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 Socrate nasce nel 470-469

Suo padre Sofronisco è scultore, mentre la madre Fenaréte, esercita la professione di levatrice.

La sua famiglia è agiata, visto che egli può permettersi l’armamento per combattere come oplita alle
battaglie di Potidea, Delio, Anfipoli, prima, e durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), poi,
distinguendosi per coraggio e presenza di spirito.

Eccetto questi tre episodi vive sempre ad Atene.

E’ scolaro di Anassagora, ma comunque cresce in ambiente sofistico.

Tutti coloro che lo hanno conosciuto, lo ritengono una personalità strana e inquietante: in un corpo brutto
è racchiuso uno straordinario fascino intellettuale e morale.

Non scrive nulla perché ritiene che la sapienza debba utilizzare il linguaggio parlato come suo mezzo
privilegiato.

 La sua morte (condannato per empietà nel 399) costituisce uno degli episodi più significativi di
amore incondizionato e senza compromessi per la sapienza e per la virtù.

 Si sposò con Santippe ebbe figli.

 Frequenta Simposi.

FENARETE

Fenarete fu una donna ateniese, nota e stimata per le sue capacità di levatrice, nata intorno al 490 circa
a.C. Il nome significa “donna che manifesta virtù/qualità” e potrebbe essere indizio di una provenienza
aristocratica, o un semplice buon augurio, del resto ampiamente confermato dalla vita successiva della
donna. Il titolo greco che indica la levatrice è “maia”, un nome femminile affine a “madre” e “mamma” e
riferito di solito a donne anziane.

Fenarete (in greco Φαιναρέτη) fu la madre del celebre filosofo e del suo fratellastro Patroclo. Sposò
Sofronisco da cui ebbe Socrate e, dal momento che Sofronisco morì prima del 424 a.C., egli fu
probabilmente il primo marito di Fenarete, mentre Ceredemo, padre di Patroclo, il secondo.

Nella storia della filosofia Fenarete è ricordata, più che per precisi meriti personali, per avere ispirato in
qualche modo il metodo DIALETTICO del figlio. Nel TEETETO di Platone, infatti, è lo stesso Socrate a
paragonare la propria opera di filosofo con il mestiere della madre che era levatrice: il metodo socratico,
infatti, consisteva nell'aiutare l'interlocutore a produrre dei pensieri e delle idee personali, senza alcuna
imposizione.

Essere levatrice non era un’attività del tutto professionalizzata, ma un compito che parecchie altre donne
ateniesi svolgevano, dopo essere state madri, quando non erano più in età fertile, ma durante la loro
menopausa assistevano nel parto donne più giovani. L’attività delle levatrici si basava comunque su
esperienze tramandate tradizionalmente nel gruppo delle donne, quindi su tecniche e saperi molto antichi.
Del resto, nel mondo greco anche molte altre attività di tipo artigianale si basavano su esperienze pratiche,
trasmesse all’interno del gruppo familiare o degli amici. Da alcune testimonianze risulta che forme di aiuto
durante il parto fossero esercitate spesso da altre donne della famiglia o del vicinato e che molte di loro
fossero in grado di dare una mano in caso di necessità.

Da quanto ci dice la testimonianza platonica del dialogo Teeteto, un’abile levatrice assiste e aiuta le donne
incinte e le partorienti, sa riconoscere subito le gravidanze, anche in fase iniziale; sa provocare gli aborti
quando è il caso; ricorrendo a pozioni e “incantesimi” psicosomatici sa suscitare le doglie quando è
opportuno o necessario e sa alleviarle quando sono troppo forti e rapide. Il figlio Socrate dichiara che ha
imparato dalla madre l’arte di aiutare le persone a mettere al mondo ciò che già hanno in sé: abbozzi o
embrioni di idee, di intuizioni e teorie. Il metodo socratico, fatto di un dialogo incessante e stimolante, si
dichiara modellato sull’attività materna e quindi “maieutico”.

Come levatrice collabora attivamente, a tu per tu con la donna impegnata nel parto; la partoriente è
ansiosa, il rischio di complicazioni è sempre presente, il dolore è intenso, la morte può essere in agguato
per madre e bambino/a. Ma la brava levatrice è lì, rassicura, modula le doglie, sa come fare. Il travaglio può
essere accompagnato, sostenuto, agevolato, per arrivare finalmente – se possibile- a una conclusione
positiva. Si mette al mondo qualcosa di nuovo e di bello: una bimba o un bimbo, e la felicità dei genitori e
degli amici. Fenarete, madre e ispiratrice di Socrate, si è guadagnata così la stima del figlio e di tutta la
città.

Il dialogo socratico non vuole comunicare una dottrina già confezionata , ma far partorire all’interlocutore
da sé la verità su se stesso. Ciò ottiene attraverso una serie di domande che esigono risposte brevi e precise
– Socrate predilige il discorso brachilogico - in modo che, cercando tali risposte, nella coscienza
dell’interlocutore piano piano affiori una verità di cui egli stesso è padre e genitore. Dunque Socrate non
“figlia” la verità, ma la fa partorire agli altri, proprio come una levatrice con le donne incinte. Così Socrate
vuole educare gli altri: intendendo l’educazione come auto-educazione, come stimolo all’elaborazione di
una propria dottrina di verità e non come trasmissione di una dottrina preconfezionata.

SANTIPPE

Santippe era figlia di Lamprocle e diventerà moglie di Socrate.

Di lei abbiamo alcune notizie storiche certe e molte tradizioni antiche, spesso malevole.

Santippe, figlia dell’ateniese Lamprocle, nata probabilmente intorno al 440, sposò Socrate all’incirca nel
420, quando lui aveva già circa 50 anni; la coppia ha avuto tre figli, il primo chiamato Lamprocle come il
nonno materno, il secondo Sofronisco (dal nome del nonno paterno) e il terzo Menesseno.

Nel Fedone (par. 60 a) troviamo Santippe, che tiene seduto accanto a sé il figlio più piccolo, nel carcere di
Atene, già da ore in conversazione col marito che deve morire proprio quel giorno. Platone, autore del
dialogo, dice che Santippe piange quando vede entrare nella cella gli amici del marito , lamenta che in quel
giorno si svolga l’ultimo colloquio tra il filosofo e i suoi discepoli, riferisce che la moglie dice “quelle cose
che sono solite dire le donne” e che compie i tradizionali gesti del lutto, gridando e percuotendosi, mentre
su invito di Socrate uno di loro l’accompagna a casa. La ferrea divisione dei ruoli fa sì che Platone non si
soffermi oltre sulle parole e sui gesti di Santippe.

Nel racconto platonico comunque Santippe si comporta come una moglie affettuosa e addolorata. Sul
comportamento di Socrate come marito e padre possiamo fare solo delle supposizioni; di certo sappiamo
che il filosofo passava tutto il suo tempo a discutere in piazza e non si interessava di attività economiche,
forse perché disponeva di una piccola rendita, e che in ogni caso la sua relativa povertà non gli pesava, anzi
la rivendicava come segnale di autonomia e disinteresse; il suo tenore di vita era molto modesto, non
spendeva quasi nulla per abiti e calzari. Probabilmente la moglie avrebbe voluto un apporto più concreto
alla vita familiare, e un sostegno ai figli che non fosse solo fatto di consigli e moniti paterni

Le tradizioni successive (Senofonte nei “Memorabili di Socrate” e altre citazioni di ambito cinico,
soprattutto del filosofo Antistene, particolarmente ostili alle donne) ci riportano aneddoti che dipingono
Santippe come una moglie dal carattere “difficile, aspro, insopportabile”, e molti diverbi coniugali.
Naturalmente si tratta di versioni improntate alla tipica misoginia greca, e che puntano a presentare il
filosofo come un campione di sopportazione. In ogni caso, anche da questi aneddoti risulta che Socrate si
relaziona con la moglie e non tronca mai la discussione imponendosi su di lei con la forza o ricorrendo alla
tradizionale “autorità maritale”. L’aneddoto più interessante è quello in cui Socrate sostiene che imparando
a convivere e ad avere rapporti con questa moglie “indocile” si allena a relazionarsi con tutti gli altri esseri
umani.

Santippe, quello che possiamo rilevare dai vari episodi (anche se frutti di una tradizione malevola) è che
certo non era una donna silenziosa e passiva; diceva con chiarezza la sua, in privato e anche in piazza. Non
era una moglie sottomessa, non era una madre tutta comprensione e dedizione; aveva diverbi con i suoi
figli, ma Socrate li invitava pacatamente a rispettarla e a esserle riconoscente per tutto quello che come
madre ha fatto per loro, a ricordare tutti i guai e i fastidi che le hanno procurato da piccoli, a pensare che i
rimproveri materni gli sono rivolti per il suo bene.

La figura di Santippe, tuttavia, spicca notevolmente per il suo atteggiamento nei confronti del marito e per
la sua irriverenza: va infatti ricordato che nel periodo in cui Santippe visse, la donna era del tutto
sottomessa all’uomo. Questo fa di Santippe una donna, più bisbetica, coraggiosa, consapevole di sé stessa e
avanti per il proprio tempo. Non si trattava di una donna silenziosa e passiva, diceva con chiarezza la
propria opinione, in privato e anche in piazza (pubblico). Dunque non era una moglie sottomessa, come lo
erano le mogli greche “tradizionali e perfette”.

Santippe come donna ha convissuto intensamente ( con tutte le difficoltà del caso) con
un pensatore grande, scomodo , squattrinato e anticonformista, che con le sue obiezioni e critiche ha
contribuito ad “allenarlo” alla comprensione e alla relazione con l’altra/o

DIOTIMA

Nella pur assenza di testimonianze antiche sulla reale esistenza di una sacerdotessa di nome Diotima
(etimologicamente “onorata da Zeus”), originaria di Mantinea (nome che allude all’arte mantica), ed
essendo, pertanto, probabile che si tratti di una fittizia figura magistrale e sapienziale di donna, la sua
funzione emerge poderosamente: essendo un uomo razionale, un “uomo di scienza”, Socrate è nuovo nel
concetto di amore vero e profondo che solleva gli occhi oltre la materia. Pertanto, Diotima è l’artefice del
cambiamento di messa a fuoco di Socrate: dopo l’incontro con la sua maestra, di cui egli apprezza l’arguzia
acuta e la capacità intellettuale, il filosofo inizia a capire che la Verità non può essere sistematizzata in una
formula. Diotima apre gli occhi del filosofo alla contemplazione, a travalicare il legame col mondo sensibile.

Dunque, è una donna divina e misterica a far vibrare l’ottava più alta del Simposio e a imprimere un sigillo
femminile sull’opera filosofica più grande della storia. La sua assenza fisica assume un carattere fortemente
simbolico: essa è l’autentica iniziatrice di Socrate, colei che immette il filosofo nel fluire del desiderio, nella
tensione “erotica” che mai si esaurisce e che costituisce la prerogativa della conoscenza.

Ella aveva insegnato: chi ama, ama ciò che ancora non possiede.

Quindi l’amore è per sua natura segnato dalla povertà e dalla mancanza e costituisce per ogni uomo lo
slancio verso qualcosa estraneo da sè; Eros ha la figura di un povero lacero e scalzo. Non è vero che Eros ha
bellezza, perchè si desidera ciò che non si possiede: Eros è desiderio di eterno possesso del Bene, che
coincide con il Bello. Eros perciò non è un dio, e tuttavia neanche un mortale: è un essere intermedio, che
fa da tramite.

Se l’amore è brama di possedere il Bene per sempre, assieme al bene si desidera anche l’immortalità e
l’amore è anche amore di immortalità. Per i mortali, l’unico mezzo per ottenerla è la procreazione e la
generazione nel bello, sia nel corpo che nell’anima. La bellezza ha il potere di rasserenare quell’essere già in
sé “gravido”, che le si accosta.
Diotima delinea un itinerario iniziatico* attraverso vari gradi, che portano dall’apprezzamento delle
bellezze terrene alla visione del Bello in sè.

Dunque, come figlio di Poro e di Penia, ad Amore è capitato questo destino: innanzitutto è sempre povero,
ed è molto lontano dall’essere delicato e bello, come pensano in molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo,
peregrino, uso a dormire nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all’addiaccio;
perché, conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa.

Ma da parte del padre è insidiatone dei belli e dei nobili, coraggioso, audace e risoluto, cacciatore
tremendo, sempre a escogitare machiavelli d’ogni tipo e curiosissimo di intendere, ricco di trappole, intento
tutta la vita a filosofare, e terribile ciurmatore, stregone e sofista. E sortì una natura né immortale né
mortale, ma a volte, se gli va dritta, fiorisce e vive nello stesso giorno, a volte invece muore e poi risuscita,
grazie alla natura del padre; ciò che acquista sempre gli scorre via dalle mani, così che Amore non è mai né
povero né ricco.

Anche fra sapienza e ignoranza si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dèi è filosofo, o
desidera diventare sapiente (ché lo è già), né chi è già sapiente s’applica alla filosofia. D’altra parte,
neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo l’ignoranza
è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d’aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non
avverte d’essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d’aver bisogno”.

“Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante. Anche di questo la causa è nella
sua nascita: è di padre sapiente e ingegnoso, ma la madre è incolta e sprovveduta. E questa è proprio, o
Socrate, la natura di quel demone. Quanto alla tua rappresentazione di Amore, non ce da meravigliarsi;
perché tu credevi, per quanto posso dedurre dalle tue parole, che Amore fosse l’amato, non l’amante; e per
questo, penso, Amore ti appariva bellissimo. E in realtà ciò che ispira amore è bello, delicato, perfetto e
beato, ma l’amante ha un’altra natura, come ti ho spiegato”».

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