⃗ conclude un giro.

Fig.12: la punta del vettore velocità istantanea


descrive un moto circolare uniforme.

Quindi i moti circolari dei due vettori hanno lo stesso periodo.


Il moto circolare della punta di k⃗ ammette un vettore «velocità della velocità», che è l’accelerazione:
- Il vettore accelerazione ac è tangente alla traiettoria della punta di k⃗ e, quindi, è perpendicolare a
k⃗ .

- Dal momento che k⃗ è perpendicolare a 2⃗ , i vettori *


5555⃗W e 2⃗ risultano paralleli e con versi opposti.

78
Abbiamo quindi confermato che l’accelerazione del moto circolare uniforme è centripeta, perché ha
la direzione del raggio vettore ed è rivolta nel verso opposto di 2⃗, cioè verso il centro. Ora, questa
osservazione ci permette di calcolare il valore di *W .
"V
La relazione tra v e r è data da v = X
2 . Nel moto circolare uniforme della punta di k⃗
deve valere la stessa relazione matematica tra a e v. Quindi troviamo:
2` k k"
*= k= k=
g 2 2
È così dimostrata la formula (19).
In un moto circolare uniforme, anche se la velocità non cambia in modulo, essa cambia in direzione
e verso, così come notiamo nella fig. 8.

Fig.8
La velocità di un punto materiale
varia in direzione e verso, anche
se il suo modello resta invariato.

La variazione di velocità D)⃗ tende ad essere diretta verso il centro per Dt à 0.


In questo modo parliamo di “accelerazione centripeta”, che si fa vedere essere:

,+ = |( ]p
....⃗
Vedremo che questa accelerazione spiega molti fenomeni, dalla spinta verso l’esterno che sentiamo
quando stiamo su una giostra, all’inclinazione delle catene che sostengono i sediolini della giostra
“calcetta”, nonché alla capacità di separare la parte solida in un liquido tramite la “centrifuga”.

79
Fig.8 bis
In una giostra “calcetta”,
L’accelerazione centripeta punta
verso il centro della traiettoria
circolare dei sediolini.

IL PENDOLO CONICO

Prendiamo un bastoncino e poniamolo verticalmente dopo che alla sua estremità superiore abbiamo
attaccato un filo con un pezzetto, come in figura.
Facendo ruotare il bastoncino intorno all’asse verticale dello stesso, possiamo notare che il filo forma
un angolo q con la direzione verticale, questo a causa della forza centrifuga.

Essendo adesso la somma ‚⃗ delle forze !5= .⃗ ,


5⃗ e −!5,⃗.™ , quest’ultima apparente, proprio uguale ƒ
scriviamo che T= m>=( + ,+ ( per il teorema di pitagora e

80
7"G ò! ä
tan V = 7u
= u
(16)

Dove R=„ sin V


Quest’ultima equazione sarà perciò
ÇÉÑ Ö ò! ïRàBÖ
= (17)
öõÇ Ö u

Per V ≠ 0 (anche V = 0 è una soluzione come vedremo) si ha


u òA!
cos V = ò! ï = ò!
(18)

Dove wN è la pulsazione del pendolo semplice.

Dovendo essere 0 < cos V ≤ 1, dobbiamo avere


òA!
0< ≤1 (19)
ò!

Ossia w > wN. Pertanto, avremo una soluzione diversa da zero (V ≠ 0) solo se w > wN. La (18) ci
fornisce anche l’angolo V al quale si inclina il braccio del pendolo conico.

LA GIOSTRA “CALCETTA”

Diverso è il discorso per la giostra “calcetto”, per la quale un angolo V diverso da zero si ottiene
anche per piccoli valori di w. Anche in questo caso la causa dell’inclinazione di un braccio della
calcetta è la forza centrifuga.
UN PROBLEMA D’ESAME (SVOLTO!)

Fig.8 ese
Adele e Bruno si muovono a moto
circolare uniforme. L’esempio
richiama la fig.8

81
Adele e Bruno sono amici e sperimentano sempre nuovi modi per trascorrere il tempo in modo sano
e intelligente. Adele propone a Bruno di muoversi a diverse velocità angolare su di una pista circolare
di raggio R. Essi allora cominciano a muoversi all’istante di tempo t = 0s, con velocità angolare wA
Adele e wB Bruno, con wA > wB; così come mostrato in fig. 8ese. Determinare il momento in cui
Adele Bruno si incontrano per la prima volta se:
(ñ l"a (ñ l"a
wA = 1h6 e wB = (h6
R R

Scriviamo la legge oraria per Adele e Bruno: qA(t) = wAt


qB(t) = wBt

Ancora una volta scriviamo qA(t) = qB(t) + 2k}, con K intero. E perciò:

wAtk = wBtk + 2k} à (wA - wB) tk = 2k}


(ñ (ñ C ((h6)(1h6)C
[ − (h6\ $C = 2}• à $C = < < 9= 9
1h6 . 166
<H8 !H8

Il tempo minore sia per K=1, cosicché:

t1 = 375 s = 6’ 15”
TRASFORMAZIONI GALILEIANE E RELATIVITÀ GALILEIANA

Dal fumetto figura, a chi daresti ragione ?


Dopo un poco di riflessioni possiamo notare che entrambi, sia Osvaldo, fermo sulla banchina, sia
Ottavio, che legge comodamente seduto nel treno, hanno ragione: essi, nei loro rispettivi sistemi di
riferimento possono legittimamente asserire ciò che pensano. E vediamo perché:

82
Consideriamo la posizione P di un punto materiale nello spazio. Possiamo descrivere la posizione di
tale punto in moto con velocità k⃗ rispetto al primo, così come indicato in figura in due modi:
• attraverso un sistema Oxy
• Tramite un sistema di riferimento O’x’y’
Supponendo che il punto P giace sull’asse X, possiamo scrivere:

x(t) = xo(t) + x’(t) (1)


e perciò:
x’(t) = x(t) – xo’(t) (2)
Derivando, adesso, rispetto al tempo, avremo:
vx’(t) = vx(t) – vo’(t) (3)
Dove vx’(t) è la velocità misurata da Ottavio nel sistema O’x’y’ e vx(t) è la velocità misurata da
Osvaldo nel sistema Oxy. D’altro canto, vo’(t) è la velocità del sistema di riferimento O’x’y’ così
come misurata in Oxy.

Osvaldo afferma che Ottavio si muove a velocità )⃗ = )*( . E perciò: vx(t) = v

D’altro canto, vo’(t) = v, in quanto il treno si sta muovendo a tale velocità! Per la (3), allora, diremo:

vx’(t) = v – v = 0 (4)
e così anche Ottavio è legittimato a dire che la sua velocità è nulla.
Facciamo adesso vedere che, se un sistema di riferimento O’x’y’ si muove a velocità costante rispetto
a un sistema di riferimento inerziale, le leggi della meccanica (la seconda legge di Newton) restano
invariate in forme per un osservatore in O’x’y’. In generale, allora, scriviamo la (2) come seguente:

!⃗ = = !⃗ − ...⃗
!t= (5)
Derivando rispetto al tempo avremo:

)⃗ = = )⃗ − ....⃗
)t= (6)

....⃗t= è una costante. Derivando ancora rispetto al tempo e notando che D)


Dove ) ....⃗t= = 0, si ha:

,⃗= = ,⃗ (7)

83
Pertanto, è possibile dire che l’equazione p⃗ = 3,⃗ si scriverà come p⃗ = = 3,⃗ = nel sistema di
riferimento in moto relativo, ma che queste due equazioni sono identiche in quanto le forze reali non
dipendono dal sistema di riferimento (p⃗ = = p⃗ ) e, per la (7), le due accelerazioni sono uguali.
Invece, se il sistema di riferimento in moto relativo rispetto a un sistema di riferimento inerziale non
si muove a velocità costante, le equazioni della dinamica sono diverse e adesso vediamo alcuni
esempi.

LA FORZA CENTRIPETA E LA FORZA CENTRIFUGA APPARENTE


Per il secondo principio della dinamica, l’accelerazione centripeta * 5555⃗W esposta nel paragrafo
5555⃗ = m*
precedente deve essere causata da una forza 7A 5555⃗W che è sempre rivolta verso il centro.
Affinché un oggetto si muova di moto circolare uniforme, è necessario che subisca una forza verso il
centro, chiamata forza centrìpeta, che cambia la direzione del vettore velocità, ma non il suo valore.
Ricordando le formule (19) e (20), nel caso di un moto circolare uniforme l’intensità della forza
centripeta Fc è data da
e!
Fc = mac = m l
oppure Fc = mac = m |( !

LA FORZA CENTRIFUGA APPARENTE


Quando ci troviamo in un’automobile che descrive una curva abbiamo l’impressione che ci sia una
forza che ci spinge verso l’esterno. Questa forza sembra così reale che le si è dato anche un nome:
forza centrifuga.
In realtà, la forza centrifuga è soltanto una delle forze apparenti che incontriamo nella vita
quotidiana. Per esempio, se un autobus accelera di colpo o frena improvvisamente, avvertiamo una
“forza” che ci spinge all’indietro (nel primo caso) o in avanti (nel secondo caso); in realtà, nessuno
ci spinge o tira.
Questa forza apparente è dovuta soltanto al fatto che, mentre l’autobus accelera o frena, per il
principio di inerzia il nostro corpo tende a mantenere la velocità che aveva prima e, quindi, rimane
indietro se l’autobus accelera o va in avanti se esso diminuisce la propria velocità.
La forza apparente è il segnale del fatto che l’autobus (mentre varia la propria velocità) non è un
sistema di riferimento inerziale. Allo stesso modo, l’auto che curva è soggetta all’accelerazione
centripeta. Così il sistema di riferimento dell’automobile è non inerziale e in esso si avvertono delle
forze apparenti.

84
L’ASCENSORE DI EINSTEIN
Il peso apparente di una persona su un ascensore che si muove con accelerazione ,⃗ = ,⃗1 = ,+ (,
oppure ,⃗ = ,⃗( = − ,+ ( , è misurato dalla reazione vincolare ’5⃗ che una bilancia offre, così come
mostrato in figura.

Il sistema inerziale Oxy possiamo scrivere:

p⃗ = 3,⃗ (8)
E così ’± − !W = ± !* à ’± = !(W ± *)
Pertanto, se l’ascensore accelera verso l’alto avremo ’+ =
!(W ± *) mentre, se l’ascensore accelera verso il basso si
avrà ’/ = !(W ± *).

Ci chiediamo adesso, se possiamo scrivere l’equazione


della dinamica del sistema di riferimento dell’ascensore, che non è un sistema di riferimento inerziale.
Per i sistemi che traslano senza ruotare, rispetto a un sistema di riferimento inerziale, applichiamo la
(5) e deriviamo due volte rispetto al tempo, cosicché:

,⃗= = ,⃗ − ,⃗6 ′ (9)


Possiamo allora partire dall’equazione (8), senz’altro valida, e scrivere:

p⃗ = 3(,⃗= + ,⃗6 ′) (10)


E perciò:

p⃗ − 3,⃗6= = 3,⃗= (11)


Che potremmo anche scrivere:

p⃗ = = 3,⃗= (12)

La (12) è esattamente la (8) se Nel compito delle forze inseriamo anche la forza “fittizia” −3,⃗6=
chiamata anche forza apparente o forza inerziale.
Vediamo adesso il caso di un’auto che accelera nella direzione del moto. Le forze reali
sull’automobilista sono:

1. La forza peso 3=⃗


.⃗del sedile per controbilanciare 3=⃗
2. La reazione vincolare normale q

85
3. La reazione vincolare normale dello schienale q .⃗ s che ci sostiene, in quanto ci sentiamo
“schiacciati” con la schiena contro di esso. In questo sistema di riferimento non inerziale,
potremmo scrivere l’equazione della statica:
p⃗ = = 0 (13)

A patto che teniamo in conto anche la forza inerziale −3,⃗6= cosicché scriveremo:

x) Ns − 3,⃗6= = 0 (14a)
y) N − 3= = 0 (14b)

In questo modo Ns = −3,⃗6= è proprio la reazione vincolare che noi avvertiamo quando siamo in
fase di accelerazione.

LA FORZA CENTRIFUGA
Anche nei moti rotatori, così come abbiamo visto, possiamo individuare delle accelerazioni. In
particolare, in un moto circolare uniforme esisterà solo l’accelerazione centripeta, in modulo pari a
w2R, ove w è la velocità angolare e R è il raggio della traiettoria circolare percorsa da un corpo.
Se siamo al bordo di una giostra, infatti, è bene che ci manteniamo un palo verticale, perché,
altrimenti, rischieremmo di cadere giù.

86
La forza apparente sarà:

....⃗
pú − 3,⃗+ = − 3 (−]|( !̂ )
Ossia:

....⃗
p (
ú − 3]| !̂

Tale forza, quindi, è diretta nella direzione radiale, essendo opposta all’accelerazione centripeta, ed è
pertanto denominata forza centrifuga.
Il prodotto scalare tra due vettori (riepilogo)
Siano dati i vettori ‡⃗ e .̂⃗ . Definiamo il prodotto scalare ‡⃗ ∙ .̂⃗ tra questi due vettori come segue:
‡⃗ ∙ .̂⃗ = ‡ˆ cos V (20)
Ove Œ è l’angolo compreso tra e i due vettori

Esempio:

Trovare il prodotto scalare tra i vettori ‡⃗ = *( + +( ; .̂⃗ = −*( − +(

Dalla rappresentazione dei vettori notiamo che essi sono opposti e quindi l’angolo tra essi è q = }.

Inoltre: A = B = √2 e perciò ‡⃗ ∙ .̂⃗ = (>2)


(>2) TU9} = −2

Nel caso studiato sopra, in cui ‡⃗ = ‡8 *( + ‡9 +(, .̂⃗ =


ˆ8 *( + ˆ+( abbiamo due vettori espressi in termini delle
loro componenti. Se adesso notiamo che:
*
p ∙ *
p= +p ∙+
p=1
o
*
p ∙+p = +
p ∙*
p=0

Potremmo esprimere ‡⃗ ∙ .̂⃗ come segue:

‡⃗ ∙ .̂⃗ = Q‡8 *( + ‡9 +(R ∙ Qˆ8 *( + ˆ9 +(R


= ‡8 ˆ8 *( ∙ *( + ‡9 ˆ8 +( ∙ *( + ‡8 ˆ9 *( ∙ +( + ‡9 ˆ9 +( ∙ +(
87
‡⃗ ∙ .̂⃗ = ‡8 ˆ8 + ‡9 ˆ9

Pertanto, nell’esempio precedente, ‡⃗ ∙ .̂⃗ = (+1)(−1) + (+1)(−1) = -2

IL MOTO ARMONICO
Il moto di un pendolo e quello di un’altalena sono moti oscillatori, in cui la traiettoria del moto è
ripetuta diverse volte in versi opposti. Il modello più semplice di moto oscillatorio, in cui si trascurano
gli effetti degli attriti che smorzano l’oscillazione, è quello del moto armonico.
Si chiama moto armonico il movimento che si ottiene proiettando su un diametro le posizioni di un
punto materiale che si muove di moto circolare uniforme.

Nella figura sopra i punti Q, che rappresentano il moto armonico, sono disegnati a intervalli di tempo
uguali; si nota allora che nelle zone centrali il moto armonico è più rapido e percorre distanze
maggiori in tempi uguali; agli estremi il moto armonico è più lento e percorre distanze minori negli
stessi tempi. Nei punti di inversione del moto la velocità istantanea del punto è nulla.
Il grafico spazio-tempo del moto armonico
Il moto armonico si può studiare in laboratorio grazie a una molla di buona qualità a cui è attaccato
un pesetto.
Con un sensore di movimento posto sotto la molla si rileva il grafico spazio-tempo della figura 16.
Dal grafico si possono dedurre due grandezze fondamentali del moto armonico:

Figura 16
Grafico spazio-tempo del moto
di un pesetto attaccato a una
molla.

• il periodo T, che è la durata di un’oscillazione completa avanti e indietro;

88
• l’ampiezza dell’oscillazione, che è la distanza tra il valore massimo della curva da quello
centrale dell’oscillazione ed è uguale al raggio della circonferenza ideale che genera il moto
armonico.

Con altri sensori è possibile studiare anche il grafico velocità-tempo del moto armonico e quello
accelerazione-tempo; nelle figure seguenti questi grafici sono sovrapposti a quello spazio-tempo per
avere un confronto.

- Il grafico v-t conferma che la velocità si annulla nei punti di inversione del moto (linee
tratteggiate azzurre), mentre assume il valore massimo (positivo o negativo) al centro
dell’oscillazione (linee tratteggiate arancioni).

- Il grafico a-t rivela che a è nulla quando il moto oscillatorio passa per il centro (punti di
intersezione tra le due curve); inoltre a è massima quando lo spostamento s è minimo e
viceversa (linee tratteggiate).

Quindi, il grafico spazio-tempo e quello accelerazione-tempo sono direttamente proporzionali, ma i


segni delle due grandezze sono sempre opposti.

LA LEGGE DEL MOTO ARMONICO


La curva che compare nel grafico spazio-tempo del moto armonico disegnata dal sensore di posizione
si chiama cosinusoide. L’abbiamo ottenuta scegliendo un sistema di riferimento in cui l’origine s =
0 m è posta al centro dell’oscillazione e scegliendo l’istante
t = 0 s nel momento in cui l’oscillazione è nel suo punto massimo. La formula che fornisce la
posizione s in funzione dell’istante di tempo t è:
"V6
s = r cos•t = r cos X
• è la velocità angolare del moto circolare uniforme che genera il moto armonico e r è il raggio della
traiettoria circolare. Nel moto armonico r è l’ampiezza dell’oscillazione e la grandezza • viene
chiamata pulsazione.
Per la velocità istantanea nel moto armonico vale la relazione:
v = - • r sen•t = - v0 sen•t
Dove v0 = •r è il massimo modulo della velocità del corpo che oscilla ed è anche il modulo della
velocità del moto circolare uniforme ideale che genera il moto armonico.

89
L’accelerazione del moto armonico
Una pallina che si muove di moto armonico si trova nel punto Q della sua traiettoria.
Q è la proiezione di un punto P che si muove di moto circolare uniforme. Il vettore posizione y⃗ di Q
è il vettore che ha origine nel centro di oscillazione e la punta dove si trova Q.
- Il vettore posizione della pallina è la proiezione sul diametro del raggio vettore 555⃗
yZ , che è il
vettore posizione del punto P.

- Allo stesso modo, il vettore velocità della pallina è la proiezione sul diametro del vettore
velocità istantanea di P.

- Così anche il vettore accelerazione della pallina è la proiezione sul diametro


dell’accelerazione centri- peta del punto P.

Dalle figure precedentisi vede che l’accelerazione *⃗ in un punto Q del moto armonico ha sempre
verso opposto al vettore posizione y⃗ di Q

Figura 18:
I vettori *⃗ e y⃗ hanno la
stessa direzione e versi
opposti.

La formula che fornisce *⃗ e che riassume queste due proprietà è: *⃗ = − •" y⃗


* *⃗ = vettore accelerazione (m/s2) ; • = pulsazione (rad/s) ; y⃗ = vettore posizione (m)

Il valore dell’accelerazione può essere espresso come * = − •" y = − •" 2 A“y•) = − ** A“y•)
90
dove a0 = •" r è il massimo modulo dell’accelerazione del corpo che oscilla ed è anche valore
dell’accelerazione centripeta del moto circolare uniforme ideale che genera il moto armonico.

Esempio:
Una massa attaccata a una molla oscilla di moto armonico con una pulsazione • = 4,1 rad/s; a un
certo punto la massa si trova nella posizione s = - 0,057 m.
Calcola il valore dell’accelerazione della massa in tale condizione.
"
2*s " !
* = − • y = − Ü4,1 á ∙ (−0,057 !) = 0,96 "
y y

L’unità di misura risulta m/s2 perché il radiante è un numero puro e quindi non compare nel risultato
finale.

Fig. 9
Un punto P si muove di moto
circolare su una circonferenza di
raggio R.

Consideriamo un punto materiale che si muove di moto circolare uniforme lungo una circonferenza
di raggio R. La legge oraria per il punto materiale si scrive come segue:

q(t) = wt + q0 (26)
Consideriamo adesso il moto delle proiezioni del punto P sugli assi X e Y, scrivendo:
x(t) = Rcos[q(t)] (27a)
y(t) = Rsin[q(t)] (27b)
e perciò:
x(t) = Rcos(wt + q0) (28a)
y(t) = Rsin(wt + q0) (28b)
Rappresentando x(t) e y(t) in un diagramma orario otteniamo la figura 10

Fig. 10
Legge oraria delle
proiezioni del punto
P in figura 9 sugli
assi X e Y.

91
Concludiamo, pertanto, che il moto delle proiezioni X(t) e Y(t) è un moto armonico, ossia un moto
descritto dalle funzioni trigonometriche nella (28a) e nella (28b).

LA LEGGE DI HOOKE E L’ASCILLATORE ARMONICO


Una molla è capace di esercitare una “forza elastica” su di un corpo. Una forza è detta elastica se
essa dipende linearmente dall’allungamento e dalla compressione della molla. Una molla “ideale”,
pertanto è di massa trascurabile e capace di esercitare una forza elastica su di un corpo al quale è
legata, se allungata o compressa.

Fig. 11
Tre possibili composizioni di una
molla ideale.

LA FORZA ELASTICA
....⃗
pù = − •**( (29)
Fig. 12
Le forze che
agiscono di un
oscillatore
armonico.

Una Forza elastica 5555⃗


7[ è applicata ad un blocco di massa M tramite una molla ideale di costante
elastica K. Quando il blocco viene spostato dalla sua posizione di equilibrio, la molla tende a
riportarlo proprio nella posizione di equilibrio. Pertanto, la forza elastica è detta “forza di richiamo”.
Scrivendo la seconda legge di Newton solo nella direzione X per il blocco, avremo:

Max = -kx (30)


L’equazione dell’oscillatore armonico si scriverà pertanto come segue:

ax + wN2x = 0 (31)

C
dove wN = P è la pulsazione dell’oscillatore armonico.
â
La soluzione di questa equazione è proprio

x(t) = Acos(wNt + q0) (32)

ove A è l’ampiezza dell’oscillazione e q0 è la fase.


Entrambe queste grandezze si ottengono imponendo le condizioni iniziali su x(t) e vx(t) a
t = 0s.
Il periodo T dell’oscillatore armonico è l’inverso della frequenza v, che rappresenta il numero di cicli
al secondo. Avendo per ogni ciclo il numero di 2p radianti, allora

92
(p
wNt = 2pv = (33)
Q

Esprimendo il periodo in termini della massa e della costante elastica, avremo:

(p â
T = w = 2p = P C (34)
A

Il lavoro compiuto dalla forza elastica è L0x= - ½ kx2 . Da qui capiamo che L0x dipende da x2
e k è la costante elastica.

Dal disegno capiamo perché si inserisce il segno meno nell’equazione. E quanto più k sarà maggiore,
maggiore sarà il lavoro negativo. Il lavoro sarà sempre negativo, a prescindere dal segno di x.

IL PENDOLO

Fig. 13
Il pendolo semplice.

Anche il pendolo semplice, rappresentato in figura 13, oscilla seguendo, per piccole oscillazioni, la
legge oraria
q(t) = Asin(wNt +f)
u
dove A è l’ampiezza angolare del moto del pendolo e wN = P è la pulsazione. (questa deriva da
ï

(p ï u
w= Q . Se in questa sostituiamo T = 2p Pu si ottiene wN = P ï ). In questo caso, quindi, il periodo è
dato dalla seguente espressione:
ï
T = 2p P (35)
u

93
Esempio:
Vogliamo costruire due orologi, uno con un pendolo, uno con un oscillatore armonico. In questi
orologi ogni rintocco di un secondo è dato da semi-periodo, cosicché T = 2,00s. Quanto deve valere
la lunghezza L del pendolo e la costante elastica K dell’oscillatore armonico, se la massa di
quest’ultima è pari a 0,500 kg?
Scrivendo dapprima la (35), avremo:

ï ï uQ !
T = 2p Pu à T2 = 4p2 u à „ = )ñ!
(F,D1)(()!
E perciò „ = 3 = 0,994 3
)ñ!

Scrivendo adesso la (34), si ha:

â â â
T = 2p P C à T2 = 4p2 C
à Š = 4} ( Q!

E quindi:
)ñ! ∙(6,h) Ü Ü
Š= = 4,93
) 7 7

Esempio:
ho un pendolo di lunghezza 1,00 m e la massa dell’oscillatore armonico è di 100 g. calcola il valore
della costante elastica della molla, quando l’oscillatore armonico ha lo stesso periodo del pendolo.
DATI
l = 1,00 m
M = 100 g = 0,100 kg
K?

ï 1
Periodo pendolo: TP =2p P à 2p P 9 = 2,01s
u F,D1

â
Periodo oscillatore: To =2p P
C

ï â
TP =TO à 2p Pu = 2p P C semplifichiamo 2p, eleviamo al quadrato e otteniamo:

A
(F,D1) (6,166)Cu
ï â uâ ,:
= àk= = = 0,981 N/m
u C ï 1,667

94
IL LAVORO E LA POTENZA
IL LAVORO
Nel caso di una forza 7⃗ costante e di uno spostamento y⃗ rettilineo, con i due vettori che formano un
angolo $, si definisce il lavoro W della forza 7⃗ durante lo spostamento y⃗ attraverso la relazione
W = Fs cos $
* l’angolo $ determina il segno del lavoro: positivo, se l’angolo è compreso fra 0 e 90°, o negativo,
se l’angolo è compreso fra 90° e 180°.
Il lavoro come prodotto scalare: W = 7⃗ ∙ y⃗
LA POTENZA
žŸ
P= à dove ΔW è il lavoro compiuto nell’intervallo di tempo Δt. La formula per la potenza
žg
descrive la rapidità con cui un sistema compie lavoro. Nel Sistema Internazionale la potenza si misura
in joule fratto secondo (J/s); a questa unità è stato dato il nome di watt (simbolo W)

In fisica, il lavoro compiuto da una forza costante


p⃗ quando essa partecipa allo spostamento di un
corpo da un punto A ad un punto B è definito
come

LAB = ...⃗
p ∙ ∆‚⃗.Hm (1)

Notiamo che la forza p⃗ è costante e che essa è “composta” con lo spostamento tramite il prodotto
scalare, per dare la grandezza fisica scalare LAB, che si misura in joule (J) e perciò

1J = 1 N ∙ m (2)

Esempio:
un bambino trascina per una distanza orizzontale di 10 m un blocco di massa M = 2,0 0 kg a velocità
....⃗
costante su di un pavimento scabro applicando una forza p H , in modulo pari a 10 N e inclinata di un
angolo V = 60° rispetto all’orizzontale. Si calcoli:
a) Il lavoro compiuto dalla forza applicata p ....⃗
H
b) Il lavoro compiuto dalla forza peso
c) il lavoro compiuto dalla reazione vincolare normale
d) il lavoro compiuto dalla forza di attrito
Si consideri il coefficiente di attrito dinamico tra il blocco e il piano orizzontale pari a •O
...⃗)= p
a) LAB (p ...⃗ ∙ ∆‚⃗.Hm = pH ∆9Hm cos V = (10N)(10m) (1/2) = 50,0 J
b) LAB (3= ...⃗)= 3= ...⃗ ∙ ∆‚⃗.Hm = 0 In quanto la forza peso è ortogonale a ∆¤⃗.79
.⃗ )= ....⃗
c) LAB (q q ∙ ∆‚⃗.Hm = 0
...⃗c ) = ...⃗
d) LAB (r rc ∙ ∆‚⃗.Hm = rc ∆9Hm cos } = − rc ∆9Hm
95
...⃗ ∙ ∆‚⃗.Hm + 3=
Ltot = p ...⃗ ∙ ∆‚⃗.Hm + ....⃗ ...⃗c ∙ ∆‚⃗.Hm =
q ∙ ∆‚⃗.Hm + r
= ∆‚⃗.Hm (p
...⃗ + 3=
...⃗ + ....⃗
q+r ...⃗c )

*quando la forza è ortogonale allo spostamento il lavoro è 0.

Dal diagramma di corpo libero notiamo che, imponendo


p⃗ = 0, nella direzione x si ha:

pH cos V − rc = 0 → rc = pH cos V

...⃗c ) = - pH ∆9Hm cos V = - 50,0 J


e perciò LAB (r

Esempio:
.....⃗
Calcolare il lavoro compiuto da una forza p H per sollevare un blocco di massa M = 2,00 kg di una
quota h = 3,00 m a velocità costante.

.....⃗
pH = Ž= = (2,00)(9,81)q = 19,6 q
.....⃗
p ~
H = (19,6 q )•

.....⃗
LAB = p ⃗
H ∆‚ .Hm = (Ž=+
( ) ∙ (ℎ+() = Ž=ℎ
LAB = (19,6N)(3,00m) = 58,9 J

UN’UTILE FORMULA IN CINEMATICA


Scriviamo la legge oraria del moto uniformemente accelerato
x(t) = x0 + v0t + ½ a0t2 (3)
e la velocità calcolata facendo la derivata di X(t)
v(t) = v0 + a0t (4)
e(c). e8
ricavando dalla (4) il tempo, scriviamo t = e scriviamo la (3) come segue:
"8
e(c). e8 1 [e(c). e8 ]!
x(t) = x0 / "8
0+
(
,6 "8!
=
1
= (" [) ($) − )6 ][) ($) − )6 + 2)6 ] =
8
1 e ! (c). e8!
= (" [) ($) − )6][) ($) − )6 ] = ("8
8

96
Cosicché ) ( ($) − )6! = 2,6 [* ($) − *6
Pertanto, scegliendo un tempo t = t1 e ponendo x1 = x(t1) e v1 = v(t1), possiamo scrivere

v12 – v02 = 2a0 (x1 – x0) (5)


Se la vogliamo far valere a due istanti di tempo diversi: t1, x1, v1 e t2, x2, v2 otteniamo

v12 – v02 = 2a0(x1 -x2) e v22 – v02 = 2a0(x2-x0)


se sottraiamo membro a membro, la seconda dalla prima otteniamo v22 – v12 = 2a0(x2-x1)

se 1 e 2 li chiamiamo A e B otteniamo vB2 – vA2 = 2a0(xB-xA)

L’ENERGIA CINETICA
L’energia cinetica K (cioè «di movimento») di un punto materiale di massa m che si muove con
velocità v misura il lavoro che deve essere fatto per portare tale massa alla velocità v, partendo da
ferma. Essa è definita attraverso la relazione
\
K = ] .¥] à K è anche uguale al lavoro che la stessa massa può compiere quando viene fermata.
Essendo uguale a un lavoro, nel Sistema Internazionale l’energia cinetica si misura in joule.

IL TEOREMA DELL’ENERGIA CINETICA


In un sistema di riferimento inerziale, il lavoro compiuto dalla risultante delle forze che agiscono su
di un punto materiale, quando quest’ultimo si muove da un punto A ad un punto B della propria
traiettoria, è pari alla variazione di energia cinetica KB – KA, dove
1 1
KA = 3)H! e KB = 3)m!
( (
Consideriamo una risultante p⃗ che resti costante nel tempo. Possiamo andare a calcolare LAB = p
...⃗ ∙
∆‚⃗.Hm . Dalla seconda legge di Newton p
...⃗ = 3, ...⃗, cosicché
LAB = 3, ...⃗ ∙ ∆‚⃗.Hm (6)
Se p⃗ è costante, allora anche ,⃗ è costante. Cosicché la massa M si muoverà di moto rettilineo
uniformemente accelerato. In una dimensione, avremo
LAB = ma0 (xB – xA) (7)
Per la (5) allora si ha:
1
LAB = ( 3()m! − )H! ) (8)
/
Definendo l’energia cinetica come K = #- + si ha
+
LAB = KB – KA (9)

97
LO SPAZIO DI FRENATA

Un’automobile sta viaggiando a velocità vA20,0 m/s nella direzione X. L’automobilista incomincia a
frenare quando l’automobile è in A e riesce a fermarla in B, ad una distanza “d” da A. Si calcoli lo
spazio di frenata “d” conoscendo che il coefficiente di attrito dinamico tra le ruote dell’auto e l’asfalto
è µd.

...⃗c e perciò r
Mettiamo che la risultante delle forze è r ...⃗c ∙ ∆‚⃗.Hm = KB – KA, proprio grazie al
teorema dell’energia cinetica.
Possiamo pertanto scrivere:

...⃗c • = − ŠH
−r
...⃗c ∙ ∆‚⃗.Hm = −r
Dato che r ...⃗c • e KB = 0.
1
...⃗c = s•q = s•3= , si ha s•3=• =
Essendo adesso r 3)H!
(

Risolvendo per d, scriviamo


e
0 !
d = (†au

Notiamo che lo spazio di frenata dipende da vA, cosicché è consigliabile essere molto prudenti quando
si è alla guida di un’automobile.

FORZE CONSERVATIVE
Una forza è conservativa se il lavoro da essa compiuto è definibile attraverso una funzione, chiamata
energia potenziale, che dipende dalle sole coordinate spaziali. In particolare
LAB = - (U(B) – U(A)) (10)
Dove U(P) è l’energia potenziale che dipende dalle sole coordinate del punto P.
Una prima conseguenza di questa definizione è che il lavoro compiuto da una forza conservativa su
un percorso chiuso è pari a zero. Infatti

LA à A = - (U(A) – U(A)) = 0 (11)

98
Inoltre, il lavoro compiuto da una forza conservativa non dipende dal percorso seguito per andare da
A a B, essendo esso dipendente solo dal punto finale (B) e dal punto iniziale (A).

LA FORZA PESO È UNA FORZA CONSERVATIVA


Un esempio di forza conservativa: la forza-peso. Consideriamo una palla di massa m che si sposta da
un punto di partenza A a un punto di arrivo B, che è spostato di l a destra di A e di h sotto di esso.

Per descrivere i vettori forza-peso 555⃗


7Z e spostamento y⃗ introduciamo un sistema di riferimento che ha
l’asse x rivolto verso destra e l’asse y in alto.
Allora:
- il vettore forza-peso ha la componente orizzontale nulla e quella verticale negativa:
Fp,x = 0 ; Fp,y = - mg

- Il vettore spostamento ha la componente orizzontale positiva e quella verticale negativa:


sx = l ; sy = - h

Calcoliamo ora il lavoro fatto dalla forza-peso mentre la palla si sposta da A a B in linea retta.

99
Questo lavoro si può calcolare come:
...⃗
L=p ° ∙ 9⃗ = p°,8 98 + p°,9 99 = (−3= ) ∙ (−ℎ) + 0 ∙ „ = 3=ℎ

Abbiamo visto che, per sollevare un blocco di massa m di una quota y, si compie un lavoro LAB =
mgy. La forza peso compirà un lavoro opposto LAB = - mgy quindi
LAB = - (U(y) – U(0)) = -mgy
Otteniamo allora che UG(y) = mgy (12)
*y = h entrambe rappresentano un’altezza

Ora spostiamo la palla da A a B lungo un percorso diverso : da A la portiamo in un punto C che si


trova alla destra di A a una distanza l e sopra B; poi, da C la portiamo a B percorrendo una distanza
h. Questa volta il cammino fatto per andare da A a B è composto da due tratti rettilinei e così il lavoro
W è la somma di due contributi: W = W1 + W2

- durante il tratto 1, da A a C, il vettore 7 555⃗Z è perpendicolare allo spostamentoy555⃗' , per cui il lavoro
W1 è nullo: W1 = 0.
- Nel tratto 2, da C a B, i vettori 7 555⃗Z e 555⃗
y" hanno la stessa direzione e lo stesso verso, perciò il
lavoro W2 è positivo: W2 = FP ∙ s2 = mg∙h = mgh.

Anche in questo caso il lavoro totale risulta: W = W1 + W2 = 0 + mgh = mgh.


Quindi la forza-peso è una forza conservativa.
LA FORZA ELASTICA È UNA FORZA CONSERVATIVA
Si trova che l’energia potenziale elastica è esprimibile come segue:
1
UE(x) = ( kx ( (13)

LA FORZA D’ATTRITO NON È UNA FORZA CONSERVATIVA

100
...⃗c % e che LBA = −"
Notiamo che LAB = −" ...⃗c %
...⃗c % −"
Allora LA à A = LAB + LBA = −" ...⃗c % = −2"
...⃗c %
Pertanto LA à A ¹ 0, cosicché la forza d’attrito non è conservativa visto che il lavoro totale non è
uguale a 0.

IL TEOREMA DELL’ENERGIA CINETICA E LE FORZE


CONSERVATIVE
Partiamo dal teorema dell’energia cinetica
LAB = KB – KA (14)
Il lavoro LAB può essere scritto come la somma del lavoro compiuto dalle forze conservative LAB(c)
quello compiuto dalle forze non conservative LAB(nc). Quindi:

LAB(c) + LAB(nc) = KB – KA (15)


il lavoro compiuto dalle forze conservative è dato dalla (10) cosicché

LAB(nc) – (U(B) – U(A)) = KB - KA (16)


Avremo perciò:

LAB(nc) = [KB + U(B)] – [KA + U(A)] (17)


Definiamo adesso l’energia meccanica EM come la somma dell’energia cinetica e dell’energia
potenziale, cosicché

LAB(nc) = EM(B) - EM(A) (18)


Pertanto, in un sistema di riferimento inerziale il lavoro compiuto dalle sole forze non-conservative
è pari alla variazione di energia meccanica.
Dalla (18) possiamo notare che: se le forze non conservative non compiono lavoro su un punto
materiale, allora l’energia meccanica si conserva, ossia:

EM(B) = EM(A) (19)


L’ENERGIA POTENZIALE
Consideriamo una palla di massa m che si trova al di sopra del balcone di una casa a un’altezza y1 dal
suolo; la quota a cui si trova il balcone rispetto al suolo è y2 = y1 - h. Cadendo fino al balcone, la
forza-peso accelera la palla compiendo su di essa un lavoro: L = mg(h1 – h2) = mgh.
Visto che la forza-peso è conservativa, questo lavoro non dipende dal particolare tragitto seguito dalla
palla nel passare dalla quota iniziale a quella finale. Una volta arrivata a livello del balcone, la palla
può fermarsi compiendo un lavoro, per esempio deformando uno scatolone. Questa proprietà viene
formalizzata assegnando alla palla, nella sua posizione iniziale, un’energia potenziale gravitazionale
UG, definita da
UG = mgh
101
*unità di misura è joule

L’ENERGIA POTENZIALE ELASTICA


Una molla deformata è in grado di compiere lavoro una volta che è lasciata libera di tornare nella
condizione di riposo; così anche per la forza elastica (che è un altro esempio di forza conservativa) è
conveniente definire un’energia potenziale. Per una molla con costante elastica k deformata di un
"
tratto s, l’energia potenziale elastica Ue vale Ue = '(#
#
La definizione generale dell’energia potenziale
L’energia potenziale U può essere introdotta per tutte le forze conservative, generalizzando la
definizione che abbiamo usato per la forza-peso.
Consideriamo un sistema fisico che è soggetto alla forza conservativa "⃗ . Esso si trova nella
condizione iniziale A e passa poi nella condizione finale B.
Definiamo la variazione di energia potenziale ΔU = UB - UA uguale all’opposto del lavoro WAàB fatto
dalla forza "⃗ durante il passaggio dalla situazione A a quella B:
)U = UB - UA = - WAàB

LA CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA MECCANICA


Realizziamo un esperimento con un carrellino che si muova praticamente senza attrito. Esso è lasciato
andare lungo il binario a partire da una determinata quota h e, dopo un certo tempo, risale dalla parte
opposta raggiungendo la stessa quota.

Osservando il sistema si nota che:


- quando il carrello parte da fermo, la sua energia cinetica è zero e quella potenziale mgh è
massima;
- durante la discesa, l’energia potenziale diminuisce e quella cinetica aumenta;
- nel punto più basso l’energia cinetica è massima e quella potenziale è minima;
- durante la salita l’energia cinetica diminuisce mentre quella potenziale aumenta;
- quando il carrello si ferma di nuovo, la sua energia potenziale è la stessa che aveva all’inizio,
mentre quella cinetica è di nuovo nulla.
Effettuando misure accurate si vede che le variazioni di energia cinetica e di energia potenziale non
sono casuali: se gli attriti sono trascurabili, durante il moto l’energia cinetica e quella potenziale del
carrello variano, ma la loro somma rimane costante.
Questa proprietà così importante suggerisce di definire una nuova grandezza fisica, l’energia
meccanica totale, uguale alla somma dell’energia cinetica e di quella potenziale; allora il risultato
sperimentale descritto sopra si può esprimere dicendo che:
durante il moto di un sistema fisico senza attriti l’energia meccanica totale del sistema, somma
dell’energia cinetica e dell’energia potenziale, si conserva.
Tornando all’esperimento del carrello, durante la sua discesa l’energia potenziale originale si
trasforma progressivamente in energia cinetica; durante la salita, l’energia cinetica del carrello
diminuisce e si trasforma in energia potenziale, fino ad annullarsi nel punto più alto della traiettoria,
dove l’energia potenziale è massima.

102
Dimostrazione della conservazione dell’energia meccanica
A partire dal teorema dell’energia cinetica, siamo in grado di dimostrare matematicamente la
conservazione dell’energia meccanica totale, che abbiamo scoperto con un semplice esperimento. A
questo proposito consideriamo un sasso che passa da una quota hi a una quota hf .
- Alla quota iniziale hi la sua energia cinetica e Ki e l’energia potenziale iniziale del sistema
(sasso + Terra) è Ui

- Alla quota finale hf la sua energia cinetica è Kf e l’energia potenziale finale del sistema (sasso
+ Terra) è Uf

Il teorema dell’energia cinetica, la differenza Kf – Ki è uguale al lavoro Wiàf compiuto dalla forza-
peso durante il moto del sasso: Kf – Ki = Wiàf (23)

Per la definizione, il lavoro Wiàf è anche uguale alla differenza tra l’energia potenziale iniziale e
quella finale:
Wiàf = Ui - Uf . (24)

Allora il primo membro della (23) è uguale al secondo membro della (24) visto che entrambe queste
quantità sono uguali a Wiàf e possiamo scrivere : Ui - Uf = Kf – Ki

Se portiamo l’energia cinetica iniziale al primo membro e l’energia potenziale finale al secondo,
otteniamo che l’energia meccanica totale iniziale è uguale a quella finale:
Ui + Ki = Uf + Kf

L’espressione generale del teorema di conservazione dell’energia meccanica.


Il teorema della conservazione dell’energia meccanica totale non vale soltanto per il sistema (sasso +
Terra) dell’esempio precedente, ma in tutti i casi in cui:
- Si ha un sistema fisico isolato, cioè un sistema su cui non agiscono forze esterne
(nell’esempio precedente, la forza-peso è interna al sistema, perché agisce tra due corpi, il
sasso e la Terra, che appartengono al sistema);
- le forze che agiscono all’interno del sistema sono tutte conservative.
Tutto ciò è riassunto nel seguente teorema, che si dimostra anche in generale a partire dal teorema
dell’energia cinetica, a sua volta conseguenza diretta di "⃗ = m%⃗ :

103
in un sistema isolato in cui sono presenti soltanto forze conservative l’energia meccanica totale
(cinetica + potenziale) si conserva.

Il lavoro è energia in transito


Il lavoro della forza-peso riduce l’energia cinetica del saltatore che sale verso l’alto, mentre la sua
energia potenziale aumenta.
Oppure, il lavoro della forza elastica del telo aumenta l’energia cinetica dei bambini e la loro energia
potenziale gravitazionale.
In tutti i casi, il lavoro di una forza permette di trasformare da una forma a un’altra una parte
dell’energia posseduta da un sistema fisico.
Il lavoro non è una forma di energia, ma è energia in transito.

La conservazione dell’energia totale


L'energia cinetica e le energie potenziali gravitazionali ed elastica non sono le uniche forme di energia
conosciute.
L’esperienza mostra che, se si tiene conto di tutte le forme di energia che mano a mano si sono
scoperte (l’energia interna, l’energia chimica, l’energia nucleare...).
In un sistema isolato l’energia totale si conserva. Questa affermazione è nota come principio di
conservazione dell’energia totale.
Esempio:

Un carrellino sulle montagne russe è a 10m dal suolo


e scivola da fermo, con attrito trascurabile, verso il
basso sulla pista. Quanto varrà la velocità nel punto
B al suolo?

Scriviamo EM(B) = EM(A) ossia

KB + U(B) = KA + U(A)
KA = 0 perché è il punto di partenza quindi avremo KB = U(A) – U(B)
U(B) = 0 perché rappresenta il suolo quindi avremo KB = U(A).
Se sostituiamo otteniamo ½ mvB2 = mgh. Semplifichiamo m

E perciò vB2 = 2gh à vB = >2+ℎ = >2(9,81)(10)4/6 = 14,0 m/s

Alla fine capiamo che l’energia cinetica proviene tutta dall’energia potenziale. È come se la
potenziale si fosse trasformata in cinetica.
Esempio:

104
Un pendolo di lunghezza L in massa
M e tenuto fermo in A (vedi figura).
Trovare la velocità angolare del
pendolo in B.

Per la conservazione dell’energia meccanica scriviamo:

EM(B) = EM(A)
Cosicché

KB + U(B) = KA + U(A)
Pertanto, possiamo scrivere

KB = U(A) - U(B) = mgl


E quindi

½ mvB2 = mgh à vB = >2+7


Poiché

(uï
vB = 78¢ si ha 78¢ = >2+7 → 8¢ P ï!

infine:

+
8¢ = √2 P = √2 8£
7
u
Ricordiamo, infatti, che la pulsazione di un pendolo semplice è P
ï

Esempio: “il flipper”

In un flipper una molla ideale viene contratta di una lunghezza Dx = 10,0 cm. Un blocchetto di massa
M=100 g è collegato con la molla. Una pallina di massa M=100 g e posta nel punto di equilibrio della

105
molla. Durante l’urto dopo il rilascio della molla, tra il blocchetto e la pallina, quest’ultima assorbe
tutta l’energia cinetica del blocchetto. Qual è la velocità della pallina se la costante elastica è pari a
K=1000 N/m e il piano su cui si muove il blocco è liscio?
Abbiamo detto che la forza elastica è conservativa. Allora possiamo scrivere:

EM(B) = EM(A)à KB + UE(B) = KA + UE(A)


1
Avremo perciò: KB = UE(A) - UE(B) = ( >∆@ (
Questa energia cinetica è tutta trasferita alla pallina e perciò, se vP è la velocità della pallina, avremo
1
½ mvP2 = ( >∆@ (

C
In questo modo si avrà vP = P7 ∆@

Adesso bisogna fare attenzione alle unità di misura. Infatti, poniamo M = 0,100 kg e ∆@ = 0,10 m
per poter avere tutte le grandezze espresse in unità di misura coerenti col sistema SI. E perciò vP =
I
1666B 7 7
ñ ∙ (0,10) = 10.0
6,166 Cu R R

Esempio: “la palla lanciata in aria”


Nel film “non ci resta che piangere” i due protagonisti, Troisi e Benigni, dicono di aver inventato il
gioco della palla che, lanciata in aria, cade dopo aver raggiunto un’altezza massima H. Esilarante la
scena in cui Troisi, vedendo Pia, interpretata da Amanda Sandrelli, giocare con la palla, si improvvisa
cavaliere (il cavallo era Benigni, non visibile, perché di là da un muro). Dire a che velocità lanciamo
una palla se l’altezza massima raggiunta da essa, rispetto al punto di partenza, è pari ad H = 3,00 m.

Conservando l’energia meccanica scriviamo:


EM(B) = EM(A)
E così
KB + U(B) = KA + U(A)
Pertanto
KA = U(B) – U(A) = mgh
1
mvA2 = mgh
(
E perciò
7
vA = >2+ℎ = >2(9,81)(3) R
= 7,67 m/s
quindi
vA ≈ 27,6 km/h

106
IL CENTRO DI MASSA
Per ogni sistema di punti materiali, che chiamiamo per semplicità «particelle», si può definire un
punto geometrico, detto centro di massa, che ha proprietà interessanti.
Caso di due particelle su una retta
Per iniziare, consideriamo due particelle di masse m1 e m2 che si muovono su una retta. A un certo
istante, le due particelle si trovano rispettivamente nei punti di coordinate x1 e x2.
Per definizione, l’ascissa Xcm del centro di massa del sistema formato dalle due particelle è data dalla
formula:
H) !) +H" !"
&WH = H) + H"
(11)

Per esempio, se le due particelle hanno la stessa massa m, il centro di massa del sistema si trova nel
H ! +H ! ^!) +^!" ^ (!) +!" ) ! +!
punto di ascissa &WH = )H )+ H" " = ^+ ^
= "^ = )" "
) "

cioè nel punto medio tra le due particelle. Invece, se esse hanno masse diverse il centro di massa
risulta più vicino a quella di massa maggiore.
Caso generale
Nel caso in cui ci siano n particelle di masse m1, m2, ..., mn, che occupano le posizioni x1, x2, ..., xn,
la formula (11) si generalizza come:
H ! +H ! +⋯+H !
&WH = ) H) + H" "+⋯+ H * * (12)
) " *

Se poi le particelle si muovono nel piano, oltre alla coordinata x del centro di massa occorre fornire
anche la coordinata y che, in analogia con la formula (12), risulta
H) #) +H" #" +⋯+H* #*
(WH = H) + H" +⋯+ H*
(13)

Per un moto nello spazio si introduce anche la coordinata zcm del centro di massa, che è data da una
formula analoga alla (12) o alla (13), con il simbolo z al posto di x o di y.

LEGGI DI KEPLERO
Secondo un modello cosmologico che risale prima ad Aristotele e poi a Tolomeo, fino al 1600 si
pensava che la Terra fosse al centro dell’Universo con il Sole, la Luna e i pianeti che le orbitavano
intorno.
A ciò si univa anche la convinzione che le leggi della fisica terrestre fossero del tutto diverse dalle
leggi che regolano il moto dei corpi celesti: questi ultimi erano considerati eterni e perfetti e, quindi,
si pensava che i loro movimenti dovessero essere circolari. La circonferenza era infatti la linea perfetta
perché simmetrica e priva di inizio e di fine.
Invece i corpi terrestri sono imperfetti e tendono a deteriorarsi; inoltre, i loro moti hanno un inizio e
una fine, e tendono a essere più o meno rettilinei.
Anche il primo modello eliocentrico (cioè con il Sole al centro del Sistema Solare), proposto da
Copernico, faceva l’ipotesi che le orbite dei pianeti attorno al Sole fossero circolari. Questo modello
è in grado di spiegare, nelle loro caratteristiche generali, i moti osservati dei corpi del Sistema Solare.
Però lo stesso Copernico si accorse che rimanevano problemi di tipo quantitativo, nel senso che
diverse quantità, calcolate secondo il suo modello, non erano in accordo con le osservazioni
astronomiche (che avevano raggiunto un buon livello di precisione).

107
Questi problemi furono risolti da Giovanni Keplero, un astronomo tedesco che perfezionò il modello
eliocentrico rinunciando all’idea che le orbite dei pianeti dovessero essere per forza circolari. Secondo
Keplero, infatti, le orbite descritte dai pianeti attorno al Sole non sono circonferenze ma ellissi.
L’ellisse è una figura piana definita dalla seguente proprietà: la somma delle distanze dei punti
dell’ellisse da due punti fissi (detti fuochi dell’ellisse) è costante. Ciò consente di disegnare un’ellisse
su un foglio da disegno usando due puntine, uno spago e una matita: come si vede nella figura 1,
1. si fissano i capi dello spago sopra al foglio da disegno, nei due punti che si sono scelti come
fuochi, con le puntine;
2. tenendo lo spago sempre ben teso con la punta della matita, si disegna l’ellisse. L’ellisse è come
un cerchio «schiacciato», il cui «raggio» non ha sempre lo stesso valore. Il valore massimo della
distanza tra il centro dell’ellisse e uno dei suoi punti si chiama «semiasse maggiore», quello
minimo si chiama «semiasse minore» (figura 2).

Figura 1: Figura 2:
come disegnare semiassi
un’ellisse sulla base della dell’ellisse
sua definizione

1° LEGGE DI KEPLERO
La forma dell’orbita è l’argomento della prima legge di Keplero.
Prima legge di Keplero: Le orbite descritte dai pianeti attorno al Sole sono ellissi di cui il Sole
occupa uno dei fuochi.
La posizione in cui un pianeta è più vicino al Sole si chiama perielio; quella di massimo
allontanamento si chiama afelio.
Se si disegnano le orbite dei pianeti si vede che esse sono quasi circolari; per questo motivo nello
studio del moto dei corpi celesti spesso si approssimano le ellissi con delle circonferenze.
I pianeti compiono, nel loro moto intorno al sole, orbite piane di forma ellittica, di cui il sole occupa
uno dei fuochi.

108
2° LEGGE DI KEPLERO
La seconda legge di Keplero stabilisce come varia la velocità di un pianeta mentre si sposta lungo la
sua orbita.
Seconda legge di Keplero: Il raggio vettore che va dal Sole a un pianeta spazza aree uguali in
intervalli di tempo uguali.
- Nella figura sotto (dove l’ellisse è deformata per chiarezza) i due triangoli SPP' e SAA' hanno
la stessa area e, quindi, sono spazzati nello stesso tempo.

- Ciò significa che gli archi PP' e AA' sono percorsi nello stesso tempo. Quindi il pianeta è più
veloce nel tratto PP' e più lento in AA'.

Il moto dei pianeti avviene con velocità areolare costante.

∆H
Possiamo definire la velocità areolare come vA = , dove ∆F è l’area spazzata dal vettore
∆c
posizione )⃗ nell’intervallo di tempo ∆G. Pertanto, se consideriamo lo stesso intervallo di tempo ∆G,
se il pianeta sta in afelio la sua velocità periferica sarà minore, mentre in perielio sarà maggiore, in
quanto il pianeta stesso deve percorrere un tratto maggiore dell’orbita, affinché ∆F possa rimanere
costante.
¶T = %),- ./ ,/),-012)203%
***
**punto P che si muove e diventa P’ à ** ¶T = ) ∙ ∆6
∆7
Questo raggio vettore si è spostato spazzando un’area ∆7. La velocità areolare è ∆6

109
Così il pianeta è più veloce al perielio e più lento all’afelio perché visto che r ∙ 8 è rapporto costante,
in afelio abbiamo r massimo, quindi v è minimo (visto che il prodotto deve essere costante). In
perielio visto che r è minimo, v è massimo. Quindi ci muoviamo più veloci in perielio.
La figura sotto mostra la variazione di velocità indicando le distanze percorse in tempi uguali.

Come conseguenza di questa legge, nel nostro emisfero la primavera e l’estate (quando il sole è più
lontano) sono più lunghe dell’autunno e dell’inverno (se la terra percorresse un’orbita circolare con
una velocità di valore costante, le quattro stagioni avrebbero la stessa durata).

3° LEGGE DI KEPLERO
La terza legge di Keplero mette in relazione le distanze dei pianeti dal sole con le rispettive durate di
un’orbita completa.
Terza legge di Keplero: il rapporto tra il cubo del semiasse maggiore dell’orbita e il quadrato del
periodo di rivoluzione è lo stesso per tutti i pianeti.
Se indichiamo con a il semiasse maggiore e con T il periodo, questa legge è espressa dalla formula:
%=
=:
+
9"
8
Da questa si ottiene la relazione 9 " = che mostra che il periodo di rivoluzione T aumenta al
b
crescere di a: più un pianeta è lontano dal Sole, più tempo impiega circumnavigarlo. Il valore della
costante K dipende dal corpo celeste attorno a cui avviene l’orbita. Per esempio, il moto orbitale dei
satelliti di Giove fornisce una costante K uguale per tutti; essa, però, ha un valore diverso da quella
che si ottiene per i pianeti che orbitano attorno al sole.

Il rapporto tra il quadrato del periodo T di rivoluzione e il cubo del semiasse maggiore “a” dell’orbita
Q!
è uguale per tutti i pianeti. Ossia:
"-

Di quest’ultima legge possiamo dare una giustificazione assumendo che l’orbita dei pianeti sia
pressoché circolare.
Infatti, in questo caso, possiamo scrivere la 2° legge di Newton in questo modo:

110
H⃗ G = mI⃗c (1)
Dove “m” è la massa della Terra. Sappiamo che il modulo dell’accelerazione centripeta si scrive come
segue:
ac = w2a (2)
Dove “a” è il raggio dell’orbita.
Inoltre, la forza di attrazione gravitazionale può essere espressa come segue:
â7
FG = G (3)
"!
Dove “M” è il simbolo che convenzionalmente si dà alla massa del sole. Sostituendo la (2) e la (3)
nella (1), si avrà la seguente eguaglianza dei moduli.
â7
G= "!
= mw2a (4)
â
*semplifico m da entrambi i membri quindi ho G =
"!
= w2a
Notiamo che la massa della Terra scompare dalla (4), cosicché il risultato è valido per qualsiasi altro
pianeta del sistema solare, o per qualsiasi altro “esopianeta” di altri sistemi planetari. Possiamo adesso
scrivere:
ñ
w= (5)
Q
Dove “T” è il periodo di rivoluzione del pianeta considerato intorno al proprio “sole”. Sostituendo
)ñ!
adesso la (5) nella (4) si avrà dapprima GM = I0
Q!
Riarrangiando i termini si avrà:
Q! )ñ!
"-
= èâ
(6)
Provando con la terza legge di Keplero.

LA DEDUZIONE DELLE LEGGI DI KEPLERO.


Le tre leggi di Keplero sono state ricavate come leggi sperimentali, ma sono ora comprese come una
conseguenza dei principi della dinamica e della legge di gravitazione universale.
La prima legge di Keplero
Consideriamo un pianeta su cui agisce la forza di gravitazione universale esercitata da un corpo
celeste molto più massivo. Partendo da "⃗ = ;%⃗ si dimostra matematicamente che, in questa
condizione, valgono due proprietà:
- La traiettoria descritta dal pianeta può essere soltanto un’ellisse, una parabola o un’iperbole
- Le traiettorie chiuse, lungo cui il pianeta orbita attorno alla stella, hanno soltanto la forma di
ellisse
(o di circonferenza come caso particolare).

La prima legge di Keplero è quindi spiegata dalle proprietà matematiche della legge di gravitazione
universale, in particolare dal fatto che questa forza decresce con il quadrato della distanza.
La seconda legge di Keplero
Si può anche dimostrare che la seconda legge di Keplero è una conseguenza della conservazione del
momento angolare.
Per esempio, consideriamo la Terra quando si trova nel punto di perielio P (cioè alla minima distanza
dal Sole) e nel punto di afelio A (cioè alla massima distanza dal Sole). Come si vede dalla figura 9,

111
in questi due punti il vettore velocità è perpendicolare al raggio vettore, per cui il modulo del momento
angolare è dato dalla formula L = <X )8

Figura 9: vettori velocità di un


pianeta al perielio e all’afelio.

:∙I
La conseguenza è che se approssimiamo l’area di ∆7 a quella di un triangolo (area triangolo: "
,
(d ∙∆e)4 '
sostituisco b con (r ∙ ∆θ), J-JK/KL/J,- ℎ ,-0 ) ) à ∆7 = "
= " ) " ∆θ.
Per ottenere velocità alveolare divido ∆7 per ∆K ed ottengo:
∆7 1 ∆6 ∆6 ∆7 1
= )" → è ω quindi → = r (r ∙ ω) →
∆K 2 ∆K ∆K ∆K 2

r
∙ ω è la velocità periferica con cui un punto materiale si muove lungo la traiettoria circolare quindi
∆7 1
→ = rv
∆K 2

*Velocità Terra
La terra compie 1 giro completo intorno al sole in 1 anno.
*2_ = `/)- ,-;ab2K-
∆f "V "V 48O "V 48O "V /g 48O
ω = ∆6 = ' 8--G = (=gB,"B)("()(=g**) M
= ,
(=',g ! '* ) M
= =',g ! '* ,
× 10 M
= 0,198 ×
48O
10/g M

*(365,25)(24)(3600) = sono i secondi in un anno

Per trovare la velocità della Terra si fa ω ∙ r quindi


48O H H ,H
8X = ω ∙ r = 0,198 × 10/g M x 1,50 × 10'' ; = 0,297 × 10B M = 29,7 × 10= M = 29,7 M
*raggio terra ha il valore fisso à r =1,50 × 10''
La terza legge di Keplero
La seconda legge della dinamica, F = m ∙ a, consente di prevedere la velocità di un satellite che si
muove su un’orbita circolare. Indichiamo con:
- v il valore della velocità del satellite,
- m la massa del satellite,
- R la distanza tra il satellite e il centro del pianeta.
- M la massa del pianeta
Nella seconda legge della dinamica sostituiamo al posto di F la forza di gravità che agisce sul satellite
e al posto di a la sua accelerazione centripeta. Otteniamo:
Hh ;"
G i"
=; i
(7)

Semplificando m e R, e poi estraendo la radice quadrata, si ha:


112
<h <h
8=P i
à 8" = i
(8)
Siccome R è al denominatore, più il satellite è distante dal centro del pianeta, più è lento.

2MN
Nel moto circolare uniforme vale la relazione ! =
J

Sostituendo questa formula nell’espressione (8), otteniamo la relazione:


h 4M2 N2 K" LM
ii = J!

J!
=
NO!

Al membro di destra di questa uguaglianza compaiono soltanto quantità costanti: G è una costante
fisica universale, la massa M non varia nel tempo e 4& P è una costante matematica. Quindi il
K"
rapporto J ! è costante e la terza legge di Keplero è verificata: le proprietà della legge di
gravitazione universale spiegano la terza legge di Keplero.

Esempio:
in un sistema planetario della nostra galassia il pianeta P1 dista “a” dalla sua stella e il suo periodo di
rivoluzione è pari a T1 = 365 giorni ovvero 1 anno. Il pianeta P2 dista “2a” dalla stessa stella. Quanto
vale il periodo di rivoluzione T2 di P2?

Q< ! Q! !
Dalla (6) possiamo scrivere =
"< - "! -
8 =
In questo modo si ha: T22 = z8" { 9' "
)

8 =
Pertanto, T2 = Pz8"{ T1
)
8"
Poiché = 2, avremo
8)
T2 = 2√2 T1 = 2,83 anni

I SISTEMI DI PUNTI MATERIALI


La seconda legge di Newton sopravvive anche nei sistemi di punti materiali. Un sistema di punti
materiali è un insieme di particelle ognuno con la sua massa.

Consideriamo un insieme di N punti materiali. Per ciascun punto materiale scriviamo la seconda legge
di Newton.

113
$F⃗1 = m1 $a⃗1
" $F⃗( = m( a$⃗( (7)
$F⃗£ = m£ a$⃗£
Sommando membro a membro quante equazioni otteniamo
$⃗1 + F
F $⃗( + ⋯ + $F⃗£ = m1 a$⃗1 + m( $a⃗( + ⋯ + m£ $a⃗£ (8)
Lasciamo, per un momento, il discorso in sospeso e introduciamo il concetto di centro di massa di un
sistema di punti materiali.
Definiamo innanzitutto la massa totale M
M = m1 + m( + ⋯ + m£ (9)
Definiamo adesso il centro di massa (che è un punto materiale) come segue
¶< ßj⃗< $ ¶! jß⃗! $⋯$¶Q jß⃗Q
r⃗§• = •
(10)

*al numeratore abbiamo il prodotto di massa per vettore posizione e al denominatore M


rappresenta la somma delle masse di tutte le particelle di quel sistema.

Esempio:
Dati

m1 = m ; r1 = a

m2 = 2m ; r2 = 4a

nnnn⃗+H
H) 4 ) " nnnn⃗
4"
)555555⃗
mh = H) + H"
=
H) !) +H" !"
&mh = h
→ %J,/JJ% ,20K)- ./ ;%JJ%
nomh = H) #) +H" #"
h
→ -)./0%K% ,20K)- ./ ;%JJ% → /0 pL2JK- ,%J- è 0 a2),ℎè /0 pL2JK- a)-qb2;%
J/ J8/bLaa% KLKK- J-b- JLb T %JJ2 r

;' r' + ;" r" ;% + 2; (4%) 9;%


&mh = = = = 3%
< ; + 2; 3;

Esempio:

Trovare il centro di massa del corpo rigido, formato da due punti materiali, descritto in figura.

114
m1 r⃗1 + m( r⃗( m1 x1 + m( x(
r⃗§• = → x§• =
m1 + m( m1 + m(
Siccome x1 = 0 e x2 = L, avremo
m(
x§• = L
m1 + m(
Prendiamo allora m1 = 1,00 kg e m2 = 2,00 kg e L = 1,00 m si avrà
2
x§• = (1,00m) = 0,667m
3

Al contrario, se m1 = 2,00 kg e m2 = 1,00 kg, avremo


1
x§• = (1,00m) = 0,333m
3

Vediamo allora che il c.d.m. cade sempre tra i due corpi ed è più vicino a corpo di massa maggiore.
Esempio:

Trovare il c.d.m. di 3 punti materiali di massa m disposti ai vertici di un triangolo equilatero.


m1 r⃗1 + m( r⃗( + m0 r⃗0
r⃗§• =
m1 + m( + m0
Possiamo scrivere
a a
m1 x1 + m( x( + m0 x0 9− + + 0; m
x§• = = 2 2 =0
m1 + m( + m0 3m
m1 y1 + m( y( + m0 y0 (0 + 0 + h)m h
Y§• = = =
m1 + m( + m0 3m 3
√0 ©
Essendo h = a (trovata con il teorema di pitagora) e sostituita al risultato di Y§• =
( 0
avremo:

115
Il c.d.m. giace
√3 sull’asse di simmetria
x§• = 0 ; Y§• = a
6 del sistema
Esempio:

Trovare il c.d.m. di 4 punti materiali di massa m disposti ai vertici di un quadrato.


In questo caso abbiamo 2 assi di simmetria (l’asse x e l’asse y). Il c.d.m. si trova nel punto di
intersezione (l’origine O).
Avendo definito il c.d.m. dal sistema
1
r⃗§• = (m r⃗ + m( r⃗( + ⋯ + m£ r⃗£ )
M 1 1
Possiamo trovare la velocità del c.d.m. 5v⃗op derivando r⃗op rispetto al tempo ottenendo
1
$v⃗§• = (m1 v$⃗1 + m( v
$⃗( + ⋯ + m£ v
$⃗£ ) (11)

Dove v
$⃗1 , $v⃗( …$v⃗£ sono le velocità delle singole particelle.
Chiameremo “quantità di moto” $P⃗ di ciascuna particella il prodotto tra la massa e la velocità della
particella stessa, cosicché la (11) si scriverà
Mv$⃗§• = $P⃗1 + P $⃗( + ⋯ + $P⃗£ (12)
La somma delle quantità di moto è la quantità di moto totale $P⃗1 + P
$⃗( + ⋯ + $P⃗£ , cosicché la (12)
si scrive anche come segue
$P⃗ = Mv
$⃗§• (13)
Dopo aver fatto questa digressione sulla quantità di moto del sistema di particelle, deriviamo entrambi
i membri della (11) rispetto al tempo, ottenendo l’accelerazione del c.d.m.
1
$a⃗§• = (m1 $a⃗1 + m( $a⃗( + ⋯ + m£ a$⃗£ ) (14)

1
Notiamo che questo è, a meno del prefattore , proprio il membro destro dell’equazione (8), cosicché

avremo
$⃗1 + F
F $⃗( + ⋯ + $F⃗£ = Ma$⃗§• (15)
Adesso dobbiamo notare che la sommatoria delle risultanti FORMULA può essere scritta come segue
$⃗1 + F
F $⃗( + ⋯ + $F⃗£ = $F⃗ (ÉÑ) + F $⃗(™b´) (16)
$⃗(ÉÑ) è la risultante di tutte le forze interne al sistema e F
Dove F $⃗(™b´) è la risultante di tutte le forze
esterne. Per quanto riguarda la risultante delle forze interne è nulla!

116
Immaginiamo che due punti materiali di massa mi e mj interagiscano, allora, per il terzo principio
della dinamica
$F⃗ɨ = − F
$⃗¨É → $F⃗ɨ + F
$⃗¨É = 0
Ossia, le forze interne si annullano tra loro, a due a due, cosicché
$F⃗ (ÉÑ) = 0 (17)
La prima legge cardinale della dinamica!
Possiamo scrivere allora
$⃗(™b´) = Ma$⃗§•
F (18)
che descrive la dinamica traslazionale dei sistemi di punti materiali, indicando che il centro di massa
di questo sistema può essere trattato allo stesso modo di un punto materiale, per quanto riguarda,
appunto, le caratteristiche traslazionali del sistema.
Infatti le “cheerleaders” avranno ben presente questa prima legge cardinale della dinamica.
Quando tirano in aria il loro manubrio formato da un’asta rigida e due corpi attaccati agli estremi, lo
stesso si muove in aria, ancorché ruotando, con una velocità del centro di massa v $⃗§• e
un’accelerazione $g⃗ = −gy D . E perciò, il centro di massa del manubrio, per la (18) seguirà un moto
parabolico, se adesso viene data una velocità iniziale inclinata di un angolo θ rispetto all’orizzontale.
Pertanto, ci sarebbe da studiare anche una seconda legge cardinale della dinamica che descriva la
rotazione del manubrio delle cheerleaders.

Il centro di massa del


manubrio delle
cheerleaders un moto
parabolico, ancorché il
manubrio stesso ruoti
intorno al cdm

117
CORPI RIGIDI

Tre punti materiali


che formano un Un triangolo
corpo rigido “rigido”

Definiamo “corpo rigido” un insieme discreto o continuo di punti materiali per i quali, comunque
siano presi due elementi, l’ala distanza relativa tra essi non varia.
Un esperimento semplice

Prendiamo una penna e poggiamola sul tavolo. La penna sarà in equilibrio statico perché la forza peso
55⃗. Adesso utilizzando le due mani, con
mg5⃗ sarà controbilanciata dalla reazione vincolante normale N
due dita applichiamo due forze uguali ed opposte ai due estremi della penna, in modo che risulti
$⃗(™b´) = 0
F (19)
Dalla (18) possiamo allora scrivere
$a⃗§• = 0 → $v⃗§• = costante
Perché inizialmente $v⃗§• = 0, allora deve essere che il centro di massa del sistema rigido deve
rimanere fermo! Infatti, possiamo vedere che la penna ruota intorno al proprio c.d.m. ma che questo

118
resta effettivamente fermo. Notiamo ancora che “la coppia di forze” che abbiamo applicato alla penna
fa in modo che essa ruoti intorno al proprio c.d.m.
Esercizio sul moto parabolico:
Ci troviamo ad altezza h. Il punto materiale A, percorre una traiettoria parabolica ed arriva in B.
Prima di toccare il suolo aveva velocità 5v⃗q . Calcola v5⃗q

Legge oraria dei moti:


- Moto rettilineo uniforme x(t) = x0 + v0xt à x0 = 0 perché parte da fermo.
- Moto rettilineo uniformemente accelerato y(t) = y0 + v0yt – ½ gT2 à y0 = h ; v0yt = 0 perché
velocità orizzontale.
x(t) = vr t v (t) = vt
m 1 " → derivo → o s
y(t) = h − gT vu (t) = −gt
2
Per calcolare il tempo di caduta del grave se Y = 0 (come in questo caso) ottengo h = ½ gTB2 à TB =
"v
P>
^
vs (t q ) = 10,0
2
â "v ^
vu (t q ) = P > = −31,3 2

^
vB = Pvs " (t q ) + vu " (t q ) = 32,8 2
à abbiamo applicato il teorema di Pitagora.

Oppure la seconda risoluzione, con la conservazione dell’energia, è:


EM(B) = EM(A) à KB + U(B) = KA + U(A) à U(B) = 0 perchè connsideriamo il suolo
' ' H
quindi " ;87 " + ;`ℎ = "
;89 " à 89 = ñ87 " + 2`ℎ = √100 + 981 = 32,9 M

119
PROVE D’ESAME SVOLTE
Þ Problema n.1 del 06.07.2021

Un bambino percorre il tratto AC (ipotenusa del


triangolo rettangolo ABC), lungo 500 m, in 125 s. Un
secondo bambino, invece, partendo da A allo stesso
istante del primo, percorre un tratto AB (un primo
cateto del triangolo rettangolo ABC), lungo 400 m e poi
il tratto BC (un secondo cateto del triangolo rettangolo
ABC), correndo a velocità costante in modulo,
arrivando in C allo stesso istante in cui arriva il primo
bambino. A che velocità corre il secondo bambino?
[5.60 m/s]

B**H H
V1 = '"B M
=4 M

:::: = ñ500" − 400" = 300;


ۥ

((**+=**)H H
V2 = '"B M
= 5,60 M

Þ Problema n.1 del 05.02.2021


Al tempo t0=0s un punto materiale è visto muoversi con velocità in modulo pari a
V0=10.0 m/s lungo l’asse x. A partire da questo istante di tempo, il punto materiale
accelera costantemente, lungo lo stesso asse, fino a un tempo tA=10.0 s, raggiungendo
una velocità in modulo pari a VA=30.0 m/s. Quanto spazio avrà percorso il punto
materiale nell’intervallo di tempo (tA-t0)?
[200 m]

∆8 30,0 − 10,0 ; ;
= %* = = 2,00
∆K 10,0 J" J"

x(t) = x0 + V0(t) + ½ a0T2 à x(tA) = V0tA + ½ a0TA2 = (10,0 x 10,0)m + (1/2 x 2,00)(10,0)2m
= 200m
*X0 = 0 perché parte da fermo.

120
Þ Problema n.2 del 05.02.2021

Un blocco di massa M=10.0 Kg viene trascinato a velocità costante su di un piano


orizzontale scabro mediante una forza F inclinata di un angolo di 30° rispetto
all’orizzontale, così come mostrato in figura. Se il modulo della forza F vale 100 N,
quanto vale il modulo della forza normale N che il piano esercita sul blocco?
[48,1 N]

Fx = 0 à −16 + ",-J6 = 0
"⃗ = 0
Fy = 0 à N – Mg + Fsin6 = 0 à N = Mg - Fsin6 = 9,81 N – 50 M = 48,1 N

Þ Problema n.3 del 05.02.2021

Un blocchetto viene lanciato orizzontalmente su di un tavolo scabro con velocità in


modulo pari a V. Il coefficiente di attrito tra il blocchetto e il tavolo è pari a
… =0.510. Si osserva che il blocchetto si ferma sul tavolo dopo aver percorso una
distanza d=2.00 m. La velocità iniziale V del blocchetto vale:
[4,47 m/s]

Questo blocco quando scivola è sottoposto a forza di attrito, peso e reazione vincolare.

Fx = ;%! à −16 = ;%! (1)


"⃗ = ;%⃗
Fy = 0 à N – mg = 0 à N = mg (2)

Se so che 16 = …O ∙ † = …O ∙ ;`, lo sostituisco nella (1) ed ottengo


−…O ∙ ;` = ;%! à semplifico m à %! = −…O
‡7 4,47
‡9 " − ‡7 " = 2%! . → − ‡7 " = −2…O `. → . = = = 0,45 ;
2…O ` 2(0,510)9,81

121
H H
‡7 = ñ2…O `. = √20 M
= 4,47 M

Þ Problema n.3 del 06.07.2021


Un blocco di massa m e di dimensioni trascurabili è poggiato su un tavolo. Il
coefficiente d’attrito tra il blocco e il tavolo è pari a …O =0.910. A un certo istante di
tempo, al blocco viene data una velocità orizzontale pari a 10.0 m/s. Dopo quanto
tempo il blocco si arresta?
[2.00s]

ax = −…O ` = -5,00 m/s2

X(t) = x0 + v0 + ½ axT2 à X(t) = 10t – 5/2 T2 à derivo à vx(t) = 10 – 5t à il blocco si


arresta quando questa velocità è nulla, quindi 10 – 5t = 0 à t= 2,00s
*X0 = 0 ; v0 = vAt

Þ Problema n.2 del 06.07.2021

Un oscillatore armonico è formato da una molla ideale di costante elastica k =1000 N/m
e di un blocco di massa M = 10,0 kg. Quanto vale il periodo dell’oscillatore armonico?
[0,628s]

2_ Š 100 †/;
ˆ = →ˆ = u = u = 10 )%./J
9 < 10 Š`

(ñ 6,28
T= = = 0,628 J
ò 10

122
LA STATICA DEI FLUIDI
!
LA DENSITÀ à Ρ = questo è roh cioè la densità
"

mF mL mP
;{ 7.00` H/ H.
Œ{ = = ŒR = ;/
= 0,800 g/cm3 ŒS = ;.
= 0,050 g/cm3
8{ 1,;=
` `
` ŒR < 1 ŒS < 1
Œ{ > 1 ,;= ,;=
,;=

Pesando i cubetti di ferro, legno e polistirolo otteniamo le masse mP, mL e mF. dividendo queste
quantità per il volume otteniamo le densità.
L 0
PL
KH+@N" = 1,00 = 1,00 O 10
MN0 N0
il cubo di ferro affonda in acqua perché la sua densità è maggiore di quella dell’acqua.
Invece, il legno e il polistirolo, avendo densità inferiore all’acqua galleggiano.
LA PRESSIONE

Immaginiamo di avere una forza Fp normale, ortogonale a una superficie S definiamo la pressione p
;?
che tale forza elastica sulla superficie come il rapporto
Æ
Pertanto si ha:
;?
p= (1)
Æ
la pressione si misura in N/m2, a questa unità di misura si da il nome di Pascal, così

123
Ü
1 7!
= 1 QR (2)
Esempio:

Un blocco di massa M su un tavolo ha un’area di base S.


Questo blocco esercita una forza peso sul tavolo
â
distribuita nella superficie S ed ha una densità K = se
Ø
il blocco ha altezza h quanto sarà il suo volume?
Volume = b x h = S x h

â â
K= Ø
= ÆI à M = KSℎ
;T âu TÆIu
La forza peso è normale alla superficie quindi P =
Æ
= Æ
àP= Æ
= KℎL
Se abbiamo una colonna d’aria su di noi, questa esercita una pressione atmosferica. Questa è la sua
origine.
Con il barometro di Torricelli, allievo di Galileo Galilei, si è sviluppato l’esperimento sulla pressione
atmosferica.
â u
Densità K = se vogliamo in km/cm3 dobbiamo fare:
Ø +7-
u (166 +7)- 1Cu 1 16D +7- 1Cu éu
1
+7-
∙ 17-
∙ 16- u
= +7-
∙ 17-
∙ 16- = 100 7-
u éu
Quindi per il passaggio da -
a - dobbiamo moltiplicare per 100
+7 7

IL BAROMETRO DI TORRICELLI (ESPERIMENTO)


Prendiamo una colonna di vetro e una bacinella
contenete mercurio liquido. Da questa colonna di vetro
aspiriamo l’aria e subito lo inseriamo nel mercurio. In
questo modo il mercurio sale nella colonna fino ad una
certa altezza dove il valore del mercurio corrisponde a
760 mm.
Hg è il simbolo chimico del mercurio. Esso ha densità
13,6 g/cm3 = 13,6 x 103 kg/m3

Sulla bacinella spinge la pressione atmosferica. Se


consideriamo il punto a pelo libero sull’acqua, questo
sta in equilibrio perché la pressione della colonna di
mercurio è uguale a quella esercitata dalla pressione
atmosferica (aria sul liquido)
,@ H
P = Œ`ℎ = 13,6 r 10= H+ (9,81) M" ∙ 0,760 ; = 101 = 1,01 r 10" r 10= = 1,01 r 10B *% = 1,01
bar
,@ H
*semplifico m; M"
= †; 10B *% = 1 bar

124
Attraverso questo esperimento abbiamo ottenuto il valore della pressione atmosferica. Man mano che
saliamo, perché la pressione atmosferica diminuisce? Perché la colonna d’aria sulla nostra testa
diminuisce man mano che saliamo. Quindi la pressione diminuisce man mano che saliamo.

Nel mare cosa succede? A livello del mare la pressione atmosferica è 1. Se ci immergiamo ad una
certa profondità h, che pressione c’è lì in basso? Sicuramente una pressione maggiore per trovarla
sommo la pressione atmosferica più quella di dove arrivo (che devo trovare).

Legge di Stevino:
P = P0 + ••‘
* P0 = pressione atmosferica ; Œ = densità acqua; ` = è la forza di gravità esercitata dalla colonna
d’aria.
• se h = 10 m, calcoliamo che pressione abbiamo a 10 m di profondità
P = 1 atm + Œ`ℎ = 1 atm + (1,03 x 103)(9,81)(10) Pa = 1 atm + 101 x 103 Pa = 1 atm + 1,01
x 105 Pa
Essendo 1,01 x 105 Pa = 1 atm avrò à 1 atm +1 atm = 2 atm
LA CORRENTE DI UN FLUIDO
La conoscenza della dinamica permette di prevedere le proprietà di un fluido in movimento.
Si chiama corrente di un fluido un movimento ordinato di un liquido o di un gas.
- Il moto in discesa dell’acqua di un fiume forma una corrente.
- Schizzi d’acqua disordinati non costituiscono una corrente
LA PORTATA
Una «conduttura» è un tubo in cui scorre un gas o un liquido, oppure il letto in cui scorre un fiume o
un ruscello.
La grandezza fisica portata di una conduttura descrive quanto è intensa la corrente del fluido.
La portata q è il rapporto tra il volume ∆‡ di fluido che, nell’intervallo di tempo ∆K, attraversa una
sezione trasversale della conduttura e l’intervallo ∆K stesso:
∆‡ ;=
p= =
∆K J
Una sezione trasversale della conduttura è una superficie piana immaginaria immersa nella
conduttura; può coprire tutta la conduttura (è il caso più comune) o anche solo una sua parte.
Possiamo visualizzare la sezione trasversale come una grata, messa nella conduttura, attraverso la
quale passa il fluido.
Per calcolare la portata, misuriamo il volume del fluido che attraversa la sezione in un dato intervallo
di tempo.

125
CORRENTI STAZIONARIE
Una corrente si dice stazionaria quando la sua portata, attraverso qualunque sezione della conduttura,
è costante nel tempo.
- Mentre apriamo un rubinetto la corrente non è stazionaria, perché il volume d’acqua emesso
ogni secondo aumenta nel tempo.
- Dopo un poco, però, vediamo che la corrente si stabilizza e diventa stazionaria, cioè fornisce
lo stesso volume d’acqua in ogni secondo.
Stazionario significa “costante nel tempo”

LA LEGGE DI STEVINO
Immaginiamo di avere una colonna di liquido di altezza h vogliamo vedere qual è la pressione al
fondo del liquido, supponendo che la pressione atmosferica sua proprio di 1,00atm = 1,013 x 105 Pa.
Vedremo in seguito come calcolare la pressione atmosferica Pa.

La forza peso che grava sul fondo è mg, cosicché, se K è la


derivata del fluido. Avremo
m = KX = KSℎ (3)
Pertanto, la pressione al fondo sarà la pressione atmosferica
più la pressione aggiuntiva mg/s, cosicché
Q = Q6 + KLℎ (4)
In generale, se P0 e la pressione al pelo libero del liquido (o
del fluido e, in generale), avremo la legge di Stevino:
Q = Q6$ KLℎ (5)

Esempio:
La pressione a 10 m sotto il mare (KH ≃ 1,03 L/MN0 ).
Q = Q6 + KLℎ = 1,00 atm + (1,03 x 103 kg/m3)(9,81)(10 m)
= 1,00 atm + 1,010 x 105 Pa ≃ 1,00 atm + 1,00 atm à 2,00 atm
Se ho un tubicino pieno d’acqua e lo comprimo con un pistone, riesco a comprimere poco l’acqua.

126
Se ho l’acqua e sopra un pezzo di legno, possiamo esercitare una pressione normale alla superficie
5555⃗X , il legno scorre sull’acqua.
dell’acqua. Se applichiamo una forza di taglio "

I fluidi non si oppongono alle forze di taglio. Se ci dovessimo trovare in un fluido viscoso, avremmo
solo un rallentamento nello spostamento.
I fluidi non hanno forma però abbiamo fluidi comprimibili come i gas e fluidi non comprimibili come
acqua o olio. L’aria è un fluido e noi siamo immersi in esso.
IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE
Un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del fluido spostato.
Perché? Consideriamo un cubetto d’acqua in equilibrio. Sulle facce laterali le pressioni si
equivalgono. Mentre sulla faccia superiore e su quella inferiore ciò non avviene.

Chiamiamo P1 la pressione sulla faccia superiore. Su quella inferiore la pressione sarà P2


$$$$⃗
YH = (Q( − Q1 )Z( [D
Q1 = Q6 + KLℎ
Q( = Q6 + KL(ℎ + L)
Q( − Q1 = KLZ
$$$$⃗
YH = KLZ0 [D = KLX[D = \L[D
*Z0 = X; KX = \; \L = ]^_` abcde`
Quindi se un corpo viene interamente immerso in un fluido, ottiene dopo una spinta verso l’alto pari
al peso de fluido.
Corpo immerso in ARIA (inteso come fluido)

127
Densità aria = 1,20 kg/m3
Trovando la spinta di Dati:
Archimede capiamo R = 20 cm
che galleggiamo S = 0,126 m2
nell’aria h = 1,70 m

_’" = _(0,2)" ;"


‡ = Jℎ = 0,126 ;" ∙ 1,70 ; = 0,214 ;=
Spinta di Archimede à FA = KLX = (1,2)(9,81)(0,214)i = 2,52 i à spinta opposta alla
nostra forza peso.
Corpo immerso in ACQUA (inteso come fluido)
Forza peso = Mg = (70Kg)(9,81) m/s2 = 687 N
(8W|}8) 3
"7 = KV W LX = z10 { (9,81)(0,214)i = 2100 i
2

L’acqua ci spinge molto più in alto


Da cosa dipende che una cosa affondi o meno?

Affonda o non affonda ?


Immergendo un corpo di densità Kú , in un fluido di densità K , tale corpo starà “a galla” oppure
affonderà?

Per la seconda legge di Newtonà $$$$⃗


YH +N $$$$$⃗
u = $$$$$⃗
N"
Se passo alle componenti capisco che mg è negativa quindi
FA – mg = may
So che m = Kú X quindi
KLX − Kú LX = Kú XR[ semplifico V ed ottengo
T . TR
ay = L
TR

- K − Kú = 0 à K = Kú à quando la densità del corpo è uguale alla densità del fluido,


non ho accelerazione. Il corpo sta in equilibrio in ogni punto del fluido
128
- K − Kú < 0 à K < Kú àquando la densità del fluido è minore della densità del corpo,
abbiamo un’accelerazione positiva; quindi, il corpo affonda
- K − Kú > 0 à K > Kú à quando la densità del fluido è maggiore della densità del
corpo, abbiamo un’accelerazione negativa; quindi, il corpo va verso l’alto, galleggia.

Perché le navi in acciaio non affondano ?


Abbiamo a disposizione 5 lamine d’acciaio (PF = 7,00 x 103 kg/m3) di dimensioni:

b = 1,00 m
h = 1,50 m
w = 0,01 m

Costruiamo una rudimentale barca come quella in figura. Vogliamo sapere se questa barca affonda
oppure galleggia in acqua.
Trascuriamo la densità dell’aria contenuta nella parte vuota e calcoliamo la massa di una singola
lastra
Cu
m = K; (Nℎm) = 7 O 100 O 1, O 10.( N0 → N = 105 PL
7-
La massa totale della barca sarà 5m, così che
M = 5m = 525 kg
Il volume è utile, finché la barca possa rimanere in acqua, sarà:
V = b2h = 1,50 m3
La densità del natante sarà quindi:
\ 525 PL PL
KÜ = = = 350 < RMncR
X 1,50 N0 N0
Pertanto, la barca che abbiamo costruito galleggia in acqua.

Quale frazione è immersa in acqua ?

129
Risolviamo il problema dapprima in generale.
Chiamiamo VI il volume del corpo di densitàKú < K , che immerso nel fluido di densità K.
Allora FA = KLX¥
Per l’equilibrio FA – mcg = 0 à KLX¥ − K+ LX = 0
p\ "#
=
p #
Pertanto, la frazione di volume immerso è pari al rapporto tra la densità.
Nel caso della nostra barca

X¥ KÜ
= = 0,35 → X¥ = 0,35 X
X K
A che profondità y starà il fondo della nave?
VI = Sy à 0,35 sb = Sy à perciò y = 0,35 b = 35,0 cm
IL PRINCIPIO DI PASCAL
In un fluido confinato, un incremento di pressione si trasmette inalterato in qualsiasi punto del fluido
stesso e sulle pareti del recipiente che lo contiene.
Per comprendere questo principio, prendiamo un liquido incomprimibile e chiudiamolo in un
recipiente cilindrico, tenendolo chiuso con un pistoncino come figura. Qualsiasi incremento di
pressione Dp che produciamo sul pistoncino, verrà trasmesso inalterato in un punto qualsiasi del
fluido. Infatti, nel punto P, per Stevino, avremo
p = p0 + KL[
se p0 à p0 + Dp, allora p = p0 + Dp + KL[ = p + Dp
notiamo così che la variazione di pressione Dp è trasmessa al punto a profondità y generica

130
IL DIAVOLETTO DI CARTESIO

Come costruire un
diavoletto di Cartesio
utilizzando un contagocce:

g occe
conta

Si brucia intorno sul fuoco per


far sciogliere e saldare la parte
superiore ottenendo l’orribile
testa del diavoletto
Foro

Si inietta acqua

Siringa

Bottiglia di plastica

Il diavoletto galleggia
(principio di Archimede)

Esercitando la pressione aggiuntiva, tale pressione si trasmetterà in ogni punto del liquido (principio
di Pascal)

131
Tale Dp farà entrare dell’acqua nel foro e il diavoletto cadrà verso il basso (ancora Archimede). Se
la bottiglia è sufficientemente alta, allora la pressione alla base sarà sufficiente ad eguagliare o
superare Dp, cosicché il diavoletto resterà sul fondo (legge di Stevino).

L’EQUAZIONE DI CONTINUITÀ
Da cosa dipende la portata di un fluido? Se conosciamo l’area S della sezione trasversale della
conduttura e la velocità v con cui scorre il fluido, la portata della conduttura è data dalla seguente
formula:
p = “8 (2)
Quindi la portata è direttamente proporzionale sia all’area della sezione della conduttura, sia alla
velocità del fluido.
Dimostrazione formula portata

Consideriamo i volumi di fluido che attraversano la sezione trasversale (esempio figura sopra).
In un intervallo di tempo ∆K, i volumetti percorrono la distanza l = v∆K. Quindi, nel tempo ∆K la
superficie di area S è attraversata da un volume di fluido : ∆‡ = Sl = Sv∆K
Siamo quindi in grado di calcolare la portata e di ottenere la formula (2):

∆~ i;∆6
p= ∆6
= ∆6
= “8
*semplifico ∆K
Esempio:
in un tubo, che ha diametro d = 6,8 cm, scorre acqua alla velocità di 1,7 m/s. Qual è il volume di
acqua trasportato dal tubo in un secondo?
Dobbiamo calcolare q. La formula da utilizzare è ” = •–
Quindi prima calcoliamo l’area trasversale S del tubo (che ha raggio r = d/2):

O" (*,*gE H)"


S = _) " = _ (
= 3,14 r (
= 3,6 r 10/= ;"

Poi sostituiamo questo valore e quello di v nella formula e risolviamo il problema:


H H+
” = •– = (3,6 r 10/= ;" )r z1,7 M
{ = 6,1 r 10/= M

LA PORTATA E L’EQUAZIONE DI CONTINUITÀ

132
Nella condotta descritta in figura abbiamo indicato con ∆X1 e ∆X( il volume di fluido che fluisce
nell’intervallo di tempo∆r , attraverso la stessa condotta in due punti diversi, il primo di sezione S1,
il secondo di sezione S2. Questi due volumi racchiudono la stessa massa di fluido, cosicché:
K∆X1 = K∆X( (1)
Essendo K costante in quanto il fluido è ideale. Perciò ∆X1 = ∆X( , cosicché
S1 ∆O1 = S( ∆O( (2)
Dividendo adesso per ∆r, avremo
∆8< ∆8!
S1 = S2 (3)
∆c ∆c
Per piccoli valori di ∆r possiamo scrivere in definitiva
S1V1 = S2V2 (4)
Ư
Il prodotto SV per un fluido ideale è quindi la portata, ossia il rapporto
∆c
Esempio:

In una condotta l’acqua fluisce con una portata di 0,1 l/s in un tratto con la sezione S1 = 10 cm².
Quanto vale la velocità di efflusso nel tratto finale con S2 = 1/5 S1?
Possiamo scrivere l’equazione di continuità come segue: V1S1 = V2S2
Siccome K1 = V1S1 = 0,1 l/s = 0,1 x 10-3 m3/s = 10-4 m3/s possiamo scrivere:
B-
T< 16@# 1 16@# 7
V2 = = S
< B!
=( = 0,50 m/s
Æ! (,6 +7! 8 # ! 16@# R
<8 GB

Pertanto avremo V2 = 0,500 m/s = 1,80 km/h


MOTO DI UN LIQUIDO IN UNA CONDUTTURA
Nel caso dei liquidi la portata gode di una particolare proprietà. Un liquido, a differenza di un gas, è
una sostanza molto difficile da comprimere. Conseguenza di questa proprietà è il fatto che, se un certo
volume di liquido fluisce in una conduttura, deve spingerne via un volume uguale. Esaminiamo il
moto di un liquido che scorre in un tubo singolo, su cui non si inseriscono altri tubi e che non si
suddivide (un sistema fatto così è chiamato “conduttura senza sorgenti né pozzi”).
- In una zona A, l’area della sezione trasversale della conduttura SA e la velocità del liquido è
VA

133
- In un secondo tratto B, l’area trasversale è SB e il modulo della velocità del liquido è VB

Per un liquido che scorre in una conduttura senza sorgenti né pozzi, vale la relazione:
SA VA = SB VB
Questa legge si chiama equazione di continuità. Essa dice che l’area trasversale della conduttura e
la velocità del liquido che scorre in essa sono inversamente proporzionali: se l’area si dimezza, la
velocità del liquido raddoppia.
I FLUIDI IDEALI IN MOTO: L’EQUAZIONE DI BERNOULLI (Benullì).

Quando ci riferiamo a un fluido ideale, diciamo che tale fluido è:


• incomprimibile;
• non viscoso.
Inoltre, assumiamo che esso si muova in modo da creare un:
• flusso stazionario;
• flusso irrotazionale o laminare.

Þ L’ipotesi di fluido incomprimibile ci dice che la densità del fluido è costante nel tempo e
uniforme nello spazio (K costante).
Þ Un fluido non viscoso, inoltre, non spreca energia, cosicché potremmo scrivere un’equazione
(l’equazione di Bernoulli, appunto), di conservazione dell’energia.
Þ In un flusso stazionario la velocità in un dato punto di una condotta non cambia nel tempo.

134
Þ Un flusso irrotazionale o laminare è descritto attraverso “linee di flusso” che seguono una
traiettoria lungo la tangente alla condotta (in ogni punto all’interno della condotta stessa). Tutte
le molecole del fluido seguiranno, quindi, una di queste linee di flusso. L’insieme delle linee di
flusso si indica con il nome di tubo di flusso.
L’EQUAZIONE DI BERNOULLI
Un fluido che scorre in una conduttura di diametro variabile e piegata in direzione verticale è
sottoposto a diverse forze:
- La spinta "⃗7 da parte del fluido che sta “a monte”

- La forza resistente "⃗9 da parte del fluido che sta “a valle”

- La forza-peso che agisce sul fluido stesso

Il caso relativamente più semplice è quello in cui valgono le seguenti condizioni:


1. il fluido è incompressibile;
2. la corrente è stazionaria;
3. gli attriti interni del fluido e quelli con le pareti della conduttura sono trascurabili.
Come è dimostrato in seguito, se queste tre condizioni sono verificate, il moto del fluido obbedisce
k
all’equazione di Bernoulli: — + l ˜–l + ˜•™ = costante (4)
3
*p = pressione (Pa); d = densità(kg/m ); v = velocità (m/s); g = accelerazione di gravità; y = quota
(m)
Questa equazione ha quindi la forma di una legge di conservazione.
In una zona A della conduttura, pressione, velocità e quota del liquido hanno i valori pA, vA e yA.
Quando il fluido giunge in una seconda zona B, queste grandezze fisiche possono avere cambiato
tutti i loro valori, che sono diventati pB, vB e yB. Però l’equazione di Bernoulli dice che l’espressione
k
data dall’equazione (4) deve rimanere costante; quindi si ha: —m + l ˜–l m + ˜•™m = —n +
k
l
˜–l n + ˜•™n (5)

135
IL TEOREMA DI BERNOULLI
Energia cientica
'
Š = ∆;8 " (5)
"

Energia potenziale
U = ∆;`ℎ (6)
Energia meccanica
šh = Š + › (7)
'
= " ∆;8 " + ∆;`ℎ

Lavoro compiuto dalle forze di pressione

(:)
ZHm = −YB ∆O = −KS∆O = − K∆t (8)

Per il teorema dell’energia cinetica possiamo scrivere


(() (1) (:)
sâ − sâ = Z1,(
' '
"
∆;8"" + ∆;`ℎ" − "
∆;8'" − ∆;`ℎ' = − K2 ∆t + K1 ∆t (9)
∆H
Dividendo tutto per ∆X e riconoscendo che K = ∆~
, si avrà
' '
"
K8"" + K`ℎ" + K2 = " K8'" + KLℎ1 + K1 (10)
La (10) va sotto il nome di equazione di Bernoulli dimostrata attraverso l’omonimo teorema, che si
fonda sul teorema dell’energia cinetica.
DIMOSTRAZIONE DELL’EQUAZIONE DI BERNOULLI
Consideriamo ora la figura 4, nella quale è rappresentata una conduttura simile a quella delle tre figure
precedenti. In questo caso il tratto B del tubo è posto a una quota yB rispetto a una certa altezza di
riferimento, e la zona A si trova alla quota yA.

Figura 4:
moto di un fluido in una conduttura
non rettilinea.

Esamineremo il comportamento del fluido (evidenziato in azzurro) compreso tra le superfici 1 e 3.


Esso è soggetto al proprio peso e all’azione delle forze "⃗7 e "⃗9 della figura precedente. La prima (che

136
è rivolta verso destra) è dovuta alla pressione del liquido che si trova alla sinistra e provoca il moto
del fluido.
La seconda (che è rivolta verso sinistra) è dovuta alla pressione del liquido che si trova alla destra e
crea una resistenza al movimento del fluido. Dopo un certo intervallo di tempo questa quantità di
fluido si è spostata tra le superfici 2 e 4 (figura 5).

Figura 5:
Il fluido che si trova tra le superfici 1 e
3 si muove e occupa lo spazio tra le
superfici 2 e 4

Se la corrente che scorre in questo condotto soddisfa le prime due condizioni enunciate sopra (flusso
stazionario e fluido incompressibile), il movimento della parte di fluido evidenziata in blu nella zona
A deve provocare nel tratto B lo spostamento di una porzione di fluido con lo stesso volume ∆V, la
stessa densità d e la stessa massa m (in rosa).
La parte di fluido contenuta tra le superfici 2 e 3 è rimasta invariata, e quindi può essere trascurata
nella nostra analisi.
La terza delle ipotesi stabilisce che nel sistema che stiamo esaminando non agiscono forze di attrito.
Allora la variazione ∆E dell’energia meccanica totale deve essere uguale al lavoro W fatto dalle
forze esterne al sistema (che sono "⃗7 e "⃗9 ):
∆š =W (6)
Nel tratto A forza e spostamento sono paralleli, e di conseguenza il lavoro è positivo, mentre in B
essi hanno verso opposto, e quindi il lavoro è negativo. Possiamo quindi calcolare
W = FAlA - FBlB = pASAlA = pBSBlB
dove lA è lo spostamento del liquido tra le superfici 1 e 2, mentre lB è lo spostamento corrispondente
tra le superfici 3 e 4.
Nel secondo passaggio abbiamo sostituito ai moduli delle due forze la loro espressione come prodotto
della pressione per la sezione trasversale del condotto. A questo punto possiamo riconoscere che il
termine (area trasversale) x (altezza) dà il volume ∆V comune ai due tratti di fluido; in questo modo
si trova
W = pA∆V- pB∆V = (pA - pB) ∆V (7)
Per ottenere ∆E, invece, basta calcolare la differenza tra l’energia meccanica totale del fluido nel
tratto B (potenziale più cinetica) e quella in A:
' ' ' '
∆š = z" ;8 " 9 + ;`(9 { − z" ;8 "7 + ;`(7 { = ; z" 8 " 9 + `(9 − " 8 "7 + `(7 {
(8)
A questo punto possiamo, secondo la (6), uguagliare tra loro le espressioni (7) per W e (8) per ∆E;
utilizzando anche la relazione m = d∆V, otteniamo:
' '
(pA- pB) ∆‡ = .∆‡ z" 8 " 9 + `(9 − " 8 "7 + `(7 {
Ora dividiamo entrambi i membri dell’equazione precedente per il fattore ∆V e portiamo tutti i
termini con l’indice A al primo membro e tutti quelli con l’indice B al secondo (cambiando
k k
opportunamente i segni). Giungiamo così all’espressione —m + l ˜–l m + ˜•™m = —n + l ˜–l n +
˜•™n che volevamo dimostrare.

137
FORMULA DI TORRICELLI

Applicando l’equazione di Bernoulli e sostituendo le grandezze elencate in figura scriviamo


1 ( 1
Ktù + KLℎ( + K" = Kt1( + KLℎ1 + K"
2 2
1 (
Kt = KL(ℎ1 − ℎ( )
2 ù
tù = u2Lℎ (11)
L’equazione (11) è detta formula di Torricelli e ci dice che la velocità di efflusso tc da un grande
serbatoio è pari alla velocità che un punto materiale acquisirebbe se lasciato cadere da un’altezza h.
Esempio: “La bottiglia che perde”
Velocità di efflusso
8[ = ñ2`ℎ
Legge oraria
X(t) = 8[ K
'
Y(t) = H - " `K "
Equazione della traiettoria
r
K=
8[
1 r"
(=œ− ` "
2 8[

Sostituendo per 8[ , avremo


1 r" r"
(=œ− ` =œ−
2 2`ℎ 4ℎ
Per calcolare d, imponiamo y=0, cosicché

138
."
œ= → . = 2√ℎœ
4ℎ
Notiamo allora che d è due volte la “media geometrica” tra h e H.
I VASI COMUNICANTI ?

È esperienza comune notare che, quando due o più vasi sono messi in comunicazione tra loro, il
livello del pelo libero del fluido in essi contenuto si equipara. Ciò è dovuto al fatto che tutti i vasi
sono soggetti alla stessa pressione. Infatti, immaginiamo di avere due vasi comunicanti in cui il primo
è esposto all’aria, mentre il secondo è compresso da un pistone di massa M. Il liquidò e acqua (Œ7 =
1,00 r 10= Š`/;= ) e M = 1kg.

Si può adesso vedere che il dislivello è tale da controbilanciare la pressione aggiuntiva


âu
∆] = (12)
Æ
In cui S = 10 cm2 è la sezione del pistone. Così come mostrato in figura e per la legge di Stevino,
bisogna porre
âu â
]H Lℎ = Æ
→ ℎ = Æ° (13)
0

Sostituendo i valori numerici avremo:


1PL
ℎ= = 1,00N
(10O10.) N( )(1O100 ) vL/N0
L’EFFETTO VENTURI
È interessante vedere cosa prevede l’equazione di Bernoulli quando la conduttura in cui scorre il
fluido è orizzontale. In questo caso si ha yA = yB e, quindi, i due termini dgyA e dgyB dell’equazione
(5) si elidono. Si trova così:
k k
—m + l ˜–l m = —n + l ˜–l n (9)
k
La (9) dice che, lungo un condotto orizzontale, la quantità p + l ˜–l rimane costante. Quindi, se v
diminuisce, p deve aumentare e viceversa.

139
Questo fenomeno si chiama effetto Venturi (figura 6).

Figura 6:
Soffiando con cautela sulla faccia
superiore del foglio, questo si alza.

- Per verificare l’effetto Venturi, mettiamo a filo del labbro inferiore un foglietto di carta velina.
- Soffiando delicatamente sopra il foglio, in orizzontale, esso si muoverà verso l’alto, «aspirato»
dalla corrente d’aria.
Chiamiamo A la zona sotto il foglietto e B la parte sopra: sotto il foglietto l’aria è ferma e, quindi, si
ha
vA = 0. Sopra il foglietto, invece, dato che sto soffiando, l’aria si muove con velocità vB. In questo
caso l’equazione (9) diviene:

—m = —n + ˜–l n
ž
Ne risulta che la pressione sotto il foglio è maggiore di quella sopra e, quindi, il foglio è spinto verso
l’alto

EFFETTO VENTURI (e porte che sbattono!).

Vi siete mai chiesti perché gli aerei possono volare, le auto di Formula 1 sono così stabili e perché le
porte aperte in fondo a un corridoio, sbattono in presenza di una corrente d’aria? Vi siete mai chiesti
perché le goccioline di pioggia ci investono a velocità relativamente basse rispetto a quelle che
avrebbero se cadessero in assenza di un fluido? A tutte queste domande potremmo rispondere se
applicassimo attentamente l’equazione di Bernoulli. Iniziamo allora vuol dire che tutti questi
fenomeni hanno a che fare con l’effetto venturi, che adesso illustriamo, partendo dall’esempio della
porta che sbatte. Applicando il teorema di Bernoulli nel punto 1 e 2 in figura (dietro e davanti la porta)
essendo i due punti alla stessa quota ed essendo l’aria ferma in 1, scriviamo la (10) come segue:
1
(
Kt(( + Q( = Q1 (14)

140
Ossia, la pressione dietro la porta è maggiore della pressione P2, davanti alla porta! Questo è l’effetto
Venturi, che ci dice che laddove il fluido va più velocemente, la pressione P diminuisce, così come
visto nella (14). E perciò vi è una forza F che spinge la porta verso il punto 2, poiché
1
F = (P1 -P2)S = ( Kt(( S (15)

Dove, in questo caso, S è la sezione della porta e K è la densità dell’aria.

Esempio: “una gocciolina che cade dalle nuvole”

Lo stesso accade per una gocciolina che cade dalle nuvole, la cui forma è quella rappresentata in figura.
Trascurando la spinta di Archimede dovuta all’aria, rappresentiamo il diagramma di corpo libero della
gocciolina come nella figura in FV è data dalla (15) con S = &(P . Scriviamo perciò, se la gocciolina si muove
a velocità costante
1
(
Kt ( S = NL (16)
Risolvendo per la velocità v della gocciolina, avremo
(7u (7u
t( = TÆ
→ t wñTä! (17)

Possiamo esprimere la massa m della gocciolina come segue


4h 3
!= KV f t = KV f $ x %
3
(18)
2 2

Sostituendo la (18) nella (17) avremo:

#E -
(TT! 4 i ä ju D TT! 4
t= y -
= w0 Lx (19)
ñTä! T

141
Abbiamo così trovato la velocità di una gocciolina in funzione del raggio R. Notiamo
che maggiore sarà il raggio, maggiore sarà la velocità della gocciolina, cosicché
comprendiamo benissimo adesso perché le piogge torrenziali sono caratterizzate da
gocce d’acqua di dimensioni relativamente grandi e le pioggereline da gocce d’acqua
relativamente piccole. Vediamo per un raggio R = 2,00 mm, quale sarà il valore di v,
ponendo:
K|! t = 100 PL/N0 e K = 1,25 PL/N0 (a 10°C)
( 16- 7
t = w0 (9,81)(2 O 10.0 ) = 6,47 m/s = 23,3 km/h
1,(h R
L’ATTRITO NEI FLUIDI
La viscosità di un fluido si oppone al moto degli oggetti che sono immessi nel fluido stesso. Quando
andiamo in bicicletta possiamo sentire in modo molto chiaro l’impedimento dovuto all’attrito con
l’aria. Se questo attrito (chiamato attrito viscoso) non esistesse, a parità di sforzo si potrebbero
raggiungere velocità molto più elevate.
i;
F=Ÿ O
*unità di misura (Pa ∙ s)
La costante di proporzionalità Ÿ (si pronuncia «eta») si chiama coefficiente di viscosità. È una
quantità che dipende dal tipo di fluido e dalla sua temperatura. È tanto maggiore quanto più sono
grandi le forze di attrito interno del fluido.
IL CONTRIBUTO DELLA SPINTA DI ARCHIMEDE
Quando la densità della sfera è confrontabile con quella del fluido in cui essa si muove, diventa
importante tenere conto anche della spinta di Archimede che agisce, verso l’alto, sulla sfera che cade
(figura 10).

Figura 10:
La forza totale sulla sfera è la somma della forza-
peso (verso il basso), della forza di attrito e della
spinta di Archimede (entrambe verso l’alto).

Se la sfera ha raggio r e volume V = (4/3)_r3, e se indichiamo con d la densità della sfera e con d0
quella del fluido in cui essa cade, l’espressione della forza di Archimede è
4
"7 = .* `‡ = _.* `) =
3
Nel caso che stiamo esaminando l’espressione della forza totale è "6G6 = "S − "; − "7
Quindi il valore della velocità limite di caduta è dato dalla formula
" (O/ O! )@4 "
8= FÄ
(16)
Una sferetta di alluminio (densità d = 2,96 x 103 kg/m3) che ha un raggio di 7,2 mm cade in olio
d’oliva (che ha densità d0 = 0,92 x 103 kg/m3 e viscosità Ÿ = 8,40 × 10-2 Pa ∙ s). Calcola la velocità
limite di caduta v della sferetta nell’olio d’oliva.
" (O/ O! )@4 "
Calcoliamo il valore di v utilizzando la formula 8 = FÄ

142
01 01 % "
" (O/ O! )@4 " " A",Fg ! '*+ + /*,F" ! '*+ +D ! AF,E* " D ! Å)," ! '*2+ HÇ
8= FÄ
= % %
F (E,(* ! '*2" S8 ∙M)
&
=
01 %+
A",*( ! '*+ +D ! É',*' ! '*2+ " Ñ
% &
*,)Bg S8 ∙ M
=

,@ ,@ ∙ H" ,@ ∙ H" H
= 2,7 S8 ∙ M+ = 2,7 N ∙ M+
= 2,7 % = 2,7
,@ ∙ " ∙ M + M
&

Quindi la velocità limite cercata vale 2,7 m/s.

PROVE D’ESAME SVOLTE


Þ Problema
Di quanto è immerso il cubo di legno
[0,700 oppure 70%]

PL
KO = 0,700 ∙ 100
N0
PL
K|! p = 1,00 ∙ 100 0
N
Se immergessimo l’intero blocco, questo salirebbe verso l’alto perché la forza di Archimede è
maggiore. Quando non premiamo, galleggia.
Per l’equilibrio FA = mg à K|! p
X¥ L = KO XQpQ L
~3 q
~454
= q < = 0,700 frazione del volume immerso à il 70% del blocchetto è immerso in
=2 >
acqua quindi il 30% di esso esce fuori dall’acqua.

Quanto vale h?
X¥ = _ℎ = 0,700 SO → ℎ = 70% Z
Þ Problema n. 4 del 06.07.2021
Un palloncino viene gonfiato fino a raggiungere un volume di 0.100 m3. Esso viene
poi immerso in acqua (\rho =1.00 g/cm3). Trascurando la massa del palloncino e la
massa di aria in esso racchiuso, si calcoli la forza necessaria a tenere il palloncino
gonfio completamente immerso sotto il pelo libero dell’acqua.
[981 N]

143
FA = K|! p LX
= (1,00 g/cm3)(9,81m/s2)(0,100 m3) =
Cu ∙ 7
= (1,00 x 103 kg/m3)(9,81 m/s2)(0,100 m3) = 981 R! = 981 N

LA TERMODINAMICA
In termodinamica andremo a parlare dell’equazione dei gas perfetti nella quale si utilizzano le
variabili perfette

PRESSIONE VOLUME TEMPERATURA

Si utilizza in
gradi Kelvin

La scala Kelvin è suddivisa come quella Celsius ma con una differenza: è una scala di temperatura
assoluta cioè che non ha valori negativi. 0°C equivalgono a 273°K

LA DEFINIZIONE OPERATIVA DELLA TEMPERATURA


Per rendere oggettiva la sensazione fisiologica di caldo e di freddo si introduce la grandezza fisica
temperatura; essa, come tutte le altre grandezze, è descritta da una definizione operativa.
Tutte le definizioni operative sono costituite dalla descrizione dello strumento di misura e dal
protocollo che stabilisce come utilizzare tale strumento.
L’esperienza mostra che i liquidi cambiano un poco di volume al variare della temperatura
(dilatazione termica): una brocca riempita fino all’orlo di olio l’oliva durante la notte, rischia di
traboccare in un caldo pomeriggio successivo.

La temperatura è quella grandezza che si misura con il termometro.


Nel sistema internazionale l’unità di misura per la temperatura è il Kelvin (simbolo K). In questa
scala, detta scala assoluta, la variazione di 1 K è identica a quella di 1°C.
Però la temperatura del ghiaccio fondente è pari a 273 K, cosicché quella dei vapori d’acqua bollente
vale 373 K.

144
Le temperature T della nuova scala si ottengono da quelle t in gradi Celsius sommando a queste ultime
il numero 273:
T = t + 273K
Per passare dalla nuova alla vecchia scala si usa invece la formula inversa : t = T – 273°C
LA TEORIA CINETICA DEI GAS
Un gas è un insieme di atomi o molecole di una sostanza che interagiscono molto debolmente tra
loro. È necessario contenere un gas in un contenitore per non lasciare che i singoli atomi o le singole
molecole si disperdono nell’ambiente.

Un gas ideale (o perfetto) è costituito da un certo numero N di atomi o molecole non interagenti tra
loro. Tali entità sono trattate come piccole sfere rigide che subiscono urti elastici con le pareti. (urto
elastico: perde energia a contatto con una superficie. Esempio: la pallina da ping pong, se la buttiamo
a terra ad ogni tocco perde energia e tende a fermarsi. Se non perdesse energia sarebbe ad ogni tocco
alla stessa altezza).
La molecola “solitaria” in un cubo di lato L
Prendiamo una molecola che si muove di moto rettilineo uniforme lungo l’asse X. Essa rimbalzerà
elasticamente, dopo ogni urto con le pareti, compiendo un moto periodico nel cubo di lato L in figura.
Per tornare alla stessa parete, percorrerà una distanza pari a 2L e un tempo:
(O
∆r = (1)
e)

Dove t8 è il modulo della velocità della molecola che coincide con la componente x positiva. Questo
è l’intervallo di tempo che intercorre tra un impulso e il successivo che la particella dà alla parete. Si
nota che, essendo l’urto con la parete elastico, l’energia cinetica della particella non varia a seguito
dell’urto, cosicché essa arriverà con una velocità t⃗ contro la parete ed emergerà con velocità −5t⃗.

145
Pertanto si avrà:
∆t = −2t8 (2)
Dalla seconda legge di Newton, scrivendo al posto dell’accelerazione la
∆e .(e) e) !
grandezza = !Y = −
∆c O
Z)

avremo
∆e 7e) !
Y8 = N ∆c → Y8 = − (3)
O

Questa è la forza che la particella riceve dalla parete. La parete agirà sulla particella con una forza
opposta di componente
7e) !
Y8 = = (4)
O
Dividendo tale componente per la superficie S = L2, avremo la pressione che la singola particella
esercita sulla parete
;) X 7e !
Q1 = = -) (5)
Æ
O
Notiamo che L3 è il volume V del cubo e che Nt8 ( è due volte l’energia cinetica della molecola che
si muove lungo l’asse X. In questo modo avremo:
7e) !
Q1 = Ø
(6)
Una particella, comunque, può avere una velocità t⃗ con tutte le componenti, cosicché:
t ( = t8 ( + t9 ( + tº ( (7)
è il modulo quadro di t⃗. In media, le componenti della velocità sono le stesse, cosicché
t8 = t9 = tº e perciò
t ( = 3t8 ( (8)
E la (6) si scrive come segue
1 7e !
Q1 = 0 (9)
Ø
Per ottenere la pressione data dalle N particelle e non dalla molecola “solitaria”, possiamo porre P =
NP e perciò
< !
( i!Ü7e j
Q= 0 Ø
(10)
1
Dove riconosciamo che il termine Nk1 = N9 iNt ( ; è l’energia cinetica totale delle molecole,
(
cosicché
(
QX = 0 iP1 (11)

Imbocchiamo adesso il “teorema di equiparazione dell’energia” di Boltzmann, che ci dice che, in


C= Q
un sistema di un numero N (abbastanza grande) di particelle, possiamo associare un’energia per
(

146
w
ogni grado di libertà della singola particella, dove Pm = 1,38 ∙ 10.(0 è la costante di
é
Boltzmann e T è la temperatura assoluta misurata in Kelvin (K).
*Anche la temperatura è una grandezza fisica fondamentale. Vedremo che T = (t + 273,15)K, dove t
è la temperatura misurata in °C.
Per una molecola mono-atomica i gradi di libertà sono 3, perché può traslare lungo X, Y, Z nello
spazio.

Per una molecola bi-atomica i gradi di libertà sono 5, 3 traslazionali e 2 rotazionali, così come
schematicamente indicato in figura. Nella molecola in figura, una rotazione attorno all’asse Y non
genera alcuna rotazione della molecola in quanto essa è formata da due punti materiali posti proprio
sull’asse Y.

Una molecola poli-atomica, invece, ha 3 gradi di libertà transnazionali e 3 rotazionali, cosicché ng =


6.
Assumendo che le molecole siano mono-atomiche, possiamo allora scrivere che
C= Q 0
P1 = {L 9 (
; = (
Pm | (12)

Sostituendo la (12) nella (11), si ha:


QX = iPm | (13)
Introduciamo adesso il concetto di mole. Una mole di una sostanza è caratterizzata dalla presenza di
NA particelle della sostanza in questione. Pertanto, se N è il numero di moli di un dato sistema di
particelle, allora
Ü
{ =Ü (14)
0
1
Dove N è il numero di particelle e NA = 6023 x 1023 è il numero di Avogadro. Per la (14), la
7tïæ
(13) si scrive come segue
QX = {(iH Pm )| (15)
w
Adesso R = NAkB = (6023 x 1023)(1,38 x 10-23)
7tïæ∙C
w
Quindi la costante dei gas perfetti è x = 8,31
7tïæ∙C
Pertanto, la (15) può essere scritta come segue

147
}p = ~•€ (16)
L’equazione (16) è l’equazione di stato dei gas perfetti. Le variabili di stato (o termodinamiche) dei
gas perfetti (P, V, T) sono legate tra loro attraverso la (16).
L’EQUAZIONE DI STATO DEL GAS PERFETTO
Il concetto di mole permette di scrivere l’equazione di stato del gas perfetto in una forma diversa e
più utile per i calcoli.
a* ‡*
a‡ = 9
9*
Gli esperimenti, fatti da Avogadro per primo, mostrano che:
a pressione e temperatura fissati, il volume occupato da un gas è direttamente proporzionale al numero
di particelle che lo compongono, cioè al numero n di moli del gas.
Z! ~!
Nell’equazione di stato del gas perfetto compare il fattore X!
che è direttamente proporzionale a V0;
per quanto detto sopra, a sua volta V0 è direttamente proporzionale al numero di moli n, per cui
Z ~
l’intero fattore è direttamente proporzionale a n. Questo fatto si può esprimere con la formula X! ! =
!
Ö
0’ dove la costante di proporzionalità R vale sperimentalmente R = 8,3145 HGÜ ∙ b
Z! ~!
Sostituendo la formula X!
= 0’ nell’equazione di stato del gas perfetto, otteniamo per essa la nuova
forma:

pV = nRT T = temperatura (K)


p = pressione (Pa)

V = volume (m3) R = costante dei gas perfetti (8,31 J/molek)

n = quantità di gas (mol)


N → -}Há4G Z846àWáÜÜá
n=N
6 → -}áH4G 7;G@8O4G

Essa stabilisce che, una volta fissato il numero di moli di gas, il prodotto della pressione e del volume
è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta del gas. L’equazione di stato del gas perfetto
lega tra loro le quattro grandezze p, V, n e T: se sono note tre di esse, la quarta può essere calcolata.
LA LEGGE DI AVOGADRO
L’equazione di stato del gas perfetto contiene come caso particolare la legge di Avogadro, secondo
cui volumi uguali di gas diversi, mantenuti alla stessa temperatura e alla stessa pressione,
contengono lo stesso numero di particelle.
Z~
Infatti dalla formula pV = nRT otteniamo n = iX
Ciò significa che il numero di moli (e quindi di particelle) contenute in una certa quantità di gas è
fissato una volta che si conoscono p, V e T, mentre la massa degli atomi o molecole del gas non ha
alcuna rilevanza.
In particolare, si può calcolare che una mole di gas a 0 °C (273,15 K) e alla pressione atmosferica
normale occupa sempre il volume di 22,4 L (detto volume molare in condizioni normali).

148
LA MOLE E IL NUMERO DI AVOGADRO
Nella tavola periodica degli elementi puoi vedere che il peso atomico dell’elio (He) è pari a 4,00,
mentre quello dell’ossigeno (O) è 16,0. Ciò significa che un atomo di elio ha una massa che è un
quarto di quella di un atomo di ossigeno. Perciò, se fai la proporzione fra la massa di un numero
qualunque N di atomi di elio e la massa di N atomi di ossigeno otterrai sempre lo stesso valore 1/4.
Il discorso è vero anche al contrario: se una massa m di elio contiene N atomi, per avere lo stesso
numero di atomi di ossigeno si deve considerare una massa di ossigeno pari a 4m (cioè quadrupla),
visto che la massa di un atomo di ossigeno è, come abbiamo detto, quattro volte quella di un atomo
di elio.
In particolare, 4,00 g di elio contengono lo stesso numero di atomi di 16,0 g di ossigeno. Questo
numero si chiama numero di Avogadro NA ed è pari a
;%JJ% ./ 4,00 . ./ œ2 4,00 ` 4,00 r 10/= Š`
†7 = = = = 6,02 r 10"=
;%JJ% ./ L0 %K-;- ./ œ2 4,00 L 4,00 r 1,66 r 10/") Š`
Il risultato trovato è vero in generale: una quantità di qualunque sostanza che ha una massa in grammi
numericamente uguale al suo peso atomico o molecolare contiene un numero di atomi o molecole
uguale al numero di Avogadro.
Sulla base del numero di Avogadro è definita la mole, che è l’unità di misura della quantità di sostanza
nel Sistema Internazionale:
si chiama mole di una sostanza quella quantità di sostanza che contiene un numero di Avogadro di
componenti elementari (atomi, molecole, ...). La mole si indica con il simbolo «mol»
LE UNITÀ DI MISURA DEL NUMERO DI AVOGADRO E DEL PESO ATOMICO.
Un valore più preciso del numero di Avogadro (con l’unità di misura corretta) è
NA = 6,022137 x 1023 mol – 1
In questo modo (come mostra l’esempio svolto seguente) il prodotto tra il numero di Avogadro e un
numero di moli fornisce il numero di elementi (atomi o molecole) come un numero puro, come deve
essere. L’unità di misura del peso atomico e molecolare è grammi fratto mole (g/mol): ogni mole di
una sostanza ha una determinata massa espressa in grammi.
Esempio:
Quanti atomi sono contenuti in 2,83 mol di un dato elemento?
Il numero N di elementi è dato dal numero n di moli moltiplicato per il numero di elementi in una
mole (il numero di Avogadro NA):
'
N = nNA = (2,38 mol) x (6,02 x 1023 HGÜ ) = 1,70 x 1024

IL GAS PERFETTO
Ricordiamo che la legge di Boyle e le due leggi di Gay-Lussac descrivono in modo corretto le
proprietà di un gas se sono soddisfatte due condizioni:
1. il gas è piuttosto rarefatto;
2. la sua temperatura è molto maggiore di quella alla quale esso si liquefà.
Un gas ideale che obbedisce alla legge di Boyle e alle due leggi di Gay-Lussac si chiama gas perfetto.
L’EQUAZIONE DI STATO DEL GAS PERFETTO
La legge sperimentale di Boyle e le due leggi sperimentali di Gay-Lussac possono essere sintetizzate
in un’unica relazione, chiamata equazione di stato del gas perfetto. Essa stabilisce un legame tra le
tre grandezze che caratterizzano lo stato di un gas: la pressione, il volume e la temperatura.

149
a* ‡*
a‡ = Ü á9
9*
*p = pressione (Pa); V = volume (m3); T = temperatura (K)
Il prodotto della pressione del gas perfetto per il volume che esso occupa è direttamente proporzionale
alla temperatura assoluta del gas.
L’equazione di stato sintetizza le tre leggi dei gas perché, come è mostrato nella tabella sotto, partendo
dall’equazione di stato è possibile ricavare la legge di Boyle e le due leggi di Gay-Lussac come casi
particolari.

DIMOSTRAZIONE DELL’EQUAZIONE DI STATO


Consideriamo una certa quantità di gas perfetto che si trova a temperatura T0 con volume V0 e
pressione p0. Da questo stato vogliamo portarlo ad avere volume V, pressione p e temperatura T
mediante due trasformazioni successive:
1. una trasformazione isoterma alla temperatura T0 che porta il gas alla pressione p e al volume
V’0; per la legge di Boyle:
a* ‡*
a* ‡* = a‡′* → ‡′* =
a

2. Una trasformazione isòbara a pressione p, che porta il gas al volume V e alla temperatura T;
per la prima legge di Gay-Lussac:
‡′*
‡= 9
9*

150
Nell’equazione 2, al posto di V’0 sostituiamo l’espressione ricavata dalla 1. Così troviamo:
1 a* ‡* 1 a* ‡*
‡ = ‡′* 9= 9 → a‡ = 9
9* a 9* 9*
L’ultima espressione trovata è proprio l’equazione di stato del gas perfetto.

LE TRASFORMAZIONI DI UN GAS
Per studiare un gas dobbiamo racchiuderlo in un contenitore, per esempio un recipiente munito di
pistone a tenuta stagna.

Figura 11:
cilindro munito di pistone
mobile a tenuta stagna con
strumenti di misura

Lo stato di un gas è descritto da quattro grandezze:


1. La massa m del gas, che possiamo misurare con una bilancia di precisione;
2. Il volume V, che determiniamo in modo indiretto, conoscendo l’aria S della base del cilindro
e misurando l’altezza h a cui si trova il pistone: V = Sh;
3. La temperatura T, che misuriamo con un termometro;
4. La pressione p, che misuriamo con un manometro.

Decidendo di non cambiare mai la massa del gas e di non rimuovere il pistone, vi sono due modi di
intervenire sullo stato del gas:
- aggiungendo o togliendo dei paesetti sul pistone, possiamo variare la pressione del gas;
- mediante fonti di calore o l’uso di frigoriferi ne possiamo cambiare la temperatura.

Ognuno di questi interventi provoca una trasformazione del gas. Nel corso della trasformazione esso
passa attraverso stati diversi da quello in cui si trovava prima della trasformazione (stato iniziale). Lo
stato in cui si trova il gas al termine della trasformazione è detto stato finale.

TRASFORMAZIONI ISOTERME, ISÒBARE E ISOCÒRE.


Tra le infinite trasformazioni che è un gas può subire, ve ne sono alcune particolarmente importanti:

151
Una variazione di pressione e volume a temperatura costante è un esempio di trasformazione
isoterma. Mantenendo costante la pressione, si ottiene una trasformazione isobara. Se il volume è
costante, la trasformazione si dice isocora.
TRASFORMAZIONI TERMODINAMICHE
Agendo su un gas attraverso modifiche delle variabili (P, V, T) possiamo passare da uno stato A,
caratterizzato dalle variabili PA, VA, TA, a uno stato B, caratterizzato dalle variabili PB, VB, TB. Tali
trasformazioni possono essere descritte attraverso delle curve su di un piano PV, detto anche piano
di Clapeyron.
ISOTERMA

T = costante
PV = costante

Una curva nel piano PV ottenuta dalla (16) per T = T0 costante è detta “isoterma”. Essa è
rappresentata da un’iperbole equilatera del tipo xy = costante.
!" #"
Ma noi sappiamo che le iperboli sono caratterizzate dall’equazione 8" − :" = 1.
Quando a=b avremo (x-y)(x+y) = a3. Gli asintoti sono ortogonali e potremmo
considerarli essi stessi degli assi cartesiani.
Ponendo:
X=x–y
Y=x+y
E così si ha
XY = a2

LA LEGGE DI BOYLE (T COSTANTE)


Facciamo variare adesso la pressione del gas mantenendo la sua temperatura costante attraverso il
contatto con un corpo che mantiene la stessa temperatura quando assorbe o cede calore.
pV = p1V1
*p = pressione finale (Pa); V = volume finale (m3); p1 = pressione iniziale (Pa); V1 = volume iniziale
(m3)
La legge di Boyle stabilisce che, a temperatura costante, il prodotto del volume occupato da un gas
per la sua pressione rimane costante.

152
Ciò significa che, in tali condizioni, pressione e volume di un gas sono inversamente proporzionali.
ISOCORA

V = costante
:
= costante
Q

Una trasformazione termodinamica a volume costante è definita “isocora” ed è rappresentata come


un segmento verticale nel piano PV.
LA SECONDA LEGGE DI GAY-LUSSAC (V COSTANTE)
Come si modifica la pressione di un gas, al variare della temperatura, quando il suo volume si
mantiene costante. Anche in questo caso il gas deve essere poco compresso e lontano dalla
liquefazione.
La legge sperimentale che descrive l’aumento di pressione del gas, a volume costante, quando cambia
la sua temperatura è la seconda legge di Gay-Lussac.
**
aX = 9
9G
*aX = pressione (Pa) a temperatura T; aG = pressione (Pa) a 273 K; 9* = 273 K; T = temperatura
assoluta (K)
A volume costante, la pressione del gas è direttamente proporzionale alla sua temperatura assoluta.
ISOBARA

P = costante
Ø
= costante
Q

Una trasformazione termodinamica a pressione costante è definita “isobara” ed è rappresentata come


un segmento orizzontale nel piano PV.
LA PRIMA LEGGE DI GAY-LUSSAC (P COSTANTE)
Vogliamo scaldare il gas mantenendo costante la pressione (trasformazione isobara).
‡ = ‡* (1 + £)
*V= volume (m3) alla temperatura t; V0 = volume (m3) alla temperatura di 0°C; £ = coefficiente di
dilatazione volumica 0°• /' ; t = temperatura (°C)

153
La prima legge di Gay-Lussac non descrive soltanto il riscaldamento di un gas, ma anche il suo
raffreddamento:
- un gas riscaldato a pressione costante si dilata (aumenta il volume);
- un gas raffreddato a pressione costante si contrae (diminuisce il volume).

Se indichiamo con T0 = 273 K la temperatura assoluta che corrisponde a 0 °C, la relazione appena
scritta diventa
1
£=
9
Utilizzando la temperatura assoluta T invece della temperatura Celsius t, possiamo riscrivere la prima
legge di Gay-Lussac nella forma:
‡*
‡X = 9
9G
*‡X = volume (m3) a temperatura T; 9G = temperatura di 273 K; ‡* = volume (m3) a 273 K; T =
temperatura assoluta del gas (K)
Il volume occupato da un gas è quindi direttamente proporzionale alla sua temperatura assoluta.
Esempio problema esame:

Sul fondo di un lago, alla profondità di 5,00 m, si forma una bollicina d’aria contenente un numero
di moli pari a 1,00 × 10-4. La temperatura del lago è pari a T = 285 K. Quanto vale il volume della
bollicina sul fondo del lago? Quanto vale il volume della bollicina quando essa è salita sul pelo libero
dell’acqua?
Consideriamo l’aria come un gas perfetto, scriviamo:
BäQ8 BäQ
8
PAVA = nRT à VA = = : $°uI
:0 8

Dove P0 = 1,00 atm, P = 1,00 ∙ 103 kg/m3, h = 5,00 m sostituendo si ha:


(16@# )(D,01)((Dh) 6,(0êD
VA = (1,61 ∙ 16H)$(16- )(F,D1)(h) N0 = (1,61$)F6) 16H N0

VA = 0,158 ∙ 10-5 m3 = 1,58 ∙ 10-6 m3 = 1,58 cm3


Per calcolare VB scriviamo
: 1h6 ∙ 16H
PAVA = PBVB à VB = 9:0 ; XH = 1,61 ∙ 16H 1,58 MN0 = 2,39 MN0
=

154
Esempio:

L’espansione di n=1 mole di gas perfetto avviene a pressione costante (P0 = 1atm). Inizialmente la
temperatura è TA = 300 K e durante l’espansione cresce fino a TB = 400 K. Quanto vale il volume
iniziale VA e il volume finale VB del gas?
BäQ0
Calcoliamo innanzitutto VA =
:0
. Pertanto, scriviamo
(1)(D,01)(066) 0
VA = (1,61 ∙ 16H )
N = 2,47 ∙ 10.( N0 = 24,7 b
Poiché la trasformazione avviene a pressione costante, possiamo scrivere
XH Xm |m 4
= → Xm = XH = (24,7b) = 32,9 b
|H |m |H 3
Esempio:
Si riscalda un gas contenuto in un recipiente rigido di 10,0 l in modo che la temperatura sale da 300
K a 500 K. Quanto vale la pressione iniziale la pressione finale se il recipiente contiene 0,100 moli
di gas?
Troviamo prima la pressione iniziale e scriviamo
BäQ0 (6,1)(D,01)(066)
PA = Ø0
= (16 ∙ 16@- )
QR = 2,4910h QR

PA = 2,47 atm
Per trovare PB scriviamo
Qm QH |m 5
= → Qm = Å Ç QH = (2,47 RrN)
|m |H |H 3
PB = 4,12 atm
ESPANSIONE DEI GAS PERFETTI A PRESSIONE COSTANTE
Abbiamo visto che, a pressione costante, l’equazione di stato dei gas perfetti si scrive:
V = kT (k = costante) (17)
Questa è una retta passante per l’origine, ossia T = OK e V = Om3. L’impossibilità di avere un volume
nullo quando T à OK indica due difficoltà, una di carattere concettuale, una di carattere sperimentale.
La prima è che la descrizione di un gas come “gas perfetto” fallisce a basse temperature. La seconda
è che T = OK è un limite inferiore per la temperatura T e proprio per questo la scala Kelvin viene
definita scala della “temperatura assoluta”.
Esempio:

155
n = 1 mole
PA = 4 atm ; PB = 1 atm
VA = 5 l ; VB = 20 l
Trovare: TA, TB, TC

:0 Ø0 ((6
TA = = = 243 v
Bä (1)(6,6D(1)
w
R = 8,31
7tïæé
Ü
1J = 197! ; N0 = (1QR)(100 b) =
1 "c7
=9 ; (100 b) = 0,99 ∙ 10.( RrN
1,61 ∙ 16H
ï ∙ "c7 ï ∙ "c7
R = (8,31)(0,99 ∙ 10-2) = 0,0821
7tïæ ∙ é 7tïæ ∙ é
TB = TA = 243 K
:= :G :G
= → |+ = |m = 4|m = 972 v
Q= QG :=

CAPACITÀ TERMICA E CALORE SPECIFICO


L’assorbimento della stessa quantità di energia non provoca lo stesso aumento di temperatura in tutti
i corpi.
La capacità termica di un corpo è numericamente uguale alla quantità di energia necessaria per
aumentare di 1 K la sua temperatura.
∆[
C = ∆X
*C = capacità termica (J/K); ∆š = energia assorbita (J); ∆9 = aumento di temperatura (K)
Per esempio, fornendo 4186 J di energia a 1,000 kg di acqua ne aumentiamo la temperatura di
esattamente 1 K. Allora la capacità termica di 1 kg di acqua è
∆[ ('Eg Ö Ö
C = ∆X = 'b
= 4186 b

IL CALORE SPECIFICO
La capacità termica dipende dalla massa del corpo e dalla sostanza di cui esso è fatto. Più
precisamente a capacità termica di un corpo è direttamente proporzionale alla sua massa.
C = cm
*C = capacità termica (J/K); c = calore specifico (J/(kgK)); m = massa (kg)
Il calore specifico di una sostanza è numericamente uguale alla quantità di energia necessaria per
aumentare di 1 K la temperatura di 1 kg di quella sostanza.

156
QUANTITÀ DI ENERGIA E VARIAZIONE DI TEMPERATURA
Calcoliamo quanta energia assorbe (o cede) una massa m di una determinata sostanza quando la sua
temperatura aumenta (o diminuisce) della quantità ∆T.
Dalla definizione di capacità termica e dalla legge sperimentale C = cm, ricaviamo
∆š = •∆9 = ,;∆9 à ∆š = ,;∆9 (3)

*∆š = energia scambiata (J); c = calore specifico (J/(kgK)); m = massa (kg); ∆9 = variazione di
temperatura (K)
La quantità di energia scambiata (cioè assorbita o ceduta) è direttamente proporzionale alla variazione
di temperatura (aumento o diminuzione).
Se l’energia è scambiata mediante un flusso di calore, la formula precedente può essere scritta come
Q = cm∆¤ (4)
Visto che il calore specifico c e la massa m sono quantità positive, nelle formule (3) e (4) l’energia
scambiata ∆E e il calore Q hanno lo stesso segno della variazione di temperatura ∆T:
- se la temperatura aumenta e quindi si ha ∆T > 0, ∆E e Q sono positivi; ciò corrisponde a
un’energia o un calore assorbiti dal corpo.
- se la temperatura diminuisce e quindi si ha ∆T < 0, ∆E e Q sono negativi; ciò corrisponde a
un’energia o un calore ceduti dal corpo.
ENERGIA INTERNA DI UN GAS PERFETTO
Dalla teoria cinetica dei gas abbiamo visto come l’energia interna di un gas perfetto possa essere
espressa come segue:
1 3
ƒ = P = i Å Nt ( Ç = iPm |
2 2
In termini di n, possiamo scrivere
0
ƒ = ( {x| (18)
Pertanto, l’energia interna di un gas perfetto dipende solo dalla temperatura T e non da altre variabili
termodinamiche. In questo modo la temperatura T diventa una misura dell’energia cinetica (e quindi
del grado di agitazione) delle particelle di un gas perfetto. La relazione (18) può essere scritta come
segue
ƒ = {„Ø | (19)
0
Dove „Ø è il “calore specifico molare” a volume costante e vale x per i gas perfetti monoatomici.
(
Per quanto detto sui gas perfetti biatomici e poliatomici possiamo stilare la seguente tabella

GAS …{

3
monoatomico x
2
5
biatomico x
2

157
poliatomico 3x

A volume costante possiamo generalizzare la (19) anche per altre sostanze (come liquidi e solidi).
Così come vedremo, queste sostanze che, in buona approssimazione rimangono a volume costante,
possono assorbire energia (calore!) e quindi aumentare la propria energia interna, in misura del calore
Q assorbito, cosicché
† = ∆ƒ
Possiamo allora definire un calore specifico per le sostanze solide e liquide, prendendo come
riferimento l’acqua, per la quale decidiamo che dobbiamo spendere esattamente “1 caloria” per far
aumentare la temperatura di 1g di acqua da 14,5° a 15,5°. Una relazione simile alla (19) può essere
scritta come segue:
† = N„∆| (20)
Dove m è la massa della sostanza, C è il calore specifico e ∆| è la variazione di temperatura.
Notiamo che:
• per ∆| > 0, si ha Q > 0 (il sistema assorbe energia)
• per ∆| < 0 si ha Q < 0 (il sistema cede energia)
Esempio:
W8Ü W8Ü
l’acqua ha calore specifico CA = 1 @b , mentre il latte ha calore specifico CL = 0,93 @b
Si scalda il latte e l’acqua, con la stessa quantità di calore, inserendo la stessa massa (mA = mL =
100g) nel forno a microonde, che eroga un calore totale pari a Q = 3 x 103 cal. Se la temperatura
iniziale dell’atte dell’acqua è T0 = 300K, quanto vale la temperatura finale della prima e della seconda
sostanza?
¿
† = N„∆| à ∆|

3 ∙ 100 MRb
∆|H = ,%b
= 30 v → |H = 330 v
(100L) 91 ;
`:
3 ∙ 100 MRb
∆|O = ,%b
= 32 v → |O = 332 v
(100L) 90,93 `:;

CALORE SPECIFICO IN LIQUIDI E SOLIDI


Così come visto in precedenza, possiamo generalizzare il modo in cui un gas assorbe energia (calore)
estendendo la formula ∆ƒ = ;•€ ∆9 nel modo seguente
† = N„∆| (1)
Una delle possibili applicazioni di tale formula è data dall’esempio seguente:
Una biglia a TB = 1000 K, di massa mB = 100 g e di calore specifico CB = 0,900 cal/gK, è raffreddata
in un litro di acqua (CA= 1,00 cal/gK) alla temperatura iniziale TA = 280 K. Si trovi la temperatura di
equilibrio TE del sistema. [339K]
Sotto l’ipotesi che il calore ceduto dalla biglia, che passa da TB = 1000K a TE (incognita), venga
integralmente assorbito dall’acqua, scriviamo
QA + QB = 0 (2)
E perciò
mACA(TE – TA) + mBCB(TE – TB) = 0 (3)

158
Risolvendo per TE scriviamo
(mACA + mBCB)TE = mACATA + mBCBTB
E così
70 ú0 Q0 $ 7= ú= Q=
TE = (4)
70 ú0 $ 7= ú=
Effettuando adesso i calcoli, avremo
[(1666)(1)((D6)$(166)(6,F)(1666)] +"ï 0J6 ∙ 16-
TE = G[\ = v = 339 v
(1666)(1) $(166)(6,F) 1,6F ∙ 16-
C
*esercizio esame gettonatissimo!
La temperatura di equilibrio
La stessa equazione c1m1 (Te - T1) + c2m2(Te - T2) = 0 ci permette di calcolare la temperatura di
equilibrio Te se conosciamo tutte le altre grandezze. Si trova
,' ;' 9' + ," ;" 9"
9á =
,' ;' + ," ;"

Abbiamo così ottenuto un’equazione di primo grado nella variabile c2. Risolvendola, otteniamo
la soluzione
,' ;' (9á − 9' )
," =
;" (9" − 9á )

IL CALORE
Possiamo aumentare la temperatura di un corpo in due modi:
- ponendolo a contatto con un altro corpo più caldo;
- mediante una forza che compie lavoro.
Si ha un passaggio di calore quando c’è un dislivello di temperatura: il calore fluisce da un corpo a
temperatura più alta a uno a temperatura più bassa.
Facendo un buco nel muro con un trapano, la punta si riscalda. In questo caso non c’è stato alcun
passaggio di calore (proveniente da un corpo a temperatura elevata) verso la punta del trapano.
L’aumento di temperatura è causato dal lavoro compiuto dalla forza elettrica che fa ruotare la punta.

Verso la fine del 1800, James P. Joule ideò un esperimento che consente di determinare quanto lavoro
è necessario per aumentare di 1 K la temperatura di 1 kg di acqua.
L’acqua è in un calorimetro, sostanzialmente un thermos che impedisce al calore di entrare e di uscire
dal recipiente. Un mulinello a palette, azionato dalla caduta di due pesi, rimescola l’acqua. Dopo aver
fatto scendere diverse volte i pesi, si osserva che l’acqua è diventata un po’ più calda. L’aumento di
temperatura è causato dal lavoro compiuto dalla forza di gravità che, facendo scendere i due pesi, fa
ruotare il mulinello. Se ogni peso massa di 0,5 Kg, quando entrambi si abbassano di 1 m, la forza di
gravità compie un lavoro di circa 10 J:

W = mgh = (0,5 + 0,5)kg x 9,8 m/s2 x 1 m = 9,8 J

159
Calore e lavoro sono modi per trasferire energia da un sistema a un altro.
- Nel caso di una pentola riscaldata dalla fiamma, l’energia passa dal gas caldo (metano +
ossigeno) del fornello all’acqua mediante un flusso di calore.

- Quando si aziona il mulinello di Joule, il lavoro della forza-peso determina un passaggio di


energia dal sistema (mulinello + pesi) all’acqua che si riscalda.

Il calore, che si indica con Q, si misura in joule perché è uguale a una variazione di energia.
In sintesi, per riscaldare un corpo bisogna fornirgli energia. Ciò può avvenire grazie a un flusso di
calore (da un corpo più caldo) o al lavoro (compiuto da una forza). Calore e lavoro sono, quindi,
energia in transito.
Dopo che è stata trasmessa, non importa se mediante calore o lavoro, l’energia diventa energia
interna.

ESPERIMENTO DI JOULE

Joule costruì un sistema meccanico con il quale misurò l’equivalente meccanico di 1 caloria.
L’esperimento struttura il concetto del calore latente di fusione dell’acqua. Il ghiaccio, come altre
sostanze che passano dallo stato solito allo stato liquido, per effettuare questa transizione di fase, ha
bisogno di assorbire una certa quantità di calore. Il calore necessario per sciogliere una massa di
ghiaccio di 1 grammo è chiamato “calore latente di fusione” dell’acqua e vale circa 80 cal/g. Joule
mise dell’acqua a 0°C in un recipiente. In equilibrio con l’acqua misurava una certa quantità di
ghiaccio. Dopodiché, con un sistema meccanico semplice di cui poteva misurare il lavoro compiuto,
faceva agitare delle pale che, per attrito, sviluppavano calore, che veniva utilizzato dall’acqua per
disciogliere una certa quantità di ghiaccio m. Pertanto, conosceva il calore Q = mlF trasferito

160
all’acqua dal sistema meccanico. D’altronde conosceva anche il lavoro compiuto, in joule, L.
Cosicché, eguagliando Q ed L, otteneva la seguente relazione tra 1 caloria e il corrispondente valore
in joule:
1 cal = 4,186 J (3)
Esempio:
Calcolare l’energia (in J) necessaria a portare 10l di acqua (m = 10kg) dalla temperatura ambiente TA
= 300 K fino all’ebollizione, TB = 373 K.
Calcoliamo prima il calore necessario, attraverso la nozione di calore specifico, scrivendo:
† = N„|! p ∆| = N„|! p (|m − |H )
Effettuando i calcoli avremo
1 vMRb
† = (1` vL) Å Ç (73)v = 730 vMRb
vL ∙ v
E perciò
4,186 ‡
† = 730 ∙ 100 MRb ∙ = 3056 ‡
1 MRb
† = 3,06 v‡
Concludiamo allora che, a differenza della temperatura che è una variabile termodinamica che
caratterizza lo stato di una sostanza, il calore è una forma di energia che può essere assorbita o ceduta
dalla stessa sostanza.
LA CALORIA
Oltre al joule, un’altra unità di misura (non del Sistema Internazionale) che si usa per il calore è la
caloria.
Una caloria è pari alla quantità di energia necessaria per innalzare la temperatura di 1 g di acqua
distillata da 14,5 °C a 15,5 °C alla pressione atmosferica normale.
Per l’esperimento di Joule la caloria, che è indicata con il simbolo «cal», è pari a 4,186 J.
Nella definizione di caloria è necessario stabilire tra quali temperature l’acqua deve essere riscaldata
perché il calore specifico delle sostanze (compresa l’acqua) cambia un poco al variare della
temperatura.
Ciò significa che l’energia che serve per scaldare 1 g di acqua da 20 °C a 30 °C è leggermente diversa
di quella che serve per fare aumentare la temperatura da 30 °C a 40 °C.

QUESTO ß È IN PIÙ (se volete lo fate,


altrimenti non è importante)

ATOMI E MOLECOLE
Tutto ciò che vediamo intorno a noi è quindi composto di piccolissimi grani, che chiamiamo
“molecole”. Per esempio, il ghiaccio, l’acqua liquida e il vapore acque sono composti dalle medesime
molecole, tutte identiche tra loro.
Ogni sostanza pura è caratterizzata da una propria molecola, diversa da quella delle altre sostanze.
Esistono milioni di molecole diverse, tra cui quelli dell’acqua, dell’ossigeno e dello zucchero.
La molecola è il “grano” è più piccolo da cui è costituita una sostanza.

Gli atomi
Tutte le molecole che esistono sono formate da una novantina di “mattoni” fondamentali, detti atomi.

161
- A ogni atomo corrisponde un elemento, cioè una sostanza elementare non più scomponibile
in sostanze più semplici.
- Le sostanze formate da atomi di più elementi sono dette composti. Sono elementi l’elio, il
mercurio e il rame. Sono composti l’acqua, la clorofilla, la plastica e il DNA.

Le molecole
Le sostanze sono costituite da tantissime molecole tutte uguali. Ciascuna molecola è formata da
atomi.
- L’acqua è costituita da molecole formate da due atomi di idrogeno legati a uno di ossigeno.
H2 O
- Lo zucchero è un composto formato da sei atomi di carbonio, sei di ossigeno e 12 di idrogeno.
C6H12O6
- L’alluminio solido è costituito da un reticolo cristallino regolare formato da atomi di
alluminio. Al
Molecole diverse si distinguono per gli atomi che contengono e per il modo in cui essi si legano tra
loro.
PESI ATOMICI E MOLECOLARI.
Le proprietà basilari degli atomi sono riassunte nella tavola periodica degli elementi. In ogni riquadro,
al di sopra del simbolo dell’elemento, compare il suo peso atomico.

Il peso atomico di un elemento è la massa dell’atomo di quell’elemento misurata in unità di massa


atomica.
L’unità di massa atomica è indicata con il simbolo u. Il suo valore numerico è u = 1,6605 x 10 - 27 kg.
Per esempio, nella quarta casella della seconda riga della tavola periodica degli elementi vediamo che
il peso atomico del carbonio (simbolo C) è 12,011. Ciò significa che la massa mC di un atomo di
carbonio è
mC = 12,011u = 12,011 x 1,6605 x 10 – 27 kg = 1,9944 x10 – 26 kg
I pesi atomici permettono di calcolare i pesi molecolari dei composti.
Il peso molecolare di una sostanza è la massa della molecola di quella sostanza, misurata in unità di
massa atomica.
Per esempio, la molecola d’acqua è formata da un atomo di ossigeno (peso atomico 15,9994) e da
due atomi di idrogeno (peso atomico 1,0079). Quindi il peso molecolare dell’acqua è
15,9994 + 2 x 1,0079 = 15,9994 + 2,0158 = 18,0152.
LE FORZE INTERMOLECOLARI
Le forze che legano gli atomi a formare le molecole sono di natura elettrica. Queste stesse forze si
sentono (seppure più debolmente) anche al di fuori delle molecole. In questo modo ogni molecola
può interagire con altre molecole vicine.

162
- In generale le molecole si attraggono anche se, quando sono lontane, l’attrazione è così debole
che può essere considerata nulla.

- Soltanto quando le molecole sono così vicine da arrivare a sovrapporsi (a distanze minori di
10 - 9 m), si respingono.

FINE delle cose non importanti

LA TERMODINAMICA
Un sistema è un insieme di corpi che possiamo immaginare avvolti da una superficie chiusa, ma
permeabile alla materia e all’energia. L’ambiente è tutto ciò che si trova fuori da questa superficie
(figura 1).

Figura 1: Un sistema
termodinamico scambia calore
e lavoro con l’ambiente.

Per esempio, un aereo è un sistema costituito da numerosi pezzi (ali, fusoliera, motore ecc.).
L’ambiente è tutto ciò che è al di fuori dell’aereo.
La termodinamica studia le leggi con cui i sistemi scambiano (cioè cedono e ricevono) energia con
l’ambiente. Questi scambi di energia avvengono sotto forma di calore e di lavoro. Quando un sistema
riceve energia dall’esterno, la sua energia interna aumenta; quando la cede all’esterno, la sua energia
interna diminuisce.
Un cilindro pieno di gas perfetto
Per studiare gli scambi di energia, consideriamo un sistema fisico molto semplice (figura 2): il gas
perfetto contenuto in un cilindro chiuso da un pistone a tenuta stagna. L’ambiente è tutto ciò che è al
di fuori di questo sistema: il fornello, quindi, fa parte dell’ambiente.
Il sistema può scambiare calore e lavoro con l’ambiente. Per esempio:
- con il fornello acceso, il sistema riceve energia dall’esterno sotto forma di calore;
- comprimendo il pistone, il sistema riceve energia sotto forma di lavoro compiuto da una forza
esterna.

163
Figura 2: Esempio di
distinzione tra sistema
termodinamico e ambiente
esterno

Ogni volta che riceve o cede energia, il sistema passa da uno stato a un altro: per esempio, se si solleva
il pistone, il volume occupato dal gas aumenta e la pressione può diminuire.
Lo stato del sistema «n moli di gas perfetto» è descritto da tre grandezze: il volume V del cilindro, la
temperatura T del gas e la pressione p che il gas esercita contro le pareti (figura 3).

Figura 3: Lo stato del


sistema è descritto da tre
grandezze: volume,
pressione e temperatura.

Se misuriamo il valore di due di queste grandezze (per esempio p e V), l’equazione di stato del gas
perfetto consente di ricavare la terza (T):
a‡
9=
0’
Pertanto lo stato del sistema può essere rap- presentato mediante un punto in un diagramma
pressione-volume (figura 4).
Per esempio, il sistema rappresentato dal punto A è individuato dalla coppia di valori:
V = 1,0 m3; p = 40 kPa = 4,0 x 104 Pa. Nello stato B il volume è maggiore e la pressione è minore.

Figura 4: Il diagramma p - V
descrive gli stati del sistema.

164
Caso più generale
Non è necessario che il pistone a tenuta stagna contenga del gas perfetto: l’importante è che il fluido
all’interno del cilindro possieda un’equazione di stato, anche più complicata di quella del gas perfetto.
Anche in questo caso, date due delle tre grandezze termodinamiche V, p e T, è possibile ricavare il
valore della terza di esse.
In termodinamica si chiama fluido omogeneo qualunque corpo il cui comportamento è regolato da
un’equazione di stato.
IL LAVORO IN TERMODINAMICA
Scaldiamo lentamente il gas contenuto nel cilindro, in modo che si espanda a pressione costante
(trasformazione isòbara). Lasciamo che il volume del gas aumenti in modo quasistatico. Poiché il
pistone si solleva, il sistema compie un lavoro positivo. Potremmo utilizzare l’energia che il sistema
cede all’esterno per fare un lavoro utile: per esempio sollevare una mela (figura 13) o l’acqua da un
pozzo.

Figura 13: Il lavoro di


espansione di un gas può
essere impiegato per sollevare
oggetti

Il lavoro di una trasformazione isòbara


Il lavoro W, che il sistema compie, è uguale al prodotto della forza F, che spinge verso l’alto il pistone,
per lo spostamento h del pistone (figura 14):
W = Fh.

Figura 14: in una


trasformazione che avviene i
un cilindro con pistone a
tenuta si ha Δ‡ = “ℎ

Poiché la forza è uguale al prodotto della pressione p del gas per la superficie S del pistone, si ha
W = Fh = (pS)h = p(Sh) = pΔV,
dove ΔV, uguale al prodotto Sh, è l’aumento di volume del gas.
Quindi il lavoro compiuto dal sistema durante l’espansione a pressione costante è
W = aΔV
*W = lavoro compiuto dal gas (J); p = pressione del gas (Pa); ΔV = variazione di volume (m3)
Nel grafico pressione-volume la trasformazione isòbara è rappresenta da un segmento orizzontale
(perché il valore di p non cambia).
- In una trasformazione isòbara il lavoro del sistema è uguale all’area della parte di piano
compresa tra il grafico e l’asse dei volumi: un rettangolo di base ΔV e altezza p.

165
- Una trasformazione qualsiasi può essere suddivisa in tante piccole trasformazioni isòbare. Il
lavoro compiuto in ciascuna di esse è dato dall’area di un piccolo rettangolo.

- Il lavoro totale compiuto nel passare da A a B è la somma di tutti questi piccoli lavori ed è
quindi uguale all’area indicata in colore nel grafico qui sotto.

Abbiamo quindi ottenuto che: il lavoro termodinamico compiuto dal sistema durante una
trasformazione quasistatica è dato dall’area della parte del piano p-V contenuta tra l’asse dei volumi
e il grafico della trasformazione stessa.
Il lavoro compiuto in una trasformazione ciclica
Durante un’espansione del gas la variazione di volume ΔV è positiva e, di conseguenza, il lavoro W
è positivo (parte sinistra della figura 15). Durante una compressione del gas la variazione di volume
ΔV è negativa e, di conseguenza, il lavoro W è negativo (parte destra della figura seguente).

Figura 15: il lavoro del


sistema è positivo durante
un’espansione, è negativo
durante una compressione.

Lavoro negativo compiuto dal sistema termodinamico significa che è l’ambiente esterno a compiere
un lavoro positivo sul sistema, per esempio comprimendo il gas contenuto nel cilindro. Durante una
trasformazione ciclica ci sono una fase di espansione e una di compressione.
- Durante la fase di espansione il sistema compie un lavoro positivo pari all’area della parte di
piano tratteggiata in rosso.

166
- Durante la fase di compressione il sistema compie un lavoro negativo, il cui valore assoluto è
dato dall’area tratteggiata in blu.

- Il lavoro totale compiuto dal sistema durante il ciclo è uguale alla somma algebrica dei due
lavori (positivo + negativo).

Abbiamo quindi trovato un risultato generale: il lavoro compiuto nel corso di una trasformazione
ciclica è uguale all’area della parte di piano racchiusa dalla linea che rappresenta la trasformazione
nel grafico p – V.

Il lavoro, a differenza dell’energia interna, non è una funzione di stato.

Quando un gas si espande, esso compie un lavoro positivo sull’ambiente


esterno, mentre quando viene compresso si compie un lavoro sul gas, che
viene considerato negativo.
∆Z = YB ∆_ = Q (S∆_) = Q∆X (1)
Dalla (1) si vede che il lavoro può essere espresso come il prodotto della
pressione P per una piccola variazione di volume ∆X (abbastanza piccola da
considerare la pressione costante).

167
Nel piano P-V Lavoro è rappresentato dall’area sottesa dalla
curva che descrive la trasformazione termodinamica.

Infatti a pressione costante, dalla (1) si ha:


ZHm = QH (Xm − XH ) (2)
Che è proprio l’area del rettangolo di base (Xm − XH ) e di altezza QH
In meccanica abbiamo visto che il lavoro compiuto sul sistema fisico può dare luogo a una variazione
di energia cinetica del sistema stesso. Abbiamo ancora visto che anche il calore, che abbiamo espresso
in calorie, pur dar luogo a una variazione di energia interna di un sistema termodinamico. Pertanto, è
possibile esprimere il calore in Joule. Per fare questo dobbiamo cercare di esprimere 1 caloria nel
corrispondente valore in Joule.
L’ENERGIA INTERNA DI UN SISTEMA FISICO
Abbiamo definito l’energia interna U di un sistema come l’energia complessiva delle sue costituenti
microscopiche.
L’energia interna di un sistema fisico dipende soltanto dalle condizioni in cui esso si trova e non dalla
sua storia passata.
Per esempio, l’energia cinetica delle molecole di un gas dipende soltanto dalla sua temperatura,
mentre il valore dell’energia potenziale globale delle molecole è determinato unicamente dalle
posizioni reciproche delle singole molecole. Le molecole si muovono continuamente e urtano le pareti
del recipiente, ma le distanze medie tra di loro non cambiano se pressione e volume restano invariati.
Quindi l’energia di agitazione termica e l’energia potenziale globale restano in- variate nel tempo e a
ogni stato A, B, ... di un sistema termodinamico corrisponde un ben definito valore dell’energia
interna (figura 5).

Figura 5: A ogni stato


termodinamico
corrisponde uno e un
solo valore
dell’energia interna.

LE FUNZIONI DI STATO
Le funzioni di stato sono grandezze che, come l’energia interna, dipendono soltanto dalle variabili
termodinamiche che servono per descrivere lo stato del sistema fisico a cui si riferiscono.

168
Per fissare meglio le idee, consideriamo una trasformazione qualunque, in cui un sistema
termodinamico passa dallo stato A allo stato B. La conseguente variazione Δ› = ›(€) − ›(7)
dell’energia interna dipende soltanto dai due stati A e B e non dalla particolare trasformazione AB
seguita dal sistema (figura 6). Lo stesso è vero per la variazione di qualunque funzione di stato.

Figura 6: Diverse
trasformazioni permettono di
passare dallo stato iniziale A
a quello finale B

L’energia interna è una grandezza estensiva


La formula (17) del capitolo «La teoria microscopica della materia»

› = †:9 9
2
mostra che l’energia interna U del gas perfetto è direttamente proporzionale al numero N di molecole
del gas e, quindi, alla sua massa. Lo stesso è vero per l’energia interna di qualunque sistema. In
termodinamica questa proprietà viene descritta dicendo che l’energia interna di un sistema è una
grandezza estensiva.
In fisica si chiamano:
- estensive quelle grandezze il cui valore dipende dalla massa del sistema fisico in esame o dal
numero di particelle che esso contiene;
- intensive quelle grandezze il cui valore, per un sistema fisico dato, non dipende in modo
diretto dall’estensione del sistema stesso.
Facciamo ora alcuni esempi di grandezze fisiche estensive e intensive.
Due sistemi fisici S1 e S2 sono costituiti da due quantità di acqua alla temperatura di 20 °C. Ora
versiamo tutta l’acqua in uno stesso recipiente e otteniamo un nuovo sistema S3.
La massa di S3 è la somma della massa di S1 e di quella di S2; lo stesso vale per i volumi: massa e
volume sono quindi grandezze estensive.

Figura 7: Le due masse


d’acqua costituiscono sistemi
fisici con masse e volumi
diversi.

Invece la temperatura di S3 è uguale a quella di S1 e di S2, anche se le dimensioni del sistema fisico
sono aumentate: la temperatura è dunque una grandezza intensiva.

169
L’ENERGIA INTERNA È UNA FUNZIONE DI STATO
Per un gas perfetto l’energia interna è funzione solo della variabile di stato T, cosicché è definita
“funzione di Stato”. L’energia interna rimane una funzione di stato in generale, anche se potrebbe
dipendere da altre variabili di stato, oltre che dalla temperatura.
Il calore e il lavoro non sono funzioni di stato, in quanto essi dipendono dalla particolare
trasformazione termodinamica per andare dallo Stato A allo stato B.
Per vedere ciò possiamo seguire una isoterma da A a B,
cosicché
∆›79 = 0
Pertanto, dal primo principio, si ha
¦79 (ä) = §79 (ä)
Dove con (I) abbiamo indicato il percorso lungo
l’isoterma. Tuttavia se andiamo prima in I da A e poi in
B da I, notiamo che
¦79 (ä) ≠ ¦79 (ä)
e che §79 (ä) ≠ §79 (ä) in quanto il lavoro
§79 (ä) = *7 (‡9 − ‡7 ) = ¦79 (ä) è maggiore del lavoro
IL CALORE SPECIFICO A §79 (ä)
PRESSIONE COSTANTE

Scriviamo il primo principio della termodinamica per la trasformazione a pressione costante (isobara)
AB:
†Hm = ZHm + ∆ƒHm (5)
Ponendo ∆ƒHm = {„Ø (|m − |H ) e ZHm = QH (Xm − XH ) = Qm Xm − QH XH = {x(|m −
|H ), avremo
†Hm = {„Ø (|m − |H ) + {x (|m − |H ) = {(„Ø + x)(|m − |H ) (6)
Chiameremo „: = „Ø + x il calore specifico a pressione costante, cosicché la (6) si scriverà
come segue
†Hm = {„: (|m − |H ) (7)
Calori specifici per i vari gas perfetti
Il calore specifico c di una sostanza è dato dalla formula
¦
,=
;∆9

170
Per i solidi e per i liquidi non c’è bisogno di aggiungere altro. Ma per i gas l’aumento di
temperatura (cioè di energia interna) dovuto a uno scambio di calore Q dipende dalla particolare
modalità con cui avviene il riscaldamento.
Per descrivere tale situazione si introducono il calore specifico a volume costante cv e quello a
pressione costante cp , definiti come
ã ã
cv = zH∆X{ e cp = zH∆X {
àMGWG48 àMG:848

dove i pedici «isocòra» e «isòbara» indicano la trasformazione che si utilizza per ottenere il
riscaldamento.
- in una trasformazione isocòra vale la relazione ∆U = Q: il lavoro compiuto dal sistema è nullo,
per cui tutto il calore assorbito serve ad aumentare la temperatura del gas.

- In una trasformazione isòbara parte del calore serve a compiere lavoro (∆U + p∆V = Q) e,
quindi, con lo stesso Q si ha un aumento di temperatura minore di quello dell’isocòra.

Visto che, nella definizione del calore specifico, ∆ T compare al denominatore, a ∆ T minore
corrisponde un calore specifico maggiore. Quindi, il calore specifico a pressione costante di un gas è
sempre maggiore del suo calore specifico a volume costante.

…{ …€

Il rapporto © = •H è molto
I
gas perfetto 3 5 importante in quanto le
monoatomico ’ ’
2 2 trasformazioni adiabatiche (quelle per
le quali non vi è scambio di calore
gas perfetto 5 7 con l’ambiente esterno, ossia Q = 0)
biatomico ’ ’
2 2 sono descritte dalla relazione
QX # = M`_rR{r^
gas perfetto
3’ 4’
poliatomico

171
Si calcola il calore scambiato, la variazione
di energia interna e il lavoro per ogni
trasformazione termodinamica del ciclo
descritto in figura. Il gas utilizzato è
monoatomico.

h h
• AB à †Hm = {„: (|m − |H ) = {x(|m − |H ) = (Qm Xm − QH XH ) =
( (
h
Q (X − XH )
( H m
0
ZHm = QH (Xm − XH ); ∆ƒHm = {„Ø (|m − |H ) = ( {x (|m − |H ) =
0
Q (X
( H m
− XH )
0 0
• BC à †mú = ∆ƒmú = {„Ø (|ú − |m ) = ( {x (|ú − |m ) = ( (Qú Xú − Qm Xm )
0
†mú = ∆ƒmú = ( (Qú − QH )Xm
Zmú = 0
h h h
• CD à †úƒ = {„: (|ƒ − |ú ) = {x (|ƒ − |ú ) = Qú (Xƒ − Xú ) = Qú (XH −
( ( (
Xm )
Zúƒ = Qú (Xƒ − Xú ) = Qú (XH − Xm )
0 0 0
∆ƒúƒ = {„Ø (|ƒ − |ú ) = {x (|ƒ − |ú ) = Qú (Xƒ − Xú ) Q (X −
( ( ( ú H
Xm )
0 0
• DA à †ƒH = ∆ƒƒH = {„Ø (|H − |ƒ ) = ( {x (|H − |ƒ ) = ( (QH XH − Qƒ Xƒ )
0
†ƒH = ∆ƒƒH = X (Q
( H H
− Qú )
ZƒH = 0

172
Q L ∆U

5 3
AB Q (X − XH ) QH (Xm − XH ) Q (X − XH )
2 H m 2 H m

3 3
BC − (QH − Qú )Xm 0 − (QH − Qú )Xm
2 2

5 3
CD − Qú (Xm − XH ) −Qú (Xm − XH ) − Qú (Xm − XH )
2 2

3 3
DA (Q − Qú )XH 0 (Q − Qú )XH
2 H 2 H

Calore assorbito (Q > 0)


5 3
†HÆÆ = †Hm + †ƒH = QH (Xm − XH ) + (QH − Qú )XH
2 2
Calore ceduto (Q < 0)
3 5
†úùƒ = †mú + †úƒ = − (QH − Qú )Xm − Qú (Xm − XH )
2 2
Lavoro compiuto
Z = ZHm + Zmú + Zúƒ + ZƒH = QH (Xm − XH ) − Qú (Xm − XH )
= (QH − Qú )(Xm − XH )
*Area del rettangolo
Variazione di energia interna
∆ƒ = ∆ƒHm + ∆ƒmú + ∆ƒúƒ + ∆ƒƒH =
3 3 3 3
= QH (Xm − XH ) − (QH − Qú )Xm − Qú (Xm − XH ) + (QH − Qú )XH
2 2 2 2
3 3
= à(QH − Qú )(Xm − XH ) − (QH − Qú )(Xm − XH )â = 0
2 2
Definiamo il rendimento di questo ciclo termodinamico
Z bRt`‹` M`N]dcr`
Š=
†HÆÆ MRb`‹^ R__`‹mdr`

173
In questo caso avremo
(QH − Qú )(Xm − XH ) 16 b RrN 16 2
Š= = = =
5 3 5 3 56 7
QH (Xm − XH ) + (QH − Qú )XH å (20) + (4)ç b RrN
2 2 2 2
Š = 28,6 %

IL PRINCIPIO ZERO DELLA TERMODINAMICA


Il sistema termodinamico è formato da un fluido omogeneo contenuto in un cilindro dotato di un
pistone mobile a tenuta stagna.
Si può parlare di «pressione del sistema» o «temperatura del sistema» soltanto se queste grandezze
sono le stesse in tutti i suoi punti.
Perché ciò sia vero, il sistema fisico sotto esame si deve trovare nella condizione di equilibrio
termodinamico, che richiede la presenza contemporanea di tre tipi diversi di equilibrio:
1. equilibrio meccanico: non devono essere presenti forze non equilibrate né all’interno del
sistema, né tra il sistema e l’ambiente esterno; in particolare, perché il volume V non vari nel
tempo la risultante delle forze che agiscono sul pistone deve essere nulla.
2. Equilibrio termico: la temperatura deve essere uniforme in tutto il fluido.
3. Equilibrio chimico: la struttura interna e la composizione chimica del sistema devono
rimanere inalterate.
Il principio zero della termodinamica
In linea di principio, per controllare se due corpi sono alla stessa temperatura dobbiamo porli a
contatto. Se è vero che hanno la stessa T, essi non scambiano calore: sono in equilibrio termico. Ma
come possiamo affermare che due pareti della stanza, quella di destra e quella di sinistra, hanno la
stessa temperatura? Di certo, non siamo in grado di spostarle fino a portarle a contatto tra loro. Si usa
un altro metodo:
- prendiamo un termometro (corpo C) e lo mettiamo in contatto con la parete di sinistra (corpo
A) fino a quando essi sono in equilibrio termico. Il termometro indica la propria temperatura,
che è quella della parete di sinistra.

- Ora mettiamo in contatto lo stesso termometro (corpo C) con la parete di destra (corpo B). Se
questi due corpi sono in equilibrio termico, la parete di destra ha la stessa temperatura del
termometro, cioè la stessa della parete di sinistra.

174
Il procedimento illustrato sopra presuppone la validità di un criterio generale, indispensabile (dal
punto di vista logico) per confrontare le temperature di oggetti molto distanti tra loro nello spazio o
nel tempo. Questo criterio si chiama principio zero della termodinamica; il nome deriva dal fatto che,
nella costruzione teorica della termodinamica, questo criterio precede gli altri tre princìpi e ne è
fondamento.
Il principio zero della termodinamica afferma che, se il corpo A è in equilibrio termico con un
corpo C e anche un altro corpo B è in equilibrio termico con C, allora A e B sono in equilibrio termico
tra loro.

1° PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA

Immaginiamo di fornire calore ad un gas racchiuso in un contenitore cilindrico fornito di un pistone


superiore, così come mostrato in figura. Questo calore Q sarà utilizzato dal gas in due modi:

Þ Aumento della propria energia interna;


Þ Lavoro compiuto sull’ambiente esterno.
Per la conservazione dell’energia, globalmente interna, questo calore Q dovremmo trovarlo
sottoforma di incremento ∆› dell’energia interna del sistema e come lavoro L compiuto dal sistema,
cosicché

† = Z + ∆ƒ (4)
L’equazione (4) è, in sintesi, l’enunciato del primo principio della termodinamica. La stessa relazione
è valida, ovviamente, se il gas cede calore (in questo caso la somma Z + ∆ƒ darà un valore minore
di zero).
ENUNCIAZIONE DEL PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Durante l’espansione a pressione costante (figura 17) il sistema «gas perfetto contenuto in un cilindro
con pistone» è passato dallo stato A (volume minore) allo stato B (volume maggiore, stessa
pressione). Poiché l’energia interna è cambiata da UA a UB, c’è stata una variazione di energia interna
ΔU = ›9 − ›7

Figura 17: espansione isobara


quasi statica rappresentata nel
piano p- V

175
Il sistema
- ha guadagnato energia, perché ha assorbito una quantità positiva di calore Q dall’ambiente
(dal fornello),
- ha perso energia, perché ha compiuto un lavoro W positivo, spingendo verso l’alto il pistone.
Poiché l’energia si conserva, la variazione di energia interna deve essere uguale al calore assorbito
(energia in ingresso) meno il lavoro compiuto (energia in uscita):
ΔU = Q − W
* ΔU = variazione dell’energia interna (J); Q = calore assorbito (J); W = lavoro compiuto (J).
Questa espressione della conservazione dell’energia, si chiama primo principio della
termodinamica.
È una delle leggi più importanti della fisica, perché ha un ambito di validità universale: si applica
infatti a tutti i sistemi e non soltanto al gas perfetto. Inoltre non si applica al solo fenomeno di
espansione ma a tutte le trasformazioni termodinamiche, purché si tenga conto del segno delle
grandezze Q e W.

APPLICAZIONI DEL PRIMO PRINCIPIO


Facendo sempre riferimento al sistema semplice del gas perfetto, esaminiamo alcune trasformazioni
che il gas può subire.
Trasformazioni isocòre (a volume costante)
Cambiamo lentamente la temperatura del gas a volume costante. Per fare in modo che V non vari,
blocchiamo il pistone al cilindro (figura 18). Nel diagramma pressione-volume una trasformazione a
volume costante è rappresentata dal segmento AB (figura 19).
Poiché il pistone non si sposta, non c’è variazione di volume (ΔV = 0). Quindi il gas, la cui
temperatura varia di ΔT, non compie lavoro (W = 0). Il primo principio diventa
ΔU = Q

Figura 19:
Figura 18: Bloccando
trasformazione
il pistone si ottiene
isocora quasistatica
una trasformazione
rappresentata nel
isocora
piano p - V

176
In una trasformazione isocòra la variazione di energia interna del sistema è uguale alla quantità di
calore scambiato. Per una trasformazione isocòra del gas perfetto, vale la relazione
ℓ ℓ ℓ ℓ
Q = ΔU = ›" − ›' = "
0’9" − "
0’9' = " 0’(9" − 9' ) = "
0’ΔT
Trasformazioni isòbare (a pressione costante)
Cambiamo lentamente la temperatura del gas a pressione costante. Per non fare variare p, manteniamo
gli stessi pesetti sul pistone (figura 20). Nel diagramma pressione-volume una trasformazione a
pressione co- stante è rappresentata dal segmento CD (figura 21). Il lavoro compiuto durante una
trasformazione isòbara è W = pΔV. In questo caso il primo principio diventa:
ΔU + pΔV = Q

Figura 20: Mantenendo Figura 21: Trasformazione


invariato il peso sul pistone isobara quasistatica nel
si ottiene una trasformazione piano p - V
isobara

Il calore assorbito durante una trasformazione isòbara serve in parte per aumentare la temperatura del
sistema (aumenta U) e in parte per compiere lavoro.
Consideriamo una trasformazione isòbara (alla pressione p) di un gas perfetto che contiene n moli e
che passa dallo stato iniziale con volume V1 e temperatura T1 allo stato finale con volume V2 e
temperatura T2. Per l’equazione di stato del gas perfetto valgono le relazioni
a‡' = 0’9' 2 a‡" = 0’9"
Quindi possiamo calcolare
a∆‡ = a(‡" − ‡' ) = a‡" − a‡' = 0’9" − 0’9' = 0’( 9" − 9' ) = 0’∆9
Trasformazioni isoterme (a temperatura costante)
Manteniamo costante la temperatura del gas immergendo il cilindro in una vasca che contiene un
liquido alla temperatura voluta. Se la vasca è abbastanza grande, il liquido praticamente non cambia
temperatura quando scambia calore con il gas (figura 22). Cambiamo lentamente il volume del gas
modificando poco alla volta la quantità di sabbia che si trova sul pistone.

Figura 22: Mantenendo il


sistema a contatto con un corpo
a temperatura costante si ottiene
una trasformazione isoterma

Nel diagramma pressione-volume una trasformazione a temperatura costante del gas perfetto è
rappresentata dall’arco di iperbole EF (figura 23).

177
Figura 23: Trasformazione
isoterma quasistatica del gas
perfetto rappresentata nel piano
p-V


Ricorda che l’energia interna del gas perfetto è U = " 0’9
Durante una trasformazione isoterma T è costante e quindi anche U non cambia. Perciò si ha ΔU = 0
e il primo principio della termodinamica assume la forma
0=Q–W à Q=W
In una trasformazione isoterma del gas perfetto il calore assorbito è uguale al lavoro compiuto.
Trasformazioni cicliche
Al termine di una trasformazione ciclica il calore totale assorbito è uguale al lavoro totale
compiuto.

MACCHINE TERMICHE
Abbiamo visto nel capitolo precedente che l’espansione di un gas, contenuto in un cilindro con un
pistone mobile, può produrre lavoro. Vogliamo vedere come è possibile sfruttare questo fenomeno
per costruire una macchina termica, cioè un dispositivo capace di trasformare calore in lavoro.
- Per prima cosa possiamo scaldare il gas grazie al calore che proviene da una sorgente calda.
Allora il gas si dilata, spinge in alto lo stantuffo e compie lavoro.

- Però ora la «macchina», con lo stantuffo a fine corsa, non serve più a nulla. Per poterla
riutilizzare dobbiamo riportare lo stantuffo al punto di partenza.

Possiamo compiere un lavoro sul gas fino a comprimerlo nel volume che occupava all’inizio. Ma la
conservazione dell’energia assicura che, per farlo, utilizzeremmo una quantità di energia almeno pari
a quella che abbiamo ottenuto dall’espansione del pistone. Così l’utilizzo del motore non ci sarebbe
di alcun vantaggio.
In alternativa, possiamo ottenere la compressione del gas mettendolo in contatto con una sorgente
fredda (per esempio, dell’acqua fredda), che ne abbassi la temperatura. Grazie a questa compressione,

178
il pistone ritorna all’inizio della sua corsa e la macchina è pronta a funzionare di nuovo. Per poter
continuare a funzionare, la macchina termica deve ritornare al punto di partenza eseguendo delle
trasformazioni cicliche.
Una macchina termica è un dispositivo che realizza una serie di trasformazioni cicliche.
Un’antica macchina vapore funzionava sulla base di questo principio.
- L’acqua contenuta in un serbatoio si trasforma in vapore grazie al calore dalla sorgente calda.

- Il vapore sotto pressione spinge i pistoni che, a loro volta, comunicano il movimento alle
ruote.

- Il vapore ritorna liquido in un condensatore raffreddato dalla sorgente fredda; così il ciclo si
chiude e poi ricominciare.

Il bilancio energetico di una macchina termica


Per realizzare una macchina termica, servono almeno due sorgenti di calore. Nel seguito indicheremo
con:
- T2 la temperatura della sorgente calda;
- T1 la temperatura della sorgente fredda;
- Q2 il calore (positivo) che la macchina termica assorbe dalla sorgente calda in un ciclo;
- Q1 il calore (negativo) che la macchina termica cede alla sorgente fredda in un ciclo;
- W il lavoro compiuto dalla macchina termica in un ciclo.
Per una trasformazione ciclica, vale la proprietà Q = W, dove Q indica il calore totale scambiato nel
corso della trasformazione. Nel caso che stiamo considerando, con due scambi di calore, questa
formula diventa
® = ¦" + ¦' = ¦" − |¦' |
Il segno meno che si trova davanti a |Q1| dice che non tutto il calore Q2 assorbito dalla sorgente calda
è trasformato in lavoro.

179
In termodinamica, si chiama sorgente ideale di calore un sistema fisico capace di mantenere una
temperatura fissata qualunque sia la quantità di calore che esso cede o acquista.
Un simile dispositivo non esiste in pratica. Però è possibile costruire apparati speri- mentali che si
comportano con buona approssimazione come sorgenti di calore ideali.
Non è un caso che lo studio della termodinamica fiorì proprio in concomitanza con l’apparire delle
prime macchine a vapore durante la rivoluzione industriale. Era quindi necessario comprendere i
principi di funzionamento delle macchine termiche.
Sulla scorta di quanto visto precedentemente, una macchina termica funziona seguendo un ciclo
termico, assorbendo calore a una temperatura T2, compiendo lavoro sull’ambiente esterno e cedendo
calore a una sorgente a temperatura T1 < T2. Il tutto avviene in modo ciclico.
Una macchina termica qualsiasi e schematizzabile secondo il diagramma seguente

Sorgente a temperatura calda

Lavoro compiuto sull’ambiente esterno

Sorgente a temperatura fredda

È proprio in questo ambito che nasce il secondo principio della termodinamica. Classicamente, si
hanno due enunciati:
1. Enunciato di Clausius (1822,1888);
2. Enunciato di Lord Kelvin (1824,1907) al secolo di William Thomson.
2° PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Enunciato di Clausius

Non esiste una macchina termica il cui unico risultato è il


trasferimento di calore da una sorgente a temperatura più fredda a
una sorgente a temperatura più calda.
Schematicamente possiamo rappresentare questo enunciato nel modo
illustrato in figura, dove la croce implica la non esistenza della
macchina descritta.
Se esistesse una macchina si fatta, i vostri frigoriferi funzionerebbero
senza corrente!

180
Due anni prima di lord Kelvin, il fisico tedesco Rudolf Clausius (1822-1888) aveva proposto come
secondo principio della termodinamica la seguente affermazione:
Enunciato di Clausius del secondo principio della termodinamica: È impossibile realizzare una
trasformazione il cui unico risultato sia quello di fare passare calore da un corpo più freddo a uno più
caldo.

I frigoriferi sono dispositivi che provocano un passaggio di calore da un corpo più freddo (l’interno
del frigorifero) a uno più caldo (l’ambiente in cui il frigorifero si trova); ma questo non è l’unico
risultato della trasformazione, perché si ha anche un lavoro esterno W(e) , positivo, fatto sul sistema.
L’esistenza di tale lavoro è testimoniata dal fatto che, per funzionare, il frigorifero ha bisogno di
energia elettrica.
- Questo fenomeno è permesso dall’enunciato di Clausius: un lavoro esterno provoca il
passaggio di calore da un corpo a temperatura T1 a un altro corpo a temperatura T2 > T1.

- Ciò che l’enunciato di Clausius proibisce è il passaggio spontaneo, senza altri effetti, del
calore da un corpo a temperatura inferiore verso un altro a temperatura superiore.

Gli enunciati di lord Kelvin e di Clausius esprimono con parole diverse lo stesso contenuto fisico.
Dimostriamo infatti che essi sono logicamente equivalenti: se uno dei due fosse falso, sarebbe
necessariamente falso anche l’altro.
Quindi esiste un solo secondo principio della termodinamica, che può essere espresso sia mediante
l’enunciato di lord Kelvin, sia mediante l’enunciato di Clausius.

Enunciato di Lord Kelvin

Non esiste una macchina termica il cui unico


risultato è quello di assorbire calore da un’unica
sorgente per trasformare lo stesso integralmente in
lavoro.
Schematicamente l’enunciato di Lord Kelvin può
essere rappresentato come in figura, così come fatto
sopra.
Pertanto, una macchina termica deve
necessariamente cedere del calore a una sorgente a
temperatura T1 < T2

181
Questi due enunciati sono equivalenti, cosicché possiamo utilizzare l’uno o l’altro in modo
indifferente per caratterizzare il funzionamento delle macchine termiche. Notiamo, infine, che il
secondo principio della termodinamica è espresso in modo tale da escludere una determinata classe
di macchine termiche dal novero delle macchine termiche che possono essere realizzate.

Abbiamo visto che è possibile ottenere lavoro dall’espansione di un gas ma che, per potere riutilizzare
il dispositivo, è necessario poi raffreddare il sistema fino a riportare il pistone mobile nella posizione
di partenza.
In questo modo, inevitabilmente una parte dell’energia assorbita dalla macchina termica viene
trasferita alla sorgente fredda e, quindi, non contribuisce a produrre lavoro.
Il fisico britannico William Thomson (1824-1907), nominato dalla regina Vittoria lord Kelvin, scelse
questo risultato sperimentale come secondo principio della termodinamica, che si affianca al primo
principio.
Enunciato di lord Kelvin del secondo principio della termodinamica: È impossibile realizzare
una trasformazione il cui unico risultato sia quello di assorbire una determinata quantità di calore da
un’unica sorgente e trasformarla integralmente in lavoro.
- Quindi non è possibile costruire una macchina termica che assorba una quantità di calore Q
da una sorgente e che compia, come unico effetto, un lavoro W = Q.

- Una macchina termica assorbe in- vece dalla sorgente calda una quantità di calore Q2,
compiendo un lavoro W < Q2 e cedendo l’energia rimanente alla sorgente fredda.

In un’espansione isoterma del gas perfetto il sistema compie un lavoro W che è uguale al calore
assorbito Q (Q = W). Ma questo non è in contraddizione con l’enunciato di lord Kelvin perché la
produzione di lavoro non è l’unico risultato della trasformazione: è anche aumentato il volume
occupato dal gas.
Per cancellare questo secondo risultato indesiderato, cioè per poter utilizzare ciclicamente
l’espansione del gas in modo da ottenere altro lavoro, occorre che il sistema ceda calore alla sorgente
fredda (e, quindi, per funzionare la macchina termica ha bisogno di una seconda sorgente di calore).
Se non valesse il secondo principio della termodinamica, il mondo sarebbe molto diverso da come lo
conosciamo: per esempio, sarebbe possibile prelevare energia dall’acqua di mare (considerata come
sorgente di calore) abbassandone la temperatura.

Terzo enunciato: il rendimento


Una macchina termica:
- preleva una quantità di calore Q2 dalla sorgente calda;
- compie un lavoro W < Q2;

182
- per concludere il ciclo di funzionamento, cioè dalla sorgente fredda la parte di calore restante.
Per indicare qual è la “qualità” della macchina termica, cioè l’efficienza con la quale essa è capace di
convertire calore in lavoro, definiamo una nuova grandezza termodinamica, il rendimento Ÿ.
Il rendimento di una macchina termica è dato dal rapporto tra il lavoro totale W prodotto dalla
macchina in un ciclo e la quantità di calore Q2 che, in un ciclo, la macchina preleva alla sorgente
calda.
®
Ÿ=
¦"
* Ÿ = rendimento; ® = lavoro in un ciclo (J); ¦" = calore assorbito in un ciclo (J)
Per una macchina termica che funziona con due sorgenti di calore, la formula
® = ¦" + ¦' = ¦" − |¦' |
stabilisce che W = Q2 - |Q1|. Sostituendo questa uguaglianza nella definizione precedente otteniamo
¦" − |¦' | |¦' |
Ÿ= =1−
¦" ¦"
Il terzo enunciato del secondo principio della termodinamica
Siccome dal punto di vista matematico vale la relazione |Q1| ≤ Q2, il rendimento di una macchina
termica è compreso tra 0 e 1, estremi inclusi. Però l’enunciato di lord Kelvin del secondo principio
della termodinamica si può riassumere nella condizione
Q1 ≠ 0
Di conseguenza, dal punto di vista fisico, la frazione |Q1|/Q2 non può essere uguale a zero e il
rendimento della macchina termica non può raggiungere il valore Ÿ = 1. Abbiamo quindi un terzo
modo per enunciare il secondo principio della termodinamica:
0≤Ÿ<1
Terzo enunciato del secondo principio della termodinamica: è impossibile progettare una macchina
termica che abbia rendimento uguale a 1.

Il quarto enunciato del secondo principio. È IN PIÙ


Un sistema isolato si trova in uno stato iniziale A (che non è di equilibrio termodinamico) e viene
lasciato libero di evolvere nel tempo. Vogliamo prevedere quale sarà il nuovo stato di equilibrio B a
cui esso si porterà. In generale, il primo principio della termodinamica non basta, da solo, a definire
quale sarà lo stato finale di equilibrio del sistema.
Per esempio, se un oggetto
- si mette da solo in moto con energia cinetica K;
- contemporaneamente si raffredda in modo da avere una diminuzione di energia interna Δ› =
−:
il principio di conservazione dell’energia è rispettato. Eppure, un fenomeno di questo genere non
avviene mai.
In generale, per un sistema che evolve a partire da uno stato iniziale A,
- esistono vari stati finali con la stessa energia di A e che, quindi, rispettano la conservazione
dell’energia

183
- A ognuno di questi finali Bi corri- sponde una variazione di entropia ΔSi = S(Bi) - S(A).

Se il valore di ΔSi è negativo, non è possibile arrivare allo stato Bi partendo dallo stato A. Ma vi
possono essere ancora molti (o infiniti) possibili stati finali Bi a cui corrisponde un ΔSi ≥ 0. Sia
l’esperimento che la teoria mostrano che, tra tutti questi, lo stato finale B che vedremo realizzarsi
spontaneamente è quello a cui corrisponde il massimo aumento dell’entropia.
Questo è un altro modo (il quarto) di enunciare il secondo principio della termodinamica:
l’evoluzione spontanea di un sistema isolato giunge a uno stato di equilibrio a cui corrisponde il
massimo aumento dell’entropia (compatibile con il rispetto del primo principio della termodinamica).

FINE DELLA COSA IN PIÙ


TRASFORMAZIONI REVERSIBILI E IRREVERSIBILI

Una trasformazione reversibile che ci porta dallo stato termodinamico A allo stato B è detta
reversibile se è possibile, una volta giunti nello stato B, riportare il sistema di nuovo nello stato A,
passando per gli stessi stati toccati dal sistema nell’andare da A a B.
Una trasformazione reversibile è indicata con una linea dritta, mentre una trasformazione
irreversibile è indicata con una linea a zig-zag, così come in figura. Ovviamente, qualsiasi
trasformazione non reversibile e detta irreversibile.
Una macchina termica è detta reversibile se funziona seguendo un ciclo termico formato da
trasformazioni reversibili. In questo modo è possibile far funzionare una macchina termica
reversibile, seguendo un ciclo inverso.

184
Macchina termica Macchina frigorigena

Pertanto facendo funzionare l’inverso una macchina termica, così come in figura, otteniamo una
macchina frigorigena.
- mostriamo a una persona il filmato di un fenomeno meccanico semplice, come l’urto tra due
biglie su un tavolo di biliardo.

- Proiettiamo il filmato all’indietro. Chi non ha visto il fenomeno originale, non sa dire quale
tra i due eventi sia avvenuto in realtà.

C’è un altro modo per esprimere questo fatto: se, dopo l’urto tra le due biglie, potessimo invertire
esattamente i loro vettori velocità, esse si urterebbero in maniera simmetrica rispetto a prima e
tornerebbero esattamente nelle loro posizioni di partenza.
Tutto ciò si riassume dicendo che il fenomeno che abbiamo descritto è reversibile dal punto di vista
meccanico.
I fenomeni termici spontanei sono molto più complessi del semplice urto di due biglie e, proprio per
questa ragione, non sono mai reversibili.
Il processo di riscaldamento mediante combustione è non reversibile (cioè è irreversibile). Allo
stesso modo, sono irreversibili i fenomeni della vita quotidiana e tutte le macchine termiche reali: i
motori a combustione interna, le centrali termoelettriche, i motori a razzo eccetera.
Le trasformazioni termodinamiche reversibili
Una trasformazione è reversibile se è possibile riportare sia il sistema, sia l’ambiente esterno nello
stato iniziale, ripercorrendo la trasformazione a ritroso.
Per realizzare una trasformazione reversibile devono essere soddisfatte tre condizioni:

185
1. la trasformazione deve essere quasistatica;
2. non vi devono essere attriti;
3. il sistema deve scambiare calore soltanto con sorgenti ideali di calore. Esaminiamo queste tre
condizioni una alla volta.
IL TEOREMA DI CARNOT
Tra i sistemi termodinamici che eseguono trasformazioni reversibili, come caso particolare troviamo
le macchine termiche reversibili.
Una macchina reversibile è un dispositivo che compie una trasformazione ciclica reversibile. Se tale
trasformazione è composta di più fasi, ognuna di esse deve essere una trasformazione reversibile.
Enunciato del teorema di Carnot
Consideriamo due macchine termiche, una reversibile R e una qualunque S, che lavorano tra le stesse
due temperature.
Il teorema di Carnot stabilisce che il rendimento ŸR della macchina reversibile è sempre maggiore o
uguale del rendimento ŸS dell’altra macchina, e i due rendimenti sono uguali soltanto se anche la
macchina S è reversibile.
Il teorema è quindi espresso dalla formula ²R ≥ ²S (6)
Dimostrazione del teorema di Carnot
Scriviamo i rendimenti ²R e ²S come
çã) 7 ç çã) 8 ç
ŸR = 1 − ã" 7 e ŸS = 1 − ã" 8
(7)
dove Q1R e Q2R sono le quantità di calore che la macchina R scambia, rispettivamente, con la sorgente
fredda e con quella calda. QS1 e QS2 sono le corrispondenti quantità relative alla macchina S.
- I lavori WR e WS compiuti dalle due macchine sono à WR = Q2R - ”¦' i ” e WS = QS2 - ”¦' i ”
(8)
- Ora ammettiamo, per assurdo, che la (6) non sia vera. In tal caso risulta ² R < ² S
(9)
Sostituendo in tale espressione le formule (7), ricaviamo
çã) 7 ç çã) 8 ç çã) 7 ç çã) 8 ç
1− ã" 7 <1− ã" 8 à ã" 7 − ã" 8
>0
(10)
- A questo punto regoliamo il funzionamento della macchina R in modo che essa riceva la stessa
quantità di calore S
¦" i = ¦" i
- In queste condizioni i denominatori della disequazione (10) sono uguali, per cui possiamo
scrivere:

”¦' i ” − ”¦' i ” > 0 (11)


- Approfittiamo del fatto che la macchina R è reversibile per farla funzionare in senso inverso.
In questo modo otteniamo la macchina - R, che compie il lavoro W-R = - WR
- Consideriamo ora la macchina composta S - R, costituita da un ciclo della macchina S seguito
da un ciclo della macchina - R. La macchina S - R produce un lavoro W S - R che, per la formula
(8) è pari a
W S – R = ® i + ® /i = ® i − ® i = ¦" i − ”¦' i ” − ‘¦" i − ”¦' i ”’ = ”¦' i ” − ”¦' i ”
Per la formula (11), tale lavoro è positivo, cioè lavoro utilizzabile in pratica.
Ma la sorgente di calore alla temperatura T2 è rimasta inalterata (figura 5), visto che ha ceduto alla
macchina S il calore QS2 e poi ha ricevuto la stessa quantità di calore dalla macchina - R.

186
Figura 5: diagramma degli
scambi di energia nella
macchina S -R

Ne consegue che, se fosse vera la condizione (9), la macchina S - R sarebbe in grado di compiere il
lavoro positivo W S - R a spese di una sola sorgente di calore (quella alla temperatura T1).
Ma ciò è in contraddizione con l’enunciato di lord Kelvin del secondo principio della termodinamica.
Quindi la disuguaglianza ŸR < ŸS è falsa, per cui la (6) è vera.
IL CICLO DI CARNOT
La trasformazione ciclica fu inventata da Carnot come esempio di macchina reversibile che funziona
con due sole sorgenti di calore ed è detta macchina di Carnot.
Il ciclo di Carnot è costituito da quattro fasi consecutive: un’espansione isoterma, un’espansione
adiabatica, una compressione isoterma e una compressione adiabatica.
Consideriamo un cilindro munito di pistone a tenuta e riempito di gas perfetto. All’inizio del ciclo il
sistema si trova nello stato A, alla temperatura T2. A partire da questo stato si susseguono le quattro
fasi del ciclo.
- Espansione isoterma AB: il gas si espande perché diminuiamo poco alla volta il peso sul
pistone. La sorgente con T = T2 mantiene costante la temperatura del gas.

- Durante l’espansione isoterma AB il gas compie un lavoro positivo WAB e tenderebbe a


raffreddarsi. Per mantenere la temperatura costante, il sistema assorbe dalla sorgente a
temperatura T2 il calore
Q2 = WAB
- Espansione adiabatica BC: continua l’espansione, ma ora il pistone è isolato e non scambia
calore con l’ambiente. La temperatura diminuisce fino al valore T1.

- Durante l’espansione adiabatica BC il gas compie il lavoro positivo WBC e diminuisce la


propria temperatura da T2 a T1.
- Compressioni isoterma CD: il gas è compresso perché aumentiamo, poco alla volta, il peso
sul pistone. La sorgente con T = T1 mantiene costante la temperatura del gas.

187
- Durante la compressione isoterma CD il gas compie un lavoro negativo WCD e tenderebbe a
scaldarsi. Per mantenere la temperatura costante, il sistema cede alla sorgente a temperatura
T1 il calore Q1 = WCD.

- Compressione adiabatica DA: isoliamo di nuovo il cilindro e continuiamo la compressione


fino a riportare il sistema in A. La temperatura aumenta e ritorna al valore T2.

- Durante la compressione adiabatica DA il gas compie il lavoro negativo WDA e aumenta la


propria temperatura da T1 a T2; così il sistema ritorna nello stato iniziale.

Alla fine del ciclo, la macchina ha compiuto un lavoro


W = Q2 - |Q1|
che è anche uguale all’area della parte di piano che, nelle figure precedenti, è racchiusa dal grafico
che rappresenta la trasformazione ciclica.

Il rendimento della macchina di carnot


Consideriamo una macchina di Carnot che lavora tra le temperature T1 e T2. Il rendimento di
qualunque macchina che utilizza soltanto due sorgenti di calore è dato dalla formula
|¶k |
²=•−
¶l
dove Q1 e Q2 sono i calori scambiati dalla macchina di Carnot con le due sorgenti. Il rendimento della
macchina di Carnot a gas perfetto può essere calcolato e risulta

¤k
²=•−
¤l
* Ÿ = rendimento (numero puro); 9' = temperatura della sorgente fredda (K); 9" =
temperatura della sorgente calda (K);
Per il teorema di Carnot, questa formula ha una doppia importanza:
- fornisce non soltanto il rendimento della macchina di Carnot a gas perfetto, ma di qualunque
macchina reversibile che lavora tra le temperature T1 e T2;

188
- nessuna macchina termica reale (cioè non reversibile) che lavora tra le temperature T1 e T2,
comunque sia progettata e costruita, può avere un rendimento maggiore di quello dato dalla
formula.

Consideriamo il ciclo in figura formata da due isoterme,


AB e CD, e da due adiabatiche, BC e DA. Tale ciclo è
denominato ciclo di Carnot. La macchina termica che
funziona in base a questo ciclo assorbe calore alla
temperatura T2 e lo cede alla temperatura T1

Elenchiamo le varie trasformazioni con i relativi valori per Q, L, ∆U


• AB à espansione isoterma (∆UAB = 0)
QAB = LAB > 0 calore assorbito
• BC à espansione adiabatica (QBC = 0)
LBC = - ∆UBC = -nCV(TC – TB) = nCV(T2 – T1)
• CD à compressione isoterma (∆UCD = 0)
QCD = LCD < 0 calore ceduto
• DA à compressione adiabatica (QBC = 0)
LDA = - ∆UDA = -nCV(TA – TD) = nCV(T2 – T1)

Calore assorbito QAB Lavoro L = QAB + QCD


Calore ceduto QCD L = QAB – |QCD|
Rendimento della macchina di Carnot:
§ ¦79 − |¦mé |
Ÿ= =
¦7ii ¦79
Abbiamo così
(¦mé ) |¦m[é |
Ÿ =1− =1−
¦79 ¦7ii
Si può dimostrare che il rendimento id una macchina di Carnot è dato dalla seguente espressione
Q
Š = 1 − Q< (1)
!

Chiamando adesso Q2 = QASS e Q1 = QCED possiamo scrivere, per la definizione stessa di rendimento
¿
Š = 1 + ¿< (2)
!

Confrontando la (1) e la (2) avremo


†1 |1 †1 †(
= − → = −
†( |( |1 |(
189
E perciò
¿< ¿!
Q<
+ Q!
=0 (3)
¿
Nel ciclo di Carnot, pertanto, questa grandezza è essa stessa una funzione di stato, in quanto il suo
Q
calcolo su di un ciclo è pari a zero (così come per ∆U). Definiamo allora
∆¿
∆S = Q
(4)

La variazione di entropia per una trasformazione reversibile in cui viene scambiato un calore ∆Q
abbastanza piccolo da poter ritenere T costante.
Tra i teoremi della termodinamica ve ne è uno di un fascino enorme, sull’entropia. Procederemo per
gradi per poter illustrare questo teorema sulla crescita dell’entropia dell’universo.
Innanzitutto dobbiamo dire che è possibile provare che la macchina di Carnot è quella di rendimento
massimo tra tutte le macchine che assorbono calore da una sorgente a temperatura T2 e lo cedono a
una sorgente a temperatura T1. Pertanto, scriviamo:
¿< X Q<
1+ ≤1− (5)
¿! X Q!
Dove Q1’ e Q2’ Sono i calori ceduti e assorbiti da una macchina termica qualsiasi. Il segno di
uguaglianza vale solo per le macchine termiche reversibili di Carlo. In questo modo si ha
¿< X ¿! X
Q<
+ Q!
≤0 (6)

Che si riduce alla (3) per una macchina di Carnot reversibile. In un ciclo, pertanto, in cui si ha almeno
una trasformazione reversibile, vale la (6) con la diseguaglianza stretta. Consideriamo adesso due
trasformazioni, una reversibile e una irreversibile che portano da A a B. Invertendo la trasformazione
reversibile, possiamo formare un ciclo termico.

In questo ciclo termico, tuttavia, esiste una trasformazione irreversibile, cosicché

†Hm (¥ää) †mH (äùØ) †Hm (¥ää) †mH (äùØ) †Hm (äùØ)
+ <0→ <− =
| | | | |
¿0= (`ab)
Ma
Q
= S(•) − S(•) = ∆SHm è la variazione di entropia da A a B. in questo modo
¿0= (d``)
S(•) − S(•) > (7)
Q
Se si immagina che la trasformazione sia adiabatica (senza scambio di calore), includendo anche le
trasformazioni reversibili, allora

190
S (• ) − S(•) ≥ 0 (8)
Dove il segno di uguale vale solo per trasformazioni reversibili
Pertanto, l’enunciato del secondo principio della termodinamica in termini dell’entropia è il seguente:
In ogni sistema isolato la variazione di entropia, qualsiasi sia la trasformazione termodinamica che
porti il sistema dallo stato A allo stato B, non può essere minore di zero. Ossia, la variazione di
entropia può essere solo maggiore o uguale a zero; il segno di uguaglianza vale solo per le
trasformazioni reversibili.
L’universo è il sistema isolato per eccellenza. Cosicché
∆SNBàeælRt ≥ 0 (9)
Per illustrare in che modo l’entropia dell’universo aumenta quando avviene una trasformazione
reversibile, consideriamo un processo termodinamico molto semplice: una certa quantità di calore Q
> 0 passa da una sorgente a temperatura T2 ad una sorgente a temperatura T1 < T2.
La variazione di entropia della sorgente a temperatura T1, che
assorbe il calore (+ Q), sarà
¿
∆S1 = + >0 (10)
Q<
La variazione di entropia della sorgente a temperatura T2, che cede
calore (– Q), sarà
¿
∆S( = − (11)
Q!
Pertanto, la variazione di entropia del sistema isolato formato dalle
due sorgenti sarà
¿ ¿
∆S = ∆S1 + ∆S( = − (12)
Q< Q!
La (12) può anche essere espressa come segue
Q! .Q<
∆S = Q< Q!
† >0 (13)

Cosicché si nota che la variazione di entropia è maggiore di zero. Non essendo più possibile, se non
spendendo lavoro, fare in modo che il calore Q torni spontaneamente nella sorgente a temperatura T2,
possiamo concludere che la crescita dell’entropia di un sistema isolato indica la direzione in cui
avvengono spontaneamente i fenomeni fisici. Nell’esempio di sopra notiamo anche come il calore Q,
una volta passato alla sorgente a temperatura più bassa, sia diventato in utilizzabile per una macchina
termica che funziona tra T1 e T2.
L’ENTROPIA
Dati due stati A e B di un sistema, scegliamo una qualunque trasformazione reversibile che fa passare
da A a B. Definiamo una nuova grandezza fisica che si chiama entropia ed è indicata con il simbolo
S.
Definizione della variazione di entropia
La variazione di entropia S(B) - S(A) di un sistema fisico che passa dallo stato A allo stato B è data
dalla formula
èã9 4á;
“(€) − “(7) = z∑à X9
{ (6)
7→9
dove la sommatoria è condotta su tutti gli scambi di calore che permettono di passare da A a B con
una trasformazione reversibile.
Si dimostra che la quantità S(B) - S(A) calcolata con la formula (6) dipende soltanto dagli stati A e
B, e non dalla particolare trasformazione che fa passare dall’uno all’altro (purché sia reversibile). Ne
consegue che
l’entropia è una funzione di stato.
191
Quindi, per calcolare la quantità S(B) - S(A) bisogna:
- scegliere una qualunque trasformazione reversibile che faccia passare da A a B;
èã
- calcolare la sommatoria di tutti gli addendi X 9 per tale trasformazione.
9
Dal secondo membro della formula (6) si riconosce che l’unità di misura dell’entropia nel sistema SI
è joule fratto kelvin (J/K).

Definizione di entropia
Come l’energia potenziale, anche l’entropia è introdotta per mezzo della sua variazione. Ciò significa
che anche il livello di zero dell’entropia, come quello dell’energia potenziale, può essere scelto in
modo arbitrario.
Scelto uno stato di riferimento R, a cui corrisponde l’entropia S(R) = 0 J/K, si può determinare
l’entropia di un altro stato C:
l’entropia S(C) di uno stato C è data dalla variazione di entropia tra lo stato R di riferimento e lo stato
C stesso.

Ciò è espresso dalle formule


èã9 4á;
S(C) = S(C) – 0 = S(C) – S(R) = z∑à X9
{ (7)
i→m
Spesso si sceglie come stato di zero dell’entropia quello in cui si trova un cristallo perfetto, costituito
da atomi identici tra loro, che si trova alla temperatura di 0 K. Con questa scelta, l’entropia di
qualunque altro stato risulta positiva.
L’entropia è una grandezza estensiva
Consideriamo un sistema termodinamico Ω che è l’unione di due sistemi indipendenti Ω1 e Ω2 cioè:
Ω = Ω1 ∪ Ω2
La proprietà associativa dell’addizione permette di dimostrare che l’entropia del sistema Ω è data
dalla somma delle entropie dei due sistemi Ω1 e Ω2 che lo compongono; quindi, l’entropia è una
grandezza estensiva.
Infatti possiamo riscrivere il valore di S(C), dato dalla formula (7), come
èã9 4á; èã9 4á; èã9 4á;
S(C) = z∑à { = z∑à { + z∑à {
X9 i→m X9 i→m X9 i→m
(8)
dove la prima sommatoria è estesa su tutti i valori di i che si riferiscono a scambi di calore con il
sottosistema Ω1 e la seconda raggruppa tutti gli scambi di calore con il sottosistema Ω2
Per definizione, la prima sommatoria è uguale all’entropia S1(C) di Ω 1, mentre la seconda dà
l’entropia S2(C) di Ω2:
èã9 4á; èã9 4á;
S1(C) = z∑à X9
{ e S2(C) = z∑à X9
{
i→m i→m

Quindi la formula (8) diventa S(C) = S1(C) + S2(C) à Ciò dimostra che l’entropia è una grandezza
estensiva.
L’entropia è una funzione di stato: dimostrazione
Consideriamo una qualunque trasformazione ciclica reversibile che passa per i due stati A e B, per
esempio quella della figura 2.

192
Figura 2: trasformazione
ciclica reversibile che
contiene gli stati A e B

- Per l’uguaglianza di Clausius, vale la relazione


- 4á;
Δ¦à
⁄¤ ‹ = 0

à
- Per la proprietà associativa dell’addizione, scriviamo la sommatoria precedente come la
somma di due contributi, il primo relativo alla trasformazione da A a B lungo il percorso 1 (in
alto nella figura) e il secondo corrispondente alla trasformazione da B ad A seguendo il
cammino 2 (in basso nella figura 2).
4á;
4á;
Δ¦à Δ¦ê
⁄¤ ‹ + ›¤ fi =0
9à 9ê
à 7→9,' ê
9→7,"
- L’equazione precedente si può riscrivere come
4á;
4á;
Δ¦à Δ¦ê
⁄¤ ‹ = − ›¤ fi =0
9à 9ê
à 7→9,' ê
9→7,"
e il segno meno al secondo membro può essere portato dentro al simbolo di sommatoria
ottenendo
4á;
4á;
Δ¦à − Δ¦ê
⁄¤ ‹ = ›¤ fi
9à 9ê
à 7→9,' ê
9→7,"
- Al secondo membro di questa equazione troviamo gli scambi di calore che per- mettono di
passare in modo reversibile da B ad A lungo il percorso 2, ma con il segno cambiato. Come
abbiamo detto nel capitolo «Il primo principio della termodinamica», queste sono le quantità
di calore
Δ¦′ê = − Δ¦ê (9)
che permettono di ottenere il percorso 2 nel senso inverso, cioè da A a B (figura 3).

Figura 3: lo scambio di una


quantità di calore di segno
opposto provoca una
trasformazione in senso inverso.

Sostituendo l’equazione (9) in quella precedente giungiamo all’uguaglianza


4á;
4á;
Δ¦à Δ¦′ê
⁄¤ ‹ = ›¤ fi
9à 9ê
à 7→9,' ê
7→9,"

193
Essa mostra che il valore della quantità
4á;
Δ¦à
⁄¤ ‹

à 7→9
è lo stesso sia quando è calcolato lungo il percorso 1, sia quando è calcolato lungo il percorso 2.
Quindi, partendo dall’uguaglianza di Clausius, abbiamo dimostrato che l’entropia è una funzione di
stato.
L’ENTROPIA DI UN SISTEMA ISOLATO
Consideriamo un sistema chiuso e isolato Ω, cioè un sistema fisico che non scambia materia ed
energia con l’esterno. Supponiamo inoltre che tale sistema sia diviso a sua volta in due sottosistemi
Ω1 e Ω2 che possono interagire. Per esempio, il sistema Ω1 è un cilindro munito di pistone a tenuta e
Ω2 è la rimanente parte di un laboratorio reale che contiene, tra l’altro, diverse sorgenti di calore
Le trasformazioni reversibili non variano l’entropia di un sistema isolato
Vogliamo ora dimostrare la seguente proprietà:
in un sistema isolato in cui hanno luogo soltanto trasformazioni reversibili l’entropia rimane costante.

Consideriamo una trasformazione reversibile (dallo stato A allo stato B) durante la quale il
sottosistema Ω1 riceve da Ω2 le quantità di calore ΔQ1, ΔQ2, ..., ΔQn. Questi scambi (alcuni positivi e
altri negativi) hanno luogo, rispettivamente, alle temperature T1, T2, ..., Tn. La formula (6) dice che,
nel corso della trasformazione, l’entropia S1 di Ω1 è cambiata della quantità
èã èã" èã* 4á; èã9 4á;
S1(B) – S1(A) = z ë ) + ë"
+ ⋯+ ë*
{ = z∑à X9
{ (10)
) 7→9
In ogni scambio il calore assorbito dal sistema Ω2 è uguale a - ΔQ1 e quindi la variazione dell’entropia
S2 di Ω2 vale
/ èã9 4á;
S2(B) – S2(A) = z∑à X9
{
7→9
Al denominatore di questa formula compaiono le stesse temperature della (10), poiché le
trasformazioni sono reversibili e, quindi, durante ogni scambio di calore le temperature dei due
sottosistemi sono uguali.
Nelle due sommatorie precedenti i termini sono uguali e opposti a due a due, per cui si cancellano
quando si calcola la variazione totale di entropia S1(B) - S1(A) + S2(B) - S2(A), che risulta quindi
uguale a zero.

Le trasformazioni irreversibili aumentano l’entropia di un sistema isolato


Ciò che abbiamo detto finora non è più vero se la trasformazione AB non è reversibile, ma è una
trasformazione reale:
in un sistema isolato in cui hanno luogo trasformazioni irreversibili l’entropia aumenta.

Ciò accade perché, in una trasformazione reale, ogni scambio di calore ΔQi avviene spontaneamente
tra corpi che hanno temperature diverse. Il sistema che acquista in modo irreversibile il calore ΔQi >
0 ha una temperatura Ta che è sempre minore della temperatura Tc del sistema che cede il calore
– ΔQi < 0.
La variazione di entropia va però calcolata lungo una trasformazione reversibile. Nel problema svolto
che si trova tra gli esercizi relativi a questo paragrafo è descritta la trasformazione che permette al
sistema a temperatura Tc di cedere in modo reversibile la quantità di calore – ΔQi al sistema che
assorbe ΔQi alla temperatura inferiore Ta. Allora la variazione di entropia ΔSi relativa a questo
scambio di calore, si calcola con la formula (6):
èã / èã èã èã
ΔSa = X 9 + X 9 = X 9 − X 9 > 0
: ; : ;
ed è sempre maggiore di zero dato che Ta < Tc.

194
Sommando molti termini positivi, relativi a tutti gli scambi di calore Δ¦à necessari per compiere le
trasformazioni irreversibili, che avvengono tra i due sottosistemi che scambiano calore, si ottiene una
variazione totale di entropia che è sempre positiva.
L’entropia aumenta nel caso di scambi di calore ma anche quando l’energia in transito è lavoro e non
calore.

L’entropia dell’universo
Ogni trasformazione che avviene in un sistema isolato provoca in esso una variazione di entropia che
è maggiore o uguale a zero (uguale a zero se e soltanto se la trasformazione è reversibile).
Un particolare sistema isolato l’Universo nel suo insieme. Visto che in esso avvengono
continuamente trasformazioni termodinamiche non reversibili, la sua entropia aumenta in modo
incessante.
Si instaura così un interessante parallelismo tra il crescere dell’entropia e la freccia del tempo, cioè il
verso invariabile in cui il tempo scorre: sulla base del secondo principio della termodinamica, il tempo
scorre sempre nel verso a cui corrisponde un aumento dell’entropia.

LE ONDE di Fabiana J
Una goccia di pioggia che cade su una pozzanghera genera un’increspatura circolare che si allarga
sempre più. Osservando tale fenomeno, possiamo notare due moti distinti.
- La perturbazione si muove verso l’esterno in orizzontale

- Un tappo, che galleggia sull’acqua, si sposta su e giù in verticale

Come accade al tappo, anche le molecole dell’acqua oscillano in su e in giù, ma non si spostano verso
l’esterno. Quindi, l’onda non trasporta materia, perché le molecole rimangono dove sono. Invece,

195
l’onda trasporta energia, cioè la capacità di mettere in movimento molecole d’acqua sempre più
lontane.
Un’onda è una perturbazione che si propaga trasportando energia e non materia.
Al contrario un proiettile, che è sparato da una pistola e si conficca in una tavola di legno, trasporta
sia materia sia energia.
Nel nostro esempio, l’acqua è il mezzo materiale in cui si propaga, mentre la goccia che cade è la
sorgente dell’onda.
Si propagano mediante l’onda anche il suono, la luce, i segnali radio e i terremoti.
Onde trasversali e longitudinali.
Spostiamo rapidamente avanti e indietro l’estremità di una molla: le spire prima si avvicinano, poi si
allontanano, per poi tornare nella posizione iniziale.
La perturbazione si propaga in direzione orizzontale, verso destra, lungo la molla.

Ogni spira oscilla prima a destra, poi a sinistra e infine torna


nella posizione iniziale. Il punto P della figura ha proprio
questo moto. Abbiamo creato un’onda che avanza lungo la
molla. In questo caso, il moto dei singoli elementi è
parallelo a quello complessivo dell’onda e non
perpendicolare, come accadeva nelle onde sull’acqua e lungo
la corda.
Questo tipo di onda si chiama onda longitudinale, perché gli
elementi oscillano parallelamente alla direzione di
propagazione dell’energia.

Un’onda è :
- Trasversale quando gli elementi del mezzo materiale si spostano perpendicolarmente al moto
dell’onda.
- Longitudinale quando gli elementi del mezzo materiale si spostano parallelamente al moto
dell’onda.

Figura 3: confronto tra un’onda trasversale e un’onda


longitudinale.
Nella molla possono propagarsi onde longitudinali, se
muoviamo l’estremità avanti e indietro, se muoviamo
l’estremità perpendicolarmente alla molla. Le onde
sismiche sono sia longitudinali sia trasversali, mentre
quelle sonore sono soltanto longitudinali.
Vari tipi di onde
Le onde che si propagano su una corda, in una sbarra d’acciaio, nell’aria sono esempi di onde
elastiche.
Un’onda elastica è un’onda che si propaga grazie alle proprietà elastiche del mezzo materiale che le
fa da supporto.
FRONTI D’ONDA E RAGGI
Le onde si possono propagare in un mezzo unidimensionale (come una corda), in un mezzo
bidimensionale (come la membrana di un tamburo) e anche nello spazio tridimensionale, come accade

196
alle onde sonore nell’aria. Se facciamo scoppiare un petardo, la grandezza che oscilla è la pressione
di un volumetto d’aria; l’onda acustica si propaga radialmente in tutte le direzioni. Tutti i punti che
si trovano a distanza r dallo scoppio sono investiti dall’onda nello stesso istante e formano un fronte
d’onda.
Si chiama fronte d’onda l’insieme di tutti i punti in cui la grandezza oscillante ha lo stesso valore.

Figura 5: fronti d’onda circolari dell’onda sonora generata


dall’esplosione di un petardo.
l’onda sonora generata dal petardo è un’onda sferica, perché i
suoi fronti d’onda hanno la forma sferica. l’onda sulla
superficie di una pozzanghera ha fronti d’onda circolari. Le
onde piane, come quelle che si propagano sull’acqua hanno
fronti d’onda che sono porzioni di piano.

I raggi dell’onda sono le rette perpendicolari ai fronti d’onda


- In un’onda circolare i raggi sono semirette che escono dalla sorgente dell’onda

- In un’onda piana i raggi sono segmenti di retta paralleli tra loro.

Si dice periodica un’onda che si ripete identica dopo un intervallo di tempo costante.
In un’onda periodica:
- La lunghezza d’onda à è la minima distanza dopo la quale un’onda periodica torna a
riprodursi identica a se stessa

- L’ampiezza dell’onda periodica è la differenza tra il valore massimo della grandezza che
oscilla e il valore di equilibrio.

197
Il periodo e la frequenza
Osserviamo come si muove un punto della corda, man mano che passa il tempo: il punto oscilla in su
e in giù, mentre l’onda si sposta in orizzontale.
Il periodo T dell’onda periodica è l’intervallo di tempo che un punto del mezzo materiale impiega a
compiere una oscillazione completa.
La frequenza f (la frequenza o la scriviamo con la f o con la Ä che si legge nu) è il numero di
oscillazioni che l’onda descrive nell’unità di tempo, cioè in 1 s.
1
f=Q
-1
Dal momento che il periodo si misura in secondi, la frequenza si misura in (secondi) , cioè hertz
(Hz).
La velocità di propagazione
Nell’intervallo di tempo di un periodo l’onda percorre la distanza di una lunghezza d’onda. Quindi
l’onda periodica si propaga alla velocità

v=‡

L’ACUSTICA
Le onde sonore sono perturbazioni del mezzo attraverso il quale esse propagano. Esse apportano una
variazione di pressione locale e viaggiano ad una velocità
ˆ
t= Q
(1)
Dove ’ è la lunghezza d’onda e T è il periodo. La velocità del suono in aria e circa v = 343 m/s.

Il suono è rappresentato da
un’onda longitudinale

ESPRESSIONE MATEMATICA DI UN’ONDA

Fotografia dell’onda a t = 0s
∆p = ∆p0 sinkx

• Onda progressiva à ∆p = ∆p0 sin(kx – wt)


198
• Onda regressiva à ∆p = ∆p0 sin(kx + wt)
Notiamo che la funzione seno è periodica di 2π, cosicché
P’ = 2“
E perciò

P= (2)
ˆ
A x = 0 avremo ∆p = ∆p0 sinwt. Per la stessa ragione di prima wt = 2π
E perciò
2h
w = ‰
(3)
¥
Avremo allora che w k = v. definendo adesso ” ({c ) = (frequenza) si avrà
Q
’” = t (4)
*la prima è nu e la seconda è v
INTERFERENZA
Cosa accade quando due o più onde si propagano contemporaneamente nello stesso mezzo materiale?
Il principio di sovrapposizione
Quando ascoltiamo la musica prodotta dalle casse acustiche dello stereo, due complesse onde sonore,
generate dagli altoparlanti delle casse, si propagano nell’aria della stanza. L’esperienza dice che il
suono che noi percepiamo è la sovrapposizione delle onde prodotte dagli altoparlanti: nessuna delle
due onde sonore è modificata dal fatto che un’altra onda “viaggia” nello stesso volume d’aria. Lo
stesso accade quando si incontrano due fasci laser: la luce di ciascun fascio procede indisturbata dopo
aver attraversato l’altro fascio.
In entrambi gli esempi, le onde rispettano il principio di sovrapposizione.
Principio di sovrapposizione: due o più onde che si propagano nello stesso mezzo generano una
perturbazione che è la somma delle perturbazioni che ciascuna onda produrrebbe da sola.
Interferenza di onde
Due o più onde che si sovrappongono nello stesso mezzo materiale danno origine al fenomeno
dell’interferenza.
Come esempio di interferenza tra onde consideriamo la figura 12, dove si vedono due onde trasversali
(non periodiche) che si propagano su una corda in versi opposti. Le due onde, quando si
sovrappongono, provocano uno spostamento verso l’alto della corda che è maggiore dei singoli
spostamenti dovuti alle due onde (i singoli spostamenti sono disegnati in grigio nel “fotogramma”
centrale). È questo un esempio di interferenza costruttiva.
Si ha interferenza costruttiva quando gli effetti di due o più onde si rafforzano a vicenda; nel caso
opposto si ha interferenza distruttiva.
Le condizioni per l’interferenza costruttiva e distruttiva
Considera il punto P rappresentato nella figura 13: esso dista 4λ dalla sorgente S1 e 3λ dalla sorgente
S2, cioè si ha ::::: :::::
“' *= 4λ e “ " * = 3λ . Ciò significa che le due onde arrivano in P sempre in fase (massimo
con massimo e minimo con minimo) e che, quindi, in P si ha interferenza costruttiva.
Le distanze del punto P della figura dalle due sorgenti differiscono per una lunghezza d’onda; ma
questa non è l’unica maniera per realizzare la condizione di interferenza costruttiva:
due sorgenti identiche danno interferenza costruttiva nei punti P per i quali la differenza delle distanze
dalle sorgenti è uguale a un multiplo intero della lunghezza d’onda.

199
Figura 13: le distanze S1 e S2
da P differiscono di una
lunghezza d’onda: in P si ha
interferenza costruttiva.

:::::
“' * − “:::::
" * = Šλ
*“:::::
' * = distanza punto-sorgente 1 (m); :::::
“ " * = distanza punto-sorgente 2 (m); k = numero intero
relativo; λ = lunghezza d’onda (m)
Il numero intero k può anche essere negativo, perché la distanza “ ::::: :::::
' * può essere minore di “" *
)
Il punto Q della figura 14 ha :::::
“' ¦ = 4λ e :::::
“" ¦ = " λ ; in Q si ha interferenza distruttiva perché un
massimo di S1 arriva sempre insieme a un minimo di S2 e viceversa.

Figura 14: le distanze S1 e S2


da Q differiscono di mezza
lunghezza d’onda: in Q si ha
interferenza distruttiva.

Due sorgenti identiche danno interferenza distruttiva nei punti Q per i quali la differenza delle
distanze dalle sorgenti è uguale a un multiplo intero della lunghezza d’onda, più mezza lunghezza
d’onda.
1
:::::
“' ¦ − “ :::::
" ¦ = Šλ + λ
2
:::::
*“ ' ¦ = distanza punto-sorgente 1 (m); :::::
“ " ¦ = distanza punto-sorgente 2 (m); k = numero intero
'
relativo; " λ = lunghezza d’onda (m)

INTERFERENZA TRA DUE ONDE VIAGGIANTI


Consideriamo due onde viaggianti della stessa frequenza e della stessa ampiezza, ma che differiscono
in fase, cosicché
∆p1 = ∆p0 sin(kx – wt) (5a)
∆p2 = ∆p0 sin(kx – w + f) (5b)
Dove f è la differenza tra due onde.
Per avere la variazione di pressione per l’onda risultante possiamo scrivere
∆p = ∆p1 + ∆p2 = ∆p0 [sin(kx – wt) + sin(kx – w + f)] (6)
Sappiamo che sin(a + b) = sina cosb + sinb cosa
sin(a – b) = sina cosb – sinb cosa
sin(a + b) + sin(a – b) = 2 sina cosb
!+# !/#
Ponendo x = a + b e y = a – b, ossia a = "
2 b = "
!+# !/#
Si ha J/0r + J/0( = 2 J/0 z "
{ ,-J z "
{
E perciò la (6) si scriverà come segue:
f
∆p = 2∆p0 cos f sin(kx – w + () (7)

200
Questa espressione definisce un’onda sinusoidale di ampiezza A = 2∆p0 cosf. Notiamo che, se cosf
= 0, si ha ∆p = 0 su tutto l’asse x e per ogni tempo t. ossia, le due onde interferiscono
distruttivamente, se
(B$1
f = (
# à n = 0, ±1, ±2 …
Notiamo ancora che, se cosf = 0, si ha ∆p = 2∆p0. Ossia, le due onde interferiscono costruttivamente
per
f = 2)# à n = 0, ±1, ±2 …
Sono proprio le onde che interferiscono costruttivamente che danno luogo ai fenomeni sonori
gradevoli all’orecchio negli strumenti musicali.

STRUMENTI A FIATO

DUE ESTREMITÀ APERTE

Notiamo che, nel caso in figura si avrà: 2L = *


In generale perciò abbiamo: 2L = n+
(O e Be
Dove n = 1, 2, 3… pertanto, *B = e le frequenze saranno le seguenti ,B = =
B 'I (O

IL FLAUTO DI PAN

Uno strumento formato da canne aperte alle due


estremità

Assumendo che v = 350 m/s e che L = 20,0 cm, avremo:


- 3502/4
,1 = = = 875 89
2. 0,42
2-
,( = = 2,1 = 1750 89
2.
3-
,0 = = 3,1 = 2625 89
2.
201
UNA SOLA ESTREMITÀ APERTA

Nella configurazione minima di un nodo e un ventre, si ha: 4L = *


0 0
Nella configurazione in figura si ha: L = * → * = .
) )
+,
Generalizzando avremo +* = à n = 1, 2, 3…
-*./
e e
In questo caso, allora ,B = = (2) − 1) )O
'I

Ponendo L = 0,50 m, v @ 350 m/s, scriviamo


,1 = 175 89
,( = 3,1 = 525 89
,0 = 5,1 = 875 89

IL SUONO
Le onde sonore
Se stiamo in una stanza con la porta socchiusa, sentiamo ciò che accade in una stanza vicina. Ciò
avviene perché c’è una perturbazione (un suono) che si propaga nello spazio senza che si abbia uno
spostamento apprezzabile del mezzo materiale (l’aria) in cui essa si propaga.
La sorgente del suono è un corpo che vibra
La corda della chitarra vibra quando è pizzicata. Le corde vocali, che sono delle piccole membrane
tese, vibrano per effetto dell’aria che esce dai nostri polmoni.
Il suono è un’onda longitudinale, generata da successive compressioni e rarefazioni del mezzo in
cui il suono si propaga.
Facciamo vibrare una sottile lamina di acciaio, che oscilla avanti e indietro molto rapidamente e in
modo periodico.

- Quando la lamina si sposta verso destra, comprime l’aria a destra e provoca una rarefazione
dell’aria a sinistra
- Quando invece si sposta a sinistra, crea una compressione dell’aria a sinistra e una rarefazione
a destra

202
Il suono si può propagare in un mezzo materiale, ma non si propaga nel vuoto.
Il suono non si propaga soltanto nell’aria, ma anche in tutti i materiali.
La velocità del suono
Come tutte le onde anche il suono ha una sua velocità di propagazione, che dipende dal materiale in
cui si propaga e da altre sue caratteristiche (come la temperatura e la pressione).
Gli esperimenti mostrano che il suono si propaga in aria secca (alla pressione atmosferica normale
di
1,01 x 105 Pa e alla temperatura di 0 °C) con la velocità
%
! = 332
&
che equivale circa a 1200 km/h. A temperatura ambiente, la velocità del suono è circa pari a 340 m/s.
Nell’acqua il suono è quasi 5 volte più veloce che nell’aria, nel ferro 15 volte più veloce.
Rispetto alla luce, che si propaga alla velocità di 300 000 km/s, il suono è molto lento. Questo spiega
il perché vediamo prima un fulmine e poi sentiamo il tuono.
LE CARATTERISTICHE DEL SUONO
Il suono è un’onda sonora periodica. Invece i rumori sono onde sonore che non hanno forma
periodica.
Un suono ha tre caratteristiche: l’altezza, l’intensità e il timbro.
L’altezza distingue un suono più acuto da uno più grave e dipende dalla frequenza dell’onda. Un
suono è tanto più alto quanto maggiore è la frequenza dell’onda sonora che lo produce. Infatti negli
strumenti a corda, come la chitarra, la corda più sottile e leggera, che può oscillare con frequenza
maggiore, genera il suono più acuto, mentre quella più spessa e pesante, che vibra con frequenza
molto minore, dà origine a un suono più grave.
L’intensità distingue un suono ad alto volume da uno a basso volume. Essa cresce all’aumentare
dell’ampiezza dell’onda: onde di ampiezza maggiore creano compressioni e rarefazioni dell’aria più
marcate e, quindi, trasportano un suono che si ode meglio.
Il timbro dipende dalla particolare legge periodica con cui oscilla l’onda sonora. Ci permette di capire
se stiamo ascoltando musica generata da un pianoforte o da una tromba.
L’intensità di un’onda sonora
Consideriamo una superficie piana, di area A, perpendicolare alla direzione di propagazione dell’onda
sonora. In un intervallo di tempo ∆t la superficie è attraversata da un’energia E. L’intensità sonora I
dell’onda è allora definita come
*
(=
+∆,
*I = intensità sonora (W/m2); A = area (m2); E = energia (J); ∆, = intervallo di tempo (s)
L’intensità sonora si misura in joule al secondo al metro quadrato, cioè in watt al metro quadrato:
0
=
R ∙ 7! 7!
Questa grandezza dice quanta energia (misurata in joule) giunge, in ogni secondo, su una superficie
ampia un metro quadrato e posta perpendicolarmente all’onda.
Il livello di intensità sonora
La nostra percezione del suono non è direttamente proporzionale alla sua intensità sonora: se,
partendo da un certo valore base, l’intensità aumenta di dieci, cento, mille volte, noi percepiamo un
suono due, tre o quattro volte più «forte». Per queste ragioni è utile introdurre una misura della
sensazione sonora, che si chiama livello di intensità sonora LS e segue una scala logaritmica.
Nel sistema SI il livello di intensità sonora si misura in decibel (simbolo dB) ed è definito dalla
formula
(
-! = 10 log'*
(*

203
*LS = livello di intensità sonora (dB); I = intensità (W/m2); I0 = minima intensità percepibile (W/m2)
Il valore di 0 dB corrisponde al livello di intensità sonora della soglia di udibilità, cioè la minima
intensità che è normalmente percepibile. A 130 dB corrisponde la soglia del dolore.

I LIMITI DI UDIBILITÀ
Non tutte le onde sonore sono percepite come suono dal nostro sistema orecchio- cervello.
Per essere udibile, un’onda sonora deve avere una frequenza compresa tra 20 Hz e 20 000 Hz.
A frequenze inferiori corrispondono gli infrasuoni e a quelle superiori corrispondo- no gli ultrasuoni,
a cui l’orecchio umano è sordo. Però essi possono essere uditi da alcuni animali. Per esempio, i cani
arrivano a percepire ultrasuoni fino a 50 000 Hz e i pipistrelli raggiungono i 120 000 Hz.
Relazione tra frequenza e lunghezza d’onda
Vediamo qual è la relazione tra la frequenza f di un’onda (per esempio un’onda sonora) e la sua
lunghezza d’onda λ, se si conosce la velocità di propagazione v dell’onda stessa.
í
Se ! = X dove T è il periodo del moto. D’altronde si ha f = 1/T, per cui la formula precedente può
essere riscritta come
À 1
-= = λ = λ@
Q Q

INTENSITÀ SONORA E LIVELLO SONORO


Un’onda sonora trasporta energia nella direzione di propagazione. La potenza P è definita, come in
meccanica, come segue:
∆ù
A= à si misura in W à 1W = 1J/s
∆c
Dove ∆E è l’energia che transita attraverso una superficie di area S nell’intervallo di tempo ∆t. Se
dividiamo per l’area S, otteniamo l’intensità sonora
:
B= Æ
à si misura in W/m2
Si trova che l’intensità sonora è proporzionale a ∆p02 , ossia, è proporzionale al quadrato
dell’ampiezza dell’onda.
Se definiamo con I0 @ 10-12 W/m2 l’intensità minima che l’orecchio può percepire, potremmo costruire
una scala di valori dell’intensità sonora percepita dall’uomo, fino a una soglia estrema, chiamata
soglia del dolore, Imax @ 1 W/m2
• Soglia di udibilità I0 @ 10-12 W/m2
• Soglia del dolore Imax @ 1 W/m2
Notiamo però che esistono 12 ordini di grandezza tra queste due soglie, cosicché una scala lineare
sarebbe del tutto inappropriata. È quindi opportuno introdurre una scala logaritmica che definisce il
“livello sonoro” in Bel o deciBel. Definiamo allora il livello sonoro di un suono, misurato in Bel,
come segue:
¥
Cm = log16 9¥ ; à in Bel
8
Dove I è l’intensità del suono. In Decibel invece, si avrà

204
¥
C = log16 9¥ ; à in deciBel
8
In questo modo avremo
C= 0 4I B = B6 à soglia di udibilità
C = 12 4I B = B7"8 à soglia del dolore
Scarichiamo un fonometro sul nostro cellulare e vediamo i vari livelli sonori:
C ≅ 40 KLMNI OMPQRQS
C ≅ 50 2TUIQRNI QRM)@ROO
C ≅ 60 )TQ2RO VT)-IQ4RNMT)
C ≅ 70 PL4S NQR@@MV
C ≅ 80 RORQ2 VOTVW4
C ≅ 90 YTZIQ NTTO4

LA FUNZIONE LOGARITMICA
Abbiamo già visto come si rappresenta una funzione esponenziale di base a > 1, y = ax (la trovate a
pag. 19)

La funzione logaritmica y = logax è la funzione inversa della funzione esponenziale y = ax.


Pertanto, le due scritture
ax = b (con b > 0)
x = logab
Sono equivalenti. Infatti, la seconda ricerca l’esponente da dare ad a > 1 per ottenere il numero b >
0
Proprietà dei logaritmi (sic considerino x1 > 0 e x2 > 0)
log " ([1 ∙ [( ) = log " [1 + log " [(
[1
log " Å Ç = log " [1 − log " [(
[(
)log " [1 = log " ([ B )
Queste proprietà derivano dalle ben note proprietà della funzione potenza. Infatti, ponendo
[ = log " P , S = log " V à b = ax , c = ay

205
Si ha che log " (R 8 R 9 ) = log " (R 8$9 ) = [ + S = log " (P ∙ V ) = log " P + log " V

L’ECO
In condizioni particolari capita di udire la nostra stessa voce, che sembra provenire da un luogo
lontano. È questo il fenomeno dell’eco. L’eco è dovuto alla riflessione delle onde sonore, cioè al fatto
che il suono si comporta come se rimbalzasse contro un ostacolo. L’onda sonora percorre due volte
a distanza d tra noi e la parete (percorso di andata e ritorno), per cui impiega un tempo
2d
∆, =
!
Dove v è la velocità del suono. Se ci troviamo a 20m dalla parete, sentiamo l’eco dopo
2 x 20,00 m
% = 0,118 &
340 &

LE ONDE STAZIONARIE
Quando si pizzica una corda di chitarra si generano delle onde che si propagano verso i due estremi
della corda. Arrivate alle due estremità, le onde si riflettono e si dirigono verso il capo opposto della
corda, per generare diverse riflessioni consecutive. L’interferenza tra queste onde che, tutte della
stessa frequenza, si propagano lungo la corda dà origine a un fenomeno complessivo detto onda
stazionaria:
Un’onda stazionaria è un’onda che non si propaga, ma rimane sempre nella stessa zona di spazio.
Di conseguenza, un’onda stazionaria non trasporta energia da un estremo all’altro dello spazio che
essa occupa.
I modi normali di oscillazione
Se pizzichiamo con attenzione la corda di una chitarra nel suo centro possiamo ottenere un moto come
quello rappresentato nella foto. Questa onda stazionaria ha due punti sempre fissi (detti nodi) agli
estremi della corda; tutti gli altri punti della corda si muovono di moto armonico nello stesso verso:
o tutti verso l’alto, o tutti verso il basso. Hanno tutti la stessa frequenza e si muovono in fase, cioè
raggiungono insieme sia il punto massimo dell’oscillazione, sia il punto minimo.

Pizzicando opportunamente una corda si possono ottenere onde stazionarie con un numero maggiore
di nodi. Per esempio

Questa è un’onda Mentre quest’altra è


stazionaria con 3 nodi un’onda stazionaria con
4 nodi

206
Ciascuna di queste particolari onde rappresenta un modo normale di oscillazione della corda.
Si chiamano modi normali di oscillazione le onde stazionarie in cui tutti i punti della corda
oscillano di moto armonico con la stessa frequenza.

Le frequenze dei modi normali


La figura 11 mostra che il primo modo normale di oscillazione, quello con due nodi, ha una
lunghezza d’onda λ1 = 2L, dove L è la lunghezza della corda che vibra.

Figura 11: la lunghezza


d’onda del primo modo
normale di oscillazione è due
volte la lunghezza della
corda.

Il modo normale successivo, Poi c’è il modo normale con


con tre nodi, ha lunghezza quattro nodi, che ha
d’onda λ2 = L lunghezza d’onda λ3 = 2/3 L

In generale, la lunghezza d’onda del modo normale numero n (che ha n + 1 nodi) è


2-
λ- = , : = 1,2, …
:
Se indichiamo con v la velocità delle onde sulla corda, possiamo ottenere la frequenza fn del modo
normale numero n; infatti la formula dice che vale
; ;
! = λ- <- à <- = í = : "R : = 1,2, …
*
Le frequenze di tutti i modi normali sulla corda sono quindi multipli della frequenza
!
<' =
2-
In linguaggio musicale la frequenza f1 è detta fondamentale o prima armonica. Tutte le altre
frequenze da f2 in poi sono multiple di f1 e sono dette armoniche superiori.
Sovrapposizione di modi normali
Se pizzichiamo a caso una corda di chitarra non otterremo uno dei modi normali di oscillazione, ma
una forma d’onda più complessa. In generale un’onda stazionaria generica si può ottenere come
sovrapposizione di due o più modi normali di oscillazione.

207
Come esempio, l’onda complessa della figura 12 (colore verde), che è seguita nel corso di metà
periodo, è ottenuta come sovrapposizione dell’onda fondamentale e della seconda armonica
(quest’ultima ha un’ampiezza che è la metà di quella della fondamentale).

Figura 12: onda (in


verde) risultante della
sovrapposizione della
prima armonica (in blu)
e della seconda (in
rosso).

Un’onda sinusoidale semplice, come la fondamentale, è percepita dal nostro orecchio come un suono
semplice e metallico (per esempio quello del diapason). Le forme complesse delle onde sonore
prodotte dagli altri strumenti sono dovute al fatto che il suono contiene, oltre alla fondamentale, anche
diverse armoniche superiori.
Queste onde complesse sono percepite dall’orecchio con timbri diversi, anche se hanno la stessa
frequenza fondamentale e, quindi, la stessa altezza.
Esempio:
Notando che l’intensità di un numero N di sorgenti sonore è la somma delle intensità, ossia che
I = I1 + I2 + … + IN
Di quanti deciBel è più alto il livello sonoro del pianto di cinque bambini rispetto al pianto di ciascuno
di essi?
I = I1 + I2 + I3 + I4 + I5 = 5I1, se assumiamo che ciascun bambino emetta la stessa “potenza” pertanto,
scriviamo
5B1 B1
Ch = 10OT` Å Ç = 10 àOT`16 5 + OT`16 Å Çâ
B6 B6
¥<
Notando che C1 = 10OT`16 9 ;, avremo:
¥ 8
Ch = C1 + 10OT`16 5
E perciò
Ch − C1 = 10OT`16 5 = 6,99 Uc

Esempio:
Facendo riferimento all’esempio precedente, quanti bambini devono piangere affinché il livello
sonoro salga del doppio del valore trovato sopra?
∆C = 2[10OT`16 5] = 10OT`16 g
Pertanto, si ha 2OT`16 5 = OT`16 g → OT`16 g = OT`16 25
Troviamo perciò che devono piangere 25 bambini affinché ∆C sia il doppio di quanto trovato sopra.
Esempio:
In un coro cantano 39 bambini. Ciascuno di loro emette un canto di livello sonoro pari a 50 dB.
L’intensità sonora del canto del coro sarà 39 volte maggiore rispetto a quella del singolo bambino.
Quale sarà il livello sonoro del canto del coro in deciBel?
< ¥
Scriviamo innanzitutto che C = 10OT`16 9 ; = 50
¥8
Si ha allora che

208
39B1 B1
C0F = 10OT`16 Å Ç = 10 àOT`16 Å Ç + OT`16 (39)â Uc
B6 B6
C0F = [ 50 + 10OT`16 39]Uc = (50 + 15,9)Uc = 65.9 Uc
C0F = 65.9 Uc
Esempio:
In una biblioteca tranquilla Che ospita 10 studenti, il livello sonoro è pari a 40,0 dB, quando tutti gli
studenti bisbigliano allo stesso modo. Con l’aumentare del numero di studenti, il livello sonoro
aumenta a 47,0 dB, quando tutti i bisbigliano allo stesso modo di prima. Quanti studenti sono presenti
nella biblioteca?
16¥<
Possiamo innanzitutto scrivere che C16 = 10OT`16 9 ; = 50 Uc
¥8
Ü¥<
Possiamo ancora scrivere che CÜ = 10OT`16 9 ; = 57 Uc
¥8
< Ü¥ < 16¥
Pertanto ∆C = CÜ − C16 = 10OT`16 9 ; − 10OT`16 9 ;
¥8 ¥8
8<
Per la proprietà dei logaritmi OT`8< − OT`8! = OT`
8!
Ad<
F d8
G Ü
Avremo ∆C = 7Uc = 10OT`16 ¢ <8d £ = 10OT`16 916;
F d <G
8
J J
Pertanto avremo 7 = 10OT`10 z10{ → 0,7 = OT`10 z10{
Dalla definizione stessa di logaritmo, si ha
g
106,J = → g = 10(106,J ) = 101,J = 50,1
10
Essendo possibile avere solo soluzioni in termini di un intero, scriviamo N = 50
Esempio:

Un altoparlante emette in tutte le direzioni ed è collocato in alto al centro di un grande piazza. La sua
potenza in uscita è di 100W.
a) si calcoli a che distanza dall’altoparlante si ha un livello sonoro di 90 dB.
b) si calcoli la distanza alla quale il suono si avverte a 40 dB.
c) si calcoli, infine, la distanza alla quale si comincia ad avvertire dolore.
:8 :
B= = )ñl8 ! (intensità sonora)
Æ
209
B A6
C = 10OT`16 Å Ç = 10OT`16 Å Ç
B6 4#Q ( B6
E perciò
A6 &<8
A6
C16 = OT`16 Å Ç → 10 =
4#Q ( B6 4#Q ( B6
Pertanto
A6 A6
Q( = → Q = y
4#B6 10&<8 4#B6 10&<8
166 (h 8 16-
a) Q = w = w 2 = 89,2 2
)ñ16@<! 16e ñ
166 (h 8 16f
b) Q = w = w 2 = 2,82 [ 10) 2
)ñ16@<! 16# ñ
166 (h
c) Q = w
)ñ16@<! 16<!
= w ñ 2 = 2,82 2

L’OTTICA GEOMETRICA
La luce propaga sotto forma di onde (elettromagnetiche). Tuttavia per quanto riguarda i fenomeni di
riflessione e rifrazione della luce visibile, possiamo ricorrere a una visione più schematica del
fenomeno, ossia, quella proposta dall’ottica geometrica. In questo limite, possiamo assumere che la
luce propaghi sottoforma di raggi luminosi che viaggiano, nello spazio vuoto, a una velocità
V ≅ 3,00 [ 10D 2/4
Questa è appunto la velocità della luce nel vuoto.
IL FENOMENO DELLA RIFLESSIONE

Quando un raggio luminoso incide un angolo@à , rispetto alla normale :, su una superficie riflettente,
esso viene riflesso ad un angolo @4 , così come mostrato in figura. Vogliamo dimostrare, attraverso il
principio di Fermat e il teorema di Erone, che
mà = ml (1)
Il PRINCIPIO DI FERMAT ci dice che “la luce si muove in un mezzo percorrendo il cammino di
tempo minimo”. Il TEOREMA DI ERONE, d’altro canto, ci indica qual è il percorso minimo che
possiamo effettuare, andando da A a B, in figura, e toccando una superficie S in un punto indicato in
figura con H.
Effettuiamo allora la seguente costruzione.

210
Prendiamo prima il punto B’, simmetrico a B rispetto a S. Uniamo poi
il punto A con il punto B’. Il punto di intersezione tra il segmento AB’
e S darà il punto H. adesso individuiamo i segmenti AH e HB e
notiamo che l’angolo formato dalla retta passante per AH e la normale
e l’angolo fra la retta passante per HB e la stessa normale sono uguali,
in quanto entrambi complementari dello stesso angolo q.
Il percorso formato dai segmenti AH e HB risulta perciò il percorso
minimo, in quanto proprio uguale al percorso che la luce effettuerebbe
nell’andare da A a B’, se la superficie S non fosse presente
Mettendo adesso insieme il principio di Fermat e il teorema di Erone,
possiamo concludere che la luce, viaggiando nello stesso mezzo,
viene riflessa a un angolo @4 proprio uguale a @à .

IL FENOMENO DELLA RIFRAZIONE

Quando un raggio luminoso incide su un mezzo trasparente, esso viene in parte riflesso in parte
trasmesso (ritratto) in questo mezzo. Se l’angolo di incidenza è @' , sappiamo che l’angolo riflesso è
anche @' , così come mostrato in figura. L’angolo @" al quale viene rifatto il raggio che si trasmette
nel secondo mezzo segue la legge di Snell, che daremo in seguito dopo aver illustrato il problema del
bagnino B e della persona A che chiede aiuto in mare.
Il bagnino vuole raggiungere la persona in mare nel più breve tempo possibile. Lui sa che può correre
a velocità !' sulla spiaggia e può notare alla velocità !" < !' in mare. Allora dovrà decidere in che
punto H si dovrà buttare in acqua per raggiungere nel più breve tempo possibile (così come farebbe
la luce, del resto, in quanto essa obbedisce al principio di Fermat). Perché il bagnino raggiunga la
persona in mare nel più breve tempo possibile, deve essere rispettata la seguente relazione
1 1
4M)m1 = 4M)m( (2)
e< e!

Tornando al raggio luminoso, che propaga con velocità -1 del primo mezzo e con velocità -( nel
secondo, possiamo dire che la stessa relazione deve valere per il raggio incidente e quello ritratto.
Possiamo allora moltiplicare entrambi i membri della (2) per c e scrivere

211
+ +
e<
4M)m1 = e!
4M)m( (3)

Definendo adesso l’indice di rifrazione n come segue:


+
)=e (4)

La (4) è la LEGGE DI SNELL della rifrazione.


Facciamo adesso un esempio. Il raggio di luce dell’aria (:' ≅ 1,00) si trasmette, dapprima in una
lastra di vetro (:" ≅ 1,50) e poi, dal vetro, si trasmette in acqua (:= ≅ 1,33), così come mostrato
in figura.

Notiamo l’angolo di incidenza @' = 30°


vogliamo trovare @" e @=
Per l’interfaccia aria-vento scriviamo
:' &F:@' = :" &F:@"
- ',** '
Cosicché &F:@" = -) &F:@' = ',B* ∙ "
"

Ossia, &F:@" = 0,333


Cosicché @" = 19,5°
Notiamo quindi che il raggio rifratto tende ad avvicinarsi alla normale n. per l’interfaccia vetro-acqua,
invece, scriviamo
:" &F:@" = := &F:@=
- ',B*
E perciò &F:@= = -" &F:@" = ',== ∙ (0,333) = 0,664
+

E quindi @= = 41,6°
Il raggio, che incide sull’interfaccia vetro-acqua, tende ad allontanarsi dalla normale. Quest’ultima
osservazione da adito alla comprensione del funzionamento di una fibra ottica, che può essere
pensata, della sua forma più semplice, come un filo cilindrico di materiale trasparente di indice di
rifrazione n > 1.

Immaginiamo allora che è un viaggio di luce propaghi in questa fibra, incidendo in A con un angolo
V
@ abbastanza prossimo a " . Faremo vedere che, in questo caso, il raggio non sarà più rifratto in aria e
perciò verrà interamente riflesso nella fibra stessa (riflessione interna totale).
Vediamo perché!
Il raggio dovrebbe passare da un mezzo con indice di rifrazione n ad uno con un indice di rifrazione
n0 < n. Pertanto, il raggio rifratto tenderebbe ad allontanarsi dalla normale. E perciò, non possiamo
V
avere angoli di rifrazione @* > " , cosicché dobbiamo imporre &F:@* < 1. Questa relazione, per la
legge di Snell (:* &F:@* = : &F:@ ) si traduce nell’espressione seguente
B8
4M)m < (5)
B

212
-!
Pertanto, non possiamo far propagare raggi di luce per i quali &F:@ < -
all’esterno della fibra.
Definiamo perciò angolo critico @W quell’angolo per il quale si ha
B8
4M)m+ < (6)
B
Concludiamo perciò dicendo che:
@ > @W MF<NO&&FP:O F:,OM:Q ,P,QNO
@ < @W MF<NO&&FP:O F: QMFQ RP&&FSFNO
Nel caso delle fibre ottiche vogliamo che la riflessione interna sia totale e così dobbiamo immettere,
nella figura stessa, raggi con un’inclinazione maggiore di @W
Esempio:
La fibra ottica di vetro (n = 1,50) lunga 1,00 km. Se il raggio è inclinato di un angolo @ = 60° rispetto
alla normale, quanto tempo esso impiegherà per andare da un capo all’altro della fibra?

Notiamo dalla figura che il percorso del raffio luminoso NON è rettilineo. Inoltre, la velocità della
W =,** ! '*< H H
luce all’interno della fibra sarà ! = - = ',B* M
= 2,00 T 10E M
'
Prima di procedere verifichiamo che @ > @W = &F:/' z',B*{ = 41,8° .

Siamo allora sicuri che il raggio subisce una riflessione interna totale. Adesso notiamo che, per ogni
∆!
per ogni tratto orizzontale ∆x, la luce percorre una distanza ∆& = Mà-f . In questo modo, se L =
1000m è la lunghezza della fibra, allora la distanza S, coperta dalla fibra sarà
- 2
U= = - = 1155%
&F:@ √3
! ''BBH
Viaggiando la luce alla velocità v = 2,00 x 108 m/s nella fibra, si avrà S = vt à , = ;
= " ! '*< H/M
cosicché t = ,77 x 10-6 s = 5,77 µs
GLI SPECCHI
Spesso facciamo uso di specchi. A volte degli specchi commessi vengono posti agli incroci stradali
per dare una visuale più ampia del traffico automobilistico. In queste pagine faremo vedere come si
formano le immagini e gli specchi. Partiamo allora dal considerare uno specchio sferico concavo,
così come mostrato nella figura.

213
Lo specchio a vertice in V, centro in C e raggio di curvatura R. Per costruire l’immagine di un punto
P, che costituisce l’oggetto del nostro specchio, dobbiamo immaginare che il raggio PH venga riflesso
(secondo la legge della riflessione) nel raggio HQ. D’altro canto, un raggio PV verrebbe riflesso su
se stesso, passando anche esso dal punto Q. In questo modo, immaginando che tutti raggi “parassiali”
(molto vicini all’asse ottico che passa per PV) si comportino come descritto prima, diremo che Q è
l’immagine di P, data dallo specchio concavo. In questo caso l’immagine è reale (non la vediamo
nello specchio, ma la vedremmo se mettessimo uno schermo in Q) e la grandezza q, il cui valore
assoluto indica la distanza QV, è presa positiva. Immagini che si formano nello specchio (quando il
punto Q sta a destra di V) sono dette virtuali. In questi casi q < 0

Consideriamo ancora uno specchio sferico concavo


e poniamo:
p = PV
q = QV (7)
R = CV

Per convenzione, tutte queste grandezze sono positive perché i punti P, Q e C cadono a sinistra di V.
Per lo specchio convesso, invece, il centro di curvatura C cade a destra di V e perciò dobbiamo
prendere R = -CV, ove CV è la distanza di C da V. Consideriamo adesso gli angoli a, b e g che i
segmenti PH, QH e CH fanno con l’asse ottico, e assumendo che l’angolo di incidenza in H del raggio
PH sia q, possiamo scrivere
a+q=g (8)
g+q=b
Per le note proprietà dei triangoli. Eliminando q dalle due equazioni (sottraendo membro a membro)
si ha:
a–g=g–b (9a)
Ossia:
a + b = 2g (9b)
î
Adesso, ponendo ℎ = îT possiamo scrivere

,Q:X ≅
R
ℎ (10)
,Q:Y ≅
Z

,Q:[ ≅
\

214
Per angoli parassiali queste relazioni sono così approssimate, ma abbastanza vicina ai valori veri,
poiché la distanza H’V è trascurabile rispetto alle grandezze p, q e R. Inoltre per raggi parassiali
(piccoli valori di a, b e g) la tangente può essere approssimata all’angolo, cosicché

,Q:X ≅ X ≅
R
ℎ (11)
,Q:Y ≅ Y ≅
Z

,Q:[ ≅ [ ≅
\
In questo modo, la (9b) può essere riscritta come segue
I I (I
°
+@= ä
(12)

Dividendo entrambi i membri per h, avremo


1 1 (
°
+@ =ä (13)

L’equazione (13) è chiamata “equazione degli specchi sferici” e può essere estesa a specchi convessi,
se consideriamo, per essi, R < 0.
Costruzione dell’immagine per oggetto esteso

Consideriamo un oggetto esteso posto in P. un raggio di luce proveniente dall’infinito sfiora la punta
P’ dell’oggetto e incide in H1. La sua immagine si formerà lungo la retta che passa per H1F, ove F è
i
ottenuto dalla (13) quando p à ∞. Il punto F è quindi distante ƒ = " (nota che ƒ e R sono positivi
per uno specchio concavo) dal vertice V. Un raggio luminoso che parte dalla punta P’ dell’oggetto e
che si propaghi nella direzione CH2 verso lo specchio, verrà riflesso su se stesso, intersecando il primo
raggio in Q’. Abbiamo così individuato l’immagine Q’ della punta P’ dell’oggetto. Con un
ragionamento simile possiamo far vedere che la coda dell’immagine si forma in Q. Pertanto,
l’immagine (reale) dell’oggetto esteso PP’ è data dal segmento QQ’. In questo caso notiamo che
l’immagine è capovolta e che è visibilmente rimpicciolita. Per ricavare un’espressione per
l’ingrandimento m dell’oggetto, diamo uno sguardo alla figura e notiamo che, quando un raggio di
luce da P’ a V, incidendo a un angolo q rispetto all’asse ottico, esso viene riflesso in modo che passi
per Q’. Pertanto, detta y l’altezza dell’oggetto e |y’| l’altezza dell’immagine, possiamo definire |%| =
ç# = ç
#

215
Tuttavia, se vogliamo informazione anche su come l’immagine si orienta, possiamo scrivere
9X
2= (14)
9
Ove y’ > 0 se l’immagine è dritta e y’ < 0 se è capovolta.
Dalla figura notiamo allora che
_T _ _T Z
,Q:@ = = → = −
Z R _ R
Ne concludiamo allora che
@
2= − (15)
°
E perciò se m > 0, l’immagine sarà dritta; men tre se m < 0, l’immagine sarà capovolta.
Svolgiamo adesso un esempio per uno specchio concavo ed uno per uno specchio convesso.
Esempio:
Uno specchio concavo ha raggio di curvatura R = 60,0 cm. Un oggetto di altezza Y = 2,00 cm è posto
a una distanza P = 20,0 cm dal vertice si trovi la posizione dell’immagine e il suo ingrandimento.

Prima di tutto troviamo q e scriviamo


1 1 2 1 1 2 1 1 1
+ = → + = → = −
R Z \ 20 Z 60 Z 30 20
1 2−3 1
= = − → Z = −60,0 c%
Z 60 60
L’immagine è virtuale (q < 0) e si forma nello specchio.
| g*
L’ingrandimento sarà % = − Z = "* = 3. Pertanto, essendo m > 0, l’immagine è dritta essa, poi,
risulta ingrandita di tre volte rispetto all’oggetto.
Questo esempio ci fa comprendere perché utilizziamo degli specchi concavi per poter guardare in essi
l’immagine ingrandita del nostro viso.
Esempio:

216
Uno specchio convesso, di raggio di curvatura R = 60,0 cm, si specchia un oggetto di altezza y = 2,00
cm. Trovare la posizione e l’ingrandimento dell’immagine se l’oggetto è posto a 60,0 cm dal vertice.

Notiamo, dalla costruzione grafica, che q < 0 e m > 0.


In questi specchi l’immagine è sempre virtuale e dritta.
Risolviamo adesso per q.
1 1 2 1 1 1 1 1 1
+ =− → + =− → =− −
R Z \ 60 Z 30 Z 30 60
1 −2 − 1 3
= = − → Z = −20,0 c%
Z 60 60
Z 20 1
%= − = =
R 60 3
L’immagine è dritta e rimpicciolita di 1/3 cosicché
20
_ T = %_ = c% = 6,67 c%
3
Proseguendo con la nostra discussione sugli specchi, notiamo che, per R à ∞, uno specchio concavo
' '
o convesso diventa uno specchio piano. Per il quale Z + | = 0 → Z = − R

Pertanto, l’immagine che si forma in uno specchio


piano è virtuale (la vediamo nello specchio) è dritta.
L’ingrandimento sarà
m=1
ossia, la vedremo riprodotta con la stessa altezza nello
specchio.
Però, attenzione!
L’immagine riprodotta nello specchio scambia la destra
con la sinistra, così come si vede dalla riproduzione in
figura

Concludendo la nostra discussione sugli specchi dobbiamo notare che gli specchi sferici possono dare
effetti di aberrazione (aberrazione sferica) se non siamo nel limite di raggi parassiali.
Infatti, la posizione del fuoco di questi specchi dipende dal punto di incidenza sullo specchio, così
come mostrato in figura.

217
Specchi che non presentano questi effetti indesiderati sono gli specchi parabolici.

In questi specchi tutti i raggi provenienti dall’infinito vengono riflessi nel fuoco F, indipendentemente
dal punto in cui incidono sulla superficie parabolica. Ecco perché sulle nostre case vengono montate
le “parabole” (ossia, dei paraboloidi di rivoluzione) e non superfici a forma di guscio sferico.

ELETTROSTATICA
Possiamo fare a meno di conoscere i principi dell’elettrostatica oggi? La risposta dovrebbe essere
“no!” perché questi concetti sono propedeutici alla comprensione dell’elettrodinamica. E se è vero
che siamo solo utenti delle reti elettriche e che nelle nostre case è molto semplice accendere e
spegnere una lampadina, è anche vero che potrebbe essere opportuno acquisire consapevolezza di
questi nostri semplici gesti, anche solo per comprendere più a fondo il funzionamento di un circuito
elettrico.
In questo capitolo studieremo i fenomeni elettrostatici a iniziare dalla forza di Coulomb, una delle
quattro interazioni fondamentali in natura, così come accennato nel Capitolo 6. Faremo vedere che
questa forza è simile in forma a quella gravitazionale, ma presenta tratti caratteristici propri, che la
rendono profondamente diversa dall’attrazione tra corpi massivi. Partendo dalla descrizione di un
atomo di idrogeno, l’elemento più semplice in natura, calcoleremo l’intensità relativa tra queste due
interazioni all’interno della materia. Introdurremo il concetto di campo elettrico generato da una
singola carica, o da una distribuzione di cariche, e daremo cenni sul calcolo di questa grandezza fisica
in situazioni semplici, dove è possibile applicare la legge di Gauss, della quale daremo una prova
semplice.

218
Figura 19.1
Un atomo di idrogeno è formato da un
protone (di carica positiva +g) e da un
elettrone (di carica negativa −g). In
una rappresentazione schematica di
questo atomo nel suo stato
fondamentale possiamo immaginare
che l’elettrone si muova rispetto al
nucleo (formato dal solo protone, in
questo caso) di moto circolare
uniforme. Questa rappresentazione
semplicistica, tuttavia, non
corrisponde alla descrizione
quantistica dell’atomo.
19.1 La forza di Coulomb
Già gli antichi Greci sapevano che l’ambra (“electron” in Greco), se strofinata con un panno, è in
grado di attrarre piccoli frammenti di altri materiali. Per comprendere a fondo l’origine di questi
fenomeni dobbiamo però aspettare gli inizi del ‘900, quando la fisica atomica incominciò a svelare
alcuni segreti della tavola periodica degli elementi e quando i primi concetti di meccanica quantistica
incominciarono a prendere corpo. Noi non affronteremo lo studio di queste branche affascinanti della
fisica moderna e ci limiteremo a dire che, a partire dall’atomo di idrogeno, del quale vedremo
brevemente la costituzione, possiamo costruire la tavola periodica degli elementi, menzionando solo
alcuni di essi.
In natura esistono cariche negative e cariche positive che si misurano in Coulomb (dal fisico francese
che ha condotto i primi studi sistematici sull’interazione elettrica). La carica negativa elementare, la
più piccola che possiamo osservare, è dell’elettrone (ZO = −O) corrispondente carica positiva del
protone (ZR = +O), con O = 1.602 × 10−19d, ove d è il simbolo che sta per l’unità di misura Coulomb.
La massa dell’elettrone è pari a
%O = 9.11 × 10−31ef, mentre quella del protone è 1836 volte più grande. Queste due particelle
formano un atomo di idrogeno, così come mostrato in fig. 19.1, dove viene data una visione
schematica di questo sistema fisico. Specificando che tale rappresentazione non è quella
corrispondente alla descrizione quantistica dell’atomo di idrogeno, possiamo dire che la forza che
mantiene l’elettrone nel suo stato fondamentale è la forza elettrica. Una possibile analogia di questa
visione “classica” dell’atomo può essere individuata nell’orbita dei pianeti sottoposti alla forza
gravitazionale esercitata dal Sole. Per non lasciare il lettore in sospeso circa la visione quantistica
dell’atomo, diciamo che, nel contesto della meccanica quantistica, possiamo solo definire la
probabilità di trovare l’elettrone in un dato punto dello spazio. Abbandoniamo così il concetto di
orbita classica e ci riferiamo a una cosiddetta funzione d’onda dell’elettrone, mediante la quale tale
probabilità è determinata.

219
Figura 19.2 L’atomo di litio. Il nucleo è
Figura 19.3 Un atomo di elio. Il nucleo è
formato da tre protoni e quattro neutroni. Gli
formato da due protoni e due neutroni. Gli
elettroni sulla prima orbita hanno spin opposti.
elettroni sull’unica orbita hanno spin opposti.
L’elettrone sulla seconda orbita può avere spin
qualsiasi.
Aggiungendo ancora un protone all’interno del nucleo e due neutroni, che non posseggono carica
elettrica, possiamo ottenere l’atomo di elio, nel quale adesso due elettroni sono “in orbita” attorno al
nucleo. Lo “spin”1 dei due elettroni deve essere opposto, per il principio di esclusione di Pauli.
Secondo questo principio, infatti, due elettroni non possono risiedere nello stesso stato fisico. La
grandezza “spin”, diversa per i due elettroni, garantisce quindi obbedienza a questo principio. Un
atomo di elio è rappresentato in modo schematico in fig. 19.2.
Aggiungendo ancora un elettrone al sistema (questa volta cambiando orbitale) e un protone e due
neutroni nel nucleo, otteniamo l’atomo di Litio, rappresentato schematicamente in fig. 19.3.
Confidando nei principi della meccanica quantistica, ai quali però abbiamo rinunciato di accedere,
si ottiene la configurazione atomica degli altri elementi della tavola periodica.

Figura 19.4
a) Cariche di egual segno si
respingono
b) Cariche di segno opposto si
attraggono

Se adesso ricordiamo la forma della forza di attrazione gravitazionale data nell’equazione (6.1),
possiamo definire il modulo della forza di Coulomb tra due cariche Z1 e Z2 per analogia come
segue:
|| | |
h12 = e 4) " "
(19.1)
NH"
ove e vale 8.99 × 109 m " (esprimibile attraverso una costante fondamentale di cui parleremo in
seguito) e dove M è la distanza tra le cariche. Nella Eq. (19.1) il valore assoluto è necessario in quanto
le cariche possono essere sia negative che positive. La forza di Coulomb è diretta lungo la
congiungente le due cariche. Se le due cariche sono di segno opposto, esse si attraggono; se sono
dello stesso segno, invece, si respingono, così come rappresentato in fig. 19.4a-b.
* Lo spin di un elettrone è una proprietà intrinsecamente quantistica che viene assimilata (anche sulla
base del significato della parola) al senso di rotazione dell’elettrone attorno al proprio asse.
19.2 Forza elettrica e forza gravitazionale

220
Consideriamo ancora l’atomo di idrogeno e la forza elettrica tra il protone e l’elettrone. Tale forza,
rappresentata in fig. 19.4, gioca il ruolo di una forza centrale che mantiene l’elettrone su di un’orbita
che, se l’elettrone obbedisse alle leggi della meccanica classica, dovrebbe essere di forma ellittica
(come sappiamo dalle tre leggi di Keplero, se estendessimo la validità di queste ultime al caso della
forza elettrica, avendo essa la stessa espressione formale della forza di attrazione gravitazionale).
Nella figura, tuttavia, rappresentiamo quest’orbita come circolare, in quanto abbiamo detto che, in
meccanica quantistica, il concetto di orbita
deterministica non può esistere. Inoltre questo tipo di problema ci porta a considerare una simmetria
di tipo sferico, cosicché la schematizzazione proposta può essere accettabile. Proprio questo tipo di
approssimazione, inoltre, fu adottato da Niels Bohr nel suo modello atomico dell’atomo di idrogeno
nella seconda decade del ‘900.
Nel trascurare la forza di attrazione gravitazionale h⃗< tra il protone e l’elettrone, potremmo dire che
essa è di gran lunga meno intensa della forza elettrica h⃗[ . Di quanto? Scriviamo allora l’espressione
dei moduli delle due forze:
á" hH>
hE = e 4 " (19.2a) hG = e 4"!
(19.2b)
!
ove %1 è la massa dell’elettrone e j = 1836 %1 è la massa del protone. Dividendo membro a membro,
otteniamo:
{? ' , á"
{@
= 'E=g < H" !
(19.3)

{
Sostituendo i valori numerici alle costanti, troviamo che {? = 1.51 T 10(*
@

Possiamo così concludere che, effettivamente, hE ≫ hG


Esempio 19.1
Il raggio di Bohr M0 vale circa 0.529 Å. Sapendo che 1 Å (1 Angstrom) è pari a 10 − 103, quanto vale
la forza elettrica che il protone esercita sull’elettrone in un atomo di idrogeno?
á"
Svolgimento Ponendo hE = e4 " possiamo scrivere:
!
á" NH" ('.g*" ! '*2)A m)"
hE = e4 " = 8.99 x 109 m " (*.B"F ! '*2)! H)"
= 8.24 T 10/E l
!

Esempio 19.2
Una particella di carica Z = −1.00 × 10−9d ha massa % = 1.00 × 10−3f. Quando una seconda carica m
= −2Z è posta verticalmente al di sotto di essa e tenuta fissa a una certa distanza n, la prima carica
rimane in equilibrio. Quanto vale n?
|| ã |
Svolgimento Ponendo hE = e O" e sapendo che tale forza controbilancia la forza peso %f, avremo:
|| ã | || ã |
e O"
= mg à d = Pe H@
= 1.35%

19.3 Il campo elettrico


Una carica m, posta in dato punto p nello spazio, influenza elettricamente altre cariche eventualmente
presenti nelle vicinanze del punto p. Si dice, allora, che la carica m genera un campo elettrico. Per
trovare l’espressione del campo elettrico in un punto p′ dello spazio, diverso dal punto p, utilizziamo
il concetto di carica di prova (che prendiamo positiva e pari a Z). Se poniamo tale carica di prova a
distanza M da m, essa subirà una forza h⃗[ (per la presenza della carica m) diretta lungo la congiungente
pp′. Tale forza sarà repulsiva se m > 0, oppure attrattiva se m < 0. Per la (19.1), il modulo della forza
h⃗[ può essere espresso nel modo seguente:
| | ã|
hE = e 4 " (19.4)

221
Conosciamo pertanto la forza h⃗[ in modulo, direzione e verso; essa viene rappresentata graficamente
in figura 19.6 per Q > 0. Definiamo adesso il campo elettrico *5⃗ attraverso il seguente rapporto:
{⃗
*5⃗ = ? |
(19.5)

Figura 19.6 La forza elettrica h⃗[ (in blu) su di una carica


di prova r > s posta a distanza t da una carica u > s.
Il campo elettrico *5⃗ (in rosso) è nella stessa direzione e
nello stesso verso di h⃗[

Così come mostrato in figura 19.6, il campo elettrico*5⃗ è nella stessa direzione e nello stesso verso di
h⃗[ e avrà modulo pari a
| ã|
E = e 4" (19.6)

Figura 19.7 Linee di


forza di un campo
elettrico generato da una
carica positiva (v) e da
una carica negativa (w).

Come possiamo notare dalle (19.5) e (19.6), il campo elettrico *5⃗ non dipende dalla carica di prova,
ma solo dalla carica m che genera il campo stesso. La grandezza c può essere rappresentata tramite
delle linee di forza (dette di Faraday2) che ne indicano direzione e verso nello spazio. Tali linee
orientate sono uscenti dalla carica che genera il campo, se essa è positiva, e sono entranti, se essa è
negativa, così come rappresentato nella fig.19.7 a-b.
*Michael Faraday (1791-1867) è stato un chimico, fisico e divulgatore scientifico britannico. Ha
contribuito allo studio dell'elettromagnetismo e dell'elettrochimica.

Esempio 19.3
Si calcoli il campo elettrico generato da un protone a distanza M0 = 0.529 Å.
Svolgimento Sapendo che Z4 = +O, con O = 1.602 × 10−19d, scriviamo:
| á
E = k4 C" = e 4 "
! !
Riproducendo i calcoli numerici, avremo:
NH" (E.FF)('.g*") N N
E = (8.99 x 109 m"
) (*.B"F )"
T 10'* m = 5.15 T10'' m

Si noti che, pur essendo la carica molto piccola (la più piccola possibile), il campo elettrico alla
distanza M0 è molto intenso.

19.4 Il principio di sovrapposizione degli effetti


Se il campo elettrico è generato da una o più cariche, allora esso è esprimibile come la somma dei
campi prodotti dalle singole cariche. Pertanto, se *5⃗, è il campo prodotto dalla carica m5 (e = 1, 2, ...
l) si avrà:

222
*5⃗ = *5⃗' + *5⃗" + ⋯ *5⃗N (19.7)
Prendiamo, come esempio, il campo elettrico generato da un dipolo elettrico, formato da due cariche,
una positiva (+m) e una negativa (−m). In questo caso scriviamo:
*5⃗ = *5⃗+ + *5⃗/ (19.8)
5⃗ 5⃗
ove *+ ed */ sono i campi prodotti, rispettivamente, dalla carica positiva e da quella negativa. Le
linee di forza del campo elettrico *5⃗ dato dalla (19.8) sono rappresentate in figura 19.8.

Figura 19.8 Linee di forza del campo


elettrico generato da un dipolo
elettrico che consta di due cariche,
+u e −u, poste a una certa distanza
} tra loro.

Definiamo il momento di dipolo la quantità R⃗ = m n⃗ (19.9)


ove n⃗ è il vettore che va dalla carica negativa alla carica positiva.
Nell’esempio che segue vedremo come questa grandezza caratterizza il campo elettrico di un dipolo.

Esempio 19.4
Si calcoli dapprima il campo *5⃗ generato da un dipolo elettrico nel punto medio tra le due cariche.
Successivamente si calcoli il campo elettrico sull’asse di simmetria del dipolo.
Svolgimento Supponendo che la distanza tra le due cariche sia n, così come mostrato nella figura a
lato, calcoliamo dapprima il campo elettrico *55555⃗ 5⃗ 5⃗ j = 2*5⃗+ Tj
h = (*+ + */ )T

La scrittura di sopra sta ad indicare che i campi *5⃗+ ed *5⃗/ sono diretti lungo l’asse T e che *5⃗+ = *5⃗/ .

Pertanto, poiché *+ = D " , avremo:
( )
"
E,ã
55555⃗
* h = O" T j
Supponendo adesso di muoverci verticalmente di una distanza _ dal punto medio (in alto o in basso),
possiamo ancora scrivere il campo *5⃗ , calcolato sull’asse del segmento di lunghezza n, come
sovrapposizione dei campi *5⃗' ed *5⃗" generati, rispettivamente, dalle cariche +m e −m, cosicché: * 555⃗=
*5⃗' + *5⃗" saranno esprimibili nel modo seguente:
*5⃗' = E1 (cos @ Tj + &F:@_p ): *5⃗" = E2 (cos @ Tj − &F:@_p );

223
óò O
Per simmetria, *1 = *2 = 4 " , ove M = P( " )" + _ " è la distanza della carica dal punto nel quale
calcoliamo il campo elettrico. Sommando i due campi elettrici, le componenti lungo _ si elidono,
cosicché avremo:
555⃗ = 2 *1 cos @ Tj
*

O
ove cos@ = "4 cosicché si ha:

emn emn
555⃗
* = Tj = Tj
M= n "
=/"
Óz { + _ " Ô
2

Notiamo che il campo elettrico calcolato ha sempre verso positivo, sia per y ≥ 0 sia per y < 0, così
come riportato graficamente in figura 19.8

19.5 La legge di Gauss

Per poter enunciare in modo sintetico la legge di Gauss, dobbiamo dapprima definire il flusso del
campo elettrico attraverso una superficie orientata ∆U⃗ (che prendiamo come vettore orientato
lungo la normale uscente alla superficie stessa). Se un campo elettrico *5⃗ è presente su tale
superficie, sufficientemente piccola da poter considerare *5⃗ costante su di essa, definiamo il flusso
ΔΦ(*5⃗ ) del campo *5⃗ attraverso tale superficie come segue:

ΔΦ(*5⃗) = *5⃗ ∙ ∆U⃗ (19.10)

Figura 15.9Il campo elettrico *5⃗ presente su


di una superficie orientata ∆U⃗

Per una superficie estesa U dobbiamo effettuare una somma di tutti i contributi ΔΦ(*5⃗), considerando
il valore di *5⃗ su ciascun elemento di superficie orientata ∆U⃗ della superficie U. Sappiamo che il
prodotto scalare dà il prodotto tra la componente di *5⃗ lungo la normale e l’area ∆U, cosicché
ΔΦ(*5⃗) = (E cos@) ∆U (19.11)
Definiamo adesso la costante e in termini della costante dielettrica del vuoto o0, ponendo:
'
k = (Vô (19.12)
!
m"
Conoscendo il valore di e, dalla (19.12) possiamo trovare che •0 = 8.85 × 10−12 NH" . In un mezzo
che non sia il vuoto, la costante dielettrica è • = •r•0 , ove •8 > 1 è la costante dielettrica relativa.

Possiamo adesso enunciare la legge di Gauss come segue.

224
Il flusso ‚(*5⃗) del campo elettrico attraverso una superficie chiusa U9 di forma qualsiasi è pari al
rapporto tra la carica m, contenuta nel volume racchiuso dalla superficie U9, e la costante dielettrica
del mezzo •; ossia, in simboli:
ã
‚(*5⃗ ) = ö (19.13)

Figura 9.10 Una carica u è posta al centro


di una superficie sferica. Il campo elettrico
*5⃗ e l’elemento di superficie sono tra loro
paralleli, cosicché *5⃗∙ ∆U⃗ = „ ∆….

Diamo la prova di questa legge per una carica posta al centro di una sfera di raggio \. Tale prova ha
validità più generale, così come si evince dall’enunciato. Il campo elettrico *5⃗ generato dalla carica m
è
parallelo all’elemento di superficie ∆U⃗, cosicché *5⃗∙ ∆U⃗ = * ∆U. Pertanto, il flusso Φ(*5⃗) è la somma,

su tutti gli elementi di superficie, della quantità ΔΦ(*5⃗ ) = *∆U. In questa somma il modulo * = i" del
campo *5⃗ è costante, per la simmetria del problema. In questo modo, dopo aver sommato su tutti gli
elementi di superficie, si avrà:
‚(*5⃗ ) = ES = 4ƒ\" * (19.14)
,ã ' ã
Sostituendo il valore di * = i" = (Vö i"
nella (19.14), avremo:
' ã ã
‚(*5⃗ ) = 4ƒ\"(Vö i "

(19.15)
Così come volevamo dimostrare.

Esempio 19.5

Consideriamo una sfera di raggio \ uniformemente carica, che racchiuda una carica totale m
all’interno della superficie esterna. Trovare il campo *5⃗ generato da questa distribuzione di carica in
un punto a distanza M > \ dal centro della sfera nel vuoto.
Svolgimento Consideriamo una superficie “gaussiana” sferica di raggio M > \, così come in figura.
Per superficie gaussiana intendiamo una superficie chiusa (anche idealmente concepita) sulla quale
225
vogliamo calcolare il flusso del campo *5⃗. Per la simmetria del problema, così come visto nel caso
della carica puntiforme posta al centro di una sfera di raggio \, anche in questo caso il campo *5⃗ sarà
parallelo all’elemento di superficie ∆U⃗ e il suo modulo sarà costante sulla superficie gaussiana,
cosicché il flusso Φ(*5⃗) sarà dato dal prodotto *U, ove U = 4ƒM2. Poiché adesso, per il teorema di
ã
Gauss, Φ(*5⃗) = ö
!
Risolvendo adesso per il modulo del campo elettrico, avremo:
' ã
E (r) = (Vô 4 "
!
Pertanto, il campo elettrico generato da una distribuzione sferica (di raggio \, anche non
necessariamente uniforme) di carica totale m a una distanza M > \ dal centro della distribuzione stessa
è identico al campo generato da una carica puntiforme m posta al centro della distribuzione.

19.5.1 Il campo elettrico e il campo gravitazionale


L’Esempio 9.5 è molto importante perché giustifica quanto da noi detto circa l’effetto del campo
gravitazionale sui corpi posti nelle immediate vicinanze della superficie terrestre nel Capitolo 6.
Infatti, così come per il campo elettrico, possiamo definire il campo gravitazionale come una
grandezza fisica che esiste in ogni punto dello spazio grazie alla presenza di una certa distribuzione
di massa. Pertanto, considerando una massa puntiforme j che genera il campo gravitazionale e
prendendo un corpo di prova di massa %, possiamo definire il modulo del campo gravitazionale come
Hh
il rapporto tra la forza di attrazione hG = G 4 " e la massa %. In questo modo, il modulo del campo
gravitazionale, che possiamo indicare con f, si scriverà come segue:
h
g (r) = G 4 " (19.16)

Questa espressione è simile alla (6.4), dove abbiamo descritto l’interazione tra la Terra di massa j:
e un corpo di massa % come se essi fossero due punti materiali a distanza \: (raggio terrestre medio)
tra loro. Questa assunzione è corretta proprio grazie alla legge di Gauss, questa volta applicata per la
forza di attrazione gravitazionale, che ha la stessa struttura matematica della forza elettrica, così come
visto nella Sezione 19.2. Infatti, l’effetto che la Terra (che possiamo pensare come a una distribuzione
di massa a simmetria sferica) ha sui corpi posti sulla propria superficie, o nelle immediate vicinanze
di essa, è esprimibile attraverso l’espressione hG = %f. Allo stesso modo, possiamo scrivere il modulo
della forza elettrica come segue:
hG = Z*. Pertanto, diremo che il campo gravitazionale f⃗ nei pressi della superficie terrestre ha
modulo
h H
f(\T ) = ‡ i 4" ≈ 9.81 M" ed è diretto verso il centro della Terra, così come la forza elettrica su una
4
' |ã
carica Z posta a distanza \ dal centro della distribuzione sferica ha modulo pari a hE = Z*(\) = (Vô i"
!
ed è diretta verso il centro della distribuzione di carica.

IL POTENZIALE ELETTRICO
Partendo dal considerare che la forza di Coulomb è simile alla forza gravitazionale, in questo capitolo
arguiremo che il campo elettrostatico è conservativo. Saremo così in grado di definire un’energia
potenziale elettrica e, con essa, un potenziale elettrico. Studieremo, infine, le proprietà elettrostatiche
dei conduttori.
L’ENERGIA POTENZIALE ELETTRICA
Nel capitolo precedente abbiamo visto che la forza di Coulomb è, dal punto di vista formale, simile
alla forza gravitazionale. Infatti, queste due forze fondamentali dipendono dall’inverso del quadrato
della distanza tra i corpi interagenti e per entrambe vale la legge di Gauss. In condizioni

226
elettrostatiche, ossia, quando non sono presenti cariche in moto, la forza di Coulomb è, così come la
forza gravitazionale, conservativa. Il campo elettrostatico deve quindi risultare conservativo, così
come lo è il campo gravitazionale che, nelle immediate vicinanze della superficie terrestre vale f⃗ =
H
−9,81 M" _j, ove sta ad indicare la direzione, localmente ortogonale al suolo. Tuttavia, quando ci
allontaniamo dalla superficie terreste le cose cambiano e, per poter tener conto del campo
gravitazionale a distanze dalla superficie terrestre comparabili con il raggio medio terrestre RT,
dovremmo calcolare il lavoro compiuto dalla forza gravitazionale h⃗< su di un tragitto che porta da un
certo punto p dello spazio all’infinito. Cercheremo di fare ciò per la forza di Coulomb h⃗[ procedendo
nel modo seguente.

Prendiamo due punti esterni a una carica puntiforme Q che genera il capo *5⃗ = 4 " M̂ , dove il versore
M̂ indica la direzione radiale uscente dalla carica m. Il lavoro LAB compiuto dalla forza h⃗[ = Z*5⃗ su
una carica q, che si sposta da un punto A a un punto B dello spazio, sarà dato dalla somma dei lavori
elementari
∆- = h⃗[ ∙ ∆&⃗ = Z*5⃗ ∙ ∆&⃗ Pertanto, avremo
,|ã
-79 = Z∑*5⃗ ∙ ∆&⃗ = ∑ 4"
(M̂ ∙ ∆&⃗) (20.1)
Ove il simbolo di sommatoria ∑ sta a significare che dobbiamo sommare su tutti i piccoli tratti ∆&⃗
del percorso totale che va dal punto A al punto B. Il prodotto scalare M̂ ∙ ∆&⃗ nella (20.1) è lo
spostamento della carica Z nella direzione radiale, cosicché poniamo M̂ ∙ ∆&⃗ = ∆M, cosicché possiamo
riscrivere la (20.1) come segue
∆4
-79 = eZm∑ 4 "= (20.2)
ove la distanza radiale M della carica Z dalla carica m va da rA a rB . Immaginando allora di prendere
rA = NA∆r e rB = NB∆r, con ∆r costante e dove NA e NB sono numeri naturali, avremo:
N ' ,|ã '
-79 = eZm∆M ∑,.E N6 (,∆4)" = ∑N E
,. N6 (20.3)
∆4 ,"

ove abbiamo posto M = e∆M. Dovremmo adesso poter essere così bravi da trovare un’espressione per
N '
la somma ∑,.E N6 , " ancorché solo per NA e NB abbastanza grandi, ossia, per NA, NB >> 1. Ci basterà,
in questa approssimazione, notare che
' ' '
∑N E
,. N6 ≈N −N (20.4)
," 6 E
' '
Infatti, prendendo NA = 100 e NB = 100, avremo che N6
− N = 0,005. Se invece proviamo a
E
'
sommare, con il supporto di un’applicazione dedicata al calcolo numerico, la quantità ∑"** ,. '** , "
otteniamo 0,005063. L’approssimazione nella (20.4) è tanto migliore quanto più fine la scelta di ∆M =
4E /46
N
, ossia, quanto più grande è la differenza (l< − lA) per un fissato valore (MB − MA). Pertanto,
E2 F6
sulla base di questa nostra osservazione, possiamo riscrivere la (20.3) come segue:
,|ã ' ' ' '
-79 = ∆4
zN − N { = eZm z4 − 4 { (20.5)
6 E 6 E

Possiamo adesso definire la differenza di energia potenziale elettrica tra i punti + e ‹ come segue:
' '
Œ[ (‹) − Œ[ (+) = −-79 eZm z4 − 4 { (20.6)
6 E

227
DIFFERENZA DI POTENZIALE E POTENZIALE ELETTRICO
Definiamo adesso la differenza di potenziale elettrico [•(‹) − •(+)] tra i punti + e ‹ come il rapporto
tra la differenza in energia potenziale [Œ=(‹) − Œ=(+)] e la carica Z, cosicché:
õ? (9)/õ? (7) ' '
•(‹) − •(+) = |
= eZm z4 − 4 { (20.7)
6 E

Definiamo ora il potenziale generato •(p) da una carica m nel punto p, a distanza M dalla caricam,
come la differenza di potenziale •(p) − •(+), con il punto + preso all’infinito, cosicché MA → ∞.
Dalla (20.7), pertanto, possiamo scrivere:

C¿
p (A ) = l
(20.8)

In definitiva, il potenziale elettrico generato da una carica


puntiforme m in un punto p, a distanza M da questa carica, è
pari all’espressione data dalla (20.8). Il potenziale elettrico
si misura in Volt (in simboli •).
All’estero di una distribuzione sferica di carica
di raggio \, con carica totale m, così come
rappresentata in fig. 20.1, avremo, per quanto visto nel
Figura 20.1 capitolo precedente, lo stesso potenziale dato dalla (20.8)
Il potenziale elettrico generato da una per M > \.
distribuzione sferica di carica, con
carica totale u, è uguale al potenziale Infatti, il teorema di Gauss ci dice che il campo *5⃗ di tale
generato da una carica puntiforme u distribuzione è del tutto simile, per M > \, a quello generato
posta al centro Ž della distribuzione da una carica puntiforme m a distanza M. In questo modo,
sferica anche il potenziale elettrico sarà dato dalla (20.8).

Per quanto riguarda la forza gravitazionale, ricordiamo che abbiamo definito l’energia potenziale
gravitazionale Œ? di un corpo di massa % nelle immediate vicinanze della superficie terrestre come
Œ?(_) = %f_, ove _ è la quota rispetto alla superficie terrestre. Tuttavia, per analogia con quanto
visto in questo paragrafo, dovremmo avere
Hh
Œ< (M) = −‡ 4 (20.9)
per M > \, ove \ è il raggio terrestre. Tale relazione si ottiene sostituendo e con ‡ e, tenendo conto
del fatto che il campo gravitazionale è sempre attrattivo, −m con j nella (20.8). Si moltiplica infine
per % per ottenere l’energia potenziale.
La (20.9), tuttavia, è apparentemente molto diversa dall’espressione Œ?(_) = %f_ valida nei pressi
della superficie terrestre. Facciamo qui vedere che l’espressione più generale (20.9) dà il risultato
corretto nel limite di valori di _ molto piccoli rispetto al raggio terrestre \. Infatti, considerando un
punto abbastanza vicino alla superficie terrestre e a quota _ da essa, l’energia potenziale rispetto al
suolo sarà:
Hh Hh
Œ< (_) = Œ< (\ + _) − Œ< (\) = −‡ i+# + ‡ i
(20.10)

Pertanto si ha:
<Hh <h
Œ< (_) = i(i+#)
(\ + _ − \) = %
i(i+#)
_ (20.11)
<h
Trascurando adesso la _ al denominatore rispetto a \ e ricordando che f = i" , nel limite in cui la
Terra è considerata di forma sferica e non rotante intorno al proprio asse, avremo:
228
Œ< (_) = %f_ (20.12)
Principio di sovrapposizione degli effetti

Vogliamo adesso definire il potenziale elettrico


•(M⃗) generato da N cariche puntiformi Q1 , Q2 … QN
in un punto p dello spazio individuato dal vettore
posizione M⃗.
Per fare questo, ricorriamo di nuovo al principio di
sovrapposizione degli effetti. Per mettere a punto la
notazione in modo corretto, dobbiamo
immaginare che la posizione di
ciascuna carica puntiforme Qj (con j = 1,2 …
N) sia individuata dal vettore M⃗e , così come
mostrato nella fig. 20.2. Per mezzo di questa figura
si può arguire che la posizione relativa M⃗ del punto
Figura 20.2 di osservazione p rispetto alla carica M⃗ê è data dal
La posizione di • cariche puntiformi vettore M⃗ − M⃗ê .
u@ (con ‘ = ’,“,,..•) è individuata
dal vettore posizione M⃗, . In
particolare, la distanza della carica in
M⃗' e il punto di osservazione M⃗ è data
dal modulo del vettore M⃗ − M⃗'
Sommando tutti i potenziali generati dalle singole cariche, scriviamo quindi:
p (Q⃗) = p1 (Q⃗) + p((Q⃗) + ⋯ pÜ (Q⃗) = ∑Ü
ÕG1 pÕ (Q⃗) (20.13)
ove, per la (20.8), si ha:

•ê (M⃗) = |4⃗/4⃗G | (20.14)
G
Esempio:
Considerando il dipolo elettrico in figura, che consiste di due cariche, +m e −m, poste a distanza 2Q
tra loro, si calcoli dapprima il potenziale elettrico sull’asse _ e poi il potenziale elettrico sull’asse T,
per T > Q. Si svolga il problema in due dimensioni.

Svolgimento: Facendo riferimento alla figura, applichiamo le nozioni


precedentemente sviluppate e poniamo: m1 = +m; m2 = −m, cosicché: M⃗' = −QTj ; M⃗" = +QTj, M⃗" =
__j
Perciò, la (20.14) scritta per la carica positiva (+) e quella negativa (−) ci dà:

229
±em ±em
•± (M⃗) = =
|__j ± QTj| ñQ" + _ "
Per la (20.13), infine, si ha:
em em
•± (M⃗) = •+ (M⃗) + •/ (M⃗) = + − =0
ñQ" + _ " ñQ" + _ "
E perciò, tutti i punti sull’asse _ sono a potenziale nullo.
Per quanto concerne il potenziale sull’asseT, per T > Q, poniamo ancora M⃗' = −QTj O M⃗" = +QTj
mentre adesso M⃗ = TTj con x > a. Per mezzo della (20.14), in questo caso scriviamo:
±em
•± (M⃗) =
|T ± Q|
cosicché, per la (20.13), avremo
em em 1 1
•(M⃗) = •+ (M⃗) + •/ (M⃗) = − = em Ü − á
|T + Q| |T − Q| T+Q T−Q
dove abbiamo eliminato i valori assoluti, in quanto T > Q. Trovando il minimo comune e svolgendo i
calcoli, si ha:
1 R
•(M⃗) = −em(2Q) " "
= −e "
T −Q T − Q"T
ove R = m(2Q) è il modulo del momento di dipolo R⃗ = −m(2Q)Tj che è diretto lungo la congiungente
le due cariche e punta verso la carica positiva. Si noti che, mentre il potenziale elettrico generato da
una carica puntiforme va come 1/M, ossia, varia in modo inversamente proporzionale alla distanza
dalla carica, il potenziale del dipolo elettrico, così come è desumibile dal risultato riportato sopra,
varia come 1/M2, per M → ∞; ossia, varia in modo inversamente proporzionale al quadrato della
distanza dal dipolo.
SUPERFICI EQUIPOTENZIALI

Figura 20.3
In un problema in due dimensioni, le
circonferenze in figura sono le curve
equipotenziali per una carica puntiforme
u posta nell’origine. Le linee di forza del
campo elettrico *5⃗ sono ortogonali alle
curve equipotenziali.

Una regione dello spazio è detta equipotenziale se in essa il potenziale è pari a una data costante c.
In formule, definiamo tale regione attraversa la seguente relazione
p (Q⃗) = V (20.15)
Per una carica puntiforme, avremo perciò:

4
= c → M = M* = cP&,Q:,O (20.16)
Analizzando il problema in tre dimensioni, possiamo dire che la (20.16) individua una superficie
equipotenziale. Infatti, la curva r =r0 , si può scrivere come ñT " + _ " + ˜ " = M* ossia:
T " + _ " + ˜ " = M* " (20.17)
che è l’equazione di una sfera di raggio M0 con centro l’origine, dove è posta la carica. Notiamo che
la (20.17) è l’estensione, in tre dimensioni, dell’equazione di una circonferenza data nell’equazione
(2.29) di questo testo. Se avessimo considerato questo stesso problema in due dimensioni, per
230
semplicità, avremmo scritto la (20.17) come segue: T2 + _2 = M02, ottenendo così una curva
equipotenziale (una circonferenza di raggio M0 e centro l’origine) così come mostrato in fig. 20.3 per
più valori di M0. Per ottenere la superficie equipotenziale sferica partendo da questa curva
equipotenziale, possiamo far ruotare le circonferenze ottenute in fig. 20.3 attorno all’asse T (oppure
attorno all’asse _) di un angolo pari a ƒ. In fig. 20.3 vengono rappresentate le linee di forza del campo
elettrico *5⃗ , che sono ortogonali alle superfici equipotenziali. Questo perché, quando una carica Z
subisce uno spostamento ∆&⃗ su una superficie equipotenziale, il campo elettrico *5⃗ non compie alcun
lavoro. Questo significa che il campo elettrico stesso deve risultare ortogonale a ∆&⃗, cosicché, per la
(20.1) e la definizione di potenziale (20.7), avremo ∆• = −*5⃗ ∙ ∆&⃗ = 0

Figura 20.4
Il punto di osservazione del potenziale
elettrico, generato da un dipolo in cui le
cariche +u e −u sono poste sull’asse ™ a
distanza “v tra loro, è individuato dal
vettore posizione generico M⃗ = T Tj +
_ _j

Adotteremo questo approccio nel considerare il dipolo elettrico nell’Esempio 20.1.


Notiamo innanzitutto che il piano _ − ˜, ove ˜ esce dal foglio della figura dello stesso Esempio 20.1,
costituisce una superficie equipotenziale, con potenziale nullo, così come dimostrato sopra. Come
fare per individuare le altre superfici equipotenziali?
Se vogliamo il problema in due dimensioni, così come fatto anche nell’esempio 20.1, facendo
riferimento alla figura 20.4 ove il problema è presentato in una veste più generale. Infatti, in questo
caso, nella (20.14) poniamo:
M⃗ = T Tj + _ _j (20.18)
Nella stessa equazione, poniamo ancora M⃗' = −Q Tj e M⃗" = −Q Tj, in quanto la posizione delle
cariche resta invariata rispetto al problema risolto nell’Esempio 20.1. Possiamo allora scrivere la
(20.14) come segue:
,ã ,ã
•(M⃗) = •+ (M⃗) + •/ (M⃗) = |4⃗/4⃗ | − |4⃗/4⃗ (20.19)
H 2|

Dobbiamo adesso innanzitutto individuare i vettori (M⃗ − M⃗+ ) e (M⃗ − M⃗/ ) e poi calcolarne il modulo.
Tenendo conto della (20.18) poniamo:
M⃗ − M⃗+ = (T + Q)Tj + __j (20.20a)
M⃗ − M⃗/ = (T − Q)Tj + __j (20.20b)
In questo modo, avremo:
|M⃗ − M⃗± | = ñ(T ± Q)" _ " (20.21)
Cosicché
,ã ,ã
•(M⃗) = − (20.22)
ú(!+8)" # " ú(!/8)" # "

231
Figura 20.5
Curve equipotenziali (linee tratteggiate)
per un dipolo elettrico. Le linee di forza
del campo elettrico (in rosa) sono
ortogonali alla curve equipotenziali

L’equazione di sopra definisce, implicitamente, una curva _ = _(T), che noi possiamo ottenere
attraverso il calcolo numerico. Il risultato di questo calcolo è rappresentato in fig. 20.5, dove queste
curvesono rappresentate da linee tratteggiate. Ruotando adesso queste curve di un angolo ƒ rispetto
all’asse orizzontale (asse T) otteniamo le superfici equipotenziali. Notiamo che, in questo caso, il
problema non ha più una simmetria sferica, cosicché non possiamo più confidare su un’infinità di assi
si simmetria, ciascuno passante per il centro delle circonferenze in figura 20.3, come nel caso della
singola carica.
Ancora una volta notiamo che le linee di forza del campo elettrico, disegnate in rosa nella fig. 20.5,
sono ortogonali alle superfici equipotenziali ottenute con lo stratagemma illustrato sopra.
I CONDUTTORI

Figura 20.6
Un metallo è formato da ioni positivi,
localizzati in prossimità dei siti reticolari
regolarmente distribuiti nello spazio,
immersi in un “mare di Fermi” di elettroni
liberi.

Definiamo conduttore un materiale nel quale esistono cariche libere di muoversi. Un materiale in cui
non sono presenti cariche libere è detto isolante. I metalli sono tipicamente dei conduttori. In essi gli
ioni positivi localizzati in prossimità dei nodi di un reticolo cristallino sono immersi in un mare di
elettroni liberi (mare di Fermi), così come mostrato nella fig. 20.6. Gli ioni non sono fissi, ma
oscillano (così come farebbe un oscillatore armonico) rispetto alla posizione nodale più
prossima, che potremmo identificare come posizione di equilibrio dello ione.
Maggiore sarà la temperatura del metallo, maggiore l’ampiezza dell’escursione massima dalla
posizione di equilibrio di ogni singolo ione. Per poter dare un esempio di materiale isolante,
potremmo riferirci al diamante, in cui gli elettroni sono saldamente ancorati da un legame covalente

232
tra gli atomi di carbonio e nessuna carica è libera. A queste due categorie di materiali aggiungeremo,
nel prossimo capitolo, i semiconduttori e i superconduttori.
IL CAMPO ELETTRICO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO DI UN
CONDUTTORE Figura 20.7
Un conduttore carico è un esempio di
volume equipotenziale. Infatti, essendo il
campo elettrico al suo interno nullo, la
differenza di potenziale tra due punti interni
al conduttore è nulla. Le cariche in eccesso
si distribuiscono sulla superficie esterna del
conduttore. Infine, il campo elettrico nelle
immediate vicinanze della superficie esterna
del conduttore è ortogonale ad essa
Consideriamo un conduttore isolato di forma qualsiasi, così come in fig. 20.7. Tale conduttore può
essere neutro (il numero di elettroni è uguale al numero di cariche ioniche positive), oppure può essere
carico, ossia, esso può contenere una carica in eccesso (positiva o negativa). Facciamo qui vedere
che, in condizioni elettrostatiche, il campo elettrico *5⃗à- all’interno del conduttore è nullo e che
un’eventuale carica m in eccesso (presa positiva in fig. 20.7) deve essere, gioco forza, localizzata
sulla superficie esterna del conduttore stesso. Inoltre, se il conduttore è carico, il campo elettrico *5⃗á!6
Figura 20.8
Per poter dimostrare che il modulo del campo elettrico nelle immediate
ù
vicinanze di un conduttore è pari a ô , si applica la legge di Gauss,
!
utilizzando una superficie gaussiana cilindrica (il cui contorno è
tratteggiato). Solo la superficie di base ›…, esterna al conduttore,
contribuisce al calcolo del flusso del campo elettrico

Per poter dimostrare che *5⃗à- = 0 in condizioni elettrostatiche, procediamo per assurdo, ossia,
ipotizziamo che vi sia un capo elettrico diverso da zero in una certa regione interna al conduttore. In
questa stessa regione, tuttavia, le cariche libere di muoversi, saranno sottoposte a una forza diversa
da zero e, quindi, per la seconda legge di Newton, a una accelerazione nonnulla cosicché esse si
muoveranno, contraddicendo all’ipotesi di staticità fatta. Pertanto, non può esistere alcuna regione
interna in cui il campo sia diverso da zero. Resta perciò provato che *5⃗à- = 0.
Per dimostrare che le cariche in eccesso possono solo distribuirsi solo sulla superficie esterna del
conduttore, basta invocare la legge di Gauss. Infatti, prendendo una superficie gaussiana interna al
conduttore, molto prossima alla superficie esterna del conduttore stesso, possiamo dire che il flusso
del campo elettrico *5⃗ attraverso questa superficie è nullo in quanto *5⃗ è nullo, così come dimostrato
prima. Quindi, la carica interna al volume racchiuso da tale superficie è nulla. Pertanto, la carica in
eccesso non può che essere distribuita sulla superficie esterna del conduttore.
A rigore, proprio su questa superficie il campo elettrico non è definibile. Tuttavia, nella regione
esterna e nelle immediate vicinanze della superficie esterna del conduttore, il campo elettrico è *5⃗á!6
(vedi fig. 20.7) e risulta ortogonale alla superficie stessa. Questa proprietà è dovuta al fatto che tutto
il conduttore, compresa la superficie esterna, è una regione dello spazio dove il potenziale è costante.
In questo modo, *5⃗á!6 deve essere ortogonale alla superficie equipotenziale esterna.
∆|
Inoltre, per la legge di Gauss, si può far vedere che, definendo la densità superficiale di carica š = ∆!
ove ΔZ è la carica presente su un elemento di superficie ΔU, il modulo del campo elettrico *5⃗á!6 è pari

233
ù
a ô . Infatti, prendendo una superficie gaussiana cilindrica come nella fig. 20.8, possiamo vedere che
!
solo l’elemento di superficie ∆S contribuisce al flusso Φ(*5⃗). Infatti, essendo il campo *5⃗ ortogonale
alla superficie laterale del cilindro ed essendo esso nullo sulla superficie di base posta all’interno del
conduttore, per la legge di Gauss possiamo scrivere:
∆|
Φ‘*5⃗’ = *5⃗á!6 ∆U = ô (20.23)
!

ove ΔZ è la carica racchiusa nella superficie cilindrica e, quindi, la carica che è presente sulla
superficie del conduttore di estensione pari proprio a ΔU. Dalla (20.23) otteniamo perciò:
' ∆| ù
*5⃗á!6 = ô ∆!
=ô (20.24)
! !

superconduttori. Quanto ottenuto nella (20.24) va sotto il nome di TEOREMA DI COULOMB.


IL POTENZIALE ELETTRICO DI UN CONDUTTORE SFERICO

Figura 20.9
Rappresentazione grafica del potenziale elettrico (a) e del campo elettrico (b) prodotto da un
conduttore sferico carico di raggio Ÿ

Consideriamo un conduttore isolato sferico carico. La carica m su di esso sarà


uniformemente distribuita e il campo elettrico nelle immediate vicinanze della superficie esterna sarà
ù ã ,ã
normale uscente e avrà modulo *5⃗á!6 = ô = ô ((Vi" ) = i" . Questo risultato è coerente con quanto
! !
detto sulle distribuzioni sferiche di carica. Inoltre, il campo elettrico *5⃗ per M > \ sarà diretto

radialmente, così come per una carica puntiforme, e il suo modulo sarà * = 4 " . In

234
questo caso, pertanto, così come pure abbiamo visto nella sezione 20.2, possiamo esprimere il
potenziale sulla superficie sferica come quello generato da una carica puntiforme
m posta al centro della sfera, cosicché si ha:

•(\) = i (20.25)
All’interno della sfera si avrà, per quanto detto nella sottosezione precedente, lo stesso valore del
potenziale. All’esterno della sfera, per M > \, il potenziale sarà ancora uguale a quello generato da
una carica posta al centro della distribuzione sferica e perciò, in definitiva, avremo:

i
→ ROM M ≤ \
•(\) = â ,ã (20.26)
4
→ ROM M > \

Una rappresentazione grafica del modulo del campo elettrico e del potenziale elettrico di un
conduttore sferico carico con carica m è data nella fig. 20.9.
INDUZIONE ELETTROSTATICA
Figura 20.10
Una carica puntiforme positiva è avvicinata a un
conduttore sferico neutro di raggio Ÿ. Le linee di
forza del campo elettrico generato dalla carica
puntiforme si deformano, rispetto alla loro
configurazione in assenza della sfera
conduttrice, e una redistribuzione di carica sulla
sfera stessa si manifesta a causa dell’attrazione
delle cariche negative, libere di muoversi
all’interno del conduttore

Si consideri una carica puntiformem (presa positiva) e una sfera conduttrice neutra di raggio \, per
semplicità di esposizione del fenomeno che va sotto il nome di induzione elettrostatica. Si nota che,
quando i due corpi sono molti distanti, le linee di forza del campo *5⃗ generato dalla carica m sono
radiali uscenti dalla carica stessa. Tuttavia, man mano che questi due corpi vengono avvicinati, le
linee di forza del campo *5⃗ si deformano, così come rappresentato in fig. 20.10. Questa
deformazione è necessaria in quanto il campo elettrico nelle immediate vicinanze del
conduttore deve essere ortogonale alla superficie sferica, così come abbiamo visto nella Sottosezione
20.3.1. Si potrà anche notare che le cariche sulla superficie sferica si redistribuiscono in modo che un
eccesso di cariche negative si affacceranno alla carica m. Essendo le cariche nel conduttore libere di
muoversi, esse si sposteranno all’interno del conduttore stesso, sotto l’azione della forza elettrica,
fintanto che il sistema non assumerà una sua propria configurazione di equilibrio. Naturalmente, le
cariche negative (elettroni) in un metallo saranno attratte dalla presenza della carica positiva m,
cosicché la configurazione in fig. 20.10 è giustificata. Il campo elettrico all’interno del conduttore
resterà nullo, quanto la configurazione del sistema è statica dal punto di vista della distribuzione delle
cariche. Questo fenomeno va sotto il nome di induzione elettrostatica. Induzione elettrostatica si ha
anche quando si avvicina un conduttore carico a uno neutro. L’induzione è detta completa quando
tutte le linee di forza che promanano dal primo conduttore si chiudono sul secondo, così come nella
fig. 20.11, dove viene rappresentata l’induzione completa tra due sfere concentriche, una piena e una
cava. Sulla prima sfera, quella più interna, viene depositata una carica +m, mentre la sfera cava è
neutra.

235
Figura 20.11
Induzione completa tra due sfere concentriche, una
piena e una cava. Sulla sfera piena è presente la carica
positiva +u. Sulla sfera cava si avrà la redistribuzione
della carica mostrata.

Per il fenomeno dell’induzione elettrostatica, sulla sfera cava vi sarà la redistribuzione di carica
mostrata in fig. 20.11. Notiamo che, all’interno delle sfere conduttrici, il campo elettrico *5⃗ è nullo,
così come si può evincere anche attraverso l’utilizzo della legge di Gauss. Infatti, si nota che, qualora
si scelga una superficie gaussiana tutta interna al primo o al secondo conduttore, la somma algebrica
delle cariche fa sempre zero, provando così che *5⃗ = 0. Solo quando la superficie gaussiana è scelta
fuori dal conduttore, il flusso del campo elettrico è nullo, cosicché *5⃗ ≠ 0.
In questo caso, la distribuzione del campo elettrico, che al di fuori del conduttore è simile a quella
generata da una carica posta al centro della prima circonferenza, presenta una doppia discontinuità
per la presenza dei due conduttori.
LA CAPACITÀ
Abbiamo visto che una sfera conduttrice sulla quale è presente una carica in eccesso m ha potenziale
,ã ã
elettrico • = i = (Vô i così come nella (20.25). Il rapporto m/• è detto capacità del conduttore (in
!
questo caso parliamo di un conduttore isolato posto a un potenziale •). La capacità si indica con la
mG}ÜGH:
lettera d e si misura in dP£NP%S/•PN,. Si ha che 1 ~GÜ6 = 1 hQMQn (in simboli F). La capacità d
della sfera conduttrice di raggio \ è data, per via della (20.25) e della definizione di capacità, dalla
relazione seguente:
¿
t = Ø = 4#o6 u (20.27)
La capacità di una sfera, così come quella di altri conduttori siolati, dipende solo dalle caratteristiche
del mezzo in cui essa è immersa (nel nostro caso il vuoto, cosicché prendiamo la costante dielettrica
del vuoto o6 nella 20.27) e dalle sue proprietà geometriche (il raggio \, nel caso della sfera).
Esempio 20.2:
Considerando la Terra come un grande conduttore sferico isolato, quanto vale la sua capacità?
Svolgimento: Il raggio terrestre è \¤ = 6.37 × 106%. Applicando la (20.27) avremo:
uQ 6,37 [ 10ê
t = 4#o6 uQ = = v = 0,708 2v
W 8,99 [ 10F

236
I CONDENSATORI
Figura 20.12
a) Due lastre affacciate, di cui una carica
positivamente e una neutra. Sulla lastra neutra
vengono indotte cariche, sia negative sia positive.
b) Quando la carica neutra è collegata con la terra, le
cariche negative libere presenti in grandissima
quantità sul nostro pianeta migrano, attratte dalle
cariche positive a sinistra della lastra conduttrice, fino
a che queste ultime non sono completamente
neutralizzate. Un campo elettrico *5⃗ è presente
all’interno delle due lastre conduttrici
Si considerino due conduttori affacciati e, per semplicità, due lastre metalliche di cui una prima, carica
positivamente con carica +m, e una seconda, neutra. Sulla seconda lastra verranno indotte delle
cariche positive e negative, così come mostrato in fig. 20.12a. Assumendo induzione completa, la
carica che si affaccia allo strato di cariche positive sul primo conduttore è proprio −m. Di contro, la
carica +m si porta all’estremità opposta della lastra. Se colleghiamo la seconda lastra a terra, le cariche
negative libere (elettroni), presenti in grandissima quantità sulla superficie terrestre, migreranno verso
le cariche positive della seconda lastra, fino a che queste ultime non saranno tutte neutralizzate.
Attraverso questa procedura è possibile caricare un conduttore con carica −m, se ne abbiamo un altro
già carico. Infatti, possiamo operare nel modo seguente. Scolleghiamo da terra la seconda lastra, in
presenza della carica +m sulla prima lastra. In questo modo, sulla superficie esterna della seconda
lastra, una volta che quest’ultima viene allontanata dalla prima, si distribuirà una carica −m.
Così come possiamo vedere in fig. 20.12b, all’interno delle due lastre è presente il campo elettrico *5⃗
il cui modulo, per la (20.24), sarà:
¿
w = ! "′ (20.28)
0
ove U è l’area affacciata delle due lastre. Questo campo elettrico è pressocché uniforme in tutta la
regione in cui le due lastre sono affacciate, tranne che per le parti estreme al bordo delle lastre stesse.
Questi effetti di bordo verranno trascurati nella nostra trattazione. La differenza di potenziale tra le
due lastre, partendo da quella negativa e approdando a quella positiva, può essere calcolata attraverso
la definizione di potenziale (20.7), cosicché avremo:

∆p = −w$⃗ ∙ ∆4⃗ = −(−w[D )(U[D ) = wU (20.29)


ove n è la distanza tra le due lastre. Il sistema realizzato affacciando due conduttori, così come fatto
in fig. 20.12, va sotto il nome di condensatore, ove le lastre metalliche prendono il nome di armature.
Un condensatore può essere realizzato, ad esempio, anche con due armature cilindriche coassiali. In
questo caso parleremo di condensatori cilindrici. Il condensatore in fig. 20.12 è un condensatore a
facce piane e parallele.
Definiamo adesso la capacità d del condensatore come il rapporto tra la carica m e la differenza di
potenziale ∆• presente ai capi delle armature, cosicché:
¿
t = ∆% (20.30)

Per il condensatore a facce piane e parallele, possiamo calcolare la capacità, scrivendo la (20.30)
utilizzando la (20.29) e la (20.28), come segue:

237
¿ ¿ R
t = &' = w = !0 a (20.31)
ë ía "0#

Pertanto, possiamo dire, attraverso un’analisi dimensionale della (20.31) che la costante dielettrica •0
si può misurare in h/%. Notiamo che, così come per un conduttore isolato, la capacità di un
condensatore dipende solo dalle caratteristiche geometriche del condensatore (U e n) e dalla costante
dielettrica del mezzo (il vuoto, in questo caso) utilizzato per separare le armature.
Esempio:
Considerando l’Esempio 20.2, in cui abbiamo calcolato la capacità della Terra. Quale deve essere il
valore di S nella (20.31) se le due armature sono nel vuoto a distanza n = 1.00 %% tra loro?
Svolgimento: La capacità della Terra, vista come un conduttore isolato, vale d = 0.708 %h.
Utilizzando la (20.31) scriviamo:
dn (0.708 T 10/= h)(1,00 T 10/= %)
U= = 8,00 T 10( %"
!0 = 8,8 T 10/'" h/%
Avremo perciò che l’area della superficie affacciata deve essere pari a 8 ettari. Pertanto, se volessimo
riprodurre la capacità della Terra, dovremmo utilizzare un condensatore enorme. Potremmo ridurre
l’estensione del condensatore, se utilizzassimo un dielettrico (un isolante) tra le due armature con
costante dielettrica ! ≫ !,

Esempio 20.4
Calcolare la capacità di un condensatore con area U = 0.500 %2 nel quale si utilizza un isolante con
costante dielettrica • = 20•0 per separare le armature a distanza n = 1.00 %% tra loro.
Svolgimento Utilizzando la (20.31) scriviamo:
U 10/'" h (0,500%" )
d = ! = 20 ˝8,85 T ˛ = 88,5%h
# % 1,00 T 10/= %
Notiamo allora che questa capacità è più piccola della capacità della Terra di quattro ordini di
grandezza.
I CONDENSATORI IN SERIE E IN PARALLELO

Figura 20.13
a) Simboli circuitali di due condensatori, di
capacità d1 e d2.
b) Collegamento in serie di due condensatori.
c) Collegamento in parallelo di due
condensatori

In un circuito elettrico possiamo collegare i condensatori in serie o in parallelo. Prima di parlare di


questi due tipi di collegamento, dobbiamo specificare che un singolo elemento circuitale (in questo

238
caso il condensatore) può essere rappresentato attraverso un simbolo. Il simbolo di due condensatori
di capacità d1 e d2 è riportato in fig. 20.13a. Per ciascun condensatore distinguiamo due capi,
rappresentati tramite dei pallini. Dobbiamo specificare anche che, quando si utilizza un filo di
materiale conduttore (tipicamente rame) per collegare due capi di un elemento circuitale, è perché si
vuole che questi capi siano posti allo stesso potenziale. Un collegamento in serie dei condensatori di
capacità d1 e d2 in fig. 20.13a è mostrato in fig. 20.13b. Notiamo che, in questo caso, basta solo
collegare i capi S1 e Q2 (vedi fig. 20.13a) senza utilizzare del filo di materiale conduttore. Un
collegamento in parallelo dei condensatori di capacità d1 e d2 in fig. 20.13a è mostrato in fig. 20.13c.
In questo caso è opportuno utilizzare del filo di materiale conduttore per collegare il capo Q1 del
primo condensatore col capo Q2 del secondo condensatore e il capo S1 del primo condensatore col
capo S2 del secondo condensatore (vedi fig. 20.13a).

Figura 20.14
Distribuzione della carica e dei potenziali elettrici sulle
armature di due condensatori collegati in serie

Adesso ci si pone la domanda seguente: quale capacità equivalente d1B dobbiamo associare a un
collegamento di due condensatori in serie o in parallelo?
Cominciamo col considerare due condensatori collegati in serie. In fig. 20.14 è riportata la
distribuzione di cariche sulle quattro armature. Notiamo, infatti, che
una carica +m depositata sulla prima armatura da sinistra induce una carica −m sulla seconda
armatura. In questo modo, una carica +m migrerà sulla terza armatura, per via del collegamento
conduttivo. Quest’ultima, a sua volta, indurrà una carica −m sulla quarta armatura. Sul primo
ã
condensatore sarà presente una differenza di potenziale (d.d.p.) pari a ∆•' = m e sul secondo una
)
ã
d.d.p. pari a ∆•" = m . Sull’intero collegamento, pertanto, sarà presente una differenza di potenziale
"
ã
pari a ∆• = ∆•' + ∆•" . Ponendo adesso ∆• = m , notando che proprio una carica Q è presente sulle
>I
die armature estreme, scriviamo:
ã ã ã
∆• = ∆•' + ∆•" → m>I
=m +m (20.32)
) "

Dividendo per la carica Q entrambi i membri della seconda equazione nella (20.32) avremo:
' ' '
m>I
=m +m (20.33)
) "

Possiamo adesso generalizzare questo risultato a l condensatori in serie notando che le stesse
considerazioni fatte per il collegamento di due condensatori valgono se noi avessimo l condensatori
collegati in serie. In questo caso, quindi, scriveremmo la (20.32) come segue:

239
ã ã ã ã
∆• = ∆•' + ∆•" + ⋯ + ∆•N → = + + ⋯+ (20.34)
m>I m) m" mF

Dividendo per la carica m entrambi i membri della seconda equazione nella (20.34) avremo perciò:
' ' ' '
m>I
= m + m + ⋯+ mF
(20.35)
) "

Figura 20.15
Distribuzione della carica e del potenziale
elettrico sulle armature di due condensatori
collegati in serie

Consideriamo adesso due condensatori collegati in parallelo. In fig. 20.15 è riportata la distribuzione
di cariche sulle quattro armature. Sul primo condensatore sarà presente una carica m1 e una d.d.p. ∆•.
Sul secondo condensatore sarà presente una carica m2 e la stessa d.d.p. ∆•, per il collegamento
effettuato. In questo modo, possiamo porre m1 = d1∆• e m2 = d2∆•. Sull’intero collegamento,
pertanto, sarà presente una carica pari a m = m1 + m2, che possiamo porre pari a d1B∆•. In definitiva
allora:
m = m1 + m2 → d1B∆• = d1∆• + d2∆• (20.36)
Dividendo per ∆• entrambi i membri della seconda equazione nella (20.36) avremo perciò:
d1B = d1 + d2 (20.37)
Procedendo come sopra per un numero l di condensatori collegati in parallelo, possiamo
generalizzare questo risultato scrivendo:
d1B =d1+d2+⋯dC (20.38)
Concludiamo questa sottosezione riassumendo brevemente i risultati ottenuti: il reciproco della
capacità equivalente di un collegamento in serie di l condensatori si ottiene sommando i reciproci
delle capacità degli l condensatori, così come nella (20.35); la capacità equivalente di un
collegamento in parallelo di l condensatori si ottiene sommando le singole capacità, così come
riportato nella (20.38).
Esempio 20.5
Calcolare la capacità equivalente del collegamento in serie e in parallelo di due condensatori, uno di
capacità d1 = 10.0 :h, il secondo di capacità d2 = 2.00 :h.
Svolgimento Utilizzando la (20.33) possiamo scrivere la capacità equivalente dD del collegamento in
serie come segue:

240
d' d" 20
d! = = :h = 1.67 :h
d' + d" 12
Utilizzando la (20.37), avremo che la capacità equivalente dE del collegamento in parallelo dei due
condensatori sarà:
dE = d1 + d2 = 12.0 :h
Esempio 20.6
Calcolare la capacità equivalente del collegamento in serie e in parallelo di dieci condensatori, cinque
di capacità d1 = 10.0 :h, cinque di capacità d2 = 2.00 :h.
Svolgimento Utilizzando la (20.35) possiamo scrivere il reciproco della capacità equivalente dD del
collegamento in serie dei dieci condensatori come segue:
1 5 5 1 1 1
= + → = +
d! d' d" 5d! d' d"
Pertanto si ha
d' d"
5d! = = 1,67 :h → d! = 0,333 :h
d' + d"
Utilizzando la (20.38), avremo che la capacità equivalente dE del collegamento in parallelo dei dieci
condensatori si può scrivere come segue:
dE = 5d1 + 5d2 = 60.0 :h.
Esempio 20.7

Calcolare la capacità equivalente del collegamento mostrato in figura, dove tutti i condensatori hanno
capacità d = 10.0 :h.
Svolgimento Notiamo che la capacità equivalente dei due condensatori collegati in parallelo è, per la
(20.37), dE = 20.0 :h. Pertanto, il collegamento in figura risulta essere equivalente a un collegamento
di tre condensatori in serie, due di capacità d = 10.0 :h e uno di capacità dE = 2d = 20.0 :h. Per la
(20.35) possiamo allora scrivere:
1 2 1 1 2 1 5
= + → = + =
dá| d dS dá| d 2d 2d
In definitiva si ha
2
dá| = d = 4,00 :h
5

241
ELETTRODINAMICA
Finora abbiamo considerato cariche fisse e abbiamo visto che, attraverso la nozione di campo elettrico
e di potenziale elettrico, possiamo giungere alla comprensione di alcuni fenomeni “elettrostatici”. In
questa lezione parleremo di cariche in movimento. Abbiamo già visto come, in un conduttore, le
cariche sono libere di muoversi e che nessun lavoro è richiesto per far muovere una carica all’interno
di un conduttore ideale, essendo tutti i punti del conduttore allo stesso potenziale. In questa lezione
impareremo anche che alcuni conduttori reali, detti conduttori ohmico, si comportano in modo
diverso..
Definiamo, innanzitutto, la corrente elettrica i. Immaginiamo che una carica ∆q fluisca, nell’intervallo
∆|
di tempo ∆t, in una data sezione di un conduttore. La corrente i è così definita come il rapporto ∆6
cosicché

∆b
z= ∆c
(1)

La corrente elettrica si misura in Ampere (A) e questa è la sesta unità di misura fondamentale del
sistema SI.
Ma come avviene il passaggio di corrente? Che cosa spinge le cariche a fluire all’interno di un
conduttore?
La risposta è che, in condizioni dinamiche, il campo elettrico *5⃗ all’interno del conduttore è diverso
da zero e che, quindi, le cariche subiscono una forza h⃗[ che li porta a muoversi nello stesso verso di
*5⃗ , se positive, o inverso opposto, se negative. E se le cariche fossero davvero libere di muoversi
all’interno del conduttore, allora esse accelererebbero e la loro velocità diventerebbe sempre più
grande.
In effetti le particelle cariche, che in un metallo sono elettroni, sono sottoposte a una “resistenza” del
mezzo in cui esse si muovono. Ed anche se gli elettroni si muovono molto velocemente all’interno
del “reticolo cristallino” del metallo, essi subiscono urti continui con gli ioni del reticolo stesso.

Tuttavia, un campo *5⃗ è capace di indirizzare questi elettroni in modo da avere una corrente netta nella
direzione di *5⃗ , ma nel verso opposto.
Immaginando allora che ciascun elettrone subisca due urti successivi in un tempo t, potremmo
j⃗{
e
scrivere l’accelerazione Q⃗ come , ove !⃗O è proprio la velocità di deriva indotta dal campo *5⃗ .
c

242
Scrivendo adesso la seconda legge di Newton come h⃗[ = %Q⃗ , ove m è la massa dell’elettrone,
otteniamo
j⃗
7e
−Iw$⃗ = { (1)
c

Introducendo adesso la densità di corrente {⃗ = K2-⃗a , ove q = - e, nel nostro caso, ed n è la densità
di particelle, si ha
7 0 ⃗
−Iw$⃗ = c 9.Bæ; (2)

Ossia
Bæ c !
{⃗ = w$⃗ (3)
7
La densità di corrente è un vettore che, moltiplicato scalarmente per una sezione ∆54⃗ del conduttore,
dà proprio la corrente elettrica in quella sezione, dove {⃗ è considerato uniforme. Perciò

{⃗ ∙ ∆4⃗ = M (4)
La (3), d’altro canto, può essere scritta come segue

{⃗ = |w$⃗ (5)
Ove | (sigma) è la conduttività del conduttore (ohmico) e risulta essere l’inverso della resistività ¨
(rho), cosicché:
1
|= i
(6)

In un filo di materiale conduttore di sezione S, allora, possiamo scrivere


1 Æ
M = {} = e w} = eï (wO) (7)

Ove l è la lunghezza di un tratto di filo. Ricordando che El è un lavoro per unità di carica e che perciò,
è la differenza di potenziale (d. d. p.) ai capi del tratto di filo di lunghezza l, scriviamo:
Ø
M= |\ (8)
FSG

Alla grandezza diamo il nome di resistenza R, cosicché
R

u= R
(9)

E
- = uM (10)

243
La (10) è la nota LEGGE DI OHM, che adesso utilizzeremo per l’analisi di alcuni circuiti semplici.
La resistenza si misura in Ohm (W). Il simbolo di un “resistore” di resistenza R è il seguente:

LE LEGGI CIRCUITALI DI KIRCHHOFF

Consideriamo un nodo a dove confluiscono più rami di un circuito. le correnti i1 e i2 entrano nel nodo
a, mentre le correnti i3 e i4 escono da questo stesso nodo, così come mostrato, in figura.
Per la conservazione della carica elettrica si deve avere:
i1 + i2 = i3 + i4
Ossia, la somma delle correnti entranti in un nodo deve essere uguale alla somma delle correnti
uscenti dallo stesso nodo.
Consideriamo adesso una maglia di un circuito in cui siano presenti sia generatori di forza
elettromotrice (batterie, ad esempio) sia resistori, così come mostrato in figura.

La SECONDA LEGGE DI KIRCHHOFF ci dice che la somma algebrica delle cariche (+) e delle
cadute (-) di potenziale deve essere pari a zero.
Per applicare questa legge dobbiamo dapprima fissare in senso di percorrenza della maglia (diciamo
quello indicato dalla corrente i) e poi seguire tale verso andando dal capo “a” al capo “b” del circuito
e poi da “b” a “c”, a “d” e infine di nuovo in “a”. facendo questo percorso incontriamo una carica di
potenziale +<* e due cadute di potenziale −F\' e −F\" (la corrente circolare lo stesso verso di
percorrenza della maglia). Per la seconda legge di Kirchhoff, allora, si avrà:
<* − F\' − F\" = 0

244
Prima dell’analisi di alcuni circuiti, vediamo come si comportano due resistenze collegate insieme o
in parallelo.
Collegamento in serie
Ai capi del primo resistore abbiamo una d. d. p. V1, ai capi del
secondo V2.
La stessa corrente i circola sia nel primo, sia nel secondo
resistore. il potenziale V di capi del collegamento sarà:
V = V1 + V2 (11)
Immaginando che la stessa corrente i fluisca nel resistore
equivalente di resistenza R, possiamo scrivere
iR = iR1 + iR2 (12)
e perciò
R = R1 + R2 (13)

Collegamento in parallelo

In questo caso la stessa d d.. p. è presente ai capi dei due resistori


e la corrente i si distribuisce tra i due rami, cosicché:
i = i1 + i2 (14)
e perciò
~ ~ ~
i
=i +i (15)
) "
Infine allora
' ' '
i
=i +i (16)
) "

Esempio:

Un generatore di forza elettromotrice ai cui cavi è presente una d.d.p. pari a <* = 9,0 • è collegato a
due resistori in parallelo, di resistenza R1 = 10W e R2 = 20W, così come mostrato in figura.
Si calcoli la corrente i , i1 e i2 mostrate nella stessa figura.
In questo circuito vi sono due nodi e si possono individuare tre maglie, di cui ne scegliamo due, una
contrassegnata dal percorso C1 e l’altra dal percorso C2. Scrivendo la seconda legge di Kirchhoff
(per le tensioni di maglia), avremo:
+<* − F' \' = 0
+<* − F" \" = 0

245
Avremo perciò
<* 9
F' = = + = 0,90+
\' 10
<* 9
F" = = + = 0,45+
\" 20
Notiamo adesso che, nel nudo “a” entra la corrente i ed escono i1 e i2 , così che, per la prima legge di
Kirchhoff (sulle correnti di ramo), avremo:
i = i1 + i2 = 1,35A
Avremmo potuto risolvere questo problema riducendo il circuito a quello equivalente in figura, ove

1 1 1 1 1 1 3 1
= + =Ü + á =
\ \' \" 10 20 Ω 20 Ω
"*
Cosicché \ = =
Ω
ü! ")
La corrente i sarà dunque F = i
= "* + = 1,35+
ü! ü!
Per la legge di Ohm , poi si ha che F' = i)
= 0,90 + e F" = i"
= 0,45 +

LA POTENZA ELETTRICA
Scrivendo il lavoro elementare ∆L = V∆q che un campo *5⃗ compie per spostare una carica ∆q
attraverso una regione ai cui estremi è presente una d. d. p. V, scriviamo:
∆R ∆|
p = ∆6 = • ∆6 = •F (17)
Pertanto, la potenza sviluppata da un generatore di forza elettromotrice ai cui capi è presente una
d.d.p. <* e in cui fluisce una corrente i è pari a
p = <* F (18)
La potenza si misura in Watt (W).
D’altro canto, in un resistore di resistenza R, la potenza può solo essere dissipata e poiché V=iR, si
avrà
p = F"\ (19)
La (19) va sotto il nome di LEGGE DI JOULE e ci indica la potenza dissipata in un resistore in cui
fluisce una corrente i.
Esempio:
Una lampadina con resistenza pari a R = 100 Ω viene utilizzata per illuminare un ambiente per tre
ore. Quanta energia viene dissipata dalla lampadina, se essa è collegata una batteria di 12,0V ?

246
La corrente i sarà
<* 12
F= = + = 0,12+
\ 100
La potenza dissipata sarà
p = F " \ = (0,12)" (100)¬ = 1,44¬
P = 0,00144 kW à ∆E = P∆t = (0,00144)3 kWh à ∆E = 0,00432 kWh

IL MAGNETISMO
Se volessimo sapere se in una data regione dello spazio è presente un campo magnetico ‹ 5⃗ , allora
dovremmo far propagare una particella con carica q a una certa velocità iniziale !⃗. Se tale particella
non subisce altra deviazione dalla iniziale traiettoria rettilinea, se non quella dovuta all’attrazione
5⃗ è assente. Se, invece, vediamo tale particella curvare la propria traiettoria con
gravitazionale, allora ‹
un raggio di curvatura inversamente proporzionale al modulo B del campo magnetico ‹ 5⃗, allora tale
campo è presente e la forza che esso esercita sulla particella in moto è pari a h 555⃗R (forza di Lorenz) data
dalla seguente espressione:
555⃗
hR = Z!⃗ T ‹5⃗ (1)
Il simbolo “x” indica un prodotto vettoriale. Esso sta ad indicare un modo per comporre due vettori,
ottenendone un terzo, la cui direzione è ortogonale al piano individuato dai vettori !⃗ e ‹ 5⃗ , il cui
modulo è dato da:
hR = Z!‹ sin @ (2)
Ove @ è l’angolo composto tra !⃗ e ‹ 5⃗, e il cui verso è dato dalla regola della mano destra.
In figura mostriamo !⃗ lungo x, ‹ 5⃗ lungo l’asse y e, di conseguenza, 555⃗hR lungo l’asse z. si noti come le
dita della mano destra vengono indirizzate lungo !⃗ e ruotate verso ‹ 5⃗ . Il pollice indicherà la direzione
e il verso di 555⃗
hR

Quando abbiamo studiato l’elettrologia, abbiamo visto che il campo elettrico è generato da una o più
cariche. Adesso ci chiediamo: che cosa genera un campo magnetico?

Già nel 1811 Oersted, un fisico danese, si accorse che un filo percorso da corrente era in grado di
orientare la limatura di ferro sparsa su un cartoncino. Ecco che si può supporre che siano le correnti
elettriche a generare un campo magnetico. Ma allora, perché una calamita, Dove apparentemente non
circolano correnti, genera un campo magnetico capace di attrarre altri metalli? In effetti, solo in

247
apparenza in una calamita non circolano correnti. Infatti, così come abbiamo visto con l’atomo di
idrogeno, all’interno della materia vi sono elettroni che generano correnti elettriche. In alcuni
elementi questi effetti si annullano, mentre in altri è presente una spiccata tendenza a generare un
campo magnetico. Ed è proprio così che alcuni elementi sono intrinsecamente
“magnetici” pagina 2

Possiamo adesso chiederci qual è il campo magnetico generato da un filo percorso da corrente. A
questa domanda risponde la legge di Bíot-Savart:
†! à
B (r) = "V4 (3)
Ove -* è la permeabilità magnetica del vuoto, i è la corrente che fluisce nel filo ed r è la distanza dal
filo. Nel (3) abbiamo solo specificato il modulo del campo magnetico. Tuttavia, come vediamo nella
figura sopra, se immaginassimo di impugnare il filo (cosa da non fare assolutamente!) con la mano
destra, con il pollice che punta nel verso di percorrenza della corrente, la rotazione delle restanti
quattro dita ci dirà in che modo il campo ‹ 5⃗ ruota attorno al filo lungo linee di forza concentriche. La
costante -* è molto importante. Essa è esprimibile come segue:
-* = 4ƒ T 10/) ®/% (4)
Ove H sta per Henry, che è l’unità di misura di una induttanza, così come vedremo in seguito. Siamo
adesso pronti a definire la forza che due fili percorsi da corrente esercitano l’uno sull’altro. Dobbiamo
solo notare che un filo percorso da corrente in un campo ‹ 5⃗ subisce una forza 555⃗
hR per il fatto che in
esso ci sono cariche in movimento. In figura vengono rappresentati !⃗ e ‹ 5⃗ ortogonali tra loro, in modo
tale che
ΔhR = ∆Z!‹ (5)

èÜ
Scrivendo Δv = è6 , possiamo riscrivere la (5) come segue:
è|
ΔhR = è6
ΔN B (6)
è|
Ove ΔN è un tratto di filo e è6
= F è la corrente che fluisce nel filo. In questo modo si ha :
†! à
ΔhR = F ‹ = "V4
(7)
Che ci dà la forza ΔhR che viene esercitata sul tratto di filo di lunghezza ΔN per via della presenza di
un campo magnetico ‹ 5⃗ . Facendo riferimento alla figura precedente, possiamo contemplare i seguenti
casi:

248
Prendiamo allora due fili percorsi da corrente nello stesso verso, così come mostrato nella figura.

Il primo filo genera un campo ‹ 5⃗ , che


investe il secondo filo, così come in
figura (il simbolo (X) ci indica che il
campo ‹ 5⃗, è entrante nel foglio). Siamo
perciò nel caso i) e la forza h⃗'" è diretta
verso il primo filo. Essendo
h"' = − h⃗'" avremo un’interazione

attrattiva tar i due fili.

Consideriamo adesso il caso in cui nei


due fili circolino correnti in verso
opposto. Possiamo adesso notare che il
campo ‹ 5⃗, investe una corrente opposta al
caso precedente. Ricadiamo quindi nel
caso i2) e la forza h⃗'" è così diretta verso
destra. Pertanto, tenendo conto che
h⃗"' = − h⃗'"
Si ha che l’interazione tra i due fili è di
tipo repulsiva

Passiamo adesso al calcolo esplicito del modulo F12 di tali forze, scrivendo innanzitutto:
†! à
B1 = "VO (8)
Dove d è la distanza tra i due fili. Adesso, per via della (7) avremo:
† à) à"
F12 = B1 i2 ΔN = !"VO ΔN (9)
Con questa formula, attraverso la misura di F12, di ΔN e d, possiamo giungere alla definizione
dell’unità di misura della corrente, l’Ampere.
Ci serve però comprendere più a fondo le proprietà del campo ‹ 5⃗ . Consideriamo allora una spira
percorsa da una corrente i.

Tale spira genera un campo magnetico come quello in figura. Questa spira potrebbe essere
paragonata a un “dipolo magnetico”, in quanto il campo generato da una piccola calamita è
simile a quello generato dalla spira percorsa da corrente, così come mostrato nella figura
accanto. In entrambi i casi, infatti, individuiamo un polo nord nella parte in cui le linee di forza 249
“escono” e un polo sud dove le linee di forza “entrano”.
Immaginiamo adesso che questa spira sia molto piccola; pensiamo,
addirittura, che la corrente sia dovuta al fluire degli elettroni in un
atomo. In questo caso non potremo più distinguere i due sistemi, in
modo da poter enunciare il principio di equivalenza di Ampere,
ossia, che il campo ‹ 5⃗ di una piccola spira è equivalente al campo
generato da un dipolo magnetico.

Torniamo adesso, per un momento, alle spire percorse la corrente e costruiamo un “solenoide” con
tante (diciamo N) spire allineate.

In queste spire possiamo far circolare la stessa corrente “ i ”, se il filo spiralizza come in figura. Il
campo ‹ 5⃗ prodotto da queste spire tende a essere diretto lungo l’asse del solenoide, per chiudersi
all’esterno del solenoide stesso. Come fare per calcolare ‹5⃗ ?
Notiamo che la legge di Bíot-Savart può essere scritta come segue:
B ∙ 2ƒr = -* F (10)
5⃗
Ossia, C (‹) = -* F (11)
5⃗ 5⃗
Ove C (‹) è la circuitazione di ‹, proprio quanto appare al membro sinistro della (10). In questo caso
semplice C (‹ 5⃗ ) si ottiene proprio moltiplicando B per il percorso circolare seguito dal campo.
Notiamo ancora che la corrente i si concatena al percorso chiuso lungo il quale calcoliamo la
circuitazione. La (11) è della legge di Ampere. Applicando tale legge al solenoide, individuiamo un
percorso chiuso A B C D in cui solo il tratto AB contribuisce alla circuitazione, se il tratto CD è
abbastanza vicino al filo, ma sempre all’esterno della bobina. L’effetto dei tratti AD e BC possono
essere trascurati se la lunghezza l del solenoide è molto più grande del raggio R del solenoide stesso.

Possiamo allora scrivere che: 5⃗) = ‹N = -* (lF)


C (‹ (12)
N
Essendo N il numero di spire. Si ha allora B = -* Ü
F = -* :F (13)
N
Ove n = è la densità della spira. Possiamo adesso definire il flusso del campo magnetico ‹ 5⃗ , così
Ü
come abbiamo definito il flusso del campo elettrico *5⃗. Nel caso del solenoide, ‹
5⃗ attraversa N spire e
perciò:
Φ(‹5⃗ ) = NBS (14)

250
Ove S = ƒ\" è la sezione del solenoide. Poiché conosciamo B, possiamo adesso scrivere:
"
Φ(‹5⃗ ) = z†! N !{ F (15)
Ü
5⃗) e la corrente i è detta induttanza (L), cosicché
Il coefficiente di proporzionalità tra Φ(‹
† N" !
L= ! Ü (16)
L’induttanza si misura in Henry (H), cosicché -* si misura in H/m.
Se adesso volessimo calcolare il flusso uscente da una superficie chiusa di forma qualsiasi (teorema
5⃗) che cosa potremmo dire? Noteremmo che qualsiasi sia la forma della superficie, si
di gauss per ‹
avrà sempre
Φ(‹5⃗ ) = 0 (17)

Notiamo che questa relazione ci indica che non esiste una “carica magnetica”, ma solo dipoli
| à-
magnetici. Infatti, la legge di gauss per *5⃗ ci diceva che Φ(*5⃗ ) = ô . Non avendo carica magnetica,
!
allora, la (17) è nella forma giusta.

Cosicché, quando tentiamo di spezzare una calamita in due parti,


otteniamo due calamite più piccole, ancora con Polo Nord e Polo sud,
in quanto non possiamo isolare queste due polarità, così come detto
prima.

Abbiamo perciò visto che il campo ‹ 5⃗ gode di queste due proprietà


Φ(‹ 5⃗ ) = 0 (18a)
C(‹5⃗ ) = -* F (18b)
|
L’equazione (18a) e la legge di Gauss per il campo *5⃗ , ossia, Φ(*5⃗ ) = ô , costituiscono due delle
!
quattro “equazioni di Maxwell”. La (18 boh), invece, deve essere modificata affinché possa anch’essa
essere considerata una delle equazioni di Maxwell. In tutta questa trattazione, tuttavia, ancora non
abbiamo affrontato la seguente questione: perché poli omologhi si respingono e poli opposti si
attraggono?

251
Affrontiamo questa domanda considerando
due dipoli magnetici che sono disposti così
come mostrato in figura. Facendo leva sul
principio di equivalenza di Ampere,
notiamo che ai due dipoli sulla sinistra
possiamo sostituire due spire con correnti
che circolano in versi opposti. Pertanto, per
quanto detto prima, i due fili si respingono.
Ed ecco spiegato il perché due poli omologhi
si respingono. D’altro canto, se
capovolgiamo il dipolo di sopra, in modo da
avere la configurazione a destra nella prima
figura, anche la spira equivalente si
capovolge. In questo caso, quindi, le correnti
nelle spire circolano nello stesso senso ed
esse (come i dipoli) si attraggono.

ELETTROMAGNETISMO
La legge di Faraday-Neumann-Lenz
Il fisico e chimico Faraday fece notare che se facciamo muovere un magnete nei pressi di un circuito
elettrico, in quest’ultimo circolerà una corrente fintanto che il moto relativo persiste. La formulazione
matematica di questo fenomeno fu data da Neumann che individua nella variazione del flusso di ‹ 5⃗ ,
ossia, la quantità ΔΦ(‹ 5⃗), la causa di questa corrente “indotta”. Indicando con • a forza elettromotrice
indotta nel circuito, possiamo scrivere
n⃗ Ç
è°Å9
•= − è3
(1)

Ossia, la f.e.m indotta è proporzionale alla variazione ΔΦ(‹ 5⃗ ) divisa per l’intervallo di tempo in qui
questa variazione avviene; la costante di proporzionalità è (-1) , termine spigato da Lent, e sta ad
indicare in che modo circola la corrente.
Riprendiamo l’esempio in figura, il flusso Φ( ‹ 5⃗ )
cresce in modulo quando avviciniamo il polo nord
del magnete, come si vede nella figura a lato.
Potremmo adesso stabilire, in modo convenzionale,
che un flusso positivo è quello generato da una
corrente che circola in verso orario nel circuito. In
questo modo ΔΦ(‹ 5⃗ ) < 0 , come si arguisce dalla
figura a) e c) in figura. Intanto, nel caso
rappresentato nella prima figura, si ha • > 0 e così
i > 0, che significa che la corrente circola in senso
anti-orario, così come indicato nella figura stessa.
Una variazione di flusso potrebbe essere anche
dovuta a un cambiamento della configurazione del
circuito.

Infatti, possiamo ipotizzare di mantenere un magnete fisso e far ruotare il circuito nel campo
magnetico, in modo da avere una variazione di flusso dovuta alla rotazione del circuito. Questo è il
principio di funzionamento dei generatori di f.e.m alternativa. In questo modo viene generata
l’energia elettrica che viene poi trasportata fino alle nostre abitazioni. La f.e.m indotta • è proprio

252
pari alla circuitazione C(*5⃗) del campo elettrico *5⃗ che fa muovere le cariche lungo il circuito e perciò
la (19) può essere scritta come segue:

n⃗ Ç
è°Å9
C(*5⃗) = − è3
(2)
Questa è un’altra equazione di Maxwell.
Riassumiamo queste equazioni così come le abbiamo studiate finora (l’ultima la tratteremo dopo):
Z
⎧ Φ‘*5⃗ ’ = legge di Gauss (3a)
•*

⎪ Φ‘‹ 5⃗ ’ = 0 non esistenza della "carica magnetica" (3b)
⎨ 5⃗ ΔΦ‘‹ 5⃗ ’
C‘* ’ = − legge di Faraday Neumann − Lenz (3c)

⎪ Δt
⎩ 5⃗ ’ = -* F equazione di Ampere
C‘‹ (3d)
Emendando l’ultima equazione, saremo in grado di riavere utili informazioni circa le onde
elettromagnetiche.

Le equazioni di Maxwell
Per emendare l’equazione (3d), che è valida solo nel caso in cui il flusso del campo *5⃗ non varia nel
tempo (caso stazionario) possiamo introdurre il termine della “corrente di spostamento”, iS ,
è°Å[n⃗ Ç
proporzionale, appunto, alla giandetta è3 .
Scriveremo allora la (3d) con un termine aggiuntivo iS come segue:
5⃗ ’ = -* (F + iS )
C‘‹ (4)
è°Å[n⃗ Ç
Essendo iS = •* è3
, scriviamo in definitiva:
è°Å[n⃗ Ç
5⃗ ’ = -* [ F + •*
C‘‹ ] (5)
è3
Per scoprire come i campi *5⃗ e ‹
555⃗ propagano nel vuoto (in assenza di cariche q e correnti i) possiamo
allora scrivere le equazioni di Maxwell come segue:
⎧ Φ‘*5⃗ ’ = 0
⎪ Φ‘‹5⃗ ’ = 0
è°Å9n⃗ Ç (6)
⎨ C‘*5⃗’ = − è3
⎪ n⃗
⎩C‘‹5⃗ ’ = -* •* è°Å[Ç
è3
Possiamo allora vedere, in questo contesto, che i campi *5⃗ e 555⃗ ‹ si comportano in modo simile.
Entrambi, infatti, soddisfano quella che va sotto il nome di “equazione delle onde”. Da questa
equazione si vede che
' H
c= ≅ 3.00 T 10E (7)
ú† ! ô! M
Dalle stesse equazioni si può far vedere che il campo *5⃗ è ortogonale al campo 555⃗
‹ e, inoltre, entrambi
i campi sono ortogonali alla direzione di propagazione. In questo modo, diciamo che l’onda
elettromagnetica è un’onda trasversale.

253
In figura è rappresentata un’onda e.m.
per la quale *5⃗ oscilla nella direzione
Ye‹ 5⃗ nella direzione Z. La direzione
di propagazione è l’asse X.

Un’onda elettromagnetica trasporta un’energia radiante e quindi può trasferire una potenza P ad una
superficie di area S. L’intensità luminosa I è data dal rapporto P/S , nel sistema internazionale (SI)
si misura in candele, che è la settima unità di misura fondamentale in fisica.

La radiazione elettromagnetica, quindi, avrà una sua propria frequenza ((); una sua propria lunghezza
d’onda ()) e una velocità di propagazione che, nel vuoto vale c , cosicché:
c=¿* (8)
Le onde elettromagnetiche a più alta frequenza sono quelle più “energetiche”. Esse si suddividono
secondo lo schema seguente, che va sotto il nome di spettro della radiazione e.m.

Dallo spettro delle onde elettromagnetiche notiamo come la parte visibile è contenuta in una piccola
finestra che va dai 700 nm (rosso) fino ai 400 nm (violetto). Per lunghezze d’onda maggiori di 700
nm si va nella regione dell’infrarosso (IR), mentre per lunghezze d’onda minori di 400 nm si hanno
raggi ultra violetti (UV). Le altre regioni dello spettro sono identificate in figura.

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Per fare un esempio di come effettuare i calcoli di lunghezze d’onda, partendo dalla frequenza,
supponiamo che una radio emetta segnali a una frequenza di 100 MHz. Quanto vale la lunghezza
d’onda del segnale?
Sapendo che c = ¿ * avremo:
* , . /0$ 1/3
$= = = '. )) *
+ /00 . /0% //3

Conoscendo, ancora, la frequenza di un colore, * = 5.00 x 1014 Hz, Quale lunghezza d’onda ¿
possiamo associare a tale colore?
* , . /0$ 1/3 ,
$= = &' = 1089 m = 0.600/0 = 60010
+ 4.00 . /0 //3 4

Effettivamente 400 nm < ) < 700 nm e la lunghezza d’onda di 600nm corrisponde ad un colore
abbastanza vicino al giallo.
W
Naturalmente, se conosciamo ) possiamo calcolare la frequenza ( ponendo ) = ¢
Abbiamo già studiato il modo in cui le onde propagano. In particolare, abbiamo studiato il suono, che
è un’onda longitudinale. Ma mentre il suono ha bisogno di un mezzo nel quale propagare, la luce può
viaggiare nel vuoto. Ancora, a differenza delle onde sonore, che sono onde longitudinali, le onde
elettromagnetiche (e anche la luce con esse) sono onde trasversali. Nelle onde elettromagnetiche, il
campo elettrico e il campo magnetico sono grandezze fisiche intimamente legate tra loro, cosicché vi
è bisogno di specificare solo una di queste grandezze per descriverne l’onda. E perciò, se scegliamo
di descrivere il campo elettrico *5⃗ possiamo scrivere:
*5⃗ = *5⃗* sin(eT − À,) (9)

Che è un’onda che viaggia nella direzione positiva delle X (onda progressiva).

Così come abbiamo visto con il suono, se facciamo


interferire due onde luminose, possiamo avere
interferenza costruttiva (e perciò vedere una luce di
intensità maggiore rispetto a quella delle due
sorgenti) oppure ottenere il buio. Ripetiamo allora il
ragionamento fatto anche quando abbiamo studiato
il suono.

Immaginiamo di avere due onde che differiscono tra loro solo per mezzo di una fase Φ
Possiamo perciò scrivere:
*5⃗' = *5⃗* sin( eT − À,) (10a)
*5⃗" = *5⃗* sin( eT − À, ,Φ) (10b)

L’onda risultante sarà la sovrapposizione delle due, cosicché


*5⃗ = *5⃗' + *5⃗" = *5⃗* [sin( eT − À,) + sin( eT − À, ,Φ)
(11)

£+ § £/ §
Dalla trigonometria sappiamo che sin X+ sinY = 2 sinz "
{ cosz "
{ (12)
£+ § £/ §
Pertanto, calcoliamo la semisomma z "
{ e la semidifferenza z "
{ , avremo

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° °
*5⃗ = 2 *5⃗* cos sin( eT − À, + ) (13)
" "
Notiamo che questa espressione descrive ancora un’onda che va nella direzione x, che però avrà
ampiezza A pari a:
°
A = 2 E0 +cP& " + (14)

°
Concludiamo allora che si ha interferenza costruttiva quando "
= :ƒ ossia: Φ = d2nƒ

° "-+'
Si avrà invece interferenza distruttiva se "
= "
ƒ ossia: Φ = (2n + 1) ƒ

La luce che passa attraverso due fenditure molto sottili produce, sullo schermo, delle frange di
interferenza. Questo fenomeno può essere interpretato nel modo seguente. La luce proveniente dalle
due fenditure compie un cammino identico solo quando arriva nel punto O’ , o in punti verticalmente
disposti rispetto a O’, sullo schermo (vedi figura).

Negli altri punti sullo schermo questo non è più vero. Perciò, dato il diverso “cammino ottico”, la
luce acquisirà una fase aggiuntiva. Quando questa fase è prossima a (2n + 1) ƒ avremo bande scure
sullo schermo, mentre quando è prossimo a 2nƒ avremo bande chiare.

Per quanto riguarda la luce solare, essa è una sintesi dei colori dell’iride, che compongono lo spettro
visibile. Tuttavia, il sole irradia anche nell’infrarosso e nell’ultravioletto. Questi ultimi raggi sono da
evitare, cosicché è bene mettere dei cosiddetti filtri (creme solari che proteggono dai raggi UV)
quando ci si espone al sole. Per scomporre la luce nei vari colori dell’iride, si utilizza il “prisma di
Newton”.
In questo diottro le componenti della luce a lunghezze d’onda minori subiscono una maggiore
deflessione rispetto alla normale n alla superficie di incidenza della luce bianca. In effetti, l’indice di
rifrazione non è lo stesso per tutti i colori, cosicché, gli angoli ai quali vengono rifratte le varie
componenti sono diversi. Questa proprietà determina l’effetto di scomposizione della luce, così come
avviene nelle giornate di pioggia in cui sono le goccioline d’acqua sospese nell’aria che scompongono
la luce bianca e producono l’arcobaleno. Anche il caratteristico colore rosso di un tramonto in riva al
mare è dovuto a un fenomeno simile. In questo caso solo la luce rossa arriva al nostro occhio poiché
è quella componente che subisce la maggiore deflessione quando riflette in atmosfera.

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